Pellegirni 46-59

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Capitolo secondo

Strumenti per vincere

Come fare un piano di marketing Made in Italy Entriamo nel vivo della discussione. Parliamo di marketing, di marketing plan e aggiungiamo “per il Made in Italy”. Se è vero come abbiamo definito che il marketing mix “italiano” presuppone la P di Patrimonio. Un piano marketing per un prodotto Made in Italy sarà assolutamente diverso da qualsiasi altro piano marketing nel mondo. Consideriamo uno schema classico di un piano marketing: • analisi della situazione; • trend passato; • analisi degli scostamenti (tra obiettivi del piano precedente e risultati effettivi); • valutazione delle cause degli eventuali scostamenti; • definizione delle variabili esterne macroambientali (socio culturali, economiche, tecnologiche, politico-legisltaive) e microambientali (domanda, concorrenza); • posizionamento; • definizione dei segmenti obiettivo e del posizionamento relativo; • azioni di marketing mix; • politica di prodotto ed eventuale riprogettazione del processo di erogazione; • politica di comunicazione interna; • politica di comunicazione esterna; 46


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eventuale politica di prezzo; piano operativo di azione; tempi di azione, responsabilità ed economics; risultati attesi; indicatori (gli indicatori devono misurare il set di obiettivi prefissati).

Fin qui vale per qualsiasi prodotto di qualsiasi Paese. Se mi accingo a fare un piano di marketing per il Made in Italy devo considerare di dover misurare e monitorare cosa accade se introduco nella ricetta quella spezia che cambia le cose. Quella spezia che dunque diventa la protagonista del piatto finale. O mix di spezie, se prendiamo a riferimento quelle caratteristiche che vengono riconosciute come tipiche del fare italiano: • • • • • •

senso e sensibilità estetica; empatia e flessibilità adattiva; meticolosità e cura dei dettagli; destrutturazione creativa dei processi di marketing; contenuto umanistico della proposizione di valore; tinkering (scritto proprio così) che è una teoria didattica sviluppata dall’Exploratorium di San Francisco su ricerche ed esperienze del MIT di Boston da cui un metodo che permette di sperimentare attraverso attività di costruzione che valorizzano la creatività, il divertimento e l’indagine, fortificando l’impegno e la concentrazione.

Ma è sull’Empatia quindi capacità di ascolto, flessibilità adattiva, che dovremmo soffermarci. Se chiedessimo in giro per il mondo da cosa rinosci un italiano, le risposte coinciderebbero con quanto emerge dall’analisi succitata sui processi aziendali. L’estetica che ci qualifica, capaci di fare in modo bello, equilibrato, elegante va di pari passo con la “simpatia, socialità” che sposano perfettamente la cultura, quindi la capacità di relazionarsi con gli altri e di destrutturare le soluzioni. Relazionarsi con gli altri. Il modo in cui un prodotto italiano si relaziona con tutti i propri 47


pubblici fa la differenza e va inserito in un piano di marketing che si rispetti. Un prodotto Made in Italy dialoga con tutti gli stakeholders e shareholders: dalle persone coinvolte nel processo produttivo (dipendenti, collaboratori, fornitori, partner) alle persone coinvolte nel processo distributivo (dealer, retailer…) agli utenti finali (customer, influencer). Il dialogo, la conversazione in e out sono gli elementi che fanno la differenza. Possiamo dire di più: non c’è prodotto Made in Italy che si rispetti che non sia correlato da un canale di relazione o più canali di interazione diretta. Non dimentichiamoci che i nostri primi clienti sono i nostri dipendenti e collaboratori diretti. Loro che sono coinvolti anzi sono parte del brand, possono essere ottimi o pessimi ambassador. Dipende da quanto vengono coinvolti nei flussi comunicazionali, per definizione a due vie: ascolto – reagisco – dialogo. Quindi nel piano marketing italiano inserirei un punto come fondamentale: il coinvolgimento degli share e stakeholders attraverso un piano di conversazioni per poter instaurare una relazione duratura ed efficace, all’italiana, con il mercato. Oggi è ancora più possibile perché esistono strumenti che ci permettono di generare un’infinità di relazioni e di conversazioni, di gestirle, monitorarle e misurarle. Quello che prima accadeva nelle piazze e nelle strade della città, oggi, grazie agli strumenti digitali a disposizione, accade in modo non solo più rapido ma anche tracciabile. Il Marketing 2.0 è già 4.0. Domanda: cosa si intende per 4.0? mi è chiaro il 3.0 che passa dall’interazione digitale alla semantica digitale intendendo il «World Wide Web un ambiente dove i documenti pubblicati vengono associati a informazioni e dati (metadati) in un formato adatto all’interrogazione e all’interpretazione (es. tramite motori di ricerca) e, più in generale, all’elaborazione automatica…». Risposta: effettivamente il sillogismo 4.0 viene da Industria 4.0. 48


Concetto introdotto alla Fiera di Hannover nel 2011 per descrivere e collegare le tendenze tra i diversi settori, il termine si è evoluto per annunciare un nuovo paradigma nel settore manifatturiero. 4.0 indica la quarta rivoluzione industriale, “ed è un cambiamento di approccio alla produzione tanto radicale come lo fu la transizione, alla fine del 1700, dai metodi di produzione manuali alle macchine e ai processi industriali.”

Abbiamo vissuto dalla seconda metà dell’800 la seconda rivoluzione industriale, con le prime fabbriche elettrificate, la produzione di massa e le linee di produzione; poi la terza rivoluzione industriale intesa come il passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale e, in termini industriali, come il passaggio al calcolo digitale e alle comunicazioni digitali. Questo ci porta all’Industria 4.0, definita genericamente come l’informatizzazione della produzione. L’Industria 4.0 si riferisce più specificamente ad uno spostamento verso attività di produzione di auto-organizzazione, con una maggiore distribuzione di intelligenza nelle singole macchine e componenti. Questo produce: Ottimizzazione della produttività. Con l’avvento dell’Industria 4.0, le linee di produzione saranno in grado di riconfigurarsi automaticamente per ottimizzare la produttività. Le linee di produzione saranno capaci di rispondere dinamicamente ai nuovi ordini o a variazioni degli stessi, connettendosi in modo trasparente con la logistica e con il business in senso più ampio. Ad esempio le macchine potranno predire i loro guasti e avviare i processi manutentivi adeguati in maniera autonoma oppure organizzare la logistica in conseguenza di variazioni inattese della produzione. Maggiore Flessibilità. L’Industria 4.0 porterà anche un maggior grado di flessibilità nel processo di fabbricazione. Anche questo è il passo logico successivo per un processo che ci ha già portato da un cambio meccanico della linea per passare da un prodotto all’altro, a un cambio automatizzato che avviene con la semplice pressione di un bottone. Nell’era dell’Industria 4.0, una singola linea potrà produrre qualsiasi tipo di prodotto senza la 49


necessità di un passaggio da un lotto all’altro, ad esempio attraverso un settaggio dei profili dei robot dettato dal prodotto stesso mano mano che procede lungo la linea. Domanda: 4.0 e Made in Italy? Risposta: nell’Industria 4.0 sembra che l’Italia stia giocando un ruolo da protagonista, insomma sembra che di “fabbriche del futuro” ce ne siano già tante. Domanda: industria 4.0 e marketing 4.0? Risposta: 4.0 e marketing del Made in Italy è una giusta osservazione. Un’azienda 4.0, più flessibile e in grado di processare anche nuove produzioni in modo automatizzato con variazioni inattese permette per esempio di intervenire quasi real time su richieste inattese da parte dei clienti e di personalizzare in modo importante anche un solo prodotto. Lo chiamano cloud manufacturing per intendere quell’applicazione del cloud computing al manifatturiero, insomma si tratta di una produzione on demand. È il marketing one to one. Il prodotto unico, esclusivo, personalizzato. E questo è possibile solo se ci si pone in una chiave d’ascolto con i propri user/clienti. Sembra che in questo approccio gli italiani siano i migliori Teniamo presente questo schema per un piano marketing italiano: 1. Delineare lo scenario di mercato senza tralasciare i trend di consumo. Un buon piano di marketing infatti non considera solo lo scenario relativo all’impresa o alla categoria merceologica in cui l’impresa opera, ma più generalmente la situazione socioeconomica mondo e Paese, poi cerca di capire e prendere in considerazione i trend di comportamento e consumo. Un piano di marketing del Made in Italy considererà anche quanto sia il livello di apprezza50


mento o consumo di elementi come: estetica, cultura, arte, moda, design, lusso, enogastronomia di alta qualità, innovazione. E quindi li deve incrociare con alcuni modelli vincenti di riferimento per comprendere la percezione socioantropologica delle cose. Considerare il successo di una serie tv, di un certo tipo di musica, piuttosto che di un titolo letterario, sono elementi importanti che aiutano un’impresa a collocarsi in una fase non solo economica, ma sociologica, quindi a interpretare e rispondere in modo adeguato alle aspettative dei propri pubblici di riferimento. 2. Lezioni di vita o di esperienza. Quello che è successo alla propria impresa, o anche ad altri attori sullo stesso mercato, negli ultimi 5 anni è fondamentale. 3. Chi sono i nostri pubblici di riferimento. Un buon piano di marketing non trascura nessun target, sia diretto che indiretto. Se parliamo di un piano di marketing per il Made in Italy dobbiamo assolutamente considerare sia i pubblici nazionali che i singoli target sui vari mercati esteri. Non basta dire «il mio prodotto è adatto a uomini tra i 40 e i 60 anni, ceto socio economico medio alto». Ma bisogna profilare ancor di più questo target: loro attenzione ai valori estetici, cultura, interessi, viaggi in Italia, amore per l’arte. Innovazione e ricerca del lusso come unicità. La domanda giusta sarà: quali sono i loro desideri ? Wish dunque e non need: desideri e non bisogni e quanto di italiano ci sia in essi. 4. Customer relationship. Quale è il mio grado di relazione con il mercato e con i miei interlocutori? Lo faccio con empatia e comunico la mia passione e la mia italianità? 5. I principali obiettivi che mi prefiggo. Se tra questi non c’è la riconoscibilità in quanto Made in Italy allora significa che sto rischiando di perdere in competitività. Ricordiamoci che valore, redditività e fiducia sono concatenati tra loro, ma nel caso di un brand italiano, non deve mancare l’Italianità. 6. Quali sono i miei concorrenti? Tra questi evidenziare quelli Made in Italy e fare analisi di quanto questi si propongano come tali. 7. Territorio. Quale è la mia relazione con il territorio dove produco/ agisco? 51


8. Prezzo. Per calcolare il prezzo del prodotto devo anche misurare quanto incida l’essere italiani e trasformarlo da eventuali minus, ovvero costo (pensiamo al costo del lavoro), in un valore e quindi pregio. Da leggere il caso Quercetti a fine libro. 9. Distribuzione. Non sarà importante solo definire i canali di distribuzione/vendita, ma anche “come” distribuisco o “come” il prodotto comunica presso il punto vendita. 10. Quali strumenti per la comunicazione utilizzerò? In primis tutti quelli che consentono “conversazioni “ e “ingaggio”, che mi permettano di aggiungere al prodotto il servizio della relazione con il brand. Web e digital, Social Media e wapp, app e crm. 11. Quanto sono empatico e relazionale con clienti e stakeholders? 12. Ho introdotto un approccio digitale o personalizzato anche a livello produttivo per poter essere un brand Made in Italy 4.0? Se parliamo di strumenti digitali che permettono relazione, visibilità e la massima viralità, dobbiamo considerare che il contenuto è importante, il linguaggio adottato per comunicarlo anche quindi dobbiamo agire su quegli ambienti adatti a raggiungere i vari pubblici e a coinvolgerli. La nostra parola d’ordine è storytelling. Con una caratteristica: non c’è storytelling senza lettori e quindi senza coinvolgimento. Non si scrive per esercizio narrativo ma si scrive e si racconta per gestire il bisogno o desiderio di altri di conoscere le nostre storie, quindi per creare una relazione. Qualcuno ha anche provato a creare portali dove più storie di eccellenze italiane vengono raccontate, aggregandole insieme. È il caso di www.italianstories.it oppure www.eccellenzeindigitale. com che addirittura ha visto il coinvolgimento di Google e di Unioncamere. Personalmente non ho molta fiducia nell’aggregazione di storie, credo invece che ciascun brand debba trovare la propria chiave narrativa e usare gli strumenti migliori per l’obiettivo che intende raggiungere. Fare storytelling richiede un metodo puntuale.

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Domanda: esiste uno storytelling di prodotto e uno aziendale? Risposta: certamente. Lo storytelling aziendale o corporate deve essere pensato a medio-lungo periodo, mentre quello di prodotto può anche far parte di una campagna pubblicitaria. Inoltre fare storytelling corporate significa agire su pubblici diversi coinvolgendoli in una narrazione quotidiana e quindi trasformare la vita aziendale e anche certe scelte forse scomode in un coinvolgente dialogo. Pubblici interni come i dipendenti e i collaboratori non devono essere esclusi da questi percorsi. Nello storytelling aziendale o corporate sono coinvolti dunque tutte le funzioni aziendali, dalla proprietà o CdA all’ufficio del personale, dal controllo di gestione al marketing, dalla produzione alla distribuzione. In questo modo lo storytelling aiuta a dare un senso anche all’impegno quotidiano delle persone in azienda. Per quanto riguarda lo storytelling di prodotto, possiamo distinguere quello strategico da quello tattico. Il primo necessita di un piano trasversale e inclusivo di tutti i momenti della vita di un prodotto: dalla sua produzione al packaging, dalla presenza del prodotto per esempio in uno spazio di vendita a quando viene scelto dal consumAttore. In questo caso si parla di posizionamento e stile comunicativo ma anche di ascolto e feedback. Nonostante per lanciare o comunicare un prodotto si facciano anche ricerche di mercato, non si deve trascurare mai la reazione che un prodotto provoca sul consumatore e soprattutto si deve pensare sempre che il consumAttore in qualsiasi momento sta facendo un’esperienza personale. 1. Ho sentito parlare di… Mi è stato presentato… L’ho trovato per caso. 2. È facile/difficile; utile/inutile; pratico/scomodo; efficace/inefficace secondo me, in quel preciso momento. 3. L’esperienza mi ha arricchito quindi la consiglio, la condivido e la ripeterò. È importante che chi gestisce il marketing del brand/prodotto abbia la possibilità di conoscere queste tre “condizioni” dell’utente e quindi misurarle. 53


Oggi è possibile. Prima no. Quindi era difficile capire concretamente l’impatto di una campagna pubblicitaria perché l’unica leva per farlo era valutare l’effetto sulle vendite, ma questo ormai sappiamo tutti essere solo uno degli anelli della catena. L’ultimo. Ho venduto MA ho creato fiducia? Non ho venduto, ma ho creato interesse per la marca? Cosa posso cambiare per incrementare la relazione virtuosa con i miei target? In una strategia di Prodotto, raccontare i valori del brand per farli sedimentare nel vissuto degli utenti suscitando in essi il senso di appartenenza alla marca significa fare storytelling strategico. Ci vuole più tempo per creare un filo conduttore a doppia gittata. E soprattutto ci vogliono Costanza & Coerenza. Uno storytelling tattico mira a generare una reazione veloce, emotivamente è importante agire e sollecitare le corde del “bisogno immediato” e quindi ottenere conversione a breve termine. Domanda: scusa ma quanto costa fare storytelling? Risposta: guarda vorrei avere una risposta puntuale, invece credo di doverti dare una risposta in apparenza ampia: come ogni investimento presuppone un bugdet ma la cosa interessante è che si può calcolare in relazione ai risultati ottenibili. Investi per quanto vuoi ottenere e l’obiettivo di creare valore per un brand o prodotto è fondamentale da definire anche in termini di revenue. Domanda: quindi il fatto che i social siano gratis… Risposta: i social non sono davvero gratis. O comunque paragoniamo un social a una spiaggia libera. Per raggiungere la spiaggia devo avere un mezzo (che costa), se sulla spiaggia voglio coinvolgere tanta gente in una partita di pallone devo avere (acquistare) un pallone e convincere le persone a giocare quindi devo impiegare il mio tempo. Il tempo di chi lavora, sia che lavori in azienda sia che sia un consulente esperto, ha un valore economico non considerarlo sarebbe davvero frutto di una gestione miope o furba. Inoltre non basta avere un pallone per fare una partita di calcio, for54


se è utile anche acquistare due porte e una confezione d’acqua per i giocatori. Se sono un organizzatore di tornei di calcetto sulla spiaggia non penserei assolutamente che la mia sia un’attività no cost. Vale lo stesso se intendo gestire professionalmente la Brand Identity sui social network. Domanda: come trovo un esperto di storytelling. Risposta: innanzitutto non devi cercare uno scrittore, né devi fidarti di un esperto di web marketing che non sappia costruire una frase emozionale, né devi affidarti ai pubblicitari vecchio stampo che altrimenti ti propongono un “inzupposo” collage di azioni one way. Ci vuole “tecnica e passione”. Ci vuole passione molta pazienza sciroppo di lampone e un filo di incoscienza ci vuole farina del proprio sacco sensualità latina e un minimo distacco si fa così rossetto e cioccolato che non mangiarli sarebbe un peccato si fa così si cuoce a fuoco lento mescolando con sentimento le calze nere il latte bianco e già si può vedere che piano sta montando è quasi fatta zucchero a velo la gola soddisfatta e nella stanza il cielo si fa così 55


per cominciare il gioco e ci si mastica poco a poco si fa così è tutto apparecchiato per il cuore e per il palato sarà bello bellissimo travolgente lasciarsi vivere totalmente dolce dolcissimo e sconveniente coi bei peccati succede sempre ci vuole fortuna perché funzioni i brividi alla schiena e gli ingredienti buoni è quasi fatta zucchero a velo la gola soddisfatta e nella stanza il cielo si fa così per cominciare il gioco e ci si mastica poco a poco si fa così è tutto apparecchiato per il cuore e per il palato sarà bello bellissimo travolgente lasciarsi vivere totalmente dolce dolcissimo e sconveniente coi bei peccati succede sempre Rossetto e Cioccolato – Ornella Vanoni

I settori vincenti: le locomotive e i giovani vagoni (dalla moda alle biotecnologie) Nonostante gli ultimi sette anni di crisi, in Italia contiamo quasi mille prodotti con saldo commerciale attivo da record. Un risultato di tutto rispetto che premia la qualità. L’Italia è uno dei soli cinque Paesi al mondo che vanta un surplus manifatturiero sopra i 100 miliardi di dollari insieme a grandi potenze industriali come Cina, Germania, 56


Giappone e Corea. L’Italia ha visto i valori medi unitari dei suoi prodotti salire del 39%, facendo meglio di Regno unito (36%) e Germania (23%). Due italiani su tre sono disposti a pagare un sovrapprezzo per avere prodotti 100% italiani. Grazie alla bellezza e alla qualità connaturata ai nostri prodotti, poi, l’Italia continua a produrre cose che piacciono al mondo e che sono sempre più desiderate sui mercati globali. Come spiega Marco Fortis, Direttore e Vicepresidente della Fondazione Edison, «Le eccellenze del Made in Italy coprono non più soltanto i prodotti tradizionali della moda, dell’arredo-casa, dell’alimentare e dei vini, ma anche numerose branche della meccanica e dell’ingegneria, specializzazioni della chimica, i mezzi di trasporto, la gomma-plastica ed ora anche la farmaceutica, protagonista di un autentico boom dell’export negli ultimi anni». «L’Italia vanta un totale di 932 prodotti classificatisi primi, secondi o terzi al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Più nel dettaglio, il nostro Paese vanta 235 prodotti medaglia d’oro a livello mondiale per saldo commerciale, eccellenze che ci fanno guadagnare 56 miliardi di dollari. I nostri prodotti che si classificano al secondo posto nel mondo per saldo commerciale sono invece 376 e fruttano 68 miliardi di dollari. Le medaglie di bronzo dell’export italiano sono invece 321 prodotti e valgono un saldo commerciale complessivo di 53 miliardi. Nell’insieme questi campioni dell’export fanno conquistare al Paese un surplus commerciale di 177 miliardi di dollari. E poi ci sono altri 500 prodotti in cui l’Italia si è classificata quarta o quinta per saldo commerciale mondiale e che hanno aggiunto alla nostra bilancia commerciale altri 40 miliardi di dollari». Oltre ai numeri, sono significativi anche i settori che generano questo surplus. La maggior parte delle nostre eccellenze manifatturiere non proviene solo da settori tradizionali, quali potrebbero essere il tessile o le calzature, ma arriva dalla meccanica e dai mezzi di trasporto, dalle tecnologie del caldo e del freddo, dalle macchine per lavorare legno e pietre ornamentali, tubi e profilati cavi, dagli strumenti per la navigazione aerea e spaziale. Ai quali si affianca il presidio di quei settori in cui il Made in Italy è forte per tradizione, come il de57


sign o il lusso. Andando ad analizzare i nostri 235 prodotti medaglia d’oro, emerge infatti che 25,6 dei 56 miliardi di surplus generati dalle nostre eccellenze provengono da beni del settore dell’automazione meccanica, della gomma e della plastica; altri 18,4 miliardi si devono ai beni dell’abbigliamento e della moda; 7,3 miliardi da beni alimentari e vini; 0,4 dai beni per la persona e la casa; mentre 4 miliardi derivano da altri prodotti, tra cui quelli dell’industria della carta, del vetro e della chimica. Ai secondi posti per saldo commerciale hanno particolare rilevanza rubinetteria e valvolame, che portano al Paese un bottino di 4,9 miliardi di dollari. Segue il settore di vini e spumanti con 4,5 miliardi di dollari, i mobili in legno e parti di essi, lavori in ferro e acciaio, i trattori agricoli, le piastrelle e ceramiche per l’arredo, le parti di turbine a gas, macchine per riempire e imbottigliare ed etichettare, lavori in alluminio, parti di macchine e apparecchi meccanici, barche e panfili da diporto. Per quanto riguarda i nostri prodotti medaglia di bronzo per saldo commerciale mondiale vanno citati gli oggetti di gioielleria, le parti e gli accessori per trattori e autoveicoli, piastrelle e lastra da pavimentazione o rivestimento, macchine e apparecchi meccanici, prodotti di materie plastiche, ingranaggi e ruote di frizioni per macchine, pompe e compressori per aria, divani, poltrone, freni e servofreni, ponti con differenziale per autoveicoli, costruzioni di ghisa, ferro e acciaio. Una menzione a sé merita il turismo: usiamo come indicatore i pernottamenti, a fronte della sofferenza del mercato domestico, si evidenzia il primato italiano nell’Eurozona per pernottamenti di turisti extra UE. Nel 2013, con 56 milioni di notti all’attivo l’Italia si è classificata prima nella zona euro per numero complessivo di pernottamenti di turisti extra-UE. Come dire che nel Vecchio Continente siamo la meta preferita di americani, giapponesi, cinesi, australiani, canadesi, brasiliani, sudcoreani, turchi, ucraini e sudafricani. E il contributo diretto del turismo al nostro Pil nel 2014 è stato del 4,1%, per un valore di 66 miliardi di euro. L’ Agroalimentare è un settore vocato alla qualità. Non a caso l’Italia ha una capacità di creare valore aggiunto pari a quasi 2000 euro per ettaro: più del doppio della media europea, il triplo del Regno Unito (614€/ha), il doppio di Spagna (906€/ha), e Germania (994€/ha), e il 58


60% in più dei francesi (1.226€/ha). Non solo, con 273 prodotti registrati tra Dop, Igp e Stg, 523 tra vini a denominazione di origine controllata e garantita o a indicazione geografica tipica e 4698 specialità tradizionali regionali, vantiamo il primato prodotti registrati e siamo il primo Paese dell’UE per numero di imprese biologiche (44 mila). L’agricoltura italiana è tra le più sostenibili in Europa – emette il 35% di gas serra in meno della media Ue – e fra le più sicure, con una quota di prodotti che presentano residui chimici inferiore di quasi 10 volte rispetto alla media europea. È anche per questi motivi che la nostra agricoltura, nel 2014, riesce a confermare il suo primato in Europa, insieme alla Francia, per valore aggiunto (31,6 miliardi di euro). Non è da tralasciare il Terzo Settore. Nella produzione ed erogazione di servizi il nostro Paese non raggiungerebbe mai l’attuale grado di welfare se non potesse contare sul contributo della variegata galassia del Terzo Settore. Un altro dei primati tricolori: tra i Big Ue, con il 9,7%, l’Italia è prima per quota di addetti del Terzo Settore sul totale dell’economia. E queste realtà muovono entrate per 64 miliardi di euro, equivalenti al 3,4% dell’economia nazionale. Una ricchezza che andrebbe affiancata anche con il risparmio e il benessere sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione da 4,7 milioni di volontari. Numeri che ci parlano di un modello che coglie quell’economia delle responsabilità, della sobrietà e della condivisione che si fa strada. Se parliamo di Innovazione e ambiente l’Italia è quarta in Europa ed è uno degli otto Paesi Ocse ad avere una spesa in ricerca e sviluppo superiore ai 20 miliardi di dollari. L’Eurostat ha evidenziato nelle imprese italiane una spiccata propensione all’innovazione: con il 42% di imprese innovatrici, l’Italia si colloca al di sopra della media UE (pari al 36%), non ai livelli di Germania e dei Paesi del Baltico, ma meglio di Francia, Regno Unito e Spagna. Il nostro sistema produttivo, inoltre, ha incorporato la green economy come un fattore competitivo: dall’inizio della crisi, oltre 340mila aziende (il 22% del totale) hanno investito in questo senso, e nella manifattura arriviamo al 33%. Arriviamo così ai vertici dell’Ue per eco-efficienza, con 104 tonnellate di CO2 ogni milione di euro prodotto (la Germania ne immette in atmosfera 143, il Regno Unito 130) e 41 di rifiuti (65 la Germania e il Regno Unito, 93 la Francia). 59


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