Transatlantico #8

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numero 8 _ giugno 2011

transatlantico • FRANZ LISZT • TORU TAKEMITSU • EMIL CIORAN • LEONARDO ZUNICA • PAOLO VANINI • STEFANIA BOSI • ALEXSANDRE DUMAS • FRANCOIS JULLIEN • ALFREDO BOSI • MICHELE EMMER • BORIS PETRUSHANSKY • MICHELE MAGNABOSCO • WEN-TSIEN HONG • MARTA BERZIERI • MICHELE TAVOLA • ALESSANDRO TROCINO


trimestrale dell’associazione Diabolus in Musica

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direttore responsabile Leonardo Zunica redazione Leonardo Zunica Paola Pradella Stefania Bosi Paolo Vanini Giulia Flavia Baczynski

editoriale Non abbiamo grande opinione dei nostri simili, ben ci ricorda Emile Cioran, nel suo distretto solitario e reazionario, luogo luccicante ed oscuro ad un tempo, come a ricordarci che l’illuminazione segue ad un abisso. La diffidenza è un atteggiamento positivo, che pone la distanza, che implica la separazione, il disegno di uno spazio differente. L’indignazione, per quanto legittima, penso, sia una sorta di estenuato rifugio, all’interno di noi stessi, un esercizio di morale che ci serve, certo. Ma che isola e rende soli, che alla fine ci mortifica. Per quanto abbia passato molto tempo, ma sicuramente non ancora abbastanza, sulle vite e le opere di molte personalità della musica, non mi è mai capitato di sentire parlare di indignazione. Solo di disperazione, di ossessione. Di felicità e di gioia. Di fiducia e di diffidenza. E forse, alla fine, neanche di questo ho sentito parlare: solo la testimonianza di un muto e ostinato lavoro, di genialità disseminata sulla carta, di opere senza tempo, di oblio ed estasi. Dedichiamo questo numero quindi all’oblio e all’estasi: a Garibaldi, a Franz Liszt, a Emile Cioran, e a molti, moltissimi altri silenti e diffidenti amici. LZ

sommario numero 8 _ giugno 011

art director Paola Pradella editing Antonio Galuzzi hanno collaborato Alessandro Trocino Wen-Tsien Hong Michele Tavola Marta Berzieri Michele Magnabosco Michele Emmer si ringraziano Raffaello Cortina editore Anca Visdei in copertina fotografia di Giancarlo Zonta stampa FDA Eurostampa Borgosatollo BS info transatlantico.mn@gmail.com dir.transatlantico@gmail.com Associazione Culturale Diabolus in Musica Via Eremo, 37/A 46010 Curtatone MN www.eterotopie.it Registrato presso il Tribunale di Mantova N. 4/2008 Registro di stampa in data 16 Giugno 2008 Stampato in 1.000 copie

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Editoriale La musica silenziosa di François Jullien

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L’entusiasmo in tutta l’America per l’unità d’Italia di Alfredo Bosi

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Debussy l’egizio di Leonardo Zunica

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Celeste Aida di Michele Magnabosco

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Popstar della cultura di Alessandro Trocino

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I Garibaldini di Alexandre Dumas figlio

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Intervista a Emile Cioran di Anca Visdei

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In superficie di Leonardo Zunica

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Ceneri di una lacrima di Paolo Vanini

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Due lettere da Roma di Franz Liszt

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Il fascino musicale dei numeri di Michele Emmer

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Chagall e Gogol affinità e divergenze di Michele Tavola

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Intervista a Boris Petrushansky di Leonardo Zunica

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Intervista a Toru Takemitsu di Wolfgang Breyer La paura in Giappone di Marta Berzieri Un vero spirito Fin-de-Siècle di Wen-Tsien Hong


la musica silenziosa Diffidiamo degli accostamenti troppo facili. Sotto la banalità del luogo comune (sul tema: la morale e la musica), si dissimula qui un’intuizione molto più originale e feconda. Poiché, se l’affermazione di un significato etico della musica è un tema che si ripete nelle società antiche e si ritrova in Grecia così come in Cina, questo rifiuto di un massimo sfruttamento delle sonorità non ci riporta però all’opposizione classica, consacrata da Platone (Repubblica, III), tra musiche corrotte, perché troppo espressive - patetiche o illanguidite - e altre raccomandabili perché gravi e solenni; anche se quest’ultima opposizione si incontra anche in Cina (la condanna che viene pronunciata - in nome della cattiva influenza esercitata sui costumi - rispetto alle arie di Zheng o di Wei corrisponde all’anatema lanciato dalla filosofia greca contro le mode di Ionia e di Lidia...). Perché l’”eccedenza di sonorità” raccomandata dalla tradizione cinese valorizza la musica per se stessa, e non soltanto in ragione della sua buona influenza (sulla società); essa ne accresce il potere e la bellezza. Questa scelta di un certo riserbo nella produzione dei suoni non si fonda neppure su una dimensione metafisica dell’esperienza musicale, così come poterono concepirla Plotino (nella tradizione del Timeo) o i Padri della Chiesa: secondo questi ultimi, il significato della musica sarebbe da ricercare al di là del fenomeno sonoro perché questo varrebbe soltanto come allegoria: come se esistesse una melodia non udibile, di natura celeste, superiore a quella che percepiamo fisicamente e come se “la musica nella cose sensibili” fosse creata “ da una musica a lei anteriore” e da cui procede (Enneadi, V, 8, 1); come se, ancora, la musica che l’orecchio percepisce contenesse un messaggio criptico che rivela il mistero dell’Invisibile. La visione cinese, è noto, disconosce l’opposizione tra “sensibile” e “intelleggibile”, intesi come due realtà distinte di cui una sorpasserebbe l’altra e ne sarebbe la copia: la musica, quindi, non potrebbe appartenere a un altro mondo - sia esso quello delle sfere o quello degli angeli. Dato che, effettivamente, agli occhi dei cinesi, la sola differenza in causa, in seno al reale, è una differenza di finezza nel modo di attualizzazione e di funzionamento, sussiste una continuità essenziale tra ciò che è sufficientemente

di François Jullien

“grossolano” da essere percepito dai sensi e ciò che, troppo sottile per essere da loro percepibile, risulta accessibile solo a quest’altro “organo”, più fine, che è il nostro spirito (jingshen): al suo stadio più grossolano, la realtà si presenta in maniera frazionata, limitata, opaca; mentre, a uno stadio più sottile, essa fa “comunicare” da parte a parte (tong), si esercita senza cesure né blocchi, diventa “limpida”. Ora è questo stadio il fondamento del precedente, costituisce il “tronco” comune, radicandosi nell’Invisibile, a partire dal quale si dispiega la crescita dei “rami” - come altrettante estremità sensibili. Quindi, se l’”eccedenza di suono” e il suo prolungamento sono preferiti al loro sfruttamento sonoro, consumato istantaneamente, dipende dal fatto che ci portano, in un modo che è ancora percettivo, a questa comprensione più sottile, e al tempo stesso, più fondamentale, della realtà: riportano il nostro spirito dalla dispersione del livello sempre complesso, e quanto mai appariscente, della “ramatura”, verso l’intuizione della semplicità comune - e discreta - che è all’origine delle cose e a loro soggiace in modo permanente. La dimensione fisica del suono non viene screditata a vantaggio di paradigmi trascendenti, o di musiche soprannaturali, ma deve cedere il posto al suo approfondimento - tramite superamento - nel silenzio.

Tratto da “Elogio dell’Insapore” a partire dal pensiero e dall’estetica cinese di Francois Jullien - Raffaello Cortina Editore, 1999

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debussy l’egizio di Leonardo Zunica

Vladimir Jankelevich, nella sua opera Debussy e il mistero, ci ha lasciato una profonda testimonianza sul significato della musica in Debussy; nel suo linguaggio ricco di metafore e immagini illuminanti per la comprensione del cosmo musicale debussiano, ciò che emerge come paradigma, o come archetipo, è la dimensione misteriosa, la tensione verso il silenzio, al quasi niente (presque rien), così come ci indica il compositore in uno degli studi pianistici: le cangianti parabole sonore debussiane sfiniscono nel progressivo dissolversi del suono o, per usare una metafora presa in prestito dalla tecnica cinematografica, nella dissolvenza. Il senso di mistero che Debussy costruisce con materiali linguistici precisi, oltre a richiedere all’esecutore/ascoltatore l’esperienza, oggi ancor più significativa, di un ambiente sonoro che si attutisce quasi sempre verso il pianissimo (pp) o al più che pianissimo (ppp), si rivela anche nella scelta dei soggetti, quasi che nel suo progetto, nella sua poetica tutto debba naturalmente tendere al nascosto, al celato. Debussy, da giovane, pensava che la musica non solo dovesse essere qualcosa di ermetico - nel 1893 poco più che trentenne poteva scrivere all’amico Ernest Chausson “la musica dovrebbe essere una scienza ermetica” - ma essa stessa dovesse veicolare contenuti nascosti della vita; è la poetica simbolista in cui il rimando continuo dei significati ci pone come di fronte ad un abisso linguistico, ed il cui resto è ammissione d’ inconoscibilità ultima. Abbondano nelle musica di Debussy soggetti ispirati all’ Oriente, di fatto proseguendo una tradizione musicale europea che proprio all’Oriente aveva attinto per gusto, per bramosia dell’esotico, ma anche per necessità di rinnovamento linguistico o forse solo perché è insita nella natura del messaggio musicale una tendenza all’immateriale, al misterioso dunque, all’Altro. Non mancano di fatto nella storia della musica occidentale epopee egizie e indiane, od opere strumentali che riadattano al gusto occidentale tradizioni musicali del vicino e lontano oriente. A fine Ottocento, periodo di grande rinvigorimento della curiosità popolare per gli “oggetti” provenienti dall’oriente, il paladino del conservatorismo musicale francese, Camille Saint-Saëns, compose un concerto per pianoforte e orchestra, detto anche l’egiziano, utilizzando temi uditi nei suoi consueti soggiorni a Luxor, tra il 1895 e il 1896, e che ebbe un enorme successo. Vent’anni prima Giuseppe Verdi compose Aida, “la cui trama elaborata dall’egittologo francese Auguste Mariette, che lavorava per il governo egiziano - glorificava l’Antico Egitto al modo occidentale” (Bernal). Le opere in questione sono innumerevoli. Di fatto il repertorio musicale ispirato all’Oriente è uno dei significativi contributi a quella che Edward Said definisce come invenzione europea dell’oriente, luogo di fantasia, di esperienze straordinarie; ed anche, secondo una delle prospettive di Said, luogo dell’irrazionale, dell’alterità, del rimosso - così come anche della cattiva coscienza dell’occidente colonialista. La tradizione ermetica, soprattutto sintetizzata in Europa dalla varie correnti della Massoneria e dai Rosa Croce, attribuiva all’Antico Egitto una grande paternità culturale. Possiamo affermare con cautela che fosse la sopravvivenza di quel modello antico, così come lo chiama Martin Bernal, che vedeva lo sviluppo della cultura ellenistica e quindi occidentale proveniente dall’interazione fondamentale con le conoscenze scientifiche e filosofiche dell’antico Egitto. La vicinanza di Debussy all’esoterismo rosacrociano francese è verificabile tramite le frequentazioni di Erik Satie - non a caso detto Esoterik - che si appassionò alle eccentriche pantomime ermetiche di Sar Peladan e contribuendo con diversi brani pianistici; ma è probabilmente complementare ad una convinzione, una ricerca di ordine linguistico. Comunque, altri compositori, come Maurice Ravel, furono vicini agli ambienti esoterici parigini di fine secolo. Debussy compose due brani ispirati direttamente all’Egitto: Pour l’egyptienne, nella raccolta delle 6 Epigrafi Antiche - di cui esistono tre versioni, pianoforte a quattro mani, pianoforte solo, e per orchestra, e Canope, nel secondo libro dei Preludi, tra i lavori più enigmatici di Debussy. L’evocazione suggestiva e orientaleggiante sono lontanissime. S’innerva, qui come in altre topografie sonore - nella Spagna de La Puerta del Vino o di La Soirée dans Grenade, o l’estremo oriente di Pagodes o La Lune descend dans le temps qui fut, una “indeterminazione geografica” quasi a volersi spinger oltre, come recita il titolo di un libro di Mario Bortolotto, a Est dell’Oriente... Siamo, come ha detto Pierre Boluez, di fronte “alla rottura del cerchio dell’occidente”.

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melassa e piume sulle icone alla festa futurista, mantova 2009

popstar della cultura

di Alessandro Trocino

L’accostamento di due parole così diverse come popstar e cultura può irritare. Così come può sembrare inappropriato inserire in un unico contenitore personaggi così diversi come Giovanni Allevi e Roberto Saviano, Carlo Petrini e Beppe Grillo, Mauro Corona e Andrea Camilleri. Ma è proprio mescolando ingredienti diversi che nascono suggestioni e possibilità inaspettate. Si schiudono prospettive. Si aprono varchi di significato e squarci imprevisti. Individuare i fili che uniscono e dividono i protagonisti della cultura di massa più avanzata in Italia non è un’operazione astratta, sterile. Non è neanche un tentativo di costruire una teoria sistematica. È invece il tentativo di illuminare lati oscuri dell’industria culturale nostrana. E di mostrare una faccia del paese, il suo bisogno disperato di esempi positivi e la sua assuefazione a paradigmi antichi e deleteri. Da cosa deriva l’autorevolezza dell’autore di un solo libro, Roberto Saviano? Perché leggiamo con avidità gli editoriali di politica internazionale di un gastronomo come Carlo Petrini? Perché siamo sedotti dalla furia verbale e dalle “verità” rivelate di Beppe Grillo? Fermarsi a ragionare, mettere in discussione anche quello che l’impegno civile e l’appartenenza politica non vorrebbero si toccasse, è il primo atto di una presa di coscienza. Di uscita dalle logiche cieche dei simboli, degli schieramenti aprioristici, delle appartenenze. Decostruire gli idoli. Smontare le narrazioni, verificare gli ingranaggi, guardare dietro le apparenze, inoltrarsi nelle storie. Riportare il discorso dai miti alle persone. Per questo ho voluto innanzitutto inoltrarmi in un terreno cronachistico e storico, ricostruendo le origini del successo dei miei sei personaggi in cerca di autore, provando a individuare le zone poco illuminate, i momenti di scarto, le storie che precedono la salita trionfale sul piedistallo del successo. Ho raccontato le innegabili capacità, in alcuni casi il talento se non il genio, che hanno mostrato nel tempo questi personaggi. Ma anche i trucchi, le furbizie dei moderni aedi della Cultura che innalzano un monumento a se stessi e si propongono contemporaneamente come alfieri del Nuovo e come Maestri intoccabili, non di rado come santoni, esibendo una buona dose di alterigia e di profetica scaltrezza.

il libro di Alessandro Trocino: Popstar della cultura, Fazi editore, 2011

Nel manicheismo binario del nuovo-vecchio, schema che non prevede vie d’uscita, né varianti, spesso i nostri eroi fanno la loro parte con severità leggiadra, enfatizzando le critiche, costruendo fittiziamente eccentricità, pseudogenialità, con una capacità quasi epica di autocelebrarsi e di proporsi come vittime del sistema. Lotte titaniche, sostenute da un buon ufficio stampa, da collaboratori abili a intrufolarsi nei buchi neri della comunicazione. Lotte che si vestono di vezzi, gesti e codici di riconoscimento. Giovanni Allevi ci racconta di un paese malato di retorica, di sentimentalismo, un Paese che si fa ingannare volentieri dall’immagine di un giovanotto che potenzia il modulo retorico e sempiterno dell’arte e sregolatezza con una robusta dose di marketing e una spruzzata di filosofie new age da era della Grande Emozione e Nuovi Rinascimenti. Il giovane musicista viene subito reclutato dalla politica, che lo porta a suonare alla Camera e che lo inserisce tra i “saggi” del Comitato per l’Unità d’Italia. È l’Italia midcult che confida nei miracoli dell’autoculturalizzazione istantanea di massa: ascoltare Allevi come lasciapassare nel club colto del musica classica. Roberto Saviano è un bravo e coraggioso scrittore che, suo malgrado, diventa il simbolo anche di un’Italia intellettualmente disonesta, che non sa fare i conti con se stessa e preferisce affidarsi a un eroe virtuale, ai suoi appelli, al suo presenzialismo salvifico come forma di redenzione da una corruzione morale che si è estesa ben al di là del territorio della criminalità organizzata; lo scrittore engagé come figurina da scaffale, l’onestà proclamata e non praticata, l’enfasi melodrammatica con funzione anestetizzante e consolatoria. Andrea Camilleri è l’Italia pittoresca che per dare dignità letteraria al giallo deve acconciarlo con una lingua che usa un dialetto da operetta e con un impegno politico che lo accredita nel sistema mediatico. Carlin Petrini è l’Italia del sapere nostalgico, delle lucciole scomparse, del pomodoro di una volta, dell’ambientalismo del viva le foche, del radical chic, di una sinistra buonista, passatista, emotiva, che va da Celentano a Jovanotti, passando per madre Teresa di Calcutta. Il gastronomo-filosofo-bottegaio è in grado di passare con agilità da Ermanno Olmi a Jeremy Rifkin, da Gramsci a Zaia. Beppe Grillo è l’Italia del catastrofismo apocalittico dell’iperbole emotiva, del populismo tecnocratico, del vaffanculo catartico, dell’antipolitica e dell’antipartitismo. L’Italia antirazionalista che ha bisogno di un guru che gli indichi la strada e lo trova in un comico che predica anacoretismo e pratica il business, senza mai dimenticare lo stato di indignazione permanente, inesauribile fonte di guadagno. E Mauro Corona è lo scrittore-alpinista che esibisce la sua alienazione dal mondo contemporaneo, industriale e consumistico, si crea una divisa riconoscibile da uomo delle montagne e va in tv con bandana e canotta per fare il testimonial di un passato rurale che è una macchietta. Il mio viaggio tra i resistibili Maestri non è però un j’accuse verso i singoli personaggi, il cui grado di talento, genio o capacità non è in discussione. È invece un testo (e un pretesto) che serve per raccontare l’Italia. Un’Italia che, prima o poi, andrebbe rifondata.

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intervista a cioran intervista di Anca Visdei per Les Nouvelles Littéraires, 02/1986 traduzione di Stefania Bosi

A causa del suo silenzio, intorno a lui si sono scatenate opinioni fantasiose: “nichilista”, “masochista disperato”, “distruttore d’illusioni”. Lo straniero più nascosto tra i grandi scrittori di lingua francese rifiuta di svelarsi al di fuori dei suoi libri. Detesta le interviste, fugge la stampa... preferisce che si leggano le parole che seguono come frutto di un incontro amichevole. Senza interpretazioni.

La fama che lo circonda non lo indica affatto, ma Cioran è uomo di grande gaiezza e squisita cortesia. Lui che con un aforisma di due parole fa piazza pulita di Dio e della Creazione, apre la porta del suo antro pieno di libri, a due passi dall’Odeon, con uno sguardo malizioso, premuroso ed ospitale. È un giovane uomo di settant’anni (sic!) dai tratti fini, gli occhi chiari, la criniera bianca. Un leone bianco, un lupo bianco. Un pensatore? Un filosofo? In ogni caso uno scrittore. Dà l’inebriante sensazione di trovarsi quaggiù dall’inizio dei tempi, sotto spoglie differenti, a montare la guardia alla futilità del mondo armato del solo boomerang del suo pensiero che tutto prevede: compresa la vanità di ogni pensiero. Cioran non ha l’abitudine di incontrare giornalisti, gli sembra di aver detto già tutto nei suoi libri. Quanto ai dettagli biografici, anche quelli sono tutti nelle sue opere. Con aria divertita e con suprema cortesia che alleggerisce la gravità del suo pensiero, Cioran confessa: - ”Credo che solo una cosa giustifichi e spieghi i libri: il loro valore terapeutico. Se non avessi scritto avrei potuto fare cose mostruose. Ora, è molto meglio, piuttosto che saltare alla gola di un tizio che non vi piace, assalirlo a colpi di aforismi. Ecco la sola funzione della scrittura: vendetta senza rischi. E non si attaccano solo le persone, che del resto sopravvivono agli aforismi, ma soprattutto Dio. Questi sono i cattivi sentimenti che attraversano i miei libri. Tutto ciò che ho scritto parte da un’esperienza personale: di ogni riga vi posso dire l’accaduto, l’ora e il giorno che me l’hanno ispirata. Ogni mio libro non è che una confessione piu’ o meno nascosta. Vivo la scrittura come azione: dopo aver scritto di qualche stratagemma su come ‘sistemare’ l’Universo, si può andare a passeggio.” Ionesco ricorda spesso lo stupore che si impossessa di lui, di fronte alla facoltà di Cioran di rimettersi a vivere piuttosto gioiosamente dopo aver constatato in modo irrefutabile l’inutilità dell’esistenza. Immaginate una qualsiasi passeggiata sulla rive gauche: Cioran schiaccia la Creazione, gli uomini e il loro Dio che, dopo una vita priva di senso, ne promette un’altra. È brillante, incontestabile, definitivo. Ionesco si lascia convincere, si rattrista, soccombe alla malinconia. Cioran, considerando l’argomento concluso, si mette ad ammirare il panorama ed imbastisce qualche altra questione. Il compagno di passeggiata ha generalmente bisogno di qualche giorno per rimettersi e trovare “qualche nuovo motivo di speranza”. Tuttavia Cioran non fa della provocazione. Si tratta di una perfetta osmosi tra il suo essere e il mondo. È nello stesso tempo Faust e Mephisto, Jeckyll che vive, Hide che scrive. È un saggio asceta (ha rinunciato a caffè, alcool e sigarette), scrive solo aforismi, vera incarnazione e santificazione del dubbio. Ma è anche il contrario: uno studioso incredibilmente giovane, pieno di curiosità e di malizia, un iconoclasta provocatore nella più pura tradizione delle università tedesche. Uno spirito all’erta che prende come affronto e sfida personali la fatuità lenitiva di ogni certezza. Se la ride della follia del mondo e, nella sua integrità, mai è caduto nella trappola delle vanità abituali; non spera perché è chiaroveggente, sa che non c’è scampo. transatlantico6

Bibliografia minima Squartamento (1979) Storia e utopia (1960) La tentazione di esistere (1956) Il funesto demiurgo (1969) Esercizi di ammirazione (1986) Sommario di decomposizione (1969) Confessioni e anatemi (1986)

Per Cioran, lo scrittore non deve aver famiglia e far voto di povertà, cosa che lui ha fatto con encomiabile rigore. Con humor racconta degli anni di vacche magre: - “Per vent’anni ho vissuto di poco o nulla. Vivevo in alberghetti economici, mangiavo nelle trattorie universitarie. Uno dei giorni peggiori della mia vita, fu quando all’università mi fu comunicato che il limite d’età per accedere ai locali universitari era di ventisette anni. Ne avevo quaranta! Tutti i miei progetti e il mio avvenire sono crollati in quel momento. Mi vedevo così bene come un eterno studente, fallito e povero, attardarmi nel quartiere latino con altri rifiuti come me... corrispondeva alla mia visione del mondo! Mi dicevo: tutto ma non lavorare e intendevo fare un lavoro che non mi piacesse, cioè un lavoro d’ufficio o l’insegnamento. Non credo valga la pena di vivere facendo cose che non c’interessano. Tuttavia questo succede al novantanove per cento delle persone. Ma così la vita non ha senso. È una condanna per il mondo, per l’uomo, per la società. Tanto vale restare allo stato di natura.” E Cioran evoca Dostoievskij, che accettò di essere povero e senza famiglia. Il più grande di tutti insieme a Shakespeare, che su di lui ha il vantaggio di essere poeta e scrivere in inglese. Due scrittori al limite ultimo dell’esperienza umana. Più in là solo vertigine. - “Dopo Shakespeare non si doveva più scrivere teatro e dopo Dostoievskij niente più romanzi. Ma l’uomo è condannato ad andare avanti e a spezzarsi. L’avvenire ci condanna. Ne sono convinto.” Le interviste di Cioran sono rarissime. Si proibisce una delle più frequenti illusioni d’oggi: prendersi sul serio con la complicità dei media. Se questo avvantaggia le sue opere, mette in ombra le qualità umane. Non si può immaginare il suo calore nell’incontro che si protrae per ore, la sua ospitalità semplice ma elegante. Cioran parla più di altri che di sé. E il suo ultimo libro si intitola infatti Esercizi di ammirazione. Pagine dedicate a Bekett, Joseph de Maistre, Valery, Michaux. Il prossimo sarà un florilegio di aforismi intitolato Confessioni e anatemi. Ecco ancora la doppia natura: per l’umanità intera l’anatema, per l’individuo, talvolta l’ammirazione. Incontrando Cioran si assiste ad un altro sortilegio: la perfezione della lingua. Ci si sente imprigionati dall’esattezza diabolica con la quale esprime le sue idee. - “Ho il complesso dello straniero: so di non potermi permettere in francese certe audacie, certe dimenticanze, certe violenze. Di tutto quello che avviene spontaneamente, d’istinto, nella propria lingua, si diventa consapevoli e si sa che le parole esistono indipendentemente da noi. Questa distanza tra noi e lo strumentoparola è la ragione per cui quasi nessun poeta scrive in una lingua che non sia quella materna. Il Rilke dei Quaderni di Malte voleva ad ogni costo essere un poeta francese; conosceva perfettamente la lingua, ma era una scommessa impossibile. In quanto poeta francese Rilke non esiste: c’è qualcosa di puerile, c’è la distanza tra soggetto e scrittura. Fintanto che le parole esistono fuori di noi è impossibile farne poesia. La poesia “è” in noi. Un esule deve essere cosciente che in una nuova lingua non può esprimere quella sotterranea morte dell’anima che è la poesia. [...] Per Cioran il limite più audace per uno scrittore in una nuova lingua è l’ironia. Non se ne priva. Con una perseveranza che fa pensare che l’ironia non sia che la maschera di una disperazione così profonda che altrimenti cadrebbe nel grottesco. Ecco ancora una volta la doppia natura: ama gli antichi greci, i soli ad essere maestri del pensiero e maestri d’ironia,


ma anche la filosofia induista, la più grande, che affronta tutte le grandi questioni ma manca totalmente di humor. Conoscere Cioran, dopo averlo letto, conferma un’ipotesi: esiste un prototipo di saggio occidentale. A Buddha è arrivato per delusione e per delusione non ha potuto seguirlo. Ha avuto il suo vuoto, i suoi vuoti. Emile Cioran è nato a Rasinari in Transilvania, dove si parlava ungherese, tedesco e rumeno ma davvero molto poco il francese. Trasferitosi a Bucarest a 17 anni per studiare filosofia, scopre un nuovo universo: tutti parlano francese. In società l’oggetto preferito di conversazione è l’ultimo romanzo stampato a Parigi e tutti lo hanno letto in lingua originale, naturalmente! Più tardi una borsa di studio dell’Istituto Francese di Bucarest gli permette di partire per la Francia, per Parigi. E la Francia non ha più lasciato. [...] - “La filosofia è stata una grande delusione. Ho scoperto in seguito di essermi isolato per anni. È una disciplina pericolosa perché genera un disprezzo totale per tutti coloro che ne sono fuori. Professori e studenti che la praticano sono in genere tipi pretenziosi. La filosofia incoraggia l’orgoglio e vi da un’idea falsa di voi stessi e del mondo. Occorre conoscerla, ma unicamente per superarla. Vi apre orizzonti, certo, ma quel che conta più di tutto è il contatto con la vita, con l’esperienza. La filosofia, al massimo, vi aiuta a ‘formulare’. Il linguaggio filosofico è poco appropriato alle esperienze strettamente personali. Per esempio, in filosofia, il dolore non è ammesso: lo si lascia ai parroci e ai cattivi scrittori.” Tra le esperienze personali, Cioran mette al primo posto la perdita del sonno. Si scusa con un sorriso, è consapevole di infilare la sua insonnia ovunque, ma si tratta di un’esperienza essenziale, che gli ha permesso di conoscere la continuità tragica, allucinante del tempo. Trascinandolo in una sensazione di non appartenenza al mondo. In queste notti bianche ha avuto la rivelazione dell’inutilità della filosofia. Passeggiando da solo la notte. - “C’eravamo solo io e le prostitute, per le quali da allora nutro un grande rispetto. Vegliavamo insieme sul sonno degli altri. Era un periodo tragico. Avevo finito gli studi ed ero un buono a nulla. Ho insegnato filosofia per un anno. Dopo una notte in bianco andavo al liceo di pessimo umore e dicevo delle insensatezze. Trasformavo tutto in ridicolo. Due o tre studenti seguivano, tutti gli altri sghignazzavano.”

Al suo arrivo a Parigi nel 1937, Cioran dispone di un alibi: scrivere una tesi. Menzogna! Per ben dieci anni non ha cercato un solo argomento, convinto com’era che non sarebbe mai stato capace di scriverla in francese. - “Cambiare lingua per uno scrittore è un’esperienza tanto grave quanto per un uomo cambiare religione, diceva Simone Weil. Lo scrittore ne trae l’illusione di una nuova vita, di un nuovo universo. Sarò solenne: se uno scrittore straniero (e intendo che abbia pubblicato già in un’altra lingua, che abbia avuto una prima carriera) vuole scrivere in francese, occorre eliminare del tutto la lingua straniera. Mi si obbietta: “Ma... mia moglie vuole parlare nella nostra lingua.” Rispondo: ”Un solo rimedio. Il divorzio!” E Cioran, che annuncia con un sorriso la fine dell’uomo, si rabbuia evocando il crepuscolo del francese e la scomparsa di quella borghesia colta che ha permesso la trasmissione della lingua in tutto il mondo. [...] - “Trovo che scrivere all’infinito non abbia alcun senso. Di ogni libro non resta che qualche riga. Allora a che scopo moltiplicarli? Ma non avendo niente da fare ho scritto libri. È meglio far vedere che si è indaffarati. Con l’età ci si affatica. E io sono sempre stato un po’ stanco.” A proposito di ‘nati-stanchi’ Cioran menziona Henry Michaux. Ma non si include tra loro. Un certo pudore gli impedisce di definirsi? Un deluso-nato? Un disperato-nato? Dice di essere in preda ad una tristezza metafisica, quella tristezza senza motivo che è la causa ultima di tutte le passioni dei mortali lucidi. - “Mi si dice spesso:”Malgrado quello che scrive, lei è un uomo molto allegro”. Sì, ridere è un atto liberatorio. Ho da poco ricevuto una lettera dalla Romania. Mi scrive un amico che pensa al suicidio e mi chiede consiglio. Ecco cosa gli rispondo:”Se non puoi più ridere, allora fallo!”. Il riso è un atto di superiorità, un trionfo dell’uomo sull’universo, una meravigliosa invenzione che riporta ogni cosa alla giusta proporzione.” [...] Al momento di lasciare Cioran, le braccia cariche di libri (non vi lascerà mai andare senza una copia dei libri di cui ha parlato), si sente già la sua mancanza. Di quella serenità relativa che per altri è un trionfo e per lui ”un calvario ben riuscito”.

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Ceneri di una lacrima di Paolo Vanini

[Al Jardin du Luxembourg di Parigi, davanti la statua di Baudelaire. Un usignolo si posa sugli occhi di pietra del poeta, mentre Cioran lo osserva.] CIORAN: “Quando l’uccello del sonno pensò di fare il nido nella mia pupilla, vide le ciglia e si spaventò della rete”.

M: E la procreazione si sarebbe ammutolita in una sterilità oceanica.

ME: Deve averla ascoltata. Guardi, è già volato via...

C: Ho frequentato molto i bordelli, ripetendomi spesso che se fosse stato “fortunato in amore, Adamo ci avrebbe risparmiato la Storia”.

C: Era capitato sul nido sbagliato.

M: Meglio accondiscendere a una prostituta che a un creatore.

M: Scusi se mi sono intromesso, ma senza volerlo l’ho notata mentre parlava con la statua. Sbaglio, o era un verso di Baudelaire?

C: Le dirò, potrei definirmi un nostalgico dei marciapiedi. Senza contare che “non appena si accetta di esistere, si deve accettare la prostituzione. Per me chiunque non si suicidi è in qualche modo uno che si prostituisce”.

C: Si sbaglia, mio caro! Sono parole di un poeta arabo d’Andalusia, Ibn alHamara. E quell’uccello è in cerca di diottrie più consone al sonno. Magari si rifugerà proprio sui suoi occhiali. M: Purtroppo per lui, sono un astigmatico delle lenzuola. Non dormo da giorni. C: Sa, ho immaginato più volte che se fossi stato un Pontefice dei tempi andati avrei messo al rogo gli insonni. L’ortodossia abbisogna almeno di otto ore al giorno con gli occhi chiusi – e in tal modo sarei stato condannato a priori dal mio stesso decreto. M: D’altronde, sarebbe poco credibile un sovrano consueto al riposo. Nella stessa misura in cui è impossibile un sovversivo sonnolento. C: Tirannia e rivoluzione: mancanze di oblio. Il dovere di rievocare, di aver presente ciò che è stato, e poco importa se per mantenere il ricordo vivo o per evitarne la ripetizione in ciò che è. Nella migliore delle ipotesi, si ghigliottina il passato – un capitombolo ad occhi sbarrati. M: Dunque, in caso di perplessità, starebbe dalla parte del boia? C: Da giovane nutrivo certamente più fiducia nella mia intolleranza! Ma anche allora... Una volta qualcuno mi accusò di essere un reazionario perché condannavo tutto ciò che era accaduto dalla Rivoluzione francese in avanti. Ma io facevo capolinea al deserto: per me è sbagliato tutto ciò che ha fatto seguito ad Adamo! Abbiamo scelto il frutto sbagliato, abbandonato la Natura per consegnarci alla Storia: questo “squilibrio ininterrotto” che ci ha fatto cadere nel tempo condannandoci all’atto. M: E l’atto, per essenza, è intollerante. C: E tragico. Non mi fraintenda, o meglio, mi fraintenda pure! Chiunque, che come me, abbia abrogato la propria fiducia verso la salvezza del nuovo, non può non essere che reazionario. E nemmeno può credere nella salvezza di un qualsiasi passato. Per quel che mi riguarda, credo solo alle mie esitazioni: una faccenda che ha più a che fare con l’orgasmo che con le mie convinzioni. M: Voluttà del dubbio! C: Così, non pensiate voglia imporvi una qualche opinione, e non si tratta nemmeno di pessimismo. “Constato semplicemente che l’uomo ha preso una brutta strada, e che non poteva non prenderla”, quasi che la storia universale fosse “un grande fiume nato dal peccato originale”.

M: Mi sembra una dichiarazione d’innocenza nei confronti di Machiavelli... C: Un riconoscimento, a chi ci ha mostrato la falsità di una giustizia innocente. E invece tutto è stato ridotto a misantropia deliberata. M: Ma così, mi ritrovo machiavellico per il semplice fatto di non essermi suicidato! C: Non se ne abbia a male: la sua, come la mia, è stata una scelta politica. Ogni individuo che “non abdichi al respiro” può dirsi senza dubbio machiavellico, perché la volontà di vivere è una sottrazione di scrupoli. E quando questa diviene volontà di potere... M: definire machiavellico un politico è un pleonasmo. C: “Solamente l’uomo d’azione che desiderasse il fallimento avrebbe il diritto di combattere Machiavelli, che si è dedicato a precisare, talora cinicamente, è vero, le condizioni del successo. Ma [mi] citi l’esempio di un uomo d’azione che abbia aspirato al fallimento...” M: Lei mi sembra esattamente un infatuato della disfatta. C: Esclusivamente alle mie condizioni, ovvero nella stasi del mio ozio. Lei non considera che io non ho mai fatto niente, all’infuori del veder passare le ore. Un modo comunque migliore che “cercare di riempirle”. M: Un inetto che attenta al fallimento? C: Un demiurgo alla rovescia: il più grande orgoglioso che abbia messo piede su questa terra! Il peccato che non posso redimere è l’aver scritto più di quanto avrei dovuto, solamente per non appendermi a una corda. M: Scrive per non uccidersi? C: Potrei risponderle affermativamente, a patto di essere approssimativo. Penso che il suicidio preceda la letteratura. So che per quanto possa andare male e per quanto non sia padrone di quello che mi circonda, ho sempre la libertà di farla finita: e da quest’ ultima, o prima, certamente la più essenziale delle possibilità, nasce la mia necessità di scrivere. M: Che sembra una condizione terapeutica.

M: E noi siamo destinati a sfociare in un naufragio. Se soltanto Noè avesse saputo...

C: Differisco il suicidio a modo mio. “Scrivere è la grande risorsa quando non si è frequentatori assidui delle farmacie, scrivere significa guarire. Le do un consiglio: se odia qualcuno senza volerlo proprio sopprimere, scriva cento volte il suo nome facendolo seguire da «ti ammazzo». Dopo mezzora si sentirà sollevato”.

C: ... “si sarebbe certo fatto colare a picco!”

M: Ecco un’abitudine che dovrebbero prendere le maestre alle elementari.

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Frammento di biografie Emil Cioran nacque a Sibiu, in Romania, nel 1911 e morì a Parigi nel 1995, con lo statuto di apolide. Di questa città che amò molto e in cui si trasferì nel 1937, in virtù di una borsa di studio per una tesi che non elaborò mai, ebbe a scrivere in una lettera: «Non le perdonerò mai di avermi legato allo spazio né di essere, per colpa sua, da qualche parte». Ciò che manca, o ciò che conta, nella prosa di Cioran è appunto l’assenza di ogni orientamento metafisico, se per orientamento si intende la direzione di un’idea – la respirabilità di una qualsiasi verità. A me che scrivo, studente di Filosofia nato solo nove anni prima della morte del nostro autore, non resta che confessare che il primo libro di Cioran che lessi (Squartamento) fu il regalo di un amico, il quale mi impose: “A patto che tu mi prometta di non leggerlo tutte le sere prima di addormentarti”. Ho rispettato la promessa, sia perché non l’ho letto tutte le sere, sia perché non mi capita tutti i giorni di dormire; ma Cioran resta l’unico pensatore del quale mi sia sentito complice, proprio come lo si potrebbe essere con un amico. Se non altro per aforismi, come questo, capaci di sollevarmi da giornate che sapevano di mozzicone di sigaretta: «Dopo che il mio dogmatismo se n’è andato in bestemmie, che altro posso fare se non essere scettico?»

C: Le classi sarebbero molto più moderate! E le maestre meno sceme. M: Insomma, ostenta tanta antipatia verso i polmoni, eppure non ha ancora abdicato alle parole? C: Mai riuscito ad impiccare il Verbo! [Ride] Le mie vertigini grammaticali da malinconico. A non più di mezzo metro dal pavimento. M: Una sedia sarebbe più efficace del letto. Sul materasso la corda si tiene sempre sotto il cuscino. C: Ma sopra il cuscino... Lei sottovaluta la malinconia: non si accorge che “grazie a lei – questo alpinismo da pigri – scaliamo dal nostro letto tutte le cime e sogniamo al di sopra di tutti i precipizi”? M: Per tornare a valle con nient’altro che quel groppo alla gola chiamato magone? C: In francese diremmo cafard... Non so che risponderle, davvero. A me consola il dubbio immutabile che “al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime”. M: Che non necessariamente abbiamo pianto. C: Le assicuro, “ci sono degli iniziati in fatto di lacrime, che non hanno mai pianto realmente”. M: La sua sembra un’Apocalisse lunare di pastori rattristati. C: E annoiati. Un pomeriggio della mia infanzia nei Carpazi ebbi la sensazione del tempo che si pietrificava; è il mio primo ricordo cosciente della Noia, questo sguardo di Medusa fissato sui secondi. Come se il tempo fosse “in me e all’infuori di me, in entrambi i casi sotto una forma di lacerazione ostile, di un’esclusione folgorante dal paradiso e, soprattutto, di un’impressione di vacuità letteralmente inesauribile”. M: Quasi che il tempo diventasse insostenibile?

dell’ubiquità... C: ...ad onore della peste, devo ammettere che “non esistono lebbrosi annoiati”– per quanto io non abbia “ancora digerito l’affronto” di essere nato. M: Le confesso che sembra averlo accettato suo malgrado con grazia. C: Per una vita ho ammirato il Buddha e compatito Nerone, e lontano da entrambi sono riuscito soltanto ad affondare nel distacco. Così, mi sono limitato a vivere “come si accettano gli inviti a cena: con un disgusto divertito”. M: Al funerale di una cara amica che fu mia insegnante, mentre si accompagnava la bara all’ufficio delle cremazioni, ricordo quella passeggiata di poche decine di metri tra croci e tulipani. Nell’ultimo tratto di strada, un amico col quale stavo chiaccherando mi fa notare un’edicola funeraria, la più grande nei paraggi, consacrata ai cadaveri passati e futuri di tale famiglia ‘Cena’. “Evidentemente è l’ultima” fu il mio commento, che obbligò entrambi a nascondere tra le mani quella risata da becchini. C: Tanto spesso mi è capitato di ridere ai funerali, che alcune volte ho rifiutato di presentarmi proprio per non compromettermi. C’è qualcosa di così terrificante e ridicolo nel fatto che l’ultima metamorfosi si risolva in cenere – e questo non solo per l’individuo, ma anche per l’universo. Che la cenere sia “l’esito e il segreto di tutto [...] lo si è intuito e saputo sempre”; che poi, per dimenticarlo, la nostra specie si ostini nel portare a termine ulteriori “supplementi al nulla”... “Nessuno, d’altronde, fa tanti progetti quanto un moribondo”. M: La mia amica stava tra coloro che avevano nostalgia della cenere. Era un’approssimata al disinganno, la sua misura delicata di essere sarcastica. Che l’unico orgoglio tollerabile sia quello della sconfitta l’ho imparato dai suoi continui aneddoti; tanto che, se dovessi metterli insieme, la sua biografia risulterebbe una diminuzione nelle rivendicazioni. C: “Più si è sofferto meno si rivendica. Protestare è segno che non si è attraversato alcun inferno”.

C: ... San Paolo aveva il sonno pesante. Un uomo di fede.

M: Giù agli inferi, conta soltanto la premura all’inutilità. Poco dopo che scoprì il suo tumore al cervello – proprio il giorno prima che finisse all’ospedale – mi chiamò per spiegare: «Credevo fosse mal di testa». Non penso che la mia prof. fosse un’insonne, è anzi probabile che dormisse otto ore al giorno. Ma non aveva il sonno pesante: era una pigra incline al risveglio – alla disillusione dell’alba. Quando andò in pensione, mi disse che tra i suoi «svariati progetti senza alcuna utilità» c’era quello di scrivere una raccolta degli incipit più belli della poesia italiana. L’ipotetico libro sarebbe cominciato col primo verso de “La sera del dì di festa” di Leopardi...

M: Alcune notti fa, rileggevo il libro di Giobbe. Ho avuto la sensazione

C: “E dolce e chiara è la notte e senza vento”.

C: Quasi che si mutasse in una cosa a me completamente estranea. Direi che nella Noia il tempo si aliena – diventa un sasso. M: Quel sasso, per molte notti, è stato il mio cuscino. C: Mon ami, non si dorme sulle macerie! M: Quando San Paolo diceva di morire ogni giorno...

che esistere si riducesse a una malattia – a una lebbra toccata dal dono

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intervista a Toru Takemitsu

Hinoki (cipresso giapponese), paravento. Attribuito a Kano Eitoku (1543-1590)

Toru Takemitzu è senz’altro il compositore giapponese più importante del Novecento. Autore di moltissime colonne sonore per film, tra cui Ran di Akira Kurosawa, la musica di Takemitzu accoglie in sé le istanze delle avanguardie musicali del Novecento, da Messiaen a Cage, e le scoperte che gli ispirarono, nello sviluppo della sua poetica musicale, le tradizioni musicali giapponesi. In questa intervista rilasciata a Wolfgang Breyer nel 1996, anno della sua morte, e di cui riportiamo una parte, Takemitzu con il suo tono pacato, la sua grazia tutta giapponese, ci aiuta in maniera esemplare a comprendere lo spirito che alimenta il suo linguaggio musicale.

Lei è nato nel 1930 e cominciò a studiare composizione all’età di 18 anni. Nel 1948 in Giappone così come in Europa, non era facile per nessuno decidere di studiare composizione. Che cosa l’ha spinta in quella direzione? Ancora penso sia difficile decidere di essere un compositore, ma a quel tempo, era appena dopo la guerra, tutto era caos, ed ebbi una forte impressione nei confronti della musica durante la guerra; ed ero molto giovane, e semplicemente decisi di essere un compositore. Se dovessi tornare indietro non so se farei la stessa scelta, ma allora ero molto giovane e pieno di curiosità, assetato di ascoltare musica occidentale. Quando ero un giovane studente si studiava qualche canto giapponese medievale e musica marziale. Per questo eravamo assetati di ascoltare musica occidentale. Quando cominciò a studiare composizione, aveva qualche esperienza nel comporre? Nessuna! Certo amavo molto la musica, mia padre era un grande collezionista di musica jazz. Tutte le sere ascoltava il Jazz, un jazz nel vecchio stile. Così conobbi molto poco di musica, eccetto quello che ascoltava mia padre. Nella sua biografia Lei afferma di essere un autodidatta... Si, ho studiato musica per conto mio – non sono andato in nessuna scuola. Certo ho studiato privatamente per un breve periodo con Yasuji Kiyose (19001981). Gli portai alcuni miei pezzi per una valutazione, ma non mi insegnò nessun fondamento tecnico sulla musica. Parlava molto di letteratura, di arte, di pittura - sono stato molto influenzato dalla sua personalità, e dal suo modo di vivere. La mia musica è stata molto influenzata dalla radio americana, perché dopo la guerra il Giappone fu occupato dall’esercito americano che aveva una stazione radio per i soldati. Ogni pomeriggio trasmettevano tre ore di bella musica classica - Bruno Walter, Toscanini, o Paul Whiteman dall’Hollywood Bowl. Ascoltavo la radio ogni giorno. La mia prima insegnante è stata la radio. Si ma il comporre è più che ascoltare; imparare a comporre è più che analizzare la musica di altri... transatlantico10

Quando decisi di essere un compositore non potevo leggere la musica e non avevo conoscenza della musica. Solo amavo realmente la musica. Avevo molte difficoltà a scrivere la musica sulla carta, e non avevo nessun strumento. Così quando camminavo solo per la città, se sentivo un suono di pianoforte da qualche parte, visitavo al casa e chiedevo di toccare il piano per 5 minuti. Non mi fu mai rifiutato. Ero molto fortunato. Qualche volta oggi, qualche sconosciuto mi fa visita nel backstage dopo uno dei miei concerti e dice “le ho prestato il mio piano quando era giovane”. Ho toccato così tanti pianoforti. Quando mi sono sposato, mia moglie aveva un background musicale così ho studiato molto con lei. Ero troppo povero per comprarmi uno strumento e pensavo che per essere compositore mi sarebbe bastata una penna e della carta, e sarebbe stato molto semplice. Lei ha parlato di ascolto e analisi. L’analisi della musica è molto importante per un compositore, ma penso che un compositore debba essere per prima cosa un ascoltatore. Ascoltare musica con immaginazione è la cosa più importante. Come Lei sa, sono giapponese, ma quando ho deciso di essere compositore, non conoscevo nulla della mia tradizione musicale. Odiavo tutto ciò che era giapponese a quel tempo per le mie esperienze durante la guerra. Volevo essere un compositore di musica occidentale, ma dopo che ebbi studiato per dieci anni la musica occidentale ho scoperto la possibilità delle mie tradizioni giapponesi. A quel tempo ero pazzo per la Scuola di Vienna, e casualmente ascoltai la musica dei teatro di marionette dei Bunraku. Ebbi uno shock – oh, era una musica molto forte e bella. Improvvisamente riconobbi che ero giapponese e dovevo studiare le mie proprie tradizioni. Ma ancora cerco di combinarle con la musica occidentale, nelle mie composizioni. Vuole spiegare come integra elementi giapponesi nella sua musica? Usare uno strumento giapponese non significa propriamente fare musica giapponese. Ci sono molto compositori europei ed americani che integrano strumenti giapponesi, nel suono tradizionale dell’orchestra. La mia musica è come un giardino, ed io sono il giardiniere. La mia musica può essere comparata ad una passeggiata attraverso un giardino e l’esperienza di cambio della luce, dei disegni, delle tessiture. Non mi piace enfatizzare nella mia musica. Qualcuno una volta ha criticato la mia musica per essere troppo vecchio stile. Forse sono vecchio, ma guardo al passato con nostalgia. I compositori sono qualche volta dispiaciuti di usare la tonalità, ma noi possiamo usare ogni cosa tonale o atonale, questo è il nostro tesoro, e posso dire che il motivo è perché sono giapponese.


La Paura in Giappone

di Marta Berzieri

Introduzione Ci sono persone che reputano il crepuscolo il momento migliore della giornata. Non dura che pochi istanti ed è un perfetto bilanciamento di luci e tenebre; è il confine tra il giorno e la notte. Durante il crepuscolo tutto appare indistinto, i contorni delle figure diventano vaghi e la vista viene facilmente ingannata. Si aprono le porte del mondo soprannaturale: dèmoni e dei camminano sulla terra, i ruoli si invertono e tutto è possibile. Gli yōkai sono i figli del crepuscolo, né luce piena né tenebre, né bene né male. Fanno parte della storia del Giappone da sempre, vivono nelle leggende, nei dipinti, ovunque. Per compiere questo lavoro, frutto di più di un anno di ricerche in Giappone, ho cercato gli yōkai antichi, che popolano le opere classiche; gli yōkai moderni, che infestano i fumetti e i cartoni animati; gli yōkai remoti, dei templi di montagna. Ho trascorso giornate intere in biblioteche ipertecnologiche e prestigiose, mi sono persa nei negozi di volumi usati, ho camminato per sentieri di montagna e campi di riso, sono andata al cinema e nei supermercati. Ma soprattutto ho parlato, ho discusso con tantissime persone che hanno cercato di spiegarmi che cosa sono, per un giapponese moderno, i mostri. Il mio intento è stato quello di creare un’opera viva, non il semplice frutto di un’arida ricerca accademica. Ho sempre amato il crepuscolo e faccio parte di chi vede qualcosa di più nelle ombre della sera. Dedico questo lavoro a tutti i sognatori e a chi crede che la fantasia sia una delle magie più potenti dell’universo.

Capitolo I 1.2. Kami e yōkai Il Giappone è definito “il Paese con otto milioni di divinità”. Divinità che risiedono un po’ ovunque e che agli occhi degli Occidentali appaiono ben poco divine. La parola che in giapponese significa divinità è kami 神, usata soprattutto nello shintoismo per indicare qualsiasi entità dotata di una particolare forza o caratterizzata da una peculiarità. Una ragazza di ventisette anni che ho intervistato mi ha spiegato come nella sua cucina vi sia un piccolo altare dedicato al kami del forno, che sua madre onora periodicamente con offerte di riso e sake. In quasi tutti i templi shintoisti si possono trovare un albero maestoso o una roccia dalle forme inusuali adornati con shimegawa*, le corde che delimitano la zona sacra in cui abita il kami. Ma che sacralità ci può essere in un forno o in un albero? Le idee non vengono chiarite neppure dalla parola yōkai 妖怪, che dovrebbe tradursi con “dèmoni” ma

che di fatto si riferisce a una miriade di esseri i quali sembrano molto più propensi a fare scherzi burloni che a nuocere seriamente. Come sostiene Komatsu Katsuhiko, il punto è che kami e yōkai hanno la stessa sostanza, lo stesso DNA: si tratta di entità dotate di una qualsiasi forma di potere. Il fatto discriminante è che i kami vengono adorati e onorati, mentre gli yōkai non godono di alcun rispetto, sono temuti o semplicemente ignorati. È una convinzione cristianocentrica il ritenere Dio come “buono e giusto”; in Giappone divinità e dèmoni sono per prima cosa potenti. Un kami non deve necessariamente essere sempre buono, né uno yōkai sempre malvagio: come per gli esseri umani, anche per le entità superiori non esiste nessuno che incarni il Bene o il Male assoluti. Quindi, in Giappone non è impossibile che una stessa entità venga trattata, prima, come kami e, poi, come yōkai, o venga, prima, adorata e, poi, odiata oppure dimenticata. Quando un kami crea danni alle persone è declassato a yōkai; ma, se continua a nuocere arrecando danni particolarmente ingenti, viene spesso riabilitato alla sua posizione di kami, nella speranza che ciò lo convinca a placarsi: una sorta di divinizzazione con fine apotropaico. Come tra gli esseri umani conviene avere un amico piuttosto che un nemico, soprattutto se la persona in questione è potente e in grado di influire sulla qualità della nostra vita, così conviene di gran lunga offrire semplici atti di devozione a tanti kami piuttosto che patirne la vendetta. La testimonianza più emblematica l’ho raccolta da una signora di settantatré anni, la quale mi ha confidato con candore che fin da quando era bambina è sempre stata molto attenta a non orinare vicino agli alberi, perché, a suo dire, il loro spirito potrebbe risentirsene. Possiamo dire che in Giappone ogni cosa è potenzialmente un kami, viva e, proprio per questo, dotata di energia spirituale. Gli uomini non sono i padroni incontrastati della Terra: la dividono con altre entità, con cui è necessario mantengano rapporti di equilibrata convivenza. In un Paese per secoli tormentato dai terremoti e dagli incendi, gli uomini hanno imparato a celebrare riti per chiedere scusa alla Terra, a pacificarne gli spiriti prima di gettare le fondamenta di una casa o a mantenere buone relazioni con il kami del forno.

Tratto da “La Paura in Giappone” di Marta Berzieri - Caravaggio Editore 2008

* Le shimegawa 締め革 sono corde di paglia con appesi pezzi di carta a forma di fulmine, chiamati shide o kamishide.

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Mahler

Un vero spirito fin-de-Siécle di Wen-Tsien Hong Traduzione di Leonardo Zunica

Tutte le volte che passavo attraverso quella bianca porta, incorniciata di blu, i miei passi gravitavano attorno ad una indescrivibile forza magnetica, facendosi gradatamente più calmi, fino a che non mi fermavo davanti alla villa. Davo un’occhiata dentro la casa. Niente di stravagante e particolare se non un giardino tranquillo. Una porta bianca e un’elegante finestra ellittica, nascosta dietro una macchia di verde, si svelavano gradualmente come una brezza rinfrescante proveniente direttamente dalla Fin-deSiècle. Mi addentravo. E là si imponeva una struttura mistica con un’anima profonda e familiare. È l’anima Viennese, l’anima artistica, in tutta la sua interezza. Fissando la casa, la mia fantasia si espandeva senza confini e la mia mente era risucchiata da un misterioso spirito, che quasi cominciavo a perdere la capacità di mettere a fuoco. Appena riuscita a resistere a quella forza, e a riavermi, la partitura della Sesta Sinfonia di Mahler era balzata improvvisamente davanti ai miei occhi. Questa è la casa di Alma Mahler. La partitura della Sesta Sinfonia, che fu dedicata ad Alma, giace in un espositore situato nel soggiorno, non lontano dall’entrata. Chiunque entri in questa casa è testimone del genuino amore e delle lacrime di Mahler per Alma. Alma collezionava uomini o, più precisamente, il genio degli uomini. Ciò che collezionava erano grandi talenti e lavori di uomini. Un uomo con un dono divino sarebbe stato l’ospite della casa, o forse l’oggetto nella prossima collezione. Alma Schindler (1879-1964) era la figlia di un vero spirito viennnese. A fianco dei suoi tre mariti ufficiali – Gustav Mahler il compositore, Walter Gropius l’architettto, e Franz Werfel il poeta – i suoi affaires comprendevano tra gli altri anche Gustav Klimt e Oskar Kokoschka. Tutti gli uomini erano grandi artisti in questa inusuale epoca Fin-de-Siécle. La mia attrazione verso questa faccenda iniziò tutta con il semplice godimento di un pomeriggio verso le quattro, un’ora che il filosofo Kant prediligeva, e alla quale io non posso associare che l’idea di respirarne l’aria. Prima che io venissi a conoscenza di questa storia la casa era solamente una piacevole veduta per la mia camminata. Così, nel momento in cui ho scavato profondamente nella vita di Mahler, questa vicinanza con Alma è divenuta una sorta di “insostenibile leggerezza dell’essere”. Sono 100 anni dalla morte di Mahler. E non aiuta pensare se lo zeitgeist viennese possa o no essere riscoperto attraverso questo anniversario; oppure se si potrà, alla fine, rivedere la relazione ambivalente tra Alma e Mahler attraverso quei lieder, ancora oggi enigmatici? (anche Alma compose qualche lied). Il mistero della musica di Mahler e della sua vita è rintracciabile nella sua profonda natura psicologica. È uno dei grandi compositori occidentali che riesce a cogliere i profondi stati della mente e le conflittualità psicologiche attraverso la musica. Nel 1900 Sigmund Freud termina L’interpretazione dei Sogni che apre un spaccatura, nell’allora ancora

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intatto, subconscio umano. Stefan Sweig seguì il percorso tracciato allora pubblicando alcuni lavori che cercano di raggiungere le zone più profonde della psiche umana e che entusiamarono il mondo letterario, così come quello pubblico. Tutto questo sembra il tentativo di tirare la sottile corda viennese, inoltrandosi passo dopo passo in un territorio psicologico imprevedibile - un pericolosa e nuda dissezione della mente umana dal puro spirituale all’impulso animale, dall’estasi al dolore abissale, e dal trionfo della resurrezione alla caduta senza fondo, al collasso. Queste caratteristiche rendono ogni emozione nella musica di Mahler palpabile e molto reale. Si può ascoltare il vivido riso e il pianto attraverso il linguaggio musicale e l’orchestrazione. Non è certo ipnosi, ma un candido fuoriuscire di emozioni. Ma questa non è che una connotazione superflua; il mistero della musica di Mahler si riflette anche nella sua forza profetica. Esaminando le sue partiture autografe, si possono sentire i tremori nervosi che si annidavano tra le sue dita. Le goccie d’inchiostro si disperdevano snervate tra i fogli. Le dita tremavano come un sismografo, reagendo fanaticamente alle tensione personale – una tensione tra il proprio essere interno e lo stato esterno, tra la furtiva volontà umana e l’universo tangibile. Questo sismografo era molto sensibile, tanto da essere capace di predire il proprio destino. Mahler compose i Kindertotelieder mentra era in vacanza con la sua famiglia sul Wörthersee, nell’estate del 1904. Tre anni più tardi, la sua amata figlia morì di scarlattina. La profezia semplicemente si fa memoria. La visione del mondo di Mahler fu profondamente influenzata dal gruppo viennese del Pernestorfer Kreis (circolo di Pernestorfer). Questa associazione era costituita da intellettuali entusiasti delle opere di Nietsche, Schopenauer e Wagner. Nuovi movimenti filosofici collidevano e fiorivano alla fine del secolo e Mahler ne era pienamente immerso. Questo, combinato alla sua devozione religiosa e alla sua umiltà nei confronti della natura, costruiva il suo mondo sinfonico. È in quel mondo che Mahler poteva osservare i conflitti, trovare l’armonia tra l’individuo e l’universo, prefigurando l’imminente distruzione, quasi un compasso del caso, punteggiando nervosamente verso le catastrofi del XX secolo. Questo mondo sinfonico sull’orlo della crisi è tipico di Mahler, così come la pura gioia del canto. Ascoltanto la registrazione delle esecuzioni di Mahler al pianoforte (con il suo pianoforte), ho provato a dipingere e ad annusare un individuo di puro ossigeno, così come Alma commentò il suo primo incontro con Mahler:“un uomo di puro ossigeno, che brucia senza tregua, soffrendo e redimendo se stesso”. Dietro quel giardino, a quel pacifico cancello bianco, si nascondono le connessioni e i rimandi ambivalenti tra Mahler, Alma e Vienna. Ritracciando la vita di Mahler, la sua visione della natura umana e la profetica natura del suo lavoro, ho lasciato la villa senza indugiare ancora.


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tratto da: “Cinquant’anni di vita Italiana in America” di Alfredo Bosi Bagnasco Press - New York - 1921

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L’ENTUSIASMO IN TUTTA L’AMERICA PER L’UNITà D’ITALIA di Alfredo Bosi

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Auguste Mariette (seduto, a sinistra) e l’imperatore Pedro II del Brasile (seduto, a destra) durante la visita del monarca alla necropoli di Giza, alla fine del 1871

celeste di Michele Magnabosco

L’Antico Egitto, con il suo corredo di piramidi sfingi e geroglifici (scrittura “iconografica” a lungo inintellegibile alla cultura occidentale e alla quale la tradizione esoterica rinascimentale attribuiva poteri magici), fin dai tempi della Grecia di Erodoto ha esercitato un profondo fascino sull’uomo europeo, velando di mistero e leggenda qualsiasi esperienza ad essa collegata, dalle portentose campagne archeologiche iniziate sullo scorcio dell’Ottocento e ancora oggi in opera (spesso movimentate dalle funeste conseguenze di faraoniche maledizioni) fino all’avventurosa ricerca delle mitiche sorgenti del Nilo. Aida, la celeberrima “opera egizia” di Verdi, non fa certo eccezione. Già sulla genesi dell’opera ancora oggi si sentono spesso riproporre due versioni fra loro contrastanti: chi sostiene sia stata commissionata a Verdi per l’inaugurazione del Canale di Suez e chi, invece, la vorrebbe scritta per l’apertura del Teatro Kediviale (cioè Vicereale) del Cairo. Ebbene, entrambe le versioni sono da considerarsi inaccettabili per evidenti problemi cronologici: le due inaugurazioni avvennero rispettivamente il 17 e il 1° novembre 1869, cioè diversi mesi prima che Verdi sentisse anche solo parlare dell’affare d’Egitto, come lo definiva lui. Fu infatti solo dopo l’inaugurazione del Teatro Kediviale, avvenuta con una serie di opere verdiane (Rigoletto, Il trovatore, Ernani, La traviata e Un ballo in maschera), che il Kedivé Ismail Pascià, che cercava con ogni mezzo di occidentalizzare il Paese, espresse il desiderio di avere un’opera lirica ambientata nell’antico Egitto (forse anche nella speranza di fondare una tradizione operistica nazionale come quelle italiana, tedesca e francese), da commissionarsi

aida

ad un compositore europeo di primo piano: Verdi in primis o, come seconde scelte, Gounod o Wagner. Incaricato di seguire l’affaire fu l’egittologo Auguste Mariette, che in seguito si occupò anche di tutte le questioni legate alla “filologicità” dell’allestimento, il quale per entrare in contatto con Verdi si avvalse dei buoni uffici di Camille Du Locle, direttore dell’Opéra Comique di Parigi e uomo di fiducia in terra francese del compositore. La prima reazione di Verdi alla proposta però fu negativa, soprattutto pare a causa della notoria avversione del musicista per i lunghi viaggi: le prove avrebbero dovuto aver luogo al Cairo. Spinto dalle insistenze di Mariette, pochi mesi dopo Du Locle tornò alla carica avanzando la possibilità che le prove si svolgessero a Parigi o Milano e presentando a Verdi uno scenario, un piccolo abbozzo, dell’opera. Forse per accendere maggiormente l’interesse del compositore Du Locle lascia intendere, falsamente, che l’autore del soggetto sarebbe una persona di spicco della diplomazia egizia, forse lo stesso Ismail Pascià. Folgorato dalla lettura dell’abbozzo («È ben fatto; è splendido di mise en scene e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle») Verdi accetta, sebbene continui ad insistere a voler sapere chi ne è l’autore. Su questo però è assai probabile che non si riuscirà mai a fare pienamente luce. Dando per certo che l’attribuzione del soggetto al Kedivé sia totalmente inventata, anche quella all’autore più probabile, Mariette, fu fin dall’inizio contestata, alimentando così un mistero nel mistero, come ben si addice ad una materia egizia. C’è infatti chi sostiene che l’egittologo si sia ispirato ad antiche cronache dell’Alto Regno da lui scoperte durante le proprie ricerche (di queste cronache però non si trova traccia in nessuno dei suoi scritti), chi rileva notevoli e sospette coincidenze con l’argomento della Nitteti di Pietro Metastasio (a sua volta derivato da Erodoto e Diodoro Siculo) o ancora chi, come suo fratello Édouard, accusa apertamente Mariette

di aver plagiato una propria novella, La fiancée du Nil... Una volta accettata la commissione, stabilito il compenso e fissata la data della prima rappresentazione al Cairo (gennaio 1871) Verdi si mette subito al lavoro e già nell’autunno del 1870 l’opera è ultimata e pronta per essere allestita al Cairo. La progettata première del gennaio 1871 però non poté aver luogo, a causa della Guerra FrancoPrussiana, che, scoppiata nel luglio 1870 rendeva impossibile il trasferimento del materiale scenico da Parigi, dove era stato preparato, alla capitale egiziana. Solo dopo la fine del conflitto scenografie e costumi poterono essere portate al Cairo, così che Aida andò in scena, sotto la direzione del celebre virtuoso di contrabbasso Giovanni Bottesini, il 24 dicembre 1871, più di due anni dopo l’apertura ufficiale del Canale di Suez e l’inaugurazione del Teatro Kediviale. Se la paternità dello scenario da parte di Mariette rimane (e probabilmente rimarrà) dubbia, anche sull’opera del celebre egittologo in qualità di “supervisore e garante storico-filologico” permangono forti dubbi. L’Egitto presentato in Aida infatti non pare avere grandi radici nella verità storica, anche in quella conosciuta all’epoca della composizione. Infatti, nonostante Mariette e Giulio Ricordi si prodigassero in ogni modo per fornire al compositore tutti i documenti e i testi che potessero rispondere alle sue richieste di informazioni, Verdi, una volta letti, nella maggior parte dei casi decideva di non tenerne conto preferendo inserire nell’opera elementi funzionali alla drammaturgia e allo spettacolo, sebbene spesso non storicamente attendibili (archi di trionfo, trombe da parata, il dio Vulcano). Quello creato da Verdi (che molta parte ebbe anche nella stesura del libretto) è un Egitto magico, immaginato più che ricostruito, forse improponibile sul piano filologico ma certamente efficace dal punto di vista artistico.

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i GARIBALDIni

Genova, 23 maggio 1860 Da dodici giorni sono arrivato a Genova, a bordo della mia goletta l’Emma, la cui entrata in porto - per la reputazione che l’accompagnava - ha suscitato una sensazione da far invidia all’equipaggio del vice-ammiraglio Le Barbier di Tinan, che incrocia da queste parti! Dal momento che, prima di questa nuova sosta, ho messo piede a Genova forse trenta o quaranta volte, non è certo la curiosità che mi ha portato qui. No. Sono venuto per scrivere qui il finale delle Memorie di Garibaldi: e quando dico finale, capitemi, intendo il finale della prima parte. Per come va, il mio eroe promette di darmi materiale per una lunga serie di volumi! Appena sbarcato, ho saputo che Garibaldi era partito per la Sicilia, nella notte tra il 5 e il 6 di maggio. Era partito lasciando alcune annotazioni nelle mani del nostro comune amico, l’illustre storico Vecchi e pregando Bertani, Sacchi e Medici di completare a voce i dettagli che lui stesso non aveva avuto il tempo di darmi.(1) Ed ecco, mi sono installato all’Hotel de France, dove lavoro sedici ore su ventiquattro, cosa che del resto non cambia di molto le mie abitudini. Da dodici giorni ci arrivano dalla Sicilia notizie contradditorie; non si sa nulla di positivo, fino alle sei del pomeriggio del giorno 9. Ecco quello che è successo nella notte tra il 5 e il 6 maggio e nei giorni seguenti fino al 9. La sera del 5, Garibaldi aveva indirizzato al dottor Bertani una lettera che trascrivo. Questa lettera, insieme a quelle scritte dal generale al colonnello Sacchi e al colonnello Medici, sono le sole lettere autentiche. La lettera al colonnello Sacchi aveva lo scopo di consolarlo, perché Garibaldi non aveva accettato i suoi servizi. Sacchi, per seguire Garibaldi, di cui a Montevideo era stato il porta-stendardo, avrebbe voluto dimettersi da colonnello al servizio dello stato di Sardegna; ma Garibaldi, come ha detto lui stesso, fa la guerra per conto suo, tanto che, per non compromettere il re VittorioEmanuele nella sua spedizione, ha rifiutato di prendere con sé né ufficiali, né soldati dell’esercito sardo. La lettera a Medici aveva ugualmente lo scopo di consolarlo per averlo lasciato a Genova. “Ma a Genova - gli diceva Garibaldi - tu sarai più utile alla nostra impresa di quanto forse lo saresti in Sicilia”. E, infatti, a Genova è Medici che ha preparato due nuove spedizioni: una con un primo battello a vapore che è partito ieri e che porta centocinquanta uomini e mille fucili; un’altra con due battelli a vapore che porterà duemilacinquecento volontari, munizioni e armi, che partiranno fra qualche giorno. I due bastimenti sono stati acquistati per settecentomila franchi; si radunano volontari; Medici, che comanderà i due battelli, si occupa degli arruolamenti. I fondi vengono dalle sottoscrizioni aperte nelle principali città d’Italia; in questo momento ammontano a più di un milione di franchi. transatlantico16

di Alexandre Dumas figlio

Quanto alla lettera scritta da Garibaldi a Bertani, che, insieme a La Farina si occupa dei fondi, eccola: « Genova, 5 maggio 1860 » Caro Bertani, » Chiamato di nuovo sulla scena degli avvenimenti della patria, vi lascio la seguente missione: raccogliere tutti i mezzi possibili che possano aiutare la nostra impresa; far comprendere agli italiani che, se si aiuteranno tra loro con abnegazione, l’Italia sarà fatta in poco tempo e con poche spese, ma che non avranno compiuto il loro dovere se si limiteranno a prender parte a qualche sterile sottoscrizione; che l’Italia libera di oggi, invece di centomila soldati, ne deve armare cinquecentomila, numero non certo sproporzionato a quello della popolazione e che è quello delle truppe degli Stati vicini che non devono conquistarsi l’indipendenza; che con una tale armata, l’Italia non avrà più bisogno di padroni stranieri, che la divorano poco a poco col pretesto di liberarla; che dovunque gli Italiani combattano gli oppressori, occorre rincuorare i coraggiosi e provvedere a quanto sia necessario al loro cammino; che l’insurrezione siciliana deve essere favorita non solo in Sicilia, ma ovunque ci sia un nemico da combattere. Io non ho ispirato l’insurrezione in Sicilia, ma ho creduto che era mio dovere aiutare i miei fratelli dall’istante stesso che hanno cominciato a combattere. Il nostro grido di guerra sarà: Italia e Vittorio-Emanuele! e spero, ancora una volta, che la bandiera italiana non riceva offese. » Il vostro affezionato » Giuseppe Garibaldi » (1) Certi giornali francesi e anche stranieri, mi si dice, non solo hanno negato l’autenticità di queste Memorie, ma anche sostenuto che non fossero che la traduzione pura e semplice d’una biografia di Garibaldi pubblicata qualche anno fa in America. Per tutta risposta a queste ridicole asserzioni, consegno ai miei lettori le seguenti righe: « Napoli, 29 settembre 1860 » Sono io che ho dato ad Alexandre Dumas una gran parte di pagine autografe di Garibaldi, autorizzato direttamente dal Generale stesso. A. BERTANI Segretario generale della dittatura dell’Italia meridionale. « Napoli, il 16 ottobre 1860 » Certifico che non solo Alexandre Dumas non ha tratto le Memorie di Garibaldi da una edizione americana o inglese, ma che il signor Bertani gli ha consegnato, da parte del Generale, scritti del Generale stesso. » Quanto a me, ho consegnato al signor Dumas le biografie di Anita, di Daverio, di Ugo Bassi e della maggior parte degli amici del generale morti intorno a lui. » C.A. VECCHI Maggiore, aiutante sul campo del generale Garibaldi.

Tratto da “Les Garibaldiens” di Alexandre Dumas figlio, 1861


in superficie

di Leonardo Zunica

Alla fine degli anni quaranta, a New York, attorno a John Cage si formò un gruppo di musicisti composto tra gli altri da Morton Feldman, David

Tudor e Christan Wolff. Gli interessi di questo gruppo spaziavano in tutte le forme d’arte, con particolare attenzione per le arti figurative. A quell’epoca a New York risiedeva anche il nucleo dei pittori informali i cui rappresentanti erano Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Clyfford Still, Franz Kline, Philip Guston, per citarne alcuni. Era inevitabile che i due gruppi s’ incontrassero, spinti da una esigenza comune di completo e radicale rinnovamento dell’arte americana. Morton Feldman fu il compositore che più si legò all’espressionismo astratto, tanto da sintetizzare, in alcune sue testimonianze scritte relative alla sua idea del comporre musica, proprio con estrema precisione i caratteri tipici della pittura informale. Alcune composizioni di Feldman sono “omaggi” agli amici pittori: De Kooning, For Franz Kline, e Rothko Chapel. Quest’ultima composizione fu scritta da Feldman per lo spazio cultuale a forma di ottagono di Huston, per il quale Rothko aveva dipinto una serie di grandi tele. L’ambiente della “cappella”, fatta costruire dai coniugi americani John e Dominique de Menil per essere aperta ad ogni tipo di culto, è dominato dalle superfici grigie e nere di Rotkho.

È proprio al termine di superficie, usato solitamente in ambito pittorico, che Feldman ricorre per descrivere la sua concezione del fare musica:

delle prospettive più significative dalla quale ascoltare o “guardare” la musica di Feldman:

il mio interesse per la superficie è il tema della mia musica. In questo senso le mie composizioni non sono affatto ‘composizioni’. Si potrebbe paragonarle a una tela temporale. Dipingo questa tela con colori musicali.

Al mio lavoro preferisco pensare così: tra le categorie. Tra tempo e spazio. Tra pittura e musica. Tra costruzione della musica e la sua superficie.

È proprio nel campo dell’astrazione, in termini di percezione ed emozione, che Feldman vuole raccogliere i segni di una nuova concezione musicale; analogamente a quanto sanciscono Pollock - abbandonata ogni pulsione figurativa - e, in altra maniera, Rothko, nello squarciare i tempi della fruizione dell’opera. È proprio questa caratteristica della pittura di Mark Rothko che ci rende comprensibile la poetica di Feldman. Ovvero quell’avvicinarsi ad un luogo, la superficie pittorica della tela, o la superficie del tessuto musicale, venirne catturati, per poi abbandonarla, senza resto. Questo abbandono, risultato di un continuum, secondo i pittori dell’espressionismo astratto, necessario al fine di rendere l’esperienza artistica più autentica e meno artificiale, è anche una

In questo modo, nel momento in cui la materia sonora si fa superficie, ed il tempo musicale scandito da inizio e fine, categorie paradigmatiche della musica, si scioglie, l’esperienza musicale diviene, ancora secondo le parole di Feldman, un “salto come se si andasse in un altro luogo dove il tempo muta”. È sintomatico che in questa nuova “emozione” del tempo e dello spazio musicale, in cui ci si addentra, ed in cui si abita, e dal quale ci si allontana, la lunghezza delle composizioni debba in qualche modo permettere la rimozione delle aspettative retoriche “classiche” di attesa, risoluzione, tensione. Molte delle composizioni di Feldman, infatti superano la mezz’ora, in un flusso ininterrotto di transizioni sonore, quasi una infinita dissolvenza. Così è, nelle composizioni dedicate al pianoforte, in Piano, in For Bunita Marcus, e nella ultima composizione pianistica di Feldman, Palais de Mari, ispirata ad un antico palazzo babilonese.

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Liszt, lettere da Roma Al Dr. Franz Brendel (1863)

Caro amico,

gli ultimi mesi mi hanno riservato tante di quelle interruzioni nel mio lavoro che mi sento ancora abbastanza irritato. La settimana di Pasqua, che mi ero promesso di trascorrere, mi avrebbe permesso di lavorare di nuovo regolarmente; ma una quantità di doveri e di impegni ufficiali mi hanno impedito di realizzare quello che mi ero prefissato. Devo, quindi, per essere onesto con me stesso e mettere in atto le mie previe intenzioni tapparmi la bocca. Trovarmi nella rete della società mi è vessatorio; la mia attività intellettuale richiede un’assoluta libertà, senza la quale non posso completare nulla. Come le cose andranno riguardo al mio proposito di viaggio in Germania, ancora non so. Probabilmente le mie ossa indebolite saranno seppellite a Roma. Finora la loro immobilità mi è servita di più che il mio vagabondare sui treni e i battelli a vapore. D’altra parte non c’è granché da fare per me in Germania. La guerra è alle porte tamburi e cannoni usciranno allo scoperto; Dio protegga il destino degli eroi e dia la vittoria ai giusti tra l’umanità. Dov’è Wagner, e che ne è delle esecuzioni del Tristano, dei Nibelunghi, dei Maestri Cantori a Weimar e da qualche altra parte? Fammelo sapere. Non ho scritto a Weimar per lungo tempo e non ho avuto più nessuna notizia da là. Il mio unico corrispondente dalla Germania (La Sig.ra Von Bulow) sta soffrendo per un qualche problema all’occhio per il quale ha dovuto interrompere il nostro scambio di lettere... sono così assolutamente all’oscuro di quello che sta succedendo. I numeri di Febbraio della “Neue Zeitschrft” gli ho già ricevuti. I tuoi articoli sul Criticismo sono eccellenti, e, comunque, non mi sarei aspettato di meglio. Fai a Louis Kohler i miei più amichevoli ringraziamenti per la sua gentile perseveranza nel “spianare la strada per dare alle mie partiture i più benevoli riconoscimenti”. Più è ingrato l’obiettivo più mi sento riconoscente verso i miei amici. sinceramente tuo F. Liszt

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Monte Mario (Madonna del Rosario)

7 SETTEMBRE, 1863 Al Dr. Franz Brendel

Caro amico, questa mattina ho spedito i manoscritti e le correzione ad Härtel e Schubert - ho dovuto scrivere la parola Lipsia molte volte - . Mi rimprovero di non essermi preso cura di te, ed intendo porre rimedio a questa cosa. Non dovrai avere mie notizie se non attraverso la mia cattiva calligrafia. E comunque non ho nulla di molto speciale da raccontarti. L’estate è passata tranquillamente e non ho girovagato molto; me ne sono stato sempre ben seduto al mio lavoro. Il mio domicilio mi è sempre di più confortevole, così intendo passare l’inverno qui. Avrai senza dubbio ricevuto la mia ultima lettera con la fotografia della Madonna del Rosario. Sfortunatamente non ho potuto spedirti una illustrazione della magnifica, veramente sublime vista che può essere goduta da ogni finestra. Così provati a immaginare di abbracciare tutta Roma, la mirabile Campagna [in italiano nel testo] tutte le glorie della zona, passate e presenti. Per un pò di tempo non ho avuto nuove da te eccetto il tuo eccellente articolo sulla “individualità artistica”, etc., nel quale tra le varie giuste e belle osservazioni, sono stato specialmente soddisfatto con l’assioma: “Il temperamento artistico, quando genuino, si corregge in conseguenza del cambio di contrasti”. Si può provare questo nel mio caso; - e questo è certo - che nel noioso lavoro di auto-correzione, pochi hanno da lavorare quanto me quando il processo del mio sviluppo mentale, se non controllato, è reso particolarmente difficile dalla varietà di coincidenze e contingenze. Un uomo intelligente, una ventina di anni fa, mi fece una non inapplicabile osservazione: “tu hai in realtà a che fare con tre individui, ed essi si rincorrono l’uno con l’altro; il socievole individuo da salotto, il virtuoso, e il compositore pensoso e creativo. Se ce la farai con uno di essi, correttamente, dovrai congratularti con te stesso” - Vedremo! [in Italiano nel testo] Ho letto con gran piacere nella Neue Zeitshrift “Il Carnevale di Roma nella metà del XVII secolo”. È un piacevole, vivido schizzo, insaporito da una certa conoscenza, ma senza traccia di pedanteria. È già apparsa una “Storia del Pianoforte”, etc, dello stesso autore, sulla tua rivista? La Signora von Bulow mi ha scritto che Hans è impegnato con alcuni saggi per la N.Z. Probabilmente sta scrivendo una recensione sulla “Storia del Pianoforte” di Weitzmann, che sarà molto appropriata. Nel caso non stessi facendo ciò ti consiglierei di prendere qualcuno del tuo personale ed intraprendere il lavoro, prendendo molte citazioni da quel testo. Il maledetto pianoforte ha il suo inequivocabile significato sebbene solo grazie alla generale abuso che se ne fa! In onore della edizione Beethoven di Hartel mi sono occupato di studi ed esperimenti con pezzi pianistici. Gli arrangiamenti dell’8a Sinfonia di Beethoven, che sto per spedire a Lipsia, sono, ne sono convinto, riusciti. Mi sono costati molti più problemi, di varia natura, nelle correzioni, nei tagli e nelle aggiunte, di quanti mi ero immaginato. Più si invecchia e meno deliberatamente siamo veramente soddisfatti. [...] F. Liszt

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il fascino musicale dei numeri di Michele Emmer I numeri sono probabilmente l’unica vera invenzione dell’umanità. Scelgo i numeri perchè sono eterni, circoscritti ed artistici. Un numero di qualcosa è qualcosa di diverso. Non è il numero puro e ha altri significati. Hanne Darboven, artista

Dio ha creato gli interi; tutto il resto è opera dell’uomo. Leopold Kronecker, matematico

Nella notte dei tempi donne ed uomini impararono faticosamente a dominare il tempo e lo spazio, accorgendosi che molti fenomeni della natura si ripetevano in intervalli di tempo più o meno regolari. Se dei cacciatori incontravano dei predatori, lupi, leoni, orsi, avevano il problema di comunicare ai propri simili se quegli animali pericolosi erano pochi o molti. Avevano il problema di contare, anche per affermare la proprietà su animali domestici e territori. Avevano bisogno di contare e misurare. Cominceranno ad intaccare con segni le ossa di animali, un nemico una tacca. Il contare è una abilità molto precedente alla scrittura. Poi il grande salto. Il contare prescinde da che cosa si conta, è una operazione astratta. Lo stesso conteggio si applica a cose diversissime, dalle stelle alle pecore. Un salto incredibile per l’umanità. I segni rappresentavano oggetti, quei segni potevano essere ripetuti, comunicati, insomma il contare diventa una delle caratteristiche dell’umanità. Contare, i segni, astrazione: i numeri. “Sai che cosa c’è alla base della matematica? Alla base della matematica ci sono i numeri. Se qualcuno mi chiedesse che cosa mi rende davvero felice, io risponderei: i numeri. E sai perché?... Perché il sistema numerico è come la vita umana. Per cominciare, ci sono i numeri naturali. Sono quelli interi e positivi. I numeri del bambino. Ma la coscienza umana si espande. Il bambino scopre il desiderio, e sai qual è l’espressione matematica del desiderio?... Sono i numeri negativi. Quelli con cui si dà forma all’impressione che manchi qualcosa. Ma la coscienza si espande ancora, e cresce, e il bambino scopre gli spazi intermedi. Fra le pietre, fra le parti del muschio sulle pietre, fra le persone. E fra i numeri. Sai questo a cosa porta? Alle frazioni. I numeri interi più le frazioni danno i numeri razionali. Ma la coscienza non si ferma lì. Vuole superare la ragione. Aggiunge una operazione assurda come la radice quadrata. E ottiene i numeri irrazionali... È una sorta di follia. Perché i numeri irrazionali sono infiniti. Non possono essere scritti. Spingono la coscienza nell’infinito. E addizionando i numeri irrazionali ai numeri razionali si ottengono i numeri reali... Non transatlantico20

finisce. Non finisce mai.” Chi parla è Smilla, la protagonista del romanzo di Peter Höeg, Il senso di Smilla per la neve, da cui è stato tratto anche un film, in cui questa scena è riportata quasi con le stesse parole. I numeri: 1, il numero uno, il primo numero, il primo numero naturale. L’invenzione dei numeri (difficile credere che i numeri fossero qui prima di noi) è stata una delle grandi invenzioni dell’umanità. A quando si può far risalire la capacità di contare, e cosa vuol dire contare? Si deve compiere una operazione che in matematica si chiama mapping o applicazione o funzione; a ogni oggetto, si prescinde del tutto dalla natura dell’oggetto (uno dei grandi vantaggi della matematica è la sua astrattezza), si applica un numero, si assegna cioè un numero: lo si numera; lo si conta, appunto. Naturalmente nessuno sa quando e dove gli esseri umani hanno maturato questa capacità per noi così ovvia. La più diretta conferma di questa capacità è stata trovata su un osso di babbuino nelle montagne Lelembo, nello Swaziland (Africa meridionale), in cui compaiono 29 tacche, per contare chissà cosa; l’osso ha 35000 anni. Un osso di giovane lupo, trovato in quella che era la Cecoslovacchia, ha 55 tacche e 30000 anni. Sono entrambi prodotti dell’Homo sapiens sapiens ben anteriori all’agricoltura, alla terracotta. Probabilmente la prima traccia di una capacità di manipolare numeri si ha nell’impugnatura di un attrezzo in osso trovato tra le alture montuose dell’Africa equatoriale, ai confini tra l’Uganda e il Congo, dove si trova il lago Edoardo, una delle sorgenti più lontane del Nilo. L’osso, chiamato Ishango, si trova al museo di storia naturale di Bruxelles e contiene una serie di incisioni disposte su tre colonne distinte. Segni che rappresentano forse un primo passo verso la costruzione di un sistema di numerazione. È probabile che il contare sia nato come una necessità: come contare la selvaggina, come dividersi le prede, come contare i giorni... È probabile che il primo sviluppo delle operazioni con i numeri: addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni, sia avvenuto per suddividere terreni ereditati, per calcolare aree. Che cosa è un numero? Una cosa evidente, facile, almeno per i numeri naturali positivi di cui 1 è il primo. Ma non è così. In realtà i numeri, anche quelli più semplici sono un grande mistero, anche per i matematici, o almeno quelli che lavorano nel settore chiamato la Teoria dei Numeri, uno dei settori più importanti della matematica contemporanea. Tanto misteriosa la natura del numero che un famoso matematico italiano Giuseppe Peano, dovendo scrivere un insieme di assiomi per definire i numeri, affermava che: “Il numero non si può definire poiché è evidente che comunque si combinino tra loro alcune parole (simboli) non si potrà mai avere un’espressione equivalente ad un numero.” E Peano stava parlando dei numeri che tutti imparano a conoscere da bambini, 1,2,3,4, ... I numeri naturali, nome quanto mai appropriato, a parte il mistero di quei puntini. I matematici hanno scoperto o inventato tanti numeri,

i razionali, i complessi, gli irrazionali, i trasfiniti, e tanti altri ancora, all’infinito. Ma già i semplici interi sono un mistero. Non sappiamo come definirli. Anche se tutti li usano senza problemi. 5, 10, 20, 30, 36, 43... Così inizia l’opera Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart, libretto di Lorenzo Da Ponte. Numeri che diventano parole che diventano musica. Aveva scritto Gottfried Willhelm Leibniz: “La musica è il piacere che l’anima trae del contare senza aver coscienza di stare contando.” Una delle più famose liriche di Catullo parla di amore e di numeri: A Lesbia Tu dammi mille baci, e quindi cento, poi dammene altri mille, e quindi cento, quindi mille continui, e quindi cento. E quando poi saranno mille e mille nasconderemo il loro vero numero, che non getti il malocchio l’invidioso per un numero di baci così alto. Parole e numeri che diventano poesia che diventano a loro volta musica. Diventano i protagonisti di una recentissima opera musicale. Moglie: E poi, c’è della poesia anche nei numeri... Killer: Catullo? ... Moglie: I numeri sono belli, sai? Ce ne sono di lunghi e di corti e di primi e di infiniti... Dialogo tra il protagonista, il Killer di parole, e la moglie. Lui ha per compito di cancellare dal vocabolario le parole oramai desuete e sostituirle con parole nuove, ma non ci riesce, non riesce ad uccidere le parole; lei, la moglie, è una donna in carriera, senza scrupoli, che non capisce perchè il marito, il killer, abbia tante remore, tante titubanze. Bisogna andare avanti senza tentennamenti, uccidere quello che non serve più. E non servono le parole, non servono le poesie, servono i numeri, tecnologia e numeri. È un’opera lirica, anzi un ludodramma come lo ha definito l’autore del libretto e della musica Claudio Ambrosini, uno dei più importanti musicisti contemporanei italiani. Il libretto nasce da un soggetto ideato dallo stesso Ambrosini con lo scrittore francese Daniel Pennac. Contemporanea l’opera che recupera, riprende, la grande musica dei secoli passati, e le esperienze di oggi. Inventando una musica che risente, rimanda, risuona di antichi suoni e parole ma che è nuova, invenzione, creazione. L’umanità: M...m(o)...m(o)...p(o)


S Francois Jullien, sinologo, è tra le figure di spicco del panorama filosofico internazionale. È attualmente presidente dell’Insitut de la pensée contemporaine. Tra le sue opere tradotte in italiano, ricordiamo: “Il saggio è senza idee” (Einaudi, 2002), “Le trasformazioni silenziose” (Raffaello Cortina 2010). Leonardo Zunica, è pianista. Direttore responsabile della rivista Transatlantico, direttore della rassegna Eterotopie, altri luoghi e della Accademia di Musica di Mantova è attivissimo come musicista. Esegue da Bach alla musica di oggi. Alessandro Trocino, nato a Milano 45 anni fa. Laureato in Giurisprudenza, ha scritto di cronaca e di politica. Giornalista del «Corriere della Sera», è autore del libro inchiesta sulla Lega Nord - Razza Padana, edito dalla BUR.

M...P(ae)...m(ae)...sì M(o)...m(ae)...no. M.a è u i o, no Sì, i a ü i è no, è sì a! È l’inizio dell’opera, il coro intona questi suoni, sono i primi suoni dell’umanità. E sono fonemi che diventano a poco a poco parole e suoni e musica che si uniscono in un sottofondo di richiami primordiali e modernissimi che tengono gli ascoltatori affascinati. Sta nascendo davanti a noi la parola, la lingua, la consapevolezza. E il coro dell’umanità sarà sempre sullo sfondo presente, depositario dell’unica verità. Con dei suoni cristallini. E molto parla il killer di parole (forse un po’ troppo nella parte prima dell’opera). Vuole salvare tutte le parole, tutti i suoni che hanno una storia, che hanno un futuro, forse. Ed una parola emerge come chiave di tutta l’opera, la parola magica aiuoe. E le parole venete ritornano nell’opera, si confondono, si intrecciano ad altrettante parole. Nel secondo atto il Killer fallito dovrebbe cancellare intere lingue, cancellare civiltà che oramai non hanno più senso di esistere in un mondo globalizzato, in cui si arriverà ad una lingua unica, ad una civiltà unica, ad una unica cultura. Cerca ovviamente di registrale e salvarle le tante lingue del mondo. E gli ultimi parlanti intonano le vocali a i u o e, ritornando al suono inarticolato dell’inizio opera. Non ci sono speranze. E ritornano i numeri che nell’opera sono l’immagine della astrazione, della aridità, della tecnologia malvagia. Moglie: dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due ,uno Killer: zero! Moglie (con sorriso ipocrita): Cin-cin e ...auguri! Fine dell’opera e di una esperienza musicale e teatrale intensa, anche grazie alle scene, ai costumi del secondo atto, veramente intensi e toccanti. Mentre nella prima parte, quel grande quadrato rosso che ruota nello spazio vuoto mentre l’umanità cerca di parlare, rimanda ai grandi quadrati degli inizi del Novecento, ai quadrati rossi e neri di Malevitch, di El Lissitsky, di Kandinsky. Parole, musica, scene, emozione, partecipazione. E grande creatività, andata in scena alla Fenice di Venezia ai primi di dicembre 2010, direttore Andrea Molino, regia Francesco Micheli, scene di Nicolas Bovey, con Roberto Abbondanza, Sonia Visentin e Mirko Guadagni ed altri. Ha scritto Morris Kline ne La matematica nella cultura occidentale. “La più astratta fra tutte le arti può essere trascritta nella più astratta fra tutte le scienze e la più ragionata fra tutte le arti viene chiaramente riconosciuta affine alla musica della ragione.” E la creatività ne può risultare esaltata.

Anca Visdei è nata a Bucarest. Scrive la sua prima opera teatrale a 14 anni e il suo primo libro a 19. Rifugiata politica in Svizzera si trasferisce in Francia. Vive e lavora a Parigi, dove ha composto circa una trentina di opere, quasi tutte trasmesse dalla Radio francese. Stefania Bosi oltre che vorrei dirmi modestissima allieva di Emily Dickinson e di Jane Goodall, mi piace pensare (delle traduzioni) a una cura, una dedizione al linguaggio, qualunque esso sia. A una passione. Per tanto non “tradotto da“ ma “a cura di”. Paolo Vanini è nato a Mantova nel 1986. Laureato in Filosofia con una tesi sulla figura dell’Androgino, sta conseguendo la Laurea Magistrale all’Università di Trento. Collabora con Transatlantico fin dalla sua fondazione. Marta Berzieri consegue la Laurea in Lingua e Letteratura giapponese all’Università di Bologna; nel 2003, titolare di una borsa di studio, vive in Giappone per un anno. Attualmente vive a Bologna ed è Product Manager per una grande azienda italiana. Wen-Tsien Hong è pianista. Laureatasi all’Università di Vienna ha insegnato presso la Tamkang University di Taipei e alla Taiwan University of the Arts. Ha conseguito il dottorato con una tesi sulla musica di Nietzsche. Ha tradotto in cinese alcune opere letterarie di Stephan Zweig. Nel 1994 viene premiata al “Maria Canals International Piano Competition” a Barcellona e nel 1996 partecipa al CIclo-Brahms al Vienna Konzerthaus. Alfredo Bosi è da oltre un ventennio a New York, e se è il più modesto e il più placido dei giornalisti italiani, n’è anche uno dei più misurati, coscienziosi, sinceri. La combattività del giornalismo coloniale — una ben aspra missione, irta di responsabilità, colma di sacrifici: tutto ciò che spiega l’irrequietezza di chi, dovendo contare esclusivamente sul pubblico, di esso deve riflettere il nervosismo — la combattività del nostro giornalismo, dicevamo, non ha toccato minimamente il sistema sensitivo del pubblicista laziale; il quale cosi ha avuto modo di rassodare nel proprio spirito la sua fede nazionale e di metterla a servizio di un lavoro paziente ed accurato di due lunghi decenni. Del quale è frutto il suo recente volume, che è l’omaggio più onesto più giusto più compiuto — che sia stato finora reso alla famiglia italiana degli Stati Uniti”. AGOSTINO DE BIASI - Il carroccio - N.Y. - 1921 Michele Magnabosco Organologo e musicologo. Conservatore dell’Accademia Filarmonica di Verona, dopo aver conseguito la laurea con lode in musicologia presso l’Università di Pavia si diploma in Archivistica Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Mantova. Alle attività di valorizzazione e tutela del patrimonio storico della secolare istituzione veronese (collezione di strumenti musicali, biblioteca e archivio) e di ricerca storicomusicale e organologica affianca quella di bibliotecario freelance, collaborando con diversi enti della propria e di altre città. Partecipa regolarmente a convegni nazionali e internazionali e ha pubblicato diversi saggi su miscellanee e riviste. Suona la viola e il violino per diletto (più suo che degli altri...). Alexandre Dumas figlio (1824 - 1895) fu, come il padre, romanziere di successo. Il suo romanzo più celebre, La signora delle camelie (1848) divenne poi il soggetto per il libretto de “La Traviata” di Giuseppe Verdi. Una esperienza del tutto particolare Dumas la ebbe collaborando con Giuseppe Garibaldi in quella che è passata alla storia come Spedizione dei Mille. Dumas raggiunse l’esercito garibaldino in Sicilia e partecipò alla successive fasi della guerra. Michele Emmer è professore di Matematica all’Università “La Sapienza” di Roma. Si occupa inoltre di cinema scientifico, di arte e scienza. Ha organizzato mostre, convegni e realizzato film e video. Tra le sue ultime pubblicazioni, tutte edite da Bollati Boringhieri, ricordiamo “Visibili Armonie - arte cinema teatro e matematica”, una nuova edizione con DVD di Michele Emmer di “Flatlandia” di E. A. Abbott, e “Bolle di Sapone - Tra arte e Matematica”. Michele Tavola nato a Lecco nel 1973. Laureato in Lettere presso l’Università di Milano collabora come esperto d’arte con Radio Popolare di Milano ed attualmente con il quotidiano La Repubblica. Sta ultimando, per la casa editrice Scalpendi di Milano, una storia del libro d’artista in Italia. Attualmente è assessore alla cultura del Comune di Lecco.

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Chagall e Gogol’ affinità e divergenze di Michele Tavola Someone take these dreams away, That point me to another day, A duel of personalities, That stretch all true realities. That keep calling me, They keep calling me, Keep on calling me, They keep calling me. Where figures from the past stand tall, And mocking voices ring the halls. Imperialistic house of prayer, Conquistadors who took their share. Calling me, calling me, calling me, calling me.

Ian Curtis, Dead Souls, 1980

Gogol’ scrisse Le anime morte in Italia. Chagall le illustrò in Francia. Entrambi lavorarono lontano. Lontano dalla madrepatria, dal soggetto che stavano narrando, lontano dalla profonda provincia russa, lontanissimo dalla misteriosa ed evanescente città di N, dove è ambientata la storia, capoluogo di governatorato “per nulla da meno degli altri capoluoghi di governatorato”, genericamente situato in qualche indefinibile località tra Kazan’ e Mosca, non rintracciabile sulle carte geografiche. Sia Gogol’ sia Chagall non rappresentano una realtà storica, fisica e oggettivamente riscontrabile, ma preferiscono immaginare e trasfigurare la Russia attraverso i filtri della loro memoria e della loro fantasia. Le anime morte, sia quelle di Gogol’ sia quelle di Chagall, contengono numerose descrizioni di paesaggi e di interni, nonché ritratti di molti personaggi. Ma le loro, di fatto, sono descrizioni che non descrivono nulla. E’ esemplare in proposito, la presentazione di Cìcikov nella prima pagina del romanzo: “Non particolarmente bello, ma neppure brutto di aspetto, non troppo grasso, né troppo magro; non si può dire che fosse vecchio, ma neppure che fosse troppo giovane. Il suo ingresso non fece il minimo scalpore in città e non fu accompagnato da alcunché di particolare; solo due contadini russi, fermi presso la porta dell’osteria di fronte all’albergo, fecero qualche osservazione che si riferiva, del resto, più alla vettura che al passeggero”. Alla stessa stregua si comporta Chagall: il suo Cìcikov ha tratti somatici stilizzati, sfuggenti, quasi indefiniti. Un ciuffo di capelli ricci, basette appena accennate e il naso lungo e aguzzo sono gli unici tratti che lo caratterizzano. Da una tavola all’altra sembra addirittura che la sua fisionomia cambi e, pur rimanendo vagamente riconoscibile, si trasformi rinunciando a un’identità precisa. I suoi occhi, talvolta, sono disegnati come capocchie di spillo, rendendo ancora più inafferrabile la sua immagine, come se avesse una maschera al posto del volto o come se fosse un burattino di legno. Il mal di gola è l’unica illustrazione in cui il protagonista viene raffigurato nitidamente in primo piano, senza elementi paesaggistici o altri personaggi che distolgano l’attenzione, ma i lineamenti sono deturpati dall’ascesso che gli deforma il volto e dall’impacco di camomilla e canfora: più che un ritratto, questa è una caricatura degna del migliore Daumier. Anche quando si ha l’impressione di essere di fronte a descrizioni realistiche e minuziose, si tratta di una sensazione illusoria. Gogol’ mette a fuoco piccoli particolari: “Nella botteguccia d’angolo, o meglio nella sua vetrina, c’era un venditore di sbìten [n.d.r.: tipica bevanda russa composta di acqua calda, miele, limone e spezie], con un samovàr di rame rosso e un viso rosso come il samovàr, tanto che da lontano si sarebbe creduto che in vetrina ci fossero due samovàr, se uno dei due non avesse avuto una barba nera come la pece”. Quando descrive la città di N si sofferma sui singoli dettagli e li ingrandisce: “Le case erano a uno, a due piani e a un piano e mezzo, con quell’eterno mezzanino che gli architetti di provincia trovano così bello. In alcuni punti queste case parevano sperdute in una strada larga come un campo, fra interminabili steccati

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di legno; altrove si ammassavano, e lì si notava più movimento e animazione. S’incontravano insegne dilavate dalla pioggia con ciambelle e stivali, oppure il disegno di un paio di pantaloni blu che annunciava un certo ‘sarto di Varsavia’; qua un negozio con berretti, cappelli e la scritta: ‘Straniero Vasilij Fëdorov’; là era dipinto un biliardo con due giocatori in frac, come quelli che da noi portano gli ospiti che entrano in scena nell’ultimo atto delle commedie. I giocatori erano raffigurati con le stecche puntate, le braccia un po’ rivoltate all’indietro e le gambe storte, come se avessero appena fatto una piroetta. Sotto tutto ciò era scritto: ‘Ecco il locale’. Qua e là direttamente in strada c’erano bancarelle con noci, sapone e panpepato che assomigliava a sapone”. E Chagall, nell’Arrivo di Cìcikov, disegna la piccola bottega con il venditore che ha la barba nera come la pece e, nella Piccola città, con la consueta adesione al testo gogoliano raffigura le insegne con gli stivali, i pantaloni, i giocatori di biliardo con le stecche puntate, le scritte in caratteri cirillici e il banchetto sul quale, effettivamente, il sapone e il panpepato non si distinguono. Nel libro, però, più gli oggetti e le persone vengono fotografati da vicino, più il contesto diventa grottesco e trasfigurato. Di conseguenza, si osserva un fenomeno analogo nelle illustrazioni. Le casette basse, quelle che piacciono tanto agli architetti di provincia, presentano prospettive sbilenche e proporzioni incongruenti. Stanno in piedi per miracolo, stanno in piedi perché non rispondono alle leggi della fisica ma a quelle della fantasia del pittore. Il paesaggio, sebbene riproponga fedelmente gli oggetti elencati da Gogol’, è da fiaba: è sospeso in una dimensione sognata e sognante, è recuperato da chissà quale anfratto della memoria, salvato dal naufragio dei ricordi. Vladimir Nabokov, proprio il Nabokov che nel 1955 stupì e scandalizzò il mondo con la pubblicazione di Lolita, è stato anche l’autore di una fondamentale monografia dedicata a Gogol’ e, tra il 1948 e il 1959, insegnò letteratura russa alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York. Le sue illuminanti Lezioni di letteratura russa sono state pubblicate postume nel 1981. In polemica con quei critici che ancora pretendevano di interpretare Le anime morte come un romanzo realista, sentenziava: “Non si capisce che razza di cervello si debba avere per vedere in Gogol’ un precursore della ‘scuola naturalistica’ e un ‘pittore realistico della vita russa’”. E ancora, a proposito delle non-descrizioni di Gogol’, alle quali si è già fatto riferimento e alle quali corrispondono perfettamente le non-illustrazioni di Chagall, scriveva: “Cercare uno sfondo russo autentico nelle Anime morte sarebbe come cercare di farsi un’idea della Danimarca sulla base di quella faccenduola nella torbida Elsinore”. Una volta chiarite le affinità tra i due autori e individuata la consonanza tra il romanzo e le novantasei acqueforti che lo illustrano, è opportuno evidenziare le divergenze tra l’interpretazione chagalliana e l’essenza delle Anime morte. Infatti entrambi sono dei visionari e la loro vena espressiva è indubbiamente antinaturalistica, ma la poetica di Chagall e quella di Gogol’ non sono certo sovrapponibili. Sarebbe scorretto e fuorviante cercare di costruire artificialmente una perfetta corrispondenza tra la sensibilità artistica dello scrittore e quella del pittore. L’elemento caratterizzante, che emerge prepotentemente da ogni pagina e da ogni personaggio delle Anime morte, incarnato in maniera esemplare dal protagonista Cìcikov, è la poslost’, parola intraducibile con la quale viene indicata l’assoluta mediocrità umana e spirituale, quella forma di trivialità tipicamente russa che si manifesta nell’animo ancora prima che nell’aspetto esteriore. Cìcikov è un malvagio di mezza tacca, non è capace della grande ambizione di Faust e non potrebbe essere il personaggio di un grande dramma. Ancora una volta ci sono d’aiuto le parole di Nabokov: “Moralmente Cìcikov non può essere considerato colpevole di un particolare crimine perché tenta di comprare uomini morti in un paese dove è legale acquistare e dare in pegno uomini vivi. Se mi dipingo la faccia con del blu di Prussia fatto in casa invece di spalmarmela col blu di Prussia venduto dallo Stato che vieta ai privati di fabbricarlo, il mio delitto meriterà sì e no un fuggevole sorriso e nessuno scrittore ne trarrà una Tragedia prussiana”. Le incisioni di Chagall, invece, come del resto tutta la sua opera, sono ammantate da un delicato lirismo e sono praticamente scevre della poslost’. Si guardi, ad esempio, il foglio raffigurante Manìlov e Cìcikov sulla soglia di casa e si legga il brano al quale si riferisce: “‘Vi prego, non disturbatevi tanto, passerò dopo’ diceva Cìcikov. ‘No, no, Pàvel


boris petrushansky intervista Ivànovic, siete voi l’ospite’ diceva Manìlov, indicandogli la porta con la mano. ‘Ma non disturbatevi, vi prego, non disturbatevi, per favore passate voi’ diceva Cìcikov. ‘No, scusate, non permetterò mai che un ospite gradito e colto come voi passi dopo di me’. ‘Ma perché colto... Vi prego, passate!’. ‘No, passate prima voi’. ‘Ma perché mai?’. ‘Perché sì’ replicò Manìlov con un grazioso sorriso. Finalmente i due amici passarono insieme per la porta, mettendosi di lato e stringendosi leggermente l’uno contro l’altro”. Le parole di Gogol’ trasudano ipocrisia e, insieme a un sorriso stirato, provocano irritazione nel lettore, rendendo ripugnanti i modi falsi e sussiegosi dei due personaggi. Chagall rimane solo apparentemente fedele al passaggio appena citato, ma lo traduce secondo la propria sensibilità. Le due figure assumono un aspetto vagamente caricaturale, ma non hanno quasi nulla di laido o moralmente riprovevole. Inoltre, l’attenzione dello spettatore è presto attratta dall’interno della stanza in cui si vedono un gattino, un uccello, una capretta piccolissima e una minuscola seggiola, evocati dal suo più tipico immaginario figurativo. La volgarità e l’abiezione morale dei personaggi di Gogol’ diventano nostalgia e malinconia per la terra d’origine nelle scene rappresentate da Chagall. L’altro elemento che distingue Le anime morte di Gogol’ da quelle di Chagall è la valenza assegnata alla madre Russia. Lo scrittore intende dare forma alla metafora di una società che non è più quella della sola città di N, ma si identifica con tutta la Russia e con l’umanità intera, mentre il pittore vuole rappresentare il ricordo della sua terra natale, dalla quale si è per sempre staccato. L’ultima immagine del libro sintetizza in maniera emblematica il diverso punto di vista degli autori. “E anche tu, Rus’, non voli forse come una rapida trojka irraggiungibile? La strada fuma sotto di te, strepitano i ponti, tutto viene superato e rimane indietro. Si ferma l’osservatore, colpito dal miracolo divino: non sei forse un fulmine scagliato dal cielo? Che significa questa cosa che incute terrore? E quale forza ignota è racchiusa in questi cavalli ignoti al mondo? Dite, ci sono forse turbini nelle vostre criniere? Un orecchio acuto freme forse in ogni vostra fibra? [...] quasi senza toccare terra con gli zoccoli vi siete trasformati in linee rette, volanti per l’aria, e tutta la trojka galoppa, ispirata da Dio! ...Rus’, dove corri mai? Dammi una risposta. No, non dà risposta. Il sonaglio tintinna con note meravigliose; l’aria lacerata ulula e diviene vento; vola via ogni cosa sulla terra, e guardando di sbieco si scansano e le cedono il passo gli altri popoli e le altre nazioni”. L’immagine epica e mistica della trojka, il cocchio trainato da tre cavalli che, per metonimia, diventa la Russia intera, si stempera in un’immagine intima e da sogno nell’acquaforte di Chagall. Questa tavola, che forse è il capolavoro più alto e lirico della serie, si libera dei contorni, delle note paesistiche e dei riferimenti alla tradizione russa, rimangono solo un pino isolato, sospeso nel nulla, e qualche cupola di chiesa ortodossa fluttuante nel vuoto. Anche qui la trojka vola, ma non è più metafora della grande nazione russa, è solo una proiezione fantastica, è favola, è sogno. Si ringrazia Stefania Consonni per il prezioso contributo.

Maestro, Lei abita in Italia da vent’anni. Qual è il suo sentimento nei confronti di questo paese? Il mio sentimento è piuttosto di ammirazione e gratitudine. L’Italia è un paese dove mi sento a mio agio, anche se non è un paradiso terrestre, sarebbe un pò troppo noioso se lo fosse... Ho trovato qui la mia dimensione di vita, aspirando verso le cose interiori più che a quelle esteriori, l’arte, la qualità di vita, l’accoglienza delle persone che mi hanno aiutato con la mia professione. Lei è stato l’ultimo allievo, al Conservatorio di Mosca, del grande didatta e pianista Heinrich Neuhaus. Che ricordi ha del suo maestro? I miei ricordi di Neuhaus si concentrano nei miei incontri, avvenuti nei mesi prima della sua morte e che si sono indelebilmente impressi nella memoria. Mi ricordo questo piccolo uomo, della grande personalità, estremamente accogliente, molto affabile, che irradiava qualcosa di sovrumano. Io allora ero un ragazzino di quindici anni. Quando lo vidi, mi sembrava del tutto irreale, mi appariva quasi un semidio. Dopo alcuni mesi morì ed io poi sono rimasto a studiare con Naumov, il suo braccio destro, il suo seguace, per così dire, il suo alter-ego in terra; Naumov ogni tre parole giurava sul nome di Neuhaus: alla fine della sua vita scrisse un libro “Sotto la stella di Neuhaus”. Tutto ciò che Naumov diceva, era come se venisse direttamente da Neuhaus. Lei ha inciso tutte le opere pianistiche di Dimitri Shostakovich. C’è una composizione alla quale è maggiormente affezionato? Un opera c’è ed è la Seconda Sonata; una composizione che mi accompagna da tutta la vita, perché e stata una delle prime opere di Shostakovich che ho suonato, insieme al Preludio e Fuga in Re Bemolle Maggiore. È una fonte inesauribile di contenuti, una scuola di vita, una presa di coscienza di fronte alla necessità di coltivare una certa austerità esteriore insieme alla ricchezza della vita interiore. Cerco di attingere sempre molte cose, dal percorso umano, anche se striminzito in poche note. Il rimpianto del cose delle persone dei tempi perduti, la consapevolezza della brevità della vita. Penso, se si può dire così, che questo brano insegni come si debba essere cauti con le cose fragili della vita: insegna la solitudine. Shostakovich ha cambiato la mia posizione, il mio angolo visuale nei confronti della vita. Qualche tempo fa, in una nostra conversazione, aveva accennato alla musica di Alfred Schnittke, al suo Quintetto. Che ricordo ha del compositore russo, che da molti è considerato l’erede del pensiero musicale di Shostakovich? Per dire la verità Schnittke, con Shostakovich, non aveva grandi rapporti. Non so perchè, è una cosa misteriosa, ma Shostakovich preferì molto di più Denisov, da lui considerato più avanguardista. Schnittke aveva iniziato come compositore tonale, per poi passare alla avanguardia dodecafonica; poi ha assunto caratteri polistilisti. E verso la fine della sua vita, come è successo con Bartòk, per esempio, è diventato più parco, uno Schnittke diverso, a volte irriconoscibile. Ha mai ascoltato l’incisione di Keith Jarrett dei Preludi e Fuga di Shostakovich? Certo, ce l’ho in casa. Lui è molto vicino al testo, il che, da una parte, offre grandi vantaggi; dall’altra, secondo me gioca un pò contro di lui, perchè forse bisognerebbe, in questo caso, scavare un po’ di più nel testo; seguire tutte le indicazioni metronomiche di Shostakovich è una strada senza uscita; piuttosto sarebbe importante partire da un personale atteggiamento nei confronti di questa musica. Spesso, eseguire i metronomi che Shostakovich indicava è impossibile; per esempio, il Preludio e Fuga in Re Bemolle maggiore diventa ineseguibile a quella velocità. Shostakovich sentiva tutto più veloce, ma spesso suonava tutto più romanticamente, con un pò di rubato, il che per Shostakovich è quasi inverosimile. Infatti indica rubato solo nella Seconda Sonata. Forse certe cose lui, pudicamente, le nascondeva. Torna spesso in Russia? Come si sta evolvendo il suo Paese? Torno in Russia regolarmente; ma non vorrei, io che vivo in Italia da tanti anni, dare un giudizio; da una persona che non ha un contatto quotidiano con quella realtà non sarebbe un giudizio onesto. L.Z.

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22/26 giugno 2011

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