Nuove conferme. Un po’ dispiace, ma il petrolio è proprio arrivato - Energia Media

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Nuove conferme. Un po’ dispiace, ma il petrolio è proprio arrivato Diego Gavagnin A gennaio scorso tentai di descrivere la scena energetica usando il titolo, un po’ provocatorio, “Il petrolio è finito”, riferendomi ovviamente al suo ruolo nel futuro dell’economia e della società, non che ne fossero finite le molecole. Due i driver di questa fotografia: uno, la sua stessa sovrabbondanza, che determinandone un basso valore economico non garantisce più i ricavi necessari a finanziare le nuove esplorazioni e produzioni; due, il cambiamento culturale mondiale, che a parità di costo e altre condizioni porta gli utilizzatori a scegliere prodotti energetici meno inquinanti. Prodotti che esistono e si diffondono, rappresentati soprattutto dall’elettricità nei trasporti e da altri usi “civili leggeri” – specialmente se generata da fonti rinnovabili - e il gas naturale, in particolare liquefatto nei trasporti marittimi e terrestri pesanti, oltre a molti altri possibili usi, nelle aree non servite da gasdotti, raggiungibili con cisterne, oppure nelle industrie, nell’aerospazio, etc. Dopo sei mesi ci sono conferme o meno su questo scenario? Cosa è successo nel frattempo? La rivoluzione energetica che ha riportato in pochi anni gli Stati Uniti a essere protagonisti del mercato petrolifero si consolida ogni giorno di più. Gli USA ne fissa-

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no il prezzo, oggi da produttori, rispetto a prima della crisi, quando lo facevano da compratori. A gennaio scorso, quando un barile di petrolio costava 27 dollari, sostenevamo che sarebbe anche potuto risalire, ma che non avrebbe superato la soglia dei 55 dollari, intorno alla quale tornava conveniente far ripartire le trivellazioni e le produzioni americane che ne avrebbero fatto nuovamente scendere il prezzo.


Ed è quello che è successo. Il petrolio negli ultimi sei mesi, nonostante forti scossoni geopolitici e ambientali, come la Brexit, le crisi nigeriane, siriane e libiche, gli incendi delle foreste in Canada, che ne hanno ridotto la produzione, ha tentato ripetutamente di consolidarsi sopra i 50 dollari, ripiombando ogni volta nei 40. Qui usiamo il riferimento più alto, il Brent, rispetto al WTI americano e al paniere OPEC, che mentre scrivo sono rispettivamente a 48, 46 e 42 dollari. La differenza di 1,5/2 dollari tra Brent e WTI è il costo del trasporto attraverso l’atlantico, lo stesso costo che prima della crisi del 2008 rendeva il secondo più caro del primo. Nell’intermezzo, tra il 2010 e il 2015, il prezzo lo determinava la domanda cinese, adesso in rallentamento. Lo scettro del consumo sta passando dalla Cina all’India, ma quest’ultima ha già deciso per le rinnovabili e il gas, che importa liquido anche dagli Stati Uniti. Il “tetto” ai prezzi mondiali del petrolio, determinato dagli immediati rilanci delle produzioni USA al suo salire, accentuato dalle esportazioni dirette del greggio iniziate negli scorsi mesi, prima vietate, non ha risentito dei fallimenti di numerose imprese, abituate a ben altri prezzi. E i nuovi padroni sono di solito più efficienti: forse dovremo già rivedere la soglia dei 55 dollari per spostarla a 50! In questo quadro stanno tornando anche le esportazioni di petrolio dell’Iran. Prevista quindi una fisarmonica dei prezzi destinata a durare così – secondo me, ma oggi anche secondo la maggioranza delle previsioni - almeno fino al 2018. Poi? Poi niente, perché nel frattempo i prezzi del gas resteranno fermi e il costo di produzione delle rinnovabili sarà sceso un altro po’. Difficile in questa prospettiva che il petrolio recuperi valore, e ha senso investire ancora in un bene senza futuro che richiede anche molte lavorazioni di raffinazione per riuscire a venderlo? Torniamo a guardare cosa hanno fatto negli scorsi mesi i grandi produttori statali arabi, dopo aver scatenato la guerra dei prezzi per battere i produttori indipendenti americani. Come hanno reagito alla resistenza statunitense che li ha fatti crollare ben oltre, molto ben oltre, le previsioni? Vale per tutti l’esempio dell’Arabia Saudita, che a fronte del crollo del proprio reddito petrolifero ha rivoluzionato la strategia energetica nazionale, e sposato con decisione le rinnovabili. Beh, se anche gli arabi si buttano sulle rinnovabili per i propri consumi energetici, difficile pensare che il petrolio possa durare ancora a lungo.

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Tanto è vero che per i nuovi investimenti nelle rinnovabili e per tenere in piedi l’industria petrolifera - finché dura - Riad sta portando avanti un’iniziativa impensabile anche solo a dicembre scorso: la privatizzazione di una quota importante della compagnia di Stato Saudi Aramco. Sarà un collocamento molto interessante, perché ci dirà qual è il valore che il mercato attribuisce alle riserve petrolifere dell’Arabia Saudita, le più vaste al mondo (anche se negli scorsi giorni sarebbero state superate da quelle USA). È stato anche un pesante segnale la perdita della “tripla A”, il massimo riconoscimento di fiducia dei mercati in una società (rating S&P), persa lo scorso aprile dalla Exxon Mobil per la prima volta dal 1949, pochi giorni dopo che anche il “magnate” Rockefeller aveva deciso di disinvestire nella compagnia e nelle oil company in genere, sostenendo che il futuro sarebbe stato ormai delle rinnovabili.

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Corollario interessante: gli investimenti arabi nelle rinnovabili, così come quelli in questo momento prevalenti di Giordania e Sud Africa, stanno spostando la ricerca e l’industrializzazione verso le celle fotovoltaiche per le forti insolazioni, aprendo all’installazione vastissimi territori desertici. L’economia di scala farà il resto per la prossima ondata di sviluppo del fotovoltaico, partita negli anni Duemila in Europa ma in presenza di una intensità di insolazione molto più bassa. Altra mazzata per il petrolio, perché lascia immaginare in quelle stesse aree, tra l’altro, una nuova mobilità automobilistica direttamente elettrica, saltando la fase di benzina e diesel come l’abbiamo conosciuta noi negli ultimi 130 anni. A proposito, quanto peserà nei prossimi mesi e anni la conversione all’auto elettrica di un gruppo come Fiat-(Crysler), da sempre negativa su questo? E soprattutto quanto peserà l’andare direttamente sul segmento alta gamma e di lusso, con l’annuncio di Marchionne, un mese fa, sulla Maserati elettrica? Una scommessa enorme, che coinvolge tutto il sistema della logistica, perché a vetture di questo tipo andrà garantito un tempo di ricarica almeno simile all’attuale. Quindi stoccaggi di elettricità, presso i distributori, capaci di fornire lo stesso servizio: pochi minuti per il rifornimento e autonomia di viaggio di centinaia di chilometri. Poi, nelle nostre città e nelle località turistiche è ancora tutto da valutare l’impatto del car sharing, che sta disabituando all’auto di proprietà, riducendo i consumi e liberando spazi per i parcheggi in città, occupati a lungo a vuoto dalle auto di proprietà. E quando arriva il car sharing tutto elettrico conquista subito la preferenza degli utilizzatori.Un altro corollario. Il pubblico del car sharing si sta abituando a usare il cellulare per “comandare delle macchine”, per avere un servizio “importante”; la confidenza informatica che ne discende è destinata a riverberarsi in altri ambiti della vita quotidiana, a iniziare dai pagamenti in mobilità. Tutto questo si chiama efficienza, che a sua volta vuol dire meno consumi di energia. Torniamo al petrolio. Cosa hanno fatto le grandi compagnie petrolifere private? Neanche dirlo, si sono lanciate nelle rinnovabili. Per scelta propria o per scelta politica dell’azionista pubblico. Dopo Chevron, che ha annunciato un investimento di 2 miliardi di dollari in impianti rinnovabili, hanno mosso le medie compagnie, come la Total e l’Eni. Shell invece la sua rivoluzione l’ha già fatta e la conferma giorno dopo giorno nella scelta del gas rispetto al petrolio nel proprio portafoglio, spingendo anche per l’uso del GNL al posto di benzina e Diesel; ma anche l’Eni ha il 69% dei nuovi progetti nel gas e solo il 29% nell’oil.

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Sugli investimenti nelle rinnovabili il caso dell’Eni è interessante per un altro motivo, perché il suo nuovo impegno nel settore è derivato direttamente dalla volontà dell’azionista statale di controllo, che ha imposto il cambio di rotta. Un nuovo ruolo per la politica energetica che recupera l’interesse generale per gli investimenti superando il mantra della finanza e dei dividendi? Commenti dalla Ragioneria Generale? Nel Piano strategico 2016-2019 presentato a Londra il 18 marzo scorso dall’amministratore delegato dell’Eni Descalzi l’impegno nelle fonti rinnovabili (queste due parole non erano neanche presenti nel comunicato stampa né nelle 24 slide di presentazione per gli analisti) non era tra i principali obiettivi. È stato il presidente del Consiglio Renzi, di ritorno da New York a fine aprile, dove aveva firmato all’ONU gli impegni decisi al COP21 di Parigi di dicembre scorso, ad annunciare il nuovo corso della Società, con un grande piano nelle rinnovabili. Piano che, accennato nell’Assemblea societaria del 12 maggio, poco tempo dopo è arrivato: 400 ettari bonificati della Syndial tra Sardegna, Sicilia, Calabria, Puglia, Liguria e Basilicata dove mettere a terra pannelli fotovoltaici per 220 megawatt e spendere circa 250 milioni di euro. Poi ci sono altri 3.600 ettari utilizzabili sparsi non solo in Italia ma anche in Libia, Tunisia, Algeria, Nigeria e Indonesia. Non che le petrolifere non abbiano investito negli scorsi decenni nella ricerca sulle rinnovabili, fecero anche scalpore i 50 milioni elargiti dall’Eni al MIT di Boston (anziché ad istituti italiani) nel 2008 per ricerche nel fotovoltaico. Ora si tratta di investire in impianti, non nel finanziamento di studi, della cui validità adesso almeno potremo avere la verifica. È comunque evidente che se si mettono a costruire campi fotovoltaici o eolici proprio le oil company, che sono tra i soggetti industriali con le spalle finanziare più larghe al mondo, l’effetto a sfavore del petrolio è doppio: gli vengono sottratte risorse per dedicarle a fonti energetiche concorrenti! Se neanche il crollo dei prezzi alla pompa di gennaio-febbraio ha risollevato i consumi di carburanti petroliferi, che ci sono stati ma residuali, c’è da pensare che sia nel giusto il Rapporto New Energy Outlook 2016 pubblicato a inizio giugno da Bloomberg New Energy Finance (BNEF), che prevede già nel 2015 l’anno del picco dei consumi petrolio e gas (e non l’inizio della fine delle molecole, come si diceva una volta). Carbone, petrolio e gas non potranno essere sostituiti in un giorno e forse neanche nei 10 anni del “declino terminale” che sempre il Rapporto prevede. Ma questo declino, già avanzatissimo per il carbone, non sarà parallelo per petrolio e gas, secondo me vedrà

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alcuni anni di concorrenza e poi la prevalenza del gas, che sarà l’ultimo fossile a tramontare, perché semplicemente è quello che inquina meno. Secondo il BNEF non ci sarà “l’era d’oro del gas”, che aveva previsto invece poco tempo fa l’Agenzia internazionale dell’energia di Parigi, perché la produzione di elettricità da fonti rinnovabili aumenterà più del previsto spiazzando ulteriormente il metano nella termoelettrica. Questo libererà ancora più gas, abbassandone ulteriormente il prezzo, per gli usi direttamente alternativi al petrolio, soprattutto nei trasporti. Con costi confrontabili di ricerca, estrazione e produzione sarà il gas a fare da staffetta al tutto rinnovabile del futuro o a ciò che verrà dopo. Che ai prezzi attuali non sia possibile continuare ad investire sia in nuovi giacimenti di petrolio sia di gas lo riconosce la stessa società petrolifera norvegese Statoil, nella sua Energy Perspectives 2016 pubblicata a fine aprile.

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Intanto anche nel gas è iniziata la guerra dei prezzi, con la russa Gazprom che cerca di tenere le quantità lasciando andare i valori, come reazione all’arrivo in Europa delle metaniere texane. E il principale fornitore dell’Europa deve confrontarsi anche con i prezzi del Qatar, che sostiene di avere costi di produzione intorno ai due dollari, come dicono anche gli iraniani del loro, che parimenti sta per arrivare come GNL. Concorrenza benefica a tutto vantaggio degli europei che vedono aumentare le provenienze, le forniture e scendere i prezzi. Fondamentali per l’Europa anche i due nuovi rigassificatori nel Baltico, in Lituania e Polonia, che possono ricevere metano liquido da tutto il mondo (e inoltrarlo anche verso l’Ucraina senza passare dalla Russia, se servisse). Gazprom, che difficilmente riuscirà a realizzare il North Stream 2, ha risposto con un impianto di liquefazione da gasdotto vicino al confine della Lettonia, per restare almeno nel mercato del GNL per i traghetti e le crociere nei Mari del Nord. Buone nuove pure per il BioGNL, con i primi impianti europei che convertono direttamente in metano liquido il biogas prodotto con le deiezioni animali, i rifiuti organici e gli scarti dell’agricoltura. E il GNL sta anche penetrando nei mercati delle imprese e probabilmente delle reti isolate, fino ad oggi appannaggio in extra rete dei derivati del petrolio. Poi c’è il tema conclusivo dell’intensità energetica nell’industria e nel civile, in discesa per le politiche di efficienza energetica, che riducono globalmente la domanda di energia primaria. Altro petrolio che resterà inutilizzato. Argomento questo che va declinato assieme all’inarrestabile tendenza all’autoproduzione di elettricità con piccoli impianti a fonte rinnovabile. L’intensità energetica si riduce perché finalmente l’efficienza energetica da fattore economico è diventato fattore culturale, assieme alla maggiore sensibilità ambientale e ai timori per il cambiamento climatico. Ovviamente hanno aiutato gli incentivi di vario tipo, anche scriteriati, elargiti in questi anni, ma ciò non basta a spiegare l’intensità del cambiamento. Se questa analisi è corretta, e francamente vedo molta coerenza nel susseguirsi convergente di notizie e analisi, che accade adesso? Le imprese più innovative, meno condizionate dalla “burocrazia” interna, che sempre è capace di esercitare un grande potere di conservazione, abbandoneranno più o meno velocemente il petrolio in favore del gas e delle rinnovabili. Tra di loro alcune vinceranno altre perderanno. E i Paesi? Discorso analogo. Alcuni si metteranno alla testa del cambiamento – penso ad esempio all’Olanda, che sta decidendo di non usare più benzina e Diesel dal 2025

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– altri andranno in coda, cercheranno di “allungare il brodo”, incapaci di resistere e reagire al ricatto occupazionale, pensando di difendere così campioni e campioncini nazionali. A scapito del futuro. Bisogna chiedersi se per l’Italia è più importante tenere in vita il più possibile l’industria energetica tradizionale del petrolio e della raffinazione o buttarsi decisamente sulla conversione dei trasporti ad elettrico per le auto e a GNL per i trasporti marittimi e terrestri pesanti, e poi quello pubblico locale oltre che le ferrovie non elettrificate, che oggi vanno ancora a gasolio. Sull’Eni Renzi ha dato un segnale forte, anche se un po’ troppo dirigista per i miei gusti. Aspettiamo i prossimi passi.

Questo commento ripercorre e completa la relazione che ho tenuto a Tartano (Sondrio), lo scorso 9 luglio, in occasione degli “Incontri riformisti 2016” organizzati da LibertàEguale Milano, Circoli Dossetti e Associazione democratici per Milano.

L’autore Diego Gavagnin consulente free lance per attività di comunicazione e sviluppo di progetti energetici. È stato capo ufficio stampa dell’ENEA, direttore delle relazioni esterne dell’Aeeg, fondatore e direttore editoriale di QuotidianoEnergia.it. Senior advisor di Energia Media, dal 2013 tiene la rubrica di commento “Oltreilconfine”.

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Energia Media Milano / Roma comunicazione@energiamedia.it www.energiamedia.it


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