18 12.2012 La scienza per tutti
Il nuovo volto della produzione globale
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ORGOGLIO INDUSTRIALE —
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comitato scientifico Enrico Alleva (presidente) Giulio Ballio Roberto Cingolani Paolo Andrea Colombo Fulvio Conti Derrick De Kerckhove Niles Eldredge Paola Girdinio Helga Nowotny Telmo Pievani Francesco Profumo Carlo Rizzuto Robert Stavins Umberto Veronesi
art direction e progetto grafico undesign ricerca iconografica e photoediting white illustrazioni Elena La Rovere undesign
direttore responsabile Gianluca Comin direttore editoriale Vittorio Bo coordinamento editoriale Pino Buongiorno Luca Di Nardo Giorgio Gianotto Paolo Iammatteo Dina Zanieri managing editor Stefano Milano redazione Cecilia Toso collaboratori Simone Arcagni Armando Buonaiuto Davide Coero Borga Daniela Mecenate Nicola Nosengo Francesca Pellas Paolo Piacenza Alessandra Viola traduzioni Susanna Bourlot Laura Culver Gail McDowell
rivista trimestrale edita da Codice Edizioni
via Giuseppe Pomba 17 10123 Torino t +39 011 19700579 oxygen@codiceedizioni.it www.codiceedizioni.it/ oxygen www.enel.com/oxygen distribuzione esclusiva per l’Italia Messaggerie Libri spa t 800 804 900 promozione Istituto Geografico DeAgostini spa © Codice Edizioni Tutti i diritti di riproduzione e traduzione degli articoli pubblicati sono riservati
Oxygen nasce da un’idea di Enel, per promuovere la diffusione del pensiero e del dialogo scientifico.
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sommario
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Orgoglio industriale
editoriale ORGOGLIO INDUSTRIALE
14 scenari IL MANIFATTURIERO: MOTORE DELLA CRESCITA
di Fulvio Conti di Giorgio Squinzi
L’industria è sicurezza perché è fabbricazione, creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e anima della società; una sicurezza minata oggi dalla crisi economica mondiale. E così in Italia – il secondo Paese manifatturiero in Europa – fare le cose bene non basta più: bisogna saperle fare meglio degli altri. Per riuscirci è innanzitutto necessario ricostruire l’orgoglio industriale, valorizzare il lavoro in ogni ruolo, dare spazio alla creatività e all’iniziativa, mettere le piccole aziende in rete e quelle più grandi nelle condizioni di andare incontro ai nuovi bisogni globali e alle nuove tendenze tecnologiche. La chiave del successo è l’innovazione continua. Questo numero di Oxygen racconta molte storie vincenti, all’alba di quella che in molti già definiscono come la “nuova rivoluzione industriale”, che sta attraversando il mondo intero e rilanciando la qualità manifatturiera dei Paesi storicamente più industrializzati.
Le maggiori nazioni avanzate hanno nuovamente messo l’industria di trasformazione al centro delle loro strategie di sviluppo. Se l’Italia vuole continuare a essere soggetto autorevole della vita economica su scala mondiale, non potrà che essere per la forza del suo sistema industriale, che è oggi l’unico ambito nel quale si possa pensare di investire per riavviare un percorso di sviluppo dell’intero sistema-Paese.
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editoriale LA NUOVA INDUSTRIA
opinioni PROGETTARE IL FUTURO
di Giulio Sapelli
di Davide Canavesio In questi anni di crisi si sono fatte sempre più insistenti le sirene che cantano di un Paese che deve evolvere solo verso i servizi. E sempre più frequenti sono state le profezie di sventura su un settore manifatturiero non competitivo e ormai destinato al declino. Io non sono d’accordo né con una né con l’altra interpretazione. E lo dico da imprenditore manifatturiero.
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Il nuovo volto della produzione globale
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«L’industria è sicurezza perché è fabbricazione, creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e anima della società» 002
approfondimento LA PRODUZIONE DI DOMANI IN SETTE PAROLE
di Dario Di Vico Per delineare uno scenario presente e futuro dell’industria bisogna prima comprendere gli elementi che più la influenzano. Capire l’industria cominciando da alcune parole: ristrutturazione, esportazione, filiera, rete d’impresa, distretto, retail e sindacato.
26 contesti UN’ITALIA PIÙ MODERNA, EUROPEA, COMPETITIVA
di Corrado Passera Il cambiamento del nostro Paese è appena iniziato. Abbiamo tracciato un percorso chiaro con misure che potevano essere prese con le scarse risorse e lo scarso tempo a disposizione e già oggi abbiamo un’Italia più moderna, più europea, più competitiva. Ora bisogna andare avanti.
30 intervista ad alberto quadrio curzio LA VITALITÀ DELL’ITALIA CHE PRODUCE
di Paolo Piacenza
36 scenari L’INDUSTRIA NELLA COMPETIZIONE GLOBALE
di Carlo Marroni I principali Paesi industrializzati si muovono in cerca di soluzioni alla crisi; alcuni stanno rallentando, altri esplorano nuovi territori. Una panoramica sui settori sui quali si concentrano e sulle interconnessioni globali che li condizionano.
C’è ancora tanta vitalità nell’ Italia industriale. Nonostante la recessione e la concorrenza sempre più spietata in arrivo dall’Est. Non a caso, l’Italia resta al quinto posto tra le economie del G20 per surplus commerciale di manufatti industriali non alimentari, dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud.
«Le prospettive della Cina sono centrali per i destini di quasi tutte le aree del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’estremo «Il completamento Oriente al e il potenziamento Sudamerica» delle reti infrastrutturali, non solo del trasporto di beni e persone, ma anche dell’energia e dell’infotelematica, è essenziale per avviare la crescita»
34 opinioni TWEET & QUOTES
40 passepartout IL VALORE AGGIUNTO DELL’INDUSTRIA
42 scenari LA QUINTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
di Peter Marsh Un’analisi sull’imminente rivoluzione del settore manifatturiero, una panoramica sugli insegnamenti delle precedenti rivoluzioni industriali e quelli del presente della crisi economica. E qualche beneficio sociale ed economico che una nuova rivoluzione potrebbe portare con sé.
«Il mondo è a un passo da una nuova era. Il cambiamento vissuto dall’industria del mondo sviluppato e dei Paesi in via di sviluppo s’invertirà nuovamente e la produzione dei Paesi ricchi conoscerà una riscossa»
48 data visualization FARE IMPRESA: QUANTO È ATTRATTIVA L’ITALIA?
50 approfondimento DOVREMO PRODURRE MENO “COSE”?
di Donato Speroni Le industrie produrranno sempre. Quel che gli economisti dibattono è se davvero si dovrebbe produrre meno, e in questo caso come potremmo sopravvivere, o se il mondo – come pensano alcuni – sia invece in grado di crescere esponenzialmente, come la memoria di certi chip.
52 contesti LE IMPRESE RAGIONANO IN RETE
di Aldo Bonomi Una risorsa per creare relazioni di scambio e sostegno tra le aziende che devono affrontare l’attuale momento di crisi economica e di cambiamenti: il contratto di rete come strumento guida per l’aggregazione a la collaborazione tra le imprese.
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«La rete non può essere l’unica soluzione alla crisi, ma deve rappresentare uno strumento di politica industriale a disposizione del sistema per affrontare, nel migliore dei modi, un periodo sfavorevole e di cambiamento»
56 scenari UN NUOVO RINASCIMENTO ECONOMICO CHE PASSA DALLA PMI
di Andrea Di Benedetto e Luca Iaia Circa il 18% delle esportazioni italiane proviene dal mondo dell’artigianato. Il 50% dalle PMI. Sta avvenendo un riequilibrio favorevole alle imprese di minori dimensioni che hanno saputo presidiare fette molto verticali di mercato, una riorganizzazione geografica dei mercati a vantaggio delle economie emergenti, in particolar modo quelle asiatiche, da sempre vissute con il mito dell’Italia e della qualità della nostra manifattura.
«Il mio concetto di imprenditore ha un approccio artistico: l’artigiano ci mette la testa e le mani quando realizza un prodotto, l’imprenditore va oltre e aggiunge il cuore alla testa e alle mani» «La sfida che ci si pone di fronte è quella di portare la piccola impresa e l’artigianato a una modernità compiuta, ed è una sfida per il Paese. Il potenziale di crescita del settore è tale da essere forse l’unica chance che abbiamo per la ripartenza della nostra economia. Un nuovo Rinascimento»
60 contesti II “SAPER FARE” CI SALVERÀ: 10 STORIE DI SUCCESSO
66 intervista a nerio alessandri IMPRESA SANA IN CORPORE SANO
di Daniela Mecenate di Pino Buongiorno Le mani degli artigiani italiani, e menti brillanti e fantasiose, fanno miracoli internazionali. E così il Made in Italy può vantare numerosi esempi di imprese artigiane virtuose che, con cappelli, occhiali, biciclette, stampanti, stanno arrivando a raccontarsi in tutto il mondo.
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Sapere unire capacità imprenditoriali, design e uno stile vita e un’alimentazione sana e riuscire a creare un’azienda di successo. È la storia di Technogym, impresa leader nel settore del wellness: non uno sport, ma una filosofia di vita. E di impresa.
70 contesti IKEA: SPAZIO ALL’ITALIA Oggi in 40 Paesi del mondo si può trovare almeno un negozio Ikea, e in ognuno di essi si può trovare almeno una cucina italiana. Perché oggi l’Italia, dopo Cina e Polonia, è il terzo Paese fornitore del colosso svedese.
82 approfondimento MANIFATTURA 2.0
di Alessandra Viola Le professioni operaie e manifatturiere sono definitivamente entrate nell’era 2.0. I nuovi “lavori hard” sono quelli della manifattura digitale, legati all’ICT e alle tecnologie che sostengono l’innovazione, ma anche alla robotica e alle rinnovabili. Oxygen ha condotto un’inchiesta in questi settori, facendoli raccontare a chi ci lavora.
92 contesti LA RIVOLUZIONE DEI MAKERS
di Simone Arcagni Creativi digitali e tecnologici, garage innovators che, con le loro innovazioni e i loro nuovi modelli di business, stanno dando vita a quella che in molti non esitano a definire la “terza rivoluzione industriale”.
72 intervista a edoardo nesi IL TIMORE DEL FUTURO? NON POSSIAMO PIÙ PERMETTERCELO
di Armando Buonaiuto
«Abbiamo bisogno di nuove idee, di nuove aziende che usino la globalizzazione invece di subirla. Ci vorrà un patto tra le generazioni e ci vorranno anni, ma funzionerà. Perché se non funzionasse l’affidarci alla gioventù, allora vorrebbe dire che saremmo finiti davvero, e che ce lo saremmo meritato»
Uno scrittore che ha portato avanti per anni un’azienda tessile, e che non vive la fabbrica come una realtà alienante, parla di futuro e fiducia. E descrive con ottimismo un Paese ricco di giovani e potenzialità.
76 data visualization LAVORATORI DI TUTTO IL MONDO, SPECIALIZZATEVI!
78 scenari VALORI NUOVI PER UNA NUOVA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
di Gianluca Comin Per uscire dalla crisi bisogna invertire il declino del ruolo dell’industria. E per farlo bisogna operare non solo a livello strutturale, ma anche culturale. In Italia in particolare è necessario ricostruire l’orgoglio industriale mettendo al centro valori come l’individuo e l’ambiente.
88 opinioni START-UP MENTALITY
96 approfondimento PRODUZIONE FAI DA TE: LE STAMPANTI 3D
di Riccardo Luna di Nicola Nosengo I grandi colossi, messi davanti al cambiamento, inciampano e cadono». Per riuscire a tenere il ritmo dei cambiamenti, invece, il modello da seguire potrebbe essere quello delle start-up: crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa.
«Noi siamo tutti work in progress... Le grandi persone come le grandi aziende sono in continua evoluzione. Non sono mai finite e mai interamente sviluppate»
Una ventata di aria fresca per l’industria potrebbe arrivare dalle stampanti 3D. Tecnologia e design al servizio dell’immaginazione dei makers per creare oggetti in plastica. L’era della personal fabrication non è ancora realmente cominciata, ma potrebbe non essere mai stata così vicina.
100 oxygen versus co2 C’ERA DUE VOLTE, LO SPAZZACAMINO
102 la scienza da giocattolaio IL LAVORO HARD CHE NON SPAVENTA I PIÙ PICCOLI
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oxygen | 18 — 12.2012
EnEl lAB sostiEnE i progEtti più innovAtivi Di giovAni iMprEsE. lA nostrA EnErgiA prEMiA lA vostrA.
50 anni di energia, milioni di attimi insieme. non perderti il prossimo. enel promuove, in italia e in spagna, il laboratorio d’impresa. Un’iniziativa aperta ai progetti con il più alto 006 potenziale nelle clean technologies dell’energia, e che premia l’innovazione e la ricerca. per far crescere,
grazie alle strutture e alla competenza che enel mette a disposizione, una nuova generazione di imprese e di imprenditori, accompagnandoli verso la realizzazione dei progetti. informati e scarica il regolamento su lab.enel.com
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Contributors 1 Nerio Alessandri — Formazione da industrial designer, nel 1983 (a soli 22 anni) fonda a Cesena Technogym, oggi leader mondiale nei prodotti e servizi per il wellness e la riabilitazione. È presidente della Wellness Foundation, dal 2004 è membro del Consiglio Direttivo di Confindustria e vicepresidente del Comitato Leonardo.
2 Aldo Bonomi — Aldo Bonomi è presidente e amministratore delegato del Gruppo Bonomi. È presidente di RetImpresa (www. retimpresa.it), l’agenzia di Confindustria per le reti d’impresa, vicepresidente esecutivo di Banca Cre.Lo.Ve. ed è membro del CdA di Bipop-Carire dal 2002.
3 Davide Canavesio — È amministratore delegato di Saet Group ed è una figura di punta tra i giovani imprenditori italiani. È stato presidente dei Giovani Imprenditori di Torino dal 2010 al 2011 e uno degli ideatori del primo G8 Young Business Summit a Stresa e del G20 Young Entrepreneurs Summit a Toronto.
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Gianluca Comin — Direttore delle Relazioni Esterne di Enel, è incaricato della comunicazione e degli affari istituzionali nazionali e internazionali. È componente del CdA di Civita, della giunta nazionale di Confindustria e di Unindustria, responsabile dei corsi in comunicazione dell’università Luiss. È autore di 2030 Tempesta perfetta. Come sopravvivere alla grande crisi.
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5 Fulvio Conti — Amministratore delegato e direttore generale di Enel dal maggio 2005, è Consigliere di amministrazione di Barclays plc e di AON Corporation. È Vicepresidente di Eurelectric e di Endesa e Consigliere dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Dal 1999 al giugno 2005 ha ricoperto il ruolo di CFO di Enel.
6 Andrea Di Benedetto — Amministratore delegato di 3logic MK (azienda che si occupa di immagini digitali), dal 2009 è presidente dei giovani imprenditori di CNA (confederazione che conta 350.000 artigiani e 25.000 piccole e medie imprese) e dal 2011 di LinkedOpenData Italia. È socio fondatore di Wikitalia e vicepresidente del Polo Tecnologico di Navacchio.
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7 Dario Di Vico — Sindacalista per la UILM di Torino a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, è diventato un noto giornalista italiano scrivendo sulla “Gazzetta del Popolo”, su “Il Mondo” e su “Italia Oggi”. Dal 1989 è approdato al “Corriere della Sera” scrivendo di economia e politica; ne è stato vicedirettore dal 2004 al 2009.
8 Luca Iaia — Esperto di progettazione integrata, logiche di condivisione, responsabilità sociale, aggregazione e sostenibilità delle imprese, è referente nazionale e coordinatore nazionale dei Giovani Imprenditori presso la Confederazione Nazionale Artigianato e Piccola Media Impresa (CNA). È curatore di CNA NeXT, il Festival dell’Intelligenza Collettiva.
9 Riccardo Luna — È stato vicedirettore del “Corriere dello Sport” e il primo direttore dell’edizione italiana di “Wired”. Scrive su “Il Post” e su “la Repubblica”, per cui ha lavorato come caporedattore. È stato tra i promotori del Nobel per la Pace a Internet ed è presidente di Wikitalia. Dal 2012 è membro del CdA di Oxfam Italia.
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Corrado Passera — Ministro per lo Sviluppo Economico, Infrastrutture e Trasporti, ha ricoperto diverse cariche per CIR, è stato direttore generale di Arnoldo Mondadori Editore e amministratore delegato di Poste Italiane. Dal 2002 al 2011 è stato amministratore delegato e CEO di Banca Intesa e, dopo la fusione, di Intesa Sanpaolo.
Donato Speroni — Giornalista economico italiano, è stato collaboratore di “Corriere della Sera”, “Mondo”, “Giornale Nuovo”. Attualmente insegna economia e statistica all’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino. Scrive per “East” ed è coautore di 2030 Tempesta perfetta. Come sopravvivere alla grande crisi.
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Alberto Quadrio Curzio — Professore emerito di economia politica alla Cattolica di Milano, è fondatore e presidente del consiglio scientifico del Cranec e membro del consiglio scientifico delle fondazioni Edison ed Eni Enrico Mattei. È direttore della rivista “Economia politica. Journal of Analythincal and Institutional economics” e autore di oltre 400 pubblicazioni.
Giorgio Squinzi — Cofondatore della Mapei (materiali ausiliari per edilizia e industria), è stato presidente di Federchimica, consigliere superiore della Banca d’Italia ed è presidente del CEFIC, l’associazione dell’industria chimica europea a cui aderiscono 29.000 aziende. Dal 2012 è il presidente di Confindustria.
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Carlo Marroni — Ha iniziato la sua carriera nel 1988 come giornalista di finanza. È stato prima caporedattore dell’agenzia “Il Sole 24 Ore Radiocor” e poi suo direttore responsabile. Attualmente scrive per “Il Sole 24 Ore” come esperto di politica ed economia internazionale e di informazione vaticana.
Peter Marsh — Laureato in chimica, si è occupato come giornalista di economia, tecnologia, industria chimica. Ha scritto per il “New Scientist” e oggi è manufacturing editor del “Financial Times”. Il suo ultimo libro è The New Industrial Revolution: Consumers, Globalization and the End of Mass Production.
Edoardo Nesi — Scrittore e sceneggiatore italiano, fino al 2004 ha portato avanti l’azienda tessile di famiglia. È autore di Fughe da fermo, Ride con gli angeli, Rebecca, Figli delle stelle, Storia della mia gente e Le nostre vite senza ieri. Ha scritto e diretto il film Fughe da fermo e ha tradotto le 1433 pagine di Infinite Jest di David F. Wallace.
Giulio Sapelli — Storico economico italiano è stato ricercatore e consulente presso istituti di tutto il mondo e ha lavorato nelle più grandi realtà industriali italiane e internazionali. Dal 2002 è tra i componenti del World Oil Council e dal 2003 fa parte dell’International Board dell’OCSE per il no profit. Insegna storia dell’economia all’università Statale di Milano.
illustrazioni: Elena La Rovere
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editoriale
ORGOGLIO INDUSTRIALE di Fulvio Conti
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n questi ultimi anni è sufficiente scor- medio entro il 2030 (McKinsey Global Institute). rere forum e notizie sul web o dare Saranno proprio questi tre miliardi di cittadiuno sguardo ai titoli dei giornali per ni emergenti a dare una spinta notevole alla veder apparire, davanti ai nostri occhi, un qua- domanda globale di beni di consumo primari, dro generale dipinto a tinte fosche. Crisi econo- beni durevoli e di conseguenza materie prime. mica, governance globale in affanno, sovrappo- Una rivoluzione che ha comportato un aumenpolazione, scarsità di energia e materie prime to vertiginoso delle connessioni tra persone e – acqua e cibo – sono alcuni dei temi che in oggetti: dal 2008 ci sono al mondo più disposiquesti anni rimbalzano senza sosta nei dibatti- tivi tecnologici connessi in rete che persone, nel ti dell’opinione pubblica. Eppure, dietro a tutto 2020 saranno 50 miliardi (Cisco, The internet of questo, tra le righe, è possibile leggere una sto- things). Dieci anni più tardi, nel 2030, le automoria diversa.Limitandoci a guardare i dati reali, bili in circolazione nel mondo raddoppieranno ci accorgiamo che, nonostante tutto, il mondo rispetto al numero attuale, così come crescerancontinua a produrre ricchezza: molto di più di no esponenzialmente il livello di nutrizione pro quanto abbia mai fatto. Il PIL mondiale infatti, capite e le dimensioni delle città, in particolar ad eccezione del 2009, ha sempre continuato a modo per i Paesi in via di sviluppo. Proprio le crescere, più o meno lentamente, trainato dalla grandi metropoli saranno il palcoscenico che locomotiva dei Paesi emergenospiterà questo cambiamenti – Cina, India e America Latito: un fenomeno che è già in L’innovazione è lo na – sostituitisi agli Stati Uniti atto. Dal 2008 a oggi, la popoal timone dell’economia mon- strumento per costruire lazione che vive nelle città ha diale (World Economic Outsuperato per numero quella look, International Monetary un futuro prossimo e il che vive nelle campagne: un Found). Un trend confermato mezzo per affrontare il evento senza eguali, che si tradalle previsioni sull’andamenduce in un profondo e radicacontesto attuale to dei consumi dell’energia le cambiamento sociale e che primaria, con un incremento porta a un inurbamento condi circa il 40% fra il 2009 e il 2035 (World Eco- tinuo. Questa crescita straordinaria renderà le nomic Outlook). A contribuire a questa crescita città bisognose di risposte sempre più sofisticasaranno soprattutto i Paesi non OCSE, dove l’u- te a sfide complesse: dalla gestione del traffico tilizzo dell’energia, dovuto allo sviluppo econo- e dell’inquinamento atmosferico all’efficienza mico e al miglioramento delle condizioni di vita energetica e l’accesso all’elettricità. Le città stesdella popolazione, determinerebbe un aumento se diventano laboratori di innovazione. Proprio dei consumi del 90% al 2035. Questo soprattut- l’innovazione tecnologica rappresenta la chiave to in Cina, dove nello stesso anno si utilizzerà il di volta in grado di sostenere questa delicata 70% in più di energia rispetto agli Stati Uniti, che quanto complessa architettura, consentendoci scaleranno così al secondo posto della classifica di coniugare sostenibilità, efficienza e qualità mondiale. Il rapido sviluppo economico dei Pae- della vita attraverso l’interazione di tre tipi di si emergenti, in particolare Cina e India, che non reti: quelle dell’energia, quelle delle informaha precedenti nella storia, ha portato un incre- zioni e quelle dei cittadini. Una vera e propria mento dei salari medi 10 volte superiore a quel- «convergenza tra bit e atomi», come l’ha definilo del Regno Unito durante la prima rivoluzione ta lo scienziato del MIT, Carlo Ratti (Se la città industriale. Tale crescita consentirà a più di tre non fa la stupida, “La Stampa”, 25 maggio 2012). miliardi di persone di entrare a far parte del ceto L’innovazione è quindi lo strumento per costru010
ire un futuro prossimo e il mezzo per affrontare viene classificato come “a bassa crescita”, ma il contesto attuale, agendo come motore di una vi sono settori vivaci, con imprese che crescono “nuova rivoluzione industriale”. Il settore ener- ed esportano. Nel settore manifatturiero, in pargetico, in particolar modo quello elettrico, vive ticolare, i numeri sono incoraggianti: nel corso questa rivoluzione in maniera amplificata. Una del primo semestre 2012, in Italia, un’impresa costante negli anni è infatti il ruolo propulsivo esportatrice su due ha incrementato le vendite svolto dall’elettricità per lo sviluppo sociale, dei propri prodotti all’estero, rispetto allo stesso economico e industriale delle comunità. L’ener- periodo del 2011. Questo è il segno tangibile che gia elettrica è, infatti, la soluzione più pratica, le aziende più dinamiche possono essere quelle efficace ed efficiente per soddisfare le esigenze più competitive. Una dinamicità che può essere di un mondo che ha sempre più fame di ener- estesa con la creazione di una rete capillare che gia e che, proprio grazie alle nuove tecnologie, faccia circolare brillanti “idee di impresa”, itapuò essere prodotta e distribuita in modo sem- liane ed estere, riattivando lo spirito imprendipre più capillare ed economico ai consumatori, toriale che da sempre contraddistingue il nostro secondo nuovi e innovativi modelli di business. Paese, e mettendo a fattore comune giovani, imL’Europa e l’Italia vantano nell’industria elet- prese e innovazione. Un tessuto connettivo che trica una leadership a livello mondiale sull’in- ponga le premesse per la nascita e lo sviluppo tera filiera produttiva. Enel di nuove imprese e promuova ha realizzato, nel corso degli gli investimenti su ricerca e ultimi dieci anni, centrali tersviluppo industriale. Ad esemNel nostro Paese moelettriche con il record di pio come fa Enel attraverso ci sono settori efficienza, impianti rinnovail Progetto EnelLab, che forvivaci, con imprese nisce a start-up promettenti bili più competitivi, progetti innovativi come la prima cenfinanziamenti, strumenti e che crescono trale a idrogeno, l’impianto a ambienti adeguati ad affroned esportano carbone pulito più avanzato tare la competizione globale. del pianeta, progetti di cattura Oppure attraverso iniziatie sequestro della CO2, il primo impianto solare ve che attivino le università, fornendo loro un a concentrazione in Italia, la mobilità elettrica, sostegno concreto, con la Fondazione Centro il contatore elettronico e le smart grids. Un im- Studi Enel. Non dobbiamo quindi lasciar appegno che continuerà anche negli anni a venire, passire il nostro patrimonio di competenze e perché l’innovazione è parte integrante della conoscenze tecniche, ma anzi dobbiamo valonostra visione del futuro. Innovazione non vuol rizzarlo. La storia ci insegna che ogni rivoluziodire soltanto grandi progetti, ma anche leve e ne industriale è stata mossa da nuovi elementi strumenti a supporto della ripresa economica tecnologici introdotti da imprenditori esperti del nostro Paese. Qualsiasi innovazione tecno- del proprio settore che non hanno avuto paura logica parte sempre e comunque da un suppor- di lanciarsi in nuove avventure. L’Italia e l’Euto hardware, sia esso un microchip, un robot o ropa hanno una grande storia, la maturità e le una stampante 3D. L’industria manifatturiera capacità per rilanciare il futuro e guadagnare avrà, quindi, una grande opportunità di rina- nuovamente un ruolo di traino dell’economia scita se sarà capace di reinventarsi, partendo universalmente riconosciuto. Guardiamo quindalla propria esperienza e dalle solide basi su di con fiducia al futuro, oltre la crisi, consapecui può già oggi contare, in particolare in Italia. voli delle nostre capacità e delle nostre dimenForse troppo frettolosamente il nostro Paese sioni, e soprattutto essendo capaci di innovare. 011
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LA NUOVA INDUSTRIA di Giulio Sapelli
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n tutto il mondo si risente parlare di per grappoli scientifici, tecnologici, produtindustria. È come il venticello ros- tivi nella costante diminuzione della dimensiniano, ma questa volta non parla sione di scala degli impianti e delle imprese di calunnia, ma di un ritorno alla verità. La contemporaneamente alla crescente interreverità dell’industria e del lavoro industriale. lazione sistemica fra queste ultime, creando La ragione di ciò è semplice e drammatica in- nuove costellazioni nel cielo delle industrie. sieme: la crisi finanziaria che si è sovrapposta La cosa più sconvolgente di questa nuova inin tutto il mondo a quella industriale fa molto dustria è la riclassificazione dei modelli di più paura di quest’ultima. Il mondo vecchio autorità e delle relazioni di potere. Queste e nuovo è passato attraverso grandi e ripetute ultime sono sempre meno importanti percrisi industriali di bassa intensità che hanno ché da sole non riescono a garantire una gesmosso i mari dell’economia tra i due grandi stione efficiente dell’execution progettuale e tsunami del 1907 e del 1929, produttiva. Mi spiego mesino al terzo iniziato alla fine glio. La proprietà non è più L’industria è sicurezza sufficiente da sola come un degli anni Novanta e in cui siamo ancora immersi.Ma le perché è fabbricazione, tempo per garantire l’implecrisi industriali distruggono mentazione industriale. Non per ricreare. Quelle finanzia- creazione, unità di spirito si possono più acquistare rie, invece, non ricreano mai e di materia, di corpo e gli elementi essenziali della un bel nulla. È la differenproduzione. E questo perché anima della società za tra il DDT e il napalm. E gli elementi essenziali della quest’ultima crisi finanziaria produzione sono divenute da eccesso di rischio e da illimitata avidità dei le capacità personali idiosincratiche che gatop manager finanziari fa veramente paura, rantiscono il flusso senza ridondanze delle perché rischia di non finire mai se non si ri- tecnologie che oggi è necessario per avere spezza in due la macchina degli intermediari una competitività distintiva. Se prima potefinanziari, dividendo le banche commerciali vo acquisire i fattori e organizzarli sotto una da quelle d’investimento. Quando si ha paura gerarchia grazie alla transazione economica, si ricerca la sicurezza. E l’industria è sicurez- oggi quest’ultima non è più sufficiente. È neza perché è fabbricazione, creazione, unità di cessario essere in grado di attrarre, grazie a spirito e di materia, di corpo e anima della so- un’autorità o autorevolezza tecnologica, especietà. Soprattutto oggi che la nuova industria rienziale e anche morale, i talenti che sono la non si sviluppa più solo per filiere merceolo- chiave di volta della nuova industria che avanza. giche e tecnologiche, ma anche e soprattutto Ciò che caratterizza il talento è la passio012
ne che unisce competenze e capacità. Ma la dito assai composito: le grandi imprese (Eni, vera novità è che questa passione oggi la si Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Avio), le vuole ritrovare e riscoprire tanto nel lavoro cosiddette medie imprese del “quarto capitadirettivo quanto in quello che un tempo si lismo” e la miriade di imprese piccole e artichiamava “lavoro esecutivo” e che oggi tale giane che sono assai meno arretrate di quanto non è più perché tutti gli operai della nuo- non si pensi comunemente. In queste ultime va industria sono operatori qualificati che infatti vi è un giacimento prodigioso di casul loro posto di lavoro dirigono e decidono pacità artigianali che si sviluppano nelle più quanto il manager dirige e decide nella sfe- diverse popolazioni organizzative: filiere orizra più ampia della progettazione strategica. zontali merceologiche, dove grande e piccolo Se si gira il mondo, si sente il venticello della si intersecano; filiere verticali funzionali, dove rinascita dell’orgoglio industriale che unisce più tecnologie convivono; arcipelaghi di compadroni e operai, professiopetenze che sono isole meranal e manager, senza che vigliose di capacità operaia Si respira di nuovo la e imprenditoriale insieme. ciascuna di queste antiche ma oggi sempre nuove figufierezza del mestiere, Dappertutto si respira di nuore sociali perda la sua forla fierezza del mestiere, del saper fare le cose vo za creatrice. Naturalmente del saper fare le cose con le con le mani e con il nonostante i molti ostacoli mani e con il cervello insieme. culturali che esistono in ItaDobbiamo fare ancora uno cervello insieme lia contro l’industrialismo, sforzo, però. Come famiglie, questo nuovo rinascimento come padri, come Maestri, industriale ha profonde radici anche nel no- dovremmo essere fieri anche noi se i nostri figli stro Paese. Non dobbiamo dimenticare che son contenti di andare all’istituto professionanonostante la distruzione del nostro patri- le o tecnico invece che prendere una laurea. E monio, rappresentato dalla grande impre- questo perché son certo che un buon operaiosa, che si è consumato soprattutto negli anni operatore e un buon professional-manager posNovanta del Novecento, rimaniamo ancora sono amare la lettura di Platone, Pascoli, Zanla seconda potenza industriale europea dopo zotto e Goethe anche se non hanno preso una la Germania e ricopriamo un ruolo mondia- laurea, oppure se l’hanno presa, ed è una laurea le assai più rilevante di quanto non si pensi. in ingegneria, in sismica, in geologia, in bioloNon bisogna dimenticare inoltre che questa gia. E questo perché la nuova industria non ponuova configurazione dell’orgoglio industriale trà costruirsi senza l’abbattimento di antiche passa per i mille fili di una tela che ha un or- gerarchie e senza l’unificazione delle culture. 013
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IL MANIFATTURIERO: MOTORE DELLA CRESCITA articolo di Giorgio Squinzi
«Le maggiori nazioni avanzate hanno nuovamente messo l’industria di trasformazione al centro delle loro strategie di sviluppo. Se l’Italia vuole continuare a essere soggetto autorevole della vita economica su scala mondiale, non potrà che essere per la forza del suo sistema industriale, che è oggi l’unico ambito nel quale si possa pensare di investire per riavviare un percorso di sviluppo dell’intero sistema-Paese»
L’innovazione tecnologica è il motore della crescita e della produttività e la base su cui poggia lo sviluppo economico delle nazioni. E il sistema innovativo è il cuore dell’industria manifatturiera. Il manifatturiero contribuisce più degli altri settori alla produzione di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche, perché sono le imprese attive nei settori industriali più prossimi alla scienza quelle che finanziano e gestiscono i più importanti laboratori di ricerca, effettuano anche gran parte della ricerca e sviluppo privata, che è il principale input dell’attività innovativa, e riescono più di altre a utilizzare conoscenze esterne all’impresa e a stabilire rapporti di collaborazione con le università. 014
In Europa, la distribuzione geografica della capacità innovativa, misurata dal numero di brevetti per abitante, segue quella della vocazione industriale. Il manifatturiero, dunque, continua a essere la “sala macchine” della crescita perché dalla sua attività originano i guadagni di produttività dell’intero sistema economico, direttamente o indirettamente, attraverso cioè le innovazioni incorporate nei beni utilizzati nel resto dell’economia. Ma la centralità dell’industria di trasformazione nello sviluppo di un Paese non si misura soltanto sul terreno della sua capacità di produrre innovazione. L’industria di trasformazione è infatti anche la leva attraverso cui un Paese sostanzialmente privo di risorse naturali diventa
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in grado di allentare il “vincolo esterno” alla crescita, ossia riesce a finanziare l’acquisto delle sue importazioni. Nel caso dell’Italia, poiché le esportazioni sono costituite per quasi l’80% da prodotti manufatti, in loro assenza si avrebbe una situazione in cui non sarebbe possibile procurarsi le materie prime, a cominciare dall’energia, il cui acquisto è finanziato proprio dal surplus negli scambi di manufatti con l’estero. Per tutte queste ragioni la rilevanza dell’attività manifatturiera va molto al di là di quanto non rivelino le statistiche sul suo contributo diretto al valore aggiunto e all’occupazione dell’intera economia.
In un mondo in cui “saper fare bene le cose” non basta più, perché occorre saperle fare anche meglio degli altri, è necessario abbandonare la logica dell’adattamento passivo alle condizioni del contesto economico e agire attivamente come fa un soggetto che progetta il proprio futuro La consapevolezza di questo fatto sta alimentando in molti Paesi industriali una vera e propria riscoperta della centralità manifatturiera. Le maggiori nazioni avanzate hanno nuovamente messo l’industria di trasformazione al centro delle loro strategie di sviluppo. Stati Uniti, Regno Unito e
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Francia hanno avviato riflessioni e varato misure per puntare con decisione sul rilancio dell’industria manifatturiera. La Germania l’ha fatto da tempo. Ma anche le economie emergenti gestiscono programmi esplicitamente rivolti al rafforzamento delle loro attività manifatturiere. Questi Paesi, avanzati o emergenti che siano, agiscono a partire da una visione chiara del problema e si dimostrano capaci di perseguire strategie di lungo periodo coerenti con gli obiettivi individuati. L’Italia appare in ritardo. Ogni decisione assunta dalla politica dovrebbe, sempre, essere incardinata in una visione del futuro del sistema-Paese cui si riferisce. Purtroppo la storia che abbiamo alle spalle e gli stessi mesi che stiamo vivendo costituiscono un caso di come questo principio sia troppo spesso disatteso. Di emergenza in emergenza, si sommano decisioni e provvedimenti che non riescono ad andare oltre un orizzonte brevissimo, e che una volta saltato l’ostacolo di turno finiscono a loro volta per dover essere seguiti da altre decisioni e altri provvedimenti guidati dall’ansia di fare in fretta. È necessario uno sguardo più lungo, che consenta di tornare a concepire la politica come strumento per guidare il futuro del Paese, sottraendola alla deriva di dover piuttosto seguire un’agenda dettata dall’urgenza, se non da altri. Ed è necessario che questo mutamento di prospettiva non tardi a configurarsi. I grandi Paesi industriali con cui dobbiamo confrontarci, vecchi o nuovi che siano, hanno tutti molto da insegnarci dal punto di vista della costruzione di un sistemaPaese orientato verso obiettivi chiari ed espliciti. Il ritardo dell’Italia rischia di diventare pericoloso, perché già nel confronto internazionale il nostro
il manifatturiero: motore della crescita
Paese sconta un deficit di crescita – anche manifatturiera – e una minore crescita della produttività. Se la conoscenza è sempre stata l’elemento cruciale della competitività, oggi lo è diventata ancora di più. In questa chiave, accrescere l’attività volta alla creazione di nuove conoscenze e al loro utilizzo è diventato imprescindibile per rafforzare i fattori competitivi del Paese, perché una volta raggiunti elevati livelli di reddito pro capite la crescita di un’economia dipende dalla sua capacità autonoma di innovare. Per fare questo occorre ripartire dai molti punti di forza di cui l’industria manifatturiera italiana ancora dispone e, contemporaneamente, affrontare le debolezze accumulate nei settori in cui essa appare in ritardo, che sono quelli in cui l’innovazione è maggiormente legata ai progressi della conoscenza scientifica. E poiché l’innovazione è il risultato di un fitto intreccio di relazioni tra molti attori (imprese, università, centri di ricerca governativi e non), occorre potenziare le condizioni istituzionali che favoriscono l’identificazione e l’adozione di tecnologie e modelli organizzativi nuovi. Se l’Italia vuole continuare a essere soggetto autorevole della vita economica su scala mondiale, non potrà che essere per la forza del suo sistema industriale, che è oggi l’unico ambito nel quale si possa pensare di investire per riavviare un percorso di sviluppo dell’intero sistema-Paese. La forte vocazione manifatturiera dei nostri territori e l’enorme capitale umano di cui dispone la nostra industria – troppo spesso misconosciuto da osservatori disattenti e superficiali – costituiscono la base di una possibile reindustrializzazione della nostra economia, che è l’unica via attraverso cui il Paese può uscire dalla
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situazione attuale. L’industria del Paese ha subito senz’altro negli anni colpi rilevanti, ma è riuscita, nonostante la durata e l’intensità di una recessione devastante, a mostrare una capacità di tenuta che tutti quelli che non ne conoscono a fondo la natura non avrebbero immaginato. Nello stesso tempo, nei confronti di chi fa impresa è bene che sia fatto valere prima di tutto il principio che – in un mondo in cui “saper fare bene le cose” non basta più, perché occorre saperle fare anche meglio degli altri – è necessario abbandonare la logica dell’adattamento passivo alle condizioni del contesto economico e agire attivamente come fa un soggetto che progetta il proprio futuro. La linea di demarcazione tra gli imprenditori che saranno capaci di gestire un cambiamento sempre più vorticoso e quelli che, non essendolo, si troveranno costretti a uscire dal mercato è definita dalla capacità di costruire, intorno alla “velocità di risposta” alla domanda, un knowhow che altri non hanno. Il cardine della competitività saranno le competenze che l’impresa sarà in grado di sviluppare e la capacità di adottare soluzioni organizzative coerenti con esse.
In Europa la distribuzione geografica della capacità innovativa segue quella della vocazione industriale. Il manifatturiero continua dunque a essere la “sala macchine” della crescita
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opinioni
Progettare il futuro articolo di Davide Canavesio
«In questi anni di crisi si sono fatte sempre più insistenti le sirene che cantano di un Paese che deve evolvere solo verso i servizi. E sempre più frequenti sono state le profezie di sventura su un settore manifatturiero non competitivo e ormai destinato al declino. Io non sono d’accordo né con una né con l’altra interpretazione. E lo dico da imprenditore manifatturiero».
Partiamo da un dato fondamentale: l’Italia oggi è, nonostante tutto, il secondo Paese manifatturiero in Europa. È vero, la crisi ha accentuato le conseguenze negative del processo di globalizzazione e abbiamo perduto posizioni di competitività a causa di tutte le zavorre del Paese Italia che il sistema produttivo si porta dietro. Ciononostante, è ancora possibile realizzare manifattura in Italia, purché sia di alta qualità. Per farlo, occorre concentrarsi su alcuni fondamentali elementi. Partiamo dalla competitività. Negli ultimi anni è stato solo l’export industriale a guidare i casi di lieve ripresa nel nostro Paese.
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Ciò conferma il fatto che i nostri prodotti sono ancora apprezzati all’estero. Scendiamo nello specifico e guardiamo a un caso solo: la Cina. La Cina è stata per anni un Paese di sbocco per la nostra manifattura; ora la notizia positiva su cui convergono molti degli analisti è che per i prossimi 10 anni, su tutto il settore della produzione di beni industriali e macchine utensili, la Cina non sarà competitiva in termini di qualità tecnologica quanto il Nord Italia e la Baviera, le aree d’Europa che hanno nel manifatturiero il loro punto di forza. Questo, che potrebbe sembrare in controtendenza con l’investimento in
Saet — La Saet da tre anni lavora a un nuovo prodotto per realizzare lingotti di silicio per il fotovoltaico. Ora sta firmando i primi contratti con i top five player a livello mondiale in mercati lontani e ha creato un settore che letteralmente non esisteva (www.saetgroup.com).
ricerca e sviluppo e con la crescita globale della Cina, in realtà è giustificato dal fatto che tutto ciò che è “produzione di sapere tecnologico” su macchine utensili o su processi industriali non è basato solo sull’innovazione e sui forti investimenti in R&D, ma anche su decenni di esperienza accumulata: una sorta di artigianato industriale che non si può comprare solo con il denaro, ma che richiede decenni di lavoro e di esperienza. Quell’esperienza che solo le grandi aree industriali europee conservano. Si tratta di una buona notizia per il nostro Paese: vuol dire che nei confronti della Cina, come anche di altri mercati emergenti, la competitività tecnologica è ancora un’arma importantissima su cui puntare. In realtà, l’innovazione stessa può aprire ancora grandi mercati: l’energia ad esempio. In Italia, quando si parla di energia, si tende a considerare solo l’ultima parte della filiera, trascurando le parti industriali che si collocano a monte del processo, su cui noi siamo molto forti e potremmo esserlo ancora di più. Per fare un esempio concreto, l’azienda che guido, la Saet, ha acquisito uno spin-off universitario a Padova e da tre anni lavoriamo a un nuovo prodotto per realizzare lingotti di silicio per il fotovoltaico, basati sulla nostra tecnologia. L’investimento fatto in ricerca e sviluppo, di qualche milione di euro, oggi sta pagando e stiamo firmando i primi contratti con i top five player a livello mondiale in mercati lontani da noi – non a caso di nuovo la Cina – e abbiamo creato un settore che fino a oggi letteralmente non esisteva. Come abbiamo fatto? Sicuramente abbiamo seguito tre punti cardine: la
focalizzazione del business (con la costruzione di applicazioni attorno allo stesso focus tecnologico), l’internazionalizzazione e l’innovazione nella creazione di prodotti che possano servire al mercato. Questo caso dimostra che ciò che serve al nostro Paese per ripartire è “scatenare” l’energia creativa delle nostre piccole multinazionali tascabili. In Italia siamo pieni di hidden champions, bisogna fare in modo che queste imprese possano crescere proprio sugli assi cui ho fatto cenno: il focus sul business, la possibilità di aumentare nuove applicazioni intorno ad esso, un grandissimo supporto all’internazionalizzazione e incentivi sulla ricerca e sviluppo. È vero, l’Italia si trova agli ultimi posti nelle classifiche mondiali per investimenti in ricerca e sviluppo; sarebbe tuttavia semplicistico affermare che le imprese debbano muoversi da sole. Un po’ di storia può essere utile: anche la mitica Silicon Valley, l’incubatore di tutte le innovazioni tecnologiche più dirompenti degli ultimi decenni, è cresciuta negli anni Cinquanta e Sessanta non per semplice volontà privata o per incrocio di imprese, ma con fortissimi investimenti del governo negli Stati Uniti da parte della Difesa e successivamente della NASA. Solo processi catalizzanti di questo tipo riescono a convogliare le energie necessarie per innescare processi virtuosi di innovazione. Un ulteriore tema su cui noi come imprenditori e Paese dovremmo ragionare in una dimensione nettamente europea è quello della prospettiva di politica industriale. Quello che veramente manca al nostro sistema produttivo, al di là di riforme fiscali, dell’alleviamento del peso
della burocrazia o di un forte focus sulla produttività, è una fortissima presa di coscienza della necessità di una politica industriale. Da circa trent’anni questa politica industriale non è presa in considerazione dai nostri policy maker; eppure, individuare i settori strategici e convogliarvi le risorse partendo dal nostro DNA può veramente aiutare il nostro Paese e risultare più utile di miriadi di aiuti a pioggia. Politica industriale non vuole dire l’ingresso dello Stato nell’industria, ma vuol dire fornire linee guida e individuare le grandi direzioni strategiche lungo cui muoversi, in modo da dare serenità agli investitori di medio e lungo periodo. Quando la Germania annuncia che entro il 2050 più di metà dell’energia sarà prodotta da rinnovabili, dà un indirizzo chiaro e inconfutabile di quello che è la politica industriale. Non è una questione di incentivi. Dietro una tale dichiarazione le imprese tedesche e mondiali che investiranno in Germania sanno che nei prossimi quarant’anni questo sarà uno dei driver di crescita del Paese e quindi gli investimenti, anche con un payback ventennale, sono giustificati. In un Paese come l’Italia, invece, nell’arco di tre anni gli incentivi creano bolle speculative che poi scompaiono e lasciano le ceneri di imprese nate all’improvviso, senza nemmeno mezzo seme di industria futura. Il nostro è un Paese che ha nel DNA un forte senso della costruzione di beni materiali, della qualità, della manifattura. E in questo senso deve progettare il suo futuro, per realizzare appieno le prospettive della terza rivoluzione industriale che attende il Pianeta e per accrescere finalmente la sua competitività.
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01 / RISTRUTTRAZIONE
Ap
approfondimento
La produzione di domani in sette parole articolo di Dario Di Vico
Per delineare uno scenario presente e futuro dell’industria bisogna prima comprendere gli elementi che più la influenzano. Capire l’industria cominciando da alcune parole: ristrutturazione, esportazione, filiera, rete d’impresa, distretto, retail e sindacato.
Abbiamo alle spalle quattro anni di crisi e il futuro della nostra industria manifatturiera appare ancora, per usare un eufemismo, incerto. Ma più che esercitarsi in previsioni da Cassandra vale la pena tentare di fare il punto su alcune trasformazioni che sono già avvenute e su altre che sarebbe auspicabile che avvenissero. Per comodità del lettore ho scelto alcune parole-chiave, un piccolo lessico della crisi e delle sue conseguenze in quello che rimane a tutti gli effetti uno dei grandi Paesi industriali del Vecchio Continente.
Le reti di impresa possono costituire uno strumento importante. In questo modello il piccolo imprenditore continua a sentirsi protagonista di un processo di sviluppo
Ristrutturazione Una volta le imprese ristrutturavano a fronte di un’emergenza vuoi di mercato vuoi finanziaria. Adesso hanno capito tutti, anche i piccoli imprenditori, che non esiste soluzione di continuità e un’azienda che voglia stare in palla si sottopone a continui check-up. Le tecniche sono le più svariate (e benvenute) ma emerge quasi sempre da parte degli industriali un’estrema attenzione alle competenze. Pur sapendo che la crisi esige di essere spietati nel taglio dei costi, nessuno si è privato del personale “approfittando” della recessione, anzi le difficoltà di oggi hanno accentuato la riflessione sul capitale umano e la sua strategicità. Sulla ristrutturazione è di grande interesse il lavoro di qualche mese fa di Cipolletta-De Nardis, mentre manca una ricognizione sui processi di esternalizzazione e la loro evoluzione. Se ne sente la necessità per fare il punto anche sul rapporto tra industria e professioni. L’affermazione di un terziario Made in Italy qualificato e capace di servire il mercato internazionale (e non solo la propria regione) passa da quella relazione. 021
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02 / FILIERA 03 / EXPORT Filiera La riorganizzazione delle aziende, soprattutto quella che possiamo definire “non difensiva”, non si è certo fermata al perimetro della casa madre, anzi ha investito tutta la filiera della fornitura. Esistono molti casi in cui questo si è rivelato un processo virtuoso sia in termini di efficienza sia in termini di coesione sociale. Di grande interesse è sicuramente il lavoro fatto da almeno tre multinazionali, due del lusso (Gucci e Louis Vuitton) e una della grande distribuzione (Ikea), che in territori diversi hanno stipulato con il mondo della fornitura una forma di partenariato. In qualche caso, vedi la multinazionale svedese, con maggiore attenzione ai costi, negli altri alla qualità. Ciò ha permesso ai fornitori di avere orizzonti di impegno più certi e di poter contare su interventi della grande azienda tesi a razionalizzare o a innovare questo o quel punto del ciclo produttivo. Se guardiamo alle esperienze italiane è interessante osservare quei casi in cui è stato l’elemento immateriale a rimotivare la filiera e a innovarla. Penso al salone del Mobile di Milano e ai piemontesi di Slow Food. 022
Export Qualcuno in campo sindacale ha avuto la leggerezza di sostenere che avremmo (colpevolmente) adottato un modello export led. Magari! In realtà non si può dire certo che il sistema si è mosso secondo un principio canonico ma di fronte alla stagnazione della domanda interna la strada dei mercati esteri è parsa l’unica carta da giocare fino in fondo. Se proprio volessimo essere fiscali potremmo dire che ce ne saremmo dovuti accorgere prima perché se la Germania esporta più di noi nel settore alimentare, senza voler dir nulla di male su birra e wurstel, vuol dire che ci siamo addormentati sui facili allori e non abbiamo spremuto tutto il potenziale di export della nostra cultura industriale nel campo del food. Ciò che di importante è avvenuto riguarda l’atteggiamento tenuto di fronte al cambio dei mercati; la relativa debolezza delle economie occidentali e la spinta dei BRICS avrebbe potuto tagliarci le gambe e invece la capacità di adattamento è stata più forte del trauma e qualche risultato importante nei nuovi mercati l’abbiamo messo a segno.
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Y=C+X-M Il modello economico dell’export led, introdotto negli anni Settanta, sostiene che la domanda esterna (misurata in esportazioni) generi lo sviluppo locale attraverso effetti moltiplicatori sul reddito e sull’occupazione. Le esportazioni come propulsore della crescita di un sistema economico.
04 / RETI DI IMPRESA
Reti di impresa Le polemiche sul nanismo delle imprese italiane come ostacolo insormontabile alla crescita lasciano il tempo che trovano e comunque non ci consentono di fare un solo passo in avanti. Le reti di impresa, la via dolce alle aggregazioni, invece possono costituire uno strumento importante. In questo modello il piccolo imprenditore continua a sentirsi protagonista di un processo di sviluppo e non gli viene chiesto di farsi brutalmente da parte, come faceva uno studio presentato da Confindustria qualche anno fa e che era stato catalogato sotto il nome di “T holding”. Ad oggi sono circa duemila le imprese che in qualche modo si sono messe già in rete ma è poco, troppo poco. Non tutte le associazioni di rappresentanza si sono impegnate come avrebbero dovuto e i ritardi si vedono. Alcune banche avevano promesso di aiutare il processo di aggregazione riconoscendo una sorta di rating premiale a chi collaborava per far aumentare la taglia aziendale, però in periferia di tutto ciò è
arrivato ben poco e l’impressione è che le banche abbiamo più la tendenza a investire in campagne di comunicazione pro-PMI più che ascoltare davvero il territorio. Anche la relazione banca-impresa non riesce oggi a esprimere tutto il suo valore potenziale e sconcerta come questo tema non sia oggetto di un’attenta e autocritica valutazione da parte dell’ABI.
Nella nostra cultura industriale il culto del prodotto si è tradotto troppo spesso nella dimenticanza dello scaffale; non basta sfornare delle belle cose ma bisogna farle arrivare nel posto giusto al momento giusto 023
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06 / RETAIL
05 / DISTRETTI 07 / SINDACATI
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Distretti Il sistema distrettuale italiano sembra aver retto agli urti della recessione, anche se non in modo omogeneo. Qualche territorio ha pagato duramente i suoi ritardi nell’innovazione e nel riposizionamento di mercato (vedi le sedie friulane), altri hanno saputo rispondere colpo su colpo. Penso sicuramente a Sassuolo che cerca di coniugare piastrelle e green economy, penso alla concia di Arzignano che ha tagliato i tempi di produzione e ha iniziato a sviluppare un prodotto moda. Secondo la Fondazione Nord Est i distretti però sono chiamati a diventare “dis-larghi”, ad allungarsi sul territorio, rompendo chiusure localistiche, e a prolungare le proprie reti all’estero. Ce la faranno? La risposta sta nella capacità di ri-specializzarsi, ovvero di coltivare il segmento o la nicchia di mercato più tradizionale, ma al tempo stesso introdurre novità di prodotto o di concept. Anche in questo caso manca forse una ricognizione puntuale di quanto stia avvenendo. Retail È una materia nella quale noi italiani non andiamo bene come dovremmo. Del resto se fossimo stati bravi nel capire la forza negoziale della distribuzione (a valle) rispetto alla produzione (a monte) non avremmo aspettato che gli svedesi creassero la multinazionale del mobile beffando i maestri italiani. Nella nostra cultura industriale il culto del prodotto si è tradotto troppo spesso nella dimenticanza dello scaffale, non basta sfornare delle belle cose ma bisogna farle arrivare nel posto giusto al momento giusto. I nostri cugini francesi in materia potrebbero insegnarci molto. I gruppi italiani della grande distribuzione non paiono oggi in grado di andare all’estero come hanno fatto Auchan e Carrefour, e ci mancano quindi delle moderne trading company che possano fare da portaerei del Made in Italy. Sono sorte esperienze interessanti come Eataly nel “food” ma siamo ancora molto al di sotto delle necessità e i tempi non giocano a nostro favore.
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Sindacati Se mettiamo da parte il caso Fiat, assolutamente eccentrico, è sempre più evidente che esistono in Italia due sistemi di relazioni industriali. Uno romano e l’altro territoriale. Il primo vive di interviste più o meno roboanti, di mediazioni all’interno delle singole confederazioni, di un dibattito dominato dalla necessità di sfornare sempre nuove leggi. Senza il tavolo della concertazione il sindacalismo romano ha perso il suo core business, fatica a cambiare mentalità e si agita per segnalare quantomeno la sua presenza. È un associazionismo degli apparati. Esiste poi sul territorio una realtà di contrattazione articolata silenziosa, unitaria, collaborativa. Sovente il sindacalismo territoriale non invia a Roma nemmeno gli accordi che chiude in azienda per paura che qualche funzionario centrale emetta il suo potente “Niet!”. Dentro questa molteplicità di accordi ci sono molte novità, a cominciare dal peso che sta assumendo il welfare aziendale sulla spinta dell’esempio Luxottica. Ma sono interessanti anche le soluzioni che di volta in volta vengono trovate in materia di lotta all’assenteismo, remunerazione del merito, premialità, produttività. È dai territori che può nascere un sistema di relazioni industriali più moderno e utile alla ripresa. PS: Se alle analisi più o meno ideologizzanti sul futuro della nostra industria sostituiamo la ricognizione dei fenomeni, il terreno diventa subito fertile. Chi sarà arrivato alla fine di questo articolo abbia la compiacenza di considerarlo solo un antipasto.
I distretti sono chiamati ad allungarsi sul territorio, rompendo chiusure localistiche, e a prolungare le proprie reti all’estero. Ce la faranno? 025
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contesti
UN’ITALIA PIÙ MODERNA, EUROPEA, COMPETITIVA articolo di Corrado Passera
«Il cambiamento del nostro Paese è appena iniziato. Abbiamo tracciato un percorso chiaro con misure che potevano essere prese con le scarse risorse e lo scarso tempo a disposizione e già oggi abbiamo un’Italia più moderna, più europea, più competitiva. Ora bisogna andare avanti». Nell’ultimo anno l’Italia si è dimostrata un interessante e, per molti versi, efficace laboratorio tra i Paesi dell’Unione Europea e nel mondo. A fine 2011 eravamo un Paese che stava pericolosamente scivolando verso una crisi potenzialmente drammatica, tanto da rischiare di perdere la sovranità nazionale. Oggi, dopo un anno di intenso lavoro, abbiamo riacquistato la credibilità internazionale tornando a svolgere un ruolo di primo piano dentro l’UE e su tutti i principali tavoli globali. Il governo Monti è riuscito a realizzare il profondo cambiamento del nostro Paese intervenendo con decisione e attraverso riforme strutturali – come la modernizzazione del sistema pensionistico e la riforma fiscale – e mettendo innanzi tutto in sicurezza i nostri conti pubblici. Questo risultato fondamentale è stato possibile grazie all’impegno di tutti – governo, parlamento, parti sociali – e al senso di responsabilità mostrato dai cittadini italiani. Fin dal primo atto del nostro governo, il Salva Italia, abbiamo cercato di portare avanti in modo congiunto politiche di rigore e riforme orientate alla crescita. Nel corso di questi mesi abbiamo via via attuato una vera e propria agenda per la crescita sostenibile, che ha toccato e innovato i principali elementi che costituiscono le debolezze strutturali del nostro sistema economico e le principali 026
leve che possono rendere più competitivo il nostro Paese e quindi più capace di crescere e creare occupazione. Tanti nodi sono venuti al pettine tutti insieme a causa di troppi anni di inazione. L’Italia può tornare a crescere risolvendo – come si sta facendo – i problemi accumulati e sfruttando i numerosi nostri punti di forza. La nostra economia è molto diversificata e non ha fatto l’errore di trascurare tutto a favore dei soli servizi. Non a caso continuiamo a essere il secondo Paese manifatturiero europeo dopo la Germania e uno dei principali esportatori del mondo. L’Italia è leader mondiale in settori che non potranno che avvantaggiarsi della globalizzazione, come la meccanica e l’automazione, l’agroalimentare, il sistema moda, il sistema casa. Ma prospettive positive vengono da vari altri comparti di nostra tradizionale forza come il turismo e il mondo della salute. Non ci mancano le energie imprenditoriali, il debito privato – sia delle famiglie, sia delle imprese – è contenuto, mentre la ricchezza complessiva delle famiglie italiane e la capacità di risparmio, anche se più ridotta, costituiscono elementi di forza. Il nostro sistema bancario è più solido che altrove e non ha comportato né operazioni di salvataggio né oneri per i contribuenti attraverso entrambe le crisi finanziarie. A differenza di molti altri Paesi non ab-
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biamo da smaltire bolle finanziarie o immobiliari. Partendo da queste basi, abbiamo iniziato a creare un Paese più moderno e competitivo, dotandolo di un ecosistema di norme più orientato a cogliere le nuove sfide dei mercati internazionali. Tra gli svantaggi competitivi ai quali abbiamo messo mano in modo significativo, possiamo menzionare i costi energetici, il gap infrastrutturale, la mancanza di liquidità e di credito soprattutto per le piccole e medie imprese e l’eccesso di burocrazia. Energia: la liberalizzazione del mercato del gas e la separazione proprietaria di SNAM da ENI, la riforma del sistema di incentivazione delle fonti rinnovabili sono già realtà e costituiscono punti qualificanti della nuova Strategia Energetica Nazionale. Attraverso la SEN – oggi in consultazione – abbiamo tracciato la strada che il nostro Paese dovrà percorrere sul fronte delle politiche energetiche da qui al 2020, riducendo sensibilmente la bolletta energetica e la dipendenza dall’estero. Infrastrutture: abbiamo completamente riformato la normativa di settore, introducendo semplificazioni radicali e accelerando i tempi di approvazione e realizzazione delle opere. Tramite il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) abbiamo sbloccato risorse per quasi 40 miliardi di euro, aprendo o mantenendo aperti tanti cantieri e migliaia di posti di lavoro. Grazie all’introduzione dei project bond abbiamo dotato il Paese di uno strumento finanziario innovativo che ci consentirà, insieme ad altre misure, di attrarre capitali 028
privati nella realizzazione di opere strategiche. Credito e liquidità: è uno dei fronti su cui abbiamo lavorato fin dall’inizio, mettendo a disposizione delle imprese 20 miliardi di garanzie su credito tramite il Fondo Centrale di Garanzia dello Stato, dando la possibilità alle aziende di compensare debiti e crediti con la pubblica amministrazione e introducendo il regime dell’IVA per Cassa. Dal 1 gennaio 2013 ogni nuovo pagamento di fornitura dovrà avvenire entro massimo 60 giorni per effetto della direttiva europea sui pagamenti che, primi tra i grandi Paesi europei, abbiamo recepito lo scorso novembre. È certamente un passo avanti importante per rendere il nostro Paese più “normale”. Burocrazia: lavorando soprattutto con le associazioni di categoria, abbiamo varato un’importante serie di semplificazioni per cittadini e imprese. Su questa strada bisogna continuare ancora e ancora, alleggerendo sempre più il peso dello Stato laddove esso non è necessario, eliminando inutili intermediazioni e diritti di veto oggi molto diffusi e chiarendo bene il chi fa che cosa in un assetto istituzionale molto più leggero dell’attuale. Nel corso dell’anno abbiamo lavorato intensamente anche per consolidare le due principali leve di sviluppo imprenditoriale quali l’internazionalizzazione e la capacità di innovare. Per questo abbiamo fortemente riformato e messo a sistema gli strumenti necessari per accompagnare le imprese sui mercati esteri, che ora lavorano sotto il coordinamento di una cabina di regia presieduta dal ministro degli Esteri e da quello dello Sviluppo econo-
un’italia più moderna, europea, competitiva
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Abbiamo iniziato a creare un Paese più moderno e competitivo, dotandolo di un ecosistema di norme più orientato a cogliere le nuove sfide dei mercati internazionali. mico e partecipata, finalmente, da tutti i protagonisti che per tanti anni si sono mossi non sufficientemente coordinati: il Ministero dell’Agricoltura e quello del Turismo con l’ENIT (Ente Nazionale Italiano del Turismo), le principali associazioni di categoria, le Regioni, le Camere di commercio. L’ICE (Istituto per il Commercio con l’Estero) è stato ricostituito su basi nuove e con una mission ben definita. Abbiamo inoltre avviato la razionalizzazione delle nostre reti estere, attraverso una maggiore integrazione fra le ambasciate, i consolati, le sedi dell’ENIT, le Camere di commercio e la stessa ICE. Per attrarre gli investimenti dall’estero è stata prevista la costituzione del cosiddetto “Desk Italia”, ovvero di un punto di accesso unico per gli investitori internazionali. La stessa operazione di coordinamento a livello di sistema sta avvenendo ora sulla parte finanziaria del supporto all’internazionalizzazione e in questa luce va visto il passaggio alla Cassa depositi e prestiti sia di SACE, sia di SIMEST. Sul fronte innovazione sono attualmente alla valutazione del parlamento due strumenti di rilevante importanza: l’Agenda digitale italiana e la valorizzazione delle start-up per aprire una nuova frontiera del “fare impresa”. L’Agenda digitale rappresenta un riferimento di politica industriale attraverso l’innovazione. Azzeramento del divario digitale, avvio dei servizi a banda ultralarga, servizi digitali della PA a cittadini e imprese sono i capisaldi di questa importante riforma di respiro europeo. Per quanto riguarda le start-up, abbiamo creato un contesto normativo tra i più avanzati e favorevoli
per la nascita di imprese innovative: burocrazia e costi iniziali molto ridotti, agevolazioni per i primi quattro anni di attività, con annessi incentivi fiscali, un contratto di lavoro più snello e flessibile, possibilità di coinvolgere i collaboratori nel capitale dell’azienda, raccolta di fondi anche on-line, un diritto fallimentare che permetta più facilmente all’imprenditore di ripartire. Gli artigiani possono essere al centro di questo nuovo paradigma. Combinare il saper fare del Made in Italy con la tecnologia è una delle strade di sviluppo del manifatturiero. Su questo l’Italia ha molte carte da giocare. Su questa strada intendiamo andare avanti e, appena le risorse lo consentiranno, riteniamo importante dotare il nostro sistema imprenditoriale di un credito d’imposta che favorisca gli investimenti nelle attività di ricerca e innovazione. Infine, altro risultato positivo da segnalare è l’accordo raggiunto alcune settimane fa dalle parti sociali sulla produttività. Un’intesa importante, che contribuirà a recuperare uno spread che nel corso degli ultimi anni si è enormemente ampliato. Il governo ha messo a disposizione quasi 2,2 miliardi per detassare la parte di salario legata alla produttività a dimostrazione dell’importanza che attribuiamo ai contratti aziendali che aumentano la produttività. Il cambiamento del nostro Paese è appena iniziato. Abbiamo tracciato un percorso chiaro con misure che potevano essere prese con le scarse risorse e lo scarso tempo a disposizione e già oggi abbiamo un’Italia più moderna, più europea, più competitiva. Ora bisogna andare avanti. 029
In
intervista
LA VITALITÀ DELL’ITALIA CHE PRODUCE intervista ad Alberto Quadrio Curzio, di Paolo Piacenza
C’è ancora tanta vitalità nell’Italia industriale. Nonostante la recessione e la concorrenza sempre più spietata in arrivo dall’Est. Non caso, l’Italia resta al quinto posto tra le economie del G20 per surplus commerciale di manufatti industriali non alimentari, dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud.
In questa intervista rilasciata a Oxygen, Alberto Quadrio Curzio – presidente della Classe di Scienze morali, storiche e filosofiche dell’Accademia dei Lincei e del Centro di ricerche in analisi economica (CRANEC) dell’Università Cattolica – smentisce un po’ di luoghi comuni sulla salute dell’industria nazionale, ma ribadisce che per l’Italia la direzione da intraprendere non può che essere quella indicata dall’Unione Europea: più ricerca, infrastrutture ed energia. In pratica, un contesto più favorevole a chi produce. Quadrio Curzio ha da poco pubblicato per i tipi del Mulino, nella collana della Fondazione Edison, un volume a due mani con Marco Fortis intitolato L’industria nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Paradigmi e protagonisti. Un’analisi di lungo periodo, molto utile per ricostruire un quadro di corrette proporzioni.
Quale disegno emerge, professore? E cosa è oggi l’industria in Italia? Da questa analisi emerge innanzitutto che l’industria italiana ha contribuito non solo al progresso economico e sociale, ma anche a quello politico-istituzionale lungo le direttrici di grandi personalità, da Quintino Sella a Giuseppe Colombo. Dal Risorgimento a oggi la situazione è ovviamente molto mutata. In particolare nella seconda parte del Novecento il capitalismo industriale italiano si è modificato con una rarefazione dei grandi gruppi privati e pubblici e con il successivo affermarsi delle piccole imprese e dei loro distretti. Più recentemente si sono affermate le imprese medie e medio-grandi, note anche come “quarto capitalismo”. L’industria è però rimasta la parte più competitiva dell’economia italiana.
Ci sono settori che soffrono di più e altri di meno: quali sono? E come evitare di perdere pezzi di patrimonio produttivo e il passo rispetto ad altri Paesi? I punti di forza dell’Italia sono costituiti, in base ai surplus commerciali, dalla meccanica, dall’alimentare, dall’arredo, dal tessile e abbigliamento e dal design. Su questi prodotti manifatturieri s’è coniato il termine-concetto “Made in Italy” che oggi potrebbe essere affiancato da quello di “Italy Made”, perché molte imprese italiane sono forti anche nella produzione all’estero, ma non per questo hanno perso la loro caratterizzazione italiana. Se l’Italia vuole rimanere tra i grandi del mondo nella manifattura, la crescita dovrà fondarsi sempre più sulla qualità, che nelle dimensioni medie di impresa trova la sua forza perché le piccole imprese da sole non
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ce la possono fare. L’Italia è oggi una delle cinque economie del G20 con un surplus commerciale per i manufatti industriali non alimentari, dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud. Non deve perdere questa posizione. Alcuni distretti continuano a dimostrare una certa vivacità. Possiamo considerarli fondamentali per l’Italia anche agli inizi del XXI secolo? Il distretto come sistema territoriale socio-economico può ancora reggere, ma deve essere affiancato anche da reti di impresa che sono distretti a-territoriali costruiti su complementarietà settoriali o intersettoriali. Questo per accrescere le dimensioni funzionali senza rinunciare alla soggettività di impresa che molto preme agli imprenditori. Le norme del 2009, recentemente perfezionate dal governo, sono molto utili a tali fini. Credo che le difficoltà italiane per far crescere le dimensioni d’impresa possano essere – se non superate – almeno attenuate. In particolare quando “al centro” delle “reti di impresa” previste dalla normativa c’è una impresa medio-grande. Nel confronto con la Germania quali fattori metterebbe in luce? L’Italia del Nord-Est-Centro (NEC, come la chiamava Fuà) ha una vocazione industriale molto simile alla Germania, pur differenziandosi dalla stessa per il fatto che non possiede molti grandi gruppi. Tuttavia, il nostro Paese è dualistico. Più precisamente il Nord-Ovest (con 1,7 milioni di addetti nel 2007) e il Nord-Est (con 1,3 milioni di addetti) sono le prime due macro-regioni manifatturiere dell’Unione Europea. Hanno più occupati della Renania-Westfalia, del Baden-Würtenberg o della Baviera. Numeri impressionanti e che smentiscono molti luoghi comuni. Ben diverso è il contesto economico e giuridico in cui devono operare le imprese dei due Paesi. Più che concentrarmi su un’analisi comparativa vorrei cercare di delineare i margini di miglioramento. Come emerso nel recente report della Commissione Europea (Member States Competitiveness Performance and Policies 2012 e allegati) tra i fattori di appesantimento ci sono l’inefficienza della pubblica amministrazione, della giustizia civile, la corruzione e le frodi. Sono tutti fattori che ci collocano al di sotto delle media della UE. Oltre al pesantissimo fardello fiscale, scontiamo un altro onere: per la qualità delle infrastrutture l’Italia si colloca tra i peggiori all’interno dell’Unione. Questo problema ha ovvie ripercussioni sulla competitività industriale. 032
Un punto debole è la ricerca, pubblica e privata: ci sono eccezioni, ma il quadro complessivo non è incoraggiante. È un problema solo di risorse, o anche di strategia e di coraggio? Secondo i dati Istat disponibili, la spesa per ricerca e sviluppo intra-muros negli ultimi anni (2006-2011) si aggirava intorno ai 17-19 miliardi di euro. Più della metà della spesa è stata sostenuta dal settore imprese. Detto questo, è importante collocare l’Italia nel contesto europeo. L’Italia, nel complesso, spende in ricerca e sviluppo l’1,26% del PIL (dato 2010). La media dell’Europa dei 27 è del 2%, con alcuni Paesi scandinavi che raggiungono picchi di oltre il 3,5%. Altri grandi Paesi europei, come la Germania e la Francia, si attestano a livelli ben più alti rispetto all’Italia: rispettivamente 2,82% e 2,26%. Il problema delle poche risorse investite in R&S è una costante per l’Italia. Tra il 2005 e il 2010 la percentuale di spesa sul PIL è passata dall’1,09% all’1,26%. Nello stesso periodo la media UE è passata dall’1,83% al 2%. Progressi troppo modesti per rispettare gli obiettivi della strategia “Europa 2020” che fissa il target del 3% (essendo 1,53% quello italiano). È necessario un cambiamento perché senza investimenti in ricerca e sviluppo non sarà possibile né riprendere il sentiero della crescita, né mantenere la competitività rispetto a Giappone, Cina e altri Paesi emergenti. Ma avendo poche risorse, il cambiamento deve essere nell’uso delle stesse e quindi passare attraverso una forte selettività della spesa. Passiamo al ruolo del pubblico e al peso dei fattori macroeconomici. L’azione di risanamento dei conti del governo italiano e le scelte della BCE sembrano aver avviato un positivo cammino di riduzione del rischio finanziario: quanto e come pesa il contenimento dello spread per l’industria italiana? Come sappiamo la crisi è nata e cresciuta negli USA. E tra il 2008 e il 2009 Eurolandia (UEM) credeva che la crisi rimanesse lì. Nel 2010-11 ne è invece stata investita in pieno. Soltanto quest’anno hanno preso forza nella UEM molte innovazioni costruite faticosamente dal 2008. Molte sono state le carenze del quadro istituzionale sia europeo sia italiano. Tutto ciò si è riflettuto anche sulle variabili macroeconomiche. Ora s’intravede una tenue luce in fondo al tunnel, ma c’è ancora molto da fare per uscire dalla crisi. Non è sufficiente che i tassi di interesse e gli spread ita-
5° PAESE DEL G20 per surplus commerciale sui manufatti non alimentari
30 MILIONI di addetti alla manifattura nel Nord Italia
PRIMATO UE Nord-Est e NordOvest sono le prime due macro-regioni manifatturiere dell’UE
Se l’Italia vuole rimanere tra i grandi del mondo nella manifattura, la crescita dovrà fondarsi sempre più sulla qualità, che nelle dimensioni medie di impresa trova la sua forza perché le piccole imprese da sole non ce la possono fare
la vitalità dell’italia che produce
liani (e altri) siano scesi. Certamente, avere uno spread attorno ai 350 punti base, da un picco di circa 550, è anche un risultato del governo Monti, che ha ridato credibilità all’Italia in Europa. Inoltre per merito di Mario Draghi sono stati dati segnali importanti ai mercati. L’iniezione di liquidità della BCE per 1000 miliardi con gli interventi LTROs (Long Term Refinancing Operations) e poi le prefigurate OMT (Outright Monetary Transactions) hanno ridato stabilità al sistema bancario e finanziario della UEM. Rimane ancora il problema del credito alle imprese. L’austerity però non basta: lo dicono le imprese e lo dice anche la Commissione Europea che ha da tempo indicato la necessità di puntare sul risveglio degli investimenti a lungo termine per infrastrutture di trasporto, logistica, intermodalità, energia, banda larga e reti mobili di nuova generazione. Tutto ciò servirebbe all’industria italiana? Ritengo che sia immediatamente indispensabile una strategia attiva che deve poggiare su due pilastri: infrastrutture e industria. Innanzitutto, il completamento e il potenziamento delle reti infrastrut-
turali, non solo del trasporto di beni e persone, ma anche dell’energia e dell’infotelematica, è essenziale per avviare la crescita. La priorità dunque – per l’economia tutta e per rilanciare l’industria – sono gli investimenti in infrastrutture strategiche. La Commissione Europea ha stimato le necessità di finanziamento per gli anni e decenni a venire. E sono enormi: per l’energia 1000 miliardi entro il 2020; per i trasporti 1500 miliardi tra il 2010 e il 2030 di cui 500 entro il 2020; per le telecomunicazioni e la banda larga 270 miliardi entro il 2020. Apprezzabili sono dunque le iniziative della Commissione, come il “Connecting Europe Facility” e la “Europe 2020 Project Bond Initiative”, in cui la Banca europea per gli investimenti ha un ruolo fondamentale. Agli investimenti infrastrutturali andrebbero affiancati anche quelli che riguardano l’industria europea. Secondo la comunicazione Un’industria europea più forte per la crescita e la ripresa economica della Commissione Europea, l’industria dovrebbe collocarsi al centro del piano di crescita europeo. L’obiettivo è portare il peso dell’industria europea dall’attuale 15,6% al 20% del PIL entro il 2020 attraverso queste direttrici:
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investimenti e innovazione, espansione del mercato (interno e internazionale), accesso al credito e ai finanziamenti, capitale umano e competenze. Altro nodo importante è l’annunciato piano energetico nazionale. Cosa deve chiedere l’industria italiana al governo? L’Italia necessita di una strategia energetica nazionale collocata nel contesto europeo ed internazionale dove operano le sue principali imprese del settore energetico. Nel rispetto delle norme sulle liberalizzazioni vi è un problema di sicurezza energetica che non può mai essere trascurato. Per questo il fatto che Enel ed Eni siano rimaste nella sfera di controllo dello Stato è importante così come lo è il fatto che gli amministratori di queste imprese siano stati confermati da governi a diversa maggioranza. Segno che anche la loro credibilità internazionale è significativa. In ogni caso per il problema energetico italiano sono da tenere ben presenti i profili geo-economici per lo sviluppo di reti trans-europee e di approvvigionamento attraverso il Mediterraneo allargato fino al Medio Oriente. 033
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Op
opinioni
Tweet & Quotes a cura di oxygen
«Il mio piano per i prossimi quattro anni è questo: fare dell’istruzione e della formazione una priorità nazionale; incrementare il boom dell’industria; incentivare la produzione di energia Made in America. Questa è la strada da seguire» Barack Obama
«Da dove arriveranno le opportunità di lavoro? Dalle piccole imprese, dall’industria e dall’energia pulita» Bill Clinton
«Se l’attività economica si sposta dalla produzione alla creazione di conoscenza e servizi, l'innovazione diventa strategia di sopravvivenza» @JeremyScrivens
TWITTER TRENDING TOPICS — All time: Manufacturing: 2.037.967 Industry: 14.332.383 Innovation: 6.465.618
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«È in corso una terza rivoluzione. La produzione sta diventando digitale» @TheEconomist
«Ora che CAD sono così facili da usare, la nuova frontiera è il Design for Manufacturing. È ciò che trasforma un maker in un produttore» @chr1sa (Chris Anderson)
«Non importa se il Dow Jones è a 5000 o 50.000. Se sei un imprenditore, è sempre un buon momento per fondare un’azienda» @GuyKawasaki
«Incoraggiare le discussioni nel mondo dell’industria è un buon modo per aprire le porte all’innovazione» @AmadeusITGroup
«Imprese e start-up emergenti stanno guidando l'innovazione industriale» Som Mittal (presidente NASSCOM)
«Il futuro non è delle General Motors, General Electric, General Mills, ma di aziende chiamate Local Motors, Local Electric, Local Mills» @doctorow (Cory Doctorow)
«L’Italia è la seconda nazione manifatturiera d’Europa dopo la Germania, ma se non avessimo costi di produzione e tasse così elevate forse saremmo la prima» Vincenzo Boccia (vicepresidente Confindustria e presidente Piccola Industria)
«Contaminare la grande industria con la cultura della start-up» @fullo
«La manifattura Italiana aiuta la microimpresa a salvaguardare una filiera d’eccellenza del Made in Italy» @GiornaleLusso
«Ora che l’industria sta vivendo una fase di rinascita, in America le aziende manifatturiere prosperano» @NBCNews
«In 20 anni, nel tempo di una sola generazione, possiamo raddoppiare il PIL. È la nostra scommessa di imprenditori» Jacopo Morelli (vicepresidente di Confindustria e presidente dei Giovani Imprenditori)
«Meno burocrazia, più incentivi all’avvio di nuove imprese. Non si potrà uscire dalle attuali difficoltà senza iniziare a investire veramente sulle giovani generazioni» Alessandro Benetton
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Sc
scenari
L’industria nella competizione globale articolo di Carlo Marroni
I principali Paesi industrializzati si muovono in cerca di soluzioni alla crisi; alcuni stanno rallentando, altri esplorano nuovi territori. Una panoramica sui settori sui quali si concentrano e sulle interconnessioni globali che li condizionano.
Una notizia è passata quasi inosservata, nei mesi recenti. La più grande libreria del mondo, l’americana Barnes&Noble che conta ben 689 negozi, ha evitato di segnare nel proprio bilancio un calo delle vendite grazie al boom della trilogia sulle Cinquanta Sfumature. Quasi 30 milioni di copie, i volumi più venduti nella storia recente, più dell’allora considerato inarrivabile Henry Potter. Un caso? Forse. Ma di certo segnala anche un fenomeno economico che viene studiato non solo da chi si occupa di libri (che gioisce, visto che i lettori in libreria per acquistare ci vanno ancora). La globalizzazione ha appiattito il mondo, come descrisse bene anni fa Tom Friedman, ha permesso di livellare i divari e accelerare la diffusione delle tendenze. Nel bene e nel male: prima la crescita, poi la crisi. Che dal 2007 – anno di massima espansione complessiva nel dopoguerra per l’intero pianeta – sta dilagando progressivamente nelle pieghe più profonde dell’economia reale. Ma la globalizzazione ora rende anche più nitide le eccellenze, quelle da cui l’economia generale e i suoi segmenti trasversali (distretti, nazioni, macroaree, continenti) produrranno l’innesco per la ripresa. Come in qualche modo è avvenuto per la più grande libreria d’America, che dall’esperienza delle Sfumature trarrà una lezione per il proprio futuro imprenditoriale. E proprio dagli Stati Uniti – da dove il ceppo della crisi si è sviluppato con la crisi dei mutui, inizialmente sottovalutata a Wall Street e Washington, ma anche e soprattutto in Europa proprio per la specificità americana di questi prestiti ipotecari “facili” – sembrano arrivare i segnali di una ripresa, sia del PIL sia dell’attività immobiliare. Ma tutti avvertono che si tratta una recovery fragile e tiepida, visto che deve smaltire l’indigestione debitoria del 036
decennio 1995-2006 che appesantisce le famiglie americane, il reale motore di un sistema basato per oltre il 70% sui consumi interni. La spinta per ora arriva dalla spesa governativa, mentre gli utili della Corporate America deludono gli azionisti. Gli analisti sono concordi: la locomotiva USA riprenderà a muoversi solo con un progressivo calo della disoccupazione, che in alcuni segmenti – come l’edilizia – dovrà passare per una riqualificazione, visto che un riassorbimento non pare probabile. La prospettiva più concreta per l’economia americana è il rientro in patria nel breve termine di unità produttive che anni fa erano state delocalizzate, soprattutto in Cina. Ora produrre nell’ex Impero di Mezzo non è più così conveniente. Anzi. E accanto all’attività manifatturiera e quella dei servizi, in America si conta molto sul forte incremento delle entrate derivante dall’industria estrattiva di idrocarburi, specie collegata allo shale-gas, che sta rendendo gli Stati Uniti quasi autosufficienti nell’approvvigionamento di gas naturale. E poi la Cina. Le prospettive della seconda potenza economica al mondo sono centrali per i destini di quasi tutte le aree del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’estremo oriente al Sudamerica, alcune delle quali appartenenti al ristretto club dei BRICS, il gruppo di nuove economie (Brasile, Russia, India e Cina, cui si è aggiunto il Sudafrica) – a cui si può associare a diverso titolo la Turchia – che hanno trainato la crescita negli ultimi dieci anni. Ora tutti stanno rallentando inesorabilmente, e ognuno cerca di trovare una sua strada originale ed efficace per evitare che la crescita tumultuosa si tramuti in una bolla. La Cina dall’inizio dell’anno sta crescendo a un tasso inferiore all’8%: una percentuale da capo-
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Brasile: automobili
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Cina: clean technology
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Russia: industria hi-tech
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Stati Uniti: shale gas
3,31 milioni di auto prodotte nell’ultimo anno
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Tra il 2010 e il 2011: +29% di investimenti
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653 miliardi di mc di gas prodotti nel 2011
300.000 persone lavorano nell’industria high-tech in Russia
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giro per l’Occidente, ma che da quelle parti vuol dire quasi ristagno se si pensa che (dati FMI) nel fatidico 2007 aveva messo a segno un +14%. Il tutto si è tradotto in una vorticosa ascesa del costo del lavoro, tanto che anche le imprese cinesi ormai per i nuovi investimenti delocalizzano in Vietnam e Birmania. Il nuovo piano quinquennale, che accompagnerà il congresso del partito a fine anno da dove uscirà la nuova leadership per il decennio a venire – guidata da Xi Jinping –, punterà sempre più su produzioni ad alto valore aggiunto (e meno a basso costo) e al contempo su una strategia meno orientata all’export e più al soddisfacimento della domanda interna. In particolare, data anche la cronica scarsità di materie prime energetiche rispetto alla domanda, si punterà fortemente sulla produzione di veicoli elettrici e su tutte le tecnologie connesse alla green economy. Accanto alla Cina c’è l’India, che pure ha conosciuto tassi di crescita a due cifre, mettendo in luce particolare le eccellenze sul fronte delle tecnologie informatiche. Ma la forte spinta produttiva non ha saputo colmare il deficit di infrastrutture di cui soffre il subcontinente, che frena il transito delle merci e l’afflusso di investimenti esteri. E infatti la creazione di linee ferroviarie ad alta velocità sarà una delle linee guida della politica economica di Nuova Delhi. Scoraggiati anche dalle enormi difficoltà a fare impresa (è ancora altissima la forza di interdizione dei poteri locali), un eccesso di statalismo e l’arretratezza del sistema commerciale al dettaglio che impedisce l’affermarsi di grandi catene di distribuzione, essenziali per canalizzare le produzioni di altre aree dell’immenso Paese. Il superamento della crisi passa quindi per delle riforme strutturali, che devono tuttavia superare l’ostilità della politica. Anche il Brasile, sempre più potenza energetica ma anche agricola, sta segnando il passo: dopo una crescita vorticosa – nel 2010 toccò il +7,5% – ora la sua economia viaggia a un modesto +1,5%. La causa principale è il rallentamento della Cina, suo mercato di esportazione principale in particolare per le materie prime. Inoltre, come gli altri Paesi BRICS, anche il Brasile deve scontare un incremento del costo della vita e del lavoro che va a cozzare con una struttura produttiva poco elastica, vista la forte presenza dello Stato nell’economia. Inoltre il real è ipervalutato. Il mix di questi fattori sta alimentando la tentazione del governo federale di aumentare i dazi verso l’esterno, evento che tuttavia è considerato improbabile visti i due eventichiave che attendono il Paese: l’organizzazione dei campionati del mondo di calcio nel 2014 e le Olimpiadi nel 2016, da cui è attesa e scontata una spinta al PIL. In ogni caso l’industria dell’auto è uno dei settori di punta su cui Brasilia conta per poter innescare un nuovo circolo virtuoso di crescita. Per quanto riguarda la Russia, anche a Mosca si sta lavorando per diversificare l’economia, troppo dipendente dall’esportazione di petrolio e gas. La sfida per il dopo-crisi è creare una solida struttura industriale ad alto valore aggiunto, in particolare nelle alte tecnologie, come dimostra il progetto per la creazione di Skolkovo, la Silicon Valley russa. 038
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Giappone: green economy
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483 miliardi di dollari in investimenti pianificati per i prossimi 20 anni
Anche il Brasile, sempre più potenza energetica ma anche agricola, sta segnando il passo: dopo una crescita vorticosa ora la sua economia viaggia a un modesto +1,5%
l’industria nella competizione globale
La prospettiva più concreta per l’economia americana è il rientro in patria nel breve termine di unità produttive che anni fa erano state delocalizzate, soprattutto in Cina
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Germania: istruzione industriale
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+11% gli investimenti per la riqualificazione della forza lavoro nel 2012
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La ex seconda economia mondiale, il Giappone, sta vivendo una profonda trasformazione nella sua struttura tradizionale. Le grandi conglomerate (portate ad esempio negli anni Ottanta e inizio anni Novanta) che operavano su praticamente tutte le aree sono da tempo in crisi: la diversificazione su vasta scala non paga più, e la sfida in atto è la rifocalizzazione su specifiche aree di core business. Inoltre l’incidente alla centrale di Fukushima e la conseguente decisione di uscire (perlomeno parzialmente) dal nucleare sta già spingendo le imprese giapponesi a spostare le produzioni nelle stesse aree dove si stanno dirigendo i cinesi. Al contempo è chiara la volontà del governo di puntare sulle tecnologie e le applicazioni delle energie rinnovabili. In Europa, dove l’uscita dalla crisi ha aspetti e dinamiche del tutto peculiari a causa dell’euro, è il fenomeno tedesco a dettare l’agenda anche nel mantenimento della supremazia dell’industria manifatturiera, che pure sta segnando il passo nell’export specie verso la Cina dove per anni ha avuto la supremazia nella gamma alta. In Germania l’eccedenza di risparmio non viene reinvestita nel Paese, e questo impone al sistema industriale (che non può quindi contare su impieghi ingenti di capitale su base domestica) per difendere la competitività deve alzare il livello della produzione interna in termini di qualità, ricerca e innovazione. E in parallelo viene ritenuto indispensabile che vada a buon fine il processo di riqualificazione della forza lavoro attraverso gli investimenti in istruzione (il bilancio federale registra un incremento dell’11% nel 2012 a questa voce), per aumentare la supremazia sul manifatturiero di alta fascia. La Francia sul fronte della ricerca e innovazione interna parte in vantaggio, anche con un modello di delocalizzazione mirata sui mercati che intende presidiare al meglio. Ma Oltralpe la situazione è difficile: la fiducia è in calo, con ordini in flessione e un elevato grado di incertezza, accentuato dalla supertassa sui “super-ricchi”. Inoltre sta entrando in crisi il modello delle grandi catene di distribuzione, tradizionale canale di commercializzazione (anche all’estero) di una consistente fetta di Made in France, specie nell’agroalimentare. Infine il caso Africa: il FMI stima che nei prossimi 30 anni sei delle dieci nazioni a più alto tasso di crescita saranno del continente africano, dove entro il 2060 – stima della Banca Mondiale – si sarà formata una classe media di un miliardo di persone. Quindi oltre a Nigeria e Angola – Paesi “petroliferi” – e il Sud Africa, ormai consolidato nella posizione di locomotiva continentale, saranno da tenere presenti Etiopia, Mozambico e l’intera fascia del Maghreb. Aree che si integreranno sempre più tra loro, con rapporti privilegiati, oltre che con la Cina, con i Paesi MIST (neologismo di recente conio): Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia, quest’ultima nuova frontiera soprattutto nelle telecomunicazioni e i servizi finanziari. Tutti Paesi che – insieme ad altri come Pakistan, Bangladesh, Vietnam e Filippine – hanno una popolazione giovane (e in alcuni casi particolarmente povera) pronta a entrare nella partita della nuova globalizzazione. 039
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Pa
passepartout
Il valore aggiunto dell’industria
8,6% 2,5%
6,5%
28,5% 14,6%
a cura di Oxygen infografica di Undesign
1,8%
L’industria non è più il principale settore economico trainante delle economie mondiali. Ma, anche se con una percentuale più bassa rispetto a quella del terziario, pesa in modo cruciale sul prodotto interno lordo globale (in molti Paesi è responsabile di circa un terzo del PIL). Nonostante i nuovi comparti industriali sui quali le nazioni puntano per risollevare le proprie economie, sono ancora i settori manifatturiero, edile, minerario ed elettrico le forze trainanti nei Paesi del G8. A volte, anche se hanno piccole percentuali se calcolate sul totale del PIL, esercitano un ruolo strategico.
Minerario
0,4% 2,1%
CANADA
1,9%
0,2% 2,6%
2,8% 12,3%
1,5%
19,2% 1,9%
1,7%
3,8%
STATI UNITI
Elettrico
0,3%
% industria
4,6%
0,1% Edile
di cui
Meccanico
3,3% 2,6%
Manifattura 6,1% Tessile
3,4%
27,3% 19,8%
GIAPPONE Alimentare 040
Chimico
REGNO UNITO
RUSSIA
0,4% 2,4%
1,7%
0,3%
2,4% 1,8% 1,8%
2,5%
1,7% 2,6%
21,5%
17,5% 12,4%
6,1%
36,9%
3,2%
5,5% 9,1% 1,6% 10,2% 7,3% 37,1%
GERMANIA
11,5% 2,3% 0,4%
28,6% 6,3% 4,3% 2,9%
24,6%
ITALIA 16,1%
0,2%
3,9%
1,5% 1,2% 0,2%
2%
1,9%
1,9% 1,9% 10,6%
FRANCIA Dati
1,6% 0,1%
18,7% 6,4%
Apporto percentuale al PIL totale Fonti: OECD Stan database Eurostat 2012, CIA The World Factbook World Development Indicators Database
041
Sc
scenari
La quinta rivoluzione industriale articolo di Peter Marsh
Un’analisi sull’imminente rivoluzione del settore manifatturiero, una panoramica sugli insegnamenti delle precedenti rivoluzioni industriali e quelli del presente della crisi economica. E qualche beneficio sociale ed economico che una nuova rivoluzione potrebbe portare con sé.
Gli ultimi dieci anni sono stati tempi bui per le prospettive del settore manifatturiero dei Paesi più ricchi. La storia racconta di una continua perdita di competitività e di capacità produttiva delle fabbriche delle nazioni più sviluppate del mondo. Il risultato è stato un costante spostamento della produzione nei Paesi con salari più bassi, soprattutto in Cina. Tuttavia adesso il mondo è a un passo da una nuova era. Il cambiamento vissuto dall’industria del mondo sviluppato e dei Paesi in via di sviluppo s’invertirà nuovamente, e la produzione dei Paesi ricchi conoscerà una riscossa. Questa nuova tendenza dipende da una molteplicità di fattori legati alla tecnologia, all’economia, alle abitudini dei consumatori, alle reti di distribuzione globali e a internet. Ho definito questo cambiamento la «nuova rivoluzione industriale»1. Questa etichetta è un modo efficace per separare la nuova epoca da altri grandi mutamenti che hanno coinvolto nel passato il settore manifatturiero. La “nuova” rivoluzione è il quinto mutamento storico di questo tipo, come spiegherò tra poco. Al centro di questo passaggio c’è una semplice osservazione: nei prossimi dieci anni la quota totale di produzione dei Paesi 042
ricchi diminuirà, ma a un tasso non paragonabile a quello sperimentato nel decennio passato, e potrebbe persino verificarsi un suo lieve aumento. Ci saranno conseguenze importanti per i leader tradizionali dell’industria mondiale – i Paesi dell’Europa Occidentale, Stati Uniti, Canada e Giappone. Il nuovo periodo coinciderà con un tempo di fiducia crescente nelle imprese di produzione e progettazione stabilite in queste aree. Le opportunità di lavoro nelle imprese in questi Paesi ad alto costo saranno più abbondanti che altrove per un decennio, in particolare per chi ha competenze tecniche di alto livello. La nuova rivoluzione industriale arriva in un momento difficile. Per diversi anni le economie dei Paesi più avanzati hanno mostrato un’estrema fragilità. Questo è dipeso dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e dalle sue conseguenze: l’elevato indebitamento pubblico e dei consumatori e il crollo nella fiducia degli investitori, soprattutto nei Paesi dell’Eurozona. Quindi i politici, gli imprenditori e gli altri operatori del mercato avranno motivo di accogliere di buon grado questo cambiamento, che introdurrà un tempo nel quale l’ottimismo nell’economia comincerà a risalire, dopo un lungo periodo buio.
Dal 2000 al 2011, di tutte le economie emergenti è stata quella cinese a condurre i progressi nell’industria. Progressi che hanno coinvolto – sebbene in grado minore – anche altre tra le nazioni più povere, quali India, Brasile, Russia ed Europa dell’Est. Alcuni dei fattori chiave sono stati i bassi costi di produzione in queste regioni, dovuti principalmente ai salari contenuti. Questo ha incoraggiato molte aziende a spostare lì la produzione, nonostante il consumatore finale fosse occidentale. Allo stesso tempo la domanda crescente per prodotti sempre più sofisticati fabbricati nei Paesi in via di sviluppo ha stimolato maggiori investimenti industriali in queste zone. Il risultato di questo cambiamento è stato un forte incremento nella quantità mondiale di prodotti fabbricati nei Paesi più poveri e meno sviluppati. La cifra è salita dal 24% della produzione complessiva totale del 1990 e dal 27% del 2000 fino al 46% del 2011. Ne consegue che la quantità di produzione industriale del mondo ricco e occidentale ha subito un forte declino, che è stato particolarmente veloce nello scorso decennio. Si è passati dal 76% del 1990 e dal 73% del 2000 al 54% dell’ultimo anno2. Buona parte di questa trasformazione
ORGOGLIO BRITANNICO Nella storia della Gran Bretagna, oggetto della cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Londra 2012 all’Olympic Stadium, non poteva mancare la celebrazione della Rivoluzione industriale. E per ricordarla tra le ciminiere è stato spettacolarmente forgiato uno dei cinque anelli olimpici.
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è dovuta alla Cina. Nel 2000 la Cina era responsabile del 7% della produzione manifatturiera mondiale; nel 2005 il valore era salito al 9,8% e nei sei anni successivi la quota della Cina è raddoppiata fino al 19,8% (nel 2011). Queste cifre proiettano la Cina sopra gli Stati Uniti in termini di quota di produzione industriale. È stata una svolta storica: per la prima volta da più di un secolo, nel 2011 gli Stati Uniti non hanno occupato la prima posizione della classifica mondiale per produzione industriale. La crescita cinese è stata molto più stupefacente di quella di qualsiasi altro Paese del blocco dei mercati emergenti. Durante il periodo 2000-2011 la quota del Brasile nella produzione manifatturiera mondiale è salita dall’1,7% al 2,9%; l’India è passata dall’1,2% al 2,3% e la Russia dallo 0,8% al 2,3%. L’immagine speculare di questi cambiamenti riguarda il mondo sviluppato. La quota degli Stati Uniti nella produzione manifatturiera mondiale è passata dal 27,1% del 2000 al 18% del 2011; nello stesso periodo il Giappone è scivolato dal 18,3% al 10,2%, mentre per la Germania la diminuzione è stata dal 6,9% al 6,4% e per l’Italia dal 3,6% al 3%. Questi numeri necessitano di una contestualizzazione storica. La Cina è diventata il più grande produttore mondiale, risultato che vent’anni fa sarebbe stato quasi inimmaginabile. Ma nel 1800 – per chiunque conoscesse le tendenze economiche globali – era innegabile che la Cina avesse la più grande capacità produttiva. Infatti per molti secoli, fino al 1840 circa, la Cina comandò la graduatoria per nazioni della produzione industriale. Naturalmente all’epoca non si parlava di produzione industriale e anche il termine “fabbrica” era stato a malapena inventato. Quando parlo di “produzione industriale” riferendomi a tempi lontani intendo la fabbricazione di beni materiali derivanti dal lavoro e dalle idee degli uomini. Nel 1800 la quota di produzione cinese raggiungeva il 33%, poco sopra quella indiana. In quell’anno quelle che oggi chiamiamo economie emergenti erano responsabili del 71% della produzione mondiale, mentre il restante 29% toccava alle nazioni del mondo occidentale. È facile capire il perché. Cina, India e le altre nazioni che noi ora etichettiamo come paesi poveri avevano una popolazione ben più numerosa delle altre regioni, come l’Europa Occidentale e il Nord America. Le manifatture allora esistevano solo in una forma ru044
dimentale. I miglioramenti nella produttività associati ai moderni processi industriali – la possibilità di ottenere una maggiore produzione per ogni lavoratore in seguito all’avanzamento tecnologico – dovevano ancora essere concepiti. Per questo motivo la capacità produttiva andava di pari passo con il numero dei lavoratori: una nazione con una popolazione maggiore avrebbe ottenuto una produzione più elevata. Ma il cambiamento era dietro l’angolo. La prima rivoluzione industriale – quella che la maggior parte delle persone chiama la Rivoluzione Industriale – rese possibili grandi incrementi nella produttività delle fabbriche in un’ampia varietà di settori, dal tessile alle macchine utensili. Di conseguenza, le nazioni con meno abitanti e quindi con un minor numero di lavoratori nelle fabbriche, per la prima volta potevano cavarsela meglio del previsto nella produzione industriale. Prima rivoluzione industriale La prima rivoluzione industriale ebbe inizio intorno al 1780. Per quasi cinquant’anni ebbe un impatto dirompente e crescente sul mondo. I suoi effetti più grandi e più immediati si verificarono in Gran Bretagna. La trasformazione che seguì alla prima rivoluzione industriale dipese dalla meccanizzazione della produzione tessile, dalle nuove conoscenze nella metallurgia e dall’avvento della mac-
china a vapore. Questi cambiamenti si trasmisero anche agli altri settori industriali e accompagnarono altri mutamenti di rilievo – per esempio la nascita di nuove forme di organizzazione aziendale, la crescita dei tassi di alfabetizzazione (grazie ai miglioramenti nell’istruzione), i progressi nell’agricoltura e nell’offerta alimentare. La prima rivoluzione industriale – il cui impatto accelerò nel XIX secolo – spiega perché il Regno Unito divenne la principale nazione in termini di produzione industriale poco prima del 1850. Il primato britannico nelle manifatture durò soltanto una cinquantina di anni: intorno al 1895, il Regno Unito fu scalzato dagli Stati Uniti, che restarono in vetta fino al 2011. Il ruolo britannico di leader nella produzione industriale – al suo massimo, nel tardo Ottocento, il Paese era responsabile del 15-20% della produzione industriale mondiale – fu dovuto anche alla seconda e alla terza rivoluzione. Entrambe riguardarono soprattutto la Gran Bretagna (benché altri Paesi come Germania, Francia e Stati Uniti avessero giocato un ruolo di rilievo). Seconda rivoluzione industriale La seconda rivoluzione fu quella dei trasporti e delle comunicazioni. Cominciò intorno al 1850 e portò a un progresso dell’ingegneria navale, alla comparsa della ferrovia (alimentata in origine dal vapore) e all’invenzione del telegrafo.
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Terza rivoluzione industriale La terza rivoluzione introdusse un alto numero di cambiamenti dovuti al nuovo pensiero scientifico; le discipline chiave furono la matematica, la chimica e la fisica. Questa trasformazione si manifestò dal 1890 in poi, e permise per la prima volta di poter disporre dell’elettricità “su ordinazione”. Questo nuovo tipo di energia fu in grado di alimentare una moltitudine di processi industriali. Inoltre vi furono cambiamenti nelle tecnologie produttive che portarono – tra le tante cose – a un acciaio meno costoso e più abbondante e a un ampio assortimento di nuovi prodotti chimici, tra i quali farmaci, coloranti e sostanze industriali quali l’acido solforico.
Cosa si nasconde dietro la nuova – la quinta – rivoluzione industriale? E come si rifletterà sul mondo? Sono sette i fattori che stanno dietro a questo nuovo periodo di cambiamentomacchine” della crescita
Quarta rivoluzione industriale La quarta rivoluzione industriale ebbe luogo nel XX secolo. Cominciò intorno al 1950, e i suoi effetti accelerarono per 30-40 anni; questa quarta rivoluzione riguardò i computer e l’elettronica e diede origine al personal computer, ai router ad alta velocità di trasmissione dei dati e a internet. L’impatto delle prime quattro rivoluzioni fu in larga parte limitato alle nazioni ricche, come sono tuttora definite, il che spiega perché questi Paesi – che nell’Ottocento raccolsero per primi i frutti dello sviluppo industriale moderno – non solo balzarono in vetta agli albori di quell’e-
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ra, ma ci rimasero fino al 1990 circa. Fu solo dopo che l’impatto dei cambiamenti introdotti dalle quattro rivoluzioni riuscì a farsi sentire anche nei Paesi fuori dal blocco dei più sviluppati. In questo modo – e per la prima volta dopo 150 anni – le nazioni leader emergenti, guidate dalla Cina, iniziarono a giocare un ruolo importante nel mondo industriale. Quinta rivoluzione industriale Cosa si nasconde dietro la nuova – la quinta – rivoluzione industriale? E come si rifletterà sul mondo? Sono sette i fattori che stanno dietro a questo nuovo periodo di cambiamento. Il primo riguarda la tecnologia e l’impatto che avranno le sue innovazioni – nei campi del controllo numerico, della scienza dei materiali, delle nanotecnologie e delle nuove forme di produzione meccanizzata (incluse idee come la produzione “additiva”, basata sulle nuove generazioni di stampanti 3D). In molti di questi settori i Paesi ricchi – Stati Uniti, Giappone ed Europa Occidentale – hanno fatto passi da gigante e sono anche i maggiori beneficiari del progresso. Il secondo fattore riguarda la maggiore richiesta di personalizzazione dei prodotti, cioè l’aumento dei prodotti su misura, dai gadget alle macchine industriali, per soddisfare le esigenze degli utenti. Questo cambiamento può richiedere che la fase di produzione sia più vicina al luogo dove i beni saranno usati, in modo da incorporare con più efficacia le variazioni necessarie nel design. Nel caso in cui i clienti si trovino nei Paesi sviluppati, avrà senso stabilire lì la produzione, a discapito dei Paesi emergenti e distanti, e malgrado costi di produzione più alti. L’aumento della richiesta di beni personalizzati andrà di pari passo con nuovi cambiamenti nella tecnologia, come sofisticati metodi di automazione, che rendono più facile e conveniente realizzare serie limitate di prodotti perfezionati in modo da soddisfare le esigenze dei clienti. Il terzo aspetto riguarda la crescita delle catene di distribuzione globale e i network di informazione (questi ultimi basati su internet). Questi mutamenti daranno un nuovo vantaggio competitivo alle imprese manifatturiere stabilite in nazioni a costo elevato. Anche quando scelgono di localizzare la produzione fisica dei beni in nazioni con bassi livelli salariali, come la Cina, i paesi con costi elevati si troveranno spesso in una posizione favorevole per ospitare 045
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le attività di ricerca e sviluppo. Qui le imprese saranno in grado di impiegare una parte piuttosto consistente (e ben pagata) di forza lavoro, che si occuperà non degli aspetti concreti della produzione bensì di quelli “soft”, cioè dello sforzo intellettuale necessario alla creazione di nuovi beni. Il quarto fattore si riferisce all’ascesa della Cina. La sua ricomparsa relativamente improvvisa come potenza industriale ha dato un forte impulso all’attività globale della produzione di beni. È possibile considerare la crescita cinese come una minaccia, così almeno è stata vista da più parti, non ultimi dai produttori delle nazioni ad alto costo che hanno visto emergere come pericolosi concorrenti le nuove fabbriche localizzate in Cina. Tuttavia il modo in cui la Cina s’inserisce nelle catene di distribuzione globali può tornare utile a un’impresa che abbia sede in un Paese sviluppato: quest’ultima infatti può avvantaggiarsi delle capacità produttive di un sito industriale cinese usandolo come fornitore. Inoltre la Cina è diventata un mercato importante per le imprese che producono nuovi tipi di beni industriali e di consumo e che hanno sede in Occidente; infine, la minaccia della concorrenza diretta di produzioni cinesi si ridurrà (anche se non
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scomparirà del tutto) in seguito all’incremento dei salari e di altri costi che iniziano a farsi sentire anche in Cina. Il quinto fattore è la nascita di nuove industrie che operano in una ridottissima area di produzione (e di servizi collegati). Sono le cosiddette “nicchie” che in passato esistevano appena. Ma oggi – grazie ai cambiamenti nella tecnologia e nell’organizzazione aziendale, oltre alle nuove possibilità di vendere globalmente usando internet e reti di trasporto migliorate – queste nicchie si configurano come aree nelle quali le piccole imprese possono competere su base globale. Nella maggioranza dei casi le imprese di nicchia si trovano nelle nazioni occidentali più che nelle economie emergenti. Esempi di queste nuove realtà includono: la fabbricazione di punte ad aria compressa per perforatrici ad alta velocità; la produzione di nuove forme di luci specialistiche grazie all’uso di diodi luminosi che usano i semiconduttori; tubi di acciaio ultrasottili e talvolta flessibili per attività industriali che vanno dalla ricerca di energia all’apparecchiatura medica; pompe ad alta precisione da usare nell’industria alimentare, aeronautica e nel campionamento dei fluidi, ad esempio per il settore sanitario o per l’ambiente.
Oggi che le fabbriche sono diffuse un po’ dappertutto, gli effetti della nuova rivoluzione industriale avranno un impatto praticamente dovunque
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Il sesto fattore chiave concerne l’importanza crescente di piccoli gruppi di imprese e organizzazioni di ricerca – spesso con esperienza nella stessa disciplina tecnica o in una complementare – che sono concentrati nella stessa, piccola, area geografica. Questi gruppi si trovano soprattutto nelle economie industriali avanzate; sono tutt’altro che nuovi, ma il loro impatto sarà ancora maggiore nella nuova rivoluzione industriale, perché le forze della globalizzazione consentono di diffondere l’impatto della vivacità tecnologica e commerciale di un dato luogo in molte più parti del mondo di quanto non fosse possibile in passato. Nella nuova era, piccole concentrazioni di eccellenza industriale – possono essere in un angolo d’Italia, Germania o Stati Uniti – sfruttano le catene di distribuzione globali e le reti di supporto per ottenere una grande diffusione in vaste aree mondiali. L’ultimo punto è legato ai fattori ambientali e alla loro influenza sul modo di operare delle imprese. Nel passato le imprese manifatturiere erano quasi sempre associate all’impoverimento dell’ambiente, dovuto o all’inquinamento generato durante il processo produttivo o al modo in cui i beni venivano usati dopo aver lasciato la fabbrica. Oggi i fattori ambientali
sono utilizzati dalle imprese in maniera più positiva, come un potenziale vantaggio comparato. Le imprese dell’automotive stanno investendo in nuovi processi produttivi o in nuovi tipi di prodotto che rendano il proprio business molto più enviromentally friendly; inoltre sono emersi nuovi settori, quali la produzione di cellule fotovoltaiche e di turbine eoliche. Il loro scopo non è solo di fare soldi per i loro investitori, ma anche di ridurre i pericoli ambientali che minacciano il mondo. La nuova rivoluzione industriale può rappresentare il primo grande cambiamento industriale, in cui gli effetti negativi sull’ambiente si stabilizzano – o in alcuni casi si riducono – invece di crescere. Sfruttando alcuni se non tutti questi fattori, diverse imprese localizzate in nazioni ad alto costo si rafforzeranno nei prossimi 10-20 anni, e si tratta di realtà industriali sia piccole sia grandi, dai grandi nomi dell’imprenditoria ad aziende poco conosciute al di fuori del proprio settore. Ne sono un esempio la milanese Luxottica, il maggiore produttore mondiale di montature per occhiali che produce i suoi pezzi grazie a un insieme di processi diversi e ad alto contenuto di tecnologia in fabbriche localizzate in Italia, Cina e Stati Uniti; Trumpf, un’impresa tede-
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sca leader mondiale nelle macchine per il taglio laser dei metalli, che trae il suo vantaggio competitivo dal combinare i progressi tecnologici con la capacità di connettersi globalmente con migliaia di clienti; ABB, gigante elvetico-svedese dell’engineering che realizza nuove forme di automazione e hardware per la distribuzione di elettricità; Whitford, produttore statunitense di rivestimenti in fluoro-polimeri per una grande varietà di applicazioni, dalle piattaforme petrolifere all’industria alimentare; la britannica Strix, il più grande produttore di termostati per bollitori, con stabilimenti in Cina; Oiles, produttore giapponese di cuscinetti senza lubrificazione. La prima rivoluzione industriale migliorò le prospettive dei produttori – che erano concentrati principalmente nelle nazioni ricche. Oggi che le fabbriche sono diffuse un po’ dappertutto, gli effetti della nuova rivoluzione industriale avranno un impatto praticamente dovunque, anche se inizialmente si avvertiranno con maggiore intensità nel mondo ricco. Durante l’Ottocento, la prima rivoluzione industriale fu un fattore chiave per la crescita dell’industria nell’Occidente. Con l’avanzare del XXI secolo, la nuova rivoluzione industriale probabilmente farà qualcosa di simile.
NOTE 1. The New Industrial Revolution: Consumers, Globalization and the End of Mass Production, giugno 2012, Yale University Press. 2. In questo articolo le nazioni povere – che possono anche essere definite in altri termini come “in via di sviluppo”, “a nuova industrializzazione”, “emergenti” e così via – sono tutti quei Paesi al di fuori della parte “ricca” o “sviluppata” del mondo, altrimenti etichettati come “occidente”. Le definizioni sono basate sulle condizioni mondiali della fine del XX secolo. In periodi precedenti, quando il differenziale in termini di benessere tra Europa e Stati Uniti e le altre parti del mondo
era molto minore di oggi, si applicavano altre definizioni. Nei giorni nostri “Occidente” è definito dall’insieme di: 15 nazioni dell’Unione Europea prima dell’allargamento del 2004 (Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Svezia, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Spagna, Grecia, Portogallo, Austria, Irlanda); Svizzera, Norvegia, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada. I dati sulla produzione manifatturiera sono basati sul calcoli dell’IHS Global Insight, istituto di consulenza economica statunitense. Ulteriori dettagli sulle fonti delle cifre si trovano sul mio libro.
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Fare impresa: quanto è attrattiva l’Italia? a cura di Oxygen
L’Italia? Non troppo attrattiva né molto libera. L’indice Doing Business (doingbusiness.org) del World Bank Group – che calcola l’attrattività di 185 Paesi del mondo per l’attività imprenditoriale – posiziona infatti l’Italia al 73° posto nel mondo, ma penultima tra i Paesi dell’OCSE ad alto reddito. L’Index of Economic Freedom (heritage. org/index) elaborato dalla Heritage Foundation, invece, determina il grado di libertà economica di 179 Paesi e mette l’Italia al 92° posto (36° dei 43 Paesi europei). I 10 indicatori che compongono ciascun indice raccontano, infatti, un Paese con un sistema giudiziario poco efficiente, una burocrazia macchinosa e lenta, e appesantito da molte tasse; ma anche un Paese in cui gli investitori sono mediamente protetti e in cui c’è buona libertà di commercio, monetaria e d’investimento. Un Paese poco sopra e poco sotto la media mondiale.
Doing Business — Index of Economic Freedom
84°
160°
AVVIO DI UN BUSINESS
EFFICIENZA
posto L’Italia è 84a su 185 Paesi per la facilità nell’avviare un’impresa. Al primo posto la Nuova Zelanda.
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posto L’Italia è 160a per efficienza nel risolvere dispute commerciali. Al primo posto il Lussemburgo.
103°
92°
12°
169°
PERMESSI EDILIZI
LIBERTÀ ECONOMICA
LIBERTÀ DI COMMERCIO
TASSAZIONE
L’Italia è al 92° posto per libertà economica, con 58,8 punti. La media mondiale è 59,5 e il Paese più libero è Hong Kong.
L’Italia è al 12o posto per la libertà di commercio. I primi tre Paesi della classifica sono Hong Kong, Macao e Singapore.
posto 102 Paesi devono chiedere meno permessi edilizi dell’Italia. Primo fra tutti Hong Kong.
posto
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posto L’Italia ha 169 volte più tasse del Bahrain, che guida la classifica dei Paesi dove le imprese sono meno gravate dal fisco.
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approfondimento
Dovremo produrre meno “cose”? articolo di Donato Speroni
Le industrie produrranno sempre. Quel che gli economisti dibattono è se davvero si dovrebbe produrre meno, e in questo caso come potremmo sopravvivere, o se il mondo – come pensano alcuni – sia invece in grado di crescere esponenzialmente, come la memoria di certi chip.
Abundance — Parte dal concetto di crescita esponenziale, applicato al progresso tecnologico. Il caso più noto è la legge di Moore, che prevede il raddoppio, a parità di prezzo, della capacità di memoria dei chip necessari per i computer
Come sarà la fabbrica del futuro? I grandi cambiamenti avvenuti nel recente passato hanno già rivoluzionato il lavoro di produzione. Molti compiti ripetitivi sono stati sostituiti da robot, mentre l’informatica ha consentito una maggiore flessibilità, passando dalle produzioni di massa a quelle personalizzate sulla base delle richieste del cliente. Il lavoro è diventato meno pesante della vecchia catena di montaggio, ma richiede competenze e attenzioni nuove. La fabbrica è cambiata ma non è scomparsa,
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perché il virtuale non può sostituire il reale: abbiamo comunque bisogno di “cose” e di qualcuno che le produca. Anzi, il progresso economico apre nuove prospettive perché fa aumentare la domanda di Paesi finora rimasti ai margini. Ma quali sono gli spazi di crescita delle produzioni manifatturiere sui quali possiamo contare, considerando i vincoli ambientali? L’innovazione tecnologica riuscirà a rimuovere le costrizioni che minacciano il progresso? Le diagnosi s’incrociano e si contraddicono. In
uno studio molto dibattuto, diffuso nell’agosto scorso (Is U.S. Economic Growth Over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds), l’economista Robert J. Gordon sostiene che le tre rivoluzioni industriali che abbiamo finora sperimentato (vapore e ferrovie dal 1750 al 1830, elettricità, petrolio e comunicazioni dal 1870 al 1900, computer e cellulari dopo il 1960) hanno dato impulsi alla crescita sempre più brevi e che numerosi “venti avversi”, dalla demografia al diffondersi delle diseguaglianze, faranno sì che il reddito pro capite per il 99% degli americani non crescerà più dello 0,5% all’anno per i prossimi decenni. Il discorso fatto per gli Stati Uniti vale anche per gli altri Paesi industrializzati e la diagnosi non è troppo lontana da quella dei “catastrofisti” come Richard Heinberg (The End of Growth), convinti che la sovrappopolazione, i cambiamenti di clima e l’esaurimento delle materie prime porteranno la Terra alla “fine della crescita”. Una diagnosi che per loro s’identifica soprattutto con un calo della produzione manifatturiera. C’è però chi la pensa in modo radicalmente diverso, come gli autori di Abundance – The Future Is Better Than You Think [che verrà pubblicato in Italia da Codice Edizioni]. Peter Diamandis è un imprenditore che ha fondato una dozzina di società high tech; Steven Kotler è un noto divulgatore scientifico. Abundance parte dal concetto di crescita esponenziale, applicato al progresso tecnologico. Il caso più noto è la legge di Moore, che
prevede il raddoppio, a parità di prezzo, della capacità di memoria dei chip necessari per i computer, ma la stessa regola si applica a numerosi altri casi. L’effetto di questo progresso è di mettere a disposizione dell’umanità nel giro di pochi anni tecnologie che oggi è addirittura difficile immaginare. Non a caso, Diamandis è con Raymond Kurzweil tra i fondatori della Singularity University, che da un centro di ricerca della NASA in California studia l’effetto combinato di biotecnologie, sistemi informatici, network e sensori, intelligenza artificiale, robotica, medicina e nanotecnologie. Una grande attenzione è dedicata anche alla manifattura digitale, cioè alla possibilità di poter produrre oggetti tridimensionali con la stessa facilità con la quale oggi produciamo le fotocopie. Sarà questa la manifattura del futuro? In un certo senso, perché molte produzioni semplici potranno essere realizzate attraverso queste macchine, senza bisogno di una “fabbrica” vera e propria. Ma è difficile immaginare che la fabbrica, intesa come luogo di realizzazione e assemblaggio degli oggetti più complessi, possa scomparire. È possibile che gli autori di Abundance siano eccessivamente ottimisti. Le rivoluzioni industriali non nascono solo dall’innovazione tecnologica, ma anche dalle disponibilità di materie prime e capitali, nonché dalle capacità politiche e organizzative per accogliere il nuovo. Gli strumenti della crescita sono insomma a nostra disposizione, ma utilizzarli al meglio non sarà facile.
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contesti
Le imprese ragionano in rete articolo di Aldo Bonomi
Una risorsa per creare relazioni di scambio e sostegno tra le aziende che devono affrontare l’attuale momento di crisi economica e di cambiamenti: il contratto di rete come strumento guida per l’aggregazione a la collaborazione tra le imprese.
Nel corso della presidenza Marcegaglia mi è stata affidata la realizzazione di un progetto ad hoc: dare impulso all’aggregazione tra imprese per migliorare la competitività e l’innovazione del tessuto imprenditoriale italiano. Il 28 ottobre 2009 è nata così l’agenzia di Confindustria RetImpresa, con l’obiettivo di creare condizioni favorevoli per la diffusione e la valorizzazione delle aggregazioni attraverso l’allora nuovo strumento del contratto di rete. A distanza di soli tre anni dall’introduzione, nel panorama giuridico nazionale, di questa forma contrattuale, ben 458 reti sono venute alla luce, con il coinvolgimento di 2469 imprese in tutte le regioni della penisola. Le aziende praticano da tempo forme di collaborazione e integrazione, e le aggregazioni nate spontaneamente sono divenute patrimonio delle imprese italiane. Tuttavia, gli imprenditori oggi sottolineano la volontà e l’interesse a collaborare per la realizzazione di programmi specifici, condivisi e ben delineati, ma di fare tutto ciò continuando a mantenere indipendenza e autonomia nella gestione della propria impresa. Il contratto di rete, pertanto, è una possibilità in più per le imprese rispetto ai tradizionali meccanismi di aggregazione come fusioni societarie, consorzi, ATI e joint venture. Un salto culturale verso un’aggregazione non solo nume-
rica e quantitativa ma ragionata intorno a un programma comune, che fa crescere insieme le aziende allargandone il raggio di azione per realizzare obiettivi individualmente molto impegnativi. Lo sviluppo dell’ICT ha consentito il superamento di quei meccanismi di collaborazione, su base esclusivamente territoriale, che si sono dimostrati inadeguati a rispondere ai crescenti scambi di tipo relazionale, informativo ed economico delle imprese. Seppure partendo dalle specificità e dalle tradizioni locali, è necessario superare la dimensione distrettuale costruendo collaborazioni più estese ed extraterritoriali, che possano migliorare la competitività delle aziende sui mercati nazionali ed esteri. Mentre il distretto si riferisce per definizione a un fenomeno locale e circoscritto in cui le imprese sono specializzate in un determinato settore, il concetto di rete abbraccia un ideale di collaborazione più ampio, basato non solo sulla vicinanza geografica ma anche sulla reale ed effettiva possibilità di accrescere la competitività attraverso lo scambio di tecnologie, informazioni e conoscenze. Per questo motivo la rete, unendo imprese di diversi settori che possono trovare vantaggi nel reciproco scambio di saperi e competenze, risponde alla richiesta di superamento del localismo e si configura come la naturale evoluzione del modello di collabora-
zione del sistema produttivo moderno. Il contratto di rete è stato lo strumento che ha risposto con successo alla richiesta delle imprese di avere un riferimento guida che renda ancora più efficace la loro collaborazione, uno schema al quale attenersi seppure in maniera flessibile e che garantisca il mantenimento dell’autonomia imprenditoriale. Il contratto di rete garantisce una governance snella, priva di sovrastrutture burocratiche che ne complichino l’operatività, ma senza rinunciare agli imprescindibili elementi pragmatici.
La rete, unendo imprese di diversi settori che possono trovare vantaggi nel reciproco scambio di saperi e competenze, risponde alla richiesta di superamento del localismo La portata fortemente innovativa di questo strumento permette alle reti di acquisire una struttura ben definita e facilmente riconoscibile, vincolata solo all’oggetto del contratto e a quanto stipulato nel programma comune. Il contratto di rete, modellato e “cucito
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La rete non può essere l’unica soluzione alla crisi, ma deve rappresentare uno strumento di politica industriale a disposizione del sistema per affrontare, nel migliore dei modi, un periodo sfavorevole e di cambiamento su misura” sulle caratteristiche dei suoi contraenti, è efficace e adattabile alle esigenze delle aziende di qualsiasi settore economico, di tutte le tipologie e dimensioni. Tali peculiarità rendono la collaborazione duttile al suo interno ma estremamente robusta verso l’esterno. Il nuovo modello favorisce i processi di innovazione sia organizzativa sia produttiva; è una filosofia che abbraccia una visione più ampia delle relazioni economiche e che cerca di superare la convinzione “piccolo è bello”, ed è utile e conveniente mettersi in rete per affrontare le sfide del mercato e migliorare le proprie performance economiche. Molto spesso, infatti, imprese troppo piccole o con risorse insufficienti non riescono a entrare o a rimanere con successo nei mercati internazionali. Ed è proprio in questa difficile fase di stagnazione dei consumi interni che l’internazionalizzazione emerge come una delle finalità più spesso richiamata da uno sguardo d’insieme sui programmi di rete: sono ben 78 quelli siglati che hanno tra gli obiettivi lo sviluppo di progetti per l’internazionalizzazione per intercettare nuove opportunità di business oltre i confini. Riporto tra le iniziative più interessanti su questo tema i casi di Five for foundry, la prima rete di respiro internazionale con 054
al suo interno aziende francesi, polacche e ceche, e il caso Italian Tecnology Center, contratto di rete che ha come oggetto la penetrazione nel mercato indiano. In un contesto di sempre minore disponibilità di risorse, la rete acquista una forza e una dimensione capaci di dimostrare ai suoi interlocutori crescita e affidabilità. In questo senso, banche e istituzioni pubbliche possono valutare l’opportunità di erogare finanziamenti anche attraverso la valutazione della validità dei progetti imprenditoriali presentati dalla rete. Il cosiddetto rating di rete può essere determinante e superare quello della singola impresa. La rete non può essere l’unica soluzione alla crisi, la panacea per le nostre imprese, ma deve rappresentare, questo sì, uno strumento di politica industriale a disposizione del sistema per affrontare, nel migliore dei modi, un periodo sfavorevole e di cambiamento nei rapporti tra territorio ed economia. Uno strumento in cui Confindustria e la nostra agenzia ha creduto fin da subito e che sosteniamo dalla sua nascita. Anche il governo, allo stesso modo, ha messo in campo una misura notevole a sostegno delle aziende in rete: un regime di sospensione di imposta per la quota di utili di esercizio che le singole aziende destinano alla realizzazione degli inve-
stimenti previsti dal programma di rete. L’ammontare del beneficio fiscale erogato dallo Stato è stato di 48 milioni per il triennio 2010-2012; ci stiamo adoperando – lo riteniamo indispensabile – affinché l’importo venga aumentato a 100 milioni di euro per il prossimo triennio. È importante il contributo delle istituzioni: aumentano i bandi di Regioni, Province, Comuni e Camere di Commercio territoriali per la concessione di contributi a favore delle reti d’impresa e anche il MIUR ha predisposto un bando per lo sviluppo e potenziamento dei Cluster Tecnologici Nazionali. Importanti misure sono state inserite nel Decreto Crescita per le reti del settore turistico. Uno dei presupposti per accedere alle agevolazioni fiscali è la preventiva asseverazione del programma di rete a opera di organismi abilitati e riconosciuti. Per questo motivo, a giugno 2011, RetImpresa ha fondato la società RetInsieme srl, organismo asseveratore che, in due tornate, ha certificato 69 contratti di rete. Inoltre le reti hanno catturato positivamente l’attenzione delle istituzioni comunitarie: proprio di recente è arrivato un importante riconoscimento da parte della Commissione Europea che ha inserito nell’European Competitiveness Report 2012 un capitolo interamente dedicato a cluster e network, riconoscendo
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RETIMPRESA Nata a ottobre 2009, l’agenzia di Confindustria per l’aggregazione di imprese ha fra i suoi soci associazioni territoriali, confindustrie regionali, associazioni nazionali di categoria e federazioni di settore per un totale di circa 70 soci supportati e sensibilizzati al contratto di rete. (www.retimpresa.it)
loro un ruolo positivo per raggiungere massa critica, scambiare informazioni e ampliare la capacità industriale delle imprese. Nei mesi scorsi, anche, la Banca europea per gli investimenti (BEI) si è mossa a sostegno delle reti prevedendo un plafond di 100 milioni di euro. Pertanto, abbiamo contatti frequenti con il Gabinetto del Commissario Antonio Tajani per consentire alle reti di accedere ai fondi strutturali e ai vari finanziamenti della prossima programmazione comunitaria 2014-2020. In questi anni abbiamo abbracciato la rete d’impresa in tutte le sue declinazioni: promuovendo studi e ricerche con il mondo accademico, collaborando con le associazioni d’impresa e creando importanti sinergie con il sistema bancario per un migliore accesso al credito per le imprese in rete. Tutto questo per cercare di raggiungere l’obiettivo, definito all’inizio di questa presidenza con Giorgio Squinzi, di 2000 contratti di rete entro il 2016. Insieme a Unioncamere e la Fondazione Bruno Visentini (FBV), infatti, abbiamo promosso “Il laboratorio sulle reti” per l’elaborazione di studi e analisi sui contratti di rete, e a marzo con il Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie abbiamo presentato le “Linee guida per il contratto di rete”, uno strumento per professionisti e impren-
ditori dove trovare utili indicazioni pratiche per la redazione del contratto di rete. Per le aziende, è ancora il credito il vero ostacolo all’attività di impresa orientata alla crescita: per questo lavoriamo per infondere il concetto di “premialità” per le imprese in rete e garantire, così, migliori condizioni e prodotti finanziari specifici. Per ora abbiamo stipulato accordi con Unicredit e BNL ed è stata avviata da pochi giorni una collaborazione con Banca Carige.
Gli imprenditori oggi sottolineano l’interesse a collaborare per realizzare programmi condivisi e ben delineati, ma continuando a mantenere autonomia nella gestione della propria impresa Gli obiettivi raggiunti fino ad oggi sono molti e rappresentano un grande passo in avanti, ma la nostra azione deve proseguire per rendere ancora più strutturale e autorevole il contratto di rete. Abbiamo dedicato attenzione e impegno affinché le reti d’impresa siano
inserite tra le forme di aggregazione ammesse alla partecipazione delle gare d’appalto. Riteniamo sia possibile e l’incontro con l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici è stata l’occasione per fornire nuove indicazioni che speriamo trovino applicazione nei provvedimenti per la semplificazione attualmente in discussione. Ulteriori iniziative in cantiere riguardano la formazione e il lavoro: il progetto “Reti Scuola-Impresa”, che si propone di monitorare le sinergie esistenti a livello nazionale e quelle in via di realizzazione, presentato il 23 novembre a Verona nell’ambito della fiera Job&Orienta. L’iniziativa WIN (Work In Network), come strumento di politica attiva per il lavoro, è un progetto definito per la gestione delle risorse umane all’interno della rete, per facilitare l’impiego di manodopera e avere ricadute positive sull’occupazione e quindi sulla crescita. È indubbio ormai che le reti sono una realtà e un’alternativa che coinvolge il panorama economico nazionale e non solo; unendo le proprie forze e iniziando a collaborare con imprese più grandi e più stabili, anche realtà imprenditoriali di piccole dimensioni possono riuscire a crescere e affrontare la crisi come un cambiamento costruttivo e uscirne più rafforzate. 055
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scenari
UN NUOVO RINASCIMENTO ECONOMICO CHE PASSA DALLA PMI articolo di Andrea Di Benedetto e Luca Iaia
Circa il 18% delle esportazioni italiane proviene dal mondo dell’artigianato. Il 50% dalle PMI. Sta avvenendo un riequilibrio favorevole alle imprese di minori dimensioni che hanno saputo presidiare fette molto verticali di mercato, una riorganizzazione geografica dei mercati a vantaggio delle economie emergenti, in particolar modo quelle asiatiche, da sempre vissute con il mito dell’Italia e della qualità della nostra manifattura. «L’utilizzo effettivo della conoscenza richiedeva non solo la possibilità e gli incentivi per creare o avere accesso a una nuova tecnologia, ma anche la competenza per farne uso e per eseguire le “istruzioni” contenute nel suo blueprint. Molta della conoscenza applicata dagli artigiani e dagli ingegneri era “tacita”, non era cioè descritta formalmente nella “ricetta” usata per la produzione, ma era il frutto di accorgimenti e di un know-how basato sull’esperienza o sull’imitazione» (Joel Mokyr)
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«L’errore che il sistema economico sta pagando è l’essersi basato su una visione a breve termine e sul modello della flessibilità organizzativa, dell’instabilità e della velocità per adeguarsi ai cambiamenti. È stato così anche nella gestione del capitale umano. Non si è investito sulla conoscenza e i lavoratori, in questi anni, hanno potuto acquisire solo un’esperienza incompleta. Il modello artigiano del passato ci insegna una cosa importante: il senso del tempo. Per diventare maestri ai tempi antichi ci volevano anni. La bottega di oggi è la piccola impresa, che per questo va sostenuta come modello e va messa nelle condizioni di investire sulle persone. Oggi serve più la crescita che la flessibilità» (Richard Sennett)
Due scritti di epoche molto diverse. Entrambi però sottolineano l’esistenza di un capitale invisibile, assente dallo stato patrimoniale delle imprese, che è composto dal know-how e dall’esperienza delle persone che ci lavorano. Questo capitale è tanto più rilevante percentualmente quanto meno l’impresa è industrializzata e dispone di processi profondamente formalizzati. Joel Mokyr individua come fattore chiave della rivoluzione industriale inglese l’ampia disponibilità di abilità ad alta specializzazione capace di sostenere l’innovazione; Richard Sennett, ai nostri tempi, individua il modello della piccola impresa come unica capace di investire in conoscenza a lungo termine, garantendo una coltivazione di abilità e una rapida contaminazione attraverso le nuove forme di comunicazione.
I livelli di spesa in ricerca e sviluppo nel nostro Paese, per quanto riguarda il settore privato, sono indubbiamente inferiori rispetto alla media europea e sotto la metà della media tra Francia e Germania. La colpa di questi numeri, normalmente, viene addossata al sistema frammentato dell’impresa diffusa di piccole dimensioni che non avrebbe la capacità di investire in ricerca e sviluppo. Siamo invece convinti che questo sia un problema di misurazione: è evidente che se il tasso di R&D viene valutato attraverso il numero di brevetti o la capitalizzazione “fiscale” degli investimenti in ricerca, la gran parte dell’innovazione prodotta dalle piccole imprese risulta trasparente, perché frammentata e inglobata nella funzione produttiva. 057
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L’impresa di piccole dimensioni forma costantemente i propri dipendenti (a volte anche uno soltanto) all’arte del lavoro e alla cura dei dettagli, trasmette storia e tradizioni, cultura del saper fare. I processi produttivi vengono ottimizzati per step successivi, l’efficienza viene migliorata regolarmente, i prodotti si modificano sempre per inseguire le esigenze del mercato. Conoscenza e innovazione, appunto. Cosa serve, quindi, a questo settore per rilanciare la crescita? Un documento del Ministero dello Sviluppo Economico (DG PMI ed enti cooperativi – Div VIII) descrive il mondo artigiano come «un settore dell’economia italiana a modernità incompiuta, nel senso che lo stesso non ha mostrato un percorso evolutivo chiaro verso una dimensione imprenditoriale che oggi risulta vincente sul mercato. L’impresa moderna ha, infatti, la capacità di controllare la concorrenza interna ed estera, di operare su scala globale, di sfruttare le potenzialità dell’ICT, di disporre di tecniche produttive altamente innovative». Quindi: imprenditorialità, digitalizzazione, trasferimento tecnologico. Manca una cultura all’imprenditorialità, si sente forte il bisogno di collegare le scuole all’impresa. Esistono molte esperienze, anche di successo, per trasformare attività di ricerca in start-up, per formare e avviare giovani talenti al mondo del lavoro. Non c’è 058
ancora però nella nostra offerta formativa un’educazione trasversale all’impresa: manca nel DNA di una nazione a vocazione manifatturiera, che ha basato le proprie fondamenta sulla manualità e sulla qualità della produzione, la consapevolezza della scientificità del fare impresa. È dunque neces- La sfida che ci si pone di sario riuscire a innovare i pro- fronte è quella di portare la cessi formativi e contaminare le istituzioni scolastiche a piccola impresa e l’artigianato tutti i livelli: soltanto attraver- a una modernità compiuta, so un grande coinvolgimen- ed è una sfida per il Paese. to delle nuove generazioni e una massiccia iniezione di Il potenziale di crescita del “digitale” e managerialità, settore è tale da essere forse sarà possibile il cambiamen- l’unica chance che abbiamo to di cui abbiamo bisogno. Circa il 18% delle esportazioni per la ripartenza della italiane proviene dal mondo nostra economia. Un nuovo dell’artigianato. Il 50% dal- Rinascimento le PMI. E rassicuranti sono i trend che evidenziano una democratizzazione dell’internazionalizzazione sia dal punto di vista commerciale sia produttivo, grazie all’abbattimento dei costi e alla riduzione delle intermediazioni necessarie, soprattutto per effetto
un nuovo rinascimento economico che passa dalla pmi
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Manca una cultura all’imprenditorialità e si sente forte il bisogno di collegare le scuole all’impresa. Esistono molte esperienze, anche di successo, per trasformare attività di ricerca in start-up, per formare e avviare giovani talenti al mondo del lavoro. Non c’è ancora però nella nostra offerta formativa un’educazione trasversale all’impresa di internet. Sta avvenendo un riequilibrio favorevole alle imprese di minori dimensioni che hanno saputo presidiare fette molto verticali di mercato, una riorganizzazione geografica dei mercati a vantaggio delle economie emergenti, in particolar modo quelle asiatiche, da sempre vissute con il mito dell’Italia e della qualità della nostra manifattura. E per finire un fenomeno di crescente interesse da parte della domanda internazionale di prodotti/servizi del Made in Italy – anche di brand meno noti – ma ricchi invece di qualità artigianali, storia e cultura. E, ultimo ma non meno importante, la piccola impresa ha un grosso gap di consapevolezza del proprio potenziale e di appeal per i nuovi talenti, ha sempre avuto un ruolo centrale nella nostra economia ma non nel nostro immaginario collettivo. Non basta infatti produrre percentuali di PIL enormi e rappresentare la maggioranza del panorama imprenditoriale: cinema, letteratura, media, hanno sempre puntato l’accento su un’Italia industriale degli anni Sessanta, quella del boom economico trainato dalle industrie di Stato. È mancata capacità di comunicazione, attenzione dei media tutti, che hanno trascurato una parte vitale del Paese. L’attenzione al bello, alla storia e alla cultura c’è sempre stata: sono però cambiati i modi e gli
strumenti per raccontare. L’insieme di tante storie vincenti può creare un’epica per un mondo produttivo che sta nascendo: potrebbe essere questo l’elemento chiave di una rinascita economica che si basi sulla cultura, sul territorio e su imprese pensate come “processori di conoscenza”, capaci cioè di tradurre il sapere in economia. La sfida globale dal punto di vista della produttività si giocherà sulla capacità di gestione della complessità: modelli efficienti di interazione tra i sistemi produttivi distribuiti, ripensare le filiere rendendole più corte ed efficaci, ridisegnare i distretti non in termini geografici, coniugare il profitto con lo sviluppo del territorio, delle tradizioni e della storia italiana. Industria culturale, Made in Italy e imprese dovranno interagire su piattaforme sempre più internazionali ed attente alla qualità di prodotti e servizi offerti. Il tutto accompagnato da servizi e tecnologie moderni derivanti da un massiccio processo di digitalizzazione delle imprese e della pubblica amministrazione. La sfida che ci si pone di fronte è quella di portare la piccola impresa e l’artigianato a una modernità compiuta, ed è una sfida per il Paese. Il potenziale di crescita del settore è tale da essere forse l’unica chance che abbiamo per fare ripartire la nostra economia. Un nuovo Rinascimento. 059
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contesti
II “saper fare” ci salverà: 10 storie di successo articolo di Daniela Mecenate
Le mani degli artigiani italiani, e menti brillanti e fantasiose, fanno miracoli internazionali. E così il Made in Italy può vantare numerosi esempi di imprese artigiane virtuose che, con cappelli, occhiali, biciclette, stampanti, stanno arrivando a raccontarsi in tutto il mondo.
Il futuro? È nelle nostre mani. Letteralmente. Crisi o non crisi, infatti, il “saper fare” ci salverà: è questo il motto delle migliaia di aziende manifatturiere che compongono il tessuto imprenditoriale italiano, dove artigiani e “manifattori” di ogni tipo tengono dritta la barra della nave. Falegnami, sarti, pasticceri, orafi e cappellai. Sediari, ceramisti, carpentieri e birrai. Che diventano impresa, piccolissima o grande, familiare o da business internazionale. Ma sempre con una base irrinunciabile: la tradizione e la capacità di mantenere vive le arti e le conoscenze di sempre. E con un elemento in più, ossia l’innovazione: è il “saper fare” abbinato alla tecnologia, la tradizione agganciata alle opportunità contemporanee, le mani accostate a una mente digitale. «È questa la nostra benzina – spiega Stefano Micelli, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore del libro Futuro Artigiano – sia per la piccola impresa sia per la grande azienda. Anche le grandi, di questi tempi, non
possono fare a meno della personalizzazione, della produzione “su misura”, e stanno riscoprendo l’importanza della base artigianale rispetto alla catena di montaggio. Oggi, la piccola impresa artigiana non è più in conflitto con le grandi aziende e col settore industriale, anzi ne è l’ispirazione e un prezioso complemento. Solo puntando sul nostro artigianato e giocando sull’innovazione potremo competere sui mercati internazionali e correre contro chi fa prodotti seriali, come la Germania». E non a caso, anche in tempi di crisi, l’export del manifatturiero italiano corre più di ogni altro settore: oltre il 52% delle imprese ha aumentato (anche se di poco) la sua presenza internazionale e l’export è cresciuto di più tra le imprese che finora erano meno esposte all’estero. Dunque il mercato globale, reso più selettivo dalla congiuntura economica sfavorevole, cerca il nostro manifatturiero: da quello dei giganti internazionali a quello delle microimprese artigiane.
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01 NATUZZI
In principio fu una bottega artigiana a Taranto, con tre collaboratori. Oggi, a oltre 50 anni di distanza, conta più di 6000 dipendenti ed è quotata a Wall Street. E la Natuzzi, leader mondiale nella produzione di divani in pelle, è un faro per le aziende del sud Italia: dalla Puglia con amore. Pasquale Natuzzi, che ha iniziato a 19 anni costruendo poltrone e divani per il mercato locale, di strada ne ha fatta ed è ora presente in 143 Paesi con 11 stabilimenti in tutto il mondo, ma è rimasto sempre legato alla Puglia, al suo stabilimento nei pressi di Bari dove si è trasferito nel ’72. E soprattutto non ha mai smesso di credere nella forza delle mani, nel “saper fare” di quelle centinaia di artigiani che lavorano nei suoi laboratori. I mercati internazionali lo hanno accolto con favore da quella volta, nel 1980, che riuscì a vendere divani in pelle ai grandi magazzini Macy’s a un prezzo che era un terzo di quello medio negli Stati Uniti. Suscitando l’invidia dei competitor e l’ammirazione dei guru del marketing americano. Così oggi, mentre il manifatturiero è di casa soprattutto in Veneto o in Toscana, lui dal “tacco” della Penisola guarda ai mercati di tutto il mondo con la fierezza del vecchio artigiano che ha saputo osare e che ha saputo innovare. Senza perdere la speranza nemmeno quando, nel 1973, il suo laboratorio prese fuoco e dovette ricominciare da capo. «Mi trasferii a Santeramo in Colle, dove siamo tuttora – racconta lui – e qui mi rimboccai le maniche per ripartire da zero».
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03 FERRERO
02 KENTSTRAPPER Dare forma reale a un disegno. Buttare giù uno schizzo e vederlo diventare un oggetto vero, vederlo uscire da una vera e propria stampante tridimensionale. Un vaso? Una scatola colorata, una lampada, un paio d’occhiali? Si può disegnare e poi basta un click per crearlo, toccarlo, metterlo sulla scrivania. Tutto questo è possibile con le stampanti 3D della Kentstrapper, azienda familiare di Firenze nata appena un anno fa, in piena e rombante crisi economica. Il nome è un po’ tedesco, ma l’anima e la fantasia sono tutte italiane. «Esistono diversi modelli di queste stampanti che noi realizziamo praticamente una a una – spiega Lorenzo Cantini – anche se le componenti in plastica possono essere replicate. Un software converte un disegno
in un linguaggio tridimensionale che viene interpretato da queste nostre stampanti, le quali grazie all’applicazione di strati di plastica e altri materiali sono in grado di realizzare il disegno. Inizialmente pensavamo che avremmo venduto queste macchine alle aziende, invece le acquistano soprattutto i privati. Anche perché il modello base costa pochissimo e può essere acquistato ad esempio da un artigiano per realizzare i suoi oggetti. Abbiamo notato poi che molte scuole, soprattutto all’estero, stanno acquistando le nostre stampanti per dare forma ai modelli e i disegni creati dagli alunni». Un modo per liberare l’immaginazione e rendere reale un’idea, per far superare alla fantasia gli ostacoli della materia. La libertà di immaginare ha il marchio Made in Italy.
Chi non conosce la Nutella, i Ferrero Rocher, le barrette Kinder e le Tic Tac? Le produce un gigante mondiale, la Ferrero di Alba. Gli ingredienti base sono stati un piccolo laboratorio di pasticceria, aperto nel 1942 da Pietro Ferrero e sua moglie, e una gran voglia di inventare, sperimentare, creare golosità senza arrendersi. Come quando, durante la guerra, non avendo più a disposizione gli ingredienti adatti per le leccornie da cioccolataio, Pietro ebbe l’idea di ripiegare su un materiale povero e facilmente disponibile sugli alberi della zona, senza sapere che sarebbe stato la sua fortuna: le nocciole. Da allora i laboratori Ferrero non si sono più fermati, e a forza di sperimentare, a forza di impastare e macinare nocciole, nel ’64 è nata la regina mondiale delle creme: la Nutella. Che ha accolto anche i leader mondiali all’ultimo G8, quando a colazione è stata servita, su un vassoio d’argento, una ricca porzione di pane e Nutella. Ancora oggi gli eredi di Pietro Ferrero non si fermano. Impastando e mescolando, grazie all’opera di centinaia di “mastri pasticceri”, sono arrivate le merendine, gli ÉstaThé, gli ovetti Kinder. «Certo sono lontani i tempi in cui – raccontano dall’azienda di Alba – il fondatore Pietro Ferrero, volendo allargare il suo mercato, andava in giro per i Paesi limitrofi col carretto a vendere i cremini di nocciola preparati dalla moglie. Ma se oggi ci espandiamo in tutto il mondo è merito del suo intuito e della sua voglia di crescere».
il “saper fare” ci salverà:
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04 ZEGNA Su misura. Dalle asole agli orli, dalle finiture ai bottoni, fino al nome stampato sulle etichette: tutto come il cliente vuole. In casa Zegna, gli artigiani sono ancora i protagonisti di questa azienda nata nel 1910 per un’intuizione di Ermenegildo, ultimo di 10 figli di un orologiaio che un giorno aveva deciso di cambiare strada e mettere su un laboratorio tessile. Ora che il marchio Zegna è presente in 60 mercati mondiali e i dipendenti sono oltre 7000, la lana è ancora quella australiana, un tempo importata su grandi navi da carico, e l’approccio sempre lo stesso: la personalizzazione. Nel 1972, infatti, l’azienda, diventata ormai un gigante, ha avviato la linea “su misura”: nei
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laboratori Zegna si prendono le misure, il cliente sceglie tra 700 tessuti, il prodotto è realizzato sulla base delle sue indicazioni. E da Trivero, nei pressi di Biella, quest’azienda manifatturiera, bandiera del tessile Made in Italy, è arrivata sui mercati internazionali già dagli anni ’30. Oggi l’80% del suo fatturato viene dall’estero e l’espansione sul mercato cinese è stata fondamentale per la crescita dell’azienda, visto che nel 2003 Zegna ha acquisito un’impresa in Cina che produce abbigliamento di qualità per il mercato interno. E anche in una fase di contrazione, il gigante manifatturiero Made in Italy non conosce crisi e viaggia verso fatturati ben al di sopra del miliardo di euro.
Cosa ci fa Harry Potter, il maghetto più famoso del mondo, a Trebaseleghe, ridente centro in provincia di Padova? Qui la magia l’ha fatta Fabio Franceschi, amministratore delegato della Grafica Veneta SpA, a cui è stata affidata la stampa e la produzione dei libri del mago per eccellenza. E non solo. Qui si stampano gli inserti della “Pravda”, del “New York Times”, di “Le Figaro” e del quotidiano brasiliano “Il Globo”, per citarne solo alcuni. Nonno e papà stampatori e rilegatori, il nuovo proprietario della Grafica Veneta ha scelto la via della personalizzazione e della velocità e riesce a stampare, nel suo stabilimento di Trebaseleghe, qualunque tipo di prodotto in 24 ore e consegnarlo ovunque nel mondo, mentre altri impiegano anche tre settimane. Una magia?
«Non siamo più solo stampatori – spiega Fabio Franceschi – e abbiamo cercato di conciliare esperienza artigianale con le richieste di un mercato sempre più esigente: ci siamo dotati di macchinari innovativi e se necessario stampiamo anche di notte per essere puntuali». E tutto questo con uno approccio eco-friendly: sul tetto dello stabilimento, 50.000 metri quadrati di pannelli solari fanno funzionare i macchinari e forniscono l’energia necessaria per produrre libri e inserti, quasi tutti biodegradabili. «Siamo l’unica azienda al mondo a impatto zero», afferma il mago di Trebaseleghe. Che ora si prepara a un altro prodigio: il debutto a Piazza Affari entro marzo 2013: «il progetto di quotazione è pronto – conferma – e la capitalizzazione prevista è di 500 milioni di euro».
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06 SUPERDUPER Avere in testa un’idea e trasformarla in un caso di successo internazionale. È andata così per tre ragazzi di Firenze che dal 2010 creano cappelli interamente artigianali e li vendono ormai in tutto il mondo, dall’Inghilterra al Giappone, dalla Germania agli Stati Uniti. L’azienda si chiama SuperDuper (che in americano significa “fantastico”) ed è nata per gioco e per passione di tre ragazzi tutt’altro che sarti o cappellai. Niente tradizioni familiari, stavolta: lui musicista rock, le due ragazze una danzatrice e l’altra architetto. Ma fatale è stato l’incontro, in un mercatino, con delle antiche forme per fare cappelli, e soprattutto con una sarta fiorentina che ha svelato ai tre ragazzi, appassionati di design e di copricapi, tutti i segreti del mestiere. È nata così una linea vintage-modaiola di cappelli fatti a mano che hanno sfilato nelle più importanti fiere di moda di Milano e Parigi, attraversato i confini nazionali e conquistato le pagine di Vogue e Vanity Fair. Crisi o non crisi, il loro mercato è in continua espansione: «vendiamo per l’80% sui mercati esteri – spiegano – dove per assurdo il Made in Italy è più apprezzato che in Italia». Per fare un cappello impiegano circa due ore, ma ogni pezzo dimostra che avere un’idea per la testa, e realizzarla con passione e qualità, può dare buoni frutti.
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08 ERMES PONTI
07 CERAMICHE SASSUOLO Lo sguardo va indietro al 1741, Ducato di Modena. Qui nasce la più antica ceramica di Sassuolo, la Marca Corona, dove maestranze locali lavoravano la terra rossa e i laterizi per la dinastia dei duchi d’Este. Oggi, il distretto della ceramica di Sassuolo è tra i primi poli manifatturieri in tutto il mondo e le aziende hanno nomi riconosciuti come brand di qualità. Dalle ceramiche Ragno al Cotto d’Este, dal Gruppo Marazzi alla linea per la casa di Versace. Un mercato che vale milioni di euro e che mantiene una quota di mercato mondiale da far invidia ai competitor cinesi, che producono a bassi costi in catena di montaggio. Qui invece, accanto alla produzione su larga scala, sopravvive l’approccio artigia-
nale, anzi viene riscoperto come nuova carta vincente su cui puntare di più per il futuro. E così i “riflessi setosi”, i “colori nuvolati”, le “superfici venate” e tutto quello che la fantasia (e il cliente) richiede, possono prendere forma in questo distretto dove la materia prima è ancora quella di un tempo, quella della Marca Corona: la terra argillosa degli affluenti del Po e i marmi dei rilievi preappenninici. E se la crisi globale e la concorrenza cinese hanno fatto sentire i loro artigli negli ultimi anni, «questo non significa – spiegano dall’azienda – che non siamo sulla strada giusta: quella della continuità con una tradizione antichissima, che resta il nostro punto di forza e che nessuno ci potrà togliere».
«Siamo ebanisti contemporanei». Con questa strana definizione l’azienda Ermes Ponti sintetizza il suo business: progettare e produrre arredi di alta qualità. Un po’ studio d’architettura un po’ falegnameria, un po’ sartoria e un po’ cantiere. Una piccola azienda che sulle ali della tradizione familiare («nonno Walter Ponti era falegname fin dal ’37») è volata dalla Bassa Padana fino all’altra parte del globo. I suoi arredi sono negli yacht più esclusivi del mondo, nelle boutique di Tokyo e Dubai, negli show-room Montblanc, nei grandi magazzini Bloomingdales di New York e dentro il Quirinale. O anche nei più ricchi appartamenti di Parigi, Mosca e Shangai e nelle ville principesche di Porto Cervo. Tutto questo grazie all’adozione di quello che loro stessi chiamano il “metodo Ponti”: «ascoltiamo l’idea del cliente, poi progettiamo e creiamo nello stesso luogo, ossia dentro il nostro laboratorio. Così adottiamo un metodo di produzione coordinata e non ci sfugge nulla, dalla progettazione alla realizzazione. Nel nostro grande laboratorio convivono tessitori, ebanisti, falegnami e carpentieri: siamo una vera sartoria dell’arredo».
il “saper fare” ci salverà:
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10 W-EYE 09 ITALIA VELOCE
Il loro motto è: Orgoglio Italiano. Un orgoglio che corre su due ruote e pedala in tutta Italia con un traguardo ben preciso: gli Stati Uniti e poi ancora più lontano, fino al Giappone e all’Australia. Sarà una lunga corsa, per l’azienda Italia Veloce – Officina Italiana Velocipedi di Pregio, fondata nel 2010 da quattro compagni di scuola di Parma. Appassionati di bici, certo, ma anche di design, i quattro hanno rilevato un vecchio laboratorio artigianale e gli hanno ridato vita. Così sono nate queste due ruote fatte a mano dal look anni ’50 ma dalla tecnologia contemporanea, realizzate “su misura” in senso letterale: in base alla statura del cliente viene elaborato tutto il resto. Poi c’è la possibilità di scegliere – anche on line – colori e modelli del telaio, del sellino,
delle ruote. Un’unica costante: la forma “a freccia” del manubrio, ormai un tratto distintivo. E come una freccia è schizzato anche il business, visto che il 2011 si è già chiuso con un fatturato di 500.000 euro. «Facciamo ancora un prodotto di nicchia e di alta gamma, dedicato a chi ama l’ambiente, l’arte e il design: molti scelgono le nostre bici persino come pezzi d’arredamento – spiega uno dei quattro, Massimiliano Rabaglia, responsabile marketing – ma stiamo investendo per sbarcare l’anno prossimo con distributori specifici negli Stati Uniti. Ed è solo il primo passo». Intanto, non si ferma la ricerca sul settore della mobilità urbana, che ha già dato un frutto speciale: la bici superleggera pieghevole da yacht. Una chicca per pochi, un’altra pedalata verso il futuro.
Oggi, la piccola impresa artigiana non è più in conflitto con le grandi aziende e col settore industriale, anzi ne è l’ispirazione e un prezioso complemento
Un incontro: quello del legno con l’alluminio, quello della natura con la tecnologia. Così nascono gli occhiali più particolari e più eco-friendly del mondo, quelli della W-Eye, un’azienda di famiglia dove si producono occhiali in legno superleggeri (10 grammi), super ecologici e super glamour. Ad aver avuto l’idea è un falegname, o meglio un sediaro, cresciuto nella bottega del padre tornitore. Torcere il legno, dargli forme curve e dolci, renderlo flessibile e duttile: questa la sfida di Doriamo Mattellone, che nella sua azienda di Udine, dal 2001, lavora le montature una a una con fogli di legno da 5 millimetri e, con una tecnica innovativa, li unisce con sottilissimi strati di alluminio. L’incontro decisivo poi è stato quello con il designer Matteo Ragni che ha dato uno stile accattivante al lavoro del sediaro udinese diventato artista degli occhiali. Risultato: da più di un decennio questo imprenditore friulano, grazie ai suoi occhiali, guarda lontano e vede crescere gli ordinativi e le richieste, che vengono ormai anche dall’altra parte del mondo. Un successo Made in Italy che conferma la vitalità delle imprese manifatturiere italiane quando visione, innovazione e “saper fare” si mescolano in maniera sapiente.
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In
intervista
Impresa sana in corpore sano intervista a Nerio Alessandri, di Pino Buongiorno
Sapere unire capacità imprenditoriali, design e uno stile vita e un’alimentazione sana e riuscire a creare un’azienda di successo. È la storia di Technogym, impresa leader nel settore del wellness: non uno sport, ma una filosofia di vita. E di impresa.
Come Steve Jobs, anche Nerio Alessandri ha iniziato la sua avventura imprenditoriale in un garage. Aveva solo 22 anni, un diploma da perito meccanico, un grande entusiasmo per lo sport, una passione per il design e le competenze da progettista quando, nel 1983, cominciò a inventare le prime attrezzature per le palestre nel garage di casa, a Cesena. Nasceva così Technogym, oggi leader mondiale con 2200 dipendenti che lavorano in 14 filiali in Europa, Stati Uniti, Asia, Medio Oriente, Australia e Sud America. Ogni giorno, 35 milioni di persone in tutto il mondo utilizzano i prodotti Technogym, esportati al 91% in oltre 100 Paesi. L’azienda ha attrezzato 65.000 centri sportivi e oltre 100.000 abitazioni. Scelta come “fornitore ufficiale” di cinque edizioni dei Giochi olimpici, utilizzata dai più prestigiosi club sportivi per la preparazione dei propri atleti (Juventus, Milan, Inter, Real Madrid e Chelsea, nel calcio, Ferrari nella Formula 1, Alinghi nella vela e tanti altri ancora), Technogym ha anche inaugurato una filosofia originale: il wellness che supera il concetto americano di fitness, tutto muscoli e apparenza fisica. «È uno stile di vita orientato al miglioramento della qualità dell’esistenza attraverso una regolare attività fisica, una sana alimentazione e un atteggiamento mentale positivo. Ci permette di stare bene con noi stessi e con gli altri, di avere più energia sul lavoro e soprattutto di vivere meglio 066
e più a lungo» spiega Alessandri che, nel 2001, è diventato il più giovane Cavaliere del lavoro della storia repubblicana e successivamente ha ricevuto due lauree honoris causa in scienze motorie e ingegneria biomedica. «È un progetto profondamente italiano che affonda le proprie radici nel mens sana in corpore sano coniato 2 mila anni fa nell’antica Roma». Di recente, in piena crisi economica, l’azienda ha inaugurato il Technogym Village alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dell’ex presidente americano Bill Clinton, che ha fatto della lotta all’obesità infantile la bandiera della sua Fondazione.
L’Italia può giocare un ruolo da protagonista in questo campo e diventare il primo produttore di benessere al mondo È il nuovo quartier generale di Technogym che comprende il centro di ricerca e innovazione, gli stabilimenti produttivi e un grande wellness center dedicato all’attività fisica, all’interior design e alla cultura del wellness. Il complesso, che occupa un’area di 150 mila metri quadrati, di cui 60 mila coperti, è il primo esempio di wellness campus al mondo per far vivere a collaborato-
ri, clienti, fornitori e ospiti internazionali una vera esperienza di benessere. L’ambizioso progetto si integra nell’iniziativa “Romagna-Wellness Valley”, promossa dalla Wellness Foundation di Alessandri, fondata nel 2003, che mira a fare della Romagna il primo distretto del benessere in Europa, un laboratorio di esperienze per aumentare le opportunità di sviluppo economico. «L’uomo è nato per muoversi», afferma Alessandri, genitori contadini diventati poi operai, sposato, due figli, un’Audi di proprietà e nessun aereo privato. «I nostri progenitori camminavano e correvano 30 chilometri al giorno, una mezza maratona quotidiana a caccia per raccogliere il cibo della comunità. Oggi il nostro movimento quotidiano è molto al di sotto, in media un chilometro. La sedentarietà innesca un’emergenza sociale: viviamo un’epidemia di sedentarietà che fa vittime e ci fa ammalare. Non per niente le malattie croniche, causate da cattivi stili di vita come sedentarietà, scorretta alimentazione, alcol e fumo, rappresentano la prima causa di morte al mondo e generano oltre 35 milioni di decessi prematuri all’anno. Nel 2006, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero delle persone in sovrappeso ha superato il numero dei malnutriti. L’epidemia dell’obesità non colpisce più solo i Paesi cosiddetti avanzati, ma anche quelli più poveri. La crisi economica sta peggiorando la situa-
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zione aumentando il consumo di cibospazzatura, soprattutto fra i più giovani». Alessandri è terrorizzato da questi dati, che – aggiunge – uniti al costante invecchiamento della popolazione e alle crescenti difficoltà dei governi nel finanziare la salute pubblica, indicano in maniera chiara una sola via d’uscita. «L’antidoto per combattere questa epidemia del XXI secolo è l’educazione al movimento, che può ridurre fino al 40% i rischi di contrarre numerose patologie. Un’autorevole ricerca medica internazionale ha messo in evidenza che, al diminuire del 10% delle malattie vascolari in un Paese, corrisponde l’aumento di un punto percentuale del PIL. Ecco perché abbiamo lanciato, già nel 2003, il messaggio “Health is Wealth”, “la salute è ricchezza”. Il wellness, quell’idea avveniristica lanciata 20 anni fa da una piccola azienda della provincia italiana, oggi rappresenta un grande trend internazionale». Il garage porta fortuna, soprattutto se, come il co-fondatore di Apple, si ha la gran voglia di mettersi in gioco, anche contro il parere della mamma: «Volevo diventare a tutti i costi, fin da quando studiavo, un imprenditore. Non mi interessavano il posto fisso né il lavoro sicuro. Ogni giorno mi guardavo attorno e cercavo l’idea giusta per cominciare. Pian piano sono arrivato alla start-up (all’epoca non si chiamava così), che poteva coniugare la mia passione per la meccanica (techno) e per lo sport (gym). In Italia il settore non esisteva. C’era già in America, ma l’ho scoperto solo un anno e mezzo dopo da un amico che viveva lì e che oggi è al mio fianco. A 24 anni sono partito per un lungo viaggio negli Stati Uniti per andare a vedere cosa producevano da quelle parti». Alessandri tornò a casa con tante novità e soprattutto con l’idea di andare oltre l’edonismo e di puntare invece sul benessere individuale e collettivo. Da due anni la parola “wellness” è entrata nel dizionario inglese. Ecco la prima lezione fatta propria dall’industriale romagnolo. «Capii allora, e ne ho la conferma tutti i giorni, che la frontiera vincente del futuro è la creatività. Sono sempre più convinto, come ci hanno insegnato i maestri del nostro Rinascimento, che l’uomo ritornerà al centro e farà la vera differenza. Ecco perché non ci può essere in futuro uno sviluppo economico sostenibile senza la salute della gente. Se lei è in wellness, la creatività è molto più elevata. Le imprese produrranno di più perché i propri collaboratori saranno più felici, sorrideranno, la notte dormiranno 068
e il giorno dopo avranno più inventiva». Al World Economic Forum di Davos Alessandri è stato fra i promotori della Wellness Alliance, che riunisce le imprese mondiali che credono in questa filosofia. Da qui si è sviluppato un Manifesto con le linee guida sugli stili di vita, la salute e la prevenzione che Davos ha consegnato all’Onu attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità. Cesena è diventata la culla della cosiddetta Wellness Economy, che, secondo Alessandri, andrà a rimpiazzare la Green Economy. «L’Italia può giocare un ruolo da protagonista in questo campo e diventare il primo produttore di benessere al mondo mettendo a sistema il suo DNA, ormai riconosciuto in tutto il mondo: design, alimentazione, patrimonio artistico e turismo». Alessandri, un imprenditore sociale, come si considera lui, con il mito di Adriano Olivetti, ha sempre creduto nel prodotto che fa come se fosse un’opera d’arte. «Il mio concetto di imprenditore ha un approccio artistico. E mi spiego. L’artigiano ci mette la testa e
35 MILIONI Sono le persone che utilizzano i prodotti Technogym
TECHNOGYM VILLAGE Il primo wellness campus al mondo (a Cesena) ha una superficie di 150.000 m2
2200 DIPENDENTI Per lavorare i prodotti distribuiti in 65.000 centri sportivi e 100.000 abitazioni
impresa sana in corpore sano
Il mio concetto di imprenditore ha un approccio artistico: l’artigiano ci mette la testa e le mani quando realizza un prodotto, l’imprenditore va oltre e aggiunge il cuore alla testa e alle mani
le mani quando realizza un prodotto. L’imprenditore va oltre e aggiunge il cuore alla testa e alle mani. È così che si affermano le aziende con una forte identità e uno stretto legame con la comunità. Quando ebbi l’idea di fare della Romagna la Wellness Valley mi presero tutti per matto. Oggi è l’orgoglio dei romagnoli. Amministratori, imprese, scuole, università: tutti si identificano in questo progetto. All’uscita del casello autostradale per Cesena c’è scritto bene in evidenza Wellness Valley». Gran viaggiatore in giro per il mondo, il fondatore di Technogym riflette sulla complicata e grave situazione italiana, e quasi si arrabbia. «Perché ci stiamo abituando alla mediocrità? Perché non reagiamo più contro le avversità? La risposta che mi sono dato è che è venuto meno lo spirito dell’eccellenza, dell’arte, della visione. Per fortuna ci sono ancora imprenditori che ci credono, ma sembriamo tutti dei romantici. La finanza ha preso il sopravvento. La speculazione sembra dominare il business. Invece noi dob-
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biamo ritornare alle nostre origini, ai nostri valori. Dobbiamo ritornare ad avere fame, come nel dopoguerra». La Technogym sta cercando di non arrendersi e ha investito negli ultimi due anni più di quanto non abbia mai fatto nella sua pur breve storia. Ma con un vincolo preciso: «Penso che un’azienda possa essere forte e avere successo nel mondo solo se ha radici ben radicate nel territorio». Alessandri si attribuisce un grande merito e anche un grande difetto: «Il primo è quello di essere un super curioso. Il secondo è che non mi accontento mai. Siamo un brand mondiale, investiamo in Ricerca&Sviluppo e apriamo nuove fabbriche, per esempio, in Brasile, ma anche in Asia. Fra due, tre o quattro anni pensiamo di andare finalmente in Borsa. Oggi io sono proprietario del 60% della società. Il socio più importante è un fondo inglese». Un’ultima domanda: visto che lei è alla perenne ricerca del Sacro Graal cosa ha in mente ancora? «La mia ultima idea è quella di trasformare Technogym in un’azienda patrimonio dell’umanità». 069
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contesti
Ikea: spazio all’italia articolo di Cecilia Toso
Oggi in 40 Paesi del mondo si può trovare almeno un negozio Ikea, e in ognuno di essi si può trovare almeno una cucina italiana. Perché oggi l’Italia, dopo Cina e Polonia, è il terzo Paese fornitore del colosso svedese.
Fornitori —
Per diventare fornitori Ikea bisogna tenere standard molto elevati, superare test sull’efficienza e sulla tecnologia mantenendo prezzi bassi.
L’Italia è il terzo fornitore al mondo di Ikea. E in Italia Ikea acquista soprattutto camere da letto, scaffali, librerie, cucine. Ebbene sì, se compriamo una cucina “svedese”, pensata da designer svedesi, costruita con pini svedesi (e magari, prima di uscire, passiamo a comprare qualche aringa all’aneto) può finire che, tornati a casa monteremo la nostra nuova cucina… italiana; anche se viviamo in Cina. Ed è proprio il settore delle cucine quello più “italianizzato”: il 34% di quelle vendute da Ikea in tutto mondo è stato prodotto in Italia. Con 338 negozi in 40 Paesi (ma i progetti in cantiere sono molti), è evidente che
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Ikea si debba rifornire di prodotti anche al di fuori dei confini svedesi; e per rispettare gli alti standard di qualità è indispensabile racchiudere all’interno del marchio Ikea quello di altre case di produzione come ad esempio Whirpool ed Electrolux, i cui elettrodomestici completano le cucine Ikea. Ma che l’Italia fosse, dopo Cina e Polonia (che riforniscono Ikea rispettivamente per il 22% e per il 18%), il terzo fornitore di Ikea al mondo non era facile da immaginare. E invece, solo tra Veneto, Friuli e Lombardia Ikea compra più che in Svezia o Germania e, in totale, in tutta Italia acquista l’8% delle sue forniture.
Ma chi sono questi 24 fornitori e che cosa producono? Per certo si sa che l’80% degli acquisti sono mobili (cucine, camere da letto, scaffali, librerie, bagni) e il 20% complementi di arredo. Su chi siano i fornitori, invece, ci sono alcune incognite; non tutti amano vedere il proprio nome associato a quello della multinazionale. Però la vita di queste aziende italiane Ikea l’ha cambiata parecchio. La rubinetteria piemontese Paini, con 300 addetti, ha avuto nel 2011 un fatturato di 70 milioni di euro, cresciuto del 7% rispetto all’anno precedente proprio grazie alla collaborazione con gli svedesi. E poi ci sono Natuzzi, Elica cappe e Friul Intagli; quest’ultima azienda, di Pordenone, deve più di metà del suo fatturato (180 milioni su 300) a Ikea, a cui fornisce mobili in kit e componenti per le cucine, partecipando attivamente anche alla progettazione. Per diventare fornitori Ikea, però, bisogna tenere standard molto elevati; superare test sull’efficienza e sulla tecnologia, mantenere i prezzi bassi (sui propri prodotti e su quelli dei fornitori) che, da contratto, con gli anni devono essere abbassati ulteriormente. Proprio per questa ragione i margini di profitto non sono altissimi e molte aziende non riescono a entrare nella competizione. Chi riesce a tenere il passo, invece, guadagna in volume produttivo, in lunghi contratti e in valore del brand. E l’Italia ne sta guadagnando in posti di lavoro: sono 11.000 i lavoratori coinvolti se si sommano ai 2500 delle aziende fornitrici anche gli addetti alla rete commerciale. Ciò che a questo punto viene spontaneo domandarsi è: perché l’Italia. Lars Petersson, amministratore
delegato di Ikea in Italia, racconta che il nostro, per loro, è un ottimo Paese in cui investire. Hanno trovato qualità nella produzione, grandi competenze e know-how, nonché un numero inferiore di reclami. Ma anche flessibilità, perché le aziende non si fermano davanti a un cambiamento di programmi: se il progetto subisce delle variazioni, i produttori italiani soddisfano la nuova richiesta. Senza contare che essere in continua competizione mondiale per confermarsi fornitori di Ikea stimola a tenere alti qualità e servizio. E infine le questioni ambientali: rifornirsi dall’Italia invece che dalla Cina è più conveniente in termini di carbon footprint. Così Ikea sta spostando, per esempio, alcuni suoi fornitori dall’Asia al Piemonte, dove compra soprattutto rubinetterie, cassettiere, giocattoli. Diverso è, nel rapporto tra Ikea e l’Italia, il mondo delle vendite, dove il nostro Paese è al quarto posto dopo Germania, Stati Uniti e Francia, e le frizioni si fanno sentire. Ikea compra dall’Italia 8 ma vende 7 e quest’anno, per la prima volta dal 1989, ha avuto un calo di fatturato del -2,6%, (per tamponarlo ha deciso di aprire all’ecommerce). E la crisi economica, secondo Petersson non è di certo aiutata dalle lunghe battaglie che si consumano in Italia per l’apertura di nuovi punti vendita: i tempi della politica e della burocrazia hanno portato Ikea in alcuni casi, come a Vecchiano (Pisa), a cancellare il progetto dopo aver atteso per anni una risposta dalle autorità locali. L’Italia quindi come risorsa e Paese di sfida in cui Ikea pensa, nei prossimi tre anni, di investire 400 milioni di euro.
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intervista
IL TIMORE DEL FUTURO? NON POSSIAMO PIÙ PERMETTERCELO intervista a Edoardo Nesi, di Armando Buonaiuto
Uno scrittore che ha portato avanti per anni un’azienda tessile, e che non vive la fabbrica come una realtà alienante, parla di futuro e fiducia. E descrive con ottimismo un Paese ricco di giovani e potenzialità.
«Una maledetta Cassandra di novantotto chili», così si autodefinisce Edoardo Nesi in Storia della mia gente, il libro che nel 2011 gli è valso il Premio Strega. Interprete e narratore del tracollo economico che avrebbe messo sotto scacco il distretto tessile di Prato e l’intera nazione, Nesi torna a scrivere della realtà italiana in Le nostre vite senza ieri e fissa ancora lo sguardo avanti, sulla generazione dei ragazzi che dovranno risollevare le nostre sorti aggredendo il domani con le armi del coraggio, della passione e della creatività. Perché il timore del futuro, dice, «davvero non possiamo più permettercelo».
Le nostre vite senza ieri è “incorniciato” dalla presenza dei suoi figli. All’inizio sua figlia, che le è accanto mentre si immerge nel passato inseguendo un odore. Alla fine suo figlio, che le ricorda come si gusta il presente e le fa dire con sollievo: «parleremo del futuro». Come si insegna ai giovani a non avere paura di ciò che li aspetta? Ho scritto questo libro soprattutto con la speranza di poter parlare ai giovani, facendo cioè quello che troppo spesso non si fa. Ogni volta che la politica, l’economia e i poteri in genere si pronunciano, non riescono a tradurre i contorni delle situazione attuale in qualcosa che possa realmente servire ai nostri figli.
Trovo questa tendenza piuttosto inspiegabile e credo quindi necessario provare anch’io a descrivere ciò che abbiamo intorno. Mi addolora molto pensare che i nostri ragazzi siano condannati a vivere un presente peggiore di quello che ho vissuto io. E non credo si tratti solo di una questione di denaro. Piuttosto, è una questione di speranza, perché io – e come me tanti altri – nutrivo grandi speranze nei confronti del mio domani, e le nutrivo legittimamente. Oggi invece, a parlare di speranza, si passa per inguaribili illusi. Allora, per restituire valore a questa parola, bisogna forse cominciare dalla fiducia, dandone ai nostri figli prima ancora che la meritino. 073
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«Non abbiamo bisogno di aziende più grandi, ma più nuove. E di nuovi imprenditori. Bisognerà cercarli tra quelle ragazze e quei ragazzi meritevoli che nemmeno i tagli alle nostre povere, cazzottate, scuole e università sono riusciti a fiaccare» C’è davvero una lacuna di volontà e di energia nelle giovani generazioni, come spesso si sente affermare? Non sono assolutamente d’accordo con il luogo comune che vuole i giovani distaccati, disimpegnarti, anestetizzati dai consumi, meno disposti a sacrificarsi e a prendere in mano le proprie vite di quanto non fossero i loro padri e le loro madri. Credo che sia una falsità molto crudele, che non fa i conti con la realtà dei fatti. E qui torniamo al senso della speranza: negli anni Settanta si viveva in un’epoca in cui essere giovani era una condizione vantaggiosa, poiché ciascuno di noi avrebbe potuto fare della propria vita un’imprevedibile avventura in divenire. Preservare l’idea che il figlio di un operaio possa sognare e realizzare per se stesso una vita diversa mi sembra essere tra le cose più importanti che uno Stato dovrebbe fare per i propri cittadini. A questo proposito, quanto può contare l’intuizione del nuovo per gli aspiranti imprenditori di domani? È fondamentale. Occorre riattivare il meccanismo del ricambio e dell’inno-
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vazione, che non vuol dire solo innovare ciò che già c’è, ma letteralmente creare il nuovo, che si tratti di idee o di prodotti. E bisogna anche cominciare a vedere nella rete non solo un mezzo per scambiare conoscenza o per divertirsi, ma una straordinaria arma commerciale, in grado di offrire strumenti di lavoro migliorativi. La tradizionale idea di business dei nostri padri è ormai antiquata, ora abbiamo a disposizione la possibilità di vendere in modo nuovo, attraverso canali una volta impensabili. Restare idealmente legati al passato significa trascinare con sé una zavorra che non aiuta. Non sono le infrastrutture fisiche a mancarci, ma quelle immateriali, digitali. L’Italia come patria del “bel vivere”: è un’idea che, imprenditorialmente parlando, ha ancora un senso? È forse l’unica cosa che ha tuttora una grande validità. Ciò che l’Italia può vantare ancora oggi è la gloria di una nazione fatta di bellezza, un luogo dove l’artigianato si ispira all’arte ed entra nelle nostre vite. È un’idea che affonda le radici nel Rinascimento di Lorenzo de’ Medici
e che alcuni dei nostri marchi migliori continuano a portare avanti. Siamo ancora famosi nel mondo come il luogo nel quale si vive meglio e non dobbiamo sperperare quest’arma straordinaria. Molti dei prodotti che l’Italia vende all’estero nascono dal loro legame con la cultura vera e propria. Quando, anche in un momento come questo, si riesce ad avere mercato vendendo abiti che costano 2000 euro, ciò vuol dire che dentro a quegli abiti si incarna un’ideale che li rende speciali. Vuol dire che chi sceglie di comprarlo, avendo a disposizione mille alternative di ogni fascia di prezzo, fa un investimento in qualcosa che segna la differenza rispetto alla semplice necessità di comprare un vestito. Per comprendere questo meccanismo basta pensare agli ambulanti di Piazza dei Miracoli a Pisa, che vendono paccottiglia, souvenir e magliette che mai riuscirebbero a vendere se, guarda caso, i loro banchetti non fossero proprio accanto alla torre di Pisa. Dunque, è o non è quello un fatturato che deriva dalla cultura? Si dice spesso che con la cultura non si mangia. Forse sarebbe ora di provare a invertire il principio.
il timore del futuro? non possiamo più permettercelo
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«Abbiamo bisogno di nuove idee, di nuove aziende che usino la globalizzazione invece di subirla. Ci vorrà un patto tra le generazioni e ci vorranno anni, ma funzionerà. Perché se non funzionasse l’affidarci alla gioventù, allora vorrebbe dire che saremmo finiti davvero, e che ce lo saremmo meritato» Se cultura e lavoro sono in Italia così strettamente legati, come mai intellettuali e scrittori hanno mostrato in genere così poco interesse nei confronti del mondo dell’impresa? Penso che la responsabilità sia imputabile anche a una certa ideologia che per molto tempo ha impedito di fare una distinzione, a mio avviso abbastanza immediata, tra la condizione di chi è impiegato in una grande o grandissima industria e quella di chi invece lavora in una realtà imprenditoriale piccola o media, nella quale di norma la conflittualità tra padrone e operaio è di gran lunga minore. La letteratura ha spesso presentato il lavoro in fabbrica come una sorta di dannazione, e la fabbrica stessa come il luogo dello sfruttamento di una persona sull’altra. Il padrone di Goffredo Parise, per fare un esempio, è un libro in cui questa realtà viene raccontata ricorrendo alla chiave del grottesco: il padrone è un pazzo reazionario mentre l’impiegato è un pover’uomo succube, travolto dalla follia del potere. Queste prospettive hanno fatto sì che per lungo tempo non si potesse parlare di azienda senza dover narrare la storia dell’operaio
sfruttato. Invece, proprio in quegli anni raccontati da Parise si realizzò il vero miracolo italiano, quello che creò le condizioni affinché molte persone si trovassero a diventare imprenditori grazie alla loro voglia di fare e all’intraprendenza. Sono storie accadute non solo nella mia città, ma in molte provincie italiane, emblemi dello straordinario equalizzatore sociale rappresentato dal boom economico. Per finire, torno a Le nostre vite senza ieri, dove a fronte della situazione poco rosea che fa da sfondo alle sue pagine lei afferma esplicitamente: «sono un ottimista». Cosa anima questo ottimismo? Ho voluto definirmi tale perché intendo richiamarmi all’ottimismo della volontà, sforzandomi di non essere assorbito dal pessimismo che vedo intorno a me e che, seppure a malincuore, riconosco come giustificato. Anzi, talvolta ho l’impressione che se le cose vanno così male è perché qualcuno ci si sta deliberatamente mettendo di impegno. Eppure, confido nella possibilità di un cambiamento capace di sorprenderci. Credo davvero che qualcosa cambierà, e perché questo avvenga
bisognerà pensare prima di tutto a creare lavoro per i ragazzi, perché una nazione incapace di dare spazio alle idee dei propri giovani non può andare da nessuna parte. E poi, è impensabile che questo mondo sia governato da ultrasettantenni. Al di là della volontà di “rottamare”, verbo oggi assai in voga, credo si tratti dell’assoluta necessità di prendere atto di quello che sta accadendo e trovare il coraggio di rinnovarsi. Nutro una fiducia spesso immotivata nell’idea che insieme si possa uscire da questa palude, che con i nostri figli si possa “parlare del futuro”. Lo scrivo nel capitolo sulla partita di calcio del Milan che conclude il libro. Quel capitolo l’avevo scritto tra i primi e l’avevo poi inserito a metà, dove però non mi convinceva. Ciò nonostante, volevo metterlo assolutamente perché mi sembrava che raccontasse un momento importante di condivisione con il proprio figlio, e di insegnamento. È stata mia moglie, una sera, a dirmi che sarebbe dovuto essere il finale. In tutto il libro si parla dei giovani, ma poi bisogna anche raccontare come si sta con loro, cercando di accettare quello che possono insegnarci. Che è tanto.
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Lavoratori di tutto il mondo, specializzatevi! a cura di Oxygen
In Italia, con un attuale tasso di disoccupazione attorno al 10%, sorprende che le imprese fatichino a trovare il 16,3% delle figure professionali che stanno cercando. È il risultato di una parziale incongruenza tra la preparazione di chi cerca lavoro e quella di cui invece le aziende hanno bisogno. Sono soprattutto le professioni specializzate a mancare: servono fonditori, saldatori, lattonieri, manutentori di macchinari; i settori tessile e metallurgico segnalano difficoltà oltre le media. Servono i tecnici e il mondo se n’è accorto: negli ultimi due anni il numero di iscritti agli istituti professionali è aumentato a discapito dei licei. Nello stesso momento in cui i settori che più assumono sono il turismo e i servizi, l’industria cerca i suoi tecnici specializzati e la società cerca di stare al passo, formandoli.
FONTE DATI Unioncamere, dati Excelsior; MIUR
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+2% IL SORPASSO
Nel 2012 per la prima volta il numero di iscritti a istituti tecnici o professionali ha superato quello dei liceali.
21,2% ARTIGIANI MANCANTI
Gli artigiani sono la quarta categoria professionale pi첫 difficile da reperire del 2012 dopo tecnici, specialisti scientifici e dirigenti.
16,3% GLI INTROVABILI
Tra ottobre e dicembre 2012 si prevede che le imprese non troveranno il 16,3% delle figure professionali ricercate.
1920 SALDATORI E LATTONIERI
Sono fra le specializzazioni pi첫 richieste agli artigiani, ma nel quarto trimestre del 2012 si prevede che le industrie ne troveranno solo 1920.
12,46% LAUREATI ASSUNTI
Nel 2011, di tutti gli assunti solo il 12,46% era in possesso di una laurea, e in ambito artigiano solo il 3,5%.
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Una società che funziona meglio, in cui i bisogni dei cittadini, dell’ambiente e delle comunità sono adeguatamente considerati, è una società che va a beneficio anche dell’attività aziendale
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Valori nuovi per una nuova rivoluzione industriale articolo di Gianluca Comin
Per uscire dalla crisi bisogna invertire il declino del ruolo dell’industria. E per farlo bisogna operare non solo a livello strutturale, ma anche culturale. In Italia in particolare è necessario ricostruire l’orgoglio industriale mettendo al centro valori come l’individuo e l’ambiente. La crisi che ha gettato le nostre economie nella recessione più profonda che le nostre generazioni ricordino ha avuto almeno un merito: quello di correggere la lezione che, semplicisticamente, si tendeva a trarre dalla globalizzazione, e cioè quella per cui, a causa dei divari nel costo del lavoro e delle materie prime, l’industria, la produzione di cose, si sarebbe spostata interamente nei Paesi emergenti – Cina, Brasile, India… – e l’Europa avrebbe potuto prosperare esclusivamente sui servizi e sulla finanza, sulla produzione immateriale. Una previsione semplicistica, che ricorda in qualche modo quella di John Maynard Keynes che, nel 1930, teorizzava che entro il 2030 saremmo vissuti «in uno stato di abbondanza, appagati e finalmente liberi di dedicarsi alle arti, alle attività ludiche e alla poesia, essendosi affrancati da attività economiche come il risparmio, l’accumulazione di capitale e il lavoro». Anche i grandi economisti sbagliano le loro previsioni. Ed ecco che, dopo anni di ubriacatura finanziaria, ci ritroviamo di fronte a un’economia europea fortemente indebolita e alla necessità di rafforzare, rilanciare, rinnovare le nostre filiere industriali il cui know-how rimane il fattore competitivo determinante da difendere per far fronte alla competizione globale.
La validità di questa diagnosi è stata riconosciuta anche dalla Commissione Europea che, nella sua recente comunicazione al Parlamento Europeo dal titolo A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery1, riconosce che per uscire dalla crisi in maniera duratura e sostenibile l’Europa deve «invertire il declino del ruolo della sua industria nel XXI secolo». La prospettiva non è, però, quella di far rivivere la vecchia industrializzazione che abbiamo conosciuto – e che ha garantito al continente diversi decenni di crescita – ma l’ingresso in un orizzonte industriale nuovo, basato su nuove imprese e nuovi settori: quello delle nuove macchine per la produzione di beni (come ad esempio le stampanti 3D); quelli della microelettronica e della nanotecnologia; quelli del biotech e dei nuovi materiali; quelli, infine, della mobilità sostenibile e delle smart grids. Settori sulla cui crescita l’Europa potrà edificare la propria prosperità futura, a costo di uno sforzo deciso e coordinato. Che passa certamente per riforme strutturali, come la riduzione della burocrazia, gli investimenti in ricerca, un framework fiscale che favorisca la produttività e l’innovazione. Ma la reindustrializzazione del nostro continente passa anche per un aspetto culturale, senz’altro più “soft” ma 079
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Dopo anni di ubriacatura finanziaria ci ritroviamo di fronte a un’economia europea fortemente indebolita e alla necessità di rafforzare, rilanciare, rinnovare le nostre filiere industriali
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non per questo meno importante: il recupero dell’orgoglio di fare industria. Si tratta di un tema di grande rilevanza a livello europeo, ma che risulta particolarmente attuale se guardiamo all’Italia, che sul suo tessuto industriale ha edificato la propria crescita dal boom economico in avanti. Gli eccessi finanziari degli ultimi quindici anni, seguiti dalla durezza della crisi, sembrano aver fatto affievolire non solo la nostra produttività, ma anche l’orgogliosa coscienza degli imprenditori italiani del proprio ruolo nella società. Pare che il Paese abbia dimenticato che il suo benessere è stato costruito proprio sul coraggio e sull’ambizione di un’autentica cultura del fare. Da un lato dunque gli imprenditori perdono fiducia nel futuro del Paese (l’Istat Economic Sentiment Indicator tra ottobre 2009 e ottobre 2012 è passato da 90,4 a 76,6), dall’altro gli Italiani perdono consapevolezza del ruolo che l’impresa può giocare nel costruire questo futuro, e non guardano più a essa con l’orgoglio che contraddistingue, ad esempio, i tedeschi o i francesi. Ce lo confermano alcune ricerche demoscopiche, come quelle effettuate sul tema da Demos PI2: alla domanda «Quale aspetto la rende orgoglioso di essere italiano?» solo l’8,7% degli
italiani risponde oggi «la nostra economia e i nostri imprenditori». Una percentuale in netto calo rispetto al 2008 in cui era il 14,8% degli intervistati a rispondere in questo modo. Ma non è tutto: alla domanda «Quali sono i caratteri che distinguono gli italiani dagli altri popoli?» solo il 7,4% risponde «la capacità imprenditoriale». Molti meno di quanti rispondono «l’attaccamento alla famiglia» (25,3%), «l’arte di arrangiarsi» (20,4%) e «la creatività» (14%). Infine, solo l’11% degli italiani vede le imprese come «gruppo sociale che cambierà il Paese», mentre il 46% vede i giovani e il 12% le scuole. Si tratta di numeri che svelano un bisogno evidente: se il nostro Paese dovrà ripartire dall’industria, lasciandosi alle spalle gli anni in cui si è parlato più di finanza e di incentivi che di innovazione e investimenti, un grande lavoro andrà fatto anche a livello culturale e di reputazione, recuperando i valori che stanno dietro all’orgoglio industriale e migliorandone la percezione nell’opinione pubblica. Un recupero che ha pilastri valoriali forti su cui basarsi e da cui partire: la centralità della persona, l’enfasi sulla qualità, il rispetto delle regole, la responsabilità sociale e ambientale. La centralità della persona è un valore che l’industria deve saper fare ancora proprio, se vuole indirizzare lo sviluppo del Paese. Un valore che implica la capacità di porre la persona al centro dello sviluppo del Paese e che passa per la valorizzazione del capitale umano, del talento, della sicurezza sul lavoro. Vi è poi la qualità, caposaldo irrinunciabile, italiano ed europeo, del fare industria; qualità che va di pari passo con la passione, la creatività e l’eccellenza tecnologica. Non si tratta di parole vuote: l’enfasi sulla qualità come strategia produttiva ma anche come “ideologia industriale” è un’opzione radicale che implica il ruolo chiave della ricerca, dell’innovazione ma anche di un’etica imprenditoriale rivolta al perfezionamento continuo e al rifiuto del second best. Una scelta già intrapresa con coraggio in numerosi settori della nostra industria, ma che deve diventare un attributo immediatamente riconducibile a ogni prodotto del Made in Italy. Altro valore fondamentale su cui ricostruire l’orgoglio industriale è quello del rispetto delle regole. Troppo spesso, nella percezione comune, alla figura dell’imprenditore si abbina la definizione di “evasore”, e l’industria è percepita come “al di sopra delle regole”.
valori nuovi per una nuova rivoluzione industriale
Eppure sono numerose le esperienze che dimostrano quanto proprio l’industria possa fungere da centro di emanazione del valore della legalità come strumento che garantisce una competizione efficace sul mercato: le iniziative di Confindustria contro la mafia in Sicilia, gli accordi per la legalità tra grandi imprese e pubbliche amministrazioni, come quello siglato lo scorso maggio tra Enel e il Ministero degli Interni. Tutte iniziative volte a sottolineare come le buone regole possano essere uno strumento di crescita condivisa, e non un ostacolo allo sviluppo. Infine, una nuova industria non può non essere fondata, fin da principio, su un fortissimo senso di responsabilità sociale e ambientale. Soprattutto in un’epoca di crisi, il ruolo dell’impresa deve andare oltre la massimizzazione del profitto, ed essere capace di creare valore per tutta la società in cui opera. In questo senso, la dimensione della responsabilità deve essere integrata fin nel cuore del fare industria, superando il concetto di giving back (ovvero di restituzione di parte dei profitti attraverso la filantropia) e muovendosi verso la capacità di creare, attraverso il business, valore condiviso con la comunità in cui si opera. Perché una società che funziona meglio, in cui i bisogni dei cittadini, dell’ambiente e delle comunità sono adeguatamente considerati, è una società che va a beneficio anche dell’attività aziendale. È attorno a questi valori che l’orgoglio dell’industria può essere rifondato nella percezione del Paese. Ma è essenziale che questa rifondazione non si riduca a un mero revival delle storie di successo del nostro passato. Al contrario, una nuova epica industriale deve celebrare i “costruttori di futuro” della nostra industria, e la capacità di adattamento che essi hanno già dimostrato affrontando con coraggio il grande cambio di paradigma dell’economia globale, fatto di nuovi competitor, nuovi metodi di lavoro, tempi rapidi e decisioni complesse. Questa nuova epica industriale deve conquistare le generazioni più giovani, che spesso nel sistema educativo non trovano l’ispirazione necessaria per comprendere l’importanza del mondo dell’industria nella realtà in cui vivono; in questo senso, l’industria dovrà entrare nelle scuole, e le fabbriche dovranno aprire le porte alle giovani generazioni. Insomma: la nuova rivoluzione industriale dovrà essere anche una rivoluzione dell’educazione.
NOTE 1. Communication from the European Commission to the European Parliament, A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery, Brussels, 10.10.2012 COM(2012) 582 final. 2. Fonti: Indagine Demos & Pi per Intesa Sanpaolo, 2011 (base: 1044 casi); Indagine CambItalia di Demos & Pi per la Repubblica delle Idee 2012 (base: 1300 casi).
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EnelLab In occasione del suo 50° anniversario, Enel ha promosso il laboratorio d’impresa attraverso una competizione per start-up italiane e spagnole con progetti innovativi in campo energetico che si è conclusa con 215 candidature. Nei prossimi mesi saranno selezionati i finalisti e i vincitori. Per la prima volta un’azienda privata apre le sue porte per accogliere una nuova generazione di imprese e imprenditori, stanziando 15 milioni di euro per i prossimi 3 anni, da mettere a disposizione delle start-up più innovative e che aspirano a cambiare le regole del gioco del mondo dell’energia. Le 15 aziende finaliste avranno l’opportunità di presentare la propria impresa e tecnologia direttamente al top management di Enel. Le sei start-up vincitrici accederanno a un programma di incubazione che durerà fino al 2014 e prevede una capital injection e una serie di servizi per accelerarne la crescita. In questo modo i vincitori potranno sviluppare la loro impresa godendo dei servizi e del pieno supporto di Enel, con l’opportunità di trasformare un’innovazione in un successo concreto nell’ambito delle clean technologies in campo energetico: dall’efficienza energetica, alle rinnovabili, dalle smart grids all’energy storage, dall’automation solution alle tecnologie low-carbon. lab.enel.com 081
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approfondimento
Manifattura 2.0 articolo di Alessandra Viola
Le professioni operaie e manifatturiere sono definitivamente entrate nell’era 2.0. I nuovi “lavori hard” sono quelli della manifattura digitale, legati all’ICT e alle tecnologie che sostengono l’innovazione, ma anche alla robotica e alle rinnovabili. Oxygen ha condotto un’inchiesta in questi settori, facendoli raccontare a chi ci lavora.
«La parola “crisi”, scritta in cinese, è composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo, l’altro l’opportunità», amava ripetere John Fitzgerald Kennedy, che di crisi certo se ne intendeva per averne fronteggiate parecchie. Economisti e uomini politici, romanzieri e polemisti sono tutti d’accordo: i momenti di crisi sono fasi cruciali nella storia di un Paese e possono ipotecarne il futuro ma anche rilanciarlo grazie a improvvisi cambiamenti di scenario. E in Italia? Da noi com’è noto non sono tempi facili: il mercato del lavoro è in contrazione o nella migliore delle ipotesi ristagna. Le manifatture tradizionali, che per almeno un secolo hanno sostenuto l’economia nazionale, stanno crollando sotto il peso della concorrenza mondiale. Eppure qualcosa si muove sotto la cenere. Il lavoro sta cambiando e non solo le avanguardie scientifiche e tecnologiche, ma anche le professioni operaie e manifatturiere sono definitivamente entrate nell’era 2.0. I componenti hard per l’ICT – Minteos (Torino) Mettere in comunicazione l’ambiente esterno con Internet: è questo il compito dei sensori e delle reti che ne registrano e trasmettono i dati. Un compito sempre più importante, man mano che le potenzialità della Rete si dispiegano anche per la protezione dell’ambiente. Un sensore wireless può tenere sotto controllo la temperatura o il gas, le piogge, lo stato dell’aria o del suolo, gli spostamenti e le vibrazioni. E avvisarci in tempo reale quando qualcosa va storto. Installare queste sentinelle ambientali è un lavoro all’avanguardia ma da reinventare ogni volta, e che può rivelare delle soprese. «Il mio compito è valutare la richiesta del cliente e preparare un’offerta tecnica che spieghi quale tipo di sensori sarebbero necessari per
soddisfare le sue esigenze, con quali costi e in base a quale progetto», spiega Vincenzo Nasso, ventinovenne ingegnere meccatronico che da tre anni lavora per la torinese Minteos. «Mi occupo anche della costruzione di prototipi e della loro integrazione nella nostra rete, che raccoglie i dati e li rende disponibili on-line». Un lavoro apparentemente tranquillo, che però può presentare delle sorprese. Soprattutto perché Minteos, ex start-up incubata dal Politecnico di Torino, spazia dal monitoraggio della temperatura di ambienti interni alle reti di sensori posizionate in boschi (tra gli altri quello del Parco di Castel Fusano), fiumi, pendii montani, dighe e persino fognature (ad Atene). «Seguo il cliente dall’inizio alla fine», continua Nasso. «Questo mi porta spesso fuori dall’ufficio e a volte anche a trovarmi in situazioni in cui occorre… Un po’ di fantasia. Come a Castel Fusano, quando abbiamo installato 1000 sensori nella pineta per il progetto Fireless. Si trattava di mettere i sensori sugli alberi, ma la pineta è piena di rovi: avvicinarsi a volte è stato difficilissimo. O come quando abbiamo installato i sensori nelle fognature di Atene, per monitorare i livelli degli scarichi ed evitare intasamenti e riversaggi a mare. Credo che io e i colleghi greci non dimenticheremo facilmente i 30 gateway [i “nodi” che trasmettono all’esterno i segnali GPRS dei sensori, N.d.R.] posizionati nelle camerette fognarie. Altre installazioni sono più semplici, ma non vuol dire che siano facili: come quella dei sensori per il monitoraggio delle colate detritiche in provincia di Bolzano, o quelle degli idrometri che controllano i letti dei torrenti standoci sospesi sopra». Dalla progettazione al lavoro hard, il salto per un neolaureato ingegnere del Politecnico 083
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di Torino può essere forte. «Quando mi hanno assunto sapevo di entrare in un’azienda che aveva un profilo ambientale molto forte. Uscire dall’ufficio era un’idea che mi allettava molto, anche se non sapevo bene cosa aspettarmi. Oggi so che malgrado la crisi esistono grandi margini di crescita in questo settore, e spero che il mio futuro sia quello di aprire una spin-off di Minteos. È un’azienda molto dinamica e credo che sarebbe il posto adatto». La robotica – Scienzia Machinale (Pisa) In questo settore, in continua crescita, l’Italia vanta alcune eccellenze mondiali e sono molti gli spin-off universitari e le start-up fondate da giovani neolaureati. La maggior parte si concentra su un’unica gamma di prodotti (per esempio: i robot per uso biomedicale), ma c’è anche chi ha scelto una diversa filosofia. È il caso della Scienzia Machinale di Navacchio (Pisa), che si occupa di ricerca applicata e progetta soluzioni robotiche “su misura” per i suoi clienti. Accade così che questo gruppo di 56 ingegneri toscani abbia costruito cose diversissime tra loro, che vanno da una ultratecnologica macchinetta per il caffè espresso alla cupola di una moschea in Oman, dalla grande scenografia per un set a Cinecittà a una protesi bionica (oggi applicata da grandi ospedali italiani e americani) al “robot scultore” in grado di sagomare in poliuretano la poppa di una nave o l’ala di un aereo, ma anche 084
di duplicare alla perfezione qualsiasi statua. E poi un radar. E un apparecchio portatile rivoluzionario (il diaptometro) che in pochi minuti è in grado di fare l’analisi e misurare la resistenza di qualsiasi metallo senza romperlo, ma solo praticando un minuscolo forellino sulla sua superficie. Il nome dell’azienda è una citazione di Leonardo, che usava questa espressione per indicare l’ingegneria meccanica («arte nobilissima over utilissima») e non si può dire che
Ormai solo chi vuole e sa innovare, nel prodotto finale ma anche nel modo di fare impresa, riesce a rimanere in piedi l’azienda non gli stia rendendo onore. La lista dei robot costruiti sarebbe infatti ancora molto lunga, ma qui – e sembra questa la vera innovazione – i prodotti finali contano meno del metodo di lavoro e del rapporto tra le persone. «Quando ti trovi in un gruppo affiatato, dove i colleghi si vogliono bene e si lavora con affiatamento, si riesce sempre a tirar fuori qualcosa di buono», spiega Renzo Valleggi, ingegnere classe 1962 che è stato tra i fondatori dell’azienda e oggi ne è il presidente, ma si riconosce ancora
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nella “classe operaia” (specializzatissima) che la compone. «Ogni volta che arriva un cliente, cioè un’azienda che ci fa una richiesta specifica, ci riuniamo. Abbiamo 45 laureati che coprono tutte le possibili branche di ingegneria. S’inizia a ragionare e a selezionare le competenze più adatte per il progetto, ma si sceglie anche in base agli entusiasmi personali, alla passione. Per esempio alcuni in azienda sono dei ferventi ambientalisti e allora vengono più facilmente messi a lavorare su quei temi. È importante lavorare su qualcosa che ti piace e che ti crea entusiasmo: questo apporta un grande valore aggiunto alla loro riuscita. Alla fine si crea un gruppo di 6-8 persone che inizia a immaginare come risolvere il problema che ci è stato posto e da lì in circa cinque mesi arriviamo a realizzare il prototipo. Sempre dialogando: non lavoriamo a compartimenti stagni ma in modo integrato. È lo stile imposto, per come lo interpretiamo noi, dalla meccatronica, la disciplina che integra elettronica, software e meccanica». Oggi il gruppo Scienzia Machinale fattura sei milioni di euro, ma è lungi dal sentirsi “al sicuro” in tempi di crisi. «I vecchi mestieri e il vecchio modo di fare impresa stanno subendo una crisi gigantesca – continua Valleggi – e in Toscana la situazione è ancora più pesante che in altre regioni, perché questa era una terra in cui la manifattura, in particolare nelle zone dei distretti industriali come Pon-
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tedera o Santa Croce, era molto forte. Io vengo da Castelfiorentino, che era la culla delle camicette. Centinaia di donne lavoravano alla loro produzione e oggi è desolante passare lì e vedere che non c’è più neanche una di quelle manifatture. Per quelle aziende, che avevano una bassissima componente tecnologica, resistere alla concorrenza mondiale è stato quasi impossibile. Ormai solo chi vuole e sa innovare, nel prodotto finale ma anche nel modo di fare impresa, riesce a rimanere in piedi». Alla Scienzia Machinale sembra davvero che il profilo etico dell’impresa abbia un valore tangibile. «Noi siamo quello che erano gli operai degli anni Sessanta: siamo tutti sulla stessa barca e se la barca affonda andiamo giù con lei», incalza Valleggi. «Come soci siamo in cinque e ci diamo uno stipendio, che è praticamente uguale a quello dei dipendenti. Quando la crisi è stata più forte ci siamo tutti diminuiti gli stipendi del 30%. E appena il momento buio è passato ognuno ha riavuto gli arretrati con gli interessi. Da noi crescere insieme è la cosa più importante. Ci sono ingegneri, periti tecnici e un operaio che lavora con noi da vent’anni. Ognuno è indispensabile: non ci limitiamo ad avere delle idee, ma fabbrichiamo i robot. Così chi ha fatto il disegno poi va in officina meccanica a costruirlo. Fare l’ingegnere è come fare l’artista: un artista non può dipingere un quadro se non conosce le tecniche pittoriche». 085
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L’illuminazione - iGuzzini Innovare come una regia luminosa. Pensare a ogni nuovo prodotto come alla creazione di una quarta dimensione architettonica, al completamento di uno spazio e alla realizzazione di un oggetto che va ben oltre l’efficienza energetica e la potenza luminosa. È la missione aziendale di iGuzzini, con la quale deve fare ogni giorno i conti Roberto Pesaola, quarantaduenne ingegnere meccanico e oggi design manager. «Il mio lavoro parte dalle informazioni che mi arrivano dal marketing», racconta Pesaola, che coordina tre team di progettazione e anche i settori che definiscono gli imballaggi, i fogli istruzioni e il cablaggio elettrico. «Le specifiche del nuovo progetto in questa fase riguardano tra l’altro il design, le dimensioni di massima, la gamma, le prestazioni in termini illuminotecnici. Sulla base di queste indicazioni io metto in piedi un team che inizia a sviluppare soluzioni tecniche, servendosi di un software di modellazione 3D, di programmi di calcolo per la progettazione delle ottiche e di simulatori per le analisi termiche e meccaniche. Le soluzioni sviluppate cercano di tener conto di tutte le caratteristiche estetiche, meccaniche e delle prestazioni previste, cercando contemporaneamente di soddisfare tutti i requisiti di mercato e di logistica produttiva. La validazione delle soluzioni tecniche passa poi attraverso una serie di prototipi, necessari sia per l’approvazione estetica 086
sia per eseguire una serie di test di laboratorio tra cui quelli meccanici, termici e fotometrici». Un lavoro in continua evoluzione, che necessita anche di frequente aggiornamento da parte dell’ingegnere entrato in azienda 14 anni fa come progettista e protagonista di una “luminosa carriera”: «Non abbiamo più a che fare con una sorgente di luce definita, come è stato per decenni. I led hanno rivoluzionato il settore creando nuove opportunità in termini di prestazioni, risparmio energetico e di mercato ma con un maggiore grado di difficoltà progettuale dovuto alla necessità di un aggiornamento continuo: ogni sei mesi c’è un upgrade, una nuova miniaturizzazione e nuove tecnologie. È piuttosto complesso ma anche stimolante: ogni volta è una nuova sfida sotto ogni punto di vista».
Fare l’ingegnere è come fare l’artista: un artista non può dipingere un quadro se non conosce le tecniche pittoriche
INNOGEST Il lavoro in Italia è in piena trasformazione. Nuove imprese e nuove professioni richiedono nuovi investimenti. Ma chi supporta le start-up tecnologiche nel nostro Paese? Gli investitori si contano sulla punta delle dita e la scarsità dei finanziamenti e degli strumenti di credito tradizionali ostacola a volte irrimediabilmente i giovani imprenditori. «Supportare una giovane azienda in crescita oggi non vuol dire solo fornire liquidità delegando tutto il lavoro di sviluppo all’imprenditore», spiega Claudio Giuliano, fondatore e amministratore delegato di Innogest Sgr, il più grande fondo nazionale di venture capital interamente dedicato alle start-up, dal valore di oltre 90 milioni di euro. «Al contrario, quando troviamo una buona idea imprenditoriale non solo ci investiamo del denaro ma l’aiutiamo a prendere forma e corpo con lo scopo di portarla al successo il più rapidamente ed efficacemente possibile». Innogest investe in molti settori diversi e in particolare in quelli dell’ICT, del biomedicale e delle nuove tecnologie per l’ecologia e l’energia. Con un sistema molto speciale. «La nostra mission è puntare su giovani start-up italiane di elevato livello tecnologico – spiega Giuliano – contribuendo al loro sviluppo tramite un aumento di capitali. In pratica non rileviamo un altro socio o immettiamo semplicemente liquidità, ma supportiamo la crescita dell’azienda acquisendo delle quote e quindi entrando al suo interno. Il guadagno per i nostri investitori si materializza quando l’azienda viene venduta o quotata in borsa e cediamo le nostre partecipazioni. Per arrivare a quel momento occorrono in media 4-5 anni, durante i quali il prodotto iniziale viene ingegnerizzato e l’azienda “matura”. Con la crisi i tempi si stanno un po’ allungando e attualmente occorrono quasi sei anni prima di arrivare all’exit [la rivendita delle quote, N.d.R.]. Oggi vendere un’azienda sul mercato è più difficile, perché ci sono meno compratori industriali e anche l’appetito delle borse nel mondo è più limitato. Con la ripresa però i tempi si accorceranno nuovamente». Già, la ripresa. Intanto però cosa
succede nel mondo della più giovane e promettente imprenditoria nazionale? «La voglia di fare impresa non è affatto sopita e la crisi ha anzi stimolato nuove iniziative imprenditoriali», assicura Giuliano. «La diminuzione dei posti di lavoro che potremmo definire “tradizionali” sta spingendo ancora più giovani a mettersi in proprio e avviare attività imprenditoriali». Fondata nel 2005, Innogest non dimentica di essere stata a sua volta una start-up in tempi recenti, malgrado oggi abbia 20 società partecipate e un investimento totale pari a circa 50 milioni di euro. «Operiamo con una materia che è fatta di due componenti: l’idea, cioè il prodotto, e dall’altra parte l’imprenditore, con la sua energia ma anche le sue paure», spiega Giuliano. «Essere noi stessi degli imprenditori ci aiuta a decifrare le varie dinamiche e a creare il giusto rapporto».
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opinioni
START-UP MENTALITY articolo di Riccardo Luna
«I grandi colossi, messi davanti al cambiamento, inciampano e cadono». Per riuscire a tenere il ritmo dei cambiamenti, invece, il modello da seguire potrebbe essere quello delle start-up: crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa.
Partiamo da un romanzo. Si chiama Makers e lo ha dell’US Census Bureau, rivelava una serie di verità scritto Cory Doctorow qualche anno fa. Una delle sorprendenti. La prima: dal 1977 al 2005, le aziende frasi chiave è questa: «Il futuro non sarà delle Ge- esistenti sono state «net job destroyers», perdendo neral Motors, delle General Electric, delle General un milione di posti di lavoro complessivi all’anMills, ma di nuove aziende chiamate Local Motors, no; nello stesso periodo le nuove aziende hanno Local Electric, Local Mills». Quella frase coglieva agli aggiunto tre milioni di posti di lavoro. La seconda albori un fenomeno che poi avrebbe avuto l’onore verità è ancora più interessante: durante i periodi di un paio di copertine di “The recessivi la capacità di creazione Economist” e svariati saggi suldi posti di lavoro delle start-up riIl postulato secondo mane costante, mentre le azienla cosiddetta “terza rivoluzione industriale”. Quella dei makers, il quale con il passare de esistenti sono molto sensibili ovvero della personal fabrication cicli economici e quindi risendel tempo le aziende ai e della fabbrica che si fa rete e si tono maggiormente delle crisi. s’ingrandiscono smaterializza fino a diventare il La terza verità è il colpo del KO: pc di casa. Ma se quello è “il fuinevitabilmente non il postulato secondo il quale con turo”, qual è il futuro delle granil passare del tempo le aziende funziona più di aziende, delle multinazionali si ingrandiscono inevitabilmenma anche solo delle fabbriche? te non funziona più, visto che La risposta a questa domanda richiede un rapido le aziende americane con meno di un anno di vita passo indietro. Nel 2010 la fondazione Kauffman, creano un milione di posti di lavoro, mentre quelle uno degli attori più rilevanti dell’ecosistema globale con più di 10 anni si fermano a 300.000. Le concludell’innovazione, ha pubblicato un’accuratissima sioni della fondazione Kauffman erano naturalricerca intitolata: The Importance of Start-ups in Jobs mente un invito al governo americano a ripensare Creation and Jobs Destruction. Lo studio, circoscritto le politiche per la crescita economica, dando meno alla realtà americana e interamente basato su dati attenzione alla difesa dell’occupazione nelle grandi 088
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aziende e favorendo piuttosto la nascita di start-up (nuove aziende con un forte tasso di innovazione). Il fenomeno in corso non è naturalmente circoscritto agli Stati Uniti, anche se lì è più evidente. Sull’edizione inglese del mensile “Wired”, nel settembre 2012 compariva un invito, da parte di un autorevole venture capitalist, ad adottare una «start-up mentality»: «Il caos in cui ci troviamo è la ragione fondamentale per cui uno dovrebbe lavorare per una start-up o per una corporation che si comporta come una start-up. Perché le start-up sono la naturale risposta evolutiva a questa nuova situazione. Gran parte delle corporation sono caratterizzate dalla qualità dei rispettivi processi di pianificazione, ma questi diventano obiettivi contro i quali si scontra la realtà e i risultati vengono misurati. I grandi colossi, messi davanti al cambiamento, inciampano e cadono. In mercati fluidi, dove ogni bene può essere prezzato e scambiato facilmente, le start-up crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa. Le grandi corporation non riescono a stare al passo, adattandosi alla velocità necessaria per restare le migliori su tutti gli aspetti del loro business. E lo stesso vale per le persone che ci lavorano, mentre nelle start-up l’esperienza deve evolvere rapidamente, e la adattabilità è il primo talento». Tutto ciò può sembrare una pietra tombale sulle grandi aziende ma sarebbe una lettura superficiale dei dati e del fenomeno in corso. Perché se il futuro è delle start-up innovative, è esattamente quello che devono fare le grandi aziende: tornare a essere delle start-up. O come diceva l’edizione inglese di “Wired” nel passaggio precedente, «comportarsi come una start-up». Non si tratta di un gioco di parole o di uno slogan. È esattamente quello che Steve Jobs diceva della sua Apple: «È la più grande startup del mondo». Ed è il tratto distintivo di Facebook, rispetto agli altri, secondo il suo fondatore Mark Zuckerberg: «Siamo pochi, siamo agili e siamo sempre in beta». Ovvero, in continua sperimentazione. Questa mentalità nessuno l’ha spiegata meglio di Reid Hoffman, una star di Silicon Valley, co fondatore di LinkedIn e coautore del best seller The Start-up of You. «Noi siamo tutti work in progress... Le grandi persone come le grandi aziende sono in continua evoluzione. Non sono mai finite e mai interamente sviluppate. Ogni giorno offre un’opportunità di imparare altro, di fare di più, di crescere ancora. Essere nello stato di permanent beta deve essere un impegno di crescita che dura tutta la vita». Hoffman parla di singoli individui e di grandi aziende. Ma mentre nel primo caso le cose da fare sono chiare, il discorso cambia per una corporation. Per “diventare una start-up” quando hai migliaia di dipendenti in tutto il mondo e una organizzazione necessariamente rigida, ci sono due strade: la prima – che in realtà è una scorciatoia – è comprare delle start-up, e quindi comprare innovazioni con le persone che le hanno realizzate sperando non solo di portarsi in casa dei brevetti ma di essere contaminati da un modo di essere. La seconda strada è molto più complessa ma dà risultati migliori: è creare delle zone franche nella 090
In mercati fluidi le start-up crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa
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Noi siamo tutti work in progress... Le grandi persone come le grandi aziende sono in continua evoluzione. Non sono mai finite e mai interamente sviluppate
propria organizzazione in cui vigono altre regole. Meno burocrazia. Propensione al rischio. Partecipazione agli utili. Come fece per esempio sempre Steve Jobs quando un “team di pirati” creò il primo Mac mentre “l’azienda Apple” puntava su Lisa. In quel tempo il vice presidente esecutivo era un ex dirigente IBM che Steve Jobs aveva assunto dopo averlo incontrato in un bar: Jay Elliot. Ecco cosa ricorda dell’ambiente di lavoro della prima Apple: «La cosa più evidente era l’entusiasmo, la voglia di fare e di creare. Ci rendevamo tutti conto che stavamo collaborando per cambiare il mondo e la cosa ci motivava e inorgogliva tantissimo. L’ultima cosa a cui pensavamo era prenderci delle ferie. Steve Jobs era capace di chiamare alla tre del mattino per dirci che aveva avuto un’idea straordinaria. E nessuno si seccava, anzi. Lo stress non era per niente visto come una componente negativa, era qualcosa che ti tirava dentro, che provocava ulteriore entusiasmo perché ci rendevamo conto che stavamo per valicare una nuova frontiera. Apple non era la classica azienda dove dovevi arrivare alle 9 del mattino e te ne andavi alle 17. Si lavorava fino a tardi. Magari poi si arrivava in ufficio a mezzogiorno, ma poi si lavorava fino
alle 3 del mattino. Tutti ci sentivamo coinvolti nel processo di creazione e sviluppo dei prodotti. Dopotutto, Apple era l’azienda con il minor numero di persone che se ne andavano alla ricerca di un posto migliore e questo la dice lunga su cosa ne pensassero i dipendenti. Oltretutto, c’era anche un sistema di condivisione degli utili basato sulla partecipazione al capitale azionario dell’azienda. Infine una azienda il cui capo si dava cosi tanto da fare per avere il migliore prodotto al mondo, non poteva non reagire positivamente quando venivano chiesti sacrifici». La prima Apple la dice lunga sulla start-up mentality necessaria a crescere, ma è anche un modello difficile da perseguire per organizzazioni già mature. In quel caso si può sempre imitare quello che ha fatto recentemente la catena di caffetterie americane Starbucks che, per trovare un modo nuovo di rapportarsi con la propria clientela, invece di procedere con piccoli aggiustamenti, ha deciso di scoprire quale approccio avrebbe avuto un’azienda completamente nuova. E l’ha creata apposta. Una start-up. L’ha chiamata 15th Coffee and Tea e l’ha fatta diventare un live learning lab per sperimentare design, sostenibilità dei materiali e nuovi prodotti. 091
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La rivoluzione dei makers articolo di Simone Arcagni
Creativi digitali e tecnologici, garage innovators che, con le loro innovazioni e i loro nuovi modelli di business, stanno dando vita a quella che in molti non esitano a definire la “terza rivoluzione industriale”.
Se chiedete a Chris Anderson, il direttore di “Wired”, uno che di tecnologia e di futuro se ne intende, vi dirà quello che già nel 2010 aveva scritto nel suo famoso articolo In the Next Industrial Revolution, Atoms Are the New Bits e che va ripetendo in molti incontri e conferenze: cioè che quella dei makers è una vera e propria rivoluzione per tutto il mondo dell’industria e del commercio. Ma chi sono i makers? I makers sono creativi digitali e tecnologici, garage innovators che, con le loro innovazioni e i loro nuovi modelli di business, stanno dando vita a quella che in molti non esitano a definire una nuova “rivoluzione industriale”, “la terza rivoluzione industriale”. Alla base del fenomeno makers abbiamo a che fare con idee, disegni e progetti che dal mondo digitale si trasformano in oggetti in maniera pressoché immediata, senza bisogno della normale trafila industriale che passa attraverso disegno, progetto, prototipo e realizzazione. Ma per capire la rivoluzione dei makers bisogna entrare in un nuovo mondo della produzione, che vive di alcune parole d’ordine. Le prime sono “open source” e “creative commons”, e quindi condivisione: mettere idee insieme e farle circolare. Un modello in cui il normale concetto di copyright viene superato per rendere le idee e i progetti aperti a possibili modifiche, evoluzioni, personalizzazioni. Un universo della
conoscenza che si basa sul principio dello scambio, proprio come il circuito Arduino di Massimo Banzi, ingegnere considerato in tutto il mondo come uno dei padri e dei guru del pensiero maker. Inventato nel 2005, come riporta Wikipedia, «Arduino è un framework open source che permette la prototipazione rapida e l’apprendimento veloce dei principi fondamentali dell’elettronica e della programmazione». Con Arduino anche chi non conosce i linguaggi di programmazione può disporre di strumenti per creare e progettare e quindi realizzare cose, oggetti, prototipi. Ulteriori parole d’ordine sono “crowdfounding” (processo collaborativo per cercare fondi per la realizzazione di un progetto) e “crowdsourcing” (processo di sviluppo collettivo di un prodotto), un sistema, cioè, di finanziamento “dal basso” che prevede la partecipazione di una rete e di una community alla realizzazione del progetto. Stiamo parlando di un modello economico nuovo che parte dagli utenti stessi e che prevede la raccolta di capitali (normalmente piccole somme anche se ultimamente si sono registrate raccolte di budget piuttosto cospicui), ma non secondo il modello dell’azionariato, bensì sotto forma di una vera e propria partecipazione alla realizzazione di un’idea e alla ricerca del budget per realizzarla. I numeri di Kickstarter, il famoso sito americano di crowdfunding, sono im-
pressionanti: milioni di dollari raccolti e centinaia di migliaia di finanziatori. Cambia la ricerca di capitali, cambia la progettazione, la realizzazione e il modello commerciale. E non bisogna per forza affidarsi a eBay per vendere oggetti, si può fare anche da sé, dal proprio sito, dal proprio blog o anche attraverso la propria pagina di Facebook. Ci pensa Blomming, un sistema per vendere online senza intermediari: è l’e-commerce della nuova generazione che si avvale dei social network e per questo viene definito social commerce. Non è che i makers vogliano cambiare il sistema imprenditoriale, semplicemente si sentono estranei e, di conseguenza, ne realizzano un altro, sulla Rete, basato su una comunicazione sociale di network. Basti pensare al caso di Zooppa, un social network e una community che unisce creativi che si mettono alla prova nella creazione di pubblicità per marche e aziende che commissionano progetti. Parliamo di un’imprenditoria piccola, addirittura individuale, che si basa sulla filosofia del DIY (Do It Yourself). “Fai da te” e questo significa avere bisogno di tanta fantasia e tecnologie facili da utilizzare e, ovviamente, economiche. Come la stampante laser 3D che permette di realizzare oggetti solidi in maniera facile. Vectorealism, per esempio, è un sito che offre agli utenti la possibilità di disegnare con facilità i propri progetti e di
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WORK IN PROGRESS Il simbolo dell’infinito che contiene un più e un meno: è il logo di Arduino, la piattaforma aperta a tutti per creare qualsiasi cosa. Uno spirito creativo infinito perché le idee sono messe in circolo e scambiate continuamente; un mondo in work in progress. (arduino.cc/en)
stampare oggetti. La stampante laser 3D è una piccola officina da tenere in casa. Alla faccia di Ford e degli orari di fabbrica! Ma attenzione: la vera dimensione economica dei makers è quella dell’artigianato. Un artigianato delle idee, e che trova il proprio ambiente ideale in Rete e sui social network. Nuove fabbriche, ma soprattutto veri e propri laboratori, come i Fab Lab: un’altra parola chiave nel mondo dei makers. I Fab Lab (Fabrication Laboratory) sono piccoli laboratori e workshop dedicati ai makers e alla digital fabrication che si stanno divulgando un po’ in tutto il mondo e che permettono a chiunque di sottoporre la propria idea sotto forma di file e vederla realizzata in poco tempo e in maniera decisamente economica. E tra giochi, oggetti trash e improponibili “orribilia”, non è raro imbattersi in qualche idea originale. E non deve stupire quindi che i futuri designer di successo ormai si cercano tra questi fan di makers. Per qualcuno la filosofia dell’artigianato “fai da te” è talmente innovativa da aver coniato addirittura un termine che tenta di descriverla: thinkering. Il termine (coniato nel 2007 da John Seely Brown, direttore della ricerca alla Xerox e responsabile del centro di ricerca di Palo Alto, 094
lo Xerox Parc) è il risultato dell’unione di thinking (pensare) e tinkering (pasticciare, sperimentare): una filosofia nuova del “pensare/toccare/fare”, un sorta di modello ideativo che ha a che fare con l’agire e il toccare, un pensiero che si realizza in un agire creativo e condiviso. L’universo dei maker è quindi un mondo composito e comprende anche il mondo delle start-up, idee originali da essere sviluppate, come nel caso di CicerOOs, che mappa i luoghi del mondo per mettere i dati a disposizione dei turisti che usano la Rete per programmare le proprie vacanze. La storia di CicerOOs è quella di due giovani, Daniele Cassini e Daniele Viva, e della loro idea che diviene business. Dal turismo al meteo: Metwit è invece un social network in cui gli utenti si scambiano notizie metereologiche costituendo così la prima piattaforma condivisa per le previsioni del tempo. Abbiamo già parlato del ruolo che stanno svolgendo Chris Anderson e la rivista “Wired” nel propagare l’idea di maker. Ma un ruolo altrettanto fondamentale lo svolge anche il MIT, il famoso Massachusetts Institute of Technology, dove sono nati i Fab Lab. Inoltre il movimento ha anche un
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Per qualcuno la filosofia dell’artigianato “fai da te” è talmente innovativa da aver coniato addirittura un termine che tenta di descriverla: thinkering, unione di thinking (pensare) e tinkering (pasticciare, sperimentare)
proprio organo, una rivista, “Make”, fondata dal guru di questo nuovo “pensiero”, Tim O’Reilly, affiancato da Dale Dougherty. Ai due è da attribuire, tra l’altro, la definizione di “web 2.0”. “Make” è una rivista mensile divenuta ben presto l’organo ufficiale dei makers di tutto il mondo e pubblicata dalla O’Reilly Media, nota per i suoi manuali di software e per essere un punto di riferimento per la propagazione della filosofia dell’open source, per l’innovazione tecnologica e per il mondo delle startup. Una rivista interamente dedicata a un fenomeno che, fino a poco tempo fa, veniva definito come una sottocultura composta da hobbisti e designer amatoriali, anche se ormai il movimento ha acquisito dimensioni ragguardevoli, testimoniate anche dall’entrata in questo ambito di un colosso come Autodesk. E per permettere al maker di riunirsi e scambiarsi idee, la rivista “Make” organizza dal 2006 anche una manifestazione periodica, la Maker Faire, dove convergono makers da tutto il mondo portando idee, prototipi, modelli di business o, banalmente, folli oggetti partoriti da una fantasia in grado di realizzare pressoché tutto con un computer, un software, una connes-
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sione e una stampante. Semplice, no? Ma il fantasmagorico mondo dei makers, che accomuna designer e programmatori, hobbisti e geek, artigiani e giovani (se non giovanissimi) futuri imprenditori, ha anche il sostegno di un blog di culto come Boing Boing, fondato da Mark Frauenfelder, giornalista che si è costruito una reputazione nella redazione di “Wired”. Boing Boing è uno dei blog più seguiti e influenti al mondo. Uno dei suoi redattori, e allo stesso tempo una delle sue firme più prestigiose, lo scrittore di fantascienza Cory Doctorow, al fenomeno dei makers ha anche dedicato un suo romanzo, Makers, che lui steso definisce «un libro su gente che modifica meccanismi e hardware, modelli di business, e soluzioni abitative, per scoprire modi per tirare avanti e vivere felici anche quando l’economia va a finire nel cesso». Qualcosa sta cambiando. Qualcosa è già cambiato! Nuovi modelli produttivi sono alle porte: i makers non saranno forse la risposta a un capitalismo in crisi e, in qualche modo, invecchiato più velocemente di quanto si sarebbe pensato, ma certo una ventata di novità e di modelli sociali, culturali e finanziari hanno già incominciato a offrirla. 095
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approfondimento
Produzione fai da te: le stampanti 3D articolo di Nicola Nosengo
Una ventata di aria fresca per l’industria potrebbe arrivare dalle stampanti 3D. Tecnologia e design al servizio dell’immaginazione dei makers per creare oggetti in plastica. L’era della personal fabrication non è ancora realmente cominciata, ma potrebbe non essere mai stata così vicina.
Va dato atto a “The Economist” di averci visto lungo. Già nel 2007, quando, fuori dai circoli specialistici, di stampa 3D non parlava praticamente nessuno, il settimanale inglese dedicava articoli e copertine alla “nuova rivoluzione industriale” che si prospettava all’orizzonte, grazie a questa nuova tecnologia, che veniva indicata come una delle chiavi del futuro rilancio industriale. La stampa 3D, scriveva “The Economist” in tempi non sospetti, una volta che le economie di scala avessero abbassato a sufficienza i prezzi avrebbe fatto per il settore manifatturiero ciò che il personal computer aveva fatto per l’informazione. Oggi la stampa 3D è una realtà ben nota, e non solo ai lungimiranti editor del settimanale inglese. E quell’obiettivo di accessibilità è stato quasi raggiunto. Siamo quasi al tipping point oltre il quale diventerà una tecnologia “domestica”. Oggi le stampanti 3D, nei loro modelli di base, sono virtualmente alla portata di (quasi) tutti gli utenti. Strumenti come la Replicator di Makerbot costano poco più di 2000 dollari. Non ancora come una stampante 2D, ma non più di un motorino o di un portatile di alta gamma. E qualcuno va anche sotto quei prezzi, come la stampante italiana Sharebot, modello ultra basic presentato fuori salone all’ultimo Salone del Mobile a Milano. È in vendita a 900 euro, la prima ad abbattere la soglia psicologica dei 1000 euro. La stampa 3D nasce come una soluzione per creare prototipi industriali, da met096
tere a punto e testare prima di passare alla tradizionale produzione in catena di montaggio. Le macchine usate per la produzione industriale, infatti, sono efficienti e convenienti quando devono produrre migliaia di pezzi uguali, ma programmarle per creare un solo pezzo è difficile e, in proporzione, enormemente costoso. Già da tempo, però, la stampa 3D viene usata anche per produrre pezzi finiti da mettere sul mercato in piccole quantità, con in più la possibilità di personalizzarli uno per uno.
Si prepara un disegno al computer, si preme “stampa” e dalla stampante esce un pezzo di una lampada, di un tavolo, di una canoa... Oggi il 28% degli investimenti in stampa 3D viene impiegato proprio per prodotti finali, e secondo gli analisti la percentuale arriverà almeno al 50% entro due o tre anni (anche se la prototipazione resterà sempre una applicazione importante). Ma come funziona questa tecnologia? Per l’utente, non è molto diverso da una qualunque stampa. Si prepara un disegno al computer, e si preme “stampa”, e dalla stampante (un po’ più ingombrante di una normale) esce un pezzo di una
lampada, di un tavolo, di una canoa... La stampante, fondamentalmente, aggiunge sottilissimi strati successivi di materiale seguendo il disegno, fino a fare emergere l’oggetto completo. Per questo si parla anche di manifattura “additiva”, mentre quella industriale tradizionale è “sottrattiva” (si parte da un blocco di materiale, metallico o plastico che sia, e si tagliano via le parti che non servono fino a ottenere la forma voluta. Com’è facile intuire, la stampa 3D porta a un grande risparmio di materiale). Le tecniche per stendere i diversi strati di plastica possono essere diverse, proprio come nella stampa 3D si può scegliere tra il laser o il getto d’inchiostro. Alcune stampanti usano proprio un sistema simile al getto per spruzzare plastica liquida su un supporto mobile. La plastica viene immediatamente asciugata e solidificata usando radiazioni ultraviolette, dopodiché il supporto si sposta leggermente per passare allo strato successivo. Un’altra tecnica prevede invece di sciogliere la plastica per mezzo di una testina mobile che crea un sottile filamento, e in questo modo va a creare gli strati successivi. Una terza via ancora usa polveri come materiali di partenza, distribuite su un vassoio mobile, solidificate con una spruzzata di colla o fuse con un laser per assumere la forma voluta. Per creare strutture complesse con spazi vuoti o parti sporgenti si usano gel aggiunti successivamente per aumentare il sostegno in punti particolari, o si lasciano polveri non fuse nei
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VENDITE IN CRESCITA
I Fab Lab stanno sorgendo come funghi anche in Italia. Il primo è nato a Torino in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia
punti prescelti, che vengono poi lavate via per creare il buco. Le stampanti più sofisticate possono usare contemporaneamente materiali diversi, per creare oggetti rigidi in alcuni punti e soffici in altre. Con questi sistemi, o una loro combinazione, è possibile produrre praticamente tutto. Certo, serve la competenza per maneggiare i software di CAD (Computer Assisted Design), che non è proprio come usare Word. E serve una certa competenza sui materiali, oltre alla possibilità e la capacità di acquistarli. Per questo, al di là dei prezzi dei macchinari, farsi in casa oggetti in plastica non è ancora davvero alla portata di tutti. Proprio per questo nascono i Fab Lab, officine artigianali hi-tech che con l’aiuto di stampanti 3D e altre tecnologie producono (o riparano) oggetti in materiali plastici su richiesta dei clienti. Vuoi un apparecchio elettronico, un pezzo di arredamento, una barca, e nessuna azienda la produce come la vuoi tu? Vai al più vicino Fab Lab e te ne fa098
Nel 2007 sono state vendute 66 stampanti 3D sotto i 5000 dollari – quelle professionali si aggirano intorno ai 73.000 –, ma nel 2011 il numero è salito a 23.265 (rapporto 2012 Wohlers Associates). Per raggiungere un pubblico più vasto da poco sono in commercio stampanti 3D “base” sotto i 500$.
ranno anche solo uno o due pezzi, cosa che nessuna grande azienda farebbe mai. Il modello di riferimento è il Fab Lab nato al Massachusetts Institute of Technology (MIT), messo in piedi dal Center for Bits and Atoms dello stesso MIT, diretto da Neil Gershenfeld. Partito dal pensiero che la rivoluzione digitale sia solo una parte, e nemmeno la più interessante, del nostro futuro, la loro idea era portare la computazione nel mondo fisico: creare programmi che manipolano atomi, e non solo bit. Ma i Fab Lab stanno sorgendo come funghi anche in Italia. Il primo è nato a Torino in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Nella definizione dei suoi fondatori, è un «figlio dell’industria da cui ha preso la precisione e la riproducibilità dei prodotti, il nipote dell’artigianato da cui ha preso la progettazione su misura, fratello dell’open source con cui condivide la filosofia di scambiarsi progetti liberamente». Dietro c’era prima di tutto Mas-
simo Banzi, papà di Arduino, una piattaforma elettronica hardware e software, open source, che in sostanza consente a chiunque di creare dispositivi intelligenti (da sensori per l’ambiente a unità di controllo per macchine a processori per ogni esigenza). Proprio Banzi aveva individuato nella digital fabrication l’argomento su cui puntare per presentare le possibilità di rilancio industriale che l’innovazione offre all’Italia. Da quel Fab Lab sono usciti oggetti di uso quotidiano come un set di ganci a parete per appendere gli attrezzi, piccole invenzioni utili come il portacellulare da montare sulla bicicletta, attrezzature professionali che, nelle versioni prodotte in serie, costano un occhio della testa, come un supporto per macchina da presa steadycam. Finite le celebrazioni dell’Unità d’Italia, il Fab Lab torinese è rimasto in piedi ed è ancora oggi il principale punto di riferimento della comunità italiana dei makers. Nel frattempo si è aggiunto, a Milano, il Frankenstein Garage, che oltre a mettere
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a disposizione di tutti le sue attrezzature (stampa 3D ma anche progettazione CAD, taglio laser e altre tecnologie “sottrattive” più tradizionali) organizza corsi e workshop per avvicinare tutti gli interessati alla personal fabrication. Proprio con l’aiuto del Frankenstein Garage, Andrea Radelli, maker ventisettenne, ha realizzato Sharebot, una stampante 3D davvero alla portata di tutte le tasche, creata semplificando una stampante 3D già sul mercato. Radaelli vende via internet il kit per assemblarla, a 900 euro. L’intero progetto è ovviamente open source, e quindi chiunque abbia voglia e capacità di farlo può non solo acquistarla, ma migliorarla e modificarla per le proprie esigenze. Se poi non volete nemmeno spostarvi da casa c’è Vectorealism che offre tutto online: dalla consulenza di un designer per realizzare il progetto fino alla scelta dei materiali e alla possibilità di ordinare il proprio progetto o prototipo. Quanto sia vivace la scena dei makers, e quanto sia simile a quello che era
solo una trentina di anni fa il mondo dei programmatori, lo ha dimostrato il contest Design Smash 3D organizzato lo scorso 20 ottobre a Milano. Otto team attivi supportati da altrettanti team di operatori di stampanti 3D si sono sfidati sul tema “illustra ai tuoi nonni le meraviglie della stampa 3d”, la cui consegna era «crea un oggetto che sia esemplificativo e che racchiuda in sé tutta la figosità della stampa 3D». E i concorrenti lo hanno fatto, dal team vincitore, Jambro di Filippo Mambretti e Jennifer Carew con il loro Mino, una famiglia di piedini per bastoni da passeggio capaci di trasformare questo oggetto di uso quotidiano in una sorta di “coltellino svizzero” che si adatta a camminare sull’erba, sul nevischio o sulla sabbia semplicemente cambiando il piedino. O il secondo classificato, il progetto Swingthing, una piccola aggiunta che trasforma quello stesso bastone da passeggio in una mazza da golf. Al terzo posto è arrivato Zooilab, con un set di formine
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per dolci e polpette ispirate ai personaggi dei videogiochi. Oggetti minimal, semplici, all’apparenza “innocui” ma che fino a cinque anni fa potevano essere prodotti solo industrialmente, ammesso che vi fosse una domanda sufficiente. Preparatevi a vederne sempre di più, di Fab Lab. E preparatevi a un’esplosione della personal fabrication, dalle conseguenze (anche economiche) imprevedibili. Secondo Gerhsenfeld del MIT, la fase in cui siamo ora con la digital fabrication è la stessa in cui si trovava l’informatica all’epoca dei PDP (Programmed Data Processor): una “fase evolutiva” dei computer (tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta) intermedia tra i colossali mainframe e i personal computer, in cui la computazione arrivava alla portata di piccoli gruppi di lavoro, e in cui fu sviluppato il sistema operativo Unix che è tuttora alla base di molta dell’informatica che ci circonda. La fase, insomma che preparò il terreno all’esplosione di massa. 099
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| oxygen versus co2
C’era due volte, lo spazzacamino articolo di Stefano Milano
«Tu penserai che lo spazzacamin / si trovi nel mondo al più basso gradin / io sto fra la cenere eppure non c’è / nessuno quaggiù più felice di me / Cam caminì, cam caminì spazzacamin / allegro e felice pensieri non ho /cam caminì, cam caminì spazzacamin / la sorte è con voi se la mano vi do». Lo spazzacamino di Mary Poppins indossa ancora la stessa divisa, ma di fatto si è trasformato in un moderno tecnico della biomassa.
Spazzacamino —
Che finisca nella stufa in forma di ciocchi, pellet o cippato, la legna è ancora una risorsa importantissima per il riscaldamento domestico e urbano. Popola i nostri boschi. È una risorsa sul territorio (una risorsa spesso dimenticata, di cui nessuno si prende cura). E può definirsi a tutti gli effetti una fonte rinnovabile: ogni albero che cresce riassorbe la CO2 emessa durante la combustione di un pezzo di legno. Non c’è niente da fare: la fiamma piace. È affascinante: design e hi-tech la fanno evolvere tecnologicamente in camini privati e caldaie per teleriscaldamento. Siamo abituati a parlare di stufa a legna o caminetto,
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ma il mercato contempla apparecchi di combustione sempre più complessi e dotati di dispositivi sofisticati, che richiedono sempre maggiore professionalità e responsabilità da chi si occupa di installare e manutenere gli impianti. Produttori, fumisti e spazzacamini, condividono una rete professionale che non si può improvvisare: richiede aggiornamento continuo, rispetto delle normative di installazione, monitoraggio del territorio. Lo stato italiano prevede, dal 2008, che tutti gli installatori di camini, canne fumarie, impianti di riscaldamento a biomassa legnosa (e quindi stufe e caminetti alimentati a pel-
Si tratta di un mestiere in continuo aggiornamento. Le regole del gioco cambiano ed è fondamentale capire cosa è necessario sapere per operare, su che cosa e come.
Che fine fa lo spazzacamino di Mary Poppins in questo scenario di grande rivoluzione? Diventa un tecnico manutentore qualificato di canali d’areazione, trasporto vapori e impianti fumari
let e legna) debbano essere abilitati alla professione e possano/debbano produrre dichiarazioni di conformità per ogni impianto realizzato. Avere tecnici specializzati che si muovono su canali istituzionalizzati dà il via a una gigantesca mappatura capillare del territorio. E nello tsunami del Big Data questo che significa? Avere il polso della situazione, individuare soluzioni dedicate e prevedere i rischi possibili del sistema fuoco: un camino che non tira bene, un vecchio impianto mal funzionante. Che fine fa lo spazzacamino di Mary Poppins in questo scenario di grande rivoluzione? Diventa un tecnico manutentore qualificato di canali d’areazione, trasporto vapori e impianti fumari. Deve conoscere un po’ di tutto: le normative e le tecniche di pulitura, gli arnesi della tradizione e le più moderne strumentazioni. Lavora gomito a gomito con il fumista per controllare i dotti d’areazione prima della posa di caminetti e stufe. Ma non è affatto raro che si trovi a lavorare anche con responsabili di grandi centrali termiche. I maestri spazzacamini sono un conclave rodato che si riunisce periodicamente per confrontarsi su tematiche tecniche, normative e operative della
professione. Si tratta di un mestiere in continuo aggiornamento. Le regole del gioco cambiano ed è fondamentale capire cosa è necessario sapere per operare, su che cosa e come. Scegliere le biomasse come combustibili diventa sempre più fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi rinnovabili fissati dall’Europa e attualmente oggetto di incentivo. Alcuni produttori chiedono a gran voce percorsi formativi dedicati e obbligatori per operatori del settore, commercianti, installatori e manutentori. La Lombardia si è inventata un catasto regionale degli impianti termici (Curit) stabilendo che ogni impianto sopra i 4 kilowatt venga considerato impianto termico e quindi debba essere registrato e sottoposto a manutenzione regolare. Un esempio di eccellenza: Anfus, l’associazione nazionale di spazzacamini e fumisti, da anni cerca di far rete fra spazzacamini, fumisti e produttori – un’azione dal basso che, come capita in altri settori del comparto energetico, si sostituisce alla tradizionale azione politica e prova a mettere seduti allo stesso tavolo i portatori di interesse di un certo territorio per individuare nuove soluzioni alla questione energetica. Democrazia spazzacamina.
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| la scienza dal giocattolaio
Il lavoro hard che non spaventa i più piccoli articolo di Davide Coero Borga
Più della moglie e della poltrona preferita, il babbo è geloso della sua cassetta degli attrezzi. Il trapano. Le chiavi inglesi. Martelli e utensili da giardinaggio. Gli arnesi da officina sono giocattoli antichissimi. Breve excursus nella cassetta degli attrezzi giocattolo fra Ottocento, Novecento e Duemila. Dagli arnesi in legno alle sofisticate riproduzioni a marchio Bosch.
Il martello. Il cacciavite a taglio. Il cacciavite a stella. Il trapano. La chiave inglese. La sega. Il calibro. Le pinze. Le pinze pappagallo. La morsa. Le brugole. La fustella. La lima. La pialla. Il punzone. Il raschietto. La roncola. Il trincetto. Il mazzuolo. La colla. Il punteruolo. La spatola. La squadra. La bolla. I chiodi. Il metro. Il nastro adesivo. Il rastrello. Il tagliaerba. Le cesoie. I guanti da lavoro. L’alesa-
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tore. Il bulino. La fresa. Il pennato. Lo scalpello. Il giramaschi. Il mordiglione. Il graffietto. Il truschino. Tutto un mondo di parole, delle quali la stragrande maggioranza mai sentite prima, vive chiuso in una strana e robusta scatola metallica: la cassetta degli attrezzi di papà. Gli arnesi e gli attrezzi da lavoro di cui ogni maschio è geloso, più ancora che della propria moglie o
Utensili giocattolo — L’abitudine a imparare giocando, peraltro, è un tratto che l’uomo condivide con molte altre specie animali
della poltrona preferita, sono giocattoli da secoli. Strumenti che si perdono nella storia dell’uomo e che ciononostante ritroviamo anche oggi nei musei di storia e preistoria, quasi sempre riprodotti in scale e materiali differenti per i più piccoli. Gli arnesi piacciono. I bambini si sentono evidentemente più adulti nel manovrarli, sperimentarli, conoscerli. La modalità del gioco favorisce il processo di emulazione degli adulti e stimola la creatività di ciascun bambino. E se il gioco e la curiosità sono elementi chiave di un approccio scientifico al mondo, utensili da lavoro e strumenti delle arti tecniche restano gli ingredienti principali di un buon giocattolo! Anche per i bambini di oggi. D’altra parte gli oggetti della scienza e della tecnica non sono nuovi a promozioni sul campo, e già in passato hanno avuto successo come veri e propri giocattoli: dalle stoviglie in cucina agli strumenti da laboratorio provenienti dal mondo scientifico, dagli attrezzi da lavoro di meccanici agli arnesi dell’idraulica. Gli utensili giocattolo dicono molto di una tendenza a trasformare alcuni strumenti inventati dall’uomo in edutoys. L’abitudine a imparare giocando, peraltro, è un tratto che l’uomo condivide con molte altre specie animali, per le quali il giocattolo ha un ruolo importante nell’apprendimento dei saperi essenziali alla sopravvivenza. Pensate all’ostinazione con cui il cane dilania pantofole e bastoni da riporto. Osservate gli agguati che il gatto prepara a
gomitoli e palline di gomma, lanciandosi in evoluzioni tra tappeti e divani. Sono abitudini da predatori. Se teniamo in considerazione questa sorta di istinto a giocare con gli oggetti, non deve stupire che l’uomo ancora oggi progetti e produca a livello industriale articoli pensati a questo scopo. Alcune categorie ludiche probabilmente fanno parte di un bagaglio culturale comune a diversi popoli. Altri sono diventati indispensabili nella formazione di un uomo moderno. La cassetta degli attrezzi da lavoro rientra a pieno titolo in questa categoria di giocattoli. Tanto da giustificare la sua distribuzione e “clonazione” globale. Ne esistono di diversa dimensione, costo e fattura. Martello, cacciaviti e pinze non mancano mai, ma sono centinaia le versioni del giocattolo del piccolo manovale. E gli acquirenti sono sempre più eterogenei. Anche le bambine vogliono divertirsi con gli utensili del bricoleur. In tempi di tecnologie sempre nuove colpisce l’esperimento voluto dal gruppo Robert Bosch GmbH, recentemente approdato nei negozi di giocattoli con una versione completamente rivisitata della vecchia cassetta degli attrezzi giocattolo. A bulloni e martelli sono stati aggiunti trapani e avvitatori elettrici! E a giocare non sono solo i bambini: gli stessi adulti acquistano il kit per piccole faccende domestiche. Insomma: ufficialmente dal giocattolaio entrano per accompagnare il proprio figlio e se ne escono con una borsa piena di giocattoli rigorosamente da 0 a 99 anni.
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Tu Tu sei Tu
sei solo un giocattolo! non sei il vero Buzz Lightyear, un pupazzo meccanico. sei solo un balocco per bambini!
Woody a Buzz Lightyear, Toy Story. Il mondo dei giocattoli, 1995
Quanta matematica c’è in un cubo di Rubik? Quanta fisica in un lancio di frisbee o in una Hot Wheels lanciata a tutta velocità? Un libro sul gioco. Un libro che è anche un gioco.
Davide Coero Borga La scienza dal giocattolaio Codice Edizioni euro 24,90 | pagine 224
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INDUSTRIAL PRIDE THE NEW FACE OF GLOBAL PRODUCTION “The world is on the brink of a new era. This shift in fortunes of the developed and developing world in manufacturing will begin to go into reverse and manufacturing in the rich countries will stage a come-back.”
Ed editorial
INDUSTRIAL PRIDE by Fulvio Conti In recent years, simply scanning the forums and news on the Internet or glancing at the headlines is enough for a general picture painted in dark colors to appear. The economic crisis, troubled global governance, overpopulation, lack of energy and raw materials – water and food – are some of the topics that have been endlessly bounced around in public opinion debates in these years. Yet behind all this, a different story can be read between the lines. Limiting ourselves to looking at the actual data, we find that, despite everything, the world continues to produce wealth: much more than we ever did. With the exception of 2009, the World GDP has continued to grow, more or less slowly; a locomotive driven by emerging countries – China, India, and Latin America – which
have replaced the United States at the helm of the world economy (World Economic Outlook, International Monetary Fund). This trend was confirmed by the forecasts of the consumption of primary energy, with an increase of about 40% between 2009 and 2035 (World Economic Outlook). Contributing to this growth will mainly be non-OECD countries, where the use of energy, due to economic development and the improvement of living conditions of the population, will lead to a 90% increase in consumption in 2035. Above all, in China, where in the same year they will use 70% more energy than the United States, thus climbing to second place in the world rankings. The unprecedented and rapid economic development of emerging countries, particularly China
and India, has led to an increase in average pay which is 10 times higher than that of the United Kingdom during the first industrial revolution. This growth will enable more than three billion people to join the middle class by 2030 (McKinsey Global Institute). It will be precisely these three billion emerging citizens who will give a boost to the global demand for primary consumer goods, durable goods, and, consequently, raw materials. A revolution that has led to a dramatic increase in connections between people and objects: since 2008, there are more technological devices connected to the networks around the world than there are people, who by 2020 will number 50 billion (Cisco, The internet of things). Ten years later, in 2030, the cars in circulation worldwide will have
doubled compared to the current number, just as the level of nutrition per capita and the size of cities, especially for countries in the developing world, will grow exponentially. It is precisely the big cities that will be the stage to host this change, a phenomenon that is already taking place. Since 2008, the population living in cities has exceeded the number of people living in the countryside: an unprecedented event, which has resulted in a profound and radical social change and that leads to a continuous urbanization. This extraordinary growth will render the cities more and more sophisticated, in need of answers to complex challenges, from traffic management and air pollution to energy efficiency and access to electricity. The cities themselves become laboratories
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of innovation. And technological innovation is the key to supporting this delicate and complex architecture, allowing us to combine sustainability, efficiency, and quality of life through the interaction of three types of networks: those concerning energy, information, and the citizens. A real “convergence between bits and atoms,” as defined by the scientist from MIT, Carlo Ratti (If the City doesn’t act stupid, “La Stampa,” May 25, 2012). Hence, innovation is the proper means to build a near future and the means to address the current situation, acting as a driver for a “new industrial revolution.” This revolution is amplified in the energy sector, especially the electricity system. In fact, a constant over the years is the driving role electricity has played for the social, economic, and industrial development of communities. Electricity is actually the most practical, effective, and efficient way to meet the needs of a world that is increasingly hungry for energy and that, thanks to new technologies, can be produced and distributed in a more comprehensive and economical way to consumers, according to new and innovative business models. In the electrical industry, Europe and Italy have a global leadership over the entire production chain. Enel has developed power plants over the last ten years with record efficiency, renewable energy plants that are more competitive, and innovative projects such as the first hydrogen power plant, the most advanced clean coal plant in the world, projects for the capture and sequestration of CO2, the first concentrating solar power (CSP) plant in Italy, electric mobility, electronic meters, and smart grids. This commitment will continue in the years to come, because innovation is an integral part of our vision of the future. Innovation is not just about big projects, but also the levers and tools to support the economic recovery of our country. Any technological innovation always starts from a hardware support, whether it be a micro-chip, a robot, or a 3D printer. Therefore, the manufacturing industry has a great
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Innovation is the proper means to build a near future and the means to address the current situation
opportunity for rebirth if it will be able to reinvent itself starting from its own experience and the solid foundation that can already be counted on, especially in Italy. Perhaps our country has been classified too hastily as “low growth,” but there are vibrant areas, with firms that are growing and exporting. In particular, the manufacturing sector, where the numbers are encouraging: in Italy, in the first half of 2012, one exporter out of two increased sales of their products abroad, compared to the same period in 2011. This is a tangible sign that the most dynamic companies can be the most competitive ones. A dynamism that can be extended with the creation of a network to spread and circulate brilliant “business ideas,” both Italian and foreign, reactivating the entrepreneurial spirit that has always characterized our country by pooling youth, enterprise, and innovation. A connective tissue that will lay the foundations for the creation and development of new businesses and promote in-
vestments in industrial research and development. For instance, Enel is doing this through its EnelLab Project, which provides promising start-ups with funding, tools, and environments suitable for dealing with the global competition. Or providing them with practical assistance through initiatives that are activated by the universities with the Enel Foundation Study Center. We must not let our wealth of expertise and technical knowledge wither, but rather, we need to enhance it. History teaches us that every industrial revolution was driven by new technology, introduced by experienced entrepreneurs in their field who were not afraid to launch into new adventures. That Italy and Europe have a great history, the maturity, and the ability to boost the future and once again become the driving force of the economy is a universally recognized fact. So let us look forward to the future, beyond the crisis, well aware of our capabilities and our size, and especially, of being able to innovate.
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THE NEW INDUSTRY by Giulio Sapelli
You hear talk about industry all around the world. It is like Rossini’s “slander is a breeze,” but this time it is not about slander, but a return to the truth. The truth of industry and industrial work. The reason for this is both simple and dramatic: the financial crisis that is happening all over the world is much more frightening than the crisis occurring in the industrial world. The old world and the new one have gone through major and repeated low-intensity industrial crises that shook the seas of the economy between the two great tidal waves of 1907 and 1929, until the third crisis which started in the late Nineties and in which we are still immersed. But industrial crises destroy to recreate. Financial ones, however, do not ever recreate anything at all. It is like the difference between DDT and napalm. And this financial crisis from excessive risk and the unlimited greed of the top financial managers is truly scary, because it may never end
unless the machine of financial intermediaries is split in two, dividing the commercial banks from those that do not invest. When you are afraid, you search for safety. And industry is safety because it is manufacturing, creation, unity of spirit and matter, and the body and soul of society. Especially now that the new industry no longer develops only for commodity supply chains and technology, but also and especially for the scientific, technological, and production clusters where there is a steady decline in the size of the plants and companies while the systemic interrelationship between them is increasing, creating new constellations in the sky of industries. The most overwhelming thing about this new industry is the reclassification of the models of authority and power relations. These are increasingly less important because they alone cannot guarantee an efficient management of the execution of design and production. Let
me explain. Property is no longer sufficient by itself, as it once was, to ensure industrial implementation. We cannot purchase the essential elements of production. This is because the essential elements of production have become idiosyncratic personal skills that guarantee the flow without redundancy of technology that must have a distinctive competitiveness now. If before, I could gain factors and organize them in a hierarchy through economic transactions, today this is no longer sufficient. You must be able to attract the talents that are the keystone of the new industry that is advancing, thanks to an authority or technological, experiential, and even moral authoritativeness. What characterizes talent is the passion united with skills and abilities. But the real news is that today we want to find and discover this passion in work management as well as in what was once called "executive work" and which no longer exists today, because all the workers of the new industry are skilled operators who direct and decide at their work place, just like the manager decides and directs in the broader sphere of strategic planning. As the world turns, you feel the gentle breeze of the rebirth of industrial pride that unites employers and workers, professionals and managers, without any of these ancient but ever new social figures losing their creative force. Of course, despite the many cultural barriers against industrialism that exist in Italy, this new industrial renaissance is deeply rooted in our country. We must not forget that, despite the destruction of our heritage, represented by the large corporation and which occurred mainly in the 1990s, we are still the second industrial power in Europe after Germany and we cover a much more important role in the world than one would think. Furthermore, we must not forget that this new configuration of industrial pride passes through the myriad threads of a rather composite weave: the
large companies (ENI, Enel, Finmeccanica, Postal Service, Railways, Aviation), the so-called medium-sized enterprises of the “fourth capitalism,” and the countless small businesses and artisans who are lagging far less behind than is commonly assumed. In fact, small businesses and artisans are the depositories of a prodigious wealth of craft skills that are developed in the most diverse organizational populations: horizontal commodity chains, where big and little intersect; vertical functional chains, where multiple technologies coexist; archipelagos of skills that are wonderful islands of working capability and entrepreneurial ability coming together. Everywhere, once again, people are breathing the pride of craft, of knowing how to do things with hands and brain together. We need to make one more effort, though. As families, as parents, and as teachers, we should be proud even if our children prefer to go to a professional or technical institute rather than get a college degree. This is because I am sure that a good workman-operator, just like a good professional manager, can love reading Plato, Pascoli, Zanzotto, and Goethe even if they do not have a degree; or if they do, it is a degree in engineering, seismology, geology, or biology. This is because the new industry will not be able to be built without overthrowing old hierarchies and unifying cultures.
Industry is safety because it is manufacturing, creation, unity of spirit and matter, and the body and soul of society 107
Sc scenarios
MANUFACTURING: THE ENGINE OF GROWTH “The more advanced nations have once again put the processing industry at the center of their development strategies. If Italy wants to continue to be an authoritative subject of economic life on a global scale, it can only be through the strength of its industrial system, which is the only area to consider investing in today in order to restart a process of development of the entire national system.” by Giorgio Squinzi Technological innovation is the engine of growth and productivity, and the underlying basis of the economic development of nations. And an innovative system is the heart of the manufacturing industry. The manufacturing sector contributes to the production of new scientific and technological knowledge more than other sectors, because the companies that are active in the industrial sectors closest to science are the ones that fund and manage the most important research laboratories. They also carry out most of the private research and development, which is the main input of innovative activity, and are more successful than others at using outside knowledge in the company and establishing collaborative relationships with universities. In Europe, the geographical distribution of the innovative capacity, measured by the number of patents per capita, follows that of the industrial vocation. The manufacturing sector, therefore, continues to be the “engine room” of growth because the productivity gains of the entire economic system, directly or indirectly, originate from it; that is, through the innovations that are incorporated into the goods used in the rest of the economy. But the centrality of the processing industry in the development of a country is not only measured on the grounds of its capacity to produce innovation. In fact, the processing in-
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dustry is also the means through which a country substantially devoid of natural resources can manage to loosen the “external constraint” to growth – namely, its ability to finance the purchase of its imports. In the case of Italy, seeing as almost 80% of exports consists of manufactured products, without them it would not be possible to obtain raw materials, starting with energy, the purchase of which is funded by the surplus in its trade in manufactured goods with foreign countries. For all these reasons, the importance of manufacturing activity goes far beyond what the statistics reveal about its direct contribution to added value and employment of the entire economy. The awareness of this fact is fueling a real rediscovery of the centrality of manufacturing in many industrialized countries. The more advanced nations have once again put the processing industry at the center of their development strategies. The United States, the United Kingdom, and France have initiated discussions and taken steps to focus firmly on the revitalization of the manufacturing industry. Germany has been doing so for some time. But also the emerging economies are running programs explicitly aimed at strengthening their manufacturing activities. These countries, whether advanced or emerging, are acting on a clear vision of the problem and have shown to be capable of pursuing long-term strategies consistent with the pinpointed objectives. Italy seems to be late. Any political decision made should always be grounded in a vision of the future of the country-system it relates to. Unfortunately, our past history and the very months we are living through now are a case of how this principle is all too often ignored. From one emergency to the next, decisions and measures add up that are unable to go beyond a short-term time horizon, and once the obstacle at hand has been overcome, it is followed by other decisions and other measures guided by the desire to hurry up. A more longterm view is necessary, making
it possible to go back to thinking about policy as a tool to guide the future of the country, to rescue it from drifting toward having to choose between either doing one’s duty or following an agenda dictated by urgency, if not by other things. And it is necessary that this change of perspective not tarry in taking shape. The major industrial countries that we are dealing with, whether old or new, all have much to teach us from the point of view of the construction of a national system oriented to clear and explicit objectives. Italy's delay could become dangerous, because already, in an international comparison, our country suffers from a lack of growth – in manufacturing, too – and lower productivity growth. If knowledge has always been the crucial element of competitiveness, it has become even more so today. In this key, increasing activity aimed at creating new knowl-
edge and applying its use has become essential to strengthening the competitive factors of the country, because once high levels of per capita income have been reached, the growth of an economy depends on its autonomous ability to innovate. To do this, it is necessary to start from the many strengths that the Italian manufacturing industry still has, and at the same time deal with the weaknesses accumulated in areas where there seems to be a delay, which are the areas in which innovation is more closely linked to the progress of scientific knowledge. And because innovation is the result of a dense network of relationships between many actors (companies, universities, governmental and nongovernmental research centers), the institutional conditions that facilitate the identification and adoption of technologies and new organizational models
In Europe, the geographical distribution of the innovative capacity, measured by the number of patents per capita, follows that of the industrial vocation
need to be strengthened. If Italy wants to continue to be an authoritative subject of economic life on a global scale, it can only be through the strength of its industrial system, which is the only area to consider investing in today in order to restart a process of development of the entire national system. The strong manufacturing vocation of our territories and the enormous human capital available to our industry – too often misunderstood by careless and superficial observers – form the basis of a possible re-industrialization of our economy, which is the only way that the country can escape from the current situation. The industry of our country has certainly suffered significant blows over the years, but despite the duration and intensity of a devastating recession, it has managed to show a resilience that is unimaginable to all those who do not really know our nature.
At the same time, with regard to anyone who does business, it is good to first of all enforce the principle that – in a world in which “knowing how to do things right” is not enough because we need to know how to do even better than the others – it is necessary to abandon the logic of passive adaptation to the conditions of the economic context and to actively act as a person who plans his own future. The line of demarcation between the entrepreneurs who will be able to manage the increasingly vertiginous changes and those who, unable to do so, will be forced to exit the market, is defined by the ability to build, around the “fast response” to the question, a kind of know-how that others do not have. The cornerstone of competitiveness will be the skills that the company will be able to develop and its ability to adopt organizational solutions consistent with them.
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Id in-depth
TOMORROW’S PRODUCTION IN 7 WORDS In order to outline a present and future scenario of industry, we must first understand the elements that affect it. To understand the industry, let us start with a few words: restructuring, exports, supply chain, business networks, districts, retail, and trade unions. by Dario Di Vico
We have had four years of crisis and the future of our manufacturing industry is still uncertain, to say the least. But rather than persisting with Cassandra-like forecasts, it would be worthwhile to try to grasp the point of some changes that have already occurred. I have chosen a few key words for the reader’s convenience, a short glossary of the crisis and its consequences in what is still one of the major industrial countries of the Old Continent. Restructuring Once, companies would undertake restructuring if there were an emergency, whether financial or due to the market. Now, even small business owners have understood that there is no solution of continuity and a company that wants to stay on the ball has to undergo constant check-ups. There are various (and welcome) techniques, but what almost always emerges is that manufacturers pay great attention to skills. Even knowing that the crisis demands ruthlessly cutting costs, no one has deprived themselves of personnel by “taking advantage” of the recession; in fact, today’s difficulties have increased the
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reflection on human capital and its strategic importance. A highly interesting work on restructuring by Cipolletta-De Nardis came out a few months ago, but there is a lack of recognition concerning outsourcing processes and their evolution. The relationship between industry and professions also needs to be evaluated. The affirmation of a Made in Italy tertiary sector that is qualified and able to serve the international market (and not only their own region) passes through that very relationship. Supply Chain The reorganization of companies, especially what could be called “non-defensive” reorganization, has certainly not stopped at the perimeter of the parent company, but rather, has invested the whole supply chain. There are many cases where this has been a positive process both in terms of efficiency and of social cohesion. The work carried out by at least three majors is highly interesting, two of which concern luxury goods (Gucci and Louis Vuitton) and one that deals with large distribution (Ikea); all three have entered into the world of providing a form of partnership in different territories. In some cases, such as the Swedish multi-national, greater attention is paid to the costs, and in others, to the quality. This has allowed suppliers to have more reliable horizons of commitment and to be able to count on interventions by the large company aimed at rationalizing or innovating a particular point in their production cycle. If we take a look at the Italian experience, it is interesting to observe those cases in which an immaterial item newly motivated the supply chain and innovated it. I am referring to the Salone del Mobile (Furniture Fair) in Milan and Slow Food in Piedmont. Exports Someone in the trade union superficially sustained that we would have (guiltily) adopted an export led model. Not quite! Actually, one cannot say for certain that the system has moved ac-
cording to a canonical principle but, in the face of the stagnant domestic demand, the way of foreign markets appeared to be the only card to play up to the very end. Strictly speaking, we could say that we should have realized it sooner, because if Germany exports more than we do in the food industry, with no insult intended to beer and sausages, it means that we have been resting on easy honors and have not squeezed out all our potential in exporting our industrial culture in the field of food. What is important is what has happened with regard to our attitude toward the exchange markets; the relative weakness of Western economies and the thrust of the BRICS could have left us without a leg to stand on, and instead, adaptability has been stronger than the trauma and some important results in the new markets have been achieved. Business networks The controversy over the dwarfism of Italian companies as an insurmountable obstacle to growth is a waste of time and does not allow us to take a single step forward. Instead, the business networks can be an important tool, a painless way to aggregations. In this model, the small business continues to feel involved in a process of development and is not being brutally told to get out of the way, as a study presented by Confindustria did a few years ago which was then cataloged under the name of “T holding.” Today, there are about two thousand companies that are already on the Internet in one form or another, but that is very few, far too few. Not all the representative associations have been as committed as they should have been, and this has created delays. Some banks had promised to help the aggregation process by recognizing a sort of rating reward for those who collaborated to increase the size of their company, but on the periphery of all that, very little has resulted and the impression is that banks have a tendency to invest in the pro-SME campaigns more
The business networks can be an important tool. In this model, the small business continues to feel involved in a process of development
than to really heed the territory. Even the bank-firm relationship today fails to express its potential value and it is disconcerting that this question is not the subject of careful and selfcritical assessment by the ABI, the Italian Banking Association. Districts The Italian district system seems to have withstood the impact of the recession, even if not uniformly. Some areas have paid dearly for their delays in innovation and market repositioning (i.e., chairs from Friuli); others have been able to deal with it blow by blow. Of course, I am referring to Sassuolo, which is trying to combine tiles and a green economy, and to the tanning sector in Arzignano, that has cut down production time and begun developing a fashionable product. According to the North-East Foundation, however, the districts should broaden their outlook so as to enlarge their territory, break down local closures, and extend their networks abroad. Will they be able to do so? The answer lies in their ability to re-specialize, or to cultivate the more traditional or niche market segments, but at the same time to introduce new products or concepts. In this case, perhaps there is a lack of accurate recognition of what is happening. Retail This is a matter in which we Italians are not doing as well as we should. Besides, if we had been better at understanding the bargaining strength of distribution (downstream) with respect to production (upstream), we would not have stood by while the Swedes created their multinational furniture empire, making a mockery of the Italian masters. In our industrial culture, the cult of the product has too often led to its laying forgotten on the shelf: just churning out some lovely things is not enough, you also have to get them to the right place at the right time. Our French cousins could teach us a lot in this area. The Italian groups of large retailers today
do not seem to be able to expand abroad as Auchan and Carrefour did, and thus, modern trading companies that can act as carriers of the Made in Italy products are lacking. Some interesting experiences have arisen, such as Eataly in the “food” sector, but we are still far below the needs and the present situation is not playing out in our favor. Trade Unions If we put aside the case of Fiat, which is absolutely eccentric, it is increasingly evident that there are two systems of industrial relations in Italy. One is Roman and the other is territorial. The first thrives on more or less bombastic interviews, on mediation within the individual confederations, on a debate dominated by the need to always churn out new laws. Without the consultation table, Roman trade unionism has lost its core business; it is struggling to change its mindset and anxiously trying to at least indicate its presence. It is an association of the apparatuses. But there is also a territorial reality of structured bargaining that is silent, unified, and collaborative. Often, territorial trade unions do not even send agreements accorded within a company to Rome for fear that some central official will pronounce their powerful “Nyet!” There are many new features within this multiplicity of agreements, starting with the weight that corporate welfare is taking on, in the wake of Luxottica. But very interesting solutions are also found from time to time in the fight against absenteeism or concerning salary merit, rewards, and productivity. The territories may give rise to a more modern system of industrial relations, proving useful to our recovery. PS: If we were to substitute the more or less ideological analyses of the future of our industry with a recognition of the phenomena, the land immediately becomes fertile. And to those who have come to the end of this article, please consider it just an appetizer.
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Co contexts
A MORE MODERN, MORE EUROPEAN, AND MORE COMPETITIVE ITALY “The change in our country has just begun. We have charted a clear path with measures that were able to be taken with the limited resources and the limited time available, and today we already have an Italy that is more modern, more European, and more competitive. Now we need to move forward.” by Corrado Passera
In the last year, Italy has proven in many ways to be an interesting and effective laboratory among the European Union countries and in the world. At the end of 2011, we were a country that was dangerously slipping into a crisis potentially dramatic enough to risk losing national sovereignty. Today, after a year of hard work, we have regained international credibility and are once again playing a leading role in the EU and at all the major global tables. The Monti government has managed to achieve the profound change in our country by acting decisively through structural reforms – such as the modernization of the pension system and tax reform – and by, first and foremost, making our public finances secure. This fundamental result was possible thanks to the commitment of everyone – government, parliament, social partners – and the sense of responsibility shown by Italian citizens. Starting from the first act of our government, “Save Italy,” we have tried to jointly carry out strict policies and growth-oriented reforms. During these months, we have gradually implemented a real agenda for sustainable growth that has touched upon and renewed the main elements of the structural weaknesses of our economic system and the main levers that can make our country more competitive and therefore better able to grow and create jobs. All the chickens had come home to roost because of
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many years of inaction. Italy can return to growth by solving – as is being done – the accumulated problems and taking advantage of many of our strengths. Our economy is very diversified and we have not made the mistake of neglecting everything else in favor of services alone. It is not by chance that we continue to be the second European manufacturing country after Germany and one of the leading exporters in the world. Italy is the world leader in areas that can only benefit from globalization, such as mechanical engineering and automation, food, the fashion system, and the house system. But there are positive prospects coming from various other sectors of our traditional strengths, such as tourism and the world of health. We do not lack entrepreneurial energies; private debt – of both households and businesses – is contained, while the total wealth of Italian households and their saving capacity, albeit smaller, are elements of strength. Our banking system is more solid than elsewhere and has not led to either rescue operations or costs for taxpayers, through both financial crises. Unlike many other countries, we do not have to recover from any financial or real estate bubbles. On this basis, we have begun to create a more modern and competitive country, providing it with an ecosystem of rules oriented toward facing the new challenges of international markets. Some of the competitive disadvantages that we have tackled in a significant manner include energy costs, the infrastructure gap, the lack of liquidity and credit, especially for small and medium-sized enterprises, and the bureaucracy. Energy: the liberalization of the gas market and the separation of ownership of SNAM from ENI, and the reform of the system of incentives for renewable sources are already a reality and are key points of the new National Energy Strategy. Through the NES – now in consultation – we charted the path that our country will have to follow concerning energy policies from now until 2020, significantly reducing our energy bills and dependence on foreign sources.
Infrastructures: we have completely reformed the regulations sector, introducing radical simplification and speeding up the time required for the approval and execution of works. Through the CIPE (Inter-ministerial Committee for Economic Planning) we have released resources for almost euro 40 billion, opening or keeping open many construction sites and ensuring thousands of jobs. With the introduction of project bonds, we have provided the country with an innovative financial instrument that, among other measures, will allow us to attract private capital in the realization of strategic projects. Credit and liquidity: this is one of the fronts we have been working on right from the start, providing companies with euro 20 billion of credit guarantees from the Central Guarantee Fund of the State, making it possible for companies to offset receivables and payables with the public administration, and introducing the VAT regime for Cash. As of January 1, 2013, every new supply payment must take place within 60 days, as a result of the EU di-
rective on payments that we implemented last November, the first of the major European countries to do so. It is certainly an important step forward in making our country more “normal.” Bureaucracy: we have launched an important series of simplifications for citizens and businesses, mainly working with trade associations. This is the route we need to take more and more, to increasingly lighten the weight of the government where it is not needed, eliminating unnecessary intermediaries and veto rights that are so commonplace today, and clarifying exactly who does what within a much lighter institutional framework than our current one. We have also worked hard during the year to consolidate the two main levers of business development: internationalization and the ability to innovate. For this reason we have strongly reformed and developed a system of instruments for supporting companies in foreign markets. This system now operates under the coordination of a control room presided over by the Minister of Foreign Affairs
We have begun to create a more modern and competitive country, providing it with an ecosystem of rules oriented toward facing the new challenges of international markets
and the Minister of Economic Development and is shared, finally, with all the players who have acted for many years without being sufficiently coordinated: the Ministry of Agriculture, the Ministry of Tourism with ENIT (National Tourism Agency), the main trade associations, the Regions, and the Chambers of Commerce. The ICE (Italian Institute for Foreign Trade) was reconstituted on a new basis and with a well-defined mission. We have also initiated the rationalization of our foreign networks through greater integration between the embassies, consulates, ENIT offices, Chambers of Commerce, and the ICE itself. In order to attract foreign investment, the establishment of a so-called “Italy Desk” has been envisaged: that is to say, the creation of a single point of access for international investors. The same operation of system coordination is now happening with the financial support for internationalization, and the transition to the Deposits and Loans Fund of both SACE and SIMEST can be seen in this light. Two instruments of
great importance concerning innovation are currently being evaluated by Parliament: the Italian digital agenda and the development of start-ups to open up a new frontier of “doing business.” The digital agenda is a reference to industrial policy through innovation. Resetting the digital divide, starting ultra-wideband services, and digital services of the public administration to citizens and businesses are the cornerstones of this important reform of European breadth. As for startups, we have created a regulatory environment that is one of the most advanced and beneficial for the creation of innovative businesses: reduced bureaucracy and very low initial costs, benefits for the first four years of operation, with tax incentives attached, a more streamlined and flexible contract of employment, the possibility of involving employees in the capital of the company, raising funds online, and a bankruptcy law that allows the entrepreneur to start over more easily. Artisans can be at the center of this new model. Combining Made in Italy know-how with tech-
nology is one of the routes for the development of the manufacturing industry. Italy holds many cards that it can play to this regard. We intend to move forward along this road, and as soon as our resources will permit it, we believe it is important to provide our entrepreneurial system with a tax credit to encourage investments in research and innovation. Finally, another positive result to note is the agreement reached a few weeks ago by the social partners on productivity. This is an important agreement which will help recover a spread that has greatly expanded in recent years. The government has made nearly euro 2.2 billion available for reducing taxes on wages linked to productivity, illustrating the importance we attach to company contracts that increase productivity. The change in our country has just begun. We have charted a clear path with measures that could be taken with the limited resources and the limited time available, and today we already have an Italy that is more modern, more European, and more competitive. Now we need to move forward.
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In interview
INTERVIEW WITH ALBERTO QUADRIO CURZIO THE VITALITY OF ITALIAN PRODUCTION There is still plenty of vitality in Italian industry. Despite the recession and increased competition from the East. Italy is still ranked fifth among the G20 economies for surplus trade of non-food industrial products, after China, Germany, Japan, and South Korea.
from Quintino Sella to Giuseppe Colombo. From the Renaissance up to the present, the situation has obviously changed greatly. In particular, in the second half of the twentieth century, Italian industrial capitalism was modified by a scarcity of large private and public groups, and the subsequent emergence of small businesses and their districts. More recently, the medium and medium-large businesses, also known as the “fourth capitalism,” have established themselves. The manufacturing industry, however, is still the most competitive part of the Italian economy.
by Paolo Piacenza
In this interview with Oxygen, Alberto Quadrio Curzio – President of the Class of Moral Sciences, History, and Philosophy of the National Academy of Lincei and of the Center for Research in Economic Analysis (CRANEC) of the Catholic University – confutes a few of the clichés about the health of the domestic industry, but insists that the only direction Italy can take is the one indicated by the European Union: more research, infrastructures, and energy. Basically, a more favorable context for those who produce. Quadrio Curzio recently co-wrote a book with Marco Fortis entitled Industry in the 150 years of the Unification of Italy. Paradigms and protagonists, published by Il Mulino in the Edison Foundation series. This long-term analysis is very useful to reconstruct a picture with the correct proportions. What design emerges, Professor? And what is industry in Italy today? First of all, this analysis indicates that Italian industry has contributed not only to economic and social progress, but also to politicalinstitutional progress according to the directives of important figures,
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Are some sectors suffering more and others less, and if so, which are they? And how do we avoid losing pieces of productive assets and the pace compared to other countries? Italy’s strong points are mechanics, food, furnishing, textiles and clothing, and design, according to the trade surplus. The term-concept “Made in Italy” that was coined for these manufactured products could be accompanied today by that of “Italian Made,” because many Italian companies are also strong in their production abroad, but have not lost any of their Italian characterization. If Italy wants to be among the largest in the manufacturing world, its growth will have to rely even more on quality, so that it may find strength in the medium-sized businesses because the small businesses cannot make a go of it alone. Today, Italy is ranked fifth among the G20 economies for surplus trade of non-food industrial products, after China, Germany, Japan, and South Korea. It must not lose this position. Some districts continue to show a bit of life. Can we consider them fundamental for Italy also at the beginning of the 21st century? The district as a socio-economic territorial system may still hold, but it must also be accompanied by business networks, which are non-territorial districts built on sectorial or cross-sectorial complementarity. This is to increase their functional size without sacrificing the business subjectivity that weighs heavily on entrepreneurs. The 2009 regulations, recently finalized by the government, are
The completion and upgrading of infrastructure networks, not only for the transport of goods and people, but also for energy and telematics, is essential to start the growth
outline the margins for improvement. As shown in the recent report of the European Commission (Member States Competitiveness Performance and Policies 2012 and attachments), among the weighting factors are inefficiency in the public administration of civil justice, corruption, and fraud. These are all factors that place us below the EU average. In addition to the heavy tax burden, we are paying for another burden: Italy ranks among the worst in the EU for the quality of its infrastructures. This problem has obvious impacts on industrial competitiveness.
very useful for such purposes. I think the Italian difficulties in making the size of business grow can be at least attenuated – if not overcome. In particular, when there is a medium to large company at “the center” of the “business networks” required by law. Which factors would you highlight, in comparison to Germany? Italy’s North-East-Center (NEC, as Fua called it) has an industrial vocation that is very similar to Germany’s, while it differs from the latter in that it does not have many large groups. However, our country is dualistic. More precisely, the North-West (with 1.7 million employees in 2007) and the NorthEast (with 1.3 million employees) are the first two macro-manufacturing regions of the European Union. They have more employed people than North Rhine-Westphalia, Baden-Württemberg, or Bavaria. Impressive numbers that confute many clichés. The economic and legal context in which businesses are operated in both countries are quite different. Rather than focus on a comparative analysis, I would like to try to
A weak point is research, both public and private: there are exceptions, but the overall picture is not encouraging. Is it only a problem of resources, or also of strategy and courage? According to the available Istat data, our spending on research and development in recent years (2006-2011) was around 17 to 19 billion euros. More than half of the expenditure was incurred by the business sector. That said, it is important to place Italy in the European context. On the whole, Italy spends 1.26% of its GDP on research and development (2010 data). The EU-27 average is 2%, with some Scandinavian countries reaching peaks of over 3.5%. Other major European countries such as Germany and France record much higher levels than Italy, 2.82% and 2.26%, respectively. The problem of scarce resources invested in R&D is a constant for Italy. Between 2005 and 2010, the percentage of expenditure to GDP increased from 1.09% to 1.26%. At the same time, the EU average increased from 1.83% to 2%. This progress is too small to meet the objectives of the “Europe 2020” strategy, which sets the target at 3% (1.53% being Italy’s). There needs to be a change because without investments in research and development it will not be possible to follow the path of growth nor to maintain our competitiveness compared to Japan, China, and other emerging countries. But having few resources, the change must be in the use of the investments, and then come about through strong selectivity of spending.
Let us move on to the role of the public and the weight of macroeconomic factors. The action of fiscal consolidation of the Italian government and the choices of the ECB seem to have initiated a positive way to reduce financial risk: how much is it and how much does the containment of the spread weigh on Italian industry? As we know, the crisis was born and raised in the USA. And between 2008 and 2009, Euroland (EMU) believed that the crisis would have stayed there. Instead, in 2010-11 it became full-fledged. It was only in this year that many innovations that had been painstakingly built since 2008 gained strength in the EMU. There were many weaknesses in the institutional framework of both Europe and Italy. All this also reflected on the macro-economic variables. Now a faint light at the end of the tunnel can be glimpsed, but there is still much to do to bring the crisis to an end. It is not enough that the interest rates and spreads of Italy (and others) have fallen. Certainly, having a spread of around 350 basis points from a peak of about 550 is also a result of the Monti government, which has once again given credibility to Italy in Europe. It is also thanks to Mario Draghi that important signals were given to the markets. The injection of liquidity by the ECB of 1,000 trillion euros with LTRO (Long Term Refinancing Operations) interventions and then the prefigured OMTs (Outright Monetary Transactions) have restored stability to the banking and financial system of the EMU. There is still the problem of credit to businesses. Austerity is not enough: the companies are saying it and even the European Commission has long expressed the need to focus on the revival of long-term investments in transport infrastructures, logistics, intermodality, energy, broadband, and next-generation mobile networks. Would all this help Italian industry? I think it is essential to immediately have an active strategy that needs to be based on two pillars: infrastructures and industry. First of all, the completion and upgrading of infrastructure networks,
not only for the transport of goods and people but also for energy and telematics, is essential to start the growth. The priority therefore – for the whole economy and for reviving the industry – is investment in strategic infrastructures. The European Commission has estimated financing needs for the years and decades to come. And they are huge: for energy, 1 trillion euros by 2020; for transport, 1.5 trillion euros between 2010 and 2030, of which 500 by 2020; for telecommunications and broadband, 270 billion by 2020. Therefore, the Commission’s initiatives are appreciable, such as the “Connecting Europe Facility” and the “Europe 2020 Project Bond Initiative,” in which the European Investment Bank has a key role. Infrastructure investments should also be accompanied by those involving European industry. According to the European Commission’s communication A stronger European industry for growth and economic recovery, industry should be at the heart of the European growth plan. The goal is to bring the weight of European industry from the current 15.6% to 20% of the GDP by 2020 through these directives: investment and innovation, market expansion (domestic and international), access to credit and finance, human capital and skills. Another important element is the announced national energy plan. What should Italian industry ask of the government? Italy needs a national energy strategy placed within the European and international context in which its major energy companies operate. In compliance with the rules on liberalization, there is a problem of energy security that can never be overlooked. This is why the fact that Enel and Eni have remained outside the control of the government is important, as is the fact that the directors of these companies have been confirmed by governments of differing majorities. It is a sign that their international credibility is significant. In any case, the Italian energy problem to keep in mind is the geo-economic profiles for the development of transEuropean networks and supply, through the wider Mediterranean and extending to the Middle East.
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Even Brazil, an ever-increasing power in energy and agricultural production, is marking time: after dizzying growth, its economy is now traveling at a modest +1.5% Sc scenarios
GLOBAL COMPETITION OF INDUSTRY The major industrialized countries are moving in search of solutions to the crisis; some are slowing down, others are exploring new territories. An overview of the sectors in which they are concentrated and the global interconnections that affect them. by Carlo Marroni There was some news in recent months that practically went unnoticed. The largest bookstore chain in the world, the American Barnes & Noble, which tallies 689 stores, avoided recording a decline in sales in its financial statements thanks to the boom of the Fifty Shades trilogy. Nearly 30 million copies, the most books sold in recent history, even more than Harry Potter, then considered incomparable. A coincidence? Maybe. But it certainly also signals an economic phenomenon that is being studied not just by those who deal in books (and who rejoice, seeing as there are still readers who go to buy at bookstores). Globalization has flattened the world, as Tom Friedman described it so well years ago, and has allowed us to level the gaps and accelerate the spreading of trends. For better or for worse: first growth, then the crisis. Which since 2007 – the year of maximum overall expansion in the post-war period for the entire planet – has been spreading progressively into the
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deepest folds of the real economy. But globalization now makes the value of excellence even clearer, as something which will trigger the recovery of the general economy and its transverse segments (districts, nations, macro-areas, continents). Similar to what happened to America’s largest bookstore, it will have learnt a lesson from The Shades experience for its business in the future. And it is precisely from the United States (where the main aspect of the crisis developed with the mortgage crisis, which was initially underestimated on Wall Street and in Washington, but also in Europe because of the specificity of “easy” American mortgages) that signs of a recovery seem to be coming, both concerning the GDP and the real estate market. But everyone is warning that this is a fragile and mild recovery, seeing as it has to dispose of the indigestion from debt that weighed upon American families in the decade of 1995-2006, the real motor of a system based over
70% on domestic consumption. For now, the push is coming from government spending, while the profits of Corporate America have disappointed shareholders. Analysts agree: the U.S. locomotive will resume running only if there is a gradual decline in unemployment, which in some sectors – such as construction – will have to come to pass through redevelopment, seeing as re-absorption does not seem likely. The most concrete perspective for the U.S. economy is to bring production units which were outsourced years ago, especially to China, back to the homeland as soon as possible. Now, production in the former Middle Kingdom is no longer so convenient. On the contrary. And alongside the activity of manufacturing and services, in America there is a very strong increase in revenue from the industry of extracting hydrocarbons, particularly shale-gas, which is making the United States almost selfsufficient in the supply of natural gas. And then there is China. The
prospects of the world’s second economic power are central to the fate of almost all areas of the world, from the United States to Europe, from the Far East to South America, some of which belong to the exclusive club of the BRICS, the group of new economies (Brazil, Russia, India, and China, to which South Africa has been added) – and to which Turkey can be associated in different capacities – which have driven growth in the past decade. Now, everyone is inexorably slowing down, and everyone is trying to find an original and effective way to prevent the tumultuous growth from turning into a bubble. Since the beginning of the year, China has been growing at a rate of less than 8%, a dizzying percentage for the West but which in those parts means being almost stagnant if you think that in the fateful year of 2007 (IMF data), it recorded +14%. All this has resulted in a vertiginous rise in labor costs, to the point that, for new investments, Chinese companies now outsource
to Vietnam and Burma. The new five-year plan, which will accompany the party congress at the end of the year when the new leadership – led by Xi Jinping – for the next decade will be revealed, will focus increasingly on products with high added value (and fewer cheap ones) and, at the same time, on a strategy that is oriented less toward exporting and more toward satisfying the domestic demand. In particular, also given the chronic shortage of raw materials for energy to meet the demand, it will be strongly focused on the production of electric vehicles and all technologies related to the green economy. Alongside China, there is India, which also has experienced double-digit growth rates, highlighting particular excellence in terms of information technology. But the great productivity boost has not been able to bridge the infrastructure deficit that afflicts the subcontinent, which slows the transit of goods and the flow of foreign investment. And in fact, the creation of
high-speed railway lines will be one of the guidelines of New Delhi’s economic policies. Which are also discouraged by the exceeding difficulty in doing business (the power of interdiction by local authorities is still very high), an excess of statism, and the backwardness of the retail trading system that prevents the emergence of large retail chains essential for channeling the production of other areas of the immense country. Overcoming the crisis thus passes by way of structural reforms, but these must overcome the political hostility. Even Brazil, an ever-increasing power in energy and agricultural production, is marking time: after dizzying growth – in 2010 reaching 7.5% – its economy is now traveling at a modest +1.5%. The main cause is the slowdown in China, its main export market especially for raw materials. In addition, like the other BRICS, Brazil, too, must take into account an increase in the cost of living and of work that clashes with an inflexible production
structure, given the government’s strong presence in the economy. Furthermore, the real is over-rated. The combination of these factors is fueling the temptation of the federal government to increase tariffs to outsiders, a matter that is considered unlikely, however, given the two key events that await the country: the organization of the World Cup soccer championships in 2014 and the Olympics in 2016, for which an expected boost to the GDP is taken for granted. In any case, the automotive industry is one of the leading sectors that Brazil is counting on in order to trigger a new virtuous cycle of growth. As far as Russia is concerned, even Moscow is working to diversify its economy, which is too dependent on exports of oil and gas. The post-crisis challenge is to create a solid industrial structure of high added value, especially in high technology, as evidenced by the project for the creation of Skolkovo, the Russian Silicon Valley. Japan, the former second world economy, is undergoing a profound transformation in its traditional structure. The large conglomerates (brought there in the Eighties and early Nineties) that operated in almost all areas have long been in crisis: large-scale diversification no longer pays off, and the ongoing challenge is the refocusing on specific areas of core business. In addition, the accident at the Fukushima power plant and the subsequent decision to abandon nuclear power (at least partially) is already pushing Japanese companies to shift production into the same areas where the Chinese are headed. At the same time, the government's intention to focus on technologies and renewable energy applications is clear. In Europe, where the exit from the crisis has aspects and dynamics that are quite specific due to the euro currency, Germany also dictates the agenda in maintaining the supremacy of the manufacturing industry, which nevertheless is marking time, especially in exports to China, where it had reigned supreme in luxury goods for years. In Germany, the excess
savings have not been reinvested in the country, and thus the industrial system (which therefore cannot rely on substantial capital loans on a domestic basis) must defend its competitiveness by raising the level of domestic production in terms of quality, research, and innovation. And in parallel, it is considered essential that the process of upgrading the workforce through investment in education be successful (the federal budget shows an 11% increase in 2012 in this regard), to increase the supremacy of high-end manufacturing. France has a head start in domestic research and innovation, also with a model of targeted outsourcing on the markets that will best protect it. But beyond the Alps, the situation is difficult: confidence is falling, orders are taking a downturn, and there is a high degree of uncertainty, exacerbated by the super-tax on the “superrich.” Furthermore, the model of large retail chains, the traditional marketing channel (also abroad) to a large segment of Made in France, is in crisis, especially in the agriculture-food sector. Finally, there is the case Africa: the IMF estimates that, over the next 30 years, six of the ten countries with the highest rate of growth will be in Africa, where by 2060 – an estimate by the World Bank – a middle class of one billion people will have been formed. So, as well as Nigeria and Angola – “oil” countries – and South Africa, which by now has become the continental locomotive, we have to keep in mind Ethiopia, Mozambique, and the entire Maghreb area. Areas that will integrate more and more with each other, with privileged relationships, as well as with China and with the MIST countries (a newly-minted neologism): Mexico, Indonesia, South Korea, and Turkey, the latter as the new frontier, especially in telecommunications and financial services. All countries that – along with others like Pakistan, Bangladesh, Vietnam, and the Philippines – have a young (and in some cases, very poor) population that is ready to enter the game of the new globalization.
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THE FIFTH INDUSTRIAL REVOLUTION An analysis of the impending revolution in the manufacturing sector, an overview of the lessons drawn from past industrial revolutions and those of the present of economic crisis. And some social and economic benefits that a new revolution could achieve. By Peter Marsh
The past decade has been a gloomy time when it comes to discussion of prospects for rich countries in manufacturing. The story has been one of a continual loss of competitiveness and capabilities by the world’s most developed nations in factory production. The result has been a steady shift of output to the low-wage nations, with China most firmly in the ascendancy. Now, however, the world is on the brink of a new era. This shift in fortunes of the developed and developing world in manufacturing will begin to go into reverse. Manufacturing in the rich countries will stage a comeback. Behind this trend is a mix of factors, linked to technology, economics, consumer behavior and the operation of global supply chains and the internet. I have called this change “the new industrial revolution”1. The label is an effective way to separate the new era from the other big shifts in manufacturing that have taken place in the past. The “new” revolution is the fifth such change in history, as I explain later. At the heart of this switch is a simple proposition. Over the next 10 years, the proportion of global manufacturing done in the rich countries will decline at nothing like the rate experienced in the past decade, and may even see a modest increase. There will be crucial consequences for the world’s traditional industrial leaders – the countries of western Europe together with the U.S., Canada and Japan. The new period will
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coincide with a time of growing confidence for engineering and production businesses based in these regions. Job opportunities in these companies’ high-cost locations will be more abundant than elsewhere for a decade, particularly for those people with a high level of technical skills. The new industrial revolution comes at a difficult time. For several years, the economies of the world’s rich nations have been in a highly fragile state. This has resulted from the 2007/08 financial crisis, coupled to its aftermath in the shape of high government and consumer indebtedness and a steep fall in business confidence, most notably in the eurozone. So politicians, business leaders and others will have every reason to welcome the period of change as marking out a time when economic optimism starts to rise, after a prolonged period when it has been in extremely short supply. The advances in emerging economies in the 2000-2011 period in manufacturing were led by China. They have also involved – albeit to a lower degree – others among the poorer nations, including India, Brazil and eastern Europe and Russia. Key factors have included the lower costs of production in these regions, mainly linked to wages. That has encouraged more companies to shift manufacturing there, even if the final consumer is in the western world. At the same time, the growing demand for increasingly sophisticated factory-made products in the developing nations has prompted more industrial investment in such locations. Resulting from this change has been a big move upwards in the amount of world manufacturing done in the world’s poorest, least developed countries. The figure rose from just 24% of total global production in 1990 – and 27% in 2000 – to 46% in 2011. It follows from this that the amount of the world’s manufacturing done by the rich, “western world” has seen a big decline that has been particularly fast over the past decade. The figure has come down from 76% in 1990, and 73% in 2000, to just 54 % last year2.
China has been responsible for a large part of the shift. In 2000, China accounted for 7% of world manufacturing output. By 2005, this had risen to 9.8%. Over the six years to 2011, China’s share doubled to 19.8%. That put China above the US in terms of share of factory production. It was a historic change: 2011 was the first year for more than a century in which the US was anything other than the world’s top country in terms of factory output. China’s rise has been much more impressive than that of any other country in the emerging markets bloc. Over the 2000-2011 period, Brazil’s share of world manufacturing production went up from 1.7% to 2.9%; India’s increased from 1.2% to 2.3%; while the equivalent change for Russia was from 0.8% to 2.3%. The mirror images of these changes have concerned the developed world. The US’s share of world manufacturing output went from 27.1% in 2000 to 18% in 2011 ; over the same period the equivalent number for Japan slipped from 18.3% to 10.2%; for Germany, the drop was from 6.9% to 6.4%; and for Italy it went from 3.6% to 3%. These figures require some his-
torical context. China being the biggest manufacturing nation in the world would have been – just 20 years ago – very hard to imagine. But in 1800 – for anyone who was fully aware of global economic trends – China as the largest manufacturing power was an incontrovertible fact. Indeed, for several hundred years until around 1840, China was top of the world league table in industrial production. (Of course, no one counted up “industrial production” back then. Also the modern word “factory” had barely been invented. When I use “industrial production” in reference to past eras, I refer to output of material-based goods using human labour and ideas.) In 1800, China’s share of world factory output was 33%, just ahead of India. In that year, what we now call emerging economies were responsible for 71% of world production, with the nations now categorized as the western world accounting for the remaining 29%. It is simple to work out why this was the case. China, India and the other nations in what we now label as the poor world were much more populated than other regions such as western Europe and North
America. Manufacturing then existed only in a rudimentary form. The productivity improvements clustered around modern manufacturing – leading to the possibility of higher output per worker due to technological enhancements – had yet to be invented. So when it came to manufacturing capability, output roughly went alongside worker numbers. The more people a country had, the greater would be its output. But changes were on their way. The first industrial revolution – what most people call THE Industrial Revolution – made big productivity advances possible in factories making a range of goods from textiles to machine tools. As a result, countries with small populations, and with a correspondingly small number of people in factories, for the first time could punch above their weight in industrial output. The first industrial revolution took place starting around 1780. It had a powerful and growing impact on the world for about 50 years. Its biggest and most immediate effects were in Britain. The shifts resulting from the first revolution were linked to changes in the mechanization of textiles production, the emerging disci-
plines of metallurgy and the advent of steam power. The changes fed through to other areas of industry. They meshed in with other key movements – for instance, in the advent of new forms of company organization; higher rates of literacy resulting from better education; and improvements in agriculture and food supply. The first industrial revolution – with its impact accelerating during the 19th century – was why Britain took over as the biggest country in terms of factory production just before 1850. Britain’s position as number 1 in manufacturing only lasted for about 50 years. By around 1895, the US had usurped Britain as the leading country by this measure. It held this position until 2011. Britain’s tenure as the biggest country in manufacturing output – at its peak in the late 19th century the country was responsible for 15-20% of world industrial production – was also due to the second and third revolutions in the sequence. Both of these were also centered on Britain (although other countries, notably Germany, France and the US also played strong roles). The second revolution was the transport and communications
revolution. It began around 1850. It took shape around improvements in ship construction; the emergence of railways (driven originally by steam power); and the invention of the telegraphy. The third revolution was a broad set of changes based around new scientific thinking. Key disciplines were maths, chemistry and physics. The shift had its impact from 1890 onwards. Resulting from this was the availability (for the first time) of electricity on a “made to order” basis. This new form of power was capable of driving a range of disparate industrial processes. Linked to this were changes in production technologies leading to (among others) cheap and plentiful steel and a broad spectrum of new chemicals, among them drugs, dyestuffs and industrial commodity such as sulphuric acid. The fourth industrial revolution had its impact well into the 20th century. Taking shape around 1950, and with its effects gathering momentum for 30-40 years after this, the fourth revolution was about computers and electronics. It made the personal computer, high-speed data routers and the Internet all possible. The impact of the first four revolutions was largely confined to the rich countries, as they are currently defined. It was why these countries – which were the first to gain from the fruits of modern industrial development starting from around 1800 – had not only leapt ahead in the early years of this era but had stayed ahead. The period in which these countries remained in the lead lasted until around 1990. It was only after this that the changes ushered in by all the four periods of industrial shift built up sufficient momentum for their impact to be felt by countries outside the main developed bloc. This is how the leading emerging nations led by China started to become important industrial players for the first time in about 150 years. What lies behind the new – the fifth – industrial revolution? And how will this affect the world? There are seven factors be-
hind the new period of change. The first of these concerns changes in technology. A wide range of new technologies – concerning electronics control, materials science, nano-technology, and new forms of mechanized production (involving ideas such as “additive” manufacturing, built around new generations of 3D printing machines) – will have an impact. In most of these areas, the rich countries of the US, Japan and western Europe have made the biggest advances. They will also turn out to be the biggest beneficiaries of the changes. A second factor concerns greater requirements for product customization. This refers to the increasing “tailoring” of products, from consumer gadgets to industrial machines, to suit the requirement of the user. The shift is likely to necessitate manufacturing closer to where the goods will be used, so that the necessary design changes can be incorporated most effectively. In cases where the products’ customers are in the developed nations, it will therefore often be more sensible to base production in these places, rather than in an emerging country some distance away, even if production costs are lower there. Changes in technology are in step with the increased requirement for customized goods – including more sophisticated methods of automation. These make it easier and cheaper to make a small series of goods honed to meet the requirements of customers. A third aspect concerns the growth of global supply chains and information networks (the latter building on the internet). These changes will give a new competitive advantage to manufacturing companies based in high cost nations. Even when they choose to base the physical production of goods in lowwage nations such as China, the high-cost country will often be in a better position to act as the home for research and development activities. Here, businesses will be able to employ relatively large (and well paid) labour forces, not in the physical aspects of production but in the “soft” side
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of manufacturing concerned with the intellectual effort of making new goods possible. The fourth factor concerns the rise of China. The relatively sudden re-appearance of this country as a manufacturing power has given a huge impetus to the global activity of goods production. It is possible to regard China’s rise as a threat. Indeed, this is how the country has been viewed in many quarters, not least by manufacturers based in highcost nations that have seen new factories based in China emerge as powerful competitors. However, the way China fits into global supply chains can also be viewed as providing a potential help to a company based in the developed bloc. The production capabilities of a China-based industrial site can be leveraged to good effect by being used as a supplier. China is also an important new market for companies that make new sorts of industrial and consumer goods and are based in the West. Moreover, the direct competitive threat of China-based production operations will be reduced (but not go away altogether) as a result of the higher wages and other costs starting to make their presence felt in China Fifth is the emergence of new industries based on extremely narrow areas of production (and related service activities). These are the so-called “niche” or “sliver” sectors that barely existed in the past. But today – due to changes in technology and industrial organization, plus the new possibilities that exist for selling globally using the Internet and better transport links – such narrow sectors are becoming more viable as an area in which small industrial businesses can often compete on a global basis. In most cases, niche companies are found in Western nations, rather than in the emerging economies. Examples of these new niche businesses include: the manufacture of high-speed air-bearing spindles for drilling machines; production of new forms of specialized lighting using semiconductor-based lightemitting diodes; the production and servicing of ultra-thin and
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sometimes flexible steel pipes for industries from energy exploration to medical equipment; and high-precision pumps for use in the food industry, aircraft production and fluid sampling, for instance, for the health industry or environmental management. The sixth key factor concerns the growing importance of small clusters of companies and research organizations – often versed in complementary or identical technical disciplines – that are concentrated in the same small geographical region. Such clusters are mainly to be found in advanced industrial economies. They are by no means new. But their impact will become greater in the new industrial revolution. That is, as the the forces of globalization make it possible to amplify the impact of technological and marketing verve in a specific location to many more parts of the world than would have been possible in earlier eras. In the new era, small concentrations of industrial expertise – perhaps in a corner of Italy, Germany or the US – will use global supply chains and support networks to have an effect in a scattered way in many far-flung parts of the world. The final point is linked to the way environmental factors are playing a part in influencing how companies operate. In the past, manufacturing companies were almost always associated with despoiling the environment. This happened either through pollution during production processes, or in the way the goods were used after they left the factory. Now, environmental factors are being used by companies much more positively, as a potential competitive advantage. Companies in sectors from electric motors to car production are investing in new manufacturing methods or novel types of products to make their businesses much more “environmentally friendly”. New industries – such as production of photovoltaic cells and wind turbines – have emerged. Their purpose is not only to make money for their investors but to reduce the environmental dangers affecting the world. The new industrial revolu-
tion is likely to become the first big shift in manufacturing in which the threats to the global environment stabilize – or recede somewhat – rather than increase. By making use of some if not all of these seven factors, a range of industrial companies and based in high-cost nations will find they may emerge over the next 10-20 years in a stronger condition. Businesses in a good position to exploit these ideas include big and small groups – taking in well-known names as well as companies barely known outside their own industrial sectors. They include: Luxottica, a Milan-based group that is the world’s biggest maker of spectacle frames and which produces its items in a highly diverse and high-tech set of processes centered on production bases in Italy, China and the US; Trumpf, a German business that is the world’s biggest maker of laser-cutting machines for metals, and whose competitive advantages lie in combining technological advances with ability to connect up with thousands of customers globally; ABB, a Swiss-Swedish engineering giant that makes new forms of automation plus electricity distribution hardware; Whitford, a US maker of fluoropolymer coatings for an immense array of applications from oil platforms to the food industry; Strix, a UK-based company which is the world’s biggest maker of kettle thermostats and has extensive manufacturing operations in China; and Oiles, a Japanese maker of lubrication-free bearings. The original Industrial Revolution boosted the prospects of manufacturers – which happened to be mainly concentrated in the rich nations. Now that factory production is more widespread, the results of the new industrial revolution will have an impact virtually everywhere. However, the initial effects will be felt most keenly in the rich world. During the 1800s, the first Industrial Revolution was a key factor driving manufacturing growth in the Western world. As the 21st century progresses, the new industrial revolution is likely to do something similar.
(1) “The New Industrial Revolution: Consumers, Globalization and the End of Mass Production”, published in June 2012 by Yale University Press. (2) In this article poor nations – which can also be called by other terms such as “developing”, “newly industrialized”, “emerging” and so on – are defined as all the countries outside the “rich” or “developed” parts of the world, otherwise labelled as “the West”. The definitions are based on world conditions of the late 20th century. In earlier periods, when the differential in terms of wealth between Europe and the US and other parts of the world was far less than today, different definitions would have applied. In the present day, “the West” is categorized as the 15 EU nations prior to enlargement of the EU bloc in 2004 (Germany, Italy, France, the UK, Sweden, Denmark, Finland, Luxembourg, Belgium, Netherlands, Spain, Greece, Portugal, Austria, Ireland); Switzerland and Norway; the US and Japan; and Australia, New Zealand, Canada. My data for manufacturing output is based on calculations by IHS Global Insight, a US economic consultancy. Further details on the derivation of the figures are given in my book.
Further reading http://blogs.ft.com/ beyond-brics/2012/08/27/ levelling-out-emergingmarkets-and-the-new-industrialrevolution/#axzz2A12AiEQV; http://www.ft.com/cms/s/0/ dd9634d0-affd-11e1-ad0b00144feabdc0.html; http://www.ft.com/cms/s/0/ b59678b4-313b-11e1-a62a00144feabdc0.html
Co contexts
BUSINESSES THAT THINK IN NETWORKS A resource for creating relations of exchange and support among the companies that have to deal with this current time of economic crisis and changes: the network contract as a guiding tool for aggregation and inter-firm collaboration. by Aldo Bonomi
During the Marcegaglia Presidency of Confindustria, I was entrusted with the creation of an ad hoc project: to boost the aggregation of businesses to improve competitiveness and innovation of the Italian entrepreneurial panorama. So on October 28, 2009, this gave rise to the Confindustria agency, RetImpresa, aimed at creating favorable conditions for dissemination and aggregation through the then-new tool of the network contract. Only three years after this form of contract was introduced into the national legal system, at least 458 networks have come into being, with the participation of 2,469 compa-
nies from all over the country. Companies have long been engaged in forms of collaboration and integration, and the aggregations that formed spontaneously have become the heritage of Italian companies. However, entrepreneurs today underscore their willingness and interest to work for the creation of specific, shared, and well defined programs, but they aim to do so while maintaining independence and autonomy in the management of their business. Therefore, the network contract is one more chance for businesses with respect to the traditional aggregation mechanisms such as mergers, consortia, ATI, and joint ventures. This is a cultural leap toward aggregation that is not only numerical and quantitative but a reasoning that concerns a common program to help businesses grow together, enlarging the radius of action in order to achieve their very demanding objectives individually. The development of ICT has made it possible to overcome those mechanisms of purely territorial cooperation that have proven to be inadequate to meet the increasing relational, informational, and economic exchanges of businesses. Although starting from the speci-
ficity and local traditions, it is necessary to expand the size of the district by building more extensive and extraterritorial collaborations that can improve the competitiveness of the domestic and foreign markets. While by definition the district refers to a local and limited phenomenon in which companies specialize in a particular sector, the network concept covers the ideal of broader collaboration, not only based on geographical proximity but also on real and effective opportunities to increase competitiveness through the exchange of technologies, information, and knowledge. This is why the network, bringing together companies from different sectors that may find advantages in the mutual exchange of knowledge and skills, responds to the request to overcome localism and appears to be the natural evolution of the collaborative model of the modern production system. The network contract is the tool that has successfully responded to the request of businesses for a reference guide that makes their collaboration even more effective, a scheme to follow, albeit in a flexible way, that ensures their entrepreneurial autonomy. The network contract
provides streamlined governance, free of bureaucratic superstructures that complicate operations, but without relinquishing the essential pragmatic elements. The highly innovative scope of this tool enables networks to acquire a welldefined and easily recognizable structure, bound only to the object of the contract and as stipulated in the joint program. The network contract, modeled on and “tailormade” to the characteristics of its contractors, is effective and adaptable to the needs of companies of all types and sizes in every economic sector. These peculiarities make the collaboration tractable on the inside but extremely solid outwardly. The new model encourages both organizational and productive innovation processes: it is a philosophy that embraces a broader view of economic relations, attempts to overcome the “small is beautiful” belief, and holds that networking is useful and convenient for meeting the challenges of the market and improving a business’ economic performance. In fact, very often businesses that are too small or under-resourced cannot manage to enter or successfully remain in the international markets. It is precisely in this difficult period of stagnation in domestic consumption that internationalization has emerged as one of the goals most often invoked by an overview of the network programs: 78 of those who signed have declared their objective to be the development of internationalization projects to intercept new business opportunities across borders. Among the most interesting initiatives reported in this issue are the cases of Five for foundry, the first network of international scope including French, Polish, and Czech companies, and the case of the Italian Technology Center network contract, whose objective is to penetrate the Indian market. In a context of growing scarcity of resources, the network acquires a strength and dimension capable of showing its interlocutors growth and reliability. In this sense, public banks and institutions can evaluate the advisability of allocating financing also through the assessment of the validity of the entrepreneurial projects presented in the network. The so-called network
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rating can be decisive and even exceed that of the individual company. The network cannot be the only solution to the crisis, the panacea for our businesses, but it should definitely be an instrument of industrial policy made available to the system for best dealing with an unfavorable period and time of changes in the relations between the territory and the economy. It is a tool that Confindustria and our company has believed in and supported right from the start. Likewise, the government has enacted a significant measure to support networking companies: the suspension of taxes for the portion of income for the year that the individual companies allocate to the realization of the investments planned by the network program. The amount of the tax benefit provided by the State was euro 48 million for the three-year period of 2010-2012; we consider this benefit indispensable and are working to ensure that the amount is increased to euro 100 million for the next three-year period. The contributions of the institutions is important: there are more and more tenders promoted by the Regions, Provinces, Cities, or local Chambers of Commerce to grant financial aid in favor of business networks and the MIUR has also set up a competition for the development and expansion of the National Technology Clusters. Important measures were included in the Decrease Decree for the networks of the tourism sector. One of the conditions to qualify for the tax relief is the precautionary asseveration of the network program carried out by authorized and recognized bodies. For this reason, in June 2011, RetImpresa created the company RetInsieme srl, the asseveration body that, in two rounds, has certified 68 network contracts. In addition, the networks have favorably come to the attention of the EU institutions: just recently there has been an important acknowledgement by the European Commission, which included an entire chapter on clusters and networks in its European Competitiveness Report 2012, recognizing their positive role in reaching critical mass, exchanging information, and expanding the industrial capacity of businesses. In recent months, the
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European Investment Bank (EIB) has also activated support for the networks, establishing a euro 100 million ceiling. Consequently, we have had frequent contacts with the Office of the Commissioner Antonio Tajani to allow the networks to access the structural funds and various funding of the next EU plan for 2014-2020. In recent years, we have embraced all the aspects of Business Networking: promoting studies and research in the academic world, collaborating with business associations, and creating important synergies with the banking system to have better access to credit for networking businesses. All this in order to try to reach the goal, established at the beginning of this Presidency with Giorgio Squinzi, of 2,000 network contracts by 2016. Together with Unioncamere, the Italian union of chambers of commerce, and the Bruno Visentini Foundation, we have been promoting “The network laboratory” for the development of studies and analyses on network contracts, and in March, together with the Tri-Veneto InterRegional Committee of the Notarial Councils, we presented the “Guidelines for the network contract,” a tool for professionals and entrepreneurs to find useful, practical instructions for the preparation of the network contract. For
companies, credit is still the real obstacle to the activity of growthoriented business: that is why we are working to instill the concept of “rewarding” the networking businesses and therefore ensuring better conditions and specific financial products. For now, we have stipulated agreements with Unicredit Bank and the BNL and just a few days ago, initiated a collaboration with the Carige Bank. There have been many achievements to date and they represent a major step forward, but our action must continue in order to make the network contract even more structural and authoritative. We have dedicated attention and commitment in order for business networks to be included in the forms of aggregation admitted to the participation in competitive bids. We believe it is possible and our meeting with the Authority for the Supervision of Public Contracts was an occasion that provided new information that will hopefully find applications in the simplification measures currently under discussion. The latest initiatives underway regard job training and work: the “School-Business Network” project, that aims to monitor the synergies existing at the national level and those that are under construction, was presented on November 23rd in Verona as part of the fair “Job&Orienta.” The initia-
tive WIN (Work In Network), a tool of active policy for work, is a project that has been established for the management of human resources within the network, for facilitating the use of labor and with positive effects on employment and, hence, on growth. There is no doubt that the networks are now a reality and a viable alternative involving the economic panorama, nationally and beyond; by joining forces and starting to work with larger and more stable companies, small businesses, too, may be able to grow and deal with the crisis as a constructive change and, thus, emerge strengthened.
The network cannot be the only solution to the crisis, but should be an instrument of industrial policy made available to the system for best dealing with an unfavorable period and time of changes
Sc scenarios
A NEW ECONOMIC RENAISSANCE THAT COMES FROM SMES About 18% of Italian exports comes from the artisan world. 50% of the SMEs. A rebalancing is happening in favor of the smaller companies that have been able to protect very vertical slices of the market, a reorganization of the geographic markets for the benefit of the emerging economies, especially Asian ones, that have always lived in admiration of Italy and the quality of our craftsmanship. by Andrea Di Benedetto and Luca Iaia
“The effective use of knowledge required not only the ability and incentives to create or have access to a new technology, but also the expertise to use them and to perform the instructions contained in the ‘blueprint.’ Much of the knowledge applied by craftsmen and engineers was ‘silent,’ in that it was not formally described in the ‘recipe’ used for the production, but was the result of shrewdness and know-how based on experience or imitation.” (Joel Mokyr) “The error that the economic system is paying is that of being based on a short-term vision and the model of organizational flexibility, instability, and speed in adapting to change. This was so also in the management of human capital. Not much was invested on knowledge and in recent years workers have been able to acquire only an incomplete experience. The craftsman model of the past teaches us one important thing: the sense of time. It took years to become a master in the olden days. The workshop today is a small business, which is why it should be supported as a model and should be placed in a position to invest in people. Today growth helps more than flexibility.” (Richard Sennett)
Writings from two very different eras. Both of them, however, point out the existence of an invisible capital that is missing from the company balance sheet, which is composed of the know-how and experience of the people who work there. This capital is even more significant in percentage terms when the company is industrialized and has deeply formalized processes. Joel Mokyr identified the widespread availability of highly specialized skills as a key factor that could sustain the innovation of the English industrial revolution; in our day, Richard Sennett identifies the model of the small business as the only one able to invest in knowledge in the long term, ensuring a cultivation of skills and a rapid infusion of new forms of communication. Our country's levels of spending on research and development in the private sector are undoubtedly lower than the European average and less than half of the average of France and Germany. The blame for these numbers normally goes to the fragmented system of the small company with little diffusion that is unable to invest in research and development. However, we are convinced that this is a problem of measurement: it is clear that if the rate of R&D is evaluated by the number of patents or the “tax” capitalization of investments in research, most innovation produced by small businesses is transparent, because it is fragmented and incorporated into the production function. Small companies are constantly forming their employees (sometimes only one) in the art of work and attention to detail, conveying history, traditions, and cultural know-how. The production processes are optimized for the successive steps, efficiency is improved regularly, the products are modified to always follow the needs of the market. Knowledge and innovation, sure enough. So what does this sector need to boost growth? A document of the Ministry of Economic Development (DG SMEs and cooperative bodies – Div VIII) describes the artisan world as “a sector of the Italian economy of unfinished
modernity, in the sense that it has not shown a clear evolutionary path toward an entrepreneurial dimension, which today is a winner in the market. As a matter of fact, the modern enterprise has the ability to control the domestic and foreign competition, to operate on a global scale, to exploit the potential of ICT, and to have highly innovative production techniques.” Thus: entrepreneurship, digitization, technology transfer. A culture of entrepreneurship is lacking; there is a strong need to connect schools to the business world. There are many experiences, also successful ones, for transforming research into startups, and to initiate young talents into the work world. But in our training, there is still no transversal education in business: this is missing in the DNA of a nation with a manufacturing vocation which based its foundation on manual skills and quality of production, and on the awareness of the scientific nature of doing business. It is therefore necessary to be able to innovate educational processes and interact with educational institutions at all levels: the change we need will be possible only through a greater involvement of the younger generation and a massive injection of “digital” and managerial skills. About 18% of Italian exports comes from the artisan world. 50% of the SMEs. And the trends that show a democratization of the internationalization are reassuring from both the commercial and production standpoint, thanks to the lowering of costs and the reduction in the number of intermediaries needed, mainly because of the Internet. A rebalancing is happening in favor of the smaller companies that have been able to protect very vertical slices of the market, a reorganization of the geographic markets for the benefit of the emerging economies, especially Asian ones, that have always lived in admiration of Italy and the quality of our craftsmanship. Finally, there is a phenomenon of increasing interest from the international demand for Made in Italy products/services – even lesser known brands
but which are rich in craftsmanship, history, and culture. And last but not least, the small business has a big gap in the awareness of its potential and appeal for new talent: it has always played a central role in our economy, but not in our collective imagination. In fact, it is not enough to produce a huge percentage of the GDP and represent the majority of the business scene: cinema, literature, and the media have always stressed an industrial Italy of the Sixties, the time of the economic boom driven by state-owned industries. There was a lack of communication skills and attention on the part of all the media, which disregarded a vital part of the country. The attention to beauty, history, and culture has always been there: however, the ways and means to recount them have changed. The combination of so many winning stories can create an epic for a production world that is coming into being: this could be the key to an economic revival that is based on culture, territory, and businesses considered as “knowledge processors,” i.e., capable of translating knowledge into economy. The global challenge from the point of view of productivity will be played on the ability to manage complexity: efficient models of interaction among the distributed production systems, a rethinking of the supply chains to make them shorter and more effective, to redraw districts not in terms of geography, and to combine profit with the development of the area, the traditions, and Italian history. Cultural industry, Made in Italy, and companies will have to interact on increasingly international platforms that are attentive to the quality of the products and services offered. All accompanied by modern technologies and services resulting from a massive digitization of businesses and the public administration. The challenge we are faced with is to bring the small business and craftsmanship to a finished modernity, and it is a challenge for the nation. The growth potential of the sector is likely to be perhaps the only chance we have to restart our economy. A new Renaissance.
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Sc scenarios
NEW VALUES FOR A NEW INDUSTRIAL REVOLUTION In order to overcome the crisis, the decline in the role of industry be must reversed. And to do that, work needs to done on the cultural level as well as on the structural level. In Italy in particular, it is necessary to rebuild industrial pride by focusing on values such as the individual and the environment. by Gianluca Comin
The crisis that has thrown our economy into a recession that is more severe than any others our generations can remember has had at least one merit: it has corrected the simplistic deduction that tended to be drawn from globalization, namely that, due to the differences in the cost of labor and raw materials, our industry or the production of things would move entirely to the emerging countries – China, Brazil, India, and the like – and Europe would have to prosper exclusively on services and finance, on immaterial production. This simplistic prediction is somewhat reminiscent of the one by John Maynard Keynes who, in 1930, theorized that by 2030 we would be living “in a state of abundance, satisfied and finally free to embrace the arts, recreational activities and poetry, having been freed from economic activities such as savings, the accumulation of capital and labor.” Even great economists can make erroneous predictions. And now, after years of financial intoxication, we find ourselves dealing with a European economy that has been greatly weakened, and with the need to strengthen, revitalize, and renew our industrial sectors whose know-how is crucial for defending our competitive factor in order to cope with global competition. The validity of this diagnosis has also been recognized by the European Commission in its recent communication to the European
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Parliament entitled A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery,1 which recognizes that to overcome the crisis in a lasting and sustainable manner, Europe must “reverse the decline of the role of its industry in the twenty-first century.” However, the view is not to revive the old industrialization as we knew it – which guaranteed growth to the continent for several decades – but to enter into a new industrial horizon based on new companies and new industries; those of the new machines for the production of goods (such as 3D printers); of micro-electronics and nanotechnology; of biotech and new materials; and finally, of sustainable mobility and smart grids. These are growth sectors on which Europe will be able to build its future prosperity through a determined and coordinated effort. And which will surely be carried out through structural reforms, such as reducing bureaucracy, investments in research, and a fiscal framework that encourages productivity and innovation. But the re-industrialization of our continent also involves a cultural aspect that is undoubtedly “softer” but no less important: the restoration of pride to industry itself. This is a very significant issue at the European level, but one which is particularly relevant if we look to Italy, which has always founded its growth upon its industrial fabric, from the economic boom onward. The financial excesses of the last fifteen years, followed by the harshness of the crisis, seem not only to have weakened our productivity, but also the proud consciousness of Italian entrepreneurs of their role in society. It seems that the country has forgotten that its well-being has been built precisely on the courage and ambition of a true culture of “doing.” Therefore, on the one hand, entrepreneurs are losing confidence in the future of the country (Istat's Economic Sentiment Indicator went from 90.4 to 76.6 between October 2009 and October 2012), and on the other hand, Italians are losing their aware-
ness of the role that business can play in building this future and no longer look upon it with the pride that is characteristic of the Germans or the French. This is confirmed by research opinion polls such as those carried out by Demos PI:2 in answer to the question “What aspect makes you proud to be Italian?” today only 8.7% of Italians answer “our economy and our entrepreneurs.” This is a sharp drop in percentage compared to 2008, when 14.8% of those interviewed responded in this way. But that is not all: in answer to the question “What are the characteristics that distinguish Italians from other people?” only 7.4% responded “our entrepreneurial capacity:” much less than the percentage of those who responded “our attachment to the family” (25.3%), “the art of getting by” (20.4%), and “creativity” (14%). Finally, only 11% of Italians consider businesses as a “social group that will change the country,” while 46% consider it to be the young people and 12% the schools. These numbers reveal a clear need: if our country has to begin again, starting from industry – and thus leaving behind the years in which we talked more about finance and incentives than innovation and investment –, a lot of work will have to be done on the level of our culture and reputation by retrieving the values that underlie industrial pride and improving its perception on the part of public opinion. A recovery that has strong pillars of values on which to build and from which to commence: putting people first, the emphasis on quality, respect for the rules, and social and environmental responsibility. Putting people first is a core value that industry must still be able to make its own if it wants to drive the development of the country. A value that implies the ability to put people at the center of the development of the country and which comes to pass through the optimization of human capital, talent, and safety at work. Then there is quality, that indispensable cornerstone of Italian and European industry; quality
After years of financial intoxication, we find ourselves dealing with a European economy that has been greatly weakened, and the need to strengthen, revitalize, and renew our industrial sectors
A society that works best, where the needs of the citizens, the environment, and the communities are properly considered, is a society that also benefits from its business
that goes hand in hand with passion, creativity, and technological excellence. These are not empty words: the emphasis on quality as a production strategy, but also as an “industrial ideology,” is a radical option that involves the key roles of research, innovation, and even business ethics aimed at the continuous improvement, and the rejection of second best. This is a choice that has already been courageously made in many sectors of our industry, but which must be an immediately recognizable attribute of any product that is made in Italy. Another fundamental value on which to rebuild our industrial pride is respect for the rules. All too often, in the common perception, the figure of the entrepreneur is linked with the definition of “evader,” and industry is perceived as being “above the rules.” Yet there are many experiences that demonstrate how industry itself can act as a center for inculcating the value of legality as a means to ensure effective competition on the market: the initiatives of the Confindustria against the Mafia in Sicily, agreements on legality for large companies and government agencies, such as the one signed last May between Enel and the Ministry of the Interior. All of these are efforts to stress that good rules can be an instrument of shared growth, and not an obstacle to development. Finally, a new industry cannot be established unless it has a strong sense of social and environmental responsibility, right from the very start. Especially at a time of crisis, the role of business must go beyond the maximization of profit and be able to create value for the society in which it operates. In this sense, the dimension of the responsibility must be integrated into the heart of the business, going beyond the concept of giving back (or returning part of the profits through philanthropy) and moving toward the ability of the businesses to create value that is shared with the communities in which they operate. Because the society that works best, where the needs of the citizens, the environment, and the communities are proper-
ly considered, is the society that also benefits from its business. It is around these values that industrial pride can be re-established in the perception of the country. But it is essential that this new foundation not be reduced to a mere revival of the success stories of our past. On the contrary, a new industrial epic should celebrate the “builders of the future” of our industry, and their already courageously demonstrated adaptability to the great paradigm shift in the global economy, made up of new competitors, new ways of working, and fast and complex decisions. This new industrial epic has to win over the younger generation, which often cannot find within the education system the inspiration that is needed to understand the importance of industry in the reality in which they live: in this sense, industry will have to go into the schools, and the factories will have to open their doors to younger generations. In short, the new industrial revolution must also be a revolution in education.
Note 1. Communication from the European Commission to the European Parliament, A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery, Brussels, 10.10.2012 COM(2012) 582 final. 2. Sources: Demos & Pi Survey for Intesa Sanpaolo, 2011 (based on 1,044 cases); CambItalia of Demos & Pi Survey for the Republic of Ideas, 2012 (based on 1,300 cases).
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Op opinions
START-UP MENTALITY “When faced with change, the multi-national giants stumble and fall.” So in order to keep up with the pace of change, the model to follow is that of the start-ups: because they are the basic unit of the cloud economy, are very adaptable to change, and incredibly effective in doing a single thing. by Riccardo Luna Let’s start with a novel. It is called Makers and was written by Cory Doctorow a few years ago. One of the key phrases is: “In the future there will not be names like General Motors, General Electric, or General Mills, but new businesses called Local Motors, Local Electric, Local Mill.” That sentence captured the dawning of a phenomenon, which would then have the honor of being on the cover of two issues of “The Economist” and the subject of various essays on the so-called “third industrial revolution.” That of the makers, or that is, of personal fabrication and of the factory which is the networking and which dematerializes to become, at a minimum,
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the home PC. But if that is “the future,” what is the future of the big companies, the multi-nationals, and even the factories themselves? The answer to this question requires taking a quick step back. In 2010, the Kauffman Foundation, one of the most important players in the global ecosystem of innovation, published a very thorough research entitled: The Importance of Start-ups in Jobs Creation and Jobs Destruction. The study, limited to the American reality and based entirely on data from the U.S. Census Bureau, revealed a number of surprising truths. The first: from 1977 to 2005, the existing businesses were “net job destroyers,” losing a total
In fluid markets, start-ups grow because they are the basic unit of the cloud economy, are very adaptable to change, and incredibly effective in doing a single thing
The postulate according to which companies get bigger with the passage of time inevitably does not work anymore
of a million jobs per year; during the same period, the new companies added three million jobs. The second truth is even more interesting: during periods of recession, the ability of start-ups to create jobs remains constant, while existing firms are highly sensitive to economic cycles and, therefore, more affected by the crisis. The third truth is the knock-out blow: the postulate according to which companies get bigger with the passage of time inevitably does not work anymore, seeing as U.S. companies with less than one year of existence create a million jobs, while those with more than 10 years stop at 300,000. The findings of the Kauffman Foundation were naturally an invitation to the U.S. government to rethink its policies for economic growth, to pay less attention to the defense of employment in large companies and to favor the creation of start-ups (new companies with a high rate of innovation). Of course, the phenomenon in progress is not limited to the United States, although it is more evident there. The September 2012 issue of the English edition of the monthly magazine “Wired” published an invitation from a leading venture capitalist for everyone to adopt a “start-up mentality:” “The chaos in which we find ourselves is the fundamental reason why one should work for a start-up or a corporation that acts as a start-up. Because start-ups are the natural evolutionary response to this new situation. Most large companies are characterized by the quality of their planning processes, but these become objectives that clash with the reality and the results are measurable. When faced with change, the multi-national giants stumble and fall. In fluid markets, where each asset can be priced and traded easily, startups can grow because they are the basic unit of the cloud economy and are very adaptable to change and incredibly effective in doing a single thing. The big corporations are unable to keep up the pace by adapting to the speed needed to remain the best in all aspects of their business. And the same goes for the people who work there, whereas in a start-up business, ex-
perience must evolve quickly, and adaptability is the main talent.” All this may seem to be a tombstone for the large companies but it would be a superficial reading of the data and the phenomenon in progress. Because if the future is innovative start-ups, that is exactly what the large companies need to do: go back to being start-ups. Or in the words of the previously-mentioned English edition of “Wired,” “to act like a start-up.” This is not a play on words or a slogan. That is exactly what Steve Jobs said of his Apple: “It is the largest start-up in the world.” And it is the distinctive feature of Facebook, in comparison to the others, according to its founder Mark Zuckerberg: “There are very few of us, we are agile and we are always in beta.” That is, in constant experimentation. No one has explained this mentality better than Reid Hoffman, a star of Silicon Valley, co-founder of LinkedIn, and co-author of the bestseller The Start-up of You. “We are all a work in progress ... Great people, like great companies, are constantly evolving. They are never finished and never fully developed. Every day offers an opportunity to learn more, do more, and grow even more. Being in a state of permanent beta must be a commitment to growth that lasts a lifetime.” Hoffman is speaking of individuals and corporations. But whereas in the first case the things to do are clear, the situation is different for a corporation. There are two ways to “become a start-up” when you have thousands of employees around the world and a necessarily rigid organization: the first – which is actually a shortcut – is to buy start-ups, and then to buy innovations with the people who made them, hoping not only to bring patents into the fold but to also be contaminated by a way of being. The second way is much more complex but gives better results: creating free zones in your organization where there are different rules. Less bureaucracy. Propensity to risk. Profit sharing. For example, as Steve Jobs did when a “team of pirates” created the first Mac while the “Apple company” was focused on Lisa. The executive vice president at that time
was a former IBM executive Steve Jobs had hired after meeting him in a bar: Jay Elliot. Here is what he recalls of the work environment of the early days at Apple: “The most obvious thing was the enthusiasm, the desire to do and create. We realized that we were all working together to change the world and that motivated us and made us very proud. The last thing we’d think of would be to take a vacation. Steve Jobs was capable of phoning at three in the morning to tell us that he’d had a great idea. And it didn’t bother anyone at all. Stress was not seen as a negative component, it was something that pulled you in, which caused another sensation, because we realized that we were about to cross a new frontier. Apple was not the typical company where you had to arrive at 9 a.m. and you left at 5 p.m. We worked until late. Maybe you’d come to the office at noon, but then we’d work until 3 in the morning. We were all involved in the creation and development of the products. After all, Apple was the company with the lowest number of people who went off in search of a better place, and that says a lot about what the employees thought. Moreover, there was also a system of sharing profits based on participation in the share capital of the company. Finally, working in a company whose boss put so much effort into having the best product in the world, they couldn’t help but react positively when asked to make sacrifices.” The first Apple says a lot about the start-up mentality needed in order to grow, but it is also a difficult model to follow for organizations that are already mature. In that case, one can always imitate what the U.S. coffee shop chain Starbucks has done recently to find a new way to interact with their customers: instead of proceeding with minor adjustments, it decided to find out what approach a brand new company would have. And then it was expressly created. A startup. It is called 15th Coffee and Tea and it has been made into a live learning lab for experimenting in design, sustainability of materials, and new products.
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Oxygen 2007/2012 Andrio Abero Giuseppe Accorinti Zhores Alferov Enrico Alleva Colin Anderson Martin Angioni Ignacio A. Antoñanzas Paola Antonelli Antonio Badini Roberto Bagnoli Andrea Bajani Pablo Balbontin Philip Ball Ugo Bardi Paolo Barelli Vincenzo Balzani Roberto Battiston Enrico Bellone Mikhail Belyaev Carlo Bernardini Tobias Bernhard Michael Bevan Piero Bevilacqua Nick Bilton Andrew Blum Borja Prado Eulate Albino Claudio Bosio Stewart Brand Luigino Bruni Giuseppe Bruzzaniti Massimiano Bucchi Pino Buongiorno Tania Cagnotto Michele Calcaterra Paola Capatano Maurizio Caprara Carlo Carraro Federico Casalegno Stefano Caserini Valerio Castronovo Ilaria Catastini Marco Cattaneo Silvia Ceriani Corrado Clini Co+Life/Stine Norden Søren Rud Elena Comelli Ashley Cooper Paolo Costa Manlio F. Coviello George Coyne Paul Crutzen Brunello Cucinelli Partha Dasgupta Marta Dassù Mario De Caro Giulio De Leo
Michele De Lucchi Ron Dembo Gennaro De Michele Gianluca Diegoli Fabrizio Dragosei Peter Droege Freeman Dyson Magdalena Echeverría Daniel Egnéus John Elkington Richard Ernst Daniel Esty Monica Fabris Carlo Falciola Alessandro Farruggia Francesco Ferrari Paolo Ferri Tim Flach Stephen Frink Antonio Galdo Attilio Geroni Enrico Giovannini Marcos Gonzàlez Julia Goumen David Gross Sergei Guriev Julia Guther Søren Hermansen Thomas P. Hughes Jeffrey Inaba Christian Kaiser Sergei A. Karaganov George Kell Parag Khanna Sir David King Mervyn E. King Hans Jurgen Köch Charles Landry David Lane Manuela Lehnus Johan Lehrer Giovanni Lelli François Lenoir Jean Marc Lévy-Leblond Ignazio Licata Armin Linke Giuseppe Longo Arturo Lorenzoni L. Hunter Lovins Mindy Lubber Remo Lucchi Tommaso Maccararo Giovanni Malagò Renato Mannheimer Vittorio Marchis Jeremy M. Martin Paolo Martinello
Massimiliano Mascolo Mark Maslin Ian McEwan John McNeill Daniela Mecenate Lorena Medel Joel Meyerowitz Stefano Micelli Paddy Mills Giovanni Minoli Marcella Miriello Antonio Moccaldi Renata Molho Carmen Monforte Patrick Moore Luca Morena Luis Alberto Moreno Richard A. Muller Teresina Muñoz-Nájar Ugo Nespolo Nicola Nosengo Helga Nowotny Alexander Ochs Robert Oerter Alberto Oliverio Sheila Olmstead Vanessa Orco James Osborne Rajendra K. Pachauri Mario Pagliaro Francesco Paresce Claudio Pasqualetto Alberto Pastore Federica Pellegrini Matteo Pericoli Emanuele Perugini Carlo Petrini Telmo Pievani Tommaso Pincio Michelangelo Pistoletto Viviana Poletti Stefania Prestigiacomo Giovanni Previdi Filippo Preziosi Vladimir Putin Marco Rainò Federico Rampini Jorgen Randers Carlo Ratti Henri Revol Marco Ricotti Sergio Risaliti Kevin Roberts Lew Robertson Kim Stanley Robinson Alexis Rosenfeld John Ross
Marina Rossi Bunker Roy Jeffrey D. Sachs Gerge Saliba Juan Manuel Santos Tomàs Saraceno Saskia Sassen Antonella Scott Lucia Sgueglia Steven Shapin Clay Shirky Konstantin Simonov Uberto Siola Francesco Sisci Craig N. Smith Antonio Sofi Leena Srivastava Francesco Starace Robert Stavins Bruce Sterling Stephen Tindale Viktor Terentiev Chicco Testa Chiara Tonelli Mario Tozzi Dmitri Trenin Ilaria Turba Luis Alberto Urrea Andrea Vaccari Nick Veasey Viktor Vekselberg Jules Verne Umberto Veronesi Marta Vincenzi Alessandra Viola Mathis Wackernagel Gabrielle Walker Elin Williams Changhua Wu Kandeh K. Yumkella Anna Zafesova Antonio Zanardi Landi Edoardo Zanchini Carl Zimmer
Testata registrata presso il tribunale di Torino Autorizzazione n. 76 del 16 luglio 2007 Iscrizione al Roc n. 16116
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ORGOGLIO INDUSTRIALE L’industria è sicurezza perché è fabbricazione, creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e anima della società; una sicurezza minata oggi dalla crisi economica mondiale. E così in Italia – il secondo Paese manifatturiero in Europa – fare le cose bene non basta più: bisogna saperle fare meglio degli altri. Per riuscirci è innanzitutto necessario ricostruire l’orgoglio industriale, valorizzare il lavoro in ogni ruolo, dare spazio alla creatività e all’iniziativa, mettere le piccole aziende in rete e quelle più grandi nelle condizioni di andare incontro ai nuovi bisogni globali e alle nuove tendenze tecnologiche. La chiave del successo è l’innovazione continua. Questo numero di Oxygen racconta molte storie vincenti, all’alba di quella che in molti già definiscono come la “nuova rivoluzione industriale”, che sta attraversando il mondo intero e rilanciando la qualità manifatturiera dei Paesi storicamente più industrializzati. «Il mondo è a un passo da una nuova era. Il cambiamento vissuto dall’industria del mondo sviluppato e dei Paesi in via di sviluppo s’invertirà nuovamente e la produzione dei Paesi ricchi conoscerà una riscossa»
Oxygen nasce da un’idea di Enel, per promuovere la diffusione del pensiero e del dialogo scientifico