A. Vivaldi - Concerti e Trii per liuto e mandolino

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In un gruppo di composizioni dell'enorme patrimonio vivaldiano di musiche strumentali pervenute manoscritte, il Prete Rosso assegna all'arciliuto, alla tiorba e al mandolino un ruolo di protagonisti assoluti: due trii per violino, «leuto» e basso continuo, un concerto in re maggiore per due violini, «leuto» e basso continuo, un altro in re minore per viola d'amore e «leuto», un concerto per undici strumenti e orchestra d'archi in cui hanno una parte concertante anche due tiorbe e due mandolini, un concerto per mandolino e infine un doppio concerto per due mandolini.

In a group of compositions from the enormous stock of surviving Vivaldi manuscript sources, "The Red Priest" assigns unequivocably leading roles to the archlute, to the theorbo and to the mandolin: two trios for violin, «leuto» and basso continuo, a concerto in D major for two violins, «leuto» and basso continuo, another in D minor for viola d'amore and «leuto», a concerto for eleven instruments and string orchestra, in which the two theorbos and two mandolins have a concertante part; a concerto for mandolin, and finally, a double concerto for two mandolins.

Partitura stampata e parti staccate in formato pdf su CD.

Complete score and performing parts available in pdf format on CD.

La fondazione Arcadia promuovo lo studio e la conoscenza della musica italiana del XVIII secolo, attraverso la ricerca musicologica, la revisione e l'edizione critica di opere edite e inedite.

Fondazione Arcadia furthers research on XVIII century Italian music with critical editions of published and unpublished repertorie.

ISBN 978-88-50718-76-4

9 788850 718764

MK 17555 x15 A



ANTONIO VIVALDI

Concerti e Trii per liuto e per mandolino Trii RV 82 e 85 Concerti RV 93, 425, 532 e 540

Prefazione di / Preface by ROSSELLA PERRONE Edizione critica a cura di / Edited by FABIO RIZZA Collana diretta da / Series directed by ALESSANDRA ROSSI LĂœRIG



Indice/Contents

«Leuto», tiorba e mandolino nella musica di Antonio Vivaldi Le fonti

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IV

XVIII

Criteri editoriali

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XVIII

Apparato critico

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XVIII

Ringraziamenti

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XIX

«Leuto», Theorbo and Mandolin in the Music of Antonio Vivaldi

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The Sources

XXXIV

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Editing Criteria

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Comments on the Revision Acknowledgments

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XX

XXXIV XXXIV

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XXXV

Antonio Vivaldi • Concerti e Trii per liuto e per mandolino Trio RV 82 per liuto, violino e basso

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1

Trio RV 85 per liuto, violino e basso

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7

Concerto RV 93 per liuto, due violini e basso

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13

Concerto RV 540 per viola d’amore, liuto, archi e basso .............................................. 22 Concerto RV 425 per mandolino, archi e basso

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Concerto RV 532 per due mandolini archi e basso

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IV

«Leuto», tiorba e mandolino nella musica di Antonio Vivaldi In un gruppo di composizioni dell’enorme patrimonio vivaldiano di musiche strumentali pervenute manoscritte, il Prete Rosso assegna all’arciliuto,1 ossia il liuto dotato di corde di bordone chiamato all’epoca di Vivaldi genericamente «leuto», alla tiorba2 e al mandolino un ruolo di protagonisti assoluti, esaltandone, di volta in volta, le loro sorprendenti possibilità espressive: due trii per violino, «leuto» e basso continuo, RV 82 e RV 85, un concerto in re maggiore per due violini, «leuto» e basso continuo, RV 93, un altro in re minore per viola d’amore e «leuto», RV 540, un concerto per undici strumenti e orchestra d’archi, RV 558, in cui hanno una parte concertante anche due tiorbe e due mandolini, un concerto per mandolino, RV 425, e infine un doppio concerto per due mandolini, RV 532.3 A questo elenco si può aggiungere anche la linea di basso per arciliuto presente nel secondo movimento («Largo e cantabile») della prima versione del Concerto per la Solennità di S. Lorenzo, RV 556,4 scritto probabilmente nei tardi anni Dieci per la Chiesa di S. Lorenzo in Damaso a Roma. Tale parte prevede per il «leuto» un arpeggio insieme a due clarinetti («Clarini soli, e Arpeggio con il Leuto») per la realizzazione del basso che accompagna la melodia del violino I solo. Per quanto riguarda le opere teatrali e le cantate vivaldiane fino ad oggi conosciute, non mi risulta che vi siano parti obbligate che prescrivano specificamente l’arciliuto, la tiorba o il mandolino anche se, per i liuti bor-

L’arciliuto, strumento generalmente a quattordici ordini, nel Settecento mantiene inalterata l’accordatura del liuto rinascimentale per terze e quarte per i cori tastati e differisce dal liuto del Cinquecento solamente per l’aggiunta dei bordoni fuori tastiera accordati in ordine diatonico discendente, sistemati su un secondo cavigliere. 2 Ricordiamo che la tiorba è uno strumento che, come l’arciliuto, presenta due caviglieri uno dei quali destinato alle corde supplementari di bordone. In genere, nel Settecento, è a quattordici ordini con le prime due corde accordate un’ottava sotto rispetto a quelle dell’arciliuto (esempio la2, mi2, si2, sol2, re2, la1). 3 Qui di seguito sono riportati il titolo, le fonti delle composizioni e gli estremi dell’edizione Ricordi con l’anno di pubblicazione e il nome del curatore: RV 82, I-Tn: Foà 40, cc. 6-9 (G.F. Malipiero, 1949); RV 85, I-Tn: Foà 40, cc. 2-5 (G.F. Malipiero, 1949); RV 93, I-Tn: Giordano 35, cc. 297-302 (G.F. Malipiero, 1949); RV 540, D-Dlb: 2389-O-4 (3) (G.F. Malipiero, 1960); RV 558, D-Dlb: 2389-O-4 (1) (G.F. Malipiero, 1960); RV 425, I-Tn: Giordano 28, cc. 112-119 (G.F. Malipiero, 1950); RV 532, I-Tn: Giordano 28, cc. 104-111 (G.F. Malipiero, 1951). 4 RV 556, Concerto per la solennità di S. Lorenzo, I-Tn: Giordano 34, cc. 2-21 (A. EPHRIKIAN, 1949). 1

doni (in primo luogo tiorba e arciliuto) la prassi dell’epoca prevede la realizzazione del continuo ad libitum.5 L’intervento solistico del mandolino e di quattro tiorbe è inoltre richiesto da Vivaldi in due arie diverse dell’oratorio Juditha Triumphans, RV 644.6 Questo importante gruppo di composizioni, dall’epoca della riscoperta a oggi, non ha ricevuto l’attenzione che merita da parte degli studi musicologici. Ha sofferto infatti dell’assenza di un approfondimento sistematico e unitario e i pochissimi contributi scientifici pubblicati sull’argomento sono ridotti a brevi articoli apparsi su riviste specialistiche o addirittura alle note di copertina delle incisioni discografiche, luoghi questi ultimi certamente non centrali per la produzione scientifica a carattere musicologico. Qui di seguito vogliamo sinteticamente ricordare questi esigui contributi nessuno dei quali prende però in considerazione l’intero corpus delle opere vivaldiane che impiegano gli strumenti a corde pizzicate; di fatto soltanto due sono le pubblicazioni dedicate specificamente a tali musiche: quella di Pierluigi Ostuni, apparsa su «il Fronimo» nel 19927 e quella più recente, ma sui soli lavori liutistici, di Paul Hurley del 1997.8 La pubblicazione di Ostuni comprende nell’analisi sia la produzione vivaldiana per «leuto» che quella per mandolino senza tuttavia sollevare il problema della strumentazione più appropriata da usare in queste composizioni.9 Inspiegabilmente, poi, trascura il capolavoro per più strumenti

Nell’ambito della musica vivaldiana con uso di strumenti a pizzico va infine segnalata la presenza di una parte virtuosistica di salterio che accompagna il protagonista nell’aria eroica che chiude la scena del secondo atto dell’opera Giustino, RV 717 (Roma, 1724). Il salterio, antico strumento di origine orientale a forma trapezoidale o triangolare con corde tese direttamente sulla tavola, in Italia veniva suonato come strumento a pizzico, con i plettri o con le dita. Questo particolare strumento era insegnato all’Ospedale della Pietà dove fu acquistato nel 1706. 6 RV 644, Juditha triumphans devicta Holofernis barbariae, I-Tn: Foà 28, cc. 209-309 bis. (A. Zedda, 1971). 7 PIERLUIGI OSTUNI, “Le opere di Vivaldi per liuto e mandolino”, il Fronimo, 80, Milano, 1992, pp. 25-34. 8 PAUL HURLEY, “The Vivaldi lute music”, Lute Society of America Quarterly, 5, 1996, pp. 4-11. 9 Per un’analisi dettagliata dei trii per «leuto» e i concerti per «leuto» e mandolino si può fare riferimento al libro di Cesare Fertonani il quale, nell’ambito del vasto panorama della musica strumentale vivaldiana, approfondisce anche le composizioni che impiegano gli strumenti a pizzico (CESARE FERTONANI, La musica strumentale di Antonio Vivaldi, «Quaderni vivaldiani» 8, Firenze, Olschki, 1998). Dagli Atti del Convegno Internazionale dedicato esclusivamente al liuto, svoltosi a Parigi alla Cité de la Musique nel maggio del 1998 (AA VV, Luths et Luthes en occident actes du colloque, Paris, Cité de la musique, 2000) non risulta invece alcun contributo sulle composizioni liutistiche di Vivaldi. Questo fatto resta emblematico della scarsa attenzione prestata dalla musicologia a tali lavori ancora oggi. 5


V RV 558 e l’impiego degli strumenti a pizzico nella Juditha. Da questo articolo emerge che Vivaldi venne spinto a scrivere per «leuto» (strumento, secondo lo studioso, considerato «esoterico» e non più in auge nel Settecento in Italia) solo dopo il viaggio del Prete Rosso nei paesi tedeschi dove sicuramente era ancora molto viva la tradizione liutistica. Dal più recente articolo dedicato esclusivamente ai lavori liutistici di Paul Hurley ci si aspettava qualcosa di innovativo e completo; in realtà l’autore non aggiunge nulla di nuovo a quel che già si conosceva e traccia un’analisi molto succinta (l’articolo è costituito per tre quarti da esempi musicali) avvalendosi delle informazioni fornite da Robert Spencer contenute nelle note all’incisione di Jakob Lindberg.10 Spencer è il primo studioso che, per quanto riguarda i concerti e trii per «leuto», analizza, da un punto di vista scientifico, la particolare scrittura musicale usata da Vivaldi e che per primo solleva il dubbio che il «leuto» di Vivaldi non sia il «liuto soprano» indicato da studiosi come Benvevuto Disertori e Franco Rossi bensì l’arciliuto. Con l’ormai datato saggio di Disertori del 1957 sul «liuto soprano»11 si pose infatti per la prima volta il problema del tipo di strumento usato da Vivaldi per i trii e i concerti. Poiché l’estensione di questi lavori non è idonea all’arciliuto, il «leuto» comunemente usato in Italia nel Settecento, ancora per tutti gli anni Ottanta12 si è creduto impropriamente che tali musiche fossero state pensate da Vivaldi per un nuovo strumento di piccola taglia (il «liuto soprano» appunto) derivato, secondo Disertori, nel Settecento dal liuto rinascimentale ma accordato un’ottava più acuta; di questo strumento, tuttavia, non rimane letteratura musicale anche perché nella sua morfologia e nella sua accordatura per quarte (sol 4, re4, la3, mi3, si 2, sol 2) è identico allo strumento che oggi è conosciuto come «mandolino lombardo» o «milanese» ma chiamato semplicemente «mandolino» nel Sei e Settecento per esempio da Stradivari13 e da Vivaldi. Per molti anni si è per-

ROBERT SPENCER, note di copertina al CD di Jakob Lindberg Antonio Vivaldi. The Complete Works for the Italian Lute of His Period, BIS CD-290, 1985. 11 BENVENUTO DISERTORI, “Le Liuto Soprano”, in J. JACQUOT (a cura di), Le Luth et sa Musique, Paris, CNRS, 1958, pp. 231-238. 12 Come per esempio nelle incisioni discografiche degli anni Ottanta dei liutisti Paul O’Dette (Music for Lute and Mandolin, Hyperion, CDA 66160, 1984) o Anthony Bailes (Vivaldi wind and string concertos, EMI HMV/67809 2), i quali si servono di liuti moderni accordati un’ottava più acuta. 13 Nel museo stradivariano di Cremona sono esposti alcuni disegni di Stradivari denominati dallo stesso Stradivari con il nome di «mandolino», cit. in GIANPAOLO GREGORI, “Fonti per l’organologia degli strumenti a pizzico nel museo stradivariano di Cremona”, in La rassegna nazionale di strumenti a pizzico, Brescia, 1985, pp. 25-44. Dell’importante liutaio sopravvivono inoltre due esemplari di mandolino, uno a cinque cori doppi del 1680 e custodito a Chichester presso la Christopher Challen 10

tanto venuta a creare una certa ambiguità, che ha precluso una esecuzione filologicamente corretta, tra il mandolino antico e il «liuto soprano», strumento quest’ultimo per altro già esistente nel Cinquecento ma con caratteristiche e accordatura differenti da quelle descritte da Disertori perché accordato con gli stessi intervalli del liuto rinascimentale ma un’ottava più acuta (re4, la3, mi3, do3, sol 2, re 2). L’ipotesi di una trasformazione costruttiva subita dal liuto nel Settecento è sostenuta anche nel testo di Franco Rossi del 1983 dedicato alla storia del liuto a Venezia fino all’età Barocca.14 Il libro assegna un breve e poco approfondito paragrafo alle composizioni liutistiche di Vivaldi cui, secondo l’autore, spetterebbe il compito di concludere le storia di questo antico strumento. James Tyler nei suoi fondamentali studi sul mandolino15 è il primo a suggerire che lo strumento corretto da impiegare nell’oratorio Juditha Triumphans e nei tre concerti RV 425, RV 532, RV 558 sia il modello milanese e non quello napoletano con corde in metallo, accordato per quinte, suonato esclusivamente con il plettro e, fatto ancor più rilevante, non ancora diffuso all’epoca di Vivaldi perché si impose solo a partire dalla seconda metà del Settecento.16 Inoltre, tutte queste pubblicazioni prendono in esame solamente alcuni aspetti dell’opera mostrandosi incuranti in ogni caso del contesto liutistico e mandolinistico in cui lo stile vivaldiano si sviluppa.

Collection, e l’altro, di proprietà di Charles Beare (a cinque cori di cui il primo coro singolo) del 1706 custodito a Londra presso la Charles Beare Collection, cit. in JAMES TYLER – PAUL SPARKS, The early mandolin: The mandolino and the Neapolitan mandoline, Oxford, University Press, 1989, p. 18. Nel 1987, in occasione della grande mostra organizzata a Cremona per il terzo centenario della morte di Stradivari, Charles Beare portò nella città natale di Stradivari quest’ultimo strumento, da cui vennero in seguito realizzate due copie dalla Scuola di liuteria di Cremona oggi conservate nel Museo Stradivariano. 14 FRANCO ROSSI, Il liuto a Venezia dal Rinascimento al Barocco, Venezia, Arsenale Editrice, 1983. 15 JAMES TYLER, “The mandolin and mandola 1589-1800”, Early Music 4, 1981, pp. 438-46 e J. TYLER – P. SPARKS, The early mandolin…, op. cit., pp. 1-78. 16 Fino a non molti anni fa (e probabilmente in alcune esecuzioni non filologiche ancora oggi) per le composizioni vivaldiane non è stato utilizzato il mandolino lombardo bensì quello napoletano. L’incisione discografica dei Solisti Veneti (Vivaldi Concertos pour mandoline, Erato, 2292-45203-2, 1984), per esempio, non si pone il problema di un uso filologicamente corretto della strumentazione. Nella registrazione vengono infatti impiegati mandolini napoletani molto diversi per forma, timbro, tecnica e storia rispetto ai mandolini in uso all’epoca di Vivaldi. All’inizio del revival, inoltre, la popolarità di alcune di queste composizioni (in particolare il concerto RV 93, il doppio concerto per viola d’amore e liuto RV 540, e il concerto per due mandolini RV 532), è rimasta per molto tempo legata all’esecuzione nella trascrizione per chitarra moderna, contribuendo a un ulteriore allontanamento dalla strumentazione originale.


VI La carenza di studi sugli strumenti a pizzico nei confronti di un compositore tra i più importanti della storia della musica resta ingiustificata, dal momento che, tratto stilistico distintivo e peculiare di Vivaldi, universalmente riconosciuto, è quello di impiegare strumenti dalla sonorità particolarissima (tra i quali anche l’arciliuto, la tiorba e il mandolino) negli organici e nelle combinazioni timbriche più diversificate. Uno dei motivi che può aver indotto a trascurare queste opere, può essere stato determinato dal protrarsi fino a oggi di un antico pregiudizio che considera Vivaldi l’ultimo isolato compositore italiano a far uso di alcuni strumenti tra i quali l’arciliuto e la tiorba; tali strumenti, secondo questo luogo comune, sono ritenuti «antichi» e fuori moda o comunque raramente utilizzati già nel Seicento e ancor di più nel Settecento. Questo atteggiamento pregiudiziale nasce dal fatto che non sono mai stati presi in considerazione gli studi condotti sulle fonti d’archivio e non sono mai state vagliate le numerose fonti musicali settecentesche italiane presenti negli archivi e nelle biblioteche. Dalla nostra ricerca, nell’intento di ricostruire il contesto musicale contemporaneo alla produzione liutistica e mandolinistica vivaldiana, è emerso, al contrario, che Vivaldi non rappresenta affatto un compositore isolato nell’uso concertante degli strumenti a pizzico. Attraverso il vaglio di alcune fonti musicali e figurative settecentesche e un’indagine sui liutisti e mandolinisti impegnati a suonare in alcuni centri musicali italiani,17 gli strumenti derivati dal liuto tradizionale nel suo registro grave, ossia l’arciliuto e la tiorba, risultano ancora in auge in Italia per gran parte del XVIII secolo (anche se sicuramente meno diffusi che nel passato o anche se godono di minor popolarità rispetto a quella che hanno, ancora per tutto il Settecento, nei paesi tedeschi). In una vitale istituzione musicale italiana, per esempio, il Concerto Palatino della Signoria di Bologna, la presenza dell’arciliuto è ancora attestata nel 1798,18 anno di soppressione dell’istituzione Tale ricerca si è avvalsa sia degli studi che sono stati condotti sullo spoglio di fonti d’archivio (come filze di pagamento, libri mastri, libri cassa, inventari di mobili e strumenti) relativamente a nomi e ruolo degli stipendiati nella classe dei liutisti e mandolinisti attivi in alcune delle più importanti istituzioni musicali italiane sia delle testimonianze pittoriche settecentesche di artisti come i fratelli Bartolomeo e Bonaventura Bettera, Anton Domenico Gabbiani, Pietro Longhi e Gian Battista Tiepolo. 18 OSVALDO GAMBASSI, Il Concerto Palatino della Signoria di Bologna, Firenze, Olschki, 1992, p. 697. I nomi degli strumentisti iscritti nella classe dei liutisti nel 1798 risultano due: Giuseppe Marchignoli e Stanislao Chiusoli. All’interno di questo importante centro di irradiazione musicale italiano, al liutista spettava il compito di suonare alla tavola degli Anziani durante gli opulenti banchetti, esibendosi, in particolare, nel suo repertorio solistico. Intorno agli anni Settanta del Settecento, ai liutisti viene chiesto sempre più spesso di suonare la mandola/mandolino, segnale evidente di un inizio di decadenza del liuto a partire da questo periodo. 17

e la letteratura liutistica italiana risulta pressochè ininterrotta per tutto il Seicento fino al 1778, data dell’ultimo importantissimo manoscritto di Sonate per arciliuto solo di compositori dell’area milanese, conservato presso l’Archivio Borromeo all’Isola Bella sul Lago Maggiore ma non ancora fatto oggetto di studio;19 questa fonte rappresenta l’ultima testimonianza oggi nota del solismo liutistico italiano nel Settecento. Il mandolino barocco20 invece, i cui esecutori e compositori erano frequentemente tiorbisti e liutisti, fece la sua comparsa dapprima in Italia settentrionale verso la seconda metà del XVII secolo21 e successivamente anche nel centro Italia e in Europa; esso visse la sua età aurea proprio nel Settecento sopravvivendo un secolo più a lungo degli arciliuti, ossia fino alla fine dell’Ottocento, secolo nel quale cominciò ad assumere, nei trattati e nei metodi, la denominazione geografica di «mandolino milanese» o «mandolino lombardo» per distinguerlo dal più popolare modello napoletano. Un altro motivo che può in parte spiegare il vuoto degli studi critici su queste composizioni, può essere dovuto all’anomala scrittura impiegata da Vivaldi per il «leuto» e sentita probabilmente dai liutisti forse poco interessante rispetto all’enorme repertorio polifonico liutistico: Vivaldi non adotta una scrittura a più voci come è usuale sullo strumento bensì quasi esclusivamente monodica; tratto stilistico che, tra l’altro, è comune anche alle composizioni vivaldiane per mandolino.

Il manoscritto, appartenuto nel Settecento al conte Giovanni Giberto Borromeo e a lui dedicato, contiene ventotto composizioni per arciliuto solo (con l’eccezione di due per arciliuto e basso) di Giorgio Scotti, Antonio Scotti, Melchiorre Chiesa e Benvenuto Terreni, tutti musicisti operanti nell’area milanese. Il tipo di arciliuto richiesto è quello a dieci cori a tratta corta per i quattro extrabassi diffuso in tutto il Nord Italia intorno alla metà del secolo (come per esempio documentano anche le Suonate di Celebri Auttori per l’Arcileuto Francese… raccolte da Filippo Dalla Casa nel 1759-60. Cfr. FILIPPO DALLA CASA, Suonate di Celebri Auttori per l’Arcileuto Francese – Regole di Musica, Ms. EE. 155., I, Bologna, 1759. Rist. anast., Firenze, SPES, 1984). Un esemplare di arciliuto a tratta corta fa parte ancora oggi delle collezioni di strumenti dell’Isola Bella. Questo piccolo strumento, nel tardo Settecento, era amato e suonato dalla nobiltà come per esempio attesta il quadro conservato nel Museo Civico di Como che ritrae il conte Giovanni Battista Giovio (1748-1814) con un piccolo arciliuto tra le mani (cfr. NICOLA SANSONE, “In fondo alla musica”, Insieme Cultura, 14, 1990, p. 10). 20 Tra le molte denominazioni con cui viene oggi chiamato il mandolino a sei cori accordato per quarte (tra le quali per esempio «mandolino antico», «pandura», «pandurina», «mandola», «mandolino lombardo», «mandolino milanese», «mandolino barocco») abbiamo scelto qui il termine di «mandolino barocco». 21 La prima testimonianza dell’uso di un mandolino accordato per quarte si ha nel 1689, cit. in RENATO MEUCCI, “Da «chitarra italiana» a «chitarrone»: una nuova interpretazione”, in F. SELLER (a cura di), Enrico Radesca di Foggia e il suo tempo, pp. 50-51. 19


VII Nella trattazione di queste composizioni abbiamo delineato un percorso di datazione, tenendo conto dei documenti dell’epoca, dell’evoluzione dello stile vivaldiano, e degli studi che sono stati condotti sulla carta da musica usata da Vivaldi per comporre; il lavoro di analisi è stato condotto direttamente sugli autografi o comunque sulle fonti manoscritte dal momento che le uniche edizioni di queste musiche che possediamo sono quelle pubblicate nell’ambito dell’edizione completa delle opere Ricordi curata a partire dal 1949 da Gian Francesco Malipiero che però, in molti casi, non interpreta correttamente la scrittura vivaldiana, in particolare quella liutistica, e non tiene conto dell’uso filologicamente appropriato della strumentazione. Nell’intento di chiarire quest’ultimo aspetto, sono state analizzate in ordine cronologico certo o presunto (in questa sede l’analisi è stata condotta nei suoi tratti salienti), dapprima le due arie che vedono la presenza degli strumenti a pizzico nell’oratorio Juditha Triumphans, la cui data certa di esecuzione è il 1716 alla Chiesa della Pietà, successivamente le composizioni per liuto RV 82, RV 85 e RV 93 scritte presumibilmente durante il viaggio di Vivaldi in Boemia negli anni 1729-31, in seguito i due concerti per uno e due mandolini che appaiono lavori risalenti ai tardi anni Trenta, per chiudere infine con i capolavori della maturità RV 540 e RV 558, composti, l’anno prima della morte, in occasione della visita a Venezia del principe Federico Cristiano di Sassonia. Ogni opera infine, quando possibile, è stata messa in relazione al più vasto panorama liutistico e mandolinistico tardo seicentesco e settecentesco, al fine di coglierne i tratti comuni e quelli peculiari e, con le parole di Francesco Degrada «l’interrelazione profonda, tra l’esperienza vivaldiana, inscindibile dallo sfondo magico della Venezia settecentesca e il suo contesto internazionale: l’immagine appunto di Vivaldi “veneziano europeo”».22

che l’iconografia veneziana settecentesca (come per esempio i dipinti di Giambattista Tiepolo e di Pietro Longhi)23 mostra lo strumento suonato con le dita e senza battipenna. Tutti questi elementi conferiscono al mandolino barocco una sonorità piuttosto esile e breve. Il suono tenue e volatile del mandolino e dei violini, viene in «Transit aetas» eletto a simboleggiare la fatale caducità del tempo e la fragilità della vita umana. Tutta l’aria risulta così una sorta di «vanitas» sonora ingentilita da ogni severità dal tintinnio delle corde pizzicate del mandolino. Manca poi la parte di basso, sostituito da un «bassetto» dei violini pizzicati, quasi a sottolineare la mancanza di fondamento e di certezze. Il mandolino era molto in uso alla Pietà dove era suonato per esempio, insieme ad altri sette strumenti (tra i quali la tiorba24 e il liuto), dalla versatile polistrumentita Anna Maria (1696-1782),25 conosciuta e ammirata in tutta Europa per le sue straordinarie doti esecutive, come si apprende dall’anonima satira in versi Sopra le putte della Pietà di coro scritta, molto probabilmente, da un veneziano «habitué» dei concerti di questo istituto che, nel descrivere le eccellenti capacità strumentali della «brutta Anna Maria», affermava: «[…] Come lei qual professore/ Suona cembalo o violino,/ Violoncel, viola d’amore, / Liuto, tiorba e mandolino? […]».26 È quindi probabile che nell’aria «Transit aetas», una delle quattro tiorbiste presenti in orchestra fosse in grado di suonare più di uno strumento a pizzico, e quindi anche il mandolino (forse la stessa Anna Maria), senza dover ricorrere a un altro solista. Il mandolino non deve essere considerato uno strumento raro o desueto nel Settecento.27 Esso ebbe al con-

Giambattista Tiepolo, Giovane che suona il mandolino, olio su tela, Detroit, Institut of Arts, 1758-60 ca. Pietro Longhi, Concerto familiare, olio su tela, Milano, Pinacoteca di Brera, 1755-60. Come il liuto, dunque, il mandolino milanese veniva suonato prevalentemente con le dita. 24 Per quanto riguarda la tiorba, proprio Anna Maria ne ottenne ancora una nuova dalla Pietà nel 1732 costruita dal liutaio Cristofaro Sellas, cit. in MICHAEL TALBOT, The sacred vocal music of Antonio Vivaldi, Firenze, Olschki, 1995, p. 427. 25 MICKY WHITE, “Biographical Notes on the “Figlie di coro” of the Pietà contemporary with Vivaldi”, Informazioni e studi vivaldiani, 21, 2000, pp. 82-83. 26 FRANCESCO DEGRADA, “Un’inedita testimonianza settecentesca sull’ospedale veneziano della Pietà”, Il convegno musicale, I, 1964, pp. 237-58. 27 Per esempio, la studiosa Eleanor Selfridge-Field nel suo articolo sugli strumenti esoterici utilizzati da Vivaldi non menziona il mandolino, consapevole della vitalità di cui gode in Italia questo strumento nel Settecento (cfr. ELEANOR SELFRIDGE-FIELD, “Vivaldi’s Esoteric Instruments”, Early Music, 6, 1978, pp. 332338. In italiano: “Gli strumenti esoterici di Vivaldi”, Il flauto dolce, 7, 1977-79, pp. 8-16). 23

Gli strumenti a pizzico nella Juditha Triumphans All’interno dell’organico strumentale della Juditha Triumphans, ricco di timbri preziosi, figurano anche quattro tiorbe e un mandolino. Entrambi gli strumenti verranno impiegati ancora da Vivaldi in RV 558, nel tardo 1740. Delle sette arie affidate a Giuditta, «Transit aetas, volant anni» (XVII, seconda parte) richiede un mandolino insieme ai violini pizzicati per accompagnare la protagonista. L’esecuzione filologica è dunque quella che impiega il mandolino barocco a sei cori con accordatura per quarte (sol4, re4, la3, mi3, si2, sol2), con corde in budello pizzicate presumibilmente con le dita dal momento

FRANCESCO DEGRADA, Vivaldi veneziano europeo, Firenze, Olschki, 1980, p. 7.

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VIII trario grande vitalità a partire dai primi decenni del secolo soprattutto nell’ambito della musica cameristica più spesso eseguita in ambienti privati o semipubblici ma anche nelle partiture teatrali e negli oratori.28 Questo strumento guadagnò popolarità anche nel resto d’Europa, attraverso il linguaggio internazionale della musica italiana e, per quanto attiene al suo impiego in un oratorio, possiamo qui ricordare per esempio l’aria «Hark! He strikes the golden lyre» presente nell’Alexander Balus di Georg Friedrich Händel eseguito a Londra nel 1748. Tale aria richiede il mandolino obbligato, insieme a due flauti, un’arpa e orchestra d’archi per rappresentare una mitica lira. Händel dunque — che dopo il soggiorno a Venezia, Napoli, Roma e Firenze tra il 1706 e il 1710, fece tesoro delle pratiche vocali e strumentali dei maestri italiani — fu uno dei compositori che si mostrò sensibile al peculiare timbro del mandolino.

Alla pari con gli strumenti settecenteschi il repertorio mandolinistico è tradizionalmente rappresentato da sonate, partite, sinfonie, variazioni su tema, suites di danze, canzoni, musica per una varietà di complessi da camera, concerti e quant’altro si suona a quel tempo. Di composizioni cameristiche italiane per mandolino barocco della prima metà del Settecento esiste una nutrita letteratura (per lo più per mandolino e basso continuo); un dettagliato elenco del repertorio per questo strumento si trova in J. TYLER - P. SPARKS, The early Mandolin…, op. cit, pp. 56-65). È intorno alla prima decade del Settecento che l’aria con il mandolino obbligato comincia ad apparire nella musica d’opera e negli oratori all’interno degli organici orchestrali in virtù della particolare sonorità timbrica di questo strumento. I primi esempi di lavori drammatici in cui compare la mandola/mandolino si trovano nelle opere teatrali per l’esecuzione, in genere, di parti monodiche: per esempio nell’aria per soprano, mandolino obbligato e continuo «Scherza l’alma…» dell’Alessandro il Grande in Sidone (1706) di Francesco Mancini; in un’aria all’interno del componimento drammatico La conquista delle Spagne di Scipione Africano di Antonio Maria Bononcini, rappresentato a Vienna nel 1707, è prevista una parte per mandolino con corde stoppate; il mandolino è ancora richiesto nell’aria «Si vedrà quel nome altero» dell’opera Diana Pacata di Fux del 1717, nell’aria «Dolce sembiante il tuo rigore» del Lucio Vero di Francesco Gasparini (Roma, 1719) per soprano, due violini, mandola e continuo, in un’aria del secondo atto del Teofane (1719) del veneziano Antonio Lotti e nel Pandolpho di Giovanni Pietro Franchi, autore inoltre di due arie a quattro voci per violini, liuto e mandolino. Un altro veneziano, Gioacchino Cocchi, in un’aria di un’opera del 1754, fa accompagnare il soprano da due violini, viola, mandolino e continuo. Un po’ più tardi, negli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento, oltre a Händel, nell’oratorio in tre atti Alexander Balus (Londra, 1748), anche Hasse nell’aria «Se un core ardi» dell’Achille in Sciro (1759) prescrive una parte di mandolino obbligato. Il mandolino barocco resta in uso fino al tardo Ottocent o ed è impiegato per esempio da Giuseppe Verdi in Les Vêpres siciliennes (1855) e in Otello (1887). Nel primo Settecento è anche molto diffuso come strumento amatoriale specie tra le classi dell’alta società.

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L’altro momento che, nella Juditha, vede protagonisti gli strumenti a pizzico, si trova nella prima delle due versioni scritte da Vivaldi per l’aria «O servi volate» (XI, prima parte). Vengono qui richieste, eccezionalmente, quattro tiorbe obbligate per accompagnare l’aria di Vagaus, lo scudiero eunuco di Oloferne. Le quattro tiorbe suonano all’unisono nelle parti monodiche e divise, sicuramente due strumenti per parte, nei passaggi a due voci. Le tiorbe accompagnano alternativamente prima il solista con i «cembali soli» e poi il coro in due brevissimi interventi insieme agli archi. Vivaldi non fu l’unico compositore nel Settecento a scrivere parti obbligate per i liuti estesi all’interno di un oratorio. L’utilizzo di questi strumenti, in ambito oratoriale (come tra l’altro nelle partiture d’opera)29 era diffuso all’epoca, come testimoniano alcuni lavori di importanti compositori settecenteschi. Per esempio si può menzionare ancora Händel il quale, parecchi anni prima dell’Alexander Balus, nel suo primo oratorio romano, La Resurrezione (Roma, 1708),30 nell’aria di San Giovanni, «Così la tortorella talor piange», affida una parte di basso numerato alla tiorba che suona insieme al traversiere, la viola da gamba, i bassi e i violini all’ottava e per brevi momenti accompagna la voce da sola o insieme alla viola da gamba. Vero momento concertante si presenta invece quello all’interno della prima delle due parti dell’oratorio di Giovanni Battista Pergolesi, La Fenice sul rogo ovvero La morte di san Giuseppe,31 eseguito a Napoli probabilmente tra il 1730 e il 1736. Nell’aria di San Giuseppe, «Non può chi tutto può darmi la morte», il solo dell’arciliuto, molto articolato dal punto di vista tecnico-esecutivo, si alterna, all’inizio dell’aria, al solo obbligato della viola d’amore (chiamata a Napoli «violetta d’amore») per poi, insieme, concertare per terze facendo eco alla voce. Anche Francesco Feo nell’Oratorium pro defunctis, nell’aria «Velut unda furibunda» (I atto), utilizza l’arciliuto per ottenere una sonorità particolare nell’accompagnare, insieme agli archi, il momento in cui al personaggio della donna saggia (Mulier) viene chiesto di placare l’ira del re David.32

Ricordiamo per esempio che Alessandro Scarlatti richiede espressamente l’arciliuto al posto del cembalo nell’opera Il prigioniero fortunato (Napoli, 1968) per l’accompagnamento delle «Siciliane»; inoltre, l’aria di Demetrio del secondo atto dell’Irene di Domenico Scarlatti (Napoli, 1704), «Per lei caro m’è ogni duolo», prevede un basso per «violoncello e leuto soli». 30 GB Lbl R.M. 20. f.5. 31 B Bc-12898. L’attribuzione dell’oratorio a Pergolesi è però considerata dubbia da alcuni studiosi. 32 Vedi FRANCESCO FEO, Oratorium pro defunctis (1723), edizione critica a cura di Joyce L. Johnson, New York, Garland, 1987. 29


IX

I Trii per violino, liuto e basso continuo alla luce del ritrovamento di un’importante fonte musicale tardoseicentesca La prova offerta da Talbot33 e successivamente confermata da Everett34 che può sostenere l’ipotesi della permanenza in Boemia di Vivaldi tra il 1729 e il 1731, si avvale proprio dei manoscritti dei trii per violino, «leuto» e basso continuo, RV 82 e RV 85, e del concerto in re maggiore per due violini, «leuto» e basso continuo RV 93. Dagli studi di Everett sulla carta usata da Vivaldi nella sua carriera di compositore, basati su analisi rastrografiche, risulta che tali composizioni sono scritte su un tipo di carta che, per il formato dei fogli e per la filigrana, non trova riscontro con altri tipi utilizzati nello stesso periodo a Venezia. In queste tre composizioni vivaldiane non è stata infatti utilizzata la carta con filigrana «a tre mezze lune» diffusa nel Nord Italia, bensì una carta insolita e di scarsa qualità. Tutti e tre i lavori, inoltre, riportano una dedica ufficiale scritta per abbreviazione (e data qui per esteso) a un personaggio illustre, il conte boemo Wrtby: «P[er] S[ua] E[ccellenza] Il[lustre] Conte Wrttbÿ». Secondo Talbot questo facoltoso gentiluomo può essere identificato con il conte Johann Joseph von Wrtby35 (1669-1734) che in Boemia ricopriva una delle massime cariche fra cui quella di regio governatore, presidente della Corte d’Appello e tesoriere ereditario. A Praga Wrtby era un abituale frequentatore d’opera nel teatro del conte Sporck. Probabilmente un incontro di Wrtby con Vivaldi a Praga potrebbe spiegare sia la commissione sia la carta inconsueta utilizzata per le tre composizioni,36 le quali vengono composte da Vivaldi dunque sicuramente prima del 1734, anno di morte del conte. Con molta probabilità questo uomo di Stato mitteleuropeo si dilettava anche nel suonare il liuto o era particolarmente entusiasta dello strumento. Non sappiamo se suonasse comunque il liuto francese a undici cori, accordato in re minore, diffuso in tutta Europa centrale a partire dal 1630 e molto popolare a Praga, oppure l’arciliuto italiano. Vivaldi scrivendo quasi certamente per il «leuto» che conosceva, ossia quello in uso in Italia, l’arciliuto appunto, lasciò al mecenate boemo o al suo liutista il compito di adattare eventualmente la parte. È comunque significativo che le tre composizioni dedicate a Wrtby, insieme

MICHAEL TALBOT, “Vivaldi and the Empire”, Informazione e studi vivaldiani, Ricordi, 1987, p. 42 e MICHAEL TALBOT, Vivaldi, London, Dent, 1978; New York, Schirmer, 19933. In italiano: Vivaldi, Torino, Torino, EDT, 1978, p. 59. 34 PAUL EVERETT, “Towards a Vivaldi Chronology”, in A. FANNA E G. MORELLI (a cura di), Nuovi studi vivaldiani. Edizione e cronologia critica delle opere, II, p. 739. 35 Jan Josef Vrtba, secondo la grafia ceca. 36 MICHAEL TALBOT, Vivaldi, op. cit., pp. 73-74. 33

al concerto RV 540, si possano eseguire su entrambi i tipi strumento e che le tonalità dei lavori (do maggiore in RV 82, sol minore in RV 85, re maggiore in RV 93 e re minore in RV 540), siano agevoli tanto per l’arciliuto quanto per il liuto in re minore. Nelle tre composizioni dedicate al conte boemo, inoltre, considerando la sicura destinazione a un organico cameristico dei brani, la parte di «leuto», differentemente dal concerto RV 540 in cui il più ricco assetto della partitura consente uno sdoppiamento esplicito di ruolo dello strumento (di sostegno ai bassi nel ripieno e di solista nei soli) è notata nella sola chiave di violino senza l’impiego della chiave di basso. Tuttavia, dal momento che la parte liutistica in partitura è sempre al centro fra il violino e il basso a eccezione del Larghetto di RV 82 (sottolineando, con siffatta disposizione, la derivazione della parte del violino da quella del «leuto»), si può ipotizzare che il liutista dell’epoca leggesse contemporaneamente dal proprio rigo e da quello del basso, forse realizzando sia la linea melodica che i bassi del sostegno armonico. Fin dal tempo della pubblicazione di queste composizioni, come dicevamo, si pose il problema del tipo di «leuto» impiegato da Vivaldi. La confusione sorse per l’uso che Vivaldi fa della chiave di violino. Tuttavia dall’autografo RV 540, dove le note in chiave di violino sono scritte un’ottava più acuta e i bassi ad altezza reale, apprendiamo che le parti delle tre composizioni dedicate a Wrtby (tutte in chiave di sol), vadano eseguite sull’arciliuto all’ottava inferiore e non su un piccolo liuto dal registro tanto acuto da raggiungere il re5. La definizione di «composizioni di convenienza» che diede Gian Francesco Malipiero ai trii e al concerto RV 93 pubblicati nel 1949, nelle note introduttive all’edizione Ricordi, non fornisce una visione completa sul significato che questi lavori hanno all’interno dell’intera produzione vivaldiana, e, in parte, può aver rappresentato un altro motivo di disinteresse della musicologia verso queste composizioni. È innegabile che lo stimolo del Prete Rosso a usare il liuto (e anche il mandolino) nacque da particolari ragioni occasionali, spesso legate a specifiche richieste di una committenza e clientela privata, ma ciò non toglie che Vivaldi, colpito dalla timbrica di questi strumenti, riuscì a comporre opere di alto valore artistico ed espressivo. La numerazione presente nel titolo dei due trii, secondo e quinto, fa pensare a un progetto più ampio che contemplava un blocco di sei composizioni analoghe, dal momento che il sei era uno dei numeri canonici per le raccolte strumentali. Questi trii, nello schema Allegro-Adagio-Allegro tipico dei concerti, sono scritti nella forma della sonata a tre con i due strumenti solisti, «leuto» e violino, nettamente separati dalla parte del basso realizzato probabilmente da uno strumento a tastiera e/o rinforzato da uno strumento melodico come il violoncello o la viola da gamba.



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In un gruppo di composizioni dell'enorme patrimonio vivaldiano di musiche strumentali pervenute manoscritte, il Prete Rosso assegna all'arciliuto, alla tiorba e al mandolino un ruolo di protagonisti assoluti: due trii per violino, «leuto» e basso continuo, un concerto in re maggiore per due violini, «leuto» e basso continuo, un altro in re minore per viola d'amore e «leuto», un concerto per undici strumenti e orchestra d'archi in cui hanno una parte concertante anche due tiorbe e due mandolini, un concerto per mandolino e infine un doppio concerto per due mandolini.

In a group of compositions from the enormous stock of surviving Vivaldi manuscript sources, "The Red Priest" assigns unequivocably leading roles to the archlute, to the theorbo and to the mandolin: two trios for violin, «leuto» and basso continuo, a concerto in D major for two violins, «leuto» and basso continuo, another in D minor for viola d'amore and «leuto», a concerto for eleven instruments and string orchestra, in which the two theorbos and two mandolins have a concertante part; a concerto for mandolin, and finally, a double concerto for two mandolins.

Partitura stampata e parti staccate in formato pdf su CD.

Complete score and performing parts available in pdf format on CD.

La fondazione Arcadia promuovo lo studio e la conoscenza della musica italiana del XVIII secolo, attraverso la ricerca musicologica, la revisione e l'edizione critica di opere edite e inedite.

Fondazione Arcadia furthers research on XVIII century Italian music with critical editions of published and unpublished repertorie.

ISBN 978-88-50718-76-4

9 788850 718764

MK 17555 x15 A


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