SANDRO FUSINA
Fotografie di ANGELO SGANZERLA
L’ERBOLARIO
Sommario
Nota dell’Editore 9
L’ambra 17
I clienti del vecchio pero 26
Le cattedrali nel deserto 46
La signora delle metamorfosi 64
La Via della seta 86
Le api 108
L’uomo dei ragni 150
Nota dell’Editore
Fra tutte, le immagini più sorprendenti sono quelle che ci svelano cose che abbiamo avuto da sempre sotto gli occhi, ma che non abbiamo mai visto. In questo si distingue la buona fotografia. Che alle fantastiche forme degli insetti si sia ispirato più di uno stile artistico si sa. In alcune specie la natura ha prefigurato evidentemente il Liberty e il Rococò, in altre il Gotico e l’Art déco, in altre ancora il Cubismo e l’Arte povera, con gli insetti che rappresentano stecchi o foglie accartocciate. Sulle elitre di certi coleotteri già ci sono le immagini spaventose delle maschere apotropaiche delle arti primitive. E non è detto che la necessità di tenere lontani i nemici, i pericoli reali o immaginari, impersonati da predatori o demoni, non sia la stessa nella società degli insetti e nelle società tribali. Quello che è detto è che tutte quelle forme, tutti quegli stili erano già presenti negli insetti milioni di anni prima che l’uomo comparisse sulla Terra. Della bellezza dei fiori è superfluo dire. Diversamente dagli insetti, i fiori godono da sempre dell’entusiasmo estetico di noi umani, soprattutto, credo, perché la loro bellezza e il loro profumo sono caduchi e ricorrenti. L’incontro, il corto circuito tra le due bellezze, di fiori e insetti, crea una concentrazione o provoca un’esplosione di bellezza intensa. Il gioco delicato e magnifico di colori e forme nelle fotografie di Angelo Sganzerla mi ha ricordato l’affermazione sconcertante udita tanti anni fa in un seminario sul colore e sulle sue funzioni in natura. Senza trarre conclusioni, senza pretendere di fare della filosofia, un relatore affermava che la percezione del colore e dei profumi è una facoltà che crea un ponte tra l’uomo e gli insetti, che ravvicina in modo sorprendente i due phyla geneticamente più lontani tra loro del regno animale. Tra tutte le creature, solo alcuni umani e alcuni insetti sanno cogliere le sfumature di colore e di profumo di una rosa. È questa prossimità, questa comunanza, che le fotografie di Angelo Sganzerla testimoniano.
Quando un paio d’anni fa si ammalarono le api, si fece un gran citare Einstein, che avrebbe detto che la vita, come la conosciamo, non sopravviverebbe due anni alla loro scomparsa. Discutere della validità di un’affermazione del genere, come di ogni altra profezia, è vano, tanto più che nessuno ha mai saputo documentare in quale occasione e in quale contesto Einstein avrebbe proferito quelle parole. Ma è anche vano discutere dell’importanza che, nel bene e nel male, gli insetti hanno avuto nella vita e nella civiltà
dell’uomo. Se il termine di bionica non fosse un modo pomposo per esprimere la evidente verità che l’uomo nella sua storia non ha mai inventato nulla di importante che non gli sia stato ispirato dalla natura, si potrebbe affermare che, fra tutti gli esseri della natura, gli insetti sono stati per l’uomo i migliori maestri di bionica. Chi, se non gli insetti, gli ha insegnato a filare i suoi filati, a tessere le sue tele e a costruire le sue case e i suoi grattacieli? Anche se poi l’uomo, allievo non troppo dotato, non è mai riuscito a costruire edifici alti, complessi e maestosi, e soprattutto solidi, come quelli che, in proporzione, le termiti innalzano nella savana africana. Ma se alludono a tutto questo, le fotografie di Angelo Sganzerla ci parlano più esplicitamente di bellezza e di sentimento della natura.
È attraverso la passione per gli insetti che alcuni grandi scrittori, entomologi professionisti come Jean-Henri Fabre e Marcel Roland o dilettanti come Ernst Jünger e Vladimir Nabokov, hanno testimoniato il loro amore per la bellezza della natura. Forse la sopravvivenza della vita non poggia completamente sulle ali delicate e robuste delle api, ma certo il ritorno alla salute di questo nostro mondo malaticcio dipende tanto dalla testa quanto dal cuore dell’uomo, dipende da come riusciremo a ringraziare la natura per il dono della bellezza. Il dono agli amici dell’Erbolario di questo album di fotografie di Angelo Sganzerla è, pare a noi, che all’Erbolario lavoriamo, il modo migliore per ringraziarli della loro fedeltà all’idea di bellezza che abbiamo in comune.
Franco BergamaschiL’ambra
«Sandro, ti racconto una storia. Sulla nascita della fotografia istantanea. C’era una volta...».
«Una volta quando?».
«Quaranta milioni di anni fa, o venti milioni di anni fa, milione più, milione meno. Siamo in una foresta di grandi alberi».
«Dove? Quando mi raccontano una storia mi piace sapere dove è ambientata».
«Non so dirti con precisione. Forse sull’isola di Hispaniola, nella Repubblica Dominicana, o nel Chiapas messicano. Oppure nell’Europa del Nord, nella regione dove ora si trova il Mare Baltico».
«Non è che tu sia molto preciso. Mi sembra che l’ambiente cambi molto tra una foresta tropicale del Centro America e una foresta di conifere del Nord dell’Europa».
«Certo che cambia. Le foreste del Centro America non sono di conifere, ma di leguminose. Adesso posso raccontarti la mia storia?».
«Spero che sia una bella storia d’amore e di morte».
«Esattamente, alla lettera. Siamo in una foresta di grandi conifere, le piante più grandi della Terra, già antiche quaranta milioni di anni fa. O di grandi leguminose, a seconda di dove siamo. Le grandi piante non hanno veri nemici. Sono gli esseri più maestosi e longevi del creato. Non hanno nemici in grado di misurarsi con loro. Temono solo i cataclismi. Ma anche quei giganti hanno i loro fastidi. Ci sono dei funghi che pretendono di colonizzare la loro corteccia e ci sono degli insetti che le infastidiscono per vari motivi. Per difendersi, le conifere hanno messo a punto un’arma. Se si sentono infastidite, secernono una sostanza vischiosa e profumata».
«La resina, vuoi dire».
«La resina, esattamente. Il profumo della resina probabilmente ha il potere di avvertire gli insetti del pericolo, di allontanarli. La consistenza liquida e gommosa è invece l’arma letale. Su di essa gli insetti non possono posarsi, e se per caso una goccia cade su uno di quegli esserini lo ingloba per sempre in un sarcofago trasparente».
«Posso continuare io la storia? Uno di quegli sfortunati esserini è una zanzara femmina che si è ingozzata del sangue di un dinosauro. Sono passati milioni di anni. La foresta si è trasformata in un giacimento carbonifero, la resina fossilizzata è diventata ambra. La zan-
zara è ancora lì, quasi fosse viva, come se dormisse. Nel dominio della Terra il piccolo uomo si è imposto a ogni altro essere. Ha sviluppato un organo potentissimo, micidiale, che chiama cervello. Usa il carbone in cui i grandi alberi si sono trasformati come fonte di energia per moltiplicare la sua potenza, raccoglie l’ambra, la sua bellezza, per adornarsi. L’ambra che preferisce, alla quale dà più valore, è quella più trasparente. Meglio se all’interno è racchiuso qualche esserino. La crede un dono degli dèi. Ma basta arrivare all’inizio della nostra era, basta arrivare a Plinio il Vecchio, perché l’uomo abbia scoperto l’origine vegetale dell’ambra. Dei fossili, delle ere della Terra e della vita non sa ancora nulla. Ma l’ambra gli piace, anche se spesso confonde l’ambra fossile con l’ambra grigia che trova nello stomaco dei capodogli. Devono passare ancora un paio di migliaia di anni perché scopra che l’ambra vera risale a un’era molto lontana, quando egli stesso non era apparso ancora sulla Terra. Un centinaio di anni dopo fa la scoperta più importante, in ogni cellula di ogni essere vivente, virus esclusi...».
«Scopre il DNA, la doppia elica che contiene tutte le informazioni genetiche che permettono a tutti gli organismi viventi di funzionare, crescere e riprodursi. Non mi starai raccontando la storia di Jurassic Park di Michael Crichton? La storia dello scienziato che si accorge che la zanzara imprigionata nel suo sarcofago d’ambra ha l’addome pieno di sangue. Di quale essere sarà? E il DNA sarà ancora buono? È così che la foresta di un’isola del Costa Rica, non lontanissimo dal giacimento di ambra di Hispaniola e del Chiapas, si popola di tremendi dinosauri riportati in vita da uno scienziato visionario che, al solito, non riesce a controllare le sue creature.
«Non è questa la storia che volevo raccontarti, era una storia molto più toccante, molto sentimentale, a mio modo di vedere, la storia di due moscerini sorpresi dalla colata di resina mentre facevano l’amore – scusa, per gli animali si dice accoppiarsi –, sorpresi nell’atto finale e fondamentale della loro esistenza, e destinati a rimanere uniti nell’ambra per l’eternità».
«Scusa, non volevo sciupare, rendere banale con un racconto di fantascienza la tua storia. Non mi sono reso conto che quando parlavi di nascita della fotografia istantanea, a proposito di questa capacità dell’ambra di fermare e conservare per sempre l’attimo fuggente, mi stavi raccontando un grande dramma, una storia elisabettiana di amore e morte avvenuta in un periodo lontano come l’Eocene, quaranta milioni di anni or sono. Non mi sono reso conto che, come nelle tue fotografie di insetti, parlavi di bellezza e di compassione prima che di scienza e di conoscenza».
«Non è solo compassione. Mi turba anche l’idea che quegli esserini così fragili, così indifesi che ho fotografato siano sulla Terra da molto prima di noi e che probabilmente ci saranno, finalmente padroni del creato, molto dopo che ce ne saremo andati».
«Da quando gli insetti sono sulla Terra?».
«Dal Paleozoico, quattrocento e più milioni di anni fa. Nel Carbonifero c’erano delle fantastiche libellule giganti, con un’apertura alare anche di un metro, che svolazzavano tra felci arboree. Anche le piante erano molto grandi. E non c’erano ancora i grandi sauri, solo dei rettili anfibi, specie di coccodrilli primitivi, che facevano la parte dei grandi predatori. Ma è solo con l’espansione delle piante da fiore che gli insetti che conosciamo oggi si sono affermati. L’esistenza dei nostri fiori e dei nostri insetti è intrecciata fino dall’inizio. È da quel mondo che arrivano le belle addormentate nell’ambra. Sai che i pezzi d’ambra che contengono insetti sono molto ricercati dai collezionisti di tutto il mondo? E sai che i più ricercati sono quelli in cui ci sono due insetti? Anche se non sempre è sicuro che si stessero accoppiando? Prendi il caso delle termiti».
«Posso prima raccontarti io una storia?».
«D’accordo. Purché sia una storia di insetti. E una bella storia d’amore e di morte».
«In un certo senso. Il titolo è I clienti del vecchio pero».
I clienti del vecchio pero
«Il vecchio pero in questione si trovava in un prato, poco fuori di una città di cui non conosco il nome. Uso il passato perché di certo il vecchio pero non esiste più. Era già molto vecchio al tempo della mia storia. Per questo lo chiamavano vecchio pero e da allora saranno passati ben più di cent’anni. Probabilmente non esiste più neppure il prato. Nelle nostre città è andata così, dove c’era l’erba adesso c’è il cemento. Ma allora il prato del vecchio pero era magnifico. Se da un lato si vedevano i primi tetti d’ardesia delle case della città, dall’altro l’orizzonte si nascondeva dietro un anfiteatro di colline dolci. Alla fine di maggio – dimenticavo di dire che la storia si svolge alla fine di maggio, un gran bel periodo per i fiori e gli insetti – l’erba è alta, screziata da infinite gradazioni di verde. E il verde è punteggiato dal bianco delle margheritine, dal rosso dei papaveri, dall’azzurro dei fiordalisi. C’è il profumo delle erbe e dei fiori. Nella mia storia c’è anche una colonna sonora. C’è il duetto d’amore dei merli pronti per la seconda o la terza nidiata, al quale fanno da contrappunto le note secche delle cinciallegre e dello scricciolo, mentre gli insetti tengono il basso continuo. C’è una perfetta armonia tra le forme, le tinte, gli odori e i suoni. E non è l’armonia cercata e costruita del giardino perfetto, ma l’armonia della natura, alla quale però l’intervento dell’uomo non è estraneo. È, se mi consenti, il prato ideale per la tua ricerca fotografi ca. Nella storia c’è anche un personaggio umano. È un artista che ama distendersi sotto il vecchio pero, per dimenticare le case, le strade, le preoccupazioni della città. Per pensare alla sua arte, ai quadri che gli hanno commissionato e che non vorrebbe dipingere, e ai quadri che vorrebbe dipingere ma che sospetta nessuno vorrà comprargli. Sotto il pero fa fresco, il nostro giovane artista si addormenta e sogna. Sogna di sentire una vocina che dice “Oh, quanto soffro. Sono mezza morta: ho l’ala orribilmente compressa. Ma egli non si muove. E un filo d’erba piegato mi tiene ferma alla tortura”. E da un’altra parte un’altra vocina, ma sibilante, ma furibonda, questa: “È un mostro odioso degno d’ogni obbrobrio, fa ribrezzo. Non muove un passo senza commettere un delitto, la strada che ha percorso per giungere qui è sparsa di morti e di moribondi”. Il nostro pittore sconsolato sta sognando di fate e di elfi, dirà qualcuno. Non avrebbe tutti i torti: la nostra storia avviene al tempo delle fate e degli elfi. Lo ha detto tra sé e sé anche il giovane pittore, poco fa, poco prima di addormentarsi, quando in quel luogo di magica semplicità naturale si aspettava di vedere spuntare un elfo da un buco del tronco del pero. Lui le fatine con le ali e gli elfi li ha visti davvero. Davvero, non dal vero. Li ha visti
in fotografia, poiché la fotografia esiste già. Ma le macchine fotografiche non sono come la tua, piccola e maneggevole, e soprattutto con i tempi di otturazione di una frazione infinitesima di secondo. Sono ancora scatoloni di legno, montati su treppiedi, che richiedono tempi di posa interminabili. Ma gli elfi e le fatine sono molto pazienti e molto vanitosi. Soliti a guizzare via in un lampo, come gli animaletti del bosco in vista del pericolo, tanto che uno non sa mai bene se li ha o se non li ha visti, appena compare una macchina fotografica sono capaci di restarsene immobili tutto il tempo necessario al fotografo, anche alcuni minuti. Soprattutto le fatine che rimangono lì sospese nell’aria per tutto il tempo che ci vuole per impressionare la lastra».
«Come la farfalla colibrì, la macroglossa? Fotografarla è un bel problema».
«Di più della macroglossa. Perché la macroglossa, che poi vuol dire lingua lunga – pensa che non ci avevo mai pensato prima di questo momento – per via della lunga spirotromba che infila nel calice dei fiori per suggerne il nettare, per restare sospesa sui fiori batte le ali a una velocità incredibile. Mica le vedi, davvero. Vedi solo un movimento dell’aria intorno al suo corpo. Per fermare quel battito d’ali in un’immagine, la prima volta c’è voluta una macchina fotografica rapida quasi quanto la tua. Le fatine delle fotografie dei tempi della storia del vecchio pero se ne stavano lì, sospese nell’aria, con le ali ben ferme. Forse perché, al corrente dello stato della tecnica fotografica, sapevano che bastava un piccolo movimento perché quelle belle ali che avevano copiato dalle farfalle o dalle libellule, a seconda del modello di fatina, non restassero impressionate sulla lastra».
«Erano davvero ingenue quelle fotografie del piccolo popolo che circolavano in Inghilterra all’epoca della regina Vittoria».
«Sì, il che non toglie che ci fossero molti che le prendevano sul serio. Dipendeva sia dal desiderio della gente di credere nel soprannaturale sia dalla scarsa conoscenza del pubblico delle reali possibilità del mezzo fotografico. Pensa che alla genuinità di quelle foto di fate credeva persino Sir Arthur Conan Doyle, che poi era niente di meno che il padre di Sherlock Holmes, il campione dell’indagine poliziesca fondata sull’osservazione scientifica. Niente che fosse in movimento poteva essere fotografato. Ti immagini le fotografie degli insetti? Non è che non ce ne fossero. Se ne vedono nelle collezioni dei musei. Ma sono regolarmente immagini tristi di poveri coleotteri inchiodati con uno spillo a un cartellino. Ma per tornare al vecchio pero, non sono le voci del popolo fatato che ode nel sogno il giovane pittore addormentato. Sono le voci degli insetti, enormemente amplificate».
«Posso dire la mia? È una storia davvero strampalata. Gli insetti, clienti o meno che siano del vecchio pero, non hanno voce, non hanno neppure gli organi di fonazione. Tranne forse la sfinge testa di morto, che emette in volo uno squittio di topo. Con quale organo non si sa. Pensa che alcune farfalle allo stadio compiuto di immagine non hanno neppure la bocca. Non è previsto che dopo l’accoppiamento mangino per sopravvivere. Gli insetti hanno nel loro insieme organi molto complessi, se vuoi anche più raffinati dei nostri, ma non possono cantare. Possono fare musica, se vuoi, con gli strumenti del loro corpo. Soprattutto per sfregamento di un arto con l’altro. Sono gli strumenti di una grande orchestra di archi. Che razza di storia è questa del vecchio pero?».
«È una storia didattica. Allora si facevano libri così. Per introdurre i bambini a una materia che poteva sembrare ostica, difficile, si raccontava una storia, spesso di un viaggio. C’erano storie di botanica, di zoologia generale e c’erano storie di geografia fisica. In Italia la più popolare, ripubblicata una quantità di volte nel corso di mezzo secolo, fu la storia di un un viaggio attraverso le bellezze e le particolarità della Penisola. Si intitolava Il Bel Paese.
Era scritta dal celebre abate Antonio Stoppani, quello che compare con la sua bella testa di capelli bianchi sull’etichetta dello formaggio omonimo. I clienti del vecchio pero è probabilmente la più celebre tra le avventure entomologiche.
«E il romanzo d’amore e morte che avevi promesso?».
«D’amore, a essere onesti ce n’è pochino. L’amore. Se non della Patria o del Prossimo, non faceva parte dell’educazione, né scientifica né sentimentale, dei bambini del secondo Ottocento. Ma quanto a morte, dolore e sentimento, ce n’è parecchio. Per fartene un’idea, ascolta la lacrimevole istoria del maggiolino. In sogno, il giovane pittore è rimpicciolito alle dimensioni di un insetto, e ha acuito i sensi: il ronzio di una mosca gli fa l’effetto di uno squillo di tromba. Anche la vista è potenziata. Tutto si è ingrandito in modo spettacolare. Ma è soprattutto l’attenzione a ciò che accade intorno a lui che è ingigantita. Poiché l’autore vuole illustrare il processo della metamorfosi, la storia del maggiolino comincia da lontano, dalla madre maggiolina che depone le uova. Da un uovo esce un bruco affamato, che passa tre anni sottoterra a ingozzarsi di ogni vegetale che gli viene a tiro. Finalmente, testuali parole, “sente spuntargli in petto un’ambizione” trova una nicchia dove trasformarsi in crisalide. Ancora un anno e finalmente è pronto a uscire dal buco, per combinazione proprio nel giorno in cui il nostro artista è venuto ad addormentarsi sotto il pero. Ma il nostro maggiolino è goffo e pesante, come “un elegante di provincia che si pavoneggia per le strade della capitale dove
è appena sbarcato”. Dopo quattro anni di vita al buio è però impaziente di vedere e godersi tutto quello che c’è sotto il sole. Ma nella sua esplorazione si trova davanti l’ostacolo di un ciottolo. Invece di aggirarlo, come avrebbe fatto un altro insetto più furbo, tenta di scalarlo. Non lo avesse mai fatto, le zampe posteriori non lo reggono e cade miseramente all’indietro. Mentre è inchiodato sul dorso con le sei zampette che si agitano in aria, e il narratore si diffonde in paragoni con i capitomboli metaforici della vita umana, vicinissimo l’erba si agita, si apre e compaiono prima la testa e poi il torace corazzato di un superbo Carabus auratus. Poiché gli intenti sono didattici, il nostro narratore illustra genealogia e stadi della metamorfosi anche del nuovo personaggio, senza dimenticare di fare notare che fin dall’infanzia, ovvero dallo stadio di larva, il carabo era per natura aggressivo e carnivoro, cioè ghiotto di insetti. Sono queste caratteristiche di sterminatore del suo phylum più che le magnifiche elitre dai riflessi di oro verde che lo rendono particolarmente gradito ai contadini. Qui è meglio citare dal testo, per trasmettere il pathos: “Appena scorge il maggiolino rovesciato, il carabo, con la rapidità del fulmine, gli è sopra e si impadronisce di quel corpo spasimante nell’angoscia di non potersi alzare più in piedi, ficcandogli nell’addome gli artigli delle zampe anteriori e con essi l’armatura della bocca tagliente come acciaio affilato”. Il narratore, il nostro artista, è dibattuto tra l’istinto di intervenire in aiuto dell’indifeso o lasciare che la natura faccia il suo corso. Sceglie la soluzione più saggia, ovvero la seconda. Ma ecco che dall’erba alta sbuca un altro personaggio. È una formica, che osserva per un attimo la scena, muovendo le antenne come se stesse anch’essa meditando se intervenire o no. Poi, decisa, si arrampica sul carabo e va a morderlo nella parte scoperta tra la corazza e la testa. Il carabo molla la presa e scappa. Poi ritorna per finire il pranzo. Ma la formica torna a morderlo e lo fa di nuovo scappare. Questa volta definitivamente».
«È intervenuta in difesa del maggiolino, lo ha salvato».
«Così parrebbe, ma forse non era la sua intenzione. Il maggiolino era già morto. Il carabo lo aveva sbranato con il suo apparato boccale tagliente da predatore. La formica ne assaggia qualche boccone. Poi va a invitare a pranzo le compagne. Diversamente dal carabo, la formica è un animale sociale».
Le cattedrali nel deserto
«In un altro blocchetto d’ambra ci sono due termiti. Hanno anche loro dai quaranta ai venti milioni di anni».
«C’è una bella differenza tra quaranta e venti milioni di anni».
«Solo con un’analisi chimica si potrebbe stabilire se i milioni di anni sono quaranta o venti, se l’ambra è baltica o dominicana, se è di conifera o di leguminosa. Però, se dovessi scommettere, direi venti milioni di anni».
«Perché?».
«Per il calcolo delle probabilità. L’ambra più antica, l’ambra del Baltico, l’ambra di conifera, è spesso meno trasparente, meno limpida dell’ambra dominicana. Spesso è così opaca, lattiginosa che, anche se contenesse un animaletto, non si vedrebbe. Come fosse un negativo di un’istantanea formidabile che però ha preso luce. Ormai, nell’era della fotografia digitale, mi sembra strano parlare di positivi e di negativi, di negativi che hanno preso la luce. Comunque, l’ambra dominicana è quasi sempre perfettamente trasparente».
«È più pregiata?».
«No, non necessariamente. Dipende dalle dimensioni del pezzo e soprattutto dalle inclusioni. A meno che non sia l’ambra blu».
«L’ambra blu?».
«Mai sentita? Si trova credo solo in un giacimento nella Repubblica Dominicana. È preziosa. I cinesi ricchi ne vanno matti. Può costare sessanta dollari al grammo. Naturalmente se non ci sono inclusioni interessanti. Se le inclusioni sono minuscole, se si presentano come la polvere, è meglio che non ci siano. In questo caso è meglio che il pezzo sia limpido, trasparente. Ma se sono insetti, dipende dalla rarità e dalle dimensioni. Due moscerini sorpresi mentre si accoppiano non sono rarissimi. Ma se solo ad accoppiarsi sono due mosche, il pezzo diventa già molto più raro».
«Ne parli come se ci fosse un gran collezionismo di queste ambre con le inclusioni».
«Certo che c’è. E internazionale anche. Evidentemente queste istantanee di venti milioni di anni fa hanno una grande attrattiva per molti, non solo per me».
«Ma le due termiti, cosa ci facevano all’aria aperta? Si sposano all’aperto? Probabilmente ho un’idea sbagliata delle termiti. Le immagino sempre sottoterra, occupate a rosicchiare
qualcosa dall’interno. Credevo che non venissero mai allo scoperto. Ho letto che sono capaci in una notte di salire da una gamba di un tavolo svuotandola senza toccare la superficie, svuotare allo stesso modo tutto il piano, forarlo quel poco che basta per entrare in un baule posato sul piano, svuotare anche quello di tutto quello che c’è dentro e scendere svuotando un’altra gamba senza mai uscire in superficie. Capisci che per uno come me che ama le vecchie cose, i vecchi mobili, le termiti sono un incubo, anche se mi rendo conto che con il loro appetito hanno offerto magnifici spunti per le gag del cinema muto. Ti immagini il bellimbusto che perseguita Charlot che si appoggia con noncuranza a un tavolo appena svuotato dalle termiti? In che bel capitombolo liberatorio sta per esibirsi?».
«Le due termiti della nostra istantanea hanno le ali. Ma non potrebbe essere altrimenti. Sono un maschio e una femmina. Ma a riunirle nella stessa goccia di resina è stata una prossimità casuale o si erano già scelte? Le termiti non fanno il volo nuziale come le formiche. Anche se a prima vista sembra che assomiglino alle formiche, per forma e per abitudini sociali, sono in realtà molto diverse. Anzi delle formiche non sono neppure parenti. Le loro parenti più prossime sono le blatte.
«Ma blatta non è una parola colta per dire scarafaggi? Bella parentela!».
«Capisco la tua reazione. È difficile abbandonare i pregiudizi nei confronti degli scarafaggi. Alcune specie vivono troppo vicino a noi, negli interstizi delle case. Pensa però che le specie esistenti sono circa quattromila e solo una quarantina, solo l’uno per cento, vive nelle case. Pensa anche che sono tra gli animali più antichi sulla faccia della Terra. Esistevano già trecento milioni di anni fa, nel periodo Carbonifero dell’Era Paleozoica, e hanno mantenuto la stessa forma fino a oggi. Dovrebbe bastare a commuoverti. Come ordine, godono anche di un’ottima salute, sembrano in espansione. Sono loro gli insetti che erediteranno la Terra quando l’uomo e gli animali superiori saranno estinti. Così almeno hanno sostenuto alcuni futurologi. Non so se sia corretto usare la categoria di parentela, come la sto usando io, ma non mi hai detto una volta che ti affascinano le mantidi religiose? Beh, mantidi, blatte e termiti sono tutte parenti. Costituiscono insieme il superordine dei Dictyoptera, degli insetti dalle ali reticolate. E a proposito dell’ambra. Si trovano spesso scarafaggi nell’ambra. E sono più ambiti dai collezionisti di quanto i tuoi pregiudizi possano permetterti di credere. Quanto alla nostra coppia di termiti nell’ambra, credo che sia l’istantanea di un altro dramma. Come ti dicevo, le termiti non fanno il volo nuziale. Quando lasciano il termitaio perché è ora
di riprodursi sono un gran nugolo, composto da femmine e maschi insieme, alla rinfusa. In volo si scelgono, si fidanzano, direi, poi si nascondono in coppia sotto terra, a sperimentare un po’ di convivenza prematrimoniale. Come per miracolo, le ali cadono a entrambi, spezzandosi lungo una linea di frattura prestabilita. A quel punto la coppia è pronta per le nozze. I piccoli non nasceranno orfani di padre come succede tra le formiche. Il maschio non morirà, ma resterà accanto alla femmina. Le vedrà l’addome gonfiarsi come un pallone per cominciare a sfornare piccoli a mitraglia».
«Le due termiti alate della nostra istantanea sono dunque passate a miglior vita alla vigilia delle nozze?».
«Al momento del coup de foudre. Si sono viste, si sono scelte, hanno deciso di fondare insieme un popolo e una città, ma sulla loro speranza è caduta una goccia letale che ha cristallizzato per sempre il loro amore».
«Racconti degli insetti con la stessa empatia con cui ne parlava Fabre, e li fotografi con lo stesso occhio complice con cui di sicuro li avrebbe fotografati lui, se solo avesse avuto una macchina fotografica adatta, con tempi d’esposizione adeguati alla velocità con cui si muove e si consuma la vita».
«Hai mai assistito al volo delle termiti?».
«Da quello che mi dici, temo di sì. Anche se solo adesso imparo che erano termiti. E non ne ho un ricordo entusiasmante. Era un sera d’estate. In una trattoria all’aperto in campagna. Non ricordo esattamente dove fossi, in Toscana direi. Né con chi fossi. Né perché fossi lì. All’improvviso la tovaglia a quadri bianchi e rossi e la camicia e i pantaloni, che erano bianchi, mi si coprirono di nero. Degli esserini alati neri, credo a centinaia di migliaia, erano venuti a morire sul mio tavolo, addosso a me. Oltre a quel suicidio di massa e al tentativo vano di spazzare con la mano tovaglia, camicia e pantaloni, l’unica cosa che ricordo era il buon appetito con cui un grosso rospo uscito dai cespugli lungo il muro di cinta del giardino della trattoria aveva accolto quel bendidio piovuto dal cielo. Ho immaginato che fosse una ricorrenza che cadeva ogni anno, che i rospi del circondario aspettavano con ansia».
«È per queste stragi, per questi suicidi collettivi che le istantanee fossili sono più preziose. Anche le due termiti nell’ambra facevano parte di un grande nugolo destinato quasi tutto a fallire, a finire in bocca a rospi e altri animali. Sono i metodi spreconi della natura. Perché poche coppie possano salvarsi e riprodursi, altre a milioni sono destinate a morire. Vale per molte specie».
«Le termiti che ho in mente io non sono queste termiti che immagino conducano una vita sotterranea come le formiche. Le vere termiti del mio immaginario sono le costruttrici di quelle città fantastiche che ho imparato a conoscere nelle illustrazioni dei libri di viaggio dell’Ottocento. E che, non credo di dire una cosa nuova, ho ritrovato nelle architetture di terra cruda nelle moschee dell’Africa immediatamente ai bordi meridionali del Sahara. Come se i costruttori in terra cruda si fossero ispirati proprio alle termiti».
«Credo che sia così. Credo che si siano ispirati nelle linee alle fantastiche città delle termiti, ma come un bambino si ispira all’idea di un grande castello di pietra per costruire un castello di sabbia».
«Il termitaio è il castello di sabbia del bambino?».
«Il contrario. Certo che il termitaio è più piccolo della moschea. Ma pensa in proporzione. Pensa alle termiti che innalzano monticelli conici a forma di cupole arrotondate, sui cui fianchi si ergono torricelle coniche. Ognuna di quelle torricelle può essere alta due o tre metri. Qualche viaggiatore ottocentesco asseriva di averne misurate di alte almeno il doppio. Se gli uomini edificassero monumenti tanto sproporzionati alla loro statura, la grande piramide di Gizah invece di misurare 146 metri di altezza dovrebbe misurarne 1600. E poi, pensa alla tecnica di costruzione. Le architetture umane in terra cruda devono essere continuamente riparate, rinnovate, sono antiche e nuove nello stesso tempo, perché è una tecnica costruttiva non durevole. Anche le costruzioni delle termiti sono in terra cruda. Ma impastata da loro l’argilla diventa durissima. I bufali possono mettersi sopra a sentinella per vedere al di sopra delle alte erbe che ricoprono la pianura se il leone o il leopardo li minacciano. Le pareti sono dure come la pietra. All’interno sono percorse da gallerie che vanno ad affondare sotto terra. Sotto la cupola, fra la copertura e il soffitto, vi è un’intercapedine abbastanza grande da mantenere una temperatura uniforme nella cella reale. Il pavimento è piatto e il tetto è una volta forata da finestre rotonde. Tutto intorno si distribuiscono le sale di servizio, che sono anch’esse rotonde e a volta e comunicano con alcuni corridoi. Sui lati sorgono i magazzini, addossati ai muri della casa. Sono pieni di gomme e di succhi vegetali solidifi cati ed essiccati. Nella camera reale si innalzano parecchi pilastri che sostengono le culle. Poste fra il soffitto e la grande navata che sovrasta la sala reale, le culle si trovano in condizioni ottimali di temperatura uguale e di ventilazione. Secondo te qual è il vero grande castello e il castello di sabbia di un bambino?».
La signora delle metamorfosi
«Mi chiedi da dove nasce questa mia passione per gli insetti e questo mio modo di fotografarli? Non so cosa risponderti. Probabilmente ha origini molto lontane, molto indietro nel tempo. Ha a che fare certamente con il mio amore sia per la natura sia per l’arte...».
«Che si è realizzato nel tuo lavoro per l’Erbolario...».
«Certo. Ma se devo trovare uno stimolo diretto devo alla Merian, credo, che sia nato il mio interesse per gli insetti. Ti ricordi? Era dedicato a lei il primo libro dell’Erbolario che abbiamo fatto insieme».
«Come no? Era un’artista straordinaria».
«Era una donna straordinaria. Non fraintendermi, volevo dire che era un uomo straordinario. No, non va bene neanche così. Mi sai spiegare, tu che ti intendi di lingua, perché l’italiano non abbia trovato una bella parola neutra per indicare l’uomo come essere umano? Come in latino?».
«Forse perché in italiano non esiste il genere neutro».
«Già. Allora ricomincio. Era una donna straordinaria. Ebbe il coraggio di partire per il Suriname, cioè in capo al mondo, con la figlia. A cinquant’anni suonati, per disegnare la metamorfosi degli insetti di laggiù. Eravamo negli ultimissimi anni del Seicento, proprio allo scadere del secolo che aveva inventato il microscopio e scoperto la bellezza degli insetti. A quell’epoca, cinquant’anni, per una donna, erano una bella età. Senza contare che la vita nel Suriname doveva essere molto difficile, fisicamente molto faticosa. La foresta pluviale doveva essere per gli europei un inferno. Chi ci andava era per starci poco, per arricchirsi rapidamente e tornare a casa, quelli che ce la facevano. Nessuno ci andava per restare. I funzionari erano sempre degli aristocratici caduti in disgrazia, allontanati dalla corte. Per loro gli animali che strisciavano o svolazzavano in quelle foreste impregnate di umidità dovevano sembrare mostriciattoli infernali...».
«Come quelli che popolavano i quadri di Hieronymus Bosch? Che forse non a caso sono stati dipinti dopo la scoperta dell’America».
«Probabilmente. Maria Sibylla, ti ricorderai, era una donna molto colta e una splendida disegnatrice. Era la figlia di Matthaeus Merian, il celebre incisore ed editore di Basilea. Per tutta la vita aveva disegnato modelli floreali per i ricamatori. Ma per pura
passione aveva studiato e disegnato la metamorfosi degli insetti. Allora, nonostante che in Europa si allevasse ormai da secoli il baco da seta, e la metamorfosi non poteva essere un mistero, almeno per quelli che ci lavoravano, l’idea che uno stesso essere potesse assumere aspetti molto diversi nel corso dell’esistenza era ancora nebulosa. Ci lavoravano celebri scienziati, Malpighi in Italia, Swammerdam in Olanda. Ma Maria Sibylla non era una donna di scienza, era un’artista animata da un sentimento religioso della natura. Era incantata dal miracolo di quegli esseri così umili, così disprezzati, che nel corso dell’esistenza passavano da una forma a un’altra forma, molto diversa, restando sempre gli stessi. Credo che per lei la metamorfosi degli insetti fosse all’origine dell’intuizione che la bellezza non è una qualità fissa immutabile, che ogni bellezza si trasforma con il tempo in un’altra bellezza, altrettanto sorprendente, altrettanto magica. La bellezza del bruco diventava la bellezza della farfalla e la bellezza della farfalla si cancella, muore perché si rinnovi la bellezza del bruco».
«Parlare di bellezza delle farfalle è facile. In fondo le farfalle, nella loro leggerezza, nella loro fragilità, sono belle per definizione, come i fiori cui sono associate. Sappiamo che la farfalla è bella anche quando non avvertiamo quasi più la sua bellezza, perché è troppo comune. Sappiamo che è bella la cavolaia, la farfalla bianca più comune dei nostri prati, dei nostri giardini, più comune di tutto l’emisfero settentrionale. In fondo dobbiamo ammettere che è bella anche la farfallina che sembra arrivata apposta dal Sud Africa per sterminare i gerani dei nostri davanzali. Ma sentirti parlare con tanto trasporto della bellezza dei bruchi, mi sembra un po’ ardito. In fondo i bruchi appartengono alla categoria degli esseri che strisciano e gli esseri che strisciano non godono per definizione la simpatia degli umani».
«Sei sicuro che i bruchi striscino? Osservarli bene. Hanno delle andature particolari, magari buffe, magari stravaganti, se vuoi, ma non strisciano. Pensa ai cosiddetti bruchi geometri, che procedono disegnando nell’aria una specie di greca. Ti sembra strisciare quello? E i colori? E le forme dei bruchi? Chi, se non forse il pittore Joan Mirò saprebbe giocare con i colori primari, con il rosso, il giallo, il nero, il bianco, meglio di un bruco?
Chi più dei bruchi saprebbe sfumare, accostare, fare squillare i verdi, i gialli e i bruni della foresta, come in un quadro di Corot? Appena lo guardi con gli occhi limpidi di un bambino, non ancora appannati dalla nebbia dei pregiudizi, ti rendi conto che il bruco è un essere molto, molto bello, e molto, molto divertente, proprio nella sua andatura. Ti rendi conto che non è per niente un essere strisciante. A me sembra piuttosto saltel-
lante. E cosa c’è di più allegro, di più divertente, di un’andatura saltellante? Al massimo un bruco può avere un atteggiamento un po’ sussiegoso, come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie che se ne sta acciambellato su un fungo a fumare il narghilè».
«Come avrà fatto la Merian ad appassionarsi al fenomeno della metamorfosi?».
«Ti poni problemi più da psicanalista che da storico. Non saprei. Forse era il momento. Come ho scoperto io la bellezza degli insetti? Non ti dico niente di nuovo, se ti dico che la bellezza l’ho sempre cercata nella natura. Avrebbe potuto accadere in qualsiasi momento, che fossi folgorato dalla bellezza, dalla pienezza di vita e dalla profondità di significato concentrati nelle esplorazioni di un esserino giallo e nero su un petalo di rosa. Poteva accadere tanto tempo fa. Per fortuna non è accaduto. Non sai che fortuna sia scoprire a un certo punto della vita tutto un mondo nuovo, che ti assorbe...».
«Come la Merian?».
«In un certo senso sì. Difficilmente un artista ha l’esatta misura del suo lavoro, ma di una cosa sono sicuro. Non so quanto queste mie fotografie valgano dal punto di vista dell’arte della fotografia. Ma sento che sono importanti perché ho visto che comunicano gioia e stupore in chi le osserva. Svelano, portano alla luce l’inesauribile patrimonio di bellezza che ci sta attorno, accanto al quale possiamo passare a occhi chiusi per tutta la vita. Tutta questa bellezza è qui, attorno a noi. Potremmo uscire in questo momento, andare in questi giardinetti sotto casa e sono sicuro che la ritroveremmo. La bellezza è dappertutto intorno a noi. Quello che ci manca è la capacità di accorgercene, di riconoscerla, di goderne. E quindi di rispettarla, di proteggerla. È solo la consapevolezza della bellezza che potrà salvare il nostro ambiente».
«Sono perfettamente d’accordo. Ma allora perché la Merian ha voluto andare in Suriname? Per spirito d’avventura? Mi sembra piuttosto strano in una donna che aveva scelto di ritirarsi in una comunità religiosa dedita al lavoro».
«Al solito, non è una domanda che puoi fare a me. E lei non credo che abbia lasciato una risposta. Forse è andata alla ricerca della vita».
«Cioè?».
«Lei negli insetti aveva sempre cercato la vita. Per questo la sento vicina. In Olanda arrivavano dal Suriname esemplari di magnifici insetti, contesi a colpi di talleri e di fiorini dai collezionisti. Cacciare esemplari esotici per i collezionisti era diventata una professione. Anche redditizia. La bellezza di certe farfalle, di certi coleotteri, le forme
fantastiche di certi insetti mimetici erano il paradiso per i collezionisti. La Merian stessa, in un periodo della sua vita, per mantenersi aveva commerciato negli esemplari che i marinai e i mercanti portavano dall’America. Erano oggetti bellissimi, spesso più belli di un gioiello, ma erano oggetti, erano morti. Come potevano bastare alla Merian, che aveva scoperto la bellezza degli insetti nella loro attività, nel loro rapporto con i fiori? Gli insetti che lei amava erano vivi. Aveva imparato a conoscerli nei giardini e nei prati intorno a casa, mentre copiava, disegnava i fiori per i modelli per i ricamatori. La sua forza era di avere intuito la bellezza della vita. I suoi disegni erano tanto apprezzati dai ricamatori perché non erano eleganti versioni di modelli tradizionali, ma avevano la spontanea bellezza della vita; quella bellezza che era lì, sotto gli occhi di tutti, ma che solo una grande artista era riuscita a vedere. Così, quando aveva avuto la possibilità di andare dove gli splendidi insetti tropicali erano vivi, dove nascevano, si trasformavano, si riproducevano e morivano, non ha perso l’occasione. Il patrono della comunità in cui viveva in Olanda aveva interessi e possedimenti in Suriname. Le procurò un passaggio per nave e un posto dove stare. Oltre alla figlia, che portò con sé, Maria Sibylla non aveva più legami e affetti in Olanda. Il risultato furono le tavole stupende che Maria Sibylla pubblicò in un libro che ebbe diverse edizioni. Noi, quando abbiamo pubblicato le tavole della Merian, lo abbiamo fatto per la bellezza delle piante. Per lei quei fi ori e quei frutti esotici non erano che l’ambiente. A lei interessavano gli insetti. Ma, viste con occhi contemporanei, quelle tavole sono probabilmente il primo esempio di visione ecologica della natura. L’insetto è infatti rappresentato in tre stadi della sua evoluzione: l’insetto compiuto, l’immagine cioè, il bruco e la crisalide. Ma è rappresentato anche sulla pianta che lo ospita e di cui il bruco si nutre. E nella stessa tavola compare anche il predatore (la lucertola o il serpente o il ragno) che di quell’insetto si nutre. Detto così, sembrerebbe che alla nostra disegnatrice interessasse solo l’aspetto scientifico, naturalistico della questione. In realtà non c’è niente di meno vero. Se prendiamo una tavola a caso, quella che rappresenta un celebre limone del Suriname, la tavola ventottesima cioè, troviamo disegnato uno strano animaletto con una struttura complessa, quasi da ragno, che ha creato in una foglia un buco tondo. Un po’ più avanti, come la stessa Merian dice nella didascalia, c’è un bozzolo dalla forma piuttosto strana, e più avanti l’immagine, cioè l’insetto nella sua forma compiuta, che è una piccola falena poco vistosa. La Merian racconta che il bruco di questa farfalla è particolarmente velenoso, ma quello che è più
interessante, e quello che maggiormente si vede nel disegno, è un curioso coleottero dalle lunghe antenne con le zampe anteriori estremamente sviluppate e dai colori molto vivaci che risaltano sul limone su cui è posato, un vero coleottero da collezione. La Merian non cerca di spacciare questo coleottero come il predatore della piccola falena; dice candidamente, o acutamente, che ha messo lì il coleottero rosso, giallo e nero, semplicemente perché era bello e dava luce al disegno. Non potrei giurarlo, ma la mia attenzione alla bellezza degli insetti sui fiori o sulle piante può proprio essere stata stimolata dalla lunga consuetudine con queste magnifiche tavole, quando le abbiamo pubblicate».
«Sai quanto ammiro le tavole della Merian, ma non ti sembra che siano troppo costruite, troppo teatrali, troppo artificiali, se paragonate soprattutto all’immediatezza, alla spontaneità delle tue fotografie?».
«Nessuno sfugge allo stile della sua epoca. Il Seicento era il secolo dell’artificio più che della spontaneità. Qualche genio può provare a modificarlo, a ribaltarlo. Non fu il caso della Merian, ma cosa poteva fare, povera donna? Non c’era la fotografia. E soprattutto non c’erano le istantanee. Prova a osservare il galoppo di un cavallo in un dipinto antico, antico per modo di dire. Prima della fine dell’Ottocento. Il movimento è tutto sbagliato. Prima che un certo Muybridge escogitasse il sistema di fermare i momenti successivi della corsa di un cavallo con una batteria di macchine fotografiche, nessuno poteva dire con certezza se un cavallo staccasse dal suolo contemporaneamente o meno tutte e quattro le zampe in una delle fasi del galoppo. E lo stesso vale per il battito delle ali degli uccelli in volo. Lo stesso Audubon, forse il più grande ritrattista di uccelli di tutti i tempi, non riusciva a vedere la vera sequenza di un rapace che si abbatte sulla preda. A lui, come a tutti, pareva che il rapace piombasse sulla preda perpendicolarmente dall’alto, mentre la fotografia ci ha mostrato che piomba perpendicolarmente dietro la preda, per poi attaccarla dal suolo. Figurati per un esserino capace di battere le ali dieci, quindicimila volte al secondo. A parte questo, la Merian non poteva sedersi nella foresta, magnifica ma inospitale, a osservare con tutta calma le evoluzioni e le trasformazioni dei suoi insetti. Era costretta a portarseli a casa, se casa si poteva chiamare la baracca in cui viveva, conservarli e ricostruire con la memoria e con la fantasia la scena».
questo
di vedere gli insetti, e il rapporto degli insetti con l’ambiente, sia dovuto proprio a una donna alla fine del Seicento, quando grazie alle nuove idee illuministiche anche le donne facevano i primi timidi
«È curioso, ma molto interessante, che
modo rivoluzionario
passi nel mondo della scienza».
«Sì, hai ragione, ma pensa a un’altra donna, olandese, contemporanea della Merian, mi riferisco a Rachel Ruysch».
«Ho già sentito questo nome».
«Certo che l’hai sentito. Avrai anche visto qualche suo quadro. Nel genere natura morta di fiori è piuttosto famosa. E poi era la figlia di quel Federico Ruysch di cui Giacomo Leopardi, nelle Operette Morali, fa cantare le mummie».
«Certo».
«La figlia fu una grande pittrice di nature morte e di fiori, ma la sua particolarità fu di ravvivare quei grandi bouquet con voli di insetti, farfalle e coleotteri. Ma c’è un’altra donna praticamente all’origine non solo della storia degli insetti ma quasi della civiltà. Si chiama Xi-Ling-Shi».
«E chi è?».
La Via della seta
«Chi è Xi-Ling-Shi, mi chiedi. Allora è vero che da noi la cultura cinese fa acqua da tutte le parti».
«Hai ragione, ma per me è difficile occuparmi di cose di cui non conosco la lingua. Mi è perfino difficile ricordarmi i nomi, distinguere un nome dall’altro. Probabilmente è una forma di chiusura mentale dovuta al provincialismo».
«È la moglie di Shi-Huangdi...»
«Questo signore so chi è. Almeno lo so se è la stessa persona di Qin Shi Huang, ovvero il primo imperatore della Cina, il fondatore della dinastia Han, ovvero l’uomo che avviò un impero che sarebbe durato duemila anni. Fu il costruttore di gran parte della Muraglia cinese e ordinò per il suo mausoleo il grande esercito di terracotta, quello che da trent’anni la Repubblica Popolare Cinese fa girare a piccole sezioni per il mondo, da un’esposizione universale all’altra, da una grande mostra all’altra, insegnando all’Occidente, e all’Italia in particolare, come si fa a spingere sul mercato del turismo le meraviglie archeologiche».
«Non è lui, credo che Huang-di significhi primo imperatore, ma il nostro Huangdi è un imperatore semimitico che regnò intorno al 2600 avanti Cristo. A sua moglie, XiLing-Shi, viene attribuito il merito di avere mostrato agli uomini il modo di produrre la seta. Viene spesso rappresentata in giardino mentre coglie le foglie del gelso per nutrire i suoi preziosi bachi».
«Non sarà una leggenda?»
«Certo che è una leggenda. Quello che non è una leggenda è la cura e la ferocia con cui per secoli gli imperatori storici della Cina cercarono di impedire che il segreto della produzione della seta si diffondesse oltre i confini dell’Impero celeste».
«Beh, nella galleria degli stravaganti che ho collezionato nel corso della vita ce n’è uno che sosteneva di avere trovato e acquistato presso un antiquario l’autentico bastone cavo dentro il quale due monaci avrebbero contrabbandato a Bisanzio le prime uova del bombice della seta, o meglio le prime sementi, come si diceva, con un curioso termine vegetale».
«Stravagante non ti sembra un eufemismo? Quella dei monaci di san Basilio che andavano avanti e indietro dalla Cina e del bastone cavo è poi la storia che ci hanno raccontato alle elementari. Tu sai quale ne sia la fonte?».
«C’è chi sostiene che sia Procopio di Cesarea che, a quanto mi consta, parla invece solo
dei fabbricanti di abiti di seta, che sarebbero stati rovinati dai provvedimenti fiscali di Giustiniano. Altri attribuiscono l’informazione a un Giovanni Zonara, che scrisse a Costantinopoli una storia del mondo intorno al 1120. Devo dirti che è un libro che non ho mai cercato. Ma c’è un’altra versione. Credo altrettanto fondata sul nulla. A portare fuori i bachi dalla Cina sarebbe stata una principessa cinese, che li avrebbe nascosti nella parrucca monumentale per offrirli in dono al suo promesso sposo, un principe della provincia di Bukhara, città sulla Via della seta. È da lì che sarebbero arrivati poi facilmente in Occidente».
«Bisogna comunque tenere conto che le uova o anche i bachi del bombice non sarebbero serviti a molto senza la coltura del gelso, che è l’unica pianta di cui il baco da seta si ciba».
«Ma è solo il bombice del gelso, il Bombix mori, che produce la seta, che costruisce il bozzolo con la seta?».
«Ma no! Cosa dici? Moltissimi lepidotteri costruiscono il bozzolo con la seta, e anche altri insetti. Ma in alcuni casi non è abbastanza resistente perché valga la pena di filarla, in altri casi non abbastanza lunga per essere filata. Non hai presente l’ailanto?».
«L’ailanto? Quella pianta infestante che cresce dappertutto, negli interstizi del marciapiede, nelle terre di nessuno? Quella pianta dalle foglie che puzzano?»
«Sì, quella pianta, anche se hai un’idea molto parziale e un’opinione prevenuta dell’ailanto. Sai che quando cresce ben coltivato diventa una pianta magnifica? Nell’Ottocento, nella elegantissima Vienna dell’imperatrice Sissi, ne bordarono lunghi viali. Ma la cosa curiosa, è che l’ailanto fu introdotto in Europa, sempre dalla Cina, proprio per la seta».
«Allora il bombice del gelso non si nutre solo di foglie di gelso, come dice il suo nome. Mangia anche le foglie d’ailanto?».
«Errore. Un’altro lepidottero, una falena bellissima, non modesta come il bombice del gelso, è associata all’ailanto. Sarà molto difficile che mi riesca di fotografarla perché è notturna, ma mi piacerebbe molto. È magnifica. È la pavonia dell’ailanto. Le ali saranno lunghe più di dieci centimetri, con la forma leggermente a uncino, un po’ come i cinesi disegnano il pipistrello sulle ceramiche e sui tessuti. Fu introdotta in grande, insieme all’ailanto, verso la metà dell’Ottocento, quando una malattia attaccò il baco da seta, e sembrava che un’industria ormai fiorente, come quella lombarda o francese, nella zona di Lione, dovesse crollare. In realtà si verificò poi che la seta della pavonia, anche
se era molto usata in Cina, non era né così brillante né così resistente come la seta del bombice. Ma se ti interessa, potrei citarti una quantità di farfalle che producono una seta di buona qualità, anche se nessuna ha potuto sostituire il bombice che probabilmente è stato uno degli animali più importanti dell’intera storia della civiltà».
«Senza dubbio. Sulla produzione e il commercio della seta si è creato quel canale di scambio che fu la Via della seta e servì per secoli da autostrada per le invasioni asiatiche in Europa. Il commercio della seta fu il primo tramite per un processo irreversibile di globalizzazione, come diciamo oggi. Secondo te perché si scoprì l’America?».
«Per i ben noti motivi. L’affermazione delle società islamiche in Medio Oriente avevano interrotto o reso troppo precari i traffi ci sulla Via della seta. L’Europa, a corto d’oro e affamata di spezie, cercò di sfruttare l’idea di rotondità della Terra per arrivare alle Indie da occidente e evitare la Via della seta, sia per terra che per mare».
«E l’oro, secondo te, dov’era andato a finire?
«Mah, non saprei. In Oriente?».
«Gran parte dell’oro dell’Europa si era perso sulla Via della seta. Il prestigio della seta, per paradossale che possa sembrare, era tale che anche nei momenti difficili le classi dominanti non sapevano rinunciarci. Un esempio per tutti. Forse ti ricorderai del periodo dell’anarchia militare nell’Impero romano. Quando gli imperatori non duravano più di qualche mese e qualche volta ce n’erano tre o quattro contemporaneamente, che si combattevano senza quartiere. Parlo del tardo terzo secolo dopo Cristo. In quel periodo le monete facevano davvero pena, erano l’ombra degli antoniniani degli imperatori del secolo precedente. Praticamente era scomparso l’argento e le vecchie monete d’argento erano state sostituite da tondelli sempre più piccoli, sempre peggio coniati, di bronzo, spolverati appena d’argento, anche la fisionomia degli imperatori non si riconosceva più. Le monete d’oro, invece, erano di oro puro, e belle come al solito, perché non potevano contare su una circolazione forzata e perché servivano per pagare le merci importate, ovvero la seta. Nessuno, al di fuori dell’impero, avrebbe accettato monete di valore intrinseco più basso, solo perché recavano l’effigie di un imperatore romano. Tutte le monete d’oro sparivano sulla Via della seta. Una parte arrivava in Cina, ma una gran parte si fermava nell’incrocio di strade più battuto, che più o meno corrispondeva alla zona attualmente tra Afghanistan e Pakistan. Lì i sovrani kusana battevano splendide e copiose monete d’oro, senza avere sul loro territorio alcuna miniera di quel metallo. Erano tutti soldi romani riconiati. In Cina, origine e capolinea di quel commercio, si è dato
nei secoli più valore all’argento che all’oro. Ma quello che sembra impossibile è che, anche in un periodo di estrema miseria, di epidemie, di guerre, di carestie, come i decenni dell’anarchia militare, il prodotto più ambito, per cui imperatori e potenti erano disposti a svuotare le casse, fosse la magnifica seta cinese. Sembra buffo che un insetto abbia potuto avere un tale peso nella storia della civiltà e non solo occidentale».
«Per l’alta Lombardia la seta è stata a lungo il pane. Figurati che mi ricordo ancora nelle nostre campagne i gelsi lungo la strada. Ormai ne sono rimasti pochissimi e quasi nessuno capitozzato. Li si vedono ormai solo in certi quadri di paesaggio della fi ne dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Gelsi nella bruma invernale. Erano belli, a modo loro, quei tronchi tozzi, brevi e cilindrici da cui partiva una quantità di rami dell’anno. Le foglie si potevano cogliere quasi senza usare la scala. Dalle mie parti si chiamavano pellerine le donne che, quand’era stagione, raccoglievano le foglie del gelso per nutrire i bruchi. Era un lavoro delicato, quasi materno, perché le foglie dovevano essere perfettamente asciutte, altrimenti i bruchi si ammalavano e morivano. Ho anche in mente qualche verso di una poesia di D’Annunzio. È intitolata La sera fiesolana, te la ricordi?
“Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscio che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie”».
Le api
«“Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte, Chi altrettante la riedificò? In quali case, di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori? Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari?”».
«Posso continuare io?
« “La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare l’inghiottì, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo?”
«Bertolt Brecht è stato uno dei poeti dei miei tempi migliori. Ma perché me lo reciti? Non sarà che vuoi farmi capire che non sei d’accordo che parli più della regina delle api che delle operaie o dei maschi? La regina non riuscirò mai a fotografarla su un fiore. Di lei, della sua vita, del suo ruolo posso solo raccontare storie che mi sono state raccontate. Se so com’è fatta è perché ho visto disegni, fotografie di altri. La sua è una vita di reclusa, non esce mai dall’arnia. Esce solo una volta, per il volo nuziale. O se deve partire con uno sciame che lascia l’alveare per crearne un altro. Mi sembra la storia dei Greci che studiavamo a scuola. La città diventa troppo piccola per la popolazione e una parte si imbarca con le immagini degli dèi e degli antenati per fondare una colonia al di là del mare. È una secessione pacifica, prevista, condivisa da chi parte e da chi resta. Ma anche in questo caso, nel caso della fondazione di una nuova colonia, nel breve tempo che sta all’aria aperta, la regina non ha modo, né motivo, per svolazzare in giro, per ve-
dere un po’ il mondo, per posarsi su un fiore, nemmeno una volta nella vita. Se la vedi dal punto di vista dell’allegro, indaffarato ronzare delle api sui fiori, quella della regina è una vita sacrificata».
«Ma sai, il sacrificio è rinuncia a qualcosa che si desidera, qualcosa che si aspetta, che ci si aspetta. Nell’istinto della regina delle api non è previsto di volare all’aria aperta, di passare di fiore in fiore».
«Non mi sembra così pacifico, così chiaro come pretendi tu. Se le informazioni genetiche sono contenute nell’uovo, ti ricordo che l’uovo di quella che diventerà regina è identico all’uovo di ogni operaia. Basta essere allevato con un cibo più ricco e diverso, schiudersi e crescere in una cella più ampia, per mutare le informazioni genetiche? Non prendermi in giro se pesco nei ricordi scolastici, ma Feuerbach avrebbe avuto ragione alla lettera quando diceva che l’uomo è quello che mangia? L’ape regina è quello che mangia? Basta un cibo diverso, uno spazio diverso per mutare non solo le forme, le dimensioni, persino gli organi interni, ma soprattutto l’istinto, le informazioni genetiche? Dal punto di vista anatomico la regina somiglia più ai maschi delle api. Non ha le spazzole per raccogliere il polline, non ha le ceste per portarlo, non ha nel suo addome l’apparato per produrre la cera, non ha nessuno degli strumenti che la natura ha fornito alle apine laboriose per procurare il cibo e costruire la casa per tutta la comunità».
«Sarà per questo che per molto tempo si è taciuto della regina delle api? Pensa che il primo che ha pensato di scrivere che a capo della società delle api c’era una regina è stato un certo Charles Butler, che pubblicò in Inghilterra un libro intitolato La Monarchia femminile, ovvero la storia delle api. Non era neppure un filosofo naturale, come allora chiamavano gli scienziati. Ma era il 1609 e Elisabetta, la regina vergine, era morta solo da sei anni, dopo quasi mezzo secolo di regno, durante il quale aveva mutato le sorti d’Inghilterra e il corso della storia europea. Dopo le grandi sovrane del passato, storiche o mitiche, era la prima donna della storia a portare la corona. E con quali conseguenze! Mi è proprio difficile pensare che un titolo come La Monarchia femminile non fosse stato ispirato a Butler dal regno della grande Elisabetta».
«Infatti l’ape regina si comporta un po’ come la grande Elisabetta, come la chiami tu».
«In che senso?».
«In che senso, mi domandi. Sai che la storia non è mai stata il mio forte. Ma, se non ricordo male, Elisabetta fece uccidere Maria Stuarda, pericolosa pretendente al trono
d’Inghilterra, o no?».
«Sì, e allora?».
«Allora ascolta cosa fa un’ape regina. Appena nata. Te lo racconto come lo ha raccontato Huber, non so se riesco a rendere il pathos bene come lui, ma ci provo».
«Huber? Sarà uno svizzero, tutti gli Huber che mi è capitato di incontrare erano svizzeri. Ce n’era uno che aveva scritto un libro sul volo degli uccelli. Non sarà lui?».
«Non so, il mio si chiama François ed è molto noto tra i cultori di api. Se non ricordo male, il suo libro si intitola Nouvelles observations sur les abeilles».
«Ci sarà una traduzione in italiano...»
«Non so. Non so neppure se c’è una edizione recente in francese. Ma è molto citato. Ascolta questa storia. Impressionante. La giovane regina, appena uscita di culla...».
«Vuoi dire cella, o celletta, per usare una parola meno carceraria».
«No, proprio culla. Huber usa spesso nomi e riferimenti umani. E a me non dispiace. Non riesco a parlare degli animali senza fare riferimento alla nostra vita. Appena uscita di culla, la giovane regina va a visitare tutte le altre celle reali. Si getta sulla prima che incontra e si dà da fare, e lavora, finché non riesce ad aprirne un’estremità. Con i denti, poi, cerca di strappare la seta del bozzolo, ma non riesce nel suo intento. Allora si mette a lavorare all’estremità opposta, dove riesce a fare un’apertura più grande. Quando l’apertura è abbastanza grande, vi introduce il ventre e lo agita freneticamente in tutti i sensi, finché non riesce a colpire la rivale con un colpo mortale del suo pungiglione. Poi si allontana. Allora le api operaie, che hanno assistito fino a quel momento al crimine, lavorano a ingrandire l’apertura e tirano fuori il cadavere di una regina appena uscita dal suo bozzolo di ninfa. La regina vittoriosa si precipita intanto su un’altra cella reale, ma questa volta si trattiene, non introduce l’estremità del suo ventre, perché questa cella, a differenza della prima, non contiene che una ninfa, e non una regina formata, sul punto di uscire dal bozzolo. È probabile che sotto la forma di ninfa, le regine ispirino meno furore alle loro rivali. Non per questo si salvano. Una volta che una cella reale è stata aperta prima del tempo, le operaie la svuotano di quello che contiene, bruco, ninfa o regina formata che sia. Ma quello che è più curioso è che quando la regina è troppo stanca per continuare l’eliminazione sistematica delle rivali, ci pensano le operaie; anzi, le celle reali sono spesso distrutte tutte prima della nascita delle occupanti, a meno che la colonia non abbia intenzione di sciamare, e quindi abbia bisogno di una
regina alternativa. In questo caso le operaie impediscono alla giovane regina di avvicinarsi alle celle reali e le proteggono contro la sua collera. In modo analogo a come si comportano gli uomini quando non possono ottenere quello che vogliono, la regina si dimostra molto contrariata di essere stata intralciata e emette una serie di note acute e irritate. Le stesse note che fa sentire quando la si tiene in mano. Le regine, che sono nutrite nelle loro celle e tenute in vita dalle operaie, rispondono in modo simile. Ma a causa della prigionia, il suono risulta molto diverso. Questi suoni, così differenti dal ronzio prolungato delle api, sono per gli apicoltori l’indice quasi sicuro dell’esodo prossimo di uno sciame.
«Il dramma esplode le rare volte che due regine escono dalla cella nello stesso istante. Appena si vedono, si lanciano l’una contro l’altra, manifestando grande collera, per finire in molti casi in una situazione imbarazzante, ciascuna con in bocca le antenne dell’altra; ciascuna con la testa, il busto e il ventre opposti alla testa, al busto e al ventre della rivale. Non avrebbero che da piegare l’estremità posteriore per colpirsi reciprocamente con il pungiglione. Ma la natura non vuole che muoiano tutte e due. Appena le due regine sentono che i loro addomi stanno per incontrarsi, si slacciano, per ricominciare la battaglia poco dopo. I round, se mi consenti il termine del ring, possono essere anche tre. Le api operaie, già agitate durante lo scontro, si agitano ancora di più quando le avversarie si separano. In diverse occasioni impediscono la fuga delle regine, le afferrano alle gambe e le tengono ferme anche più di un minuto. Al terzo round, la regina più forte o più combattiva riesce ad afferrare di sorpresa la rivale e, mordendola alla radice dell’ala, le monta sopra e la colpisce con il pungiglione. Lascia la presa solo quando sente l’avversaria morire».
«Umano, troppo umano. Mentre raccontavi mi sembrava di assistere a una di quelle scene di lotta senza quartiere in un’arena, con il pubblico che vuole il sangue, alle quali ci ha abituato il cinema. È incredibile quest’immagine delle operaie che impediscono alle contendenti di allontanarsi e le ributtano nella lotta. Chissà se fanno anche il tifo per l’una o per l’altra. Hai assistito a uno di questi scontri?».
«No, magari. Vi ha assistito Huber, io l’ho solo letto. Molte volte. È un racconto che mi lascia sempre esterrefatto. E sai perché? Per la sua disumanità, dirai. Io direi per la sua umanità. Non sembra un dramma shakespeariano?».
«Sai, più che a un dramma elisabettiano, mi sembra che la vita politica in un alveare
assomigli di più ai sistemi consuetudinari di successione nell’Impero ottomano».
«In che senso?».
«Nel senso che, curiosamente, le istituzioni degli insetti sociali, in qualche modo, riecheggiano le istituzioni politiche umane. Sai cos’è la Sultana Valide? È la madre del sultano, per secoli la donna più importante dell’Impero ottomano e probabilmente del mondo. E per inciso, perché tu non pensi che di certe efferatezze siano capaci solo gli orientali, di Valide ce n’è stata almeno una italiana: veneziana, e delle più potenti, una che intratteneva una corrispondenza appunto con Elisabetta d’Inghilterra. È ricordata come la Baffa, perché apparteneva alla famiglia patrizia dei Baffo veneziani, cioè era un’antenata, collaterale, naturalmente, di Giorgio Baffo, il nostro poeta più licenzioso. Nell’Impero ottomano la successione al trono non dipendeva dalla primogenitura. Tutti i figli maschi di una qualsiasi delle donne dell’harem, dalla prima moglie all’ultima schiava, quindi tutti i figli del sultano, avevano la possibilità di succedere al trono. Il che scatenava una lotta furibonda, senza quartiere, fatta soprattutto di intrighi tra le madri, finché i figli sopravvissuti alla morte del sovrano non si combattevano apertamente per il regno. Chi vinceva era tenuto a sopprimere tutti gli altri. La madre del vincitore diventava la Sultana Valide, che dall’interno dell’harem gestiva quel potere immenso che si era conquistata. Ma nell’alveare, chi è che gestisce il potere?».
«Forse nessuno. L’alveare stesso, come un superorganismo. Anche se mi verrebbe da dire che l’alveare è una repubblica fondata sul lavoro».
«È una frase che mi pare di avere già sentito».
«Davvero? Comunque non sono i maschi ad avere il potere. Sono i più sprovveduti. Non hanno gli strumenti di lavoro, ma neppure il pungiglione per difendersi e per offendere. Anche alla regina il pungiglione non serve per difendersi. A una regina puoi fare di tutto, martoriarla, mutilarla, senza che cerchi di pungerti. Alla regina il pungiglione serve solo per liquidare le concorrenti. Il maschio a difendersi, a offendere, non ci pensa proprio. Sarà il punto di vista interessato, gretto se vuoi, degli apicoltori, ma è considerato un fannullone, un mangia miele a tradimento, capace solo di andare in giro a ronzare senza posa, tanto da guadagnarsi in francese il nome di “falso bordone”, proprio per questa sua caratteristica. Il maschio non può essere un granché, se perfino le operaie con il loro apparato genitale femminile rudimentale sono in grado di deporre uova per far nascere dei maschi in caso di necessità. Uno solo di una schiera di inutili
fannulloni si unisce nel volo nuziale alla nuova regina per morire subito dopo, mutilato, perché la regina, che rimarrà fecondata a tempo indeterminato, gli strappa il pene e lo conserva dentro di sé. Il primo ad accorgersi del fenomeno, come al solito, è stato Huber. A descrivere un episodio delle nozze è invece un certo Alexandre Levy, che pubblica il suo racconto di collezionista fortunato nel 1869 sulla rivista specializzata “Le Journal des fermes”. Il mese è maggio, il più felice per gli amori e per la caccia fotografica tra i fiori. Levy scorge due insetti che si rincorrono con un forte ronzio. Pensa a una battaglia. L’inseguitore vola un po’ sopra l’inseguito e si lascia cadere su di lui. L’impatto è violento. I due insetti perdono quota, proprio accanto all’uomo che li osserva indiscreto e che con un colpo del fazzoletto li fa precipitare a terra. Storditi e immobili, i due insetti restano accoppiati. Levy ha finalmente capito di cosa si tratta, sono una femmina, una regina, e un falso calabrone, un maschio d’api, che hanno consumato le nozze in volo. Poiché non voglio condividerne la responsabilità morale, lascio che sia lui stesso a raccontare quello che succede dopo: “Credendo di avere ucciso le povere bestie, non mi feci scrupolo di infilzarli tutti e due con lo stesso spillo, ancora accoppiati nelle rispettive posizioni. Ma il dolore li fece rinvenire. Il maschio non tardò a separarsi dalla femmina, ma l’operazione fu violenta e ebbe come effetto che il pene si staccasse e rimanesse nella vagina. Dopo un’ora era morto. La femmina era ancora viva il giorno dopo e cercava di piegare l’addome per estrarre con le mandibole il pene che le era rimasto dentro, ma la rigidità dello spillo le impediva di compiere l’operazione. Poco dopo anche la regina morì”. Se non si fossero imbattuti in un collezionista dalle lacrime di coccodrillo, il maschio sarebbe comunque morto per l’evirazione, mentre la regina sarebbe tornata nell’alveare a togliersi il pene. Se non ci fosse riuscita, le operaie l’avrebbero aiutata».
«Mi sembrano molto sollecite le operaie. Anche con i maschi?».
«Con i maschi magari no, ma sono tolleranti, continuano a nutrire il loro appetito spropositato, anche se, avvenuto il volo nuziale, i maschi non hanno più alcuna funzione. Sono dei parassiti che si ingozzano di miele prezioso. Spesso sono tantissimi, quando ne sarebbe servito uno solo. È un altro di quegli sprechi per cui la natura prevede la generazione di una moltitudine di esseri solo perché pochi possano perpetuare la specie. Comunque finché dura la buona stagione e il polline è abbondante, le operaie sembrano non fare caso a quegli inutili mangioni. Naturalmente, appena la materia prima comincia a scarseggiare, li eliminano».
«Incominciavo a vedere un alveare come una società idillica, meno disumana di tante società umane...».
«Beh, con i maschi delle api, gli apicoltori, interessati alla produzione, sono molto meno generosi delle operaie. Anzi. Quando il volo nuziale è avvenuto, li sfrattano. Mettono davanti all’ingresso dell’arnia una griglia. L’ampiezza delle maglie è studiata per lasciare passare le operaie, più minute, ma per impedire l’ingresso ai maschi. E poiché i maschi non hanno gli strumenti per procurarsi il cibo... Con la regina invece le operaie sono addirittura affettuose».
«Cioè?».
«Ogni volta che una regina si accosta a un gruppo di operaie riceve prove di amore filiale. Alcune la accarezzano con le antenne, altre le offrono cibo, indietreggiando per farle strada. Se una regina viene portata via, tutta la colonia cade in uno stato di grande agitazione. Tutti i lavori sono sospesi, le operaie percorrono le celle in disordine ed escono frequentemente dall’arnia alla ricerca della loro regina. Se non riescono a trovarla, tornano dentro intristite e con il loro ronzio desolato testimoniano il dolore per la disgrazia. Il suono che emettono è curiosamente lamentoso. D’altronde la cura per allevare una regina è formidabile.Quando l’alveare è troppo popoloso e le api si preparano a sciamare...».
«Ma... chi decide di sciamare? Mi pare di avere capito che non sia la regina».
«No, sembrerebbe una decisione collettiva, come se la colonia avesse una volontà propria».
«Curioso, interessante... dicevi?».
«Quando le api si preparano a sciamare costruiscono un certo numero di celle reali. Queste celle assomigliano a ghiande, hanno circa 25 millimetri di lunghezza e 8 di diametro. Hanno pareti molto spesse, per cui è necessaria una grande quantità di cera. Sono oggetto di grandi cure da parte delle operaie. Non passa un secondo che qualcuna non vi introduca la testa. Sia per verificare se la larva è in buona salute sia per controllare la provvista di cibo. Il numero delle celle reali in un’arnia varia molto, raramente sono meno di cinque e quasi mai superano la dozzina. L’uovo che è destinato a formare la regina non differisce dalle altre uova destinate a produrre operaie. È il modo in cui la larva destinata a diventare regina è nutrita che la fa arrivare a maturità in un tempo molto minore delle operaie. I suoi organi interni si sviluppano completamente, in modo
che possa diventare madre. Cambia anche la forma e i colori. Le sue mandibole sono più corte, la testa è arrotondata. L’addome non ha gli organi per produrre la cera, le zampe non hanno le spazzole per raccogliere, per portare il polline, il pungiglione è curvo e di un terzo più lungo di quello delle operaie. Anche l’istinto è diverso. Mentre un’operaia avrebbe lanciato il suo dardo alla minima provocazione, a una regina si possono strappare le ali e le zampe, una dopo l’altra, senza che tenti di pungere. E soprattutto, se fosse stata un’operaia, avrebbe trattato la regina con la più grande considerazione, mentre ora, come abbiamo visto, appena vede un’altra regina cerca di ucciderla. Ma non pensare che la regina non lavori, anzi probabilmente lavora più di ogni altro abitante dell’arnia, anche se la sua unica attività è di deporre uova. Diversamente dalla regina delle formiche che depone le uova a raffica e lascia alle operaie il compito di sistemarle, l’ape regina, che è capace di deporre anche tremilacinquecento uova al giorno, le sistema personalmente una per una nella celletta appropriata. Vedi bene che è una grande lavoratrice in proprio. In fondo si accolla il lavoro fondamentale dell’alveare».
«Incredibile, non ci avevo mai pensato. Non mi era mai capitato di leggere qualcosa su questo argomento. Tu dove hai imparato queste cose?».
«È difficile dirlo. Da mille letture, da conversazioni con apicoltori. Ma se proprio vuoi un titolo di libro, posso rimandarti al testo fondamentale di apicoltura. Ce ne sono moltissime edizioni, in ogni lingua, anche se rivedute e corrette nel tempo. Anche se la prima edizione risale alla metà dell’Ottocento, è un testo ancora valido. Prendi però le mie affermazioni con il beneficio d’inventario, come si dice. Non sono un apicoltore né un entomologo. Sono solo un amante degli insetti e della natura. Dal mio punto di vista però è un libro fantastico».
«Non mi hai ancora detto il titolo. E neanche l’autore».
«Il titolo in italiano è L’ape e l’arnia. L’autore è Lorenzo L. Langstroth, un americano di Philadelphia, celebre tra gli apicoltori perché, oltre ad avere studiato per tutta la vita il comportamento delle api, ha brevettato nientemeno che l’arnia moderna a telai mobili. Ancora nell’Ottocento».
«Vuoi dire che tutte le cassette di legno dalle quali partono le api per le loro ricognizioni e tornano con il loro bottino derivano dal progetto di un uomo?».
«Voglio dire che l’arnia di Langstroth è stata migliorata, ma non superata, e che il tesoro delle sue conoscenze sulle api è ancora prezioso».
L’uomo dei ragni
«Bisognerà concludere. Ma come? Parlando di altro, di ragni, per esempio ragni che non sono neppure insetti? Tu non hai fotografato solo insetti, ma anche altri artropodi. Se le specie di insetti sono moltissime, il phylum degli artropodi comprende, pare, un milione di specie. Di ciascuna, credo che si potrebbe, che varrebbe la pena di parlare a lungo. Non si può. Ti propongo per questo ultimo dialoghetto di riferirci alla serie 736 delle celebri figurine Liebig. Si intitola “Gli insetti utili” ed è stata pubblicata nel 1903. Per chi è giovane e delle figurine Liebig non sa nulla va detto che sono state la forma di promozione di un prodotto più efficace e culturalmente più influente che l’arte della comunicazione commerciale abbia mai inventato. Come molti sanno, le serie Liebig sono composte di sei pezzi. Possiamo scegliere tra sei insetti utili. Del baco da seta abbiamo già parlato. Delle api da miele ci sarebbe ancora molto da dire. Restano quattro amici. Sono la cocciniglia, la mosca da galla, la cantaride e il ragno da seta del Madagascar. Scegli quella che preferisci».
«Non ho dubbi, scelgo il ragno da seta del Madagascar. Ho visto che sulla figurina è definito un insetto. Mi fa piacere. Nelle mie foto non ho fatto discriminazioni accademiche. E poi mi è venuto un dubbio, o meglio una curiosità, che magari tu puoi soddisfare. Qual è il nome scientifico del cosiddetto ragno da seta? Scuoti la testa perché non lo sai? Peccato. Ti spiego perché. Prima che tu mi mostrassi queste figurine, avevo già letto qualcosa su un ragno del Madagascar. Molto recentemente. Mi ero appuntato perfino il nome. Si chiama Caerostris darwini. Il nome volgare è ragno corteccia del Madagascar. Questo Caerostris è stato scoperto solo nel 2009, in un parco nazionale del Madagascar. La dedica a Darwin è dovuta al fatto che è stato classificato il 24 novembre 2009, esattamente a centocinquant’anni dalla pubblicazione dell’Origine delle Specie di Charles Darwin, uno dei libri più influenti della storia dell’umanità. Una delle particolarità di questa new entry nel regno dell’aracnologia è quella di tessere una delle ragnatele circolari più grandi del mondo, con un’area anche di 2,8 metri quadrati. I fili di ancoraggio sono lunghi fino a 25 metri. Eppure non è l’ampiezza della ragnatela la caratteristica più notevole del ragno di Darwin. Né il fatto che riesca a stenderla sopra un corso d’acqua per catturare gli insetti che volano sul fiume, né che riesca ad ancorare la ragnatela sulle due sponde del fiume, anche non si capisce proprio come faccia. Non è neppure così notevole che abbia un marcato dimorfismo sessuale, né che sia ricoperto
da un esoscheletro che riproduce perfettamente la corteccia degli alberi su cui vive. La caratteristica principale più interessante dal punto di vista della bionica è che il suo fi lo di seta ha una resistenza alla trazione dieci volte superiore al filo artificiale di Kevlar, il quale è a sua volta cinque volte più resistente alla trazione dell’acciaio. Una notizia fantastica per l’Uomo Ragno. E forse per la storia della bionica. A meno che, in Madagascar, non vogliano tornare ad applicare il sistema di filatura di seta di ragno descritta sulla figurina Liebig.
«Per caso sai chi fosse questo padre Camboné della figurina? È mai esistito veramente?».
«Non è un personaggio di fumetti come l’Uomo Ragno. È esistito davvero. Qualcosa ne so, mi sono un po’ informato. Prima di tutto non si chiamava Camboné, ma Camboué. L’errore della figurina Liebig discende direttamente dal medesimo errore, fatto dal compositore rovesciando in una enne la lettera “u”. L’errore era già sul “Magasin Pittoresque”, un giornale francese molto ben illustrato di viaggi e divulgazione varia. Fu il “Magasin Pittoresque” a dare per primo la notizia dell’iniziativa del Camboué e a descrivere i suoi procedimenti per estrarre la seta dai ragni. Paul Camboué era allora un giovane missionario gesuita in Madagascar, ma già sul punto di diventare un’autorità nell’entomologia dell’isola. Molto di più non so, se non che fu membro e corrispondente di un buon numero di istituzioni scientifiche. Nel 1903, l’anno in cui fu pubblicata la nostra serie Liebig, fu accolto come associato all’Accademia malgascia. Non so se ti può interessare, ma prima di farsi gesuita era stato avvocato e aveva combattuto nel 1870 nella guerra franco-prussiana».
«Mi hai tolto il dubbio. Essendo padre Camboué un entomologo riconosciuto dalle accademie non è probabile che utilizzasse dei ragni senza classificarli. Né è quindi possibile che il suo ragno da seta fosse lo stesso Caerostris darwini riscoperto per caso più di cento anni dopo. Peccato. Comunque la sua impresa mi pare molto ingegnosa. Mi dispiace che non abbia avuto il successo che forse meritava».
«È possibile che il procedimento fosse troppo laborioso. Non sembra neanche che fosse stato lui a scoprire il valore di filato della seta di quel ragno. Si dice che era già conosciuta dai malgasci. Lui ha tentato di farne un’industria».
«Beh, stando alla figurina, ha inventato un dipanatore, in cui da dodici a ventiquattro ragni erano attaccati, aggiogati direi, in modo che la fi liera, l’organo di uscita del fi lo, fosse rivolta all’esterno. I fili venivano tirati con un uncinetto e fissati nel mezzo dell’ap-
parecchio, quindi venivano condotti, riuniti in fascio, attraverso un’apertura sopra un rocchetto messo in movimento da una ruota a pedale. Quando i ragni erano esausti, si lasciavano alcuni giorni liberi in un recinto affinché si ristabilissero. Il recinto, come si vede sulla figurina, consisteva in un graticcio di fusti di bambù piantati nel suolo e riuniti da funicelle. Ogni ragno produceva un filo lungo 4000 metri. Lungo più o meno come le nostre chiacchiere».
IDEAZIONE E GRAFICA: ANGELO SGANZERLA
Revisione e editing: Irvana Malabarba
Fotolito e composizione: Actualtype Srl
Stampa: Graphicom Srl
Stampato su carta Gardapat Kiara
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© 2012 per le fotografie: Angelo Sganzerla
© 2012 per i testi: Sandro Fusina
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