Rapsodie Salentine 2011

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Rapsodie Salen Salentine n. 16


Rapsodie Salen Salentine Arte, Musica, Poesia, Cultura, Bellezza, Salento n. 16 - luglio 2011 Redazione: Emanuele Filograna A margine della 18^ Vacanza Studio organizzata dai Volontari della Pro Civitate Christiana di Assisi 25 – 31 luglio 2011 Oasi Beati Martiri Idruntini Santa Cesarea Terme (LE)

In copertina: I monti dell’Albania sullo sfondo del panorama dalla pineta di Santa Cesarea Terme

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La lettura di Rapsodie Salentine è diventata ormai un vero e proprio ‘rito’ della Vacanza Studio di Santa Cesarea che anche quest’anno accoglie i suoi partecipanti, tra le altre cose, con questo foglio di spunti e pensieri per accompagnare i momenti di calma e di riflessione di questa settimana salentina. Nel prisma della riflessione sul quotidiano, quest’anno si discorrerà anche di riti della vita ordinaria, profittando dell’esperienza e della sapienza di un teologo con il valore aggiunto di essere un vero laico (Andrea Grillo), e nell’ottica di intravvedere in tutte le cosiddette piccole cose della vita, anche in quelle ripetitive e meccaniche, dei luoghi del senso. I riti, infatti, non sono normalmente considerati delle cose ripetitive e meccaniche? Evidentemente non sono e non possono restare solo questo. Anzi: vorremmo scoprire un’importanza di ben altro spessore nelle umili liturgie del feriale, del consueto, di ciò che ritorna e si mantiene sul piano dell’ordinario. Una chiave per dischiudere questa porta su un nuovo sguardo al quotidiano e al rito può essere allora quella della dicotomia profondità/superficie. La shallow water, l’acqua poco profonda è quella in cui si impara a nuotare, ma anche quella in cui armati di setaccio - si passa in rassegna la polvere della miniera per cavarne fuori almeno qualche pagliuzza d’oro. La superficie è quella sulla quale si può viaggiare veloci e andare dritti alla destinazione, come fa un aliscafo, quasi senza toccare l’acqua. La profondità può invece ridursi a volte a quella esplorata solo dalle talpe, che per questo rimangono cieche. E’ proprio sul pregiudizio che fa prevalere sempre e comunque la dimensione del profondo rispetto a quella della superficie che si cercherà di riflettere con qualche spunto vario e speriamo interessante. Il quotidiano non è mai banale ha detto qualcuno, purché si abbia la capacità di ‘inventarlo’. Esso è la superficie da attraversare, come un varco, verso altre profondità, ma da tenere sempre presente, da comprendere e da vivere anche per sé stesso, per ciò che è, poiché finisce per essere la più gran parte della nostra vita. Buon viaggio, dunque, e l’augurio che le acque profonde e cristalline di Santa Cesarea possano portare in superficie se non tesori corallini, almeno una schiuma di pensieri nuovi.

[E.F.]

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grete stanze e dagli appartamenti individuali (nati appunto in quel periodo) si giunge a teorizzare prima la ormai obsoleta casa di cristallo, quindi la sua brutta copia (la casa del Grande Fratello), infine l’esposizione permanente, la piazza sempre aperta e visibile da tutte e in tutte le direzioni del social network. Siamo naturalmente resistenti a rinunciare a un senso, nobile e alto, delle cose: e dunque lo inseguiamo un po’ parossisticamente, con una tecnica strana, cioè muovendoci sulla superficie del mondo. Facciamo tentativi di formare figure di senso mettendo in costellazione punti del reale attraverso cui passiamo con agilità e leggerezza che sorprendono noi stessi. Queste collezioni di elementi di superficie sono però, lo sentiamo noi stessi, evidenze sottili. Perché l’impressione che si tratti di prove deboli ? Siamo costretti, gioco forza, a individuare una modalità di pensare la superficie che si ponga in maniera alternativa rispetto alla “metafisica del fondo”. Spinti a disinstallare lo ‘strano pregiudizio’ che valorizza ciecamente la profondità e scapito della superficie, pretendendo che superficiale significhi non già “di vaste dimensioni” (bensì “poca cosa”, o di poca profondità), mentre “profondo” deve per forza significare di “grande profondità” (e non “di

Immagini della superficie (del risvolto della profondità). Sotto il lembo di ogni superficie si nasconde una profondità che, per definizione, noi non possiamo sondare senza sollevare, scostare il velo della superficie. La superficie è un sipario, importante quanto si vuole, ma solo una copertura, anzi: una cosa che impedisce di vedere. La vera scena sta dietro e oltre la superficie. Questa è in effetti una comune veduta, non priva di ragioni, ma che non esaurisce il discorso, ed anzi si presta ad una serrata critica. Sta di fatto che essa corrisponde innanzitutto al cosiddetto vedere ingenuo, a ciò che più naturalmente ci appare. E poi, soprattutto, ad un radicato pregiudizio. Anche il cielo stellato sopra di noi sembrava un piatto lenzuolo su cui gli astri stavano come punti luminosi ricamati in superficie. Poi abbiamo scoperto che si trattava di corpi immersi nelle proverbiali “profondità siderali”. E il filosofo Giulio Giorello ci ricorda come, dal punto di vista antropologico, sia stato Darwin a insegnarci a scrutare le immense profondità del tempo naturale. Dal punto di vista sociale, non si può non ricordare che l’intimità è una invenzione del XVIII e XIX sec. che va oggi sparendo, perché è una profondità che viene portata in superficie. Tanto che dalle se-

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superficie ridotta”). Deleuze e Guattari intrapresero questa polemica contro la metafisica del pensiero occidentale, basandosi sulla convinzione che la mossa iniziale della tradizione (quella di porre la legittimità del pensiero stesso nell’aggancio a qualche elemento stabilmente affondato nelle profondità del sistema categoriale) sia semplicemente arbitraria. Per ciascuna delle componenti tipiche della metafisica, Deleuze e Guattari riorganizzano il movimento del pensare in modo differente, processuale anziché sostanziale (ad es. processi di soggettivazione invece che soggettività, ecc.). Ciò è particolarmente interessante per noi, perché il rito non è altro che un processo, una vera e propria procedura… E fa risaltare come sia particolarmente importante sottrarsi alla cattura istituzionale che un pensiero irrigidito propugna e ricerca. Insomma: non farsi soffocare e imbrigliare dalle procedure e dai riti, appunto. È singolare l’immagine del rizoma. Un rizoma è un gambo a fusto sotterraneo, un vero paradosso vegetale. Sceglierlo come metafora principale di una nuova pratica di linguaggio e di analisi vuol dire ripudiare sia l’albero, simbolo consacrato di produttività verticale e normale (dunque normativa), sia la radice figura di ogni origine e fondamento. Il gambo sotterraneo a diramazioni irre-

golari ci indica una nuova linea di analisi, a zig zag, a sorpresa, la sola che possa farci trovare nel quotidiano cose interessanti, senza i vicoli ciechi in cui ci incastra l’ansia di una metafisica del profondo. E’ il contrario di un procedimento lineare e globalizzante (come potrebbe essere il gonfiamento progressivo e regolare di un frutto, la ramificazione armoniosa di un unico tronco). Esattamente come è la vita feriale e ordinaria di tutti i giorni, si tratta di una successione non sistematica, ma rizomatica. E’ insomma un’apologia della distrazione del frammentario, del pensiero come pulsione non programmata, discontinua, nascente. Come l’andatura diagonale dell’alfiere negli scacchi: è propriamente un’altra logica di spostamento. Tradizionalmente teoria e pratica appartengono a due sfere distinte: la pratica interviene dopo la teoria come sua applicazione, oppure la precede suscitandola (in ogni modo, i loro rapporti hanno tempi e luoghi diversi). Invece, per il Deleuze del pensiero rizomatico pratica e teoria intervengono, localmente, l’una nel campo dell’altra. Esattamente come deve essere nel quotidiano, che non ha e non riesce ad avere tempi separati e distinti per la meditazione e la riflessione da un lato, e la concretezza e l’azione dall’altro. Nessuna teoria può svilupparsi senza scontrarsi con un qualche muro: ci

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pone come il ponte tra il visibile e l’invisibile, tra il noto e l’ignoto, in quanto composto da ciò che, pur non essendo immediatamente percepito, è intimamente connesso alla figura e la rende possibile. In questa dinamica, lo “sconosciuto”, non più relegato in un posto “altro” lontano dalla superficie, appartiene alla stessa dimensione spaziale e temporale dell’esperienza, al campo da cui essa trae energia e contestualizzazione: insomma, al quotidiano con i suoi riti e le sue liturgie. L’attenzione al presente è attenzione alla profondità della superficie, al riaffiorare delle cose del passato nella superficie del tempo attuale. La superficie è dunque anche la “superficie di contatto” costituita dalla pelle, dagli organi di senso e da ogni altro spazio in cui si concretizza e si manifesta il “qui e ora” della relazione. E’ la linea di confine che si pone come interfaccia tra l’organismo e l’ambiente, il dove l’uno e l’altro incessantemente si incontrano e interagiscono. In questa realtà di confine alcuni recenti studi hanno individuato il vero ‘luogo della mente’, la dimensione a partire dalla quale nasce e si sviluppa la vita mentale, confermando così come la complessa e inafferrabile profondità della psyché, in maniera affatto paradossale, trovi origine e alimento nella inesplorata superficie del confine.

vuole la pratica per forare di nuovo quell’ostacolo e andare oltre. Fate la linea e non il punto, sembra dire Deleuze. A cosa serve il pensiero rizomatico, il gambo sotterraneo, o la radice aerea? A impedire al pensiero di addormentarsi sotto l’ombra del grande albero della profondità, e cioè in qualche modo del potere, dell’irrigidito, del pietrificato. E ciò si fa giocando, ma con mosse inedite come quelle diagonali dell’alfiere ! La profondità della superficie. La profondità della superficie è stata anche una felice formula scelta dal gruppo che fondò la psicoterapia della Gestalt (fra cui anche Fromm). L’idea era quella di guardare alla superficie come il luogo in cui la profondità si manifesta e può essere incontrata. Si sono prese così le distanze dagli approcci che collocavano la profondità (cioè, la verità delle cose) “altrove”, dietro alla superficie, come in un luogo raggiungibile solo attraverso un rimando a contenuti non immediatamente sperimentabili. Diventare “esperto nell’ovvio” è invece il compito di ogni indagatore del proprio sè. Occorre infatti prestare attenzione a ciò che appare, così come appare, cercando di esplorarne tutto lo spessore e di coglierne i dettagli, le sfumature, i ritmi. Di qui la dinamica figura-sfondo: lo sfondo si

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profondità”. Nietzsche, ma anche Simmel (come si dirà) e altri, sono i fondatori di questo “sapere della superficie” che restituisce dignità teoretica ed esistenziale al “mondo della cose prossime” e rinnova la relazione cognitiva tra particolare e universale, tra fenomeno ed essenze. La rivalutazione della superficie è una costante del pensiero di Nietzsche che rivolge alla metafisica e alla morale l’accusa di avere screditato la superficie, il mondo prossimo, il mondo della vita, imponendo verità profonde e una trascendenza capace solo di generale non senso, nichilismo (sarebbe utile ricordare che il nichilismo non era ciò che Nietzsche propugnava, ma ciò contro cui Nietzsche si scagliava!). Anche Ortega y Gasset, partendo dalla considerazione che “la profondità è fatalmente condannata a convertirsi in superficie se vuole manifestarsi” pone in risalto la relazione dialettica: “la profondità ha bisogno di una superficie dietro cui nascondersi; la superficie, per essere tale, ha bisogno di qualcosa su cui estendersi e da ricoprire”. Nella metafora della superficie, troviamo non solo la dimensione del qui e ora, ma anche il fatto che essa sia “importante di per sé”. La superficie, l’esterno, pur avendo una specifica autonomia, pur essendo un elemento importante per sé non esclude la profondità, l’interno, ma al contrario

Il sapere della profondità. Il sapere della superficie. Già Eraclito affermava che la natura delle cose ama celarsi, quasi a costituire un esplicito nesso tra profondità ontologica e inaccessibilità gnoseologica. Questo continuo riproporre la metafora della profondità è una nota costante della filosofia antica, in armonia con una più generale attitudine della cultura greca che esalta il pathos del nascosto, del celato, dell’enigma. I fondamenti, per definizione, si trovano al fondo delle cose ed escludono ogni ulteriore profondità. Tolto ogni credito alla conoscenza che proviene dai sensi, la filosofia si è sempre orientata verso il soprasensibile: Agostino per tutti e primo fra tutti (non a caso dovrà essere citato più volte…) manifesta la sua intima convinzione che la determinazione esistenziale dell’uomo è riposta nella interiorità. Rorty poi ci ricorda che tutti i filosofi moderni, da Cartesio a Locke, a Kant, hanno sviluppato e perfezionato la teoria della conoscenza, facendosi promotori dell’interiorità ed elaborando la metafora di uno “specchio interiore”. Tutto ciò non vuol dire che non sia possibile rintracciare anche un “sapere della superficie”, che si è sempre delineato in contrapposizione al dominante “sapere della

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scaturisce da esso. Con una metafora artistica si potrebbe dire che la figura emerge dallo sfondo come un bassorilievo che obbliga all’attenzione come un tuttotondo, ma restando stiacciato, quasi piatto. La figura appare con ricchezza di dettagli, ci induce all’esame

minuzioso, alla concentrazione persino al fascino. Il potere dello sfondo sta nella sua fertilità. Ciò che si esprime nella superficie è il flusso tra accessibile e inaccessibile, tra figura e sfondo. .

I nostalgici dei tesori sepolti sono gli appassionati delle profondità, che si vantano di rovistare nelle pieghe dell’essere, che lamentano la nostalgia della moneta d’oro che brilla sul fondo di un presunto pozzo in cui è difficile calarsi o anche solo guardare. Per loro, i cultori della superficie sono invece coloro che non saprebbero vivere altrimenti che spalmati sulla superficie e non consocerebbero la dialettica luce/oscurità. La consuetudine della superficie sarebbe solo come una continua leggera puntura di spilli, nulla a che vedere con la ferita profonda di una conoscenza radicale dell’essenza delle cose. Si gloriano di essere cacciatori di forzieri del senso nei relitti affondati nel mare del pensiero, e con essi di tutto ciò che si può definire inafferrabile. Le verità sepolte sarebbero i veri luoghi supremi, i veri viaggi sarebbero solo quelli negli abissi delle profondità, mentre il rimanere in superficie sarebbe solo una diversione, o forse un divertimento pascaliano. Il richiamo

Superficie digitale e metafisica (barbara ?) Musil scelse come esergo del Torles questa frase di Maurice Maeterlinck: "Non appena le enunciamo, stranamente priviamo le cose del loro valore. Crediamo di esserci immersi fino al fondo degli abissi, e quando ritorniamo alla superficie la goccia d'acqua sulle pallide punte delle nostre dita non assomiglia più al mare da cui proviene. Ci illudiamo di aver scoperto in una caverna tesori meravigliosi, e quando ritorniamo alla luce del giorno non ne riportiamo che pietre false e schegge di vetro; e tuttavia, nell'oscurità il tesoro continua a brillare immutato". Il contenuto, staremmo per dire… profondo (!) della frase fa riflettere su un punto fondamentale: l’idolatria del profondo, che rischia di trasformarsi in un bisogno di esperienze straordinarie ed esoteriche, da cui speriamo di riemergere solo con i pezzi di vetro e senza tesori.

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della superficie sarebbe solo un canto delle sirene. Invece, i nativi digitali (cioè i nati negli anni ’90) stanno partecipando ad un cambiamento che può essere paragonato ai cambiamenti genetici avvenuti nella specie uomo decine di migliaia di anni fa. Appaiono aver sviluppato come una mutazione, un ‘intuito digitale’ e una naturalezza nell’utilizzo delle nuove tecnologie comunicative che qualcuno non esita a definire i prodromi di nuove arti dell’umanità. Ormai qualche anno fa Alessandro Baricco, ha ambientato un suo articolo nel 2026, sostenendo provocatoriamente che i nativi digitali saranno come dei nuovi barbari che presidieranno il territorio del “senso”, dell’abilità e della saggezza non addentrandosi mai in profondità, ma viaggiando solo in superficie, un po’ come i barbari scorrevano a volo, in sella ai loro cavalli, le civitates romanae, incuranti dei tesori di arte, architettura, cultura che vi erano contenuti e bivaccando in Campidoglio, come ci tramanda la storiografia. Baricco, insisteva, perciò che quel senso nascosto delle cose, quel noumeno che per secoli la tradizione del pensiero occidentale ha posto al di là del mondo apparente, si è rivelato finalmente una chimera, un’illusione ottica, “è l’infantile traduzione in termini spaziali e morali di un desiderio

legittimo: collocare ciò che abbiamo di più prezioso (il senso) in un luogo stabile, al riparo dalle contingenze, accessibile solo a sguardi selezionati. […] il tesoro del senso, che era relegato in una cripta segreta e riservata, ora si distribui(sce) sulla superficie del mondo, dove la possibilità di ricomporlo non coincide più con una discesa ascetica nel sottosuolo, regolata da un’élite di sacerdoti, ma da una collettiva abilità nel registrare e collegare tessere del reale”. Coraggiosamente, lo scrittore intendeva riabilitare le caratteristiche antropologiche dell’uomo digitale, che invece siamo subito pronti a bollare con l’etichetta della ‘incapacità di approfondire’. Infatti, il risvolto di questa medaglia sarebbe proprio lo sviluppo di una inedita “tecnica di percezione del reale” basata sulla simultaneità e la sovrapposizione degli stimoli. L’estetica, quasi tornando alle origini del termine, diventerebbe una “estetica di superficie” opposta alla presunta estetica delle profondità. La provocazione, in realtà, sembrava preludere ad una qualche alleanza tra la profondità e la superficie. Qualcuno ha infatti obiettato che niente di tutto quanto il mare rigetta a riva è partorito in assenza del movimento dell’apparente immobilità che viene dagli abissi dei mari. L’abilità percettiva di superficie,

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era capace di passare con disinvoltura da un saggio sulla Filosofia del denaro a un saggio su L’ansa del vaso. E riteneva, come molti geni spesso tacciati di superficialità, che fissare in modo permanente e stabile ciò che è in continuo movimento è illusorio: la vita scorre creaando forme fluide, condannate al superamento. Perciò disse: “Per l'uomo più profondo esiste in genere una sola possibilità di sopportare la vita : un certo grado di superficialità. Se egli dovesse infatti meditare così profondamente tutti gli opposti e inconciliabili impulsi, doveri, aspirazioni e nostalgie, e viverli fino alla fine, assolutamente, come la loro e la sua natura propriamente esige, allora dovrebbe spezzarsi, uscire di senno, correre fuori dalla vita. Al di là di un certo limite di profondità, le linee dell'essere, del dovere e del volere, entrano in collisione. Solo non lasciandole cadere al di sotto di questo limite, si possono tenere distinte, così che la vita sia possibile”.

diviene tale solo a seguito di un addestramento in profondità. Al di là delle peculiarità innegabili della transizione digitale che stiamo attraversando, la questione profondità/superficie sembra avere una certa connotazione intergenerazionale. Sempre gli adulti accusano i giovani o i professori accusano gli studenti di non approfondire, perché giovani e studenti - semplicemente - non approfondiscono le stesse cose che si approfondivano venti o trent’anni prima. Superficialità giornalistica o filosofia altra ? Un caso storico particolarmente noto è quello di Adorno che accusò Simmel di avere promosso una «filosofia giornalistica», per il fatto di aver cercato nell’accadimento più superficiale l’intera profondità dell’esistenza. Estroso, insofferente di barriere disciplinari, avido di conoscenza della vita quotidiana, Simmel fu sempre perseguitato dal sospetto di una sorta di dilettantismo universale, solo perché, genialmente,

to, dunque di un po’ astratto. Non è un caso che l’astrattismo in pittura è incentrato sulla assenza di prospettiva (dunque, di profondità di campo, per così dire…) che porta in primo piano i segni, abolendo il vicino e il lontano. La

Ma le radici ? La superficie nelle arti. D’altra parte, si potrebbe obiettare che senza profondità tutto si ridurrebbe ad un qualcosa di indeterminato, di senza radici, appun-

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conformazione bidimensionale dello spazio, lo sbarramento di ogni profondità prospettica portano la pittura in uno stato di pura visibilità, in una condizione lampante e specifica, regolata da norme tutte poggianti sul dato ottico percettivo, senza sprofondamenti illusivi o anche rimandi esterni all’immagine. Il fondo e il primo piano non esistono più, solo una compenetrazione simultanea nell’insieme. La pittura astratta ha necessariamente il carattere di uno splendente superficialismo, che non significa superficialità, bensì accettare il carattere specifico e strutturale della pittura che, per definizione storica e spirito laico tende a superare l’illusionismo prospettico. Kandinskij muoveva in tale direzione, come altri suoi colleghi coevi, adottando spregiudicatamente gli strumenti di indagine e di esemplificazione tratti dalla scienza, dalla musica, dalla vita: “L’opera d’arte si specchia sulla superficie della nostra coscienza. Tuttavia la sua immagine si estende oltre, per sparire dalla superficie senza lasciare traccia quando la sensazione scompare. Ma esiste anche la possibilità di entrare nell’opera di partecipare attivamente e di sperimentare le pulsazioni della sua vita”. La ricerca dello “spirituale nell’arte” passava attraverso la ricerca del puro e solo colore. L’osservatore prova un senso di appagamento,

di gioia, come un buongustaio che gusta una squisitezza. Sono tutte sensazioni fisiche, che in quanto tali durano poco. Sensazioni superficiali, del resto, che non fanno molta impressione a chi è insensibile. Girato altrove lo sguardo, si dimentica l’effetto fisico del colore. Per Kandinskij solo gli oggetti comuni hanno sull’uomo medio un effetto superficiale. Le cose che incontriamo per la prima volta ci fanno invece una profonda impressione. Il bambino sperimenta in questo modo il mondo, perché per lui si tratta di oggetti tutti nuovi. Vede la luce, ne è attratto, vuole afferrarla, si scotta le dita e inizia ad aver paura e rispetto per la fiamma. Poi impara anche che la luce ha effetti positivi, oltre che negativi: dissipa il buio, allunga il giorno, può scaldare, cuocere, essere uno spettacolo piacevole da vedere. A poco a poco, il mondo perde il suo incanto. Solo con l’elevarsi dell’uomo si allarga la cerchia delle qualità che oggetti ed esseri hanno in sé. A uno stadio più evoluto questi oggetti e questi esseri acquistano un valore interiore. La superficie dello schermo. E che dire della quinta arte ? A proposito di cinema, il vero maestro della ricerca del profondo nella superficie è Kracauer, definito un viandante tra arte e società, letteratura popolare e ci-

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nema perché aveva sempre sostenuto che ciò che sembra marginale svela il centro dei problemi Nei suoi saggi denunciava come fin dai primordi il pensiero occidentale si è avvalso della metafora della profondità quale immagine prediletta. Dichiarare che un pensiero è “profondo” equivale, non per nulla, a conferirgli autenticità e valore. Almeno da Sant´Agostino, la profondità (portato naturale del redde ad te ipsum) si installa nel mondo degli assiomi come un’equazione che fa coincidere autenticità, profondità e interiorità. Solo con la Gaia Scienza di Nietzsche la metafora regina si incrina: il culto della profondità viene svalutato per valorizzare invece i tratti di superficie, suggerendo all´oltre-uomo di ridiventare buon vicino delle cose prossime. Ad essere abbandonato, insieme con la metafora, era la profondità stessa come presunto luogo e ricettacolo del fondamento. Il tratto costitutivo del sapere della superficie è proprio nel fatto che il pensiero dimora nel labirinto delle relazioni. Muovendo dalla superficie delle cose, rilevando in essa analogie morfologiche e affinità simboliche, il filosofo appare una sorta di mediatore tra il fenomeno e le idee: "l´avvenimento più insignificante indica la via verso gli strati profondi dell´anima; ad ogni evento può essere attribuito un significato

rilevante. Una luce che appare dall´interno fa risplendere i fenomeni, come le stoffe e le gemme in certi quadri di Rembrandt". Kracauer esalta la densità dei fenomeni di superficie e ne elabora il sapere: "le manifestazioni della superficie - in quanto non rischiarate dalla coscienza, garantiscono un accesso immediato al contenuto dell´esistente, alla cui conoscenza, viceversa, è legata la loro interpretazione. Il contenuto fondamentale di un´epoca e i suoi impulsi inavvertiti si illuminano reciprocamente". Solo indagando e divagando dalla periferia, dal sintomo rivelatore, si può giungere al centro dei problemi; solo dando risalto alle essenze più recondite possiamo identificare l´astuzia che la ragione dispiega nella storia. Davanti allo sguardo prospettico del filosofo di un´epoca secolarizzata, si dispiega una moltitudine di oggetti di indagine, un´affollata superficie di eventi che soltanto un personale criterio di rilevanza può sottrarre all´infinità senza senso della molteplicità fenomenica. Il progetto di un sapere della superficie si articola così come decifrazione dei geroglifici visibili che i films presentano quali sintomi di una invisibile dinamica della vita interiore, nell´intento di promuovere una "redenzione della realtà fisica".

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come si può imparare a fare Yoga o a praticare buddismo. Involucri appunto, svuotati del loro significato profondo. Si apprende, in sostanza, la superficie. Non possiamo neanche immaginare cosa accadrebbe se ogni scelta di consumo ci fosse dettata da un'analisi approfondita delle nostre necessità: probabilmente ci accorgeremmo che non abbiamo bisogno della quasi totalità delle cose che acquistiamo e finiremmo, razionalmente, col non acquistarle. La profondità di cui l'era postmoderna sembra essersi liberata come di un pesante fardello non riguarda solo il pensiero. La profondità è stata abolita – per gli stessi motivi di cui sopra – dalla vita in generale, dai rapporti sociali. La superficie è divenuta luogo fatto di qui ed ora; viverla significa vivere sempre l'attimo presente, prendere decisioni immediate sulla base dei pochi dati percepiti dai nostri sensi in quell'istante. È vero, l'uomo moderno ha un talento innato nel fare collegamenti, ma cosa collega ? Collega frammenti le cui connessioni si trovano appunto sulla membrana scivolosa della superficie. Collegamenti, dunque, che sono immediatamente evidenti nell'attimo presente, che emergono sul pelo dell'acqua come le maglie di una rete.

Il colpo di mano e l’illusione del ritorno al profondo… Si dovrebbe riflettere anche su quel cambiamento improvviso e radicale che Pasolini chiamava "la prima grande rivoluzione di destra", che spazzò via di colpo una manciata di culture popolari che da secoli facevano da contraltare alla cultura borghese e maggioritaria: quella contadina, quella del sottoproletariato urbano ecc. Si trattava di culture principalmente orali e fattuali, basate sul saper fare più che sul sapere. Ad esempio nella cultura contadina: fare il pane, mietere e raccogliere il grano erano riti collettivi che scandivano i ritmi delle giornate, segnavano l'alternarsi delle stagioni. La rivoluzione consumistica è stata insomma la causa prima della scomparsa della profondità. Si potrebbe obbiettare che queste antiche arti non sono andate perse; che anzi esse vivono al giorno d'oggi una riscoperta, una nuova giovinezza. Ma ciò è vero solo in apparenza. Infatti, ogni tentativo di ritorno al profondo, in salsa attuale, sembra comportare l’apprendimento non della profondità, ma solo del suo involucro, svuotato di tutta la parte rituale; manca quel contenuto di valori che attraverso le arti veniva trasmesso di generazione in generazione. Si impara a fare il pane

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imprevista trovata lungo la strada. La soluzione fatalmente imperfetta consiste nel dedicare qualche ora a questa conoscenza accidentale. S. Agostino amava paragonare l’uomo del mondo visibile, l’uomo idolatra, in un certo senso, cioè sé stesso prima della conversione, a qualcuno che si nutra in sogno e non si sazi, nonostante l’illusione sia assoluta: in realtà, non mangia che dei phantasmata spelndida, si nutre solo di vacuità (inanitas) ed insulse finzioni (figmenta). Noi tutti abbiamo fatto l’esperienza di questa infinità di immagini. Ma Agostino pur confutando tutti questi fantasmi di splendore non ha rinunciato a inseguire uno splendore che non sia né vuoto, né spettrale, e neppure visibile. Nell’Essere in ciò che è opposto al visibile illusorio, qualcosa di prossimo ad un reale dello splendore. Nell’idealismo platonico le immagini devono essere copia di qualche archetipo, di qualcosa d’altro. Come dire che le onde sono le copie dei movimenti delle profondità, non sono precisamente movimenti della superficie. Attrezzarsi per vivere la superficie non è zavorrarsi come se ci si dovesse inabissare in un vivere per la morte, per quando di dovrà tornare a fondo… E’ piuttosto guardarsi in maniera salutare dal ri-

L’interessante superficie di questo vasto mare. Eppur si naviga ! Vivere la superficie è come navigare. Lo si può fare solo rimanendo a galla, cioè in superficie. Un pescaggio immerso c’è sempre in ogni natante, ma ciò che conta (a parte la chiglia) sono gli alberi che lanciano le loro vele verso il cielo a raccogliere il vento propulsore. La superficie non è un piano ricoperto di olio su cui si scivola facilmente. Anzi: oppone essa stessa resistenza. Attraversare la quotidianità non è solo fare surf ‘divertentistico’, ma un faticoso avanzare fra i continenti. Il fondo più profondo, gli abissi attraggono a volte solo i corpi inerti, mentre i corpi vivi (con i polmoni ben pieni d’aria) in realtà ne sono respinti. Ed anche gli abitatori di quelle profondità, come i capodogli, devono pur sempre riemergere di tanto in tanto, per non morire. Il ricercatore, riflette Didi Huberman, per definizione insegue qualcosa che non ha a portata di mano, una sorta di cosa in sé oscura e misteriosa. Talvolta, mentre corre si ferma interdetto: un’altra cosa, inattesa, è apparsa improvvisamente ai suoi occhi. Non la cosa in sé della sua ricerca fondamentale, ma una cosa fortuita, esplosiva o discreta, una cosa

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schio di amare più l’anello dello sposo, rischio endemico quando l’invaghimento del profondo assume proporzioni eccessive, .

quando qualunque coccio diventa inestimabile purché estratto da qualche (pro)fondo…

Il rito fra il profondo e la superficie.

dirà che questa è appunto una visione metafisica: ma il fatto è questo, che nel rito l’importanza del nocciolo sostanziale (il profondo) va di pari passo con l’importanza della procedura (della superficie esteriore). Anzi: si preserva il valore del contenuto facendo attenzione alla forma. L’acqua del senso che nutre la vita è la stessa sia quando piove dall’alto, sia quando forma rigagnoli melmosi sulla superficie, sia quando diviene carsica. Dunque, non c’è bisogno di cercarla per forza nelle falde più profonde o nelle sorgenti di più alta quota. Basta una vasca (sacramento) o una canalizzazione (liturgia) come capacità di organizzazione per raccoglierla né troppo sopra il cielo, né troppo sotto terra. Basta inventare un depuratore per la quotidianità fangosa, per averne sempre pronta da bere! Scavare la superficie è il lavoro dell’archeologo: ma ne vengono solo “antichità” o forse anticaglie. Invece, si potrebbe valorizzare la mobile superficie che è a contatto con il presente. I biologi ci insegnano che è la superficie dei parameci ciò che li attira verso il futuro, nel mondo circostante. D’altra parte, preghiera ha la

La dialettica profondità/superficie, è parallela di quella ascesi/realtà, rito esteriore/coinvolgimento interiore, ecc. L’atto liturgico, per esempio, è apparentemente molto lontano dalla nostra sensibilità moderna o postmoderna (pur popolata di miti e riti i più vari). Ma ciò può essere spiegato paradossalmente con il fatto che il rito è in realtà anche troppo vicino in quanto elemento che ci sta sempre sotto gli occhi, con cui siamo sempre a contatto, perché ogni ciclo, ogni sequenza, ogni procedimento, ogni ripetizione della nostra vita può finire per diventare in rito, nel bene e nel male. Solo che essendo troppo sotto i nostri occhi non viene colto come tale, mentre ci si concentra sulle grandi liturgie, religiose e secolari, spirituali o consumistiche, che appaiono e si presentano come tali. Il rito può essere anche definito come qualcosa che è in grado (più di tutte le altre) di rimanere inalterato nel profondo, pur modificandosi nel tempo alla superficie: un po’ come la struttura di LeviStrauss, che resta invariante a tutte le latitudini e in tutte le epoche. Si

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dono in quanto si presentano come la realtà mentre non lo sono: immagini che mentono sapendo di mentire. Difficile in questo senso scardinare una inveterata abitudine di interpretare come superficiale tutto ciò che è apparente. Invece, la superficie, in senso platonico, non solo è “non-essere”, ma è di più: è falso, è inganno, è illusione. Con il corollario che il falso è anche il Male (e in quanto tale ha anche un potere di fascinazione). Tutti i luoghi comuni possono essere raddrizzati ed anche l’opposizione fondamentale apparenza/realtà (corporeo/incorporeo; sensibile/soprasensibile) si deve rileggere proprio nel senso che la superficie, l’immagine, il sensibile e corporeo in quanto apparenza (e dunque letteralmente: ciò che appare e che solo noi possiamo conoscere in prima battuta), non è male in sé, non è male in quanto tale (cioè in quanto superficie, apparenza ecc.). Diventa Male quando si presenta come il vero e non lo è, quando pretende di esaurire completamente il tutto, quando, come già detto, mente sapendo di mentire. Le ombre, che sono superfici scure, zone prive di luce su una superficie, non sono false: esse esistono (sono le c.d. ombre portate) e soprattutto corrispondono generalmente e salvo distorsioni ai contorni reali delle figure, ai profili dei corpi di cui sono lo ombre. L’inganno e il potere illusionistico

stessa radice di precario. E come i precari, dobbiamo sempre più imparare ad affrontare un oggetto recalcitrante: a farci insegnare qualcosa dall’oggetto. Il quotidiano infatti è refrattario: ma serve per far venire fuori la forma scintillante del bronzo con la fusione a cera persa. Per non confinare Dio in un punto, Piero della Francesca immaginò di andare oltre il proprio testo, quasi per infinitum, e la sua magia fu quella della prospettiva, che ricrea miracolosamente la profondità, rimanendo sulla superficie. Immagini profonde dalla superficie nella Politeia. Sulla superficie della carta, o su quella della parete della caverna che funge da schermo, c’è sempre la duplicazione della realtà. Sembrerebbe insomma che il mito platonico condanni, insieme alla skiagraphìa (l’arte di proiettare le ombre, ossia del teatro d’ombre), anche la superficie: le ombre sono solo riflessi degli oggetti veri che popolano il mondo. Finché non potremo, come il filosofo, uscire dalla caverna e vedere con i nostri occhi non le false immagini, ma la realtà, non conosceremo nulla. Per la verità si potrebbe anche capovolgere la prospettiva del mito: finché dalle profondità della caverna non riemergeremo alla… superficie, non ci renderemo conto dell’inganno di immagini che illu-

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dimento temporanei saranno passati. Così è sicuramente per i moti rivoluzionari dei giovani musulmani nei paesi che vanno ormai da un cardine all’altro del cancello che costituisce il versante sud del Mediterraneo, da Gibilterra al Vicino Oriente. E la tentazione è purtroppo quella di ripescare, dal profondo degli archivi, cose già note. Alla fine degli anni Settanta, infatti, in quel glorioso paese che era stata la Persia, si è istaurata la prima repubblica islamica. Quanto avvenuto in Iran viene a più riprese invocato per il suo valore paradigmatico, almeno dal punto di vista simbolico. Il Corriere della Sera, fra il settembre 1978 e il febbraio dell’anno successivo, inviò a Teheran come corrispondente nientemeno che Michel Foucault, il quale firmò una decina di reportage poi raccolti nei “Taccuini persiani”. Foucault rilevava che gli studenti a capo della rivolta “non ci lasceranno mai di loro spontanea volontà. Non diversamente dal Vietnam”. Ricostruzione superficiale oppure ricostruzione profonda, poi smentita proprio da chi ha tradito quella profondità? Scrivendo l’articolo conclusivo della sua collaborazione il giorno successivo del ritorno in patria di Khomeini, Foucault annunciava “un risultato infinitamente raro nel XX secolo: un popolo senza armi che si solleva tutto intero e rove-

non è quello del demiurgo che proietta le ombre, ma quelle delle catene che, costringendo il collo degli abitanti della caverna in una sola direzione, impedisce loro di rendersi conto che si tratta “solo” di ombre. Insomma: il nocciolo metafisico della Repubblica sta effettivamente nell’oscillazione continua fra realtà e apparenza (fra profondità e superficie), ma non nel senso – troppo facile per una capolavoro così complesso - di una condanna unilaterale delle apparenze superficiali: ciò da cui siamo messi in guardia è il modo in cui noi stessi ci inganniamo a causa dei limiti della nostra conoscenza, circa la natura delle immagini. La primavera araba: la superficie tellurica della democrazia. Si sa che i movimenti della crosta superficiale sono conseguenza dei grandi sommovimenti delle profondità del mantello terrestre. È strano che per noi quegli enormi spostamenti di impressionante energia nel profondo non siano percepibili se non nei loro (a paragone) deboli riflessi superficiali, che pure ci appaiono tremendi. Così è per la storia dei popoli: ci lasciano attoniti i movimenti rivoluzionari che non sono altro se non le ultime propaggini di onde di energia che stenteremo a capire ancora molto dopo che lo scuotimento e lo stor-

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scia con le sue mani un regime «onnipotente»”. Oggi si verifica una situazione singolare. Chi viene colto ad essere entusiasta della primavera dei giovani islamici viene subito redarguito dai soliti incalliti pessimisti e ancor più da coloro i quali non credono che Islam e democrazia potranno mai coniugarsi tra loro. Forse perché se quella dei giovani musulmani diventa una vera primavera può far emergere che cosa sia l’Autunno dell’Occidente ! Una risposta corretta agli interrogativi che ci vengono da questa distanza/prossimità che è l’altra sponda del Mediterraneo, è cruciale sia per noi che per quei popoli. Noi siamo prodighi di iperboli nel registrare gli eventi sociali e politici di casa nostra, dalla rivolta cecoslovacca del 1968 alla caduta del muro di Berlino, accogliendoli con speranza e sollievo, ma non altrettanto facciamo di fronte alla rivoluzione tunisina e ai disordini in Egitto e nello Yemen. Siamo in effetti più sbigottiti che altro: l’evoluzione possibile delle società musulmane non faceva parte dei nostri programmi, perché contavamo che sarebbero rimasti per sempre quello che colonialismo e postcolonialismo ci aveva consegnato come in una vecchia foto a dagherrotipo destinata a sbiadire, forse, ma non ad essere sostituita da nuove foto digitali. Oggi è non tanto superficiale, ma mistificatorio e volgare affermare

genericamente e paternalisticamente che i popoli arabi non sono maturi per la democrazia: quale popolo in Occidente, e in generale al mondo, era preparato per questo ? Certo è che i social-networks (Facebook, Twitter) hanno avuto un ruolo “rivoluzionario” in questa primavera. Si tratta di un potere tutt’altro che illusorio, quello che viaggia sulla rete, ma che rischia di essere illusionistico. Da un momento all’altro qualcuno che non usa né Facebook né la rete muoverà a suo piacere le masse popolari ormai appagate e la rete tornerà ad essere solo un altro mezzo per conquistare le menti e i cuori: ciò che appare l’avanzata della democrazia farebbe presto a trasformarsi in qualcosa che con la democrazia non ha nulla a che fare e che non ha nulla a che fare neppure con l’Islam. Sotto la superficie del potere tradizionale (quello esplicito e apparentemente brutale ed oppressivo), si cela la profonda perversione del potere illusionistico, quello che colonizza le coscienze ed è dunque di gran lunga più efficace perché fa credere a molti di essere liberi per poterli più facilmente utilizzare in vista del’interesse dei pochi. Le profondità insalubri e oscure della politica. Ci si può porre il problema se la decisione sul carattere sia una questione di profondità (la cifra indivi-

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duale ineliminabile e distintiva della personalità) o una questione di superficie (i comportamenti osservabili). I discorsi sul carattere nazionale, poi, non sono scientifici, eppure costituiscono metafore o narrazioni a cui a volte è utile fare riferimento per rispecchiarsi. Che bilancio ‘profondo’ dovremmo trarre dal centocinquantenario dell’Unità d’Italia, al di là dei festeggiamenti che nel corso di questo anno sono stati così superficiali da arrivare a mettere in dubbio che si potesse dedicare una giornata (il 17 marzo) a festeggiare l’evento ? In un recente, denso libretto, il filosofo Roberto Mancini si domanda: può esistere una politica i cui ingredienti non siano la menzogna, l’avidità, la paura, e in una parola la violenza ? Può darsi un’altra politica anche se generata da uomini e donne che appartengono a questo mondo ? Come preparare la fioritura della democrazia, della giustizia e della pace? E cita Danilo Dolci, che individuava gli elementi costitutivi delle strategie di soffocamento della vita democratica nella volontà di chi possiede le maggiori concentrazioni di potere di eliminare chi possa porre loro dei limiti; nella capacità di collegamento tra questi detentori di potere; nella segretezza tra pochi delle operazioni che riguardano tutti; nel saper manipolare le informazioni e presentarsi come paladini dei più alti valori morali; nell’uso

sistematico ed ufficializzato dell’ipocrisia; nel formare gruppi di avventurieri e contrabbandarli come espressione degli umori e degli interessi del popolo. La leva per poter cambiare questa situazione sta nella riconversione del potere, per cui il potere verticale (autocratico, oligarchico, di dominio) viene trasformato in potere orizzontale. In questa differenza fra verticale e orizzontale il filosofo Mancini vede non solo la possibilità dell’aggiunta di una dimensione al potere accanto a un’altra, ma una dinamica di trasformazione e di conversione: il passaggio dal poter concentrato a quello partecipato. Noi potremmo dire, dalla profondità delle stanze oscure dei palazzi in cui si prendono decisioni behind closed doors, alla superficie delle piazze; dalla profondità narcotizzante e ottundente del tubo catodico propagandistico, alla superficie ariosa e interessante dei luoghi di lavoro, di incontro, di aggregazione e riflessione pubblica. In anni diversi, Aldo Capitini aveva affermato che la convivenza che chiamiamo democrazia diventa reale soltanto se tende a dilatarsi e a tradursi in onnicrazia, se il potere verticale e concentrato, usato sugli altri, diventa potere orizzontale, condiviso, usato a favore del bene comune. Se la potenza si trasforma in servizio. Purtroppo all’idea stessa di bene comune, un’idea di superficie, visi-

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bile e facilmente intuibile, che non ha nulla a che fare con la presunta profondità degli arcana imperii e delle segrete ragioni di stato, è stato impedito di configurarsi sin dall’inizio della nostra storia repubblicana. E tanto più oggi in un melieu politico istituzionale in cui si crede che il dibattito democratico consista nel “non fare prigionieri”. Mancini richiama la celebre teoria di Gardner delle “intelligenze multiple” per sostenere che nel caso italiano si verificano delle vere e proprie stupidità multiple ! Si tratta dello pseudo realismo, che fa cadere la capacità di leggere criticamente la realtà e non si limita solo al campo delle vicende collettive ma risale sino alla determinazione della presunta natura umana. Si tratta ancora del culto del particulare che dai tempi di Guicciardini trova oggi nuovi trionfi nel federalismo in salsa padana e nella spregiudicatezza di certi ‘governatori’ locali. C’è poi la mentalità autoritaria che nel nostro paese ha una solida linea di continuità dal fascismo al postfascismo e in avanti sino al mediocre ed inane decisionismo, paternalismo e qualunquismo attuali. E poi il fatalismo arcaico, per cui chi subisce sopraffazioni, oppressioni e ingiustizie nega a sé, ma soprattutto agli altri un indispensabile riferimento di speranza per il cambiamento che invece rimane sempre possibile. A tutto ciò, ha contribuito e contribuisce quelle che Mancini chia-

ma il cattolicesimo infedele, che agisce come una motivazione profonda, e non solo di superficie, resa ancora più profonda dalla radicalità della colorazione religiosa, in quanto i criteri di comportamento della vita privata e di quella pubblica si muovono anche all’interno di queste coordinate. E conclude il filosofo: “al fondo di una cattiva politica c’è sempre una cattiva teologia, o almeno una cattiva metafisica”. L’acqua del pozzo profondo. L’importanza dei beni comuni. Per fortuna, un evento ha illuminato i mesi recenti. L’acqua, bene comune per eccellenza, e bene profondo altrettanto per eccellenza (se è vero che il pozzo è il primo scavo in cerca della sorgente della vita ed è sempre stato il centro di ogni comunità), ha portato alla ribalta una sfida alla superficialità del dibattito pubblico. Il referendum nel quale si è espressa la volontà popolare di mantenere l’acqua nel novero dei beni pubblici, ha espresso in controtendenza la capacità dei singoli di radunarsi intorno ad idee comuni forti e irrinunciabili. Le economie più avanzate sono descritte come economie di servizi (cioè di attività che servono a produrre il c.d. valore aggiunto). Infatti i servizi valgono più dei beni intesi come meri oggetti fisici che soddisfano bisogni. Per es. l’esistenza di una rete di servizi di

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trasporto (che fa girare l’economia, come si dice) vale di più dei singoli autobus e vagoni ferroviari che sono invece solo beni in quanto tali. Ebbene, sia i beni che i servizi possono essere tanto pubblici quanto privati. Negli ultimi tre decenni una potente retorica discorsiva ha scaricato sul settore pubblico il costo del malcontento generalizzato derivante dal declino della qualità della vita nelle economie occidentali ed europee. Si è assunto che il settore pubblico sia incapace di “fare” e che debba limitarsi tutt’al più a dettare poche, limitate regole (il c.d. soft law). Ogni volta che si avvia una riflessione sull’attuale statuto giuridico dei beni comuni si dimentica di guardare al passato, immaginando che si tratti di un concetto recente e innovativo. Ed in effetti la storia del diritto, a partire dal diritto romano, conosce fin da principio la figura del dominus, del pater familias come vero e proprio gestore di un’azienda familiare e proprietario del suo, come si dice, usque ad sidera et inferos. Attraverso la codificazione giustinianea la forma proprietaria romana giunge alla tradizione giuridica moderna, lasciando sguarnito e povero il quadro della riflessione teorica ed istituzionale sui beni comuni. La riflessione sulle res communes omnium è marginale: in generale, la logica dell’appropriazione prevede che tutte le cose passino direttamente dall’essere res nullius (co-

se non in proprietà di alcuno), all’essere parte di un patrimonio privato ed esclusivo. In questa maniera, i beni comuni sono in realtà solo beni in attesa di essere appropriati. Per capire quanto sia radicata questa ‘logica’ (che è invece una vera e propria ‘retorica’) basta pensare al successo del famoso libro del biologo Hardings che con il suo fortunato titolo “La tragedia dei beni comuni” ha marchiato il dibattito in economia e in politica sui beni comuni. Il giurista Ugo Mattei suggerisce che il comune, in quanto potere diffuso (il potere orizzontale del filosofo Mancini…), e dunque per definizione “non potere”, risulti incompatibile strutturalmente con il processo della tradizione occidentale, il quale è un processo che istituzionalmente prevede il contrapporsi di due proprietari (di beni o diritti individuali, singolari) dei quali uno deve perdere. Il nostro processo sarebbe insomma un processo “a somma zero”, in cui o un bene deve passare di mano (dal defendant all’attore), o il diritto dell’uno deve essere sacrificato al diritto dell’altro. Viceversa, i beni comuni sottendono una logica in cui i giochi sono sempre a somma positiva, in quanto abbiamo tutti da guadagnarci. Sottendono una situazione in cui per definizione si trovano a discutere dei non proprietari, ma degli utenti tutti uguali e in pari grado.

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I beni comuni sono caratterizzati da fruibilitĂ diffusa, appartenendo a tutti e non consentendo di individuare nessuno che sia dotato di un interesse speciale rispetto ad essi tale da legittimarne la rappresen-

tanza in una corte. Gli americani lo chiamano lo standing to sue: l’alzarsi in piedi per fare causa (avendo, nel caso dell’acqua, una giusta causa da difendere !).

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Dunque, la dicotomia profondità/superficie ci ha fatto vedere alcune altre opposizioni fondamentali in una luce diversa. Un’altra contrapposizione che si può decomporre è quella conservatori/progressisti: sfatando il mito per il quale i conservatori sarebbero sempre tutori del profondo, o custodi del rito, mentre i progressisti dovrebbero essere per forza sempre assertori della superficie e innovatori in punto di libertà. A proposito di riti, per es., Pascal sosteneva che bisogna sottoporsi di buon grado ai riti esteriori, perché la fede può sorgere dopo, e divenire profonda a partire dall’abitudine alle liturgie, sia pure superficialmente frequentate. Al contrario, Montaigne sosteneva che i riti non vanno assecondati se non vi è la sostanza della fede, e anzi, rischiano di farla scemare laddove essa sia già presente. In generale, e sempre per parlare di sguardo e di prospettiva sulle cose delle vita ordinaria, con l’armamentario della superficie e della profondità, occorre forse operare una inversione: mentre la su-

perficie ci appare alle volte solo una mera successione di cose, senza alcunché di profondo che le tenga insieme, forse sono invece alcuni “profondi” fenomeni e convinzioni sui fenomeni a risolversi soltanto nel risultato del c.d. effetto di composizione. La psicologia del profondo ci fa credere che ci sia un altro dentro di noi che si può attingere soltanto con l’ipnosi o il sogno. I comportamentisti pretendono di fermarsi alla sola (e nuda) superficie dei comportamenti esteriori osservabili come se non avessero il minimo aggancio ulteriore. I pensieri, in effetti, devono pur germogliare da qualcosa. Ma allora sono probabilmente come i fiori: sbocciano sulla superficie della terra riscaldata dal sole, mentre nelle nude, umide e buie pareti delle caverne non cresce nulla. Non è chiudendo gli occhi e spremendosi le meningi che si perviene ad un io più profondo, ma imparando a cogliere le pieghe frattali della superficie delle cose che ha molto, e di profondo, da dirci !

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Fonti Per realizzare questo numero abbiamo, letto, divorato, saccheggiato, confrontato, assimilato, abbiamo condiviso o non siamo stati d’accordo, studiato o spulciato, ci sono piaciuti o ci hanno deluso, tra gli altri, i seguenti testi:

AAVV., I destini del Sacro. Discorso religioso e semiotica della cultura, Meltemi, Roma, 2008. Didi Uberman, La conoscenza accidentale (apparizioni e sparizioni delle immagini), Bollati 2011. Deleuze – Guattari, Mille plateaux, Gilles Deleuze, Rizoma, Parma 1977. Giorello, Senza Dio (del buon uso dell’ateismo), Longanesi, 2010. Grillo – Valenziano, L’uomo della liturgia, CE, 2011. Mancini, Per un’altra politica. Scegliere il bene comune, CE, 2010. Mattei, La legge del più forte, Manifestolibri, 2010. Oralndini, Kndinsij. Dall’art nouveau alla psicologia della forma, Roma, 1968 Rea, La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani, Feltrinelli 2011

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