Conversazioni ingiardino
Conversazioni in giardino
Trent’anni: un lungo appassionante dialogo con la Natura, con i nostri Colleghi e i nostri Clienti.
Ecco, sono loro i veri protagonisti della nostra storia
e a loro va il nostro affettuoso ringraziamento.
Daniela Villa e Franco Bergamaschi
Conversazioni in giardino
IDEAZIONE E GRAFICA: ANGELO SGANZERLA
Editing: Irvana Malabarba
Fotolito e composizione: Actualtype Srl
Stampa: Artegrafica Spa
Stampato su carta Shiro Bright White Recycled
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.
L UNEDÌ
«Robida? Albert Robida, quel matto di Saturnino Farandola? Ha scritto qualcosa sui giardini?»
«Non so, non credo. Quando da ragazzo mi guadagnavo abbastanza allegramente il pane lavorando per un’agenzia turistica a Parigi, mi era capitato di trovare al mercato di Vanves l’edizione originale di un suo libro. Costava poco, perché era abbastanza conciato. Devo averlo ancora, da qualche parte. Si intitolava Le Vingtième Siècle. La vie électrique. L’hai presente?»
«Sì e no. Ho visto riprodotte alcune illustrazioni.»
«Beh, ti ricorderai quei grovigli di città sviluppate in altezza, di ciminiere fumanti, sotto cieli coperti di nuvole di carbone e solcati da buffe macchine volanti. I disegni sono una delizia, con quell’accostamento di signore e signori in abiti e acconciature ottocentesche e quelle strane città postmoderne che non
avrebbero niente da invidiare al brulichio e al grigiore della Los Angeles di Blade Runner, se non fosse per le loro forme buffe, già un po’ Art Nouveau. Il libro è del 1884, cinque anni prima della Tour Eiffel, come se Eiffel con la sua costruzione in ferro avesse timidamente tentato di realizzare le profezie visionarie di Robida. Devo dirti la verità, quella scoperta fortuita mi servì molto per fare bella figura con i turisti. Più con le turiste, se vogliamo essere onesti. Ma l’immagine che mi è rimasta in mente è un’altra. Del tutto diversa. Tra quei bambini che nascevano in alambicco con una testa abbastanza grande per contenere tutto il cervello necessario a vivere in quel nuovo mondo mostruoso, tra tutte quelle anticipazioni della televisione e del videotelefono e della trasmissione di immagini olografiche, tra tutte quelle strane macchine volanti, mi aveva colpito un’immagine antica di quiete. Il posto mi era più che familiare. Era tra i preferiti dai turisti colti che si permettevano escursioni fuori da Parigi. Carnac. La conosci?»
«Come no. Con Stonehenge, è stata una delle grandi delusioni della mia modesta vita di turista. Sarò stato sfortunato, ma il giorno in cui ci sono arrivato c’era un migliaio di famigliole vocianti. Le più disinibite avevano apparecchiato per il picnic sui dolmen. Sacralità degli antichi monumenti celtici, ti saluto. Fra gli alberi ti aspettavi di vedere i classici nanetti da giardino, altro che i druidi con il falcetto d’oro.»
«Hai ragione. Ma io i miei gruppetti li portavo al mattino, prestissimo. E ce li tenevo finché non cominciava ad arrivare la carovana delle macchine. Così capivano che regalo gli avevo fatto. Ma per tornare a Robida, una delle tavole rappresentava una coppia sdraiata sull’erba all’ombra di un dolmen di Carnac. Era un’immagine idillica, come quelle che i pittori enplein air producevano a centinaia. Era, se vogliamo, l’unica immagine banale, convenzionale del libro. Non c’era nessuna visione del futuro, non c’era un briciolo di inventiva. C’era solo una coppia distesa a conversare, forse d’amore, all’ombra di un dolmen. Se non fosse sta-
to per la didascalia. Quel piccolo paradiso era una riserva naturale, recintata, mantenuta così perché gli uomini del ventesimo secolo, della vita elettrica, potessero trovare un po’ di tranquillità, potessero riposarsi, riprendersi dallo stress della vita quotidiana. Tra tutte quelle immagini piene di cose futuribili, era la più esatta. Se non voleva soffocare, il mondo del futuro avrebbe dovuto conservare delle zone franche. Tu sei cresciuto a Milano. Probabilmente non hai potuto vivere quasi giorno per giorno il cambiamento dei rapporti tra l’uomo e la natura. In una città come Lodi è stato più evidente e più doloroso. Una volta ti bastava uscire dal centro per arrivare subito tra i campi, e tra i campi c’erano le zone franche, potremmo dire le zone di rispetto, in cui l’uomo non interveniva o lasciava che la natura vivesse la sua vita. C’erano i campi, ma tra i campi c’erano i roccoli che gli agricoltori rinunciavano a mettere a coltura per lasciare sopravvivere fazzoletti di quella foresta che in tempi lontanissimi ricopriva la pianura padana. Uno storico della flora storcerebbe il naso se mi sentisse. Mi porterebbe in uno dei pochi roccoli sopravvissuti per mostrarmi piante, loro dicono essenze, che non potevano essere già lì. Piante che sono arrivate in questi posti da lontano e molto tardi. Io non posso parlare che della mia esperienza personale. Posso raccontarti della pianura e del fiume, dei campi e delle rogge di quando ero bambino, di quando mio padre mi portava a pesca con lui. Un racconto di Borges, mi sembra che si intitoli “Utopia di un uomo che è stanco”, comincia pressappoco con questa affermazione, perentoria come al solito: “Non esistono due monti uguali, ma in qualunque luogo della terra la pianura è una e medesima”. Quando scrisse queste parole Borges era cieco da un pezzo. Forse per lui la pianura non era che un concetto geometrico, una piano chiuso all’orizzonte da una linea retta. Non è vero che la pianura è dovunque la stessa. Se dopo un lungo viaggio alla cieca mi togliessero improvvisamente la benda nel mezzo di
una pianura, capirei immediatamente se quella pianura è la mia. Perfino adesso, quando ormai le pianure, almeno le pianure d’Italia, non sono spesso altro che il luogo di quel fenomeno impressionante che è la città continua, la città lineare che si snoda ininterrotta lungo le arterie di comunicazione, dove i comuni non sono più entità organiche, integrate tra centro abitato e campagna e incolti, ma solo unità amministrative i cui confini sono segnati da cartelli stradali, messi lì come per caso tra due edifici contigui e analoghi, che appartengono però a due comuni diversi. Il rapporto tra città e campagna, la possibilità di passare insensibilmente dalla piazza, in cui gli edifici dominano, alle zone periferiche dei giardini e da lì alla campagna, e dalla campagna a quel poco che millenni di lavoro umano hanno lasciato di natura, si è perso. Le fabbriche, i centri commerciali sono fonte e segno di benessere, sono indispensabili, sono inevitabili. Ma le cose sono andate, dal punto di vista estetico perlomeno, perfino peggio di come Robida avesse immaginato. Non è solo una questione di inquinamento dell’aria e dell’acqua. Sono prima di tutto gli occhi, e quindi i nostri sentimenti, il nostro cervello, a essere offesi. Le foreste di ciminiere, come poteva immaginarle un testimone dell’era del carbone e del ferro come Robida, viste con gli occhi di oggi, possono sembrare perfino belle. Non è solo una questione di nostalgia. Quegli edifici avevano una forma adatta alla loro funzione. Spesso rispondevano a un’idea di bello che non era il bello del far niente, del gioco, ma il bello del lavoro. Come nelle corti della pianura, in cui la casa del padrone costituiva un tutt’uno armonico con le abitazioni dei contadini e con le stalle e i magazzini. Accanto alle fabbriche sorgeva spesso la casa padronale, armonica, dal punto di vista estetico, con gli edifici destinati alla produzione. Era una continuazione amplificata, orgogliosa, del vecchio principio artigiano che diceva “casa e bottega”. Poi ci sono stati guai nel regno di Utopia. Fu Mies van der Rohe ad affermare “L’ar-
chitettura è la volontà del tempo concepita in termini spaziali. I materiali sono cemento, ferro, vetro. Niente ghirigori e torrette merlate. Una costruzione di travi che reggono il peso e di pareti che non reggono alcun peso [...] edifici consistenti in pelle e ossa”. Il principio agghiacciante, espresso esplicitamente, era, spero di citare giusto, che “l’individuo sta perdendo di significato; non è più il suo destino che ci interessa”. Non era più il destino dell’individuo che interessava all’architettura. Poi, lo sappiamo, Mies van der Rohe e i grandi dell’architettura razionalista hanno costruito edifici magnifici. Ma non hanno avuto nessun potere di controllare i loro imitatori. Lungo le arterie di comunicazione la campagna è stata invasa da parallelepipedi anonimi, di scatole simili a container con nessun rapporto con quello che contengono. Sarà per questo che, fin dall’inizio, all’Erbolario abbiamo dato tanta importanza alla confezione, ai recipienti. Volevamo
che il rapporto tra contenuto e contenitore fosse armonico, necessario direi. L’immagine desolante delle fabbriche anonime, costruite senza amore e senza rispetto per chi ci lavora e per chi ci passa accanto, ha governato le nostre intenzioni quando è stato il momento di costruire la nuova sede per i nostri laboratori. Non è stata una questione di immagine, di marketing. Chi vuoi che si preoccupi dove e in che condizioni vengono prodotti un’acqua di profumo o un sapone, una lozione dopobarba o uno shampoo? Ai nostri amici interessa solo che i prodotti siano buoni e onesti, che le essenze e le sostanze che contengono siano lavorate secondo metodi tradizionali e corretti. Una buona presentazione aiuta molto ad avvicinare nuovi clienti, ma solo la qualità del prodotto assicura la fedeltà del cliente. Quando abbiamo costruito la nuova fabbrica non abbiamo pensato ai clienti. Abbiamo pensato a noi, al nostro senso estetico, e alla sensibilità estetica e al benessere di chi lavora con noi.»
«Siete stati fin troppo discreti. Ogni volta che vengo all’Erbolario, anche adesso, dopo tanti anni, finisco per passarci davanti senza vederlo.»
«Mi scuso per l’inconveniente, ma va bene così. Gli impianti sono modernissimi, per rispondere a ogni necessità di sicurezza, di igiene, di comfort e di produttività. Come sai, i primi a lavorarci, dodici, quattordici ore al giorno, siamo noi. Ma la fabbrica l’abbiamo voluta discreta e antica. Chi non conosce la nostra storia potrebbe pensare di trovarsi davanti a un esempio di archeologia industriale. Ci piacciono i bei muri, gli intonaci discreti, il taglio elegante delle finestre, soprattutto gli spazi generosi, per chi lavora con noi. L’edificio dell’amministrazione ha la struttura e gli spazi di un’antica casa padronale, un grande atrio, scale ampie senza essere fastose, uffici confortevoli e un magnifico giardino d’inverno, dove esponiamo i nostri prodotti. Delle nostre buone intenzioni mi sembra se ne sia accorta perfino la natura. L’estate scorsa al tramonto c’era una mamma barbagianni che insegnava a volare ai suoi piccoli andando avanti e indietro dal tetto della fabbrica a quello degli uffici. Non c’erano rumori che la molestavano, non c’erano miasmi che la scacciavano. Dove la famiglia abbia il nido non l’abbiamo mai scoperto, ma che abitino da noi come nel solaio di una vecchia casa di campagna o in un vecchio fienile ci rassicura e ci conforta. La tranquillità della mamma barbagianni ci conferma che è possibile svolgere un’attività industriale in perfetta armonia con la natura.»
M ARTEDÌ
«Quando sono sceso dalla macchina al posteggio sono stato avvolto da un profumo molto intenso, veniva da un piccolo albero con i fiori bianchi.»
«Non è tanto piccolo. Sarà alto quattro metri. Credo che sia il massimo di sviluppo per la specie. È un Clerodendrum trichotomum. L’abbiamo piantato lì nello spiazzo, perché resta accostato al muro. È una pianta che ha bisogno di sole, ma teme molto il vento. Lì sta benissimo, fa una quantità di polloni. Se si vuole, da ogni pollone si può fare una nuova pianta. Attecchisce facilmente. È una benedizione, perché fiorisce adesso, nella tarda estate, tra agosto e settembre, quando molte fioriture sono finite. Con il suo profumo intenso è un perfetto portiere per una fabbrica che lavora con le essenze, non è vero? Peccato che la fioritura non duri più a lungo. Ma poi, anche se perde il profumo, diventa anche più bello. Fa delle bacche blu incoronate da calici persistenti rossi. È una meraviglia per gli occhi. Un difetto ce l’ha, a voler essere sinceri. Quando cadono e marciscono al suolo, le foglie non hanno un odore troppo buono, anzi, per dirla tutta, è abbastanza sgradevole. Bisogna rastrellarle via subito.»
«È una pianta che non mi ricordo di avere visto altrove.»
«Non ti sarà mai capitato di incontrarla nel periodo della fioritura. È una pianta abbastanza comune, sui laghi si vede spesso nei giardini. Ma se mi ci fai pensare, anch’io non me la ricordo da bambino. È una pianta che viene dal Giappone. Di questo ne sono sicuro. Ma non so quando sia stata importata in Italia. Secondo me non da tantissimo tempo, perché, a quanto ne so, non gli è stato affibbiato ancora un nome popolare. Anche se il nome scientifico che gli ha dato Linneo nel Settecento è un po’ inquietante. In greco vuole dire albero della sorte. Perché alcune specie hanno proprietà curative e altre tossiche. Con il Clerodendrum non si sa mai, almeno non si sapeva al tempo di Linneo, come andrà a finire. Forse ormai non lo avrà più un nome familiare, perché c’è sempre di meno una forma di giardinaggio popolare, i giardini domestici, per esempio, in cui le piante e i fiori prendevano nomi fantasiosi, evocativi. Come quell’albero in mezzo al giardino. Lo vedi?»
«Quell’acero?»
«Sembra un acero, non è vero? Come l’acero, ha le foglie palmate. Ma se lo osservi bene ha un portamento, un’architettura diversa da quella di tutte le specie di acero. Poi le infruttescenze sono particolari, sono dei globi con punte legnose, a metà tra quelli del platano e dell’ippocastano. È un albero che viene dall’America. Come chiamavi da bambino i semi dell’Aesculus?»
«Non so cosa sia l’Aesculus.»
«L’Aesculus hippocastanum, l’ippocastano. Quello che ha i fiori rivolti all’insù. Non hai mai letto Guido da Verona? Neanch’io. Mi ricordo solo un verso:
“Con i seni rivolti all’insù, come i fiori dell’ippocastano”.»
«Le chiamavo castagne matte, o castagne d’India, o anche manacrocc, o qualcosa del genere.»
«Ci facevi il sapone?»
«Il sapone matto, per gioco. Scavavo anche le castagne per farci pipette inutilizzabili. Su consiglio della nonna ne portavo sempre una in tasca contro il raffreddore. Ero sicuro che fosse un presidio infallibile, anche se prendevo lo stesso il raffreddore. Probabilmente perché cambiavo i calzoncini e lasciavo il manacrocc nella tasca di quelli da lavare. Anche adesso, quando alla fine dell’estate vedo per terra i manacrocc, non resisto alla tentazione di mettermene in tasca uno.»
«Vedi, chiamavi i semi dell’ippocastano castagne d’India. Era un nome popolare. Per dire che la pianta veniva da lontano. Secondo la storia della botanica l’ippocastano non viene così da lontano. Sembra che venga dall’Albania o dalla Grecia continentale. Nei nomi popolari le piante hanno spesso un’origine di fantasia. Anche perché un tempo si viaggiava poco. L’idea popolare della geografia era piuttosto vaga. Si confondeva facilmente l’Est con l’Ovest. Pensa a una pianta alimentare che fu fondamentale nella vita delle campagne, la pianta che insieme alla patata permise di vincere in Europa le carestie ricorrenti, il mais. Non lo chiamiamo ancora granoturco, anche adesso che sappiamo benissimo che è arrivato dall’America?»
«Non divagare, se no non mi raccapezzo più. Come si chiama infine quell’albero che mi sembrava un acero?»
«Liquidambar, si chiama. Non è un bel nome? Ambra liquida. Se produci un taglio nella scorza, esce una resina colore dell’ambra. In autunno le foglie pren-
dono un bel colore arancione intenso. È un altro dei nomi geniali di Linneo. Linneo andrebbe studiato da un punto di vista linguistico. Te lo immagini quel figlio di un pastore protestante nella semplice casa di famiglia, con le pareti tappezzate con le incisioni di fiori di Ehret, intento a scoprire l’ordine della creazione, a ritrovare i nomi che Dio stesso aveva immaginato per le sue creature?»
«Clerodendrum, Liquidambar. Quindi non sei un purista, di quelli che sostengono l’idea di giardini popolati solo da piante autoctone?»
«Se decidessi di piantare un boschetto di robinie, cosa diresti? La robinia è una delle essenze più comuni e più diffuse in Italia settentrionale. Fa dei bei fiori bianchi e profumati, il polline è molto gradito dalle api, che non sanno che il loro prodotto viene commercializzato come miele d’acacia. Ma anche se è una leguminosa e ha le spine, la robinia non è un’acacia. Robinia pseudoacacia si chia-
ma, finta acacia. In collina, con le sue radici, stabilizza il terreno, impedisce che frani alle prime gocce di pioggia, il suo legno è ottimo da ardere. È molto vitale, perfino infestante, direbbe qualcuno. Beh, la robinia, così lombarda, così familiare, è una pianta esotica. Come il Liquidambar,è arrivata dall’America. Si chiama così da un certo Robin che nel Seicento era il direttore del Jardin des Plantes, il giardino di acclimatazione di Parigi. Figurati che, quando si decise a piantarne un paio nel suo parco di Brusuglio, Alessandro Manzoni si affrettò a comunicare la notizia per lettera a un amico. E non era tanto tempo fa. Forse era il 1830 o giù di lì. La robinia era allora una curiosità esotica. Una bella pianta che bisognava farsi mandare da giardini lontani, su carri lenti, trainati da cavalli, dai vivai d’Oltralpe. Le piante sono pronte a viaggiare. Cercano nuovi spazi, nuove terre da colonizzare. Come tutte le specie viventi. Diversamente dall’uomo e dagli animali, le piante per loro costituzione non possono muoversi. Così affidano il loro seme, i loro semi, al vento, allo stomaco degli uccelli e dei mammiferi e, perché no?, all’industriosità, al desiderio di guadagno, al piacere estetico degli uomini. Sei mai stato alle Azzorre? Il fiore più presente, più pervasivo, felice di vivere fino sui cigli degli strapiombi, non lontano dal mare, è l’ortensia. Le foreste sono tutte composte di criptomeria, la bella conifera che compare sulle stampe giapponesi. Ortensie e criptomerie sono l’emblema stesso delle Azzorre. Compaiono sulle cartoline e sui dépliant turistici. Ma tu m’insegni che ortensie e criptomerie sono originarie del Giappone. Riesci a immaginare le coste della Sicilia senza le pale spinose del fico d’India o un vecchio parco senza il tocco scuro delle fronde della Magnolia grandiflora? Vengono tutti e due dall’America. Della magnolia si conosce persino il giorno in cui, alla fine del Settecento, fiorì per la prima volta in Europa. A Londra, nel parco di Kew, mi sembra. O era nei giardini dell’orto botanico di Chelsea? Ospitare nel proprio giardino, sulla propria
terra, piante straniere che vengono da altre parti del mondo, da altri climi, è quasi un dovere. Oggi nella Pianura padana sono quasi scomparsi i gelsi. Erano uno degli elementi più caratteristici del paesaggio della pianura lombarda. Te li ricorderai, tutti in fila, vecchi nani vittime della potatura, con il tronco tozzo e grinzoso e i rami giovani e sottili. Capitozzati si dice, con un termine tecnico che ricorda la decapitazione. Così martoriati, sminuiti nel loro portamento naturale, hanno dato da mangiare a generazioni e generazioni di contadini, hanno contribuito non poco a costruire la ricchezza della borghesia lombarda.»
«Mi ricordo soprattutto il dolce quasi nauseabondo delle more. E le magliette tutte macchiate di nero.»
«Quello delle more nere era il Morus nigra. Era una pianta che allignava. Allignava, senti come parlo bene? Sapendo che prendi appunti, mi intimidisco e uso le parole più difficili che conosco. Mi lascio andare. Che veniva su. No, è troppo. Cresceva, è la parola giusta, non troppo popolare e non troppo colta. Che cresceva in Italia già ai tempi dei Romani. Ne parla Plinio. Il nano capitozzato era il Morus alba Albus, bianco in latino, perché faceva le more bianche. Te le ricordi? Di una dolcezza disgustosa, hai ragione. Il Morus alba veniva dalla Cina. Importato forse al tempo di Giustiniano in Sicilia, quando si scoprì che il bruco del Bombex, che il baco da seta non gradiva altro cibo che le foglie del gelso cinese. Ben asciutte, mi raccomando. “Fresche le mie parole nella sera...
«“ti sien come il fruscio che fan le foglie / del gelso ne le mani di chi le coglie silenzioso...”»
«“E ancor s’attarda all’opra lenta / su l’alta scala che s’annera / contro il fusto che si inargenta / con le sue rame spoglie...” Te la ricordi anche tu? Io dai tempi del liceo o addirittura delle medie. D’Annunzio poi non l’ho più letto. Credo che non mi piaccia. Ma certi suoi versi sono un esempio perfetto di..., sai che
non mi viene in mente il nome, ...di quella figura retorica per cui con un verso, una frase, si comunicano sensazioni di origine diversa, uditive, visive, tattili...»
«Sinestesia, vuoi dire?»
«Sinestesia. Sapendola usare bene sarebbe l’unico mezzo per parlare di un giardino, per comunicare tutte le sensazioni che il giardino ti provoca contemporaneamente, suoni, profumi, colori. L’elasticità della terra sotto i piedi... i piedi che sprofondano un po’ dopo un acquazzone... i fili d’erba schiacciati dai tuoi piedi che si risollevano piano piano. È calcolando il tempo di ripresa dei fili d’erba che gli indiani delle praterie potevano calcolare che vantaggio avevano i nemici. Ti ricordi? Tu eri per Tex o per Pecos Bill?»
«Per Pecos Bill. Scusa se faccio il gendarme, ma tornerei alle essenze esotiche.»
«Beh, è un discorso infinito, se andiamo indietro nel tempo. Se il romano Lucullo, ghiottone sfrenato e soldato valoroso, non avesse importato la pianta dall’Oriente, pare che in Italia non ci sarebbero nemmeno le ciliegie da tavola, anche se c’erano i ciliegi selvatici. Per non parlare delle pesche, delle albicocche, delle arance, dei mandarini e così via. Non l’ha importata tutta Lucullo, questa frutta. L’hanno importata un po’ tutti, soprattutto anonimi mercanti che mantenevano aperte le strade commerciali con l’Oriente. Molta è stata importata dagli Arabi. Ma le strade percorse dalle piante sono difficili da ripercorrere. La mela d’oro, quella che Paride, il principe pastore, assegnò a Venere, nel primo concorso di bellezza della civiltà occidentale, era un’arancia? Nasceva nel giardino delle Espe-
ridi. Vesperum, Occidente. Gli antichi situavano il giardino delle Esperidi in Cirenaica, proprio vicino alla moderna Bengasi. Sai come si chiamava l’arancia in dialetto lombardo? Portugal, come in greco moderno, portocalì, come in turco, portakal. Si credeva che venisse da Occidente. E da Occidente è venuta, ma nel Medioevo. Dai giardini con cui gli Arabi avevano reso felice la Spagna meridionale. Oggi si sa che veniva dall’altra parte del mondo, dall’Oriente. Non sempre tutto va liscio con le piante di importazione. Ce ne sono che non vogliono acclimatarsi, e ce ne sono che hanno una vitalità e una intraprendenza preoccupanti. Prendiamo ancora le Azzorre, che sono abbastanza piccole, con poche varietà di piante, per essere un laboratorio perfetto. Sulle cartoline, oltre alle ortensie, si trova ormai un altro fiore. È un bel fiore a spiga, giallo, grande. Ha anche un buon profumo, dolce. Hedychium, si chiama, perché anch’esso è arrivato in Occidente troppo tardi per avere un nome popolare. Il fiore spunta senza stelo dalla cima a canne alte, formate da foglie ampie che si srotolano a sigaro. È la pianta più comune del sottobosco delle foreste himalaiane. Mi è capitato di vedere una fotografia di un leopardo che strisciava a caccia tra le foglie di Hedychium. È una bella pianta. Mi piacerebbe averne una macchia nel mio giardino. Ma è una pianta pericolosa. Nelle Azzorre è diventata infestante. Costituisce un sottobosco fitto nelle foreste di criptomerie e cerca di espandersi dovunque, di invadere le strade, i coltivi. Evidentemente ha trovato un clima molto stimolante. Per contenerla bisogna tagliare i rizomi legnosi con la motosega. Continuamente. E i rizomi tagliati vanno distrutti, perché possono germogliare anche dopo molto tempo, quando sono così secchi da sembrare morti e stecchiti. Ma anche da noi... Ogni tanto mi capita di strappare un ailanto. Mi piange sempre un po’ il cuore. Ma lo faccio per proteggere il giardino, le altre piante. L’ailanto non è brutta pianta, anzi. Quando è cresciuta ha un bel portamento, una bella chioma. Le foglie
composte sono molto belle. Hanno un cattivo odore, ma solo se le sfreghi. L’ailanto ha una vitalità impressionante. Le sue radici corrono sottoterra. Per decine di metri. Spuntano polloni dovunque. E dove non arrivano le radici, arrivano i semi. Uno, se non guardasse le caratteristiche anatomiche, potrebbe credere che si tratti di due piante diverse. Le belle piante che ombreggiano i viali delle città e i brutti arbusti che crescono dovunque, nei terreni abbandonati, tra le macerie, negli interstizi del cemento, dovunque ci sia un velo di terra per potere germogliare.»
«Sai che è vero. Una volta mi è capitato di vedere un arbusto che era cresciuto sottoterra, in un’intercapedine del marciapiede, davanti alla casa in cui abitavo allora. Non l’ho riconosciuto subito e ci ho messo anni per scoprire che era un figlio di uno dei maestosi ailanti che prosperavano in un viale lontano qualche centinaia di metri.»
«E poi l’Ailanthus altissima ha una storia. È stata scoperta in Cina da un missionario gesuita alla fine del Settecento, quando fare il missionario in Cina era piuttosto pericoloso. Era una pianta rara anche in Cina, evidentemente. Da noi è stata importata per la seta, quando la fillossera ha rischiato di sterminare il baco del gelso. Si è cercato di sostituirlo con un’altra farfalla associata a un’altra essenza. Ti è mai capitato di vedere quella bella farfalla notturna dai colori bruni? La farfalla più grande che abbiamo in Italia? Quando vola sembra una grande foglia morta.»
«Qualche volta. Non spesso. Una volta ne ho trovata una morente. Ho potuto guardarla bene. Tanti anni fa. Ero un ragazzino. Non sapevo che da noi esistesse una farfalla simile.»
«Anche dal bozzolo di quella farfalla si può ricavare la seta. Ma l’esperimento fallì. Oggi nessuno pensa più di produrre la seta da noi. Se qualche filanda è rimasta in piedi è stato grazie a quel movimento malinconico che si chiama ar-
cheologia industriale. È più conveniente importare la seta dalla Cina. Siamo tornati a essere tributari del Celeste Impero, come è avvenuto per secoli. Anche se le monete d’oro si sono trasformate in impulsi elettronici e la solare via della seta è diventata la cupa via del petrolio. Ci sono rimasti gli ailanti invadenti e le belle farfalle... che però si possono vedere solo di notte.»
«Deve essere meraviglioso questo giardino di notte...»
«Credo di sì. Ma non ho mai avuto l’occasione di passare una notte qui. Qui passo tutte le mie giornate. Dalla mattina presto alla sera. Quando i laboratori e gli uffici chiudono, me ne torno a casa. Tu mi hai sempre visto qui. Ma una casa ce l’ho anch’io. Con un altro giardino. Certo che di notte il giardino è meraviglioso. E terribile anche. Di notte tutto si anima. Quando si attutisce il rumore di fondo che accompagna le nostre giornate, quando si crea qualcosa che assomiglia al silenzio di un tempo, quando le auto si fanno più rare sulla strada, quando ci sono lunghi intervalli tra il passaggio di un motore e l’altro, si può trattenere il respiro per ascoltare i suoni della notte. Se l’usignolo laggiù fornisce l’accompagnamento orchestrale, gli altri abitanti del giardino cercano di fare piano. Fare piano, scivolare in silenzio nella notte, è necessario per mangiare e non essere mangiati. L’oscurità ovatta i rumori. Sembra che tutto sia pace e delicatezza. In realtà tutto è fame e pericolo, lotta per la vita. La barbagianni, che al tramonto ha insegnato a volare al suo piccolo, di notte lancia il suo verso stridulo e poi scende come un fantasma a fare la posta alla talpa. Tutte e due hanno sincronizzato l’orologio. Per la talpa l’orologio interno funziona alla perfezione, probabilmente dal giorno della creazione della sua specie. Quattro volte al giorno, a ore fisse, fa il giro delle sue gallerie e fa capolino da una talpaia.»
«Cos’è una talpaia?»
«Sono quei mucchietti di terra che mandano in bestia i contadini e i giardinieri. La talpa non è molto amata, tranne che dagli illustratori di libri per bambini, che le mettono occhiali dalle lenti spessissime. Ho letto di recente i risultati di un censimento. La popolazione si va diradando in modo preoccupante.
Intanto è scomparsa la professione del talpaio. Il talpaio era un signore specializzato a eliminare le talpe. Se non sei uno specialista, se non ne conosci le abitudini, se non sei una specie di etologo per necessità, le talpe non le prendi. Non mangiano bocconi avvelenati perché, diversamente da quello che credevano i contadini, non mangiano radici. Seguono una dieta stretta a base di insetti e lombrichi, che trovano sottoterra. Delle talpe si sapeva poco ancora nell’Ottocento. Hai mai letto la Storia naturale di Michele Lessona?»
«Non so neanche chi sia Michele Lessona.»
«Era un gran personaggio. Un bravo scrittore anche. Era professore di zoologia all’Università di Torino. È morto alla fine dell’Ottocento. Intorno al Novanta. Ha scritto anche un libro di morale laica di grande successo, Volere è potere.
Da bambino avevo in casa una vecchia edizione illustrata della sua storia naturale.»
«Io avevo ilBrehm.»
«Anch’io. Almeno il volume sui pesci, a quanto ricordo. Mio padre era un pescatore appassionato. Ecco, vedi che il Lessona lo hai incontrato? È lui che ha tradotto in italiano il Brehm. Non so se tutto, il volume dei pesci certamente. E ha firmato anche l’ampliamento sulla fauna ittica in Italia. Credo che la sua storia naturale non sia più pubblicata da molto tempo. Probabilmente è superata dal punto di vista scientifico. Ma è scritta in un modo fantastico. Da bambino mi piaceva molto. Ce l’ho ancora, con le coste staccate e incollate malamente. Potrei farla rilegare, non è vero? Mi piace di più così, con i segni dell’uso, della mia storia. Insieme a mio padre, quel libro mi ha trasmesso un grande amore per gli animali.
È uno di quei libri che trasudano amore oltre che conoscenza. Sono diversi, molto diversi dai libri di compilazione. Non vorrei sembrarti nostalgico, ma
libri così non ne ho più letti. Ti ricordi la Bur grigia, settanta lire ogni cento pagine? Per centoquaranta lire potevi comperare i volumetti di Marcel Roland, un altro naturalista delle razza dei Lessona. Nei libri per bambini ti proponevano un bestiario moralizzato, non c’era un vero amore per gli animali. Gli animali servivano da doratura, da zuccherino per farti mandare giù la pillola della morale. Erano uomini travestiti. Era la tradizione del Libro della Jungla di Kipling, di Topolino di Walt Disney. Sai che fatica poi a liberarsi da quella gabbia, per vedere negli animali, anche nei più umili, la bellezza e l’autenticità e non la bontà o la cattiveria, l’innocenza o la malignità? Per fortuna ci sono le barzellette. La sai quella della formica e la cicala? Dai, te la racconto, così smetto per un po’ di dire trombonate. La formica era laboriosa, ma non cattiva, solo un po’ moralista. E alla cicala, in fondo, era affezionata. Aveva lavorato tutta l’estate per mettere da parte le provviste per l’inverno mentre quell’altra sciagurata non faceva che cantare a voce spiegata. Senza pensare al domani. Quando era arrivato l’inverno la formica si era ritirata nella sua casetta linda con le tendine di chintz alle finestre e con su il grembiulino si era messa a preparare dolci e manicaretti. Più abbondanti di quelli che servivano a quietare il suo parco appetito. Quando quella sciagurata della cicala avrebbe bussato alla sua porta, lacera e smagrita, le avrebbe fatto una bella ramanzina sulla previdenza e l’operosità e poi le avrebbe dato da mangiare fino a farla scoppiare.
Un giorno, era il mattino presto, non l’ora di pranzo, la formica udì il rumore di una carrozza che si fermava davanti al suo cancello. Seguì con l’orecchio lo scricchiolio di passi sulla ghiaia del vialetto del giardino, attese il toc toc alla porta. Quando aprì e vide la cicala non pensò a farle la morale. La pietà era così forte da invitarla subito a mangiare. Il predicozzo glielo avrebbe fatto dopo.
Le sue certezze erano così salde da non permetterle di accorgersi che la cicala era
florida, truccata e profumata, con una pelliccia fino ai piedi e un grande cappello a tesa larga con in cima una selva di piume di struzzo. “Hai fame, vero poverina”. “Grazie, ma ho già fatto una colazione leggera. Sai, in viaggio preferisco non appesantirmi. Del resto devo stare un po’ a dieta, ho guadagnato un po’ di peso. Mangeremo insieme un’altra volta, magari quando torno ti invito al ristorante”. La formica non era mai stata al ristorante, non concepiva di buttare soldi, anche se i soldi erano di un altro, per mangiare quando in casa aveva tutto quello che le serviva. “Sai, sto partendo per Parigi. Quest’estate è passato un impresario, mi ha sentito cantare e ha fatto di tutto per scritturarmi per l’Opéra. No, volevo solo salutarti. Hai bisogno di qualcosa da Parigi?”. “No, no, non ho bisogno di niente”, disse la formica con le lacrime agli occhi. “Anzi, sì, un favore me lo potresti fare. Se ti capitasse mai di incontrare Monsieur de La Fontaine, ti dispiacerebbe mandarlo a quel paese da parte mia?”»
«E Monsieur de La Fontaine è servito.»
«A pensare che era una così brava persona. Riconoscente e coraggioso. La sai la storia di Fouquet?»
«No, ma c’entra col giardino?»
«C’entra, e come se c’entra. Fouquet si rovinò per un giardino. Insomma, per un giardino e qualcos’altro.»
«Me lo racconti dopo. Finiscimi la storia della talpa.»
«Della talpa e dell’orologio? La talpa non avrebbe nemici se non avesse la mania della puntualità. Vedi che le nostre cattive abitudini culturali si annida-
no nel linguaggio? Ho appena fatto un pistolotto sull’antropofor...»
«antrofor...»
«antropor...antropomorfizzazione, antropomorfizzazione. Ho appena fatto un pistolotto sull’antropo... morfizzazione che subito, per una metafora spiritosa, ci cado anch’io come una pera. La talpa potrebbe ridersela dei suoi nemici se il suo orologio biologico non fosse in perfetta sincronia con il tempo astronomico. Come fai a prendere una talpa? Vive sottoterra e quando è spaventata riesce a scavare una galleria alla velocità di un cavallo al galoppo. Almeno così sostiene il Lessona. Come fai a prendere una talpa? Hai idea di come è fatta la tana di una talpa?Dovrei disegnartela. È una meraviglia di ingegneria.
La tana vera e propria, la stanza da letto, per intenderci, è curata, ben imbottita di paglia e di foglie secche, ma soprattutto è molto sicura. Se è possibile, la talpa la scava in un posto abbastanza difficile da raggiungere dalla superficie, sotto una grande radice o sotto un muro. Non è molto ampia, circa otto centimetri, ma è circondata da due gallerie circolari, una più grande al livello della camera, alla distanza di una ventina di centimetri; l’altra, più piccola, corre parallela alla più grande, ma molto più in alto.
Dalla camera partono generalmente tre gallerie oblique che sboccano all’insù nella galleria circolare più piccola. Da questa, cinque o sei gallerie raggiungono la galleria circolare più grande e portano direttamente alla superficie, alternandosi però con otto o dieci rami che vanno in tutte le direzioni e che, a una certa distanza, piegano ad arco per immettersi nella galleria comune di passaggio. Dal fondo della camera scende anche una galleria di sicurezza che, con una curva, risale direttamente nella galleria di passaggio. Le pare-
ti della camera e delle gallerie che appartengono all’abitazione sono spesse, battute, lisciate. La talpa non pensa solo alla sicurezza, ma anche alla comodità: la galleria che va verso il fondo è coperta di un’infinità di detriti vegetali e animali raccolti in superficie, paglia, fieno, letame, foglioline tenere. Se è minacciata dall’alto, la talpa scosta il giaciglio e scappa dalla galleria che parte dal fondo; se il pericolo viene dai lati o dal basso, esce da una delle tre gallerie che portano alla galleria circolare piccola. È il concetto del labirinto. Anche il labirinto sotterraneo non è una invenzione originale dell’uomo. Non so se sia corretto dirlo, ma mi sembra anch’esso un esempio di bionica, una trovata umana ispirata direttamente alla natura. Anche per catturare le talpe i talpai si sono ispirati alla natura, probabilmente al barbagianni. Non è solo il buon lavoro dell’architetto a legare la fabbrica, la villa degli uffici e il giardino, è anche il barbagianni che si è installato da qualche parte nel tetto. È dal barbagianni che i talpai hanno imparato ad andare all’appuntamento con la talpa. L’aspettano all’uscita dal lavoro. All’ora fissa in cui esce a prendere aria.
Alle sette di sera, in ogni stagione. Più che i grandi cicli della natura è la talpa ad assicurarci che il tempo è circolare. La perfetta sincronia è la sua forza e la sua debolezza. Per fortuna per lei c’è l’ora legale. Mi hanno raccontato di un signore che aveva un orto devastato dalle talpe. Aveva fatto di tutto per eliminarle, ma non c’era trappola o prodotto chimico in grado di fare qualcosa. Tutti gli davano consigli, ma non c’era consiglio che funzionasse. Un giorno gli capitò di manifestare il suo cruccio al nipote di un vecchio talpaio. Il giovanotto si ricordava che il nonno aveva un modo infallibile per catturare le talpe. Le aspettava alla talpaia a un’ora fissa, alle sette. Il signore non aveva troppa fiducia nel cronometro della natura. Andava all’appuntamento
mezz’ora prima e aspettava invano di vedere spuntare la talpina fino a mezz’ora dopo l’ora stabilita. Per quindici giorni, ogni sera alle sei e mezza, era nell’orto con intenzioni omicide, che la frustrazione aumentava sera dopo sera. Poi rinunciò, liquidando come frottole tutte le credenze popolari. Gli ci volle del tempo per rendersi conto che c’era l’ora legale, che per quindici giorni era andato all’appuntamento un’ora prima.»
«Poi funzionò?»
«Credo di sì. Preferisco non pensarci.»
«Hai un grande amore per le talpe.»
«Odi et amo. Vedi com’è bello il prato? Più il prato assomiglia a un panno di biliardo più è bello. Ma un bel prato liscio, verde brillante, ha ben poco di naturale. L’intervento dell’uomo è costante. Bisogna seminare un’erba docile e resistente e impedire che i semi vaganti delle altre erbe mettano radici. Se arriva una talpa a rovinare l’opera con i suoi monticelli, un giardiniere non è contento. Non so quale sia il bilancio tra l’azione benefica delle talpe e l’azione nociva. La talpa mangia gli insetti e le larve degli insetti dannosi, ma mangia anche i lombrichi, che con il loro metabolismo aiutano a concimare il suolo. Non mangia le radici, come credono i contadini, ma le spezza per scavare le sue gallerie. Il prato di un giardino non ha niente a che vedere con uno di quei bei prati di montagna, dove puoi contare decine di specie diverse, dove gli insetti ronzano felici. Come erborista, sono quelli i prati che mi piacciono, i prati naturali. Ma in un giardino attorno a una casa non puoi tenere un prato così.
Un prato spontaneo ai margini di una città acquista subito l’aspetto di un terrain vague, di un terreno abbandonato. In sé, le erbacce, le malerbe sono belle. Prendi la più comune, quella che perfino nel linguaggio porta con sé una brutta nomea. Se non la guardi con l’occhio del giardiniere, anche la gramigna a suo
modo è una bella pianta. Nei climi caldi la coltivano persino. Ma da noi è infestante, ostinata, difficile da strappare. Arriva dovunque, dai terrapieni delle ferrovie alle risaie, si trova bene dappertutto. È davvero una malerba, anche se del tutto inutile non è. Un tempo i rizomi venivano usati in medicina. La mia professione ha anche questo di bello, che mi stimola a osservare da vicino la natura. È per questo che nessuna pianta mi è indifferente.»
G IOVEDÌ
«Non ho mai sentito parlare di un giardino in questi termini. Sembra che per te il giardino sia una cellula sana del mondo, una specie di cellula staminale capace di rigenerare il tessuto del paesaggio intorno a sé.»
«Neanch’io ho mai pensato al giardino in questi termini. Non sono così ambizioso. Ma nella tua immagine qualcosa di vero c’è. Solo in apparenza il giardino è un luogo chiuso, separato dall’esterno. In realtà, se ci si pensa, c’è un fitto rapporto di scambio tra un giardino e l’ambiente circostante. I semi volano, gli animali si spostano. Non riesco a immaginare quali effetti il mio giardino possa avere sull’ambiente circostante. Metti che io mi decida a piantare una Buddleia. Hai presente qual è? È un cespuglio che fa quei fiori a pannocchia, lilla, che assomigliano un po’ a quelli della serenella. Molto probabilmente attirerà le farfalle. Non per niente lo chiamano albero delle farfalle. Le farfalle non resteranno solo all’interno del giardino, ma voleranno nei prati intorno, nei giardinetti delle case dall’altra parte della strada. Sembra niente, ma le farfalle sono delle guide sapienti ai fiori. Se segui gli andirivieni di una farfalla riesci a scoprire una quantità di fiorellini selvatici che altrimenti non avresti mai visto. È rincorrendo le farfalle, osservando con l’occhio del cacciatore i loro gusti alimentari, per prevedere dove si sarebbero posate la prossima volta, che da bambino ho scoperto che anche le erbe spontanee, le malerbe, fanno dei fiorellini minuscoli, ma molto complessi, molto belli. Credo che non si ami davvero la natura se non si è imparato ad apprezzarla nelle sue manifestazioni meno vistose. Solo un eccentrico di professione ti dirà che non ama i fiori. Ma amare i fiori nella loro bellezza gloriosa non è ancora amare, capire la natura. È facile trovare bella la tigre e commuoversi se si legge che la sua esistenza, in quanto specie, è minacciata. Ma chi si preoccupa se scompare una specie di coleottero? Solo pochi individui eroici,
tra i quali non mi metto, ma che ammiro moltissimo. Fanne quello che vuoi, non scriverla se ti sembra inutile, ma vorrei raccontarti la storia del Carabus olympiae e di Mario Sturani.»
«Non so chi siano, l’uno e l’altro.»
«Non è grave. Non lo sa quasi nessuno. Mi servono per farti capire qual è in fondo la mia idea di giardino. Non è una storia lunga. C’è però una data quasi esatta, conservata negli annali di entomologia. È il settembre 1834. C’è un luogo preciso, che non sarebbe difficile rintracciare. Io so solo che era una valle del Piemonte, intorno ai millequattrocento metri. Una ragazza, che immagino bella e bionda, vede su un sentiero un oggettino luccicante, che sembra un gioiello fatto da un orefice sapiente che ha voluto accostare l’oro verde all’oro rosso. Si china a raccoglierlo. È un insetto morto, che non ha mai visto. I coleotteri hanno spesso riflessi metallici. Pensa alla comune cetonia dei nostri giardini, con le sue elitre verdi brillanti. Olimpia, che è una villeggiante speciale, conserva l’insetto e lo porta a Torino per mostrarlo al cugino Eugenio. Il cugino Eugenio Sella è un personaggio importante. Insieme ad altri della sua famiglia è uno dei profeti dell’alpinismo italiano. Ma è anche un entomologo di fama internazionale. Il gioiello di Olimpia appartiene a una specie non classificata. Non è un caso eccezionale. Quante sono le specie classificate di coleotteri? Mi sembra di ricordare che siano circa trecentomila. Si calcola che ce ne siano altrettante non ancora classificate. La maggior parte na-
turalmente nei recessi delle foreste pluviali, soprattutto in Amazzonia e in Borneo. Non è escluso che ce ne siano alcune anche da noi, magari non vistose, non di una bellezza appariscente. Spesso una specie di coleottero vive in un areale molto ristretto. Si trova lì e in nessuna altra parte del mondo. Era il caso del carabo di Olimpia. Era sfuggito alla scienza perché era passato inosservato ai montanari della zona. Era un carnivoro, si cibava di chiocciole e altri animaletti, viveva nei boschi, passava la maggior parte del suo tempo sotto le pietre, non minacciava i raccolti. I montanari di quella valle, come tutti i contadini, erano utilitaristici. Per loro il mondo era fatto di esseri utili e di esseri dannosi. Il resto non lo vedevano proprio. Il Sella classificò il carabo. In onore della cugina che lo aveva trovato lo chiamò Carabusolympiae. Era bellissimo, rarissimo, aveva un nome classico, affascinante. Divenne l’oggetto del desiderio degli entomologi e dei collezionisti di tutta Europa. I prezzi salirono, nella valle arrivarono mercanti tedeschi disposti a pagare un esemplare dieci lire. Fino alla prima guerra mondiale dieci lire erano una monetina d’oro, d’oro come il carabo, oppure due grosse monete d’argento. In città costituivano la paga di dieci giornate di lavoro, in montagna erano una piccola fortuna. Tutti gli abitanti della zona, bambini e vecchi compresi, si misero alla caccia del carabo di Olimpia. Fu una sorta di corsa all’oro che provocò rivalità tra i montanari. I quali erano però pronti a comporre i loro dissapori, a dimenticare le invidie, quando si trattava di respingere cercatori venuti da fuori. I metodi furono spicci, non sempre incruenti. Ci furono gambe e teste rotte. La guerra del carabo di Olimpia finì alla vigilia della grande guerra. Ma non per onorare l’adagio che dice minor cessat ubi maior, le piccole cose spariscono di fronte alle cose più grandi. Nel sangue di quei montanari il tasso di patriottismo era piuttosto basso. La pace tornò nella valle perché ogni pietra era stata ormai rivoltata, ogni carabo di Olimpia catturato e venduto. Co-
sì, quando da Torino arrivò Mario Sturani, i valligiani lo osservarono divertiti mentre tornava a rivoltare inutilmente le pietre. Se vuoi, questa e altre storie di coleotteri le puoi leggere in un libro bellissimo, pubblicato da Einaudi nel 1942, nel pieno di un’altra guerra. Si intitola Caccia grossa tra le erbe. L’autore è appunto Mario Sturani. È un libro nella tradizione dei classici del genere, i Ricordi di un entomologo di J.H. Fabre o La grande lezione dei piccoli animali di Marcel Roland, uno di quei libri che cercano, spesso invano, di vincere il disinteresse, quando non addirittura il ribrezzo, della gente per tutti gli animaletti che non siano domestici.»
«E tu?»
«Io no. Quand’ero ragazzo, nella vecchia casa, un topolino aveva fatto il nido proprio sopra il letto. Ci tenevamo compagnia. Io gli davo da mangiare sollevando il braccio. Mi mangiava dalla mano. Abbiamo convissuto a lungo. Per me è stato un dramma cambiare casa. Non potevo portarlo via perché andavo ad abitare in un appartamento dove non poteva vivere. Ho dovuto lasciarlo lì, sapendo che lo condannavo allo sfratto, se non a morte. L’amore, la familiarità con gli animali, anche i più piccoli, i più insignificanti secondo il sentire comune, li ho assorbiti da mio padre. Mio padre faceva il pubblicitario, lavorava a Milano, ma non aveva mai voluto trasferirsi nella grande città. Preferiva restare a Lodi, perché le sue gioie più grandi le trovava nella vita semplice, a contatto con la natura. Sturani invece era un intellettuale. Apparteneva a quell’ambiente torinese di Gobetti e compagni, quell’ambiente che girava intorno al professor Augusto Monti che, se non mi sbaglio, era addirittura suo suocero. Era anche un artista che si dedicava alle arti applicate. I modelli più creativi e innovativi delle ceramiche Lenci sono suoi. Hai letto Moby Dick o Huckleberry Finn?»
«Tutti e due.»
«In che edizione?»
«In un’edizione bellissima, che avevo in casa. Me li ricordo ancora. Sulla copertina di Moby Dick c’era una balena bianca con la coda al vento.»
«Ecco, vedi che conosci lo Sturani? Il tuo Moby Dick era un’edizione della Frassinelli di Torino. Fra le tante altre cose Sturani faceva anche le copertine per la Frassinelli. Sono state quelle copertine a invogliarmi a leggere libri che altrimenti non avrei forse mai letto. In Caccia grossa tra le erbe,però, Sturani non racconta tutta la verità. A fin di bene commette un peccato di omissione. Lascia credere di non avere trovato il carabo d’oro. Ma non andò così. Nonostante lo scetticismo dei valligiani trovò il carabo dei suoi desideri, ma quando l’ebbe in
mano il senso di responsabilità vinse la smania del collezionista. Cercò in un’altra valle un bosco che avesse le stesse caratteristiche e, in gran segreto, vi trasferì gli esemplari che era riuscito a trovare. Lì nessuno li avrebbe cercati e forse la specie che la bellezza e la rarità avevano condannato all’estinzione si sarebbe salvata. Ebbe ragione. Oggi il carabo di Olimpia è una delle trecentomila specie di coleotteri che esistono ancora. Anzi, è diventato il simbolo, il logos di un’altra impresa meritevole sulle Alpi piemontesi, l’Oasi Zegna. È il grande industriale tessile che l’ha voluta per restaurare un ambiente alpino. Sembra che i soldi si possano guadagnare e spendere in modo onesto, in modo che la comunità ne abbia beneficio. In natura l’uomo non può creare nulla, ma può fare qualcosa per rimediare alla sua insipienza distruttiva. Mi permetti un predicozzo? Ciascuno nell’ambito delle sue capacità può fare qualcosa per restaurare il mondo. Può incoraggiare la natura a curarsi da sola. Hai visto quanti fagiani ci sono in giardino? Se fai attenzione, vedrai anche le lepri. Oltre la roggia ci sono tre tane di tasso. Sono animali che da queste parti non si vedevano da un pezzo. Ma nella mia terra i cacciatori non possono entrare. Sono bastati sette anni, e tutta la zona si è ripopolata, anche fuori del giardino. Conosci l’acquario di Milano?»
«Certo. È un po’ piccolo, ma è un edificio molto curioso. Da bambino mi piaceva da matti l’acqua che usciva dalla bocca dell’ippopotamo. È come un doccione di una cattedrale gotica.»
«È una caratteristica dello stile Liberty. L’acquario era uno dei padiglioni costruiti al parco del Castello per la grande Fiera del 1906. È l’unico che sia stato conservato. Il Liberty, il più artificioso degli stili, è anche quello che ha preso spunto sistematicamente dalla natura. Da noi magari in un modo vistoso, con gli iris, il glicine, le rose. In Italia è stato uno stile di importazione. Te lo dice il nome stesso. Liberty non era che una ditta inglese specializzata nella produzione e
nella vendita di stoffe e oggetti Modern Style o Art Nouveau. Ci sono ancora i magazzini Liberty, a Londra, tra Regent e Oxford Street. Ma in giro per l’Europa la ricerca sulle forme vegetali e animali è stata molto profonda. Ci sono centinaia di splendidi album che insegnano a utilizzare le forme della natura nelle arti decorative. E non si limitano ai fiori o agli uccelli variopinti. Una grande fonte di ispirazione sono stati gli insetti con la loro varietà infinita di forme. Ma la ricerca degli artisti si è spinta anche oltre, fin nel regno degli esseri minuscoli, invisibili a occhio nudo. Ricordami di mostrarti un libro tedesco, in realtà pubblicato anche in Italia. Si intitola Forme artistiche della natura. Rappresenta, a beneficio degli artisti, le forme fantastiche di protozoi e altre creature che non si possono vedere a occhio nudo. Tanto per dire che non ci sono in natura esseri che non possano stimolare il senso estetico. Scusa se divago. Ti ho chiesto dell’acquario perché vi è successo un fatto curioso, che mi pare illustri bene il concetto della natura che restaura se stessa con l’aiuto dell’uomo. A scopo didattico sono stati ricreati all’aperto alcuni ecosistemi. Tra questi c’è la roggia, caratteristica della pianura lombarda. Non era completa, ci mancava qualcosa. C’erano alghe, erbe, piante, pesciolini, anfibi. C’era l’Hydrometra, l’elegante insetto che cammina sull’acqua, c’erano le Calopterix, le sottili libellule blu e verdi che hanno il vezzo di accoppiarsi sui fili tesi dalla corrente delle erbe acquatiche. Era una ricostruzione quasi perfetta, ma era sempre un ambiente artificiale in cui l’equilibrio tra le specie doveva essere ge-
stito dall’uomo. Perché l’equilibrio si mantenesse da solo mancava il predatore alfa di quel sistema. Mancava il martin pescatore. Ma arrivò presto. Da dove non si sa. I martin pescatori hanno le ali, possono volare dovunque, ma come avranno fatto a sapere che in pieno centro di Milano era stata aperta una ricca riserva di caccia a loro uso e consumo?»
«Anche gli animali si possono importare?»
«No, gli animali è meglio lasciarli dove sono. Volano, camminano, strisciano. Vanno dove vogliono o dove possono. Non hanno bisogno di essere trasportati. Importare animali estranei a un ecosistema è molto pericoloso. Pensa solo a Cip e Ciop, gli scoiattoli americani dei cartoni animati della nostra infanzia. Qualche benintenzionato ne ha liberato una coppia in Piemonte, solo per scoprire che quei protagonisti sbarazzini e ruffiani dei cartoni animati erano dei conquistatori spietati, pronti a contendere albero dopo albero, bosco dopo bosco ai meno attrezzati scoiattoli rossi nostrani. Adesso la specie degli scoiattoli rossi da noi è minacciata. È pericoloso intervenire nella natura con i nostri sentimenti. Ti racconto una mia storia, un caso di coscienza. Quando le lepri cominciarono a frequentare il giardino ci capitava spesso di interrompere il lavoro per osservarle. Un pomeriggio stavamo seguendo il gioco di un piccolo che esplorava il suo
mondo con saltelli e fremiti di orecchi e di naso. Eravamo alla finestra, istupiditi dai sentimenti, ci scambiavamo sorrisi. Eravamo – si dice ancora? – in brodo di giuggiole. Ma non eravamo i soli a seguire le prodezze del leprotto. Con intenzioni meno benevole, ma un’emozione altrettanto intensa, una poiana seguiva i suoi movimenti dall’alto. Anche le sue ali fremevano impercettibilmente mentre restava in surplace in cielo. Erano due spettacoli magnifici nel loro contrasto. A un certo punto ci rendemmo conto del dramma cui stavamo assistendo. Forse non era troppo tardi per intervenire. Ma esitammo, ci trattenemmo. La picchiata del falco, gli ultimi colpi d’ala rasente al prato, gli artigli che si chiudevano sul dorso di quell’esserino che mi sarebbe piaciuto prendere in braccio mi sono rimasti nella mente. Ma sono contento di non essere intervenuto. E non credo di essere insensibile. Quando trovo un animale ferito, pianto lì tutto e lo porto dal veterinario. Ma la compassione vale per tutte le creature. Anche per la fame del falco.»
«Vale anche per gli insetti dannosi?»
«Mi provochi? Mi hai mai visto con una mascherina di garza per non ingoiare i moscerini con il respiro? O spazzare il suolo davanti ai miei piedi per non schiacciare le creature minuscole che strisciano a terra? Anche se porto dal veterinario qualsiasi animale che trovo ferito, non ho costruito un ospedale per animali. Non sono un jain indiano. La mia compassione non è di origine religiosa. Sono un uomo, il predatore alfa dell’intero creato. L’unica differenza tra noi e il falco è la consapevolezza. Il falco non può evitare di mangiare il penultimo esemplare della specie delle lepri. Io posso fare i conti e smettere di infierire su una specie prima che sia troppo tardi. Ma per il resto devo difendere il mio diritto di vivere. E alla nostra specie per vivere è necessaria la bellezza. Il giardino è soprattutto bellezza.»
V ENERDÌ
«Dove eravamo rimasti?»
«Parlavi della bellezza del giardino.»
«È vero. Ma prima ti devo una risposta. Mi avevi chiesto degli insetti dannosi. Cosa c’è di più bello in un giardino delle rose? Non c’è primavera che non ne attenda la fioritura. Quando hanno i boccioli non c’è giorno che trovi qualche minuto per vederne i progressi. La mia ambizione sarebbe di cogliere il momento in cui si aprono. Mi piacerebbe essere come una di quelle cineprese che impressionano un fotogramma alla volta, a intervalli di minuti, di ore, in modo da potere cogliere il magnifico spettacolo della sbocciatura. Le rose sono come le abbiamo volute noi. Per gli scopi della specie – crescere e moltiplicarsi – alle rose bastavano i piccoli fiori a cinque petali. Per il proprio piacere estetico, per godere meglio della bellezza delle forme, delle sfumature dei colori, dell’intensità del profumo, nel corso dei secoli, ma soprattutto nel secolo scorso, i giardinieri hanno sviluppato un numero incredibile di varietà. Nel bagaglio genetico della specie tutta quella bellezza c’era in potenza, ma in pratica era equilibrata da altre caratteristiche, meno apprezzabili dal punto di vista del piacere dei sensi, ma altrettanto necessarie alla rosa per vivere. La grandezza dei fiori è andata a scapito della resistenza ai rigori del clima e all’aggressione degli animali. Di una bella donna dalla salute fragile si diceva una volta che era un fiore di serra, una creatura che andava curata, trattata con delicatezza. Abbiamo arricchito il mondo di creature bellissime, ma cagionevoli, deboli nei confronti degli agenti ostili. È nostro dovere proteggerle. Pensa alle rose che stanno per sbocciare, che nelle spaccature del bocciolo mostrano già il loro colore. Sono già sbocciate nella tua immaginazione, quando ti accorgi che la base dei boccioli è ricoperta da un’infinità di animaletti verdi. Se li osservi con una forte lente di ingrandimento ti ac-
corgi che sono dotati di un pungiglione. Se ne servono per suggere la linfa della rosa. Sai già che cosa succederà se non intervieni. I boccioli ingialliranno e cadranno prima di sbocciare. Se l’equilibrio naturale è buono, sarà la catena alimentare a salvare le tue rose. Liberare manualmente le rose dai microscopici insetti non serve granché. Gli afidi, i pidocchi dei roseti, i pucerons, le pulcette, come dicono i francesi, si riproducono con una velocità straordinaria. Hanno una forma di generazione che non si trova presso altri insetti. Non depongono uova e non conoscono la metamorfosi. Nella bella stagione un individuo depone in media cinquanta pidocchietti già formati, che in capo a quindici giorni sono in grado di dare vita a nuovi pidocchietti. E così via. È per questo che, anche se ripulisci manualmente un roseto, dopo pochissimo tempo lo ritrovi pieno di pidocchi più affamati che mai. Pensa alla progressione matematica. Si arriva in un batter d’occhio a cifre vertiginose. Un pidocchietto genera cinquanta pidocchietti, i quali a loro volta ne generano duemilacinquecento, i quali ne generano centoventicinquemila, i quali... Con quattro generazioni, in soli due mesi, siamo già arrivati a milioni di afidi. Partendo da un solo progenitore. Se non facessero parte della catena alimentare, gli afidi ricoprirebbero in poco tempo il globo. Ma per fortuna ci sono altre creature che trovano prelibati i pidocchietti. Gli uccellini appena usciti dal nido, per esempio, ne fanno scorpacciate. Ma anche altri insetti. C’è un bruco con peli rigidi, color ardesia con macchie gialle, che si dà un gran da fare. Non immagineresti
mai chi sia. Per riconoscerlo devi aspettare la metamorfosi. È il più celebre e il più amato dei coleotteri. È piccolo, rotondo, rosso, con sette puntini neri. È l’amata coccinella che si dice porti fortuna. La nostra fortuna è il suo appetito. È una grande sterminatrice di afidi. Niente però al confronto del leone degli afidi. Sarebbe meglio chiamarlo tigre degli afidi, perché da adulto avrà il corpo a strisce gialle e nere. È la larva di un dittero, una mosca. Si chiama sirfo, Episyrphus balteatus. Nei colori imita la vespa. Per scoraggiare gli uccelli. In natura il giallo accoppiato al nero è un segnale d’allarme. Non toccarmi, se no ti pungo, dice la mosca. In realtà è una sbruffona innocua. Non ha pungiglioni né veleno. Gli adulti si nutrono solo di polline e di nettare. Sono molto utili per l’impollinazione. Ma hanno la buonagrazia di deporre le uova direttamente nelle colonie di afidi. Le larve sono voracissime. Una sola riesce in due o tre giorni a ripulire un intero ramo di un roseto. Le formiche che frequentano le colonie di afidi invece non servono a proteggere la rosa. Non si cibano di pidocchi. Li mungono. Li titillano con le antenne sulla pancia per fare loro secernere una sostanza zuccherina che gradiscono molto. Anche altri insetti, per motivi egoistici s’intende, collaborano a difendere le rose. Ma anche se si riesce a ricostituire una catena alimentare corretta, spesso non basta. Bisogna intervenire. Sempre con prodotti naturali, però. Con aspersioni e fumigazioni. Acqua salata, acqua di sapone, acqua di calce. Decotti di tabacco, di foglie di noci, di aloe, di assenzio. Polvere di piretro e di artemisia. Gli afidi detestano l’amaro. Vedi quanta collaborazione tra l’uomo e la natura c’è in un roseto, in un mazzo di rose, in una rosa, nei pochi petali che al ristorante galleggiano nella tazza di acqua per pulirti le mani?»
«E quanta cultura.»
«Perfino troppa, per non perdersi. Non vorrei parlare del giardino, dei fiori, dei frutti dal punto di vista della cultura. Mi confondo solo a pensarci. Per
perdere l’orientamento mi basta ricordare che la parola paradiso in persiano non significa altro che giardino. Quando avverto la sensazione dolorosa di essere separato dalla natura, mi basta passeggiare in giardino. Lo faccio come un buon padrone che controlla come procede la maturazione dei frutti, che si accerta che le piante non abbiano bisogno del suo intervento. In realtà non sto curando il giardino. Mi sto curando. Grande e grosso come sono, ho qualche pudore ad ammetterlo, ma credo di essere in cerca di attimi irripetibili in cui la vita si svela in un particolare fuggevole. Il pettirosso sul ramo basso di un cespuglio, la merla che raccoglie un filo di paglia dopo l’altro per costruire il nido, il piccolo del verdone che batte le ali ben aggrappato a un rametto di ciliegio, il fagiano che cammina impettito tra l’erba. Pitture giapponesi, mi dirai. Lo so che ognuno guarda il mondo attraverso la lente delle immagini che ha in testa. Ma quello che voglio è tornare bambino, tornare a provare quel senso di pienezza, di solidarietà con la natura che avvertivo quando giravo nei campi o pescavo sul fiume con mio padre. Non fraintendermi. Non sto dicendo che la cultura sia nulla. So apprezzare un bel verso. Mi lascio sedurre da un pensiero fine. Ho perfino imparato a memoria qualche passo. Non di recente. Quando ero più giovane. Non ci credi? Preferisci che ti reciti il Cavalier Marino o Dante Alighieri? La rosa come creatura di Venere? O la rosa come metafora del Paradiso e quindi del giardino? Forse preferisci risparmiarti una scena pietosa. Hai ragione, come fine dicitore non sono un granché. Da queste parti si dice “ofelé fa el to mesté”, che tradotto in lingua significa “pasticciere fa il tuo mestiere”. Ma due versi del Marino fammeli dire. Poi magari li cancelli. “Fama è che Citerea / col suo leggiadro Adone / ne l’acerba stagione / cacciando un dì correa, quando a la vaga dea / spina nocente e cruda / punse del bianco piè la pianta ignuda. / Ne la bella ferita / la rosa allor s’intinse e il suo candor dipinse”. Non spellarti le mani ad applau-
dire. Tra gli dei e i fiori c’è un patto di sangue. Sarà il sangue di Adone, ferito a morte dalle zanne di un cinghiale, che darà il suo colore all’anemone rosso. C’è consanguineità, contiguità nella mitologia e nella poesia, tra gli dei, gli umani e le piante. E c’è un rapporto misterioso e profondo con il sesso. Quante volte è stata rappresentata Dafne mentre si sta trasformando in ulivo per sottrarsi alle attenzioni di Apollo? È proprio questa la cultura che desidero dimenticare quando sono in giardino. In un giardino c’è tanta cultura e tanta storia. Ogni albero, ogni fiore, ogni frutto ha una sua storia. Forse la storia, la letteratura, l’arte non si possono dimenticare. Forse non sarebbe neppure giusto. Ma la simbologia, la mitologia di una rosa assomiglia molto a una rosa artificiale che si ingegna a essere più vera della rosa vera. Tutti i versi, tutti i quadri del mondo non possono aggiungere niente a una rosa, a un fiore. Forse anche la mia è retorica, ma quello che cerco quando passeggio in giardino è quello stato di grazia che mi permetta di vedere le creature come per la prima volta, come se fossi loro consaguineo, come quando gli uomini e le donne non avevano ancora consumato il divorzio dalla natura. Tutti quei miti di trasformazione forse alludono proprio a una consanguineità originaria. Forse era così che da bambino scoprivo il mondo. Forse è anche per il ricordo di quelle esperienze che faccio il lavoro che faccio.»
S ABATO
«Mi hai detto di ricordarti La Fontaine.»
«Vuoi davvero? È la storia di un giardino. Di due giardini, anzi. Di due dei giardini più famosi della storia. Se ti chiedono qual è il giardino più famoso della storia cosa rispondi?»
«I giardini di Kew a Londra?»
«Io credo che siano più famosi i giardini di Versailles, anche se per il mio gusto i giardini di Kew sono più belli, più interessanti. Ma né io né tu siamo uomini del Seicento, uomini dell’epoca barocca. Come l’architettura e l’arte in generale, anche i giardini esprimono il gusto dell’epoca in cui sono concepiti. Ai tempi di Versailles l’agricoltura era ancora la ricchezza prima delle nazioni. Un giardino era un lusso ancora più grande di quanto lo sia oggi, perché significava l’agio di poter sottrarre una estensione di terra alla produzione di ricchezza, per riservarlo al piacere e ai giochi. Significava la possibilità di sottrarsi al principio dell’utilità economica. Un re poteva permettersi di disertare la capitale per tenere corte in un giardino. Non che il Re Sole amasse davvero Versailles. Versailles era il simbolo e il luogo del suo potere. Quando voleva riposarsi, sottrarsi all’etichetta che lui stesso aveva imposto, si trasferiva in un altro castello, in un altro giardino, a Marly, diventato proprio per questo Marly-le-Roy, a pochi chilometri di distanza. Ma i giardini di Versailles non erano che una replica in grande di altri giardini. Erano la replica dei giardini del castello di Vaux-le-Vicomte. Vaux-le-Vicomte era stato voluto da Nicolas Fouquet, visconte di Melun e di Vaux, marchese di Belle-Isle. Fouquet era il soprintendente delle Finanze di Luigi XIV. Come tutti coloro che lo avevano preceduto e gli sarebbero succeduti in quella carica, si era immensamente arricchito. Se non era l’uomo più ricco del regno, era quello che spendeva di più. Senza che nessuno glielo avesse affi-
dato, si era assunto il ruolo di mecenate. Invece di accumularlo, il denaro lo spendeva per commissionare opere d’arte e per garantire pensioni ai letterati. Gli scrittori, tra i quali La Fontaine, lo adoravano. Ad André Le Nôtre aveva affidato il disegno dei giardini del castello nel suo feudo di Vaux. Le Nôtre non aveva risparmiato l’ingegno e Fouquet non aveva lesinato sul denaro. Quando il giardino fu finito, Fouquet vi organizzò una grande festa. Il re si degnò di accettare l’invito. Lo accompagnava Jean-Baptiste Colbert, molto interessato a mettersi in tasca la Francia. Durante la festa, che gli annali ricordano come una delle più sontuose e bizzarre della storia, Colbert non mancò di fare notare a Luigi come quei giardini e quella casa fossero più eleganti e sontuosi di qualsiasi dimora reale. Luigi non commentò. Qualche tempo dopo Fouquet fu arrestato, processato per malversazione e inviato nel carcere di Pinerolo, da dove non sarebbe più uscito. Gli artisti che aveva beneficato lo dimenticarono subito. Tutti meno La Fontaine, che non si peritò di andarlo a salutare attraverso il finestrino della carrozza che lo portava a Pinerolo. Colbert se la legò al dito. Solo dopo la morte del primo ministro, La Fontaine fu accolto all’Accademia di Francia. Cosa che non gli impedì di vivere sereno. Intanto, per non essere da meno, il Re Sole aveva commissionato a Le Nôtre i giardini di Versailles.»
«Bella storia. Ma al Re Sole non importava niente dei giardini?»
«Non che io sappia. Non nel senso moderno del termine. Era troppo occupato a dominare il mondo per amare davvero quelle metafore del mondo che sono i giardini. Non avrebbe neppure potuto. Nella sua epoca i giardini non esistevano. Non nel senso moderno del termine. Erano estensioni della casa, luoghi del gioco dei rapporti sociali o del dominio politico. Erano la cerniera tra casa e bosco e prateria, che a loro volta erano riserve di caccia. Giorgio III, il re demente di Gran Bretagna, lui sì che amava i giardini. O almeno li amava sua
moglie, Sofia Carlotta di Mecklenburg-Strelitz. È in suo onore che una parente della banana, che produce fiori vistosi e stravaganti, è stata battezzata strelitzia. Amava i giardini e perdeva le guerre. Aveva perso
l’America. In pieno conflitto napoleonico si ritirò – o fu relegato? – nel palazzetto di Kew, in mezzo a tutte le meraviglie botaniche che Sir Joseph Banks, l’onnipotente direttore del giardino botanico, si faceva mandare da tutte le parti del mondo. Tra le magnifiche piante di Kew visse sereno. Almeno quanto i fantasmi della sua mente gli permettevano. Ma dalla fine del Settecento amare i giardini divenne più facile, addirittura di moda. Su un’isola, in un laghetto, nel giardino del suo ultimo ospite, era sepolto Jean-Jacques Rousseau, che aveva insegnato alla gente il sentimento della natura. I giardini, come li intendiamo ancora oggi, sono un’invenzione dell’età moderna. Si scopre il potere tranquillizzante, terapeutico, del paesaggio proprio mentre lo si aggredisce, lo si ferisce a morte. I bei giardini all’inglese, dominati dai grandi olmi solitari, nascono accanto alle ferite delle miniere di carbone, si moltiplicano lungo le massicciate delle ferrovie. Oggi, dopo duecento anni di industrialismo e di sviluppo demografico, la nostalgia ha recuperato persino quei paesaggi violenti. In Cornovaglia le ciminiere delle miniere sono state conservate e valorizzate come attrazione turistica. Così è si è salvato anche qualche giardino del passato. Pensa alle folies. Se decidi di lasciare la parola, dovresti scriverla in corsivo, perché si capisca subito che non è un errore di ortografia ma un parola straniera.»
«Agli ordini. Ma cosa sono le folies? Conosco solo le Folies Bergère, ma credo che c’entrino poco.»
«Credo anch’io. Anche se in comune hanno il gioco, lo
svago. Le folies erano quelle costruzioni senza un vero scopo pratico che i paesaggisti volevano nei giardini. Sono un po’ le antenate dei nanetti degli anni Cinquanta. Ce ne furono di ogni tipo, rococò e neoclassiche, e perfino neogotiche. Quando finì l’epoca dei giardini all’italiana, con le siepi tosate in forme geometriche che si alternavano a piramidi, sfere e statue allegoriche di pietra, quasi ad affermare un ordine matematico del creato, i nuovi giardini che imitavano il paesaggio naturale si riempirono, forse per eccesso di realismo, di edifici in scala ridotta. Le accademie mandavano gli artisti a studiare a Roma, i giovani signori prima di occuparsi dei propri affari spendevano un paio di anni nel cosiddetto Gran Tour, un viaggio d’istruzione che li portava soprattutto a Roma e nel Sud di Italia ad ammirare le rovine rese celebri e di moda dagli scavi di Pompei. La campagna romana era un modello perfetto per il nuovo tipo di giardino. Quanti saranno gli acquerelli del tempo che mostrano pecore e pastori in una campagna dai toni dorati costellata di pini marittimi e da rovine? Sono stati i modelli perfetti dei giardini neoclassici. Da Roma o da Napoli i viaggiatori si portavano a casa per souvenir modellini in marmo o in bronzo delle rovine più celebri. Adesso sono diventati ambiti pezzi di antiquariato, allora servivano come ispirazione per ricreare in piccolo i paesaggi dell’anima intorno a casa. Ci furono folies di ogni genere. I più ricchi le facevano costruire in muratura o addirittura in marmo. Ma c’era chi doveva accontentarsi di strutture di legno rivestite di tele dipinte. Il gusto neogotico poi si sbizzarrì in torri di
castelli medievali con le finestre a bifora che si aprivano sul cielo o in pareti smozzicate di cattedrali. Le stesse che si vedono nei quadri romantici. Come quelli di Caspar Friedrich. Ma, a conferma di un atteggiamento pratico di fondo nei confronti della natura, la folie più diffusa era lo chalet svizzero. Svizzero era Rousseau, svizzere erano le Alpi, entrate con il turismo nell’immaginario romantico. Negli chalet più grandi abitava qualche volta una coppia di montanari svizzeri nei costumi della loro valle. Come in una specie di zoo umano. Del resto è quella l’epoca in cui nascono le ménageries, gli zoo. Nella stalla dello chalet ci stava anche qualche mucca. Madame de Pompadour, la favorita di Luigi XV di Francia, mungeva le sue con secchi in porcellana prodotti dalla Manifattura reale di Sèvres. C’erano folies per ogni borsa. La sai la storia del facteur Cheval, del postino Cheval?»
«Credo di sì. Non bene. Era uno degli eroi di André Breton, no?»
«Di André Breton e di tutti i surrealisti. Anche Picasso lo ammirava, magari con un po’ di condiscendenza. Come sai, Ferdinand Cheval era il postino di Hauterives. Nell’alta valle del Rodano, più o meno. Più precisamente nel dipartimento della Drôme, il paradiso delle albicocche. Un postino in una zona rurale deve fare lunghi giri. Allora, la storia cominciò nell’ultimo quarto dell’Ottocento, neanche in bicicletta. A piedi. Un giorno, durante il suo giro di distribuzione era inciampato in una pietra che spuntava da terra. Poiché aveva una forma strana, l’aveva avvolta nel suo ampio fazzoletto da naso e se l’era portata a casa per rimirarla. Era così strana che il giorno dopo tornò a raccoglierne altre. Andò avanti per trent’anni. A raccogliere pietre e a sfogliare riviste del tipo del Magazin Pittoresque. Con quelle pietre costruì a poco a poco nel suo piccolo giardino il suo palazzo ideale, che conteneva, trasformati dalla sua immaginazione, tutti i palazzi esotici e i templi nella jungla che aveva visto nelle figure
delle riviste. Era l’epoca degli esploratori. In trent’anni Cheval aveva percorso molta più strada di loro. Solo che aveva camminato in circolo, a distribuire nelle fattorie e nei castelli le poche lettere e le cartoline che arrivavano da paesi lontani, spesso dall’Algeria e dall’Indocina. Quel palazzo stravagante, che con il tempo era diventato più grande del suo piccolo giardino, era la sua fata morgana, il miraggio nel deserto della sua vita monotona. Cheval avrebbe voluto che fosse anche la sua tomba. Ma per la legge francese non era possibile. Per via delle disposizioni napoleoniche sui sepolcri. Ti ricordi il lauro del Parini nei “Sepolcri” di Ugo Foscolo? Allora Cheval aprì un nuovo cantiere nel camposanto. E si costruì un mausoleo, altrettanto stravagante. È un bell’esempio di nostalgia.»
D OMENICA
«Dove eravamo rimasti?»
«Dicevi che il palazzo stravagante del postino Cheval è un bell’esempio di nostalgia? Nostalgia di che cosa? Di qualcosa che non aveva mai visto?»
«Non credi che si possa avere nostalgia di qualcosa che non si è mai visto? Io credo di sì. Spesso si ha nostalgia di qualcosa che crediamo di ricordare. Il giardino non è nostalgia dell’Eden? Non abbiamo detto che paradiso è una parola persiana che significa giardino? Nostalgia significa dolore per la lontananza da casa. Costruire un giardino vuol dire spesso tornare a casa, ma in una casa ideale. Oggi che è domenica ti racconto la storia di un giardino. Il protagonista è un giovane americano del New England. Ai tempi eroici della guerra d’indipendenza. Si chiamava Thomas Hickling. Era povero. I genitori gli avevano combinato un matrimonio con una ricca vedova, notevolmente più anziana di lui. Thomas, giovane ubbidiente, aveva accettato senza entusiasmo, ma senza fare difficoltà. Ma la sua docilità era apparente. Meditava una via di fuga, senza però compromettere il benessere della famiglia. La proclamazione degli Stati Uniti d’America gli fornì l’occasione. Al nuovo Stato serviva un console alle Azzorre. Accettò, baciò sulle guance la sua matura sposa e partì per l’isola di São Miguel. In quegli anni, intorno al 1780, un consolato alle Azzorre non era una sinecura. In mezzo all’Atlantico, pressappoco a metà strada tra l’Europa e l’America, l’arcipelago delle Azzorre era una tappa inevitabile per le navi che dal New England facevano rotta verso i porti d’Europa. Il traffico era intenso. Ma soprattutto le isole erano frequentate dai cacciatori di balene, molto numerose in quei mari. A Ponta Delgada, il capoluogo dell’isola, un console americano era una figura essenziale. Dell’aspetto, dell’abbigliamento, della casa e delle vita privata del giovane americano non sono riuscito a sapere nulla. Qualche volta me
lo immagino in marsina e tricorno, qualche volta nell’imponente cilindro settecentesco e in frac. Hickling non divorziò mai, neppure quando i genitori che gli avevano combinato il matrimonio dovevano essere morti da un pezzo. Le navi che facevano scalo nell’isola gli garantivano la possibilità di rapporti epistolari diretti. Che io sappia, le sue lettere non sono rimaste. Pagherei molto per leggerne qualcuna. A Hickling non doveva mancare il lavoro. Come console non percepiva uno stipendio. Ma aveva la facoltà di commerciare in proprio. In cosa esattamente non si sa, ma si può immaginarlo. Probabilmente riforniva di cibi freschi le navi americane che facevano scalo sulla sua isola. Forse, prevedendo il sistema dei futures, anticipava soldi ai balenieri in cambio di quote sulla caccia futura. È possibile che comperasse, per rivenderli in America, quegli oggetti da scrivania, da cucito, ricavati dalle ossa delle balene, e quei denti di capodoglio che nei frequenti momenti di tregua i marinai incidevano con scene di vita marinara. Un po’ di soldi dovette metterli da parte, se decise di costruirsi una casa in campagna. Senza quella casa, di lui non sarebbe rimasto altro che qualche traccia in archivi frequentati solo da storici minuziosi. Per costruirsi la casa scelse un posto singolare, davvero solitario, a una ventina di chilometri da Ponta Delgada. Si chiamava Furnas. Come tutte le isole in mezzo all’Atlantico, le Azzorre sono di origine vulcanica. Ogni tanto c’è un terremoto o spunta un nuovo cratere. Su tutte le isole, i posti dove la terra sbuffa e ribolle in caldaie si chiamano Furnas. “Furna” in portoghese vuol dire caverna. Credo di capire perché Hickling avesse scelto quel paesaggio infernale, lontano dal mare quanto è possibile su un’isola non molto estesa. Forse mai come alla fine del Settecento le terme sono state di moda. A Furnas ci sono sorgenti di ogni acqua. Da una sgorga un’acqua fresca e frizzante. Da un’altra, lontana pochi metri, esce un’acqua torbida, ferrosa e calda. Non potendo andare a passare le acque a Bath o in
qualche altra località europea di moda, Hickling decise di farsi delle terme solo per sé. Fece scavare un canale che alimentava un laghetto con l’acqua calda e ferrosa. Con la terra dello scavo creò una collinetta. In cima fece edificare una semplice casa di legno. Come fosse allora la vegetazione tutt’intorno si può immaginare. Oggi, lungo il corso del canale di acqua calda, le camelie diventano alberi e le lunghe campane bianche della datura impregnano del loro profumo le sere d’estate. Ma ai tempi di Hickling, alle Azzorre, non c’erano camelie, non c’era la datura. Con le sue foglie coriacee e il tronco rugoso, che la fanno assomigliare alla quercia da sughero, dominava sulla vegetazione di piante endemiche la faya, che ha dato il nome a una delle isole. Hickling decise che non era quello il suo paesaggio. All’arrivo di ogni nave proveniente dal New England attese con ansia che fossero sbarcate le piante che aveva ordinato nel New England. Erano alberi dei tulipani, liquidambar, querce, le piante tra le quali era cresciuto. Pian piano intorno alla casa di legno e al laghetto ricreò il paesaggio della sua infanzia. Ricreò, in quell’ambiente vulcanico, in quell’aria pervasa dall’odore di zolfo, la fisionomia della sua terra. Il laghetto c’è ancora, anche se vi sguazzano i turisti. Una elegante palazzina ottocentesca ha sostituito la casa di legno. Il parco è diventato molto più grande, molto più ricco di piante provenienti da tutte le parti del mondo. I nuovi proprietari, certi marchesi azoriani, vi hanno persino costruito un tempietto. La casa è incorniciata dai tronchi, così nudi, così dritti, così alti da sembrare alberi di veliero, di diverse specie di araucarie che nessuno ai tempi di Hickling aveva ancora portato dall’Australia e dalla benedetta isola di Norfolk.»
«Perché benedetta un’isola inglese?»
«Quando si parla di nostalgia. Non avrai mica nostalgie del tipo del tipo “Dio stramaledica gli inglesi”. Comunque l’isola di Norfolk si trova al largo del-
l’Australia. Benedetta perché vi cresce quella specie di araucaria che si chiama appunto pino di Norfolk. Solo la scoperta di quel pino ha reso possibile la navigazione nei mari del Sud. Altrimenti, se una nave veniva disalberata, non si sapeva dove andare a trovare un albero con un tronco abbastanza alto e abbastanza dritto da diventare un albero maestro. Ma ritorniamo al nostro giardino tra i vulcani. Tra le felci arboree e i Ginkgo biloba sono ancora numerosi i Liriodendron tulipifera, gli alberi dei tulipani, e i liquidambar. Ma nessun esemplare è così antico da essere stato piantato da Hickling. L’unico rimasto dei suoi alberi sarebbe una vecchia quercia, che sopravvive in riva al laghetto. Anche il disegno del parco è stato corretto. Più che la fisionomia del paesaggio del New
England al tempo della dichiarazione di indipendenza, con le innumerevoli essenze provenienti da ogni parte del mondo, esprime la passione collezionistica dell’Ottocento. Con i suoi lunghi viali percorribili in carrozza che non portano da nessuna parte, il parco evoca il decoro, ma anche la boria, di una ricca aristocrazia che non rinunciava a riprodurre in un angolo dimenticato del mondo
l’orgoglio imperiale dei parchi delle capitali europee. Ma è difficile passeggiare in quel parco, che è diventato l’attrazione di un albergo in capo al mondo, senza evocare il tricorno e la marsina del console americano intento per nostalgia a ricreare tra i fumi delle caldeiras il paesaggio della sua giovinezza. Soprattutto verso sera, quando dal tronco cavo di un vecchio, gigantesco liriodendron
escono a frotte, come farfalle nere, i pipistrellini. Sai che erano gli unici mammiferi che vivevano su quelle isole prima dell’arrivo dell’uomo?»
«Sembra che tu abbia nostalgia non solo della tua infanzia in questa pianura, ma dell’infanzia e della vita di Hickling e chissà di quant’altri.»
«Sembra perché è così. Ti pare che avrei costruito la mia fabbrica in questo modo, se non avessi nostalgia di un passato che non ho mai vissuto? Un bel parallelepipedo, magari di vetri fumé, non sarebbe bastato? Ti sembra che andrei a ritrovare ricette antiche per i miei prodotti? Se la nostalgia per un tempo mai vissuto, per un mondo mai visitato, può essere patologica, paralizzante –pensa alla jungla di Emilio Salgari, al baobab nel vaso da geranio del giardino di Tartarino a Tarascona – una sana nostalgia per il passato può essere un buon strumento per vivere in modo consapevole e cauto il presente. Non tutto quello che è nuovo è giusto e bello. E viceversa.»
«Quindi ogni giardino è una manifestazione sensibile della nostalgia?»
«No, ass... devo mordermi la lingua. Stavo dicendo assolutamente no. È il tic del momento. Assolutamente no, assolutamente sì. Come se sì o no non volessero già dire assolutamente sì, assolutamente no. Hai notato? Hai sete? Assolutamente sì. Basta dire “sì, grazie”. Se si sente il bisogno di rinforzare il sì e il no, vuol dire che non si hanno neppure le certezze più elementari. A proposito hai sete?»
«Assolutamente sì.»
«Adesso finiamo. Mi chiedevi se tutti i giardini sono un’espressione della nostalgia. No, certo che no. Pensa ancora a Versailles. Non era che un palcoscenico per rappresentare il gioco, le gerarchie del potere. Pensa ai giardini ordinati agli architetti del verde. Ci sono giardini, anche privati, anche piccoli, che non hanno un’anima. Come quelle terrazze in cui ogni anno vengono sostituite le
piante, in modo che siano sempre a postino. Giardini che sono solo esibizione di ricchezza. Non so se sei mai stato al Lingotto a Torino. Lo hanno trasformato in un ipermercato. Non so cosa pensare. Una struttura così grande in qualche modo andava utilizzata. Mi è capitato di guardare giù dal parapetto della terrazza della raccolta d’arte della Fondazione Agnelli. C’erano dei grossi cubi, in fila perfetta. Mi ci è voluto un po’ per capire che era una espressione moderna dell’arte topiaria, dell’arte di dare forma alle siepi. Qualche fila di cubi, distanti un mezzo metro uno dall’altro e qualche fila di piante, aceri mi sembrava dall’alto, tutti della stessa misura, tutti allineati come in un vivaio. Sarà un bell’esempio di giardino contemporaneo. A me è venuto ancora in mente il consiglio che Camille Corot dava ai giovani pittori.»
«Quando dipingete un albero fatelo in modo che gli uccelli possano farci il nido?»
«Sì. Anche negli alberi di un giardino gli uccelli devono poter fare il nido. Ma siamo nell’epoca dei fiori finti più belli del vero. Può bastare? Hai abbastanza materiale? A furia di parlare è venuta sete anche a me. Prima di andartene ricordati di prendere un po’ di frutta e di verdura. Davvero quanta ne vuoi. È tutta coltivata con metodi di cultura biologica.»
«È vero, non mi hai parlato della frutta, dell’orto. Neanche dei fontanili.»
«Magari dopo. Ma poi, sarà un libro illustrato. Da fotografie bellissime. Le hai viste, no? Che bisogno c’è di parlare della frutta? Dei fontanili, se mai, che sono la ricchezza di questa terra. Magari dopo. Dai, spegni il registratore.»
Anni fa chiesi a Franco Bergamaschi il permesso di dedicargli un ritratto per un foglio domenicale che dirigevo. Si sottrasse, perché era convinto che a lui si addicesse il riserbo. Mi proposi di vendicarmi. Prima o poi quel ritratto glielo avrei fatto. Si dice che la vendetta sia un sentimento dolce. Non riesco a immaginare niente di più dolce che passeggiare al tramonto in giardino, chiacchierando di piante e di luce, di fiori e animaletti. Ma la natura è fatta a suo modo, ha creato l’erba alta perché il serpe potesse nascondersi meglio. Il serpe ero io. Se in questo libro avessi avuto più pagine, avrei registrato le conversazioni per intero, avreste ascoltato Franco raccontare del concorso di bellezza tra i due grandi pioppi, del nocciolo cresciuto da un seme nascosto e dimenticato da un topo, delle rose sbocciate al sole di maggio e disfatte dalla pioggia di maggio, del profumo dell’erba tagliata e del lezzo dell’erba fermentata. Ma lo spazio era quello che era. Poiché dovevo scegliere, ho sacrificato le parti più sentimentali. C’erano le bellissime fotografie a testimoniare l’atmosfera delle chiacchierate. Per ogni giorno ho salvato un solo ragionamento, una sola storia. Non ci voleva di più per schizzare il ritratto di Franco Bergamaschi sullo sfondo del suo giardino.
Nel giardino non eravamo soli. C’era Andrea Zani, che compariva e scompariva.Cercava la luce, il taglio, il contrasto per ritrarre un fiore, per comporre un quadro.Lavorava con la macchina fotografica come fosse un pittore. Quanti minuti, quante ore, quanti giorni servono a un fotografo per ritrarre un giardino? Per ritrarlo come ha fatto, ad Andrea ci sono voluti tre anni. Un giardino è un organismo vivente,è una persona, ha i suoi momenti. Ma di una persona non ha l’astuzia di fingere, di mettersi in posa. Ogni immagine di un giardino, di un albero, di un fiore è un’istantanea irripetibile. I fiori sono fotogenici, si dice. Non è vero. I fiori, le piante, le creature della natura sono belli, ma è proprio la loro bellezza che rende difficile fotografarli. Lo sap-
piamo noi dilettanti che speriamo di fissare la bellezza di una rosa in uno scatto e al momento della stampa ci troviamo in mano una cartolina insulsa, dove quella gloria che abbiamo visto per un attimo non esiste più. Più un soggetto è bello in sé, più l’immaginerischia di renderlo banale, stereotipato. Una rosa è una rosa è una rosa, diceva Gertrude Stein. È una bella frase, ma forse non è vera. Una rosa è infinite rose, fatta di infiniti attimi. Non tutti gli attimi sono uguali. Per fotografare una singola rosa bisogna spiarla, momento dopo momento, perché una rosa è un particolare del tutto, vive per la luce, colora la luce, vive nell’atmosfera, assorbe e rende umidità, si tinge in rapporto alle tinte in cui vive, anima la vita che le sta intorno, si anima della vita che la circonda. E come la rosa sono tutti i fiori, sono gli alberi, gli steli d’erba. Come la rosa è il giardino. Per renderli in immagine ci vogliono pazienza e fortuna, ci vogliono tenacia e sensibilità. Per ritrarre un giardino, a un artista come Andrea ci vogliono tre anni, a noi altri bastano pochi minuti, non basterebbe l’eternità.
Sandro Fusina