Sulla stessa strada

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Ai miei figli



Lettera prima

Forse vi sembrerà strano che qualcuno vi scriva una lettera in un'epoca in cui è possibile comunicare in tempo reale da qualsiasi parte del mondo. Forse vi sembrerò vecchio. Ma è solo mettendo le parole una dopo l'altra su questo foglio di carta che riesco a dirvi tutto quello che ho nel cuore. Il nostro primo incontro è stato in una sala parto troppo affollata di pensieri, in un mese d'Agosto caldo come non mai e distante dodici anni l'uno dall'altro. Tutti i dolori del tempo rimpiazzati in un attimo dalla certezza che da quel momento non sarei davvero stato mai più solo, per sempre. Gli occhi che spalancavate al mondo ancor prima di vedere il respiro entrare nei polmoni si incrociarono ai miei per non perdersi nell'incertezza di una vita a cui da quel momento vi sareste dedicati.


Da quel giorno sono successe tante cose, molte delle quali le apprenderete strada facendo tra queste pagine che umilmente vi scrivo con quel senso di incertezza che spesso mi accompagna. Ho amato subito quei vostri occhi, così simili ai miei ma cosi nuovi e intatti alle cose scure della vita. Spero mi perdonerete se non vorrò dilungarmi troppo tra le inutili memorie fatte di dentini sotto il cuscino e gorgoglii a cui dare un significato. Mi

preme

principalmente

raccontare

a

te,

mia

meravigliosa figlia, chi era papà e perché resterà sempre tale anche con le distanze che ci sono nemiche e con gli intoppi della vita che ci osservano e sembrano fare apposta a tenerci lontano. A te piccolo mio che ancora non distingui le lettere e le parole dire che per tutta la vita non smetterò di incrociare i tuoi occhi cercando di preservarli al meglio che saprò dagli inganni del nostro tempo.


Forse vi chiederete perché parlo di me, papà, al passato. Sarà così in tutte queste pagine. Non potrebbe essere diversamente. Quando ognuno di voi avrà finito di leggere questo libro che mi accingo a scrivere, il vostro, non sarà lo stesso padre che ha intrapreso questo viaggio di cui ancora non conosce terra d'approdo ne percorso. Vi prego inoltre di perdonare le parole dure che userò quando sarà necessario e quando lo riterrò opportuno. Non regalerò giudizi ma opinioni e come tali fatene tesoro e nient'altro.

Papà


Lettera seconda

Cosa vuol dire essere padre ? Io non sono stato figlio di nessun padre che mi abbia potuto insegnare, fare vedere, anche solo accennare all'argomento. CosĂŹ ho improvvisato dal primo giorno, dai primi sguardi. Credo che non sia cosa rara trovarsi impreparati, io lo sono a tutto, per fortuna. Non avere avuto alcun faro, luce che mi guidasse oltre quelle nebbie che vengono su d'improvviso, mi ha reso forse piĂš desideroso ancora di curarmi delle vostre vite. Esistono dei

meccanismi ben precisi che regolano i

nostri ricordi, vortici mentali a volte cosĂŹ dinamici da non riuscire a uscirne fuori. Io non ero un uomo di quelli che attraversavano il tempo lasciandosi alle spalle i giorni vissuti come una strada percorsa. Non guardavo sempre avanti.


Spesso potevi vedermi di nascosto gettare l'occhio allo specchietto retrovisore non curandomi di orientare lo sterzo, magari in prossimitĂ di curve pericolose. Il passato non fuggiva lontano come un eroe, un mito inafferrabile attorno al quale costruire le proprie certezze. I

percorsi

diventavano

cosĂŹ

gare

di

resistenza

oltremodo faticose che mi costringevano a lavorare il doppio o anche il triplo degli altri per restare con la schiena dritta lungo la strada che avevo deciso di percorrere.

A MIA FIGLIA

Nelle poche volte che ti avevo parlato della mia infanzia di certo non avevo omesso veritĂ ma avevo la sensazione di non essere riuscito a dire le cose che mi premeva tu sapessi.


Non avevo di certo avuto quella che si potrebbe definire un'infanzia triste ma lenta questo si. Subito dopo la mia nascita non passò molto tempo che, per esigenze comuni ai tanti, mi ritrovai a vivere a casa dei nonni materni. In un primo momento ciò sembrò opportuno oltre che necessario in considerazione della vita lavorativa dei miei genitori. Ma con il tempo la convivenza diurna si fece completa e così mi trasferii o meglio fui trasferito definitivamente al civico 34 di un lungo viale alberato. Non mancarono le occasioni nelle quali tale convivenza sembrò una forzatura ma, seppur di pochi anni, avevo scelto da me il luogo dove vivere. La cosa alla fine trovò convenienza nelle vite di tutti e così divenne un fatto acquisito. Quella casa fu il vero luogo di nascita di tuo padre.


Tra le stanze dai tetti alti, i silenzi e le ombre un mondo si stava venendo a creare, un mondo unico e fantastico che ancora oggi sopravvive e accompagna i pensieri e le parole. Un pavimento che nel tempo diventò prato e sabbia, mare e cielo sopra il quale volare. Le ombre e i silenzi rotti dal solo battere incessante di una macchina per cucire a pedali furono le scenografie e le musiche che popolarono i lunghi pomeriggi di solitudine.

BREVE DESCRIZIONE DELLA CASA

Salendo al quarto piano dello stabile anni trenta, in fondo al viale alberato che dall'ospedale portava verso il centro, un ascensore con gli interni e le porte in legno faceva da contraltare all'ingresso del palazzo fatto di mattonelle rosse e marmi.


La casa viveva tutta attorno al lungo corridoio dal quale, come spesso succedeva nelle costruzioni di quel periodo, partivano tutte le stanza. Si entrava subito in una piccola camera che faceva da ingresso e spogliatoio nella quale risaltavano le imponenti sedie di legno con la tappezzeria damascata verde oliva e la consolle sormontata da uno specchio stuccato color oro. Su un piccolo tavolino faceva sfoggio il telefono, grigio, con un lucchetto luccicante a bloccare la rotella dei numeri. Una porta subito sulla sinistra immetteva nel salotto buono che veniva usato solo per le occasioni ed era per me divieto infranto di continuo. Passata la prima porta si accedeva al corridoio, subito a destra la cucina. Un piccolo ripostiglio con una finestra a giorno ne limitava le dimensioni. Di fronte quello che in origine era lo studio e poi negli anni divenne la mia stanza.


In fondo, una accanto all'altra le camere da letto e sulla destra la grande lavanderia sulla cui parete viaggiava in alto una scala di gradini stretti e in cima alla quale una piccola stanza che spesso mi era rifugio.

Non avevo trovato luogo migliore dove fare vivere tutte le fantasie di un bambino vivace ma solitario. Mi accompagnavo spesso a quelle stanze grandi e silenziose per partire verso luoghi immaginari dove il pavimento diventava ogni volta un paese diverso e ignoto da attraversare. Ero un viaggiatore curioso e mai sazio, di quelli che portano con se un piccolo taccuino in tasca per annotare le emozioni, cosa che a dire il vero non ha mai abbandonato. Non vivevo di eroi immaginari ma di luoghi questo sĂŹ.


Pensavo giĂ allora che in un foresta ricca di piante e fiori dai colori sgargianti e profumati come non avevo mai sentito, di animali dalle forme piĂš singolari, l'uomo fosse superfluo e che io dovessi essere solo un umile spettatore.


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