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Sadzylla

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Villasimius

Villasimius

di ALBA MARINI G iulia Corona ha solo 22 anni ma il suo profilo Instagram, Sadzylla, ha già più di 100mila follower. Non si tratta di un profilo normale. Non ci sono foto, ma disegni. Disegni digitali, non quelli fatti a matita. E tante parole. Parole attraverso le quali dei semplici contorni prendono vita raccontando amori, amicizie, pensieri che sembrano subito così familiari. Sadzylla nasce nel 2018 come una sorta di finsta, ossia un “fake Instagram”, in cui Giulia postava testi conservati nelle note del suo cellulare e disegni fatti con il MacBook. Pian piano disegni e parole si sono intrecciati dando vita a quello che è il suo marchio di fabbrica: un tratto spontaneo, semplice, accompagnato da dialoghi, poesie e descrizioni in cui tutti, potenzialmente, possiamo riuscire a riconoscerci.

Ciao Giulia, raccontaci qualcosa su Sadzylla. Perché questo nome?

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La scelta del nome è stata casuale e istintiva. I miei amici mi chiamano Zuli e quando ho aperto la pagina, volevo chiamarla Sadzuli. Il nome però era già stato preso. Quindi mi è venuta l’idea di Sadzylla. Una sorta di gigante, come Godzilla, ma triste.

Il profilo Instagram di Sadzylla ha più di 100mila follower. Cosa provi ogni volta che qualcuno condivide una tua “creazione”?

Inizialmente per me è stato quasi scioccante. In positivo, chiaramente. Ora mi sono quasi abituata, ma non do niente per scontato. Ancora mi emoziona vedere che alcuni post, più di altri, arrivano al cuore della gente.

Uno degli scopi dei social è dare alle persone l’opportunità di condividere una parte di sé: uno scatto, un’immagine, un pensiero. Qual è il tuo rapporto con i social network e in particolare con Instagram (che è il tuo canale prediletto di comunicazione)?

In passato ho avuto un cattivo rappor

to con i social. Molti utenti li usano per mostrare stili di vita non accessibili per la maggior parte di noi, canoni estetici irrealistici e una felicità quasi imperativa . Ho eliminato tempo fa tutto ciò che mi faceva stare male. Il problema non è la piattaforma, ma chi noi scegliamo di seguire. Ora ho un ottimo rapporto con i social. Mi piace scrivere delle riflessioni semplici e quotidiane e poter

avere un riscontro dagli altri.

I tuoi disegni e le tue poesie raccontano la nostra generazione, divisa tra paure, insicurezze, amori impossibili e amicizie salvifiche in cui è impossibile non immedesimarsi. Sadzylla sei tu? Quanto c’è di autobiografico in quello che descrivi?

Sadzylla sono io, davvero! Ogni singolo post muove da un’esperienza vissuta

realistica o iperbolica sulla mia pelle. Il personaggio ricorrente è sempre Giulia, con i suoi (miei) capelli gonfi, gli orecchini a cerchio e il neo sulla guancia. Persino i personaggi che le ruotano attorno ricordano nelle fattezze le persone che effettivamente fanno parte della mia vita reale. Come le mie migliori amiche e mia nonna. Unico elemento statico è il modo in cui rappresento gli uomini (che in questi due anni sono cambiati, assicuro): sempre con i capelli ricci e gli orecchini. Un po’ per pigrizia. Un po’ perché è l’unico modo che ho per sentirmi pienamente libera di scrivere ciò che penso senza paura che questo influisca troppo nella mia vita quotidiana.

Come reagiscono i tuoi amici e conoscenti quando si accorgono di essere i protagonisti dei tuoi disegni?

Le mie amiche sono felicissime di essere disegnate come mie compagne di disavventure. I ragazzi invece penso si spaventino un po’. Io nel dubbio minimizzo sempre con un credibilissimo: “Ma va! Quel disegno? Mica stavo pensando a te!”. Di solito funziona.

Moltissimi tuoi post parlano di donne. A volte abbatti gli stereotipi sull’universo femminile, altre volte li confermi, ironizzandoci. Cosa significa per te essere donna nel 2020?

Sono una donna e sono una femminista. A volte però mi rendo conto di essere uno stereotipo vivente. Quando ero più piccola tentavo disperatamente di limare i miei lati eccessivamente femminili. Oggi invece ho imparato ad accettarli e so che non mi rende meno

femminista essere emotiva, odiare gli sport o avere fantasie da Lolita. Essere donna oggi è più che altro una lotta continua nel dimostrare di essere valide quanto i nostri colleghi maschi . Quello che davvero non tollero è questa tendenza a dividere le donne tra angeligeni e stupidesvergognate. Io vorrei rivendicassimo il diritto di essere persone sfumate, come è concesso agli uomini.

Da ciò che scrivi emerge un rapporto ambivalente con la solitudine, vista come salvezza e maledizione. Approfondisci questo aspetto.

La solitudine è stata in alcuni momenti della mia vita una compagna sgradita ed obbligata. Per questo motivo oggi abbiamo un rapporto conflittuale. Quando sono sola viene fuori umanamente il peggio di me ma artisticamente il meglio. Solo quando posso vedermi senza interferenze riesco a scavare a fondo in me stessa per tirare fuori qualcosa di rilevante. La solitudine mi serve, ma solo quando ha una funzione di ricarica dalla vita con gli altri. In caso contrario soffoca più lei che le voci di mille persone intorno.

Sadzylla coniuga disegno e poesia. Pensi che il tuo progetto possa accogliere in futuro anche altre arti? Se sì, quali?

Mi sono già cimentata nella scrittura di alcuni brani musicali . Due sono già presenti su Spotify. Il mio sogno sarebbe quello di sfociare nell’animazione. Il cinema è una mia grande passione.

Bagella 1932 Dal sogno americano all’artigianato

di FRANCA FALCHI foto GIANMICHELE MANCA I nizialmente era il classico emporio, dove si trovava un po’ di tutto. Quando nel 1932 iniziò l’avventura di Nino e Mario Bagella nel commercio, c’erano pochissimi negozi al dettaglio e avevano diverse tipologie di merci. La bottega dei F.lli Bagella esponeva lane accanto a saponi o articoli di merceria per poter soddisfare le più disparate esigenze dei consumatori. Il Corso Vittorio Emanuele era un importante crocevia per gli scambi culturali

e commerciali, tagliava in due la città ed era la diretta prosecuzione di Porta Sant’Antonio, uno degli accessi principali di Sassari. Fu così naturale sceglierlo come sede per trasformare il loro commercio itinerante di stoffe in un vero e proprio emporio. Fu una scelta coraggiosa ripagata fin da subito dal successo. L’abbigliamento allora era esclusivamente sartoriale e i Bagella non sono mai stati sarti né stilisti. Le prime camicie, gli accessori e le confezioni di alta qualità, arrivarono nel dopo guerra seguendo l’avvento dell’alta moda pronta e del prêtáporter, un’in

tuizione che gli permise di aprire fino a quattro punti vendita e di affermarsi come una tra le più rinomate aziende nel commercio cittadino. Sono trascorsi 87 anni da quella apertura e Rinaldo, Michelina con la figlia Francesca, terza generazione di conduzione familiare, sono ancora dietro al bancone tra le mura storiche e gli arredi originari di quello che più che un negozio è un riferimento in tutta la Sardegna. A sottolinearlo è anche l’onorificenza ricevuta nel 2013 dalla Regione in qualità di gozio Storico.

Ne

La bottega, come ancora adesso ama definirla Rinaldo, si è evoluta e adattata ai cambiamenti del tempo, specializzandosi in qualcosa di straordinario che la rende unica nel suo genere: la promozione e la rivalutazione delle tradizioni. I costumi sardihanno ispirato capi d’abbigliamento, antichi amuleti ed ex voto sono diventati gioielli, disegni degli scialli hanno ornato foulard e sciarpine in seta, le taschedde moderni zainetti, e così anche scarponcini, cinture o complementi di arredo si sono evoluti e modernizzati. L’ispirazione è nata a metà degli anni 80 quando Rinaldo e Michelina fanno rientro a Sassari, dopo tre anni negli Stati Uniti, con l’idea di realizzare un marchio innovativo nel rispetto delle tradizioni sarde rimodernando l’attività di famiglia. L’obbiettivo era quello di creare qualcosa che esulasse dagli stereotipi del folklore ma che rispettasse i modelli tradizionali aggiornandoli come concezione stilistica e concettuale. Nasce così il primo Sardinian Concept Store. Elementi fondamentali sono la collaborazione con artigiani qualificati per la realizzazione di capi sartoriali originali, lo studio della tradizione per la valorizzazione dei materiali e delle tecniche che permettano di ridisegnare l’abbigliamento sardo sia nelle forme che nei colori. La gonna a pieghe, l’abito di velluto, il gabbano di orbace escono così dall’ambito museale e si adeguano a una vestibilità contemporanea.

Il tipo di abbigliamento prodotto rimane fortemente legato a quello tradizionale e dunque all’ambiente agro pastorale, modello che non sempre è stato accettato dalle altre classi sociali. L’intuizione di Rinaldo e Michelina è stata proprio quella di cogliere il momento di rivalutazione e riscoperta delle nostre radici che ha riavvicinato l’intera comunità sarda verso questo tipo di stile conquistando giovani, imprenditori e classi di élite. I capi, nati come elementi da lavoro, necessitavano da tradizione di stoffe robuste e durature ed è per questo che è stata rivolta una particolare attenzione proprio ai materiali utilizzati. Lino, cotone, tessuti a mano al telaio, velluti pregiati e orbace. Questo tessuto, ottenuto selezionando i peli più lunghi della lana nella cardatura, viene infeltrito attraverso la follatura in modo da ottenere un panno robusto, compatto e impermeabile che gli conferisce una particolare rusticità che purtroppo non sempre viene apprezzata. Gran parte delle colorazioni sono realizzate grazie alle erbe tintorie con tecniche che venivano utilizzate anticamente per la decorazione di tappeti e costumi. È una procedura complicata e costosa ma che conferisce delle sfumature che difficilmente si otterrebbero con le tinture sintetiche. Le stoffe tradizionali, le colorazioni naturali, le tecniche di lavorazione sono tutte finalizzate al rispetto dell’ambiente

e alla valorizzazione della mano d’opera locale. L’innovazione della famiglia Bagella è proprio quella della costante ricerca di eccellenze locali e della loro divulgazione. Gli arredi originali degli anni Trenta fanno spesso da scenografia a eventi finalizzati a promuovere i vari aspetti culturali e etnografici della tradizione isolana. È così che nei giorni dedicati a particolari manifestazioni, è possibile assistere a rappresentazioni teatrali di racconti sul passato della bottega e apprezzare l’evoluzione del costume da bagno o ascoltare la fantastica storia del premio ricevuto nel 1950 dalla Metro Goldwyn Mayer per la miglior vetrina di tutta Italia. Ma non solo eventi storici, le vetrine spesso ospitano gli stessi artigiani al lavoro sulle loro creazioni, le sale interne diventano luoghi di cultura con concerti, conferenze e mostre sulle nostre tradizioni, vengono esposti pani finemente lavorati, gioielli ispirati a amuleti o ex voto o vengono presentati i risultati di collaborazioni artistiche come per la recente collezione di foulard ispirata al 900 sardo grazie alle opere di Tavolara, Biasi e Melis. Ogni evento è un connubio tra artisti, cultori e gastronomia, e diventa sempre occasione per conoscere e apprezzare piccoli pezzetti del mosaico che compongono la nostra storia. Non un semplice negozio ma anche un luogo da visitare.

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