Erodoto108 n°1

Page 1

NUMERO UNO


ERODOTO 108 · NUMERO UNO 04 · THE TEMPLE OF FOXES Duncan Mountford 14 · BEHIND THE LIGHT Lorenzo Bernini 28 · LO SPECCHIO DI ALEXANDRINE Andrea Semplici 50 · DENTRO LO SPECCHIO Valentina Cabiale 52 · INDOCINA Matteo Trentanove 64 · VERSO IL CONFINE DELL’EX IMPERO Fabio Belafatti 76 · SAMUEL ARANDA Sergio Leone

ERODOTO108.COM

Editore: Marco Turini, Direttore responsabile: Emiliano Rolle, Vice direttore: Andrea Semplici Redazione: Fabio Belafatti, Valentina Cabiale, Elena Cerretelli, Lorenzo Bernini, Sara Lozzi, Sergio Leone Web designer: Allegra Adani, In copertina foto di Andrea Semplici Progetto grafico: Benedetto Papi © Erodoto108.it Registrata al Tribunale di Firenze Stampa Periodica al n.°5738 il 28/09/2009


EDITORIALE Benvenuti (per chi non la conosceva prima) a Erodoto108! Erodoto108 è nata come rivista online dedicata al Viaggio, in tutte le sue forme. Scrittori e giornalisti, fotografi ed opinionisti, grafici e web designers hanno contribuito con grande entusiasmo alla realizzazione del vecchio e del nuovo Erodoto108. Gli articoli che ci sono stati inviati si contraddistinguono come sempre per la straordinaria qualità artistica e professionale. Con questi contributi (tanti) vogliamo raccontare realtà vecchie e nuove, scoprire mondi possibili e sostenibili oppure batterci per denunciarne le condizioni. Vogliamo raccontare semplici storie e nel nostro piccolo “fare informazione” attraverso i media della scrittura, della fotografia e quest’anno anche dei video e del disegno d’autore. Ci siamo rinnovati. Erodoto108.com si è messo al passo con i tempi e ha assunto una nuova veste grafica: pulita, accattivante e soprattutto responsive , ovvero i contenuti si adattano in base al dispositivo con cui navigate nel sito (netbook, smartphone, tablet). Alcuni collaboratori ci hanno salutato e tanti altri invece si stanno aggiungendo alle nostre fila. Dietro ad Erodoto108 c’è un esercito di artisti e professionisti che vogliono condividere le loro esperienze e la loro vista sul mondo. Dietro ad Erodoto108 ci siete voi, i lettori, che contribuiscono a rendere questa rivista così straordinaria e allo stesso tempo viva. Benvenuti al nuovo Erodoto108, a vecchi, nuovi e futuri viaggiatori! La redazione.


THE TEMPLE OF FOXES Testo e foto di Duncan Mountford



ella mia prima visita a Kyoto, dopo una notte passata a guardare dei fuochi d’artificio fuori dalla città, stavo vagando lungo le strade secondarie che di dirimano dalla strada principale, tenendo a mente l’avvertimento di un amico riguardo alla possibilità di fare in questi luoghi incontri inaspettati. A questo punto ho avuto tre giorni dalla mia prima visita in Giappone, per abituarmi a vedere Tanuki fuori da ogni ristoro con templi e santuari situati a intervalli regolari. Mi tornò in mente una descrizione della mia città natale, Liverpool, caratterizzata dalla presenza di un pub all’angolo di ogni strada e di una chiesa alla sua metà, ma nonostante questo ho scoperto di essere rimasto sorpreso ogni volta che scoprivo un nuovo e ben curato santuario.

[6]

E infine vidi la mia prima volpe. Il tempio era piccolo e solamente quando mi fermai riuscii ad avvertirne la diversità. Due volpi guardavano dritto verso di me e appena scattai una fotografia mi ritrovai a chiedere perdono per averle disturbate. Durante la mia prima visita in Giappone quello è stato l’unico santuario dedicato alle volpi che riuscii a individuare. Soltanto quando ritornai a casa scoprii gli scritti

di Lafcadio Hearn dove trovai una sezione dedicata allo spirito della volpe e realizzai che la volpe era in realtà una figura molto importante. Al mio ritorno in Giappone, l’anno seguente, ho iniziato a ricercare i tempi dedicati alla volpe, scoprendoli ovunque, dal piccolo tempio a fianco del grande complesso dove abitavo nel centro di Tokyo, alla piccola edicola incastonata in un vecchio muro, dove notai due pic-


[7]


[8]

cole statuette in ceramica a forma di volpe. Quando rivisitai Kyoto mi informarono del principale tempio delle volpe in città e mi recai a cercarne la posizione. Dal momento in cui scesi dal treno locale e vidi il muso delle volpi sui segnali della stazione ferroviaria fino alle strade piene di botteghe dove comprare il cibo preferito dalle volpi sulla via per il santuario, sapevo che ero entrato nel regno di Kitsune san. L’entrata del tempio era custodita da due grandi statue di volpe, che scrutavano dall’alto chiunque osasse entrare. Ancora mi ritrovai ad inchinarmi e a chiedere perdono prima ancora di scattare qualche fotografia, e considero

il fatto che le foto siano riuscite come un segno che la mia supplica era stata accettata. Mi arrampicai sulla montagna che era il santuario, seguendo il sentiero che conduceva ad aree occupate solo da altari e statue di volpi di tutte le dimensioni, avvolte dai fumi dell’incenso. Attorno al collo di ogni volpe vi era un lembo di stoffa rossa, e questo evocava il colore delle foglie degli alberi che in Autunno ricoprivano la montagna. Stavo pensando al significato di questo tessuto, e mi è parso come se lo spirito delle volpi imitasse l’abito degli incivili cacciatori che inseguono le loro compagne nella mia terra d’origine.


On my first visit to Kyoto, after a night watching a fire festival in a small village outside the city, I wandered down side streets branching from the main road, keeping in mind my friend’s admonition that down such streets lie unexpected encounters. I had by this time, three days into my first visit to Japan, got used to seeing Tanuki outside every eating place, and shrines and temples at regular intervals. I recalled a description of my home town of Liverpool as having a pub on the corner of every road with a church between, but even so each carefully tended shrine I discovered amazed me. And then I saw my first fox. The shrine was small, and only

as I paused did I notice the difference. Two foxes looked out at me, and as I took a photograph I found myself asking forgiveness for having disturb the foxes. During that first visit to Japan this was the only fox shrine I noticed. It was not until I returned home that I discovered the writings of Lafcadio Hearn, and here I found a section devoted to the fox spirit, and I realised that the fox was a powerful figure. Upon my return to Japan the next year I began to search for fox shrines, and I discovered them everywhere, from the small shrine at the side of the larger complex directly outside where I stayed in central Tokyo, to a cabinet set into a old wall, within

[9]


[ 10 ]


[ 11 ]


which sat two miniature ceramic foxes. When I revisited Kyoto I was told of the main fox shrine in the city, and I went to find this place. From the moment I alighted from the local train, and saw the fox faces on the railway station signs, to the street full of places selling the foxes favourite food on the way to the shrine, I knew I had entered the domain of Kitsune san. The entrance to the shrine was guarded by two large fox figures, who stared down at all who dared approach. Again I found myself bowing and asking forgiveness before I took photographs, and I regard the fact that the photographs were successful as a mark that my supplication was accepted. I climbed the mountain that was the shrine, following the path of

tori to cleared areas of altars with fox figures of all sizes, wreathed in the smoke of incense. Around the neck of each fox was a piece of red cloth, and this echoed the colour of the leaves of the Autumnal trees that covered the mountain. I wondered about the meaning of this fabric, and felt as if the fox spirits were mocking the dress of the uncivilised hunters of their fox brethren in my own land. Even in the centre of Ginza, between the glass and concrete office blocks, sits a shrine, with two foxes watching the passing workers and those shopping at the fashionable stores. Some stop and make obeisance for financial luck or ill-fortune is in the gift of the fox, and gold given one night can be found to be straw the following morning.

[ 12 ]

Duncan Mountford è un artista britannico esperto nelle arti visive e multimediali, attivo nella curatela di mostre ed installazioni di arte contemporanea. Il testo e le foto nell’articolo sono state eseguite durante uno dei suoi numerosi viaggi nell’Est asiatico, in Giappone. Attualmente Duncan lavora e vive a Taiwan come docente universitario. (duncan-mountford.moonfruit.com)


[ 13 ]


BEH THE L

Un reportage fotografi


HIND LIGHT

fico di Lorenzo Bernini


[ 16 ]

Le immagini che ho scelto sono state scattate in India, quasi tutte di notte sulle strade di grandi cittĂ o piccoli e polverosi villaggi nel Rajasthan, aspettando che i mezzi di trasporto creassero delle combinazioni tra le luci dei fari e la polvere che sol-

levavano con il loro passaggio. Un gioco tra luce e ombra, tra realtĂ e fantasia, in cui i distraenti colori saturi del giorno indiano svaniscono con il calare del sole, rivelando la contrastata essenza a volte buia, a volte luminosa di questo grande e misterioso paese.


Per la realizzazione di questo progetto ho utilizzato una fotocamera digitale Canon 5DMK2 e una vecchia Pentax K1000 con una pellicola Kodak Trix 400 tirata a 1600 iso.






Un buon fotografo è una persona che comunica un fatto, tocca il cuore, fa diventare l’osservatore una persona diversa. (Irving Penn)







LO SPECCHIO DI ALEXANDRIN

Testo e foto di Andrea Semplici


O

NE



o incontrato Alexine nelle pagine di un vecchio libro, scritto in un italiano straordinario. Mario Tobino raccontò ‘Il deserto della Libia’ con parole lente e meravigliose. Non so come abbia potuto, tanti anni fa, sapere di Alexandrine, ma dieci pagine del suo libro sono dedicate a lei. Questa donna non ha lasciato tracce dietro di sé, i pochi studi che la ricordano sono di questi ultimi anni. E sono tutti incompiuti, incapaci di comprenderla. Forse non è possibile. Un filo di nostalgie ha segnato il viaggio di Alexine. Il deserto conserva e custodisce: questa nostalgia sarà arrivata anche agli orecchi di Mario Tobino? Ovunque Alexine andasse donava la sensazione della bellezza e della impossibilità. Tutti avrebbero voluto fermarla, salvarla, consolarla. Tutti avrebbero voluto per lei giorni di pace. Nemmeno io riesco a liberarmi di lei. Come se mi fosse attorno e non riuscissi a vederla. Immaginarla, sì, questo sì. Guardo le dune del Murzuq e so che da qualche parte, introvabile, c’è un accampamento strano. Appoggiato al palo di una tenda vi è un grande specchio. Il sole sta per riflettervi il suo tramonto. Una donna vi si avvicina con un sorriso leggero.

Ho chiesto di te. Forse con troppa timidezza. I vecchi, all’ombra della moschea, hanno scosso la testa, guardando altrove. Un ragazzo è tornato ciondolando: gli avevo chiesto di andare in giro a chiedere. È riapparso dopo un paio d’ore. Ho atteso che avesse voglia di raccontare. E lui, dopo il tempo del tè, ha solo sussurrato una serie di nomi: pelle-

grini ancora ricordati in città, uomini santi, hadji che avevano viaggiato per i deserti fino alla Mecca e che, sulla via del ritorno, qui si erano fermati. Ma nessuno aveva saputo dirgli dove fosse la casa dei due fratelli. Come se il negriero Abdallah e suo fratello, il mistico Sidi Mohammed ben Alua, mai avessero vissuto a Murzuq. Eppure erano stati uomini potenti, ric-

[ 31 ]


chi, a loro modo generosi. Avevano avuto in mano, per anni e anni, il commercio degli uomini. Che cosa mi aspettavo? Erano passati troppi anni. Quasi un secolo e mezzo. Ma la memoria, in queste terre, è lunga, lascia sempre dietro a sé dei sedimenti: ero certo che avrei trovato almeno il ricordo di questo clan così celebre. E, invece, nulla. Gli abitanti dell’oasi, oggi raggiunta dall’asfalto, dicono di non aver mai sentito le storie dei due fratelli e di quella donna bianca. La prima che fosse mai stata vista fra queste sabbie. Ma io sapevo che lei, Alexine, il giorno dopo il suo arrivo nell’ultima oasi della Libia, aveva conosciuto quei due vecchi mercanti. Era un giorno di marzo. Le notti erano ancora gelide, ma il gran deserto che accerchiava l’oasi sembrò scaldarsi quando quella strana carovana apparve all’orizzonte. Era un giorno di marzo del 1869. Alexine e la sua gente avevano viaggiato per trentasei giorni per raggiungere quelle case disperse in mezzo al Sahara. [ 32 ]

Una traccia esile, mi ha condotto fino a qui. Le parole di un vecchio romanzo. Che ricorda il racconto, malinconico e bellissimo, di un vecchio ufficiale coloniale italiano. Un giovane tenente lo ascoltava senza interromperlo. Niente di più. Ma è stato per lo scorrere di quelle pagine che sono arrivato

a Murzuq. Fino a queste ultime tamerici, ultimi cespugli rinsecchiti, ultimi sacchetti di plastica laceri e abbandonati. Oltre, per centinaia e centinaia di chilometri vi è solo il deserto. Questo è uno dei cuori del Sahara. Confine nord-orientale dell’edeyen di Murzuq, grande cerchio di sabbia all’estremo Sud della Libia. Qui le dune si alzano senza clamori: appaiono basse, antiche, facili da scavalcare. Ma è un inganno: questo deserto è un intrico, un labirinto. Le sue dune sono come lana intrecciata: inestricabili. Le carovane, prima, e gli esploratori, poi, hanno sempre evitato di ritrovarsi in mezzo a questo edeyen senza pozzi, né piste. Questa terra, fino a metà del ‘900, è stata senza mappe. Per questo, come tutte le anime che non conoscono la malinconica dolcezza della quiete, Alexine non fu capace di resistere al fascino irraccontabile di una regione ignota. Nei mesi precedenti aveva letto, con passione, le pagine di un giovane francese: Henry Duveyrier conosceva perfino la lingua degli uomini del deserto e, appena ventenne, aveva raggiunto i canyon di roccia del Tassili ‘n Ajjer, misteriosa falesia che si alza laggiù, verso Occidente. I tuareg avevano affascinato quel ragazzo. I suoi taccuini erano diventati il primo libro mai scritto su questo popolo. Fu lui a disegnare le prime mappe di quel deserto. E, de-


[ 33 ]


stino impietoso, mai sarebbe tornato in quel Sahara che gli aveva rubato la memoria e l’anima. Alexine passò ore eccitate sulle pagine di Duveyrier. Lei aveva già conosceva le sabbie dell’Egitto, le acque del Nilo, le paludi del Sudan. Le febbri tropicali avevano minacciato la sua gioventù. Non solo: erano state crudeli al punto da uccidere, appena quattro anni prima, le persone che aveva più care. Ma nemmeno il dolore di queste tragedie avrebbe potuto fermarla. Partire, ripartire, andare. Quel deserto doveva pur avere una fine…

[ 34 ]

Non ho insistito né con i vecchi di Murzuq, né con il ragazzo. Che ora se ne sta seduto accanto a me. Fa dondolare una gamba. Una ciabatta azzurra, appesa alle dita del piede, oscilla come lo sgabello di un’altalena. Sono ore calde. Si sta all’ombra. Il minareto della moschea, scheggia superstite della città vecchia, è sghimbescio: ha una strana forma, che sembra violare leggi dell’equilibrio. È come se stesse per afflosciarsi su sé stesso. Nel vecchio romanzo, colmo di parole di altri tempi, sta scritto che Murzuq è ‘un paese infisso nel Sahara’. Su un terrapieno, i turchi hanno costruito un forte. L’ufficiale coloniale ricorda che ‘sembra fatto con l’argilla da un fanciullo solitario’. Aveva in testa solo Alexine, quel militare senza

nostalgie del suo paese. La notte in Sahara, dice, ‘splende come fosse di quarzo’. Appoggio il libro sul gradino di terra cruda dove sono seduto. La luce, oltre la linea dell’ombra, acceca. Il mondo, a una certa ora del giorno, sbiadisce fino a diventare un pannello che riflette i raggi del sole. Il ragazzo sonnecchia. Devo dirvi chi è Alexine. Alexandrine Pieternella Francina Tinné aveva 33 anni quando, alla fine di gennaio del 1869, lasciò Tripoli alla testa di una grande carovana. Era ricca, Alexine: aveva alle spalle uno dei più grandi patrimoni d’Olanda. Suo padre, Philip Fredrik Tinné, era un mercante: aveva fatto fortuna con le piantagioni di canna da zucchero e caffè che, da giovane avventuriero, aveva comprato nella colonia olandese di Demerara, l’antica Guyana, quella terra che oggi si chiama Suriname. Alexine era figlia della sua seconda moglie, la baronessa Harriet Van Cappellen: Philip aveva già 63 anni quando nacque quella bambina, Harriet ne aveva 37. Alexine rimase orfana del padre ad appena dieci anni. Era considerata la più ricca ereditiera di Olanda. Qualcuno si è messo a calcolare la sua fortuna personale: 69mila sterline di allora, cinque milioni di euro di oggi. Non so cosa spinse quelle donne, Harriet, la zia Adriana ed Alexine, a partire per


[ 35 ]


[ 36 ]


l’Africa. Per l’irraggiungibile Sudan. Usarono la loro ricchezza per smarrirsi in Africa. Non riesci ad immaginarle mentre camminano per la savana: le fotografie che sono giunte fino a noi, le mostrano avvolte in grandi gonne dai colori scuri (nemmeno le scarpe riesci a intravedere), indossano mantelle che coprono tutto il corpo, cuffie e crinoline nascondono i capelli. Era coraggiosa e spavalda, Alexine. Viveva in un secolo che niente concedeva alle donne. Eppure lei era poliglotta, suonava il pianoforte con maestria, era una pittrice di buon talento. Avrebbe potuto felicemente sposare un giovane e brillante ufficiale tedesco. E, invece, mandò al diavolo ogni convenzione e agiatezza. Amava quel ragazzo destinato a una carriera militare in Sassonia, ma lo abbandonò. Con la madre vagò per l’Europa. Un passo dopo l’altro. Si spinsero in Medioriente, attraversarono il Mediterraneo. Alexine imparò l’arabo alla perfezione, divenne un’eccellente fotografa. A poco più di vent’anni, avevano già disceso il Nilo fino alla prima cateratta. L’Africa l’aveva conquistato. Madre e figlia avrebbero meritato ben altra gloria, ma erano donne in un mondo di soli uomini. Pochi le ricordano come esploratrici: le società geografiche, allora, le considerarono solo eccentriche signore

olandesi che giocavano a fare le avventuriere. Disorientavano quelle tre donne: viaggiavano in terre pericolose solo per il desiderio di viaggiare. E non hanno mai scritto un libro di memorie, nessuna vanitosa cronaca delle loro avventure. Quegli esploratori boriosi che le incontravano lungo le piste dell’Africa non sapevano come classificarle. Samuel Baker, puritano esploratore inglese, ne fu scandalizzato: ‘Queste donne viaggiano sole, senza protezione. Sono matte. Avventurarsi fra i Dinka per una donna sola è una pazzia. I nativi vanno in giro completamente nudi’. Solo Livingstone ne riconobbe il grande, ingenuo coraggio: ‘Questa donna olandese ha la mia stima più grande’, annotò in una pagina del suo diario. Alexandrine aveva una luce negli occhi che narrava della sua tenacia. Fu lei a trascinare nuovamente la madre verso l’Africa. Avrebbero potuto godersi le loro ricchezze nel lusso di un’Europa ottocentesca: preferirono un destino di febbri incurabili e il rischio dell’ignoto delle foreste tropicali. Madre, figlia e zia furono le prime donne bianche a spingersi nel cuore delle regioni meridionali del Sudan. In battello raggiunsero Gondokoro, ultimo avamposto lungo le sponde del Nilo Bianco. Oltre, il fiume non è più navigabile. Alexine non volle sen-

[ 37 ]


[ 38 ]

tir ragioni: la spedizione (settanta uomini di scorta, centinaia di portatori) proseguì nei territori sconosciuti del Bahr el-Ghazal, grande affluente occidentale del Nilo. Fu un viaggio tragico: le febbri uccisero la madre, le sue dame di compagnie (già, Flora e Anna non avevano abbandonato Alexine), il botanico Steudner. Malattie e diserzioni decimarono la carovana. Alexine sopravvisse. Volle sopravvivere. Ma era oramai condannata alla solitudine: a Khartoum morì anche sua zia Adriana. Lei riuscì a tornare al Cairo e a spedire all’erbario di Vienna le piante che aveva raccolto durante il viaggio (vi erano

almeno 24 piante allora sconosciute e i botanici austriaci furono entusiasti del lavoro di Alexine,di sua madre e di Steudner). Aveva quasi trent’anni, un dolore irreparabile nel cuore e la determinazione di essere oramai una figlia dell’Africa. Non sarebbe mai più tornata in Olanda. Vagò, per mesi e mesi, lungo i confini inquieti di quel continente. Alla fine approdò ad Algeri. Una porta che poteva aprire nuovi spiragli verso le piste che, oltre il Sahara, l’avrebbero ricondotto nell’Africa nera. Alexandrine Tinné, bella e ricca, sarà la prima donna bianca a tentare di attraversare il deserto arido più grande del mondo.


È tempo di mettersi in cammino. In deserto l’arte della pazienza è una virtù, ma, qui, all’ombra di un antico minareto, non riesco a coltivarla. Alexine non mi dà pace. Pone domande alle quali non vi è risposta. Vado a cercare gli autisti. Sono distesi al riparo delle loro macchine. Sono abituati ai bianchi, si rimettono in movimento senza protestare. Sono passate solo tre, forse quattro generazioni di tuareg da quando quella donna olandese aveva incontrato i loro bisavoli. Ci dirigiamo verso le dune dell’edeyen di Murzuq. Con un balzo scavalchiamo il primo cordone, scendiamo con destrezza, facciamo uno slalom, prendiamo ve-

locità, risaliamo. Rimaniamo in equilibrio sulla cresta di un’altra, grande duna. Ècome se le ruote posteriori della macchina fossero ancorate alla sabbia. E adesso non ho occhi che per un riflesso che non c’è. Tutti cerchiamo uno specchio. Lo specchio di Alexandrine. Dovrebbe essere qui. Speriamo che il sole al tramonto lo illumini all’improvviso. Ma sappiamo di non avere alcuna speranza. Forse l’antenato di un predone targhi lo ha ancora. Nascosto nella sua tenda. Più probabile che sia andato in frantumi. Alexine aveva lasciato Murzuq alla fine di luglio del 1869: voleva raggiungere la lontana oasi di Ghat.

[ 39 ]


Prima di lei solo altri due europei, avvertono cronache incerte, avevano vagato per il Sahara dei tuareg. E poi, questo edeyen, verso il quale stava dirigendosi, era sconosciuto perfino al popolo nomade delle sabbie. Forse siamo venuti fin qui, cento e quaranta anni dopo di lei, solo per cercare tracce che non ci sono. Che fine avrà fatto il suo grande specchio? Dicono che lo avesse comprato al Cairo e che fosse capace ‘di raffigurarla tutta’: ‘la ricopiava dai riccioli alle punte degli stivaletti’.

[ 40 ]

Alexine non era una viaggiatrice leggera. Non si nascondeva. Non si travestiva da uomo, non celava la sua ricchezza, affrontava ogni viaggio portandosi dietro un accampamento fastoso. Assomigliava a una sultana. Alcuni sono certi della sua conversione all’Islam. Cavalcava il suo dromedario protetta da un baldacchino di lino. Al Cairo, oltre lo specchio aveva comprato ‘un comò intarsiato e lucente e un tavolo complicato di tiretti segreti’. A leggere quanto voleva portare in mezzo al Sahara si rimane interdetti. Al fratello chiese di spedirle: un microscopio, una macchina del ghiaccio, una sveglia, sete colorate, inchiostro simpatico, una macchina fotografica Debroni, un altro piccolo specchio, tessuti rossi e neri, velluti, tè verde, venti scatole di dolci natali-

zi, fazzoletti di cotone, venti estratti di carne Liebig, un piccolo cannone che spari dritto, cinquanta pistole, qualche spazzolino da denti e del dentifricio, polvere contro le febbri…. Le pagine di Duveyrier popolarono di sogni e progetti i giorni algerini di Alexine. Non le piaceva quella città. Voleva ricominciare a viaggiare. Strano, vi è sempre un momento nella vita inquieta di un viaggiatore in cui qualcosa accade. Duveyrier, ad appena diciotto anni, aveva raggiunto l’oasi di Ghardaia e lì aveva intravisto, come un miraggio, un uomo alto, dinoccolato, che indossava una lunga tunica azzurra e aveva il capo coperto da uno cheche che lasciava spazio solo agli occhi. Quell’apparizione segnò il destino del giovane francese. Alexine, all’oasi di Touggourt (luogo simbolo, una frontiera: in arabo sta per ‘cancello’), celebre per i suoi datteri, vide partire una carovana verso il cuore del Sahara. Pensò di staccarsi dal suo seguito, di abbandonare i suoi bagagli e di attraversare il deserto assieme a quei silenziosi tuareg. Ne ammirò la lentezza, l’aria indomita. Intuì il patto di sangue che legava quegli uomini ad una natura impietosa e meravigliosa, ostile, ma sorella. Ne rimase ammaliata. Oltre mezzo secolo più tardi, in Mauritania, sulle sponde dell’Atlantico, confine fra le onde del Sahara e


[ 41 ]


[ 42 ]


quelle dell’oceano, il giovane Thèodore Monod abbandonò una carriera di biologo marino solo perché vide partire una carovana di nomadi verso un universo sconosciuto. Scese dalla sua nave e scelse di perdersi in Sahara. Divenne il più grande fra i sahariani del ‘900. Il destino, a volte, è racchiuso in un movimento, in una immaginazione improvvisa, in un silenzio. A Touggourt, Alexine guardò la carovana svanire oltre le prime dune e decise: avrebbe attraversato quel deserto ancora inesplorato, avrebbe raggiunto ‘le viscere dell’Africa’ avventurandosi in quell’oceano di pietre e sabbia. Tripoli, allora città in mano a governanti turchi, fu la sua base di partenza. Alla fine di gennaio del 1869, la nuova carovana di Alexandrine era pronta a partire. Settanta dromedari. Solo due occidentali la seguirono in questa nuova avventura, due fedeli marinai, Arij Jacobse e Cornelius Oostmans. Fu una marcia lenta e penosa. Bisognava attraversare un’infinita hammada, impietoso deserto di pietre grigie. Era ciò che Alexine più amava: la monotonia del viaggio. Numerose carovane di negrieri risalivano le piste che lei stava discendendo. Ricorderà una donna picchiata a sangue dai suoi razziatori. Solitudine dopo solitudine, miglia dopo miglia, intoppo dopo intoppo,

Alexine sentiva avvicinare il suo orizzonte. A volta sostava in un’oasi, gli occhi degli uomini incrociavano sorpresi questa donna occidentale e rimanevano senza espressione, si facevano di acqua, non osavano avvicinarsi e ‘a lungo la ripensarono nei silenzi orientali’. Era già marzo quando i suoi dromedari affondarono i loro passi negli acquitrini malsani che accerchiavano Murzuq, la città degli schiavi. Alexine, ‘carica di cose necessarissime e stracarica di fanfaluche’, era la prima donna bianca a camminare per i suoi vicoli. Murzuq era un piccolo villaggio. Case di fango e di sale. ‘Era come se fosse stato percorso da un terremoto’, scrisse Alexine. Ora dobbiamo decidere a chi credere: i biografi dicono che la giovane donna fu accolta dallo sceicco Ibrahim ben Alkia, massima autorità religiosa di Murzuq. Nelle pagine del libro che mi ha condotto fino a qui, il vecchio ufficiale coloniale, perso nelle sue fantasticherie, ricorda che furono il negriero Abdallah e suo fratello Sidi Mohammed ad accogliere l’esploratrice nella loro casa a due piani. Ma, forse, è più vero che Alexine affittasse una piccola casa. Dove dormiva in una stanza senza finestre. Spesso sedeva in un cortile chiuso da alte mura. O magari si sistemò davvero nella casa dei due mercanti di

[ 43 ]


schiavi e la riempì con i suoi mobili: ‘la solitaria casa diventò una reggia con la regina’, è scritto nel romanzo che sto rileggendo. Una sorpresa: Alexine non era la sola straniera nell’oasi. Qui era appena arrivato anche Gustav Nachtigal, esploratore prussiano, giovane come lei, diretto anche lui verso le terre dell’impero del Kanem-Bornu. Alexine si insabbiò. Passarono i mesi. I due fratelli erano premurosi e gentili. E lei avrebbe potuto innamorarsi di Gustav. Ne fu tentata, lo so. Avrebbe, almeno, potuto seguirlo nel suo viaggio verso quel regno lontano: in fondo, anche per strade diverse, avevano la stessa meta. Ma Alexine voleva seguire la sua strada solitaria.

[ 44 ]

Venne anche il giorno dell’incontro con Ichnuchen, l’anziano capo del kel Ajjer, il clan che raggruppava i tuareg di questa vasta parte del Sahara. Era carico di anni: doveva averne almeno ottanta. Uomo di prestigio, pratico, saggio, controverso. Era abituato ai bianchi: pochi anni prima aveva incontrato Duveyrier. Doveva pensare che gli europei fossero strana gente: prima era arrivato un ragazzino, ora questa donna. I suoi occhi, seminascosti dal velo, mostravano una gentile curiosità per Alexine. I suoi gesti tradivano una sorpresa quasi divertita. Ichnuchen si presentò da par suo. Come un re delle sabbie. Lei lo aspettava nel wadi al Garbi, una valle


a occidente di Murzuq. All’improvviso, dopo alcune ore impazienti, l’orizzonte si mosse. Alcuni cavalieri apparvero dietro la cresta di una bassa duna. Spronarono i loro dromedari, li spinsero al galoppo, sfoderarono le loro spade. Fu un turbine. Una tempesta entusiasmante. Alexine era troppo affascinata per spaventarsi. Quegli uomini perfetti erano l’avanguardia della corte regale di Ichnuchen. Il vecchio amenokal sapeva farsi attendere. Arrivò il giorno dopo. Maestro di scenografia, era attorniato da trecento tuareg abbigliati con le loro vesti da festa. Veli neri e blu indaco lasciavano intravedere solo gli occhi e i nasi aquilini. Le loro tuniche

scintillanti volavano al vento. Uno spettacolo da meraviglia. ‘Hanno una maniera di ridere che ti rimane nelle orecchie’, pensò, irrispettosa, Alexine dopo gli interminabili saluti. In realtà era felice di stare in mezzo a quegli uomini che le apparivano straordinari. Ichnuchen e la giovane donna passarono ben quattro giorni assieme. Alexine aveva bisogno della protezione del vecchio capo targhi per poter attraversare i territori di Ghat e i grandi deserti del Sud. Ichnuchen ascoltò, accettò i doni di Alexine, promise, fissò un nuovo appuntamento nella sua oasi. Pensate: l’avrebbe attesa a Ghat, là dove nemmeno Duveyrier era riuscito ad entra-

[ 45 ]


[ 46 ]

re. Nessuno ora poteva più fermare la donna. Non valsero le suppliche dei due anziani fratelli. In pochi giorni la sua carovana era nuovamente pronta a partire. Abdallah accompagnò Alexine ai confini del villaggio e rimase a fissare l’orizzonte ‘finchè il buio gli spense la vista’. I suoi occhi cercarono di seguire fin quando fu possibile ‘il manto bianco’ della donna. ‘Non la vedremo mai più’, avrebbe, poi, sussurrato al fratello. All’improvviso sentirono addosso tutto il peso della vecchiaia e del loro smarrimento. Dietro a sé, Alexine lasciava sempre nostalgie irrimediabili. Il potere di Ichnuchen non era più solido nei deserti del Sahara centrale. Comandava da troppi anni. Era vecchio, indebolito, gli eserciti colo-

niali francesi già premevano sulle terre dei tuareg. Giovani capi arroganti si contendevano una possibile successione. Alexine non poteva interpretare gli equilibri politici fra i kel tuareg. Lei aveva attenzione solo per il viaggio. Non avrebbe mai ascoltato un richiamo alla prudenza. Partì. Verso occidente. Per alcuni giorni costeggiò l’inattraversabile edeyen di Murzuq. Si fermò, colpita dalla bellezza del luogo, nel wadi Shergui. Proseguì. Poi tutto accadde con la violenza di un fulmine inatteso. Era la mattina del primo giorno di agosto del 1869. Una banda di sei arabi e nove tuareg galoppò verso l’accampamento di Alexine. Era l’alba, ma il sole era già caldo. Un giovane capo targhi, pieno di rancori, faceva parte di quel gruppo di uomini: voleva offendere l’au-


torità di Ichnuchen, voleva mostrare come il vecchio capo non potesse più garantire protezione a nessuno. Doveva uccidere Alexine. I banditi aggredirono gli uomini della carovana, un colpo di lancia uccise il marinaio Arij. Alexine gridò, alzò le mani, cercò di soccorrere il suo compagno di viaggio. Ci fu uno sparo. O, forse, un colpo di pugnale. Cadde. ‘Pallida sulla sabbia’. Morì. Venne ucciso anche il secondo marinaio. La banda razziò l’accampamento. Gli aggressori scomparvero all’orizzonte. Sei persone sopravvissero all’eccidio. Tornarono a Murzuq, raccontarono quanto era accaduto ai due fratelli. Abdallah sentì le lacrime uscire dai suoi occhi. Il vecchio, pur avvezzo al commercio degli schiavi, avvertì una nebbia di disperazione nascondere

la sua vista. Si chiese se Alexine era davvero esistita oppure se fosse stata solo ‘un lanuginio della sua povera vecchiaia’. Il corpo di Alexine non venne mai ritrovato. La notizia della sua morte arrivò a Tripoli venti giorni più tardi. Il Times vi dedicò la prima pagina agli inizi di settembre. La famiglia di Alexine scelse il silenzio. Quella parente aveva scelto l’Africa e loro non potevano capire: meglio dimenticare. Anche se all’Aia, fu costruita, in sua memoria, una chiesa episcopale: sarà bombardata e distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale. Anche le sue collezioni etnografiche, custodite in un palazzo di Liverpool, verranno cancellate dalle bombe tedesche sul porto inglese. Anche questo un destino? Nessuna memoria alle sue spalle. Chissà se a

[ 47 ]


Juba, nel profondo Sudan meridionale, vi è ancora il suo nome inciso su un piccolo cippo che ricorda gli esploratori che si avventurarono nel cuore dell’Africa.

[ 48 ]

Quanti anni erano passati? Fra un po’ di tempo saranno cento, pensò il giovane tenente che aveva ascoltato il racconto dell’anziano ufficiale coloniale. Erano tempi di guerra in Libia, ma lui non riuscì a togliersi dalla testa Alexine. Pensò: avrebbe potuto fare un’altra vita? Trovare pace? Se avesse avuto una seconda opportunità, sarebbe partita nuovamente? Si scoprì innamorato di quella donna. Accadeva a chiunque la incontrasse. Ma lei sfuggiva. I suoi occhi, colmi di malinconie, erano già oltre. L’orizzonte guidava la sua inquietudine. Non poteva essere fermata una stella cadente. E allora il tenente, una volta che fu solo silenzio attorno a lui, si convinse che Alexine ancora vagava per il deserto ‘cercando di dar vita a ciò che in vita non aveva voluto, né atteso, né ricercato’. Lui la vedeva. Ne seguiva i passi sulla sabbia. La incoraggiava. I piedi della donna, scalzi, affondavano nella sabbia, ma

lei non desisteva nell’affrontare la salita di quella duna. Scomparve oltre la cresta. Non fu il solo, quel tenente, a sognare Alexine. Non fu il solo a crederla viva. Erano passati ventisei anni dall’agguato nel deserto di Murzuq. Anzi: era, 31 luglio del 1895, la vigilia dell’anniversario della sua morte. Chi poteva ancora ricordarla? Eppure qualcuno sobbalzò aprendo quel mattino il Daily Telegraph: vi era scritto che Alexine era sopravvissuta all’agguato. Era una cronaca dettagliata: è vero, i suoi compagni, i due marinai olandesi, erano stati uccisi, ma lei fu risparmiata. Era stata fatta prigioniera, trascinata via e, mesi dopo, venduta a un targhi di nome Eghmissea. Divenne sua moglie. Chi aveva incontrato questa donna bianca in mezzo al Sahara (la sua nuova famiglia nomadizzava nei deserti dell’Air) ne ricorda la grande serenità. Ebbe tre figli, Alexine. La figlia era già sposata. Quasi trent’anni dopo la sua scomparsa, Alexine riappariva. Per poi svanire immediatamente: la sua tomba, vigilata da una croce di palme, era in una piccola moschea a molti giorni di cammino da Agadez. I tuareg la conoscevano come La Credente.

Andrea Semplici, giornalista, scrittore e fotografo. Ha pubblicato numerosi libri e guide di viaggio, senza contare il passato in radio, le numerose e continue collaborazioni con alcune fra le maggiori testate e riviste italiane e l’importante attività nel mondo della cooperazione. (andreasemplici.it)


Andrea Semplici.

Viaggiatori viaggianti. Da Bob Marley a Che Guevara. Giro del mondo in quattordici racconti. 2006, 214 p. (Terre di Mezzo)

[ 49 ]


DENTRO LO SPECCHI di Valentina Cabiale

[ 50 ]

Il racconto di Andrea Semplici, giornalista e fotografo fiorentino, non tenta neppure di spiegare il mistero della vita e delle scelte di Alexandrine Tinné e pone solo domande, con una scrittura a tratti cronachistica a tratti più letteraria, malinconica, quasi timida nell’affrontare un personaggio tanto complesso. Non era una viaggiatrice leggera, scrive. Non si camuffava da uomo, non faceva nulla per nascondere la sua identità di ricca signora vittoriana: era nel deserto così come la vediamo nelle foto, con lunghi abiti coprenti, ampi cappelli sopra un viso bello e austero, spesse sopracciglia scure, uno sguardo quasi maschile. Della sua pesantezza l’elemento più sorprendente era uno specchio che la carovana trascinava per il deserto: uno specchio grande comprato al Cairo, che poteva contenerla tutta. Forse una copia di se stessa sempre a portata di mano le servi-

va per distrarsi dalla monotonia del viaggio tra le sabbie (ma è poco probabile, quella monotonia lei la scelse); oppure voleva ricordarsi costantemente chi era: il suo abbigliamento riflesso era in fondo l’unico contatto con l’Europa, l’unica possibile visione dell’altra Alexandrine, quella che non aveva scelto di trascorrere l’esistenza in viaggi impossibili. Nella storia dell’arte lo specchio è stato spesso usato per mostrare allo spettatore quello che sarebbe altrimenti impossibile vedere, fuori dalla nostra prospettiva o sguardo, mentre la letteratura ci ha suggerito l’idea che le immagini riflesse vivano e continuino la loro esistenza in un’altra realtà (“Through the Lookins-Glass and What Alice Found There” di Lewis Carrol è del 1871). Forse vi si specchiava ogni giorno per assicurarsi che quell’altra Alexandrine fosse ancora imprigionata lì.


IO

[ 51 ]


I C


INDO CINA Un reportage fotografico di Matteo Trentanove








Direzione casuale. Non prevede sosta. Chi viaggia odia l’estate. L’estate appartiene al turista. (Mercanti di Liquore)




Selezione di fotografie scattate durante un viaggio negli Stati dell’Indocina (Cambogia, Vietnam e Laos). Immagini che mi hanno accompagnato lungo tutta la durata del tragitto, dalle strade fangose della Cambogia, alle caotiche e afose città del Vietnam alle verdi risaie del Laos. Gli stati asiatici sono sempre stati motivo di grande ispirazione delle mie fotografie. Sono colpito dalle persone, dagli odori che ogni giorno si respirano fin dall’alba nelle vie, dai mercati affollati ad ogni ora del giorno, dai trasferimenti in “tuc tuc”, dai lunghi viaggi in pullmann, dai colori vivissimi delle risaie, dai cappelli di paglia, dalle piogge torrenziali che inondano le strade, dai sapori dei cibi acquistati in strada, dalle preghiere nei numerosi templi buddisti. I veri protagonisti sono stati però i popoli che ho cercato di conoscere e che ho sicuramente amato. Tre stati che hanno incontrato numerose difficoltà nel corso delle loro storie, difficoltà che sono caratterizzate soprattutto dalle guerre: i Khmer rossi in Cambo-

(matteotrentanove.com)

gia, che con il loro leader Pol Pot si sono fatti da parte, dopo 30 anni di guerra civile, solo nel 1997. La guerra del Vietnam e i numerosi stratagemmi dei vietcong per sfuggire dall’esercito USA. Le rivolte dell’etnia Hmong in Laos, con la conseguente apertura al turismo solo nel 1994. Il mio viaggio mi ha portato laddove i libri non raccontano tutto... Ho percorso quasi 3800 km. Partendo dall’antica capitale del regno Khmer, Angkor, attraversando tutta la cambogia, fino ad arrivare alla capitale Phnom Penh. Da Sud a Nord ho percorso tutto il Vietnam. Due sono state le città principali, che hanno determinato il mio punto di partenza e quello di arrivo: Ho Chi Minh City (ex Saigon) e Hanoi, l’odierna capitale. In Laos sono partito dalla piccola capitale Vientiane, con solo 200.000 abitanti per avventurarmi tra i suoi piccoli paesi di montagna, circondati da verdissime risaie. Ultima tappa del mio percorso Luang Prabang. Riso e Pioggia... Suoni, odori, immagini dell’Indocina.

[ 63 ]


VERSO IL CON DELL’EX-IMP UN VIAGGIO POLITICO

Testo e foto di Fabio Belafatti


NFINE PERO


i muovo da Tashkent a Denaw, dal nord al sud dell’Uzbekistan, e da lì fino al confine con il Tagikistan, la più remota delle ex-provincie sovietiche. Il confine di un intero mondo. È pieno inverno, il freddo glaciale tiene i turisti ben lontani, non c’è altro che l’Asia Centrale. Cerco di catturare un po’ della natura di questa regione e dell’Uzbekistan in particolare. Come descrivere questo Paese? La sua storia è talmente articolata da confondere. Dinastie persiane, poeti erranti, saggi straccioni, mercanti di schiavi, eserciti arabi, mongoli, nomadi, kazaki, turkmeni, zaristi e sovietici, Grande Gioco, Via della Seta: c’è passato e c’è successo di tutto. Cosa è rimasto? Provo a capirlo traducendo gli spunti in ritratti, immagini, dettagli.

[ 66 ]

Code, aeroporti e storia Il volo Riga-Tashkent è già una fonte di osservazioni. Sono in coda all’imbarco, ho davanti una donna kazaka e dietro una ragazza uzbeka. La ragazza, però, ha tratti somatici coreani, mentre la donna parla in tedesco a

due bimbi dalle facce tonde e gli occhi a mandorla. Sono tutti figli della Storia: in Asia Centrale vivono migliaia di discendenti dei coreani e dei tedeschi del Volga deportati da Stalin nel pieno della sua paranoia sanguinaria: popo-


[ 67 ]

li che vedeva come “poco leali”, e che decise di sparpagliare per le steppe e i deserti centroasiatici, prima e durante la II Guerra Mondiale. Caricati in massa su vagoni bestiame, scaricati in una terra aliena, oggi affiancano

una miriade di altri gruppi etnici, e a volte si mescolano. Il risultato sono due bimbetti vivaci che sembrano usciti da un libro sulla Cina ma si esprimono a colpi di “Schnell” e si rivolgono in russo alla gente in coda.


Mappe dispotiche Scambio quattro chiacchiere con il gestore dell’internet café di Tashkent dove vado spesso a controllare la posta. Mi spiega di non fidarmi troppo della mappa della città vecchia che possiedo. “Poco fa”, mi dice, “hanno nominato un nuovo responsabile del quartiere. Ha rinominato intere vie

[ 68 ]

in onore di luoghi e persone del villaggio da cui proviene. E a chi vive nel quartiere tocca cambiare documenti, indirizzi, tutto”. Difetti del vivere sotto l’arbitrio dell’autoritarismo: anche le mappe sono dispotiche, e la gente si adegua, per la gioia della vanità di qualche oscuro burocrate.


Indipendenza? Una parola dilaga sui pannelli di propaganda uzbeki: “indipendenza”. Non l’hanno cercata, a dire il vero, ma ora il governo la celebra. Dichiarata da una rapida firma del sempiterno presidente Karimov mentre la casa comune sovietica cadeva a pezzi, l’indipendenza stride con la colonizzazione economica del Paese: merci russe e turche occupano i supermercati, plotoni di vestiti cinesi rigorosamente neri occupano il bazar di Tashkent. Per le strade della città sciamano legioni di Matiz, frutto di

un redditizio accordo tra Uzbekistan e Daewoo/GM che porta lavoro ed utilitarie economiche. Gli uzbeki si godono le loro macchinine tutte bianche (la scelta del colore dev’essere un optional follemente costoso), almeno finché GM non deciderà di produrre altrove. Intanto i guidatori ne fanno un business: a Tashkent, migliaia di persone sono tassisti, rigorosamente illegali. Fai un cenno e puoi essere certo che pochi istanti dopo si fermerà una Matiz qualsiasi a raccoglierti.

[ 69 ]


Parlare del diavolo a Tashkent Incontro un ragazzo locale disponibile a raccontarmi qualcosa sulla politica del Paese. Ha studiato scienze politiche, il che mi incuriosisce: cosa significa studiare politologia in un Paese dittatoriale? “Significa sorbirsi programmi strettamente controllati dallo stato e dare svariati esami sui testi del presidente. Se non li passi, non ti laurei”. Un altro studente, che è andato all’università negli Stati Uniti e percepisce il controllo politico esercitato sulla popolazione, mi spiega che non è pericolosissimo parlare di politica (del che dubito), ma che se per sbaglio dai l’impressione di avere simpatie islamiste “i soldati vengono a casa tua, ti prelevano e sparisci”. Quel che segue è probabilmente un copione noto: chiacchierate poco amichevoli con le autorità, torture, a

volte la morte. Anche se qualcuno afferma che l’economia del Paese stia lentamente migliorando, non è raro sentirsi dire che “tutti i ragazzi, tutti, se potessero se ne andrebbero”. C’è chi non desidera altro: gli occhi di molti brillano quando si parla dell’emigrazione verso l’Occidente, ma spesso sono incatenati dalla mancanza di soldi, dalla difficoltà di avere un visto o dal tradizionalismo della famiglia che vuole farli sposare al più presto. Legarsi ad una ragazza scelta dai genitori significa lavorare per mantenere lei e i figli e mettere nel cassetto il sogno di vagabondare per il mondo, lontano da qui. O, al massimo, andare a spezzarsi la schiena in Russia per pochi rubli.

Fuggire, fuggire Come vivono coloro che se ne vanno? Mi viene spiegato che di solito i giovani vanno in Russia, dove lavorano come manovali per seicento dollari al mese (il triplo di quanto guadagnerebbero in patria). Altri vanno in Kazakistan, il gigante economico dell’Asia Centrale. Circolano voci an-

goscianti su quelli che emigrano: chi va in Russia subisce emarginazione, persecuzioni e discriminazioni a non finire. È risaputo che la Russia odierna abbia una concentrazione di neonazisti spaventosamente alta. Ogni anno, decine di ragazzi centroasiatici pagano sulla loro pelle il prezzo dell’odio.


Nel 2008, l’anno più nero, ne sono stati ammazzati centodiciotto. Tra loro, certamente molti uzbeki. A chi va in Kazakistan non va meglio. Una ragazza mi dice che è risaputo che molti datori di lavoro kazaki, piuttosto che pagare gli uzbeki, li uccidono e li abbandonano nella steppa. Non ho modo di verificare questa voce, ma non è affatto irrealistica. Mi spiega anche che le ragazze che emigrano finiscono spesso nelle maglie di una rete di organizzazioni criminali che, fondamentalmente, le schiavizzano. Non mi parla direttamente di prostituzione, ma non serve essere criminologi per intuire che spesso è questo il destino di molte di loro.

[ 71 ]


Propaganda ferroviaria Il treno “Registon” Tashkent-Samarcanda è il fiore all’occhiello delle ferrovie uzbeke. È sostanzialmente identico ad un vecchio intercity italiano, con la sola differenza che è praticamente foderato di tappeti e che in ogni scompartimento ci sono varie copie di “Uzbekistan Today”, una rivista palesemente propagandistica rivolta a businessmen e viaggiatori stranieri. Vi si trovano perle come “I passi verso la democrazia in Uzbekistan” e “Nuove misure per la difesa dello Stato di Diritto”. La cosa interessante è che tra le “nuove misure” c’è anche la

[ 72 ]

semplificazione della procedura per l’internamento forzato in ospedali psichiatrici. Mi sforzo di capire come una prassi così tipicamente sovietica possa rafforzare lo stato di diritto, ma non me lo so spiegare. In cerca di ispirazione passo a dei creativi articoli sui benefici della lungimirante guida di Karimov per i diritti umani in Uzbekistan. Il fatto che tutti i pezzi inizino nello stesso modo mi evoca immagini di redazioni piene di scribacchini che lavorano sotto dettatura di qualche commissario politico, ma certamente esagero.


La guerra può far comodo Gli abitanti di Samarcanda con cui parlo mi danno l’impressione di essere molto più ottimisti dei loro connazionali della capitale. L’autista che mi porta dalla città dei Timuridi verso sud, verso le montagne, non fa eccezione: mi spiega che il governo sta creando nuove scuole, nuovi villaggi, nuove opportunità. Non ho modo di appurare se sia vero, ma posso vedere i segni di queste politiche man mano che ci avviamo verso Denaw, a sud. Qua e là, il paesaggio di vecchi villaggi decrepiti lascia spazio a nuove aree abitative, con case a schiera prefabbricate nuove di zecca. La strada coincide parzialmente con il percorso del Northern Distribution Network, una rete ferroviaria e stradale che rifornisce le truppe NATO in Afghanistan da nord, via Uzbekistan. Dato che gli americani vogliono un servizio decente, pare abbiano scodellato dollari in quantità per migliorare le infrastrutture. Il risultato è una sfilza di nuovi villaggi, stazioni rimodernate di fresco o erette ex-novo e grandi viadotti che corrono sopra alle colline rosse di quest’area. Tir turchi ed europei dividono le strade con eroici camion sovietici, forse superstiti dell’era di Brezhnev. Si nota un livello superiore di sviluppo rispetto ad altre aree rurali. C’è però un interrogativo, inevitabile: che ne sarà di questa rete di infrastrutture, quando agli americani non servirà più?

[ 73 ]


Cattedrali nel deserto

[ 74 ]

Ci dirigiamo sempre più verso il Tagikistan. Macchinine stracariche sorpassano qualche paesano a dorso di mulo, mentre decine di persone assiepate dentro a vecchi autobus si avventurano lungo un percorso di quattordici ore verso il confine. Spesso ai vari posti di blocco (numerosi per via del narcotraffico proveniente dall’Afghanistan), documenti e bagagli vengono controllati, e gli sfortunati che viaggiano in bus restano per ore ad aspettare al freddo. Abbandoniamo il tracciato del Northern Distribution Network, e ci troviamo di nuovo in pieno Uzbe-

kistan rurale, col consueto panorama di strade dissestate. Uniche tracce di novità, le gigantesche scuole che il governo ha costruito recentemente. Incarnano perfettamente il concetto di “cattedrale nel deserto”: licei e collegi rivestiti di marmo, vetro e metallo emergono da una pianura costellata di villaggi in condizioni miserande. Pare peraltro che l’Uzbekistan soffra di grossi deficit nell’educazione elementare nelle campagne, il che spinge a chiedersi a cosa servano luccicanti scuole superiori quando spesso mancano i testi scolastici di base.


Mondo di confine Il confine tra Uzbekistan e Tagikistan trasuda “ex-URSS” da tutti i pori. C’è l’atmosfera di una zona di nessuno, pigramente appollaiata tra la nebbia e i campi ghiacciati. Una manciata di militari con AK-47 di rigore chiacchiera coi doganieri mentre i viaggiatori sbrigano le ridondanti pratiche burocratiche. Un sottobosco semi-legale di abitanti del posto assiste chi deve passare, portando i bagagli su sgangherate biciclette per qualche dollaro. I doganieri uzbeki si divertono a perquisirmi minuziosamente gli zaini, forse solo per divertirsi a vedere che gingilli tecnologici trasporto. Non parlano praticamente inglese, il che rende difficilissimo capirli,

ma intuisco che non gradiscono le foto che ho scattato. Mi chiedono come mai io abbia scelto gente comune, villaggi e quartieri degradati come soggetto, vogliono sapere “dov’è l’Uzbekistan bello?”. Cancellano meticolosamente ogni singolo scatto sgradito, ignorando che ovviamente li ho già salvati altrove. Un soldato accenna ridendo all’ipotesi che io sia una spia. La battuta non mi diverte. Riesco ad impedirgli di frugare nel mio computer solo fingendo di non capire cosa chiedono. Li prendo per noia e sfinimento, e mi lasciano passare. Via, verso un altro Paese, verso il Tagikistan. Verso il confine dell’ex-Impero.

[ 75 ]


SAMUEL ARANDA

Che cosa sono le nuvole Una vignetta di Sergio Leone Segui i progetti di Sergio Leone su comeilpomodoro.blogspot.it



ERODOTO108.COM


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.