Suntime Marzo

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Rivista mensile di

turismo, natura e benessere

Seconda Edizione Anno 1 n째1 Marzo 2011

Una volta nella vita

Transiberiana Speciale Africa

Siwa Montagna

Courchevel Abitare

Tree House Flora

Giardino Bioenergetico



Editoriale

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opo un accurato restyling che ha portato ad un cambiamento della filosofia editoriale verso un turismo ecologico e sostenibile, torna la rivista SUNTIME-Viaggi e Natura. Un periodico destinato non ai turisti ma ai viaggiatori, cioè a coloro che ambiscono penetrare nell'essenza di un territorio attraverso la comprensione della natura, il coinvolgimento delle tradizioni, lo scambio culturale con popoli diversi per arricchire se stessi. Tutto diverso dal turista che è invece colui che considera il viaggio come un diversivo, una evasione transitoria rispetto alla routine quotidiana. SUNTIME, "tempo di sole", di grandi sogni, di grandi avventure, di grandi vacanze, soddisfa dunque la crescente richiesta di viaggi/esperienza, di proposte che superino il turismo di massa ed offrano qualcosa di etico,di rispettoso, di non distruttivo per l'ambiente. Aumenta l'attenzione verso l'aspetto sociale del viaggio. Noi l'abbiamo sempre sostenuto: era ed è indispensabile

un cambiamento di rotta, una presa di coscienza, l'attuazione di scelte alternative e fatti concreti che determinino un rinnovamento di tutto il settore turismo e viaggi se vogliamo consentire ai nostri figli ed ai figli dei figli di godere delle straordinarie risorse ambientali ed umane del pianeta. In SUNTIME, Turismo e l'alleata EnoGastronomia, ma anche Arte, Tradizioni e Libri, filtrati attraverso un'accurata selezione di destinazioni, eventi e storie poco conosciuti, non inflazionati dalle mode e dall'accanimento mediatico. La formula -Turismo e Cultura- chiude il cerchio attorno ad un campo omogeneo e poliedrico, razionale ed esuberante, serio ed eccitante. Ce n'è di che soddisfare un popolo di lettori esigenti e curiosi, amanti del BelVivere e di tutto ciò che imprime una traccia per riflettere e per sognare. Ma c'è anche l'intento di intrigare, di stimolare e di lasciare a fior di pelle la voglia di sfogliare il prossimo numero di Suntime ni cerca di nuove emozioni.

n°1 - marzo 2011

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Sommario

16 Speciale Africa ERITREA : L' INCANTO MARINO DELLE ISOLE DAHLAK Testo di Anna Maria Arnesano e Foto di Giulio Badini

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Una volta nella vita TRANS SIBERIAN INTOURIST EXPRESS, UN SOGNO LUNGO OTTOMILA CHILOMETRI Testo di Viviana Tessa e Foto Archivio Columbia Turismo Vicino ai tuoi sogni SOCOTRA, SCRIGNO DI BELLEZZE E DI RARITA' NATURALI Testo e Foto di Teresa Carrubba Montagna BULGARIA. NEVE E BENESSERE A BANSKO Mirella Sborgia FRANCIA. COURCHEVEL, VACANZA SULLA NEVE A 5 STELLE Viviana Tessa L'ECCELLENZA DELLA VAL D'AOSTA, LA MONTAGNA Luisa Chiumenti Protagonisti ENRICO BRIZZI, COAUTORE DE “I DIARI DELLA VIA FRANCIGENA”, CI RACCONTA IL SUO VIAGGIO A PIEDI NELL'ERA DEI VOLI LOW COST Tiziana Sforza Arte povera La stampa a ruggine di Santarcargenlo di Romagna Roberto Terzagni Uomini & Animali ELEFANTI: IL TRIANGOLO DELLA SALVEZZA. L'ANANTARA RESORT, AL CONFINE CON IL LAOS E IL MYANMAR Pamela McCourt Francescone Vivere la natura BIRDWATCHING Testo di Giuseppe De Pietro Abitare LA CASA SULL'ALBERO Valentino De Pietro Popoli e Luoghi AKHA , HMONG E LAHU, LE TRIBÙ DEL TRIANGOLO D'ORO Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone Dialogo con la Natura. I PARCHI TRA CALABRIA E LUCANIA: UN ITINERARIO NEL PARCO NAZIONALE DEL POLLINO Luisa Chiumenti Eco dei miti L’Oste romano innamorato di Liz Taylor Caterina Eleuteri Applausi TACCO PUNTA, GIRAVOLTA E SU … Giuseppe Garbarino Ego IL BENESSERE VIAGGIA SULLE “SETTE NOTE” Giovanna Vecchiotti

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SUDAN. L'ARCHEOLOGIA RAFFINATA DELLA NUBIA Testo e Foto di Valentino De Pietro

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IL SABI-SABI. IERI, OGGI E DOMANI NELLA SAVANA SUD AFRICANA Iliana Romano

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EGITTO. L'OASI DI SIWA, UNA FAVOLA NEL DUEMILA Testo di Marinella Rewinski e Foto di Pamela McCourt Francescone

Arte e Cultura

70 TRATTENIMENTI IN GIARDINO. SOCIETÀ, NATURA E PAESAGGIO DA VAN DEYNEN E MAGNASCO Luisa Chiumenti Eco-energia 72 HONDA FCX CLARITY Marco La Valle Il lusso accarezza la natura 74 Il Four Seasons Resort Seychelles Chiara Pozzi Sport & Avventura 75 TREKKING Testo di Marinella Rewinski Luoghi di”vini” 77 VINO DELL'ANIMA Mariella Morosi Gusto 80 CALDA D'INVERNO, LA POLENTA Francesca D’Antona Vesti Natura 82 UNA CALDA SENSAZIONE CHIAMATA CASHMERE Daniele Nencini Arte in tavola 86 La torta che vorrei Caterina Eleuteri Agriturismo Bio 87 CARINZIA. BENESSERE IN FATTORIA Anna Pugliese Tradizioni 90 VALCENO IN TAVOLA FIERA DEL CIOCCOLATO ARTIGIANALE Mariella Morosi Desideri di luce 92 FOTOGRAFARE LA NATURA Roberto Callà Libri & Guide 95 "L'UOMO CHE SUSSURRA ALLE VIGNE" "MICHELE RACCONTA" Mariella Morosi Flora

56 IL GIARDINO BIOENERGETICO DEL BORGO STORICO

SEGHETTI PANICHI Testo di Pamela McCourt Francescone e Foto Archivio Seghetti Panichi Versione inglese BORGO SEGHETTI PANICHI'S BIO-ENERGETIC GARDEN Text by Pamela McCourt Francescone and Photo Archives Seghetti Panichi n°1 - marzo 2011

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Una volta nella vita

TRANS SIBERIAN INTOURIST EXPRESS UN SOGNO LUNGO OTTOMILA CHILOMETRI Testo di Viviana Tessa e Foto Archivio Columbia Turismo

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echino-Mosca sul Trans Siberian Intourist Express. Un viaggio che evoca immagini di grandezza, di mistero e di paesaggi sconfinati. Un sogno per “viaggiatori”, per i figli di quell’avventura chiamata Grand Tour seguita da ricchi giovani dell’ aristocrazia e della borghesia europea a partire dal XVII secolo. Fu lo zar Alessandro III, nel 1891, ad appoggiare la costruzione della ferrovia Transiberiana ritenendo che fosse uno tra più importanti eventi della storia dell’Impero russo perché avrebbe collegato le regioni ricche di risorse naturali della Siberia alla rete ferroviaria del resto della Russia. Un’impresa molto dispendiosa, a giudicare dalla cifra stimata dalla Commissione della costruzione della ferrovia: 350 milioni di rubli d’oro! Ma il lungimirante Zar forse non immaginava che proprio quella ferrovia sarebbe stata la base di un sogno. Oggi si può ripercorrere quell' antica tratta PechinoMosca (o viceversa) trasformando il trasferimento tout court in un viaggio leggendario intriso di racconti d’altri tempi e , perché no?, anche del lusso leggiadro della Belle Epoque. Di quel periodo gaudente il Trans Siberian Intourist Express conserva l’eleganza nelle carrozze ristorante e di intrattenimento; sono quelle storiche, risalgono ai primi del Novecento, all’inaugurazione della Transiberiana. Mantengono intatto tutto il fascino della boiserie, dei pannelli dipinti, del legno imbibito di storia e di avventura, dei ricchi viaggi d’altri tempi. Ottomila chilometri, 7 fusi, tre Paesi: Cina, Mongolia e Russia, attraversati nella comodità di un treno storico ma con tutti i comfort moderni . Il viaggio dura 15 giorni e prevede un volo dall’Italia a Pechino, da dove inizia l’avventura in treno. Il primo impatto con Pechino è stato disorientante. Non era per le dimensioni. Di Pechino all’inizio mi sfuggiva la sagoma, la struttura, la legge intima che rende ogni città un organismo vivo. Intendo la Pechino moderna, naturalmente. Una metropoli asiatica in continua espansione non è semplicemente una copia dilatata delle grandi città occidentali. Pechino si moltiplica dentro se stessa, avvolgendosi in spazi sempre più piccoli e ramificati. Non è una geometria unica, ma una linea che continua a proliferare nic-

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Trans Siberian Intourist Express

chie e ancora nicchie; la sua struttura potrebbe ricordare l’estenuante tecnica delle “scatole cinesi”. Una Pechino liquefatta, con i suoi grattacieli tecnologici stemperati da una luce quasi sempre lattiginosa, i grandi viali squadrati e le caratteristiche stradine laterali, rappresenta l'essenza della Cina, con le sue contraddizioni: desiderio di modernità e preservazione della storia. Il simbolo della grandezza di Pechino è Tian'anmen, la piazza più grande al mondo, con i suoi 440.000 metri quadrati. L’occhio umano non ce la fa a coglierla tutta insieme e neanche il grand’angolo di una macchina fotografica. Indescrivibile l’effetto che fa trovarsi in quell’immensità, non solo di spazi, ma di potere, di storia, di suggestione.

Cordoni interminabili di persone si snodano lungo il perimetro di Tian'anmen, in attesa di accedere ai luoghi fulcro della Piazza e di Pechino: La Città Proibita e il Mausoleo di Mao Tse-tung. Al Mausoleo sono diretti molti ragazzi, soprattutto cinesi, un vero e proprio pellegrinaggio. I giovani pensano a Mao come a colui che ha fatto grande la Cina. Altro cult di Pechino, La Città Proibita, che, come dice il nome, in passato era interdetta al popolo. La porta di accesso, sovrastata da una gigantografia di Mao, è sempre accalcata di visitatori, allettati, oltre che dalla storia, anche dal fascino del “proibito”, appunto. L’ingresso è protetto dalle guardie, così come del resto tutta la Piazza, da militari in divisa o in borghese


e da telecamere installate sui vari lampioni d’illuminazione. Dai ritmi frenetici del centro cittadino alla Città Proibita ci sono pochi metri, ma secoli di storia li separano. Anche la Città Proibita, il più grande complesso di edifici imperiali del mondo, con il suo impianto articolato rispecchia la struttura di Pechino. Da un padiglione si entra dentro l’altro e da questo ad un altro e ad un altro ancora, passando per sterminati cortili, scalinate, logge, camminatoi, vicoli angusti tra due muri altissimi ed un punto di fuga lontano ed inquietante. Un labirinto di gloria o di perdizione che non lascia intravedere uscite, che fa dimenticare, per attrazione ipnotica, l’esistenza di un mondo fuori. Alle spalle di questo concentrato di storia, di potere e di ricchezza, vive una realtà ben diversa, quella della vecchia Pechino, vera, senza fronzoli e senza gloria: Hutong. Un quartiere popolare di casupole basse, per evitare che qualcuno

modo migliore per entrare nel vivo di questa realtà, lungo il canale, tra i negozietti, i chioschi dove arrostiscono spiedini che emanano un odore forte di spezie ed amicali scenette tra uomini come una partita a carte o a mahjong su un tavolo velocemente allestito sul marciapiede. Ma Pechino è soprattutto storia, quella imperiale, in qualche modo intrisa di superstizioni e tradizioni propiziatorie. E’ il caso, ad esempio, del Tempio del Cielo, costruito nel 1420, che costituiva la sede dei sacrifici al cielo e alla terra da parte degli imperatori delle due dinastie Ming e Qing (1368-1911). Un po’ fuori Pechino, invece, il Palazzo d’Estate, che merita un discorso a parte. Ci si arriva con una di quelle tipiche imbarcazioni con un vistoso drago dorato a mo’ di polena e si sbarca accanto ad un meraviglioso ponte da percorrere a piedi tra ringhiere di esili colonnine ed altrettante teste di leone. Nel Palazzo d’Estate c’è un itinerario fra grotte,

fa. E’ considerata una delle sette meraviglie del mondo, Patrimonio dell’Umanità, bene protetto dall’Unesco. Il muro si snoda compiacendo le forme della natura , adagiandosi come un serpente gigante e sinuoso su per le alture per poi scivolare nelle valli. Oppure come le spire di un ideogramma cinese dal significato misterioso e accattivante, nitido all’inizio e poi sfumato come un acquarello man mano che si allontana verso l’orizzonte. Inizia il viaggio in treno. La prima tappa è Datong, con la suggestione di un’arte rupestre spettacolare praticata dal 453 al 495 d.C. da decine di migliaia di artigiani. Cinquantunomila tra statue e altorilievi raffiguranti Budda, giganteschi o piccolissimi, perfettamente rifiniti o che emergono dalla roccia suggerendo il tema buddista della metamorfosi. Ad Erlian, ultimo contatto con la Cina, si cambia treno perché le rotaie cinesi hanno una larghezza diversa. Un

potesse guardare dall’alto l’Imperatore in visita, dove il grigio non è solo il colore del cielo. Un mondo a sé, fatto di volti semplici, di voci, del cigolio delle biciclette. Ogni vicolo si ripiega in modo tortuoso rivelando il retro di una scena diversa, per poi interrompersi o sbucare in tutt’altro luogo. Smarrirsi tra le case di Hutong è facilissimo, i tetti a pagoda salgono e scendono tutti uguali. Di fatto qui nessuno si lamenta, nemmeno i giovani, i quali preferiscono vivere a Hutong dove si spende poco, si sta sempre in compagnia e si è lontani dalla convulsione della città. Ogni giorno alcuni abitanti del quartiere, prendono il proprio risciò e partono per il giro tra le vie di Hutong sperando di far salire a bordo qualche turista. E’ il

rocce, minuscole pagode e scalinate scavate nella pietra, chiamato "Passeggiata dentro un dipinto”. Tanti giardini, padiglioni, stagni coperti da splendidi fior di loto, corridoi a loggia, tra cui uno in legno lungo 728 metri, le cui travi a soffitto sono dipinte con miniature tipiche della pittura classica orientale. Logge e giardini, in epoca imperiale inaccessibili al popolo, ora diventano punto d’incontro tra amici, anche in là con gli anni. Essi si siedono sulle balaustre per giocare a carte, si raggruppano per suonare ed intonare un canto, per chiacchierare o passeggiare tranquilli. Chi viene a Pechino, non può non raggiungere la Grande Muraglia, l’imponente e monumentale costruzione difensiva iniziata più di duemila anni

trasbordo all’altezza delle premesse. Sulla banchina, ad attendere i passeggeri, uno steward e un cameriere per ogni carrozza, eleganti nella divisa e nei modi, così come è elegante il treno. Si prende confidenza con le eleganti cuccette dove qualcuno ha già sistemato il bagaglio, come si conviene ad un’ organizzazione di alto livello e poi ci si riunisce nella carrozza soggiorno dove è difficile non rimanere coinvolti dall’atmosfera calda e ricca di quei rivestimenti in legno, di quelle abat-jour che diffondono il languore di un passato che rincorriamo come il paesaggio che scorre oltre il finestrino. Il viaggio riprende alla volta della Mongolia che si preannuncia con un panorama ricco di effetti naturali che man n°1 - marzo 2011

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mano s’impoverisce di elementi. Dalle fitte foreste, alle steppe smisurate, all’altipiano con cime oltre i 4000 metri che condurranno gradualmente al deserto del Gobi meridionale con le sue spettacolari dune alte fino a 300 metri. Qui si nasconde una curiosa località, Bayan Zag, uno dei maggiori giacimenti di scheletri e di uova di dinosauri. Oltre il finestrino passano veloci le praterie del Gobi centrale con mandrie di cammelli e yak e le bianche gher, o iurta, le abitazioni dei mongoli. Semplici tende rotonde allestite con teli di feltro su un’impalcatura di legno, facili da smontare e rimontare, come si conviene ad un popolo di nomadi. Raramente, le iurte si raggruppano formando un piccolo villaggio dove a volte si offrono cibo e danze in costume ai rari turisti di passaggio. Quello che un tempo fu uno dei più importanti imperi dell’Eurasia grazie al famoso condottiero Gengis Khan, crogiuolo di razze e religioni diverse, punto strategico per il commercio, oggi appare una terra fuori dal tempo, che espone con discrezione i segni del passato, che lascia aperto il contatto con i suoi abitanti per scoprire le loro peculiarità come la medicina tradizionale e lo sciamanesimo, nonché la forte religiosità nei confronti del rinato buddismo lamaista. Il monastero di Gandan, scuola lamaista, centro spirituale e sociale dell’antica Urga, l’attuale capitate mongola Ulan Bator. Centocinquanta monaci istruiscono i giovanissimi aspiranti lama e accolgono pellegrini in preghiera. L’attrazione, una vistosa statua di Budda alta 26 metri, coperta da una lamina d’oro e pietre preziose. Alla volta della Russia, passando per la Siberia. Il tempo in treno è occupato dalle formalità della dogana russa mentre il Trans Siberian Intourist Express s’insinua in un paesaggio del tutto nuovo, la taiga. Larici , abeti e soprattutto betulle affollano le fitte foreste che aprono alla Siberia , un habitat definito dalle caratteristiche locali del disgelo estivo responsabile della ripresa vegetativa delle specie arboree. Quando gli alberi diradano, dal treno s’incrociano sparuti gruppi di casette di legno con infissi colorati e orticello. Niente strade, niente veicoli. Siamo nella Repubblica di Buriazia, la cui capitale Ulan Ude onora ancora Lenin con un’enorme monumento in piazza. Nelle vicinanze, il più grande monastero buddista tibetano della Rus-

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Trans Siberian Intourist Express

sia, Ivolginsk Datsan , formato da vari templi dai tetti dorati e coloratissime statue. Oggetti sacri con la trascrizione di orazioni, e mulini di preghiera su cui è inciso il Mantra tibetano e che i fedeli fanno girare, sempre in senso orario, simulando il ciclo vita-morte. Altra notte in viaggio sul mitico treno. L’alba sarà quella del Lago Baikal , che il Trans Siberian Intourist Express costeggerà per ore percorrendo una linea ferroviaria riservata. Il lago Baikal. Immensa fonte di acqua dolce, popolato da pesci che nascono solo qui. Un ecosistema unico, dove vive la nerpa o Phoca siberica, unica foca d'acqua dolce al mondo, che fa del lago Baikal una delle destinazioni più stimate dai naturalisti. E’ in questa regione che si sono insediate tre religioni: lo sciamanesimo tibetano, il buddismo e il cristianesimo ortodosso, portato dai russi nel 1643, quando videro la prima volta le acque del Baikal. Il treno avanza e passa il confine dell’ultimo fuso. Si giunge a Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan. Dalla Cina importava tè e a sua volta esportava pelli di ermellino. E poi le stoffe, la mitica “via della seta” passava proprio da qui. Forse è per la sua posizione strategica tra Oriente e Occidente che Kazan, la capitale del Tatarstan, ad 800 chilometri ad est di Mosca, vive fin dal passato un florido commercio. La città bassa si allunga sulle rive del lago Kaban e sulle due sponde del Canale Bulak che un tempo costituiva il limite di separazione tra la Kazan russa e quella tartara, un confine che quasi si annullò nell’Ottocento quando il commercio e l’industria di Kazan si svilupparono. Il Canale servì allora per il trasporto di merci dal Volga e da Kazanka. Il cuore pulsante di Kazan è nell’area sottostante il Canale Bulak , dove era insediato l’antico popolo tartaro. Ma è la parte alta della città la sintesi della storia, dell’arte, della cultura. A partire dal Cremlino, inserito nel patrimonio culturale dell’Unesco, secondo solo a quello di Mosca, un magnifico insieme architettonico che porta le tracce di molti secoli, chiuso in un giro di bianche mura di cinta con le caratteristiche feritoie e


Una volta nella vita

13 torri. Persino Ivan il Terribile ebbe ad esaltarne la bellezza. Nel Medioevo i bastioni del Cremlino erano di travi di quercia e gli edifici in legno e pietra. La sua costruzione più importante è la torre Suyumbika, assurta a simbolo e orgoglio della città, che prende il nome dall’ultima regina di Kazan, la quale pare si sia gettata dalla sua cima quando la città fu occupata dalle truppe moscovite. Kazan vive in uno spirito di straordinaria tolleranza tra etnie e religioni diverse. Russi e tartari, musulmani, ortodossi ed ebrei, che sembrano far parte di una grande famiglia pur conservando ovviamente ognuno i propri luoghi di culto e le proprie tradizioni. Ultima tappa del magnifico viaggio transiberiano, Mosca. La silhouette frastagliata di quelle cupole a cipolla svettanti in croci d’oro, ieratiche e solenni, disegnano la sacralità di un popolo che ha costruito con coraggio la grande storia della Russia. Mosca. Immensa e grandiosa. Rinascita continua e immutabile incrostazione di civiltà, d’arte e di fede. Il primo impatto è con la Piazza Rossa. Mozza il respiro. Una bellezza che pene-

tra e si gioca tutta nelle emozioni. Intime. Inesternabili. Riduttiva ogni parola, insufficiente ogni aggettivo. Va vista. Qui l’uomo riprende le sue vere dimensioni. Non può sentirsi grande. Se non nel pensare che è proprio dalle mani degli uomini che nasce tanta imponenza. Almeno quella urbanistica, architettonica, estetica. Ma il fascino intrinseco della Piazza Rossa, no. Quello non è stato progettato al tavolino di ingegneri e architetti. E’ sedimentato nei secoli in una preziosa concrezione di eventi storici e politici, di riti sacri, di imprese commerciali. Già nel Quattrocento ospitava l’ animatissimo Gran Mercato, antesignano degli odierni magazzini Gum, voluti da Lenin negli anni Venti in uno splendido stile Liberty, qui detto “neorusso”. Quello stesso Lenin onorato in gran pompa, fino alla fine del periodo sovietico, nel suo austero mausoleo di granito rosso, al lato ovest della Piazza. Una Piazza che sprigiona, ancora oggi, tutto il potere, il fasto e la solennità dell’epoca imperiale. Da qui, attraverso le porte una volta ritenute

sante, zar, reali stranieri e patriarchi, entravano nel Cremlino. Il Cremlino. Fulcro vitale, fucina di poteri, sacrario del culto. Un mondo a parte. Cristallizzato nel tempo. Tutto il misticismo della cultura russa sembra concentrato nel bianco abbacinante delle cattedrali e nell’oro delle cupole a schiera, nei solenni palazzi del potere, nel ricco museo dell’Armeria. Un bagno nella storia della Grande Madre, che va gustato con la calma e la curiosità di un visitatore attento. Noi abbiamo effettuato questo viaggio con l'organizzazione della Columbia Turismo la quale, oltre alla proposta della Transiberiana, annovera nel suo catalogo le destinazioni RUSSIA E CINA per le quali è altamente specializzata. Per informazioni rivolgersi a: COLUMBIA TURISMO via Po 10 – 00198 Roma - tel. 06 8550831 www.columbiaturismo.it - info@columbiaturismo.it

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Vicino ai tuoi sogni

Socotra, scrigno di bellezze e di raritĂ naturali L'isola dello Yemen dichiarata dall'Unesco Riserva naturale della biosfera

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Testo e foto di Teresa Carrubba Sapere veramente "di che materia sono fatti i sogni", per dirla con Shakespeare, potrebbe voler dire visitare Socotra, l’isola yemenita sospesa tra il Golfo di Aden e il Corno d’Africa. Un sogno che acquista il sapore delle emozioni attraverso il paradosso, l’irreale, il fantastico. Un mondo che sembra non esistere nell’immaginario collettivo della realtà, ma piuttosto nell’invenzione

fiabesca. Girando per Socotra si capisce cosa abbia potuto provare Alice nel Paese delle Meraviglie quando si trovò al cospetto di piante abnormi, funghi giganteschi e fiori dalle fogge bizzarre girandosi intorno con lo stupore stampato sulla faccia. Lo stesso stupore che lucida lo sguardo di chi, a Socotra, s’imbatte in quel capriccio della natura che è la Rosa del Deserto (Adenium obe-

sum sokotranum), un buffo alberello dal tronco morbido e pingue, simile a un fiasco di gomma gonfiato, che sorprendentemente s’ingentilisce in cima con delicati rametti a fiori rosa. Nasce quasi in riva al mare o spunta sulle pareti rocciose, sdrammatizzante propaggine della collina. Ancora stupore se ci si trova davanti al Fico di Socotra simile a un piccolo baobab che cresce

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Vicino ai tuoi sogni

sulle creste dei monti, al Cucumber Tree , che produce frutti simili a cetrioli o all’euforbia gigante. O all’esemplare più espressivo della vegetazione di quest’isola, l’ Albero del Sangue di Drago (Dracena cinnabari), assurto a simbolo di Socotra, poiché è questo l’unico posto al mondo in cui cresce. E’ un ombrello gigante dalla calotta perfetta la cui apparente soli-

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dità è alleggerita da un magnifico intreccio di rami nodosi, che farebbe impallidire anche il miglior ebanista, e una fitta coltre di aghi verdi, simili a quelli del pino nostrano. Sangue di drago, per via di quella linfa rosso porpora che stilla dalla corteccia, usata dai socotrini come medicina empirica ma anche come inchiostro e colorante. La sorpresa aumenta quando gli Alberi del

Socotra, scrigno di bellezze e di rarità naturali

Sangue di Drago si moltiplicano disseminati sull’ Altopiano Daksem, immersi nel silenzio del niente assoluto, e arrivano a mo’ di corona al limite di uno strapiombo dalle vertiginose pareti di granito rosso, a tratti coperte da lastre grigie di lava fossile. E’ la bocca sprofondata di un vulcano spento da secoli, i cui canali una volta percorsi da magma incandescente ora sono palmeti lussu-


reggianti che tappezzano anche il fondo del canyon, ombreggiando una suggestiva piscina naturale di acqua limpida. La strada che costeggia l’Altopiano è un tripudio di vegetazione preziosa che evoca la storia e il mito; ecco rincorrersi alberi d’incenso, di mirra e quelle magnifiche sculture naturali formate dall’aloe vera. E poi giù giù verso il mare, coltri diffuse di vegetazio-

ne nana, veri bonsai di arbusti che fanno di questo tratto quasi una terra mediterranea. Il mare. Il mare di Socotra, che vira dall’indaco, al turchese e allo smeraldo, lambisce spiagge che rimangono nella memoria. Raggiungendo la spiaggia di Qalansya, ci si chiede se il Paradiso sia qui. I fuoristrada non possono arrivare fino al mare; ci lasciano all’inizio di una piccola

salita che sembra costruita ad arte per montare la curiosità. In cima, il respiro si arresta davanti ad uno spettacolo alla cui bellezza siamo impreparati. Lo sguardo non sa dove posarsi nell’emozione di abbracciare tutto in un attimo, fino ad aprirsi in uno scenario inusitato ed incredibile. L’alta scogliera di un caldissimo ocra precipita su una spiaggia di borotalco candido che a sua volta n°1 - marzo 2011

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s’insinua come un ghirigoro nell’acqua turchese di un mare immobile. Una bellezza che ammutolisce, si resta in ascolto delle emozioni per tutto il tempo posando gli occhi ogni volta su una meraviglia diversa. La natura qui si è divertita senza badare a spese. La spiaggia Qalansya ,di sabbia candida e impalpabile, è immensa, protetta da una corona di colline dalla roccia solida di un bel giallo intenso che al tramonto s’infiamma in un rosso che dà i brividi. I giochi della natura, dicevamo. Nel periodo estivo, quando i monsoni battono con violenza le coste di quest’isola, la sabbia finissima si solleva e si addossa alle pareti rocciose sedimentando poco alla volta fino a formare delle vere e proprie piramidi compatte, che danno allo scenario un aspetto unico e irripetibile. Chiamarle dune è riduttivo. Sono delle forme architettoniche che si agganciano alla natura divenendone parte integrante. Da lontano, ma neanche tanto, sembrano fatte di neve vergine, che nessuno osa toccare per paura di frantumarne la magia. Al tramonto, su questa spiaggia è facile assistere ad un viavai di granchi che si dirigono verso l’acqua, lasciando le loro incredibili tane scavate nella sabbia a spirale, creando dei mucchietti equidistanti, tutti uguali. Tanti, tantissimi. Quale posto migliore per piantare una tenda e dormire al riparo delle colline e ai piedi di quelle piramidi abbacinanti? Per la verità, dormire è un peccato quando ci si può stendere sulla spiaggia a guardare un cielo incredibilmente fitto di stelle che ad ogni sospiro “ cadono” esaurendo tutti gli umani desideri. Lo spettacolo delle dune-piramidi continua per molti tratti della costa Ovest di Socotra, lo si nota bene facendo un giro in barca verso la magnifica e riservatissima spiaggia di Ahrar. Sempre in barca, verso Shuab. Ci scorre davanti agli occhi una costa alta, su cui il vento e il tempo hanno disegnato cattedrali, grotte, anfratti, faraglioni, spesso base di colonie di uccelli marini. Lungo il percorso capita, e a noi è capitato, di assistere allo spettacolo entusiasmante di un branco di delfini che sfilavano a due bracciate dalla costa, quasi un fiume argenteo nel mare smeraldo, esibendo eleganti acrobazie senza interrompere la corsa collettiva. Emozione sull’emozione. La spiaggia di Shuab, stessa sabbia candida, stessi spazi aperti. Qui, in questa oasi di pace, è facile venire accolti da un pescatore socotrino che ti offre su un vassoio di legno tranci di pesce caldo che lui stesso ha pescato. Vive in una grotta a mezza costa, proprio ai margini della spiaggia. O da un altro indigeno che offre conchiglie da lui stesso pazientemente pulite e lucidate. E di

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conchiglie l’isola è ricchissima. In nessuna parte del mondo avevamo visto tante conchiglie e di tante specie sparse a profusione sulle spiagge. Bellissime, accattivanti. La tentazione di portarsene via una è forte, ma non va assecondata. Lo dobbiamo alla bellezza di quest’isola e ai suoi abitanti che hanno uno spiccato spirito di accoglienza. Gente poco abituata al turismo e questa è una fortuna perché una terra così incontaminata deve restare tale. La magia di Socotra sta proprio nella sua anima naif e primitiva, nella sua natura impeccabile e unica come quelle candide dune, nella singolarità della sua vegetazione che non ha subito contaminazioni, né evoluzioni né “scambi” con altre specie presenti nel resto del mondo. Trecento esemplari floreali endemici dei 900 catalogati, 27 rettili e 190 uccelli. Ma anche 800 specie diverse di coralli e 730 di pesci tropicali che fanno dei fondali di quest’isola un godimento estremo per i sub, ma anche per il semplice nuotatore visto che già al primo passo nell’acqua si è contornati da nugoli di pesci colorati che sembrano dipinti a mano. Questa realtà così unica è il frutto di un isolamento biologico totale in cui Socotra vive da sei milioni di anni senza interferenze esterne, preservando specie animali e vegetali oggi estinte in altre parti della terra, oltre naturalmente gli esemplari endemici. Fino a qualche anno fa Socotra era sconosciuta e inaccessibile. Prima protettorato britannico, poi base della marina sovietica fino al 1967, poi irraggiungibile via aereo per mancanza di collegamenti fino al 2002. INFO L’operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34 93 45 28, www.desertiviaggilevi.it), specialista sulla destinazione Yemen, propone un viaggio a Socotra che comprende la visita della capitale Sana’a con le sue inimitabili architetture e dei villaggi di montagna fino a 2.850 metri di quota con le famose fortezze e le casetorri. AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA DELLO YEMEN www.yemenembassy.it ENTE TURISTICO YEMENITA www.yementourism.com

Socotra, scrigno di bellezze e di rarità naturali



Speciale Africa

Eritrea:

l'incanto marino delle isole Dahlak Testo di Anna Maria Arnesano e Foto di Giulio Badini Non sono in molti a concepire l'Eritrea come meta turistica, e tra questi non rientrano i tour operator italiani. Colpa di una scarsa conoscenza del paese e delle sue molteplici valenze, anche turistiche, ingiustificata nei confronti di una nazione che per oltre mezzo secolo è stata la prima e la più importante colonia italiana e che ancora oggi mantiene le maggiori testimonianze della nostra presenza, ma soprattutto della trentennale eroica e sanguinosa guerra di liberazione dall'Etiopia che l'ha resa inaccessibile per lungo tempo, con uno strascico di tensioni di confine ancora perdurante e che solo la presenza di truppe Onu evita di trasformare in un nuovo conflitto. Un vero peccato perché l'Eritrea, grande un terzo dell'Italia e stato autonomo soltanto dal 1993, ha parecchio da offrire. Si parte da un'estrema varietà

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geografica, ambientale e climatica, capace di spaziare dall'infuocato deserto di lava e di sale della Dancalia, uno dei luoghi più caldi e inospitali del pianeta ma ricchissimo di peculiarità geologiche e etnografiche, alla fresca eterna primavera degli altopiani dell'acrocoro centrale con le sue caratteristiche montagne piatte, le ambe, dall'arida steppa alle foreste di tipo alpino, dalle coste occidentali del Mar Rosso esuberanti di vita subacquea fino a montagne alte oltre 2.500 metri. Alla varietà ambientale corrisponde una notevole ricchezza etnografica, con ben nove diverse etnie, ciascuna con propria lingua, religione, costumi, cucina e tradizioni, capaci di convivere da secoli fianco a fianco in buona armonia ed estrema tolleranza. E che dire poi degli 8 mila siti archeologici censiti, anche se parecchi ancora

Eritrea: l'incanto marino delle isole Dahlak

da scavare, dove si spazia dalla preistoria alla civiltà axumita ed ai monasteri copti con i loro tesori d'arte nascosti tra le montagne. Due apprezzabili perle sono poi costituite dalle principali città: la capitale Asmara, elegante e tranquilla fondata nel 1889 dagli italiani sull'altipiano a 2.300 m, che conserva nell'architettura, nella toponomastica e nelle abitudini una chiara impronta coloniale italiana, tanto da sembrare il set di un film di Fellini; e la torrida città portuale di Massawa, dalla netta impronta arabo-moresca per la facilità di approdo dalla penisola arabica, i cui bei monumenti arabi, turchi e italiani sono stati purtroppo sistematicamente distrutti dai bombardamenti etiopi e russi. Straordinaria per il panorama e mozzafiato per il percorso la strada che collega queste due città, capace di superare in 115 km


un dislivello di 2.300 m con arditissime soluzioni di ingegneria; lo stesso dicasi per la ferrovia a vapore a scartamento ridotto, ancora funzionante con il materiale rotabile italiano, capace di regalare emozioni e sensazioni d'altri tempi. In nessun altro posto al mondo un connazionale può sentirsi a casa propria come in Eritrea: il paesaggio e la vegetazione assomigliano a quelli del nostro meridione, gli anziani parlano la nostra lingua, l'architettura rispecchia quelle delle città di provincia anteguerra, molte insegne di negozi e locali hanno nomi italiani, a tavola si mangiano spaghetti, maccheroni e lasagne, nei bar si gustano dolci siciliani e espressi degni di Napoli. Comunque il vero gioiello naturalistico di questa nazione del Corno d'Africa è costituito dall'arcipelago delle Dahlak, oltre 200 tra isole e isolette al largo di Massawa che sembrano un tratto di deserto affiorante dalle acque del Mar Rosso, il mare con il più ricco ecosistema della terra, alcune raggruppate e vicine alla terraferma, altre sparse e isolate. La maggior parte sono soltanto minuscoli banchi corallini fossili aridi e spogli, alti pochi metri e inferiori al chilometro quadrato, senza nome e con belle spiagge coralline deserte, luogo ideale di nidificazione per milioni di uccelli, senza approdi, basse e piatte, zattere di madrepore aride e totalmente prive d'acqua, torride e con scarsissima vegetazione, disabitate da sempre. Solo quattro sono abitate da miseri villaggi di pescatori e solo qualcuna presenta una struttura vulcanica, con modesti rilievi. Quasi briciole di deserto in mezzo al mare L'isola maggiore è Dahlak Kebir, grande cinque volte l'Elba, e ospita l'unico albergo; fu abitata da sempre da popolazioni arabe per la presenza di acqua, raccolta in 365 cisterne; offre un po' di vegetazione, capre e dromedari al pascolo, diversi villaggi, un cimitero storico musulmano e i resti di un penitenziario italiano; fu base aerea e navale etiope e russa durante la guerra etiope-eritrea. La povertà ambientale delle isole contrasta con la straordinaria ricchezza marina, formata da reef corallini e scogliere di madrepore poco profondi e intatti, capaci di ospitare tremila specie viventi, 350 di coralli e oltre mille pesci diversi coloratissimi, un quinto dei quali endemici, da delfini, razze e mante a squali e ai rarissimi dugonghi, le sirene del mito, a formare il più incredibile degli acquari naturali. La guerra prima e la mancanza di strutture turistiche ricettive ora ne fa ne fa uno dei tratti più integri ed incontaminati di tutto il Mar Rosso, con enorme beneficio per la fauna marina. Un vero paradiso sub, tuttavia destinato a durare come tale ancora per poco, perché gli appetiti turistici non tarderanno a scoprirlo. Infine non si può tralasciare di accennare al curioso e suggestivo fenomeno della bioluminescenza, caratteristico di questo arcipelago. Dal tramonto all'alba ogni cosa immersa nel mare diventa debolmente luminosa, quasi fosforescente; si tratta di un singolare processo bioelettrico prodotto da miliardi di microrganismi planctonici trascinati dalla corrente: fare un bagno di notte regala l'incredibile sensazione di immergersi in un oceano di diamanti. L'operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34 93 45 28, www.deserti-viaggilevi.it) è tra i pochissimi a proporre nel proprio catalogo “Deserti” un viaggio di 9 giorni in Eritrea, che prevede la visita di Asmara e Massawa e 4 giorni di navigazione nell'arcipelago delle Dahlak. Partenze mensili per piccoli gruppi con voli di linea da Milano e Roma fino a fine aprile 2011, pernottamenti in alberghi, barca e tenda, accompagnatore italiano, quote da 1.730 euro con pensione completa.

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SUDAN:

l'archeologia raffinata della Nubia Testo e Foto di Valentino De Pietro

E' una meta per viaggiatori e non per turisti, il Sudan. Una terra pressoché sconosciuta ai più per via delle difficoltà del viaggio, delle scarse infrastrutture, della minima divulgazione mediatica. Almeno per quanto attiene al turismo. Perché è chiaro, fa più audience l'eco dei conflitti razziali e religiosi del passato e delle recenti guerriglie tribali nel Darfur. Ma pochi sanno che il Darfur dista mille chilometri dalla zona più interessante e suggestiva del Sudan che gli amanti dell'archeologia, della storia, dell'antropologia e della natura desertica non dovrebbero mancare. Ci riferiamo a quell'area settentrionale che va dalla capitale Khartoum fino al lago Nasser, al confine con l'Egitto. La Nubia, l'antico regno dei Faraoni Neri, la cui storia si mescolò a lungo con quella degli egizi assorbendo segni ancora tangibili della loro grande civiltà. Basti pensare alle preziose quanto poco conosciute zone archeologiche lungo l'ansa del Nilo, che delimita la Nubia appunto, e che è la meta del nostro viaggio. Dall'Italia a Khartoum, con sosta a Francoforte, visto che la compagnia aerea di cui ci avvaliamo è la Lufthansa. Khartoum ha il colore della sabbia, le case basse senza intonaco scandite da un intrico di vie intersecate da altre vie tutte parallele. Nelle zone lontane dal centro l'asfalto lascia il posto alla terra battuta, forse sabbia, che rende polverosa l'aria e impoverisce l'atmosfera penetrando nei vecchi portoni e nelle bottegucce di generi comuni. Il calore della storia viene dalla Khartoum coloniale, quella costruita dagli inglesi agli inizi del Novecento che conserva tutto il fascino del loro stile. Persino da certi alberghi, come l'Holiday Villa, in perfetto coloniale inglese dove alloggiarono britannici illustri come Winston Churchill e la Regina Vittoria. Anche noi lo abbiamo scelto, preferendo la storia alla sfarzosa modernità di alberghi come l'adiacente lussuoso Burj Al-Fateh Hotel, realizzato nel 2009 in stile hi-tech dalla società italiana CMC . I due alberghi, pur così diversi, godono di un comune privilegio, quello di affacciarsi entrambi sulle mitiche acque del Nilo che proprio qui, in Nile Road, raddoppia la sua leggenda mescolando i due vigorosi rami, il Nilo azzurro e il Nilo bianco. Il Nilo, laccio fertile che annoda Mediterraneo e Africa nera, irrorò di linfa vitale terreni e civiltà che lungo le sue sponde eressero i loro sacrari. Buhen, Semna ovest e Semna est, tre templi portati in salvo dalle acque quando il Lago Nasser sommerse la Seconda Cataratta del Nilo , sono stati ricomposti proprio a Khartoum , nel Museo Archeologico, dove comincia a delinearsi in noi la consistenza e la

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Sudan: l'archeologia raffinata della Nubia

raffinatezza di quelle civiltà antiche, come la Kerma che si colloca tra il 2500 e il 1500 a.C. Il nostro viaggio ci dirige a Nord, all'interno della regione nubiana, nella grande ansa del Nilo. Con la piccola carovana di fuoristrada attraversiamo un territorio desertico, geologicamente variegato, tra i suggestivi graniti della sesta Cataratta, le dune color ocra da cui affiorano piramidi appuntite e templi, le montagne sacre e i siti archeologici. Raggiungiamo Naga, simbolo della

civiltà meroitica. Un corteo di sfingi con le sembianze di ariete guida lo sguardo verso il tempio del dio Amon, mentre ad Apedemak, il dio leone, è dedicato un altro tempio con un bel portale e grandi raffigurazioni in rilievo. I due templi dividono lo spazio con un raffinatissimo chiosco facendo di questo luogo una chicca dell'archeologia. Meta di studiosi il Grande Recinto, nella vicina Musawwarat, con vasti androni e un tempio del I° secolo d.C.. Ancora ogget-


to di scavi archeologici, del Grande Recinto non si sa molto. E' presumibile che sia stato dedicato al dio elefante, almeno a giudicare dai numerosi bassorilievi e raffigurazioni, ma da alcuni si sostiene che fosse un centro di raccolta e di addestramento per gli elefanti, grazie anche alla presenza di un'enorme cisterna per l'acqua che viene ancora utilizzata dagli abitanti dei villaggi vicini. Quaranta vette aguzze disegnano un insolito, emozionante orizzonte su quelle colline di sabbia che al tramonto s'infiammano della suggestione piĂš totale, immerse in un silenzio eloquentissimo. E' la Necropoli reale di Meroe , utilizzata fra il 400 a.C. ed il 400 d.C. nel periodo di maggior splendore della civiltĂ meroitica e oggi a buon diritto dichiarata Patrimonio dell'UmanitĂ . Re e regine ripo-

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sano qui, nelle tombe ipogee sovrastate dalle vere e proprie piramidi, orpelli, strutture funerarie esterne. A differenza delle sepolture faraoniche egizie, che avvenivano in un antro della piramide stessa. Di fronte ad alcune piramidi, discrete cappelle votive con bassorilievi narrano le gesta del Faraone o raffigurano le divinità. I siti archeologici del Sudan non hanno nulla a che invidiare a quelli del vicino e ben più visitato Egitto, quanto a valore storico e artistico. La minore imponenza è compensata dalla raffinatezza di queste strutture raccolte, erette in aree naturalistiche che di per sé offrono intimità ed atmosfera. Un'intimità che rimane tale per via di quella selezione di cui si parlava: il Sudan è una meta per viaggiatori e non per turisti. Qui neanche in piena stagione, quella che va da ottobre ad aprile, si sarà privati di quella quiete necessaria per entrare nella storia in punta di piedi. Anche lungo il viaggio la solitudine è assicurata. I rari incontri però sono significativi per penetrare l'essenza di questo mondo e di questa gente così poco abituata a presenze estranee. Un'occasione da non perdere in questo senso è l'attraversamento del Nilo con i ponton, vecchi traghetti di ferro, traballanti, che tutto il giorno attraversano il fiume da una sponda all'altra, da Atbara alla riva orientale e viceversa. Quel breve passaggio, a partire dalle attese che possono essere anche lunghe e imprevedibili, mostra uno spaccato di vita locale, tra carretti, contadini carichi di fagotti, asini e quant'altro. Arrivati in qualche modo dall'altra parte, ci inoltriamo nel deserto del Bayuda, territorio di nomadi kababish e bisharin, verso Napata. Il Bayuda non lascia spazio alla monotonia. La pianura sassosa interrotta solo dal solco di fiumi secchi da tempo immemorabile, ad un tratto si solleva nel profilo ruvido delle montagne che dal colore nero tradiscono la loro origine vulcanica per poi distendersi di nuovo in enormi spianate di sabbia gialla dove la vegetazione è praticamente assente fatta eccezione per una pianta endemica che produce una deliziosa piccola zucca verde, decorativa quanto infida: è estremamente velenosa. L'aridità complessiva del Bayuda ne fa una zona desertica in senso letterale. Qui non vive quasi nessuno salvo alcuni nomadi che spostano mandrie di cammelli e dormono in rudimentali capanne di rami secchi costruite vicino ai rari pozzi. Torniamo dall'altra riva del Nilo, e raggiungiamo Karima e il Jebel Barkal , la montagna sacra. I sudanesi l'hanno particolarmente a cuore e appena possono vengono qui e vi si arrampicano fino a scorgere, dall'alto, la pianura sabbiosa attraversata dal percorso sinuoso del Nilo e una parte del Bayuda. All'alba lo spettacolo si tinge di rosa svelando poco a poco tutti i profili. Ai piedi del Jebel Barkal, che respira ancora l'aura religiosa della Nubia, si trova il tempio di Amon e, scavato nella roccia, un androne affrescato dedicato alla dea Hator insieme alle 2 magnifiche colonne all'ingresso con la sua immagine . Intorno al Jebel le necropoli reali dell'antica città di Napata, capitale della Nubia dal 740 al 350 a.C. prima del periodo meroitico, si

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trovano a Nuri e a El Kurru, dove è possibile visitare due tombe ipogee dai magnifici affreschi. A El Kurru, un piccolo villaggio silenzioso e apparentemente deserto, abbiamo avuto la misura di quanto i nubiani possano essere ospitali e affabili. Siamo stati invitati in casa di una famiglia numerosa che ci ha accolto con calore offrendoci, come da rituale, un bicchiere di Karkadè. Un approccio che ci ha aperto la strada ad un rapporto sempre più vicino con i nubiani percorrendo, nella parte finale del nostro viaggio, la zona dei villaggi. Lo spirito dell'accoglienza che li contraddistingue e che è radicato nella loro natura comincia da lontano quando, vedendoci arrivare in carovana con i fuoristrada, ci vengono incontro in gruppo. Frotte di bambini ci raggiungono, scoprono le nostre macchine fotografiche e ci offrono il loro sorriso per un'immagine da rivedere immediatamente sul display. Donne dai volti bellissimi, dalle espressioni intense con il viso ammorbidito dai drappi colorati, lo sguardo approfondito dal khol , le mani e i piedi decorati con l'Hennè. Secondo un rituale che si ripete nelle occasioni importanti, in complicità tra donne, nel punto più ombreggiato del cortile di casa. Ci si confida l'una con le altre mentre la decoratrice improvvisa motivi floreali o scaramantici. Il cortile è il centro di aggregazione familiare di queste umili case, sempre molto vasto, con panche o sedili a disposizione anche per amici o viandanti. Quasi inesistenti i mobili ma molte le brande sempre pronte nelle varie camere da letto nell'eventualità che passi qualcuno stanco per il viaggio o per il caldo che a volte raggiunge livelli ragguardevoli. Noi abbiamo avuto anche giornate con 54°C, ad ottobre! Per gli stessi motivi, nel cortile, o in certi casi addirittura all'esterno dell'abitazione, vengono poste delle giare di terracotta piene d'acqua da cui chiunque possa attingere se ha sete. Forse fa parte di questo fortissimo senso dell'ospitalità anche l'usanza di decorare a tinte vivaci il portone di accesso, come segno di benvenuto. L'operatore milanese “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34 93 45 28, www.desertiviaggilevi.it ), specializzato in percorsi di scoperta nei deserti di tutto il mondo, è uno dei pochissimi ad organizzare viaggi nel nord del Sudan, dove dispone anche di due strutture ricettive proprie di elevato livello, il campo tendato fisso presso i resti dell'antica capitale Meroe e un raffinato resort nel Jebel Barkal, la montagna sacra della Nubia. Nel proprio catalogo “Deserti” propone tra l'altro una spedizione in fuoristrada di 16 giorni che tocca i diversi ambienti geografici e le principali località archeologiche lungo l'ansa del Nilo. Partenze mensili di gruppo con voli di linea Lufthansa da Milano e Roma da ottobre ad aprile 2011, pernottamenti in tenda, onde poter raggiungere anche gli angoli più remoti, e in alberghi in pensione completa, guida italiana, quote da 2.890 euro. In Nubia Viaggi Levi organizza anche altri itinerari della durata da 9 a 16 giorni.


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Il SABI-SABI Ieri, oggi e domani nella savana Sud Africana

Testo di Iliana Romano

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Lasciatevi tentare da un modo unico, impareggiabile per vivere il safari, l'esperienza più selvaggia ed emozionante che offre il Sud Africa. Un modo che vi trasporta in tre realtà temporali e stilistiche profondamente diverse. Ognuno con un fascino capace di suscitare profondi sentimenti, come profondi sono quei sentimenti risvegliati da una permanenza nel bush africano a contatto con gli animali e con il loro habitat che, è proprio il caso di dirlo, fanno la parte del leone di un viaggio in Sud Africa. Ci troviamo nella savana, ai confini del Kruger National Park che si estende per oltre 2 milioni di ettari tra le province di Limpopo e Mpumalanga, nella riserva privata di Sabi

Il Sabi-Sabi. Ieri, oggi e domani nella savana Sud Africana

Sands, dove sorgono lo ieri, l'oggi e il domani di un soggiorno nella savana africana: il Selati Camp, il Sabi Sabi Bush Lodge e l'Earth Lodge. Il Kruger fa parte del Parco della Pace, un ambizioso progetto transfrontaliero grazie al quale gli animali sono liberi di migrare tra il Sud Africa, lo Zimbabwe e il Mozambico e che annovera un parco faunistico grandioso: oltre 100,000 impala, 30,000 zebre, 15,000 bufali, quasi 8,000 elefanti, 5.000 giraffe, 2.500 ippopotami, 2.000 rinoceronti e 2.000 leoni, 300 ghepardi e quasi mille leopardi. Nei tre lodge a Sabi Sabi la giornata è scandita da tempi rigorosamente prestabiliti. In piedi prima dell'alba per sorseggiare un tè o


un caffĂŠ prima di partire in piccoli gruppi per un safari su pesanti fuoristrada accompagnati dal proprio ranger e tracker. Alle 10.00 si torna al campo per la prima colazione mentre, dopo pranzo, le ore calde sono dedicati a momenti di relax intorno alla piscina. Nel pomeriggio si riparte per il secondo safari della giornata che si conclude al buio, lasciando giusto il tempo per un aperitivo al bar prima di cenare sotto il magnifico baldacchino stellato del cielo del sud.

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Il nostro percorso inizia nel Selati Camp, il lodge di ieri di Sabi Sabi, quello più intimo, dove le otto casette hanno tetti in paglia e l'illuminazione, sia esterna che interna, è affidata a lampade a paraffina, regalando al complesso un bagliore caldo e suggestivo. Al Selati è facile sognare i tempi in cui i white hunters perlustravano la savana a caccia di emozioni forti e di trofei da riportare a casa, testimonianza della loro prodezza davanti ai pericoli del Continente Nero. Qui batte ancora un cuore che risale al 1870, e alla costruzione della stazione ferroviaria che era un punto di snodo per l'oro, scavato nella catena montagnosa del Drakensberg, lungo il suo percorso verso la costa del Mozambico da dove salpavano le navi che portavano il prezioso carico sui mercati occidentali. Lasciando il passato di Selati si passa all'oggi di Bush Camp, il più classico dei tre lodge, una struttura in puro stile “La mia Africa” con grandi spazi e lussuose suite in stile etnico contemporaneo. Anche qui è forte l'attenzione all'ambiente e agli animali che sono i padroni assoluti del territorio. Al Bush è facile avvistare gli elefanti. Vengono spesso per abbeverarsi al piccolo laghetto nei pressi del lodge, e non è raro vederli a distanza ravvicinata mentre avanzano

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solennemente in fila indiana alla ricerca di nuova vegetazione del quale cibarsi. Nelle ore notturne, sulle brevi distanze che separano le villette residenziali dal lodge, si viene sempre accompagnati da un ranger armato di fucile. Niente di più facile imbattersi in un elefante, una leonessa o un leopardo, che sono tra i più temuti dei predatori notturni. Facile per un neofita fare un passo falso, e quindi è necessaria la presenza del ranger il cui fucile servire unicamente per intimorire gli animali. Arrivati all'Earth Lodge non rimane che lasciarsi proiettare dentro il futuro. Il primo impatto è forte, persino sconcertante. Non ci sono strutture in vista. Solo la savana inospitale che spazia senza soluzione di continuità tra bassi rilievi nel territorio. Scendendo un viottolo di terracotta che scompare sotto la savana si arriva davanti ad un portale in legno massiccio oltre il quale si apre una scenografia in piena simbiosi con la natura. L'atrio futuristico invade lo spazio esterno, spingendo lo sguardo verso il bushveld di cespugli, alberi e tronchi d'albero morti per fermarsi sulla sagoma ingombrante e inconfondibile di un elefante. Marrone, ocra, bruno seppia, tek e l'intera gamma di tonalità brunite sono i colori di Earth Lodge. Dalle pareti rifinite con fango, dalle quali spuntano pietruzze e paglia, ai

Il Sabi-Sabi. Ieri, oggi e domani nella savana Sud Africana


pavimenti in cotto e legno, ai giganteschi resti di alberi, sapientemente trasformati in lunghi tavoli, panche e sedie che sono stati recuperati dai fiumi dopo la disastrosa alluvione del 2000. Scolpite dalla natura e plasmati dall'architetto per dare al lodge, e alle 13 suite, un'impronta fortemente ecologica giocata, con geniale estrosità, su forme spoglie e contorte e sulle sfumature sobrie della savana africana senza mai trascurare gli alti livelli di lusso e comfort. La giornata si conclude, dopo il tramonto, al Boma- dall'inglese British officers'

mess, la mensa degli ufficiali britannici - per una cena romantica sotto il manto stellato, e per immergersi nel arcano di questo luogo magnifico e solitario: il più esoterico e audace dei lodge Sabi Sabi. ENTE TURISTICO SUDAFRICANO Via Mascheroni 19/5 – 20145 Milano Tel. 02 43911150/765 Fax 02 43911158 info@turismosudafricano.com www. turismosudafricano.com

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L'oasi di Siwa

Una favola nel Duemila Testo di Marinella Rewinski e Foto di Pamela McCourt Francescone Il lungo viaggio in macchina non ci aveva fatto presagire nulla di quell'incredibile realtà che avremmo trovato a Siwa, se non negli ultimi chilometri quando l'esile lingua d'asfalto all'improvviso s'insinua come una lama d'acciaio a spaccare in due il deserto. Andatura lenta, lentissima, anche se non c'è ombra di veicoli di nessun genere. Per non disturbare il silenzio, forse, per non interrompere la linea piattissima di quella sabbia indurita dal sole fino a formare una sottile crosta lucente, infuocata da un tramonto senza pari. E lo sguardo si abitua a quelle forme senza sbalzi, fino a quando in lontananza si scorge un rilievo frastagliato, quasi un gioco della sabbia, stesso tono di ocra chiuso. Da più vicino si fanno chiare delle

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L'oasi di Siwa una favola nel Duemila

silhouette inconfondibili, musi di cammelli contro il sole che si arrossa, ombre cinesi, graffiti ancestrali. Poi, tutto ritorna piatto, familiare, rassicurante. E l'emozione serpeggia sottopelle, tenuta a bada da quella tranquillità. Tutto esplode alla fine di quel paesaggio, quando il deserto si apre all'annunciata oasi: Siwa. Già dal primo impatto l'emozione si fa stupore, incredulità. Il crepuscolo ha smussato i profili delle casette di fango e anche i toni della vita quotidiana, lasciando come unico segno un pittoresco viavai di carretti scossi dal trotterellìo di magri asinelli. Portano a casa soprattutto uomini, in lunga tunica bianca, raramente affiancati da una donna coperta dai drappi tradizionali e con il viso nascosto da un velo

nero. Nessun rumore, solo lo scricchiolìo delle ruote su un asfalto ormai freddo. In che epoca siamo, qui? Difficile a dirsi. Di certo un tempo senza compromessi in cui i siwani dividono la loro casa con la storia , vicini come sono ai ruderi millenari di templi, fortezze e necropoli. Proprio lì, a due gradini dalla piazza principale c'è la Fortezza di Shali, la fonte della vita, quella di Siwa, almeno, visto che si tratta del primo nucleo di abitazioni attorno a cui poi si è sviluppato tutto il resto. Forme naif, molto vicine a quelle create facendo colare sabbia bagnata sotto il solleone, apparentemente effimere come la favola e il mito, ma resistenti da allora ai nostri giorni. Lo stesso giallo sabbia che si illanguidisce al sole calante


per poi impreziosirsi la notte, grazie ad una sapiente illuminazione che rende quelle forme paradossalmente avveniristiche, simili a dischi volanti. Sempre a sovrastare il paese, Il Gebel Al-Mawta, il Monte dei Morti, scrigno mistico di tombe risalenti al periodo compreso tra l'era tolemaica e quella romana per gli ultimi regnanti che fecero di Siwa un appoggio strategico. Fuori piccole aperture simili alle colombaie delle necropoli etrusche, all'interno alcune tombe si aprono con la dignità dell'arte con affreschi raffiguranti divinità egizie. Dalla sommità di questo monte, che nel grigio della roccia racchiude l'immobilità dell'eterno, si apre agli occhi una dinamica fertilità fatta di immensi palmeti e olivi e corsi d'acqua i cui colori intensi, dal verde al blu, virano nel morbido ocra delle dune del Sahara. Laggiù, all'orizzonte. Seguendo il sentiero che conduce al Tempio di Amon dal cui oracolo Alessandro Magno apprese tutti i dettagli del suo incredibile destino, l'oasi si fa rigogliosa, fitti palmeti si aprono alla frescura di vasche e sorgenti, tra cui la fonte in cui si bagnava Cleopatra e che ancora oggi è frequentata, forse più per devozione nei confronti della mitica regina che per pura voglia di fare un bagno. Un privilegio riservato soprattutto ai turisti visto che a Siwa vigono regole ferree che non consentirebbero mai ad una donna di bagnarsi in pubblico. Qui la donna vive una dimensione fuori dalla comune comprensione visto che se non si sposa entro i 25 anni viene considerata zitella e non interessa più ai locali; finisce ad occuparsi della famiglia con poche speranze per il futuro. Se si sposa, le cose non vanno molto meglio. Non può più uscire di casa se non per motivi importanti e accompagnata da un uomo di famiglia, marito, padre, fratello, persino da un bambino, purché sia maschio naturalmente. E quando esce deve coprire il viso con un velo nero e indossare una sorta di manto, uguale per tutte: una trama azzurra con un ricamo lineare, sul dietro, che sembra raffiguri le ultime lettere dell'antico alfabeto siwi, la lingua berbera che parlano solo qui. Può darsi che per le donne siwane la situazione non sia così drammatica come sembra a noi. Intanto le donne si vedono con il resto della famiglia, in casa stanno senza veli, la sessualità non è bandita, anzi Maometto dice che la donna deve compiacere il marito. La poligamia qui non è molto diffusa perché non tutti se lo possono permettere economicamente. L'islam è basato molto sul contratto, quando ci si sposa si mette tutto nero su bianco. Religione a parte Si è lavorato molto a Siwa per aiutare i suoi abitanti ad evolversi e ad ottimizzare le loro risorse. Grazie soprattutto ad uno degli 8 Progetti di Ricerca e Cooperazione realizzati in seno al Cospe in Egitto, finanziati dal Ministero degli Esteri italiano.Tutti i progetti che si sono svolti in Egitto e che sono stati coordinati dal Cairo riguardavano vari aspetti dell'ambiente: creare o sviluppare aree protette, migliorare l'organizzazione dello smaltimento e del riciclaggio dei rifiuti, recuperare le aree archeologiche, controllare le acque del Nilo e dei canali d'irrigazione. A Siwa è stato realizzato il Progetto ambientale rivolto al miglioramento e alla diversificazione dell'agricoltura, anche se le due grandi risorse, qui, sono le palme da dattero e gli olivi. La difficoltà maggiore è stata convincere i siwani della bontà di certe tecniche. Per esempio, loro non potavano gli olivi per cui la produzione era incostante. Ma li bloccava il loro essere diffidenti ed eccessivamente prudenti: la potatura costa, dunque, se non c'è la sicurezza matematica di un miglioramento preferivano rimanere ancorati alle loro abitudini. Anche l'apertura al turismo è molto lenta. Qui a Siwa i turisti hanno cominciato a venire pochissimi anni, 17 anni fa non c'era niente. Diciassette anni fa, quando l'isolamento assoluto di Siwa è stato bruscamente interrotto dalla costruzione di quell'unica

strada asfaltata che oggi la collega alla costa mediterranea dell'Egitto. Oggi ci sono vari alberghi, alcuni decisamente sorprendenti come l'Adrere Amellal che ha già avuto ospiti eccellenti come il Principe Carlo e Camilla, Paola di Liegi e Madonna. Un po' fuori mano, in un posto quantomai suggestivo sulla riva di un lago, protetto da concrezioni sabbiose disegnate dal vento, l'Adrere Amellal è un albergo inusitato, tutto costruito osservando criteri ecologici, con argilla e polveri saline. Un tempio della natura nella natura, eccentrico nella sua estrema semplicità. Da vedere. L'Oasi di Siwa, di per sé non facilmente raggiungibile, è inserita in 3 diversi itinerari nel deserto egiziano de “I Viaggi di Maurizio Levi” (tel. 02 34934528, www.deserti-viaggilevi.it) Ente Turismo Egitto Via Bissolati 19 - 00187 Roma Tel. 06 – 4874219/985 - fax 06 – 4874156 ufficio.1@Infoturegitto.it www.egypt.travel

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Montagna

Neve e benessere a Bansko in Bulgaria

A circa due ore di macchina da Sofia, Bansko è una stazione sciistica molto rinomata che consente di abbinare il piacere dello sport sulla neve al benefico relax nei moderni centri Spa. Bansko è situata a 950 m di altezza sul livello del mare, ha circa 11.000 abitanti, il suo centro storico è ricco di edifici antichi caratterizzati dalle alte mura di pietra. E' famosa anche per la sua scuola d'arte dove si sono imposti diversi artisti molti dei quali hanno contribuito a decorare lo splendido interno del maestoso Monastero di Rila patrimonio UNESCO a circa un'ora e mezza da Bansko (merita una visita sia per l'architettura che per il paesaggio). La città offre una vastissima gamma di residence e alberghi con centri Spa di differenti categorie, tutte moderne e bene attrezzate che si sviluppano dal centro storico fino ad arrivare ai piedi della montagna, in un contesto dove lo sviluppo urbanistico è ancora molto attivo. Gli impianti sciistici sono all'avanguardia e vanno da 990mt a 2.600 mt s.l.m. Ci sono 16 piste ( la nona è denominata Pista Alberto Tomba, il campione ha contribuito a sviluppare e pubblicizzare queste montagne) per un totale di 70 km con livelli di difficoltà per tutti “i gusti” , è possibile praticare sci, snowboarder's, sci di fondo e pattinaggio sul ghiaccio. Le strutture sono completate da 26 km di impianti di risalita tra skylifts, seggiovie e cabine e da 181 cannoni per innevare le piste quando la neve è insufficiente. Per il dopo sci Bansko offre diversi intrattenimenti come: casinò, discoteche, locali notturni, piano bar, ristoranti, oltre naturalmente ai favolosi e attrezzatissimi centri Spa che si trovano in tutte le strutture alberghiere di vario livello.

L'ingresso e l'uso delle attrezzature sono gratuiti per quelli che soggiornano nella struttura, a pagamento solo i trattamenti, con prezzi veramente concorrenziali rispetto ai nostri centri Spa. Gli hotel hanno un' architettura tipica del paesaggio di montagna, in muratura e legno, sono ben tenuti e all'interno curati e arredati con gusto ed eleganza; vanno da un 3* superior a un 5* lux. Ci sono anche molti aparthotel. Per gli amanti del Golf, a 5 km da Bansko, raggiungibile con una navetta bus gratuita, c'è il centro Pirin Golf & Country Club, uno dei pochi luoghi di vacanza in Europa che offre la classe di golf, sci , benessere e centro termale in un unico ambiente idilliaco che unisce esclusività e convenienza. La struttura , con un campo da golf di 18 buche di alto livello, si compone di 3 distretti richiamando la tipica struttura di una cittadina con il suo centro animato e i diverse zone residenziali ( tipo albergo diffuso). Come afferma Osvaldo Muffo, managing director di Aternum Viaggi “Con 400, 450 euro si va una settimana in mezza pensione in un Hotel a 4*. La quota oltre al soggiorno, comprende anche il volo Roma o Milano/Sofia A/R, trasferimenti, Sofia/Bansko A/R, assistenza in italiano e tasse municipali”. La presenza italiana a Bansko finora è molto ridotta, il primato va a Grecia, Russia e Paesi sovietici , poi ci sono i tedeschi, francesi, inglesi e turismo locale nei fine settimana. Aternum viaggi che da 30 anni opera nell'attività di T.O., uno tra i più specializzati sull'America Latina e Madagascar, da 6 anni si occupa anche della Bulgaria con particolare riferimento all'intera Costa bulgara del Mar Nero (unico T.O. in Italia con tale programmazione),con successo

Testo di Mirella Sborgia

crescente sull'area che ha determinato l'apertura di un ufficio incoming e autgoing a Varna. Quest'anno Aternum viaggi ha deciso, in collaborazione con BULGARIA AIR e ALITALIA, di uscire anche con una programmazione invernale dedicata allo sci e allo Spa, con particolare riferimento all'area di Bansko.. Per quanto riguarda i voli, Bulgaria Air in codeshare con Alitalia, ha 12 voli diretti a settimana su Sofia da Roma Fiumicino e 5 voli a settimana da Milano Malpensa .

Foto di Mirella Sborgia

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Courchevel:

Vacanza sulla neve a 5 stelle Una stazione sciistica top level sulle Alpi francesi dell'Alta Savoia

Testo di Viviana Tessa

Furono i battitori d'asta parigini i primi ad apprezzare i pendii innevati di Courchevel. Nell'ultimo dopoguerra, quando la voglia di rinascere era pressante. E qui, in questo angolo di Tarentaise, lo spirito mondano si esprimeva in cene e feste allestite dai primissimi, audaci albergatori. Un lusso che quei gaudenti non sempre potevano permettersi, a meno di inviare, a saldo conto, mobili antichi e oggetti d'arte. Il passaparola nella Parigi-bene e nella borghesia savoiarda fece il resto. E il successo fu inevitabile. Eleganza, prestigio e professionalità, ereditati da quei pionieri dell'ospitalità con il bernoccolo degli affari, fanno ancora oggi di Courchevel una meta ambita da sportivi esigenti i quali, da una stazione sciistica tra le cinque più importanti al mondo, pretendono un'accoglienza di alto livello. Quarantaquattro alberghi, di cui 11 a cinque stelle, 4 a quattro stelle lusso e 7 a quattro stelle. Al passo con Cannes, capitale della mondanità francese. Senza contare che, qui, anche le tre stelle sono di lusso, lustrate dall'atmosfera calda e coinvolgente che nasce dai legni e dal sorriso dello staff. Essenziale, in questi hotel, è il comfort e il servizio. Non solo il servizio tecnico, cioè l'efficienza, ma anche la disponibilità, il sorriso, il garbo di tutto il personale. L'attività sciistica si svolge tra le 9,30 e le 17; il resto della giornata, in hotel, deve poter essere vissuto all'insegna della piacevolezza e del benessere. Per legge, gli alberghi lusso o deluxe qui devono avere il centro fitness. Sauna, massaggi, Jacuzzi, a volte la piscina. Lo sanno bene gli albergatori di Courchevel i quali in altri lussuosi versanti come quello della Costa azzurra, accolgono la crema del turismo estivo visto che qui, la stagione è solo inverno.

NEVE E ANCORA NEVE Tutto nasce con la neve, dunque, a Courchevel. Sempre perfettamente battuta, grazie al silenzioso scivolare notturno di 34 gatti cingolati. Sempre abbondante, grazie ai 637 cannoni che ne fabbricano di fresca, tanto per aiutare la natura. Sempre sicura, grazie agli 80 sparavalanghe, sofisticati dispositivi di disinnesco radiocomandato delle valanghe. Seicento chilometri di piste con 311 discese da verdi a ripidissime nere nel circuito delle Tre Valli e 200 impianti di risalita, fanno di questo comprensorio sciistico, un'azienda altamente competitiva. Quanto alla Valle di Courchevel, che si snoda in una inconsueta spirale a 4 livelli di altitudine ( 1300-1550-1650-1850), la S3V ( Société des Trois Vallées) ha lanciato “Courchevel le club “ un legaccio più stretto con i clienti affezionati i quali vengono periodicamente informati su condizioni e iniziative della stazione invernale. Compresi i programmi delle tre grandi scuole di sci in cui ben 700 maestri francesi si impegnano a trasformare sciatori impacciati in abili frequentatori di piste, anche delle 13 nere.

ACCOGLIENZA AL TOP LEVEL Sono tutti qui gli alberghi più lussuosi di Courchevel. Anzi, sono quasi tutti qui, gli alberghi, i ristoranti e i caffè. Al livello 1850. Al top. E non solo geograficamente. Courchevel 1850 è la classica ciliegina sulla torta. Una torta a quattro alzate. Qui, la neve è griffata. Qui si concentra la mondanità, il lusso, il cuore dell'ospitalità. Qui si alternano, in suggestiva scenografia, silhouette alberghiere e grandi chalet. Fu Madam Fenestraz la prima a volere, qui, uno chalet stile Gstaad, il villaggio di Bellecote. L'inizio di un leitmotiv architettonico sofisticato che disegnò il profilo ricco di Courchevel. Alcuni chalet degli anni Sessanta portano la firma dell'architetto futurista Denys Pradelle, con grandi vetrate e tetto piatto, a farfalla. Gli alberghi. Impronta calda, confortevole, elegante. Tutti a portata di piste. Quasi sempre si può uscire dall'hotel con gli sci ai piedi e agganciarsi allo skilift. Quasi sempre è possibile concedersi un pasto leggero nel ristorante annesso, con vista neve. Spesso le strutture sono immerse nel bosco, che isola e abbraccia in atmosfere fiabesche. L'alto livello dell'accoglienza a Courchevel è frutto di investimenti generosi e lungimiranti, se è vero che l'afflusso è sempre più elevato, anche riguardo al target. Investimenti periodici e continui, per mantenere, rinnovare, ampliare.

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Courchevel: vacanza sulla neve a 5 stelle


L'EVOLUZIONE DEI 4 LIVELLI : 1300, 1550, 1650, 1850 All'inizio Courchevel era un paese, molto antico, ai piedi della montagna, la cui unica risorsa era l'agricoltura. In inverno gli abitanti rimanevano giù, in estate pascevano il gregge e facevano formaggi. Poi decisero di costruire dove la gente cominciava ad arrivare e salirono su fino ai 4 livelli. Tutti i livelli cominciarono ad essere abitati in estate, in cottage di campagna. Il livello 1850 è diventato il top, non solo geograficamente. I resort a Courchevel 1850 si sono sviluppati più degli altri. Dopo la guerra qui sorsero le più moderne strutture, alberghi a 4 stelle, ristoranti di lusso, 2 stelle Michelin. I turisti si selezionano da soli in base al livello dell'accoglienza. Gli alberghi al 1850 sono più cari perché più moderni, più confortevoli, più lussuosi. Praticamente quasi tutti gli alberghi sono in quest'area. Nel livello 1650 ci sono 3-4 hotels, nel 1550 gli alberghi sono solo 2. Tutti gli hotel sono di altissimo piano e il rapporto prezzo qualità è buono. Anche se ci sono 4 livelli, Courchevel è considerato un unico territorio, tutti lavorano per la stessa causa. Il 95% degli alberghi è aperto solo d'inverno, da Natale a Pasqua, cioè da dicembre ai primi di maggio. Questa è la ragione per cui la maggior parte degli albergatori di Courchevel ha un altro albergo estivo da un'altra parte, soprattutto in Costa Azzurra. Molti affezionati che ogni inverno vengono qui, hanno preso l'abitudine di andare d'estate in Costa Azzurra, presso lo stesso albergatore. www.courchevel.com ENTE NAZIONALE FRANCESE PER IL TURISMO MAISON DE LA FRANCE Via Tiziano 32 – 20145 Milano Tel. 02 5848656 fax 02 58486222 www.franceguide.com info.it @ franceguide.com

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Montagna

L'eccellenza della Val D'Aosta, la montagna

Una regione che vanta quattro tra i monti più alti di tutta Italia ed Europa (Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa e Gran Paradiso)

Testo di Luisa Chiumenti

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L'inverno in Val d'Aosta, a cominciare dalla Valle centrale diventa soprattutto la stagione delle località turistiche che si trovano alle quote più elevate, anche se soggiornare nei paesi del fondo valle permette di abbinare alle giornate di sport e neve quelle di riposo e cultura, ad esempio nei castelli, qui particolarmente numerosi. La stazione sciistica principale é Champorcher, nell'omonima valle, che offre un comprensorio sciistico di 21 km. di piste sempre ottimamente innevate e adatte ad ogni tipologia di sciatore, mentre i bambini hanno a disposizione il rinnovato Baby Park Laris con divertenti discese di snow tubing, una evoluzione della classica discesa con slittino che simula il percorso del più tradizionale e noto rafting sul fiume, sostituendo la neve all'acqua e un canotto circolare mono o biposto al gommone. Come si allena il corpo standosene seduti su un canotto che scivola sulla neve? Si direbbe riposante. E invece gli addominali rimangono contratti per tutto il tempo e aiutandosi con l'equilibrio di braccia e gambe si aggiusteranno direzione e velocità, migliorando sia la coordinazione che il tono muscolare. E ancora, ecco la nuova pista di miniquad in cui i

L'eccellenza della Val D'Aosta, la montagna

bambini possono cimentarsi in sella a un quad su misura per loro lungo un percorso dedicato, in totale sicurezza. Un parco giochi sulla neve, allestito per il divertimento insicurezza dei più piccoli é presente anche nella stazione del Col de Joux, poco oltre Saint Vincent, a cavallo con la Val Ayas. E percorrendo una delle strade più panoramiche della regione si raggiungono i 1640 m.s.l.m. del Col de Joux, antico ed importante passo di transito tra la valle centrale e le vicine valli d'Ayas e di Gressoney. Da parecchi anni vi si trova un interessante comprensorio sciistico, sempre bene innevato e servito da un moderno impianto di risalita. (Date le sue piste tecniche, la squadra nazionale francese di sci alpino lo ha, recentemente, scelto per gli allenamenti). E qui è stato anche allestito, per il divertimento in sicurezza dei più piccoli, uno snow park di nuova concezione. Il “Joux Park Giocaneve” offre percorsi con figure e ostacoli animati, archi, gonfiabili e tapis roulant per la risalita, mentre per gli sciatori, i 7 chilometri di piste di media difficoltà accontentano coloro che desiderano trascorrere una piacevole giornata con la famiglia o


abbronzarsi passeggiando tra bellissimi panorami. Durante tutto l'inverno, con innevamento artificiale per tutta la stagione, usando anche le racchette, ci si può anche addentrare nella magnifica foresta di abete rosso e larice, mentre ristoranti e bar ben attrezzati attendono gli ospiti per il dopo sci o il dopo passeggiata. Mete ideali per lo sci alpinismo e le racchette da neve in luoghi dove la natura ed il silenzio regnano sovrani, si trovano a Champorcher e il comprensorio di Verrayes, dove la pista Champlong si collega con quelle di Torgnon. E se Ê sempre molto bella l'esperienza di un Capodanno in Val d'Aosta con un appuntamento, ad esempio ai piedi del Cervino, con una grande festa che vede protagonisti i maestri di sci, le Guide del Cervino, gli atleti degli sci club locali e tutti gli ospiti, con una suggestiva fiaccolata, sono davvero tante le esclusività di una vacanza ai piedi del Cervino. Si pensi alla curiosa possibilità , ad esempio, di salire a bordo di un gatto delle nevi e partecipare dal vivo alla battitura delle piste, dalla chiusura dei tracciati all'ora di cena e n°1 - marzo 2011

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oltre, cullati dalle strane movenze di quelle particolari macchine che sanno sollevare vere e proprie onde di neve. Per concludere poi l'inusuale esperienza con una cena ad alta quota (ad esempio al Rifugio delle Guide di Plateau Rosà, m.3500) insieme ai “gattisti”, ascoltando racconti di montagna, aneddoti e storie di un mondo che lavora attorno allo sci. E sempre attorno al Cervino, che dire di quelle splendide “Discese con la luna piena” , che vengono spesso organizzate, su iniziativa della Società Impianti Cervino S.p.A., con il nome accattivante di “Tintarella di luna” e seguite con grande successo dai turisti ospiti nelle serate invernali più nitide e limpide, allorché, dopo romantiche cene (grande cucina, calore e piacere di stare assieme, maestri e allievi, ospiti e gestori dei rifugi protagonisti di questa iniziativa unica nel suo genere), vengono proposte appunto le discese in notturna ai piedi del Cervino. C'é naturalmente sempre, a disposizione degli sciatori e di tutti gli ospiti, un elenco dei

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rifugi che aderiscono all'iniziativa, in corrispondenza di piste quali quella del “Ventina” o la pista “6” (zona Bontadini - Plan Maison, con arrivo in paese sul versante “Cretaz”), in ragione dei giorni scelti per la discesa con la luna piena. Il fascino del Cervino, come monumento naturale fu sentito da scrittori, poeti, artisti ed architetti in ogni tempo e fra questi ultimi é da menzionare una bella frase di John Ruskin , in cui viene menzionato come “Il più nobile scoglio d'Europa”. E se l' Heliski é un moderno sport sulla neve che é possibile praticare a Cervinia, anche il comprensorio del monte Bianco si é attrezzato per questo, infatti se “Courmayeur é una delle capitali italiane dello sci fuori pista é anche “porta di accesso” al versante meridionale del Monte Bianco, il più selvaggio, ma anche l'unico dove si può praticare l'Heliski. E la proposta “Heliski sul monte Bianco” rappresenta un'occasione unica per vivere in sicurezza un ambiente di alta montagna tra i più spettacolari del panorama alpino. Ma l'inverno in Val d'Aosta invita anche alla cura del proprio

L'eccellenza della Val D'Aosta, la montagna

benessere, con il programma del “Monte Bianco Benessere”, con cui viene abbinata l'esperienza della montagna con quella di speciali giornate al centro termale di Pré-Saint-Didier, celebre per le sue piscine esterne, dove sperimentare il contrasto fra il calore delle acque e l'ambiente invernale circostante. Le terme, definite “un gioiello che brilla nel cuore della Valle d'Aosta”, sono attive ai piedi del Monte Bianco, fin dal 1800 e sono un luogo senza tempo che offre una nuova filosofia del centro termale come luogo di benessere, relax, rigenerazione e rinascita, rifacendosi alla sapienza e alla tradizione delle antiche terme romane.

VALLE D'AOSTA info +39 0165 236627 www.lovevda.it ENIT www.enit.it



Protagonisti

Sulle tracce di viandanti e pellegrini Enrico Brizzi, coautore de “I diari della Via Francigena”, ci racconta il suo viaggio a piedi nell'era dei voli low cost Testo di Tiziana Sforza

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illeseicento chilometri e 33 città, da Canterbury a Roma, 72 giorni di cammino seguendo le tracce di Sigerico, l'arcivescovo di Canterbury che per primo tracciò l'itinerario nel 990 d.C: è lo straordinario percorso raccontato da Enrico Brizzi e Marcello Fini nelle pagine de “I Diari della via Francigena”, appassionante cronaca di un cammino senza tempo, tornato prepotentemente “di moda” in anni in cui, nonostante i voli low cost ci portino velocemente ovunque, si va riscoprendo il valore di viaggiare con lentezza, al ritmo dei propri passi e lasciando sempre una porta aperta ad incontri che sconvolgono la pianificazione del viaggio fatta a tavolino. Enrico Brizzi ci ha raccontato cosa ha imparato da questo cammino. Noto a molti soprattutto per il successo del suo romanzo d'esordio Jack Frusciante è uscito dal gruppo (che nel 1994 lo ha portato in testa alle classifiche di vendita) oltre dieci anni dopo e svariati romanzi e progetti, Brizzi si rivela un appassionato narratore di “cammini”. Ha documentato un viaggio a piedi dall'Argentario al Conero, il cammino sulla Francigena e - in occasione del centocinquantesimo anno dell'Unità nazionale – il recentissimo viaggio a piedi dall'Alto Adige alla Sicilia per scoprire chi sono oggi gli italiani nel progetto “Italica 150”. “I diari della Via Francigena” è stato pubblicato nel giugno del 2010 nella collana “A passo d'uomo” da Ediciclo, casa editrice di nicchia focalizzata sul tema del viaggio. In alcuni tratti di questa avventura Brizzi è stato accompagnato dagli amici di “Francigena XXI”, un progetto che ruota attorno all'obiettivo di un gruppo camminatori in marcia per riscoprire e valorizzare gli itinerari pedonali in Italia, Europa e nel bacino del Mediterraneo.

Il suo viaggio sulla via Francigena si svolge nell'estate del 2006. Che cosa l'ha spinta a partire e quanto è durata la preparazione a questo cammino? La spinta principale è stata la curiosità per un percorso millenario: l'idea di ripercorrere tappa per tappa i passi di viandanti e pellegrini, e di poterlo fare alla loro stessa velocità, aveva per me un fascino bastevole. Sei mesi di documentazione su libri, web e attraverso incontri de visu sono stati il viatico per la partenza da Canterbury.

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Sulle tracce di viandanti e pellegrini

Verso St. Maurice Qual è la cosa più inaspettata che le è capitata? E l'incontro che ricorda con più affetto? Risponderei ad entrambe le domande: l'incontro, nell'abbazia svizzera di San Maurizio, col pellegrino tatuato Bern, un signore svevo deciso a raggiungere a piedi la tomba del suo santo protettore. Poiché si è convinto che io e i miei compagni di viaggio fossimo stati mandati dal cielo per aiutarlo a traversare le Alpi, si è comportato di conseguenza, così come raccontato nel romanzo Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro (Mondadori, 2007).

Il bagaglio del pellegrino è a geometria variabile: cambia giorno per giorno a seconda delle necessità, del clima, del dolore alle spalle. Di che cosa si è disfatto, in quanto superfluo, e che cosa si è dovuto procurare immediatamente, in quanto indispensabile e che non aveva già con sé? Sono stati preziosi gli arrivi degli amici che hanno percorso qualche tappa con me: mi sono fatto portare scarponi da montagna e set da neve prima delle Alpi, e l'ho rispedito a casa da Aosta. Passato l'Appennino, altri capi pesanti hanno preso la via di casa.

Il cammino porta sudore, fatica, ma anche tanta soddisfazione durante il percorso e al raggiungimento della meta finale. Che cosa si è portato a casa alla fine di questa esperienza? La convinzione propria degli uomini medievali: chi arriva al termine di un viaggio del genere non è più lo stesso uomo ch'era partito.

Durante il cammino si conosce meglio se stessi e la propria reazione di fronte alle avversità. Quali cambiamenti ha notato in sé al termine di questa esperienza? Una barba molto lunga, un incarnato abbronzato e la consapevolezza che a piedi si può arrivare quasi dappertutto. Aggiungerei anche una maggiore consapevolezza delle regole del mondo e delle sue stagioni.


Oltre al suo libro, quali guide consiglia per documentarsi a chi voglia intraprendere questo cammino? Senz'altro la dettagliata guida - limitata però al tratto italiano - di Monica d'Atti e Franco Cinti per Terredimezzo. Quale suggerimento darebbe a quanti vorrebbero ripetere la sua impresa, tappa per tappa? Portatevi dietro due paia di scarpe ben rodate, un paio a suola morbida per l'asfalto e l'altro da trekking per i sentieri. Ma, soprattutto, partite con qualcuno di cui avete completa fiducia. Come in barca, anche in marcia la convivenza è un aspetto cruciale: poiché si dividono pasti, fatiche e camere di locanda, è meglio che schizzinosi e isterici restino a casa.

Sarzana fortezza Sarzanello

Dalla Christchurch Gate di Canterbury inizia ufficialmente il nostro lungo viaggio verso roma Ha percorso il più importante asse viario dell'Europa medievale, camminando sulle orme di viandanti e pellegrini: che eredità ci ha lasciato l'Europa di mille anni fa? Ha ritrovato delle radici comuni? Nella Franca Contea, tanto per dire, un contadino ci ferma e fa: «Ragazzi, dove andate?» «A Roma». «Parbleu!» esclama. «Allora è proprio vero quel che si dice dalle nostre parti». «E cosa?» «È un proverbio di qui» premette stringendosi nelle spalle. E poi ci lascia secchi: «Tutte le strade, diciamo noi, portano a Roma». Che senso ha camminare nel XXI secolo, in un contesto in cui molti prendono l'automobile anche solo per percorrere un isolato, e in cui i voli low cost ci hanno abituato a un turismo mordi-e-fuggi della durata di un fine settimana?

La gente si lamenta sempre di non avere tempo, ma in realtà è un fatto d'incultura: un fine settimana può essere destinato anche a percorrere un tratto della Via Alpina o l'anello del Monte Amiata. E una ordinaria giornata di lavoro può prevedere senza fatica 10 chilometri a piedi. Non serve essere atleti o salutisti, basta sentire il richiamo della terra. L'intermodalità del suo percorso sulla Francigena ha coniugato tratti a piedi e un tratto in bicicletta. Quali sono vantaggi e svantaggi dell'uno e dell'altro modo di spostarsi? In bicicletta sei pur sempre affidato a un veicolo. Puoi percorrere più di cento chilometri al giorno - anche se, carico come ti ritrovi, spesso ne bastano la metà per sentire i polpacci farsi di piombo - ma una foratura o un guaio alle borse portaoggetti bastano a lasciarti immobile, e con una bici da trascinare. A piedi invece sei come nudo, non hai letteralmente niente da perdere.

Solo una parola: Toscana

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Arte povera

La stampa a ruggine di Santarcangelo di Romagna

La stampa a ruggine su tela, che ha reso celebre Santarcangelo di Romagna, risale al Seicento. Le ruvide tele di canapa, ordite sui telai dalle donne contadine venivano decorate a ruggine con uno stampo in legno di pero inzuppato in una miscela dalla formula gelosamente custodita nel segreto di ogni tintoria. L’impasto da stampa era costituito essenzialmente da farina, aceto e raschiatura di ruggine, ma sulle proporzioni il massimo riserbo. Il poeta romagnolo Aldo Spallicci, grande sostenitore delle tradizioni popolari della sua regione, ci fornisce qualche indizio in più sulla ricetta originale. In un aceto forte e maturo, prelevato da una botticella ben grumata di tartaro, venivano lasciati a bagno dei pezzi di ferro. A parte, si mescolava della farina di granturco con acqua di acetato di piombo a cui si aggiungeva la limatura di quel ferro fatta consumare in acido nitrico. A questo punto si stendeva la tela su un tavolo massiccio, ricoperto da un feltro, si immergeva appena lo stampo nella tinta e lo si appoggiava sul punto stabilito. il colpo di grazia veniva dato dal mazzetto che aiutava a imprimere il disegno. Nel caso di un fregio composito, l’operazione veniva ripetuta più volte. Uno dei segreti di questa tecnica, ancora oggi, è che il tessuto da trattare risulti ben stirato e liscio. Ecco dunque intervenire un suggestivo marchingegno, riesumato dalla gloriosa storia

dell’artigianato, il mangano, una pressa primitiva che risale al Seicento. Dall’antico uso guerresco, forse disegnato da Leonardo da Vinci, venne trasformato in macchina per la follatura, cioè quel trattamento a pressione che conferisce ai tessuti una speciale compattezza e morbidezza. Poiché la tecnica della stampa a ruggine ha mantenuto intatte ancora oggi formule e istruzioni, non poteva tralasciare questo rudimentale quanto affascinante attrezzo che rinsalda l’artigianato ai suoi valori storici. Onore al merito, quindi, di Alfonso Marchi, il quale sembra possedere l’unico esemplare di mangano ancora esistente al mondo(citato nell’ Enciclopèdie di Diderot e D’Alambert del 1752) nell’omonima antica stamperia di Santarcangelo di Romagna, meta di visitatori anche europei. L’attrezzo risale al 1633,è interamente costruito in legno e pietra e il suo meccanismo ad argano è pienamente efficiente. La tela viene avvolta attorno a speciali rulli, detti subbi, i quali vengono sistemati sotto un masso e l’artigiano fa girare la ruota (6 metri di diametro) camminando tra i suoi raggi. Il movimento fa scorrere il masso avanti e indietro sui rulli permettendo una perfetta stiratura della tela che diventa contemporaneamente morbida e lucente. Il rito, dal sapore tutto medievale, viene consumato quotidianamente nell’opificio Marchi, che risale al 1600 ed è rimasto intatto nelle strutture e

Testo di Roberto Terzani e Foto dell'archivio della Stamperia Artigiana Marchi negli arnesi. Più di tremila stampi in legno riposano sugli scaffali. Stampi di ogni epoca, usati da generazioni di artigiani che ne hanno personalizzato i disegni tradizionali secondo il proprio stile in modo da creare pezzi unici. “Pagine di storia del costume romagnolo”, come li definisce il Marchi stesso. Un pregio in più per le tele da decorare, quasi sempre tessute a mano appositamente o riesumate dai corredi delle nonne romagnole. E dai bauli di campagna escono le tradizionali “coperte da buoi”, ora elevate al rango di arazzi sulle pareti di ricercate case cittadine. Si tratta di coperte in tela rustica che i contadini mettevano sul dorso dei buoi come ornamento nelle feste paesane. Ai quattro angoli compaiono le effigi di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali. Il tutto, rigorosamente stampato “a ruggine”. Altri disegni trovano spunto nell’arte popolare legata ai temi agricoli: i tralci di vite, papaveri e spighe, il gallo. Stamperia Artigiana Marchi Di Lara e Gabriele Marchi Snc 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) Via Battisti, 15 - Tel. e fax 0541 626018

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Uomini e animali

ELEFANTI: IL TRIANGOLO DELLA SALVEZZA l'Anantara Resort, al confine con il Laos e il Myanmar

Pamela McCourt Francescone

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Elefanti: il triangolo della salvezza

I

n un mondo ideale tutti gli elefanti vivrebbero allo stato brado. Liberi di girovagare nel loro habitat naturale alla ricerca di cibo e acqua senza particolari preoccupazioni. Se non fosse per l'uomo. L'elefante è il mammifero più grosso e possente della terra, ma l'avidità dell'uomo e i cambiamenti ambientali da lui provocati, hanno ridotto il numero dei pachidermi a poche centinaia di migliaia rispetto ai dieci milioni di un secolo fa. E la spietata caccia finalizzata al commercio dell'avorio ha contribuito ulteriormente a portare l'elefante a rischio di estinzione. Non è difficile addestrare un elefante e, a differenza di quello

che può sembrare, nonostante la sua mole è dotato di una estrema agilità. Ciò ha portato ad uno sfruttamento spietato da parte dell'uomo per svolgere mansioni redditizie soprattutto il logging, l'abbattimento degli alberi e lo spostamento dei tronchi. Nel 1989 in Thailandia è entrato in vigore una legge che vieta l'utilizzo degli elefanti per il logging e lavori simili. Una legge equanime (il lavoro era molto faticoso e spesso gli animali venivano maltrattati) che presto però si è rivelato un'arma a doppia taglio perchè gli animali, insieme ai loro addestratori, si sono trovati da un giorno all'altro senza lavoro e senza sostentamento.


foto di Carol Stephenson

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Uomini e animali

Cosa può fare un elefante per sopravvivere? E il suo fedele mahout? Molti sono finiti nelle strade trafficate di Bangkok, Chiang Mai e Pattaya. Infatti, dopo l'introduzione della legge molti mahout si sono trovati costretti a portare gli animali nelle città dove girovagavano chiedendo soldi ai turisti per scattare qualche foto o vendendo loro la canna da zucchero che poi veniva offerta agli animali. Ma siccome un elefante mangia anche 150 chili di vegetali al giorno guadagnare abbastanza per mantenerlo non era un'impresa facile. Tanti animali, soprattutto quelli più piccoli, sono finiti nei bar di Pattaya e Bangkok, protagonisti di spettacoli per turisti. “Il turismo è di fondamentale importanza per la sopravvivenza degli elefanti in cattività, soprattutto in Thailandia dove ce ne sono circa 3.500,” dice John Roberts, direttore del Golden Triangle Asian Elephant Foundation di Chiang Rai. Un tipo di turismo che rispetti l'elefante e gli permetta di svolgere mansioni dignitose tali da garantire agli animali e ai loro addestratori uno stile di vita comodo e senza stenti. “Noi abbiamo comprato i nostri 32 elefanti che vivono, insieme ai loro mahout, in 65 ettari di giungla all'interno dell'Anantara Resort Golden Triangle, a due passi dai confini con il Laos e il Myanmar” spiega John. E' stato in gran parte grazie alla Fondazione, nata in collaborazione con l'organizzazione statale Thai Elephant Conservation Centre e che lavora in simbiosi con l'Anantara Golden Triangle e il Four Seasons Tented Camp Golden Triangle, che l'equilibrio storico è stato rovesciato: l'uomo alleato e non più antagonista dell'elefante. “L'elefante più anziano del campo ha più di 50 anni, e il più piccolo ha cinque mesi. Il ruolo del mahout è fondamentale. E' lui che assicura che il suo elefante abbia abbastanza da mangiare ed è lui che ha la responsabilità della salute dell'animale. La maggior parte dei mahout provengono da due gruppi etnici. I Kui che sono originari dalla regione vicina al confine con la Cambogia, e i Garieng che vengono dal Myanmar e dalla regione di Chiang Mai. Quasi tutti i nostri mahout sono Kui e negli anni sono cambiate le tecniche di addestramento, oggi i metodi usati sono meno severi e più persuasivi che nel passato”. Nel campo della Fondazione gli elefanti interagiscono con i visitatori che possono fare passeggiate a dorso d'elefante e partecipare al lavaggio quotidiano dei pachidermi. E' anche possibile fare corsi di 2 o 3 giorni per “diventare” mahout; un'esperienza avvincente che permette di imparare le mosse basiche usate dai mahout, di apprendere le loro tradizioni che vengono tramandate da generazione in generazione, e di apprezzare il ruolo dell'elefante nella natura. E' persino possibile cenare a lume di candela nelle zone “camera da letto” dei più piccoli, nella speranza di osservarli mentre dormono. La Fondazione è anche coinvolta in alcuni progetti per studiare attività alternative ed innovative. “Noi non abbiamo elefanti che dipingono,” dice John, “ma non vedo niente di male in questa attività. L'elefante è un animale gregario e curioso, e ama stare in compagnia dell'uomo.” “Attualmente collaboriamo con uno studioso statunitense Josh Plotnik, psicologo alla Emory University di Atlanta, per studiare come gli elefanti possono partecipare maggiormente ai lavori di squadra e di quali comportamenti cognitivi siano capaci”. Plotnik è lo studioso che ha dimostrato che

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Elefanti: il triangolo della salvezza

l'elefante è capace di riconoscersi allo specchio. Qualche anno fa ha fatto il giro del mondo la foto di un elefante di fronte ad uno specchio, che tocca con la proboscide una macchia bianca applicata sul suo sopraciglio, una parte del corpo visibile unicamente allo specchio. “Attualmente sponsorizziamo un altra iniziativa interessante”, ha spiegato John. “Si tratta di un progetto, condotto da un gruppo di studiosi all'Università di Chiang Mai mirato ad approfondire l'interazione tra i grandi pachidermi e i bambini autistici”. Durante tre settimane sono stati messi a confronto alcuni bambini autistici ed alcuni elefanti, permettendo ai bambini di socializzare con i pachidermi, dandogli da mangiare, lavandoli e curandoli. I risultati, secondo gli studiosi di Chiang Mai, sono stati molto incoraggianti. Infatti nei ragazzi che hanno partecipato al progetto sono stati riscontrati notevoli miglioramenti nei livelli di elaborazione sensoriale, controllo posturale e capacità relazionali. “Questa”, conclude John, “potrebbe diventare una nuova attività per

l'elefante, non dimentichiamo che il turismo è sovente un settore capriccioso”. ANANTARA GOLDEN TRIANGLE RESORT & SPA www.anantara.com goldentriangle@anantara.com 229 Moo 1, Chiang Saen Chiang Rai 57150 Thailand Tel. +66 (0) 5378 4084 Fax +66 (0) 5378 4090 ENTE NAZIONALE PER IL TURISMO THAILANDESE Via Barberini 68 – 00187 Roma Tel. 06 42014422 fax 06 4873500 tat.rome@iol.it info@turismothailandese.it www. turismothailandese.it THAI AIRWAYS INTERNATIONAL www.thaiair.it



Vivere la natura

Il BIRDWATCHER it questo sconosc Testo di Giuseppe De Pietro Il nostro Paese non ha mai avuto una tradizione radicata di birdwatching; il primo seme di una nuova cultura in questo campo fu l'istituzione della Lega contro la Distruzione degli Uccelli, poi la LIPU. E' indubbio che gli obiettivi primari in materia di avifauna 30 anni fa fossero rivolti più ad un ambito protezionistico e anticaccia piuttosto che alla semplice osservazione degli uccelli, ma se possiamo parlare ora di un movimento di birdwatching, lo dobbiamo certamente al lavoro di molti volontari e attivisti che hanno spianato la strada all'avvento di una cultura ambientalista.

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Ma chi è il birdwatcher italiano? Di lui poco si conosce. Si sa che ha dei trascorsi protezionistici, in media è di età inferiore ai 35 anni e vive al Centro-Nord. Non ha una grande coscienza di sé e spesso cerca di mimetizzarsi, talvolta riconoscendosi nella figura dell'ornitologo, talvolta sentendosi perseguitato perché accusato di mettere a repentaglio la sorte di chissà quali specie rare. Fa birdwatching quasi a tempo perso perché spesso di professione fa il forestale, la guardia venatoria, il consulente faunistico, il biologo, il naturalista. Di certo il movimento di birdwatching soffre della mancanza di

Il Birdwatcher italiano, questo sconosciuto

un modello culturale, che in Italia non è mai esistito e che viene mutuato da quei Paesi che si dicono più evoluti, dove il birdwatching è uno tra i tanti hobby di massa come l'Olanda o l'Inghilterra. Il birdwatcher italiano è quasi un isolato, uno che consulta ancora il Bruun&Singer del 1975 o il Peterson della Muzzio del 1983, perché da allora, nessuna guida importante è stata più tradotta in lingua italiana. Nonostante tutto, però, e grazie alle incredibili possibilità naturalistiche del nostro Paese, incontrare qualcuno con il binocolo al collo è sempre più frequente in Italia, anche perché


taliano, ciuto l'osservazione degli uccelli è un'attività che si accompagna benissimo a una escursione in montagna, a una passeggiata nel bosco o ad un pic-nic in campagna o sulla spiaggia. Certo però è che tutto questo ha un limite se le proprie osservazioni rimangono appunti nel diario del week-end. E si sa, il birdwatching in Italia è sempre stato fino ad ora un sistema a compartimenti stagni, parcellizzato in tante realtà regionali o locali. Speriamo che tutto questo cambi. La regionalizzazione delle idee non ha mai favorito il progresso culturale e lo scambio di informazioni.

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Abitare

Dormire sugli alberi: TREE HOUSE Testo di Valentino De Pietro Girare il mondo sospesi tra i rami degli alberi, il sogno del Barone rampante di Italo Calvino (1957) è oggi realtà grazie ai villaggi vacanze, agli alberghi e ai bed & breakfast costruiti tra le fronde, nel più stretto contatto con la natura. Le proposte di questo tipo negli ultimi anni si sono moltiplicate e oggi ce ne sono in tutti i continenti, nelle foreste, lungo le spiagge e persino in città. Si trovano in India e sugli atolli delle Maldive, ma anche in Europa: in Svezia, in Carinzia e in Francia. Sono dei mini-appartamenti, delle vere e proprie suite, spesso molto eleganti, costruite tra i rami di un albero. Sicuramente una vacanza fuori dai soliti schemi, per allontanarsi dallo stress e ritrovare l'equilibrio. Anche in Italia, nei pressi di Viterbo, c'è un agriturismo d'eccezione, La Piantata, la cui suite si trova a 8 metri di altezza, su una quercia secolare. Dimenticate le stanze spoglie ed essenziali delle case sugli alberi dei bambini, la suite de La Piantata ha un letto a baldacchino, il riscaldamento autonomo, il bagno con tanto di doc-

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Dormire sugli alberi: Tree House

cia, il frigorifero, il lettore CD e addirittura il terrazzo. La colazione è “in camera”: ogni mattina viene issato un paniere che contiene miele di lavanda, dolci fatti in casa e ricotta fresca. Intorno, ci sono dodici ettari di colline dove viene coltivata la lavanda, da cui viene estratta anche un'essenza per il corpo, per massaggi rilassanti che, volendo, si possono prenotare. Nel parco cittadino di Västerås, un'antica località svedese (XIII secolo) a circa 100 chilometri da Stoccolma, si può dormire su una quercia all'Hotel Woodpecker. Tra i suoi rami è stato costruito nel 1996 un tradizionale cottage rosso di un'unica camera, identico nell'aspetto a tante case del centro storico. La sua terrazza è talmente affascinante che tanti ospiti decidono di dormire lì, all'aperto, guardando le stelle prima di chiudere gli occhi. Per affrontare la quercia di Västerås è necessaria un'indole sportiva e un buon spirito di adattamento: l'unico modo per accedervi è una scala di corda e i servizi sono spartani (per esempio non c'è nessun tipo di riscaldamento). Ma si


può dormire in bungalow tra le fronde anche senza rinunciare al lusso. Ce ne sono alcuni che hanno persino una piscina privata sospesa nel vuoto, come al Tsala Treetops Lodge in Sudafrica, immerso nella foresta di Tsitsikamma, lungo la Garden route, a 10 chilometri dalle spiagge della baia di Plettenberg. Ed esistono case sugli alberi con una spa personale, come le Tree Houses of Montville, in Australia, nel parco nazionale delle cascate di Kondalilla, poco distante dalla spiaggia di Mooloolaba. Sono sistemazioni dotate di ogni comfort, dall'aria condizionata al televisore, e hanno anche l'ultima cosa che ti aspetteresti di trovare in cima a un albero: un caminetto. Per accedervi ci sono scale di legno e comode passerelle. A volte la casa sull'albero può diventare l'emblema di uno stile di vita ambientalista. Per esempio in Costa Rica al Tree House Lodge, all'interno della riserva naturale di Gandoca-Manzanillo, lungo le coste di Punta Uva. Queste case sugli alberi non sono solo costruite all'insegna della sostenibilità - con materiali riciclati e fonti di energia rinnovabili -, ma parte dei loro profitti vanno alla Green Iguana Foundation per la protezione degli animali autoctoni. Al Green Magic Nature in Kerala (India, a 65 chilometri da Calcutta) per trovare un contatto con la natura il più stretto possibile, le popolazioni indigene della foresta pluviale sono state coinvolte nella progettazione e nella realizzazione delle case sugli alberi, che coniugano tradizioni locali e servizi “occidentali” come la doccia con acqua calda. I più audaci possono provare a salire nelle camere con l'“ascensore indigeno” ad acqua, una specie di carrucola in canne di bambù azionata da un contrappeso. Ci vuole coraggio, infatti alcune delle case sono a più di 30 metri dal suolo. Quali sono i vantaggi di qualche giorno su una tree house? Ci si allontana non solo dal suolo, ma dallo stress della vita quotidiana. La sensazione di distacco dai ritmi abituali, tipica della vacanza, viene amplificata dal distacco fisico da tutto quanto, in uno spazio dedicato solo a se stessi. Inoltre, si è letteralmente in mezzo al verde: agli effetti benefici della lontananza dal trambusto cittadino si accompagna il rilassamento dovuto al contatto con la natura. Per molte persone, inoltre – tutti quelli che da bambini hanno avuto o hanno desiderato una casa sull'albero – c'è anche una reazione affettiva: la nostalgia di una sensazione provata da piccoli, o l'appagamento di un sogno di lunga data. Anche solo per una vacanza si può così far propria la massima di Italo Calvino: "Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria".

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Popoli e luoghi

Akha , Hmong e Lahu, le Tribù del Triangolo D'oro Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone Sono modeste le case, molte alzate su basse palafitte e con tetti di paglia, alcune dall'aria traballante, allineate lungo i due lati della stradina polverosa che declina verso il fiume Mae Kok, un tributario del grande Mekong. Si scende tra galline che razzolano, cani che dormono, bambini che schiamazzano e donne Akha vestite con i loro costumi tradizionali dove predomina il nero, con delle rifiniture in rosso e con tanti monili in argento. In cima alla strada una delle pochissime strutture in muratura, la chiesa cattolica. Infatti molti Akha si sono convertiti al cattolicesimo, anche se le credenze animiste ancestrali tipiche delle minoranze etniche sono dure a morire, e quindi spesso vengono praticati riti religiosi sincretici che fondono diversi convincimenti. In fondo alla strada, sul bordo del fiume, si apre una distesa con baracche in legno che vendono souvenir, piccoli ristoranti con bassi sgabelli in plastica intorno a tavoli minuscoli e una gabbia che contiene un ciclopico anaconda che viene tirato fuori per essere drappeggiato intorno al collo dei turisti per scattare qualche foto ricordo. Il villaggio, Ruammit, non è lontano da Chiang Ra, nel cuore del Triangolo d'Oro nel nord della Thailandia. Originariamente un insediamento Karen, oggi ospita diverse tribù come i Hmong che sono originari dalla Cina meridionale, i Lahu dal Tibet e gli Akha che si dividono il discreto “successo” imprenditoriale di cui gode il villaggio grazie al fatto che molti degli uomini sono mahout, addestratori di elefanti. E quindi ogni giorno arrivano turisti ansiosi di provare il brivido di una passeggiata a dorso d'elefante o di divertirsi per qualche ora facendo rafting sul fiume su modeste zattere in bambù che gli uomini del villaggio costruiscono, tagliando i robusti fusti nelle sconfinate foreste verdi

Suntime n°1 - febbraio 2011

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Popoli e luoghi

che coprono le pendici più basse delle montagne. Mentre le donne, soprattutto quelle Hmong, vendono coloratissimi vestiti, belle collane e cinte in argento. Gli Akha sono tra le minoranze etniche meno abbienti delle tante tribù residenti nel Triangolo d'Oro della Thailandia settentrionale. Originari della Mongolia, fanno parte della grande famiglia SinoTibetana alla quale appartengono anche i Karen, parlano una lingua vicina a quella birmana, e nei secoli si sono spostati verso sud creando insediamenti prima in Laos e in Birmania e poi in Thailandia. Molti degli Akha presenti nella zona di Chiang Rai vivono in piccoli villaggi a più di 1.000 metri di altitudine. Sono ancora agricoltori di sussistenza che coltivano riso, soia e verdure e allevano maiali e polli, anche se alcuni villaggi sono entrati a fare parte del Royal Project fondato 30 anni fa da Re Bhumibol per migliorare le condizioni di queste popolazioni che vivono nelle zone più remote del Triangolo d'Oro. Grazie al progetto reale è stata sradicata la coltivazione del papavero da oppio, offrendo a questa gente nuove attività come la coltivazione di fiori, caffè, frutta e verdura e la produzione di oggetti d'artigianato. Non sono pochi i giovani Akha che abbandonano i loro villaggi isolati per andare a lavorare nelle grandi città ma questa migrazione crea notevoli problemi perchè molti di loro, come altre minoranze, non sono cittadini thailandesi. Sprovvisti di documenti che permetterebbe loro la libera circolazione nel paese, hanno un permesso di soggiorno che li autorizza a vivere unicamente nelle vicinanze dei loro villaggi. Di conseguenza in città spesso sono costretti ad svolgere i lavori più umili, e non sono poche le ragazze che finiscono nei giri loschi della malavita e della prostituzione. Con il ritorno di chi aveva optato per una piacevole passeggiata a dorso d'elefante nella campagna circostante, ci aspetta un piccolo spettacolo organizzato dagli abitanti del villaggio. Infatti gli Akha tramandano la loro cultura millenaria attraverso canti e danze. Il primo ad esibirsi sulla piazzola è lo sciamano, un piccolo uomo nerboruto, dai lineamenti tesi e con una bandana azzurra fasciata intorno alla testa. Tenendo in mano due lunghe spade, e con sor-

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prendente agilità, esegue una danza frenetica, saltellando, piroettando e mettendosi in pose minacciose, sempre brandendo con destrezza le sue spade. Scorgiamo due gruppi di giovani, le ragazze da una parte, i maschi dall'altra; le prime, nascondendosi dietro timidi sorrisi sono vestite di bianco in segno che sono ancora vergini. Posano per terra lunghe aste di bambù e poi le muovono energicamente a destra e a sinistra battendole ritmicamente, mentre i giovani danzatori saltellano tra un asta e l'altra, senza mai farsi prendere le caviglie o sbagliare un passo. Ora tocca a due ragazzine che eseguono una canzoncina delicata, suonando strumenti a fiato fatti di canne molto lunghe che emettono un suono esile e dolce. Bellissime e sorridenti, si muovano con grazia al ritmo della musica, mentre i cappellini di perline colorate che portano in testa luccicano e scintillano catturando i raggi del sole. L'ultimo interprete è un uomo vestito di nero con una sciarpa di merletto rosso fuoco annodata stile turbante sulla testa, che suona uno strano strumento fatto di canne che fuoriescono da una piccola zucca. Intorno a lui, in semicerchio, alcune donne Akha con i loro caratteristici copricapi fatti di tante grandi palline d'argento che incorniciano il viso. Il suonatore balla mentre suona, piegandosi sinuosamente al caldo timbro del suo flauto, mentre le donne battono le mani e cantano allegramente. Lasciamo il villaggio portando via con noi il ricordo dei modi cordiali e mansueti di questa gente, per la quale l'arrivo di un pulmino carico di turisti rende la vita meno onerosa e concede loro preziosi momenti di spensierata allegria. cdm@cdmthailand.com ENTE NAZIONALE PER IL TURISMO THAILANDESE Via Barberini 68 – 00187 Roma Tel. 06 42014422 fax 06 4873500 tat.rome@iol.it info@turismothailandese.it www. turismothailandese.it THAI AIRWAYS INTERNATIONAL www.thaiair.it

Akha , Hmong e Lahu, le Tribù del Triangolo D'oro



Dialogo con la natura

Tra Calabria e Lucania: un itinerario nel Parco Nazionale del Pollino

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Tra Calabria e Lucania: un itinerario nel Parco Nazionale del Pollino


Testo di Luisa Chiumenti

Il Parco Nazionale del Pollino, tra il mare Jonio e il Mare Tirreno, penetrando nello “stivale” dall'Autostrada Salerno-Reggio Calabria, in direzione Campotenese, fra Lauria nord e Lauria sud, in quel territorio verde, che rappresenta la più grande area protetta d'Italia ed è situato fra due Regioni (Basilicata e Calabria), tre Province (Potenza, Matera e Cosenza), e 56 comuni. Siamo in una tra le riserve protette più belle e grandi d'Europa e il paesaggio tutt'attorno, a seconda delle stagioni, appare ammantato dal candore della neve o esaltato dai colori vivi di una varietà straordinaria di fiori che, dal bianco, al giallo, al rosa, all'azzurro, ravvivano il verde dei prati e degli alberi e il grigio più o meno intenso delle rocce. Nei boschi del Pollino, oltre alle faggete, c'è un albero particolare , il Pino loricato, vero e proprio “fossile vivente”, che staglia nel cielo, sporgendosi spesso dagli speroni rocciosi, come dal Pianoro detto “belvedere”, i suoi rami dalle linee contorte, che tuttavia conferiscono maestosità al suo fusto robusto e solido. Si giunge al “Belvedere”, percorrendo la faggeta, che si apre in una serie di luminose radure, fino a trovarsi appunto su questa terrazza naturale (non costruita dall'uomo, ma soltanto utilizzata per qualche periodo quale pianoro di appoggio per una teleferica per il trasporto del legname) e ci si può affacciare a

questa sorta di “balcone” roccioso e affondare lo sguardo sulle cime di fronte e sull'ampia valle del Coscile, dove sono presenti colossali esemplari di Pino loricato, che si abbarbicano, con le profonde radici, ai poderosi speroni di roccia. L'aquila reale, con i suoi oltre due metri di apertura alare, è presente nel territorio e, tra le fronde dei boschi si annida anche il gufo, mentre nel bosco corrono i caprioli e le lepri e vive il cinghiale, come la salamandra, il nibbio, lo scoiattolo e tante altre specie animali. Ma l'acqua è la linfa vitale del Parco, sia scrosciante nel limpido specchio formato dalla Sorgente del Mercure, sia spumeggiante,quando viene solcata dai gommoni degli appassionati di rafting, giù nelle gole attraversate dal fiume Lao. Ma da questo punto di vista il Parco offre molte possibilità a tutti, più o meno sportivi: così, in inverno è possibile godere di passeggiate serali con racchette da neve lungo un sentiero illuminato da fiaccole per giungere ad un rifugio immerso nella natura (cena a base di prodotti tipici e pernottamento e al mattino dopo colazione e passeggiata a piedi nel parco!). Ma c'è anche la proposta del “trekking someggiato”, un modo “antico e nuovo” di muoversi a piedi accompagnati da un asino che trasporta il bagaglio! E poi naturalmente c'è un turismo equestre alla portata di tutti e, per l'inverno, la

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Dialogo con la natura

possibilità di utilizzare un lungo percorso per lo sci di fondo. Fattorie didattiche consentono inoltre ai ragazzi l'apprendimento della vita lavorativa nei campi e sulla montagna, accanto alla natura e agli animali, come i cavalli o le mucche che vengono per l'alpeggio , ogni anno dalla Calabria. Ma il Parco del Pollino riserva al visitatore anche scoperte naturali e archeologiche insieme, come quella della Grotta del Romito, che mostra testimonianze risalenti ad epoche lontanissime (ben 19.000 – 10.000 a.C.). Questo sito archeologico, che si trova a 14 km. dal centro abitato di Papasidero, venne scoperto nel 1961 e venne fatto oggetto di studi, ricerche e scavi da parte della Soprintendenza archeologica e di un gruppo di ricerca di Firenze. Il complesso appare costituito innanzitutto da un “riparo”, antistante la grotta vera e propria, che si estende per trentaquattro metri, in cui si notano diversi interessanti reperti litici ed ossei, e l'importante e raro graffito che rappresenta un bovide ( Bos-Primigenius 10800 a. C. circa), incisione rupestre di un metro e venti. All'interno della grotta si sviluppano poi le due sale che si estendono per circa venti metri. Qui si possono osservare, oltre alle sculture create dalla naturale azione dell'acqua, i diversi strati di scavo, che hanno restituito e continuano a restituire ossa umane e animali. Dopo un periodo di stasi, i lavori di scavo riprenderanno fra breve. Anche il centro storico di Papasidero ha notevole interesse; assai suggestivo nel suo impianto architettonico-urbanistico tipicamente medievale, deriva il nome da un abate, Papàs Isìdoros, forse padre Isidoro, capo del convento di Santo Stefano o S. Angelo. Queste sono solo alcu-

Il Castello di Viggianello Si giunge a Viggianello, nel cuore del Parco Nazionale del Pollino Ricco di bellezze artistiche e naturalistiche, il centro storico di Viggianello offre al visitatore anche un complesso di memorie storiche, come di sottili tradizioni e affascinanti leggende. Un grande senso di ospitalità fa sì che il viaggiatore, davanti al grande camino acceso nel salone del castello (oggi raffinato ed accogliente Hotel a quattro stelle), si senta come nella casa di amici, a chiacchierare amabilmente con la gentile castellana, che, mentre eravate fuori a fare la vostra escursione ad alta quota, verso le vette del Pollino, vi aveva preparato i delicati suoi biscottini, da assaggiare sorseggiando un ottimo “fragolino”. Il castello, che occupa il crinale più alto del paese, è stato infatti restaurato dall' ex sindaco del paese, il marito della attuale castellana, che ha trasformato ruderi fatiscenti, in un polo di ritrovo raffinato per ricevimenti e banchetti di prestigio per tutta la regione. Dal castello all'abitato che si adagia lungo il declivio del colle, con le sue stradine lastricate e i cornicioni delle case caratteristici nel mattone lavorato, la vista si immerge nello scenario rigoglioso del Parco, con una apertura molto ampia che alterna ondulazioni dolci e piccole valli, incorniciata dalle cime più alte del Pollino. Il Paese venera ancora riti antichissimi, come quello

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ne delle moltissime sorprese che il Pollino può riservare ad un visitatore che sia volta a volta attento alla Natura, allo sport, all'architettura, al paesaggio, alle tradizioni storiche e non basterà certo un unico viaggio!

del ballo dei “cirii” e del “falcetto” e del “traino della cuccagna”. La festa dei cirii (covoni in legno addobbati), ricorda un rito legato al raccolto e alla fertilità dei campi e si incentra sul “ballo del falcetto” che i contadini inscenano con vivacità e durante il quale le donne, con il cirio sul capo, fanno ruotare il loro corpo fino allo stremo delle forza, al suono di ritmi tradizionali. E' stata ripresa di recente anche la tradizione del “carnevale di paglia”, carnevale povero di matrice contadina; la tradizione vuole che venga eseguito una sorta di “processo al Carnilivaru i Pagghia”, un fantoccio di paglia che viene condannato al rogo per aver portato via ai contadini tutti i prodotti della terra. Si tratta in effetti di un carnevale perdigiorno che rapina i poveri, mandando in fumo ogni fatica e sacrificio dei contadini e finalmente catturato dai gendarmi, portato davanti al giudice, viene appunto condannato al rogo. Ma in occasione del carnevale in alcune frazioni, è possibile veder ballare la tarantella, accompagnata dalle armoniche e dalle nacchere ed anche il cupe-cupe (un altro strumento suonato in occasione della processione del Venerdì Santo è invece la troccola). Il traino della cuccagna, legato alla fertilità è invece un rito molto originale e inconsueto, che vede congiungere simbolicamente un abete ad un faggio e viene evocato solo a Viggianello tre volte all'anno: la settimana dopo Pasqua, l'ultima domenica d'agosto e la seconda di settembre.

Tra Calabria e Lucania: un itinerario nel Parco Nazionale del Pollino

Per informazioni: www.comune.viggianello.pz.it tel.0973 664311 fax 0973 664313 www.guidepollino.com tel/Fax 0973 859128



Flora

Il giardino bioener del borgo storico Seghe

Borgo Seghetti Panichi's bio-en

Testo di Pamela McCourt Francescone e Foto Archivio Seghetti Panichi Text by Pamela McCourt Francescone and Photo Archives Seghetti Panichi

Nei secoli il giardino ha rappresentato un luogo di delizie, testimone del livello di cultura del committente, e status symbol di una famiglia. Il giardino del Borgo Storico Seghetti Panichi a Castel di Lama, a otto chilometri dall' affascinante e storica città di Ascoli Piceno, è la testimonianza vivente di una passione che risale ai tempi dei bisnonni della Principessa Giulia Panichi Pignatelli, proprietaria del Borgo che, oltre al parco secolare, dispone di un albergo con undici suite di lusso, una piscina, una spa e sale riunioni. Per dare

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una impronta colta ed elegante a livello botanico alla loro residenza estiva, gli avi della Principessa hanno chiamato il tedesco Ludwig Winter, un noto paesaggista. Winter trasformò quella che era una dissestata collina rocciosa nel Parco Storico Seghetti Panichi, che oggi è diventato il primo giardino storico italiano con percorsi bioenergetici. “Spesso mi viene da immaginare la prima impressione di Winter alla vista di una povera, dissestata collina con sopra un rigoroso palazzo in laterizio,

Down the centuries the garden has always been a place of delight, a barometer of the cultural level of the people who commissioned it, and a family status symbol. The garden of the Borgo Storico Seghetti Panichi in Castel di Lama, eight kilometres from the charming old city of Ascoli Piceno, is living proof of this passion. The Borgo dates back to the days of the great-grandparents of Princess Giulia Panichi Pignatelli, who today owns the garden and the Borgo which also has an hotel with eleven luxury

suites, a swimming pool, a spa and meeting rooms. The Princess's ancestors wanted to give their summer residence a cultivated and elegant air through the creation of a garden, so they decided to call in Ludwig Winter, a well-known German landscape architect. A n d t h e y w e r e n o t d i s a ppointed, because Winter transformed what had been a neglected rocky hill into the Parco Storico Seghetti Panichi. Which now holds the accolade as Italy's first historical garden with bio-energetic

Il giardino bioenergetico del borgo storico Seghetti Panichi - Borgo Seghetti Panichi's bio-energetic garden


rgetico etti Panichi

nergetic garden

che nulla concedeva a fronzoli od abbellimenti, ma possente si ergeva a testimone storico della vallata”, riflette la Principessa. Winter cerca di modellare la collina, tenendo ben presente il paesaggio circostante: dolci declivi, colline rotonde, nulla di verticale, spigoloso, aggressivo, ma abbonda in linee curve, viottoli sinuosi, forme arrotondate. Poi definisce un perfetto impianto di irrigazione sotterraneo che è tuttora funzionante. “Nella scelta del giardiniere i miei antenati hanno dimostrato una raffinatezza di intenti. Win-

ter si era laureato in botanica a Potsdam, famoso centro europeo per lo smistamento di piante esotiche, e poi aveva lavorato come capo giardiniere a Les Tuilleries e nei famosi vivai di Hyères prima di eleggere la sua residenza sul meraviglioso golfo ligure, fra la costa francese e quella italiana”. Winter ha subito intuito che tutta la vallata del Tronto sprigiona un microclima similare a quello del golfo della Liguria. Quindi – studiate le valenze del terreno e delle stagioni – azzarda a piantare rari palmizi a cielo aperto. A

areas and trails. “I often imagine what Winter's first impression must have been when confronted with that overrun hill at the top of which he found a severe brick b u i l d i n g w i t h o u t a n y o r n aments or embellishments; a sturdy building that had strong historical ties to the valley,” says the Princess. Winter got down to modelling the hill while keeping in mind the surrounding countryside with its gentle slopes and rounded hills. He had nothing vertical, angular or aggressive to contend with,

but rather lots of snaking lines, s i n u o u s t r a c k s a n d c u r v aceous forms. And when he was done he then built a perfect irrigation system, which is still in use today. “In the choice of their gardener my ancestors made a refined choice. Winter had graduated in botany in Potsdam, a city which was famous as a clearing house for exotic plants. He had then worked as head gardener in the Tuilleries, and in the famous nurseries in Hyères, before taking up residence on the beautiful Ligurian n°1 - marzo 2011

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Flora

quel tempo le palme, in luoghi dove comunque d'inverno nevica e possono soffrire di parecchie gelate, venivano protette in serra. Quindi la messa a dimora di queste specie in giardino aperto rappresentava una vera sfida e abbisognava di profonda competenza. “Ancora nella vallata sussiste il ricordo di persone anziane che avevano nella memoria il racconto di lunghe processioni di carri trainati da buoi che trasportavano terra fresca e morbida dai bordi del fiume Tronto in alto sulla collina” ricorda la Principessa. Sui fiori, Winter aveva qualche riserva. Asseriva che quello che importava in un giardino era la monumentalità delle piante, la loro stessa capacità di creare una tavolozza cromatica che andasse dai verdi chiari, al rosso, al marrone, al verde scuro, ai gialli. I fiori, secondo il

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grande botanico, disturbavano un po' questa concertazione di tinte, cosicché li accettava solamente bianchi o blu, i meno invadenti in assoluto nel verde. “ Questo non è un giardino tipicamente italiano”, confida la P r i n c i p e s s a G i u l i a Pa n i c h i Pignatelli. “Va definito come giardino romantico francoligure, e più precisamente un esempio molto peculiare della grande personalità di un attento botanico”. Oggi il giardino ha assunto una nuova personalità, grazie alla figlia della Principessa, Stefania Pignatelli Magona Cortés, che ha chiamato Marco Nieri, ecodesigner di Bologna e collaboratore di Walter Kunnen che nel 1960 ha fondato ad Anversa, Archibo Biologica, un centro di ricerca scientifica sulla biosfera e sulle influenze di elementi naturali ed artificiali sull'uomo, per progettare e

Gulf, close to the French and I t a l i a n b o r d e r. ” W i n t e r h a d immediately realised that the entire Tronto valley enjoyed a micro climate similar to that of the Ligurian Gulf. And so – having studied the character of the land and taken the seasons into account – he took a bold step, planting rare palms in the open. In those days, in an area where it snowed in winter and which was subject to a lot of frost, palms were invariably protected in conservatories. So planting this species in a garden was a considerable challenge and called for great expertise. “In the valley there are still some old people who recall stories about long processions of wagons, drawn by oxen, which carried fresh, soft soil from the banks of the Tronto river up the sides of the hill,” recalls the Princess. Winter had quite a few

reserves when it came to flowers. He believed that what mattered in a garden was the monumentality of the plants, and their capacity to create a chromatic palette of hues, from pale greens to red, brown, dark green and yellows, Flowers, maintained the great botanist, tended to disturb this concentration of tints, and so Winter only accepted white or blue flowers, which tend to be less o b t r u s i v e i n t h e g r e e n e r y. “This is not a typical Italian garden,” says Princess Giulia Panichi Pignatelli. “You could best describe it as a romantic French-Ligurian garden or, to be more precise, a perfect example of the unique personality of a scrupulous botanist.” To d a y t h e g a r d e n h a s acquired a new personality thanks to the Princess's

Il giardino bioenergetico del borgo storico Seghetti Panichi - Borgo Seghetti Panichi's bio-energetic garden


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creare nel parco sistemi naturali capaci di ottimizzare ed amplificare positive radiazioni di origine e di influenza biologica. Che le piante siano benefiche per le persone è una convinzione molto antica. Lo sapevano i nostri antenati, come dimostrano i boschi sacri, santuari primordiali dove gli alberi erano oggetto di culto e di rispetto. In tempi piÚ recenti studi fatti dal Professor Kunnen hanno permesso il rilevamento dell'esistenza di campi elettromagnetici di interesse biologico presenti in natura, emessi

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dall'uomo e dai vegetali Il giardino bioenergetico contemporaneo, come quello concepito da Nieri, usa la tecnica innovativa da lui ideata, quella dei 'Bionenergetic Landscapes' che permette di rilevare e creare particolari aree terapeutiche. Nel Parco Storico Seghetti Panichi la presenza di numerose piante benefiche appartenenti alle tipiche specie mediterranee - ad esempio l' agrifoglio, i cui effetti sono molto positivi sul sistema nervoso, il leccio, benefico sul sistema cardiocircolatorio, o ancora l'alloro

daughter, Stefania Pignatelli Magona CortĂŠs, who called in Marco Nieri, an eco-designer from Bologna, Nieri works with Walter Kunnen who, in 1960, founded Archibo Biologica in Antwerp an important centre for scientific research on the biosphere and influences of natural and artificial elements on living beings. At Borgo Seghetti P anichi Nieri was asked to design and create a series of natural systems with the aim of optimising and amplifying positive biological radiations. Since ancient

times man has believed that plants are beneficial. Our ancestors knew it. Just think of the scared woods, those primordial sanctuaries where trees were objects of cult and respect. In more recent days the studies carried out by Professor Kunnen have proved that electromagnetic fields of biological interest, emitted by men and plants, exist in nature. In contemporary bioenergetic gardens, like the one conceived by Nieri in Castel di Lama using his innov a t i v e ' B i o - e n e r g e t i c L a n d-

Il giardino bioenergetico del borgo storico Seghetti Panichi - Borgo Seghetti Panichi's bio-energetic garden


che ha un ottimo effetto sul sistema immunitario - ha reso possibile evidenziare vaste aree e percorsi che hanno specifiche influenze sugli organi e sulle funzioni biologiche grazie all'interazione dell' elettromagnetismo naturale del luogo e quello specifico emesso dai vari tipi di piante. Spiega Marco Nieri “sedersi con calma o distendersi in queste zone nel Borgo Storico Seghetti Panichi consente di percepire con ancora più facilità i benefìci terapeutici che alimentano il buon funzionamento del nostro corpo”.

BORGO STORICO SEGHETTI PANICHI

Via San Pancrazio, 1 63031 Castel di Lama (Ascoli Piceno) Le Marche, Italia Tel. +39 0736 812552 Fax +39 0736 814528 www.seghettipanichi.it info@seghettipanichi.it

www.regione.marche.it

scapes' technique, it was possible to detect the areas with specific therapeutic properties. The presence in this garden of many typically Mediterranean plants with beneficial properties has made it possible to identify vast areas and create trails that have specific influences on the biological functions. Mediterranean plants such as holly, which acts beneficially on the nervous system, holm oaks which are beneficial to the cardiovascular system and laurel which has very positive effects

on the immune system. The interaction of the garden's natural electromagnetism and the specific electromagnetism of the many different types of plants it contains create areas in which the different influences are concentrated and can also be perceived. Marco Nieri explains: “Sitting down or lying down and relaxing in these areas in the Borgo Storico Seghetti Panichi garden makes it easier to feel the therapeutic benefits that act on and help the proper functioning of the body.”

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Eco dei Miti

L'oste romano innamorato di

r o l y a Liz T Testo di Caterina Eleuteri

È

una storia d'amore poco nota quella di Mimmo Cavicchia, ristoratore in Roma, per l'attrice Liz Taylor. Era cominciata negli anni della Dolce Vita, ma solo ora si è deciso a raccontarla in un'autobiografia firmata dalla nipote Franca Foffo. All'epoca qualcuno ne aveva parlato e qualche paparazzo li aveva immortalati insieme. La divina dagli occhi viola, a Roma per girare "Cleopatra", andava a mangiare con Richard Burton al suo ristorante, la Taverna Flavia, meta preferita della Hollywood sul Tevere. Tra amatriciane e fettuccine ai piselli, il giovane Cavicchia era rimasto stregato da Liz, a sua volta stregata dal bel tenebroso Richard Burton che, inconsapevole di quanto il destino gli stava per riservare, si era trascinata nella trasferta romana un'attricetta diciannovenne. Del resto anche Liz era allora sposata con Eddie Fisher che solo dopo aver letto negli occhi della sua bella la parola "fine" si rassegnò a tornare da solo negli States. Un triangolo, anzi, un quadridatero condito da scenate di gelosia, lanci di piatti, sbronze e anche da un'intossicazione da scatole di fagioli che -come riferirono le cronacheforse copriva un tentativo di suicidio. In fondo Burton, Marco Antonio nel film, non diceva forse a Cleopatra: "Tu ed io dimostreremo che la morte è meno forte dell'amore. Le tue labbra si porteranno via il mio respiro"? Ma nel mezzo c'era lui, Mimmo, un po' complice e un po' geloso, che piano piano si ritrovò innamorato perso, al punto di fare qualsiasi cosa per lei. Una volta trasformò il ristorante in grande giardino pieno di rose bianche -le sue preferite- svegliando alle due di notte i fiorai di Roma e spendendo la folle cifra per quegli anni di 500.000 lire. "Le avrei regalato il mondo intero -confessa- non bastava una miniera di diamanti per una donna tanto speciale". Saltavano tappi ed era sempre festa, tra i tavoli imbanditi del suo locale. C'erano star e registi, press agent e teste coronate: da Audrey Hepburn a Burt Lancaster, da Marlon Brando a Costantino di Grecia, da Joan Collins ad Ava Gardner. "Tutti personaggi di un film mai girato di cui -scrive Franca Foffo- lo zio era il regista". Soprattutto lei, Liz, brillava nel cono di luce rubando la scena a tutti. Per lei erano doni e pazzie ogni giorno: una volta si precipitò a Fregene a portarle le mozzarelle e lei, sulla spiaggia dove Fellini girò Lo Sceicco Bianco, gli disse: kiss me. Lui, vinto dall'emozione non la baciò. Avrebbe poi traversato l'Atlantico in un inutile viaggio a Los Angeles, per vederla. Poi lettere e, sempre a Natale, la Christmas card, ora incorniciati alle pareti. C'è persino un paio delle sue scarpette N.35 in una teca di cristallo, nella sala a lei dedicata. E' un amore non consumato, quindi eterno, che si intreccia alle storie folli dello star system, in cui il gossip cede spesso il passo alle emozioni. La Taverna Flavia oggi è forse il Museo del Cinema che manca a Roma, con centinaia di foto con dedica. C'è persino una ciocca di capelli della voluttuosa Abbe Lane. I divi di allora non ci sono più ma in tanti vengono ancora ad ascoltare Mimmo e le storie degli anni Sessanta, giudicati con severità dai benpensanti ma pieni di fermenti che portarono poi a cambiamenti epocali nella nostra società. "Con Mimmo, un' altra protagonista di questa vicenda è Roma -scrive il filosofo Tullio Gregory- che non era degradata e corrotta come oggi. Era quella di Vacanze romane, bonaria, sorniona e distaccata,che avendo conosciuto tanti papi e imperatori non si meravigliava più di nulla". Tanti vip sono ancora di casa alla Taverna Flavia, da Angelina Jolie a Vittorio Sgarbi, da Massimo Ranieri a Hugh Grant, da Andy Garcia a Ornella Muti, attratti dal menu che continua a celebrare la tradizionale cucina romana. Ma per i nostalgici ci sono anche piatti come l'Insalata Veruscka, un capolavoro light a base di verdure, funghi e formaggio, il Prosciutto alla Cleopatra, la Sella di vitella alla Burton e le Fragole con cannella alla Brigitte Bardot. E soprattutto c'è Mimmo Cavicchia, un signore sorridente a cui gli anni non hanno scalfito né la gioia di vivere né la memoria, felice di raccontare una storia di amicizia, border-line con l'amore, per una donna bella oltre ogni limite.

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L’oste romano innamorato di Liz Taylor


Applausi

Tacco punta, giravolta e su… Il ballo rinascimentale è ancora oggi motivo di eventi e mondanità, grazie alle associazioni di gruppi storici che ripropongono e tengono vive le tradizioni artistiche del passato.

Testo di Giuseppe Garbarino e foto concesse da La Rossignol e 8Cento Da sempre il ballo è motivo di allegria, colori e sfarzosità. Un tempo, come oggi, l'invito a una festa dove tradizionalmente parte della serata è dedicata a piroettare al centro di una sala, è motivo di interesse. Ma qual è il periodo storico che più di altri ha esaltato la danza? Non è facile dirlo, da sempre il genere umano ha identificato nel ballo tutta una serie di complessi aspetti relazionali, ma secondo qualche storico è il rinascimento che vede nella fioritura culturale, generalizzata a tutte le forme artistiche, anche una nuova vita per questa delicata forma di corteggiamento che si può riassumere con quel ritornello del XV secolo, dedicato a Bacco e Arianna, di quei Canti Carnascialeschi che tutti conoscono come attribuiti a Lorenzo Il Magnifico, signore di Firenze: Quanto è bella giovinezza, Che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: Di doman non c'è certezza. Questa è la parte più famosa e ricordata della celebre poesia; parole di tristi e inesorabili presagi che si avvicinano con la vecchiaia. La cultura rinascimentale ha legato molto la poesia al ballo, ma mentre nell'immaginario collettivo il ballo è tradizionalmente appannaggio della nobiltà, questa poesia e il contesto sociale nel quale è stata scritta, ci ricorda come la danza n°1 - marzo 2011

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Applausi

non si può staccare dall'aspetto popolare degli eventi di piazza. Il ballo non era espressione solitaria nelle dimore patrizie, ma si manifestava durante i grandi eventi che, forse memori di ricordi pagani, inebriavano signori e popolani. Ne è un esempio proprio la Firenze di Lorenzo de' Medici, banchiere, mecenate e anche poeta. Il carnevale fiorentino, dimenticato da tutti, superava di gran lunga quello romano con le processioni cittadine con una folla di maschere a piedi e a cavallo. In questo grande evento collettivo si trovava almeno un carro, enorme e di forme fantastiche, sul quale prendeva posto un gruppo allegorico. Canti e balli si alternavano senza un progetto o un senso logico; i mendicanti erano accanto ai nobili, che si travestivano volentieri e le donne di facili costumi erano, per l'occasione, trasformate in dame. Qua e là si vedevano diavoli e santi, tutti avvolti dalla musica del carnevale. E' superfluo sottolineare che questa era una estremizzazione del concetto di ballo rinascimentale, molto diverso nella realtà con regole di passi, tempi e posizioni, ma non si può prescindere dal sottolineare come piacesse a tutti, soprattutto ai giovani nobili, di trovare il modo di liberarsi degli schemi rigidi della società dove vivevano. Oggi più che mai sorgono in giro per l'Italia gruppi di rievocazione storica, molti dei quali fondano la loro attività sulle attente ricostruzioni dei costumi, proponendo balli non improvvisati, ma frutto di studi attraverso documenti, dipinti e incisioni dell'epoca. Un gruppo che più di tutti si dedica professionalmente alla musica e alla danza del rinascimento italiano è La Rossignol di Mantova che ha all'attivo, fin dalla data della loro formazione il 1987, una importante attività artistica, non solo in Italia, ma anche in numerosi paesi esteri. La loro forza è lo studio delle fonti dirette, le indagini storiche, organologiche ed iconografiche, con particolare attenzione all'aspetto spettacolare del proprio lavoro. (www.larossignol.com) Come non ricordare i grandi balli in piazza di Volterra 1398, dove il maestro di cerimonie de La Rossignol, il magico animatore Domenico Baronio, riesce a creare con il solo cenno della mano,

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Tacco punta, giravolta e su...

magici disegni concentrici, accompagnando simbolicamente le centinaia di convenuti facendoli danzare sulla piazza dei Priori di Volterra, con la musica che allietava Elisabetta I o la corte dei Farnese. E' necessario però distinguere, perché in occasione di queste rievocazioni storiche sembra che questi balli fossero uguali a

quelli del popolo, ma non era così. Il ballo rinascimentale, quello vero, era solo per i nobili e soprattutto per una cosa si distingueva, per il contesto di architettura decorativa che, per le sue creazioni puramente fantastiche, meriterebbe una pagina speciale a parte. Tuttavia la danza di corte si ispirava anche a quella popolare rielabo-


randola secondo un proprio gusto e proprie esigenze, tra l'altro con la comparsa dei maestri di ballo, professionisti che si occupavano della composizione di trattati teorici, nei quali venivano codificati, descritti e talvolta illustrati anche i passi e le figure delle diverse danze.Lentamente sparĂŹ il giullare, quel retaggio medievale che fino a que-

sto momento storico era stato l'unico depositario dei segreti del ballo. Il fenomeno dei maestri di danza esplose in modo particolare nell'Italia settentrionale segnando profondamente la divisione tra i due modi di ballare. I piĂš famosi maestri di ballo dell'epoca furono Domenico da Piacenza, Antonio Cornazzano e Fabrizio Carosio. Il

ballo popolare era un momento di vita e di idealità morale fatto nelle piazze e sulle aie delle fattorie, quindi completamente diverso da quello dei signori che con altre movenze facevano le stesse cose, ma nei saloni dei palazzi o nei ricchi cortili dei palazzi. Nel popolo le ballate sono di gusto squisitamente profano, come il salatarello o altan°1 - marzo 2011

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Applausi

danza, un ballo nato nel 1300 come ballo di corte, ma che cadde in disuso agli inizi del 1600 rimanendo appannaggio della tradizione popolare che, col passare del tempo, aveva cambiato e accentuato il suo ritmo e i movimenti. In contrapposizione all'altadanza veniva eseguita la bassadanza, tipica della corte di Borgogna; si ballava in coppia o in fila e ne rimangono tracce descrittive nei Libri di Danza di Attaingnant, del 1530. Altro ballo idealizzato e trasposto fino ai giorni nostri, sempre grazie a gruppi di rievocazione o dai film storici, è la Padovana o pavana, un nome che forse deriva addirittura dal nome del pavone, per le sue movenze che ricordano il pavoneggiarsi. Questo era un ballo di esclusivo appannaggio nobiliare, una passeggiata solenne, cerimoniale, con passi semplici, strascicati, qualche punta avanti e indietro. Il popolo poteva solo immaginarla e non ballarla soprattutto per un motivo, diciamo, tecnico. Infatti i nobili ballavano su pavimenti di marmo, legno o terracotta, mentre il popolo doveva accontentarsi delle strade o altri luoghi dove, più che altro, si trovavano selciati sconnessi e pozzanghere con i resti imprecisati della civiltà dell'epoca. Si trattava comunque di danze con uno schema più o meno fisso, anche per la gagliarda, l'alemanda e la corrente, tutti balli che vengono riproposti da vari

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Tacco punta, giravolta e su...

cultori della tradizione rinascimentale, come l'associazione culturale 8CENTO, diretta da Alessia Branchi che ha al suo repertorio l'organizzazione di stupendi balli che spaziano dal rinascimento al walzer ottocentesco, segno dello studio e della ricerca che viene fatta sia sulle musiche che sui costumi. (www.8cento.org) Non dobbiamo dimenticare che anche l'universo degli strumenti era molto diverso da quelli che conosciamo oggi. I nomi sembrano uscire da un libro di favole: ghironda, colascione, cornamuti, striduli, vielle e bombarde. Entrare nei particolari di questi strumenti, spesso esempi di vera e propria tecnica musicale, come nel caso della ghironda sarebbe ora sicuramente limitante e invitiamo tutti a partecipare a qualche manifestazione di ballo rinascimentale realizzata con musica dal vivo per rendersene conto. Per i signori il ballo era occasione di sfoggio straordinario di lusso e magnificenza, tanto che si formò un vero e proprio protocollo di usi e costumi da seguire durante i balli, che poi altro non erano che occasioni per combinare matrimoni, trattare affari commerciali e capire le persone, per dividerle tra amici e nemici. Il ballo diventò pertanto anche parte dell'educazione dei giovani nobili, come d'altronde accade anche oggi in certi ambienti sociali. In queste occasioni mondane erano gli

artisti a fare la parte dei leoni e degli organizzatori. Pittori e scultori si trasformavano in organizzatori, decoravano i luoghi per i balli, suggerivano la scelta degli abbigliamenti, il titolo della serata i belletti ed altri ornamenti per le dame e i loro accompagnatori. In secondo luogo si manifestava nell'essenza stessa del ballo un intreccio poetico, infatti mentre il medioevo era stato il tempo classico delle allegorie, il rinascimento si riprese brevemente l'essenza umana senza cercare immaginarie ricostruzioni di personaggi mitologici, ma la cosa durò poco, forse proprio perché schiere di artisti sfaccendati si davano da fare per organizzare scenografie che duravano una sola serata, come poi avvenne in modo dirompente a partire dal periodo barocco. Ad ogni modo il ballo è una presenza prepotente in tutte le epoche storiche; cambiano gli abiti, i movimenti, i passi, la posizione della mano che nel rinascimento poneva la dama come sopra un piedistallo, ma l'essenza finale è sempre quella della ricerca di uno sguardo tra due innamorati, di un intreccio di situazioni che si vengono a creare in quei rari momenti di socialità tra i due sessi. In qualche modo la musica del rinascimento ricorda i lontani sentimenti dei trovatori provenzali, per i quali l'amor cortese era una filosofia di vita.



Ego

Il benessere viaggia sulle “sette note” Testo di Giovanna Vecchiotti

“Suonala Sam. Suona la nostra canzone...”. Il volto etereo di Ilsa riempiva lo schermo mentre le note, liberate dai tasti del pianoforte, la riportavano indietro nel tempo, ai giorni felici vissuti a fianco del suo Rick. Una delle scene più famose del film Casablanca, forse non sarebbe ricordata da milioni di persone se a sottolineare la nostalgia, la disperazione e l'amore che attanagliava i protagonisti della pellicola, impersonati dagli indimenticabili Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, non ci fosse stata As time goes by, la canzone che ha fatto sognare più di una generazione. Come per Ilsa e Rick, la musica ci accompagna nella quotidianità, sottolinea momenti importanti, ne imprime altri nella memoria. A ben vedere, ognuno di noi è in possesso della “colonna sonora della propria vita”; è sufficiente un ritornello ed improvvisamente l'evento legato a quella canzone riemerge nella nostra mente: il giorno della laurea, la nascita di un figlio, il primo bacio, l'inizio di un amore. Ogni coppia ha la propria “canzone”, quasi che una melodia abbia il potere di cementare l'unione più dell'amore stesso. La musica è un linguaggio universale: accomuna, distingue, identifica. Ogni Nazione ha un inno che la rappresenta, il suono della fanfara è abbinato alla corsa dei bersaglieri, i militanti dei partiti politici hanno una canzone che rafforza il loro senso d'appartenenza. Nelle cerimonie religiose il canto sottolinea i momenti di vicinanza a Dio, e non sarebbe una festa di compleanno se amici e parenti non cantassero “Tanti auguri a te!” a squarciagola. Sin dall'antichità, all'interno delle diverse culture si sono sviluppate differenti espressioni musicali tutte accomunate, però, dall'idea che la musica fosse un dono degli dei all'uomo. Questa dimensione soprannaturale ha incrementato l'idea che le note sprigionate da uno strumento, trasformandosi in energia, avessero potere taumaturgico dal momento che influenzavano l'animo umano. Non a caso i sacerdoti egizi accompagnavano la somministrazione di medicinali pronunciando litanie ritmate, mentre gli sciamani delle tribù indiane nordamericane aspettavano la guarigione dei malati cantando seduti accanto a loro al suono di primitivi strumenti ricavati da zucche svuotate.

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Il benessere viaggia sulle „sette note“


Persino i disturbi psichici erano curati con il canto, tramite il quale gli spiriti maligni venivano invitati ad abbandonare il corpo del malcapitato. Risanare attingendo alla musica fu una delle imprese di Orfeo, suonatore così abile che riuscì quasi a riportare in vita la sua Euridice, soltanto con il suono della lira. Miti, leggende e pratiche d'altri tempi, ma tutti con un comune denominatore: la musica ha il potere di guarire, e questo perché è molto di più di un amalgama di note; è il tramite tra le emozioni, i sentimenti, i pensieri nascosti e la realtà. Comunicare attraverso la musica si può. Gli spirituals permettevano agli schiavi afroamericani di gridare il loro dolore; il fado è memoria di emigrazione e di separazione, e se si vuole far conoscere al mondo i propri sentimenti amorosi è sufficiente una serenata sotto il balcone della ragazza di cui si è innamorati. Oggi, medici e psicologi sono concordi nel riconoscere che esiste una relazione tra emozioni, benessere psico-fisico e musica. Le emozioni che non vengono manifestate alimentano lo stress, e quando lo stress viene reiterato e prolungato oltre la soglia di resistenza si determina un abbattimento delle difese naturali dell'organismo, le parti deboli diventano vulnerabili e quindi facilmente attaccabili dalle malattie. In questo quadro la musica, permettendo alle emozioni di esprimersi e quindi liberarsi, può esercitare un'azione lenitiva dello stress dissipando le tensioni e incidendo positivamente sia sulla psiche che sul fisico. “Una tristezza così non la sentivo da mai/ ma poi la banda arrivò e allora tutto passò…” cantava Mina, e mentre infondeva il buonumore a chi l'ascoltava sintetizzava una delle teorie su cui si basa la musicoterapia, la disciplina che, attraverso la sperimentazione scientifica, ha dimostrato come la musica possa contribuire al benessere della persona migliorandone la qualità della vita, e che vede la sua applicazione anche in quadri clinici complessi come pazienti in coma, malati terminali, persone affette da disturbi psichiatrici e in quelle colpite dal morbo di Alzhaimer. “Quando la banda passò nel cielo il sole spuntò…” Già, ma se se la giornata è andata storta e non abbiamo una banda a portata di mano, come si fa a riacquistare il buonumore? Gli studiosi ci suggeriscono che se si desidera modificare il proprio stato emotivo si può iniziare con lo scegliere una musica che si

avvicina ai nostri sentimenti iniziali, e poi proseguire scegliendo canzoni che ci portano a vivere emozioni diametralmente opposte. In questo modo potremo gradualmente trasformare il nostro stato d'animo negativo in uno positivo. Ma ascoltare musica non incide soltanto sull'umore e sulle funzioni immunitarie, aumenta anche la produttività (se c'è della musica di sottofondo si lavora meglio, persino le mucche fanno più latte!), stimola la digestione (le catene di fast food, per esempio, utilizzano musiche con ritmi intensi così da incoraggiare i clienti a consumare i pasti in fretta), aumenta la resistenza fisica (ne è testimonianza il fiorire dei corsi musicali nelle palestre), migliora le prestazioni sportive, accresce il livello di endorfine (che diminuiscono il dolore e aumentano il piacere), stimola il romanticismo e la sessualità, migliora la qualità del sonno, produce un senso di sicurezza. Sono state riscontrate anche reazioni a livello fisico, basate sul tipo di musica ascoltata: più veloce è il ritmo maggiore è il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la respirazione; se il ritmo è lento le reazioni dell'organismo sono opposte. Tali risposte erano note sin dall'antichità, tanto che Pitagora (filosofo e matematico greco) era solito iniziare la giornata con i suoi discepoli suonando musiche allegre e stimolanti, mentre la sera liberava le loro menti dalle preoccupazioni e dalle fatiche facendo ascoltare melodie rilassanti e concilianti un sonno ristoratore. Se si desidera migliorare la creatività, l'apprendimento, la concentrazione e l'attenzione allora bisogna attingere a piene mani alle musiche di Mozart, in particolare alla Sonata per 2 pianoforti in Do maggiore K448. Il dottor Frances H. Rauscher, dell'Università della California, scoprì che dieci minuti di ascolto di quella musica erano sufficienti ad innalzare temporaneamente di 8-10 punti il quoziente intellettivo degli studenti sottoposti all'esperimento. Il cosiddetto “effetto Mozart”, i cui benefici si sono riscontrati anche in pazienti con crisi epilettiche o in stato di coma, aiuterebbe i circuiti neuronali a organizzarsi meglio rafforzando i processi creativi, favorendo la concentrazione e l'intuizione. In ogni caso sono i suoni ad alta frequenza ad attivare maggiormente il nostro cervello e a regalare quella che viene definita la “vitamina C” cerebrale. Se si desidera dare una sferzata di vitalità ai neuroni, basta posizionarsi per qualche minuto davanti allo stereo, orientare l'orecchio destro verso gli altoparlanti, abbassare il volume dei bassi, alzare gli acuti e ascoltare la musica; quella compresa tra i 200 e gli 800 hertz fornisce la carica maggiore. E' bene sapere anche che i canti gregoriani, stimolano la meditazione e riducono lo stress; la musica barocca (Bach, Handel, Vivaldi) favorisce lo studio ed il lavoro; Mozart e Haydn migliorano la concentrazione. Naturalmente più si ricorre al genere di musica che più si ama, maggiori saranno i risultati positivi ottenuti. Appurato che l'ascolto regolare della musica può essere un modo efficace e divertente per tenersi in forma, c'è un altro fattore da non trascurare: la musicoterapia, basandosi su meccanismi psicologici, è immune da controindicazioni e da effetti collaterali tipici dei farmaci. Insomma è sufficiente una radio, qualche cd, o meglio ancora, realizzare una personale compilation di brani preferiti per rigenerare il corpo e lo spirito. E se poi ci mettiamo a canticchiare, anche se stonati, tanto meglio. Staremo meglio più in fretta!

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Arte & cultura

Trattenimenti in giardino Società, natura e paesaggio da Van Deynen e Magnasco

Testo di Luisa Chiumenti

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l giardino é stato sempre un tema offerto alla fantasia dell'Uomo, come un luogo in cui é possibile intrecciare rapporti dolci e affascinanti o svolgere attività creative o sognanti, ma è stato anche definito come luogo di forte interesse pubblico, fino ad essere inserito nella apposita “Carta di Firenze' del 1982 (art.1), come "una composizione architettonica e vegetale che dal punto di vista storico e artistico può

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Trattenimenti in giardino

essere considerato vero e proprio “monumento". Ed ecco come i Musei di Strada Nuova di Genova hanno saputo cogliere l'importanza del tema, organizzando una mostra dedicata proprio al “trattenimento in giardino” (Trattenimenti in giardino a confronto Società, natura e paesaggio da Van Deynen e Magnasco), specificamente attraverso un fervido periodo artistico, quello della pittura fra XVI e XVIII secolo. Il tema

scelto consiste in un'inedita opera di Guilliam van Deynen (15751618) considerata una delle prime vedute non ideali di Genova: un "trattenimento" in una villa d'Albaro che, poco più di un secolo dopo, venne ripreso da Alessandro Magnasco. La mostra propone così uno straordinario confronto tra due artisti che raccontano le feste dell'alta società nei giardini delle ville genovesi. Il termine “giardino” si affianca qui diretta-

mente a quello di “paesaggio”, avendo la stessa radice, mai nettamente separata, di partecipazione ad un medesimo, particolarissimo ambiente in divenire. La storia del giardino e del paesaggio è in effetti una disciplina piuttosto recente, ma la disponibilità di contributi é già copiosa e di notevole spessore a partire dalla Geschíchte der Gartenkunst di Marie Luise Gothein, pubblicata per la prima volta a Jena nel 1914


e tanti altri studi che arrivano fino ai più recenti lavori di Fariello, Tagliolini, Mosser Teyssot, Zoppi e di Vincenzo Cazzato con il suo bellissimo “Atlante” in due volumi, pubblicato recentemente dal Poligrafico dello Stato. Il percorso della mostra muove dall'identificazione, in una collezione privata, di questo prezioso dipinto fiammingo del primo Seicento che, nel taglio compositivo e nella veduta, costituisce indiscutibilmente il diretto precedente del celebre “Trattenimento in un giardino di Albaro” di Alessandro Magnasco (1667-1749), uno dei capolavori dei Musei di Strada Nuova, fatto oggetto già nel passato di studi approfonditi. L'esposizione permette quindi di analizzare la tela genovese sotto nuovi punti di vista. Un aspetto significativo della mostra verte infatti sul rapporto con le immagini di giardini popolati da figure prodotte nell'ambito della cultura fiamminga e comunque nordica, cui appartennero pittori come Jan Wildens e Cornelis De Wael, attivi a Genova all'inizio del Seicento quando pure vi lavorò quel Guilliam van Deynen del quale viene esposto un inedito “Trattenimento”. Questo dipinto infatti costitui-

sce indiscutibilmente il precedente diretto di quello del Magnasco, l'opera cioè che quest'ultimo artista dovette guardare per giungere al suo capolavoro. La seconda parte dell'esposizione indaga invece sulla contrapposizione tra la tela di Magnasco e analoghi soggetti settecenteschi di altri celebri artisti come Giovanni Pannini e Filippo Falciatore, dimostrando il taglio innovativo della tela genovese sia nei termini della veduta che, soprattutto, della società che vi è rappresentata, dato il tono per nulla celebrativo e diverso rispetto al gusto corrente all'epoca. La mostra, nata da un'idea di Piero Boccardo e curata dallo stesso illustra molto bene le origini nordiche del tema del “trattenimento in giardino”, che nel secolo XVII sarebbe poi stato accolto da numerosi altri pittori italiani e francesi. I bei giardini in secondo piano non sono deserti, ma animati di personaggi, come la coppia ai piedi della scalea: una dama vestita con eleganza e un gentiluomo che la saluta scoprendosi il capo ed offrendole dei fiori; un chiaro atteggiamento galante che trova nel giardino un'ideale atmosfera. Il giardino quindi viene considerato, come

dicevamo più sopra, uno scenario perfetto per il genere umano: basti pensare all'Eden della Genesi e al paradiso non soltanto cristiano. E, come nota Boccardo nella introduzione al Catalogo della mostra: “l'ambientazione in giardino anche di altre attività umane, in particolare ricreative e di svago: dalla semplice passeggiata alla festa, al banchetto, all'intrattenimento musicale, determina un valore aggiunto”, rispetto a quelli positivi gi° riconosciuti al contesto.” Speciale risulta inoltre il rapporto fra Genova e la Natura, in modo particolare tra la città e i suoi fiori e i suoi giardini, tanto che, per la sopracoperta del “Catalogo delle ville genovesi” curato da Italia Nostra nel 1967, venne utilizzata proprio l'immagine del pittore fiammingo Jan Massys che punta su una delle più fantastiche visioni di Genova. La città é presa da un punto di vista a mezza costa tra quello che era allora il sobborgo di Fassolo e quello attuale di Granarolo, con la figura di Flora in primo piano, in atto di presentare un piccolo mazzo di garofani, mentre davanti a lei un grande vaso espone una molto più grande varietà di splendidi fiori.

GENOVA – “Trattenimenti in giardino a confronto - Società, natura e paesaggio da Van Deynen e Magnasco” In mostra fino al 01/05/2011 Per informazioni: Palazzo Bianco - Museo di Strada Nuova

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Ecoenergia

Honda FCX Clarity

A IDROGENO LA MACCHINA DEL Testo di Marco La Valle

Se ne parla poco del fuel cell a breve termine (semmai per il 2020), preferendo scommettere sulle elettriche pure o sulle ibride plugin, cioè ricaricabili da rete, la Honda continua a puntare sull'idrogeno. E ne è tanto convinta da arrivare, con la sua FCX Clarity, alla sfida del mercato. La vettura con celle a combustibile derivata dalla concept FCX, è la prima auto a idrogeno ad essere prodotta in serie. La FCX Clarity è un'auto di dimensioni generose - 4 metri e 83 - che ospita quattro persone e vuole accreditarsi come una macchina "normale", da usare tutti i giorni, anche in virtù di un'autonomia dichiarata dalla Casa di 430 km e una velocità massima di 160 km orari, adeguata per le highways americane.

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A idrogeno la macchina del futuro

La FCX Clarity è spinta da un motore elettrico da 140 CV alimentato dalle fuel cell: qui l'idrogeno si combina con l'ossigeno dell'aria e l'energia derivante dalla reazione è trasformata in elettricità utilizzata per muovere il veicolo. Quella in surplus viene immagazzinata in un pacchetto di batterie agli ioni di litio, alimentate anche dall'energia cinetica sviluppata in frenata e decelerazione, e resta a disposizione per quando serve. L'unità fuel cell, di dimensioni ridotte, trova posto nel tunnel centrale tra i due sedili anteriori. Ciò che rende più interessante la mossa della Honda è la visione globale che l' accompagna. Accanto alla macchina, la Casa giapponese ha presentato anche la quarta genera-

zione della sua "stazione energetica sperimentale domestica", una sorta di "centrale" da collocare in giardino che, non soltanto produrrebbe (dal gas naturale di rete) l'idrogeno per alimentare il serbatoio della FCX Clarity, ma anche l'energia elettrica per il riscaldamento e il condizionamento di una casa americana di medie dimensioni. La Casa giapponese sta infatti sperimentando al Los Angeles Center di Honda R & D Americas, Inc. questa futuristica tecnologia che sarà destinata, una volta messa in produzione, al rifornimento in ambienti domestici delle vetture ad idrogeno, grazie ad una dimensione ridotta del 25% rispetto al progetto che sostituisce.


FUTURO L'Honda Solar Hydrogen Station, oltre a ridurre notevolmente l'ingombro, grazie alla connessione "Smart Grid" permette una ricarica "lenta" di 8 ore che permetterebbe di soddisfare i bisogni di spostamento dell'utente medio, inoltre grazie all'uso di pannelli solari, durante il giorno è possibile ricaricare la rete elettrica, eliminando così il problema dello stoccaggio dell'idrogeno. Ovviamente la tecnologia usata per queste stazioni di idrogeno solari può essere trasferita anche in stazioni di rifornimento pubbliche usando la ricarica veloce di 5 minuti che permetterebbe ad esempio alla FCX Clarity, forte già di un'autonomia di 460 km, di affrontare anche lunghi viaggi.

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Il lusso accarezza la natura

Il Four Seasons Resort Seychelles

Testo di Chiara Pozzi

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l Four Seasons Resort Seychelles, inaugurato nel febbraio 2009, è stato costruito nel pieno rispetto dell'ambiente che lo circonda, mantenendo intatto l'habitat naturale e permettendo all'acqua piovana di scorrere secondo i dettami della natura e alla vegetazione di crescere rigogliosa e spontanea. Il resort si fonde idealmente con l'architettura naturale dell'isola. Le 67 ville sono allo stesso tempo rustiche ma sofisticate e riflettono una forte influenza creola. Le bianche pareti lignee contrastano con il tronco degli alberi mentre oggetti d'antiquariato francesi convivono con pezzi di artigianato di fattura locale. I danni all'ambiente sono stati ridotti al minimo ed i pochi alberi abbattuti sono stati riciclati nella pavimentazione in legno del ristorante Kannel, mentre i massi

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Il Four Seasons Resort Seychelles

rocciosi rimossi sono stati riutilizzati come rivestimento per le pareti in granito del resort. La Spa, votata una delle “Top 10 Getaway Spa "dai lettori del prestigioso “SpaFinder Choice Awards 2010” è anche presente nel Condé Nast Traveller's “Hot List delle Spa 2010”. Paradiso di serenità, arroccata 80 metri sopra l'idilliaca baia di Petite Anse, i cinque padiglioni individuali per i trattamenti, sovrastanti la vegetazione tropicale riflettono il design stile “treetopo” del Resort, con vedute dominanti sull' oceano e la giungla, elevando gli ospiti ad uno stato di benessere sublime. www.fourseasons/seychelles


Sport & avventura

Il trekking e le sue regole I

l trekking è una pratica sportiva divertente e praticabile ad ogni età, l'importante è conoscere le regole necessarie a rendere piacevole l'attività in montagna. Di base è importante avere un buono stato di salute e un sufficiente livello d'allenamento, sapendo che esistono delle controindicazioni per patologie cardiocircolatorie, respiratorie, renali, ematologiche e metaboliche. Per salite superiori ai 2000 metri bisogna osservare tutte le regole che evitano l'insorgere del mal di

montagna, senza dimenticare l'obbligo di dormire sempre a quote inferiori rispetto a quelle raggiunte durante la giornata di trekking. Il primo giorno è bene restare a quota 1800/2000 metri senza compiere sforzi eccessivi, bevendo acqua in abbondanza. Nel trekking l' equipaggiamento riveste un ruolo molto importante. Sono consigliate calze da trekking con scarponcini già precedentemente testati, in modo da evitare il fastidioso insorgere di dolori o vesciche. Nel caso in cui ciò non fosse

Testo di Marinella Rewinski Foto in alto di www.mountainblog.it

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possibile è consigliabile applicare sul tallone e la punta delle dita, un cerotto di cotone. Un cappello a tesa larga, gli occhiali ben schermati, una crema solare e uno stick per le labbra rappresentano i sistemi di difesa dalle radiazioni solari. Il tempo in montagna cambia rapidamente specie nel pomeriggio, sarà necessario, quindi, portare nello zaino, un impermeabile e non un ombrello, per ripararsi dalla pioggia, un maglione, dei guanti per difendersi dal freddo, indumenti di ricambio chiusi all'interno di sacchetti di plastica. Un piccolo pronto soccorso costituito da un antidolorifico/antinfiammatorio, un antistaminico, un collirio, dei cerotti, garze e il disinfettante fa parte dell'attrezzatura. I bastoncini telescopici da trekking consentono, inoltre, un notevole risparmio d'energia, aiutando nel salire di quota e proteggendo le articolazioni durante la discesa. Ricordarsi di bere durante la giornata è una delle regole più importanti: la borraccia, quindi, è un oggetto che non può mancare. Ultimo aspetto da non trascurare è l'alimentazione. Ad un buon camminatore sono necessarie anche 5000 calorie al giorno, la maggior parte di queste dovranno essere fornite consumando dei carboidrati complessi (pasta, pane, riso) che approvvigioneranno di glucosio i muscoli, depauperati dall'attività giornaliera.

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Il trekking e le sue regole


Luoghi di „vini“

Vino dell'Anima

Testo di Mariella Morosi

L

e chiamano le suore del vino. Sono soltanto quindici e con l'aiuto di confratelli laici e di volontari coltivano un vigneto di 12 ettari producendo vini di qualità rigorosamente biologici. Siamo in provincia di Oristano, a San Vero Milis, in una terra ricca di reperti prenuragici, non lontano dallo stagno di Cabras, regno dei fenicotteri rosa. Un cartello giallo con la scritta "Comunità Evaristiana" ci porta al convento, nella frazione di Putzu Idu. All'inizio la scelta delle suore di impiantare vigne fu coraggiosa, in anni in cui il vino non faceva né notizia né mercato, e figuriamoci quello sardo. Ma su quei terreni aridi e sabbiosi, ricevuti in donazione, il grano non cresceva e bisognava trovare un'alternativa per aiutare i poveri.

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Luoghi di „vini“

Una decisione oggi vincente per l'ottima produzione -tre Dop e tre Igp- ottenuta soprattutto da vitigni autoctoni come il Nasco, la Malvasia di Cagliari, il Cannonau, il Monica e il Bovale Sardo. A guidare le consorelle è suor Margherita, energica ad organizzare i lavori agricoli quanto dolce a coccolare i suoi figli. Sì , perché la Comunità Evaristiana ospita bimbi e ragazzi diversamente abili o disadattati, con alle spalle storie di abusi e di abbandoni. Qui ritrovano tante mamme e l'affetto dei confratelli e dei volontari che danno una mano quando serve. Sono una ventina i ragazzi ospitati, ascoltati e aiutati da insegnanti di sostegno e recuperati alla vita, ma altri ne arrivano e restano pochi giorni, tra un affidamento e l'altro. "Non si sa mai quanti saremo a tavola -dice suor Margherita- le forze dell'ordine ce li portano a tutte le ore, frastornati e impauriti, spesso sudici come Dio è grande". C'è Antonio che aveva paura di diventare grande, Rosaria discriminata perché ritenuta illegittima, Andrea troppo malato per essere assistito in famiglia. Tutti portano avanti il messaggio del fondatore dell'ordine, padre Evaristo Madeddu, che nella Sardegna latifondista degli anni Venti ispirandosi a San Francesco si dedicò ai poveri con iniziative forti che fecero irrigidire le autorità ecclesiastiche, un po' come avvenne per Padre Pio. Si dovette attendere gli anni Sessanta perché la Chiesa ufficiale riconoscesse pienamente la sua opera, tanto contestata e contrastata. Ma la solidarietà parte e arriva a Putzu Idu: un produttore di pasta non fa mai mancare il primo piatto e l'orto e il pollaio danno anche più di quel che serve a Suor Remedia, che traffica in cucina con i pentoloni. La Provvidenza -dicono- arriva sempre al momento giusto, e poi a mandare avanti il convento c'è il vino, apprezzato e ora scoperto anche dalle più nobili guide, di cui insieme alle suore si occupa un nipote studente laureando in enologia. Inutile però cercare le religiose al Vinitaly o agli altri eventi a tema. Delegano infatti i confratelli più assidui, Marco, Salvatore e Roy perché, pur nella consapevolezza dell'impatto mediatico di una loro presenza, non vogliono lasciare soli i ragazzi e poi c'è sempre troppo da fare in campagna. Una storia minore di ordinaria accoglienza, questa delle Suore Evaristiane? No, perché un giorno si è inserita una storia nella storia che sembra uscita dalle pagine di Salvator Gotta o di Edmondo De Amicis e che merita di essere raccontata. Anni fa un gruppo di alpini in trasferta capitò per caso per acquistare vino e, colpito dallo stato della struttura, quasi cadente, decise di aiutare le suore senza troppe parole, alla montanara. Le penne nere guardarono, misurarono, chiesero planimetrie e mappe catastali e ripartirono. Mesi dopo, all'improvviso, una telefonata: "Arriviamo giovedì". Una colonna di camion targati Trento, carichi di mattoni e cemento si profilò all'orizzonte e una squadra di 35 penne nere, insieme a geometri ed elettricisti, si rimboccò le maniche, ricevendo il cambio ogni settimana per quattro mesi e coinvolgendo i commilitoni sardi che risposero subito all'appello. Alle incredule suore non restò che trafficare ai fornelli con i robusti sapori sardi, per non far sentire agli alpini la nostalgia della polenta. Una targa,"Via degli Alpini" è stata posta sul lungomare per ricordare la vicenda. Le penne nere tornano da allora ogni anno, con i figli e i nipoti, e non si tirano indietro se c'è qualche lavoro particolarmente pesante da fare. Ora la cantina è a posto, con tutte le attrezzature fiammanti, e in caso di necessità

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Vino dell’Anima

chissà che gli alpini non si inventino un'altra spedizione. Una storia a lieto fine, questa, ma quali sono i momenti più belli? "Quando i nostri ragazzi escono da qui e si inseriscono nella società", dice Suor Margherita, anche se sa bene che non sempre è così. E' solo di sera, quando tutti sono a letto, che le religiose ne parlano e fanno progetti, davanti a una

tv accesa che nessuna guarda, mentre Suor Teresa, 101 anni, rammenda senza occhiali e suor Emanuela riferisce sui lavori in vigna e in cantina. Domani è un altro giorno, è il caso di dire. www.regione.sardegna.it


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Gusto

Calda d'inverno,

La polenta Testo di Francesca D'Antona e Foto dell'Hotel Miralago di Val Tartano

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Calda d’inverno, la polenta

“Mangiapolenta e mangiamaccheroni”. Il detto popolare che infierisce sull'eterna spaccatura tra Nord e Sud in realtà non ha radici troppo profonde. Almeno secondo i testi storici i quali riferiscono che i polentoni più accaniti nell'età classica fossero proprio i Romani. Il nome stesso, “ pulmentum” lo inventarono loro, grandi mangiatori di pappette calde a base di cereali macinati. E' vero che alcune ricette le avevano copiate al Nord, le “pultes julianae” , ad esempio, che gli abitanti dell'attuale Friuli preparavano con farina di spelta (cereale simile al frumento) cotta con latte, formaggio e grasso di carne. Ma è anche vero che i Romani ne inventarono di proprie. Tipica una polenta di farro e orzo amalgamati con formaggio e uova, di cui pare fosse molto ghiotto Catone. I gourmet dell'epoca vi aggiungevano qualche cucchiaiata di “garum”, potente intruglio di pesci macerati e sfatti in una brodaglia di vino, aceto, spezie ed erbe aromatiche. D'altronde, quando arrivò da noi la polenta vera, quella fatta con il mais che Cristoforo Colombo importò in Europa, i primi a metterla in tavola furono i napoletani. Prima ancora che i veneti inventassero la “polenta e osei”, forse a Napoli si mangiava già la polenta pasticciata, in Calabria la polenta insaporita con verdure e carne di maiale e in Abruzzo e nel Lazio la polenta con le spuntature. Non facciamone comunque una questione di primogenitura, altrimenti dovremmo ammettere che il titolo di “ mangiapolenta” spetti addirittura ai nostri antenati delle caverne. Pare infatti che, non appena scoperto il modo di accendere il fuoco, i nostri progenitori si accorsero che era possibile cuocere in acqua più specie di semi spezzati, ottimi integratori per la loro alimentazione quasi esclusivamente carnivora.. In ogni caso, al di là delle origini, la polenta assicurò sempre una tranquillità alimentare. Facile da piantare in terreno umido che non necessita di aratura, velocissimo nella crescita, l'”oro giallo” ( così come Maya e Aztechi chiamavano il mais) non solo è portatore del frutto finale, cioè il grano, ma permette anche raccolti intermedi come canne e foglie da cui ricavare zucchero e bevande alcoliche, pannocchie appena sbocciate da gustare abbrustolite o lesse, tronchi per costruire tetti per abitazioni. Maya e Aztechi ne veneravano a

ragion veduta la dea protettrice, Xilotl. La diffusione del cereale in Europa non fu rapida e comunque la polenta fu a lungo considerata un cibo per poveri. Finalmente, ma siamo già nel '700, anche i ricchi banchetti dell'aristocrazia accolgono la “gialla novità”. La polenta, in tutte le sue varianti, conquista anche i palati raffinati, dà nome ad accademie, circoli e società. Ai nostri giorni, grazie all'inventiva della buona cucina regionale italiana, ne vantiamo numerose varietà e ricette. Le differenze cominciano dalla farina di granoturco che può essere fina o finissima per ottenere una polenta morbida oppure granulosa, la cosiddetta “bergamasca”, per essere tagliata a fette. Le salse, i condimenti e le pietanze da accompagnare, fanno il resto. La preparazione di base, intesa in modo tradizionale, è sempre la stessa. Un paiolo di rame non stagnato, con tanto di manico per appenderlo al camino e un cucchiaione di legno sono i classici arnesi per la grande fatica. Perché di fatica si tratta, anche se il gioco vale la candela. Si mette il paiolo sul fuoco con acqua e al primo bollore si versa a pioggia la farina gialla, lentamente affinché non interrompa il bollore e non faccia grumi. E si inizia a mescolare senza interruzione, per circa un'ora! Soda e fumante sul tagliere di legno, filo pronto ( mai il coltello!), per affettarla. Condimento o pietanza d'accompagno ben caldi. Ed è capolavoro.

L'Accademia della Polenta Negli alberghi della Val Tartano, Miralago, Vallunga e Gran Baita, si tiene ogni anno, nel mese di Novembre, la manifestazione "Delizie di Polenta " organizzata dall' Accademia della Polenta e dagli albergatori in collaborazione con la Pro Loco Val Tartano (tel.0342645141 - presidente Carla Pasina). “Siamo alla sesta edizione, ogni anno i ristoranti degli alberghi elaborano un menù nuovo con cinque, sei portate a base di polenta, per offrire un nuovo modo di gustare questo antico alimento, non in modo affrettato e come piatto unico, ma in modo lento con accostamenti nuovi per presentare la polenta come piatto trasformista e molto attuale” dice Monica Barlascini dell'Albergo Miralago. info@miralago.net


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Vesti natura

Una calda sensazione chiamata

Cashmere Testo di Daniele Nencini e Foto dell'Archivio Chianti Cashmere

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Una calda sensazione chiamata Cashmere

E’ curioso, quell’impalpabile morbidezza che attraverso il tatto dà una piacevolezza al limite della sensualità, il cashmere, nasce dalla reazione al freddo della dignitosa capra Kel. La capra da cashmere, appunto. Almeno trenta gradi sotto zero, la temperatura a cui è abituata questa capra dal nobile pedigree, e la perfezione della natura che protegge e adatta gli esseri viventi all’ambiente, hanno fatto sì che il sottomanto dell’animale si arricchisse di una leggerissima lanugine, il duvet, una sorta di isolante dal freddo. E quanto più in alto vive, tanto più questa è abbondante e soffice. Una protezione primitiva che nelle abili mani degli esperti si trasforma in quel prezioso, ricercatissimo tessuto che è diventato in tutto il mondo lo status symbol dell’eleganza e del lusso. Una raffinatezza con precedenti illustri se è vero che, già nel 60 a.C. , anche Giulio Cesare ne era un estimatore. Conosciuto poi in tutto Occidente grazie a Marco Polo. Originariamente della regione del Kashmir, da cui il nome, in India settentrionale dove nel XV secolo questa razza di preziose capre cominciò ad

espandersi, da molto tempo ormai vive soprattutto in Tibet, Cina, Mongolia, e Iran. Anche se oggi, il cashmere più diffuso sembra essere quello della Mongolia. Della Mongolia Esterna, alle estreme propaggini orientali del Gobi, dove la temperatura in inverno scende a valori bassissimi. Da qui proviene il cosiddetto Cashmere Mongolia Brown, il più scuro dei Mongolia. Apprezzato anche come colore naturale ma comunque adatto per la produzione di filati di colore scuro. E il Cashmere Mongolia Light Grey, di colore grigio-beige, in genere utilizzato grezzo o per colori medi. I Mongolia hanno le caratteristiche tipiche di tutti i cashmere in termini di struttura della fibra, rispetto alle varianti cinesi sono però più ordinari e più lunghi. E se questa caratteristica consente di limitare il problema del pilling, formazione degli antiestetici pallini su certi tessuti di lana, tuttavia la qualità e la palpabilità sono inferiori al filato cinese. Le applicazioni principali del Mongolia sono nell'ambito della tessitura dove garantisce un’ottima morbidezza ad un prezzo normalmente molto più contenuto rispetto ai cashme-


re di origine cinese. Le applicazioni in maglieria, invece, richiedono più accurati trattamenti e sono meno ricercate. E’ il Cashmere China Brown la qualità più fine di cashmere, quella che proviene dalle province più lontane della Repubblica Popolare Cinese e dagli altipiani del Tibet. L'estrema finezza delle sue fibre e la difficoltà nel reperirlo lo rendono un prodotto estremamente prezioso. In termini di raffinatezza supera il China White, il quale, pur essendo ritenuto il più pregiato, a causa della lunghezza normalmente ridotta delle fibre non consente il raggiungimento di titoli molto fini e in alcune applicazioni potrebbe presentare un effetto pilling superiore. Il color tabacco chiaro del China Brown è particolarmente piacevole e caldo; se non viene tinto, dunque, mantiene intatte le straordinarie qualità della sua fibra. Due volte l'anno a Canton, in Cina, si tengono le grandi aste internazionali della lana di cashmere, durante le quali si vendono balle da 50, 100 e 200 chili di fibre. Un’organizzazione complicata vista la struttura interna della Cina divisa in varie province, ognuna rappresentata da corporazioni di allevatori che sono l’unico riferimento per gli acquirenti. E’ l’Head Office di Pechino l’organo centrale che controlla tali corporazioni, che dovrebbe garantire il prezzo ufficiale del cashmere, verificare le licenze di esportazione e i contratti di vendita. I parametri più importanti per valutare la qualità del cashmere sono la morbidezza, che può arrivare anche ai livelli della seta, e lo spessore della fibra che si esprime in micron. Cina, Tibet, Mongolia, Iran, producono circa il 90% del cashmere a livello mondiale. Nel XX secolo sono stati creati grossi allevamenti di capre da cashmere in Australia e negli Stati Uniti, e persino in una piccola zona del Chianti, in Toscana. Ma, come si è detto, l’origine della preziosissima lana è dovuta ad una reazione al freddo intenso e l’adattamento a ben altri climi a lungo andare potrebbe ridurne la produzione rendendo scarsa non solo la quantità ma addirittura la qualità delle fibre cashmere. Allevamento a parte, certo è che la lavorazione del cashmere più pregiato è da sempre appannaggio della Scozia e dell’Italia. Prima la Scozia dove ci sono località assolutamente deputate a questo, Suntime n°1 - febbraio 2011

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Vesti natura

come Hawick. Poi l’Italia, oggi in vari centri. Ovviamente parliamo di aziende leaders nel proprio settore perché posseggono il know how necessario. Solo l’arte italiana di alcune filature, per esempio, riesce a trasformare la nobile fibra in filato titolo 2/28.000, che permette di produrre preziosi capi di maglieria in cashmere. Dunque, lasciamo all’Oriente il monopolio del bestiame e quindi della produzione della materia prima, ma, parola di intenditori, è meglio affidarsi alle manifatture delle nostre latitudini. Tuttavia esiste un cashmere made in Cina, anche se si tratta di un tessuto di qualità inferiore, con finiture approssimative. Certamente il prezzo di quei capi, rispetto ai nostri, è fortemente invogliante. Il più pregiato cashmere è il cosiddetto two ply, a due fili ritorti, che garantisce una maggiore indeformabilità e durata del capo. Perché il cashmere è così costoso? In certi casi la capra da Cashmere viene sottoposta a selezioni genetiche, impegnative in termini economici e di tempo, per aumentare la produzione della preziosa lanugine e la sua qualità. Qualità che già in natura è notevole, fibre di diametro fra 14 e 18 micron (molto più fine della lana Merinos, la più pregiata tra le lane da pecora, che si aggira sui 24 micron di diametro), con un potere riscaldante molto superiore a quello della lana ordinaria. Ma per ottenere lo spessore di un millimetro occorre affiancare circa 70 fibre delle più fini! Inoltre, dalla pettinatura di una capra si ricavano dai 200 ai 500 grammi di lanugine, che si riducono della metà, dopo il trattamento che dovrà subire per essere pulito e raffinato. Senza contare il costo di tutti i trattamenti preparatori alla lavorazione. Tanto basta a giustificare le cifre spesso piuttosto elevate richieste per un semplice golfino dal taglio classico.

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Una calda sensazione chiamata Cashmere


CASHMERE SOSTENIBILE “ MADE IN TUSCANY” Chianti Cashmere, con sede vicino a Radda in Chianti (SI) è la prima azienda zootecnica in Italia ad aver sperimentato e messo a punto l’allevamento della Capra Cashmere Italiana. Centro di Selezione e fonte di riproduttori scelti su tutto il territorio Italiano ed all’estero, l’azienda vende gli animali, segue l’allevatore in tutte le fasi dell’ allevamento e ritira la fibra grezza, producendo a filiera corta filati da guglieria e manufatti pregiati creati esclusivamente a mano da artigiani Toscani . L’esclusività del nostro prodotto è la sua totale sostenibilità ambientale data dalla metodologia del tipo di allevamento, e

dunque il nostro marchio registrato “CASHMERE SOSTENIBILE Made in Tuscany”. La qualità dei nostri filati è ormai riconosciuta dal settore tessile Italiano ed estero: siamo scrupolosi nel garantire sia il benessere animale, sia la tracciabilità delle nostre fibre e la filiera di trasformazione fino ai prodotti finiti. Grazie al recente interessamento da parte della Regione Toscana, abbiamo avviato le procedure per ottenere delle certificazioni di qualità della stessa Regione Toscana – un valore aggiunto in più dalle nostre bellissime capre! Per ulteriori informazioni: www.chianticashmere.com www.sustainablecashmere.com

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Arte in tavola

La torta che vorrei Testo di Caterina Eleuteri

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i stupivano, nei film americani, quelle torte sontuose e a più piani, coperte da un bianchissimo manto di zucchero con decorazione barocche e fantasiose: cordoncini, fiocchi e fiocchetti, festoni floreali e tralci di foglie. Spesso erano talmente grandi da ospitare all'interno una leggiadra fanciulla o un clown che saltava fuori al momento opportuno cantando "Happy Birthday". Altro che una semplice ciliegina sulla torta! La fantasia dei pasticcieri di tendenza non ha più limiti e il cake design -così viene chiamato nel mondo anglosassone questo settore dell'arte bianca - è in pieno boom, con grande attenzione dei media e proliferazioni di corsi di vario livello e pubblicazioni. "La torta che vorrei", di Letizia Grella, è l'ultimo libro sul tema. A una torta oggi si chiede qualcosa in più che essere buona e bella: deve stupire, essere originale, dare un messaggio. Ma soprattutto deve essere personalizzata. L'autrice del volume, se ne occupa da un quarto di secolo quando, studentessa, si trasferì negli States e durante le vacanze scolastiche cominciò a lavorare in una old fashion bakery. Da qui iniziò un percorso formativo e professionale in giro per il mondo fatto di corsi e stages in pasticcerie celebri. Oggi ha un laboratorio a Roma, una glam bakery in cui realizza le sue creazioni con ingredienti e tecniche pensati per venire incontro al gusto italiano. Tiene lezioni in tutt'Italia, organizza corsi e per la prima volta svela i suoi segreti in un volume. "Una torta deve raccontare una storia attraverso le forme e i colori della pasta di zucchero- sottolinea- deve suggerire emozioni con motivi e decori sempre diversi, deve racchiudere la personalità del festeggiato o il senso dell'evento in un equilibrio di bontà e bellezza da leccarsi le dita". Alla presentazione del libro, alla Feltrinelli di Roma, fetta dopo fetta, ha demolito per il pubblico goloso alcune incredibili creazioni tra cui una torta-valigetta 24 ore con un libro appoggiato sopra con nochalance, entrambi tanto perfetti da sembrare veri, e un'elegante borsetta d'autore, nonchè altre fantasiose riproduzioni di oggetti della vita reale: tutte profumate e invitanti, con un cuore di Pan di Spagna farcito di crema ed una plasticissima, profumata copertura di pasta di zucchero. Sembra impossibile, ma l'autrice garantisce che con un minimo di attenzione tutti possono cimentarsi in tali opere d'arte. Del resto questo libro non è forse rivolto proprio a chi vuole imparare? Ma attenzione: bisogna procurarsi anzitutto l'attrezzatura: un

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La torta che vorrei

mixer anzitutto, poi pennelli, matterelli di silicone di varie misure, spatole, taglieri lisci e scanalati, bastoncini appuntiti per incisioni, rotelle dentate e multilama, tagliafiori e colini, tappetini a rilievo, bastoncini per non far collassare i vari piani della torta. E ancora non è tutto. La pasta di zucchero, ingrediente essenziale, si compra già pronta nei negozi specializzati ma si può fare anche in casa con zucchero a velo, gelatina in polvere e glucosio. Con l'aggiunta di un cucchiaino di gomma adragante la pasta diventa magicamente più elastica e consente un'asciugatura in tempi brevi. E c'è anche una scorciatoia per farsene una velocemente: si mettono nel mixer i marshmallow bianchi con acqua e zucchero a velo. I colori per alimenti permetteranno poi si ottenere qualsiasi sfumatura. Ma non c'è il rischio di privilegiare l'aspetto di una torta, puntando ad una esteriorità che conquista piuttosto che al gusto, tralasciando la grande tradizione della pasticceria italiana? "Assolutamente no -replica Letizia Grella- le nostre materie prime sono di primissima qualità e la mia ricetta del pan di Spagna -puntualmente descritta nel libro- è quella rigorosamente tradizionale, così come lo sono le creme pasticciera o chantilly per la farcitura e la meringa soffice". Tutto è descritto passo dopo passo, con centinaia di fotografie che rendono davvero irresistibile l'invito a provarci. Oltre ad un utile glossario e alle ricette di base, il libro propone torte speciali come quella Vintage, il Treno più dolce, quella Scarpe con i tacchi, l'Elefantino. Sono tutte coloratissime, perfette imitazioni della realtà, di formato normale o king size. Non mancano le classiche torte delle feste: per la festa della mamma e del papà, per il battesimi di un bimbo o di una bimba, sui toni dell'azzurro e del rosa e quella per occasioni da innamorati, ovviamente a forma di cuore. Trionfale è il Wedding cake, la monumentale torta di matrimonio, bianca e decoratissima, il simbolo più dolce di una giornata speciale. Il volume è di Gribaudo, editore specializzato in temi enogastronomici, ben conosciuto dai gourmet e da tutti gli appassionati delle tematiche del cibo e delle nostre tradizioni a tavola. "LA TORTA CHE VORREI“ di Letizia Grella 140 pagine Edizioni Gribaudo 24 euro


Agriturismo bio

CARINZIA: Benessere in fattoria Testo di Anna Pugliese

Lamprechthof è la prima wellness fattoria di tutta l'Austria, una solida baita di 400 anni, nel cuore del parco naturale dei Nockberge, in Carinzia, a 1100 metri di quota e a due passi dagli impianti di risalita di Bad Kleinkirchheim, dove farsi coccolare con massaggi, bagni, trattamenti beauty e terapie davvero innovative. Tutte biologiche, ovviamente. Nulla a che vedere, quindi, con le beauty farm minimaliste o con i sontuosi tempi del wellness che ora vanno per la maggiore. Alla fattoria Lamprechthof, tra mucche, vitelli e capre, prima di tutto ci si rilassa in un ambiente ancora integro, immerso tra boschi secolari, gustando piatti della tradizione contadina, preparati con ingre-

dienti biologici. Ci si godono i cuscini profumati di lavanda, i mobili in legno trattato solo con cera d'api, le tisane di erbe officinali, i succhi di frutta fatti in casa. E poi il ricco menù di benessere proposto della padrona di casa, Sabine Mayer. Si inizia con una sauna davvero innovativa, una cabina in legno dove approfittare non solo dei benefici del calore ma anche della cromoterapia, per effetti stimolanti o rilassanti, a seconda della scelta del colore proiettato. Poi i bagni al siero di latte, per una pelle morbidissima e nutrita in profondità, o di fieno, per decontrarre i muscoli e migliorare la mobilità delle articolazioni, ma anche agli oli essenziali di lavanda, timo, rosmarino o melissa. Sen-

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za dimenticare i massaggi, dalla riflessologia alla kinesiologia, i trattamenti beauty per mani, viso e corpo, tutti a base di prodotti naturali, o le terapie con i sali dell' Himalaya, ottime per risolvere i problemi di concentrazione e le lezioni di tai chi chuan. Ma non basta. Al Lamprechthof si impara a riequilibrare il proprio flusso energetico grazie alla forza degli alberi e si sfrutta la magnetoterapia per liberarsi infiammazioni, malattie reumatiche e disturbi articolari. Tutto senza spendere troppo. A tavola, poi, si gustano delizie “fatte in casa”: speck, salumi, wurstel di cervo, una grande varietà di formaggi, pane, dolci, frutta e verdura dell'orto, delizie arricchite dalle erbe officinali raccolte tra i pascoli durante l'estate e ancora trote e piatti di carne a base di manzo, maiale e cervo. E il padrone di casa parla l'italiano. * Il pacchetto settimanale, con sette pernottamenti con colazione a base di prodotti biologici della fattoria, l'utilizzo libero della spa, passeggiate e attività in fattoria per grandi e piccoli, un trattamento corpo a scelta, un trattamento viso, un bagno di latte, una terapia La Stone e un trattamento con i campi magnetici viene proposto a 535 euro a persona. Il week end di benessere, con due pernottamenti con colazione bio, brindisi di benvenuto, attività in fattoria per bambini e adulti, il libero utilizzo della spa, un massaggio completo, un bagno di fieno, un trattamento energetico per i piedi e una magnetoterapia è offerto a 198 euro a persona.

Lamprechthof, Innernöring 25, Eisentratten, Austria, tel. 0043-4732-27460, fax 274680; www.wellnessbauernhof.at. Per informazioni e prenotazioni, in italiano: Associazione delle Fattorie della Carinzia, www.urlaubambauernhof.com. Telefono 0043/463 / 33 00 99 ; email: office@urlaubambauernhof.com AUSTRIA TURISMO www.austria.info vacanze@austria.info

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Carinzia: benessere in fattoria


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Sagre e tradizioni

Testi di Mariella Morosi

„Valceno in tavola" E se nei week end più freddi dell'anno ci consolassimo con una calda polentina con salsiccia, gnocco fritto con salumi e prosciutto al forno? Beninteso con un bicchiere di buon lambrusco o di altri vini di livello. Lo propone la rassegna gastronomica "Valceno in Tavola" per celebrare il re del parmense: Sua Maestà il Maiale. Sono tante le destinazioni del gusto tra cui scegliere per tutti i fine settimana di gennaio e febbraio, e sono tutte una più invitante dell'altra. E' una manifestazione di successo consolidata, che coinvolge 36 locali del gusto tra ristoranti, agriturismi e trattorie di undici diversi comuni del Parmense: Terenzo, Compiano, Medesano, Fornovo, Solignano, Valmozzola, Varano de' Melegari, Varsi, Bardi, Bore, Pellegrino. L'itinerario punta sul prodotto d'eccellenza di queste terre, il maiale, tradizionale fonte di sostentamento e di ricchezza. Sarà per l'aria o piuttosto per la passione con cui vengono fatti, coppe e culatelli, salami e prosciutti, hanno fatto conoscere la tradizione gastronomica di Parma in tutto il mondo. I piatti spesso sontuosi e succulenti sono rigorosamente della tradizione: sanguinacci, ciccioli e lardo pesto su crostoni, tanto per cominciare, poi tagliatelle fatte in casa con porro e pasta di salame, polenta stesa con salamino e funghi, tortelli, tortelloni, tortellini e tutte le varia-

Trionfale marcia del gusto nel Parmense, nel regno di Sua Maestà il Maiale in tutti fine settimana di gennaio e febbraio zioni di agnolotti e ravioli con sorprendenti ripieni. Infiniti primi piatti -qui li chiamano "minestre"-preparano la strada ai bolliti misti, agli arrosti di lonza di maiale e alle interpretazioni più intriganti a base di porcello, accompagnate da mostarde di produzione propria. Abolito il conteggio delle calorie, per una volta, tanto vale concludere il viaggio con il classico zabaione caldo e non solo. E' una sorta di rito collettivo dei golosi, un tributo godereccio al migliore amico del buongustaio. I prezzi sono del tutto competitivi, a fronte della grande qualità e dell'orgoglio con cui i protagonisti della ristorazione di queste terre amano offrire il meglio. E una volta alzati da tavola, per portare con sé una parte della tradizione, si può acquistare il ricettario che racchiude i segreti e gli ingredienti dei piatti più golosi. Come souvenir per gli amici, niente di meglio di una "maglietta del maiale" in tanti disegni e colori.

INFO: IAT di Fornovo Via dei Collegati 19 43045 Fornovo (Parma) tel 0525 2599 www.iatfornovo.it www.prolocovarano.it turist48@prolocofornovo.191.it

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„Valceno in tavola“ - Fiera del cioccolato artigianale

Fiera del

Cioccolato Artigianale Piazza Santa Croce, tra le più belle d'Italia, farà da cornice alla settima edizione della Fiera del Cioccolato d'Autore, quello rigorosamente artigianale, creato dalla sapienza dei più bravi maestri cioccolatieri italiani e stranieri. Escluse le produzioni industriali, anche quelle più affermate per l'alto livello qualitativo. Gli stand esporranno le più diverse, fantasiose ma sempre deliziose interpretazione del "cibo degli dei" che stregò Cristoforo Colombo: dalle più classiche al latte, bianco o fondente, con varie percentuali di

cacao e dei vari cru latinoamericani, alle più originali. Sterminato il campionario di gusti: alle noci, alle nocciole, al pistacchio, al caffè, ai cereali, al peperoncino e così via. Altrettanto vari i formati: dalle micro-praline ai blocchi quadrati da addentare. Gli stand offriranno degustazioni di creme da spalmare, di gianduiotti, di cuneesi al rum, di baci alla nocciola e di quei dragèe che racchiudono all'interno squisiti composti morbidi o croccanti. Il cioccolato non conosce crisi, è buono, sano dal punto di vista nutrizionale e induce al buon umore perché fa aumentare il livello di serotonina. Ma nessuno crede che sia il supporto scientifico a scatenare una grande passione che risparmia pochi. Gli organizzatori della fiera, la prima grande festa dell'anno dedicata a questo prodotto, hanno predisposto una serie eventi collaterali alla golosa kermesse. In caso di pioggia una tensostruttura garantirà comunque il successo della festa. Saranno anche predisposti mini-laboratori per illustrare le più comuni tecniche per la lavorazione del cioccolato. Nell'ambito della manifestazione, domenica 6 febbraio si svolgerà il più divertente Carnevale fiorentino: chiunque, piccolo o adulto, gruppi di amici o intere classi scolastiche potranno partecipare agli eventi, ma in maschera, scegliendo un tema unico di riferimento (es. tutti vestiti da coniglio o da ....cioccolatino). Saranno tutti fotografati e tre premiati per i costumi più originali. info@fieradelcioccolato.it


I CAMBIAMENTI CLIMATICI, TUTTA COLPA DELL’UOMO.

Abbiamo inquinato l’aria, la terra e il mare. Raso al suolo le foreste. Provocato cambiamenti climatici fatali per centinaia di migliaia di specie e sempre più pericolosi per l’uomo. Prima che non ci sia più nulla da fare, fai una cosa: sostieni Greenpeace. Per informazioni chiama lo 06.68136061 o visita il nostro sito.

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Desideri di luce

Fotografare la Natura Testo di Roberto Callà

Fotografo perché cerco sempre di trovare un ordine nelle cose. Il mirino di una macchina fotografica è un ritaglio di realtà all'interno del quale noi scegliamo e decidiamo di inserire una temporanea struttura d'ordine nel momento in cui siamo capaci di percepirla come specchio di quanto è già dentro di noi. La natura si mostra attraverso immagini che si presentano con la concretezza delle forme, la fantasma-

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Fotografare la Natura

goria dei colori ed il contrasto con il quale la luce disegna la nostra realtà; il loro equilibrio varia nel tempo e non si riproduce mai due volte identico. Sono soprattutto queste forme costruite dalla luce e dal colore, disposte nel mirino secondo un ordine che scopro appartenermi, che cerco di fotografare. Non è quindi la mia una fotografia documentaristica, né pretende di essere l'approfondimento sistematico

di alcun tema; per questo le mie fotografie non hanno un nome o una identificazione del soggetto. Della fotografia va capita la reale valenza, la dirompente e originale capacità comunicativa. Ma, filosofia a parte, vanno osservati alcuni principi, specialmente per quanto riguarda la fotografia della natura. Avvicinarsi a un nido di uccelli? Legare i rami? Anche i dilettanti sanno che spostare i rami può esporre pericolosa-


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mente i nidiacei ai raggi del sole e che, una volta avvertita la presenza dell'uomo, gli adulti di molte specie fuggono e a volte abbandonano per sempre i piccoli! In certi Paesi (in Gran Bretagna, ad esempio) fotografare gli uccelli nel periodo della nidificazione espone il fotografo a sanzioni da levare il respiro! Personalmente credo che ci sono principi che vanno al di là della foto a tutti i costi, regole non scritte che devono far parte del bagaglio culturale di chi comunica attraverso l'immagine: soprattutto non disturbare, non interferire. In caso contrario ci trasformeremmo in volgari paparazzi della natura. Se la fotografia che stiamo per fare implica un pericolo per l'animale, se

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Fotografare la Natura

esiste il rischio di separare i cuccioli dai genitori, se solo sospettiamo che il soggetto possa essere spaventato e messo in fuga, la foto non si deve scattare. Evitiamo di accostarci alla fotografia della natura con l'atteggiamento dei cacciatori, di considerare l'obiettivo nient'altro che la sublimazione del fucile, di "conquistare le immagini" vantandoci dei lunghi appostamenti, millantando pericolosi avvicinamenti e notti all'addiaccio. L'immagine si giudica in base ai suoi contenuti, non in base ai rischi che il fotografo ha corso per ottenerla. La fotografia, e quella di natura non fa eccezione, è la possibilità di registrare la luce mediante uno strumento che, come tutti gli strumenti,

ha le sue caratteristiche e i suoi vincoli tecnici. Questo strumento è il sistema fotografico ( non ha molta importanza se il supporto è di tipo analogico o digitale ) mentre la luce è quella disponibile in natura o quella che noi possiamo aggiungere con una fonte supplementare. Quando guardiamo un'immagine riconosciamo subito se, a parte il contenuto, questa ci piace o meno. Quando ci piace, se andiamo ad analizzarla, ci accorgiamo che nella sua composizione si può scorgere:una disposizione delle masse, che possono essere macchie di colore o giochi di luce, che risponde ad un ordine formale e riconoscibile.


Libri e guide

„L'uomo che sussurra alle vigne“ La vera storia del Brunello di Montalcino che cresce ascoltando Mozart di Carlo Cignozzi Rizzoli editore 166 pagine 16 euro Testi di Mariella Morosi

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ispondeva con un sorriso paziente a chi lo prendeva per pazzo. Che Carlo Cignozzi, avvocato milanese di successo desse un taglio a tutto per passare le giornate in vigna chino sui filari si può anche capire, ma che facesse ascoltare Mozart ai grappoli d'uva per farli maturare meglio era veramente troppo! Indicato a dito da tutta Montalcino,


Libri e guide

oggetto di battutacce -e si sa che i toscani non vanno per il sottile- cercava di spiegare che era tutta una storia di benefiche vibrazioni sonore. Del resto non si fa ascoltare musica anche alla mucche per avere più latte? Ci sono voluti anni perché la scienza riabilitasse il suo originale rapporto con le vigne. Il suono infatti rappresenta il nuovo orizzonte dell'agricoltura biodinamica: diffondendo le note con degli amplificatori tra i filari, la vite sembra avere un 35-40 per cento di incremento foliario, e del 200-300 per cento nel frutto. L’avventura del “vigneto di Mozart” suscita l’interesse della stampa e fa il giro del mondo. E oggi è lo stesso Cignozzi a raccontarla, in un libro che parla di musica, natura, coraggio e fantasia. Nella sperimentazione di questa viticoltura eco-sostenibile, la biosonorità, ha il supporto scientifico di Stefano Mancuso dell'Università di Firenze, esperto di neurologia vegetale, uno che conosce l'anima delle piante, e quello dell'Università di Pisa con Amar Bose, guru del suono. Ma perché la scelta è caduta proprio sul grande Wolfgang Amadeus? ''Abbiamo cominciato con la musica barocca e con quella sperimentale - dice l'autore- per poi approdare a questo compositore della natura perché le sue sinfonie hanno le sequenze del matematico pisano Fibonacci, le stesse con cui si sviluppano i rami degli alberi. Le sue opere, in particolare il 'Flauto magico', hanno brio e al contempo sono geometriche e ripetitive, quindi con frequenze adatte a far crescere i pampini della vite che cercano il suono come cercano la luce. Così si incrementa la fotosintesi. In altri compositori come Mahler ci sono silenzi ed esplosioni, suggestivi ma inadatti allo scopo". Dietro le scelte di Cignozzi c'è una crisi esistenziale, un viaggio in Brasile e un rito sciamanico che gli preannuncia un destino fra vino e musica. ''Faccio parte -dice- di un mondo che sta scomparendo, quello dei piccoli vignaioli. Non abbiamo aiuti, se non la passione di chi sa che la campagna è isolamento, ma anche gioia interiore. Anche nei periodi di forte indebitamento, grande è stata la convinzione che il territorio ci salverà. Ai giovani vorrei dire che per tutto questo si può cambiare vita, si può rischiare''. Nell'anno internazionale della biodiversità è il messaggio-appello di questo viticoltore ora orgogliosamente toscano, che in gioventù ha fatto cabaret con Jannacci e poi 30 anni di attività legale. Leggere questo libro è ripercorrere la storia appassionante di una svolta di vita, di un sogno realizzato con caparbietà nella Toscana più bella e della soddisfazione di goderne il frutto: il raffinato Brunello di Montalcino. Una storia che forse vorremmo vivere tutti.

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„MICHELE RACCONTA" Storia di una famiglia del vino in Piemonte Edizioni Semi di Vite 130 pagine 25 euro Cosa c'è dietro a un vino, a un grande Barolo? Insieme a dare emozioni gustative una bottiglia può parlare di tante cose, a chi sa ascoltare. Ci sono scelte di vita, il lavoro di tutti i giorni, l'ansia per la vendemmia che rischia di essere annientata da un temporale. Michele Chiarlo, viticoltore piemontese, prova a raccontarcerlo in un libro che poi è la storia della sua famiglia e quella del Monferrato e delle Langhe, dove quelle colline pettinate dai filari sembrano un bizzarro disegno geometrico che è invece il risultato del lavoro di generazioni. In "Michele racconta" - titolo semplice, quasi banale- ci sono i suoi 50 anni passati in vigna e in cantina in una terra vocata a fare grandi vini, ma ci sono anche la storia del Piemonte povero dell'emigrazione, gli anni difficili tra le due guerre e l'abbandono delle campagne per la speranza di una vita migliore in città. Il sottotitolo del libro è infatti "Storia di una famiglia del vino in Piemonte". E poi c'è l'evoluzione del vino, considerato prima solo prezioso alimento, tanto che si raccoglievano da terra anche gli acini caduti perché nulla doveva essere sprecato. Ci parla dei sacrifici per mettere insieme quelle 240 mila lire con cui papà Pietro comprò la prima cascina semiabbandonata, la fatica di promuovere un prodotto poco redditizio, quando il

„L’uomo che sussurrava alle vigne“ - „Michele racconta“

Barbera era definito con disprezzo "il vino dei carrettieri", racconta la fatica di diplomarsi al più presto alla Scuola enologica di Alba per non far mancare le sue braccia forti in campagna, i viaggi in Borgogna per acquisire esperienza dai vignaioli d'Oltralpe e infine l'acquisizione un po' per volta di nuovi vigneti. Quando arriva il successo, parallelamente all'affermazione dei grandi vini italiani nel mondo, nulla cambia nell'impegno quotidiano di Chiarlo e dei suoi due figli che lo hanno seguito nel mestiere. Chiarlo che firma vini prestigiosi, non esprime soltanto attraverso le sue etichette le migliori potenzialità del territorio: vuole anche custodirne la memoria raccontandone l'identità, la storia e le tradizioni. Il testo è stato raccolto da Giovanni Ruffa, coordinatore della Collana "Semi di vite" ed è illustrato con suggestive immagini perché un obiettivo fermasse i gesti delle ultime dieci vendemmie. Tutte le foto sono in bianco e nero, il colore dei ricordi. Un'idea - questa nata nel 1997 perché un fotografo registrasse «con il suo punto di vista e il suo gusto scrive l'autore - il gesto finale di un anno di lavoro sulla terra». Non poteva mancare nel volume tutto il suo amore per l'arte: sono tante le opere di grandi artisti perfettamente ambientate nei suoi vigneti delle colline, nel Parco Artistico Orme Su La Court, un percorso d'arte e di paesaggio tra le colline e i filari firmato da Emanuele Luzzati. Seguendo le orme dedicate ai quattro elementi fondamentali - fuoco, aria, acqua e terra - segna un itinerario tra sentieri, vigneti e cascine costellato di installazioni e sculture che nascono e vivono nella natura in perfetta simbiosi, traendo vita le une dall'altra. Il libro è anche in edizione inglese con un titolo altrettanto


Note di viaggio

Egitto due cammelli scrutano l’orizzonte

foto di Ilenia Cairo

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Rivista mensile di

turismo, natura e benessere

Seconda Edizione Anno 1 n°1 Marzo 2011

Una volta nella vita

Transiberiana Speciale Africa

Siwa Montagna

Courchevel Abitare

Tree House Flora

Giardino Bioenergetico

Direttore Responsabile Giuseppe De Pietro Redattore Capo Teresa Carrubba Progetto Grafico e Impaginazione Ilenia Cairo Collaboratori Anna Maria Arnesano, Roberto Callà, Luisa Chiumenti, Francesca D'Antona, Valentino De Pietro, Caterina Eleuteri, Giuseppe Garbarino, Marco La Valle, Pamela McCourt Francescone, Mariella Morosi, Daniele Nencini, Chiara Pozzi, Anna Pugliese, Iliana Romano, Marinella Rewinski, Mirella Sborgia, Roberto Terzani, Viviana Tessa, Giovanna Vecchiotti. Corrispondenti dall'estero Antonino De Pietro, (da Ginevra) Silvia Picallo (da Buenos Aires) Jocelyn Lorenzo (da Londra) Marine Lesueur da Parigi) Simona Cipriani (da New York) Alejandro Serrano (da Madrid) Yarka Havelcova Nencini (da Praga) Fotografi Renato Alessio, Giulio Badini, Roberto Callà, Carmine Perito Responsabile Marketing e Comunicazione Mirella Sborgia Tipografia Graphica Procacci Via Santa Marina Salina, 22 – Roma Editore Redazione

Via Locke, 17 - 00156 Roma Tel. +39 068276702 Fax +39 068276702 suntimeviaggi@msn.com Pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Roma il 07.02.2011 - N° 17/2011 Riservatezza dei dati (L.196/03) Ai sensi dell'articolo 13 del Codice della Privacy (Decreto Legislativo n.196 del 2003), la società De Pietro Press con sede legale in Via Lombardia, 14 - 00187 Roma, Titolare del trattamento, garantisce che i riferimenti raccolti nelle banche dati di uso redazionale sono trattati nel rispetto delle normative vigenti. Copyright © - Tutto il materiale [testi e immagini] utilizzato è copyright dei rispettivi autori e della Case Editrice che ne detiene i diritti. Ove non specificato ci dichiariamo a disposizione degli aventi diritto per le necessarie rettifiche.

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