L’OMICIDIO DELLA FELICITÀ
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Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone vive o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.
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FRIEDRICH ANI
L’OMICIDIO DELLA FELICITÀ Un altro caso per Jakob Franck Traduzione di Fabio Lucaferri
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Dello stesso Autore: Süden. Il caso dell’oste scomparso Süden e la vita segreta M come Mia. Süden e le ombre del passato Il giorno senza nome. Un caso per Jakob Franck
Titolo originale: Ermordung des Glücks. Ein Fall für Jakob Franck © Suhrkamp Verlag Berlin 2017 © 2018 Emons Verlag GmbH Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana: novembre 2018 Impaginazione: César Satz & Graf ik GmbH, Colonia Stampato presso: CPI – Clausen & Bosse, Leck Printed in Germany 2018 ISBN 978-3-7408-0490-9
Distribuito da Emons Italia S.r.l. Via Amedeo Avogadro 62 00146 Roma www.emonsedizioni.it
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When there is no more You cut to the core Quicker than anyone I knew When I’m all alone In the great unknown I’ll remember you Bob Dylan, I’ll remember you
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I Il mare a portata di mano 1
Il vetro della porta le restituì il riflesso di una donna che sta cadendo a pezzi. Più guardava, più si meravigliava di trovarsi ancora lì, dopo tanti giorni – trentaquattro, per la precisione – di assenza totale dal suo mondo. Stava così, vicina al vetro, come se abbassare la maniglia e aprire la porta fossero la cosa più facile al mondo. La gente la f issava importuna; vigliacchi che non muovevano un dito, rimanevano fermi e disturbavano la neve, che invece apparteneva a lei sola. Fin da quando era bambina, la prima neve cadeva soltanto per lei; ne catturava i f iocchi con il grembiule, li portava a casa e diceva guarda, mamma, ti ho portato una pioggia di stelle. Quell’immagine le tornava in mente quasi tutti gli anni, ma non lo raccontava a nessuno. Neanche a Lennard. Il pensiero di Lennard le bruciò dentro come un incendio e, aspirando l’aria fredda, ebbe nostalgia del sapore della neve. “C’è qualcosa che non va!, esclamò, ma non udì la propria voce. Inclinò la testa, in ascolto. I f iocchi bussavano silenziosi alla porta. Una dopo l’altra le facce scomparivano. Inf ine, niente più passanti in strada, niente più macchine; nell’oscurità pulsante la neve risaliva vorticando le facciate degli edif ici. Il silenzio le parve un’immeritata benedizione. Per qualche secondo, dimenticando il dolore, tornò alla bambina con il grembiule pieno della pioggia di stelle sciolte. L’uomo le comparve davanti all’improvviso, dissolvendo la sua immagine riflessa e quel fugace senso di protezione. Istintivamente fece un passo indietro, verso la vetrina dei dolci. Il viso dell’uomo appariva vecchio, grigio e minaccioso. La sciarpa 7
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nera sporgeva dal bavero della giacca di pelle marrone, la cinghia della tracolla gli solcava il petto di traverso, come una cicatrice. Registrati tutti questi particolari, la donna chiuse forte gli occhi e strinse i pugni ma, appena se ne rese conto, rialzò lo sguardo. In preda al panico, pensò che nel frattempo lo sconosciuto fosse entrato nel locale. Poi si ricordò che la porta era chiusa; la chiave era inf ilata nella serratura. Rimase ferma a guardare, ma proprio in quel momento l’uomo bussò. Di nuovo la donna trasalì, ma stavolta non si mosse. Nella sala accanto, dove c’erano dei tavoli, l’espositore per i giornali e la Strandkorb – la poltroncina da spiaggia tipica del Mare del Nord – la luce era accesa e il suo chiarore lattiginoso arrivava f ino alla vetrina dei dolci. Tremava, si sentiva esposta; come servita su un piatto d’argento. L’uomo bussò ancora una volta, non forte, quasi con cautela; senza assumere alcuna espressione o mostrare segni d’impazienza. Al tempo stesso sembrava mosso da una determinazione incondizionata, pensò la donna mentre azzardava un passo in avanti. Subito, con i capelli e le guance ormai quasi coperti di neve, l’uomo raddrizzò la schiena e congiunse le mani sul ventre. Quel gesto la sorprese. Esitò. Per una sorta di deformazione professionale si chiese che ora potesse essere e se normalmente il locale fosse ancora aperto a quell’ora. Un pensiero ridicolo, perché il caffè era chiuso da una settimana. Se fosse dipeso da lei lo avrebbero chiuso già quello stesso venerdì di oltre un mese prima; ma Stephan si era opposto e Claire, la cameriera, aveva promesso di lavorare tutti i giorni dalla mattina alla sera. Aveva quasi raggiunto la porta, quando sobbalzò di spavento per la terza volta. Il suo sguardo affondò come un artiglio nel volto al di là del vetro. Conosceva quel genere di uomo, il modo in cui la stava osservando, l’atteggiamento eretto, sicuro di sé, risoluto; l’aspetto curato, le guance perfettamente rasate, i capelli corti; la giacca di pelle. 8
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Nelle ultime settimane, all’inizio quasi ogni giorno, aveva incontrato spesso uomini con quelle giacche di pelle, con quel portamento e quegli occhi calmi quanto insidiosi. Di solito erano in due, e lei si sentiva ogni volta circondata e presa in trappola. Nonostante si sforzassero di comunicarle pace e armonia, non facevano che scatenare la furia delle sue paure. L’uomo là fuori era un poliziotto. Non lo aveva mai visto prima. Probabilmente non apparteneva al commissariato impegnato nelle ricerche di suo f iglio, altrimenti l’investigatore a capo delle indagini, del quale adesso non ricordava il nome, le avrebbe anticipato la visita di un collega. Quell’uomo dunque, pensò mentre già allungava la mano verso la chiave, non si occupava direttamente di ritrovare suo f iglio, ma aveva in serbo altre domande – come quel commissario che in un’altra occasione aveva chiesto informazioni sulla scuola di Lennard. Con un insolito sospiro di sollievo aprì la porta. Fiocchi di nebbia le turbinarono negli occhi. Sbatté le palpebre, sorrise; si passò in fretta le mani sul viso come facevano quei curiosi che osservava dall’interno. Con inaspettata vivacità stava per salutare il poliziotto e invitarlo a entrare. Ma lui la prevenne. “È lei Tanja Grabbe?” Nella sua voce non c’era alcuna traccia dell’esuberanza della neve. “Sì, certo, sono Tanja Grabbe. E lei è della polizia?” “Mi chiamo Jakob Franck. Sono un ex agente. Possiamo entrare e sederci? Purtroppo devo comunicare a lei e a suo marito una brutta notizia.” Intorno a lei il mondo scomparve. Quando il mondo riapparve, Tanja Grabbe non ne faceva più parte. Stephan era seduto accanto a lei e le teneva la mano. Perché lo facesse, Tanja non riusciva proprio a capirlo. Stephan 9
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aveva appoggiato un braccio sul tavolo e la guardava come se non la riconoscesse. Fu quasi tentata di ricordargli come si chiamava. Probabilmente, le balenò in modo vago, quell’uomo non era affatto Stephan, ma uno che gli assomigliava, con i capelli ricci e neri dai riflessi argentei che ricadevano, già troppo lunghi, sul colletto della camicia bianca. (Doveva sempre esortarlo ad andare a tagliarseli e badare che il barbiere non gli raccontasse come al solito una delle sue storie, ma lo acconciasse come si deve. Un pasticcere deve avere un aspetto curato; se un capello f inisce nella glassa, nell’impasto o da qualche parte nella teca sono dolori.) Non si era neppure rasato. Ma chi era quell’uomo che non smetteva di tenerle la mano? Spaventata, Tanja distolse lo sguardo dal suo viso abbassandolo sul tavolo. Dalla manica del vestito blu spuntava una mano incolore, stretta da dita che avevano unghie cortissime. La sua mano; la mano di Stephan. Non credeva ai suoi occhi. Quando sollevò la testa, incrociò lo sguardo di un estraneo che aveva già visto. Rifletté su quando fosse successo. Non le venne in mente. In quel momento si accorse che non c’era nessuno oltre a loro tre. Sedevano al tavolo vicino all’ingresso; il bancone era immerso nella penombra, nessuno entrava nel locale. C’era qualcosa di sbagliato nel silenzio che li circondava, un silenzio fuori luogo. Esattamente come lei, pensò Tanja Grabbe. Poi tornò a guardare la propria mano, serrata fra dita coperte di peluria nera, come se l’uomo a cui appartenevano ne avesse il diritto. Poco a poco il tempo tornò in lei. Ricordò che si trovava più o meno al centro della sala, fra la vetrina dei dolci e la porta, e sulla strada spazzata dal vorticare della neve la gente si fermava a guardarla come se fosse un animale allo zoo. Non aveva mostrato nessuna reazione, di questo era sicura; il pensiero le procurò per qualche se10
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condo un’intima soddisfazione. Gli impiccioni erano spariti e i f iocchi di neve avevano danzato per lei sola, proprio come le piaceva. Lo sconosciuto con la tracolla di cuoio aveva infranto il gioco incantato che si svolgeva davanti ai suoi occhi e così tutto era morto. “È tutta colpa sua.” “Non dovremmo chiamare un medico?” disse l’uomo che le stava seduto di fronte. Non riusciva a guardarlo. Dalla mano, imprigionata nella stretta estranea dell’altro, s’irradiava in lei una rigidità che giungeva f ino alla nuca. Avvertì un capogiro. Stranamente non temette di perdere i sensi come le era capitato in passato in situazioni impreviste – circostanza di cui poi si era enormemente vergognata. Sentì invece diffondersi una calma inattesa, come se avesse assunto uno dei farmaci prescritti dal dottor Horn o bevuto due bicchieri del pesante vino rosso con cui celebravano gli anniversari di matrimonio. Malgrado si preoccupasse del proprio aspetto imbarazzante – era seduta scomposta, con il vestito logoro e i capelli rovinati dalle doppie punte – l’improvvisa atonalità dei suoi pensieri quasi la rappacif icò con la presenza dei due ospiti indesiderati. Solo il silenzio, dentro e fuori, la disturbava. Non se ne f idava, le appariva falso. “Signora Grabbe,” le disse nell’orecchio sinistro l’uomo con la giacca di pelle. Lei lo vide con la coda dell’occhio. “Ha capito che cosa ho comunicato a lei e suo marito?” “Mio f iglio è morto.” Nel momento stesso in cui udì la propria voce, Tanja Grabbe si convinse che non avesse nulla a che fare con lei. Si voltò improvvisamente verso l’uomo che le stava seduto accanto e fu tentata di abbracciarlo: con le mani in tasca e lo sguardo spento, aveva l’aria intirizzita. Nel bagliore giallo emanato dal lampadario, il suo viso pareva rivestito da uno strato di cera che 11
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la donna avrebbe volentieri raschiato via, se solo avesse saputo come. “Di’ qualcosa.” Delicatamente gli accarezzò i capelli; si curvò e con le ciglia dell’occhio destro gli diede un bacio a farfalla sulla guancia. Aspirò l’odore familiare del suo dopobarba e ne seguì la scia; poi tornò ad appoggiarsi alla spalliera. Un attimo dopo le piombarono addosso i ricordi. Tanja Grabbe boccheggiò, gettando uno sguardo incredulo all’uomo dall’altra parte del tavolo. Le tornò in mente perf ino il nome e le parole che le aveva detto quando ancora lo credeva un semplice commissario. Trasalì come se il suo sonno, un sonno che aveva potuto assaporare solo per un istante, fosse stato d’un tratto annientato da un demone. Si guardò attorno, riconobbe il mondo. Spalancò la bocca e cominciò a emettere dei suoni che alle orecchie di Franck suonarono come l’ansimare affannoso di un animale. Franck vi ravvisò l’eco delle proprie parole, che solo adesso, un’ora dopo essere state pronunciate, risuonavano in lei con incontenibile violenza. Nell’istante della sua improvvisa consapevolezza Tanja Grabbe si staccò da suo marito. Lui le prese le mani, ma lei trasalì di nuovo e se le nascose in grembo. “Desidera che ne parliamo?” Franck avvertiva su di sé lo sguardo di Stephan Grabbe, ma la sua attenzione era concentrata sulla donna. “Non è quello che stiamo facendo da quando è arrivato?” domandò lei con tono assente, continuando ad ansimare. “No, f inora lei ha preferito tacere.” Tanja riuscì a chiudere la bocca solo al quarto o quinto tentativo. Quando si accorse del rumore che produceva respirando con il naso, a labbra serrate, si sentì imbarazzata e abbassò la testa. Fino a quel momento, ai coniugi Grabbe Franck aveva comunicato soltanto che era stato ritrovato il cadavere del loro f iglio undicenne scomparso, niente di più; nessun dettaglio 12
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relativo alle circostanze o al luogo della scoperta. Aveva agito su richiesta di un amico della sezione omicidi. Quando era ancora in servizio, Franck si era assunto il compito di comunicare ai familiari le brutte notizie. Anche quando non era direttamente responsabile del caso. Lo aveva deciso in occasione di un crimine come tutti gli altri. Da allora, ogni volta che gli veniva chiesto, svolgeva quel compito. Né le cose erano cambiate con il sopraggiungere del pensionamento. Franck aveva dunque espresso alla donna le condoglianze da parte sua e dei suoi ex colleghi, e le aveva ripetute all’arrivo del marito. L’iniziale assenza di Stephan Grabbe era dovuta al fatto che, non sopportando più il senso di oppressione, era andato a camminare per due ore senza meta costeggiando l’Isar. “Lontano da questo terribile viavai natalizio,” aveva dichiarato. Con un movimento deciso Stephan Grabbe sf ilò le mani dalle tasche dei pantaloni e le appoggiò sul tavolo. Disse: “La ringrazio per il tempo che ci sta dedicando, signor…” “Franck.” “Dunque il nostro Lennard non è morto per un incidente. È stato…” “Non hai sentito? Lennard è morto,” lo interruppe Tanja senza alzare minimamente la voce; poi ripiombò nel silenzio. Suo marito e Franck si voltarono a guardarla: aveva già chinato la testa e si stava mordendo le labbra. “Il corpo di vostro f iglio,” riprese Franck, “verrà esaminato dall’istituto di medicina legale. Solo allora sapremo che cosa è successo esattamente.” “È stato assassinato,” disse Stephan Grabbe. “Non ne siamo ancora certi.” Non era una menzogna, pensò Franck. Una menzogna sarebbe stato negarlo. Era infatti vero che il collega a capo delle indagini considerava altamente probabile che il bambino non fosse stato vittima di un incidente ma di un omicidio. A prima vista si poteva 13
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ipotizzare che l’autore del delitto lo avesse colpito con violenza brutale, in pieno volto, facendogli urtare la nuca contro un oggetto. Comunque la causa del decesso sarebbe stata accertata solo alcune ore più tardi o nel corso del giorno successivo. Alla domanda se il luogo del ritrovamento corrispondesse a quello del delitto, Franck non aveva ottenuto una risposta def initiva. Gli inquirenti ne dubitavano. “E il bosco dove è stato ritrovato? Qual è?” chiese Stephan Grabbe. Franck lo aveva già accennato. “Al conf ine della città, sul lato meridionale.” “Dove, signor commissario?” “Mi chiami semplicemente Franck, la prego. Riceverete tutte le informazioni rilevanti non appena le indagini preliminari saranno concluse. Potete contarci. Nel frattempo vorreste parlarmi di vostro f iglio? Oppure pregare assieme?” Tanja Grabbe sollevò la testa. Franck riconobbe nei suoi occhi ciò che chiamava la Luce Eterna – il riverbero di una f iamma alimentata forse dell’amore inossidabile che lega un morto ai suoi cari; un moto di ribellione contro le tenebre che tutto racchiudono. “Voglio vederlo,” disse la donna. “E lei mi porterà da lui, subito.” Come spesso faceva in situazioni simili, Franck assunse lo stesso sguardo del suo interlocutore. Prima di rispondere osservò un breve, solenne silenzio; fece molta attenzione al tono delle sue parole. “La accompagnerò volentieri, se lo desidera. Però occorre aspettare. Se vuole, aspetterò con voi.” “Aspettare quanto?” La voce di Tanja Grabbe fuoriuscì di colpo dalla bocca che si richiuse immediatamente. Franck disse: “Non lo so.” Passò un minuto, forse due. All’improvviso Tanja Grabbe protese le braccia, in attesa che Franck le prendesse le mani e si alzasse. “Allora venga, lo ha promesso.” L’ex commissario aggirò il tavolo tenendo la donna per 14
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mano. Sf ilarono alle spalle di Stephan Grabbe, al quale servì ancora qualche istante per realizzare la situazione e voltarsi. A quel punto la moglie aveva già raggiunto la poltroncina da spiaggia a righe bianche e blu accostata alla parete posteriore. Lasciò la mano di Franck, si inginocchiò e congiunse le mani come per pregare, lo sguardo rivolto alla Strandkorb in penombra il cui intreccio di vimini e l’imbottitura in gommapiuma sembravano nuovi, mai usati. Dopo un po’ che nessuno parlava, Tanja Grabbe si sf ilò le pantofole bianche di peluche, in curioso contrasto con il vestito blu, sgualcito ma di tessuto pregiato. Franck notò che Stephan Grabbe si dondolava avanti e indietro sulla sedia e fece un passo di lato per non ostruire il suo campo visivo. Un’aura di religioso raccoglimento avvolse la donna dai capelli biondi, inginocchiata in silenzio. La sua bocca sf iorava la punta delle dita, lo sguardo era f isso sulla poltroncina coronata da un tettuccio, vuota. Franck pensò al nome del locale – Caffè Strandhaus, casa sulla spiaggia – e i suoi occhi incontrarono la fotograf ia incorniciata alla parete di fronte alla Strandkorb: era l’ingrandimento di un’istantanea, leggermente sfocata e mossa, che immortalava una spiaggia bianca e delle dune battute dal vento. Franck si mise nei panni del fotografo e immaginò di sentire il rumore del mare alle proprie spalle. Come se esistesse un nesso con l’assenza delle persone ritratte in quella foto, il poliziotto tornò con il pensiero alla domanda che Tanja e Stephan Grabbe non avevano pronunciato e a cui non poteva fornire la risposta, per quanto lo desiderasse. Quando, in che giorno, a che ora dopo la sua scomparsa, la sera del 18 novembre, era morto l’undicenne Lennard Grabbe? Anche Tanja Grabbe, inginocchiata davanti alla poltroncina da spiaggia, apparentemente intenta a pregare, non pensava ad altro. Lo vedeva seduto lì, il suo bambino, con i pantaloni 15
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corti e a torso nudo; le gambe non superavano l’imbottitura. Era raggiante perché i genitori gli avevano messo nel locale una vera Strandkorb. Voleva che si sedessero accanto a lui, ma lo spazio non bastava; così la madre lo prendeva in braccio e il padre si stringeva di f ianco a lei; Lennard protendeva le braccia indicando il mare, cioè la parete di fronte, e da fuori entrava il sole. Momenti che equivalevano a un’estate sul Mare del Nord; come un tempo che non sarebbe mai f inito. A questo pensava Tanja Grabbe, e alla domanda che non osava farsi. In segreto si era aspettata che Stephan la sollevasse dal compito di formularla. Dov’era Lennard? Si volse dalla Strandkorb e di nuovo sobbalzò per lo spavento. Aveva dimenticato l’uomo che le stava accanto, il colpevole di tutto questo, colui che le negava la risposta all’interrogativo che – forse non se ne rendeva conto – divampava dentro di lei. Stephan era ancora seduto al tavolo, lontano da lei. Le facevano male le ginocchia per il contatto con il pavimento in pietra. Fuori dalla f inestra cadeva la neve. Lennard era scomparso trentaquattro giorni prima per riapparire quel giorno. Dov’era? “Voglio vederlo,” disse per la seconda volta. “A cosa pensi? E non rispondere che non pensi a niente.” “Penso a te.” “Sono qui.” “Penso a come dovevi essere da bambina.” “Non ricominciare con la solfa di quanto sei invecchiato. E tanto meno di quanto lo sia io, chiaro?” Marion Siedler sospinse il bicchiere con la birra verso di lui. “Finisci di bere e vai a prendertene un’altra. Che hai? Credevo volessimo guardare il f ilm.” Marion era già sul punto di alzarsi. “Stai pensando al bambino. A sua madre, che dopo la tua visita ha trascorso tutta 16
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la notte sulla poltroncina da spiaggia. Hai avuto sue notizie negli ultimi giorni?” Franck bevve e posò il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, senza lasciarlo. Da quando si era recato al Caffè Strandhaus erano passati otto giorni. Il giorno successivo i genitori, senza richiedere la sua presenza, avevano identif icato il cadavere. Frattanto la causa della morte di Lennard era stata stabilita. Frattura cranica con emorragia interna, provocata da un colpo violento. L’assassino aveva deposto il cadavere in un bosco dalle parti di Höllriegelskreuth, lungo un canale dell’Isar, nascondendolo sotto un cumulo di rami e detriti di legno. A conclusione del suo esame preliminare, il medico legale aveva affermato che Lennard era stato ucciso probabilmente la sera stessa della sua scomparsa. Al momento non c’erano indizi circa il luogo e l’autore del delitto. I funerali si sarebbero svolti l’indomani, sabato 31 dicembre, al cimitero Ostfriedhof. E Franck vi avrebbe partecipato. Ma di questo non voleva parlare. “Com’è stato crescere a Germering?” Non lo chiese per distogliere il pensiero; aveva altre ragioni. Fin dal primo incontro sul caso Lennard Grabbe, la sua mente era condizionata da un altro crimine, con cui credeva di aver chiuso i conti. “Perché a Germering?” “Perché è lì che sei cresciuta.” “Non sono cresciuta a Germering,” disse la sua ex moglie. “Sei ubriaco?” “No.” “Ti dispiacerebbe smetterla con quello sguardo da sbirro?” “Da quando in qua non sei cresciuta a Germering?” “Se continui con questi discorsi assurdi ti mando subito a casa.” “Ti ho fatto solo una domanda.” “Chi ha mai detto di essere cresciuta a Germering?” “Tu.” 17
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“Nemmeno per sogno.” “Sì invece.” “Non mi ascolti, quando ti parlo.” “Ti sto ascoltando.” “No, tu ascolti i tuoi sospetti, i tuoi colpevoli, i tuoi testimoni e, non dimentichiamolo, i parenti delle vittime. Evidentemente però non me. Altrimenti sapresti che non sono nata e cresciuta a Germering, ma a…” “A?” “A Unterpfaffenhofen. Da quanto tempo mi conosci?” “Unterpfaffenhofen, Germering… È la stessa cosa.” “Non è la stessa cosa. Ai miei tempi Germering e Unterpfaffenhofen erano località ben distinte, e lo sai anche tu.” “Me n’ero dimenticato.” “Quanto hai bevuto prima di venire qui? Sii sincero.” “Niente.” “Bugiardo.” “È la verità. Te l’ho chiesto perché… perché… Non importa, vediamoci il f ilm.” Marion Siedler posò sul tavolo il bicchiere di vino rosso e tese la mano. “Non stai affatto pensando a me,” disse. Franck teneva lo sguardo f isso sulla parete, come colto in flagrante. “Stai pensando a tua sorella. La morte del bambino te l’ha riportata alla memoria. Guardami.” Franck obbedì. “Stavo pensando a te, sul serio.” “E perché pensavi a me, Hannes?” “Perché… perché…” Gli sembrò di essere un ragazzino che balbettava nel disperato tentativo di giustif icarsi. Di nuovo si sottrasse allo sguardo della sua ex moglie. Nella sua immaginazione Marion era adesso la bambina che lui vedeva dalla f inestra del cortile sul retro, con un cappotto marrone e un berretto rosa dal pompon bianco come una palla di neve. Guardava da un’ora i f iocchi mulinare attraverso il vetro appannato, quando f inalmente aveva riconosciuto un prof ilo, un messaggio, un indizio riguardante il mostro che 18
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aveva colpito la sua famiglia per poi scomparire senza lasciare traccia. Più il tempo passava, più in lui cresceva l’esigenza di agire, di rendere liberi i suoi genitori. Ma non sapeva come. Fermo alla f inestra, con le mani nelle tasche dei suoi jeans preferiti ormai sf ilacciati, gli occhi f issi sulla bambina in cortile e sul poliziotto in uniforme che parlava con lei, Jakob aveva dimenticato gli allenamenti di calcio, i compiti di f isica e storia, l’incombente test d’inglese e tutto quello che sua madre gli aveva detto, prima di pregarlo di andare in camera sua e aspettare lì. Pensò che non avrebbe potuto seguirla. Sarebbe dovuto scendere in cortile e costringere il poliziotto a dire la verità. Non aveva mai visto piangere suo padre, prima di allora. E a differenza di sua madre, il padre non aveva solo pianto: aveva singhiozzato disperatamente, le lacrime parevano schizzargli dagli occhi, i gemiti che emetteva erano i suoni più inquietanti che il f iglio avesse mai udito. Quel pianto aveva riempito anche la stanza dei bambini. Jakob non aveva osato voltarsi per paura di vedere suo padre sulla soglia, sf igurato dal dolore, con le mani tremanti d’ira impotente. E adesso, come incantato, guarda giù, verso la bambina con il cappotto. Quando lei alza la testa, mostrandogli il suo volto pallido e bagnato di neve, Jakob è colto da uno smisurato spavento e si sente scoppiare il cuore. “Eri tu,” disse Franck. “Tu e nessun altro.” Il suo sguardo, la sua voce, il suo silenzio fecero capire a Marion Siedler che Franck non ammetteva repliche. L’ex marito annuì, come ringraziandola per la comprensione. “Per tutto il tempo ho visto davanti a me la tua immagine. Sono sicuro che d’inverno portavi berretti con il pompon. Come la bambina in cortile. Ho dimenticato il suo nome. Abitava nel quartiere, passava di lì per caso e ha visto la macchina della polizia. Poi hai alzato lo sguardo verso di me e c’è mancato poco che io svenissi.” 19
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“All’epoca non ci conoscevamo. E di certo da bambino tu non sei mai stato a Unterpfaffenhofen.” “No, di certo.” “No,” ripeté lei e decise di non lasciar cadere l’argomento. Franck le aveva raccontato di quel giorno d’inverno della sua infanzia al tempo in cui ancora davano forme sempre nuove alla loro intimità. Più tardi aveva rinchiuso il dolore nel ricordo e Marion non lo aveva forzato. Adesso però, così le sembrava, Franck la invitava con fare maldestro ad agevolargli il compito di aprirsi. “Mi sarebbe piaciuto conoscere anche lei. Si percepisce che eravate molto uniti, tu e la tua sorellina,” disse Marion. “Era più alta di me, anche se aveva due anni di meno. A volte mi dava un bacio sulla fronte.” “Lina.” “Non hai dimenticato il suo nome,” osservò Franck. “Ti piaceva che ti baciasse sulla fronte. Lo facevo anch’io ogni tanto, mentre dormivi; di solito smettevi di russare.” Nel ricordo qualcosa s’irrigidì di paura; Franck scacciò il pensiero. “Ho pensato a lei tutta la settimana,” disse in fretta. “Ogni singolo giorno. Come non capitava da parecchio tempo.” “Che cos’è successo?” Franck sprofondò in un silenzio assorto che meravigliò Marion. Conosceva il carattere del suo ex marito, chiuso per inclinazione professionale. Da che aveva preso a entrare e uscire dal mondo dei morti in quanto commissario capo della squadra omicidi, Franck aveva poco a poco dimenticato la tenerezza e, con il passare del tempo, Marion aveva imparato ad accettare il suo atteggiamento come una peculiarità tanto inquietante quanto tremendamente seria del suo carattere. Una peculiarità inadatta, però, al matrimonio. Ciononostante non era mai stato da lui fare mistero di qualcosa o tacere per vantaggio personale. Hannes – da quando erano cominciate le loro serate dedicate al cinema lo chiamava così, mentre Franck chiamava lei Gisa – mostrava un rif iuto 20
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addirittura f isico verso ogni forma deliberata di reticenza manipolatoria; considerava un bugiardo chiunque si comportasse in questo modo e verso i bugiardi, anche al lavoro, non mostrava alcuna indulgenza. “Perché mi guardi così?” chiese Franck. “Sto pensando a te.” “In che senso?” Marion si alzò, sorrise di sfuggita, prese il bicchiere di birra e andò in cucina. Si appoggiò al frigorifero, proibendo ai propri pensieri di avvicinarsi al cuore.
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