Giarp2014 report sull'educazione alla città

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REPORT Educazione alla città e architetti attivi “Le città di domani sono l'Europa di domani." Johannes Hahn, Commissario europeo responsabile per la Politica regionale

(a cura del Direttivo Gi.Ar.P. 2014-2016)

http://ec.europa.eu/digital­agenda/futurium/en/content/themes


1. Premesse. Esistono degli specifici ‘aggregati’ che, a detta di molti, costituiscono i campi d’azione di ogni ipotesi di evoluzione futura dei territori e delle società civili. Ciò significa che agire su di essi comporta il massimo dell’efficacia, nonché la possibilità di aumentare la capacità di adattamento delle aree urbane (italiane, europee e mondiali). Poichè le azioni singole acquistano maggior rilevanza se inserite (e connesse) in una rete trans­locale e trans­nazionale, vale la pena di riportare qui gli stessi ‘aggregati’ tenuti in considerazione dalle politiche regionali europee (2007­2020). I finanziamenti della politica regionale dell'UE si concentrano su 4 priorità: ●

ricerca e innovazione: la crescita sostenibile è sempre più correlata alla capacità delle economie regionali di innovare e trasformare, adattandosi a un ambiente più competitivo e in continua evoluzione. Tale situazione richiede quindi maggiore impegno per la realizzazione di un ecosistema volto a incoraggiare innovazione, ricerca, sviluppo e imprenditorialità, come sottolineato nell’ambito della strategia Europa 2020 e dell’iniziativa faro Unione dell’innovazione correlata. Lo sviluppo dell’innovazione rappresenta un aspetto fondamentale nei programmi della politica di coesione per il periodo 2007­2013 in cui circa 86,4 miliardi di EUR, ovvero pressoché il 25% degli stanziamenti totali, sono destinati all’innovazione nel suo complesso. Tale impegno è stato ulteriormente rafforzato nel nuovo periodo di programmazione 2014­2020, in cui il 30% degli stanziamenti totali verrà distribuito ai fini dell’innovazione nel suo complesso. In futuro, strategie di specializzazione intelligente consentiranno anche di sfruttare il potenziale d’innovazione di tutte le regioni dell’Unione Europea.

tecnologie dell'informazione e della comunicazione

rendere più competitive le piccole e medie imprese

favorire un'economia a basse emissioni di anidride carbonica.

Le opportunità di finanziamento sono dirette ai potenziali beneficiari, fra cui:

enti pubblici

settore privato (imprese)

università

associazioni e ONG.


Sappiamo poi che la recente riforma della Politica regionale dell'UE ha attribuito un ruolo maggiormente centrale alla dimensione urbana: essa prevede che la metà degli investimenti del Fondo europeo di sviluppo regionale per il periodo 2014­2020 sarà destinata alle città e alle aree urbane. Gli Stati membri sono inoltre tenuti a investire almeno il 5% per azioni urbane sostenibili integrate. Dunque, come già sappiamo, le città sono il focus specifico delle azioni europee. Con una specifica notevole: contrariamente al nostro sentire comune, le città (per le politiche regionali europee) viene vista come ECOSISTEMA (patrimonio immobiliare+infrastrutture+cittadini+educazione+welfare+cultura+turismo), mentre, su suolo nazionale, esse continuano ad essere viste come MORFOLOGIE STORICHE. In altri termini, in Italia, parrebbe che il cambiamento (per non parlare dell’innovazione) non riguardi la città, ma sia rimandato in un altrove che ancora non ha luogo nè specifica operativa (università, terzo settore, amministrazione…). Scrive Walter Vitali : “(...) le città potrebbero essere gli attori del cambiamento nel prossimo decennio, ma nel discorso pubblico la questione urbana non emerge. C’è un blocco cognitivo che impedisce di vederla e che ha coinvolto la comunità scientifica, l’opinione pubblica e i decisori politici a vari livelli. La colpa è dell’affermarsi delle resistenze al cambiamento istituzionale che sarebbe necessario per dare un governo e strumenti di autonomia politica ai nuovi sistemi urbani”. (Un’Agenda per le città ­ Nuove visioni per lo sviluppo urbano, ed. il Mulino 2014) Inoltre il ruolo dell’innovatore (come è già accaduto per il passato trend topic della sostenibilità) non è stato raccolto da chi si occupa (storicamente, per disciplina e per empatia) di città. Se ne è fatta questione tecnica (come, appunto, per le classi energetiche degli immobili), dunque puntuale e normativa. Ma l’architetto deve smettere di pensare a se stesso come tecnico, altrimenti rimarrà marginale e professionalmente in conflitto con geometri ed ingegneri. Il cambiamento è ora, non sarà possibile abbracciarlo poi. Al contempo le professioni non hanno certo dimostrato capacità di proporsi all’opinione pubblica (e al legislatore) come imprese culturali con ruolo di mediatori pubblico­privato. Il conflitto pubblico­privato ha visto prevalere quest’ultimo, nel nostro paese. Ma ora dobbiamo ritrovare una comune riflessione operativa sul tema del bene comune, ripartire dagli spazi pubblici, da benefici condivisi, rigenerando (nel mercato immobiliare) non solo l’offerta ma, principalmente, la domanda di un nuovo tipo di urbanità.


Dalla simultanea compresenza di queste ‘deformazioni’ nazionali (ufficiali e ufficiose) è sorta la situazione attuale. I risultati negativi evidenti sono attualmente i seguenti: ­ le professioni non hanno più ruoli determinanti per dare un contributo al cambiamento e all’innovazione. Si è persa la centralità del progetto, e, con essa, il ruolo di guida autorevole da parte del progettista; ­ le strutture amministrative e burocratiche sono cresciute in modo addirittura parassitario, non avendo, nelle professioni, un oppositore in grado di proporre linee alternative oggettive e collettive. L’incrudimento delle prassi (e delle responsabilità attribuibili, anche penalmente, alle professioni) è forse dovuto ad un eccesso di liberalizzazione dei diritti (reali o presunti) della sfera privata, a cui si è affiancato un deperimento del concetto di bene comune. Si è preferito risolvere i conflitti derivanti da questo disequilibrio pubblico/privato in modo personalistico (con trattamenti di favore nei casi singoli) piuttosto che lavorare insieme al cambiamento e darne rilievo nei modi e nei casi resi disponibili dalle strategie e strumenti dell’emergente network society1 ; ­ la tutela e la normativa (che in Italia sono articolate in modo territoriale) generano conflitti e analfabetismi ‘derivati’, poiché la loro complessità si muta in inaccessibilità e incomprensibilità. Senza voler nulla togliere alla necessaria tutela del nostro patrimonio immobiliare storico e turistico, la sua adozione indiscriminata (che preferisce l’assenza di evoluzione per dribblare i rischi, ma anche le opportunità che potrebbero emergere da buoni ed efficaci progetti di rinnovo del patrimonio immobiliare) è un vincolo che dovrebbe essere ricondotto ad una più efficace riflessione sui singoli casi specifici. Occorre trasformare le parti di città in stato di abbandono in occasione laboratoriale per codificare nuove strategie. In questo processo gli architetti possono contribuire in modo determinante, unendo la sintesi estetica, l’immaginario progettuale e la loro naturale esperienza in project management; ­ le generazioni stanno entrando in conflitto, assimilando le dinamiche di cambiamento più feroci, alla stregua di una reazione immunitaria. Il binomio giovani­innovazione è tuttavia una scorciatoia per l’opinione pubblica, non certo un’evidenza strutturale 1

Van Dijk definisce la network society come una società in cui una combinazione di network sociali e reti di mass­media dà forma alla propria modalità organizzativa e alle più importanti strutture a tutti i livelli (individuale, organizzativo e sociale). Manuel Castells, Professore in Comunicazione presso l’Annenberg Center della University of Southern California (USC) sottolinea come i social network saltino ormai del tutto la mediazione dei leader formali tradizionali (siano questi intellettuali o politici), ormai in crisi di legittimazione, stimolando cooperazione e reciprocità; essendo orizzontali — con un passaggio da forme di mass­communication a mass­self­communication —, e non avendo a che fare con autorità più o meno sostanziali, inducono spontaneamente meccanismi di solidarietà e di fiducia tra pari; allo stesso modo non avendo un centro visibile non possono essere controllati perché il network dissemina competenze e autonomia decisionale; sono locali e globali allo stesso tempo e usufruiscono di una immediata internazionalizzazione sia in termini di risorse intellettuali e informative che di forza di mobilitazione; possono connettersi con altri network in maniera immediata; cambiano inoltre i processi temporali: essendo fenomeni virali, hanno un elemento di istantaneità e di “espansività” inediti; sono inoltre multimodali, attuando forme di comunicazione che possono essere scritte, orali, ma anche fatte di immagini e di video, accrescono l’impatto di significato della propria azione; sono auto­riflessivi e costituiscono di fatto una sfera pubblica che è sia virtuale che reale (specifica a determinati contesti urbani) e che contribuisce a costruire un flusso continuo di discussioni e deliberazioni, senza possibilità di irrigidirsi su un unico programma o su un unico obiettivo


2. Auspicabili obiettivi e finalità comuni Trovare un fronte comune è forse difficile, per quanto sia ragionevole lavorarci in modo sinergico. Di qui nasce la necessità di finalizzare un accordo strategico su progetti specifici. Riteniamo si possano proporre i seguenti obiettivi comuni: 1. sostegno ad una rinnovata educazione alla città come ecosistema 2. ricostruzione dell’importanza del progetto come prassi strategica nella riqualificazione urbana 3. alfabetizzazione ai temi dell’innovazione 4. ricostruzione della figura dell’architetto come mediatore pubblico/privato 5. rafforzare la figura dell’architetto come impresa culturale, e dunque come bene comune. Esso attiva gran parte della filiera edile, ma dovrà ancor di più essere il fautore delle future riqualificazioni urbane (che il libero mercato non avrà mai l’interesse di sostenere, se non a danno della collettività) 6. ridefinire l’ambito normativo nazionale, regionale e locale mediante proposte il più specifiche possibili. Il fatto che in molti non si possano più permettere una casa (in Italia) ha molte cause, tra cui anche le differenti norme che ne ostacolano la realizzazione, derivanti il più delle volte dalla tutele monopolistiche di lobby trasversali (ad esempio quelle sorte attorno alla green economy). Occorre una revisione del corpus legislativo in modo da garantire il soddisfacimento di requisiti idonei alla vita degli abitanti di edifici e città. Ora l’architetto si trova ad agire all’interno di un intricato sistema di norme che vengono emanate dagli enti più disparati che generano un erosione del campo di azione e causano sempre di più un arretramento ed un livellamento verso il basso della qualità architettonica. Non si tratta di ledere il benessere fisico o igienico degli abitanti futuri, ma di costruire un sistema normativo che lasci maggior ambito di azione ai progettisti, i quali dovranno di contro essere maggiormente responsabilizzati sulle scelte effettuate (vedi seguente proposta sulla Carta di Intenti). 7. oltre il 60% degli edifici costruiti in Europa sarebbero fuori norma in Italia, se (e quando) l’Europa decidesse di innalzare la qualità energetica degli edifici sul mercato. Questa è la chiave per mostrare che la rifunzionalizzazione delle città (e degli edifici) non è questione ideologica ma ECONOMICA. 8. esplicitare una ridefinizione dell’architetto come ‘professionista del fare città’, depositario (non certo il solo!) di una cultura nazionale e disposto alla riflessione comune con altre figure professionali umanistiche. 9. raccontare la città come laboratorio totale, in cui materia, progetto, cultura e società civile devono lavorare di comune accordo su obiettivi condivisibili 10. promuovere una maggiore collaborazione con gli istituti di ricerca (non solo universitari) per aderire maggiormente alla realtà urbana.


3. Strategie 1. Ricostruire la centralita' del concorso di progettazione finalizzato alla costruzione del manufatto architettonico, abolendo il concorso di idee che dissipa di fatto energie, produce burocrazia e serve solo a scopi politico­elettorali producendo nulla di fatto 2. Introdurre un riequilibrio nelle competenze e nei ruoli degli attori territoriali e urbani, riducendo (con la prospettiva di limitarne l’applicazione alle sole infrastrutture tecnologiche con ridotta necessità di progetto architettonico) l’adozione degli Appalti Concorso, Appalti Integrati e procedure di Project Financing. La storia recente ha mostrato che la loro applicazione di fatto consegna alle imprese e alla burocrazia amministrativa la totale gestione dei processi, generando scarsa trasparenza e, in molti sciagurati casi, un malaffare che alimenta la già scarsa fiducia nel progetto e nei progettisti. La subordinazione dell'architetto alle logiche dell'impresa edile ( e dell'amministrazione pubblica non virtuosa ma solo attaccata a logiche sperperative) ne sminuisce de facto il ruolo e accentua la distanza tra l'opera intellettuale e il cittadino (fruitore finale). In questo modo, come diceva De Carlo, l’architettura diviene sostanzialmente inutile 3. redazione di una Carta di Intenti per gli Architetti Attivi, in cui affermare i nuovi principi su cui impostare il rapporto tra la professione e la città futura 4. creazione di una specifica rubrica editoriale su Architetti Notizie, al fine di segnalare le innovazioni urbane e i propositi europei (come una continuazione ideale del testo già pubblicato dall’Ordine sugli ecoquartieri). Al fine di addivenire ad una governance della citta' (italiana) incentrata piu' sulla cultura del progetto che sulla “burocrazia del non­progetto” (in cui populismo, demagogia e inefficacia si sono intrecciati per anni, alimentandosi reciprocamente) bisogna avere l'umilta' di guardare a quanto avviene in paesi in cui i professionisti costituiscono un reale (ed efficace) patrimonio culturale per gli amministratori colti. Un esempio su tutti: in Svizzera il concorso di progettazione e' finalizzato alla costruzione, e l'amministrazione pubblica non viene in alcun modo coinvolta nel processo decisionale. Quest'ultima non gestisce il bando, demandando la totalità della procedura all'ordine professionale, il quale incarica un consulente privato di gestire e vigilare sul buon esito del concorso e sulla sua conseguente realizzazione. Cosi' facendo si eliminano gli sprechi pubblici, non si condizionano i professionisti politicamente e si dà attuazione all'impegno iniziale. Se applicata in Italia, questa procedura (chiara, meritocratica ed efficiente) produrrà automaticamente fiducia nei progetti ben fatti (in cui estetica, funzioni, giusto prezzo e realizzabilità riportano l’architettura ad essere arte di costruire 5. lavorare a proposte specifiche per un’Agenda Urbana di Padova (Cities of tomorrow, Unione Europea, politica regionale e urbana 2011), raccolte in una piattaforma web specifica, con pubblicazione annuale o biennale, alla stregua di http://popupcity.net/


6. coordinamento scientifico delle proposte pubbliche (mostre, convegni, conferenze, ecc…), possibilmente su linee tematiche condivise. 7. apertura a collaborazioni con esperti europei, sia in ambito publicistico (A.N.) che in ambito conferenziale. 8. I punti 6, 7, 8 e 9 (in Obiettivi) dovranno auspicabilmente essere inclusi in uno specifico nuovo modello di bando nazionale, aperto in modo universale (senza specifiche di genere, età, fatturato, CV o struttura organizzativa interna), incentivando in modo determinante la ricerca caso per caso e l’adozione dei soli Concorsi di Progettazione. Si dovrebbe dare un punteggio corposo all’innovazione, alla definizione di nuovi modelli insediativi, ma anche a strategie di finanziamento. Solo così si potranno spingere i raggruppamenti temporanei di giovani architetti (e geografi, economisti e sociologi, ecc…) a lavorare in team per produrre ricerca su temi specifici. 4. I 6 punti di lavoro condiviso 1­ CAMBIAMENTO: il cambio di prospettiva precede necessariamente ogni ipotesi collettiva che intenda essere efficace. Prima di poter pensare in modo innovativo occorre abbandonare quella inebriante sicurezza con cui gli schemi di pensiero precostituiti ci avvolgono. Cambiare il modo di vedere il mondo significa forse agire come esploratori, riscoprendo l’aderenza alla realtà. 2­ CULTURA: dalla ‘cultura della città’ dovremo passare ad una più efficace ‘educazione alla città’. Nel Boom dei ‘60 (da cui derivano le premesse dei PRG in fase di dismissione, ma che avranno ancora uno strascico nei PI) abbiamo assistito allo sviluppo incontrollato delle città e delle metropoli. Allora la preoccupazione era rivolta alla tutela dell’identità e della dimensione umana delle città. Oggi la città è diversa da allora, il rischio dello sviluppo incontrollato convive con quello della contrazione e l'abbandono di intere parti di città, logiche globali si intrecciano a strategie locali. E, nel mezzo, città e cittadini dovranno stringere una rinnovata alleanza, consolidando un nuovo tipo di lettura ‘in divenire’ della città. Il tema è complesso, comprendendo urban center, città metropolitana, agenda urbana, coworking per giovani professionisti, fablab per designer. Gli architetti ITALIANI devono proporsi come agenti di questa alleanza. 3­ PROFESSIONI: noi architetti vediamo la città come un insieme di opportunità, anche nelle situazioni più critiche. Il nostro è uno sguardo sintetico che vede forme che attraversano i tempi. Questa positività può completare nuove modalità di azione sul territorio, in accordo con le strategie economiche e politiche. I professionisti non sono solo tecnici, ma mediatori potenziali tra il pubblico e il privato.


4­ GLOBALIZZAZIONE: il mondo antropizzato, fin dalla comparsa delle prime civiltà documentate, è teatro di rivalità e concorrenze che si accentuano, mano a mano che le risorse si riducono o divengono meno accessibili. Oggi l’unico patrimonio italiano è costituito da: città storiche e paesaggio, capitale umano e sociale e innata inventiva. Ma devono essere messe a sistema con il nostro territorio da una ritrovata concordanza tra le parti sociali, i professionisti, il mondo imprenditoriale e produttivo, le accademie e la rappresentanza politica. 5­ CONCRETEZZA: aderenza alla realtà e pragmatismo dovranno essere il pensiero ispiratore e modulante di tutti, perchė non possiamo più permetterci di adeguarci pedissequamente agli schemi tradizionali della nostra professione, consolidatisi in un mondo diverso da questo e dunque a rischio di anacronismo in termini di efficacia. E’ nostro dovere, invece, adottare un "salto" controintuitivo. Un buon progetto non si basa solo sul risultato, ma anche sulla sua capacità di educare ad una efficace collaborazione, in tutte le sue fasi implementative, di tutti i soggeti coinvolti nel processo di trasformazione, ed i soggetti futuri che questa trasformazione dovranno, nel medio o lungo periodo mantenerla e rigenerarla ove ne fosse l’esigenza o il bisogno. 6 ­ LINK TRA ARCHITETTI E PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI: la professione dell’architetto, oramai è evoluta e cambiata moltissimo, rispetto a quella che ci veniva proposta o in qualche maniera indirizzata, dal mondo universitario; adesso l’architetto in qualche maniera è diventato più una persona, che specializzandosi in un proprio ambito di lavoro, deve comunque coordinare le diverse figure tecniche, professionali, artigiani, imprese, commitenti, e la pubblica amministrazione. Questo se da un lato, ha spostato una parte dell’attenzione dal progetto architettonico al processo edilizio, dall’altro lato ha fatto sì che l’architetto abbia sviluppato capacità relazionali e di mediazione, fra tutti i soggetti coinvolti, mettendolo in una posizione favorevole di osservazione, delle dinamiche socio­economiche in atto. Questo rivaluta il ruolo di architetto, che potrebbe tornare ad essere, non più un professionista specializzato in un ambito specifico, ma una figura trasversale, in grado di avere visioni strategiche e future. A partire da questo presupposto, la politica deve tornare a coinvolgere gli architetti, non solo nelle strategie di pianificazione territoriale o urbanistica, ma anche nelle visioni e nelle linee di inclusione sociale, di compartercipazione, anche attraverso le reti che si stanno sviluppando in diversi ambiti professionali, imprenditoriali e dell’associazionismo. Dal punto di vista pratico, gli architetti dovrebbero far parte, anche solo come terze parti, a prescindere da una scelta elettorale a seguito di consultazione elettorale, sopratutto nelle amministrazioni locali, in modo da aiutare i politici, scelti dai cittadini, nelle decisioni, nelle opportunità e nelle linee programmatiche per i piani strategici di mandato.


Questo rafforzerebbe il raggiungimento di un bene comune, in quanto culturalmente l’architetto è tenuto ad avere conoscenza, seppur in maniera non così specialistica ed approfondita, di moltissime tematiche che intervengono in qulasiasi processo di sviluppo antropico. La sua figura professionale è cambiata, o per le condizioni al contorno o per necessità, quindi la sua presenza, e l’accompagnamento alle Amministrazioni locali, deve diventare sempre di più una “best practices”; del resto dal punto di politico nazionale, si stà sempre più andando verso una semplificazione, sia nei processi di gestione del bene pubblico, delle risorse e gestione del del personale impiegato, e sia nei procedimenti autorizzativi, concessori ed abilitativi a carico dei privati, o più in generale del mondo economico e produttivo. La “massa” mobile ( cittadini) ed “immobile” (patrimonio edilizio esistente e nuovo) delle città, in realtà è in continua evoluzione, con esigenze di gestione sempre più importanti; la massa mobile , per natura si sposta, attraverso flussi migratori di persone che scelgono le città che possono offrire nuove opportunità di lavoro, di crescita culturale, di soddisfazione famigliare, o al contrario tornano a scegliere la campagna per sviluppare nuove opportunità di lavoro imprenditoriale legate all’agricoltura o all’artigianato; di conseguenza, a causa di flussi insediativi in entrata o in uscita, grandi parti di città necessitano quindi una rigenerazione urbana, che non deve escludere quelle dei cittadini che li vi abitano, o i nuovi che arriveranno ad abitare i nuovi quartieri rigenerati, o i territori e le campagne diffuse interposte tra le varie città e paesi del territorio italiano. La rigenerazione parte dalle persone, attraverso il loro lavoro, l’insediamento di nuove attività o il ritorno di attività artigianali che stanno scomparendo, e che portano alla circolazione di liquidità, e di conseguenza anche i luoghi del lavoro, piccole insediamenti artigianali e del commercio, i luoghi dell’incontro pubblico e dell’abitare, torneranno ad essere necessariamente rigenerati per le mutate condizioni ed attività, senza dover necessariamente scegliere di consumare altro suolo, creando dei vuoti urbani a seguito dell’abbandono degli edifici. Ne sono gli esempi i Contratti di Quartiere, che negli anni scorsi, a partire da delle problematiche di tipo sociale, sono andati a modificare, rigenerando od anche edificando ex­nuovo, parti di città destinate all’abbandono o alle marginalità sociale. In queste dinamiche l’architetto quindi, con l’esperienza accumulata in questo processo di cambiamento della sua professione, può diventare quindi una figura importante, competente e propositiva nel cambiamento in corso nel breve periodo, o nel lungo periodo, per visioni più innovative, sempre comunque orientate al coinvolgimento di tutti gli “attori protagonisti” nella città, la società civile, gli imprenditori, il mondo accademico e dell’istruzione, l’associazionismo e la Pubblica amministrazione, con il ruolo di quest’ultima di coordinatore, validatore e controllore dei processi di sviluppo e crescita.


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