ANTONIO CANOVA Il nuovo Fidia
Toffanin Erica
VITA Antonio Canova nacque a Possagno il primo Novembre 1757; é ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo, nonché l’ultimo in ordine di tempo, fra gli italiani, che abbia acquistato assoluta preminenza in tutta Europa nel campo delle arti. A soli quattro anni rimase orfano del padre, Pietro, anch’egli bravo intagliatore e scalpellino, e la madre, Angela Zardo, si risposò poco dopo con Francesco Sartori e si trasferì nel vicino paese di Crespano, ma Antonio rimase a Possagno, con il nonno Pasino, tagliapietre e scultore locale di discreta fama, sviluppando l’arte dello scalpellino unita ad “una tempra delicatissima e una straordinaria sensibilità”. Fin da giovanissimo dimostrò una naturale inclinazione alla scultura nelle piccole opere eseguite con l’argilla; si racconta che, all’età di sei anni, durante una cena, abbia eseguito un leone di burro con tale bravura da meravigliare tutti i commensali: il padrone di casa, il Senatore Giovanni Falier, ne intuì la capacità artistica Canova e lo avviò allo studio. Nel 1768 cominciò a lavorare nel laboratorio di scultura dei Torretti, a Pagnano d’Asolo, poco distante da Possagno: quell’ambiente fu per il piccolo Antonio (appellato affettuosamente “Tonin”) una vera e propria scuola d’arte. Furono i Torretti ad introdurlo nel vivace mondo veneziano, aprendogli gli orizzonti ad un universo culturale ricco di fermenti. In laguna iniziò gli studi presso la scuola di nudo dell’Accademia e trasse spunto per i suoi disegni dai calchi in gesso della Galleria di Filippo Farsetti. Il giovane maestro si inserì appieno nell’attività della scuola veneziana le cui basi derivavano ancora dalla tradizione settecentesca. Nonostante la scomparsa di Gianbattista Tiepolo nel 1770, la città poteva vantare una fiorente e vivace attività artistica sostenuta da un ricco mercato suddiviso in due filoni: da una parte gli estimatori dei “vedutisti” come Canaletto e, dall’altra, le grandi famiglie aristocratiche che commissionano opere di “decoro” per le loro dimore. Lo stile del Tiepolo viene temperato dall’atmosfera arcadica. Il giovane Canova mette in mostra il proprio talento nell’esecuzione di due cestini di frutta scolpiti per il senatore Falier nel 1772 e con alcune copie di statue antiche. La prime sculture monumentali giungono nel 1773; sono le statue di Orfeo ed Euridice, volute ad ornamento del giardino di villa Falier ad Asolo. Il giovane maestro mostra già una sua personale espressività, coerente con la corrente artistica del momento; e, nonostante questi primi lavori non possiedano la raffinatezza delle opere della maturità, gli procurano una discreta notorietà durante l’esposizione alla fiera della Sensa del 1776. Ventiduenne, si trasferì a Roma, era il 1779, dove ebbe modo di incontrare e conoscere i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica, inserendosi anch’egli in quel clima di capitale della cultura che era da sempre la città capitolina; subì, inoltre, specialmente nel primo periodo di produzione artistica, l’influenza ed il fascino di Bernini, indiscusso maestro del Seicento. È col primo viaggio a Roma che produrrà le sue opere più belle (dalle Tre Grazie ad Amore e Psiche, dai Monumenti funebri dei Papi Clemente XIII e XIV e a Maria Cristina d’Austria ai numerosi soggetti mitologici, come Venere e Marte, Perseo vincitore della Medusa, Ettore e Aiace) e lavorerà per sovrani, principi, papi
ed imperatori di tutto il mondo. A Roma, era ospite dell’ambasciatore veneto Gerolamo Zulian che fu grande mecenate e gli procurò i primi incarichi oltre a commissionargli personalmente Teseo sul Minotauro (1781) e Psiche (1793). Nel frattempo conobbe Domenica Volpato, figlia dell’incisore Giovanni, con la quale ebbe un’amicizia travagliata; la sua fama cresceva in Italia e all’estero: riceveva sempre nuove e impegnative commissioni da ogni parte d’Europa. Ben presto, la sua arte, organizzata secondo la tecnica degli antichi greci, dal disegno all’argilla, dal gesso al marmo, sviluppò un lavoro formidabile e una vicinanza sempre più forte ai temi della mitologia classica. Quando i Francesi occuparono Roma, nel 1798, egli preferì abbandonare la città e fare ritorno a Possagno dove si dedicò alla pittura: in due anni dipinse molte delle tele e quasi tutte le tempere che oggi sono custodite nella sua casa; e realizzò, unica scultura del periodo, la statua del marchese Poleni collocata lungo il recinto di Prato della Valle a Padova. Nel 1800, tornò a Roma dove la situazione si era fatta meno disordinata: lo accompagnava il fratellastro Giovanni Battista Sartori che gli sarà fedele segretario per tutta la vita. Nel 1802 venne nominato da Pio VII Ispettore Generale delle Antichità e delle Belle Arti dello Stato della Chiesa e prestò una particolare attenzione ai criteri di restauro dei reperti archeologici: fu sostenitore della legittimità del restauro integrativo del frammento archeologico, purché l’integrazione rispettasse perfettamente lo stile, le proporzioni e la tecnica del pezzo originale. L’attenzione riservata alle questioni di restauro non impedì a Canova di occuparsi di un altro problema scottante per la tutela dell’arte italiana: la spoliazione di opere d’arte da tutti i territori occupati dai francesi. Canova si schiera apertamente contro questa pratica e si impegna per frenare le asportazioni, sottolineando l’inscindibilità dell’opera dal luogo d’origine e dall’ambiente circostante. Nel 1815, Canova riesce ad ottenere da Napoleone la restituzione delle opere d’arte da questi trafugate durante le campagne in Italia. Papa Pio VII gli conferisce il titolo di Marchese d’Ischia, con un vitalizio di tremila scudi che egli elargirà a sostegno delle accademie d’arte. L’11 Luglio 1818 posa la prima pietra del Tempio che donò alla sua comunità come chiesa parrocchiale: il maestoso edificio sarà completato solo dieci anni dopo la sua morte. Torna per l’ultima volta a Possagno nel 1822 e si ammala. Muore a Venezia nel 1822; il suo cuore viene depositato all’Accademia mentre il corpo viene portato dagli abitanti di Possagno nella città natale e, dal 1832, è sepolto nel Tempio.
IL METODO DI LAVORO Il processo creativo impiegato dal Canova per la realizzazione di una scultura era straordinario e si componeva di quattro fasi. Il primo passo era il disegno in cui il maestro trasferiva i propri “pensieri” sulla carta: ad essi attribuiva un’importanza fondamentale, equiparando la matita allo scalpello, nel disegno pone le basi della sua arte scultorea. Talvolta si tratta di studi veri e propri rigorosamente catalogati e caratterizzati da tratti precisi che segnano gruppi muscolari perfettamente definiti alla maniera delle accademie di nudo; altre volte erano semplicemente appunti registrati sul suo taccuino, per lo più disegni d’invenzione dove si possono identificare le idee nel momento in cui si formano. Immagini che possono sembrare prive di consistenza sono determinate nella propria essenza, cariche di una potenzialità creativa tanto più risultano indefinite, in seguito ritoccate in un incessante lavoro di rielaborazione che trova riscontro nei marmi. Il bozzetto in terra, cotta o cruda, o in cera, era realizzato per poter vedere immediatamente come poteva realizzarsi l’opera appena ideata nel disegno. Famosi i bozzetto della “Maddalena Penitente” e della “Mansuetudine”. Dal bozzetto di creta, in cui era fissata la prima intuizione, Canova passava alla creazione di un modellino di dimensioni maggiori che permetteva uno studio più approfondito; si procedeva quindi a realizzare il modello a grandezza naturale, in creta, avvalendosi di uno scheletro portante di ferro alto quanto l’opera da eseguire; ciò permetteva di reggere la creta anche per gruppi plastici di grandi dimensioni. In tal modo si era in grado di valutare le proporzioni dell’opera fin dai primi momenti di studio. Dalle lettere emerge l’avversione del Canova all’uso dello stucco o del gesso per la realizzazione dei modelli preferendo sin dalle prime realizzazioni, la creta. Ciò gli permise, come egli stesso ci riferisce, la realizzazione in grandezza naturale delle imponenti figure del monumento a ClementeXIV. Il passaggio dal modello in creta a quello in gesso si attuava col metodo della “forma persa”: la creta rivestita da un leggero strato di gesso rossigno veniva ricoperta da uno strato di gesso bianco. Asportata la creta,si colava il gesso all’interno della matrice che veniva infine distrutta procedendo con la massima cautela al comparire dello strato di gesso rossigno. A questo punto i lavoranti fissavano sui punti chiave della figura le rèpere e iniziavano la sbozzatura del marmo. In seguito il materiale sbozzato veniva trasferito nella studio del Maestro per ricevere ciò che egli stesso chiamava “l’ultima mano”, la fase che dava il soffio di vita all’opera d’arte. In ultimo un lustratore , in vari giorni di lavoro donava all’opera la diafana lucentezza del marmo. Canova aveva l’abitudine di spalmare sull’intera superficie epidermica una speciale patina. Il composto doveva essere formato da una mistura di pietra pomice, da una tintura giallognola o, fuliggine o “pura cera e acqua elaborata dallo speziale” o “acqua di rota”(cioè acqua sporca dall’arrotamento di strumenti metallici), come ci riferisce lo stesso Maestro in una lettera. Lo scopo era quello di anticipare gli effetti del tempo “il quale sovente dà alle opere quell’accordo e quell’armonia che l’arte può difficilmente imitare”. Oggi della patina non resta traccia ma pare non rivestisse eccessiva importanza. Decisivo è il tocco “dell’ultima mano”: dove l’artista apporta le decisive modifiche rispetto al gesso: per questo non si possono ascrivere al Canova i marmi rimasti incompiuti alla sua morte. Il Canova nella sua opera di finitura si serviva di innumerevoli strumenti, alcuni dei quali simili a quelli adoperati nell’antichità greca e latina, altri di sua ideazione.
Un primo momento è quello dell’invenzione e della disposizione, la prima idea dell’immagine che si compone e dispone plasticamente ad affermare un suo diritto di vita nello spazio, quasi a prenderne idealmente possesso; un secondo momento in cui quella idea, quella invenzione viene tradotta nella forma più scelta, nella forma cioè in cui concorrano quanto vi sia di più bello sia nella natura che nell’idea stessa.
OPERE
DEDALO E ICARO Opera realizzata nel 1779, è impostata su due grandi zone di luce e ombra. I due corpi sono due curve, una rientrante, il Dedalo, e l’altra, l’Icaro, col busto tutto proteso in avanti ad accogliere la luce, il collegamento è quella funicella, che dovette apparire, ai contemporanei, come un elemento veramente sconcertante. Realizzare la composizione seguendo due curve opposte e tangenti significa sviluppare un effetto di macchia, di contrasto tra chiaro e scuro; un contrasto che si precisa nel verismo del vecchio dal volto rugoso e dalle carni molli, che quasi si contrappone all’idealizzazione della figura del giovinetto, fiero nelle sue proporzioni perfette. È riuscito a conciliare e a esprimere, proprio nello straordinario rapporto tra la resa quasi realistica del vecchio Dedalo e la giovane nudità idealizzata del figlio, le due vocazioni dell’epoca: una relativa alla creazione di una bellezza corrispondente alla ragione e alla perfezione dei modelli classici; e l’altra quasi sperimentale riconducibile al dibattito sulle scienze, le tecniche e l’industria. Del resto l’opera poteva facilmente essere intesa come un’allegoria della scultura, i cui emblemi sono rappresentati accanto alle ali nello straordinario basamento, ma anche in una prospettiva più generale come “emblema del progresso e dell’umano ardimento nel varcare i limiti dell’inventiva sia artistica che scientifica” (Fernando Mazzocca). Il Canova ideò due gruppi: Dedalo e Icaro, e la morte di Procri, grandi secondo le comuni forme: si scelse l’Icaro e il Dedalo, che fu modellato di guisa, che il Dedalo con labbro socchiuso, con occhi immobili, e fronte impressa di repugnanza e di tema, compone un’ala alla destra spalla del figlio, il quale piega alcun poco la testa a mirare al padre col dolce sorriso dell’impazienza di recarsi speditamente nell’aria. Lo scultore fu pago dell’opera sua, e il comun voto giustificò la sua compiacenza; ma per trarla ad esecuzione nel marmo s’avvenne in grandissime difficoltà trattandosi specialmente di due figure aggruppate: conciosiachè non erano conosciute allora in Venezia le pratiche di tirar dal marmo i modelli per la facil via del reticolamento, ed il Canova avendone solo udito parlare fu costretto supplir coll’ingegno al difetto dell’esperienza...
MONUMENTO FUNEBRE A CLEMENTE XIV Il Canova parte dal monumento funerario berniniano: non si propone di ridurre ad ordine e simmetria le movimentate masse barocche, perchè, come si vede, nel monumento non vi è simmetria, ma progressione: dalla figura della Mansuetudine, seduta in basso a destra, si sale a quella della Temperanza, in piedi a sinistra, e da questa a quella in alto, seduta al centro, del pontefice. Il movimento che l’artista ci invita a fare con lo sguardo è salire, svoltare e addentrarsi in una profondità breve, ma chiaramente scandita dai piani del basamento e dalla situazione delle figure. È il percorso sublimante dalla vita alla morte, che è ascesa, svolta dalla vita, ingresso in una dimensione senza tempo né spazio: una dimensione suggerita dalla porta aperta nel basamento e dal gesto del Pontefice, “vestito papalissimamente” che ha “il braccio destro elevato orizzontalmente, e la man distesa per imporre, consigliare e proteggere: alto maestoso simile a Marco Aurelio equestre sul Campidoglio”, come dice il Milizia. È un gesto che noi già conosciamo: ricorda quello di Urbano VIII di Gian Lorenzo Bernini, dell’Innocenzo X dell’Algardi e più ancora quello del San Giovanni Battista dell’Houdon. Tuttavia i panneggi delle altre due figure, la Temperanza e la Mansuetudine, che il Canova chiamava Umiltà, i tipi fisiognomici, ma ancor più, la loro dignitosa compostezza hanno sicuri rapporti con la scultura antica. Lo schema berniniano era improntato sull’emozione visiva, il Canova lo riduce non all’ordine, ma all’essenziale, non più una visione emozionata ed emozionante, ma chiara, distinta, non suggestiva.
MONUMENTO FUNEBRE A CLEMENTE XIII Il tema della sepoltura, abbiamo visto, è stato uno dei più praticati da Antonio Canova, che nei suoi monumenti funebri tende alla consacrazione della memoria del defunto, secondo le esigenze tipiche della cultura illuministica e neoclassica. Il veneziano Carlo Rezzonico è stato papa con il nome di Clemente XIII dal 1758 al 1769. Di personalità molto amabile e caritatevole interpretò su queste basi la funzione del suo apostolato mostrandosi quale "buon pastore" e non come statista interessato agli affari politici e diplomatici internazionali. In questo monumento, eretto in San Pietro, l’atteggiamento classicista di Canova sembra meno rigido. Anche qui gli elementi architettonici sono quelli dei prontuari allora in voga, ma la statua del Pontefice inginocchiato è di un verismo impressionante: le gote cascanti del vecchio Rezzonico, le labbra socchiuse per il respiro affannoso, le mani tremanti. Questa è a tutto tondo e, il Canova, interpretando il carattere del Papa, ce lo rappresenta in atteggiamento umile, il triregno simbolo di potere è a terra, inginocchiato a pregare. Il mantello che cade sopra al basamento sembra riportare alla luce la figura, che è, invece, immersa nella penombra della nicchia. È questo un collegamento tra il mondo dei vivi e quello de morti; il Papa non prega per la sua vita dopo la morte, ma prega per l’umanità intera, sono le sue preghiere che fungono da tramite tra le due dimensioni. A tale mite vivacissima immagine che incorona il monumento, fa duramente contrasto a sinistra quella della Fede, impalata, rigida, il capo coronato da una raggiera di aculei ed ai piedi un leone ruggente, mentre sull’altro lato del monumento un altro leone sonnecchia bonario ai piedi del genio della Morte. I due leoni sono posti a protezione della porta di accesso al sepolcro, simboleggiano la forza. È questa una delle immagini più belle e più caratteristiche del gusto del Canova. Qui sembra definire le sue predilezioni per la scultura prassitelica, il suo gusto per la molle dolcezza delle espressioni, per l’idealizzazione del tipo, per il sentimentale abbandono delle forme. I modelli prediletti sembrano l’Apollo del Belvedere e, più ancora, l’Apollo Sauroctono del Palatino.
TESEO SUL MINOTAURO Il gruppo scultoreo è una rappresentazione del mito di Teseo e si pone come una delle opere più esemplari del concetto di arte neoclassica. L'eroe ateniese, aiutato da Arianna, penetrò nel labirinto di Creta, ove era rinchiuso il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro, e riuscì ad ucciderlo. L'episodio si prestava a molteplici possibilità: uno scultore barocco come il Bernini ne avrebbe probabilmente approfittato per cogliere il momento di massimo sforzo nello scontro tra Teseo e il Minotauro e scolpire un gruppo di grande dinamicità e tensione. Invece Canova, da artista neoclassico, cerca il momento della quiete e non dell'agitazione, così preferisce sintetizzare la storia al momento della vittoria di Teseo, quando la tensione si è oramai sciolta e un profondo senso di pace pervade l'eroe. In questo istante si coglie anche un senso di umana pietà che Teseo prova verso il mostro sconfitto, in quanto la sua nobiltà d'animo gli impone di non odiare il nemico. Tutto il gruppo scultoreo tramette quindi un senso di profonda calma: è il momento in cui l'agitazione delle passioni e delle azioni si spegne e si trasferisce all'eternità del mito. Da un punto di vista stilistico il gruppo ha equilibri molto classici e le forme anatomiche di Teseo richiamano direttamente le perfette fattezze di tante statue dell'antica Grecia. Il gruppo è quindi una espressione paradigmatica delle nuove esigenze estetiche dell'arte neoclassica.
AMORE E PSICHE Il gruppo, oggi conservato al Louvre, appartiene alle allegorie mitologiche della produzione canoviana, esso rappresenta Amore e Psiche nell’atto di baciarsi. Eseguita in marmo bianco, la scultura ha superfici levigate ed un modellato molto tornito. La composizione ha una straordinaria articolazione: la donna, Psiche, è semidistesa, rivolge il viso e le braccia verso l’alto e, per far ciò, imprime al corpo una torsione ad avvitamento; l’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con l’altra gamba si spinge in avanti inarcandosi e contemporaneamente piegando la testa di lato per avvicinarsi alle labbra della donna. Il soggetto è tratto dalla favola di Apuleio, secondo la quale Psiche era una ragazza talmente bella da suscitare l’invidia di Venere, così che la dea le mandò Amore per farla innamorare di un uomo brutto. Ma Amore, dopo averla vista, se ne invaghì e, dopo una serie di vicissitudini, ottenne che Psiche entrasse nell’Olimpo degli dei, per restare con lui. Il soggetto è qui utilizzato come allegoria del potere dell’amore, visto soprattutto nell’intensità del desiderio che riesce a sprigionare: da qui la scelta di fermare la rappresentazione all’istante prima che il bacio avvenga ed il desiderio si consumi. Per comprendere lo spirito della cultura neoclassica è utile confrontare il gruppo scultoreo di Amore e Psiche con un’altra famosa allegoria mitologia: l’“Apollo e Dafne” di Gian Lorenzo Bernini. Quest’ultimo gruppo scultoreo fu realizzato tra il 1622 e il 1625, agli inizi della diffusione del barocco, e rappresenta indubbiamente uno dei maggiori esiti di questo stile di cui Bernini fu uno dei maggiori rappresentanti. Dafne, secondo la mitologia, era una bellissima fanciulla di cui si era innamorato Apollo. Dafne, per sfuggirgli, scappò ai piedi del Parnaso e qui, nel momento in cui stava per essere raggiunta da Apollo, chiese aiuto alla madre che la trasformò in una pianta di alloro. Il gruppo del Bernini rappresenta indubbiamente un attimo fuggente: Dafne viene appena sfiorata da Apollo ed ha già i capelli che stanno divenendo dei rami di alloro. È giusto un attimo: l’istante successivo Dafne non ci sarà più. Per enfatizzare ciò Bernini dà al gruppo un’apparenza di equilibrio instabile, evidente soprattutto nella curva ad arco che forma il corpo di Dafne. Il gruppo del Canova ha invece una fermezza ed una staticità molto più evidenti. Lo si osservi soprattutto nella visione frontale. Il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore formano uno schema ad X simmetrico. Al centro di questa X le braccia di Psiche definiscono un cerchio perfetto che inquadra al centro il punto focale della composizione: quei pochi centimetri che dividono le labbra dei due. In quei pochi centimetri si gioca il momento pregnante, ed eterno, del desiderio senza fine che l’Eros sprigiona. La differenza tra le due sculture non è da ricercarsi sulla differenza stilistica o formale, risultando entrambe di notevolissima fattura per tecnica esecutiva, ma sulla diversa cultura che le ispira. Lo sforzo del Bernini è di cogliere la vitalità della vita in continuo movimento, e per far ciò cerca di annullare la materia per lasciare solo la sensazione del divenire. Canova mostra invece tutta a tensione neoclassica di giungere a quella perfezione senza tempo in cui nulla più può divenire, e per far ciò pietrifica la vita dando alla materia una forma definitiva ed eterna.
TOMBA DI MARIA CRISTINA D’AUSTRIA Il monumento funerario a Maria Cristina d’Austria rappresenta una grossa novità nella tipologia del monumento funebre: solitamente esso ha come centro compositivo il sarcofago o l’urna in cui materialmente venivano conservare le spoglie del defunto. Al di sopra dell’urna veniva collocata l’effige statuaria celebrativa; di sotto o di fianco venivano poste immagini allegoriche sul significato della morte. Nel monumento a Maria Cristina d’Austria l’urna scompare per essere sostituita dalla immagine triangolare di una piramide. L’effigie viene sostituita da un ritratto di profilo a bassorilievo, inserito in un medaglione di chiara derivazione classica. Notevole importanza assumono le figure allegoriche che, nell’intenzione dell’artista, non sono puri e semplici simboli ma devono commuovere per l’azione in divenire che stanno rappresentando. Esse, infatti, compongono un singolare corteo funebre che si accinge a salire i gradini che portano alla porta della piramide. Da questa porta fuoriesce un tappeto che scorre sui gradini come un velo leggero e impalpabile. È il temp che scorre inesorabile, stendendo un velo sui momenti lontani. Il corteo è aperto da una giovane ragazza che ha già un piede oltre la soglia della tomba. È seguita da una donna che rappresenta la Pietà con in mano l’urna delle ceneri della defunta. Un’altra ragazzina la sta seguendo. Più indietro un’altra giovane donna avanza, aiutando un vecchio uomo a salire le scale. Sono rappresentate tutte le tre età della vita, dalla gioventù alla vecchiaia, a simboleggiare che la Morte non risparmia nessuno. Le figure procedono con incedere lento e mesto. Hanno tutti la testa chinata in avanti, a simboleggiare che nei confronti della Morte la superbia umana non può nulla. Di fianco la porta della piramide, che quindi simboleggia la porta di passaggio dal mondo terreno al mondo dei morti, c’è l’allegoria del Genio della Morte poggiato sul Leone della Fortezza. In alto, il medaglione con il ritratto di Maria Cristina d’Austria è circondato da un serpente che si morde la coda, simbolo quest’ultimo dell’Eterno Ritorno. Il medaglione è sostenuto dalla allegoria della Felicità, mentre un’altra figura angelica porge alla defunta una palma, simbolo della gloria. La piramide, come simbolo dell’Oltretomba, è decisamente una immagine neoclassica. Contiene la reminescenza delle antiche piramidi egiziane, i più grandi monumenti funebri mai realizzati dall’uomo, e si presenta con una forma geometrica semplice, il triangolo, ma carico di notevoli significati allegorici. La porta che si apre nella piramide assomiglia invece, per fattura, alle porte delle tombe etrusche delle necropoli di Tarquinia o Cerveteri. Ed anche questo riferimento etrusco, nell’immaginario collettivo, finisce per collegarsi al mondo dell’Oltretomba. Il senso della morte, qui rappresentato, ha la dignità profonda e nobile della concezione neoclassica. Tuttavia, la commozione che suscita il corteo funebre finisce per prendere un significato quasi romantico. La scelta di anticipare il momento pregnante, non a quello eterno della Morte oramai sopraggiunta, ma al momento precedente in cui la Morte richiama a sé le persone che, a capo chino, non possono sottrarsi al suo invito, carica di profondo dolore la percezione della morte come azione in divenire. È il profondo strazio di chi, pur restando vivo, non può che guardare con senso di sgomento e di ineluttabilità l’avviarsi alla morte delle persone care. Questa inaspettata rappresentazione di un dolore, che deve suscitare compassione in chi guarda, è la prova della grandezza del genio di Canova che, al di là della facile etichetta di scultore neoclassico, per la inconfondibile fattura stilistica delle sue statue, si presenta come un artista capace di cogliere i fermenti più vivi e nuovi del suo tempo, ed anche anticiparli nelle sue opere d’arte.
PAOLINA BORGHESE La grande fama acquisita da Antonio Canova, fece sì che tra i suoi committenti ci fosse anche Napoleone Bonaparte, per il quale Canova eseguì diversi lavori che immortalarono, non solo la figura dell’imperatore, ma anche dei suoi familiari. Uno dei ritratti più famosi è sicuramente questo dedicato a Paolina Bonaparte, raffigurata idealisticamente nuda e con in mano il pomo di Paride, attestato di superiore bellezza. Su di un basamento di legno che ne ha il colore, ma non vuole fingere il marmo, ornato di finiture d’oro, poggia, acquistando leggerezza anche grazie a quella policromia, il blocco di marmo. In esso la bellissima e scaltra sorella di Napoleone, andata in sposa in seconde nozze nel 1803 a don Camillo Borghese, è raffigurata nell’aspetto di Venere vincitrice. Appena sollevata sui soffici cuscini di seta, leggera e viva insieme, dai sottili capelli rialzati sulla fronte, alla liscia dolcezza del petto e delle reni, alla bellezza delle mani e dei piedini morbidi di fata, Paolina sorride nello sguardo pungente e malizioso senza che quel sorriso turbi la distaccata e regale fermezza dei lineamenti. La figura è adagiata mollemente su un triclino, richiamando un po’ la tipologia dei ritratti semidistesi presenti sui sarcofagi etruschi (ad esempio, il “sarcofago degli sposi” conservato a Villa Giulia). Tuttavia, a dispetto di questo richiamo un po’ funereo, la notevole abilità tecnica di Canova riesce ad infondere un alito di vita all’immagine di marmo, risultando così verosimile l’intera scultura da suscitare apprezzamenti più che entusiastici. La composizione permette un passaggio graduale dall’orizzontalità del giaciglio alla verticalità della testa, con un morbido andamento sinuoso e ritmico, reso evidente dalla linea del contorno, determinata dalla posa frontale, e dallo stacco tra il colore del marmo e lo spazio che la circonda. Le superfici sono tratte pittoricamente con sottili trapassi luminosi, generati dall’incresparsi del lenzuolo ricamato sotto il peso della giovane donna languidamente distesa, dalle pieghe del panno che ne riveste la parte inferiore. Ciò conferisce al corpo nudo un calore, cui non è estranea la risultante cromatica generata dall’accostamento al marmo degli ornamenti dorati del lettuccio. Quest’ultimo ospita all’interno un meccanismo che fa ruotare la scultura come in altre opere di Canova. Si inverte così il ruolo tra l’opera e l’osservatore: è la scultura ad essere in movimento, mentre l’osservatore fermo viene impressionato dalle immagini sfuggenti.
LE TRE GRAZIE Il gruppo delle tre Grazie era uno dei temi più in voga nel periodo neoclassico, ed ovviamente non poteva mancare nel repertorio di Antonio Canova. Le tre figure di Aglaia, Eufrosine e Talia erano le protettrici degli artisti, in quanto da loro proveniva tutto ciò che vi è di bello nel mondo umano e naturale. Canova le raffigura nella posizione più canonica, ovvero abbracciate e disposte a circolo. Sono nude, così come le ritroviamo nella tradizione ellenistica, e vengono rappresentate dall’artista nella classica posizione a chiasma. L’incrociarsi delle membra serve qui a dare un molle abbandono alle figure che, nel sostenersi a vicenda, formano quasi un unico gruppo di affetti e sensualità corrisposte. L’immagine è quindi concepita come esaltazione di perfezione e bellezza, sommi canoni estetici per il gusto neoclassico. Ma non è solo questo. Canova rappresenta le tre figure in modo chiaramente diverso: la prima a sinistra, Aglaia, ha i fianchi larghi, simbolo di maternità; Eufrosine, al centro è più alta e longilinea, vuole significare l’intelligenza; e l’ultima, Talia, mollemente abbandonata nell’abbraccio, è la sensibilità. Sono le tre peculiarità della donna; ecco che questo gruppo vuole rappresentare in tre figure la donna nella sua totalità. Altra interpretazione è quella che si può derivare da Socrate, e cioè le tre caratteristiche che fanno un uomo “buono”: ricevere, accettare e ricambiare. Ed ecco allora che si spiega l’abbraccio che si sviluppa in modi circolare e continuo attorno alle figure. Dove finisce una mano, ne inizia subito un’altra. E questa unità del moto a circolo viene ancor più sottolineata dal drappo che, unico, copre le nudità di entrambe.
BIBLIOGRAFIA TESTI DI RIFERIMENTO: -AAVV,L’opera completa del Canova, Torino, Rizzoli, 1999; -AAVV, Il Neoclassicismo in Italia da Tiepolo a Canova, Milano, Skira, 2002; -Argan Giulio Carlo, Storia dell’arte italiana, vol. 3, Firenze, Sansoni editore, 1999; -Lavagnino Emilio, Canova e le sue invenzioni, Roma, De Luca editore, 1954;
SITI INTERNET CONSULTATI: www.antoniocanova.it realizzato da Paolo Gramatica; www.wikipedia.org; www.museocanova.it a cura di Lascito Fondazione Antonio Canova; www.scultura-italiana.com a cura di Francesco Locatelli;