Limonaie, Orangerie, Serre - L'Erbolario Edizioni

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LIMONAIE ORANGERIE SERRE

L’affascinante storia dei palazzi di vetro

Fotografie di ANGELO SGANZERLA Testo di IRVANA MALABARBA
L’ERBOLARIO EDIZIONI

LIMONAIE ORANGERIE SERRE

L’affascinante storia dei palazzi di vetro

Fotografie di ANGELO SGANZERLA

LIMONAIE ORANGERIE SERRE

L’affascinante storia dei palazzi di vetro

Testo di IRVANA MALABARBA

EDIZIONI
L’ERBOLARIO

SOMMARIO

6 PREFAZIONE

9 LE ORIGINI

Il mito

Nella Casa del Frutteto

Nelle terre dei monaci

Nelle terre dei Saraceni

17 LA LIMONAIA

I giardini di limoni del Garda

Le bizzarrie dei Medici

Gioviano Pontano: rivive il mito delle Esperidi

Giovan Battista Ferrari: gli agrumi tra scienza e arte

36 INTERMEZZO LESSICALE

65 L’ORANGERIE

Per il piacere dei principi

Una Orangerie per il Re Sole

Germania: il regno dell’Orangerie

In Piemonte si chiamava “Citroniera”

Le Orangeries dei Lord britannici

L’Ottocento: un secolo di transizione

151 NEL REGNO DELLA SCIENZA

159 LA SERRA

Gli anni della grande svolta: la Gran Bretagna all’avanguardia

Serre di imperatori e imperatrici

Una “casa” per le camelie

Joseph Paxton a Chatsworth

Il Crystal Palace e dintorni

Sul Continente

Serre: un soggetto letterario

Tra pubblico e privato

Non finiranno mai di stupire

366 BIBLIOGRAFIA E RINGRAZIAMENTI

Frontespizio: Una suggestiva immagine dello Zwinger di Dresda, l’Orangerie Reale, capolavoro del Barocco tedesco.

Sommario: Fiore di Hibiscus schizopetalus fotografato nelle serre della Wilhelma, a Stoccarda, in Germania. È originario dell’Africa orientale, del Kenya, della Tanzania e del Mozambico.

PREFAZIONE

Sotto: Una veduta della celebre Serre chaude, fatta costruire nel 18041805 da Joséphine de Beauharnais nella tenuta della Malmaison, la sua residenza preferita. Famosa in tutta Europa, la serra, qui in un acquerello di Auguste Garneray (1785-1824), fu meta di studiosi, personaggi illustri e regnanti. L’imperatrice vi fece affluire piante da ogni parte del mondo; vi coltivava, tra le altre, il gelsomino, la rosa, l’ortensia e la violetta di Parma, di cui era appassionata. Per la quantità di vetro che vi fu utilizzato, la serra può essere considerata l’antesignana delle grandi costruzioni in vetro e metallo del XIX secolo. Contiguo alla serra vera e propria un altro edificio ospitava una serie di fastosi saloni di rappresentanza.

Il 1492 fu un anno gravido di conseguenze per la storia dell’umanità. Il 3 agosto Cristoforo Colombo, a capo di una spedizione di tre caravelle, salpò da Palos, in Spagna, credendo di dirigersi verso le Indie; il 12 ottobre raggiunse San Salvador in America. Nell’arco di pochi decenni arrivarono in Europa piante, fiori, animali e manufatti che riempiorono di meraviglia gli occhi e la mente di scienziati e studiosi, principi e mecenati. Accanto alle Wunderkammer (camere delle meraviglie) e agli orti botanici, nacquero le prime vere serre destinate a ospitare meraviglie venute da lontano.

Il sommo Jacopo Ligozzi, nel Giardino dei Semplici di Firenze, ritrasse l’Agave americana, proveniente dalle terre bruciate dal sole delle isole caraibiche. Nella Villa Medicea di Castello fu appositamente costruito un padiglione-serra, la “Stufa del mugherino”, per mettere al riparo la collezione di gelsomini di Cosimo III, tra cui il prezioso gelsomino doppio indiano di Goa, il “mugherino”, da cui il nome dato alla serra.

Ogier de Busbecq, ambasciatore del Sacro Romano Impero a Costantinopoli, offrì a Carolus Clusius bulbi di tulipani e di altri fiori riportati dal Levante. Clusio li portò con sé a Leida, dove era stato nominato direttore dell’Orto botanico all’Università di recente fondata, dotato anche di una “camera per le piante”: lì i tulipani fiorirono diffondendosi in tutto il Paese e cambiandone la storia.

La necessità di creare climi artificiali per le piante esotiche che arrivavano sempre più numerose in Europa, spesso in ambienti non favorevoli, spinse ingegneri, architetti e giardinieri a sviluppare tecniche sempre più innovative. È della seconda metà del XVIII secolo l’utilizzo rivoluzionario del vetro, che fa convergere la luce del sole sopra la pianta da riparare e la riscalda. Alla Malmaison, Joséphine de Beauharnais scopre ben presto l’importanza di possedere un edificio trasparente affacciato sul suo giardino – coltivato dal botanico Bonpland e rappresentato dal celebre Redouté – di cui è un prolungamento e al tempo stesso un luogo privilegiato per splendide feste.

Nel corso del XIX secolo sorgeranno cattedrali di ferro e vetro che attireranno folle incuriosite nelle capitali europee.

Dietro la storia di una serra s’intrecciano dunque, come in un grande romanzo, le vite di innumerevoli personaggi accomunati da un’unica passione, l’amore per le piante, e

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da un unico desiderio, quello di proteggerle e prolungarne la vita in una eterna primavera. Sono gli umili giardinieri, il cui nome, fatta qualche grande eccezione, rimarrà sconosciuto per sempre, i primi a intuire l’importanza del sole nella vita delle piante e la necessità di proteggere quelle gelive nella stagione fredda. Sono principi e grandi signori, assetati di bellezza, che affidano la loro gloria alla costruzioni di questi edifici; architetti che saranno celebri per averli costruiti; botanici, avidi di conoscenze, che chiusi nelle loro serre tentano di classificare il mondo; statisti che vedono in una serra il mezzo potenziale per arricchire il proprio Paese; capitani coraggiosi che circumnavigano il globo per riportare in patria piante sconosciute; esploratori impavidi che percorrono le vie più impervie dell’Asia e dell’Africa alla ricerca di piante rare; avventurieri che sfidano il blocco navale per consegnare a un’imperatrice i semi di piante appena scoperte; e ancora, visionari che sognano di costruire serre in vetro grandi come cattedrali, e scienziati, ingegneri, costruttori del vetro e del ferro, di meccanismi idraulici che ne assicurano il funzionamento, e scrittori che delle serre hanno voluto immortalare il fascino.

Prende forma così un grandioso affresco, iniziato centinaia di anni fa e di cui non si vede la fine.

Angelo Sganzerla ha voluto fissare in immagini questo affresco, tentando di ricostruirlo dalle origini. In anni di impegno e di fatiche ha percorso l’Europa da sud a nord, da ovest a est, seguendo lo sviluppo storico di questi edifici che oggi comunemente chiamiamo serre: dal “jardinu” pantesco di probabile origine araba alle austere limonaie toscane, dalle

spettacolari Orangerien tedesche, capolavori d’architettura e pittura, alle Glasshouses , i meravigliosi palazzi di vetro inglesi, entrando negli edifici per la scienza, passando con eleganza e discrezione dal pubblico al privato, dal passato al futuro.

Il suo obiettivo cattura con sapienza la fragilità di un fi ore esotico e quella di un particolare scultoreo di rara forza o di una potente struttura d’acciaio; mette a confronto l’armoniosa misura di un edifi cio storico e l’avveniristica bellezza di un’immensa serra del XXI secolo; coglie con sensibilità il trascorrere delle stagioni: un autunno dorato a Leida, la cruda luce invernale sopra la Palm House innevata ai Kew Gardens, la primavera che esplode a Berlino; racconta la vita che pulsa dentro e fuori la serra, i fi ori, le piante, la luce e, con un tocco di complice simpatia, i giochi dei bambini, i volti dei visitatori ammirati. Un’impresa che pochi hanno osato affrontare.

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Jacopo Ligozzi (1547-1627), Agave americana. La prima specie di agave, l’“albero delle meraviglie”, come fu soprannominata dagli Spagnoli, fu scoperta da Colombo nell’isola Guanaham (San Salvador, nelle Bahamas) nel corso del suo primo viaggio. Fu introdotta in Europa dopo la conquista del Messico (1521-1525), e dalla Spagna si diffuse nelle regioni calde del Continente. Ligozzi la ritrasse probabilmente nel Giardino dei Semplici di Firenze, l’orto botanico creato dal granduca Francesco I de’ Medici.

Il mito

In principio era l’albero. Un albero prezioso, carico insieme di fiori fragranti e frutti splendenti, che arrivava da regioni remote dove il clima è umido e che, per sopravvivere, aveva bisogno di essere protetto dal vento che incessante spazza l’isola. Per proteggerlo, l’uomo elevò ingegnosamente un edificio di forma circolare in pietra a secco, di uno spessore che alla base può raggiunge i due metri, alto fino a quattro, rastremato, che consente alle radici dell’albero di estendersi in un terreno mantenuto umido dalle acque piovane che vi si raccolgono e alla chioma di beneficiare di tutto il sole di cui ha bisogno.

Si potrebbe con qualche buona ragione affermare che i “ jardini”, queste costruzioni che rendono unico il paesaggio di Pantelleria, siano una delle prime forme ancora esistenti, se non la prima, di serra. Ma il gesto amorevole di proteggere un albero dal vento è antichissimo. È quello di Inanna, dea sumera dell’amore, della fecondità, della bellezza: “…quando il caos fu tolto dalla terra e la terra fu separata dal caos, quando il nome dell’uomo fu designato, in quel tempo

fu piantato un albero, un singolo albero, sulle rive del Grande Fiume

L’albero fu nutrito dalle acque dell’Eufrate

ma il turbinante vento del sud si levò e soffiò contro l’albero strappando i suoi rami, strappando le sue radici, fino a che l’acqua dell’Eufrate lo portò via. Una giovane donna che camminava e non temeva nessun uomo e non era mai stata posseduta, raccolse l’albero dal fiume e parlò:

‘Porterò quest’albero nella città di Uruk Pianterò quest’albero nel mio giardino sacro’ Inanna si prese cura dell’albero con le sue mani

Ella fissò la terra intorno al tronco con i suoi piedi E con la terra costruì un recinto per preservarlo.”

Il gesto di Inanna è stato ripetuto infinite volte nel corso dei secoli. Ma qual era l’albero che proteggeva? Un cedro, di cui è documentata la presenza in Mesopotamia fin dal VII secolo a.C.? O l’arancio che doveva già ornare i giardini pensili di Semiramide a Babilonia?

Originari di una vasta regione che va dall’Himalaya all’Indonesia, seguendo il ritmo delle migrazioni umane, gli agrumi furono progressivamente impiantati in Medio Oriente e nel bacino mediterraneo. Dalle terre dell’Eufrate il cedro arrivò in Sicilia e in Corsica sotto l’Impero Romano; il limone, di origine indiana,

Nella pagina a fianco: “u jardinu”, un giardino arabo, si eleva tra le basse distese di vigneti nelle campagne di Pantelleria. Sparsi nell’isola si contano ancora circa 400 di questi edifici a pianta circolare, costruiti con straordinaria perizia per proteggere la delicata pianta di agrumi all’interno (in genere un solo esemplare) dalle raffiche di vento che battono costantemente l’isola e creare al tempo stesso un microclima che le consenta di difendersi dal sole implacabile.

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LE ORIGINI

Nella pagina a fianco: Il basso ingresso ad arco, chiuso da una porta di legno, che dà accesso al jardinu. Un giardino può raggiungere all’esterno gli 11 metri di diametro, mentre lo spessore del muro in pietra lavica costruito a secco può superare i 120 centimetri. La sommità del muro, inclinata verso l’interno, se da una parte favorisce la penetrazione della luce e dei raggi solari, dall’altra è un accorgimento per raccogliere e trattenere la maggior quantità di acqua piovana possibile.

Lo spessore del muro e la porosità delle pietre che trattengono l’umidità della notte creano all’interno un microclima molto più fresco dell’ambiente esterno circostante, mentre la rugiada che vi si forma sopperisce alla scarsezza d’acqua, mantenendo le radici della pianta sempre umide.

venne introdotto dagli Arabi nell’area mediterranea nel IX secolo d.C.; l’arancio dolce, molto più tardi, forse intorno al XV secolo. In epoca greca nacque il mito delle ninfe Esperidi. Figlie della Notte, Egle, Aretusa ed Espertusa, vivevano nell’estremo Occidente del mondo, oltre i confi ni delle terre abitate, e lì custodivano insieme al drago Ladone un meraviglioso giardino dove cresceva il prezioso albero dai pomi d’oro, dono di Gea per le nozze di Era e Zeus. I pomi d’oro, simbolo di immortalità, fertilità, giovinezza e bellezza eterna, erano tanto ambiti quanto irraggiungibili per gli uomini. Fu Eracle, compiendo la sua undicesima fatica, a rompere l’incantesimo del Giardino degli dei e a rubare i pomi d’oro per consegnarli a Euristeo, re di Tirinto, in cambio dell’immortalità.

Una volta profanato il giardino degli dei, le Esperidi fuggirono disperate e arrivarono sulle coste dell’Italia, portando con sé tre piante: Egle una piantina di cedro, Aretusa una di limone ed Espertusa una di arancio. In una versione successiva del mito, opera di Giovan Battista Ferrari, “Egle si recò, con il suo cedro, nella campagna fertile, vicino alle acque del procelloso Benace; Aretusa trasportò il limone sul litorale ligure, fecondo per il continuo tepore della primavera. Ed infine Espertusa coltivatrice delle arance fu attratta non solo dalla Calabria ma anche dalle fertile Campania”.

Furono i pomi d’oro, i frutti degli dei, quelli che avevano dato origine al mito delle Esperidi, il primo motore per la costruzione di edifi ci atti a proteggerli, semplici ripari prima, stanze riscaldate poi, limonaie e aranciere infine.

Nella Casa del Frutteto

Nella Casa del Frutteto a Pompei regna l’eterna primavera. Sulle pareti affrescate le rose sono fiorite, gli uccelli si posano sui rami in cerca di cibo, le piante di cedro sono cariche di frutti dorati che illuminano come una magia lo squisito cubicolo dipinto di nero.

I Romani di epoca imperiale conoscevano dunque il cedro e il limone. Diversamente dalla versione più accreditata che attribuisce agli Arabi l’introduzione del limone nel bacino mediterraneo, studi risalenti agli anni Settanta del XX secolo hanno documentato la presenza dei limoni nell’area vesuviana, a Ercolano per esempio: probabilmente piante che costituivano ancora una rarità, tanto da essere coltivate nei giardini delle case dei ricchi. L’archeologa americana Wilhelmina Feemster Jashemski (1910-2007), pioniera nello studio del giardino antico, descrivendo la magnifica villa imperiale di Oplontis ipotizza che lungo il portico fossero coltivati alberelli di limoni in vasi di coccio, una pratica descritta da Plinio il Vecchio per il trasporto di piante particolarmente preziose, quali appunto il cedro e il limone. Era una magnifica vista quella su cui apriva gli occhi ogni giorno l’imperatrice Poppea, non inferiore ai magnifi ci affreschi che ornavano gli interni. Del cedro Plinio il Vecchio parla con dovizia nella sua Naturalis Historia : “Il melo d’Assiria, detto altrimenti il melo di Media, ha l’effetto di antidoto contro i veleni. Le sue foglie sono quelle del corbezzolo e ad esse si interpongono delle spine. Il suo frutto non si mangia, ma questa specie si distingue anche per l’odore delle foglie: se si ripongono insie-

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me ai vestiti, l’odore si trasmette a questi e li preserva dai danni degli insetti. L’albero da parte sua produce frutti in tutte le stagioni: quando gli uni cadono, ve ne sono altri in via di maturazione e altri ancora che cominciano a formarsi […]. Il cedro, frutto o seme, si beve nel vino come antidoto; il suo decotto o il succo ottenuto dalla spremitura, usati come collutorio, rendono l’alito gradevole”.

Nella Campania Felix il clima mite e la fertilità del suolo favoriscono la coltura intensiva degli orti, per cui i raccolti vengono ripetuti nel corso dell’anno. Il contadino di epoca romana è un uomo esperto che conosce l’importanza di una buona esposizione o di un muretto a secco di protezione. E mette in atto tutta una serie di accorgimenti per porre al riparo le piante, coltivandole in vaso e ritirandole quando la temperatura si fa rigida, per ottenere un semenzaio, per forzare la produzione di certi ortaggi. Alcuni studiosi ipotizzano addirittura che a questo scopo si utilizzassero canne fumarie e condotte di acqua calda all’interno delle abitazioni.

A questo proposito, sempre Plinio narra della incredibile passione dell’imperatore Tiberio per il cucumis (il cetriolo): “Ne mangiava tutti i giorni, e i suoi ortolani lo coltivavano in cassette munite di ruote per spostare le piante al sole e per riportarle, nel periodo invernale, al riparo di lastre speculari”. Le lastre speculari di cui parla erano di mica (materiale usato ancora nel XXI secolo sotto forma di lastre pressate in sostituzione del vetro nella costruzione di serre) oppure di selenite, la bella pietra di luna, le cui scaglie, quasi trasparenti, traslucide, lasciavano filtrare la luce solare. Un uso, questo, descritto

ancor più diffusamente dall’agronomo Lucio Giunio Moderato Columella (4-70 d.C.), nell’ Arte dell’agricoltura . “Se poi qualcuno volesse avere frutti primaticci di cetriolo appena è finito il periodo del solstizio d’inverno, prepari canestri con terra mescolata a letame, semini e dia delle moderate annaffi ature; quando i semi saranno nati, nei giorni tiepidi e illuminati da un buon sole, metta i cesti vicino al muro dell’edificio all’aperto, in modo che siano protetti da ogni soffio di vento; li riporti, invece, in casa quando fa freddo o tempo cattivo; continui così fino a che si sarà compiuto l’equinozio di primavera; dopo di che, i canestri si mettono in terra così come stanno e in questo modo si ottengono frutti precoci. Se vale la spesa, si possono anche adattare delle rotelle ai panieri più grossi, in modo che possano essere portati dentro e fuori con minor fatica. Inoltre vanno coperti con vetri perché si possano mettere al sole senza pericolo, anche durante il freddo nelle giornate serene. In questo modo si produceva tutto l’anno il cocomero per l’imperatore Tiberio Cesare”.

Ma c’è chi si preoccupa anche dell’aspetto etico di queste manipolazioni: è il fi losofo Seneca ( 4-65 d.C.) che si arrovella chiedendo all’amico Lucilio: “E non vivono contro natura quelli che vogliono avere le rose d’inverno e con l’impiego di acqua calda e con opportuni trapianti fanno spuntare i gigli nella stagione fredda?”.

Nonostante le filippiche moralistiche, i suggerimenti di Columella e le ingegnose attrezzature studiate dai giardinieri per soddisfare i capricci di un imperatore bizzarro hanno aperto la strada allo studio delle serre.

Nella pagina a fianco: Un ramo di arancio carico di frutti all’interno di un jardinu pantesco. Nel microclima che vi si crea la pianta di agrumi prospera e si sviluppa fino a occupare tutto lo spazio disponibile. Originari dell’Asia orientale e meridionale (India, Sud della Cina, Penisola indocinese, Indonesia), gli agrumi sono tra le più antiche piante coltivate dall’uomo. In Europa si diffusero in tempi diversi. Si deve agli Arabi il merito della loro coltivazione in Sicilia. La leggenda vuole che sia stato Ercole a diffondere la coltivazione degli agrumi tra gli uomini dopo aver ucciso Ladone, il serpente a due teste che vigilava sul giardino delle Esperidi dove erano custoditi i pomi d’oro che crescevano su un albero di straordinaria bellezza, l’albero della vita. Simbolo di perfezione e di immortalità, gli agrumi hanno sempre affascinato gli uomini, che per proteggerli dai rigori del freddo hanno inventato limonaie, orangerie e serre.

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Nelle terre dei monaci

“Avete erbe diverse e buone per climi diversi. Come mai?”

“Per un lato lo devo alla misericordia del Signore, che ha posto il nostro altipiano a cavallo di una catena che vede a meridione il mare, e ne riceve i venti caldi, e a settentrione la montagna più alta di cui riceve i balsami silvestri. E per un lato lo devo all’abito dell’arte che ho indegnamente acquisito per volontà dei miei maestri. Certe piante crescono anche in clima avverso se curi il terreno circostante, e il nutrimento e la crescita.”. È un brano di conversazione fra il dotto frate francescano Guglielmo da Baskerville e il monaco Severino, erborista nell’abbazia benedettina scena di efferati delitti nel celebre Il nome della rosa. Non risultano documentazioni scritte sull’uso di serre (neppure di quelle piccole, mobili, in uso presso l’opulenta società romana) nei secoli successivi alla caduta dell’Impero romano. Si può tuttavia ipotizzare che, come nell’abbazia descritta da Umberto Eco, nei 742 monasteri cistercensi presenti in Europa nel XII secolo, i monaci benedettini che avevano trasformato la terra desolata in terra coltivata lavorandola con le proprie mani, avessero conoscenze molto avanzate sulla coltura di orti e giardini, di piante alimentari e medicinali, e sulla loro protezione soprattutto nelle fredde regioni settentrionali. E ci piace immaginare che questi monaci, studiosi oltre che lavoratori, si dedicassero anche a ricerche, sperimentazioni e fossero curiosi e aperti a tutte le novità agricole che venissero dal mondo esterno, anche da quello dei Saraceni.

Nelle terre dei Saraceni

I Saraceni erano arrivati dalle coste del Nord Africa a bordo delle loro navi e, dopo aver razziato le comunità della costa e averle assoggettate, erano tornati portando i frutti della loro scienza, della loro cultura e quelli della loro terra, in mezzo agli altri i semi di limone, di melangolo, di limetta e forse quelli del pomelo.

Gli Arabi avevano iniziato la conquista della Sicilia nell’VIII secolo d.C. e avevano trasformato quella terra di paesaggi aridi e di climi violenti in un giardino.

Avevano operato un miracolo, o una rivoluzione se si preferisce, secondo la definizione dello studioso A. M. Watson. Avevano introdotto innovazioni di tipo genetico tali da incrementare la biodiversità delle specie agrarie e ornamentali, avevano instaurato un differente regime fondiario che aveva portato alla suddivisione delle grandi proprietà latifondistiche in favore della proprietà privata; avevano perfezionato e diffuso nuove tecniche agronomiche e soprattutto idrauliche, grazie alle quali le acque venivano raccolte e canalizzate a irrigare orti, giardini e parchi reali piantumati ad agrumi, così avidi di acqua e di riparo dal vento. Nel 977 Palermo è descritta da un viaggiatore arabo circondata da numerosi corsi d’acqua, lungo i quali prosperano giardini di frutta. Due secoli dopo toccherà a uno storiografo della corte normanna, Ugo Falcando, stupirsi di fronte alla bellezza della Conca d’Oro, e lodare l’incanto del suo paesaggio olezzante di profumi, delle numerose sorgenti che zampillano ovunque, degli acquedotti che soddisfano numerosi i bisogni dei cittadini. Una bellezza

Un’immagine di limetta tratta dal volume Histoire naturelle des orangers, illustrato da J.A. Risso e P.A. Poiteau e pubblicato nel 1818; è una straordinaria rassegna degli agrumi coltivati alla fine del XVIII secolo.

che accende l’animo dei poeti. Indimenticabile la voce di Abd ar-Rahman al-Itrabanishi: “Gli aranci superbi dell’isoletta sembran fuoco ardente sui rami di smeraldo. Il limone pare avere il pallore di un amante che ha passato la notte dolendosi per l’angoscia della lontananza”.

Ancora più spettacolari gli interventi che gli Arabi avevano operato sull’isola di Pantelleria, trasformandola in un paesaggio che non ha uguali in tutto il Mediterraneo. Più vicina all’Africa che alle coste italiane (solo 70 chilometri la separano dalla costa tunisina), è una terra di origine vulcanica, caratterizzata da un paesaggio aspro, dove domina la scura pietra lavica, non adatto alle coltivazioni, privo di sorgenti d’acqua potabile, battuto in continuazione dal vento. È opinione diffusa, ma non vi è certezza, che sui terrazzamenti creati spianando le colline per impiantarvi nuove culture, come la vite e il cotone, siano stati gli Arabi a costruire i “jardini”, disseminati per tutta l’isola e che la caratterizzano tanto quanto i dammusi, le antiche abitazioni a volta. Ogni jardinu un solo albero di agrumi, per proteggerlo dall’inclemenza del clima isolano.

All’interno della possente struttura circolare (due strati di grosse pietre laviche che racchiudono al loro interno uno strato di pietrame, dello spessore complessivo di oltre 120 centimetri) si genera un microclima che consente alla pianta di sfidare il caldo eccessivo, il vento, la siccità. Una bassa porta di legno, sita nel punto meno visibile, si apre sul giardino, tanto che chi entra deve chinarsi, con un gesto che è quasi di riverenza nei confronti dell’albero sacro. All’interno, dove l’albero stende i suoi rami frondosi, tutto è frescura, profumi, silenzio. Con la grande sensibilità di chi questa

terra la ama da sempre, lo storico Giuseppe Barbera osserva che “nessun sistema agricolo, nessuna architettura prevede tanto lavoro per crescere un singolo albero. Una fatica così grande non è giustificabile solo per i frutti, ma deve essere sostenuta dalla necessità del piacere e della bellezza, virtù che gli agrumi posseggono insieme”.

Tanta bellezza non poteva sfuggire a viaggiatori, studiosi e mercanti. Iniziava il lento viaggio degli agrumi alla conquista della Penisola. Si diffusero negli orti e nei giardini della Campania e via via più a nord fino a raggiungere il limite estremo, dove potevano attecchire all’aperto, cioè le rive del lago di Garda. Furono proprio gli agrumi – cedri e limoni prima, e poi gli aranci – a imporre innovazioni e mutamenti nel paesaggio italiano e in seguito nel resto d’Europa, tanto che intorno al 1350, nella Terza Giornata del Decameron Giovanni

Boccaccio poteva già scrivere: “Nel mezzo del quale [giardino] quello che è non meno commendabile che altra cosa che vi fosse ma molto più, era un prato di minutissima erba e verde tanto, che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e’ nuovi e i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all’odorato facevan piacere”.

Boccaccio pensa ai profumati giardini frequentati in gioventù nei suoi felici soggiorni a Napoli, perché in Toscana, dove è ambientato il suo capolavoro, cedri e limoni non sopravvivono ai pur temperati rigori dell’inverno, se non sono protetti, come argomenterà nel secolo successivo l’umanista Gioviano Pontano.

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Un ramo con frutti di arancio in una tavola di P.A. Poiteau tratta da Pomologie française (1845).

LA LIMONAIA

I giardini di limoni del Garda

C’è qualcosa di geniale nel modo in cui le popolazioni rivierasche del Garda, grazie alla coltivazione dei limoni, hanno trasformato il territorio circostante in un paesaggio unico.

La mitezza del clima, la limpidità dell’aria, la presenza di numerosi corsi d’acqua, indispensabile per le coltivazioni, le alte montagne rocciose alle spalle a proteggere dalla tramontana, le colline digradanti verso il lago che l’uomo ha modificato creando terrazzamenti riparati, tutto concorre a fare delle sponde del Garda un luogo ideale per la coltura di piante delicate come limoni e cedri.

Chi oggi voglia risalire in barca il lago da Salò verso Gargnano, seguendone l’andamento sinuoso, scoprirà, con lo stesso stupore che ha colto tutti i viaggiatori dei secoli passati, la costa disseminata di costruzioni fantastiche, oggi in gran parte in rovina, che sono state paragonate a templi o a castelli fiabeschi. Riconoscibili per il colore biancastro della pietra, appaiono e scompaiono tra il verde degli alberi, scintillando al sole: sono le vestigia delle serre, spesso di grande pregio architettonico, come quella della settecentesca Villa Bettoni-Cazzago a Bogliaco, che per secoli hanno dato lustro e ricchezza ai paesi del Garda, grazie alla produzione di limoni e cedri esportati in tutta l’Europa del Nord, fino ad arrivare sulla tavola degli zar di Russia.

La leggenda vuole che sia stato un monaco francescano nel XIII secolo (qualcuno sostiene san Francesco in persona) a introdurre in queste terre la coltura del limone. Sembra che nel 1220 i frati avessero già costruito un eremo sull’Isola del Garda, dove il santo aveva soggiornato per un breve periodo. Tra le tante località gardesane celebri per il clima mite, Isola del Garda primeggia. Qui le pianticelle di limone attecchirono felicemente, tanto che alcuni secoli dopo, nel 1550, uno scrittore locale, l’umanista Silvan Cattaneo (1508-1654/64), poteva scrivere: «dove nelli altri luoghi del Benaco nostro tengon li cedri in buonissimo terreno, ben coltivati e coperti d’inverno, quivi ne i scoglj e per le scissure dei sassi vivi, piantati incolti e discoperti tutto l’anno stando, rendono tuttavia copia grandissima di frutti e di fiori, e non solamente vi sono i cedri belli, morbidi e sempre fecondi, ma particolarmente gl’aranci e limoni, ed altri alberi belli e fruttiferi ch’ivi sin ad or si veggono». Dall’Isola del Garda, oggi dominata dalla bella villa neogotica Borghese-Cavazza, le piante di agrumi si sarebbero diffuse rapidamente su tutto il territorio gardesano, tanto che all’epoca del Cattaneo la coltivazione dei limoni e di altri agrumi, non solo per uso ornamentale, era già ben radicata in tutto il territorio, in particolare sulla costa occidentale, con il centro di produzione più importante in Gargnano. Proprio a Gargnano è ancora possibile visitare

Nella pagina a fianco: L’elegante scalinata a rampe che conduce all’ingresso delle limonaie della Villa Bettoni-Cazzago, gioiello architettonico della Riviera occidentale del Garda, a Bogliaco, una frazione di Gargnano. Progettata dell’architetto veronese Adriano Cristofori, la costruzione della villa risale alla prima metà del XVIII secolo, quando già il dolce paesaggio del Garda occidentale era stato trasformato dall’uomo con l’impianto di numerosi agrumeti, i “giardini d’agrumi”. I conti Bettoni, da sempre proprietari della villa, possedevano molti terreni a Gargnano e a Limone fin dal XVI secolo, coltivati ad agrumi, ulivi e viti.

In basso: Un frutto di cedro in una tavola di Pancrace Bessa, tratta dall’opera botanica Nouveau Duhamel (1800-1819).

Nelle pagine seguenti: La monumentale prospettiva del giardino di Villa BettoniCazzago, straordinario connubio tra artificio architettonico e natura. L’edificio in riva al lago è connesso da due cavalcavia al giardino prospettico a monte, incentrato sulla maestosa esedra arricchita di nicchie e statue (“la più bella cosa in Lombardia”) che si collega a due “giardini di limoni”, previsti dal geniale architetto perché fungessero da quinta verde al palazzo sottostante.

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A destra: l’antico metodo per misurare la temperatura all’interno della limonaia. Se l’acqua contenuta nel recipiente collocato accanto a un palo di sostegno tende a gelare è tempo di riscaldare l’ambiente.

In basso: Le assi per la copertura invernale della limonaia a primavera venivano accuratamente accatastate all’interno del “casello”, un alto edificio dove si riponevano i numerosi attrezzi di cui si servivano i giardinieri per curare le piante.

Nella pagina a fianco: Uno scorcio della limonaia “La Malora” di Gargnano, una delle più antiche ancora in attività, tenuta in vita dalla grandissima passione del proprietario, Giuseppe Gandossi.

L’immagine permette di cogliere la struttura essenziale di quello straordinario edificio che è un “giardino di limoni”: un muraglione di pietra a sostegno dei terrazzamenti (le “cole”) dove i limoni sono piantati nella terra, pilastri posti a distanza regolare per segnare lo spazio destinato a ogni pianta e travi di legno regolarmente disposte per sostenere le coperture invernali.

una delle rarissime limonaie ancora in piena attività nel XXI secolo, e tra le più antiche, “La Malora” di Giuseppe Gandossi, la cui costruzione si fa risalire al XVI secolo. Poco più a nord, nel porto di Tignale, in un paesaggio da fiaba circondato da cipressi, è stato restaurato negli anni Ottanta del Novecento un monumentale giardino di limoni, il “Prà de la Fam”, oggi trasformato in ecomuseo, vanto dei coltivatori gardesani. Non si sa chi sia stato l’ideatore delle costruzioni a terrazze e a pilastri a protezione degli agrumi, né l’epoca esatta in cui si cominciò ad adottarle, sebbene si presuma già nel XIII secolo. A conferma di quanto scritto dal Cattaneo, sappiamo tuttavia con certezza che Sforza Pallavicino, generale della Repubblica Veneta, vissuto a metà del XVI secolo (1520-1585) usava protezioni per i suoi giardini nel palazzo che si era fatto costruire a Barbarano di Salò.

Una bella immagine, di un secolo successiva, tratta da un celebre volume tedesco dedicato alla coltura degli agrumi, il Nürbergische Hesperides (1708) di Johann Christoph Volkamer, illustra perfettamente l’ossatura di un giardino di agrumi del Garda.

Data la morfologia della costa bresciana, con alte colline rocciose addossate alla riva, venivano scavate grandi terrazze sovrapposte, larghe circa 4 metri, chiamate “cole” e collegate tra loro da scalette di pietra. Le terrazze erano racchiuse su tre lati da muraglioni alti dai 4 ai 9 metri; il quarto lato era aperto verso sud-sudest. Su ogni cola venivano innalzate file di pilastri, di pietra e mal-

ta di calce, larghi 50 x 50 centimetri e alti 6-8 metri. I pilastri della stessa fila erano distanziati fra di loro di circa 4 metri. Il terreno compreso tra due coppie di pilastri, due della prima fila e i due corrispondenti della seconda, copriva un’area di circa 20 metri quadrati ed era chiamato campo, o campata. Ogni campo una pianta di limone. I limoni, dopo 8-9 anni di cure e di trapianti, quando il fusto raggiungeva un diametro di 8-10 centimetri, venivano collocati nella cola in piena terra, dove avrebbero raggiunto l’altezza massima di 9-10 metri e avrebbero dato frutti per oltre un secolo.

Pilastri e muraglioni servivano a reggere grosse travi di castagno (“sparadossi”) del diametro di 30-40 cm, su cui erano posati, perpendicolarmente, altri travi più sottili (“canteri”), anch’essi di castagno. Era la struttura portante per la copertura invernale.

Verso novembre bisognava mettere al riparo i limoni. Sulla struttura fissa di sparadossi e canteri venivano posate, perpendicolarmente ai canteri, delle assi di abete larghe circa 20 cm e lunghe 5 o 6 metri, accostate tra di loro. Un secondo strato di assi era inchiodato sopra, a coprire le congiunzioni del primo. La parte del fronte, esposta al sole, veniva chiusa da elementi mobili, assi, tavole con pannelli di vetro, montati su telaio, e portiere. Ogni fessura veniva chiusa con paglia o erba secca, un’operazione detta “stupinare”. «A Santa Caterina, stupìna, stupìna», dicevano i giardinieri. Per il giorno di

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Santa Caterina, il 25 novembre, tutte le operazioni di copertura dovevano essere completate, onde evitare il rischio di una gelata precoce.

La cura di una limonaia d’inverno era un compito delicato, da giardinieri competenti e assidui: chiudere le portiere nelle giornate di nebbia o di gelo, aprirle al sole e all’aria quando all’interno si formava un’eccessiva umidità, provvedere all’accensione di falò nelle cole più basse (in seguito camini o stufe dotate di tubi), per riscaldarla, quando “l’immancabile serenata vespertina” annunciava l’arrivo di una notte gelida. Notte gelida che era annunciata anche dalla sottile crosta di ghiaccio che si formava

sulle ciotole colme d’acqua che i giardinieri disponevano qua e là nel giardino di limoni come sentinelle contro il gelo. Quando la crosta gelata si formava, era tempo di accendere i fuochi. E poi veniva il tempo di aprire le portiere, togliere i pannelli vetrati, le coperture del tetto, lasciar risplendere le foglie color verde scuro, respirare il profumo degli agrumi, farsi catturare dai loro colori, esultare per la loro quantità. Non c’era bisogno di orologi, bastava alzare gli occhi verso il cielo: quando, verso la fi ne di marzo, uccelli migratori come il codirosso e l’averla sfrecciavano in cielo sopra il lago, era tempo di scoprire le limonaie.

Nelle pagine seguenti: una veduta della limonaia Gandossi in veste invernale. Le antenne di castagno fissate in alto ai “canteri” per non danneggiare le radici servono a sostenere l’albero; le travi trasversali sorreggono le assi di legno di copertura, mentre tra i pilastri in muratura sono state collocate pareti mobili in legno dotate di vetri che consentono il passaggio dei raggi solari.

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A fianco: Torri del Benaco è un’incantevole località turistica sulla sponda orientale del Garda, dominata dall’imponente castello fatto costruire nel 1361 da Antonio della Scala sulle rovine di una fortezza risalente al X secolo. Nel 1760, quando ormai le colture di giardini di limoni si moltiplicavano su entrambe le sponde del Garda, venne abbattuta la seconda cinta muraria del castello per far posto all’attuale limonaia, edificata da Zeno Zuliani (1691-1771), all’epoca proprietario del castello.

Nelle pagine seguenti: Un grande scalone custodito da sculture di figure mitologiche conduce all’ingresso della scenografica limonaia articolata su più livelli di Villa Bulgheroni, nota anche come Villa Lucia, costruita in epoca barocca nel comune di Toscolano Maderno, sulla sponda occidentale del Garda.

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A fianco: La suggestiva visione di una serra di limoni in stato di abbandono. Gli alti pilastri di pietra sono silenziosi testimoni di un’epoca di splendore, quando lungo tutta la sponda bresciana e in parte in quella veronese prosperavano gli agrumeti.

A 46° gradi di latitudine Nord, il Garda è la zona più settentrionale al mondo dove si possano coltivare gli agrumi. La tradizione vuole che i limoni siano arrivati in terra gardesana nel XIII secolo, portati da frati francescani, se non addirittura da san Francesco, nei territori di Gargnano e Limone.

Nelle pagine seguenti: Limonaie, ulivi e cipressi sono gli elementi costitutivi del paesaggio del Garda, affascinante anche nella stagione invernale. “Salendo a un boschetto di cipressi intorno alla casa di campagna di un signore; e da lì davvero offre uno spettacolo quanto mai sorprendente” scriveva nel suo diario lo scrittore e giardiniere inglese John Evelyn nel 1646, “i colli e le dolci alture che lo circondano producono aranci, limoni e fichi e altri golosi frutti […]”.

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A fianco: I rilievi montuosi proteggono le limonaie dalle raffiche dei venti che soffiano da nord-ovest. Per la dolcezza del clima e il fascino dei “giardini di limoni” che non hanno uguali in tutto il mondo, il lago è sempre stato meta di viaggiatori, scrittori, poeti, come Goethe, che della “terra ove il limon fiorisce” ha cantato la bellezza.

Nelle pagine seguenti: Il “giardino di limoni” di Prà de la Fam, riparato da alti cipressi frangivento, fotografato in una soleggiata giornata invernale. Il sole fa scintillare i vetri delle grandi finestre di copertura. Costruita nel 1754, la grande limonaia di Tignale (ospitata all’interno del Parco Regionale dell’Alto Garda Bresciano), un tempo in stato di abbandono, è stata recuperata nel 2011 a fini museali. La vasta struttura è situata in uno dei luoghi più spettacolari della costa gardesana, in riva al lago, tra strapiombi rocciosi, a monte della Strada Gardesana occidentale.

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In basso: Un bellissimo esemplare di palma (Latania borbonica), proveniente dalle isole Mauritius e coltivato nelle serre della Malmaison al tempo dell’imperatrice Joséphine, viene trasportato al Crystal Palace di Londra per essere esibito in occasione dell’Esposizione Universale del 1850. Il trasporto della palma, alta 9 metri, fu una vera impresa per i mezzi di trasporto di allora.

INTERMEZZO LESSICALE

“Una Winter House o Hothouse, chiamata in genere Orangery, è l’anima del giardino, senza la quale nessun orto botanico può sopravvivere”

Carolus Linnaeus (6 marzo1742)

All’inizio della nostra storia, in Toscana, i primi ricoveri per i limoni e i melangoli in vaso furono chiamati semplicemente stanze, stanzoni, persino stanzacci, per i vasi. A partire dal XVII secolo, invece, per indicare gli edifici dove si ponevano al riparo le piante provenienti da climi più miti che non resistevano all’aperto d’inverno, nei vocabolari europei entrarono nuove parole. L’italiano adottò il termine “stufa” che stava a indicare, come cita il Vocabolario della Crusca sin dalla sua prima edizione (1612), una “stanza calda, riscaldata da fuoco, che le si fa sotto, o da lato”. Si trattava dunque di un locale appositamente riscaldato per ospitare le piante più delicate. La più celebre è forse la Stufa del mugherino, fatta costruire da Cosimo III de’ Medici nell’Ortaccio della Villa di Castello. La lingua italiana conosce anche il termine “conserva”; infatti, le prime serre

del primo Orto botanico del Paese, quello di Padova, venivano descritte come “conserve mobili”. Con il passare del tempo i termini sarebbero stati affiancati da altre voci, come ricorda il Vocabolario agronomico italiano di G.B. Gagliardo, pubblicato nel 1822, quali un generico “serbatoio” (“la stanza ove nell’inverno custodinsconsi quelle piante che temono il freddo”), e quelle più specifiche di aranciera, cedroniera e citroniera. Curiosamente, limonaia apparve solo all’inizio del Novecento. Il termine serra fu mutuato dal francese, il quale adottò sia serre sia orangerie. L’inglese, che già conosceva house (stanza) e stove (stufa), adottò green house e orangery; il tedesco sceglierà Gewächshaus per serra, mentre prenderà dal francese il termine Orangerie. La prima parola ha un’origine tecnica, legata alla sistemazione delle piante in un locale più o meno luminoso durante la cattiva stagione; la seconda si riferisce invece alle piante che vi vengono riparate in maggior numero, gli aranci, appunto.

In Francia il termine serre era usato indifferentemente per indicare sia l’edificio dove si ricoveravano gli agrumi che quello dove si

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proteggevano gli ortaggi. L’agronomo JeanBaptiste La Quintinie definì la serre “il luogo di una casa dove si serrano le piante in inverno: per esempio i carciofi, i cardi, i cavolfiori”, ma anche “il luogo dove si serrano i frutti, gli aranci, i fi chi in cassetta, ecc.”. Qualche decennio dopo, nella prima metà del XVIII secolo, in Francia si arriverà a distinguere quattro tipi di serre: la serre fruitière, la serra da frutta, un edificio dai muri spessi con le fi nestre orientate a sud; la serra dove si conservano gli ortaggi, mettendoli nella sabbia, e vi si fanno imbianchire indivie e sedani; un terzo tipo costruito per contenere “gli aranci, i fi chi, i melograni, gli allori e tutti gli arbusti comuni da frutto o fi ore che temono l’inverno”; il quarto edificio, infine, la serre à feu, “riservata alle persone estremamente curiose o ricche” o ai giardinieri che “compensano la spesa con i profitti”, ha una superficie di vetro interamente esposta a mezzogiorno ed è riscaldate da una o più stufe.

Per molti decenni, la definizione di serra fu dunque molto vicina a quella di orangerie e in molti casi le due parole venivano usate l’una per l’altra. In seguito saranno la specializzazione del loro uso, l’evoluzione della qualità dei materiali, a far differenziare le serra dall’orangerie sia sul piano tecnico che architettonico.

In un manuale di giardinaggio della prima metà dell’Ottocento troviamo una delle prime defi nizioni moderne della serra, cioè una superfi cie completamente coperta di vetro per la conservazione delle piante tropicali, ma anche per la coltura e la produzione di piante. A questo punto, in base alle varie destinazioni, la serra si arricchisce di aggettivi: calda, fredda, temperata, da forzatura ecc.

Con i progressi tecnici la serra andò differenziandosi sempre più dall’orangerie, che si apparentò all’universo dell’arte del giardino e dell’architettura.

Nell’Inghilterra del primo Ottocento, la rivoluzione tecnologica dovuta all’introduzione di nuovi materiali come il ferro, la ghisa, lastre di vetro più sottili e luminose, più grandi, diffonderà l’uso del termine glasshouse, che in Germania diventerà Glashaus. A questo si affiancheranno quelli di conservatory e winter garden, a cui sul Continente si preferirà il jardin d’hiver o giardino d’inverno: grandi edifici spaziosi, luminosi, quasi interamente vetrati, dove le piante provenienti dai Paesi caldi venivano coltivate in piena terra. Grazie a essi, scriverà Pierre Boitard nel 1839, si potrà compiere “un’incantevole passeggiata tra i fiori e la verzura, mentre il ghiaccio, la neve e la galaverna rendono desolata la campagna”. Non ci sarà casa aristocratica o alto borghese in Inghilterra o in Francia che non doterà la propria dimora di un giardino d’inverno. Soggetto preferito di molta pittura vittoriana, il conservatory farà da sfondo a dichiarazioni d’amore, riunioni conviviali, drammi della gelosia, veri e letterari.

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Una fase della laboriosa lavorazione del vetro soffiato in un’immagine tratta da una tavola dell’Encyclopédie (1751-1780) di Denis Diderot e JeanBaptiste Le Rond d’Alembert.

Sopra: Giovanni di Cosimo de’ Medici (1421-1463) in un dipinto della scuola del Bronzino. Al raffinato banchiere e mecenate è attribuita l’introduzione della coltura degli agrumi in Toscana.

In basso: Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli in una delle celebri lunette dipinte dal pittore fiammingo Giusto Utens (m. 1609) che ritraggono le Ville Medicee. Splendido esempio di giardino rinascimentale, quello di Boboli fu progettato da Niccolò Tribolo, dopo l’acquisizione di Palazzo Pitti da parte della famiglia Medici.

Le bizzarrie dei Medici

Nelle lunette dove Giusto Utens, alla fine del Cinquecento, raffigurò le Ville Medicee, si legge tutta la passione dei Medici per orti e giardini. Luoghi di piacere e di svago, ma anche punti strategici per il controllo del territorio governato, per secoli le Ville saranno espressione della potenza e dello splendore della nobile famiglia. Le precisissime vedute a volo d’uccello del pittore fiammingo lasciano distinguere, intorno alle dimore patrizie, le zone agricole e gli edifici colonici, le aiuole geometriche cintate da siepi di bosso, le vasche, le statue, gli orci di terracotta e i boschetti di agrumi, di cui i Medici erano tanto amanti da farne il loro albero simbolo e da cui avrebbero tratto persino auspici sulla fortuna del loro casato. Recenti studi hanno individuato nel colto e raffinato Giovanni di Cosimo (1421- 1463), zio di Lorenzo il Magnifi co, uno degli iniziatori della coltivazione degli agrumi nella famiglia Medici. Nel 1451 Giovanni aveva

affidato all’architetto Michelozzo (ma è accertato che vi ponesse mano anche Leon Battista Alberti) la costruzione di una villa sulle colline di Fiesole, affacciata su Firenze, che sarebbe diventata “musa” per tutte le ville rinascimentali. Sfruttando la pendenza del terreno e l’esposizione a mezzogiorno, Michelozzo creava dei giardini pensili a terrazzo, i cui muri di sostegno offrivano ampie superfi ci esposte al sole, che garantivano quindi un maggior assorbimento del calore e di conseguenza una temperatura più mite, adatta alla coltivazione a spalliera degli agrumi (cedri e melangoli). D’inverno, poi, vi venivano appoggiate tettoie e stuoie per difendere le piante dai rigori stagionali.

Alla villa di Fiesole si sarebbe ispirata quella di Castello, forse la più interessante per la sua affascinante storia e per la magnificenza dei suoi giardini, ammirati per secoli come i più belli d’Europa.

Intorno al 1480, su suggerimento del cugino Lorenzo il Magnifico, Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici acquistarono dalla

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famiglia Della Stufa la tenuta di Castello e, a imitazione della villa di Fiesole, vi allestirono un grandissimo giardino di agrumi. Nella villa furono ospitati poeti, letterati, pittori, tra cui Sandro Botticelli, che per il suo protettore Lorenzo dipinse due capolavori, La nascita di Venere e L’Allegoria della Primavera. Alle spalle della ninfa Ora, che porge il mantello a Venere, si intravede il verde cupo degli alberi di agrumi, ma nell’allegoria in particolare tutta la scena appare quasi racchiusa in un fitto boschetto di aranci illuminato dai pomi d’oro e dai fiori candidi.

A Castello abitò Giovanni dalle Bande Nere con la moglie Maria Salviati e il figlio Cosimo (1519-1574). Nominato duca di Firenze, nel 1537, il giovanissimo Cosimo, futuro primo granduca di Toscana, ne fece la sua dimora preferita. L’anno successivo chiamò Niccolò Tribolo ad ampliarla e a progettarne il giardino, che avrebbe suscitato l’ammirazione dei visitatori. Tutto l’impianto del giardino era teso a simboleggiare la grandezza della famiglia Medici. L’architetto lo organizzò in terrazze. Alla prima, un grandioso parterre diviso in aiuole con un labirinto al centro, fa seguito quello che oggi viene chiamato “il Giardino dei limoni”. Qui le preziose piante, messe nelle grandi conche di terracotta dell’Impruneta, il cui prototipo decorato con festoni di frutti era stato disegnato da Bernardo Buontalenti, venivano esposte nella bella stagione, per essere poi ritirate all’inizio dell’autunno nei cosiddetti Stanzoni (così erano chiamate in Toscana le antenate delle orangerie). Altre erano coltivate a spalliera, lungo “le mura del laberinto, dove sono fra nicchia e nicchia fonti, e fra le fonti spalliere di melaranci e

melagrani.” Così ricorda Giorgio Vasari, che succederà al Tribolo, alla prematura morte di questi, nel progetto del giardino.

A sottolineare l’interesse che Cosimo portava alla coltivazione degli agrumi, sempre il Vasari scriveva nelle Vite “E questo giardino aveva a essere tutto pieno d’aranci che avrebbono avuto e averanno, quanto che sia, commodo luogo, per essere dalle mura e dal monte difeso dalla tramontana e da altri venti contrari”. Nel 1561 fu registrato l’acquisto di centosessanta melaranci nel convento delle suore di Santa Felicita in Oltrarno, nei pressi del Giardino di Boboli, e quattro anni dopo, sempre nello stesso monastero, quello di melaranci e limoni. Era l’inizio di quella meravigliosa collezione di agrumi che ancora oggi è considerata la più importante d’Europa. La collezione fu incrementata dai successori di Cosimo – Francesco I coltivò nuove varietà persino nel giardino pensile della Loggia dei Lanzi, affacciata su piazza della Signoria;

Sopra: La limonaia tardosettecentesca di Villa Medici a Fiesole. Commissionata da Giovanni di Cosimo a Michelozzo di Bartolomeo, la villa fu costruita tra il 1451 e il 1457 con probabili interventi di Leon Battista Alberti. Sui terrazzamenti del giardino progettato da Michelozzo furono impiantati limoni e melangoli a spalliera, che venivano protetti con coperture stagionali.

Nelle pagine seguenti: Il giardino di limoni e una delle limonaie della Villa Medicea di Castello (oggi sede dell’Accademia della Crusca) aggiunte nel XVIII dai granduchi di Lorena. Le conche contenenti le preziose piante di agrumi, tanto care ai Medici, venivano ritirate in autunno all’interno di serre fredde, i cosiddetti Stanzoni.

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Nelle pagine precedenti: Uno scorcio del giardino della Villa Medicea di Castello, con la vasca al cui centro si alza la statua di Ercole e Anteo di Bartolomeo Ammannati. Disegnato da Niccolò Tribolo (1500-1550), celebre architetto di giardini, quello di Castello fu descritto da Vasari come “uno dei più ricchi d’Europa”, suscitando l’ammirazione dei viaggiatori dell’epoca sia per la sue architetture sia per le specie rare che vi si coltivavano.

Sotto: La limonaia di Villa Grabau, residenza cinquecentesca alle pendici delle colline lucchesi, fatta costruire dalla nobile famiglia Diodati. La limonaia fu aggiunta intorno al 1640. Sulla facciata della solida costruzione si aprono sette portali d’accesso, a cui corrispondono nella parte superiore altrettante aperture ovali bugnate. Ancora oggi, oltre cento piante di limoni in vaso sparse nel parco della villa vengono ricoverate nella limonaia e disposte all’interno seguendo la numerazione indicata su un’antica tavoletta dipinta.

pare che si debba a Ferdinando I la selezione del celebre “Cedro di Firenze”; nell’ampliamento del Giardino di Boboli sotto Cosimo II venne creato un nuovo giardino riservato agli agrumi e conche di agrumi furono disposte intorno alla statua dell’Oceano al centro dell’Isolotto – ma avrebbe conosciuto il suo massimo splendore sotto Cosimo III (16421723) che, una volta divenuto granduca, “si fece piacere di raccogliere quanto poté avere dai vaghi Prodotti della Natura, presentatigli dai Viaggiatori e dai Missionari”.

Figura assai discussa, quella del sesto granduca di Toscana. Gli storici lo descrissero debole, infl uenzabile, gretto, bigotto, dedito più alle pratiche religiose che al governo dello Stato. E tuttavia le arti e le scienze continuarono a fiorire sotto il suo regno. Tra le scienze mostrò uno spiccato interesse per la botanica, tanto da favorire la fondazione della Società botanica fi orentina, la prima in Europa.

Come i suoi predecessori, Cosimo volle fare immortalare le piante che andava raccogliendo e facendo coltivare nelle sue tenute e chiamò al suo servizio il pittore Bartolomeo Bimbi. È al Bimbi che dobbiamo la celebre serie delle quattro spalliere di agrumi coltivate a Castello e nelle altre Ville Medicee.

Sono oltre 116 le varietà rappresentate, alcune ormai comuni a quel tempo, altre rare frutto di innesti o ibridazioni – come il celebre arancio bizzarria (Citrus x aurantium bizzarria ), descritto da Giovan Battista Ferrari come Aurantium callosum multiforme – realizzate dai giardinieri medicei e dovute al gusto per la sperimentazione botanica e all’amore per le cose rare e difficili da coltivare, caratteristici dell’illustre famiglia. Un tripudio di forme, di colori e di profumi, verrebbe da dire. Una volta ritirate negli Stanzoni, queste piante avrebbero consolato gli inverni più scontenti.

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Il granduca incoraggiò e fi nanziò ricerche e spedizioni. Era particolarmente interessato al gelsomino, a cui si attribuivano proprietà medicinali. Un documento raccolto dal botanico Antonio Targioni Tozzetti (1785-1856) ci dice che “nel 1689 da Goa direttamente, furono fatte venire per ordine del Granduca Cosimo III de’ Medici al giardino botanico di Pisa, alcune piante rare, le quali furono trovate tutte perite, a riserva di una pianta di gelsomino semidoppio o girne, e di una dello stradoppio, il quale con ogni cura piantato, riprese vigore, e quindi come cosa rarissima fu trasferito alla real villa di Castello presso Firenze. Quivi fu gelosamente custodito con severa proibizione di darne a chi si sia dei nesli o dei margotti, perchè non fosse propagata altrove questa bellissima varietà di grossi e grupputi fiori, che presero il nome di mugherini rosa, e mugherini del Granduca di Toscana”.

Per coltivare questa e altre varietà di gelsomino, Cosimo III fece aprire – in uno spazio chiuso da due alti muri, visibile nella lunetta di Utens, l’Ortaccio – il piccolo giardino detto “dei mugherini”, e accanto la Stufa, uno stanzone riscaldato dove le delicate piante potessero sopravvivere nella cattiva stagione. Ne approfittò il naturalista Francesco Redi, suo medico personale, per creare con i petali bianchi e profumatissimi del fi ore, secondo una ricetta rimasta segreto di Stato per anni, la cioccolata al gelsomino, passione del granduca, che si poteva gustare solo a corte, in cui il gusto pungente del cacao era addolcito dal profumo del mugherino.

Estinta la famiglia Medici, il potere a Firenze fu assunto dai granduchi di Lorena, che

con i loro predecessori condividevano la passione per gli esotici agrumi. Nel meraviglioso Giardino di Boboli, anch’esso progettato dal Tribolo, nel 1777 il granduca Pietro Leopoldo affidò a Zanobi del Rosso la costruzione di un “Nuovo Stanzone per i Vasi” o Stanzone degli Agrumi. Nell’elegante edificio, tinteggiato nel caratteristico verde Lorena e sul cui fronte orientato a sud si aprono grandi finestroni, erano ospitate, e sono ospitate tuttora, oltre cinquecento conche di piante di agrumi coltivati ad alberello.

Gioviano Pontano:

rivive il mito delle Esperidi

In quel clima di rinnovato interesse per il mondo classico che va sotto il nome di Umanesimo, Gioviano Pontano (1429-1503),

Sopra: Bartolomeo Bimbi (1648-1725), Cedri, limoni e arance, Galleria Palatina, Firenze. Pittore di nature morte al servizio di Cosimo III de’ Medici, su richiesta del granduca il Bimbi ritrasse a grandezza naturale le numerosissime varietà di Citrus collezionate dai Medici a Castello.

Nelle pagine seguenti: Il Pomario, l’antico giardino dei limoni di Villa La Pietra, a Firenze, nobile dimora risalente al XIV secolo. La villa venne acquistata agli inizi del Novecento dalla famiglia anglo-americana Acton; attualmente è sede di un campus della New York University, a cui fu donata insieme ai suoi tesori artistici dai proprietari. Oltre che per le sue collezioni d’arte, la Villa La Pietra è famosa per lo splendido giardino, creato da Arthur Acton a partire dal 1908 in stile rinascimentale ispirandosi ai giardini medicei di Boboli e di Castello. La facciata del magnifico stanzone degli agrumi (sul fondo) è impreziosita da elaborate decorazioni rocaille e mosaici di conchiglie e pietre.

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contemporaneo di Lorenzo il Magnifi co, fu il primo a mettere in relazione i pomi d’oro del mito delle Esperidi con gli agrumi. Lui, napoletano di adozione, intorno al 1500 scrisse il poemetto didattico De hortis Hesperidum , dedicato alla coltivazione dei cedri, che praticava personalmente nella sua villa sulle colline della città partenopea.

Partendo dal mito, che rielaborò con originalità, fece nascere i preziosi frutti del cedro dal corpo di Adone, il giovane amato da Venere, per volontà della dea stessa e, dopo averne descritto la bellezza, narrò come nel Meridione d’Italia gli agrumi venissero coltivati nelle parti dei giardini in cui il cui lato nord era protetto da rocce, colline, mura o edifici. Durante l’inverno si disponevano tutt’intorno dei graticci a protezione. In caso di pioggia o di freddo intenso gli alberi venivano protetti

con teli stesi, oppure si accendevano fuochi all’aperto tra le piante stesse per difenderle dal gelo. Pontano raccontò ancora che, invece, al Nord, nella Pianura Padana:

“Pur con industria si coltiva il Cedro Entro a’ pitali ch’abbian pingue suolo, E molta terra, ed il dorato sterpo Venga ammollato da frequente destra

La quale all’aere nello state il porti, E il verno sotto a tetti lo riponga, Ove il caldo il difenda. Pure in riva Del gran Benaco, e di Carida a’liti Fertile alligna, e ne’ suoi rami esulta L’Adonio Cedro.”

Siamo così di fronte alle prime rozze forme di aranciere.

Le piante fragranti diventarono ornamento ambito di corti e giardini principeschi. Ma poiché tutto quanto era di moda in Italia lo

Nella pagina a fianco: L’interno della limonaia di Villa La Pietra, reso magico dalla presenza di due nudi femminili in legno stuccato a imitare la pietra. D’inverno la limonaia accoglie oltre cento piante di agrumi in orci di terracotta, molti dei quali risalenti al XVIII secolo.

Sopra: La limonaia di Villa Strozzi al Boschetto, a Firenze. È situata all’interno del complesso della Villa Strozzi e del parco del Boschetto, oggi adibiti a spazi pubblici. L’elegante edificio, la cui facciata è scandita da tre serliane, fu costruito dall’architetto fiorentino Giuseppe Poggi (1811-1901) nel 1850, quando gli furono commissionati dal principe Strozzi il restauro della villa cinquecentesca e la riprogettazione del parco.

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A fianco: Uno dei punti di attrazione del Giardino di Boboli a Firenze è la vasta limonaia. Il Nuovo Stanzone per i Vasi fu costruito per volere del granduca Pietro Leopoldo di Lorena tra il 1777 e il 1778, su progetto di Zanobi del Rosso (1724-1798).

Il grande edificio, orientato a sud, a pianta leggermente trapezoidale, si sviluppa in lunghezza per circa 106 metri e in profondità per 9 metri. La facciata, uno dei pochi esempi di gusto rococò presenti a Firenze, conserva ancora intonaci e infissi originali. All’interno vengono ricoverate tuttora centinaia di conche di agrumi, molti dei quali rarissimi.

Nelle pagine seguenti: Un suggestivo giardino barocco nel cuore della Lucca medievale, non lontano dalla basilica di San Frediano e dalle mura che circondano la città. È il giardino di palazzo Pfanner. La costruzione del palazzo risale al 1660, in seguito il giardino venne riqualificato agli inizi del Settecento da un architetto di grido, probabilmente Filippo Juvarra. Superata la bella vasca ottagonale, ornata da quatto figure allegoriche che rappresentano i quattro elementi, circondata da alberi ad alto fusto e da cespugli fioriti, una teoria di sculture settecentesche di divinità dell’Olimpo guida alla limonaia addossata al muro di cinta. Le sculture di Ercole e Cibele vigilano il portone d’ingresso dell’edificio, coronato da una balaustra dove spiccano due leoni e il basilisco, simbolo della famiglia Controni, un tempo proprietaria del palazzo.

diventava in tutta Europa, ben presto il mito delle Esperidi e le piante di agrumi – accuratamente imballate in casse rigide, le radici immerse in una poltiglia di calce o di creta, la parte aerea ricoperta di felci, per affrontare il lungo viaggio – varcarono le Alpi e si diresserro verso il Nord, dove i climi via via più rigidi avrebbero spinto i giardinieri a trovare soluzioni sempre più efficaci per proteggerle. E non ci fu piccolo duca o grande principe vescovo che accanto al suo palazzo non avrebbe fatto allestire un giardino di aranci, dove d’estate stupire gli ospiti e stupirsi alla vista di decine di piante dal profumo stordente che evocavano paesaggi da Eden.

Là dove faceva più freddo, si iniziarono a costruire edifi ci particolari, di preferenza in pietra e seminterrati, protetti dai venti che provengono da est e da nord, e che ricevevano il sole attraverso grandi aperture. In Francia, quando nel 1522 il cardinale di Lorena, Carlo di Guisa, fece rinnovare à l’italienne i giardini del castello di Meudon, sotto le terrazze vennero costruiti i primi “portici per riparare gli aranci”. La prima vera orangerie sarebbe stata costruita dal re Enrico IV al palazzo del Louvre.

gli agrumi tra scienza e arte

N onostante alcune ipotesi molto affascinanti e avventurose, che attribuiscono l’introduzione dell’arancio dolce in Italia a crociati o a mercanti veneziani che trafficavano con l’Oriente, la storia con la S maiuscola tende ad accreditare la tesi che

gli aranci dolci siano stati portati da gente di mare e coltivati per la prima volta in Portogallo all’inizio del XVI secolo. Da lì arrivarono nella Penisola verso la metà del secolo, diffondendosi poi rapidamente in tutta l’area mediterranea. Tra i primi a darne una descrizione scientifica fu Giovan Battista Ferrari nel 1646, che li chiamò Au-

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Giovan Battista Ferrari:

rantium Olysiponense (Arancio di Lisbona) e Aurantium vulgare medulla dulci (Arancio comune dalla polpa dolce).

La fi gura del Ferrari si potrebbe descrivere, in estrema sintesi, come quella di un gesuita innamorato di giardini, fi ori e agrumi. Nato a Siena nel 1583, Ferrari si trasferì a Roma nel 1602 per entrare nella

Compagnia di Gesù, diventando professore di ebraico al Collegio Romano. Filologo, letterato, storico e orientalista, fu anche un appassionato cultore di botanica e orticoltura, passione condivisa con Federico Cesi, fondatore dell’Accademia della Crusca, con l’erudito Cassiano dal Pozzo e con il cardinale Francesco Barberini, gran collezionista

Sotto: Conche di limoni sono disposte regolarmente davanti alla limonaia della celebre Villa Gamberaia a Settignano (Firenze). La limonaia appare già nelle mappe catastali del XVIII secolo, ma si fa risalire la sua origine a un casale quattrocentesco appartenuto alla famiglia dello scultore Bernardo Rossellino.

Nella pagina a fianco: L’interno ristrutturato di una delle due limonaie che fiancheggiano il cancello monumentale (seconda metà dell’Ottocento) del parco di Villa Torrerossa, un edificio di antica origine completato nel XVII secolo, nell’abitato di San Gersolè, una frazione dell’Impruneta (Firenze). L’immagine testimonia della passione e della cura dei proprietari.

di piante e fi ori rari, suoi amici e protettori. La Roma in cui Ferrari soggiornò dal 1602 al 1653 era una città che si andava caratterizzando come una città di fiori e di giardini, esempio di “fi orente felicità” grazie alla fioritura dei suoi orti che le garantivano una primavera perenne. Erano gli Horti Barberini e gli Horti Farnesiani, i giardini di Villa Ludovisi e quelli di Villa Borghese, paragonati al giardino delle Esperidi per la ricchezza di piante di agrumi che vi crescevano. In questo vivacissimo clima artistico, letterario e scientifi co che improntava la città sotto il pontificato di papa Urbano VIII Barberini, Ferrari diede alle stampe due opere di straordinario interesse botanico e iconografi co, Flora overo cultura di fi ori , nel 1638 e, otto anni dopo, Hesperides sive de malorum aureorum cultura et uso , tra i più raffi nati prodotti dell’editoria europea del XVII secolo.

Se in Flora il Ferrari si esalta per la ricercatezza, le varietà e il numero di fi ori e di agrumi che ornano le Ville romane, in Hesperides , definito ancora tre secoli dopo come il più bello, il più ricco e il più erudito trattato sugli agrumi mai pubblicato, si dedica alla descrizione di tutte le specie di agrumi conosciute ai suoi tempi, accompagnandola con i ritratti a grandezza naturale dei vari frutti. Delle 101 tavole che corredano il volume alcune, poche ma interessantissime, non sono di carattere botanico, ma rappresentano metodi ingegnosi per proteggere gli agrumi d’inverno.

La tavola pubblicata alla pagina 147 dell’opera raffigura il “cocchio” per gli agrumi fatto costruire nella villa del cardinale Carlo Emanuele Pio di Savoia, situata nei pressi del Colosseo, da Fabrizio Sbardoni, rei hortensis consultassimus , prefetto dei giardini della villa. Descritto dalla storica dell’arte

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Sotto:

Alberta Campitelli, il “cocchio” del cardinale Pio era una pergola lunga circa 200 palmi, intessuta da 320 travicelle di legno a sezione quadrata, rese stabili da un cordolo cementizio e munite nella parte alta di semicerchi in ferro intersecati da travicelli a formare una grata. Sopra questa struttura, per proteggere gli agrumi che vi venivano posti durante la

stagione invernale, erano fissate delle stuoie di paglia, che venivano rimosse in primavera, ma anche sollevate nelle soleggiate giornate invernali per dare aria e luce alle piante. Gli agrumi piantati in piena terra erano guidati lungo la struttura a comporre un tunnel verde, lasciato libero al godimento nella buona stagione e trasformato in una serra nella

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Immersa nella quiete silenziosa della campagna lucchese, la limonaia di Villa Bruguier, a Camigliano, è un edificio in pietra di severa eleganza che risale al XVIII secolo.

stagione fredda, quando, per stemperare l’aria nelle giornate più gelide, si ricorreva a un ulteriore espediente, ponendo all’interno della struttura alcuni “bracieri con carboni ardenti”. Tale è l’entusiasmo del gesuita per questa geniale invenzione da proporla come modello alla “patritia imitazione”. Invito che fu senz’altro accolto perché, a partire dalla

metà del Seicento, questo tipo di struttura fu adottato in molte ville.

Le altre elegantissime tavole ci mostrano un edificio dove sono posti a ricovero i vasi di agrumi, che d’estate torneranno ad abbellire i giardini, un giardiniere al lavoro in una serra in muratura che prende luce da grandi finestroni, le strutture lignee per proteggere il giardino di cedri negli Horti Farnesiani, una stupenda scena allegorica in cui le Esperidi dirigono i lavori dei giardinieri in un giardino d’agrumi e infine un paesaggio lacustre (il Garda?), in cui si specchia una limonaia. Immagini, tutte, che documentano come sia iniziata l’epoca d’oro di limonaie e orangerie.

Sopra: L’aranciera del cardinale Carlo Emanuele Pio (1578-1641), a Roma, in una tavola tratta dall’opera di Giovan Battista Ferrari De Hesperides sive de malorum aureorum cultura et uso pubblicata a Roma nel 1646.

Nelle pagine seguenti: In uno dei giardini storici più ricchi e meglio conservati di Firenze, quello di Palazzo Corsini al Prato, trova spazio questa piccola limonaia di belle proporzioni. All’interno “un carro matto”, strumento usato per sollevare e trasportare i vasi.

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A fianco: A pochi chilometri da Firenze, sulle colline tra Fiesole e Settignano, sorge la quattrocentesca Villa Corsini di Maiano, restaurata nell’Ottocento. Set di numerosi film, la villa conserva un giardino all’italiana, ricco di essenze, disposto su due terrazze. Il lato nord della terrazza inferiore è chiuso da un edificio di servizio che funge da limonaia.

Nelle pagine seguenti: La limonaia nel giardino segreto all’italiana di Villa Torrigiani, a Camigliano, una delle più fastose di tutta la Lucchesia, celebre per la bellezza dell’edificio cinquecentesco e del giardino secentesco, modellato su quelli di Versailles. L’edificio della limonaia, dalle finestre a sesto acuto, è addossato al ninfeo, un tempo lodato per la spettacolarità dei suoi giochi d’acqua. Il padiglione è caratterizzato dalla cupola coronata dalla statua di Flora con maschere e fiori in ferro battuto.

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L’ORANGERIE

Per il piacere dei principi

Lanciata dai Medici, la passione per gli agrumi si era diffusa in tutta la Toscana aristocratica, nelle regioni del Nord, aveva superato le Alpi e aveva raggiunto la Francia. A rendere popolari le belle piante doveva aver contribuito senza dubbio Caterina de’ Medici, discendente di Lorenzo il Magnifico, andata sposa a Enrico II di Francia nel 1533. La sposa quattordicenne era arrivata a Parigi con un grande seguito, tra cui la governante, tre cuoche del Mugello, un gelataio di Urbino, alcuni pasticcieri, e aveva introdotto nella cucina di corte molti piatti toscani, come il papero al melangolo, che i cuochi francesi avrebbero reso famoso in seguito come Canard à l’orange, sostituendo al papero le anatre degli allevamenti reali e al melangolo l’arancia dolce, a quell’epoca considerata ancora una rarità.

In Inghilterra gli agrumi arrivarono tardi. Sembra che la prima pianta di arancio vista nel Paese fosse stata introdotta da un cortigiano della regina Elisabetta, Sir Francis Carew. Si racconta che l’avesse portata dall’Italia (o forse da Parigi, dove aveva soggiornato nel 1561) e piantata nella sua tenuta di Beddington, nel Surrey, famosa per il suo giardino, un giardino d’acqua ricco di fontane e grotte, e per gli alberi da frutta che il gentiluomo faceva arrivare con grande dispendio di mezzi e

di energie da ogni dove. Un’altra versione del fatto, tramandata nella sua famiglia, racconta invece che Sir Francis avesse ricevuto i semi di arancio addirittura dal celebre marito di una sua nipote, Sir Walter Raleigh, il grande esploratore, che per primo li avrebbe portati in Inghilterra insieme ad altre piante esotiche. Piantati in piena terra, d’inverno gli alberi erano protetti sotto ripari di legno che venivano rimossi durante l’estate, lasciando solo le colonne portanti dell’impianto. Nel secolo successivo, nel 1691, la costruzione in legno veniva descritta come “la più bella Orangery d’Inghilterra, l’edificio dove si trovano è lungo oltre 200 piedi e il giardiniere dice di aver raccolto oltre 10.000 frutti lo scorso anno”. Nel 1720 la vecchia struttura Tudor fu sostituita da una orangery in muratura, forse la prima nel Paese, di cui esiste ancora il muro settentrionale.

A mano a mano che si procedeva verso il Nord, la protezione di limoni e aranci, e di altre piante gelive loro associate, poneva un problema sempre più serio, sia a causa del clima sempre più rigido sia in considerazione del fatto che molti proprietari preferivano la piantumazione anziché la coltivazione delle piante in vaso, scelta che avrebbe reso invece più facili il trasporto e la messa a riposo.

Olivier de Serres (1539-1619), gentiluomo protestante, amico di Enrico IV, agronomo (è

Nella pagina a fianco: La stanza colma di attrezzi (costruita nel 1777) del capo giardiniere di Calke Abbey, storica dimora inglese nel Derbyshire, che già nel XVIII secolo poteva vantare, oltre a una elegante orangery, edifici riscaldati per la coltivazione di ananas, vite, pesche, pomodori, serre per la forzatura delle giovani piante e piccole serre mobili.

Nelle pagine seguenti: Sullo sfondo della reggia di Versailles, una veduta del Parterre Bas antistante la Grande Orangerie, disseminato di piante d’agrumi in vaso. Modello per tutte le orangerie europee del XVIII secolo, l’Orangerie fu progettata nel 1663 dall’architetto Louis Le Vau; successivamente venne ricostruita e ampliata con l’aggiunta di due ali laterali da Jules Hardouin-Mansart. Oggi ospita oltre mille alberi, non solo aranci e limoni, ma anche oleandri, melograni (alcuni centenari) e palme.

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Nelle pagine precedenti: L’aranciera superiore del castello di Weilburg, nella regione dell’Assia, in Germania. La trasformazione del castello rinascimentale e dei giardini in stile barocco, voluta da Johann Ernst von Nassau-Weilburg, portò alla costruzione, tra il 1703 e il 1710, di due orangerie, disposte su due differenti livelli. Quella superiore, un padiglione centrale con due ali semicircolari, più fastosa, veniva utilizzata non solo per il ricovero delle piante di agrumi, ma anche come spazio per feste e ricevimenti.

considerato il padre dell’agricoltura francese), nella sua tenuta di Pradel, in Ardèche, aveva creato una fattoria modello e sperimentato molte coltivazioni, tra cui quella del gelso per l’allevamento dei bachi da seta e quella della patata, da poco arrivata dal Perù, chiamata “cartoufle”. Qui si occupava anche della coltivazione degli aranci, un soggetto a cui dedicò molto spazio nel suo Théâtre d’Agricolture et Menasge des Champs, pubblicato nel 1600.

Lo studioso si intrattiene a lungo sulla natura di queste piante, sulle cure di cui necessitano durante il trasporto dai Paesi di origine, spesso soffermandosi a definirle rare, preziose e delicate. Dopo aver sostenuto che è solo un privilegio dei principi, come l’elettore palatino, quello di poter coltivare giardini di agrumi all’aperto, dati i grandi investimenti necessari alla loro protezione, suggerisce al coltivatore come proteggere le piante d’inverno.

Innanzitutto si sceglierà il luogo dove interrare le piante, sia importate, sia ottenute in vivaio da sementi, che dovrà essere “esposto al sole, coperto dai venti, principalmente dalla tramontana, per la sua grande importunità, in una terra dolce, fertile, facile da coltivare”. Se la Natura non la offre, bisogna supplire a questi difetti con un artifi cio, costruendo un muro a settentrione che serva da spalliera agli alberi, per tenerli a riparo, e ammendando

il fondo con un vigoroso concime. “Vicino al muro costruito, gli alberi saranno piantati sul lato che guarda a mezzogiorno davanti al quale, lontano dieci, dodici piedi, si costruirà una fi la di colonne o di pilastri dell’altezza di dodici-tredici piedi, equidistanti da sette a otto piedi: esse porteranno un trave che funge da architrave, e questo col muro, superando l’altezza delle colonne da tre a quattro piedi, è la copertura di cui si sta trattando, per conservare gli alberi. Questa copertura sarà composta da travi e da assi, per poterla mettere e togliere con facilità secondo la bisogna. [...] La si potrà fare di paglia o di altri materiali che si troveranno a buon mercato, secondo il paese, di giunchi di stagno e simili cespugli. Converrà chiudere le due estremità di questa casa, in modo che gli alberi non siano esposti che a un solo aspetto del cielo, cioè, a mezzogiorno: con l’alloggio aperto, gli alberi saranno riscaldati lungo la giornata, perché il sole lo illuminerà dall’alba al tramonto per tutto l’inverno”. Ancor meglio penetrerà il sole, suggerisce l’agronomo, se si ricaveranno alcuni lucernari sul tetto che si possano aprire e chiudere facilmente: il sole che entrerà darà sollievo agli alberi, facendo trascorrere loro “gaiamente” le brutte stagioni. Naturalmente nei Paesi più settentrionali e più freddi bisognerà aumentare la protezione: l’edificio andrà chiuso su tutti i lati, compreso quello a mezzogiorno. Si lasceranno solo delle grandi finestre da chiudere con vetri o pannelli di tela cerata, per tutto il tempo che il sole non potrà servire agli alberi, pur rimanendo il luogo sufficientemente illuminato. Quando il freddo aumenterà, bisognerà riscaldare gli alberi con fuoco di carbone o di legno secco e leggero,

A fianco: L’orangerie inferiore del castello di Weilburg, collegata alla terrazza superiore da due scalinate laterali.

Nelle pagine seguenti: Sullo sfondo delle dolci colline dell’Hohenlohe, nella regione del Baden-Württemberg, il giardino barocco chiuso dalle orangerie del castello di Weikersheim appare come una visione fiabesca. Il giardino, voluto da Carl Ludwig di Hohenlohe (1674-1756), è popolato, oltre che da statue di divinità dell’Olimpo, personificazioni dei pianeti, dei venti e delle stagioni, secondo la moda del tempo, da raffigurazioni di nani. Nei volti delle grottesche figure di pietra, il bizzarro signore di Weikersheim volle che fossero tramandate alla posterità le fattezze dei membri della sua corte.

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Nelle pagine precedenti: L’orangerie del giardino di Weikerheim, una delle tappe più spettacolari della Romantische Straße, risale al 1723. Lunga 100 metri, è un portico a due ali concluse da un’esedra, che separano come due quinte l’ordinato giardino barocco dalla natura circostante.

Sotto: L’illustrazione di un esemplare di Colchicum sp. tratta dall’Hortus eystettensis, monumentale opera di Basilius Besler pubblicata nel 1613.

affi nché un fumo troppo pesante non rovini le foglie delle preziose piante.

Alla fine di questa lunga trattazione, il signore di Pradel fa però una saggia riflessione. Mettere e togliere queste coperture tutti gli anni rappresenta una spesa fastidiosa, allora perché non adottare la soluzione che la necessità, madre delle arti, ha trovato? Coltivare queste piante preziose in casse: anche se delicate, le piante si adattano benissimo a questa sistemazione e sono facilmente trasportabili da un ambiente all’altro, soprattutto se si muniranno le casse di rotelle. Si provvederà, ma una sola volta, a trovare un alloggio conveniente dove far loro trascorrere l’inverno. È importante che questo luogo sia vicino a quello dove trascorreranno l’estate, in modo da risparmiare fatica.

E, conclude Olivier de Serres, “è una delizia di principi e grandi signori quella di coltivare questi alberi eccellenti in un clima ostile alla loro natura, perché qui la loro magnificenza può essere più facilmente ammirata che imitata”.

In effetti, furono molti i grandi signori che, per mostrare la loro magnificenza, crearono giardini stupendi, copiandoli da quelli visti in Italia, Paese che nel XVI secolo, e anche in quello successivo, avrebbe imposto il suo gusto a tutta Europa.

Ne è un esempio il giardino voluto da Konrad von Gemmingen (1561-1612), principe vescovo di Eichstätt, in Baviera, per rinnovare in stile Rinascimento la sua residenza nella fortezza del Willibaldsburg.

Di questo giardino, distrutto dagli Svedesi durante la Guerra dei Trent’anni, è rimasta

una documentazione straordinaria, l ’Hortus Eystettensis, uno dei più bei libri di botanica illustrati di tutti i tempi, opera di Basilius Besler, farmacista e botanico di Norimberga. In 367 tavole incise e colorate a mano, Besler descrive le 1084 specie di piante, molte delle quali esotiche, che si potevano ammirare nel giardino del principe vescovo, rappresentate secondo la stagione di fioritura. Una delle tavole più interessanti, che Besler ascrive all’estate, rappresenta alcuni esemplari di Citrus: il limone, l’arancio amaro e l’arancio dolce. Eichstätt è una cittadina molto calda durante l’estate, ma d’inverno vi regna la nebbia che sale dalla valle dell’Altmühl. C’è dunque da supporre che anche il principe vescovo si fosse dotato di una copertura mobile (o un vero e proprio edificio) per proteggere le sue belle piante.

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Nessun giardino però eguagliava in magnificenza l’Hortus palatinus dell’elettore palatino Federico V, già lodato da Olivier de Serres. Era considerato l’ottava meraviglia del mondo, con le sue terrazze digradanti secondo il modello italiano, i giochi d’acqua, la fontana del Reno, le statue delle divinità fluviali, il labirinto e le aiuole a cerchi organizzate secondo il periodo della fioritura, come appare immortalato in un dipinto di Jacques Fouquières. Di questo giardino, anch’esso andato in rovina durante la guerra dei Trent’anni, rimangono le splendide incisioni che Matthäus Merian eseguì per l’Hortus Palatinus, opera di Salomon de Caus, a cui il giovane elettore aveva commissionato la realizzazione.

Figura unica nella storia del giardino, letterato, architetto, ingegnere idraulico, Salo-

mon de Caus (1576-1626) era un ugonotto francese costretto all’esilio in Inghilterra dove, per il re Giacomo I Stuart, disegnò i giardini di Somerset House. A Heidelberg arrivò al seguito della figlia di Giacomo I, Elisabetta, andata sposa a Federico V. Nell’Hortus Palatinus, pubblicato nel 1620, appare la prima rappresentazione di un’aranciera smontabile e l’autore-progettista così la descrive: “Copre trenta alberi di taglia piccola e quattrocento di taglia media ed è fatta di legno che viene alzato ogni anno verso il giorno di San Michele [29 settembre] e le piante di arancio sono riscaldate per mezzo di quattro stufe per tutto l’inverno, così che nei giorni di grande gelo si può camminare nell’aranciera senza sentire alcun freddo A Pasqua la struttura viene tolta per lasciare gli alberi scoperti tutta l’estate”.

A fianco: Una delle due orangerie simmetriche che fiancheggiano il giardino ad aiuole, rigorosamente geometrico e attraversato da un canale d’acqua, della Favorite, la residenza estiva preferita della margravia Sibylle Auguste di BadenBaden (1675-1733), fatta costruire nei dintorni di Rastatt in memoria del marito, Luigi Guglielmo, noto come Luigi il Turco, vincitore di numerose battaglie nelle frequenti guerre dell’Impero Asburgico contro i Turchi.

Nella pagina seguente: L’interno delle orangerie della Favorite oggi lascia immaginare la quantità di piante che era possibile mettervi al riparo. L’austerità dell’imponente edificio contrasta con il lusso sfarzoso che caratterizza la villa e i suoi arredi.

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L’intelaiatura di legno era lunga 280 piedi (81,76 metri), e larga 32 piedi (9,34 metri) con un tetto smontabile. Piccole finestre nelle pareti laterali e grandi aperture consentivano l’illuminazione e il ricambio dell’aria.

Preoccupato dei costi di gestione e di montaggio e smontaggio della struttura, Salomon de Caus propone, nella stessa incisione, un elegante edifi cio in muratura nel quale in autunno siano da rimontare solo il tetto e le finestre, che nel progetto appaiono molto più grandi che nell’aranciera mobile. Il tetto è nascosto alla vista da una balaustra su cui poggiano vasi ornamentali. Ai lati dei fi nestroni, grandi colonne tortili ritmano armoniosamente l’edificio. Come scrive John Hicks, noto studioso di serre, è uno dei primi esempi di quelli che sarebbero diventati gli edifici orangerie-sale da banchetto tanto cari all’aristocrazia nel XVII, XVIII e XIX secolo sul Continente e in Inghilterra.

Nell’arco di pochi decenni l’esempio sarebbe stato ben presto imitato.

Tra quelli più significativi in Francia, la monumentale orangerie che l’architetto Louis le Vau costruì nel 1658 nel castello di Meudon su richiesta di Abel Servien, ministro della Guerra di Luigi XIII, che ne era diventato il nuovo proprietario. Aperto a sud da otto fi nestroni ai lati dell’ingresso monumentale, l’edifi cio, con le sue nobili proporzioni e con la purezza delle sue linee, è un capolavoro dell’architettura barocca francese e diventerà modello per la Grande Orangerie di Versailles, quando Le Vau verrà chiamato da Luigi XIV a dirigerne i lavori di ampliamento.

Al di là della Manica, a Chatsworth, la più importante dimora di campagna inglese,

William Cavendish, primo duca di Devonshire, seguendo la moda introdotto dall’Olanda da re Guglielmo III e dalla regina Maria II, fece costruire nel 1697-98 la Duke’s Greenhouse, destinata a ospitare agrumi e mirti. Per Chatsworth era l’inizio di una splendida storia di giardini e serre che nei secoli successivi avrebbero imposto il loro gusto al Regno Unito prima e al Continente poi, per arrivare fino negli Stati Uniti

Alla fi ne del XVII secolo l’orangerie era diventata dunque un elemento indispensabile dei grandi giardini.

Una Orangerie per il Re Sole

Luigi XIV, un giovane re che si credeva un dio, nel 1661 diede inizio ai lavori per trasformare il piccolo castello di caccia fatto costruire dal padre nel Vallon de Galie, vicino al villaggio di Versailles, nella reggia più fastosa d’Europa.

Il 17 agosto 1661, invitato a una festa in suo onore nella nuova dimora del tesoriere di Mazzarino e sovrintendente alle Finanze Nicolas Fouquet, il re scoprì le meraviglie del castello di Vaux-le-Vicomte. Il raffinato e ambizioso sovrintendente aveva attinto a piene mani nelle casse dello Stato per costruire questo castello e chiamato a lavorarvi i più capaci artisti del momento, l’architetto Louis Le Vau, il pittore Charles Le Brun, il creatore di giardini André Le Nôtre, alla guida di centinaia di operai e artigiani.

Non fu la sola causa, ma questa festa, celebrata in tutte le cronache del regno per la sua insolente magnificenza, segnò la disgrazia

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Un ritratto giovanile di Luigi XIV re di Francia (1638-1715). Appassionato cultore di piante e giardini, il Re Sole commissionò all’architetto Louis Le Vau la costruzione della Grande Orangerie di Versailles nel 1663, ancor prima che iniziassero i lavori della reggia.

Nelle pagine precedenti: La costruzione della reggia di Bruchsal, nel BadenWürttenberg, in Germania, fu affidata dal potente principe vescovo di Spira Damian Hugo von Schönborn (16761743) all’architetto Maximilan von Welsch (1671-1745). Iniziati nel 1720, i lavori proseguirono in seguito sotto la guida di Balthasar Neumann, celebre architetto, le cui soluzioni ardite fecero della reggia uno dei più fastosi edifici del suo tempo. Il progetto prevedeva anche due grandiose orangerie a fiancheggiare il cortile d’onore, decorate con stucchi dorati e affrescate a trompe-l’oeil.

Nella pagina a fianco: La superba facciata dell’orangerie nei giardini del castello di Fulda, cuore barocco della Germania. Più che un’orangerie, un vero palazzo che fronteggia la residenza dei principi abati di Fulda, edificato per soddisfare le ambizioni del principe abate Adolph von Dalberg, che ne affidò la costruzione a Maximilian von Welsch. I lavori, iniziati nel 1722, si conclusero nel 1726 sotto la direzione del nuovo architetto di corte Andrea Galassini. L’edificio domina il giardino con il suo scalone monumentale.

di Fouquet. Luigi non poteva tollerare che un suddito vantasse una dimora più sontuosa di quella del re. Venti giorni dopo la festa fece arrestare Fouquet con l’accusa di malversazione, fece requisire i suoi beni, impadronendosi anche di mobili, lampadari, arazzi, piante di arancio in vaso e più di mille alberi, e chiamò al suo servizio gli architetti e gli artisti che avevano lavorato per il sovrintendente.

Un’impresa titanica, un cantiere durato quarant’anni. Sul letto di morte il re si sarebbe rimproverato di essersi troppo appassionato all’architettura degli edifi ci. Ma si appassionò anche all’architettura dei giardini, amò i fiori, le piante rare, osservò con interesse il lavoro dei giardinieri. Scrive Pierre Verlet, “I suoi gusti personali si confondono con ciò che farà la magnifi cenza di Versailles. È convinto che una bella dimora contribuisca alla gloria di un grande re quanto la conquista di una provincia”.

A Le Nôtre il re affidò la progettazione del verde. Migliaia di ettari di boschi per la caccia, e poi giardini, i parterre, il Grand Canal, gli specchi d’acqua, e le fontane a comporre quello che diventerà il modello del giardino alla francese, esportato in tutta Europa.

Nel 1663 Le Vau costruì la prima orangerie, che sarebbe stata ingrandita vent’anni dopo dall’architetto Hardouin-Mansart. Situato al di sotto del Parterre Sud, su cui si affacciavano le finestre dell’appartamento della regina, l’edificio si componeva di una galleria centrale orientata a sud e di due gallerie laterali, aggiunte da Hardouin Mansart, poste sotto le scale dei Cento Gradini, che racchiudono il Parterre basso, detto anche Parterre dell’Orangerie.

L’orangerie è una delle più belle prove del talento di Mansart. Lunga 155 metri nella parte centrale, alta 13 metri e dotata di un soffitto a volta, per la purezza delle linee richiama una basilica romana, destinata a ospitare una foresta in miniatura di oltre 2.000 piante di pomi delle Esperidi piantate in casse di legno. A metà maggio, le piante, potate a palla, erano portate all’aperto e allineate sul Parterre, dove si alternavano ai tassi piantati in terra con grande effetto decorativo. A metà ottobre venivano messe di nuovo al riparo nella grande serra.

L’esposizione a sud dell’edificio, i muri spessi oltre 5 metri, le precauzioni prese dai giardinieri per proteggere le piante fecero sì che l’orangerie non conoscesse mai una gelata. D’inverno, infatti, le giunture delle grandi porte finestre ad arco che ne garantivano l’illuminazione venivano rivestite di paglia per impedire agli spifferi di entrare, mentre gli addetti alla cura delle piante entravano e uscivano da una sorta di grandi gattaiole.

Sotto le superbe volte dell’orangerie sono passati migliaia di aranci, alcuni entrati nella leggenda, come il celebre “Connestabile”.

Piantato a Pamplona nel 1421, acquistato da Francesco I per il castello di Fontainebleau, fu fatto trasportare da Luigi XIV a Versailles e vi sopravvisse per due secoli, oggetto di cure amorevoli da parte di generazioni di giardinieri.

Lasciati l’orangerie e il suo parterre, il Re Sole si dirigeva spesso verso il Grand Carré, per visitare quello che ancora oggi è chiamato “Le Potager du Roi”, geniale creazione di Jean-Baptiste la Quintinie, direttore di tutti i frutteti e orti delle dimore reali. Coadiuvato da Mansart per la disposizione generale dell’in-

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sieme – la messa in opera durerà dal 1678 al 1683 –, La Quintinie mise a punto tutta una serie di tecniche elaborate per rifornire la mensa reale di primizie, come lui stesso scrisse orgogliosamente: “fragole alla fine di marzo, asparagi e lattughe a dicembre e gennaio”. A partire dal 1685, la Manifattura di SaintGobain avrebbe iniziato la produzione di vetri di grandi dimensioni e questo consentì al giardiniere reale di praticare colture sotto vetro, costruire serre riscaldate a fuoco, in particolare un grande edificio per ospitare le settecento piante di fichi in cassetta, per non far mancare al re il suo frutto preferito anche in inverno.

Germania: il regno dell’Orangerie

Sull’esempio di Luigi XIV, ogni principe tedesco e ogni duca inglese volle edificare una serra che potesse emulare quella di Versailles. Tramontata la vecchia struttura lignea, capanna o baracca con le pareti ispessite da sterco e muschio, a protezione delle piante di agrumi in piena terra, si fece strada e si impose l’idea, cara a Salomon de Caus, di un elegante edificio in muratura dove ospitare le piante in vaso. Un edificio che si potesse facilmente riscaldare con pratiche stufe di maiolica.

Nelle pagine seguenti: L’interno dell’orangerie del castello di Fulda, chiamato anche Sala di Apollo. La decorazione ispirata alle luminose composizioni del veneziano Giambattista Piazzetta, è opera del pittore di corte Emmanuel Wohlhaupter e dell’artista stuccatore Andreas Schwarzmann. Sul soffitto affrescato a trompe-l’oeil sono rappresentati tutti i temi figurativi tradizionali del tempo: divinità dei fiumi e delle stagioni, allegorie dei continenti che si intrattengono con putti ridenti in un tripudio di festa e di colori, mentre Apollo sul suo carro reca lo stemma del potente principe abate.

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A fianco: La residenza di Ansbach, in Baviera, vanta uno dei parchi più antichi del Paese, tanto da essere citato negli scritti di Leonhart Fuchs, uno dei padri fondatori della botanica tedesca, che per sette anni, dal 1528 al 1535, fu medico personale del margravio di allora, Georg von BrandenburgAnsbach. Tra il 1723 e il 1750 vi fu realizzato il giardino di corte; punto focale del giardino l’elegante orangerie, di forma allungata, costruita da Karl Friedrich von Zocha tra il 1726 e il 1743.

Sotto: Frutti di melograno in una tavola di Pierre-Joseph Redouté, tratta dal prezioso volume Nouveau Duhamel (1818-1820).

Johann Christoph Volkamer, autore dello splendido Nürbergische Hesperides, nato dalla sua esperienza rara di proprietario di un giardino di agrumi a Norimberga, famoso ben oltre i confini della città, descrive la serra, per il suo tempo modernissima, che si era fatto costruire. L’edificio – tre pareti in pietra, la quarta, esposta a sud, e il tetto, rimovibile – era annesso all’abitazione in modo che aprendo le finestre di una stanza affacciata sull’aranciera si potesse godere del profumo delle piante.

L’aranciera si trasformò. Divenne indispensabile pendant del giardino. La sua posizione rispetto all’edificio principale poteva variare secondo la topografia del terreno e l’ubicazione del castello. Poteva essere direttamente collegata all’edificio principale o attraverso un ambiente di servizio, diventare un tutt’uno con la dimora come il gigantesco castello-orangerie di Kassel, lungo 139,40 metri, occupare un apposito spazio nel parco o costituire elemento di chiusura del giardino in asse con il castello. Gli architetti di grido che venivano chiamati a costruirle davano vita a una gamma di modelli architettonici, sempre più articolati e sontuosi. L’aranciera aumentò di proporzione, si arricchì di decorazioni e di statue. Vi si passeggiava e si conversava aspirando il grato profumo degli agrumi, ammirandone le varietà, stupendosi davanti alle nuove diverse piante che erano loro associate. Quando d’estate si svuotava e le piante di aranci venivano collocate nel parterre del giardino barocco, il nobile edificio era adibito ad altro uso: sala per banchetti, feste, salone da ballo, da concerti, da teatro.

È interessante osservare come nel corso del tempo la vegetazione all’interno della

serra si sia arricchita. Lo Pseudo Dahuron, un anonimo imitatore di René Dahuron – famoso giardiniere a Versailles, poi a Luneburg, alla corte del duca di Brunswick, e infine a Potsdam, a quella di Federico Guglielmo I –osserva: “Anche se gli aranci amari e i limoni sono le piante più preziose di un’aranciera, principalmente per il fatto che essi danno il nome all’edifi cio, e anche a causa della loro bellezza e dei loro frutti graziosi, essi comunque non sono le uniche piante dell’aranciera degne di cure”. Accanto ad aranci e limoni venivano coltivate infatti numerose altre piante, tra cui gelsomini, melograni, alloro, rosmarino, lauroceraso, viburni, oleandri, cipressi, agavi e ibischi, e poi garofani, canne, tuberose, violacciocche, auricole,

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pimpinelle, campanule. Molte provenivano dall’area mediterranea, altre dall’Asia, come l’ibisco, oppure dal Nuovo Mondo, come la messicana tuberosa. E tutte stupivano i nobili visitatori con le loro forme esotiche e i profumi inebrianti.

La Germania è forse il Paese che conta il maggior numero di orangerie in Europa. Regge come quelle Fulda e di Würzburg, la Favorite a Rastatt, l’Eremitage a Bayreuth, il castello di Ansbach, quelli di Bruchsal, Karlsruhe, Schwetzingen, Weilburg e Weikersheim sono alcune tra le residenze che nella prima metà del XVIII secolo si dotarono di splendide orangerie. Un viaggio tra queste residenze è un viaggio attraverso capolavori di architettura e scultura, ma anche un modo di cogliere il

cambiamento negli interessi e nei gusti dei ricchi proprietari.

Un tipico esempio di queste trasformazioni è il castello di Weilburg, in Assia, che nei primissimi anni del XVIII secolo si dotò non di una ma di ben due aranciere, collocate su differenti livelli del giardino alla francese creato dal giardiniere François Lemaire. A volere la trasformazione del castello rinascimentale sul fiume Lahn in una sfarzosa reggia barocca, degna dell’importanza della famiglia che la abita, fu il conte Johann Ernst von NassauWeilburg (1664-1719), che affidò il compito a uno dei maggiori architetti dell’epoca, Julius Ludwig Rothweil.

Rothweil progettò un edificio semicircolare, costituito da un corpo centrale e da due

Nelle pagine seguenti: Il Neues Schloss, il Castello Nuovo, di Bayreuth, in Baviera, fu fatto costruire in forma di orangerie come residenza estiva dalla margravia Guglielmina (17091748), sorella preferita di Federico il Grande di Prussia. Donna di grande fascino e grande cultura, lei stessa scrittrice, e autrice di pièces teatrali che amava interpretare, attirò alla corte di Bayreuth artisti, scrittori, musicisti, trasformando la capitale del margraviato in uno dei più brillanti centri culturali d’Europa.

Nelle pagine precedenti: Il compito di realizzare il Neues Schloss Eremitage della residenza di Bayreuth fu affidato all’architetto di corte Joseph SaintPierre, il quale tra il 1753 e il 1757 innalzò un delizioso edificio in forma di orangerie: un corpo centrale, il Tempio del Sole, fiancheggiato da due ali semicircolari, che si rispecchiano nel grande bacino d’acqua antistante. Le due arcate, decorate da busti dorati, creano l’effetto di una loggia aperta. Sopra la cupola del Tempio del Sole domina la scena il carro rivestito d’oro di Apollo, che scintilla come le superfici del palazzo decorate a mosaico.

ali laterali, destinato sì a proteggere le piante esotiche, ma anche a ospitare le grandi feste che si davano a corte, e che aveva inoltre il pregio di collegare direttamente le zone residenziali con la chiesa del castello, il più importante edifi cio di culto protestante di epoca barocca nella regione. A imitazione di quella di Versailles, la Untere Orangerie, l’aranciera inferiore, un sobrio edifi cio rettangolare, è collegata al terrazzamento superiore da due scalinate che la fiancheggiano

e, come Versailles, gode di una bella esposizione a sud e di un favorevole microclima, dovuto al fatto di essere protetta a nord dalla parete del terrazzamento su cui posa. Due aranciere, questa volta identiche, due splendidi edifi ci coperti da stucchi e vivaci pitture trompe-l’oeil con figure mitologiche, si aprono sul parco del superbo palazzo di Bruchsal, nel Baden-Württemberg, residenza di Damian Hugo von Schönborn (1676-1743), grande principe vescovo del piccolo e fiorente

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A fianco: l’orangerie nel parco della residenza di Schwetzingen, nel Baden-Württemberg, una delle più spettacolari di tutta la Germania per la vastità dei suoi giardini, i magnifici edifici, tra cui una moschea, e le opere d’arte che vi sono disseminate. L’elettore palatino Carl Theodor affidò all’architetto e scenografo italiano Alessandro Galli Bibiena (1686-1748) il progetto della grandiosa orangerie: un padiglione centrale fiancheggiato da due ali a semicerchio, una sola delle quali destinata alle funzioni originali di una orangerie, mentre l’altra era adibita a spazio per feste, ricevimenti e rappresentazioni teatrali.

Nelle pagine seguenti: Succeduto a Galli Bibiena, l’architetto francese Nicolas de Pigage, per soddisfare la crescente passione dell’elettore per le piante esotiche, fu costretto a costruire una seconda orangerie, la Neue Orangerie, per ospitare le piante che vi affluivano sempre più frequentemente.

regno. Iniziata nel 1720, la costruzione del castello restò l’impegno e l’amore per il resto della vita del principe vescovo, che per realizzarlo chiamò architetti famosi, tra cui Johann Balthasar Neumann (1687-1753), il celebre costruttore della reggia di Würzburg.

Di reggia in reggia, di principe in principe. Nei primi decenni del XVIII si assiste a un fiorire di aristocratiche orangerie.

A Weikersheim, nella regione di Hohenlohe, un sovrano bizzarro, il conte Carl

Ludwig di Hohenlohe, che governa il suo regno per ben cinquanta pacifici anni arricchendolo di grandi edifici e monumenti, crea intorno a una residenza in stile rinascimentale un fantastico giardino barocco che popola di statue di divinità greche, di ninfe discinte, di putti e soprattutto di una bizzarra serie di statue di nani in ognuna delle quali è rappresentato un membro della corte. A chiudere il giardino una preziosa, aerea, orangerie, illuminata da altissime porte finestre a vetri

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Nelle pagine precedenti: Oggi la Neue Orangerie del castello di Schewtzingen ospita gli originali delle sculture raffiguranti divinità dell’Olimpo, figure mitologiche, scene relative alla caccia (come quella della Fontana del Cervo), che l’elettore Carl Theodor, appassionato cacciatore, aveva fatto collocare in vari punti del parco, oggi sostituite da copie.

A fianco: L’orangerie dei giardini di corte della fastosa reggia barocca di Würzburg (1720-1744), in Baviera. Capolavoro di Balthasar Neumann, il palazzo fu pesantemente danneggiato nel corso della Seconda guerra mondiale insieme con il meraviglioso complesso dei giardini, ridisegnati intorno al 1770 in stile rococò dal giardiniere di corte Johann Prokop Mayer. Dopo gli imponenti lavori di restauro, nello spazio davanti alla serra, alla fine del secolo scorso, è stato ripristinato l’antico orto, piantumato con varietà antiche e nuove di alberi da frutta e di ortaggi.

Sotto: La passiflora in una tavola del 1745 di Georg Dionysius Ehret (1708-1770), artista e botanico tedesco, celebre per le sue illustrazioni naturalistiche.

e coronata da una balaustra ornata di statue che collega idealmente il giardino alle dolci colline circostanti.

Un principe amante della pace, e appassionato di fi ori, è all’origine di una delle più belle storie di giardini e di serre in Germania, una storia che dura da secoli.

Karl Wilhelm di Baden-Durlach (16791738) fu un personaggio affascinante sotto molti aspetti. Il primo è senza dubbio quello di aver amato tanto la pace da fondare, lui che era stato un grande condottiero, una città chiamata “Carols Ruh” (la quiete di Karl), l’odierna Karlsruhe. Il secondo è di aver tanto amato le donne da aver creato a corte un “serraglio” alla moda turca, che aveva molto scandalizzato alcuni dei suoi illustri visitatori.

Il terzo è di aver tanto amato il verde e il giardinaggio da fargli affermare “Il nostro unico piacere [consiste] nella coltivazione di fiori e nella cura del parco”.

Fondata nel 1715, Karlsruhe è una città modello, progettata a tavolino, che si apre a raggiera intorno al castello di caccia che sarebbe divenuta la residenza uffi ciale del margravio. I raggi sono costituiti da trentadue viali alberati, un numero che corrisponde esattamente alla divisione della Rosa dei venti. Entro i limiti dei nove raggi orientati a sud venne edificata la nuova residenza, e contrariamente alle regole del giardino barocco, il parco venne posizionato davanti e non dietro il castello, diviso in giardini digradanti, con tre grandi orangerie, oltre a una quarta, la Zirkelorangerie, in diversa posizione, e innovative serre per la propagazione delle piante, voliere, grotte. Un viaggiatore dell’epoca, Johann Georg Keyssler, scrive

nel settembre 1729: “Il giardino davanti al palazzo è piccolo ma piacevole. Contiene oltre 4000 melangoli, allori, limoni e alberi simili inclusi 2700 aranci dolci [...] Nei numerosi avvallamenti del giardino sono stati piantati piacevoli vialetti di piccoli alberi di limone, oltre a una voliera per 300 canarini che d’estate volano intorno nel giardino e poi rientrano spontaneamente nella loro casa”. In questo giardino avrebbe lavorato per alcuni anni come aiuto giardiniere, dedicandosi

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nel tempo libero alla sua attività preferita, la rappresentazione delle piante, uno dei più grandi illustratori botanici di tutti i tempi: Georg Dionysius Ehret.

Nel suo giardino di delizie, Karl Wilhelm fece piantare migliaia di bulbi di tulipani, acquistati durante i suoi viaggi in Olanda. Ne era talmente appassionato da farli ritrarre in quello che ci è stato tramandato come il Tulpenbuch , una deliziosa galleria dei fi ori più alla moda dell’epoca. Per arricchire le sue

serre di piante esotiche, concesse al giardiniere di corte Christian Thran di partecipare a una spedizione scientifica in Africa del Nord, attraverso l’Algeria e la Tunisia. Thran lo ripagò con un ricco bottino vegetale riportato dal viaggio e soprattutto con la stesura del catalogo delle piante ospitate nei giardini e nelle serre del palazzo, oltre 2.000 specie. Tra le piante che hanno bisogno di ricovero invernale, il giardiniere elencò ben 652 specie, dall’acacia allo zenzero, passando per

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Nelle pagine seguenti: All’interno dell’orangerie dei giardini di Würzburg è stata raccolta una serie di statue che un tempo ornavano i giardini della residenza.

la guaiava e la yucca. È a Thran, soprannominato “il giardiniere delle serre in vetro”, che si deve l’introduzione a Karlsruhe delle piccole serre in vetro per la propagazione di piante. Le aveva viste, giovane giardiniere, nel giardino del castello di Gottof, allora in Danimarca, all’avanguardia nell’adottare queste soluzioni moderne.

Fortunatamente, la passione di Karl Wilhelm per il giardino si trasmise ai suoi discendenti. Il suo successore, il nipote Karl Friedrich, coadiuvato da una moglie appassionata di scienze naturali e amica di Linneo, all’inizio dell’Ottocento fece trasformare il giardino all’inglese e nel 1808 creò un Giardino botanico, arricchendolo di piante esotiche frutto di molte spedizioni di ricerca. Vennero aggiunte una nuova orangerie, serre calde e fredde e serre vivaio. Mezzo secolo dopo il Giardino botanico subì una radicale ristrutturazione a opera dell’architetto Heinrich Hübsch, che costruì, servendosi delle nuove tecnologie, un’orangerie lunga 87 metri, una serra per le camelie e i fi ori, una per le palme, una per le piante acquatiche e una serra temperata. Quelle che ammiriamo oggi, dopo le distruzioni subite dai giardini sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale, e l’amoroso restauro degli edifici negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono quel che resta delle strutture ottocentesche, ormai sepolte nel verde, da cui emergono romantiche sculture di fi gure femminili che sarebbero molto piaciute al fondatore di Karlsruhe.

Lunghissime, spoglie, quasi severe nella loro essenzialità, sono le due serre parallele che negli stessi anni, intorno al 1710, la margravia Sibylla Augusta von Baden-Baden fece

costruire nel parco alle spalle dello Schloss Favorite, uno spettacolare piccolo edificio, summa di tutto quanto l’eleganza, il gusto, il potere era in grado di creare in quell’epoca.

Ogni stanza, dalle cucine alle soffitte, con le sue ricche decorazioni è uno scrigno perfetto per tutti i tesori che la margravia, grandissima collezionista, andava raccogliendo: vetri, porcellane, maioliche, tessuti, lacche e tutto quanto arrivava dall’Oriente secondo la moda del tempo. Qui tutto è colore e fantasia; fuori, in un contrasto quasi stridente, ci sono la massa scura degli alberi, il verde del vasto parco, la sobria armonia delle aranciere, scandite da ampie aperture ad arco che accolgono la luce, immersi in un silenzio appagante.

Città barocca per eccellenza, nei primi anni del XVIII secolo Fulda visse un momento di grande fulgore. Si arricchì di un complesso di splendidi edifi ci, tra cui lo Stadtschloss, il Palazzo di Città, e la superba orangerie, separata dal palazzo da un vasto parco. Il progetto è di Maximilian von Welsch, un architetto molto in voga al tempo, che a Roma aveva appreso la lezione del Borromini e a Parigi quella di François Mansart. Nella costruzione dell’orangerie introdusse, per la prima volta in Germania, il famoso tetto a mansarda. Sotto la direzione di Andrea Galassini, un architetto e stuccatore svizzeroitaliano, i lavori si svolsero dal 1722 al 1726.

Introdotta da una celeberrima scultura di Johann Friedrich Humbach, capolavoro del barocco tedesco, che rappresenta il Vaso di Flora, l’orangerie spiega davanti agli occhi del visitatore tutto lo splendore dei suoi interni. Sul soffitto piatto, con un magico effetto prospettico alla maniera di Andrea del

Nella pagina a fianco: Contro un cielo carico di nuvole si staglia l’architettura barocca del Wallpavillon (Padiglione delle Mura) dello Zwinger di Dresda, dominata dalla statua di Ercole che regge il globo terrestre, simbolo di Augusto il Forte, re di Polonia ed elettore di Sassonia. Si deve a lui l’edificazione del grandioso complesso, di cui disegnò il progetto originale.

Nelle pagine seguenti: Nessun edificio nato come orangerie nella Germania del XVIII secolo, per quanto fastoso, poté mai emulare la grandezza progettuale dello Zwinger. Questo straordinario complesso di padiglioni e gallerie, destinato non solo a funzioni di vera e propria orangerie, ma anche a ospitare feste di corte, rappresentazioni teatrali e tornei all’interno del cortile, è opera di Matthäus Daniel Pöppelmann (1662-1736) che vi lavorò consecutivamente dal 1710 al 1728. Prima dell’inizio dei lavori, Augusto il Forte decise che l’architetto dovesse “andare a Roma e a Vienna per vedere come là si costruiscono palazzi e giardini”.

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Nella pagina a fianco: Un particolare degli Atlanti che ornano i pilastri alla base del Padiglione delle Mura. Il disegno di questa drammatica struttura fu sviluppato da Matthäus Poppelmann in stretta collaborazione con Balthasar Permoser (1651-1732), autore delle decorazioni scultoree. L’espressione del volto degli Atlanti e i loro muscoli in tensione suggeriscono tutto lo sforzo che stanno esercitando per sostenere il piano superiore.

Nelle pagine seguenti: Una veduta dello Zwinger dalle terrazze sopra le logge inferiori, chiuse da balaustre ornate da putti marmorei. Nella gigantesca opera di decorazione, Permoser fu affiancato da una schiera di valenti artisti.

Pozzo, è rappresentato il carro di Apollo in un cielo popolato di dei e putti danzanti che spargono fiori. Una scena felice, gioiosa, che ben si addiceva alle funzioni dell’aranciera.

In Baviera si possono ammirare alcune tra le più interessanti architetture di orangerie del Paese, quelle di Ansbach e Bayreuth.

Ad Ansbach, magnifico castello ricco di memorie, tra cui quella del celebre botanico Leonhart Fuchs, o del misterioso Kaspar Hauser, l’architetto Friedrich von Zocha, tra il 1726 il 1743, costruì un’elegantissima orangerie, punto focale del giardino alla francese. Per il lato nord della struttura l’architetto si ispirò al colonnato del Louvre, mentre per la facciata meridionale prese a modello il Grand Trianon di Versailles. Lunghi viali di tigli corrono paralleli all’edificio, inondando a primavera lo spazio circostante di un profumo che stordisce.

“Un tempo i poeti e gli artisti dovevano andare a Napoli, Firenze o Ferrara, oggi la loro destinazione è Bayreuth”, scriveva Voltaire. Oggi Bayreuth è Patrimonio Unesco: tutto merito di una donna magnifica, la principessa Guglielmina di Prussia, sorella amatissima di Federico il Grande, la quale in poco più di vent’anni di regno trasformò la città in un importante centro culturale, arricchendola di un meraviglioso Teatro dell’Opera, creazione degli italiani Galli Bibiena, di monumenti, castelli e di un’università. Donna assai colta, corrispondeva con intellettuali di tutta Europa, scriveva, dipingeva, come il fratello componeva musica, recitava talvolta nel teatro di corte, creava per il teatro opere fiabesche in cui appaiono castelli di cristallo o di ghiaccio, modelli di quelli che avrebbe fat-

to erigere. Guglielmina era giunta a Bayreuth nel 1731, sposa del margravio Federico di Brandeburgo Bayreuth.

Salito al trono nel 1735, in occasione del compleanno di Gugliemina, il 3 luglio dello stesso anno, il margravio le fece dono del vasto parco dell’Eremitage, a qualche chilometro dalla città, residenza estiva dei precedenti sovrani che vi avevano fatto costruire alcuni edifici a mo’ di eremo, dove il margravio e la corte potessero ritirarsi imitando per gioco la vita degli eremiti. Guglielmina si innamorò del luogo e con la sua vivida immaginazione iniziò subito a fare progetti. Già l’anno successivo cominciarono i lavori di ricostruzione e di ampliamento dell’Altes Schloss, il Castello Vecchio. Decine di artisti vennero chiamati a dar corpo ai raffinati progetti della margravia, in quello stile particolare che venne defi nito Rococò di Bayreuth.

A pochi metri dal Castello Vecchio, separato solo da alti muri di siepi, sorgerà in soli quattro anni, dal 1749 al 1753, il Neues Schloss, il Castello Nuovo. Il suo gioiello, il suo piccolo capolavoro, un esempio perfetto dell’orangerie che si trasforma in palazzo di delizie. Dell’orangerie il castello ha tutta l’apparenza. È un complesso ovale, costituito da tre edifici separati: un corpo centrale circolare, il Tempio del Sole, da cui si dipartono due bracci semicircolari ad arcate, destinati a ospitare le piante gelive in inverno e alle cui estremità sorgono due grandi voliere. L’ala est ospitava l’appartamento della margravia, e quella ovest le stanze del margravio. Nello spazio antistante, un grande bacino d’acqua fa da specchio alla costruzione. Il complesso è carico di simbolismi: la cupola del Tempio del Sole è coronata

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Nelle pagine precedenti: La facciata in mattoni a vista dell’edificio che ospitava sia le Scuderie sia la grande Citroniera della reggia sabauda di Venaria Reale (nell’area torinese), geniale intuizione di Filippo Juvarra, architetto e scenografo, tra i massimi esponenti del Barocco in Italia. Per creare un ambiente adatto alla sopravvivenza degli agrumi in inverno, Juvarra separò lo spazio destinato alle piante dalle scuderie solo con un semplice muro, di modo che il calore sviluppato dai cavalli contribuisse ad aumentare la temperatura della Citroniera.

Nella pagina a fianco: L’interno della Citroniera dall’imponente volta a botte e il lato più lungo esposto a sud. Nelle nicchie, speculari alle grandi porte finestre che si aprono sul parco, Juvarra fece dipingere a trompe-l’oeil altrettante finestre. Lusso inaudito per un luogo destinato a piante di agrumi e ai loro giardinieri, ma che stupì i visitatori per la sua solennità, tanto da essere descritto con ammirazione in molti resoconti.

Nelle pagine seguenti: Proporzionata, aggraziata, luminosa grazie ai vivaci affreschi, Villa Nigra, con i sui tre corpi di fabbrica (XV-XVIII secolo), è il cuore dell’abitato di Miasino, incantevole località sul lago d’Orta. L’aranciera, collegata da una terrazza all’edificio principale e in attesa di restauri, è una costruzione settecentesca, opera dell’architetto G.A. Martelli.

dalla scultura dorata di Apollo che guida il carro del Sole, con il quale parte ogni giorno a illuminare la Terra (un chiaro riferimento all’illuminato governo dello sposo di Guglielmina, l’”Apollo del Brandeburgo”); la forma ovale del complesso rappresenta il mondo, lo stagno il mare, le voliere con gli uccelli l’aria e le piante la terra. Perché l’edificio assomigliasse al palazzo di cristallo di Apollo, la facciata dell’orangerie venne decorata con un mosaico di pasta di vetro rossa, blu e gialla e cristalli di rocca. Riflesso nello specchio d’acqua mossa lievemente dal vento e illuminata dai raggi del sole, il Castello Nuovo acquistava, e acquista, quell’aspetto di castello delle fate che tanto piaceva a Guglielmina.

A metà del XVIII secolo l’orangerie cessa dunque di essere una novità, ma è diventata un elemento imprescindibile del giardino di corte. Ne sono un esempio le orangerie di grandi dimensioni di due tra i più straordinari edifici tedeschi, quelle del castello di Schwetzingen e della residenza di Würzburg. Le numerose sculture originali raccolte oggi nella Nuova Orangerie del castello di Schwetzingen, statue di dei e semidei, ninfe e putti, ma anche scene di caccia con la cattura del cervo, riflettono i gusti dei proprietari, l’elettore palatino Karl Philipp III per primo e poi del successore Karl Theodor. Intorno al 1720 Karl Philipp trasformò la vecchia fortezza medievale, equidistante dalle sue residenze di Mannheim e Heidelberg, in un casino di caccia e residenza estiva. Nel giardino, costruito in stile barocco, fece edificare un’aranciera con un grande salone d’onore al centro che potesse ospitare le grandi feste della corte quando le sale della residenza non erano sufficienti.

Fu tuttavia l’ambizioso elettore Karl Theodor a fare di Schwetzing il gioiello che ancora oggi si ammira. Le sue attenzioni furono tutte dedicate al parco, a trasformare il quale chiamò l’architetto francese Nicolas de Pigage con l’incarico di “sovrintendente dei parchi e dei giochi d’acqua”. Con lui collaborava una schiera di giardinieri e architetti paesaggisti, tra cui il celebre Johann Ludwig Petri. Pigage ingrandì il giardino barocco, quasi abbracciato dalle appendici semicircolari del palazzo destinate ai grandi ricevimenti di corte, gli Zirkelbauten, e lo popolò di un centinaio di sculture. Poi, seguendo le nuove tendenze provenienti dall’Inghilterra, trasformò il terreno circostante in uno dei primi giardini all’inglese della Germania e arricchì l’Arborium Theodoricum, come fu chiamato, di edifici di gusto esotico, tra cui finte rovine romane, la moschea all’interno del Türkischer Garten, la Badehaus, la casa del bagno, un padiglione estivo con un proprio giardino, riservato al principe e costruito sul modello di una villa rinascimentale italiana. L’Apollotempel, il tempio di Apollo, un piccolo edificio circolare con al centro una statua del dio greco che suona la lira, è un chiaro riferimento a Karl Theodor, protettore delle arti e così appassionato di musica da commissionare a Mozart l’ Idomeneo . Alla ricerca del rinnovamento, Pigage eresse sul sito della vecchia aranciera, demolita, un teatro, e, nel 1763, edificò nella zona nord del giardino, accanto al tempio di Apollo, la nuova aranciera, un lungo edificio in mattoni, la cui vera novità era rappresentata dallo spazio riservato agli alloggi dei giardinieri, e soprattutto dall’annessa serra in vetro costruita sul lato orientale.

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Nelle pagine precedenti: Un magnifico e raro esempio di orangery inglese del XVII secolo. È la Duke’s Greenhouse, costruita tra il 1697 e il 1698 da William Talman nei giardini di Chatsworth, storica dimora dei duchi di Devonshire, celebri di generazione in generazione per la loro passione botanica. Modificata successivamente da Joseph Paxton, l’orangery ospitò all’inizio aranci, limoni e mirti, e in seguito camelie, fiore che sarebbe diventato popolarissimo in Gran Bretagna.

Sotto: Chiamata oggi Serrone, ma “Orangerie” nei piani di costruzione dell’autore, il celebre Giuseppe Piermarini, l’elegante aranciera della Villa Reale di Monza fu donata nel 1790 dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo, governatore di Milano, alla moglie, Maria Beatrice Ricciarda d’Este, in occasione del ventesimo anniversario delle loro nozze.

Tutto è splendore nella residenza di Würzburg, oggi Patrimonio dell’Umanità. Lo è l’edifi cio stesso, ampliato dal più grande architetto tedesco dell’epoca, Balthasar Neumann, grazie alla munificenza di una serie di principi vescovi appartenenti alla famiglia dei conti Schönborn. Lo sono la cappella, il monumentale scalone e la Kaisersaal, incoronati dai magnifici affreschi di Giandomenico Tiepolo; lo è il giardino, capolavoro del giardiniere boemo Johann Prokop Mayer (1735-1804). Occorreranno tre anni di apprendistato a Praga e una serie di esperienze in Germania, Austria, Francia, Olanda e Inghilterra, prima che Mayer metta piede a Würzburg nel 1770, chiamato dal principe vescovo Adam Friedrich von Seinsheim alla direzione dei giardini di corte. In un momento in cui la moda del giardino all’inglese sta prendendo piede, Mayer disegnò un perfetto giardino formale. Il giardino si sviluppa sui lati est e sud della residenza. A est, sfruttando quello che potrebbe essere uno svantaggio, cioè il dislivello del terreno e il limite posto dai bastioni cittadini entro cui è chiuso senza possibilità di estendersi, Mayer creò una serie di terrazze collegate tra loro da

rampe di scale fino a raggiungere i bastioni. Progettò parterre, viali con pergolati, spalliere, e riempì gli spazi con una grande quantità di alberi da frutta, potati secondo l’arte topiaria, e di piante in vaso. In contrasto con il giardino orientale, il giardino meridionale si stende su un terreno pianeggiante. Mayer lo disseminò di statue classicheggianti e lo chiuse sul lato più corto con l’imponente edificio dell’orangerie che ammiriamo tuttora. Il giardiniere aveva raggiunto il suo scopo: creare un giardino dove “una Bella Signora della corte possa essere portata a passeggio abbigliata in modo adatto al palazzo del suo principe; e quale palazzo? Uno dei più belli d’Europa”.

Nessuna di questa meraviglia, tuttavia, superò in magnificenza lo Zwinger, il superbo complesso nel cuore di Dresda destinato a ospitare le raccolte di Citrus del principe elettore di Sassonia Augusto il Forte (1670-1733).

Appassionato d’arte, nel 1687-1689 Augusto, come tutti i rampolli dell’aristocrazia, intraprese il Grand Tour in Italia e in Francia, proprio quando Luigi XIV stava trasferendo la corte a Versailles. Preso d’ammirazione per le geometrie d’acqua e di giardini di Le Nôtre e

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per la Grande Orangerie di Hardouin-Mansart, sognava per sé un’altrettanto spettacolare Versailles. Nominato re di Polonia con il nome di Augusto II, vince le guerre, perde le guerre, perde il trono, riacquista il trono, corteggia le sue numerose amanti, che gli avrebbero dato numerosissimi figli, organizza giochi e feste stravaganti e nel frattempo attira a Dresda artisti da tutta Europa per dare un volto nuovo alla città sull’Elba. Sarà magnifi ca come Versailles, così apparirà nei dipinti di Bernardo Bellotto che di Dresda lasciò splendide vedute.

All’architetto di corte, Matthäus Daniel Poppelmann (1662-1736), coadiuvato dallo scultore Balthasar Permoser, Augusto commissionò nel 1709 la costruzione dello Zwinger. L’insieme di lavori e decorazioni durò oltre vent’anni e fu interrotto solo alla morte del sovrano per mancanza di fondi.

Lo spazio di quello che era stato in precedenza una fortezza fu trasformato in un gioiello dell’arte barocca. I padiglioni e le lunghe gallerie, animati dai sontuosi motivi scultorei di Permoser, dove le decorazioni vegetali si intrecciano a sensuali fi gure mitologiche, si sviluppano intorno all’immenso giardino al centro del quale zampillano quattro fontane. Qui, nella bella stagione, venivano trasportate dalle gallerie centinaia di piante di agrumi, disposte in bell’ordine: una distesa fragrante e fi orita, le radici protette da cache-pot di porcellana decorata. Augusto, grandissimo collezionista, prediligeva la porcellana blu e bianca di stile Ming, ma possedeva anche una ricca collezione di vasi giapponesi di Imari dai caratteristici motivi floreali a vivi colori rossi e blu che oggi si possono ammirare nella Raccolta di porcellane dello Zwinger.

Sopra: La Garden House di Osterley Park, in un sobborgo di Londra. Piccolo capolavoro di Robert Adam, che la costruì nel 1780, l’edificio è decorato da medaglioni di stucco con scene di festa e pilastri con capitelli ionici. Un inventario della casa del 1782 specifica che vi erano tenuti quarantacinque alberi di arancio e limone in casse di legno e dodici banchetti circolari per gli stessi, ma vi crescevano anche preziose rarità, per l’epoca, come ananas, uva e mimose.

Nelle pagine precedenti: L’orangery di Frampton Court, a Frampton-onSevern, nel Gloucestershire (Gran Bretagna), una tenuta che si fa risalire alla conquista normanna e a cui sono legate affascinanti leggende, come quella della Fair Rosamund. Immersa in una dolce atmosfera agreste, l’orangery, che si rispecchia nelle placide acque di un canale, seduce l’immaginazione dei visitatori con la sua architettura: una folly in stile neogotico con influssi orientaleggianti come era nella moda dell’epoca e nei gusti del proprietario, Richard Clutterbuck, che la costruì nel 1750.

A fianco: Ancora al raffinato Robert Adam si deve l’orangery di Bowood House, nel Wiltshire, costruita nel 1769 al centro di un vastissimo parco disegnato dal paesaggista Lancelot “Capability” Brown. Ispirato al Palazzo di Diocleziano a Spalato, il nobile edificio ebbe la duplice funzione di orangery, di galleria per le collezioni d’arte del proprietario, il marchese di Lansdowne, e anche di biblioteca, di cui fu illustre bibliotecario lo scienziato Joseph Priestley.

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Nelle pagine precedenti: L’imponente facciata della Margam Orangery, a Port Talbot, nel Galles, fatta edificare da Thomas Mansel Talbot nel 1787.

È la più lunga della Gran Bretagna (misura infatti oltre 100 metri) ed è resa luminosa dalla presenza di numerosi finestroni. Completata nel 1793, avrebbe riunito la grande collezione di aranci, limoni e altri agrumi che Talbot aveva ereditato dai suoi predecessori, dispersa in varie aranciere nel parco. Appassionato cultore, il nobiluomo curava personalmente le sue preziose piante.

Sotto: Di sorprendente semplicità strutturale, l’orangery di Calke Abbey, a Ticknall, nel Derbyshire, fu completata nel 1777. La cupola di vetro, alta 9 metri, fu aggiunta nel 1836, probabilmente per migliorare la qualità della luce all’interno.

L’orangery è affiancata da una serra per le pesche restaurata in anni recenti.

“Citroniera”

L’Italia non può contare un numero di orangerie come la Germania, ma ne vanta una in Piemonte che può reggere il confronto con tutte quelle delle grandi regge fin qui descritte, compresa Versailles. Si tratta della “Citroniera” (termine mutuato dai cugini francesi) della Venaria Reale, splendida residenza di piacere e di caccia voluta dai duchi di Savoia a pochi chilometri da Torino, oggi tutelata dall’Unesco.

Il committente era l’ambizioso Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732), divenuto re di Sicilia dopo il trattato di Utrecht del 1713; l’architetto, grandissimo, era Filippo Juvarra (1678- 736), che Amedeo II ha avuto modo di conoscere a Messina. Incoronato con grande sfarzo nel duomo di Palermo nel 1713, due

anni dopo Vittorio Amedeo II ritornò a Torino e vi convocò Juvarra, affidandogli opere di ampliamento e di abbellimento della città. Gli interventi urbanistici dell’abate siciliano daranno alla piccola capitale sabauda un respiro europeo.

Anche Amedeo, come molti principi tedeschi, volle emulare la reggia di Versailles.

Alla Venaria, Juvarra, sostenuto da una visione superba che amplificava e dava corpo alle ambizioni del sovrano, riplasmò sia la reggia sia i giardini.

Con la Galleria Grande, bianca, smisurata, inondata di luce, e la Cappella di Sant’Uberto in mattoni a vista, con la stupefacente cupola affrescata a trompe-l’oeil, Juvarra tocca i massimi vertici del Barocco. Ma è forse con il grandioso complesso delle Scuderie, dette oggi Juvarriane, e della Citroniera che l’architetto diede sfogo a tutta la sua estrosa creati-

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In Piemonte si chiamava

vità, trasformando un edificio di servizio in un capolavoro architettonico, un tempio, come ebbero a dire gli impresari incaricati dell’opera: “Ci hanno fatto fare una fabbrica di un’alzata straordinaria [...] fabbrica piuttosto di un magnifico tempio che di una schuderia e di una Citroniera”.

Nei due anni di permanenza in Sicilia Vittorio Amedeo II si era innamorato del profumo inebriante degli agrumi e in particolare di quello del bergamotto, e al suo ritorno in Piemonte aveva ordinato che piante di agrumi fossero disposte ovunque nei giardini.

Dietro la severa facciata di mattoni rossi, ornata di sculture, dove si aprono le grandi porte finestre, Juvarra creò una grandiosa galleria lunga 146 metri, divisa in 16 campate, larga 14 e con una volta alta 13. Qui d’inverno venivano messe al riparo le 400 casse di agrumi del Grande Parterre insieme ad altre piante gelive. Solo un muro separa la Citroniera dalle Scuderie, gli agrumi dai cavalli. Le Scuderie sono lunghe e alte quanto la Citroniera, solo un po’ più strette: 12 metri di larghezza, quanto bastava per ospitare i 250 cavalli del re, i cavalli usati per i grandi cortei e per le cacce per cui Venaria era famosa. D’inverno il loro calore avrebbe contribuito a rendere più mite la temperatura della serra e i giardinieri avrebbero potuto contare su una quantità di eccellente letame per concimare i giardini e gli orti reali.

Sempre in Piemonte, ma nel paesaggio ridente della costa orientale del lago d’Orta, a Miasino, si privilegia il termine “aranciera”. Qui si erge una delle più belle residenze aristocratiche di campagna della regione, Villa Nigra, in origine Casa Martelli, un edificio cin-

quecentesco ampliato e modificato tra il 1681 e il 1725, quando venne aggiunta l’ala sud con la torretta e l’aranciera appunto, su progetto del sacerdote e architetto G.A. Martelli. Piccolo edificio di belle proporzioni, il padiglione si protende verso il giardino, chiudendo armoniosamente il cortile su cui si affaccia il corpo di fabbrica decorato di affreschi.

Dal Barocco piemontese al Neoclassicismo lombardo: di vastissime proporzioni è l’aranciera annessa alla Villa Reale di Monza, che Giuseppe Piermarini costruì per l’arciduca austriaco Ferdinando d’Asburgo d’Este, governatore di Milano, e la sua sposa Maria Beatrice Ricciarda d’Este. Fu inaugurata nel 1790 con una fastosa cerimonia, “una brillantissima, festiva adunanza”, per festeggiare il ventesimo anniversario di nozze degli arciduchi. Nobile e grandiosa come tutti gli edifici del grande architetto folignate, a cominciare dal Teatro

Sopra: I coloni inglesi trasferirono nel Nuovo Mondo il gusto per la semplicità architettonica che caratterizzava le orangery nella madrepatria. L’orangery della Wye Plantation House, nella Talbot County (Maryland), è forse la più antica degli Stati Uniti. Fu descritta nei resoconti dello scrittore e riformatore nero Frederick Douglass, che alla piantagione passò alcuni anni come schiavo.

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alla Scala, noto universalmente, e dalla Villa di Monza stessa, l’”Orangerie”, come era definita nei piani dello stesso Piermarini (ma la si chiamò anche limonaia, cedraja, agrumeria)

è una costruzione lunga 100 metri, larga 6 e alta 7, che prende luce da 26 finestroni arcuati, affacciati sul roseto. Vi si coltivavano non solo agrumi ma anche piante rare e, come era uso a Vienna e nelle altre regge del Nord, ospitava feste e spettacoli, tra cui i famosi giochi d’acqua all’interno e all’esterno inventati dal Piermarini.

Le Orangeries dei Lord britannici

Una regina orgogliosa dell’insularità e dell’indipendenza del Paese che governa, poco incline a imitare i modelli francesi che si stanno imponendo in tutto il Continente, ma desiderosa di dare a Kensington Palace, il palazzo dove ha deciso di risiedere, un’orangery degna del suo rango.

Fu così che Anna, regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda (1665-1714), nel 1704 af-

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fi dò all’architetto Nicholas Hawksmoor (uno dei tre grandi architetti del Barocco inglese con Christopher Wren e John Vanbrugh) la costruzione dell’orangery, un edificio di grande eleganza e armonia in mattoni rossi che fronteggia il palazzo reale e che ancora oggi si può ammirare, piccolo gioiello nel cuore dei giardini di Kensington. La raffinata architettura dell’interno lascia intendere quali fossero le intenzioni della sovrana: avere “a winter promenade and a

summer supper-house”, un luogo dove passeggiare l’inverno e una sala per i banchetti d’estate, un luogo incantevole dove “intrattenere i suoi favoriti”, prima fra tutti la potente Sarah Churchill, duchessa di Marlborough. Ottenuta in dono dalla regina la tenuta di Woodstock, Lady Sarah vi fece costruire la superba residenza di Blenheim Palace che l’architetto John Vanbrugh dotò di un’orangery, una lunga galleria collegata al corpo centrale del palazzo e leggermente rientrata, con uno

Nonostante l’avvento e la fortuna delle grandi serre in vetro, la moda delle orangerie in muratura proseguì nell’Ottocento con esempi interessanti sia in Francia sia in Inghilterra e Germania. A fianco: l’orangerie del Jardin de Bagatelles, a Parigi, fatta costruire nel 1835 da Richard Seymour-Conway, marchese di Hertford, nel parco che circondava il castello di Bagatelle, di sua proprietà. Nato e cresciuto a Parigi, amico di Napoleone III e uno degli uomini più ricchi d’Europa, Hertford fu un grandissimo collezionista d’arte, fondatore della celebre Wallace Collection di Londra.

Nelle pagine seguenti: Molte orangerie si sono succedute accanto al Palais du Luxembourg, oggi sede del Senato francese, nel grandissimo parco che lo circonda, creato dalla regina Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV. L’edificio attuale fu costruito nel 1839, pochi anni dopo quello di Bagatelles. Oggi ospita circa duecento piante in casse di legno, in buona parte agrumi, soprattutto melangoli, ma anche palme da dattero, allori, rose e melograni. I più belli e più antichi esemplari di melangolo (alcuni vecchi di due-trecento anni) si possono ammirare da maggio a ottobre lungo la parete sud dell’aranciera.

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splendido giardino all’italiana antistante.

Verso la metà del XVIII secolo il magnifico paesaggio inglese che fa da sfondo alle grandi dimore nobiliari venne radicalmente modifi cato dagli innovativi interventi di architetti e giardinieri paesaggisti, quali William Kent, Lancelot “Capability” Brown e Robert Adam. Abbandonati i modelli del giardino formale alla francese, proposero un ritorno alla natura, una natura idillica ispirata alla pittura di paesaggio di Lorrain e Poussin: rispetto per le ondulazioni naturali del terreno, grandi distese di prati erbosi interrotte da folti boschetti, da specchi d’acqua e laghetti “a serpentina”, piccoli ponti e rotonde, finte rovine a imitazione di quelle dell’antichità classica, pagode o altri edifici di gusto orientale, chiamati follies In questo contesto, l’architetto si sente libero di dare sfogo alla propria immaginazione reinterpretando l’edificio dell’orangery, al di là della sua funzione primaria, in una varietà di stili, da quello più classico a quello esotico, a condizione che la costruzione rifletta i gusti e gli interessi del proprietario.

Ne sono un esempio alcune superbe orangery, come quella di Frampton Court o quelle create da Robert Adam, il grande architetto scozzese, inventore di quello stile arioso, leggero, elegante che da lui prende il nome.

Tra il 1730 e il 1733 Richard Clutterbuck, erede della famiglia Clifford, si fece costruire dall’architetto di Bristol John Strahan, allievo di Sir John Vanbrugh, una casa sul sito di una dimora preesistente e non lontano dal Bower, il luogo che aveva visto nascere la bellissima Jane Clifford, la “Fair Rosamund” amata da Enrico II Plantageneto e avvelenata o chiusa in convento dalla regina, Eleonora d’Aquitania,

secondo la leggenda che tanto aveva ispirato i pittori preraffaelliti.

Frampton Court è un magnifico edificio, fusione di stile barocco e palladiano, rivestito in pietra di Bath, dal caratteristico color miele. Gli interni sono un esempio di quanto di più elegante e prezioso potesse offrire il XVIII secolo in tema di arredi. Ancora più affascinante della dimora padronale è l’orangery. Lontana dalla villa, immersa nel silenzio del parco, questa bizzarra costruzione è dolcemente adagiata sulla riva del lungo canale in cui si rispecchia. Come ogni folly non obbedisce ad alcuno stile, ma è un curioso mix di gotico e cinese, frutto dell’immaginazione di un ignoto architetto. Due torri ottagonali unite al centro da una torre più alta che ospita una scala a chiocciola a collegare i due piani, alte finestre e porte coronate da archi a ogiva, eleganti merlature e ornamenti finemente scolpiti: un buen retiro, dove rifugiarsi a leggere, a meditare, a fantasticare sugli amori di Enrico e della Fair Rosamund. O meglio ancora a lasciarsi ispirare dai fiori e dalle piante dell’orangery o dei giardini di Frampton e dipingerli, come fecero nell’Ottocento due generazioni di gentildonne Clifford, lasciando ai discendenti una raccolta di oltre trecento acquerelli, la celebre raccolta nota come Frampton Flora.

A Bowood House, nel Wiltshire, al centro di un gigantesco parco disegnato da Capability Brown, Robert Adam creò invece un imponente edifi cio, annesso alla residenza principale, ispirato al Palazzo di Diocleziano a Spalato, che l’architetto aveva potuto ammirare durante il suo Grand Tour sul Continente. Assecondando il desiderio del committente,

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il marchese di Lansdowne, Adam realizzò una “vetrina delle curiosità”, dove il signore di Bowood potesse indulgere alla sua mania per il collezionismo. Al completamento dell’orangery, nel 1769, una delle ali, decorata dallo stesso Adam, divenne una magnifi ca biblioteca, il cui bibliotecario era nientemeno che Joseph Priestley, filosofo, naturalista, chimico, scopritore dell’ossigeno, che proprio a Bowood ebbe modo di condurre i suoi esperimenti sotto gli occhi stupiti dei suoi mecenati. Alcuni anni più tardi, nel 1784, il marchese convertì l’altra ala dell’orangery in un museo per la sua collezione di statue marmoree raccolte durante numerosi viaggi in Italia.

Meno fastosa, ma altrettanto elegante, è la casa che Robert Adam ingrandì a Osterley Park per la ricca famiglia Child. “Oh! Il palazzo dei palazzi!”, scrisse Horace Walpole, “E tuttavia un palazzo senza corona, senza diadema, ma che spese! Che gusto! Che

profusione! La vecchia casa che ho visto spesso, che era stata costruita da Sir Thomas Gresham; ma è stata così migliorata, così arricchita che tutti i Percy e i Seymore di Syon devono morire d’invidia”.

Nel giardino fl oreale, oggetto di grandissime cure da parte di Lady Sarah Child fi nché visse a Osterley, Adam costruì due orangery: una, la più grande, a immagine di un tempio dorico, lunga 27 metri e larga 6, di cui rimangono solo alcune fotografi e in bianco e nero, andò distrutta da un incendio nel corso della Seconda guerra mondiale. L’altra, chiamata la Piccola Orangery, per distinguerla dalla precedente, oppure Garden House, che si può ammirare ancora oggi, è un aggraziato edificio semicircolare, decorato da medaglioni in stucco con scene di festa, pilastri con capitelli ionici e grandi finestre a pannelli, da cui il sole entra a riscaldare le delicate pianticelle al riparo.

A fianco: L’ingresso dell’orangerie del Jardin des Tuileries a Parigi, un solido parallelepipedo di pietra, cieco sul lato nord e illuminato da grandi finestre sul lato sud, verso la Senna. La costruzione, firmata dall’architetto Firmin Bourgeois e dal suo successore Ludovico Visconti, risale al 1852. Dopo il Secondo Impero, l’orangerie perse la sua funzione iniziale di ricovero per le piante e, dopo varie vicissitudini, fu trasformata in museo per ospitare il grande insieme delle Ninfee di Claude Monet. In seguito fu arricchita da altre collezioni, in particolare la prestigiosa Collection Jean Walter et Paul Guillaume, diventando così uno dei musei più famosi e visitati di Francia. Nelle pagine seguenti: In Italia il rinnovato interesse per l’orangerie contagiò anche i Savoia. All’interno del grande complesso agricolo della Margaria, vicino a Cuneo, progettato dal celebre Pelagio Palagi, re Carlo Alberto commissionò all’architetto Carlo Sada, allievo del Palagi, la costruzione di un edificio per il ricovero dei “citroni”. Affascinante fusione tra una limonaia e una serra di nuovo tipo, in stile neogotico-romantico inglese, la Serra Reale, come fu chiamata, divenne presto famosa per la rarità delle piante raccolte e la novità delle tecnologie adottate per il riscaldamento.

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Nelle pagine precedenti: Lyme House è una storica dimora patrizia del Cheshire, nell’Inghilterra nordoccidentale, a cui mise mano l’architetto veneziano Giacomo Leoni nel 1720 per ristrutturarla in stile palladiano. Immersa nella brughiera, è circondata da un vasto parco dove da secoli pascolano i cervi. Nel bellissimo giardino all’italiana spicca l’orangery, iniziata nel 1815 da Lewis Wyatt, della nota famiglia di architetti, e portata a termine con gusto vittoriano nel 1862 da Alfred Darbyshire, celebre architetto teatrale. L’orangery ospite diverse varietà di felci, due gigantesche camelie, probabilmente introdotte intorno al 1860, fichi e palme.

A fianco: Purezza di linee e armonia di proporzioni contraddistinguono l’orangery dei Kew Gardens londinesi. In mattoni coperti di stucco, fu costruita nel 1761 da Sir William Chambers (1723-1796), nominato architetto dei Giardini dalla principessa Augusta che ne fu la fondatrice.

Nel 1863 tutte le piante che vi erano ricoverate vennero trasferite nella nuova Temperate House edificata da Decimus Burton.

Nella pagina a fianco: Il grandioso ingresso dell’orangery di Wrest Park, ornata di personificazioni delle stagioni e ghirlande di frutti, a Silsoe, nel Bedfordshire.

Nelle pagine seguenti: Una veduta dell’orangery di Wrest Park circondata dai magnifici giardini disegnati da “Capability” Brown nel XVIII secolo. La sua costruzione, nel 1835, è attribuita a James Cléphan, assistente di Lord De Grey nella riprogettazione ottocentesca della storica dimora.

Intorno all’armoniosa costruzione si stendono le aiuole fi orite, che l’accurato studio di un elenco di piante della tenuta del 1780 ha permesso di ricostruire, riportandole agli splendori di un tempo.

Nel solitario Galles del Sud, a Margam, in un territorio ricco di storia, che ha visto gli insediamenti dell’Età del Bronzo, il passaggio dei Romani, dei Celti, la cristianizzazione a opera dei monaci cistercensi, la presa di possesso della potente famiglia Mansel e successivamente dei Talbot, fu costruita nel 1787 la più lunga orangery di Gran Bretagna.

Anche qui la leggenda la fa da padrona. Si racconta, ma esiste più di una versione, che una nave con un prezioso carico di piante di aranci inviato da Filippo II di Spagna in dono alla regina Elisabetta facesse naufragio sulla costa gallese vicino a Margam. Secondo le consuetudini dell’epoca i nobili Mansel reclamarono il bottino e divennero appassionati coltivatori dei pregiati agrumi.

Verso la metà del XVIII secolo si contavano un centinaio di piante messe al riparo, per affrontare i rigidi inverni gallesi, in diversi edifici nel parco, finché Thomas Mansel Talbot decise di costruire un’orangery che potesse ospitarle tutte insieme, affidando il compito a un architetto locale, Antony Keck.

L’orangery, edifi cata lontano dalla residenza principale, doveva avere una duplice funzione: proteggere i delicati agrumi e al tempo stesso fare da vetrina alle opere d’arte che Thomas Mansel Talbot aveva riportato dal suo Grand Tour sul Continente nel 1772. La costruzione di Keck è estremamente funzionale nel design e magnifica nell’ornamentazione. Lunga 100 metri e larga solo una decina, è scandita da ben ventisette finestre che d’inverno consentono alla luce del sole di illuminarla tutta. Nella parete di fondo alcuni caminetti alimentati a carbone producevano aria calda che passava nelle canne fumarie a riscaldare l’ambiente, e si

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Sopra: L’orangery di Kensington Palace, nel cuore della Londra aristocratica. Quale elemento indispensabile di ogni dimora regale dell’epoca, il bell’edificio fu costruito nel 1704-1705 da Nicholas Hawksmoor, per soddisfare la richiesta della regina Anna di uno spazio totalmente nuovo che fungesse non solo da aranciera ma anche da luogo per intrattenimenti. Apprezzata e assai frequentata da londinesi e viaggiatori, la Kensington Orangery è oggi una raffinata sala da tè.

Nella pagina a fianco: In magnifica posizione elevata, su una terrazza a cui si accede da una scalinata lungo un pendio erboso verdissimo, l’orangery della tenuta di Pythouse sorge vicino a Salisbury, nel Wiltshire. Fu costruita agli inizi del XIX secolo, probabilmente nel 1810, quando il proprietario di allora, John Benett, uomo politico e architetto dilettante, volle trasformare la precedente dimora settecentesca in “stile palladiano”. A un solo piano, illuminata da cinque grandi finestre, è chiusa secondo la moda del tempo da un frontone coronato da urne.

apriva l’alta porta che d’estate consentiva di trasportare all’aperto anche gli alberi più alti. Per evitare la monotonia, ed evidenziare la duplice funzione dell’edificio, l’architetto trattò le facciate in modi differenti. Nella sezione centrale, destinata alle piante, che il conte curava personalmente, l’uso delle fasce a bugnato rustico intorno alle finestre, il fregio a triglifi , le urne scolpite poste a coronamento dell’edifi cio, tutto contribuisce a creare un senso di unità e di armonia. I due padiglioni laterali, invece – quello a ovest, più riccamente decorato, adibito a biblioteca, quello a est, galleria per la raccolta di statuaria antica del conte – furono caratterizzati da un’architettura di stile palladiano, in pietra liscia delicatamente decorata da ornamenti a spirale, con frontone e finestre veneziane.

Le pietre per costruire l’imponente orangery furono scavate nelle cave locali di proprietà del conte, locali furono gli artisti, gli

artigiani, le manovalanze che portarono a termine l’opera, e questo contribuì non poco a far considerare la Margam Orangery un orgoglio del Galles.

Il nome Talbot riappare curiosamente nel Nuovo Mondo nel XVII secolo, quando una contea del Maryland viene intitolata a Lady Grace Talbot, sorella del governatore inglese della colonia. Nella Talbot County si trasferirà dalla Virginia un ricco piantatore puritano di origine gallese, Edward Lloyd, che acquistò una vasta area destinata a diventare una piantagione di tabacco. Undici generazioni di Lloyd si sono succedute nella tenuta fino ai giorni nostri. Nel momento di maggior espansione la piantagione copriva 17.000 ettari, a cui erano addetti oltre 1000 schiavi neri. Nel 1750 Edward Lloyd IV, emulo dell’aristocrazia britannica, costruì la celebre Wye House e, alcuni anni più tardi, l’annessa orangery, in tardo stile georgiano, il vero status symbol della famiglia,

Nelle pagine precedenti: L’orangery vittoriana di Montecute House, nel Somerset, la più bella casa elisabettiana in Inghilterra, un grandioso edificio in pietra calcarea dal caldo colore dorato, costruito alla fine del XVI secolo. Contrastano con la magnificenza del palazzo le misurate dimensioni dell’orangerie, immersa nel verde di un giardino all’italiana. Nel 2009 il tetto di travi di legno e lastre di vetro è crollato sotto il peso della neve. L’orangerie è stata riaperta nel 2012, dopo lunghi restauri durante i quali i 2.380 pannelli di vetro, pazientemente numerati e rimossi, sono stati ricollocati al loro posto, come in un gigantesco puzzle.

Sotto: Particolare di una tavola di Georg Dionysius Ehret, con l’illustrazione di un fiore di liriodendro, o albero dei tulipani, che l’artista descrisse come Tulipifera arbor Virginiana

La pianta è infatti nativa delle regioni orientali dell’America del Nord. Fu introdotta in Inghilterra nel 1688.

oggi il più antico esempio di orangery sopravvissuto negli Stati Uniti. Furono gli schiavi neri a costruire sia la casa sia la bella orangery, un corpo centrale con due ali più basse. Il condotto di riscaldamento, tuttora funzionante, alimentato ad aria calda, correva lungo la parete nord, piegava a est, passava sotto tutte le finestre vetrate esposte a sud, e risaliva una breve pendenza lungo la parete ovest, come ha rivelato una ricerca archeologica condotta nel 2006 dall’Università del Maryland, durante la quale i tecnici scoprirono una serie di amuleti afro-americani deposti nelle fondamenta dell’edificio. Il riformatore abolizionista afroamericano Frederick Douglass (1818-1895), che trascorse alcuni anni dell’infanzia a Wye House, descrivendone le durissime condizioni di vita ricorda come nella Wye Orangery prosperassero frutti di ogni tipo, dalle resistenti mele del Nord alle delicate arance del Sud, e come visitatori di tutto il Nord Maryland arrivassero a Wye per ammirarla.

L’Ottocento: un secolo di transizione

Nell’Ottocento si assisterà a un lento ma inesorabile declino delle orangerie. Come si vedrà, le grandi innovazioni tecniche dovute allo sviluppo industriale avrebbero aperto nuove strade ai costruttori di serre, i cosiddetti palazzi di cristallo.

Ci fu però chi rimase legato alla tradizione e che, alle fragili strutture avveniristiche di vetro, continuò a preferire la solida, rassicurante eleganza delle serre in muratura.

Ne furono un esempio, a Parigi, l’armoniosa palazzina coronata da una balaustra fatta costruire nel 1835 da Lord Richard Seymour-Conway, marchese di Hertford, nel Parco di Bagatelles, allora di proprietà del nobile inglese, o la serra di quattro anni successiva del Jardin du Luxembourg, in quella che nel Seicento era stata la raffinata dimora di Maria de’ Medici.

Nel 1853 l’architetto Firmin Bourgeois firmava il progetto dell’orangerie che sarebbe sorta nei giardini delle Tuileries, forse in

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omaggio alla giovane imperatrice, la spagnola Eugenia de Montijo, appassionata di quelle piante di cui il suo Paese era ricco. L’orangerie ebbe una sorte molto felice, quella di ospitare fi n dal 1927 le Ninfee di Claude Monet e in seguito tutta la magnifi ca collezione di Paul Guillaume, grande mercante d’arte parigino, scopritore di avanguardie.

In Italia fu il sogno gotico di Carlo Alberto I di Savoia a ispirare prima a Pelagio Palagi la cascina modello della Margaria, nel parco del castello di Racconigi, e poi a Carlo Sada, assi-

stente del Palagi, i finestroni e le alte cuspidi visibili da lontano della Serra Reale. Costruita tra il 1844 e il 1848, l’enorme serra – una via di mezzo tra una limonaia, per l’interno dall’alta volta a botte sotto la quale potevano trovare spazio gli alberi grandi in vaso, e un conservatory per la facciata completamente realizzata in vetro – vantava un impianto di riscaldamento all’avanguardia. Il vivaista torinese Burdin fu incaricato di acquistare in Inghilterra specie rare ancora poco note in quel periodo, come la Magnolia grandiflora, la Sophora japonica, il

Sopra: L’orangery di Longleat House, nel Wiltishire, una delle più belle case di campagna elisabettiane inglesi, a primavera si ricopre di glicine. L’edificio è circondato da un giardino all’italiana, all’interno di un parco di oltre 360 ettari, organizzato da “Capability” Brown e modificato in seguito, nel 1804, da Humphry Repton. Nello stesso periodo, intorno al 1807, uno dei più celebri architetti dell’epoca, Sir Jeffry Wyattville, costruiva l’orangery, un sobrio edificio scandito da pilastri con capitelli dorici, concluso in alto da una balaustra.

Ginkgo biloba e l’albero del tulipano, e nel giro di pochi anni la serra divenne famosa in tutta Europa per la sua collezione di piante esotiche.

In Inghilterra, la moda delle orangery continuò costantemente per tutta la prima parte del secolo. Tra gli esempi più interessanti del primo Ottocento si possono ricordare la bella orangery “palladiana” di Pythouse, nel Wiltshire, edificata nel 1810 in posizione dominante sopra una distesa di verde, oppure l’elegante edificio costruito nel 1807 da Sir Jeffry Wyattville sempre nel Wiltshire, nella storica residenza di Longleat.

Tra gli ultimi grandi frutti della tradizione si annoverano l’orangery di Lyme Park, nello Cheshire, costruita nel 1862 da Alfred Darbyshire e collegata alla casa da un passaggio coperto, detto “the Dark Passage”, il passaggio oscuro, e quella di Wrest House nello Staffordshire, la splendida dimora progettata su modello francese dal proprietario, Lord Thomas de Grey (1781-1859), architetto dilettante e fondatore del Royal Institute of British Architects. Tra giardino all’italiana, giardino di rose e parterre alla francese del XVIII secolo e parchi disegnati da Repton, si erge l’orangerie, costruita nel 1835 con figure mitologiche, quelle delle stagioni, a sostenere la superba balaustra che corona l’edificio.

Senza dimenticare l’orangery di Montecute House, residenza di campagna elisabettiana nel Somerset, costruita nel 1862 per volontà di una giovane donna, Ellen Helyar, che, andata sposa nella famiglia dei proprietari, aveva portato con sé il suo giardiniere per poter modificare la sistemazione del giardino.

L’ultima grande, memorabile, serra tedesca fu quella voluta dal re Federico Guglielmo

IV di Prussia nel giardino della sua residenza di Sans-Souci a Potsdam: la realizzazione di un suo personale sogno di ritorno all’Arcadia, al Giardino delle Esperidi. Nella visione del re l’orangerie avrebbe dovuto rappresentare il ritrovato splendore della casa di Prussia dopo i disordini del 1848; sarebbe stata eretta lungo il percorso di una via trionfale fiancheggiata da edifici che, partendo dalla reggia di Sans Souci, terminava, due chilometri dopo, in un belvedere sovrastante la città di Potsdam. Fu il re stesso a schizzare i progetti degli edifici; nel suo sogno grandioso l’orangerie sarebbe stata un palazzo (Orangerieschloss si chiama in tedesco) ispirato a modelli rinascimentali italiani, quali il Casino del Belvedere del Bramante e Villa Medici a Roma. Il progetto fu portato a termine tra il 1851 e il 1864 da alcuni tra i più celebrati architetti prussiani. Con oltre 300 metri di lunghezza, rappresenta il più lungo edificio nel parco di Sans-Souci ed è fi ancheggiata da due ali dove ancora oggi vengono messe al riparo le piante più delicate.

Per completare l’illusione della villa rinascimentale italiana, nel monumentale salone centrale a due piani, detto la Sala di Raffaello, tappezzato di seta rossa, sono raccolte, tutte in cornici dorate, le copie di cinquanta opere del pittore fatte eseguire nel secolo precedente. E come nelle ville italiane, l’architetto Peter Joseph Lenné collegò l’orangerie al sottostante giardino “siciliano”.

Ma il tempo scorre inesorabile portando con sé inevitabili mutamenti. I monumentali edifici persero la loro funzione originale per diventare spesso sale da musica o, più modestamente, sale da tè.

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Nella pagina a fianco: Realizzazione del grande sogno romantico del re di Prussia Federico Guglielmo IV, l’Orangerieschloss nel parco di Sans Souci, a Potsdam, si specchia nel bacino d’acqua antistante. L’architettura del castello, che vide coinvolti i più importanti architetti prussiani dell’epoca, Ludwig Persius, Friedrich August Stüler e Ludwig Ferdinand Hesse, risente fortemente del movimento artistico Italiensehnsucht (Nostalgia dell’Italia), di cui fu grande esponente il poeta Goethe.

NEL REGNO DELLA SCIENZA

Accanto alle orangerie costruite per il piacere dei grandi signori, si costruirono e si moltiplicarono gli edifici destinati alla scienza.

Tutto naturalmente era iniziato in Italia. Nel clima di rinnovamento culturale che caratterizzava il nostro Paese a cavallo tra Quattro e Cinquecento, si assistette a una ripresa di interesse per lo studio delle scienze naturali, in particolare per la botanica.

Dai fantasiosi codici miniati medievali che si rifacevano ancora al sapere di Dioscoride, si passò allo studio e all’osservazione diretta dei vegetali che vennero riprodotti in tavole di grande rigore scientifico, come quelle che il naturalista e botanico Ulisse Aldrovandi (15221605) commissionava alla schiera dei suoi illustratori, primo tra tutti per talento Jacopo Ligozzi. I grandi viaggi di esplorazione diedero un enorme impulso alla scienza botanica. L’Europa venne inondata da piante e frutti che riempirono gli occhi di meraviglia. Ligozzi rappresentò l’ananas e l’Ipomoea quamoclit che arrivavano dal Messico, la Mirabilis Jalapa dal Perù, l’agave dalle isole dei Caraibi e l’anacardio dal Brasile.

Si moltiplicarono le ragioni di studio, anche in funzione dell’interesse alimentare che comportava l’arrivo di molte piante nuove in un Continente dove la popolazione da sfamare stava aumentando signifi cativamente di numero.

A fianco degli Atenei dove si leggevano e si commentavano le opere di Aristotele e Teofrasto, nascevano i primi Orti botanici, detti allora “dei Semplici”, dove si coltivavano, si catalogavano e studiavano le piante a uso medicinale, ma che si arricchirono via via di specie provenienti da oltre oceano, o frutto di spedizioni di erborizzazione o di scambi con studiosi di altri Paesi. Il primo nasce a Pisa, intorno al 1544, fondato da Luca Ghini (14901556), grande figura di medico e scienziato, che presso l’Università di Bologna teneva la cattedra dei Semplici. Il primato gli viene tuttavia conteso da quello di Padova, progettato nel 1543 e istituito dalla Repubblica Veneta nel 1545, oggi sito Unesco.

Nell’Orto padovano, in uno spazio circolare protetto da un muro di cinta per impedire furti delle preziose piante, venne disegnata una struttura quadrata, divisa a sua volta in quattro quarti da due viali perpendicolari, ogni quarto suddiviso in aiuole dall’elegante disegno geometrico, ognuno diverso dall’altro. C’è memoria che l’Orto fosse dotato di “conserve” mobili per proteggere le piante esotiche più delicate, che solo nell’Ottocento furono sostituite da serre in muratura.

Probabilmente fu all’interno di una di queste conserve che Goethe, nel 1786, durante il suo viaggio in Italia, poté ammirare la palma di S. Pietro (Chamaerops humilis L.). Nota a

Nella pagina a fianco: Un esemplare di Thunbergia mysoriensis fotografata nelle serre della Royal Horticoltural Society a Wisley, Surrey, in Inghilterra. Nativa dell’India, con i suoi fiori gialli e porpora in lunghi racemi, è la più spettacolare di tutte le Thunbergie.

Sotto: Tra i frutti arrivato dal Nuovo Mondo, l’ananas fu subito tra i più apprezzati per il sapore e la consistenza. La leggenda vuole che il primo ananas coltivato in serra in Europa e giunto a maturazione fosse stato offerto a Carlo II d’Inghiterra nel 1672 dal suo giardiniere John Rose. In realtà, fu necessario attendere l’introduzione delle serre olandesi riscaldate da stufe in grado di produrre temperature tra i 20° e i 30° gradi, necessari allo sviluppo del frutto, perché la sua coltivazione di diffondesse.

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Nelle pagine precedenti: Sullo sfondo della Basilica di Sant’Antonio, si apre l’Orto botanico di Padova, fondato nel 1545, Patrimonio Unesco in quanto “è all’origine di tutti gli orti botanici del mondo e rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra la natura e la cultura”. Sulla destra, in una serra ottagonale, è protetta la cosiddetta Palma di Goethe (Chamaerops humilis L.), introdotta nel 1585, oggi la pianta più antica dell’Orto, che colpì la fantasia del poeta quando visitò l’orto patavino il 27 settembre 1786, traendone lo spunto per un saggio sulla metamorfosi delle piante.

Sotto: L’orangerie monumentale del’Orto botanico di Leida, costruita dall’architetto francese Daniel Marot. Creazione di Charles de L’Écluse, il cui nome fu italianizzato in Clusio, l’Orto botanico di Leida è il primo fondato nei Paesi Bassi (1594) e tra i primi in Europa. Grazie all’impegno dei successori di Clusio, in particolare di Herman Boerhaave, l’Orto s’ingrandì e fu tra i primi a dotarsi di serre. Le prime fecero la loro apparizione nella seconda metà del XVII secolo.

tutti gli appassionati come “palma di Goethe”, è una pianta messa a dimora pochi anni dopo la fondazione dell’Orto, nel 1550, e che ancora oggi sopravvive in un’apposita struttura ottagonale in ferro e vetro, straordinaria memoria di un felice tentativo di proteggerla.

L’esempio di Pisa e Padova venne ben presto seguito, prima in Italia, a Firenze nel dicembre 1545 e a Bologna nel 1567, poi nel resto d’Europa, a Lipsia (1580), a Heidelberg (1593), a Leida (1594), a Parigi (1597), Oxford (1621) ecc.

Il più importante, anche per i futuri sviluppi, fu probabilmente quello di Leida, sorto nel 1594 per opera di un gigante della scienza botanica, il francese naturalizzato olandese Charles de L’Écluse (1526-1609), più noto con il suo nome latinizzato, Carolus Clusius, che in Italia divenne Clusio.

Tipica figura di scienziato rinascimentale – aveva studiato in numerose università europee: oltre latino e greco, parlava e traduceva la maggior parte delle lingue europee, aveva affrontato viaggi avventurosi per scoprire nuove specie botaniche – Clusio, che era stato anche prefetto dei Giardini di Vienna dal 1573 al 1576, sotto l’imperatore Massimiliano II, nel

1592 venne invitato dall’Università di Leida ad assumere la cattedra di botanica. Nonostante una zoppìa che lo limitava nella deambulazione e la salute malferma, Clusio accettò. Arrivò a Leida nel 1593 portando con sé i bulbi di tulipano, allora sconosciuto in Occidente, che aveva ricevuto in dono da Ghislain Ogier de Busbecq, ambasciatore del Sacro Romano Impero presso la corte ottomana a Costantinopoli, senza immaginare le conseguenze che l’introduzione di questo fiore avrebbe avuto nell’economia e nella società olandese. Insieme a quelli dei tulipani, portava bulbi di giacinti, fritillarie, anemoni, con i quali avrebbe costruito i più bei giardini dei Paesi Bassi. L’anno successivo, aiutato dall’“Hortolanus” Dirk Ougaertszoon Cluyt, un farmacista di Delft, esperto di piante medicinali, Clusio iniziò a impiantare il giardino che sopravvive tuttora. Si tratta di uno spazio abbastanza piccolo: lungo 39,90 e largo 30,90 metri, è diviso da due sentieri perpendicolari in quattro quarti, ognuno dei quali consiste di 12 o 16 “aree”; all’interno di ogni quadrato due sentieri più stretti, a loro volta disposti perpendicolarmente, creano quattro gruppi di “aree”; ogni area è suddivisa in molti pulvilli,

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Nella pagina precedente: la monumentale Serra delle Palme dell’Orto botanico di Amsterdam, la cui fondazione risale al 1638. La serra, progettata e costruita nel 1912 dall’architetto Johan Melchior van der Mey (1878-1949), uno dei padri fondatori del movimento architettonico della Scuola di Amsterdam, è uno degli edifici più interessanti dell’Hortus. Ospita un’importante collezione di palme e di Cicadacee, piante oggi minacciate di estinzione, tra cui un esemplare di Encephalartos altensteinii proveniente dalla Provincia del Capo Orientale in Sudafrica, di oltre 300 anni, una delle più antiche piante in vaso del mondo occidentale.

A fianco: Un busto in marmo di Clusio (Charles de L’Écluse, 15261609) nell’Orto botanico di Leida celebra uno dei padri fondatori della botanica europea. Nonostante l’età e una menomazione, il suo impegno a Leida a partire dal 1593 arricchì enormemente l’Hortus e contribuì a diffondere nei Paesi Bassi la passione per la coltura delle piante. Riuscì nel frattempo a portare a termine una poderosa opera, Rariorum plantarum historia (1601), raccolta delle sue opere maggiori, e l’Exoticarum libri decem (1605) importante rassegna di specie botaniche e zoologiche esotiche illustrate da silografie (sotto e nella pagina a fianco).

cuscinetti, ogni pulvillus una sola specie di piante. In questo spazio ristretto Clusio e Cluyt riuscirono a stipare oltre mille varietà di piante, centinaia delle quali, introdotte dallo stesso Clusio, erano prima di allora sconosciute.

Nell’Orto di Leida, infatti, lo scienziato piantò tutte le meraviglie che provenivano delle Indie, Occidentali e Orientali, ma anche da Creta e dal Medio Oriente. Istruì medici e farmacisti a bordo delle navi della Compagnia olandese delle Indie Orientali, perché gli riportassero il maggior numero di esemplari vivi dai territori raggiunti.

Nel suo orto, accanto alle piante medicinali e ornamentali, fecero la loro comparsa la Papas Americanorum , come chiamerà la patata, di cui darà un’accurata descrizione botanica nel 1601, il pomodoro, lo zenzero, l’ocra, la canna da zucchero e il taro.

Molte delle piante che raccolse necessita-

vano di una protezione invernale. Nel 1600 sul lato sud dell’Orto, fu costruita una galleria, l’Ambulacrum, come fu chiamata, adibita a questo scopo. In verità l’elegante edificio, purtroppo esposto a settentrione, come appare in un’incisione di alcuni anni dopo, era una via di mezzo tra una Wunderkammer, che ospitava le collezioni botaniche, zoologiche, geologiche ed etnologiche di Clusio, il luogo dove il professore di botanica teneva le sue lezioni e una serra dove gli studenti potevano fare osservazioni e sperimentazioni.

Clusio fu personaggio popolarissimo e molto amato. La sua morte fu accompagnata da questo epitaffi o: “Quando Clusio ebbe conosciuto tutte le piante, che il ventre della terra genera, andò alla ricerca di semplici nei Campi Elisi”.

L’eredità di Clusio fu raccolta dai suoi successori. L’Hortus fu ampiamente ingrandito a opera di Herman Boerhaave, prefetto dell’Orto dal 1709 al 1730. Sotto la sua direzione si popolò di numerose serre: piccole serre mobili di forzature, altre sette riscaldate, dotate di finestre a battenti di vetro, e una grande galleria, questa volta correttamente orientata a sud. L’Orto di Leida era diventato una struttura per far crescere, produrre e anche vendere piante. Tra il 1740 e il 1744, l’architetto Daniel Marot, un ugonotto francese rifugiatosi in Olanda, creatore dei giardini di Hampton Court in Gran Bretagna, edificò l’Orangerie monumentale destinata a ospitare piante allora sconosciute provenienti dalle colonie del Capo di Buona Speranza in Sudafrica, come il superbo agapanto o la sansevieria, oggi comunissima nelle nostre case, o dallo Sri Lanka, come l’aromatica cannella.

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Altre serre sarebbero state costruite successivamente per ospitare i sempre più numerosi arrivi sia dall’Africa sia dall’Indonesia. Ricchissimo fu inoltre l’apporto di specie provenienti dal Giappone raccolte da Philipp Franz von Siebold (1796-1866).

Spirito avventuroso, per alcuni anni, dal 1822 al 1829, il giovane tedesco aveva servito come medico residente e naturalista in un avamposto commerciale olandese sull’isola artifi ciale di Deshima, nella baia di Nagasaki. A Deshima, Siebold creò un giardino botanico in un piccolo spazio dietro la sua casa, dove ammassò oltre mille specie endemiche, e in una serra appositamente costruita coltivò le piante giapponesi perché resistessero al clima olandese. Delle piante originali introdotte a Leida dal medico tedesco alcune sopravvivono ancora oggi, a ricordarci la sua magnifi ca impresa. Grazie all’Hortus e alle

sue serre, centinaia di piante ornamentali da lui scoperte sono andate ad arricchire i giardini d’Europa e del Nord America, dall’Hosta, alla Lychnis , dalla Forsythia suspensa alla Kerrya japonica, dalla Paulownia imperialis alla Wisteria sinensis , dall’ Akebia quinata all’acero giapponese, che accende l’autunno coi suoi colori, alla delicata Hydrangea otaksa, così chiamata in un commovente ma tardivo omaggio alla giovanissima compagna giapponese che Siebold aveva lasciato a Deshima.

O-Taki- San, che Siebold, fraintendendone il nome, chiamò Otaksa, aveva sedici anni quando conobbe il medico tedesco. Poiché i matrimoni con gli occidentali erano proibiti e a Deshima potevano risiedere solo le prostitute giapponesi, la giovane aveva ottenuto una licenza di prostituzione pur di rimanere accanto al suo amato. Dall’unione era nata una figlia, Ine, che sarebbe diventata la prima donna medico in Giappone. Nel corso del suo soggiorno Siebold era stato autorizzato a insegnare la medicina occidentale a cinquanta discepoli giapponesi. Questo gli aveva permesso di allargare i suoi contatti, viaggiare e approfondire la conoscenza del Paese. Durante l’annuale visita di corte a Edo, l’odierna Tokyo, aveva ottenuto una serie di mappe del Giappone e della Corea, fatto severamente proibito dalle autorità. Scoperto accidentalmente a mappare il Nord del Giappone, era stato accusato di spionaggio a favore della Russia ed espulso. Tornato a Leida con le sue enormi collezioni, aveva cominciato a riordinarle e a dar mano alla monumentale e splendidamente illustrata Flora Japonica. Nove anni dopo il suo ritorno aveva dedicato a Otaksa uno dei più spettacolari fiori giapponesi.

In basso a sinistra: L’Orto botanico di Leida ospita anche il busto di Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), il botanico e naturalista svedese, padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. A Leida, nel 1736, Linneo, già famoso come naturalista, collaborò con il botanico Adriaan van Royen per ingrandire l’Hortus. Acceso sostenitore dell’impiego delle serre, in quella dell’Università di Uppsala Linneo coltivò piante tropicali quali caffè, riso, tè e banane, frutto che fu in grado di inviare in omaggio ai sovrani a Stoccolma.

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LA SERRA

Gli anni della grande svolta: la Gran Bretagna all’avanguardia

Alla fine del XVIII secolo l’edificio destinato al ricovero degli agrumi e delle piante delicate subisce radicali trasformazioni. L’elegante orangerie viene via via abbandonata in favore di una struttura più luminosa e funzionale. Viene ripensato il ruolo, talvolta frivolo, dell’edifi cio “orangerie”, sostituendolo con una costruzione dedicata alla coltivazione di piante diverse. In Gran Bretagna la si chiama con un termine dal significato molto più ampio: “green house”, che a sua volta si sarebbe trasformato in “hot house” o “temperate house” o “conservatory” secondo l’utilizzo.

Sono diversi i fattori che concorsero a questo mutamento. Innanzi tutto la necessità di spazi più ampi e adeguati a ospitare le piante che sempre più numerose arrivavano in Europa dal resto del mondo. L’Inghilterra è all’avanguardia nel proporre queste innovazioni.

Le sorti di una nazione dipendono dagli interessi, dalle capacità imprenditoriali, dall’impegno e dalla volontà di molti, ma spesso ci sono dei personaggi che fanno da traino al resto del Paese. Nell’Inghilterra della seconda metà del XVIII, in un Paese dove la scienza era particolarmente interessata alle ricerche botaniche, dove l’aristocrazia terriera

era interessata allo sviluppo dell’agricoltura, dove il governo, ma anche i privati, nobili o ricchi borghesi emergenti, finanziavano spedizioni di ricerca, il personaggio chiave fu Sir Joseph Banks (1743-1820).

Non si renderanno mai sufficienti lodi all’intelligenza dell’uomo, alla sua curiosità scientifica, alla sua capacità di anticipare le necessità alimentari di un grande Paese in pieno sviluppo, alla sua liberalità che ne fece un grandissimo mecenate di studiosi e artisti.

Nel 1768, a venticinque anni, Joseph Banks finanziò in parte la prima spedizione di James Cook e vi partecipò di persona. Salì a bordo dell’Endeavour, accompagnato da due botanici, lo svedese Daniel Solander e il finlandese Herman Spöring, e da un illustratore, Sydney Parkinson, che nel corso del viaggio ritrasse 800 esemplari di piante sconosciute. Fu un evento epocale: partita nel 1768, la nave fece ritorno in patria nel 1771, dopo aver toccato le coste del Brasile, Tahiti e le isole del Pacifi co, la Nuova Zelanda e aver scoperto la Terra Incognita Australis, l’Australia. Per il botanico Banks fu un trionfo.

La bella orangery dei Giardini Reali di Kew costruita da Sir William Chambers nel 1761, allora la più grande d’Europa, non sarebbe stata sufficiente a contenere tutte le nuove specie portate dalle terre visitate di recente, né lo sarebbe stata quella del Chelsea Physic

Sotto: Ritratto di Sir Joseph Banks (1743-1820), botanico e naturalista, a lungo presidente della Royal Society, fondatore della Royal Horticultural Society e direttore dei Kew Gardens di Londra. Vero uomo dell’Epoca dei Lumi, in relazione con i maggiori botanici del tempo, protesse generosamente artisti, scienziati ed esploratori, finanziando viaggi finalizzati a ricerche botaniche.

Nella pagina a fianco e in quelle seguenti: L’ingresso del padiglione centrale, una veduta esterna e l’interno della cupola del Great Conservatory di Syon House. Sorretta da dodici colonne di ghisa, la cupola si leva straordinariamente aerea e delicata sulla solida struttura dell’edificio sottostante.

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A fianco: Recentemente restaurate, le bellissime serre dei Botanical Gardens di Sheffield, nello Yorkshire, consistono di tre padiglioni, i cosiddetti Paxton Pavilions, collegati tra di loro da due corridoi con copertura “ridge and furrow”, a formare un unico edificio. Costruite nel 1836, sono tra i primi esempi di architettura di serre ad applicare la teoria del tetto curvilineo sostenuta da J.C. Loudon. Oggi i Paxton Pavilions sono protetti come monumento storico.

Nelle pagine seguenti: Panchine al sole e aiuole di agavi, cactus e altre succulente; sembra un paesaggio mediterraneo quello che circonda le serre del Botanical Garden di Birmingham, nell’Inghilterra Centrale. Quattro edifici guidano i visitatori attraverso la foresta pluviale dei Tropici, quella subtropicale di palme, felci e orchidee, ai colori smaglianti e alle fragranze dell’area mediterranea, e infine all’impressionante collezione di cactus della Arid House. Se il disegno dei giardini di J.C. Loudon è rimasto quasi inalterato dal 1830, il suo ambizioso progetto per le serre fu respinto a favore di un altro meno costoso.

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A fianco: Al centro di un giardino all’italiana, il conservatory di Chiswich House, a Londra, fu fatto costruire dal sesto duca di Devonshire per ospitare una preziosa raccolta di camelie, fiore diventato di gran moda in Inghilterra all’inizio del XIX secolo. Il progetto, affidato al celebre architetto irlandese Samuel Ware (1781-1860), risale al 1813; la cupola di vetro anticipa di anni i progetti di Joseph Paxton e di Decimus Burton. Oggi il Chiswich Conservatory, restaurato di recente, ospita l’annuale Camellia Festival, che nel 2014 celebra il 200° anniversario della collezione, considerata la più antica nel suo genere in Occidente.

Nelle pagine seguenti: Lo spettacolare Conservative Wall, un complesso di serre costruito da Joseph Paxton, il geniale capo giardiniere del duca di Devonshire, nei giardini di Chatsworth. Nel costruire le serre, appoggiate al muro nord del giardino su un terreno in pendio, Paxton perfezionò il sistema “ridge and furrow”, cioè a denti di sega, secondo il quale i piani del tetto erano inclinati in modo che a mezzogiorno i raggi solari cadessero sui pannelli di vetro obliquamente, disperdendo la loro energia attraverso il riflesso e lo spessore del vetro. Il sole del mattino e della sera, invece, colpiva il vetro perpendicolarmente, attraversandolo in maniera diretta, con il risultato di migliorare la crescita delle piante all’interno della serra.

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Garden e neppure quella dell’Orto botanico di Oxford. Occorrevano nuovi spazi e nuove tecniche per creare ambienti e temperature adatti a far sopravvivere e prosperare ogni specie, compito che Banks seguì con particolare dedizione. Eletto presidente della Royal Society nel 1778, mantenne quell’incarico per oltre quarantun anni, distinguendosi proprio per il suo impegno. Re Giorgio III lo nominò consigliere per i Royal Botanic Gardens di Kew, e per decenni Banks spese tutto il suo potere e la sua infl uenza per inviare esploratori e botanici in ogni parte del mondo. Furono spedizioni memorabili, nel Pacifi co nordorientale e in quello meridionale, nei Caraibi e nel Nuovo Galles del Sud in Australia, in Africa e in Cina, il cui esito fu, tra gli altri, quello di arricchire a tal punto le raccolte dei Kew Gardens da trasformarli nell’istituzione botanica più importante al mondo. Nel corso degli anni Banks continuò a promovuore e far apportare migliorie nelle serre di Kew e in quelle create nella sua residenza di campagna a Spring Grove, tanto che, secondo alcuni racconti, i preziosi ananas non mancavano mai sulla sua tavola.

Convinto assertore della natura internazionalista della botanica, per tutta la vita Banks continuò a scambiare informazioni, semi e piante con botanici o appassionati di tutta Europa, compresa l’imperatrice dei Francesi, Joséphine de Beauharnais, persino durante il blocco navale imposto dalle guerre napoleoniche. Mentre Banks le faceva omaggio di rose e di semi di Nicotiana ondulata proveniente dall’Australia, l’imperatrice gli scriveva pregandolo di sollecitare al giardiniere di Kew i semi che aveva promesso di inviarle.

Grazie a Banks, quegli anni segnarono anche un momento irripetibile per l’illustrazione botanica. Mentre la Rivoluzione francese mieteva le sue vittime, il nobile inglese pazzo per la botanica ospitava nella sua casa di Soho l’artista francese Pierre-Joseph Redouté e gli affidava l’illustrazione del Sertum Anglicum; su raccomandazione dell’amico viennese Nikolaus Joseph von Jacquin, direttore dell’Orto botanico di Vienna, accoglieva a Londra e incoraggiava due giovani illustratori provenienti da un remoto villaggio dell’Impero Asburgico, nell’odierna Repubblica Ceca: Franz e Ferdinand Bauer, i più grandi illustratori botanici di tutti i tempi. Mentre Ferdinand, assetato di avventure, avrebbe compiuto lunghe peregrinazioni nel Levante e soprattutto in Australia, da cui sarebbe tornato con le prime commoventi immagini dei koala, Franz, diventato Francis, avrebbe trascorso invece serenamente i suoi giorni (si spense nel 1840) grazie alla generosità di Banks, che gli assicurò una pensione a vita, lavorando ai Kew Gardens, soprattutto nelle serre. Come avrebbe potuto altrimenti ritrarre la superba e inquietante Strelitzia, le 400 specie di delicatissime eriche, e le infinite varietà di orchidee, tutte frutto delle ricerche sponsorizzate dal suo mecenate?

Nelle pagine precedenti: Cento metri a sudovest del superbo palazzo elisabettiano di Wollaton Hall, a Nottingham, sorge l’elegante Camellia House, la serra delle camelie, costruita nel 1823. L’edificio rispecchia la crescente passione del tempo per la coltivazione di piante esotiche. Correva voce che il proprietario di allora, Lord Middleton, avesse speso l’equivalente di oltre 30.000 sterline attuali in piante.

Nella pagina a fianco: L’interno della Camellia House di Wollaton Hall, al tempo all’avanguardia nell’impiego di nuove tecnologie, tutta costruita con elementi prefabbricati di vetro e ghisa forniti da un’azienda altrettanto all’avanguardia, la Clark & Jones di Birmingham. Le colonne che sostenevano la volta avevano anche la funzione di raccogliere l’acqua piovana per l’alimentazione del sistema di riscaldamento.

A fianco: Un esemplare di Strelitzia reginae in un acquerello di Franz Bauer (1758-1840) del 1817 circa. Detta anche Uccello del paradiso, per la sua somiglianza con un uccello in volo, e originaria del Sudafrica, fu introdotta in Europa nel 1773 e coltivata nelle serre dei Kew Gardens. Il nome deriva da quello di Carlotta Sofia Meclemburgo-Strelitz, moglie di Giorgio III d’Inghilterra.

Nelle pagine seguenti: La Palm House, icona dei Kew Gardens, custodita da una delle “Bestie della Regina”, le figure araldiche che illustrano la genealogia di Elisabetta II (copie delle sculture realizzate in occasione dell’incoronazione della regina nel 1953); una veduta dell’interno della Palm House, straordinaria opera di ingegneria (1844) di Decimus Burton e Richard Turner.

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L’esigenza di nuovi spazi con superfici trasparenti più ampie stimolò lo sviluppo della tecnologia del vetro. E questo è il secondo elemento di trasformazione nell’edificazione delle serre. Il vetro è un materiale magico, ripara dal vento e dal maltempo, trattiene il calore dei raggi solari, ma fu a lungo un materiale difficile da produrre, e quindi costosissimo, accessibile solo a pochi fortunati.

Come si è visto, il suo impiego non era già più una novità nel XVII secolo, né per i giardinieri che si occupavano di orticoltura, né per quelli addetti alla cura delle grandi orangerie. Nelle regioni settentrionali il freddo era stato motivo costante di preoccupazione per i giardinieri, impotenti contro i capricci della meteorologia.

Al di là della scelta corretta di un luogo dove impiantare il giardino proteggendolo dal freddo con muri e siepi, come poteva un giardiniere rifornire la tavola del suo signore di fragole e insalatine a Natale, o di frutti esotici, se non servendosi di utensili che potessero creare un ambiente adatto alla coltura forzata? Utilizzando per esempio le campane di vetro, la cui forma è forse ispirata agli alambicchi di alchimisti e speziali del Medioevo e il cui uso era stato teorizzato fin dai primi decenni del XVII secolo da agronomi ed esperti di giardinaggio. A testimoniare come il loro uso si fosse diffuso esistono belle immagini del XVIII secolo dove appaiono intere aiuole coperte da regolari e fitte file di campane.

Per quanto rari e costosi, gli utensili di vetro erano molto ambiti dai giardinieri: accanto alle campane avevano fatto la loro comparsa delle specie di piccole serre porta-

tili realizzate con tessere di vetro legate col piombo, o telai mobili con piccole lastre di vetro da appoggiare ai muri che sostenevano le piante da frutto disposte a spalliera.

Orangerie e altri edifi ci in legno o muratura con funzioni di serra avevano fi nestre, e talvolta persino tetti, in vetro, ma si trattava comunque di fi nestre a battenti o a ghigliottina formate da pannelli composti di piccole superfici legate col piombo, in genere dischi ottenuti da boli di vetro soffi ato e poi appiattito, con una protuberanza al centro, detti “a corona”.

Sarà solo con lo sviluppo del metodo a cilindro nel corso del XIX secolo, e grazie all’invenzione della pompa ad aria compressa per automatizzare il sistema di soffiaggio, che fu possibile produrre cilindri più lunghi e lastre di vetro più grandi, le quali avrebbero consentito una migliore illuminazione delle serre.

Il terzo fattore fu la spinta data dalla Rivoluzione industriale in corso, che vedeva l’Inghilterra grande protagonista nella produzione siderurgica. Tre generazioni di Abraham Darby,

Nella pagina a fianco: Un fiore di Pachystachys lutea, pianta proveniente dal Perù, fotografato nella Palm House dei Kew Gardens.

Sopra: Lavorazione del vetro per la produzione dei primi tipi di piccole lastre tonde per finestre. Tavola tratta dall’Encyclopédie (1751-1780) di Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert.

In basso: Una serra mobile per il trasporto delle piante durante i viaggi di trasferimento. Fu messa a punto dal medico e naturalista Nathaniel Ward (1791-1868) nel 1829. Prima della sua invenzione, solo il 5% delle piante sopravviveva ai lunghi viaggi via mare dai Paesi d’origine. Nelle pagine seguenti: La neve che copre i Giardini di Kew sottolinea la purezza di linee della Palm House.

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Nelle pagine precedenti: La Waterlily House ai Kew Gardens. Fu costruita nel 1852 per ospitare la gigantesca ninfea Victoria amazonica, ai tempi nota come Victoria regia, così chiamata in onore della sovrana inglese; una veduta dall’alto della Temperate House nei giardini di Kew, altro geniale progetto di Decimus Burton. È la più grande struttura in vetro sopravvissuta dell’epoca vittoriana.

In basso: Cactus speciosus (1811), acquerello di Pierre-Joseph Redouté, dalla serie di ritratti di piante della Malmaison eseguiti per l’imperatrice Joséphine.

Nella pagina a fianco: L’imponente facciata Art Déco della Serra delle foreste tropicali umide del Jardin des Plantes di Parigi. Fu costruita nel 1937 da René Berger (1878-1954), architetto in capo del Musée National d’Histoire Naturelle di Parigi. È stata riaperta al pubblico nel 2010 dopo cinque anni di lavori di restauro, insieme alle altre tre serre tropicali del Jardin.

Nelle pagine seguenti: La Serra della Storia delle piante, uno dei due padiglioni gemelli costruiti tra il 1834 e il 1836 da Charles Rohault de Fleury, tra i primi in Francia a intuire le potenzialità delle strutture in ferro.

una famiglia di quaccheri dello Shropshire, avevano scoperto e perfezionato le tecniche di produzione di ghisa e ferro con altiforni alimentati a coke anziché a carbone di legna. Questo permise di produrre in serie gli elementi in ghisa per le costruzioni, abbassando notevolmente i costi.

Nel 1781 i Darby vinsero l’appalto per la costruzione di un ponte sul fiume Severn. Realizzarono un ponte ad archi completamente di ghisa, l’Iron Bridge, il primo ponte metallico nella storia delle costruzioni.

I componenti costruttivi del ponte divennero un motivo ispiratore per tutti i progettisti di serre. La ghisa aveva il vantaggio di essere a prova d’acqua e di resistere al gelo. Inoltre un edificio che presentasse colonne, travature e nervature di ghisa leggere e sottili era in grado di fornire la luce e la ventilazione necessarie a proteggere le piante delicate.

Per botanici, architetti e giardinieri iniziava una nuova era.

Serre di imperatori e imperatrici

L’affascinante Joséphine de Beauharnais usava spendere a piene mani, indebitandosi in maniera inquietante, e Napoleone, che nonostante il divorzio imposto dalla ragion di stato continuava ad amarla, accettava di pagare i suoi debiti e soddisfare tutti i suoi capricci: i gioielli e le opere d’arte, ma soprattutto i fiori e le piante di cui era grandissima esperta, tanto che la tenuta della Malmaison fu definita nel 1808 come il “solo vero giardino botanico di Francia”.

Joséphine acquistò la Malmaison nel 1799 per farne la sua residenza estiva; nel corso degli anni l’avrebbe ingrandita fino a farle raggiungere un’estensione di 726 ettari, che comprendevano foreste e pascoli, fattorie e coltivi, giardini e serre, eleganti residenze di campagna e locande. Nel grande parco che aveva fatto ridisegnare non poteva mancare una serra, per ospitare tutte le piante esotiche che, nonostante il blocco navale imposto dall’Inghilterra, Joséphine faceva arrivare da tutti i continenti, soprattutto dall’Australia, grazie alle spedizioni delle navi Le Naturaliste (1803) e Le Géographe (1804). Nel 1805 venne eretta una serra, calda, la Grande Serre chaude, la più grande di Francia e d’Europa. Il celebre edifi cio, le cui immagini ci sono state tramandate dai suggestivi acquerelli di Auguste Garneray, era stato ideato da Jean-Marie Morel e portato a termine dagli architetti Jean-Thomas Thibault e Barthélémy Vignon. Non era una serra tradizionale. Si trattava infatti di due strutture contigue: una serra per le piante e, un

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po’ rientrato, un padiglione (la Petite Malmaison), costituito da un’infilata di saloni di rappresentanza, dai quali si poteva godere la vista sulle piante esotiche raccolte nell’edificio adiacente. Il luogo fu teatro di splendide feste; essere invitati ai ricevimenti che Joséphine vi offriva era un privilegio molto ambito.

Lunga oltre 49 metri e larga 6,5, riscaldata da 12 stufe, la Grande Serre chaude, che era costata la cifra colossale di 148.071 franchi, un quarto circa di tutta la tenuta, era una struttura imponente che poteva ospitare piante alte fino a 5 metri sotto la vastissima superficie a vetri inclinata. La testimonianza di un contemporaneo, il conte de la Garde-Chambonas, che ebbe la fortuna di visitare la serra ci descrive Joséphine che illustra agli ospiti i tesori lì contenuti: “nominò quelle rare piante che l’abilità e la pazienza dell’uomo hanno consentito di crescere nel nostro clima. È qui, ci racconta, dove io mi sento più fortunata quando studio il porpora dei cactus che quando osservo tutti gli splendori che mi circondano. È qui, dove sono sovrana tra schiere di piante; qui c’è l’ortensia (hydrangea) che poco tempo fa ha preso il nome da mia figlia, la soldanella delle Alpi, la violetta di Parma, il giglio del Nilo, la rosa di Damietta; queste conquiste provenienti dall’Italia e dall’Egitto non saranno nemiche di Napoleone; ma qui ci sono le mie conquiste, aggiunse mentre ci mostrava il bel gelsomino della Martinica; i semi che ho piantato e ho coltivato mi ricordano la mia patria, la mia infanzia e i miei ornamenti da giovinetta. E mentre parlava così la sua voce creola suonava come musica piena di espressione e tenerezza”.

Per coltivare le sue piante nei giardini e nelle serre Joséphine si affidò ad alcuni

tra i più famosi botanici dell’epoca, tra cui Aimé Bonpland, compagno di avventure in Sudamerica di Alexander von Humboldt; per conservare le immagini degli effimeri fiori si affidò al più grande illustratore dei suoi tempi, Pierre-Joseph Redouté.

La fama della Grande Serre chaude, cuore del meraviglioso giardino, aveva superato i confi ni della Francia. Dopo la sfortunata campagna di Napoleone in Russia e la sconfitta di Lipsia, nell’aprile 1814 le truppe delle potenze alleate di Austria, Prussia e Russia invasero la Francia e occuparono Parigi. Anche i sovrani vincitori, il re di Prussia e l’imperatore di Russia Alessandro I, si recarono più di una volta alla Malmaison per rendere omaggio a Joséphine e visitare la celebre serra. Il 24 maggio l’ex imperatrice offrì un ricevimento in onore dei suoi ospiti nella serra e aprì le danze con Alessandro I. Poi, nella fresca sera primaverile, Joséphine accompagnò l’illustre visitatore a fare una passeggiata attraverso i giardini fragranti di profumi. Il freddo notturno le sarebbe stato fatale: morì cinque giorni dopo nella sua amata Malmaison.

Sopra: Cactus ambiguus (1812), acquerello di Pierre-Joseph Redouté, dalla serie realizzata per l’imperatrice Joséphine alla Malmaison e ora conservata al Fitzwilliam Museum di Cambridge, in Inghilterra.

Nella pagina a fianco: Un esemplare di Sarracenia flava, una pianta carnivora originaria delle zone costiere sudorientali degli Stati Uniti, fotografata in una delle serre del Parc de la Tête d’Or a Lione. Il nome del genere è un omaggio a Michel de Sarrazin de l’Etang (1659-1734), chirurgo della Marina francese e naturalista, che inviò in Europa le prime piante carnivore intorno al 1700.

A fianco: Joséphine de Beauharnais, imperatrice di Francia (1763-1814), nel parco della Malmaison in un dipinto (1805) di Pierre-Paul Prud’hon. Parigi, Museo del Louvre.

Nelle pagine precedenti: Una delle serre della Wilhelma di Stoccarda, un complesso di edifici costruito sul pendio del Rosensteinpark, lungo il fiume Neckar, per assecondare lo stravagante desiderio del re, Guglielmo I del Württemberg, di una residenza estiva ispirata alle Mille e una Notte. Opera senza precedenti, inaugurate nel 1846, le serre sono un capolavoro dell’architetto Karl Ludwig von Zanth, che riuscì a piegare il ferro e il vetro adattandoli allo stile moresco.

A fianco: L’interno di una serra della Wilhelma, oggi giardino botanico e zoologico di fama internazionale. Ai tempi di Guglielmo I, in inverno venivano collocate nelle serre piante provenienti dal giardino circostante, in particolare palme, azalee, camelie, rododendri, orchidee. Vi trovò posto anche la rarissima Victoria amazonica, allora praticamente sconosciuta in Germania.

Nella pagina a fianco: Un candido fiore di Spatiphyllum fotografato nelle serre della Wilhelma a Stoccarda. La pianta fu introdotta in Europa nel XIX secolo dalle regioni tropicali dell’America del Sud.

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Nelle pagine precedenti: La monumentale rotonda centrale a cupola delle serre del Giardino botanico di Bruxelles, tra le più antiche sopravvissute in Europa. Fu costruita tra il 1826 e il 1829 su progetto di Jean-Baptiste Meeûs (1779-1856), uno dei fondatori e futuro presidente della Société Royale d’Horticulture des Pays Bas. È fiancheggiata da due ali che terminano in due padiglioni e ha un andamento classicheggiante scandito da colonne ioniche.

A fianco: Luminosa e aggraziata, la piccola Serre de Balat, un tempo nota anche come Serre couronnée per la sua architettura, fu costruita nel 1854 dall’architetto di Leopoldo II del Belgio per ospitare l’allora rarissima Victoria amazonica. Collocata in origine nel Parc Léopold di Bruxelles, la serra fu traslocata nel 1941 nel Jardin botanique della capitale, per poi trovare la sua sistemazione definitiva nel grande complesso di serre del Giardino botanico nazionale di Meise.

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Nelle pagine precedenti: Una veduta della grande Serre du Congo nei giardini del castello di Laeken, a Bruxelles. Nel 1873 l’architetto di corte Alphonse Balat progettò, su richiesta del re Leopoldo II, un grandioso complesso di serre che avrebbe dovuto ricreare l’aspetto di una vera e propria città di vetro inserita in un paesaggio ondulato. Occorsero oltre trent’anni per portare a termine il progetto. La Serra del Congo fu costruita nel 1886-87 per ospitare la flora proveniente dall’enorme bacino del fiume Congo. Questo tipo di vegetazione fu sostituito successivamente da quello subtropicale e attualmente la serra appare come un’enorme foresta dove crescono, tra le altre, palme australiane, piante di caucciù e felci.

A fianco: Un esemplare di Platycerium bifurcatum, una felce nativa di Giava, Nuova Guinea e Australia sudorientale, fotografato nella Serre du Congo.

Nella pagina a fianco: La piccola e incantevole Serra di Diana, con la statua della dea cacciatrice che sembra emergere dal fondo, fu costruita negli anni 1892-95. Ai lati di un tappeto di selaginella, crescono esemplari di Chamaerops humilis, enormi dracene e felci arboree. A primavera è teatro di una spettacolare fioritura di bougainvillee.

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La passione di Joséphine per giardini e serre era condivisa da un altro grande d’Europa, l’imperatore d’Austria Francesco I, acerrimo nemico di Napoleone, nonostante gli avesse concesso la mano della figlia Maria Luisa per ragioni politiche di spartizione del potere in Europa. Le serre che Francesco I, passato alla storia come l’Imperatore dei Fiori, fece costruire a Vienna e a Schönbrunn hanno una storia affascinante quanto quella della Malmaison.

Quando, nel 1901, gli venne affidato il compito di costruire una serra nel Burggarten, Friedrich Ohmann era ormai un importante esponente della Secessione viennese. Aveva già costruito numerosi edifici a Praga e a Vienna, i ponti sul fi ume Wien e il monumento all’imperatrice Sissi. Ohmann costruì la serra proprio sul sito dove, meno di un secolo prima, nel 1820, Ludwig Freiherr von Remy (1776-1856) aveva eretto una grande serra per l’imperatore Francesco I.

Tutti gli Asburgo erano grandi appassionati di piante, lo era la nonna, l’imperatrice Maria Teresa, che a Schönbrunn aveva seguito personalmente il progetto del parco, arricchendolo di un prezioso giardino botanico e di una orangerie; lo era lo zio, l’imperatore Giuseppe II, che nel 1775 aveva aperto al pubblico il magnifi co parco Augarten; ma Francesco I lo era sopra tutti. È lui che, dopo il Congresso di Vienna, rinnovò il volto della capitale facendo costruire vicino all’Hofburg, il cuore della città, il giardino del Palazzo reale (Hofburggarten) e il giardino del Palazzo imperiale (Kaisergarten), noto più semplicemente come il giardino di palazzo (Burggarten).

Il principale ornamento del Burggarten era la colossale serra – che ci viene restituita in tutta la sua eleganza neoclassica da alcune stampe dell’epoca –, che l’imperatore poteva raggiungere grazie a un tunnel sotterraneo, al riparo dagli sguardi curiosi del pubblico e dal maltempo. Lunga circa 130 metri, gli esperti la descrissero come una delle più grandi e funzionali d’Europa, la lodarono per la sua bellezza e l’ammirarono come una meraviglia dell’orticoltura. “La costruzione”, scriveva entusiasta il cronista di un giornale dell’epoca, “è costituita da cinque sezioni, quella centrale con la Galleria floreale, le due ali laterali in vetro, che sono le serre vere e proprie e infine le solide sezioni alle due estremità dell’edificio che ospitano le cosiddette Sale di conversazione. Lungo la facciata anteriore della sezione centrale otto colonne alte

Nelle pagine precedenti e in quella a fianco: L’esterno, con i suoi archi rampanti di ferro stupendamente decorati, e l’interno della cupola del Jardin d’Hiver, capolavoro di Alphonse Balat a Laeken. L’impressionante sala, destinata ai ricevimenti reali, fu costruita tra il 1874 e il 1876. La sua superficie, insieme a quella di due gallerie annesse, copre 2.400 metri quadrati ed è rivestita da 5.090 metri quadrati di vetro. Molte delle gigantesche piante che vi sono raccolte risalgono ai tempi della costruzione o sono dirette discendenti di quelle originarie.

Sopra: Un ritratto giovanile dell’imperatore d’Austria Francesco I (1768-1835). A tutti era nota la sua passione per il giardinaggio e per le piante esotiche e alcuni dipinti dell’epoca lo ritraggono in compagnia della moglie e dei figli nelle serre, ora scomparse, dei giardini del Palazzo reale a Vienna.

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Nelle pagine precedenti: La luna piena aggiunge un tocco di magia alla serre di Laeken illuminate. Considerate uno dei gioielli architettonici del Paese, videro anche la collaborazione di Victor Horta (1861-1947), allievo di Balat e celebre precursore dell’Art Nouveau. Per il loro patrimonio vegetale, nel 1883 le serre furono descritte da un famoso botanico come “il più bel monumento mai eretto in onore dello studio delle piante esotiche”.

In basso: Un particolare dell’orangerie del Giardino botanico di Karlsruhe, nel Baden-Württemberg, in Germania. Bisogna risalire al margravio Carl Wilhelm von Baden-Dürlach, il bizzarro sovrano amante della pace, per raccontare la storia di questi magnifici giardini. Le serre, costruite da Karl Wilhelm tra il 1718 e il 1723, scomparvero sostituite da nuovi edifici (orangerie, serre, ingresso monumentale e giardino d’inverno) progettati dall’architetto Heinrich Hübsch nel 1854-57 su incarico dal margravio Karl Friedrich, anch’egli appassionato collezionista di piante esotiche. Queste stesse strutture furono rimpiazzate un decennio dopo da altre in ferro e vetro.

circa dieci metri formano un colonnato; gli spazi tra l’una e l’altra sono completamente di vetro fino al soffitto [...] In corrispondenza a queste colonne, pilastri identici suddividono la parete di fondo e quelle laterali della Galleria floreale [...] Le grandi porte alle estremità della Galleria danno accesso alle serre immediatamente adiacenti”.

La Serra di Remy, come veniva anche chiamata, divenne famosa fra l’altro per la “Fête de Flore”, la grande festa che Francesco I e i suoi successori erano soliti dare per celebrare l’annuale festività di maggio, prima che la Corte si trasferisse nella residenza estiva di Schönbrunn. Il giornale Der Telegraph ne diede una vivida descrizione: “Per le feste la parete di fondo [della Galleria floreale] veniva decorata con le piante più belle che

creavano un magico effetto per profumo e varietà. Nello spazio antistante la sezione centrale c’era un elegante padiglione dove alcune giovani fanciulle sedevano a colazione. Le restanti signore erano riunite a tavola al centro della Galleria. Una colonna di scintillanti carrozze che trasportavano i numerosi membri dell’aristocrazia invitati alle festa incominciò ad arrivare intorno alle 9,30. Le loro Maestà [...] apparvero verso le 11, ora in cui i festeggiamenti si aprirono con una colazione [...] Cinque grandi tavole rotonde erano apparecchiate nella Galleria fl oreale con splendida eleganza [...] Dopo la colazione che si protrasse per circa un’ora, gli illustri ospiti si dispersero in parte nel padiglione, in parte nelle Sale di conversazione [...] con la rapidità del lampo le tavole vennero rimosse

Nella pagina a fianco: Quasi sommerse dalla vigorosa vegetazione, le statue che ornavano la facciata in ghisa delle serre di Karlsruhe si sono ben conservate, nonostante i danni subiti durante il secondo conflitto mondiale.

Nelle pagine seguenti: Le strutture della serra del Giardino botanico di Karlsruhe, restaurate negli anni Cinquanta del Novecento, emergono dal folto degli alberi del parco all’inglese che le circonda.

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e la Galleria floreale trasformata in una sala da ballo. L’elegante orchestra del direttore di musica Johann Strauss [padre] venne sistemata lungo la parete sinistra che divideva la Galleria floreale dalla serra”.

Oltre a frequentare regolarmente la grande serra di città, l’imperatore soggiornava spesso a Schönbrunn, dove di serre se ne contavano almeno dieci, e dove le piante che vi si coltivavano raggiunsero un numero record tale da far impallidire Sir Joseph Banks. Pochi mesi prima dell’apertura del Congresso di Vienna, nel 1815, egli scrisse al capo giardiniere di Kew, il celebre William T. Aiton, che Schönbrunn era l’unico rivale di Kew di cui avesse veramente timore. In effetti, un

inventario redatto poco prima della morte di Francesco I (1836) enumerava 17.136 esemplari che rappresentavano 1.600 specie e varietà vegetali.

Collocate nell’area del Giardino olandese, così chiamato perché i giardinieri che lo curavano erano tutti olandesi, allora tra i migliori in Europa, le serre furono descritte in un documento del tempo: sul lato nord del Giardino olandese una serra in tre parti, che misurava “solo” 95 metri di lunghezza; ad angolo retto con questa, adiacente alla casetta del giardiniere, lungo il lato occidentale del terreno, c’erano quattro doppie serre, ognuna delle quali lunga 36 metri; la serra doppia più a nord conteneva una

Nella pagina a fianco: Una Vanda rothschildiana dai delicati petali azzurro-violacei, fotografata nelle serre del Giardino botanico di Karlsruhe. Si tratta di un ibrido tra due orchidacee, in pericolo allo stato naturale, la Vanda coerulea e la Euanthe sanderiana

In alto: La Serra delle Palme nel parco del castello di Pillnitz, non lontano da Dresda. Appartenuto ad Augusto il Forte di Sassonia, che l’aveva donato a una delle sue numerose amanti, venne poi ripreso e trasformato in residenza estiva. In magnifica posizione sulle rive dell’Elba, è circondato da un parco di 28 ettari che attira visitatori da tutto il mondo per le specie rare che vi sono raccolte. Tra queste, una camelia di 250 anni che d’inverno viene protetta sotto una serra mobile trasportata su rotaie. La grande Serra delle Palme fu costruita tra il 1859 e il 1861; con una superficie di 660 metri quadrati e una lunghezza di 93,7 metri era all’epoca la più grande in Germania.

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Nelle pagine precedenti: Una veduta attraverso il lago della grande serra centrale e degli edifici annessi nell’Orto botanico di Copenhagen. Costruita nel 1872-74 in posizione elevata rispetto al giardino, copre una superficie di 3.000 metri quadrati. La sua struttura, che richiama fortemente quella del Giardino botanico di Bruxelles, è frutto della collaborazione di Tyge Rothe e di Johan Carl Jacobsen. Tra le piante, notevoli una palma che risale al 1824 e una bella collezione di Cicadacee.

A fianco: L’imperatrice Maria Teresa d’Austria circondata dai figli, in un dipinto di Heinrich Friedrich Füger (1776). Tutti gli Asburgo furono grandi appassionati di botanica e di giardinaggio, e l’imperatrice sovrintese di persona alla costruzione dei giardini della residenza di Schönbrunn.

In basso: Nuphar pumilum (Ninfea nana). Acquerello di Johann Jebmayer (1770-1858), autore di una monumentale opera dal titolo Florilegium B di Francesco I Imperatore d’Austria (1808-1830), con i ritratti delle piante che crescevano spontanee nei territori appartenenti alla Casa d’Austria.

Nella pagina a fianco: I frutti di una Zamia lindenii, della famiglia delle Cicadacee, originaria dell’Ecuador, fotografati nelle serre dell’Orto botanico di Copenhagen. Il nome della specie deriva da quello di JeanJules Linden (1817-1898), esploratore e uomo d’affari che per primo coltivò questa pianta in Europa.

stanza per gli ananas e una serra calda generale per le piante tropicali; in quella vicina crescevano piante di melangoli e c’era un’altra stanza per gli ananas; le due doppie serre più piccole adiacenti servivano per la coltivazione delle pesche; la serra grande era usata esclusivamente per la coltivazione delle rarità botaniche dell’imperatore. In seguito, il Giardino olandese fu ingrandito e vi fu costruita un’altra serra calda, chiamata “Altes Palmenhaus”, la Serra Vecchia, per ospitare le spettacolari collezioni di piante esotiche che affluivano in misura straordinaria dagli angoli più remoti della Terra, frutto delle spedizioni scientifi che fi nanziate dall’imperatore. Non

pago di coltivare e raccogliere piante, secondo l’illuminato costume dell’epoca, Francesco I aveva ingaggiato un artista che ne eseguì i ritratti per la sua collezione privata. Nacque così lo spettacolare Florilegium A di Francesco I, che il pittore di corte Mathias Schmutzer realizzò tra il 1794 e il 1824, copiando dal vero le piante dei giardini imperiali, ma soprattutto le acquisizioni esotiche delle serre. Un secondo Florilegium, il B, opera di Johann Jebmayer, sarebbe seguito a qualche anno di distanza, con la le raffigurazioni della flora spontanea dei territori dell’Impero.

Dopo la morte di Francesco I, le serre di Schönbrunn conobbero un lento declino, finché cinquant’anni dopo le collezioni di piante furono trasferite in un nuovo grandioso edificio costruito per volere dell’imperatore Francesco Giuseppe tra il 1880 e il 1882, la “Neues Palmenhaus”. Tranne la Altes Palmenhaus, tutte le serre del Giardino olandese furono demolite tra il 1884 e il 1904.

A Vienna anche la Serra di Remy fu demolita verso la fine del secolo per far posto alla serra di Ohmann, lodata come uno dei più begli esempi di architettura viennese al volgere del nuovo secolo.

Dopo alterne vicende nel corso del XX secolo, all’affacciarsi del Terzo Millennio anche la serra di Friedrich Ohmann sembra rinata a nuova vita. Mentre all’esterno conserva tutta la sua eleganza Jugendstil, l’interno è stato trasformato. Da pochi anni il padiglione nordovest del complesso ospita una casa delle farfalle. Parte dei 2.050 metri quadrati sono adibiti a ospitare piante usate come decorazione nelle feste ufficiali, il resto è stato trasformato in un piacevole luogo d’incontro

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In basso: Camellia japonica (18121831). Opera di uno sconosciuto artista cinese commissionata da John “China” Reeves (1774-1856), funzionario della Compagnia delle Indie Orientali inglese, di stanza in quegli anni a Canton come ispettore del tè. La sua enorme raccolta di acquerelli botanici e zoologici fatti eseguire in Cina è conservata presso il Natural History Museum di Londra.

Nella pagina a fianco: Il lussureggiante giardino d’inverno che collega le due ali (1897-99) della Ny Carlsberg Glyptotek, dove le palme raggiungono i 20 metri di altezza. In primo piano una scultura dell’artista danese Kai Nielsen (18811924), Madre Acqua. Il raffinato museo fu donato alla città di Copenhagen da Johan Carl Jacobsen, industriale della birra Carlsberg e appassionato collezionista d’arte e di piante. Ospita opere dell’antichità egiziana, greca, etrusca e romana, dipinti e sculture dell’Ottocento francese e danese.

Nelle pagine seguenti: La Palmenhaus, la Serra delle Palme, nel Palmengarten di Francoforte. Fiore all’occhiello della botanica tedesca e istituzione molto amata dagli abitanti, il Giardino delle Palme copre 20 ettari di terreno nel cuore della città. Fu disegnato nel 1869 dall’architetto paesaggista

Heinrich Siesmayer. Nello stesso anno l’architetto Friedrich Kaysser costruiva la Palmenhaus, a lungo la più grande serra della Germania. Ricostruita nel 1929, nel corso degli anni fu affiancata da altri edifici, tra

per chi vuol festeggiare con un bicchiere di vino l’arrivo della bella stagione, che a Vienna è particolarmente piacevole. Dal terrazzo antistante lo sguardo spazia verso l’ampia vasca d’acqua, verso l’aiuola dove una bordura di fi ori disegna una grande chiave di violino davanti al monumento di Mozart nascosto tra gli alberi secolari.

Una “casa” per le camelie

Sulla spinta delle scoperte dell’epoca e della nascita di istituzioni orticole come la Royal Horticoltural Society, che all’atto della sua fondazione nel 1804 contava 7 membri, tra cui l’onnipresente Sir Joseph Banks, e alla quarta seduta 60, l’interesse per la coltivazione di piante esotiche prese sempre più piede e le nuove tecniche di costruzione resero gli edifici sempre più funzionali.

Il grande teorico delle costruzioni in ferro e vetro fu lo scozzese John Claudius Loudon (1783-1843), botanico, orticoltore, architetto di giardini ed enciclopedista. Le sue ricerche e i suoi esperimenti avrebbero fortemente influenzato l’architettura delle serre nella prima metà del XIX secolo. A quel tempo si dibatteva su quale fosse il metodo migliore per far arrivare attraverso i vetri del tetto la maggior quantità di luce possibile sulle piante e favorirne così la crescita. I giardinieri pensavano che, per un risultato ottimale, fosse essenziale che la luce del sole si irradiasse a un angolo il più vicino possibile ai 90° dal pannello di vetro. La teoria aprì un dibattito su quale fosse la forma ideale per il tetto della serra.

Loudon sviluppò il disegno curvilineo che avrebbe improntato la maggior parte degli edifici degli anni Venti e Trenta dell’Ottocento. Curvando la superficie del vetro, i raggi del sole avrebbero colpito una parte del tetto a un angolo corretto, indipendentemente dall’ora o dalla stagione.

L’interesse di Loudon si estese anche ai sistemi di riscaldamento. La sua fervida immaginazione lo portò a preconizzare l’uso di caldaie a vapore centralizzate per il riscaldamento degli edifici di una casa di campagna, a partire dalle serre.

I sistemi di riscaldamenti usati fi no ad allora – condotte ad aria calda interrate o collocate dietro la parete nord della serra –presentavano non pochi problemi: da una parte le enormi quantità di torba o carbone richieste per alimentarle, dall’altra il rischio che i vapori di diossido di zolfo o monossido di carbonio penetrassero nella serra danneggiando le piante.

Fu solo con l’invenzione di Angier March Perkins, intorno al 1830, di una caldaia a vapore che faceva circolare acqua calda attraverso un sistema di condotte di ghisa che il riscaldamento delle serre venne grandemente perfezionato.

Le prime a mettere in pratica le proposte di Loudon furono naturalmente le grandi famiglie patrizie che facevano a gara nell’accogliere le novità che potessero rendere più splendide le loro tenute.

A un centinaio di metri a sudovest di un cupo maniero di epoca Tudor, nei dintorni di Nottingham, Wollaton Hall – set perfetto per il film Il Cavaliere Oscuro - Il ritorno, girato nel 2011 –, l’architetto paesaggista Sir Jeffry

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Nei climi miti le serre non sono frequenti. Tuttavia, anche la Penisola iberica ne vanta alcune notevoli.

Sotto: Il primo giardino botanico fondato in Portogallo, e il quindicesimo in Europa, il Jardim da Ajuda, fu creato dal botanico italiano Domenico Vandelli a Lisbona nel 1768. Alla fine del XVIII secolo, re Giovanni VI vi fece costruire una serra per collezionare piante esotiche provenienti dalle colonie di Brasile, Angola e Capo Verde. Chiamata oggi Serra delle Felci, oltre a ospitare queste e altre piante ornamentali adatte agli interni, è adibita alle operazioni di moltiplicazione delle specie esistenti nel giardino.

Nella pagina a fianco: Il Palacio de Cristal, costruito nel Parco del Retiro di Madrid nel 1887 dall’architetto Ricardo Valázquez Bosco, con la collaborazione di Alberto de Palacio, per ospitare l’Esposizione delle isole Filippine. Ispirato al Crystal Palace di Londra, l’edificio è coronato da un’elegante cupola a quattro facce e si caratterizza per la ricca decorazione ceramica disposta sopra gli archi esterni, opera di Daniel Zuloaga.

Wyatville progettò nel 1823 un elegantissimo edificio, assolutamente innovativo per i tempi. Era il primo completamente costruito con elementi prefabbricati di ghisa e vetro, e uno dei primi destinati alla protezione delle camelie, un fiore per cui gli appassionati inglesi erano disposti a spendere fortune.

La camelia era stata introdotta in Europa dal medico e naturalista tedesco Engelbert Kaempfer nel 1692, ma la sua prima fioritura in Occidente è registrata solo nel 1739 in Inghilterra, nelle serre di Lord Robert Petre, a Thorndon Hall, Essex.

Esperto botanico e appassionato orticoltore, in relazione con i più importanti botanici del tempo, nell’arco della sua breve vita (morì di vaiolo a ventinove anni), Lord Petre riuscì a trasformare il parco di Thorndon Hall in un capolavoro di pionieri-

stico giardino paesaggistico. Nell’arco di tre anni, tra il 1740 e il 1742, furono piantati nella tenuta circa 60.000 alberi, di almeno 50 specie differenti, molte delle quali provenienti dal Nuovo Mondo. Collocati a formare boschetti misti, le loro chiome, con i fogliami dai verdi contrastanti, il verde scuro esaltato dal verde chiaro, il verde glauco dal verde giallo, offrivano al visitatore uno spettacolo fantasmagorico.

Quanto alle serre, cuore di quel magnifico parco, il celebre botanico Peter Collinson scriveva a Linneo: “Il mondo non ha mai visto niente di simile e mai più lo vedrà”. La “Great Stove”, all’epoca considerata la più grande serra calda al mondo, era alta più di 9 metri e ospitava alberi e arbusti che potevano superare i 7 metri; vi erano guaiave, papaie, banani, ibischi, bambù, e le pareti erano co-

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perte di rampicanti: passiflora e una varietà di clematidi. Vi erano altre due serre mantenute a una temperatura leggermente inferiore per piante dai climi più temperati; una era riservata alla coltivazione di banane e ananas, l’altra allo stoccaggio di mele. In queste serre fiorì la prima camelia.

Alla morte di Lord Petre, il suo giardiniere decise di commercializzare il fiore e fu un successo immediato. All’inizio del XIX secolo se ne coltivavano una cinquantina di varietà. E le “Camellia Houses” divennero molto popolari. L’esotica camelia era molto amata: fioriva all’inizio dell’anno, non a caso sarebbe stata

battezzata “la Regina dei fi ori d’inverno”, non aveva bisogno di grandi quantità di luce e i sui fiori erano particolarmente belli. Le brillanti foglie lucide e scure mettevano in risalto le più delicate sfumature dei suoi colori, dal bianco puro al rosso intenso.

All’interno della Camellia House di Wollaton Hall tutto appare aereo e aggraziato. Lo spazio destinato alle aiuole è diviso da vialetti; in alto, in corrispondenza di questi, corrono volte in lamine di ferro tubolari segmentate sorrette da sottili colonne di ghisa, con capitelli a foglia di loto che, altra notevole innovazione, fungevano da sifoni per

Nelle pagine seguenti: Una giornata d’inverno all’Orto botanico dell’Università di Pavia, fondato nel 1763. Il sole illumina le serre edificate da Luigi Canonica nel 1815, che sostituì con strutture in muratura riscaldate da aria calda quelle in legno realizzate su disegno del Piermarini.

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Nelle pagine precedenti: Il pubblico fiorentino si stupì quando nel 1880 fu inaugurato lo spettacolare Tepidarium della Società Toscana di Orticoltura, opera dell’architetto Giacomo Roster, “elegantissima costruzione che non ha eguali in Italia e forse nemmeno in Europa”, come scrisse il cronista della “Nazione”. Realizzato in occasione dell’Esposizione Orticola tenutasi a Firenze nel maggio 1880, rappresentava in Italia uno straordinario esempio di architettura in ferro, ghisa e vetro. L’edificio, a pianta rettangolare con copertura a carena di nave, misura 38,5 metri di lunghezza e 17 di altezza, con una superficie coperta di oltre 650 metri quadrati.

raccogliere l’acqua piovana che andava ad alimentare l’impianto di riscaldamento. Sopra le aiuole, invece, la copertura è formata da cupole o piramidi allungate di vetro: l’area di vetro, così ridotta, è perfetta per proteggere piante, come camelie e azalee, che temono la luce eccessiva.

Le camelie crescevano a centinaia anche nel grande conservatory di Chiswick House, a poche miglia da Londra, una delle numerose dimore dei duchi di Devonshire, tra le più potenti famiglie del regno. La moglie del quinto duca, la celebre Lady Georgiana Spencer, icona del tempo, definiva Chiswick “il mio paradiso terrestre”. Era solita invitare regolarmente i suoi amici membri del partito Whig ai tea parties che organizzava nel giardino, una magnifica distesa verde concepita come una serie di pitture di paesaggio punteggiate di templi e follies, progettata negli anni Venti del Settecento da William Kent (1685-1748), pioniere del giardino paesaggistico inglese.

Dieci anni prima della costruzione di Wollaton House, nel 1813, il sesto duca di Devonshire, William Cavendish (1790-1858), creò a Chiswick un vasto giardino di stile italiano con parterre, e di fronte vi fece erigere una serra per la sua collezione di camelie. L’architetto Samuel Ware (1781-1860) costruì un edificio di ferro e vetro lungo 96 metri, il più lungo dell’epoca, coronato al centro da una grande cupola di vetro. Nel grande conservatory la collezione di camelie, la più antica nel mondo occidentale, crebbe e prosperò nel tempo fino ai giorni nostri. Oggi, da febbraio a marzo, vi si celebra l’affollato Camellia Festival, dove si possono ammirare esemplari rarissimi, di poco successivi alla costruzione

della serra, come la spettacolare Middlemist’s Red, portata in Europa dalla Cina nel 1804 da John Middlemist, un vivaista londinese.

La cupola del Chiswich House Conservatory diventerà modello di molti altri edifici del tempo, a cominciare dal conservatory di Syon House fino all’orangery di Calke Abbey, un tempo la superba residenza della famiglia Harpur-Crewe, oggi tutelata dal National Trust. L’orangery, tradizionalmente in muratura, fu costruita nel 1777 affacciata su un bellissimo orto e affiancata da due serre per la coltivazione delle pesche; settant’anni dopo vi fu aggiunta un’elaborata cupola per fornire più luce alle piante esotiche che vi erano raccolte. Il contrasto tra il “vecchio” e il “nuovo” dell’avveniristica cupola crea un effetto bizzarro e piacevole.

Se il duca di Devonshire aveva fatto costruire un conservatory per le sue camelie, un duca di Northumberland non poteva essere da meno. Così Hugh Percy, terzo duca dell’illustre famiglia, uomo dall’immensa fortuna, decise di far costruire a Syon Park, la residenza londinese, una nuova serra degna del suo rango.

“Magnifico” è un aggettivo che non dà che una pallida immagine dei tesori conservati a Syon House e della bellezza dei suoi giardini. Affacciati sul Tamigi, sulla sponda di fronte ai Kew Gardens, erano famosi per le specie rare che vi si coltivavano fin dall’epoca di William Turner, medico del duca di Somerset e naturalista. A lui viene attribuito il merito di avervi impiantato uno dei primi orti botanici in Inghilterra, che fu spianato quando, tra il 1767 e il 1773, “Capability“ Brown ebbe l’incarico di ridisegnare completamente

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il parco. L’architetto paesaggista aveva affermato di volervi introdurre “gli alberi e le piante più pregiati da ogni angolo del mondo”. Era stato costruito un muro riscaldato per far crescere le viti, piccole serre a telaio mobile per la coltivazione dei meloni, e grandi serre per quella degli ananas: in una di queste, nel 1773, era fiorita la prima pianta di Camellia sinesis, il tè, cresciuta in Europa.

Nel 1826 il duca di Northumberland affidò a un giovane architetto, Charles Fowler (1792-1867), cofondatore del Royal Institute of British Architects, il compito di erigere un conservatory, ultimo grido in fatto di serre.

Per il suo ambizioso progetto Fowler si ispirò all’Italia. Studiò I Quattro Libri dell’Architettura di Andrea Palladio e prese a modello la villa mai compiuta di Ludovico e Francesco Trissino a Meledo. Il progetto prevedeva un edificio padronale costruito attorno a una sala centrale circolare e coperta da una cupola, e due barchesse che avrebbero dovuto abbracciare l’area antistante. Fowler utilizzò le suggestioni palladiane per trattare il modello in modo totalmente innovativo. La struttura della rotonda centrale gli offriva l’occasione di sperimentare i nuovi materiali e le nuove teorie sulle serre a forme curve. Mentre le facciate dell’edificio erano costruite in pietra di Bath dorata, all’interno elaborate strutture di ghisa e ferro battuto sostenevano una cupola che sembrava galleggiare nell’aria. Oltre quattro miglia di condotte formavano un sistema di riscaldamento all’avanguardia per creare i microclimi necessari a tutte le piante esotiche introdotte.

Fowler si consultò con il capo giardiniere, il botanico Richard Forrest, per la piantumazio-

ne. Divise l’edificio in diverse sezioni separate. Procedendo da ovest verso est si trovavano piante provenienti dalla regione del Capo di Buona Speranza e dall’Australia, poi piante della famiglia delle Ericacee, seguite da arbusti sudafricani. Una sezione di piccole piante tropicali precedeva la rotonda sovrastata dalla grande cupola, di fatto una serra calda con palme e bambù giganti in vaso. L’ala orientale era occupata da gerani (Pelargonium) provenienti dall’Africa; di nuovo apparivano le eriche e infine, per ultima, ma non poteva mancare, una collezione di camelie dall’India e dalla Cina. Le piante che crescevano nel Great Conservatory rappresentavano spesso le ultime scoperte dagli estremi confini del mondo allora conosciuto. L’impero coloniale inglese era in grande espansione e le piante arrivavano a Syon dall’Africa Occidentale e dalle Indie Occidentali, dall’Australia e da Ceylon, dalle Celebes, dalle Filippine e dai mari del Sud. Dall’Orto botanico di Calcutta venivano spedite le orchidee raccolte sulle montagne nepalesi e i semi di pino dall’Himalaya, mentre la nave del duca intraprendeva spesso spedizioni di ricerca.

In basso: Hugh Percy, terzo duca di Northumberland (1785-1847) –a cui si deve la costruzione del Great Conservatory di Syon Park –, in un dipinto di Richard Dighton. Grande appassionato di giardinaggio, il duca seguì da vicino i lavori di costruzione dell’edificio, occupandosi con grande interesse anche dei minimi particolari tecnici. Dotato di un’immensa fortuna, non badò a spese per arricchire Syon Park delle specie esotiche più rare. In un catalogo delle piante coltivate a Syon, redatto nel 1831 dal botanico Richard Forrest, delle oltre 3.000 specie elencate più di 1.500 erano da serra o tropicali.

Nelle pagine seguenti: Un particolare della facciata della Serra monumentale nell’Orto botanico dell’Università “La Sapienza” di Roma. Fu costruita nel 1877 da una ditta francese di Lione, la Mathian. Era stata commissionata nel 1870 per la sede dell’Orto botanico, allora in via Panisperna, in seguito al potenziamento delle università dopo il trasferimento a Roma della capitale d’Italia. Ospita una grande collezione di euforbie; circondata da una rigogliosa vegetazione di palme e agavi si erge la forma classicheggiante della Serra Grande nel Giardino inglese della Reggia di Caserta. Fu costruita tra il 1862 e il 1870 sotto la direzione del “Botanico della Real Casa” Nicola Terracciano.

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In basso: Una delle serre borboniche nel Giardino inglese della Reggia di Caserta, dalla caratteristica vetrata curva.

Nella pagina a fianco: Fiori di Petrea volubilis, fotografati nell’Orto botanico di Palermo. È una superba pianta rampicante nativa del Messico e del Centro America. Il nome le fu assegnato da Linneo in onore di Robert Petre, ottavo barone di Petre, botanico e orticoltore, celebre per essere stato tra i primi a coltivare la camelia.

Nelle pagine seguenti: L’ingresso della Serra Carolina, la più antica dell’Orto botanico di Palermo, donata dalla regina Maria Carolina di Borbone nel 1823. In origine di legno e vetro, fu sostituita da una struttura in ghisa progettata nel 1860 da Carlo Giacheri e realizzata in Francia nel 1872. Tra le piante più interessanti, il tamarindo, il caffè, il pepe della Giamaica e la sensitiva.

Quando nel 1831 Richard Forrest pubblicò un catalogo delle piante coltivate a Syon, ve ne erano elencate oltre 3.000, di cui più di 1.500 coltivate in serra o tropicali.

Sarebbe stato difficile superare lo splendore del Great Conservatory di Syon, se sulla scena del giardino inglese non fosse apparsa la figura di Joseph Paxton.

Joseph Paxton a Chatsworth

Oltre a Chiswick House, il sesto duca di Devonshire possedeva altre sette grandi dimore sparse per il Paese, la più grandiosa delle quali era Chatsworth, la sua preferita.

È a Chatsworth che il duca chiamò a lavorare un giovane giardiniere di nome Joseph Paxton (1803-1865). Lo aveva visto all’opera

nei giardini della Royal Horticoltural Society, di cui diverrà in seguito presidente, attigui alla sua proprietà di Chiswick, ed era rimasto colpito dalle sue capacità.

Paxton arrivò a Chatsworth nel 1826, a ventitré anni, con l’incarico di capo giardiniere di quello che era considerato uno dei più bei giardini paesaggistici del tempo. Portava, avvolti nel berretto, alcuni semi di abete, una specie introdotta di recente dalla California. Più tardi fu lo stesso Paxton a raccontare che, sebbene a quell’epoca il duca fosse in Russia in visita allo Zar, era montato subito sulla diligenza per Chesterfield ed era arrivato a Chatsworth alle quattro e mezzo del mattino; dopo aver distribuito il lavoro ai vari giardinieri, aveva fatto colazione con la governante e ne aveva conosciuto la nipote, Sarah Brown, che sarebbe diventata sua moglie. Alle nove

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Nelle pagine precedenti: Il corpo centrale della grande serra a tre navate, parte del complesso di serre del Parc de la Tête-d’Or di Lione. Costruita tra il 1877 e il 1882 dall’architetto e ingegnere Théodore Demonget, si distinse dalle costruzioni analoghe in ferro e vetro per il suo stile originale.

In basso da sinistra: William George Spencer Cavendish, sesto duca di Devonshire, in un dipinto di George Hayter del 1816. Fu protettore e amico di Joseph Paxton (a destra, in un ritratto giovanile) giardiniere, architetto, editore e infine membro del parlamento inglese e brillante uomo d’affari.

Nella pagina a fianco: Un esemplare di Heliconia rostrata fotografato nei Jardins des Serres d’Auteuil a Parigi. Il genere è diffuso principalmente nella zona tropicale dell’America ma anche in alcune isole del Pacifico e dell’Indonesia. Un ruolo fondamentale nell’impollinazione di questa pianta è svolto da alcune specie di colibrì, per le quali diventa un’importante fonte alimentare. Per questa sua caratterista è spesso coltivata nei giardini tropicali.

Nelle pagine seguenti: La facciata della grande Serra delle Palme nel Jardin des Serres d’Auteuil (Parigi), opera di Jean-Camille Formigé, dichiarata in Francia Monumento storico. La fontana antistante è decorata da un altorilievo con un Baccanale del celebre scultore Jules Dalou (1838-1902).

del mattino aveva già portato a termine il lavoro della sua prima mattina a Chatsworh.

Il duca di Devonshire era un uomo intelligente e liberale. Nonostante la differenza di classe, per quei tempi abissale, si legò di stima e d’amicizia al giardiniere e per tutta la vita ne promosse la carriera, fi no a vederlo chiamare “Sir”. Dal canto suo Paxton, anche dopo essere diventato un architetto famoso, ricco signore grazie alla partecipazione nel business delle ferrovie, e cavaliere, non rinunciò mai al suo incarico a Chatsworth. La collaborazione tra questo geniale e visionario figlio di contadini del Bedfordshire e l’uomo forse più ricco e stravagante d’Europa avrebbe portato a esiti strabilianti. Paxton avrebbe dato corpo a tutte le più bizzarre fantasie di William Cavendish per rendere ancor più magnifica Chatsworth. Disegnò giardini, fontane, un villaggio modello, Edensor, un pinetum e un arboretum. I contemporanei furono abbagliati alla vista del gigantesco giardino roccioso, “un Cervino in miniatura”, costruito sotto le suggestioni di un Tour effettuato dal duca e da Paxton sulle Alpi, o di fronte agli zampilli che raggiungevano i 90

metri della Fontana dell’Imperatore, edifi cata in onore dello Zar Nicola I di Russia, amico del duca, per alimentare la quale fu scavato un lago artificiale in sei mesi di lavoro ininterrotto, con gli operai costretti a lavorare alla luce delle torce.

Paxton costruì una serie di serre dal disegno innovativo, tra cui il Conservative Wall, l’unica sopravvissuta ai danni del tempo, il Great Conservatory, meta di re e regine, e la Lily House. Per queste serre studiò il famoso tetto “ridge and furrow” (cresta e solco), con i vetri ad angolo retto rispetto ai raggi del sole alla mattina e alla sera. Applicò il principio del tetto piegato, perfezionandolo con travi che formavano contemporaneamente canali per raccogliere e deviare le acque piovane e la condensa.

Il Conservative Wall (1848) è una straordinaria sequenza di serre di legno e vetro (una più alta, al centro, fiancheggiata da dieci più basse) che salgono lungo un ripido pendio terrazzato, appoggiate al muro settentrionale del giardino. Erano destinate alla coltivazione di frutta e di camelie di cui il duca era appassionato. Due camellia reticulata “Captain Rawes”, piantate nel 1850, sopravvivono ancora oggi. Quanto alla frutta, basti ricordare che la banana Cavendish, così chiamata in onore del duca, oggi la più importante varietà diffusa nel pianeta, fu coltivata per la prima volta nelle serre di Chatsworth.

Una delle opere per cui è maggiormente ricordato l’instancabile capo giardiniere di Chatsworth è la Serra delle Palme, il Great Conservatory (o Great Stove, la Grande Stufa, come venne più popolarmente chiamata nei giornali dell’epoca), costruita tra il 1836 e il 1840.

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Nelle pagine precedenti: la grandiosa Palmenhaus del parco di Schönbrunn, a Vienna, capolavoro di architettura in ferro collocata al centro di un giardino barocco. Le tre cupole a quattro facce, le colonne scanalate, i capitelli corinzi e le linee sinuose, concave e convesse, tutto contribuisce a dare grazia e leggerezza al poderoso edificio.

Sotto: La scultura di un nativo delle Americhe, nascosta tra il fogliame della Palmenhaus di Schönbrunn, crea l’illusione di trovarsi in una foresta tropicale.

Nella pagina a fianco: Una Bauhinia variegata fotografata nella Palmenhaus di Schönbrunn. Questa specie, originaria della Cina, ha fiori rosa con venature rosse lievemente profumati. Il genere comprende piante arboree ed erbacee originarie delle zone tropicali dell’Africa e dell’Asia, note anche come “albero orchidea”.

L’ambizioso progetto prevedeva un edificio lungo 84 metri, largo 37 e alto 20. Circa 3.000 metri quadrati di suolo sotto il tetto ellittico erano coperti delle migliori terre da giardino, diverse secondo le necessità di ogni pianta, e le radici delle piante più grandi erano confinate in scomparti nel terreno, per non ostacolare la crescita di quelle meno robuste. Le aiuole lussureggianti erano separate per tutta la lunghezza da una corsia per il passaggio delle carrozze dei visitatori, mentre un ampio sentiero dove passeggiare correva tutto intorno all’edificio. Su entrambi i lati si aprivano pesanti porte di vetro e tutto lo spazio era diviso in base alle regioni geografiche da cui

provenivano le piante. Una scala a chiocciola portava a una piattaforma per i giardinieri e a una galleria in ferro battuto leggero, da dove i visitatori potevano ammirare la volta formata dalle enormi piante tropicali e più in basso le loro parenti più piccole. Le 8 caldaie sotterranee alimentavano 11 chilometri di condotte che mantenevano su un lato la temperatura della zona temperata e sull’altro quella della zona subtropicale. Ogni inverno cavalli e carri trasportavano 300 tonnellate di carbone per alimentarle. Il ricambio dell’aria era garantito da ventilatori collocati nelle fondamenta e nel tetto. Fra i rami volavano uccelli esotici e pesci variopinti nuotavano nelle vasche sotto una collezione di piante tropicali che non aveva confronti. Occorsero 12.000 lampade per illuminarla in occasione della visita della regina Vittoria e del suo entourage nel dicembre 1843. Quando nel 1845 Charles Darwin visitò questo mondo floreale in miniatura ne rimase incantato. Scrisse: “le vasche d’acqua sono quanto di più incredibilmente vicino alla natura tropicale io possa aver immaginato. Qui l’arte supera del tutto la natura!”. La regina Vittoria paragonò il Great Conservatory a un paesaggio tropicale sotto un cielo di vetro. Un altro visitatore coronato, Federico Gugliemo IV di Prussia, lo definì: “una montagna di vetro , una struttura senza precedenti come un mare di vetro quando le onde ricadono l’una sull’altra e si placano dopo una tempesta”. Il tutto per la cifra allora folle di 33.099 sterline. Migliaia di persone sfruttarono il nuovo mezzo di trasporto, la ferrovia, introdotto di recente, per andare ad ammirare le grandi opere di Paxton.

Tuttavia, l’opera più densa di conseguenze per l’evoluzione delle serre, per l’architettura

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Nella pagina a fianco: visitare la Wüstenhaus, La Casa del Deserto nel parco di Schönbrunn, è un’esperienza affascinante. Nella serra chiamata Casa della Meridiana –progettata nel 1904 da Alfons Custodis per ospitare la ricca collezione di piante esotiche australiane e sudafricane della Casa di Asburgo – sono stati ricostruiti tre habitat aridi (Madagascar e deserto del Vecchio e del Nuovo Mondo).

La serra vibra di vita e di suoni. Sulle rocce, e in mezzo a cactus e altre succulente, si muovono e strisciano insetti, piccoli roditori come il gerboa e rettili, mentre uccelli esotici svolazzano lanciandosi richiami.

A fianco: due esemplari di Geopelia cuneata, la Tortora diamantina, originaria di molte regioni dell’Australia.

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inglese, prima, poi per quella europea e infine mondiale, fu la costruzione della Lily House, sul limitare del parco, destinata a ospitare la gigantesca Victoria amazonica

Questa ninfea di enormi dimensioni (le foglie possono raggiungere i 3 metri di diametro e i fiori 40 centimetri) era stata scoperta dall’esploratore tedesco Robert Schomburgk nelle acque poco profonde del bacino del Rio delle Amazzoni, nella Guiana Britannica, descritta per la prima volta dal botanico John Lindley nel 1837 e subito battezzata Victoria regia in onore della giovane regina Vittoria, salita al trono quello stesso anno. I primi tentativi di farla germogliare e attecchire in Inghilterra andarono delusi, finché nel 1849 alcuni semi in bottiglie di acqua dolce vennero inviati ai Kew Gardens e da qui, dati gli insuccessi, affidati alle cure di Joseph Paxton, che allo scopo costruì appunto la Lily House.

Altri semi furono inviati alle serre di Syon Park e da quel momento si scatenò una gara in guanti bianchi tra appassionati di giardinaggio, come il duca di Devonshire e il duca di Northumberland, per chi fosse il primo a coltivare e a far fiorire la Victoria regia. Grazie alle amorose attenzioni di Paxton, la Victoria amazonica crebbe così rapidamente e in tali

dimensioni che fu necessario costruire una serra più grande. Il duca di Devonshire vinse la gara, anche se di poche misure. La prima ninfea fiorì l’8 novembre del 1849; uno dei primi fi ori fu reciso e inviato alla regina a Windsor. Ovviamente Vittoria ne fu deliziata. Da allora la Victoria regia divenne il fiore di serra più ambito da tutti gli orti botanici e dalle serre aristocratiche d’Europa.

La Great Stove e la serra delle ninfee furono abbattute nel 1920, triste conseguenza dei disastri della guerra, la Prima guerra mondiale. La richiesta dei duchi di Devonshire al governo di guerra per l’esenzione dal razionamento di carbone allo scopo di tenere in vita la serra venne respinta. Nell’inverno del 1917 la maggior parte delle piante morirono; dopo la guerra fu deciso di non sostituirle. Nel 1920 occorsero cinque esplosioni di dinamite per mettere fine alla straordinaria vita della Great Stove. Qualcuno scrisse che la sua fine segnò una svolta nella storia delle serre.

È pur vero, tuttavia, che la seconda metà dell’Ottocento e anche il XX secolo furono indelebilmente segnati, come si vedrà, dalle straordinarie intuizioni di Joseph Paxton riguardo sia a spazi pubblici sia a edifici privati.

Nelle pagine precedenti: Una veduta della Burggarten Palmenhaus, nel cuore di Vienna, creazione dell’architetto Friedrich Ohmann (1858-1927). Sul sito dell’ottocentesca Serra di Rémy, abbattuta pochi anni prima, nel 1905 Ohman, tra i fondatori del movimento della Secessione Viennese e ormai artista affermato, costruì un imponente edificio in puro Jugendstil, dove l’imperatore Francesco Giuseppe I trascorreva le ore di svago dedicandosi alle sue piante.

Nella pagina a fianco e in basso: Le eleganti figure e le decorazioni Jugendstil che ornano la porta d’ingresso alla Burggarten Palmenhaus, e un particolare della serratura. Trasformata parte in un luogo di ricovero per le piante in inverno, parte in una Casa delle Farfalle e parte in un caffè-ristorante, la Palmenhaus è uno dei luoghi più amati e frequentati dai viennesi.

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Il Crystal Palace e dintorni

Un’incisione ripresa da tutti i giornali dell’epoca mostrava la fi glioletta di Joseph Paxton, Annie, ritta su una foglia di Victoria regia galleggiante. L’immagine impressionò talmente il pubblico e gli scienziati di tutta Europa che nel giro di pochi anni si cominciarono a costruire serre per la ninfea gigante nei più importanti centri botanici d’Europa. A Kew fiorì finalmente nel 1850, a Gand, la prima sul Continente, nello stesso anno, a Amsterdam nel 1859, a Leida nel 1872. Qui si contarono oltre 30.000 visitatori venuti ad ammirare il fenomeno di quella pianta in grado di sostenere il peso di un essere umano. Non immaginavano che il segreto stesse nell’estrema robustezza del sistema di interconnessione delle nervature radiali con quelle trasversali della pagina inferiore della foglia.

Il disegno della sua struttura avrebbe ispirato a Paxton quella del suo capolavoro, il Crystal Palace di Londra. Paxton pensava, infatti, che le piante fossero i migliori modelli di ingegneria. Dopo anni di sperimentazioni con le serre di Chatsworth e di altre tenute, il giardiniere avrebbe potuto finalmente sfruttare tutte le sue conoscenze in fatto di tecniche di costruzione innovative, moduli prefabbricati di ferro, lastre di vetro piano, per costruire in breve tempo il superbo edifi cio che fece stupire tutta Europa. La vicenda è nota.

Nel 1850 la Commissione reale, presieduta dal principe Alberto, incaricata di organizzare la Great Exhibition, la Grande Esposizione Universale per il 1851, si trovava in una fase di stallo. Una gara internazionale per il progetto di un edificio che potesse ospitarla aveva prodotto 245 disegni, nessuno dei

quali fu giudicato adatto, tranne forse pochi, ma con tempi di realizzazione troppo lunghi. Inoltre c’erano state proteste e interrogazioni parlamentari sui danni irreparabili che un edificio stabile in muratura avrebbe potuto arrecare a Hyde Park, cuore verde della città, l’area prescelta per l’esposizione.

Un membro del Parlamento, collega di Paxton, gli parlò del problema e gli chiese un progetto. Fortemente spinto da Henry Cole, l’uomo che pochi anni dopo avrebbe costruito sull’area dell’esposizione il Victoria and Albert Museum, Paxton accettò la sfida. Ebbe pochissimi giorni per portarlo a termi-

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ne. Lo si vide disegnare sul retro di una carta assorbente mentre partecipava a un importante consiglio di amministrazione (il prezioso documento è oggi conservato al Victoria and Albert Museum), e l’indomani consegnò il suo progetto: una versione ampliata della Lily House di Chatsworth, semplice da erigere e da smontare, di costi contenuti. Si trattava di una costruzione, tutta in ghisa e vetro, composta di elementi standardizzati, che ne permettevano il montaggio in sole 17 settimane. Basato su elementi quadrati modulari, il palazzo di vetro era praticamente ampliabile in ogni direzione. Copriva un’area di 564 x

140 metri, per un totale di 93.000 metri quadrati, ed era alto oltre 30 metri; 3.300 colonne di ghisa, collegate da 2.224 travi pure di ghisa, sostenevano la costruzione coperta da 300.000 lastre di vetro. Vi lavorarono 2.000 uomini, che lo costruirono in otto mesi. Il pubblico passeggiava all’ombra degli alberi di Hyde Park, che erano stati salvaguardati, sotto l’enorme volta trasparente e ammirava sia la cattedrale di vetro sia le centinaia di padiglioni di espositori provenienti dai Paesi più lontani del mondo. L’esposizione fu un successo. Per il suo promotore, il principe consorte, per l’industria britannica che vi aveva

A fianco: La candida serra del Golden Gate Park di San Francisco, in California, finita di costruire nel 1879, è il più antico edificio del parco e una delle prime serre pubbliche negli Stati Uniti. Nel 1875 lo stravagante uomo d’affari, il più ricco della California, James Lick (1796-1876), ordinò a una fabbrica inglese una serra per la sua tenuta di San José, ma morì prima che le strutture prefabbricate, spedite lungo la rotta di Capo Horn, potessero raggiungere San Francisco. Dopo alcuni passaggi di proprietà, il Conservatory of Flowers (questo il nome ufficiale) entrò a far parte del Golden Gate Park, che era stato donato da Lick alla cittadinanza di San Francisco. Mentre i prefabbricati e le colonne erano in ghisa e ferro battuto, il resto dell’edificio fu costruito e finemente decorato in legno, materiale di cui la California abbondava. Quando la serra fu aperta al pubblico, i visitatori poterono ammirare, tra le piante rare e quelle tropicali, anche una Victoria amazzonica, allora l’unico esemplare conosciuto negli Stati Uniti.

Nelle pagine seguenti: Dai prati verdeggianti di uno dei più grandi orti botanici del mondo, quello della Libera Università di Berlino-Dahlem, si possono ammirare in distanza i profili eleganti delle serre

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che fanno da corona alla grande Serra tropicale.

dispiegato tutta la sua potenza, per Paxton, il visionario, che Vittoria nominò cavaliere per i servigi resi al Paese.

Considerato una meraviglia dell’architettura moderna, Il Crystal Palace sollevò ovunque un grande entusiasmo. Nasceva l’estetica del vetro e dell’acciaio. Il Crystal Palace fu un momento cruciale nella storia delle grandi serre. Fu un punto di arrivo e un punto di partenza. Un punto d’arrivo perché era il frutto di venti anni di sperimentazioni e applicazioni dei prefabbricati in vetro acciaio. Un punto di partenza perché sarebbe diventato il modello per innumerevoli costruzioni sparse in tutto il mondo.

Negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo la passione per le serre aveva contagiato molte delle ricche città inglesi protagoniste dello sviluppo industriale del Paese, che vedevano nell’edificio di ferro e vetro un simbolo di modernità e di grandezza. Si assisteva in quegli anni a un importante fenomeno che avrebbe provocato dei mutamenti nelle abitudini di vita dei cittadini. I parchi privati si aprivano al pubblico e con loro le serre, ma soprattutto se ne progettavano di nuovi destinati ad abbellire le città. E il pubblico trovò nuovi spunti di interesse. In un mondo dove solo una minoranza poteva permettersi lunghi viaggi, dove il cinema non era neppure immaginabile, la fotografia era ai suoi esordi e tutta l’informazione era affidata alla carta stampata e all’illustrazione, la visita a uno zoo o a una serra doveva apparire come un portale aperto su un mondo sconosciuto e infinitamente bello. Se da una parte, con la costruzione di queste magnifiche cattedrali di vetro, il potere voleva mostrare i suoi muscoli, dall’altra il

pubblico manifestava un genuino interesse per questo nuovo mondo. Sono numerose le immagini di visitatori in paziente attesa per entrare in un parco e visitare una serra.

Uno dei primi esempi di serre aperte al pubblico in Inghilterra furono quelle di Sheffield. Nel 1833, in questa città che oggi conta al suo interno 200 tra parchi e giardini e 2.500.000 piante, fu fondata la Sheffield Botanical and Horticultural Society, con un capitale iniziale di 6.000 sterline, da sottoscrivere con 300 azioni di 20 sterline l’una per l’acquisizione di un terreno dove far sorgere dei giardini. Stupisce scoprire che l’ingresso ai futuri giardini sarebbe stato riservato agli azionisti e alle loro famiglie, più un “estraneo” per azione, ammesso sottoscrivendo la somma annuale di 10 scellini e 6 pence. I giardini furono disegnati da un grande giardiniere, Robert Marnock, scelto attraverso un concorso. Un secondo concorso nazionale, della cui giuria faceva parte anche Joseph Paxton, impegnato in quegli anni nella realizzazione della Great Stove, venne indetto per il progetto delle serre.

La costruzione fu affidata a un architetto locale, Benjamin Broomhead Taylor. Il risultato fu un complesso di edifici di notevole eleganza e tecnicamente all’avanguardia. I Paxton Pavilions, come furono chiamati localmente, consistevano, secondo uno schema palladiano, di un enorme padiglione centrale e di due più piccoli collegati tra loro da serre dotate di copertura “ridge and furrow”. La copertura dei padiglioni era costituita da cupole in vetro e ferro battuto sorrette da eleganti colonne esterne in pietra concia, che aggiungevano armonia all’insieme.

Nella pagina a fianco: La facciata, spoglia e simile a quella di una basilica, della Serra subtropicale, costruita nel 1909, tra le più antiche dell’Orto botanico di Berlino-Dahlem. La visita a questa serra è un viaggio attraverso la flora del Mediterraneo e delle isole Canarie, particolarmente affascinante in primavera e all’inizio dell’estate, quando le piante sono in piena fioritura. Insieme a loro, convivono grandi felci arboree delle regioni montuose subtropicali.

Nelle pagine seguenti: l’interno della Große Tropenhaus, la Serra tropicale di Berlino-Dahlem, edificata nel primo decennio del Novecento. All’epoca fu considerata un esempio di architettura all’avanguardia, grazie alla struttura autoportante che conferiva leggerezza e al tempo stesso solidità all’insieme. Con un volume di 40.000 metri cubi, 60 metri di lunghezza e 26 metri di altezza, è una delle più grandi al mondo. Esemplari i restauri a cui è stata sottoposta tra il 2005 e il 2008, che hanno consentito un risparmio energetico del 50%. Tra le piante tropicali che vi sono raccolte (circa 22.000) si annoverano un bambù gigante e la Welwitschia mirabilis dell’Africa meridionale, estremamente longeva (può anche raggiungere i 2.000 anni) e dalle caratteristiche assai peculiari.

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Sopra: Simile a un merletto, è l’aggraziata struttura del conservatory annesso alla casa di famiglia degli Horniman, produttori del celebre tè, a Croydon (Londra). Costruita nel 1890, e caduta in rovina, venne restaurata negli anni Ottanta del Novecento e rimontata nel sobborgo di Forest Hill, nei giardini del Museo etnografico Horniman, fondato nel 1901 da Frederick John Horniman.

Nella pagina a fianco: Il minuscolo fiore di un Echinodorus cordifolius fotografato nella Serra della Victoria amazonica dell’Orto botanico della Libera Università di Berlino-Dahlem. È una pianta originaria delle zone umide del Messico e degli Stati sudorientali degli Stati Uniti, utilizzata negli acquari.

Danneggiati col trascorrere del tempo, sono stati superbamente restaurati nel 2005, e oggi le belle cupole possono scintillare al sole come nel lontano 1836 quando, all’apertura, furono visitati in quattro giorni da 12.000 persone.

Fu poi la volta dei Giardini botanici della ricca Birmingham. Il progetto fu disegnato da John Claudius Loudon fin dal 1829, poi l’immaginifico architetto pensò a una serra con una meravigliosa cupola di cui rimane il disegno, rifiutato però dagli oculati amministratori della città in favore di un piano meno costoso. I giardini vennero aperti al pubblico

nel 1832, mentre la serra tropicale fu completata due decenni dopo; ospitava e ospita tuttora piante rare e magnifiche, compresa la Victoria regia.

Nel 1841 anche i giardini di Kew furono aperti al pubblico. Nel progettare il Great Conservatory di Chatsworth Joseph Paxton era stato assistito da un brillante architetto che aveva firmato i piani di costruzione della serra, Decimus Burton (1800-1881), anch’egli estimatore delle possibilità fornite dall’uso del ferro e del vetro. Nel 1844 gli venne affidato un compito prestigioso: la costruzione di una serra calda nei giardini di Kew.

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Figura eclettica, Burton aveva già dato eccellenti prove di sé nella costruzione di molti edifici londinesi, tra cui il primo giardino zoologico, il Colosseum e molte ville in Regent’s Park, il Charing Cross Hospital, numerose chiese, senza contare una serie di interventi negli stessi giardini di Kew. Memore della lezione di Chatsworth, nel giro di quattro anni costruì la Palm House, a quei tempi la serra più grande del mondo. Burton si avvalse della collaborazione del celebre Richard Turner (1798-1881), industriale del ferro, costruttore navale e pioniere nella fabbricazione di serre. Fu Turner a suggerire l’uso di un baglio in ferro, comunemente utilizzato per sostenere i ponti nella costruzione navale. Si trattava di una trave a H, curvata a schiena di mulo, capace di estendersi da un estremo all’altro della copertura senza bisogno di supporti intermedi, in modo da offrire gli spazi necessari alla crescita delle palme. La serra venne così ad assumere la forma di uno scafo capovolto. Il suo profilo inconfondibile con l’elegante cupola che si staglia nel cielo è diventato un’icona dei giardini. Per ricreare l’umidità tropicale, nel basamento furono installate delle caldaie per riscaldare l’acqua dentro tubi che correvano sotto griglie metalliche; sopra queste venivano disposte le piante dentro grandi contenitori di terracotta o di legno di teak.

Il visitatore odierno troverà nell’ala sud le piante più preziose provenienti dall’Africa, dalla Dypsis decaryi, la palma triangolo, alla Hyophorbe lagenicaulis , la palma bottiglia, rarissima in natura, accanto a molte Cicadacee dal Sudafrica – un esemplare delle quali, portato a Kew nel 1775, è la più antica pianta in vaso del Regno Unito – ad arbusti di caffè e

alla pervinca del Madagascar, di cui sono note le proprietà antileucemiche.

L’ala sinistra è popolata di piante provenienti dalle foreste tropicali asiatiche, australiane o del Pacifico, come l’albero del pane, il jackfruit, il frutto più grande del mondo, lo spinoso e leggendario Durian indonesiano, la spettacolare vite di giada che, coltivata per anni a Kew, ha prodotto semi solo nel 1995.

Il transetto centrale (in epoca vittoriana molti dei termini architettonici relativi alle serre erano presi a prestito dall’architettura ecclesiastica), sovrastato dalla grande cupola, è riservato alle palme più alte, tra cui la Ravenea moorei, originaria delle isole Comore, forse l’unico esempio della specie nel Regno Unito. Una visita alla Palm House è oggi un’esperienza significativa che impone una riflessione sul futuro del pianeta: in natura circa un quarto delle palme che crescono in questo ambiente lussureggiante sono minacciate, come lo sono circa metà delle Cycadacee, i “fossili viventi” dei Tropici.

Nel 1852 Burton, sempre in collaborazione con Richard Turner, creava una serra per ospitare la Victoria regia da poco arrivata dall’Amazzonia, la Waterlily House, una struttura quadrata dentro la quale era installata una vasca circolare del diametro di 11 metri. Malgrado altre varietà di ninfee e lotus prosperassero nella nuova funzionale serra, la Victoria regia non ci si trovava bene, tanto che nell’arco di sei anni la pianta fu trasportata altrove. La Waterlily House fu destinata ad altre coltivazioni, e solo nel 1991 fu riconvertita alla sua funzione originaria. Grazie alla tecnologia moderna è l’ambiente più caldo e più umido dei Kew Gardens.

Nelle pagine precedenti: Il conservatory del Giardino botanico di New York, nel Bronx – dedicato a Enid A. Haupt, dopo che la filantropa ne aveva finanziato i restauri nel 1978 – si mostra in tutta la sua vittoriana compostezza. All’origine della sua fondazione ci sono il sogno e la volontà di Nathaniel Lord Britton (1859-1934) professore di botanica e geologia alla Columbia University di New York e tra i fondatori dell’Orto botanico della citta. Nel 1888, in viaggio di nozze in Inghilterra con la moglie Elizabeth, anche lei botanica, poté ammirare le magnifiche serre di Decimus Burton ai Giardini di Kew e decise che anche la sua città ne meritava una altrettanto bella. Di ritorno a New York, convinse alcuni dei più eminenti cittadini a finanziare l’impresa, che fu affidata a William R. Cobb, capo progettista della Lord & Burnham, storica azienda costruttrice di serre fin dalla prima metà dell’Ottocento. Tra i finanziatori figuravano, tra gli altri, i nomi di Vanderbilt, J.P. Morgan e Carnegie.

Nella pagina a fianco: Un esemplare di Strongylodon macrobotrys fotografato nelle serre dell’Enid A. Haupt Conservatory. È un rampicante originario delle foreste tropicali delle isole Filippine. Per il suo bellissimo colore, che varia tra il turchese e il verde, è chiamato anche Vite di giada. I fiori vengono portati da lunghi racemi, che possono raggiungere i tre metri di lunghezza, e sono impollinati dai pipistrelli. Allo stato selvatico la pianta è minacciata a causa della deforestazione nelle Filippine.

Nelle pagine seguenti: Le serre dell’Enid A. Haupt Conservatory viste attraverso le vetrate dell’edificio principale.

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Nelle pagine precedenti: La città di Ginevra ha una lunga tradizione botanica, da quando il grande scienziato Augustin Pyramus de Candolle fondò nel 1817 l’Orto botanico dell’Università, dove teneva la cattedra di botanica. L’Orto, il più grande della Svizzera (28 ettari) possiede alcune serre di grande interesse, una delle quali è il Jardin d’Hiver, costruito nel 1911 e restaurato nel 1998. È una serra tropicale, che ospita palme, oltre a piante utili quali caffè, vaniglia, pepe, cacao, canna da zucchero, cotone, ananas e papaya, e piante ornamentali, come la sensitiva e l’albero del viaggiatore (Ravenala madascariensis).

In basso: i due architetti che hanno fatto la storia dei Kew Gardens. Da sinistra, Decimus Burton (18001881), autore della Palm House, della Temperate House, del Victoria Gate e della Waterlily House; Sir William Chambers (1723-1796), il raffinato artista anglo-svedese che, oltre all’Orangery, arricchì i giardini di ben 25 edifici decorativi, introducendo il gusto per l’arte cinese e le cineserie.

Nella pagina a fianco: il Jardin d’Hiver nel celebre giardino creato dall’uomo d’affari e filantropo Albert Kahn, nella sua tenuta di Boulogne-Billancourt, vicino a Parigi.

Le piante affl uivano ai giardini sempre più numerose da tutti gli angoli dell’Impero; fu così necessario costruire un’altra serra. Nel 1859 Decimus Burton progettò la Temperate House, un edificio che copre un’area di 4.880 metri quadrati, grande due volte la Palm House. Avrebbe ospitato le piante provenienti dalle regioni a clima temperato. Fedele ai suoi criteri di funzionalità ed eleganza, l’architetto creò un corpo centrale a parallelepipedo chiuso alle estremità da due ottagoni. Burton non visse fino a vedere il suo progetto completato, ma la Temperate House continua a essere una delle serre più visitate di Kew grazie alle piante rarissime che ospita, quali l’Encephalartos woodii, una cicadacea proveniente dal Natal, oggi estinta in natura, o l’imponente Jubaea chilensis, una palma nativa del Cile, che ha raggiunto i 16 metri di altezza e sta ancora crescendo.

Edimburgo, Glasgow, Manchester, tutte le più importanti città manifatturiere di Gran Bretagna ebbero le loro serre nei loro giardini pubblici. Con grande gioia del pubblico.

Sul Continente

Le idee circolano. Negli anni 1820-1850 il pubblico che si occupava di orticoltura leggeva le opere di John Claudius Loudon o riviste di giardinaggio come quella fondata da Joseph Paxton. L’Inghilterra diventò un passaggio obbligato, quasi iniziatico, per tutti coloro che si occupavano di serre. Orticoltori, giardinieri, architetti, proprietari terrieri, industriali attraversarono la Manica per visitare gli impianti e le serre non solo della Corona e dell’aristocrazia, ma anche quelle all’avanguardia dei grandi vivaisti, spesso impressionanti per dimensioni. L’architetto francese Charles Rohault de Fleury (1801-1875) che, nonostante la giovane età, aveva la carica di “archictecte du Jardin des Plantes”, cioè architetto responsabile del Museo di Storia Naturale di Parigi – la più antica istituzione scientifica francese, la cui fondazione risale al XVII secolo – compì un viaggio di studio in Inghilterra nel 1833.

Da quel viaggio, di cui lasciò un interessante resoconto, accompagnato da schizzi e disegni, da cui traspare tutta l’ammirazione per l’avanzata tecnologia inglese, trasse spunto per la costruzione di una grande serra calda per il Jardin des Plantes, che come racconta lui stesso: “potesse rispondere all’importanza di questo grande istituto scientifico. Le vecchie serre del Jardin des Plantes cadevano in rovina ed erano insufficienti per i bisogni sempre crescenti delle belle collezioni che sono destinate a raccogliere”. Preso da entusiasmo, Rohault de Fleury progettò un insieme di padiglioni e serre curve di ferro e vetro, vanto della città di Parigi, di cui vide realizzata solo una parte, che fu tuttavia lodato dal duca di Cavendish e da

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Nelle pagine precedenti: L’interno del jardin d’hiver nel giardino di Albert Kahn stupiva i visitatori per la raffinata eleganza. Tra questi vi furono regnanti, premi Nobel della scienza, della letteratura e della pace, scrittori e artisti, da Einstein al poeta Tagore, da Anatole France a Thomas Mann, da Rudyard Kipling a Henri Bergson, tutti amici di Kahn.

Sopra: La facciata classicheggiante della serra di Villa Giorgi di Vistarino, a Rocca de’ Giorgi, nelle colline dell’Oltrepò Pavese. Fu fatta costruire all’inizio del Novecento da Anna Vimercati Giorgi di Vistarino. L’ampio parco che la circonda fu disegnato da Achille Majnoni (18551935), architetto personale di re Umberto I di Savoia e autore degli inteventi alla Villa Reale di Monza.

Joseph Paxton durante il loro Grand Tour sul Continente. Mezzo secolo dopo, le serre del Jardin sarebbero diventate il luogo preferito del pittore Henri Rousseau, il Doganiere, affascinato da quelle piante tropicali che avrebbe restituito con grande poesia nei suoi quadri: “Quando entro nelle serre e vedo le piante che vengono dai Paesi esotici, mi sembra di essere in un sogno”. Chissà se il timido Doganiere avrebbe apprezzato la Serra delle foreste tropicali umide, costruita nel 1937 in stile Art Déco da René Berger, e gli straordinari interventi per rinnovare il sogno compiuti nel 2005?

In Germania, uno tra i primi ad accogliere e mettere in pratica le innovative tecniche di costruzione inglesi fu l’architetto Karl Ludwig von Zanth (1796-1857), a cui toccò l’arduo compito di dar vita ai capricci del suo re.

Erano state Le mille e una notte e il gusto per l’Oriente, dall’Arabia alla Cina, allora imperante, a far nascere in Guglielmo I re del Württemberg il desiderio di una nuova residenza estiva di stile orientale da costruirsi nei dintorni di Stoccarda. La richiesta del re fu precisa, come ricordò lo stesso Zanth: “Una residenza e serre ornamentali nelle stile more-

sco”. Zanth, che aveva studiato l’architettura dei califfi Ommiadi in Andalusia e si era entusiasmato per gli splendori dell’Alhambra di Granada, si abbandonò alla sua fantasia per edificare La Wilhelma. Nel complesso i lavori proseguirono dal 1837 al 1853. Il corpo centrale della residenza fu costruito in muratura, nello stile di una villa rinascimentale italiana, ma Zanth giocò con la policromia della pietra, adottò l’arco a ferro di cavallo e coprì l’edificio con una enorme cupola ottomana di rame dorato, purtroppo sostituito da un tetto di vetro dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Il compito più difficile riguardò le lunghe serre annesse all’edificio in muratura, chiuse da due padiglioni a cupola, poiché non c’erano precedenti storici di strutture moresche in vetro e ferro. Zanth usò tutti i mezzi allora messi a disposizione dalle nuove tecnologie, vetri piani, ferro, ghisa, elementi

prefabbricati, per creare pilastri, archi, griglie e cornici elaboratamente decorati secondo lo stile arabo. Iniziata nel 1842, la costruzione delle serre si concluse nel 1848, giusto in tempo per i festeggiamenti in occasione delle nozze del principe ereditario del Württemberg con la principessa Olga di Russia. Quanto al re sognatore, Guglielmo I non risedette sempre a La Wilhelma, ma permise solo a pochissimi, e solo su suo permesso personale, di visitarla. Se Vittoria regina d’Inghilterra poteva esibire al mondo le serre di Kew, il re del Belgio non poteva essere da meno. Leopoldo II del Belgio (1835-1909) era un personaggio ricchissimo, grazie alle miniere e alle piantagioni che possedeva personalmente nel Regno del Congo, e assai discusso per il trattamento infame a cui erano sottoposti gli schiavi neri nelle sue proprietà. Oggi si preferisce ricordarlo per la sua passione botanica e per le

In basso: La serra dei Giardini di Castello, a Venezia, una vista inaspettata nella città lagunare. Nota storicamente come Serra Margherita, fu costruita nel 1894 in concomitanza con l’Esposizione Internazionale d’Arte. Il “tepidarium in vetro e ferri” avrebbe ospitato le palme e le altre piante decorative destinate agli spazi espositivi. Negli anni successivi divenne sede di deposito e di attività dei giardinieri comunali. Dismessa negli anni Novanta, la piccola serra (ha una superficie di 180 metri quadrati e un’altezza di 6 metri) è tornata a nuova vita nel 2006: oltre che serra, è diventata un accogliente caffè e spazio per incontri culturali. Nelle pagine seguenti: la serra di Palazzo d’Arco, a Mantova. Un’idea brillante quella di trasformare negli anni Venti la rimessa delle carrozze dello storico edificio, uno dei gioielli di Mantova, in una serra dove, più che ai piaceri offerti dalle piante, ci si dedica a quelli della conversazione. Tutto appare gradevole in questo spazio: la luce, la vista sul giardino, la vasca con i pesci rossi e le tartarughe costruita intorno a un pilastro di sostegno, l’agile tuffatrice in bronzo, copia ottocentesca del marmo custodito al Museo Nazionale di Capodimonte, a Napoli.

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Nelle pagine precedenti: La serra della Villa Negrotto Cambiaso, oggi sede del Comune, nel parco di Arenzano. Fu costruita nel 1931 dall’architetto Lamberto Cusani, il quale, per il progetto, si ispirò a modelli ottocenteschi francesi e inglesi di serre in ferro e vetro. A cento anni dalla loro invenzione, la serra di Cusani non rappresentava più una novità tecnologica, ma si inseriva comunque perfettamente, ieri come oggi, nell’ambiente circostante, dove il verde cupo degli alberi mette in risalto le linee morbide della costruzione.

Nella pagina a fianco: La Estufa Fria è il nome di un pittoresco giardino, sorto all’inizio del Novecento dove prima c’era una cava, e della serra omonima, situati nel più grande parco di Lisbona, il Parque Eduardo VII. La serra, quasi spartana nella sua semplicità, fu costruita nel 1933 dall’architetto e pittore Raúl Carapinha (1876-1957). Nel 1975 altre due serre furono istituite nel giardino, la Estufa Quenta e la Estufa Doce, destinate alla mostra permanente di piante tropicali ed equatoriali.

magnifiche serre che fece costruire nel parco di Laeken, la sua residenza estiva nei dintorni di Bruxelles. Le serre di Laeken sono belle al di là di ogni immaginazione. In un’epoca in cui si costruivano serre eccezionali, Leopoldo creò un complesso di monumenti in vetro unico nel suo genere. Una città di vetro, o meglio un gigantesco palazzo di vetro con sale e saloni collegati tra di loro da corridoi, scale e gallerie. Tuttora proprietà privata della famiglia reale belga, sono aperte al pubblico solo per pochi giorni a primavera.

Salito al trono nel 1865, durante il suo regno Leopoldo portò le dimensioni del parco di Laeken da 70 a 200 ettari e affidò all’architetto di corte, Alphonse Balat (1818-1895), il compito di realizzare il suo sogno di un’eterna primavera. Balat compì il miracolo. Nel parco esisteva già una splendida orangerie costruita nel 1817. Dietro l’orangerie venne aperto un ampio corridoio, la Serra delle Camelie (fiore preferito di Leopoldo II) che conduceva alla grande rotonda del Giardino d’Inverno, costruita nel 1876 e oggi la più grandiosa in Europa. Un diametro di 60 metri e un’altezza al sommo della cupola di circa 30 metri. Colonne di marmo alte 18 metri sostengono un esoscheletro di nervature ricurve in ferro battuto che incastonano le lastre di vetro e formano la volta superiore. Lo spazio centrale delimitato dalle colonne ha il pavimento rivestito di piastrelle a mosaico per essere usato come sala da ballo, una magnifica sala da ballo con fontane su ogni lato e grandi palme tutt’attorno. Negli anni successivi Leopoldo si fece costruire una straordinaria varietà di ambienti, ognuno dei quali con un nome, come la Serra Sala da Pranzo, la Serra di Diana, la Serra del Teatro, o

la Serra del Congo. Venne scavata una lunga galleria sotterranea, poi coperta dal vetro, che passava sotto una strada di servizio, per poi risalire la collina e collegarsi a un altro gruppo di edifici, culminante nella magnifica Serra delle Palme. Nella sua stravaganza, Leopoldo II chiese a Balat di edificare anche una chiesa in ferro e vetro da usarsi regolarmente per il culto. In tutto si trattava di oltre 40.000 metri quadrati di vetro, a protezione di 20.000 metri quadrati, nei quali erano stati creati artificialmente climi diversi.

Allo stupore suscitato dalle aeree architetture di vetro si aggiunge quello per l’incredibile varietà di piante che qui sono state raccolte. Le serre di Laeken sono un tripudio di colori, forme e profumi. Sono i colori sgargianti della medinilla nella Grande Galleria, delle azalee nell’omonima serra, delle bougainvillee rosa della Serra di Diana, dei gerani disposti a spalliera e delle fuchsie che pendono dal soffitto nella Galleria dei Pelargonium e costringono il visitatore ad alzare lo sguardo per ammirarle. Sono le forme degli alberi della foresta che popolano fitte la Serra del Congo, o delle gigantesche palme le cui foglie flabellate hanno ispirato il disegno della volta della Serra delle Palme. Accanto a Chamaerops, Washingtonia e Livinstona, la serra rigurgita di kentie, banani e alberi della gomma. Forme e colori che sembrano sfidare il cielo basso e grigio cantato da Jacques Brel. Nel 1894 le serre di Laeken vennero illuminate tutte per la prima volta con la luce elettrica. Ancora oggi, ogni volta che di notte il castello di fiaba si illumina, si rinnova una magia.

A poco a poco tutta l’Europa, capitale dopo capitale, si popolò di serre.

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Nelle pagine precedenti: Una delle grandi serre del Palais de Plantes creato a Meise, nei sobborghi di Bruxelles, in Belgio. Il Palais des Plantes è un punto di attrazione dell’enorme Giardino botanico nazionale del Belgio (92 ettari e 18.000 piante), il cui scopo dichiarato è “accrescere e diffondere la conoscenza delle piante” e “contribuire alla conservazione della biodiversità”. Il Palais è composto di tredici serre, distribuite sulla superficie di un ettaro, dove le piante sono raccolte per tipo di clima o secondo un criterio tematico. Così il visitatore potrà incantarsi nella Serra della Primavera, dove rododendri e camelie fioriscono quando fuori è inverno, per poi incontrare la Serra dell’Evoluzione, un panorama di 5.000 anni di evoluzione del regno vegetale, la Foresta tropicale umida, la Foresta umida di montagna, la Serra mediterranea. Vengono poi Mabundu – termine in lingua kigongo che definisce i frutti maturi al punto giusto –, serra delle piante utili tropicali, la Serra delle Ninfee giganti, la Serra secca o dei deserti, e infine la Serra del Monsone e delle Savane.

Nella pagina a fianco: Frutti di papaya fotografati nella serra Mabundo del Palais des Plantes, a Meise. La Carica papaya è originaria del Centro America, ma è ormai coltivata in molti altri Paesi, soprattutto in Africa e Asia. È una pianta molto produttiva e allo stato naturale i suoi frutti possono raggiungere i 9 chilogrammi.

Esercizio preliminare alla realizzazione delle monumentali serre di Laeken, nel 1854 Alphonse Balat aveva costruito a Bruxelles, sul sito del Parc Léopold, una piccola serra per una delle prime Victoria amazonica del Continente, chiamata Serre Victoria o Serre couronnée dalla corona in ferro battuto che la domina. La serra ebbe vicende diverse, senza mai crollare: verso il 1941 fu traslocata per la prima volta nel Giardino botanico di Bruxelles, per poi trovare la sua sistemazione attuale nel magnifico Giardino botanico nazionale di Meise.

In Francia, si continuò a costruire serre. Verso la fine del secolo videro la luce alcune tra le più interessanti strutture del Paese. A Lione, Claude-Marius Vaïsse, un sindaco che aveva a cura il benessere dei concittadini, creò un parco grandissimo per “donare la natura a quelli che non l’hanno”. Nasceva il Parc del la Tête d’Or; a partire dal 1865, l’architetto Gustave Bonnet, che ne era il direttore, diede inizio alla costruzione di uno dei più grandi complessi di serre in Francia, con una superficie di 6.500 metri quadrati. La più estesa, formata da cinque “cappelle” giustapposte, sarebbe stata costruita tra il 1877 e il 1882 dall’architetto Théodore Demonget.

Parigi, la Ville Lumière, la città più alla moda di Europa, si accingeva a celebrare il passaggio nel XX secolo e la Grande Esposizione Universale. Mentre nel cuore della città si demoliva per costruire la Tour Eiffel, simbolo della modernità, al Bois de Boulogne, nel bellissimo giardino creato nel 1761 per volontà di Luigi XV, fu costruito il complesso delle cinque Serres d’Auteuil. Ne è autore un grande architetto, Jean-Camille Formigé (1845-1926), a cui si devono alcuni impor-

tanti monumenti nella Francia della Belle Époque. Il Palmarium, noto anche come la Grande Serre, è un pezzo di bravura. L’imponente navata è divisa in tre zone climatiche: un giardino tropicale, caldo e umido, un palmeto, più secco, al centro, e una orangerie, più temperata. Le strutture in ghisa, che disegnano eleganti ogive, sono dipinte di un caratteristico verde-blu, il “bleu Formigé”.

Più a nord, in Danimarca, l’Orto botanico di Copenhagen si arricchì nel 1872 di una serra calda, costituita da un padiglione centrale di forma circolare con copertura a tronco di cono e lanterna, fiancheggiato da due serre di forma rettangolare. Il rigido clima invernale suggerì all’architetto Tyge Rothe (1834-1887) l’idea di doppi vetri con intelaiature di legno e la possibilità di riscaldare lo spazio interno ai pannelli per evitare il pericolo di condensa, dannoso per le piante, e far sciogliere la neve all’esterno. Sembra però che buona parte del progetto fosse dovuta al suo finanziatore, Johann Carl Jacobsen (1842-1914), fondatore della Birreria Carlsberg, che, appassionato di botanica e delle nuove architetture, aveva già fatto esperienze con una serie di serre annesse agli edifici della sua birreria. A cavallo del secolo, Jacobsen avrebbe fatto dono al suo Paese della splendida Gliptoteca, un involucro di vetro per contenere la sua biblioteca, la sua raccolta d’arte, la sua raccolta di piante. Si costruirono serre a Berlino, a Francoforte e a San Pietroburgo, poi scendendo a sud, nel 1877 si costruì a Madrid il Palacio de Cristal, splendidamente affacciato su un laghetto artificiale nel Parque del Retiro, opera dell’architetto Ricardo Velázquez Bosco. Avrebbe ospitato l’Esposizione Generale

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delle isole Filippine, una collezione di piante esotiche provenienti dalle ex colonie.

Anche l’Italia si dotò di grandi serre pubbliche: memorabili, tra le altre, quelle delle grandi istituzioni scientifiche, come l’Università di Pavia o la Società Toscana di Orticoltura, nata su ispirazione dell’Accademia dei Georgofili. Forse gli stretti legami della città con la colta e ricca colonia inglese che vi risiedeva ebbero qualche influenza sull’architetto Giacomo Roster (1837-1905), che iniziò a costruire la bella ed elegante serra-tepidarium della Società Toscana di Orticoltura nel 1874. L’edificio non aveva precedenti in Italia: con la sua navata centrale e le due laterali si ispirava infatti a quella della Royal Horticultural Society di Londra.

Roma si gloriò di due serre all’interno dell’Orto botanico, uno dei più belli e prestigiosi del Paese, sorto nell’ex parco della Villa Corsini, ceduta dalla storica famiglia allo Stato italiano quando Roma divenne capitale. La più antica, la cosiddetta Serra Corsini, fu la prima serra calda a essere edificata nel giardino; la Serra Monumentale, costruita nel 1877, suscitò la curiosità dei visitatori non solo per la sua vetrata a “marsupio”, ma anche per una gigantesca Euphorbia abyssinica che vi era ospitata.

A Caserta, nel Giardino inglese creato per volere della regina Maria Carolina d’AsburgoLorena, moglie di Ferdinando IV di Borbone, e per opera del botanico-giardiniere inglese

John Andrew Graefer verso il 1780, esistevano aranciere e serre in muratura, ma una sola con la copertura in vetro. Nel 1862, per allinearsi alle tendenze imperanti, e per soddisfare le esigenze di ricerca di Nicola Terracciano, botanico e direttore dell’Orto, si iniziò a costruire la Serra Grande, bella e misurata.

Anche nell’Orto botanico di Palermo, che oggi vanta 1.300 metri quadrati di serre, si conserva il ricordo dei Borboni nel nome della Serra Maria Carolina. L’edifi cio originale, in legno e riscaldato da stufe, fu ricostruito intorno al 1860 in ferro e ghisa dall’architetto Carlo Giachery (1812-1865), autore di celebri monumenti palermitani.

Fedele alla passione di tutti gli Asburgo per piante e giardini, Francesco Giuseppe I d’Austria volle celebrare il suo regno facendo dono ai sudditi di una grandiosa serra da costruirsi nei giardini imperiali di Schönbrunn sul sito del Giardino olandese, oggetto delle cure del nonno Francesco I. Avrebbe ospitato le collezioni imperiali arricchitesi dopo il viaggio di circumnavigazione del globo compiuto dal fratello dell’imperatore, l’arciduca Massimiliano I.

Il progetto fu affidato all’architetto di corte Franz von Sengenschmid che, prima di cominciare, fece il giro delle grandi serre in Europa, trovando poi ispirazione nella Palm House di Kew. Dopo due anni di lavoro, dal 1880 al 1882, l’edificio fu inaugurato con una fastosa cerimonia il 19 giugno dello stesso anno dall’imperatore in persona. Ammirata non solo da tutti i viennesi, ma anche dagli esperti venuti a esaminarla, la serra è uno straordinario edificio in doppio vetro contenuto e sorretto da possenti strutture in ghisa e ferro battuto, espressione della più moderna tecnologia del tempo. Con 45.000 lastre di vetro, 111 metri di lunghezza, 28 di larghezza e 25 di altezza, la Palmenhaus è la più grande serra del suo tipo nel Continente. L’ultima grande serra pubblica dell’Ottocento.

Il nuovo secolo si sarebbe aperto con le grandi serre dei Giardini di Berlino-Dalhem.

Nelle pagine precedenti: Nel 1987 il Palmengarten di Francoforte si è arricchito di un nuovo gioiello, il Tropicarium. Il progetto è dell’architetto Hermann Blomeier (1907-1986) che, prendendo spunto dalla natura, ha imitato il taglio trasversale di un cactus Cereus. È un complesso di sette serre principali (superfice 600 metri quadrati, altezza variabile tra 7,5 e 15 metri) e sei più piccole (superfice 220 metri quadrati e altezza tra 3 e 4,5 metri). A pianta stellare, formano pareti ad angoli di 45° e sono raggruppate in due moduli collegati tra loro. Il modulo a sud è dedicato agli ambienti secchi (semideserto, savana e piante grasse) mentre a nord si collocano gli ambienti a clima umido (foreste pluviali e monsoniche).

Nella pagina a fianco: l’interno luminosissimo di una delle sette serre del Tropicarium. L’acqua, che scorre anche nelle colonne di sostegno, è distribuita in funzione delle necessità idriche di ogni clima ricreato.

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In questa e nella pagina a fianco: L’interno e l’esterno della Serra mediterranea dell’Orto botanico di Ginevra. Ultimo edificio ad arricchire lo storico giardino, è stata costruita tra il 1979 e il 1987 da Jean-Marc Lamunière, una delle figure più prestigiose nel panorama dell’architettura elvetica. L’architetto, che ha studiato in Italia, si è ispirato per la costruzione a una chiesa rinascimentale. La serra è costituita da un corpo centrale, sormontato da una cupola a cui sono addossati tre edifici rettangolari più piccoli. Le superfici sono formate da pannelli di vetro che filtrano i raggi solari; molti sono apribili in modo da garantire un ricambio d’aria naturale. Una galleria circolare a otto metri di altezza consente di ammirare dall’alto le grandi Cactacee e le felci arboree.

Serre: un soggetto letterario

Con il Crystal Palace, Joseph Paxton aveva aperto la strada alla diffusione delle serre. Dopo il Crystal Palace, grazie ai costi ridotti dei materiali di costruzione prefabbricati, offerti su cataloghi specializzati, si costruirono serre di ogni tipo e per molti, se non per tutti. Se all’inizio del XIX secolo la serra privata è appannaggio di principi e re o della grande aristocrazia, nel corso degli anni diventa una conquista della grande borghesia emergente, e poi di quella media, della piccola nobiltà di campagna, del rettorato o del vicariato. La serra entra di prepotenza nella case della buona società, ne diventa un elemento indispensabile, svolge un importante ruolo. In genere è il prolungamento di uno degli ambienti esistenti, un salone, o una sala da biliardo. Quanto alle piante che la popolano, l’interesse del pubblico si è spostato dalla rarità delle piante raccolte al valore ornamentale delle stesse.

Il conservatory o jardin d’hiver, come preferirono chiamarlo i francesi, con un termine adottato anche dagli altri Paesi, apre nuovi spazi nella vita quotidiana. È il luogo del pranzo domenicale in famiglia, del five’o clock tea, dei piccoli concerti e dei balli, delle meditazioni solitarie, dei convegni amorosi, delle relazioni pericolose, dei drammi della gelosia, come mostrano le immagini di molte scene di vita di epoca vittoriana.

Entra di getto nella letteratura. Accende la fantasia degli scrittori, in particolare di quelli francesi, a partire da Balzac, che già in La pelle di zigrino (1831) descrive “ …una piccola serra, quasi un salotto pieno di fiori, a livello del giardino […] Gli occhi erano rallegrati dai vigorosi contrasti dei fogliami, dai colori dei cespugli fioriti e da tutte le fantasie della luce e dell’ombra. Mentre tutta Parigi si riscaldava ancora davanti ai melanconici focolari, i due giovani sposi ridevano sotto un pergolato di camelie, di lillà, di eriche.

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Le loro teste si alzavano liete sopra i narcisi, i mughetti e le rose del Bengala. In quella serra voluttuosa e ricca...”.

Se ne occupano Guy de Maupassant e Eugène Sue, scrittore quasi dimenticato, ma all’epoca popolarissimo autore di appassionanti romanzi d’appendice, dove la serra ricorre in più occasioni. Nei Misteri di Parigi (1842), il suo capolavoro, Sue dedica un intero capitolo al “Jardin d’hiver”, immensa e splendida “gabbia di vetro sottilissimo” dalle pareti rivestite di un’infi nità specchi. “Una spalliera di aranci, grossi come quelli delle Tuileries, e delle camelie della stessa grossezza, i primi carichi di frutti lucenti come tante mele d’oro sul verde lucido delle foglie, le seconde smaltate di fi ori porpo-

ra, bianchi e rosa, ricopre come una tappezzeria, tutta la superficie delle pareti […] Le note dell’orchestra, smorzate dalla distanza e dal sordo e allegro echeggiare della galleria, andavano a morire melodiosamente tra il fogliame immobile degli alti alberi esotici. Senza volerlo, tutti parlavano sottovoce in giardino; si sentiva appena il rumore leggero dei passi e il fruscio dei vestiti di raso; da quell’aria tiepida e lieve, anche se satura dei soavi profumi delle piante aromatiche, e da quella musica vaga e lontana, veniva un senso di dolce e molle abbandono a cui nessuno resisteva.

“Due amanti, felici, perché innamorati da poco, avidi di amore, di armonia e di profumi, non avrebbero potuto trovare, se si fossero

Nelle pagine precedenti: Giochi di bambini e giochi d’acqua nello spazio antistante una delle serre gemelle del grande parco urbano André Citroën, a Parigi, sorto sull’area dismessa dell’omonima industria automobilistica. Inaugurato nel 1992, questo parco ultramoderno, che si estende su una superficie di 14 ettari, è frutto della collaborazione di architetti e paesaggisti di fama, tra cui Patrick Berger e Gilles Clément. Delle due serre monumentali, alte 15 metri, larghe 15 e lunghe 45, luminosissime perché sostenute solo da una sottile struttura in acciaio, una funge da orangerie da ottobre ad aprile, mentre l’altra ospita piante a clima mediterraneo delle zone australi.

Nella pagina a fianco: Un esemplare di Bromeliacea fotografato nella serra tropicale umida del Princess of Wales Conservatory dei Kew Gardens.

Sotto: Una veduta della “collina di vetro”, come viene chiamato il Princess of Wales Conservatory, dedicato alla principessa Augusta del Galles (1719-1772).

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Nelle pagine precedenti: Nel crudo cielo invernale si esaltano le forme del Princess of Wales Conservatory, nato dal geniale progetto dell’architetto Gordon Wilson. Costruito per sostituire 26 vecchie serre fatiscenti, ospita sotto lo stesso tetto dieci differenti microzone climatiche. Il progetto è studiato in modo da ridurre al minimo il consumo di energia necessaria a far funzionare la serra, mentre l’inclinazione del tetto, che scende fino a terra, consente di sfruttare al massimo l’energia solare.

Sopra: Una delle ultime immagini che mostrano la Temperate House di Kew aperta. La grande serra vittoriana sarà chiusa fino al 2018 per una grande operazione di restyling.

Nella pagina a fianco: una Aechmea warasii, endemica del Brasile, fotografata nella Temperate House.

messi a sedere in qualche angolo ombroso di questo Eden, cornice più incantevole al fuoco iniziale della loro passione ”.

Per il Principe Djalma, il misterioso personaggio dell’Ebreo Errante, il più popolare romanzo di Sue, il jardin d’hiver è il luogo dove i misteri dell’India possono essere ricatturati sotto i cieli di Parigi.

In Madame Bovary (1856), Gustave Flaubert guida Emma a osservare con stupore e invidia la serra del castello della Vaubyessard, dove è stata invitata per un ballo: “Poi la signorina d’Andervilliers raccolse in un cestino alcuni pezzetti di panini dolci per portarli ai

cigni del laghetto, e tutti andarono a passeggiare nella serra dove piante strane, irte di peli, erano disposte a piramide, sotto vasi sospesi che, simili a nidi di serpenti troppo pieni, lasciavano ricadere dagli orli lunghi cordoni verdi intrecciati. L’aranciera, posta in fondo alla serra, conduceva, sempre al coperto, fino ai locali di servizio del castello”. Ed Emma passerà le sue tristi giornate a sognare a occhi aperti quella vita lussuosa che ha appena intravisto.

Ma è con Zola che si rinsalda il nesso tra eleganza, esotismo, lusso e sensualità. Nella serra di Casa Saccard (La Curée, 1871)

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Nelle pagine precedenti: Dal 2006 la Davies Alpine House, costruita accanto al Princess of Wales Conservatory, è diventata una delle attrazioni dei Kew Gardens. È considerata un modello di architettura sostenibile: è orientata in modo da cogliere la luce diretta del sole, ma senza surriscaldarsi; si fonda inoltre su un sistema di raffreddamento interno, senza uso di condizionamento d’aria, su un sistema di ventilazione efficiente e su un innovativo sistema di velatura a “ruota di pavone”, quasi simile a quello di uno yacht.

Nella pagina a fianco: Le vetrate coperte di neve viste dall’interno della Davies Alpine House, dove blocchi di rocce simulano l’ambiente alpino. Nel corso dell’anno vi vengono esposte a rotazione varietà di campanule, dianthi, piccole felci, elicrisi, lavande, primule, sassifraghe, timi, tulipani e verbaschi, insieme a specie meno note. Il pezzo raro è rappresentato dalla Tecophilaea cyanocrocus, il croco giallo del Cile, dai fiori blu cobalto profumati, che cresce oltre i 3.000 metri. Considerato estinto negli anni Cinquanta, è stato ritrovato nel 2001 in un terreno privato a sud di Santiago del Cile.

Nelle pagine seguenti: Il vecchio e il nuovo convivono armoniosamente lungo un fiume che scorre pigro. Sono le serre moderne, affacciate sul fiume Cherwell, che hanno sostituito le vecchie, edificate nel 1670 nell’Orto botanico di Oxford, il più antico d’Inghilterra, fondato nel 1621.

“colpiva gli sguardi un grande ibisco di Cina che copriva come un immenso manto di verde e di fiori tutto il lato del palazzo al quale la serra era addossata. I larghi fiori purpurei di quella gigantesca malvacea, continuamente rinascenti, vivono soltanto qualche ora. Si sarebbero detti bocche sensuali di donna che si schiudevano, labbra rosse, molli e umide di qualche Messalina gigantesca gualcite da baci e sempre rinascenti con il loro sorriso avido e sanguinante. [...] “Ora saliva in lei un desiderio acuto, preciso. Un amore immenso, un bisogno di voluttà vagava in quella chiusa navata, dove ribolliva la linfa ardente dei tropici. La giovane donna era partecipe delle nozze possenti della terra che generava intorno a lei quelle oscure verdure, quei tronchi colossali; e l’acre talamo di quel mare di fuoco, quella ricchezza di foresta, quell’ammasso di vegetazione bruciante delle viscere di cui si nutriva, emanavano effl uvi conturbanti, pieni di ebbrezza. Ai suoi piedi, nel bacino, la massa d’acqua calda, ispessita dagli umori delle radici galleggianti, fumava, avvolgendo le sue spalle in un manto di vapori pesanti in un soffio che le intiepidiva la pelle come il tocco di una mano avida di voluttà.

E più del caldo soffio dell’aria, più delle luci vive, più dei grandi fiori splendenti, simili a visi ridenti o atteggiati a smorfia tra le foglie, erano soprattutto i profumi che la sfinivano. Un profumo indefinibile, forte, eccitante, vagava, fatto di mille profumi: sudore umano, fiati di donne, sentori di chiome; soffi dolci e sbiaditi fino allo svenimento, erano alternati con soffi pestilenziali, rudi, carichi di veleni. Ma in quella strana sinfonia di odori, la frase melodica che tornava continuamente, domi-

nando e soffocando la dolcezza della vaniglia e l’acutezza delle orchidee, era quell’odore umano, penetrante, sensuale, l’odore d’amore che esala al mattino la camera chiusa di due giovani sposi”.

Lontano da queste sensibilità, Marcel Proust, che amava fiori e piante e nella Recherche ne ha descritti centinaia sia di giardino sia di serra, ci lascia un’immagine di rarefatta bellezza del giardino d’inverno di Madame Swann: “Infine, in fondo a quel giardino d’inverno, attraverso le arborescenze delle specie più varie che dalla strada facevano somigliare la finestra illuminata al vetro di quelle serre infantili, disegnate o reali, il passante, alzandosi sulla punta dei piedi, scorgeva in generale un uomo in finanziera, con una gardenia o un garofano all’occhiello, in piedi dinanzi a una donna seduta, tutti e due indistinti, come due incisioni in un topazio, in fondo all’atmosfera del salotto, ambrata dal samovar – importazione allora recente –di vapori che ancor oggi forse continuano a levarsi da esso, ma che a causa dell’abitudine nessuno più vede”.

La Grande Guerra provocò straordinari mutamenti nella società. Le restrizioni imposte dal conflitto e la crisi finanziaria degli anni Trenta impedirono anche a molte delle famiglie più ricche di mantenere in vita le grandi serre. Con loro sarebbe tramontato lentamente ma inesorabilmente anche il mondo raffinato di cui erano il prodotto. Un interessante documento, l’arguta memoria di un nobile inglese nato verso la fine dell’Ottocento, ci riporta la piacevole atmosfera di convivialità che si creava intorno a una serra. Quella della sua proprietà, affacciata sul fiume

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Nelle pagine precedenti: Difficile sottrarsi al fascino di una giornata d’autunno ad Amsterdam, ammirando le forme essenziali della Serra dei Tre Climi, nell’antico Hortus botanicus. Inaugurata nel 1993, opera dello Studio Zwarts Jasman, copre una superficie di 1.500 metri quadrati. La copertura a denti di sega permette di sfruttare al massimo la luce solare. All’interno sono state ricostruite tre zone climatiche: tropicale umida, subtropicale e desertica.

Nella pagina a fianco e nelle pagine seguenti: I Royal Botanic Gardens di Sydney hanno una lunga tradizione di collezione e studio delle piante e rappresentano la più antica fondazione scientifica australiana. Furono istituiti nel 1816 dal governatore inglese del tempo, pochi anni dopo la fondazione della città (1788). L’anno successivo furono affidati alle cure di un esperto giardiniere scozzese, arrivato a Sydney in qualità di soldato, Charles Fraser. Nominato botanico coloniale, cioè sovrintendente dei Giardini, Fraser riuscì a trasformare quello che era poco più di un orto del governatore in un giardino botanico di fama internazionale, che scambiava semi e piante con i maggiori centri orticoli in Europa e Australia.

Fedele alla tradizione di ricerca dei Royal Botanic Gardens, la Pyramid Glasshouse, costruita nel 1972, ospita specie australiane di piante tropicali. Insieme a un’altra serra, l’Arc Glasshouse, a cui è collegata da un passaggio, fa parte del Sydney Tropical Centre.

Trent, era stata costruita nel 1866 dal suo bisnonno. Per contribuire a pagare la “Grande Serra” erano stati venduti per 1.500 sterline tre bei vasi di Sèvres. Il costo totale sembra essere stato di 7.396 sterline, 6 scellini e 10 pence, escluso l’onorario degli architetti. Situata a nord della casa e collegata a questa da un corridoio a forma di un quarto di corona, era preceduta da una doppia scalinata a balaustra che saliva all’ingresso principale. I muri a nord e a est, privi di finestre, erano nascosti da cespugli. Dietro a questi, una piccola scala scendeva nella cripta, dove si trovava il bruciatore per il riscaldamento sotto il pavimento. Lungo la parete sud della serra, le vetrate, alte dal pavimento al soffitto, erano incorniciate da rose e da una vite che però produceva grappoli piccolissimi, raramente abbastanza dolci da poter essere mangiati. Entrando nella serra provenendo dalla casa, e oltrepassata una pesante porta di legno, si entrava nel corridoio curvo. Una corda collegata a una campana della torre campanaria adiacente alla serra era suonata cinque minuti prima del pranzo e venticinque minuti prima della cena per dare il tempo di indossare gli abiti da sera. Una serie di statue di stile classico erano collocate entro nicchie lungo le pareti. Il soffitto e la parete di destra erano vetrati. Quando le fucsie erano fiorite, il muro di sinistra era bellissimo. Lungo quel muro e attraverso il soffitto correva un grazioso vecchio glicine. Lungo le pareti di entrambi i lati si vedevano le griglie di ferro battuto, piuttosto elaborate, dietro le quali correvano i tubi del riscaldamento centrale. Nella serra vera e propria i pilastri di ferro battuto combinati con le colonne disegnavano una navata centrale e due laterali. Le due

navate laterali erano predisposte a contenere aiuole di fiori. Nella navata centrale erano collocati parecchi tavoli con il piano di marmo. I membri della famiglia usavano sedersi lì, in grandi poltrone quadrate di vimini con posapiedi e schienali reclinabili, in modo da potersi sdraiare completamente. A sinistra, a metà della serra, c’era un’alcova. Un sofà girava tutt’intorno e vi si collocava una tavola perché la madre del narratore potesse offrire il tè. Alle pareti dell’alcova c’erano due lapidi assire provenienti dal Palazzo Nord Ovest del re Assurbanipal II, a Nimrod, che uno zio aveva portato indietro da uno scavo archeologico con il celebre Lord Carnarvon. D’estate la serra non era molto usata, mentre d’inverno era quasi un rito prendervi il tè la domenica. La madre e le altre signore si vestivano per quell’occasione come se fossero state ai tropici, con lunghi abiti di mussola stampata e nastri fluenti. La serra era mantenuta così calda perché piena di piante esotiche, Croton dal forte profumo, fiori tropicali dagli splendidi colori (non camelie, perché faceva troppo caldo), banani e aranci (anche se fruttavano solo raramente) e palme. Si rinunciò al calore in eccesso durante la Prima guerra mondiale, benché le grandi economie cominciassero negli anni Trenta. Trascorsi gli anni, venduti alcuni tavoli preziosi e le lapidi assire, malgrado il tetto che perdeva, il riscaldamento ridotto, e la mano d’opera pressoché inesistente, commentava il vecchio Lord, la serra era ancora un posto molto piacevole in cui stare, almeno quando il tempo era bello.

Il XIX secolo si chiudeva progettando palazzi di cristallo ovunque. Quale sarebbe stato il futuro?

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Nelle pagine precedenti: Il Bicentennial Conservatory del Botanic Garden della città di Adelaide, nell’Australia Meridionale. Icona non solo di Adelaide, ma dell’Australia tutta, il “Bicon”, come è stato affettuosamente chiamato, è uno dei luoghi più visitati del continente. È stato costruito dall’architetto sudaustraliano Guy Maron per le celebrazioni del bicentenario del primo insediamento inglese in Australia, nucleo della futura nazione. A una sola campata, la più grande dell’emisfero australe, misura 100 metri di lunghezza, 47 di larghezza e 27 di altezza. Una elegante sovrastruttura in acciaio sostiene 2.434 metri quadrati di vetro che formano tetto, pareti e ingresso. Una visita al conservatory è un vero viaggio attraverso le foreste pluviali dell’Australia settentrionale, di Papua Nuova Guinea, dell’Indonesia e delle vicine isole del Pacifico, molte delle quali sono a rischio o danneggiate allo stato naturale.

A fianco: l’ingresso del Bicentennial Conservatory dalla caratteristica forma piramidale.

Nella pagina a fianco: un esemplare di Rhynchostylis retusa, fotografato nella Pyramid Glasshouse di Sydney. Detta anche Orchidea coda di volpe, è diffusa in molte regioni del subcontinente indiano, in Malaysia, in Indonesia e nelle Filippine, ma appare minacciata dai saccheggi a cui è stata sottoposta.

Tra pubblico e privato

Quasi a collegarsi idealmente con le costruzioni ottocentesche, il XX secolo si aprì con alcune serre pubbliche, come quella imponente (1906-1907) dell’Orto botanico annesso all’Università di Berlino-Dahlem. Opera di un brillante architetto, Alfred Körner, e ritenuta al tempo all’avanguardia, è un insieme di sedici padiglioni collegati tra di loro e sovrastati dalla Große Tropenhaus, il grande edificio (lungo 60 metri, alto 26 e largo 30 ), destinato a ospitare le piante tropicali e subtropicali delle colonie africane e polinesiane dell’Impero tedesco.

L’ispirato architetto creò edifici di stile differenti per le serre annesse, come quelle dei cactus, delle orchidee o della Victoria amazonica

Spicca nel complesso dei vari edifici la serra dove sono protette le piante provenienti dalle regioni mediterranee e dalle Canarie. Costruita nel 1909, è simile a una chiesa, con la sua navata centrale, quelle laterali e persino un’abside. Nel Nuovo Mondo, gli Stati Uniti avevano continuato e continuavano a guardare all’Inghilterra come a un modello. Ne era stata prova, già nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, il Conservatory of Flowers costruito nel Golden Gate Park di San Francisco grazie alla generosità del filantropo James Lick, un uomo che da falegname e costruttore di pianoforti era diventato milionario. Lick aveva sognato per la sua casa di San José, nella Clara Valley in California, una serra come quelle dei Kew Gardens londinesi e l’aveva ordinata a

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Nelle pagine precedenti: Le tre grandi cupole del Yume-no-shima Tropical Greenhouse Dome, nell’omonimo parco a Tokyo. Scopo dichiarato della serra è studiare le relazioni tra le piante tropicali e la nostra vita. Nella foresta tropicale si trovano circa i 2/3 di tutte le specie viventi vegetali e animali del pianeta. Le più grandi aree coperte dalla foresta pluviale tropicale al mondo sono l’Amazzonia, il bacino del fiume Congo e il Sud Est asiatico, dalle quali proviene gran parte delle piante utili alla nostra vita. Così, sotto ogni cupola del Yume-no-shima viene ricreato uno di questi ambienti: vi figurano nell’insieme oltre mille specie.

Nella pagina a fianco: La città di Sheffield celebra l’ingresso nel Terzo Millennio cambiando il volto del centro cittadino con la costruzione di alcuni importanti edifici, tra cui il Winter Garden, inaugurato ufficialmente nel maggio 2003 dalla regina Elisabetta. La più grande serra temperata costruita in Inghilterra negli ultimi cento anni è stata concepita come una galleria coperta, a imitazione di quelle di città come Milano. Nella “città dell’acciaio”, la scelta del legno come materiale degli audaci archi di sostegno poteva apparire incongrua. In realtà, al di là del risparmio offerto dal Glulam, il legno lamellare di betulla utilizzato, la scelta dei tre progettisti, Pringle, Richards, Sharratt, ha voluto espressamente essere un forte richiamo al valore economico, medicinale, educativo delle piante e insieme sottolineare l’importanza di un uso oculato delle preziose risorse del pianeta.

una fabbrica inglese, ma era morto prima che la spedizione raggiungesse la California. In seguito, gli esecutori testamentari ne avevano fatto dono al parco, anch’esso lascito di Lick.

Le serre inglesi avevano ispirato anche Nathaniel Lord Britton, un appassionato professore di botanica della Columbia University di New York, che, di ritorno in patria, dopo aver visitato le serre londinesi, si era battuto perchè la città più importante del Paese si dotasse di una grandiosa serra. Nel 1902 fu quindi completato il conservatory che, dal 1978, fu intitolato a Enid. A. Haupt, la generosa filantropa che avendo fatto “della natura la sua religione”, aveva contribuito con somme ingenti al restauro della struttura. Punto focale all’interno del vastissimo New York Botanical Garden, costruito in emulazione dei Kew Gardens, anche questo edificio si ispirò allo stile dominante in Europa a metà del XIX secolo: in parte alla grande serra di Decimus Burton a Kew e in parte al Crystal Palace di Joseph Paxton. All’interno della grande rotonda che si innalza per 30 metri fino alla volta della cupola, vive una delle più vaste collezioni di palme in serra. In ognuna delle altre dieci gallerie collegate alla rotonda sono stati ricreati habitat naturali differenti, dalla giungla tropicale al deserto.

Il conservatory sarebbe diventato modello per molte serre sparse nel Paese, a cominciare dalla luminosa Palm House del Brooklyn Botanic Garden nella stessa New York.

A livello privato, come è inevitabile per tutte le grandi mode, l’interesse per i palazzi di vetro sembrò lentamente affievolirsi. Naturalmente con le debite eccezioni, piccoli gioielli per veri amatori, come il Jardin d’Hiver, più simile a una grande voliera, che Albert

Kahn (1860-1940), banchiere, umanista, animato da un ideale di pace universale, fece costruire a Boulogne-Billancourt, vicino a Parigi, all’interno del suo meraviglioso giardino; un giardino dove sono rappresentati sette differenti paesaggi naturali che convivono felicemente uno accanto all’altro, espressione nel mondo vegetale dei sogni del filantropo. La serra si erge al centro del celebre roseto; è un edificio a pianta ottagonale sormontato da una grande cupola, un capolavoro in ferro battuto. Ai tempi di Kahn era affiancata a destra e a sinistra da due altre serre con la copertura in vetro a forma di schiena d’asino, soppresse nel 1914. L’interno lascia i visitatori stupefatti. Tutte le pareti e il soffitto sono rivestiti da un’architettura a reticolo in ferro battuto dipinto di bianco, di incredibile leggerezza, e ornata da applique a forma di benauguranti cornucopie.

L’Italia, invece, si dimostrò eclettica nella scelta degli stili architettonici con cui caratterizzare le serre private. Si passò dallo stile classico della serra dei conti Giorgi di Vistarino, costruita nell’Oltrepò Pavese agli inizi del Novecento, a quello che si rifaceva a modelli francesi e inglesi dell’Ottocento della serra di Villa Negrotto Cambiaso, fatta costruire dalla marchesa Matilde nel 1931. L’edificio, che spicca per il colore bianco nel verde del parco, è costituito da un corpo centrale più alto, chiuso da una lanterna a cuspide e fiancheggiato da due ali simmetriche, decorato con elementi geometrici intrecciati a tralci e a cornucopie. Un bell’esempio di serra novecentesca è quella di Palazzo d’Arco a Mantova. Realizzata negli anni Venti e ricavata dalla rimessa delle carrozze del magnifico edificio, è illuminata da grandi vetrate affacciate sull’orto.

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Nelle pagine precedenti: La gloriosa Royal Horticultural Society, fondata nel 1804 da Sir Joseph Banks e John Wedgwood allo scopo di raccogliere informazioni sulle piante e incoraggiare lo sviluppo delle pratiche orticole, possiede a Wisley, a 30 chilometri da Londra, un grande giardino, celebrato in tutto il mondo per il suo fascino e fonte di ispirazione per migliaia di appassionati. Per festeggiare il bicentenario della fondazione, nel 2004 è stata costruita una nuova serra, opera del giovane architetto paesaggista Tom Stuart-Smith, che sembra galleggiare sul grande lago progettato in contemporanea.

Nella pagina a fianco: Un Disophyllum fotografato nelle serre di Wisley. Si tratta di un ibrido artificiale tra un Disocactus un Epiphyllum

Nelle pagine seguenti: Una vista frontale della Serra del Bicentenario di Wisley. Simile a un’enorme cattedrale, alta 12 metri e con una superficie che è stata paragonata a dieci campi da tennis, è divisa in tre aree dove sono stati ricreati gli habitat delle zone tropicale, temperata umida e temperata secca. All’interno si trovano anche un centro di studio, un laboratorio e un’area dove si impara da vicino come funziona una serra.

Non finiranno mai di stupire

Nella prima metà del XX secolo, lo scoppio della Prima e soprattutto della Seconda guerra mondiale segnò una battuta d’arresto nella vita delle serre. Il mondo si fermò sgomento a fare i conti con i disastri della guerra. In Europa, e soprattutto in Germania, molti magnifici palazzi di cristallo, a cominciare dalla Wilhelma, ma anche a Dresda e a Würzburg, crollarono sotto i bombardamenti.

Qualcuno si domandò in seguito se avesse avuto ancora un senso mantenere in vita delle serre, quale fosse ormai il significato di una serra, se non quello di essere un vestigio del passato, un monumento.

Poi, nell’ultimo quarto di secolo, come l’araba fenice risorge dalle sue ceneri, anche le serre sono tornate di slancio a nuova vita. Le deforestazioni selvagge, l’inquinamento atmosferico, quello del suolo, che minacciano migliaia di specie, i mutamenti climatici, una maggiore attenzione da parte del pubblico sono stati lo spunto per un nuovo ruolo delle serre: quello di laboratori di vita, di sentinelle del pianeta a fianco dei grandi centri di ricerca botanica. L’allarme lanciato ormai da anni dagli scienziati è stato raccolto dalle grandi istituzioni. Consci dei rischi che il pianeta sta correndo, i grandi maestri dell’architettura, da Norman Foster a Renzo Piano, hanno messo in gioco la loro creatività per progettare serre sempre più capaci e funzionali; la tecnologia ha messo a punto vetri perfezionati allo scopo e ha creato nuovi materiali trasparenti in supporto al vetro. Se da una parte l’uomo distrugge, dall’altra l’uomo cerca di porre rimedio alle distruzioni. Sem-

bra una lotta impari, ma, come affermano gli organizzatori dell’Eden Project, “abbiamo il dovere di sperare”.

L’esempio, come spesso accade, è venuto dal più antico centro di ricerca del mondo, dai Kew Gardens di Londra.

Già nel 1952, gentile omaggio del Governo australiano, veniva eretta la Evolution House, la più grande serra dei Giardini dopo la Temperate House, il primo esempio di edificio prefabbricato in lega di alluminio a Kew. Nata per ospitare la flora degli antipodi, nel 1994 è stata trasformata nella sede di una mostra interattiva dedicata all’evoluzione delle piante.

Nel 1987 veniva ufficialmente inaugurato dalla principessa del Galles Diana il Princess of Wales Conservatory, costruito per commemorare la principessa Augusta del Galles, madre del re Giorgio III, che nel lontano 1759 aveva fondato i Giardini Reali. Il conservatory è un edificio di straordinario interesse sia per l’impianto architettonico sia per l’estrema funzionalità del progetto. Dopo aver preso in esame una serie di serre in Europa e nel Nordamerica, l’architetto Gordon Wilson diede avvio ai lavori nel 1977. Qualcuno ha paragonato la serra di Wilson a una collina tutta di vetro esposta a sud. Di fatto il vasto edifi cio (4.490 metri quadrati) è completamente interrato, in modo da evitare dispersioni di calore. Tutto quello che emerge sono i tetti a forma piramidale delle dieci differenti zone climatiche create all’interno, due più importanti, quella umida delle mangrovie e quella desertica, e otto microclimi per piante che necessitano di condizioni speciali, come quelle carnivore.

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Nelle pagine precedenti: La copertura e l’interno della Great Glasshouse, progettata da Sir Norman Foster tra il 1995 e il 2000 per il National Botanic Garden of Wales. Costruita su quella che un tempo era una tenuta di proprietà di Sir Joseph Paxton, nel Carmarthenshire, la magnifica serra è una tra le più grandi strutture al mondo a una sola campata.

Sopra: La sobria architettura della Serra tropicale dell’architetto John Belle, che nel 2007 è andata ad arricchire il National Botanic Garden of Wales.

Nella pagina a fianco: Rallegra i lunghi inverni di Malmö la Glass Bubble, la piccola serra tropicale creata dalla paesaggista Monika Gora.

Il ridotto volume della co pertura rispetto alla superficie del pavimento consente rapidi cambiamenti delle temperature. Grazie a sensori installati alle pareti e nel terreno, il condizionamento di ogni zona è monitorato da computer in grado di regolare riscaldamento, umidità, ventilazione e luce ogni quattro minuti. L’acqua piovana che scorre sui tetti a spiovente è raccolta in due giganteschi serbatoi sottoterra e, dopo essere stata filtrata e sottoposta a un trattamento a raggi ultravioletti, è utilizzata per l’irrigazione.

Il 1987 fu un anno fortunato per le serre europee. A Ginevra, nell’Orto botanico fondato nel 1817 da Augustin Pyramus de Candolle, si inaugurava la Serra temperata. L’autore, Jean-Marc Lamunière, architetto e saggista, si era ispirato a modelli di chiese rinascimentali che aveva avuto modo di studiare mentre era allievo di Giovanni Michelucci alla Scuola Superiore di Architettura di Firenze. La sua serra si distingue infatti per le forme armoniose e sobrie. Sempre nel 1987, il celebre Gartenpalmen di Francoforte si

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A fianco: Pochi luoghi come l’Hortus botanicus di Leida testimoniamo la continuità nella storia della scienza e della ricerca botanica. In quello che era stato lo spazio privilegiato di Clusio e dei suoi successori, i piccoli edifici accademici guardano senza timore la spartana struttura del grande Winterhuis, il giardino d’inverno, non solo spazio espositivo, ma anche centro di ricerca. È stato completato nel 2000 dallo studio Bierman Henket e ospita una grande collezione di Cicadacee e piante carnivore.

Nelle pagine seguenti: La pioggia autunnale fa scintillare i tetti del monumentale complesso di serre tropicali dell’Orto botanico di Leida. Completamente rinnovato e inaugurato nel settembre 2013 dalla regina Maxima, è stato dotato di una passerella sospesa, in modo che il pubblico possa ammirare la giungla tropicale dall’alto. Le serre ospitano una vastissima raccolta di orchidee, felci, Cicadacee, Hoya, Dischidia e Nepenthes. Particolarmente rappresentate le orchidee, con oltre 3.000 esemplari.

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A fianco: Una veduta generale dell’Eden Project e dei suoi Biomi, in Cornovaglia, in Gran Bretagna. L’Eden Project è la dimostrazione dell’arte del possibile, ovvero la capacità di trasformare una voragine nel terreno, una cava abbandonata dopo un sfruttamento intensivo, in un paradiso vegetale. Dopo poco più di dieci anni di vita (è stato aperto nel 2001), da attrazione turistica si è rivelato un potente mezzo di educazione e sensibilizzazione per grandi e bambini. Non a caso la visita alle gigantesche serre è introdotta dalla scultura, alta 7 metri, progettata da Paul Bonomini del WEEE Man (Waste Electrical and Electronic Equipment), cioè tutto il materiale elettrico ed elettronico che una persona getta via nell’arco di una vita; si calcola 3,3 tonnellate.

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arricchisce del Tropicarium, un complesso di due gruppi di palazzi di cristallo, collegati tra di loro, molto innovativi nella loro architettura piena di movimento, caratterizzata dalla pianta a stella di ogni edificio e da pareti che formano angoli di 45°.

Il 1988 sarà l’anno dell’Australia e del Giappone. Ad Adelaide, nell’Australia Meridionale, si celebra il bicentenario del Paese, con lo spettacolare Bicentennial Conservatory di Guy Maron, diventato una vera icona. In Giappone, spettacolare è il Yume-no-shima Tropical Greenhouse Dome, costruito dallo studio Oh-une/Ehira Architects and Associates a Tokyo, che si apre allo sguardo del visitatore con affascinanti prospettive, straordinariamente diverse a seconda dei punti di osservazione. Edifi cata sull’isola di Yume-noshima (L’Isola di Sogno), su quella che era stata una discarica poi bonifi cata e trasformata in parco, la struttura appare come la sequenza delle sezioni di tre gigantesche cupole, collegate tra loro, ognuna delle quali destinata a habitat diversi. L’edifi cio A ospita piante della foresta pluviale con felci e una cascata; nell’edificio B è stata allestita la ricostruzione di un villaggio tropicale in mezzo a un folto di palme, banani e piante di cacao. Di grande interesse l’edificio C, che ospita una raccolta di preziose piante endemiche delle Ogasawara, un arcipelago di oltre trenta isole subtropicali pressoché disabitate, soprannominate le “Galapagos dell’Oriente”. La temperatura delle serre è controllata da computer e mantenuta costante anche durante l’inverno a 15 °C, oltre che dalle superfi ci vetrate, da sistemi di recupero di calore dal vicino impianto di incenerimento Shin-Koto.

L’audacia architettonica e l’ampiezza progettuale sarà il tema conduttore delle serre del Terzo Millennio in tutti i continenti.

L’inventrice dei palazzi di cristallo, la Gran Bretagna, festeggia il nuovo secolo celebrando le proprie serre. Sheffield, la città che tra le prime aveva costruito una serra pubblica, sbalordisce i visitatori e la regina Elisabetta, che lo inaugura nel 2003, con il Winter Garden, uno spazio verde nel cuore della città, una passeggiata pedonale che collega alcuni dei più importanti edifici cittadini, una delle più grandi serre temperate dell’Europa Occidentale. Entrando nel Winter Garden, il visitatore ha la sensazione di entrare in una maestosa cattedrale gotica. Al di là delle dimensioni, 70 metri di lunghezza, 22 di larghezza e 21 di altezza nel punto centrale, colpisce l’uso dei materiali: vetro, acciaio, ma soprattutto legno, bellissimo legno di larice che col tempo assume un delicato colore grigio argenteo. Trattato con tecniche particolari, questo legno lamellare (Glulam) è stato curvato per creare venti archi imponenti a reggere nove arcate di vetro. Questo affascinate connubio di vetro e legno fa da scrigno a oltre 2.000 piante provenienti da tutte le parti del mondo e acclimatate per almeno due anni nel Sud-Est del Paese prima di entrare a far parte della struttura.

Nel 2007 la gloriosa Royal Horticultural Society celebra il suo bicentenario con la costruzione nello storico giardino di Wisley, a poche miglia da Londra, di una gigantesca cattedrale di vetro che copre la superficie di dieci campi da tennis e raggiunge i 12 metri di altezza. Vi si distinguono tre zone climatiche: tropicale, temperata umida, temperata secca, con oltre 5.000 specie, tra cui alcune

Nella pagina a fianco: Una Phylica pubescens, fotografata nel Bioma mediterraneo dell’Eden Project. Questo arbusto cresce nel fynbos la “boscaglia fine”, tipica di una piccola striscia costiera della Provincia del Capo Occidentale in Sudafrica, caratterizzata da una elevata biodiversità, ma minacciata dallo sviluppo agricolo e urbanistico. Con i suoi vistosi fiori bianco-crema pelosi e un debole profumo di cannella, la Phylica attira moltissimi insetti, in particolare api e formiche.

Nelle pagine seguenti: L’interno del Bioma mediterraneo dell’Eden Project. Ospita piante delle aree mediterranee, del Sudafrica e della California. Si notino gli archi di sostegno degli esagoni di plastica che compongono la biosfera. Gli alveoli esagonali, di grandezza variabile (il più grande misura 11 metri di larghezza), copiano quello che esiste in natura: gli alveari, massimo della robustezza con il minimo consumo di materiale. Composti da 3 strati di EFTE, profondi 2 metri una volta gonfiati, hanno una durata di vita garantita di oltre 25 anni, pesano meno dell’1% dell’equivalente area in vetro, ma possono sopportare il peso di un’automobile. La struttura di acciaio che li regge pesa poco più dell’aria contenuta nel Bioma; l’interno del Bioma tropicale, il più grande dei due. Misura 55 metri di altezza, 100 di larghezza e 200 di lunghezza. La sottilissima scala consente ai visitatori più spericolati di accedere alla cima del Bioma.

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A fianco e nelle pagine seguenti: Come Leida, anche Padova rinnova il suo Orto botanico, il più antico d’Italia, con l’ampliamento del sito su un’area a sud di 15.000 metri quadrati e la costruzione di nuove serre. Il progetto dell’architetto Giorgio Strapazzon e del gruppo di professionisti della VS Associati ha previsto cinque serre, che corrispondono ad altrettanti biomi, inserite in una galleria di vetro e acciaio di altezza digradante. L’acqua piovana raccolta dalla superficie dei tetti viene convogliata a cascata in una serie di vasche poste su livelli diversi e utilizzata per l’irrigazione dello spazio verde antistante; la nebbia avvolge l’Orto di Padova, rendendo evanescenti le forme delle ninfee che galleggiano in una vasca davanti alle serre. Tra queste due esemplari di Victoria amazonica, la pianta più ambita da tutti gli orti botanici del mondo dal giorno del suo arrivo in Europa, nel lontano 1849.

rare, minacciate o difficili da coltivare. Sempre negli stessi anni, il National Botanic Garden of Wales, inaugurato nel 2000, affida a Sir Norman Foster la costruzione della Great Glasshouse, la grande serra. Sprofondata nel terreno, la cupola della serra, tra le più grandi del mondo, si alza molto dolcemente quasi ad assecondare le morbide ondulazioni del paesaggio gallese. Di forma ellittica, simile a una gigantesca goccia di pioggia, è una struttura di 95 x 55 metri, con un tetto che contiene 785 pannelli di vetro, progettata per creare le condizioni ideali a ospitare la flora mediterranea dei due emisferi, oggi minacciata dalla deforestazione. Sebbene le regioni a clima mediterraneo rappresentino solo il 2% della superficie terrestre, esse contengono oltre il 20% di tutte le specie di piante da fiore conosciute. La paesaggista Kathryn Gustaffson ha ricreato sei zone corrispondenti alle sei aree del mondo da cui provengono le piante (il bacino del Mediterraneo, la California, l’Australia, le isole Canarie, il Cile e il Sudafrica), cosicché, seguendo il percorso tra rocce e scogliere, si ha la sensazione di passare da un continente all’altro, da un Paese all’altro nel giro di pochi passi. Contrasta con lo stile di Foster la rigida architettura della Tropical House, la serra dedicata alle piante tropicali, costruita dal celebre architetto John Belle, gallese trapiantato a New York, all’interno del giardino murato, una delle grandi attrazioni del giardino botanico.

Se una delle serre più tecnologiche in questo primo decennio del Terzo Millennio appare quella tropicale, restaurata, dell’Orto botanico di Berlino (completamente rivestita con nuovo vetro trasparente alle radiazioni UVA e UVB, utili alle piante per crescere me-

glio), se quella più bizzarra e affascinante è il Glass Bubble, la bolla di vetro colma di piante esotiche che l’artista paesaggista Monika Gora ha inserito nel panorama urbano di Malmö, in Svezia, la realizzazione più interessante è senza dubbio l’Eden Project inaugurato in Cornovaglia nel settembre 2001 e sviluppatosi negli anni successivi.

Tutto era cominciato nel 1996, quando il visionario Tim Smit, che sognava modi di vita più sostenibili e un minore impatto dell’uomo sul pianeta, durante una bevuta in un pub

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con alcuni che condividevano il suo sogno, aveva tracciato su un tovagliolo di carta il primo schizzo di un Bioma. Dava così vita a un progetto di recupero di una cava di caolino in Cornovaglia, tra St Blazey e St Austell, popolandola di piante provenienti da tutte le parti del mondo. Le piante sono indispensabili alla sopravvivenza dell’uomo sulla Terra, diceva Tim. Forniscono cibo, combustibile, medicine, tessuti, musica, sport. Il sogno non era quello di realizzare semplicemente un centro di attrazione turistica, ma di educare

i visitatori, grandi e piccini, alla visione di un mondo possibile, più bello, migliore. Nell’arco di pochi anni il sogno sarebbe diventato rapidamente realtà. La cava avrebbe ospitato alcuni giganteschi Biomi, di cui due, quello tropicale e quello mediterraneo, coperti. Il Bioma tropicale, la più grande foresta pluviale in cattività, copre 1,56 ettari, è alto 55 metri, largo 100 e lungo 200. Vi crescono banani che producono frutti, caffè, caucciù e bambù giganti. Nel Bioma mediterraneo, di dimensioni ridotte (55 metri di altezza, 65 di larghezza

Sopra: Renzo Piano ha messo il suo ingegno al servizio della scienza creando il MuSe, il Museo delle Scienze di Trento, erede dello storico Museo delle Scienze Tridentino. Lungo 130 metri e largo 35, 7 livelli, di cui 2 interrati, il MuSe richiama nel suo caratteristico profilo l’andamento delle montagne circostanti. In questo edificio luminoso, di grande impatto visivo e costruito all’insegna dell’ecosostenibilità, dove i temi conduttori sono l’evoluzione, l’ambiente e la biodiversità, non poteva mancare una spaziosa serra (copre infatti una superficie di 600 metri quadrati). Riproduce un’area delle foreste dell’Eastern Arc, catena di monti della Tanzania, caratterizzate da un’elevata biodiversità.

e 135 di lunghezza), prosperano l’olivo e la vite. I Biomi coperti, che assumono la forma di cupole geodetiche, sono realizzati con acciaio tubolare (hex-tri-hex) rivestito esternamente di pannelli esagonali di materiale plastico. La novità consiste proprio nei materiali di copertura. Scartato il vetro, a causa del peso e dei potenziali pericoli, è stato adottato un materiale termoplastico, l’EFTE, estremamente resistente alla corrosione e a un’ampia gamma di temperature. Gli stessi pannelli di copertura, che variano di dimensione fino a

raggiungere gli 11 metri di larghezza, sono costituiti da numerosi strati di sottile pellicola EFTE trasparente ai raggi UV, sigillati intorno al loro perimetro e gonfiati per creare un cuscino, il quale funge da coperta termica per la struttura. Così protette, la foresta pluviale e la foresta mediterranea del futuro hanno attirato e attirano milioni di visitatori.

Dopo l’Eden Project sembrava che non ci fosse più nulla da dire. E invece nel 2006 i Kew Gardens si rinnovano con la Davies Alpine House, che fa discutere per il suo im-

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pianto architettonico. Nel clima britannico, freddo ma per niente alpino, la serra ricrea le condizioni estreme di vita per le piante sulle Alpi. Vincitrice di numerosi premi e disegnata dallo studio di Chris Wilkinsons e Jim Eyre, è una struttura di acciaio, vetro e calcestruzzo, modello di architettura ecosostenibile e di risparmio energetico. Lunga 16 metri e alta 10, a forma di due archi gemelli collegati tra di loro, è dotata di un ingegnoso sistema di ventilazione, straordinario nella sua semplicità, che, sfruttando l’“effetto camino”, consente

di mantenere nell’ambiente la temperatura fredda e secca indispensabile alla sopravvivenza delle piante alpine. L’aria, infatti, dopo essere stata raffreddata passando nel labirinto di calcestruzzo costruito sottoterra, viene introdotta nell’edificio attraverso griglie a livello del terreno sospingendo, com’è naturale, quella calda verso il tetto dove sono state praticate delle aperture per lasciarla fuoriuscire.

Nello stesso anno, gli autori della Davies Alpine House vengono chiamati a creare un avveniristico complesso di serre all’interno dei giardini botanici Gardens by the Bay di Singapore, con risultati strepitosi, come mostrano le immagini attuali delle gigantesche Flower Dome e Cloud Forest.

In Italia, invece, Renzo Piano crea un piccolo capolavoro di misura con il MuSe di Trento, il Museo della Scienza di Trento, parte del quale è occupato da una serra unica nel suo genere nel nostro Paese. Vi è ricostruito un frammento delle foreste dell’Eastern Arc, una catena montuosa della Tanzania dove il MuSe gestisce una stazione di ricerca.

All’altro capo del mondo, nella Corea del Sud, si sta realizzando un progetto grandioso: lo studio Grimshaw Architects, che a Eden Project aveva dato corpo ai sogni di Tim Smit, è stato incaricato dal National Ecological Institute, a Seocheon, di realizzare, in collaborazione con lo studio coreano SAMOO Architects & Engineers, Ecorium. È una spettacolare vetrina dei diversi ecosistemi della Terra, dove una serie di serre collegate tra loro, di bellezza fantascientifi ca, si snoda nel paesaggio. E poi? Che cosa riserva il futuro alle serre? O meglio, cosa rappresenteranno le serre in futuro? E finiranno mai di stupirci?

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Nelle pagine precedenti: A Singapore, in una delle zone del mondo più minacciate dalla deforestazione e dall’inquinamento, sono stati istituiti nel 2012 i Gardens by the Bay, un parco di 101 ettari di terra bonificata, per fare della città “non una città giardino, ma una città in un giardino”, secondo le dichiarazioni del governo. Il profilo di Marina Bay è stato trasformato dalle forme tondeggianti delle due gigantesche serre e dal bosco dei Super Trees, i superalberi artificiali, a esse collegate. Nella foto, il Cloud Forest Conservatory, la più alta delle gigantesche serre realizzata da WilkinsonEyre. Forte dell’esperienza dell’Alpine House dei Kew Gardens di Londra, il team inglese ha realizzato una struttura di archi di acciaio che sostiene una superficie totalmente vetrata. Un sistema di vele triangolari automatizzato consente l’ombreggiatura interna della serra in caso di necessità. La serra replica le condizioni delle regioni tropicali montuose, tra i 1.000 e i 3.000 metri sul livello del mare, del Sud Est asiatico e del Centro e Sudamerica.

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A fianco: Il Flower Dome, con i suoi sette spettacolari giardini creati all’interno, vuole rappresentare tutte le zone a vegetazione mediterranea del mondo.

Vicino svettano i Super Trees, 18 alberi in calcestruzzo e acciaio, tra i 25 e i 50 metri d’altezza, che dominano la distesa dei giardini, in realtà serre verticali. In cima, invece della chioma degli alberi, pannelli fotovoltaici, collettori solari, condotti di ventilazione e di raccolta dell’acqua piovana, che viene poi reimmessa nel sistema di irrigazione interno.

Nelle pagine seguenti: Ecorium, un’iniziativa del National Ecological Institute of South Korea. Si tratta di serre ecosostenibili in legno e plexiglas, una riserva d’acqua, aule e laboratori didattici al centro di un’area naturale di 33.000 metri quadrati, dove insegnare agli studenti l’importanza degli ecosistemi e della loro protezione. Concepito sul tema dell’“Odissea della Natura”, Ecorium riproduce gli ecosistemi di cinque differenti zone climatiche, dalle regioni tropicali a quelle polari. Il Terzo Millenio è iniziato ponendosi dubbi e timori sul futuro del pianeta. Che queste serre siano la speranza per gli anni a venire?

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I versi a pag 9 sono citati da Lorenza Zambon nello spettacolo “Variazioni sul giardino – il primo giardino del mondo”

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RINGRAZIAMENTI

Ci sono voluti 4 anni e tanti chilometri macinati in giro per l’Italia e per l’Europa in aereo, treno, auto, pullman e barca per realizzare questo libro.

Un viaggio entusiasmante nella natura, nel paesaggio, nell’architettura, nella storia.

Giornate intense strappate ai miei impegni di lavoro e vissute con mia moglie Paola che mi è stata di grande aiuto; contrariamente a me, parla inglese, se la cava con il tedesco e soprattutto guida! Alcuni luoghi hanno richiesto più di una visita: le limonaie del Garda, per esempio, sono state fotografate in diversi momenti dell’anno e grazie a Giuseppe Gandossi e a Berto, l’amico pescatore, conosciuti nel corso delle nostre ricerche, abbiamo vissuto momenti indimenticabili, immortalando le limonaie dalla barca tra incredibili voli di cormorani e la suggestione di una leggera nebbiolina che ci avvolgeva sul lago.

Ho sfruttato al massimo ogni momento di questo viaggio: le intemperie e la luce, che nel Nord Europa cambia a ogni istante, erano una sfida continua e non concedevano tregua. Non bisognava perdere il momento magico e più di una volta ci siamo fermati strada facendo, con le valige ancora sul taxi che ci portava all’albergo, per fotografare una serra o un’orangerie con la particolare luce di quel mattino o di quel pomeriggio che, ormai sapevo, difficilmente avrei trovato il giorno dopo.

Non sono mancate sorprese e imprevisti: serre inaccessibili per feste, restauri, orari cambiati. A Lisbona la Stufa Fria chiusa “da molto tempo”, come ci hanno informato due signori da una panchina lì vicino. Non mi restava che arrampicarmi e inventarmi una possibile inquadratura.

Ci sono stati incontri molto belli, come a Frampton Court nel Gloucestershire, dove ero attratto da una deliziosa e unica orangery gotica. Siamo stati accolti dalla simpatica Gillian Keightley, contenta e sorpresa della nostra visita: “qui di italiani ne vediamo pochi!”. Abbiamo potuto soggiornare nello stupendo palazzo della tenuta; non dimenticherò la magia dell’arrivo sul calare della sera, il profumo dei fiori e l’orangery che intravedevo nel buio. Poi, dopo cena, il grande salone con il camino acceso e la bella camera da letto con vista sul lago; al mattino la sontuosa colazione e l’immancabile pioggerella mentre fotografavo.

A Bruxelles, le immense Serre Reali nei giardini del castello di Laeken vengono aperte al pubblico di

giorno e di sera per pochi giorni all’anno, tra aprile e maggio; un’occasione unica per fotografare una serra illuminata di notte. Siamo entrati per primi con un permesso speciale e abbiamo aspettato che il buio arrivasse insieme a una enorme folla; quando, finalmente soli, ho iniziato il mio lavoro, “tempo scaduto”: una solerte guardia ci ha accompagnato in macchina all’uscita, “eravamo pur sempre nel giardino del re!”.

Non sempre è stato facile raggiungere le nostre mete; qualche volta il pullman ci lasciava ben lontano. Indimenticabile la passeggiata per raggiungere Chatsworth nel Devonshire: abbiamo camminato nella dolcissima campagna inglese, tra prati e boschi in compagnia di pecore e mucche, lungo il fiume.

La reggia di Versailles ci ha accolto con l’immensità dei suoi spazi, la bellezza e l’eleganza dei suoi giardini; era il mese di luglio, l’atmosfera festosa e colorata ci ricordava un quadro impressionista.

Volendo rendere questo racconto il più completo possibile, ho avuto la fortuna di potermi affidare in alcuni casi alla collaborazione di istituzioni e di amici viaggiatori.

Un grazie particolare all’Orto botanico di Padova che ci ha concesso le belle foto delle sue nuove serre non ancora aperte al pubblico e realizzate da Massimo Pistore per l’Università di Padova.

Lo stesso vale per il recentissimo complesso di serre Ecorium, nel parco ecologico Ecoplex in Corea del Sud, progettato dallo studio SAMOO Architects & Engineers in collaborazione con lo studio inglese Grimshaw Architects. Le bellissime foto di Ecorium sono di Young-chae Park.

Un ringraziamento di cuore va agli amici che hanno contribuito con entusiasmo a questo progetto, a volte includendo appositamente un giardino botanico nei loro itinerari: Lorenzo Lampignani, Elisabeth Scherffig, Rebecca Suter, Chris Boulden, Jimmy Obata, che hanno viaggiato tra America, Spagna, Australia, Giappone e Malesia; un grazie ai miei figli Anita e Pietro, affettuosi assistenti più di una volta; agli amici Graciela e Roberto Maggini che mi hanno accompagnato alla scoperta delle limonaie toscane; a Irvana Malabarba che di questi luoghi ha raccontato la vita.

Infine un ringraziamento veramente speciale a Daniela e Franco Bergamaschi che hanno permesso la realizzazione di questo libro.

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IDEAZIONE E GRAFICA: ANGELO SGANZERLA

Editing e revisione testi: ASTER Studio (Milano)

Fotolito e composizione: Actualtype Srl

Stampa: Grafiche Zanini, Bologna Stampato su carta Perigord

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.

I Edizione

© 2014 L’Erbolario, Lodi

© 2014 per le fotografie: Angelo Sganzerla Edizione fuori commercio

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