Rapsodie Salentine n. 15
Rapsodie Salentine Arte, Musica, Poesia, Cultura, Bellezza, Salento n. 15 - luglio 2010 Redazione: Emanuele Filograna A margine della 17^ Vacanza Studio organizzata dai Volontari della Pro Civitate Christiana di Assisi 25 – 31 luglio 2010 Oasi Beati Martiri Idruntini Santa Cesarea Terme (LE)
In copertina: Quattro luoghi di Santa Cesarea (foto face book: santa cesarea)
Tutti i disegni che compaiono nel testo sono di: Franco Filograna
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Rapsodie Salentine taglia il traguardo dei quindici numeri. La strada percorsa non è indifferente, perché il nostro fascicolo annuale ha iniziato a muovere i suoi passi a metà degli anno ’90, ed oggi già si affaccia sulla seconda decade del nuovo millennio. Tutto ciò che dura più dello spazio di qualche mattino acquisisce il pregio di diventare misura di ciò che gli sopravviene, e non solo di ciò che ha attraversato. Scorrere queste quindici copertine, rileggere i brani antologici e soprattutto le considerazioni messe a mo’ di esergo o di conclusione dei precedenti numeri ha l’effetto di una rassegna dei momenti importanti del tempo trascorso, e di una messa in prospettiva di come si ha intenzione di porsi rispetto al futuro. Dunque, nella convinzione che si vede meglio il futuro se si guarda bene al passato, per questo numero così importante abbiamo deciso di non lasciar passare inosservata la scadenza del primo decennio degli anni duemila (o anni zero, per chi preferisce). E se il filo conduttore della Vacanza Studio 2010 di Santa Cesarea è il “Viaggio verso un Sogno”, dallo sguardo ai dieci anni che abbiamo (appena) attraversato, emergeranno anche viaggi e sogni, oltre a qualche incubo che non potremo assolutamente dimenticare. Le tinte soprattutto del debutto del millennio sono state abbastanza fosche, ma gli sprazzi di luce non sono mancati. D’altra parte, non ci si può rassegnare a considerare il negativo come un basso continuo della storia, anzi: concluderemo dicendo che anche se in qualcosa si è fallito, e anche se sembra che alcune idee o alcune battaglie siano destinate ancora al fallimento, si deve credere che almeno si può sempre fallire meglio ! Buon viaggio, dunque, e l’augurio che la brezza della pineta di Santa Cesarea che sale dal mare possa portare sogni d’oriente, carichi delle belle immagini del passato e di buoni presagi per gli anni a venire. E.F.
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I noughties nato, come sappiamo) gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq nonostante l'opposizione di Francia e Russia e della maggioranza dell’opinione pubblica di tutto il mondo. Anche Giovanni Paolo II, si era unito - senza ambiguità - al coro di protesta. La guerra di invasione si concluse presto, ma il paese è precipitato in una guerra civile che ha provocato - solo fra il 2003 e il 2006 - oltre 1.200.000 morti iracheni e più di 3.000 soldati americani uccisi. E il conto prosegue sino ad oggi. Nel 2003 poi la regione del Darfur, nel Sudan meridionale, è stata sconvolta da una guerra civile logorante che ha procurato migliaia di morti e profughi fra la popolazione ed è stata definita una delle più grandi emergenze umanitarie di sempre. Insomma, come ha detto qualcuno, il G8 di Genova e l’11 settembre non sono stati che l’antipasto di un decennio che si doveva rivelare molto pesante da digerire (sono stati un traumatico aperitivo rispetto all’iradiddio che sarebbe venuta dopo). E fra le catastrofi del dopo, il maremoto di Sumatra, la cui onda anomala ha introdotto nella nostra cultura la parola e l’idea stessa dello Tsunami, al prezzo di ben oltre 400.000 vittime tra morti e dispersi. Il decennio si era aperto con il terremoto di San Giuliano di Puglia che, facendo crollare la scuola elementare del paese, costruita senza le regolari norme di sicurezza, aveva portato alla morte di ventisette alunni e di un insegnante, e si è concluso con il sisma dell’Aquila, grazie al quale si è scoperto di immobili costruiti con la sabbia, e quanto le avidità dei faccendieri possa essere spieata, ma anche efficace.
Comunemente chiamati Anni Zero o Anni Duemila, sono il decennio che comprende gli anni tra il 2000 e il 2009 (definizione da Wikipedia…). In realtà, il decennio si chiude con l’anno 2010. Infatti, l'Anno Zero non esiste (se non nel titolo di un celebre film), mentre esiste l’Anno Uno. Anche la Chiesa Cattolica ha ribadito il concetto con la pubblicazione della lettera apostolica Tertio millennio adveniente nel dicembre 2000, per rimarcare che il nuovo millennio sarebbe iniziato solo con l’arrivo del 2001, appunto, il primo anno di questo decennio. Ormai, dunque, siamo arrivati in fondo alla prima decade. Alle precedenti sapevamo dare un’etichetta: gli anni Cinquanta del primo dopoguerra; gli anni Sessanta del boom; i Settanta di piombo; gli Ottanta dell'individualismo edonistico (e della fine della Guerra Fredda); i Novanta di Internet, e così via. Invece, per questo decennio non sappiamo ancora neppure trovare il nome (gli inglesi dicono noughties, come per dare un’assonanza con no o nothing, per dire cioè che sono gli anni senza nome). Quasi tutte le rassegne e gli almanacchi fanno naturalmente partire il decennio, il secolo e il millennio dall’11 settembre. Pochi ricordano, invece, che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva proclamato il decennio 2000-2010 "Decennio Internazionale per la Cultura della Pace e della Non-Violenza". La dicatio non ha portato affatto buoni auspici… Già nel 2001 veniva proclamata la Seconda Intifada e nel 2003, senza neppure lasciarsi alle spalle il conflit to Afghano (non ancora oggi termi
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I sogni (e l’11 settembre) sperienze, l’incubo le confonde, quasi volesse avvertire colui che dorme che la narrazione desiderata non regge. Le intrusioni dell’11 settembre forzarono appunto le serrature di sicurezza dei nostri miti protettivi, l’illusione di essere padroni di una sicurezza basata su un dominio da non mettere in discussione. Furono smentiti tutti i luoghi comuni dello United We stand. L’ontogenesi ricapitola la filogenesi, sostenne in una famosa frase del 1866 Ernst Haeckel, zoologo tedesco contemporaneo di Darwin. Ossia: quando un embrione si sviluppa ripete, in forma compressa, le fasi evolutive della sua specie. Nell’arco di nove mesi, un essere umano nell’utero di trasforma da pesce in rettile in mammifero ecc. Qualunque sia il valore scientifico della teoria della ricapitolazione (la biologia moderna, naturalmente, non la prende alla lettera…), essa mantiene una valenza metaforica, nella dimensione dell’evoluzione culturale. Il modo in cui reagiamo, per esempio, ad una crisi, può ricapitolare - in sintesi -l’evoluzione secolare del carattere della nostra società e delle mitologie secondo le quali viviamo. L’11 settembre ha rappresentato proprio quella crisi. In definitiva, non basta interrogarsi su ciò che l’11 settembre ha fatto a qualcuno. Si tratta di interrogarsi su ciò che l’11 settembre ha rivelato a tutti noi, sulle opportunità che quella immensa tragedia ci ha fornito per riuscire di nuovo a guardaci. L’11 settembre è stata la caverna scoperchiata in pieno sole. E come nel mito platonico, siamo subito stati ricacciati dentro la caverna…
Nella cultura islamica i sogni sono spesso considerati presagi o presentimenti. Si dice che lo stesso profeta Maometto abbia ricevuto la sua prima rivelazione del Corano dall’Angelo Gabriele durante un sogno. Nella psicologia dell’Occidente, invece, ai sogni vengono attribuite proprietà ambigue. Ne “L’interpretazione dei sogni” Freud scrive: “Rappresentandoci un desiderio come appagato, il sogno ci porta certo verso il futuro: ma questo futuro, considerato dal sognatore come presente, è modellato dal desiderio indistruttibile a immagine di quel passato”. Se i sogni che i sostenitori di Al Qaeda riferirono di aver fatto nei mesi che precedettero l’11 settembre erano premonizioni, il ‘mondo da sogno’ in cui l’America e l’Occidente si rifugiarono dopo il disastro era una sorta di viaggio storico nella direzione contraria: era lo sforzo di vedere nel presente una certa somiglianza con il passato. La ritirata in un fiabesco vintage cinematografico era dilagante: tutto era equiparato ai giorni in cui si combatteva contro gli indiani per la frontiera… “Chi si vergogna vorrebbe imporre alla gente di non guardarlo, di non avvertire il fatto che egli si è scoperto” scrisse Erik Erikson in “Infanzia e Società”. Dopo l’11 settembre i nostri occhi si sono rivolti verso noi stessi, disorientando i nostri sogni, esponendoci agli incubi. L’incubo viene definito dagli psicologi come sogno mancato, il caos che segue quando uno scassinatore mentale apre la serratura delle nostre migliori difese. Mentre il sogno ordina le nostre e
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(Mala) Tempora… stile e un pubblico mescolato a interessi privati: entrambi espressione non di umorismo, ma di volgarità (così lo psichiatra Vittorio Lingiardi).
Alla fine del secolo scorso avevamo cullato l’idea di una fase storica pacifica, sicura, stabile. Invece, lo smarrimento ci ha soggiogati e ha lasciato spazio al prevalere di ignoranze, superstizioni, grossolanità. Il problema è tutto culturale: il pensiero razionale ha subito violenti attacchi da parte di fondamentalismi di ogni specie (così l’epistemologa Nicla Vassallo).
C’è molta volgarità anche nel qualunquismo, nelle semplificazioni da bar, nel fare di ogni erba un fascio (che è l’assioma della “viscida epistemologia popolare”, la confortante attendibilità delle generalizzazioni...) (così il filosofo e linguista Roberto Simone). Per quel che riguarda il nostro paese, un esempio in tal senso è la polemica sull’anti-italianismo che ha toccato il suo apice con le accuse rivolte a Roberto Saviano (uno dei fenomeni di questo decennio), il quale avrebbe infangato la reputazione del Paese all’estero con il suo Gomorra (come se il contenuto del libro fosse opera di Saviano e non dei Casalesi). Quasi due secoli fa, Shelley scriveva: “Ci sono due Italie: una costituita dalla terra verde, dal mare trasparente, dalle possenti rovine dei tempi antichi e dall’atmosfera calma e radiosa che è diffusa in tutte le cose. L’altra consiste negli italiani di oggi, nelle loro opere e nei loro costumi. L’una è la più sublime e leggiadra visione che possa essere concepita dall’immaginazione umana: l’altra la più degradata, disgustosa e odiosa”. La crisi di queste passioni civiche è una perdita incalcolabile, e in un certo senso perfino antieconomica: esse sono virtù sommamente politiche, costano poco e in cambio rendono la vita meno agra (ancora Roberto Simone). Al contrario, le attività che abbiano sapore di mitezza sono sfavorite, screditate, irrise, mentre sono esaltate quelle che di-
Il New York Times ha battezzato il decennio come quello delle cadute morali, il “decennio della disonestà e degli scandali” (Enron, e da ultimo, il diluvio dei mutui subprime), nato e fondato sulle menzogne: tutti hanno mentito, Bush sulle armi di distruzione di massa; i manager di Wall Street sulle magnifiche sorti profittevoli del capitalismo virtuale... Abbiamo assistito ad una scomparsa dei fatti. La mistificazione è divenuta lo strumento politico principe (per la verità lo è sempre stata, sotterraneamente per tutta la storia: questo è un periodo, però, di quelli nei quali esce con particolare prepotenza allo scoperto e sfrutta i mezzi che la techné del momento le offre per potenziarsi ancora di più). Il raggiro, l’imbonimento, però, possono prevalere solo se trovano terreno fertile nella credulità. E i media sono veri campi di addestramento alle fandonie. La TV commerciale, dal canto suo, favorisce stati dissociati della mente, nei quali lo spettatore è insieme apatico ed eccitato. L'unica base da cui ripartire sarebbe la comprensione della realtà (ammesso che possa darsi qualcosa di simile alla “comprensione della realtà”…). Invece, trionfano un privato senza
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mostrano aggressività e invadenza. Diceva Flaiano (Diario degli Errori, 1972) che l’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia ! Allora si finisce ad un bivio: o si conferma la propria lealtà ai sistemi esistenti, magari suggerendone qualche miglioramento, o si dichiara de-
falut ammettendo che con essi si preferirebbe non avevre più a che fare... Si può arrivare a sperare, come ne La Zattera di Pietra di Saramago, che l’intera penisola iberica (italica), ad un certo punto, si spezzi dal continente e vada vagando nell’oceano...
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Gli anni dell’antipolitica (o della macarena politica). la democrazia richiede un elemento non democratico: ha bisogno dell’influsso permanente di una messa in discussione antidemocratica, per rimanere una democrazia viva (Brown, citata da Zizek). La cura per le malattie della democrazia è di natura omeopatica: se le democrazie tendono verso dei principi ad esse antitetici, allora un esame critico di questi principi (e delle formazioni politiche che li propugnano) è cruciale per il progetto di una rifondazione o di una riscoperta della democrazia.
Dove porterà l'antipolitica di questo decennio ? I blog, gli appelli online, la satira che si trasfigura direttamente in politica, anche per contrastare una certa politica che, in effetti, si trasforma in comicità e dispensa solo risate amare. Non è facile dire se sino ad oggi abbia prevalso la necessità di partecipazione o quella di protagonismo (e cioè se l’antipolitica abbia giovato a tutti o solo a pochi, finendo perciò come la rivale politica tradizionale). Bisognerebbe accettare che i sistemi democratici sono incompleti: per funzionare devono fronteggiare dei compromessi, delle occasionali riorganizzazioni. Anzi: la democrazia eleva l’incompletezza a principio, istituzionalizza la riorganizzazione regolare in forma di elezione (Zizek). Ad esempio, il progetto europeo oggi ampiamente dibattuto non riesce a suscitare passioni perché a detta di qualcuno è fondamentalmente un progetto di amministrazione, non un impegno ideologico. E mentre molti dei tentativi di sinistra di immettere passione politica nella nozione di un’Europa unita (come l’iniziativa di Habermas e Derrida nell’estate del 2003 o il sincero e convinto tentativo ‘costituzionale’ con la presidenza Prodi) hanno mancato il bersaglio, l’unica passione è quella della reazione di destra all’Europa.
Il potere mediatico (la c.d. Videocracy) incarna in maniera perfetta l’idealtipo di quell’elemento antidemocratico che deve tenere sveglie le sentinelle della democrazia. Negli anni venti il giornalista statunitense Walter Lippmann coniò l’espressione “fabbricare il consenso” (che è stata poi ripresa da Noam Chomsky e diventata di uso comune). Per Lippmann però quella frase aveva un senso positivo. Come Platone, anche lui vedeva il popolo come una grande bestia o un gregge disorientato, che si dibatte nel “caos delle opinioni locali”. Il gregge, sosteneva nel libro “Public Opinion”, deve essere amministrato da “una classe specializzata i cui interessi personali oltrepassino l’ambito della comunità locale”. L’unico mistero è perché, pur sapendolo, continuiamo a stare al gioco. Ci comportiamo come se fossimo liberi, e al tempo stesso accettiamo o addirittura invochiamo qualcuno o qualcosa che ci dica cosa fare e cosa pensare.
Già con Spinoza e Toqueville è divenuto chiaro che la democrazia è in sé stessa imperfetta – vuota, priva di un principio saldo – e ha bisogno di un contenuto anti-democratico per riempire la sua forma. Il paradosso è allora che, per essere sana,
Viene in mente quando La Pira veni-
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va accusato di fare della “politicadomestica-planetaria� espandendo sin troppo le mura di Firenze ad abbracciare gli orizzonti di tutto il globo. Ma oggi facciamo il contrario: trattiamo tutta la politica planetaria
alla stregua di un party in villa o di una trasmissione televisiva. Ormai siamo tanto abituati alla “pseudo macarena post-politica� da ridurre tutto ad un siparietto. .
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Tecnologia, ecc.
internet
wikipedia
Ma le tecnologie non sono solo quelle micro-elettroniche e telematiche: ci sono e si difendono bene anche quelle pesanti che dal secolo scorso si sono ricreate una gioventù. Possono garantire una mobilità “cheap” che rende liberi di andare, viaggiare, comunicare, come, quando e con chi si vuole. Non a caso Michael O' Leary, l'irriverente amministratore delegato della Ryan Air, ama paragonare la sua azienda a un “web con le ali”, immaginando il giorno in cui “si volerà del tutto gratis come oggi si naviga gratis sul web. Web e voli low-cost sono dunque aspetti complementari del fenomeno, come spiega Thomas Friedman in “The earth is flat”, il saggio che ha fotografato il decennio: hanno fatto ridiventare “piatta” la terra, ristretto e reso più egualitario il pianeta, messo tutti in contatto con tutti e tutto. In questo decennio la globalizzazione che aveva già finito il corso della sua espansione, si è davvero diffusa ed è penetrata nella vita comune di tutti fino a farci invidiare, a volte, quello sperduto, ultimo popolo dell’Amazzonia rimasto senza scrittura, senza storia e senza contatti con il resto dell’umanità fino al momento in cui un aereo ha sorvolato per la prima volta il loro villaggio…
Le tecnologie di questo decennio hanno una caratteristica su tutte: ci consentono di vivere molte vite in parallelo all’interno dello stesso luogo, o della stessa persona. Intelligent Life, raffinato trimestrale dell'Economist, ha dedicato un'inchiesta al tema offrendo qualche possibile risposta. Gli anni Duemila, sostiene la rivista, sono stati la iDecade, il decennio della comunicazione digitale, simboleggiata da iPhone e iPod. Una comunicazione che significa libertà di fare tutto da soli e di farlo in movimento, due concetti che il decennio ha plasmato sul web, con i siti di interconnessione sociale come Facebook e Twitter, con l'invasione di blog e bloggers, con i «citizen journalists» (i cittadini giornalisti). Il decennio è quello di Google e Wikipedia, il motore di ricerca e l' enciclopedia che illuminano il pianeta con l’intelligenza collettiva adespota (Bernard Henry-Levy), promotori di una comunicazione digitale senza limiti, autarchica e mobile, capace di viaggiare sempre e dovunque, sugli schermi di computer sempre più piccoli (e sempre più belli). In molti sostengono che la parola chiave di questi anni, su tutte, dovrebbe essere proprio “Google”. Peccato che proprio nel 2010 il più grande motore di ricerca del globo abbia dovuto scendere a compromessi con la censura in Cina, dopo aver a lungo resistito: segnale ulteriore che lo stimolo economico e finanziario mette tra parentesi le aspirazioni di libertà persino di un mezzo a vocazione egualitaria e democratica naturale come internet.
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Economia e crisi La crisi può essere definita come la situazione nella quale si prende coscienza che “Esiste un punto di arrivo, ma nessuna via...” (Kafka). E’ a causa dell’assenza di un pensiero critico che si è potuto scambiare un finale d’atto per la fine della rappresentazione inducendo studiosi, accademici, operatori pubblici ad applaudire con troppo anticipo quando l’economista di Chicago Robert Lucas, premio Nobel, nel suo celebre “Presidential Address” alla riunione dell’American Economic Association (2003), rassicurava tutti che ormai il problema dell’equilibrio macroeconomico era risolto. Ci ricorda Marco Vitale, che la finanza come arte della mediazione fra risorse, non può fare a meno di riferirsi all’etica intesa quale sistema di regole volte a fissare ciò che possiamo fare, date le condizioni di contesto; volte cioè ad indicare il comportamento giusto e prudente – quello che Aristotele chiamava Areté. Poiché le risorse sono il vettore per il bene comune, la finanza deve essere bene ordinata allo scopo di rispettare la sua vocazione propria che è appunto fungere da ponte, da mediatore. Invece, ovunque negli ambienti economici è il trionfo della hybris. Da qui la schizofrenia morale delle imprese e delle banche. Ma le imprese e le banche sono a-morali, non necessariamente immorali. Invece, sostiene sempre Vitale, l’etica imprenditoriale deve essere un’etica della virtù. Nel suo “Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze” del 1754, vero e proprio manifesto dell’illuminismo napoletano, Antonio Genovesi si chiedeva perché Napoli, pur essendo ben po-
Un decennio di inutile ‘laissez-faire' ha scritto un importante commentatore economico. Il bilancio del periodo si riduce all'insistita riproposizione della ricetta di un sostanziale laissez-faire, mascherato dietro le reiterate promesse di una strategia di grandi investimenti pubblici che non è mai decollata, né prima né dopo la crisi. Basta poi confrontare i 700 miliardi di dollari spesi solo dagli Stati Uniti per stabilizzare il sistema bancario, con i 22 promessi alle nazioni più ricche per affrontare la crisi alimentare e aiutare i paesi poveri, a cui sono stati destinati solo 2,2 miliardi per rendersi conto della persistenza di sperequazioni che diventano sempre più inaccettabili. E’ improbabile che le ultime crisi finanziarie siano un male che si trasforma in un bene: il risveglio dal brutto sogno non c’è stato. Quando il normale corso delle cose viene interrotto traumaticamente, il campo si apre a una competizione ideologica di tipo digressivo. Contro questa tendenza bisognerebbe insistere sulla domanda fondamentale: quale pecca del sistema apre la porta ogni volta a tali crisi e tracolli finanziari ? Già, perché deve essere il sistema ad avere una falla. L’origine delle crisi va interpretata come benigna, e dunque legata alla fisiologia del sistema: dopo lo scoppio della bolla delle dot.com nel 2001 la decisione raggiunta tra le parti politiche è stata quella di facilitare l’investimento nel mercato immobiliare, in modo da mantenere l’economia in corsa e prevenire la recessione. La crisi attuale ha preso l’avvio proprio dalla bolla sui mutui immobiliari…
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polata, ben posizionata, rispetto alle esigenze dei traffici commerciali, ben dotata di intellettuali e di ingegni e così via, non fosse una “nazione” sviluppata come le altre nazioni del Nord Europa. La risposta che Genovesi (si noti: primo professore
al mondo a occupare una cattedra di economia, nel 1753 !) forniva senza indugi era che Napoli difettava dell’Amore per il bene pubblico.
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Meridione. za i presunti fattori di sviluppo locale. Si vorrebbe (tanto per cambiare) che un impulso alla crescita dell’intero Paese possa venire facendo leva sulle ampie risorse inutilizzate esistenti nel Mezzogiorno. Non si vede come queste presunte risorse potrebbero iniziare a trasformarsi in oro dal piombo che sono, solo per il tocco di qualche decreto o di qualche leggina, che notoriamente non sono certo come il tocco del Re Mida. Al contrario, dalle politiche place-based, bisognerebbe tornare (seriamente) alle politiche generali. L’idea di due rigorosi studiosi (Cannari e Magnani) è che per lo sviluppo del Mezzogiorno contano di più le politiche nazionali di quelle regionali. Infatti, a parità di intervento, non ci sarà sviluppo finché le stesse politiche nazionali non avranno i medesimi effetti dappertutto. Giustizia, istruzione, sicurezza, riforma della pubblica amministrazione: non sono politiche formalmente regionali; ma possono essere più determinanti delle politiche regionali. Non bisogna dimenticare che i fattori primari dell’azione pubblica sono più deboli al Sud. In un contesto ormai spietatamente competitivo (Grecia docet…) tali debolezze strutturali possono portare al ristagno ancora più che in passato. Il ruolo delle politiche pubbliche nazionali è fondamentale proprio riguardo l’offerta di servizi essenziali: giustizia, sicurezza, sanità, devono essere uguali ed uniformi. La prospettiva del federalismo non dovrebbe indebolire questa visuale. Si deve certo alleggerire il governo nazionale, ma anche rafforzare il patto di solidarietà e lo sviluppo delle regioni. Un dato su tutti grida questa dimo-
Il mezzogiorno, appunto, non ha problemi propri, ma riflette al cubo quelli nazionali. Uno studioso attento alla ‘Questione’, ha lanciato la formula del “Bancomat meridionale” (Viesti), sostenendo che la grande novità storica degli ultimi anni è la meno conosciuta e discussa vale a dire il fatto che lo strumento principale per affrontare la crisi è stato un enorme trasferimento territoriale di risorse da Sud verso l’insieme del paese. I FAS (Fondi per le Aree Sottosviluppate), per esempio, hanno a malapena compensato la mancanza di risorse ordinarie da destinare al Sud (dunque sono stati tutt’altro che straordinari). Infatti, la spesa in conto capitale pro capite è comunque rimasta più bassa nelle regioni meridionali. E’ dimostrato da Misiani (studioso bergamasco, dunque al di sopra di ogni sospetto) che la politica dei tagli ha saccheggiato il Fondo dei FAS appunto come un bancomat: una solidarietà al contrario (dalle regioni più deboli nei confronti di quelle più ricche). Ma c’è una chicca in più: persino la ricostruzione dell’Abruzzo è stata posta a carico del FAS che era per l’85% destinato al Sud, invece di farla finanziare, in proporzione della ricchezza rispettiva, da tutte le Regioni. Allora, il teorema del Sud refrattario allo sviluppo è falso, come lo è il suo corollario, che bisognerebbe lasciare fare al mercato fino in fondo e abbandonare le regioni meridionali all’assunzione della responsabilità per il loro destino. Nella cornice di questa retorica da superare, si inserisce anche la NPR (Nuova Politica Regionale), ancora basata su un approccio teorico che mette in eviden
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strazione: se, per un verso, gli indicatori relativi alle risorse culturali (visitatori dei musei, spesa per teatri e concerti, per ricreazione e cultura) sono paralleli in entrambe le aree, per altro verso, il divario PISA nell’istruzione (e il Quaderno Bianco
sulla scuola del 2007) dice che l’istruzione continua ad arrancare al Sud. Dinanzi ai principi sanciti nella nostra Costituzione, il fatto smentisce ancora pesantemente l’eguaglianza proclamata in diritto.
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Laicità cimenti della controparte (ma quelli dei laici in particolare) sono soltanto errori e traviamenti morali da contrastare con tutti gli strumenti che offre la democrazia (anche eventualmente piegati appositamente allo scopo). Per il resto, quella che a molti appare una illecita interferenza degli organi ecclesiastici nel rapporto StatoChiesa, è in realtà un fatto per certi versi più serio che non soltanto questo. In una situazione di disorientamento della società civile, l’etica pubblica anziché costruirsi sul pluralismo delle posizioni etiche dei cittadini senza che l’una prevarichi sull’altra, finisce per essere delegata di fatto alla dottrina ricevuta. Contro questa deriva della ‘delega’ in bianco, il laico si deve invece assumere molti più compiti: sostenere con fermezza la legittimità del contrasto di visioni etiche differenti; contestare gli equivoci che esistono a proposito dello spazio e del discorso pubblico, distinguendo nettamente tra l’accesso alla sfera pubblica, aperto e praticato senza restrizioni dalla chiesa, e l’azione strategicamente mirata ad influenzare con ogni mezzo alla deliberazione politica; combattere le confutazioni tra scienza e teologia a proposito dei concetti di natura e di vita che sono diventati cruciali per l’etica pubblica.
In questo decennio, non solo nel nostro paese, è tornata ad assumere un ruolo centrale la c.d. questione laica. I volumi, gli studi, le riflessioni, le polemiche ed anche i casi politici e di cronaca sul punto sono stati una vera messe. I toni sono stati sempre alti, con punte in crescendo che hanno esasperato il dibattito (uno sguardo retrospettivo ai precedenti numeri di Rapsodie Salentine ne dà ampiamente conto, toccando episodi come il referendum sulla procreazione assistita o la visita di Benedetto XVI alla Sapienza, i casi Welby-Englaro e molti altri…). Giancarlo Bosetti, recentemente, nell’intervenire con un libretto sul tema, ha ammiccato sin dal titolo ai “laici furiosi” finendo per sortire lo stesso effetto del c.d. “fuoco amico”, fornendo una nuova formula denigratoria e forse destinata ad avere una fortuna bipartisan nei confronti dei laici. A questo punto, come osserva pur pacatamente Gian Enrico Rusconi, anche il più disponibile dei laici rischia di perdere la pazienza, dal momento che è costretto a doversi giustificare per essere laico (mentre né laici, né cattolici dovrebbero giustificarsi per esserlo). Dopo il Concilio Vaticano II la distinzione fra cattolici e clericali sembrava superata. Oggi, invece, sembra proprio che siamo costretti a recuperarla. Non clericali sarebbero solo coloro che, pur facendo proprie le posizioni di principio della Chiesa, non ne condividono la strategia politica e pubblica. Lo scontro perciò si concentrerebbe fra laici e religiosidi-chiesa. Per quasi tutti, in realtà, dell’una e dell’altra schiera, i convin-
In ogni caso, l’approccio eticoreligioso dominante oggi mantiene sfocati (o semplicemente non detti) i riferimenti ai grandi dogmi teologici della colpa originale, della redenzione, della salvezza, che storicamente sono (stati) tutt’uno con la dottrina morale della Chiesa. Questi temi, in effetti, come si lagna non senza
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tifica (e ci mancherebbe…).
qualche lucidità la stessa pubblicistica cattolica, sono diventati incomunicabili ad un pubblico religiosamente de-culturalizzato. La teologia morale è interamente assorbita dalla tematica della vita e della natura, oltretutto con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bioteologismo o di ri-sacralizzazione naturalistica posticcia, carica di risentimento verso le scienze e le teorie dell’evoluzione.
Charles Margrave Taylor, filosofo canadese (cattolico, ma per niente clericale), autore di un importante volume sull’Età Secolare, sostiene che la secolarizzazione non è stata, come in talune descrizioni oggi di nuovo in auge, quel fenomeno tremendo che avrebbe colpito la religione dal di fuori o alle spalle, quanto un processo endogeno al cristianesimo occidentale stesso. Anzi, il processo di razionalizzazione sarebbe stato messo in moto dal cristianesimo stesso. Ma con la secolarizzazione ci è stata consegnata irreversibilmente una concezione moderna di trascendenza e immanenza, un nuovo modo di pensare la religione. Soprattutto, fra le acquisizioni definitive della secolarizzazione, c’è la piena legittimità etica del non credere, oltre che la legittimità e la plausibilità puramente intellettuale del non credere. Ci vuole l’onestà intellettuale di Taylor (il quale, pur da filosofo credente, non presume affatto di “avere quel qualcosa di più”…) per dare una interpretazione non demonizzante della cultura secolare della nostra società. Basterebbe riconoscere che la caratteristica saliente delle società occidentali non è tanto il declino della fede e della pratica religiosa, quanto piuttosto la reciproca fragilizzazione delle diverse posizioni religiose e delle prospettive contrapposte del credere e del non credere.
Con formula ficcante, Rusconi ammonisce: la teologia non deve inacidirsi in sacra biologia… Il riconoscimento della consistenza e inaggirabilità del pluralismo delle visioni del mondo e della vita - cioè precisamente del pluralismo che è garantito dalle costituzioni democratiche - è irrinunciabile. Ethos comune non è sinonimo di omologazione dei valori, bensì di convivenza di differenti punti di vista valoriali, di diversi ethos. Solo in questo modo l’etica pubblica non è altro che l’espressione concreta della cittadinanza democratica. Non è questione dunque di “religione laica” o civile: solo in certe caricature malriuscite e fuori della realtà il laico è condannato al dubbio metodico come ai lavori forzati e degradanti dell’anima, al razionalismo (naturalmente dileggiato come “arido”),all’edonismo, all’individualismo (naturalmente denigrato come “egoistico”), al famigerato relativismo dei valori, addirittura alla mancanza di speranza. Il laico, invece, è o dovrebbe essere, l’uomo o la donna che riconoscono nella ragionevolezza la cifra del proprio approccio al mondo: cioè nella “razionalità temperata da forme di esperienze vitali”, la cui decifrazione non è certamente riconducibile esclusivamente a quella della strumentazione scien-
Il saggio giudice Zagrebelsky, sui rapporti fra stato e chiesa, dal canto suo, confida sul fatto che “Le vie della discussione pubblica possono davvero essere infinite”. La vera battaglia di questo decennio si è fondata sull’interrogativo: quali sono
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luzione nel pensiero di Habermas al riguardo. Due tendenze (lui dice contrapposte) si sono fronteggiate: diffusione di rappresentazioni naturalistiche del mondo e crescente influsso politico delle gerarchie religiose. Tra le due, si sarebbe verificata una segreta complicità, dal punto di vista della teoria politica che si occupa dei fondamenti normativi e delle condizioni di funzionamento degli stati di diritto democratici: entrambe avrebbero remato nel senso di mettere a rischio, per così dire in collaborazione, la stabilità della comunità politica con la loro eccessiva polarizzazione. L’ethos civico liberale esige invece da ambo le parti - l’accertamento riflessivo dei confini sia della fede, sia della scienza. La formazione dell’opinione pubblica e della volontà nella sfera pubblica democratica può funzionare soltanto se un numero sufficiente di cittadini soddisfa determinate attese circa la civiltà del loro comportamento. Ma i cittadini credenti possono confrontarsi con questo compito solo a patto di soddisfare appieno i presupposti cognitivi a ciò necessari. Devono aver imparato, cioè, a porre le proprie convinzioni religiose in un rapporto riflessivamente comprensivo con la realtà del pluralismo e debbono aver conciliato con la loro fede il privilegio conoscitivo delle scienze socialmente istituzionalizzate, come pure con il primato dello stato secolare della morale sociale universalistica. La filosofia entra in gioco soltanto per i cittadini di parte laica. Infatti, a costoro non è consentito di negare i contenuti razionali dei contributi formulati in linguaggio religioso. In questo senso, il rispetto che i cittadini laicizzati debbono dimostrare ai loro concittadini credenti ha anche
i diritti della coscienza ? La risposta del costituzionalista è che la libertà da tutelare non dovrebbe essere quella dei parlamentari, bensì quella delle persone che devono compiere le loro scelte di vita. La vera libertà di coscienza non è quella di chi deve stabilire le regole: investe, piuttosto, la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o conculcare in maniera determinante le scelte dei cittadini. Diversamente si determinerebbe una asimmetria pericolosa: nell’affrontare i temi eticamente sensibili, la libertà di coscienza dei legislatori diverrebbe massima, quella dei destinatari della norma, dunque delle persone, minima. L’occhio laico del giurista registra la difficoltà e coglie le novità del quadro: da una parte, l’impossibilità di continuare a usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario con definitiva perdita di legittimazione sociale; dall’altro, l’ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla coscienza individuale. La vita non può essere sacrificata da norme costrittive (che limitano le scelte possibili), sostanzialmente volte a ricostruire una situazione artificiale di impossibilità al posto di quella naturale ormai travolta dal progresso scientifico. Questa pretesa è vana, verrebbe da dire quasi innaturale, autoritaria e non certo autorevole. Si chiede conclusivamente Zagrebelsky: qual è la legittimazione necessaria per poter parlare in modo più o meno normativo di questione che incidono sul modo stesso in cui concepiamo noi e la nostra esistenza? Il decennio ha visto anche una evo-
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una dimensione epistemica. In conclusione, non è mai molto sensato eliminare semplicemente le tradizioni come se fossero solo un rimedio arcaico. Ma le istituzioni tradizionali devono aprire cognitivamente (e anche normativamente ?) la propria identità ai rivolgimenti accaduti nell’ambiente di cui fanno ecologicamente parte.
sfere particolari e pre-politiche. Ciò significa che devono arrestarsi sulla soglia dei luoghi istituzionali dove si formano le decisioni collettive destinate a valere obbligatoriamente per tutti. Se vi penetrano lo fanno abusivamente, gettando un’ombra di illegittimità sulle decisioni medesime (è questo il non possumus laico !) (Rodotà).
La Chiesa, come confessione religiosa portatrice di una verità (ed al limite di una razionalità) valida in generale, si trova a pretendere – del tutto legittimamente - il riconoscimento dello status di autorità pubblica. Se dallo status, però, la pretesa si estende senza mediazioni, alla sfera delle decisioni pubbliche, si verifica un vero e proprio corto circuito, il cui nome storico è non possumus ! Ogni non possumus corrisponde non semplicemente ad un sempre possibile dissenso che costringe al normale gioco democratico. Si tratta invece di un rifiuto dell’altrui legittimità che si nasconde dietro questa formula, letteralmente esplosiva per la democrazia. L’attribuzione che la Chiesa fa a sé stessa del possesso di verità (alias ragione), dunque la pretesa che i suoi contenuti valgano assolutamente, è una vera sfida per la vita democratica. Nelle società liberali l’unità non è mai una cosa ovvia, ma un’ovvietà che si complica perché non è mai un’acquisizione definitiva, un fine sempre nuovo che è solo dato da perseguire da parte delle sue stesse componenti, le quali devono trovare da sé le ragioni del loro stare insieme. Una volta caduta la coincidenza civis/christifidelis, si deve riconoscere che le verità di fede appartengono a
In questo senso, va letto Habermas: oltre la soglia della sfera pubblica informale non si possono ritenere le religioni neppure come naturali portatrici di “buone ragioni”. Tra ragione pubblica e non possumus c’è incompatibilità.
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Viaggi fra le parole, le lingue, le lettere. tura, abbiamo bisogno di un’ecologia della comunicazione che liberi la mente dagli scarti infiniti che la tengono continuamente sotto assedio, con una variegata catena di manipolazioni. È sempre necessaria un’ecologia del libro capace di operare distinzioni nell’immenso accumulo del materiale librario prodotto. L’alternativa è la definitiva evaporazione della cultura critica, anche a causa dell’invasione dello spettacolo che conduce ad un concentrazione assoluta sul proprio punto di osservazione. Altrimenti, anche nei più significativi ambienti culturali, si finisce in una semplice corsa alle revisioni, a mostrare il lato in ombra di grandi personaggi, a rovesciare i punti di vista sulle loro opere. Trionfa solo la curiosità per tutto ciò che appare inedito (non sembra che gli intellettuali che discettano sulla propria sopravvivenza o estinzione si accorgano d’altro).
Passeggiare con un interlocutore immaginario in un viale affollato di concetti e sentimenti può essere il miglior viaggio, come suggerisce Raffaele La Capria. La bellezza in contrapposto alla precarietà rabbiosa dei nostri tempi, è simboleggiata dall’anatra che senza sforzo apparente fila via tranquilla e impassibile sulla superficie, mentre sotto l’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano. Per chi intraprende questo viaggio della volontà, dell’animo e della razionalità, si tratta di scivolare senza peso sul passato e sul presente, scavando in profondità nelle coscienze; fare esercizio di comprensione delle cose, ricominciando sempre da capo, per necessità, evitando di rimanere impigliati nella rassegna di opinioni e andando al fatto. Preferendo alle volte un gesto corporeo ad un progetto mentale (sciogliendo in quel gesto anche il tratto autobiografico). Questo è ciò che ci insegna il viaggio dell’anatra sulle correnti che non possono infastidirla. Abbiamo bisogno di queste lezioni di naturalezza che riguardano estetica, morale e prassi. È una pratica che è un esercizio di igiene, un rivedere le regole del nostro rapporto con il mondo.
Da uno sguardo alla letteratura di questi Anni Zero, partendo dal chiuso orizzonte di discipline letterarie e linguistiche, viaggiando nella loro stessa espansione istituzionale e bibliografica, si possono tracciare ipotesi su di un futuro liberato dai vincoli della lettera, potenziato dalla connessione perpetua, alleggerito nel trionfo dell’immateriale, e nel virtuale, tra i suoi movimenti rizomatici (illimitata prise de parole) capaci di offrire esperienze oltre il tradizionale limite umano con una liquidazione di ogni attardato residuo umanistico e illuministico. La cultura umanistica tradizionale che amministra sé stessa nelle università, nella palude di una microerudizione, che
Per Giulio Ferroni, oggi assistiamo al paradosso di una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra, assediata dall’impero dei media, dalla vacuità della comunicazione dalla degradazione del linguaggio e della vita civile (ma la riflessione si può tranquillamente estendere alle altre arti…). Secondo lo studioso e lo storico della lettera
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sembra giustificarsi solo nel prolungamento di sé stessa, in una spinta illimitata all’archiviazione del mondo, è sempre più spaesata e costretta a giocare fuori casa in un simile contesto… Non basta, allora, constatare che siamo passati dalla Grecia di Omero, Esiodo, Solone e Demostene alla società di massa occidentale, dal pubblico di ascoltatori della Polis (incan
tati dalla parola che insegna), a quello dei lettori che, nell’isolamento delle loro case, leggono molto ma male. L’oralità moderna, mediata dalla tecnologia, non è più quella omerica. Per intanto, però, retori e banditori di ogni tipo, vocalissimi grazie a potenti amplificazioni, fanno rimpiangere il rigore astratto e solitario della dialettica, il silenzio della meditatio.
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gezza scettica, non possono che apparire folli. Il problema, chiarisce Zizek, è precisamente che in un tempo di crisi e di rotture, la stessa saggezza empirica scettica, costretta nell’orizzonte della forma dominante del senso comune, non può fornire delle risposte, e dunque si deve rischiare il salto (con le parole di Meister Eckhart: “E’ vero, e la verità stessa lo dice”). Se il linguaggio è in ultima istanza autoreferenziale, non c’è modo di tracciare una linea definitiva di separazione tra sofismi, esercizi sofistici, e la verità stessa (questo era già il problema di Platone). La scommessa diventa pascaliana: ma occorre vedere in che modo e intorno a che cosa... Più di qualcuno si domanda: ma la gente non ha ancora capito che il tempo di queste pericolose utopie è finito ? Questa posizione è quella della saggezza: un uomo saggio sa che non si deve forzare la realtà, che un po’ di corruzione è la migliore difesa contro una grande corruzione. In questo senso il cristianesimo è una forma di anti-saggezza per eccellenza: una scommessa sulla verità in contrasto con il paganesimo classico che, in fine dei conti, fa affidamento sulla saggezza (tutto ritorna alla polvere). Al contrario, forse dobbiamo riconoscere di avere a che fare con una qualche strana inestirpabile cecità o con una costante antropologica innata, una tendenza a soccombere alla tentazione di affermazioni più cogenti. Il problema che sorge immediatamente è la misura di questa misura – il punto di equilibrio ancora una volta tacitamente dato per presupposto. La necessità di guardarsi sempre dal rischio di imporsi e di non accettare il confronto.
Un decennio di cause perse… Roma locuta causa finita: le parole decisive dell’autorità, che dovrebbero mettere termine a una controversia, in tutte le sue versioni, da “il sinodo della chiesa ha deciso” a “il comitato centrale ha approvato la risoluzione” e perché no “il popolo ha reso esplicita la sua scelta nell’urna”. Ma la scommessa non può essere lasciar parlare la causa stessa ? Se rovesciassimo questo brocardo ? Con una delle sue provocatorie domande retoriche, il filosofo Slavoj Zizek invita ad arruolarsi nell’esercito dei difensori delle cause perse. Per le grandi cause, in realtà, le cose sembrano essersi messe male, oggi, in un’era post-moderna in cui, per quanto la scena ideologica sia frammentata in una panoplia di posizioni che lottano per l’egemonia, esiste un solo, granitico consenso di fondo: l’era delle grandi narrazioni è finita, lasciando spazio solo ad un pensiero debole contrapposto a ogni fondazionalismo, attento alla tessitura della realtà. Nell’infinita complessità del mondo contemporaneo, in cui le cose, la maggior parte delle volte si mostrano come l’opposto di quello che sono – intolleranza come tolleranza, credulità come senso comune razionale, e così via – la tentazione di tagliar corto, con un gesto insofferente è grande; un gesto che raramente si traduce in qualcosa di più di un impotente o isterico passage a l’acte. Come se un atteggiamento di schietta sincerità personale bastasse quale garanzia di verità. Questo è il limite del senso comune. Ciò che sta dietro di esso implica un salto nella fede nelle cause perse. Cause che, dall’interno dello spazio della sag-
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Fallire, ma sempre meglio… hanno fatto così il giro del mondo, dando luogo alla prima vera e propria rivoluzione nata sul Web. La vicenda delle vignette satiriche su Maometto e l'Islam, considerate offensive nei confronti dei musulmani ha fatto riflettere le persone intelligenti sull’importanza dell’auto-ironia per un vita normale, dei singoli e dei popoli, ed ha spinto il Vaticano ad esprime la sua solidarietà al mondo islamico. Barak Obama ha infiammato gli animi occupando, primo nero dopo 43 presidenti bianchi, la Casa Bianca. E molto altro ancora…
Abbiamo iniziato ricordando alcune tappe scure e pesanti di questo decennio. Ma ce ne sono state vivaddio anche di memorabili per il segno positivo che hanno saputo imprimere a questi anni. E’ entrato in circolazione l'Euro nell'Unione Europea. E' stata una rivoluzione perché si è trattato di un passo verso un’unificazione che le istituzioni dicono di perseguire ma a volte allontanano, e che la gente dimostra a volte di non capire o di non volere, ma che invece ormai è attualità per le nuovissime generazioni nate dopo la Caduta del Muro o addirittura ormai dopo Maastricht. Per la prima volta nella storia della Repubblica, sono state organizzate le elezioni primarie per la scelta del candidato premier (prassi già comune in altri paesi europei). Sono stati confermati gli ergastoli a molti boss di Cosa Nostra (fra cui Totò Riina) e si è avviata la cultura (e il diritto) del riutilizzo a scopi sociali dei terreni e degli immobili confiscati alla mafia. A Teheran, migliaia di persone sono scesi in piazza in difesa della democrazia, e quando il regime è intervenuto reprimendo duramente le proteste i giovani hanno diffuso sui social-network le immagini e le testimonianze della repressione, che
In definitiva, a volte è meglio almeno fare passi giusti nella direzione sbagliata, piuttosto che fermarsi. Meglio ricordare che la verità non è mai tutta qui: in ognuno degli sbagli storici c’è stato un momento di redenzione. Ci vuole dunque ironia ed anche un po’ di coraggio nell’assumere la piena realizzazione di ciò in cui si crede, al limite con il rischio inevitabile di un disastro catastrofico. Meglio un disastro che un deserto. Dopo aver fallito, si può continuare a fallire meglio, mentre l’indifferenza ci sprofonda sempre di più nel pantano di un essere imbecilli (Zizek). [a cura di Emaneule Filograna]
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Fonti Per realizzare questo numero abbiamo, letto, divorato, saccheggiato, confrontato, assimilato, abbiamo condiviso o non siamo stati d’accordo, studiato o spulciato, ci sono piaciuti o ci hanno deluso, tra gli altri, i seguenti testi:
AAVV, Gli Anni Zero (Almanacco del decennio condensato), a cura di Carlo Antonelli, ISBN ed., 2009. Bosetti G., Il Fallimento dei Laici furiosi (come stanno perdendo la scommessa contro Dio), Rizzoli, 2009 Cannari L. – Magnani M., Critica della ragione meridionale. Il Sud e le politiche pubbliche, Laterza, 2010. D’Intino F., L’immagine della voce (Leopardi, Platone e il libro morale), Marsilio, 2009. Ferrone V., Lezioni Illuministiche, Laterza, 2010. Ferroni G., Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero, Laterza, 2010. Habermas J., Tra scienza e fede (Laterza) La Capria R., Lo stile dell’anatra, Rizzoli, 2010. Pascale A., Questo è il paese che non amo (Trent’anni nell’Italia senza stile), minimum fax, 2010. Rusconi G.E., Quanto costa essere laici, Mulino, 2009, 879 e ss. Rodotà S. , Perché Laico, Laterza, 2009. Simone R., Il paese del pressappoco (Illazioni sull’Italia che non va), Garzanti, 2007. Viesti G., Più lavoro, più talenti. Giovani, donne, sud. Le risposte alla crisi, Donzelli, 2010. Viesti, Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, Laterza, 2009. Vitale M., Passaggio al futuro (Oltre la crisi, attraverso la crisi), Egea, 2010. Zagrebelsky G., Scambiarsi la veste (Stato e chiesa nel governo dell’uomo) Laterza, 2010. Zizek S., In difesa delle cause perse (Materiali per la rivoluzione globale), Ponte alle Grazie, 2009. Santoro P., Duemila...analisi di un decennio breve (Una filosofa, un fisico e uno psicanalista tracciano un bilancio di questo inizio di secolo), La Repubblica, novembre 2009. Franceschini E., Duemila e 10, La Repubblica, 18 settembre 2009. Riva M., Un decennio di inutile "laissez-faire", La Repubblica, 15 marzo 2010. Caretto E., Il bilancio del decennio visto dai giornali americani: poche luci, molte ombre, Corriere della Sera, 30 dicembre 2009.
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