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IL MITO DI
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democrazia eguaglianza cultura al di la’ della nazione copia gratuita Giugno Luglio 09
ante z z i AR l a B BALI Alter-Glob ETIENNE uropa E ’ n u mo s i n Per i m asermo e Fem r f y s nancsnazionali i Tran i bug a Globale h c l e A r e Po l i t i c e i n D a usione Escl nza e y r o e f r f gil Indi PAULte Sfida l’ L’Ar
AL DI LÀ DELLA NAZIONE
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embra esserci un paradosso fondamentale nella dialettica che circonda il fenomeno della globalizzazione. Ci ricordano ogni giorno dell’ineludibile interconnessione supranazionale della realtà economica contemporanea, della necessità di competizione ed efficienza in un mercato globale, dell’inevitabilità del sistema capitalsta in un mondo in cui tutti giocano la stessa partita. Tutte le parole chiave di questi tempi riportano a questa dimensione: delocalizzazioni, crisi globale, ascesa della Cina… E siamo noi stessi sempre più coscienti nella nostra quotidianeità della composizione cosmopolita delle città europee, che offrono una rappresentazione tangibile delle migrazioni globali del nuovo secolo e si trasformano in officine per la ricostruzione di comunità sganciate dal mero senso localistico di appartenenza. Ma in un’epoca che ammette senza esitazione lo status trans-nazionale dei più grandi problemi che siamo chiamati ad affrontare, è sorprendente che il monopolio di autorità politica dello stato-nazione rimanga così poco contestato. Uno sguardo al panorama politico sembra riportarci a un déjà vu di competizione fra stati, avventure imperialiste, e una concezione tribale
dell’interesse nazionale. Se le istituzioni internazionali sembrano poco democratiche, se i cittadini sentono di non avere nessun controllo sopra il proprio destino, o nessuna scelta sul tipo di mondo in cui vogliono vivere, è da questo paradosso che dobbiamo cominciare. Bisogna creare una nuova concezione del politico che sappia porre l’interesse per l’umanità intera al proprio centro, e che al tempo stesso riesca a offire una declinazione comune delle istanze e degli interessi delle diverse comunità nazionali. E bisogna fare in modo che tale declinazione sia realizzabile. Oggi, l’unica entità politica esistente che di fatto pone in questione il sistema dello stato-nazione è l’Unione europea. E questo significa che l’Europa ha un enorme potenziale, ancora irrealizzato, di trasformare la logica della politica globale. È per esplorare questo potenziale che questa rivista, già pubblicata in inglese, appare ora in italiano. Nelle pagine di questo primo numero molti di questi temi sono approfonditi, e la notra convizione che le arti abbiano un ruolo fondamentale nell’estendere la sfera del possibile trova la sua definizione in una consistente sezione culturale. Speriamo di piacervi. Siamo un pò vanitosi.
Tim A Hetherington, Young rebel fighter from Liberian United for Reconciliation and Democracy (LURD) rebel group Liberia, may 2003
intervista con alfredo jaar Le opere di Alfredo Jaar, artista di origine cilena di base a New York, si concentrano sulla relazione tra ‘primo’ e ‘terzo mondo’, esplorando le loro interdipendenze materiali e le dinamiche di potere in gioco, e interrogandosi su come il ‘primo mondo’ traduca queste problematiche nelle rappresentazioni visive del ‘terzo mondo’. Europa ha intervistato Jaar per celebrare un artista che non smette di affascinare, proponendo nuovi modelli di intendere la relazione fra arte e politica. Intervista p.14
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Alterita’
CHI SIAMO: UN NUOVO PROGETTO TRANSNAZIONALE A
lterità d’Europa è un’organizzazione transnazionale fondata a Londra, con uffici in diverse città europee. L’organizzazione è dedicata a esplorare il potenziale di una politica e cultura post- o transnazionale. Siamo convinti che in un mondo sempre più globale una politica progressista debba essere necessariamente articolata in termini transnazionali, al di là dei confini mentali e materiali dello stato-nazione. La costruzione europea ha in sé un grande potenziale di promuovere un avanzamento sociale e culturale sia all’interno che all’esterno dell’Unione europea, per quanto questo resti ancora per la maggior parte irrealizzato. Questo potenziale trascende i confini stessi dell’Europa, contribuendo a definire una politica che possa essere in grado di aver voce nell’era della globalizzazione e che risponda alle esigenze dell’umanità tutta. Alterità d’Europa concepisce come sua responsabilità l’articolazione e promozione di quel potenziale, analizzando aree specifiche di contestazione sociale ed esplorando le risposte offerte da un approccio transnazionale nei confronti di questioni chiave del nostro tempo. Marc Riboud, A bus stop near the Luxembourg Garden, Paris, 1984
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© Marc Riboud / Courtesy: www.hackelbury.co.uk www.marcriboud.com
Sono diversi i temi centrali di un progetto di questo tipo. Fra i nostri interessi principali, spicca senz’altro una preoccupazione per il significato che termini come eguaglianza e cittadinza possono assumere quando separate dalle logiche arruginite dei confini nazionali. Un progetto transnazionale deve essere risolutamente egalitario, progressista ed emancipatorio, e deve essere elaborato superando nuove e vecchie opposizioni sociali; opposizioni come quella tra emigrante e locale, militando contro ogni razzismo di nuovo o vecchio conio, contro ogni tentativo di subordinare il migrante nella gerarchia sociale o economica, o di deprezzare la sua dignità a mero corpo-lavoro; opposizioni come quella tra uomo e donna, combattendo il disprezzo verso la donna, tanto presente nella follia politica italiana di questi tempi, e domandando un mondo in cui non sia la sola visione andro- o maschio-centrica a governare lo spazio del pubblico e del politico; o opposizioni come quella tra centro e periferia, esibendo lo scandalo di un mondo flagellato da guerre, povertà, e carestie, un mondo dove i paesi piu ricchi perversamente difendono il
proprio privilegio attraverso la costruzione e il mantenimento di un sistema di sfruttamento globale. Su tutti questi punti, una vera politica transnazionale deve agire prendendo in considerazione i diritti dell’umanità nel suo complesso, piuttosto che gli interessi specifici e limitati di un gruppo, una classe, o una comunità privilegiata. Un secondo tema centrale e’ la forma che una vera democrazia transnazionale debba assumere. E infatti, piuttosto che arrendersi ad una concezione dell’Unione Europea come costruzione a-politica, regolatrice e normativa, pensiamo che bisogni battersi per una ri-politicizzazione del continente. Il ‘deficit democratico’ dell’Europa potrà essere colmato solo tramite un forte attivismo politico a livello transnazionale, formulando vere alternative europee allo status quo, già che ogni ricorso a prospettive nazionali conduce invariabilmente ad un trinceramento dietro interessi particolari e a un disimpegno nei confronti del resto del mondo. Ma una futura politica transnazionale non può essere culturalmente conservatrice. Per questo motivo, un altro tema per noi fondamentale è il
ruolo che possono giocare artisti, intellettuali, e scrittori nell’inventare nuovi modi di vivere e concepire il mondo, combattendo e smantellando la continua commercializzazione e banalizzazione di tutti gli aspetti della vita umana. Si parla qui di relazione tra attivismo politico e arte: cosa vuol dire arte impegnata al giorno d’oggi? E si parla di un’analisi delle conseguenze della globalizzazione su pratiche artistiche e letterarie, e della possibilità di un de-centramento del sistema dell’arte tramite l’emergere di centri creativi al di fuori dei confini dell’occidente, così come gli artisti di Cina, India, o Brasile ci stanno insegnando in questi anni. Il nostro progetto si sviluppa attraverso diversi impegni e in diversi paesi. Organizziamo una serie di incontri sulle tematiche sopra indicate in giro per l’Europa, in Cina, e in Arabia Saudita; ogni anno a Londra un Festival e un congresso transnazionale presentano e analizzano i risultati del nostro lavoro; e per finire, questa rivista, che vede ora la luce in italiano, è il nostro mezzo per comunicare, creare, e, ciò che più ci sta a cuore, estendere un invito, un invito a partecipare al progetto e a darci una mano.
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D’europA
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Il Ruolo di Una Rivista: Impegno Europa e’ il giornale di alterita’ d’europa, organizzazione con base a Londra e uffici in diverse citta’ dedicata a promuovere una nuova politica e cultura transnazionale. Direttori Lorenzo Marsili Niccoló Milanese Caporedattrice Italia Sara Saleri Associate Editor Nadja Stamselberg Project Officer Ségolène Pruvot Comitato di Redazione Véronique Foulon Belen Góngora Luigi Galimberti Eva Oddo Paola Pasquali Alberto Stella
Advisory Board Gilbert Achcar Boyan Manchev Sandro Mezzadra Baskar Mukhopadhyay Kalypso Nicolaidis Richard Zenith Design Rasha Kahil www.rashakahil.com Registrazione N. 6101658
www.euroalter.com/italia editors@euroalter.com
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ggi una rivista può solo essere internazionale nella sua composizione e cosmopolita nelle sue intenzioni. Bisogna creare un viandante, un eterno vagabondo che corra il mondo inseguendo una tribù di menti sparse per i continenti. Ma già non è più tempo per una semplice presentazione dell’altro, una mera illustrazione delle vicissitudini politiche o culturali di paesi ‘esteri’. No, quello che si ricerca è un’alleanza, una collaborazione di intenti che valichi paesi e confini, un fare-assieme, un combattere comune. Ed è per questo motivo che il ruolo di questa rivista è inseparabile dal progetto che la anima e di cui fa parte. Non tanto come ‘portavoce’, come semplice organo di informazione, di propaganda. Ma come costituzione di uno spazio pubblico, uno spazio di discussione, di dibattito, e di impegno, che contribuisca alla creazione di una pratica veramente transnazionale. È questo uno dei motivi per la creazione di questa versione italiana del giornale, che accompagna, complementa, e arricchisce la versione inglese, e che sarà presto seguita da una versione francese.
Diciamo uno dei motivi perché un secondo, altrettanto importante, è senza dubbio una forte preoccupazione nei riguardi della deriva della politica e società italiana verso forme sempre piu marcate di xenofobia e populismo, una deriva che sta sempre piu sganciando l’Italia dal sistema europeo e da ogni forma di decenza democratica. E pensiamo che questa deriva possa essere combattuta con un salto di qualità, chiedendo non una semplice normalità, un centrismo pulito che svelto rimpiazza lo stesso concetto di sinistra, una ricerca del semplice status quo europeo che nelle condizioni tutte particolari dell’Italia di oggi assume un carattere quasi radicale, ma bensì raddoppiando la posta, facendo partire un discorso su cosa vorrebbe dire fare politica con l’Europa e il mondo intero nei propri occhi, proponendo soluzioni progressiste ed emancipatorie con l’ambizione di cambiare nient’altro se non le logiche della politica globale stessa. Ma questo è un lavoro che non può, non deve essere condotto da una comunità chiusa, definita geograficamente, appartenente alla stessa
nazione o alla stessa Unione. Ed è per questo motivo che è la composizione stessa della rivista a dover essere transnazionale, nei suoi contenuti, nei suoi collaboratori, nella sua diffusione. La rivista deve essere rappresentante del discorso che vuole diffondere, o piú importante ancora, è quello stesso discorso che può solo essere creato, definito, difeso, da nessuna prospettiva privilegiata, da nessun centro urbano, ma attraverso sempre variabili geografie del pensiero. Ma il ruolo di una rivista è anche di non essere solamente una rivista. È di farsi progetto, di avere un’anima, di assumere una posizione, di tenere alta la bandiera di un’alleanza di ideali, scommesse, e visioni, un’alleanza contradditoria e polifonica, ma un’alleanza che trova riscontro in e che si fa organizzatrice di azioni concrete e condivise, prese di posizioni comuni, comunicati diffusi in più paesi e a più voci, incontri, ricerca, produzione artistica, militanza. Una rivista attivista, ecco cosa bisogna crare. Ma, alla fine di tutto, le mani dei redattori sono sempre state sporche. E che siano sporche di impegno, prima ancora che d’inchiostro.
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Ratcliffe on Soar 3 from the series: “Light After Dark” © Toby Smith www.shootunit.com
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L’Europa Come Progetto Politico Il progetto europeo, nonostante l’apparenza, ha le potenzialità di introdurre un cambiamento di paradigma verso un’era transnazionale. Niccolò Milanese
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tiamo cercando di accelerare con la marcia in folle. Negli ultimi 20 anni, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’aumento esponenziale del numero di ONG della società civile, think tank, azioni umanitarie, media internazionali, “global” forum, proteste e incontri, ha raffinato le rivendicazioni e ha aumentato la consapevolezza delle nuove generazioni, ma non ha ancora prodotto un progetto politico che sia all’altezza delle loro ambizioni. Via via che aumentano i problemi che si rivelano “globali” nella loro complessità e nelle loro implicazioni, e i loro effetti si fanno più drammatici, questa impotenza sembra divenire sempre più frustrante, e il divario tra aspirazioni e possibile azione sempre maggiore. Negli ultimi sei mesi abbiamo visto e sentito aprirsi una nuova
fase in questa dislocazione, con l’esplosione, insieme, di speranza e di rabbia a livello globale. Il G7 può anche essere diventato un G20, gli Stati Uniti d’America possono aver eletto un presidente accolto con esaltazione – per lo meno nell’immediato – dalla maggior parte del mondo occidentale, ma persino noi cittadini abbastanza fortunati da vivere nelle parti del mondo più libere e potenti, quando proviamo a reagire a problemi politici globali che ci appassionano, ci troviamo sempre più nella posizione di umili supplici verso i nostri leader, che siano politici nazionali o burocrati non eletti in organizzazioni internazionali. Abbiamo l’impressione di essere privati di autonomia, e che la democrazia ci sfugga, proprio nel momento in cui ci si aspetta che l’interconnessione della società globale sia ormai autoevidente. In un mondo che si deve confrontare con questioni globali, è codardo e sconsiderato non avere aspirazioni globali, e queste ambizioni costituiscono i Iegami preziosi che uniscono l’umanità. Ma ciò che le controparti sociali possono ottenere indipendentemente dai poteri politici è limitato, per lo meno nelle condizioni attuali, e quasi tutti questi poteri politici
rimangono risolutamente nazionali nella loro costituzione. Questo è persino il caso – ed è scontato ripeterlo – della più “globale” delle istituzioni, le Nazioni Unite, in cui ogni stato ha un voto nell’Assemblea Generale e solo stati privilegiati o eletti hanno il voto nei suoi altri organi. Anche la struttura della Banca Mondiale e l’FMI prevede che i loro membri siano gli stati nazionali. In un’epoca che ammette senza esitazione lo status trans-nazionale dei piu’ grandi problemi che siamo chiamati ad affrontare, e’ sorprendente che il monopolio di autorità politica dello stato-nazione rimanga così poco contestato. Se le istituzioni internazionali sembrano poco democratiche, se i cittadini sentono di non avere nessuno controllo sopra il proprio destino, o nessuna scelta sul tipo di mondo in cui vogliono vivere, è da questo paradosso che dobbiamo cominciare. L’unica entità politica esistente che di fatto pone in questione il sistema dello stato-nazione è l’Unione europea. E questo significa che l’Unione europea ha un enorme potenziale, ancora irrealizzato, di trasformare la logica della politica globale. In quanto maggiore blocco commerciale del mondo, l’Europa
potrebbe essere una forza positiva per istaurare una vera agenda di giustizia sociale all’interno dell’economia mondiale. Se imponesse il rispetto di standard di lavoro decenti, proibendo la vendita di beni prodotti in condizioni di sfruttamento, sia se prodotti all’interno che all’esterno dell’Unione, giocherebbe un immenso ruolo per il miglioramento della qualità del lavoro in tutto il mondo. Nello stesso modo, l’Unione europea potrebbe imporre parametri ambientali stringenti, così da rendere impossibile o molto più costoso comprare beni prodotti in maniera ecologicamente insostenibile. Al momento un cittadino europeo deve pagare di più se sceglie di comprare un bene non prodotto sotto condizioni di sfruttamento (commercio equo), e deve pagare di più se sceglie un prodotto che non reca danno all’ambiente – il che rende molto chiaro quale sia la scala di valori attuale nel libero mercato europeo. Se l’Unione europea introducesse una tassa tipo Tobin Tax sulle transazioni finanziarie e monetarie, se introducesse limiti ai salari dei supermanager, se prendesse un forte impegno contro i paradisi fiscali, tutto questo sarebbe una vera forza di cambiamento nell’economia globale perché gli altri paesi non avrebbero altra scelta che reagire e adeguarsi.
“Non esiste nessun partito politico o organizzazione indipendente di grande portata che promuova un politica europea alternativa e progressista a livello transnazionale.”
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G. Roland Biermann Apparition 21 © G. Roland Biermann / Courtesy: www.myriamblundell.com www.grolandbiermann.com
Tutti questi argomenti sul perché l’Europa dovrebbe importare a tutti quanti abbiano a cuore le sorti della politica globale possono essere moltiplicati, includendo questioni di diritti umani, eguaglianza di genere, pace, migrazione, e molte altre. Ed è in questo senso che non sarebbe una semplice esagerazione dire che per un cittadino in Europa che oggi voglia militare per un diverso sviluppo dei nostri paesi e del nostro mondo, l’Europa è l’ultima utopia rimasta. Al giorno d’oggi, con la fiducia verso le istituzione dell’Unione europea ai minimi, porre una così grande enfasi sul potenziale dell’Europa di divenire l’attore principale di un cambiamento epocale sembra essere una semplice illusione. Non solo l’Unione sembra assolutamente impotente nel prendere posizione nella politica globale, ma le rare volte che lo fa le sue azioni sembrano principalmente atte a mantere lo status quo, o addir-
itture a promuovere una politica che molti chiamerebbero ‘neoliberale’. Nel contesto della crisi finanziaria, ad esempio, l’Europa è stata incapace di concordare un vero aiuto per i suoi membri più deboli, che sono stati in buona parte lasciati al Fondo Monetario Internazionale. Diversi giudizi della Corte Europea negli ultimi anni sembrano aver favorito le multinazionali invece che i lavoratori. Dinnanzi a una sempre più flagrante discriminazione verso i migranti in paesi come l’Italia, l’Unione europea è stata recalcitrante nel fare valere il principio di diritti umani che professa di rispettare. È stata impotente nel prendere una posizione sulla recente crisi di Gaza, così come altre crisi militari quali quella del Congo. E la lista potrebbe essere estesa. Ciò che è importante capire in questa situazione è come un’istituzione così potente, almeno sulla carta, e con un tale potenziale di inizare una vera trasformazione della politica globale, sembri essere invece incapace di qualsiasi azione e sembri provocare solo indifferenza o antagonismo in così tante persone. Negli ultimi anni si è sviluppata una piccola industria di ricerca per affrontare queste questioni, in università, think tanks, organizzazioni della società civile, ecc., in buona parte finanziata dalle istituzione europee stesse. Ma a noi la risposta sembra semplice: non esiste nessun partito politico o organizzazione indipendente di grande portata che promuova un politica europea alternativa e progressista a livello transnazionale. Le energie politiche scatenatesi negli ultimi mesi hanno dimonstrato la natura anacronistica della logica globale del potere politico, ma anche l’insufficienza degli appelli ad una famigerata ‘societa’ civile globale’, a cui manca un vero progetto di grande respiro per trasformare lo status quo e che rimane in grande parte basata su problemi specifici e ben circonscritti. L’Europa conta, dunque, perché è a quel livello che qualunque progetto politico e culturale veramente innovativo, che cerchi di cambiare le regole globali del mondo contemporaneo, può essere lanciato, per lo meno per quanti di noi vivono in questa parte del mondo. L’Europa conta perché è l’unico motore politico esistente che possa guidare questo progetto al di là delle logiche discriminatorie e d’esclusione del sistema dello stato-nazione. E l’Europa conta perché se rimane ignorata da quanti veramente hanno a cuore il futuro del mondo, continuerà ad esistere nel suo assurdo grigiore e rimarrà un peso morto sui nostri sogni. Niccolo Milanese è codirettore di Alterità d’Europa
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TESI PER UN’EUROPA ALTER-GLOBALIZZANTE Etienne Balibar
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Oggi più che mai, la politica, come sosteneva Max Weber, non può che essere “globale”. Questo non significa che esista una sola politica globale possibile: al contrario, c’è necessariamente una scelta tra diverse politiche, definite dai loro obiettivi, mezzi, condizioni, ostacoli, “soggetti” o “volontà”, e i rischi che comportano. Il campo della politica è quello dell’alternativa. Se partiamo dall’assunto che oggi tutte le possibilità vengono incluse in una tendenza verso la “globalizzazione”, la domanda diventa: quali sono le alternative a queste forme dominanti? L’Europa può essere una forza “alterglobalizzante”? E come? 2. Affermare che la politica non può che essere globale non equivale a dire che la politica non si deve preoccupare della condizione e dei problemi delle “persone” nel luogo in cui vivono, dove la loro storia di vita li ha situati: al contrario, equivale ad affermare che la cittadinanza locale ha come propria condizione una cittadinanza globale attiva. Ogni scelta politica locale di orientamento economico, sociale, culturale, istituzionale implica una scelta “cosmopolitica”, e viceversa. 3. Oggi la posizione dell’Europa nel mondo – nonostante qualche velleità diplomatica – è quella di un cane morto che segue la corrente dell’acqua, privo di ogni iniziativa propria. Oppure – dato il suo peso economico e culturale – quello di un elefante morto che va con la corrente. Gli esempi abbondano: dalla riforma delle Nazioni Unite al rafforzamento del protocollo di Kyoto, dalla regolazione delle migrazioni internazionali alla risoluzione delle crisi in Medio Oriente o al dispiegamento di truppe a sostegno delle guerre iniziate dagli Stati Uniti. Di conseguenza, l’Europa è priva dei mezzi per risolvere i suoi problemi “interni”, inclusi quelli istituzionali. 4. Il fatto che l’Europa non abbia una
politica globale implica che non vi siano, se non raramente, politiche globali originate dalle nazioni europee. Le nazioni europee dunque non hanno, se non raramente, politiche interne che presentino alternative reali. In questo senso, le elezioni nazionali funzionano un po’ come un trompe-l’oeil, che però non riesce a ingannare tutti: da questo nasce una progressiva depoliticizzazione. Le questioni globali riemergono dunque in una forma puramente ideologica: “lo scontro di civiltà” e affini. 5. Le cause di questa situazione vanno rintracciate nell’evoluzione delle relazioni di potere storicamente ereditate, rinforzate dallo stato di cose presente. Ma questa evoluzione – che conferisce alla “costruzione europea” una funzione di pura reazione o di puro adattamento – non può spiegare tutto. Dobbiamo completare questa constatazione con un’altra: nella maggioranza della popolazione europea vi è una disastrosa incapacità collettiva ad immaginare politiche alternative, e questo è fortemente legato all’incertezza che incombe sull’identità politica dell’Europa. 6. L’identità europea, dal punto di vista dell’eredità iscritta nelle istituzioni, la geografia, la cultura che deve mantenere, si trova a fronteggiare due problemi, la cui soluzione sarà raggiunta solo a costo di conflitti ed errori. Da un lato deve superare la divisione Est-Ovest, che cambia posizione in diversi momenti nel tempo, che viene associata agli antagonismi tra “regimi” e “sistemi” (non senza i suoi paradossi, per esempio quando l’“occidentalismo” si è diffuso all’Est in seguito alle “rivoluzioni” o “contro-rivoluzioni”), ma non è mai scomparsa. Dall’altro lato, deve trovare un equilibrio tra un’Europa “chiusa” (dunque ristretta, ma dentro quali confini?), che qualcuno potrebbe voler omogeneizzare, e un’Europa “aperta” (non tanto una Grande Europa, piuttosto, un’Europa delle frontiere, consapevole della sua costitutiva compenetrazione con i vasti spazi euro-atlantico, euro-asiatico, euro-mediterraneo, euro-africano). Per andare avanti, l’Europa deve inventare una geometria variabile, una forma di stato e amministrazione senza precedenti nella storia. 7. Di fronte al pur relativo declino dell’egemonia statunitense nel mondo, l’Europa deve scegliere tra due strategie, che gradualmente avranno conseguenze in ogni area della vita politica e sociale: o cercare di formare uno dei “blocchi di potere” (Grossraum) che entreranno in com-
Marc Riboud, Bal celebrating the Independance of Nigeria, Nigeria, 1960 © Marc Riboud / Courtesy www.hackelbury.co.uk www.marcriboud.com
“OGNI SCELTA POLITICA LOCALE IN CAMPO ECONOMICO, SOCIALE, CULTURALE, DI ORIENTAMENTO ISTITUZIONALE IMPLICA UNA SCELTA COSMOPOLITICA”. petizione per la supremazia mondiale, o formare una delle “mediazioni” che tenteranno di dare vita ad un ordine economico e politico nuovo, più equo e più decentralizzato, più verosimilmente capace di limitare i conflitti, di istituire meccanismi di redistribuzione, di mantenere sotto controllo le rivendicazioni egemoniche. La prima via è destinata a fallire. La seconda è improbabile senza una considerevole coscienza collettiva e volontà politica, che raccolga l’opinione pubblica del continente. Quel che è certo è che i termini dell’alternativa non possono essere concentrati in una retorica di compromesso tra burocrazie nazionali e comunitarie. 8. Tra il “Nord”, al quale la maggior parte dell’Europa appartiene, e il “Sud” (la cui geografia, economia e grado di integrazione statale sono sempre più variabili), non c’è solo un’interdipendenza ma una genuina, reciproca possibilità di sviluppo (o “co-sviluppo”). È importante riconoscere questa possibilità, e trasformarla in un progetto politico. L’Europa è stata il punto di partenza per l’“occidentalizzazione del mondo”, seguendo modalità segnate dalla dominazione, seppure in gradi diversi. Il fatto che queste modalità siano ora universalmente messe in discussione rappresenta sia un ostacolo che un’opportunità da cogliere: sono le due facce del “post-coloniale”. Solo
un progetto come questo potrebbe permettere di trovare un equilibrio tra un’Europa incentrata su legge e ordine, che reprime violentemente le migrazioni che essa stessa provoca, e un’Europa senza confini, aperta a migrazioni “selvagge” (ovvero, migrazioni interamente guidate dal mercato degli strumenti umani). Solo questo potrebbe permettere di indirizzare conflitti di interessi e conflitti culturali tra europei “vecchi” e “nuovi”, “legali” e “illegali”, “comunitari” e “extracomunitari”. Non è una priorità amministrativa, è una priorità esistenziale. 9. Sullo sfondo dell’ininterrotta crisi mediorientale, è necessario creare uno spazio politico che inglobi tutti i paesi intorno al Mediterraneo: solo uno spazio di questo tipo può offrire un’alternativa allo “scontro di civiltà” in quest’area sensibile e cruciale. Per quanto riguarda la questione israelopalestinese, che ne è l’epicentro, va rigettato il discorso estremista antisionista; piuttosto, è necessario, al più presto e in modo concertato, fermare l’espansione israeliana e riconoscere i diritti dei palestinesi – diritti che, tra l’altro, sono ufficialmente sostenuti dalle nazioni europee. Più in generale, questo focolaio di guerre e odi etnico-religiosi dovrebbe essere trasformato in un sito di cooperazione e negoziazione istituzionalizzata, con ripercussioni in tutto il globo. Per ovvie ragioni, dovrebbe essere l’Europa a prendere l’iniziativa. 10. Cruciale per l’alter-globalizzazione sono i seguenti “cantieri” giuridici e politici: - La regolazione democratica dei flussi migratori, dunque la riforma
del diritto di mobilità e di residenza, ancora fortemente connotato dagli interessi nazionali, a spese della reciprocità; - La “sicurezza collettiva” e, rispettivamente, la responsabilità penale degli stati e degli individui davanti alle istituzioni sovranazionali, dunque la riforma dell’ONU, ancora bloccata dalla difesa di posizioni ereditate dalla seconda guerra mondiale e dalla logica di potere; - Il rafforzamento delle garanzie di libertà individuale, diritti delle minoranze e diritti umani, dunque le condizioni pratiche e legali dell’ingerenza umanitaria. - L’emergere di istanze di negoziazione e regolazione economica, di controllo dell’evasione fiscale e di garanzia diritti sociali, così da proiettare su scala globale il modello keynesiano ora smantellato a livello nazionale; - Infine, rendere prioritari i rischi ecologici rispetto ad altri fattori di insicurezza. La lista non è chiusa, ma dimostra quanto sono diversi e interconnessi gli elementi che ora formano, su una scala globale, la sostanza della politica reale. 11. Le tesi elencate sono solo proposte per orientare e aprire un dibattito. Piuttosto che presentare soluzioni, sono tentativi di spiegare contraddizioni che non possono essere ignorate. Ora si tratta di stabilire pietre di paragone su cui misurare rigore e integrità per un dibattito politico in Europa oggi. E questo dibattito, speriamo, ci renderà capaci di integrarle, chiarirle, modificarle. Etienne Balibar insegna filosofia e teoria politica a Paris X Nanterre e University of California, Irvine.
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Nel contesto di un’evidente riconfigurazione delle relazioni di potere globali, e con le elezioni europee alle porte, è imperativo discutere le potenzialità e gli obiettivi di una reale pratica politica transnazionale.
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Pensieri per Una Sinistra Europea Una sinistra europea coerente deve sorpassare tre dilemmi e proporre un’alternativa politica positiva. Michal Sutowki (di Krytyka Polityczna)
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a Sinistra europea si trova in uno stato di crisi da almeno tre decenni. La causa e’ da ricercare in molteplici fattori, economici e socioculturali: il post-fordismo e la transizione ad una fase “fluida” di capitalismo; la trasformazione degli ideali emancipatori della rivoluzione del ’68 in un sistema basato sull’edonismo e sul consumo individuale; l’ideologia postmoderna; la decostruzione del welfare state; e, infine, il collasso del socialismo reale nel blocco orientale. A nostro avviso, almeno tre fondamentali dilemmi – opposizioni fondamentali che determinano la struttura del pensiero di sinistra all’inizio del XXI secolo – vengono affrontati erroneamente e costituiscono la fonte principale del problema. Il primo dilemma riguarda la scala dell’azione: il dilemma tra cosmopolitismo e nazionalismo. Gli oppositor del corrente modello di globalizzazione si suddividono in due gruppi.
Angèle Etoundi Essamba Rupture 2, 1993,
Da un lato, ci sono quelli che difendono lo stato sovrano, i cosiddetti “anti-globalist”, la cui strategia è basata sulla difesa di società, economie e comunità dall’influenza distruttiva del flusso di capitale, attraverso il rafforzamento dello stato nazione e del protezionismo. Per quanto riguarda l’Europa, essi sono spesso contro lo sviluppo dell’integrazione europea. Dall’altro lato, abbiamo coloro che appoggiano l’idea di un governo cosmopolita globale che coordinerebbe livelli successivi di governo e regolerebbe il flusso economico, per mezzo della costituzione di quella grande comunità che è il Genere Umano. Entrambe le soluzioni sono però vicoli ciechi. La prima non riconosce l’asimmetria di forze tra grandi imprese e governi nazionali. Inoltre, non riconosce il fenomeno della competizione tra diverse località (Standortkonkurrenz), che tende a far defluire capitale verso paesi i cui governi concedono alle imprese tasse e standard di protezione sociali inferiori. La seconda soluzione richiederebbe strutture e istituzioni di dimensioni inimmaginabili (quanti membri dovrebbe avere un parlamento mondiale genuinamente democratico?); ma soprattutto sarebbe basata su assunti universalisti e altamente eurocentrici. In particolare, questo varrebbe per quei principi filosofici di legge che dovrebbero valere in una presunta “repubblica globale”.
Il secondo dilemma che si ritrova comunemente riguarda l’atteggiamento verso ciò che viene più ampiamente riconosciuto come “sistema”: ovvero, tra coloro che appoggiano il cambiamento da una posizione moderata di centro (ad esempio la Terza Via dei vari Giddens, Blair, Schröder) e coloro che invece sono per una resistenza radicale e uno smantellamento del sistema “dall’esterno”. La prima posizione in questo conflitto trova la sua giustificazione nella “presa di coscienza della necessità storica”, per dirla con Fukuyama, del neo-liberalismo e della sua inevitabilità. Allo stesso tempo, essa appoggia l’idea, tipicamente di destra, di trasferire il conflitto politico originario dall’economia alla cultura. La Sinistra può permettersi di lottare contro la Destra per i diritti dei gay, delle donne, dei bambini, dei migranti e così via, ma il capitale, liberato, canta vittoria indisturbato sullo sfondo. Così la lotta per il riconoscimento rimpiazza (invece di completare) la lotta per la redistribuzione, mentre la mancanza di un’alternativa di sinistra spinge gli esclusi sociali nelle braccia dei populisti (Haider, Le Pen). Dall’altra parte, il radicalismo anti-sistema permette ai suoi partecipanti di mantenere il loro valore ideologico incorrotto dal contatto con il centro maggioritario dei media, della politica di attualità e le sue istituzioni politiche. Tuttavia, come giustamente fa notare Slavoj Žižek, il sistema capitalistico è capace di costituire il suo proprio “Fuori”, in cui i suoi critici vengono prontamente inclusi. I sostenitori della rottura radicale, promuovendo un giudizio presunto “dall’esterno”, sostengono e legittimano perfettamente lo status quo. In vari modi: costruendo un’altra nicchia economica (chiamata “rivolta radicale”); riconoscendo il pluralismo (“Ehi, guardate quanto promuoviamo la libertà di parola, persino gente strana come quella può esprimersi!”); o, nel caso estremo, costruendo un nemico-Altro esiliato dalla struttura sociale e simbolica della comunità liberale (il “combattente nemico” a Guantanamo). Il terzo dilemma riguarda il soggetto del cambiamento: chi sono i “Dannati della Terra”? In questo caso, c’è chi sostiene che ci sia un “interesse collettivo oggettivo” di una certa classe, sottoclasse o proletariato, che sia conscia o meno, e chi sostiene che esistano solo gruppi di interesse separati – gli handicappati, per esempio, o i soggetti a discriminazione. Questi ultimi sostengono che si posssno portare avanti lotte a ciascun microlivello – gay, femministe, lavoratori sottopagati – separatamente, senza
che sia mai possibile costituire un movimento politico. Al lato opposto c’è chi invece crede possibile che le moltitudini create dal capitalismo fluido e azionate da una qualche “mano invisibile” possano rovesciare il sistema armoniosamente e senza bisogno di alcun coordinamento intenzionale. Ma entrambe le soluzioni ci porterebbero fuori strada. I sistemi di gerarchia, sfruttamento, dominazione e discriminazione sono molto più complessi di una divisione di classe. Gli interessi individuali e collettivi non sono “oggettivamente” concorrenti, mentre le loro fonti di oppressione non sono necessariamente le stesse. “Micro-fughe” separate tra loro perciò si riveleranno inefficaci, poiché tattiche specifiche possono rivelarsi spesso contraddittorie tra loro. Molti ricchi gay polacchi, per esempio, hanno votato per il partito liberal-conservatore, perché le tasse più basse avrebbero permesso loro di trasferirsi in quartieri più sicuri. La capacità critica è sempre stata un punto di forza per la Sinistra, ma raramente ha preso una direzione positiva. Non ci si dovrebbe chiedere che cosa è sbagliato, ma, come diceva Tchernischevsky (ispirando Lenin): “Che fare?”. Tornando a guardare ai dilemmi appena descritti, forse l’unica soluzione attendibile rimane la costruzione di un blocco democratico regionale. Certo, con ciò non ci vogliamo riferire a esempi come
“La Sinistra deve apparire nei media – non come provocatore, ma come rappresentante di una visione politica coerente.” il NAFTA, ma piuttosto a qualcosa come il MERCUSUR sudamericano o l’Unione europea. Ovviamente, i loro attuali svantaggi e mancanze sono evidenti (mancanza di coerenza politica, tasse e politiche sociali decise a livello statale, e soprattutto l’enorme deficit democratico). Ciò nonostante, si tratta di forti strutture regionali che rappresentano una grande opportunità di organizzare il mondo su larga scala: la posizione di territori periferici sarebbe rafforzata, ma la modernizzazione non verrebbe a significare occidentalizzazione, e le diverse regioni svilupperebbero in modi diversi il controllo dei mercati e la redistribuzione. Anche rispetto al tema dei diritti umani, il modello dei blocchi regionali risulterebbe più consono al pluralismo e alla contestualizzazione locale, rispetto all’universalismo contemporaneo e al suo imperativo di uniformità al modello occidentale. Infine, il fatto che esistano piu’ pos-
sibilità favorisce uno sviluppo più democratico delle norme globali, rispetto a ciò che accadrebbe in un mondo unilaterale. L’idea europea di soft power (il nostro contributo più prezioso all’ordine globale, oserei dire) si radicherebbe più facilmente in una Poliarchia globale. Superando un’altra falsa opposizione – coinvolgimento o rigetto della corrente principale – cominciamo così a “spostare la corrente principale”. Pur rimanendo in una struttura di democrazia liberale, dovremmo ripristinare il concetto di politica come sfera dell’agon, e non del consenso. In secondo luogo (e questo sarebbe un genuino passaggio a sinistra), dovremmo cercare di ampliare la portata di ciò che può essere detto legalmente nella sfera pubblica. C’è bisogno di presenza nei mass-media, di costruire un network di associazioni, del simbolismo credibile di un progetto politico. La Sinistra deve apparire nei media – non come provocatore, ma come rappresentante di una visione politica coerente, sostenuta da un background accademico, culturale, popculturale. Come sosteneva Gramsci, la sfera politica si conquista dopo aver conquistato quella culturale. Per rispondere alla terza questione, quella riguardo al soggetto del cambiamento, si potrebbe affermare che il ruolo della politica è di determinare correttamente chi siano i “Dannati della Terra”. Interessi diversi non sono oggettivamente convergenti, e solo un’appropriata contestualizzazione e definizione può aiutare a trovare i legami mancanti, una “logica dell’equivalenza”, nelle parole di Chantal Mouffe. La sofferenza, l’indebolimento e la bassa autostima di individui e gruppi non può essere ridotta ad un conflitto. Il compito pratico e intellettuale della Sinistra dovrebbe essere di offrire loro una dimensione politica comune. Le crisi sono sempre state una minaccia, ma anche una possibilità per la Sinistra. Il 1929 diede vita allo stato sociale negli USA. Lo stesso risultato in Europa fu imposto dai carri armati di Stalin sull’Elbe. Forse il presente collasso dei mercati finanziari aiuterà a finirla con l’idea della “fine della storia”, che offre come uniche opzioni di scelta il capitalismo edonistico americano o il capitalismo servile cinese. Cosa abbiamo in compenso? Per parodiare una frase, probabilmente mai pronunciata da Marx (nonostante ciò che sperava Sorel): a questo riguardo, persino il pensiero più semplice è reazionario. Si vedrà. Michal Sutowki e’ redattore di Krytyka Polityczna, una rivista e piattaforma politica polacca
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Contro l’esclusione nella politica globale Daniele Archibugi
O
gni anno a settembre si riunisce a New York l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E’ una tribuna importante in cui i capi di governo di 192 stati espongono le loro visioni sulla politica mondiale. Ma non necessariamente i cittadini si sentono rappresentati dalla posizione del proprio governo. Alcuni cittadini votano per il governo in carica, altri per l’opposizione. In alcuni paesi, ci sono minoranze etniche che sono sempre escluse dalla compagine governativa. In altri paesi ancora, non si vota affatto. E soprattutto, non è detto che la popolazione abbia le stesse intenzioni dei loro governi sui grandi problemi dell’umanità, quali la questione ambientale, le emergenze umanitarie o l’aiuto allo sviluppo. L’Assemblea Generale non è l’unico organo dell’ONU; ogni settimana si riunisce anche il Consiglio di Sicurezza, chiamato a prendere decisioni urgenti in materia di guerra e pace. I membri del Consiglio di Sicurezza sono tuttavia soltanto quindici. Tolti i cinque membri permanenti, gli altri dieci seggi sono contesi tra ben 187 paesi. 73 stati non sono mai stati eletti nel Consiglio. In una parola, il Consiglio prende decisioni per tutti, ma a decidere sono i soliti noti. L’ONU dispone di molti altri organismi e agenzie specializzate: tramite di esse svolge una opera spesso lodevole a favore dell’infanzia, della salute, dell’alimentazione, dei rifugiati e dello sviluppo. Eppure, il meccanismo di comando è sempre affidato esclusivamente ai governi, i quali di comune accordo nominano i vertici e stabiliscono le priorità. E spesso queste priorità non sono quelle percepite dagli individui che, in linea di principio, dovrebbero beneficiarne. Grandi progetti della Banca Mondiale si sono risolti nella costruzione di mega dighe che hanno devastato l’ambiente, i programmi di ristrutturazione del Fondo monetario hanno spesso portato paesi in via di sviluppo nella depressione
economica, e così via. Le decisioni più importanti sulle questioni finanziarie mondiali sono prese nei vertici del G7 o del G8. 184 o 185 paesi ne sono esclusi e, con loro, più di cinque miliardi di abitanti della terra. In questi vertici si esibiscono i muscoli economici: il G8, ad esempio, accentra il 65 per cento del Prodotto interno lordo mondiale, ma solamente il 14 per cento della popolazione. Le cose vanno un po’ meglio quando si riunisce il G20, che accentra due terzi della popolazione della terra. Ma non si sente certamente soddisfatto quel restante terzo di popolazione del mondo, i cui governi rimangono fuori dalla porta. Inoltre, i vari G7, G8, G20, G-extra-large o G-extrasmall non hanno uno statuto né sono tenuti a rispettare la pubblicità degli atti e molte delle decisioni prese sono imperscrutabili per i comuni mortali. Le organizzazioni inter-governative non sono l’unica forma di rappresentanza nella sfera globale. Ogni gennaio si riunisce a Davos l’esclusivo World Economic Forum. E’ un club dove i rappresentanti delle grandi imprese, alcuni membri dei governi e varie altre celebrità dibattono dei problemi del pianeta. Ma le celebrità sono poche, gli abitanti del pianeta sono molti. E se non sei una celebrità, Davos ti ignora.
Angele Etoundi Essamba Symbole 3, 1999,
Non occorre essere una star per partecipare al World Social Forum sorto a Porto Alegre. Il World Social Forum mira ad essere uno “spazio aperto, plurale, diverso, non governativo e non partigiano”. Sarà forse per questo che spesso riesce ad essere più sensibile ai problemi dei poveri di quanto riesca ad altre istituzioni più vicine all’establishment. Ma la legittimità del World Social Forum è limitata, e non si è mai certi chi rappresentino le decine di migliaia di partecipanti che animano le loro discussioni. E le proposte lì discusse, anche quando dovrebbero essere condivise da tutte le persone di buon senso, restano lettera morta, perché chi detiene il potere le ignora. Se si è un semplice cittadino, insomma, non si ha alcuna possibilità di esprimere le proprie opinioni sulla politica mondiale, e ancor meno di potersi affidare ad un organismo che risponda alle istanze dei cittadini. Ci si può sempre affidare alla buona volontà dei governi nazionali, sperando che essi siano capaci di rappresentare le esigenze del proprio paese nella sfera internazionale. Ma in questi consessi, ciascun governo ha il mandato di rappresentare il proprio paese e di difendere gli interessi nazionali. Piuttosto che perseguire l’interesse generale, nei casi migliori i gov-
erni si limitano a strappare qualche vantaggio contingente. La conseguenza è che i beni pubblici globali quali la qualità dell’ambiente, la sicurezza, i bisogni essenziali, restano inascoltati. L’esclusione dalle scelte globali genera risentimento e rabbia. I gruppi marginalizzati possono pensare di far sentire la propria voce ricorrendo alla violenza o ad azioni spettacolari che, per quanto del tutto incapaci di risolvere i loro problemi specifici, servono almeno a segnalare il fatto che la Terra ospita anche loro. Chi non trova un canale aperto e trasparente per dire ciò che pensa e quello di cui ha bisogno diventa un soggetto incontrollato: può diventare un pirata, un predone un terrorista. E’ quindi nell’interesse di tutti adoperarsi affinché nessuno si senta escluso. E’ possibile far sì che tutti gli abitanti del pianeta, indipendentemente dal loro stato, religione e opinioni, si sentano effettivamente rappresentati? Alcuni visionari hanno suggerito di formare una Assemblea Parlamentare Mondiale, una istituzione complementare all’Assemblea degli stati dell’ONU che possa consentire a tutti di esprimersi tramite i propri rappresentanti. Non c’è da attendersi che tale Assemblea possa avere a sua disposizione molti poteri.
Dovrebbe avere una funzione consultiva, concentrandosi sui problemi comuni dell’umanità, indicare le priorità e tentare di fornire delle risposte nelle aree più critiche. In una epoca in cui la democrazia è universalmente lodata come unico metodo legittimo di governo, sembra strano che non ci sia ancora stata la volontà di realizzarla anche al livello che riguarda tutti, quello del pianeta. Ma dare ai cittadini del mondo uno strumento, anche se puramente simbolico, potrebbe avere effetti imprevedibili. Potrebbe far vedere che quanto scritto nell’Agenda dei vertici che si svolgono a New York, Washington o Davos sono assai diversi di quelli percepiti. Potrebbero addirittura far vedere come sottraendo ben poche risorse a coloro che ne hanno troppe si potrebbero risolvere i problemi di milioni e milioni di persone che hanno troppo poco. Deve essere proprio per questo che le èlites al potere bollano l’idea stessa come chimera. Sanno bene che il proprio dominio nella politica estera è quello che garantisce anche quello nella politica interna. Daniele Archibugi ha pubblicato Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, Il Saggiatore, Milano, 2009. L’edizione inglese è stata pubblicata dalla Princeton University Press.
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La politica globale è un club d’elite a cui i cittadini non sono invitati. Bisogna battersi per la democratizzazione delle istituzioni internazionali.
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INTERVISTA CON NANCY FRASER
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Nancy Fraser è una delle più importanti teoriche femministe contemporanee. Con Il Mito di Europa ha parlato di transnazionalizzazione della sfera pubblica, giustizia radicale, crisi economica e di come separare femminismo e neoliberalismo. EA: Hai lavorato molto sulla nozione di sfera pubblica. In quali modi la globalizzazione ha mutato la sfera pubblica? Anche la sfera pubblica è diventata transnazionale? NF: Oggigiorno il flusso del discorso politico pubblico non rispetta i confini, ed è spesso transnazionale. Di conseguenza la teoria della sfera pubblica, come sviluppata originariamente da Jurgen Habermas, è messa profondamente in discussione. Ciò che ha reso l’idea di sfera pubblica di Habermas un concetto problematico è la tacita assunzione che l’arena in cui l’opinione pubblica circola e in cui può riunire forza politica sia uno stato territorialmente definito – una comunità nazionale chiusa. Grazie a tale assunto “westfaliano”, la sfera pubblica funzionava come la controparte della società civile del moderno stato-nazione. Così, ciascuna delle due indispensabili “strade” della politica (la strada informale della società civile e la strada formale delle istituzioni) erano al loro posto e ben accoppiate, isomorfe l’una all’altra. A partire da tali presupposti, questa teoria poteva offrire una critica relativamente chiara degli stati democratici esistenti, che risultavano “difettosi” perché le loro sfere pubbliche mancavano di legittimazione ed efficacia. In altre parole, perché i processi comunicativi attraverso cui si formava l’opinione pubblica erano ristretti e non accessibili a tutti allo stesso modo; e/o perché l’opinione pubblica mancava della forza politica per influenzare gli attori statali e caricarli di responsabilità. In questo modo, la teoria forniva un punto di riferimento chiaro per valutare la realtà sociale. Ma la chiarezza svanisce quando consideriamo i complessi circuiti transnazionali in cui l’opinione pubblica circola oggi. Dove sono i poteri pubblici istituzionalizzati che l’opinione transnazionale dovrebbe ritenere responsabili e verso cui dovrebbe rivolgersi? Dove sono le autorità pubbliche
che abbiano la capacità di risolvere problemi che attraversano i confini, come il riscaldamento globale o la crisi finanziaria, nell’interesse generale delle popolazioni, a prescindere dalla loro appartenenza nazionale? Dove si trova uno status politico condiviso – una sorta di cittadinanza condivisa – che posizioni i membri della società civile (publics) transnazionale in termini di parità reciproca, di eguali diritti di partecipazione e di espressione? Oggi tutto questo non esiste, e la combinazione tra cittadini (publics) e stati presupposta dalla teoria della sfera pubblica non si trova da nessuna parte. Senza una combinazione tra l’opinione pubblica da una parte, e i poteri pubblici dall’altra, oggi gli ideali critici della sfera pubblica rischiano di perdere significato. EA: Potresti fornire alcuni esempi che spieghino questa perdita di complementarità tra opinione pubblica e le istituzioni statali? NF: Ci sono due problemi opposti ed uguali. In un caso ci sono poteri amministrativi che operano su scala transnazionale, ma non ci sono sfere pubbliche transnazionali così vaste, dove gli attori della società civile possano formare e mobilitare l’opinione pubblica. Questo è ciò che accade oggi nell’Unione europea, che può contare su un apparato amministrativo relativamente forte a Bruxelles, ma non su di una sfera pubblica di estensione propriamente europea: il dibattito è ancora nazionale. Lo si è visto nel “no” francese alla costituzione europea, dettato in gran parte da considerazioni di politica interna. In questo caso la scala del potere istituzionale supera quella dell’opinione
“Il femminismo potrebbe riaffermare la sua critica del maschilismo del capitalismo.” pubblica. L’opinione pubblica europea non è sufficientemente transnazionale perché i poteri amministrativi europei si sentano responsabili. Ma a volte si verifica il problema opposto, ad esempio nelle dimostrazioni del 15 Febbraio 2003 contro l’imminente invasione statunitense dell’Iraq. Si trattò di un evidente sfogo globale di sentimento pubblico, che rappresentava il culmine di eccezionali flussi di comunicazione e contestazione nei mesi precedenti. In quell’occasione si era sviluppato qualcosa che si avvicinava ad una sfera pubblica genuinamente transnazionale – addirittura globale –,
ma che effetti ha avuto? Dopo poche settimane Bush ha mandato truppe e carri armati in Iraq. Non esisteva un’autorità pubblica transnazionale che potesse dare una forma istituzionalizzata al sentimento contro la guerra e rendere efficace l’opinione pubblica. In questo caso, dunque, la scala transnazionale dell’opinione pubblica superò la governance globale. Fino a che non affrontiamo tali discrepanze di scala, di entrambi i tipi, finché non troviamo un modo per superarle, la teoria della sfera pubblica resterà priva di quella forza critica che aveva prima, quando presupponeva il livello nazionale. EA: Credi che la crisi finanziaria chiami in causa nuove istituzioni transnazionali? NF: Sì: non ci sarà nessuna soluzione duratura e sicura finché non creeremo istituzioni transnazionali – in certi casi globali – democraticamente responsabili, con la capacità di regolare mercati, banche, finanza. In quest’area, ci sono deficit ad entrambe le estremità: l’opinione pubblica non è adeguatamente bilanciata, ma non lo sono nemmeno le capacità regolative delle istituzioni. Per questo la situazione presente è così difficile. Normalmente il processo di democratizzazione funziona quando le istituzioni esistono già, e ci sono movimenti sociali che le vogliono democratizzare. Prima ci sono le monarchie e poi le repubbliche, giusto? Nella situazione in cui ci troviamo ora non esistono autorità pubbliche globali transnazionali – dobbiamo costruirle e democratizzarle allo stesso tempo. Esistono alcune istituzioni, come il FMI o l’OMC, che vanno certo democratizzate, ma altre autorità pubbliche che sarebbero necessarie non esistono proprio. EA: Passiamo ora alle tue riflessioni sulla giustizia. Hai scritto molto riguardo al tema del “riconoscimento” in teoria politica. Cosa intendi quando usi questa categoria? NF: La mia interpretazione va contro la versione canonica di riconoscimento come un problema di identità. Diversamente da quell’interpretazione, io intendo il riconoscimento come un problema di status. Per me la questione non è se gli altri affermano la mia esistenza personale o collettiva, ma piuttosto se le norme istituzionalizzate che regolano le nostre interazioni mi permettono di partecipare come eguale nella vita sociale. Nella mia visione, dunque, la politica del riconoscimento non deve manifestarsi come politica identitaria.
Piuttosto, dovrebbe cercare di deistituzionalizzare modelli gerarchici di valore culturale che impediscono a certe persone dal partecipare su un piano di parità con altri nelle interazioni sociali, e di rimpiazzarli con modelli di valore che rafforzino la parità. Dovrebbe aspirare, in altre parole, allo smantellamento delle diseguaglianze di status e a stabilire eguaglianze di status. Perciò io distinguo tra la politica del riconoscimento dalla politica della redistribuzione. Dal mio punto di vista, quest’ultima è una risposta alla subordinazione e stratificazione in termini di classe. In questo caso ci si domanda se tutti hanno le risorse necessarie a partecipare pienamente, e in termini di parità, all’interazione
“Dove sono i poteri pubblici istituzionalizzati che l’opinione transnazionale dovrebbe ritenere responsabili e verso cui dovrebbe rivolgersi?” sociale. Ma c’è chi, pur avendo risorse sufficienti, non ha la possibilità di partecipare alla vita sociale in termini paritari, perché si trova in una posizione di ineguaglianza. In questo caso, l’ingiustizia non sta nella cattiva distribuzione ma nel cattivo riconoscimento –un’ingiustizia tanto seria e concreta quanto la precedente. Perciò, propongo che la politica del riconoscimento sia finalizzata a combattere lo status di ineguaglianza e lo status di subordinazione. Che si stia parlando di donne, immigrati oggetto di razzismo, minoranze etniche, minoranze religiose, le lotte contro le ingiustizie del riconoscimento sono importanti per la politica moderna tanto quanto le lotte contro le ingiustizie e la cattiva distribuzione delle risorse. Per me, in altre parole, classe e status sociale costituiscono due ordini di subordinazione, distinti analiticamente ma sovrapposti nelle società moderne. EA: Quando parli di “ingiustizia di status”, qual è la nozione di ingiustizia a cui ti riferisci? NF: La mia ambiziosa nozione di giustizia si riferisce alla parità di partecipazione. Non è sufficiente, a mio avviso, avere eguali diritti formali, o eguali opportunità formali. Non sarebbe nemmeno sufficiente avere la stessa quantità di risorse o di beni primari, anche se fosse possibile. Sono necessari accordi sociali che non creino sistematici ostacoli istituzionali alla parità di partecipazione. Dunque per me la giustizia
consiste nello smantellare gli ostacoli alla parità, istituzionalizzati in convenzioni sociali ingiuste. Se mi chiedi come giustifico un’interpretazione di giustizia democratica così ambiziosa e radicale, ti posso dare una spiegazione concettuale. Dirò che la visione di giustizia come parità di partecipazione è un’interpretazione radicale democratica precisamente di quella norma di eguale rispetto per e uguale autonomia di tutti gli esseri umani. Per come lo interpreto io, eguale rispetto significa semplicemente parità di partecipazione. Non soddisfare questa condizione significa farsi beffe della nozione di eguale dignità di tutti gli esseri umani. Ti posso dare anche una spiegazione storica. Nel tempo, le nostre nozioni di eguaglianza sono diventate sempre più esigenti. Per un verso, queste nozioni sono diventate più profonde, nel senso che sono state applicate a sfere della vita sempre più numerose. Originariamente, la nozione di eguale rispetto aveva un significato molto ristretto, ovvero eguale accesso alle corti e libertà di coscienza nella sfera religiosa. In seguito, si giunse a farlo valere anche nella vita politica – dunque si diffusero le rivendicazioni per avere voce politica, per l’allargamento dei diritti di cittadinanza. Successivamente ancora, arrivò la nozione che l’eguale rispetto valeva anche per il mercato, e implicava diritti economici e sociali. Poi, con il femminismo, arrivò l’idea che l’eguaglianza si doveva applicare anche all’interno della famiglia e della vita personale. Allo stesso tempo, l’idea di eguale rispetto è diventata meno formale e più sostanziale. Dunque, riprendendo il famoso esempio di T. H. Marshall, non è sufficiente affermare che, in teoria, ognuno ha il diritto di citare in giudizio. Perché questo diritto sia reale, ognuno deve avere i mezzi per esercitarlo: se non ti puoi permettere un avvocato, te ne verrà fornito uno. Da questo esempio si può vedere che l’eguaglianza ha una dimensione materiale. Perciò, ad esempio, perché le professioni siano davvero aperte ai talenti, non solo si deve dare l’assenza di impedimenti esterni ma c’è anche bisogno anche mezzi positivi, come una libera educazione pubblica e un’equa divisione del lavoro domestico. Questi esempi mostrano come il significato di eguaglianza è diventato sempre più sostanziale ed esigente. Di fatto, è arrivato a significare libertà di partecipazione. EA: Ci piacerebbe discutere con te del termine “femminista”. Sei stata spesso descritta come una femminista, e mi pare di capire che tu non
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abbia problemi con questo termine. Ma c’è chi vede questo termine come una barriera, anche tra chi faceva parte del movimento femminista negli anni ’70 c’è chi preferisce non essere definito in quel modo. Cosa ne pensi? Ti sembra che questo termine sia problematico? NF: Sono più preoccupata del fenomeno opposto. Oggi chiunque dichiara di essere femminista. Persone come me, che a lungo si sono identificate con il femminismo come movimento sociale e aspiravano a combattere le ingiustizie di genere, si trovano spossessate di questo termine. Altri lo reclamano, al servizio di altri progetti. Così, ad esempio, Sarah Palin dichiara di essere femminista, e lo stesso fanno elementi della destra cristiana americana: quelle stesse persone che non tanto tempo fa inveivano contro le “naziste femministe”. In generale, le idee femministe sono diventate così largamente diffuse che sono diventate parte del senso comune. Praticamente chiunque oggi dichiara di essere femminista, ma cosa significa? E cosa ha a che fare con il movimento sociale di cui io facevo parte? Recentemente ho avanzato l’ipotesi che il femminismo fa parte del nuovo spirito del capitalismo, che è diventato un’ideologia che legittima il neoliberalismo. Sappiamo che il neoliberalismo implica l’ingresso massiccio delle donne nel lavoro salariato in tutto il mondo. Cosa motiva queste donne? Cosa dà un significato etico alle loro lotte giornaliere? Mi pare che il femminismo serva come necessaria forza moralizzante, ai due capi dello spettro delle possibilità: sia per la professionista che cerca di rompere la “barriera invisibile”, sia per le precarie, le lavoratrici part-time, le lavoratrici nei paesi in via di sviluppo, che scelgono il lavoro salariato non solo per guadagnarsi da vivere ma alla ricerca di dignità e liberazione dall’autorità tradizionale. Se ciò è vero, allora ci troviamo nella situazione, sviante, in cui un movimento che un tempo poneva una sfida radicale al maschilismo del capitalismo ora serve a legittimare, o persino a rendere affascinante, il lavoro salariato. Questo pone un enorme problema per le femministe in senso stretto come me. Via via che le nostre idee sono diffuse e reinterpretate, ci troviamo di fronte al nostro doppio inquietante, che sia nei panni di Sarah Palin, o Hillary Clinton o Ségolène Royal. Se oggi chiunque è femminista, allora “femminista” è diventato un termine come “democrazia”, che può essere usato per qualunque scopo, inclusi gli scopi che vanno direttamente contro la giustizia di genere. EA: Se la causa femminista è stata dirottata dalla destra, come dovrebbe rispondere la femminista? NF: Prima di tutto, il dirottamento è un segno del successo del femminismo. Ma non è accaduto solo al
femminismo. Anche altri movimenti hanno trovato le loro idee dirottate per scopi opposti ai loro. EA: Il movimento ambientalista, ad esempio? NF: Esatto. E questo ci riporta alla nostra discussione sulla sfera pubblica. Ogni discorso che guadagna una certa dose di credito nella sfera pubblica diventa disponibile per l’articolazione di una varietà di progetti politici. Quando il discorso femminista è diventato centrale, è diventato una bandiera da sventolare nelle lotte contemporanee per l’egemonia. Allora, sorge la questione: chi vincerà “l’anima” del femminismo? Sarà articolato a destra o a sinistra? E poi, esattamente come
il neoliberalismo può aver dirottato certi ideali femministi, così la sua crisi attuale presenta un’opportunità. Questo è un momento in cui le femministe nel senso originale possono provare a riattivare il potenziale di emancipazione radicale del movimento. È un momento in cui il “legame pericoloso” di femminismo e liberalismo potrebbe essere rotto. Il femminismo potrebbe riaffermare la sua critica del maschilismo del capitalismo riaprendo, ad esempio, la questione del salario in una concezione umana di vita. Potremmo chiederci: che ruolo dovrebbe giocare il lavoro salariato in una società moderna? Come si dovrebbe relazionare al lavoro della cura e ad altre forme di partecipazione sociale?
EA: Siamo in un tempo di crisi, come hai affermato. Sembra che gli intellettuali non propongano molte alternative, se si paragona questa fase con le crisi precedenti, del XX secolo per esempio. Qual è la tua analisi di questo stato di cose un po’ deprimente? NF: Siamo ancora all’inizio della crisi. Se pensi agli anni Trenta, ci volle un po’ di tempo prima che una sinistra reale emergesse, divenisse sicura di sé e sviluppasse una cultura e un discorso che potessero generare nuove idee. Oggi, invece, stiamo affrontando una situazione storica nuova, data l’apparente delegittimazione del socialismo sulla scia del collasso del comunismo. Fino all’89, sembrava che ci fosse
ancora un’alternativa al capitalismo, ma ora, comprensibilmente, la cosa è considerata in modo molto più scettico. Non direi che sappiamo che non c’è più alternativa al capitalismo, ma le rappresentazioni di possibili alternative che avevamo un tempo erano forse troppo semplici e probabilmente irrealizzabili. Da un lato c’è il grande punto interrogativo dell’economia politica – come dovrebbe essere l’economia politica di una società giusta? Dall’altro lato, sia il femminismo che l’ambientalismo sono potenti visioni del mondo, che ora sono disponibili, e mi sembra che siano anche buoni punti di partenza e… be’, dobbiamo tutti cominciare a pensare a queste cose – e in fretta!
© Adam Broomberg & Oliver Chanarin
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PER UNA POLITICA TRANSNAZIONALE Lo scandalo della povertà mondiale non richiede solo maggiori aiuti, ma un progetto transnazionale che riallacci gli interessi dei cittadini europei e del mondo. lorenzo marsili
S
embra esserci un paradosso fondamentale nella dialettica che circonda il fenomeno della globalizzazione. Ci ricordano ogni giorno dell’ineludibile interconnessione supranazionale della realtà economica contemporanea, della necessità della competizione e dell’efficienza in un mercato del lavoro oramai globale, dell’inevitabilità del sistema capitalsta in un mondo in cui tutti giocano la stessa partita. E siamo noi stessi sempre più coscienti nella nostra quotidianeità della composizione Carlos Vergara, Rio Branco
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Carnival series, 1972/76 www.carlosvergara.art.br
Water is Life, 2007 © Julius Mwelu www.mwelu.org
cosmopolita delle città europee, che offrono una rappresentazione tangibile delle migrazioni globali del nuovo secolo e si trasformano in officine per la ricostruzione di comunità sganciate dal mero senso localistico di appartenenza. Ma al tempo stesso, uno sguardo al panorama politico sembra riportarci a un déjà vu di competizione fra stati, avventure imperialiste, e una concezione tribale dell’interesse nazionale. Il paradigma Westfaliano di comunità inserragliate che competono per mietere il raccolto planetario sembra continuare incontestato. All’interno di questa realtà, le poche richieste per un comportamento veramente ‘internazionalista’ da parte delle nazioni più sviluppate sono viste o in termini di semplice benevolenza, o come un’instrusione interessata e neocoloniale negli affari di nazioni terze (come tante esperienze del Fondo Monetario Internazionale hanno portato molti a concludere). Ma questa dicotomia cancella una considerazione essenziale, e
precisamente la comprensione della responsabilità che portiamo sulle nostre spalle per le politiche internazionali avanzate dai governi che ci rappresentano, politiche spesso atte a mantenere un sistema globale ingiusto e basato su chiare gerarchie di comando e sfruttamento. Questa è una differenza cruciale, ed è qui che si annida la falsa tesi secondo cui i problemi della povertà del mondo non riguardano noi, cittadini del primo mondo, al di fuori dell’aiuto caritatevole che potremmo offrire (con tanta generosità). Il discorso attuale attorno ai fenomeni migratori è un eccellente esempio di questa rinuncia a una responsabilità che invece ci appartiene; l’Europa sembra agire come se i migranti fossero spinti sulle nostre coste da inafferrabili forze gravitazionali, o da misteriosi eventi geopolitici di cui poco si comprende se non un vago sentore di violenza, paura, e povertà. Lo stato è quindi incline a considerarsi un attore neutrale che non ha nulla a che vedere con i fenomeni migratori, fenomeni a cui
può rispondere o brutalmente, o con simpatia (con carità), attraverso procedure più o meno severe di asilo, un discorso pubblico più o meno aperto alla figura dell’altro, concessione di assistenza sociale e parziale diritti di cittadinanza, ecc. Ma questo nasconde le connessioni fra il fenomeno della migrazione e le azioni dei paesi ‘riceventi’
“Ci si dovrebbe forse domandare perché, nel ventunesimo secolo, siamo ancora confrontati con livelli talmente inimmaginabili, mostruosi, e moralmente scandalosi di diseguaglianza nel pianeta.” – paesi che spesso erano in passato potenze coloniali – o dei loro principali attori economici. Gli scritti sul cosmopolitismo di Jacques Derrida, assieme a tutta una letteratura sul diritto di ospitalità che hanno stimolato, rischiano di far dimenticare la
natura non-straniera delle cause che trasformano uno straniero in un migrante, offrendo invece una generosa disposizione del giorno dopo. Ci si dovrebbe allora forse domandare perché, nel ventunesimo secolo, siamo ancora confrontati con livelli talmente mostruosi e moralmente scandalosi di diseguaglianza nel pianeta. E forse dovremmo veramente guardare ai termini degli accordi commerciali, agli effetti della politica agricola europea, o alle implicazioni della corsa al ribasso nel mercato del lavoro delocalizzato e deregolamentato. E cominciare a proporre soluzioni alternative, disegnando i contorni di una politica che ponga l’essere umano, dovunque si trovi, al centro della propria pratica emancipatoria. Si potrebbe cominciare con il parlare di un movimento verso una diversa concezione del ruolo del commercio estero, trasformato da semplice mezzo per l’arricchimento nazionale o europeo a strumento chiave per uno sviluppo globale e concertato, moralizzando i termini degli accordi e ponendo gli
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ALTERITÀ D’EUROPA IN ITALIA
Con questo numero lanciamo l’edizione italiana della nostra rivista, pubblicata ogni due mesi a Londra in inglese. La versione italiana accompagna un sempre più profondo lavoro in diverse città italiane, che si estende a incontri, presentazioni, e un numero maggiore di contributi dall’Italia alla versione internazionale della rivista. Roma / Incontro il 3 Giugno
Bologna / Incontro il 23 Giugno
Unitevi al progetto
Alle porte delle elezioni europee, un dibattito sul potenziale di una vera politica europea e transnazionale. L’incontro verte su tre importanti tematiche del mondo attuale: la crisi globale e l‘Europa sociale; il fenomeno delle migrazioni; i diritti delle donne.
Una discussione sul ruolo delle riviste nel contesto della globalizzazione e sull’idea di una sfera pubblica transnazionale. Con Sandro Mezzadra, Bianca Bruno (Lettera Internazionale), e Massimo Rebotti (Diario)
Ci piace definire Alterità d’Europa una comunità di attivisti. Stiamo cercando persone interessate a collaborare in Italia con l’organizzazione e la rivista, sia per quanto riguarda il processo editoriale che l’organizzazione di incontri locali. Chi fosse interessato a darci una mano può contattare Sare Saleri (sara.saleri@euroalter. com) per maggiori informazioni.
interessi dei paesi del terzo mondo al centro dell’equazione. Che ogni prodotto venduto nel mercato europeo sia prodotto secondo gli standard minimi del commercio equo e solidale. O chiedere leggi che governino le delocalizzazioni delle industrie europee, che vadano nella direzione di un’imposizione di un più forte rispetto dei diritti del lavoro e dei lavoratori – in una parola, dei diritti umani, tema su cui l’Europa si vuole vedere esempio internazionale di buona condotta – anche quando la produzione avviene in paesi terzi. La lista può essere allungata a piacimento. Ma è importante rimarcare che qui non parliamo solamente di rapporti fra stati, e non solamente di rapporti ‘globali’, con paesi extraeuropei. Se guardiamo all’interno dell’Unione europea troviamo un’assurda competizione fra istanze e protezionismi locali, una competizione che quasi sempre va a diretto svantaggio dei movimenti sociali e dei lavoratori europei, giocando interamente nelle mani delle compagnie multi- o transnazionali. Lo spettacolo recente del tentativo di acquisizione della Opel da parte della Fiat fornisce un eccellente esempio, con sindacati divisi su linee nazionali, stati che tentano di difendere la produzione sul proprio territorio, e nessuna voce unitaria che rappresenti le istanzi dei lavoratori tutti, o per lo meno dei lavoratori europei, che siano polacchi o italiani, e che sia in grado di parlare sullo stesso piano su cui opera la dirigenza, un piano dove i confini già non esistono più. Il lavoro politico richiesto è quello di tessere insieme queste diverse istanze e prerogative, di contrastare la deriva verso una guerra fra poveri, con i lavoratori europei posti in condizione sempre più servile tramite la minaccia di impoverimento per la competizione di lavoratori a basso costo nei paesi dell’est o del terzo mondo. Alla fine della seconda guerra mondiale, Lucien Febvre si chiedeva: “Si puo’ concepire che la creazione di un’Europa promossa al rango di istituzione, di organismo, di superstato… metta fine veramente alle divisioni, alle guerre, alle miserie di ogni genere che gravano sull’umanita?”. La nostra risposta è che si, è concepibile, ma è il concetto stesso di ‘stato’ o ‘super-stato’ che in questo processo
va modificato. Lasciandosi alle spalle una definizione meramente tribale di chi è ‘dei nostri’ e chi ‘straniero’, ciò che va costruito è una vera politica transnazionale capace di promuovere un nuovo sviluppo globale che affronti le divisioni, le guerre, e le miserie dove queste si manifestino, e che faccia di un tale orientamento il cardine per una ridefinizione del concetto di emancipazione politica e solidarietà sociale. Sotto molti punti di vista un lavoro di questo tipo è stato già portato avanti negli ultimi anni nell’esperianza – senz’altro incom-
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pleta, confusa, e poco incisiva – del Foro Sociale Mondiale. Contro quanti proclamavano la fine della storia, e la fine della politica, con l’emergere di un mondo unipolare negli anni novanta, il 2001, data del primo Foro a Puerto Alegre, verrà ricordato come un momento dove ‘Utopia’ è tornata a farsi sentire, con centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo riunite a dichiarare che si, un altro mondo è nei fatti possibile. Ma quello che più è importante è che alla base del foro sociale mondiale giace un tentativo di costruire un ‘coscienza globale’ che appunto unisca le rivendicazioni
trare verso l’alto ed essere realizzate. È qui che l’Europa, con il suo gigantismo economico e la contraddizione della sua piccolezza politica, può venirci in aiuto. Ma certo, non l’Europa così com’ è, non l’Europa della burocrazia e della semplice regolamentazione economica. Ma un’Europa riappropriata, un’Europa ripoliticizzata, un’Europa che diviene il terreno dell’emergere di una nuova e potente spinta verso un futuro differente. È certo, c’ è molto da fare, e un radicale riorientamento dell’Europa al giorno d’oggi pare chimerico. Ma non è forse questa sempre la situazione affrontata da nuove rivendicazioni politiche? O siamo stati intorpiditi fino ad aspettarci che il cambiamento ci venga servito su un piatto d’argento? Le elezioni europee di giugno si sono distinte per la totale assenza, salvo alcune lodabili ma inascoltate eccezioni, di una vera spinta propositiva verso la formulazione di reali alternative politiche. Ma la possibilità esiste, e sta solo a noi coglierla. Lorenzo Marsili è codirettore di Alterità d’Europa
Liberia, Photo by Tim A Hoetherington, 2003
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Fondazione Basso, via Dogana Vecchia 5, 16.00 – 20.00
Feltrinelli, piazza Ravegnana. Per dettagli orario www.euroalter.com/bologna Fondazione Basso, via Dogana Vecchia 5, 16.00 – 20.00
degli intoccabili indiani, i senza terra brasiliani, e i lavoratori europei in un progetto comune. Ma se il progetto del foro mondiale è un’eccellente officina dove lavorare e sperimentare queste nuove alleanze, è rivolgendo lo sguardo nuovamente all’Europa che possiamo trovare un barlume di possibilità di militare per la realizzazione politica di questo progetto. Non esistono singoli stati, per lo meno in Europa, che al giorno d’oggi possano abbracciare l’intero orizzonte globale nei loro intenti. E se questa è una situazione che molti esponenti degli studi postcoloniali celebrano non senza ragione, è altrettanto vero che la mera impotenza politica delle nazioni europee non si traduce in maggiore libertà, maggiore spontaneità, maggiore giustizia per le nazioni del resto del mondo. Quello che succede è piuttosto il contrario, con l’emergere di un meccanismo transnazionale perfettamente oliato dal punto di vista economico, ma nel quale i cittadini non hanno modo di esprimersi, nel quale politiche veramente alternative non hanno modo di fil-
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Esplorazioni metropolitane, indugiando sul confine La diversità del mondo contemporaneo si riflette nello spazio della città, mettendo in discussione categorie date per scontate – prima fra tutte quella di confine. Sara Saleri
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he cos’è un confine? Come si riconoscono i confini che definiscono gli spazi di una città? Quando si cerca di cogliere la geografia di un luogo specifico, uno sguardo dall’alto sembra poter risolvere il nostro problema. Una panoramica aerea, che spazia sulla superficie urbana, ci permette di creare una mappa, in cui la città acquista una fisionomia apparentemente chiara e coerente. Osservando il mosaico composto da edifici, piazze, strade, cominciamo a classificare, a discriminare: centro storico e periferia, zone culturali e zone commerciali, spazi pubblici e spazi privati. I confini sembrano emergere in modo naturale e – forse – rassicurante. Ma tutto cambia quando ci caliamo nella realtà della città: proviamo a ricondurre ciò che ci sta attorno alla mappa che avevamo appena tracciato, magari affidandoci, speranzosi, ai nomi delle strade e alla loro capacità di orientare i nostri passi, ma quella conformazione così nitida sembra disfarsi davanti ai nostri occhi. La realtà acquista un carattere indefinito, in cui i confini si fanno sfumati e ciò che da lontano sembrava così chiaro si fa confuso e indecifrabile, proprio mentre il nostro sguardo si avvicina. Proviamo, ad esempio, ad addentrarci nei vicoli di quello che, dall’alto, avevamo immediatamente riconosciuto come il centro storico di una città italiana: un’apparente uniformità architettonica, la particolare conformazione delle strade, forse addirittura la concretezza di mura antiche, ci avevano permesso di individuare quel confine. Ma, camminando nelle strade, ci troviamo subito di fronte a una molteplicità che rimaneva nascosta
alla visione topografica e oggettivante della mappa. La stessa materialità degli edifici rivela stratificazioni storiche ed architettoniche: pensiamo ad alcuni palazzi del centro di Bologna, la cui solo apparente uniformità medievale è arricchita da dettagli architettonici di diverse epoche. Gli usi degli spazi, poi, presentano un’altissima variabilità e vi riconosciamo continue trasgressioni di confini: pedoni che “invadono” strade, negozi che “sconfinano” sui marciapiedi, cortili e portici dalla natura indecidibile, tra pubblico e privato, o ancora, luoghi che cambiano aspetto e funzione a seconda dell’avvicendarsi di ritmi diurni e notturni. Ma, soprattutto, camminare nella città significa essere coinvolti nelle interazioni dei soggetti che la abitano e, attraverso i loro movimenti, la scrivono e riscrivono, come un testo in continua trasformazione. Per questo il semiologo russo Juri Lotman attribuiva alla città le caratteristiche di un “polilogo”: uno spazio in cui si stabiliscono movimenti, dialoghi e conflitti, che nel loro intrecciarsi e sovrapporsi sfuggono ad una logica univoca – o persino biunivoca – e di cui è necessario cogliere la complessità. La metafora del polilogo è particolarmente calzante ed evocativa se la trasliamo su alcuni luoghi specifici della città: i luoghi dove la presenza immigrata è più evidente, dove la diversità e l’altrove irrompono nel territorio europeo; luoghi che mettono in crisi categorie e classificazioni che ci eravamo illusi di poter applicare al tessuto urbano, convinti, come i cattivi progettisti criticati da Stefano Boeri, che “per ‘leggere’ la storia e la geografia dei luoghi sia sufficiente decifrare – e magari prolungare con la matita – i segni grafici delle carte storiche e topografiche” Di fronte a questo quadro, cosa ne è dei confini che pensavamo di aver individuato? Sono forse annullati dallo scorrere quotidiano della vita cittadina? Al contrario, di fronte alla complessità della città, siamo obbligati a constatare che i confini non fanno che moltiplicarsi. A volte, però, non si tratta dei confini netti, fisici e geografici, che ci immaginavamo all’inizio: spesso dobbiamo riconoscere l’esistenza
di confini discorsivi, simbolici ed emotivi – ma non per questo meno reali. Sono confini di natura varia e mutevole, possono durare lo spazio di una discussione, o essere eretti stabilmente entro il sistema spaziale o normativo di un luogo. Ma quale è, nei fatti, la concretezza di questi confini? Continuiamo ad addentrarci nella materia viva della città, e vediamo come operano, come funzionano, quali sono le strategie che li regolano, i meccanismi che li tengono in vita. La prima tappa della nostra esplorazione è Brescia, cittadina dell’Italia del nord, che racchiude, nel suo centro storico, un quartiere atipico e molto suggestivo: il Carmine, un intrico di strade e vicoli medievali, a partire dagli anni novanta è divenuto meta di immigrazione extra-europea, fino a diventare la zona della città con la più alta percentuale di popolazione straniera. Fin dall’ottocento è presente nelle cronache cittadine come una zona marginale e malfamata, luogo di prostituzione e di pratiche illecite. Negli ultimi anni, dopo un imponente piano di riqualificazione urbana voluto dall’amministrazione comunale, il quartiere appare molto più lindo e curato, ma la percezione di marginalità permane in molti discorsi, che stavolta la legano all’evidente presenza immigrata. Ecco frantumarsi un primo confine, tra quelli che avevamo tracciato istintivamente: centro e periferia si confondono, in uno spazio marginale del centro, abitato da individui che provengono dalla periferia del mondo. Ma andiamo oltre queste prime considerazioni e osserviamo il Carmine in un momento specifico, durante una campagna elettorale, quando i manifesti dei partiti, le foto dei candidati, gli slogan elettorali, dialogano tra di loro e con lo spazio circostante. Durante la campagna per le elezioni dell’aprile 2008, il quartiere venne letteralmente riscritto dai manifesti elettorali di Alleanza Nazionale, che, in modo esteso ed invasivo, promettevano: “Più sicuri, c’è Alleanza”. Questo slogan, evidentemente, richiama e rinforza la percezione di insicurezza legata al quartiere (e alla presenza straniera), ma allo stesso tempo mette in atto una
strategia discorsiva più sottile, che contribuisce alla costruzione di un confine. Una strategia che trae la sua forza dalla parola “alleanza”, la cui polisemia è interamente sfruttata: “alleanza” infatti, oltre ad essere uno dei due elementi che formano il nome del partito, definisce un gruppo ristretto di persone che decide di unirsi per sconfiggere un nemico comune. In questo caso, lo slogan si riferisce esplicitamente al suo nemico (l’insicurezza); ma, come in ogni battaglia che si rispetti, i nemici sono anche gli altri, quelli che si contrappongono per il semplice fatto di non far parte di
“Dobbiamo riconoscere che il confine è, allo stesso tempo, una barriera e uno spazio, denso di possibilità e promesse, ma anche di potenziali conflitti. ”
questo gruppo ristretto di alleati. E non dimentichiamo la seconda parte del nome del partito: questa è un’alleanza “nazionale”, perciò ad esserne esclusi sono gli stranieri – gli altri, i nemici. Vediamo prendere forma, sul piano discorsivo, uno spazio da proteggere (il quartiere e i suoi abitanti “originari”) e, di conseguenza, un contro-spazio in cui l’insicurezza possa essere confinata ed esclusa. Un’ulteriore conferma della natura simbolica di questo slogan è il fatto che, dopo le elezioni (in cui la vittoria nazionale del centrodestra si riflesse anche sui risultati per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale di Brescia), il manifesto principale della campagna, apposto sulla facciata della sede del comitato elettorale, non venne rimosso, come gli altri. Per qualche mese ha continuato a campeggiare, come un baluardo, nella via principale del Carmine, celebrando il trionfo elettorale ma anche sottolineando visivamente che un confine era stato tracciato e che un’azione di separazione ed esclusione stava operando attivamente sul territorio. Un altro campo in cui, in tempi recenti, si stanno giocando acerrime battaglie per la costruzione e
decostruzione di confini, è quello rappresentato dagli spazi pubblici, protagonisti di slittamenti di significato e fenomeni traduttivi a volte paradossali. Un buon esempio è il parco, spazio aperto, pubblico e collettivo per eccellenza, che porta inscritte una serie di “istruzioni per l’uso” e di possibili sceneggiature, tra cui “incontrarsi”, “giocare”, “praticare sport”, ecc. Se osserviamo però gli usi degli spazi pubblici nelle società occidentali negli ultimi anni, constatiamo che molti di questi usi si sono per così dire “narcotizzati”: sono sempre possibili, inerenti all’essenza del parco in quanto tale, ma non vengono più messi in atto. Ad esempio, l’uso degli spazi pubblici per la socializzazione è andato diminuendo, a favore degli spazi privati, chiusi e protetti delle abitazioni. E quando gli usi più propriamente “pubblici” vengono riattualizzati da gruppi sociali altri, ecco che sono percepiti in senso disforico, come devianti rispetto a una norma. E una serie di barriere vengono improvvisamente innalzate. Un buon esempio è rappresentato dal Parco della Resistenza a Roma, da qualche anno eletto a luogo di incontro domenicale da immigrati ucraini, per la maggior parte donne impiegate come badanti dalle famiglie romane, che avvertono la necessità di trovare spazi di aggregazione fuori dalle case dove vivono, inevitabilmente estranee. Questo processo di appropriazione dello spazio ha provocato immediate reazioni da parte di alcuni residenti romani, che hanno denunciato le attività degli immigrati: attività informali come lo scambio di prodotti tipici e il picnic sono state percepite e sanzionate come “illegali”. Anche forme d’uso più regolarizzate e organizzate danno luogo a simili reazioni. Sempre a Roma, sulle pendici del Colle Oppio (un’area compresa tra il Colosseo e la Domus Aurea), da qualche anno ogni domenica si svolge un torneo di calcio a cui prendono parte circa trecento giocatori, seguiti da un numero cospicuo di spettatori. Tutti di origine ecuadoriana, peruviana e colombiana. Si tratta di un campionato in piena regola, con tanto di magliette “ufficiali” con numeri, nome del paese di origine di ogni
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squadra, a volte addirittura di uno sponsor. Nonostante il carattere pacifico del torneo, la “colonizzazione” di un luogo da parte di una comunità percepita come diversa non ha mancato di suscitare attriti con i residenti, che hanno più volte richiesto l’intervento delle forze
dell’ordine per sgomberare l’area. Un altro sport, la stessa sceneggiatura che si ripete: gruppi di pakistani regalano vita al trascuratissimo Parco Gallo di Brescia con le loro partite di cricket. Le prime scritte razziste (“Abbasso i pakistani, abbasso il cricket”) non
tardano a comparire, mentre uno dei primi atti pubblici messi in atto dalla nuova giunta di centro-destra, nell’estate 2008, è un “decreto antibivacco”. Sono casi diversi tra loro, che mettono però in luce lo stesso meccanismo sottilmente paradossale:
spazi apparentemente dimenticati, diventano improvvisamente simboli di appartenenza, in quanto “minacciati” da un’alterità. E la risposta a questa minaccia è spesso la costruzione o il rafforzamento delle barriere tra noi e loro: discorsi che cercano di definire identità, possi-
bilità di inclusione o di esclusione; decreti che, proponendo una visione normativa dello spazio, definiscono rigidamente spazi di possibilità e legittimità, ma sembrano dimenticarsi delle persone che abitano quegli spazi e li possono animare solo attraverso un’attiva negoziazione dei confini e dei limiti. Tutti questi esempi mettono in crisi quell’idea di confine a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio: la città non è “semplicemente” costituita da spazi separati nettamente l’uno dall’altro, scatole non comunicanti e irriducibili tra loro. Con questo non voglio certo negare l’esistenza di muri e di confini molto “materiali”, che separano luoghi, persone e isolano intere comunità. In alcune città si stanno letteralmente alzando muri, scavando fossati e costruendo ponti levatoi. Esempio estremo, ma certo non trascurabile, dell’esclusione ed emarginazione della diversità è il “muro di Padova”, una recinzione lunga circa 80 metri, innalzata nel 2006 per separare dalle aree circostanti la zona periferica di via Anelli, abitata prevalentemente da immigrati. Di opposto valore, ma con lo stesso effetto di creare enclave nella città, è il fenomeno crescente delle gated communities, quartieri protetti da muri e sistemi di sorveglianza, accessibili ai soli residenti. Ma non sempre la realtà dell’esclusione e della separazione ci si presenta con tale chiarezza, non sempre i confini sono così “facili” da individuare; spesso sono più sottili – ma non per questo più fragili – e dobbiamo andare a cercarli nelle pieghe della realtà. Di fronte a queste complesse stratificazioni, non ci resta che accettare il carattere paradossale del confine che, come ricorda Juri Lotman, allo stesso tempo separa e unisce. Dobbiamo riconoscere che il confine è, allo stesso tempo, una barriera e uno spazio, denso di possibilità e promesse, ma anche di potenziali conflitti, di interpretazioni diverse e apparentemente inconciliabili tra loro. Per questo non dobbiamo smettere di aggirarci per la città con uno sguardo attento, che sappia individuare la costruzione di confini: per denunciarne l’esistenza, certo, ma soprattutto per indagarli a fondo, conoscerli, decifrarne le strategie di esistenza, scoprirne i punti deboli. Non possiamo semplicemente abbandonare il confine, o illuderci di abbatterlo definitivamente: la forza del confine sta nella sua capacità di riprodursi in continuazione, ma anche nella sua possibile apertura, nella sua capacità di trasformarsi in soglia. Per questo il confine ci attrae e ci richiede di continuare ad indugiarvi. Sara Saleri e’ redattrice della versione ital-
Photo by Brigita Ercegovic
iana di Europa, e dottoranda in semiotica all’Universita’ di Bologna
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INTERVISTA CON alfredo jaar alfredo jaar e` sempre attento alle dinamiche sociali e politiche del mondo contemporaneo. In questa intervista l’artista discute il suo lavoro e riflette sul ruolo dell’arte nella società.
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e opere di Alfredo Jaar, artista di origine cilena con base a New York, si concentrano sulla relazione tra “primo” e “terzo mondo”, esplorando le loro interdipendenze materiali e le dinamiche di potere in gioco, e interrogandosi su come il “primo mondo” traduca queste problematiche nelle rappresentazioni visive del “terzo mondo”. Il Mito di Europa ha intervistato Jaar in seguito alla retrospettiva a lui dedicata presentata recentemente all’Hangar Bicocca di Milano (It is Difficult, 3 ottobre 2008 – 11 gennaio 2009), e per celebrare un artista che non smette di affascinare il suo pubblico, proponendo nuovi modelli di realtà possibili. Eva Oddo: Cosa ne pensi dell’Unione europea e come vedi il suo futuro? Alfredo Jaar: Ho sempre considerato l’Unione europea come un modello potenziale che non si è mai pienamente realizzato. È un’utopia che è diventata una quasi-realtà. Ho sempre pensato che avesse enormi potenzialità, come modello di comunità. Di fatto, l’Unione europea è il maggiore donatore mondiale di assistenza umanitaria. Ci sono stati progressi significativi in alcune aree: ad esempio la moneta comune, l’euro, alla fine fa da contrappeso al dollaro statunitense e alla sua egemonia. Ma quando ci si rende conto che l’Unione europea genera più del 30% del prodotto interno lordo mondiale, allora ci si chiede: come mai ha un’influenza così limitata negli affari mondiali? È davvero frustrante constatare l’incapacità dell’Unione europea di articolare e promuovere una comune politica estera, di far sentire la sua voce negli affari mondiali di un certo peso. È un ambito completamente dominato dagli americani, e finora nessuno è stato capace di sfidarli. Il mondo sarebbe diverso se l’Unione europea avesse una voce. È innegabile che ci sia libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitale,
ma, allo stesso tempo, quante porte sono state chiuse? Basta vedere come è trattata l’immigrazione in Italia, o parlare con un imprenditore africano che tenta di penetrare il mercato europeo, per trovarsi di fronte un intero catalogo di frustrazioni.
ettivi. L’arte per me ha sempre avuto a che fare con il pensiero critico. Ma questo non significa lasciar fuori la poesia: la poesia è un elemento essenziale dell’arte. Potremmo arrivare a dire che non esiste arte senza poesia, e non esiste arte senza politica.
EO: Passiamo all’aspetto artistico: pensi che l’artista abbia delle responsabilità? AJ: Assolutamente. Gli artisti sono esseri umani, ed ogni essere umano ha delle responsabilità. Gli artisti sono parte integrante della società, in cui hanno un ruolo privilegiato, perché hanno tempo e risorse per pensare, ragionare e sognare mondi diversi, mondi migliori. Insieme a questo privilegio, abbiamo la responsabilità di reagire a ciò che ci circonda e suggerire modelli per pensare alla società e al mondo; la buona arte riesce a farlo. Le migliori opere artistiche portano in luoghi dove non si è mai stati – mi riferisco a luoghi mentali –, luoghi in cui creiamo nuovi modelli di pensiero, e nuovi modi di vedere il mondo. E questa è una responsabilità enorme.
EO: Pensi che l’arte abbia cambiato il mondo? Se sì, come? E pensi che nel futuro l’arte possa cambiare il mondo? Come? AJ: Be’, ti puoi immaginare un mondo privo di arte? Per rispondere a questa domanda bisogna rispondere a quest’altra domanda: cosa sarebbe il mondo senza arte, senza cultura? Come diceva Nietzsche, “la vita senza musica sarebbe un errore”. Lo potremmo parafrasare e dire: la vita senza l’arte sarebbe un errore. Guardati attorno, guarda le città, il mondo – come sarebbe se non ci fossero arte e cultura attorno a noi? Arte e cultura sono elementi essenziali della vita contemporanea, della vita. La vita è impensabile senza arte. Certo, l’arte ha cambiato moltissimo il mondo, e come artista ho sempre affermato, pur con il rischio di sembrare naïf, che io voglio cambiare il mondo. Sono diventato artista perché sono insoddisfatto dello stato del mondo, e voglio cambiarlo. Ora, io lo cambio a partire da una persona alla volta – è un processo molto lento, è un cambiamento molto modesto, ma possiamo toccare le persone, le possiamo informare, e le possiamo spingere all’azione. In questo senso, sono gramsciano. Gramsci fu uno straordinario intellettuale del XX secolo, un’ispirazione per me. Credeva realmente nella capacità della cultura di influenzare il cambiamento. È difficile, a volte sembra futile, ma sono convinto che la cultura e l’arte abbiano cambiato il mondo e, più il mondo si fa complesso e difficile, più le potenzialità dell’arte e della cultura potranno realizzarsi.
EO: La tua arte è stata descritta come arte politica o arte morale, arte con un impegno morale AJ: No, non accetto nessuna di queste etichette. Tutta l’arte è politica. È impossibile fare qualcosa che non abbia un’interpretazione politica. È impossibile fare un gesto che non abbia allo stesso tempo una componente estetica e una componente etica. Quando devo rispondere a questo tipo di domande, mi piace citare Jean-Luc Godard, un regista che stimo, che diceva che “può essere vero che si deve scegliere tra etica ed estetica, ma non è meno vero che, qualsiasi delle due
“Il mondo sarebbe diverso se l’Unione europea avesse unavoce.”
si scelga, comunque l’altra ci verrà incontro alla fine della strada”. Come artisti e come produttori culturali dobbiamo affrontare simultaneamente le questioni dell’etica e dell’estetica, integrarle non solo nel modo in cui costruiamo le nostre opere, ma anche nell’espressione finale delle nostre idee. Quando l’arte non fa questo passo, è solo decorazione, fa parte di un altro mondo, quello della decorazione e del design, che ha altri, diversi, obi-
EO: Come valuti lo stato del mondo artistico contemporaneo? AJ: Il mondo dell’arte contemporanea ha un problema di immagine. È ironico che un’industria dedicata ai sistemi di rappresentazione non sia capace di rappresentare se stessa nel panorama mediatico. I media presentano l’arte con profonda volgarità, facendo emergere l’immagine di uno spettacolo, di un circo, popolato dalle cosiddette star dell’arte e pieno di soldi. Onestamente, questo non ha nulla a che vedere con il mondo dell’arte contemporanea, non ne
rappresenta che una minima parte. Il mondo dell’arte contemporanea non è monolitico; è una rete di sistemi, diversi tra loro. Alcuni sistemi si contraddicono, altri si ignorano o interagiscono tra loro, ma ciascuno vive di vita propria. Ogni sistema è un mondo in se stesso: in uno di questi sistemi ci saranno migliaia di artisti alla ricerca del senso della
“È difficile, a volte sembra futile, ma sono convinto che la cultura e l’arte abbiano cambiato il mondo e, più il mondo si fa complesso e difficile, più le potenzialità dell’arte e della cultura potranno realizzarsi.”
vita, che lavorano con le comunità, cercando di espandere i loro orizzonti creativi. In un altro sistema, troverai pensatori, intellettuali e sognatori che discutono temi di grande importanza per la società e per il mondo, che producono articoli, documenti, pubblicazioni, che partecipano a conferenze e dibattiti, che creano nuovi modelli di pensiero. L’arte contemporanea è composta da cinema, teatro, musica, poesia, danza, arti visive, che fanno pensare, piangere, provare sentimenti, e spingono ad agire nella società. Dove si trova quest’immagine dell’arte contemporanea nei media? Semplicemente non esiste. I media ne fanno uno spettacolo, ed è piuttosto triste. EO: Pensi che l’intervento pubblico debba far parte del ruolo dell’artista? Pensi che gli artisti visivi debbano varcare dai confini dello spazio espositivo ed uscire in strada? AJ: Il ruolo dell’artista, per come lo vedo io, è di creare nuovi modelli di pensiero e nuovi modelli di rappresentazione del mondo e... ci sono molti modi per farlo, e molti luoghi in cui farlo. Alcuni artisti si sentono a proprio agio all’interno degli spazi della cultura – in ciò che chiamiamo il “cubo bianco”, il mondo dell’arte. Altri, come me, hanno sentito il bisogno di uscire da questo spazio. È per questo che ho diviso il mio lavoro in tre aree principali e solo un terzo del mio tempo è occupato lavorando nel cosiddetto mondo dell’arte, in musei, gallerie e fondazioni. Visto che questo mondo è così isolato, ho cercato di raggiungere un pubblico
più vasto ed ho creato più di 50 interventi pubblici nel mondo, fuori dai confini del mondo artistico. In questi progetti lavoro con diverse comunità, lontane dal mondo dell’arte, e mi confronto con problemi di vita reali, di persone reali, e questi confronti, questi esercizi di realtà, mi mantengono con i piedi per terra, e guidano la mia pratica di artista all’interno del mondo dell’arte. La terza componente del mio lavoro è l’insegnamento. Dirigo seminari e laboratori in tutto il mondo, dove ho la possibilità di scambiare idee con le generazioni più giovani, di condividere le mie esperienze ed imparare dalle loro esperienze e dai loro sogni. Direi che l’insegnamento è probabilmente la componente più politica del mio lavoro. Ma sono tutte e tre molto importanti e, insieme, mi formano come professionista e come essere umano, mi rendono completo. Perciò, per rispondere alla tua domanda, ogni artista trova un modo per essere responsabile, e questo è il modo che ho trovato io, per quanto mi riguarda. EO: Che cosa ti aspetti dal tuo pubblico, se ti aspetti qualcosa? AJ: L’arte è comunicazione, la comunicazione richiede un linguaggio, e un linguaggio richiede un vocabolario. Il vocabolario dell’arte è diventato incredibilmente complesso e ha creato un enorme divario tra gli artisti e il pubblico, ma questo divario può essere colmato in modi diversi. Con i miei studenti insisto sempre sul fatto che, nella definizione di comunicazione, tecnicamente ci debba essere una risposta, se non c’è risposta non c’è comunicazione. Comunicare non significa semplicemente lanciare un messaggio nel mondo. Come artisti produciamo eventi, installazioni, film, oggetti, opere bidimensionali... costruzioni molto complesse che a volte hanno un linguaggio piuttosto difficile per la maggior parte delle persone. Perciò, nel mio caso, provo sempre a creare diversi livelli di comprensione dell’opera: li chiamo “punti d’entrata”, attraverso cui chiunque può entrare nell’opera. Naturalmente alcuni vi entreranno a un certo livello da cui possono avere una comprensione completa dell’opera, che raggiungerà così il suo effetto più pieno. Altri avranno accesso a un’entrata più limitata, ma saranno comunque in grado di entrare nell’opera. Io mi aspetto che il mio lavoro crei e provochi sentimenti ed emozioni, che informi con i fatti e commuova con la poesia. L’effetto massimo che voglio
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raggiungere con il mio lavoro è far pensare le persone, perché, come dicevo prima, cerco di creare nuovi modelli di pensiero. Perciò, l’effetto massimo sarà di immergere il mio pubblico in uno stato perfetto di pensiero e poesia. EO: Hai visto la recente mostra di Cildo Meireles alla Tate Modern di Londra (14 ottobre 2008 – 11 gennaio 2009)? Ho letto una sua dichi-
arazione, in cui diceva: “In un certo senso, si diventa politici quando non si ha la possibilità di essere poetici. Penso che gli esseri umani preferirebbero di gran lunga essere poetici”. Cosa ne pensi? AJ: Ho visto la mostra, che trovo straordinaria. Cildo è uno dei miei migliori amici, un artista che ammiro profondamente. Cildo riesce ad avere una prospettiva poetica sul mondo, e a riempire di poesia
le composizioni, gli ambienti, le installazioni e gli oggetti che crea. Tutti hanno un contenuto politico – è inevitabile – ma la poesia delle sue costruzioni è travolgente e gioiosa. Al contrario, sento che i miei lavori oscillano di più verso la politica. Certo, hanno sempre un elemento poetico, ma in questo difficile equilibrio tra politico e poetico, credo che i miei lavori siano più politici. Temo che sia stato più
difficile per me contenere la mia rabbia, perciò il politico travolge il poetico. In altri casi, ad esempio in un film sull’Angola che ho appena terminato, mi pare che forse il poetico abbia travolto il politico. Mi sforzo, ma a volte la realtà delle situazioni su cui mi concentro mi ha spinto verso il politico. Cildo è stato capace di contenersi, o forse ha affrontato situazioni meno urgenti, ed è stato capace di creare esplo-
sioni di poesia. Un’eccellente mostra di un eccellente artista. EO: Cosa pensi della direzione presa dalla politica contemporanea? AJ: Sono sempre stupito dalla presenza simultanea di correnti contraddittorie nel mondo. Da un lato, negli Stati Uniti c’è stata l’elezione di Barack Obama, con tutto il suo straordinario potenziale in direzione progressista, e dall’altro c’è il fenomeno di Berlusconi, in un paese come l’Italia, dove si possono individuare tendenze fasciste dappertutto. E allora ci si chiede come sia possibile. Come, perché le società si muovono a sinistra o a destra, nello stesso momento? Cosa c’è nella natura umana che ci fa comportare in maniera così contraddittoria? Se si guarda l’Europa poi, si vedono sulla mappa delle macchie fasciste e delle macchie progressiste, che lottano tra di loro. E noi, come cittadini, ci dobbiamo confrontare con queste realtà, e dobbiamo decidere il percorso da prendere, basandoci sull’educazione che abbiamo ricevuto, sull’influenza dei nostri genitori e dell’ambiente in cui viviamo, e sulle nostre convinzioni personali. Ma sono sempre colpito da questi possibili percorsi, dalle contraddizioni che affrontiamo nella nostra vita quotidiana, ed è per questo che cito sempre Emile Cioran, un poeta e scrittore rumeno che stimo profondamente, e che parlò di questo stato della mente, descrivendolo come “simultaneamente felice e infelice,
esaltato e depresso, sopraffatto dal piacere e dalla disperazione, in armonie contraddittorie”. È così che mi sento oggi, quando guardo al mondo, quando leggo i giornali, sempre con la speranza che un giorno l’equilibrio si sposti verso la giustizia sociale.
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LA sfida COSMOPOLITA DI ALFREDO JAAR ALL’INDIFFEREZZA ISTITUZIONALIZZATA Il Nord e il Sud, i mondi eccessivamente sviluppati, in via di sviluppo e a sviluppo inibito, devono essere resi parte dello stesso presente. paul gilroy
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a modernità dell’Europa è stata creata e mantenuta dalla violenza. La sua energia iniziale è stata tratta dalla conquista di popoli proclamati alieni ed inferiori. Il suo dinamismo è stato sostenuto dal consolidarsi di colonie e imperi. Gradualmente, quell’organizzazione precaria e frammentata venne disciplinata dal Capitale entro un sistema di stati nazione e mercati transnazionali. Oggi non è educato, né tanto meno di moda, puntualizzare che l’idea di razza fu un fattore essenziale nel far apparire quelle divisioni arbitrarie come naturali e storiche, scientifiche e inevitabili. I circuiti di potere si stanno allontanando dall’Atlantico. Ognuno di noi ha di fronte catastrofi ambientali e politiche che non riconoscono frontiere nazionali. Questi cambiamenti ci obbligano ad assumere nuovi impegni. Dobbiamo trovare nuove strade per comprendere la nostra situazione in un contesto planetario. Dobbiamo radunare gli strumenti etici e sociali di cui avremo bisogno per vivere pacificamente gli uni con gli altri, attraverso un modello sostenibile che riconosca l’interdipendenza globale e che lasci posto alla forza delle nostre comuni rivendicazioni sulla terra, la cui stessa esistenza è messa a repentaglio. È la nostra umanità a essere in gioco. Le sofferenze nate da questo sistema distruttivo, inerentemente concepito per sfruttare, hanno trovato una voce ed un viso non nel governo, ma nella creatività culturale. Un urgente dibattito riguardo al futuro del nostro pianeta è portato avanti dagli artisti, anziché da politici, giornalisti e accademici. Ogni giorno gli spazi culturali – non solo musei e gallerie – sono i luoghi dove nuove pratiche immaginative vengono acquisite, affermate e ridefinite. Nella preziosa e accogliente aura dell’arte si possono ritrovare i piaceri dell’esposizione alla differenza. Questo contatto con l’alterità non significa neces-
sariamente privazione e pericolo, anche in circostanze in cui si pensa che la sicurezza derivi dall’assoluta uguaglianza. Solo quando ci saremo liberati dall’atteggiamento che considera esotica la differenza etnica e razzializzata, potremo accettare l’ordinarietà della pluralità. Questo contatto emancipatorio aiuterà, fiduciosamente, a coltivare virtù cosmopolite come l’attenzione verso l’altro, la profondità di visione e l’equità. In seguito al riconoscimento dello genocidio nazista come evento epocale, gli artisti iniziarono a domandarsi quali varianti di pratica creativa potessero costituire una risposta appropriata al carattere e all’entità di questi orrori. Essi lottarono per rispondere alle domande etiche che erano imposte dal dovere di impedire il ritorno dell’omicidio di massa e dei crimini contro l’umanità ad esso legati. Questi problemi, e le varie risposte che furono offerte a metà Novecento, ridefinirono i confini di una cultura europea che aveva bisogno di riparazione. I dilemmi etici ed estetici coinvolti generarono uno scontro tra idee che fu prontamente identificato come parte di un più ampio problema morale, filosofico e politico. Essi erano collegati a dibattiti relativi alla teodicea, alla complicità della civilizzazione europea con razzismo e fascismo, al ruolo della tecnologia e della svilita ragione strumentale, all’opportunità della poesia lirica – tutti dibattiti riguardanti la legittimità e l’instabilità della cultura occidentale. All’ombra del trauma e della catastrofe, della testimonianza dei superstiti e della memoria contestata, l’arte dovette essere recuperata e creata di nuovo. Nel
vazioni furono combinate per assicurare che l’eredità dell’umanesimo e la categoria di ciò che è umano rimanessero aperte alle riflessioni in Europa. Ciò nonostante, la sanguinosa storia del dominio coloniale e delle amare guerre di decolonizzazione che ne seguirono non furono mai interiorizzate con la stessa profondità. Gli esercizi riflessivi dell’Europa negli anni ’50 erano certamente animati da buoni intenti, ma si incepparono ancor prima di scorgere l’orizzonte di un concreto impegno cosmopolita finalizzato a comprendere la storia del periodo nazista nel contesto dei precedenti incontri con le popolazioni che l’Europa ha conquistato, venduto, sfruttato e, qualche volta, cercato di estirpare. La continuità storica tra i racconti di sofferenza fu ignorata e allontanata. Il palese significato umano di quei terribili eventi fu ugualmente difficile da afferrare. Ma l’affinità tra le due estese fasi di terrore, una nella temperata Europa, l’altra nelle torride colonie, ha acquisito un’importanza fondamentale nel nostro periodo postcoloniale. Forse l’Europa non può ricordare la sua storia coloniale e imperiale senza essere sopraffatta dagli aspetti eccessivamente dolorosi e imbarazzanti riguardo a se stessa e all’ineguale sviluppo della sua civilizzazione. Le guerre coloniali non facevano alcuna distinzione tra civili e soldati. Le convezioni di Ginevra non furono applicate, e armi di distruzione di massa potevano essere utilizzate contro popolazioni primitive senza molte obiezioni. Carlos Vergara, Rio Branco Carnival series, 1972/76 www.carlosvergara.art.br
“Un urgente dibattito riguardo al futuro del nostro pianeta è portato avanti dagli artisti, anziché da politici, giornalisti e accademici.” romanzo, in forme forse redentive, avrebbe contribuito ad una riveduta definizione di ciò che l’Europa rappresentava, e di cosa sarebbe divenuta in futuro. Solo l’arte poteva restituire all’Europa l’umanità dalla quale era stata alienata. La reazione al fascismo negli anni successivi al 1945 incoraggiò l’emergere di un nuovo linguaggio morale fondato sull’idea dei diritti universali dell’uomo. Queste inno-
Joan M. Kelly, Throw the Lilly Under the Couch, 175 x 114 cm, Oil on canvas, 2008
La cultura occidentale rimane disorientata dalle fastidiose notizie che raccontano come le sue aspirazioni civilizzatrici furono compromesse su vasta scala. A peggiorare il tutto, i popoli postcoloniali iniziarono ad apparire entro le fortificazioni dell’Europa. La loro presenza rivelò l’incapacità dell’Europa, proprio come profetizzato molto tempo fa da Aimé Césaire, di risolvere le due grandi difficoltà connesse tra loro che traggono origine dalla sua storia moderna: il problema coloniale e il problema della gerarchia di classe. Chi era venuto dalle colonie a ripulire e a rinvigorire l’Europa successivamente alla guerra anti-nazista, si è trovato gradualmente limitato e privato dei propri diritti di cittadinanza. Rifugiati, richiedenti asilo, indesiderati residenti permanenti senza documenti, compongono oggi una nuova casta di esseri tra gli umani che difficilmente hanno accesso a quei benefici dei diritti umani proclamati a gran voce. Il varco verso il riconoscimento e l’appartenenza viene bloccato con fermezza, nonostante quelle popolazioni si trovino effettivamente qui. Non solo sperimentano razzismo e xenofobia, ma una logica di simultanea esclusione ed inclusione che li confina ad una vita al crepuscolo dell’assenza di diritti. L’arte contemporanea cosmopolita come quella di Jaar ha offerto una risposta terapeutica di cui c’era bisogno. Per prima cosa, quest’arte di opposizioni afferma che non è più possibile difendere l’idea che attribuisce allo sviluppo europeo
un’aura di unicità e preziosità. In secondo luogo, suggerisce che la vecchia visione nella quale l’Africa era esiliata dalla storia e priva di storicità si è sciupata ancor prima delle sfide postcoloniali che puntano l’attenzione su simultaneità e responsabilità. Infine, dichiara che gli abitanti delle tristi cittadelle dello sviluppo eccessivo devono riconoscere che il loro destini sono connessi alle vite delle popolazioni del Sud globale, la cui miseria e mancanza di sicurezza condizionano l’abbondanza e la tranquillità che seguono alla scarsità. Questa focalizzazione sull’interconnessione non dà origine ad un’altra sceneggiatura manichea. Segmenti di quel Sud disperato si trovano ora all’interno del Nord e viceversa. Il mondo in cui ci troviamo non è più in bianco e nero. In qualche modo, il Nord e il Sud, i mondi eccessivamente sviluppati, in via di sviluppo e a sviluppo inibito, devono essere resi parte dello stesso presente. Vivere in modo sostenibile e ridurre al minimo i conflitti significa essere pronti ad essere responsabili gli uni verso gli altri. Jaar è all’altezza di questa sfida e le sue opere sono un esempio di ciò che si potrebbe definire un modo di stare al mondo responsabile. Il suo lavoro si fonda su una critica dell’indifferenza nei confronti della sofferenza altrui, che si trova istituzionalizzata nei paesi eccessivamente sviluppati. Non affronta la sofferenza come se fosse esclusiva proprietà – culturale o esperienziale – delle sue vittime. Coraggiosamente, si assume
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Carlos Vergara, Cacique de Ramos
la responsabilità di caricare il peso di queste ingiustizie sulle sue spalle e ci invita a fare altrettanto. La sua ostilità verso l’indifferenza istituzionalizzata è abbastanza profonda da invitare ad un audace ritorno alla scomoda questione della comune umanità. Non si tratta di una replica del vecchio cosmopolitismo basato su un’ospitalità allargata. Gli stati nazionali sono in piena emorragia. Fanno colare, l’uno nell’altro, persone, idee, tecnologie e risorse. Impegnarsi in una sana ridiscussione della nozione di comune umanità potrebbe aiutare a stabilizzare questa situazione. Ma può avere successo solo se condotta in esplicita opposizione alle gerarchie razziali, allo stesso concetto di “civilizzazione” e allo sfruttamento neo-imperiale. Da qualche tempo, i progetti di Jaar su tre continenti si sforzano perché l’Asia, l’Africa e la prima colonia europea, l’America Latina, entrino nell’immagine ufficiale del mondo. Non solo ha messo sotto accusa la subdola ineguaglianza della copertura mediatica ufficiale e ha sfidato la sua geografia implicita. È andato oltre le questioni dell’omissione e dell’inclusione riparatrice, verso un tipo di ricerca completamente diversa. Questo aspetto del suo lavoro fa riferimento ai rapporti di potere che derivano dal controllo delle im-
magini e dalla loro tumultuosa e contestata ricezione da parte di spettatori ansiosi, che vogliono sapere come reagire alle cose terribili che vedono, ma non sanno cosa fare. Nella loro ricerca di integrità etica, non sono aiutati da una cultura mediatica e un atteggiamento consumista che promuovono la collusione e danno dignità a una cultura dell’indifferenza, fatale sia per i suoi soggetti degradati, sia per i suoi destinatari disorientati. Le opere di Jaar tornano a questi temi fondamentali, al controllo delle immagini e a come rispondere onestamente a richieste di informazioni disturbanti ed impegnative, in situazioni impossibili. Ha sviluppato un commento obliquo ed amaro su questi aspetti del potere post- e neo-coloniale, interrogandosi apertamente su quale sia la responsabilità degli artisti e indagando la difficile condizione di chi, in modo intenzionalmente innocente, raccoglie e trasmette informazione. Un fotografo affronta e cattura ciò che, all’inizio, sembra non essere altro che un altro orrore sublime che sfida tutte le tecniche di rappresentazione. Un momento congelato digitalmente entra nel mercato delle immagini con un nuovo valore, nelle economie politiche e morali dei nostri tempi. Inaspettatamente, acquisisce
una posizione nel mondo quotidiano dell’informazione-spettacolo. Ma Jaar mostra quanto fosse fuorviante il giudizio iniziale, che considerava ineffabili quegli orrori. Esorta a riesaminare le regole e i codici che governano il riconoscimento e la rappresentazione degli Altri, la cui presenza rafforza i confini che ci circondano. La loro apparizione nei nostri panorami mediatici e sui nostri schermi non si dovrebbe ridurre a un’alternativa tra banalizzazione e tradimento. Jaar suggerisce che l’artista si potrebbe sforzare di assimilare e umanizzare questi volti senza voce, in modo sia onesto che autentico. Per raggiungere questo difficile equilibrio è necessario spezzare la contrapposizione vittima / colpevole ed aggiungere a questi ruoli limitati un più ampio spettro di possibilità: il rinnegatore, il terzo leso, il testimone e forse, in certe circostanze, persino il salvatore. Quest’espansione inventiva richiede uno sforzo etico e non rimane a lungo responsabilità unica dell’artista. Nelle mani di Jaar, si apre lentamente a domandarsi, in modo necessariamente doloroso, dove si collochino testimoni e spettatori in relazione agli eventi traumatici e deprimenti che compongono l’agenda mediatica globale che registra gli sconvolgimenti commerciali e politici del nostro pianeta. La tra-
gedia del Rwanda, di cui Jaar si è occupato a fondo, rimase fuori da quel programma equivoco, per molte delle ragioni descritte in precedenza. Le nuvole di passaggio su un luogo di memoria divennero un segno passeggero non solo di uno spazio di morte ma dell’enigma ambivalente dell’onesto shock e della vergogna umana. La crescente diseguaglianza tra il mondo eccessivamente sviluppato e il resto del mondo minaccia di compromettere quel terreno su cui si dovrebbe costruire una rinnovata comprensione della comune umanità. Altre espressioni profondamente scomode, come “responsabilità” e “rendere conto”, aiutano a chiarire come Jaar si impegni umilmente a rendere l’umanità degli Altri, di quelle persone che sono rimaste escluse dalle promesse e dalle patologie dello sviluppo eccessivo. Egli propone gli strumenti di media alternativi che potrebbero connettere la loro vita quotidiana alla nostra. Pseudo-notizie filtrate ci arrivano in continuazione dai fronti di guerra. I media sono saturati dai prodotti strategici di un fiorente sistema di pubbliche relazioni. In questo processo, la politica e la cultura popolare hanno acquisito un ritmo inesorabile, che non porta ad affrontare apertamente la sofferenza, vic-
ina o remota che sia. Jaar applica le stesse tattiche umanizzanti ovunque si trovi. Come punto di partenza, c’è sempre il rifiuto di farsi complice dei modelli di visibilità esistenti. Non ti mostrerà né il senzatetto di Montreal, né gli ossari del Rwanda. Ma la presenza di entrambi è pubblicamente segnalata, annunciata in altri modi più impegnativi, rompendo la polarità tra chi decide di comunicare l’orrore e la sofferenza in modi che non saranno mai sufficienti, e chi rifiuta questo compito, scegliendo invece di scioccare. Questo dilemma modernista è rimesso in scena ripetutamente, ma ora è accompagnato da un caratteristico impegno a lavorare attraverso i vincoli del passato coloniale. È questa risoluzione che permette di rompere l’incantesimo malinconico che spinge l’Europa a desiderare un ritorno a quella grandezza svanita con la fine del prestigio coloniale. Ed è così che Jaar estende le famosa esortazione di Fanon a chi fu talvolta beneficiario della dominazione coloniale: “svegliati, indossa il cappello del pensiero e smetti di giocare il gioco irresponsabile della bella addormentata”. Ma in questo caso non ci sono baci. Saranno bagliori di luce e fuoco a indurre quel risveglio tardivo. Paul Gilroy insegna alla London School of Economics
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Carnival series, 1972/76 www.carlosvergara.art.br
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Guerra, fotogiornalismo e fotografia artistica Una conversazione sul ruolo del fotografo in situazioni di conflitto, tra l’impossibilità di rappresentare la guerra e il rischio di collusione.
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di forza militare, stoici volti di guerrieri pieni di esperienza, e immagini poetiche di soldati in quadretti pittoreschi, ad esempio ripresi sullo sfondo di un tramonto. Ad un certo punto è diventato chiaro che la funzione critica della stampa e il suo essenziale servizio alla democrazia sono minati alla base. La profonda sfida alla visione istituzionale della guerra attuata dai media durante la Guerra del Vietnam, attraverso la produzione di un immaginario critico coerente, è qualcosa che oggi sembra impossibile; in molti ora si chiedono se il fotogiornalismo non sia divenuto istituzionalmente complice della guerra. Forse le immagini scattate dai fotogiornalisti al seguito delle truppe, confinati nelle unità militari a cui sono assegnati, non sono così diverse dalla propaganda realizzata dai fotografi militari; forse persino il lavoro dei fotogiornalisti indipendenti, mostrando il tremen-
Londra, Paradise Row Gallery
JS: Ci potete dire come siete arrivati a realizzare le straordinarie opere presentate in questa mostra?
Julian Stallabrass
a “Guerra al Terrore”, che dura ormai da anni, ha messo in luce il ruolo dei media in periodo di guerra, i limiti di una critica accettabile e pubblicabile, e il successo conseguito dalle macchine di propaganda statali e militari nel produrre un’immagine pulita ed eroica dei conflitti. Le immagini fotografiche delle guerre in Iraq e Afghanistan pubblicate dai giornali hanno spesso contribuito a rafforzare questa rappresentazione, mostrando spettacolari dispiegamenti
Julian Stallabrass, Oliver Chanarin e Adam Broomberg in conversazione
do potere distruttivo dell’esercito statunitense, finisce per fare il gioco della propaganda, delle cosiddette “unità per le operazioni psicologiche”, nel presentare con tanta chiarezza quale sia il destino che attende coloro che osano resistere. Nella conversazione che segue ho discusso di questi argomenti con gli artisti Adam Broomberg e Oliver Chanarin, in occasione della loro mostra The Day Nobody Died alla Paradise Row Gallery di Londra. I lavori esposti, realizzati durante
una missione al seguito delle forze inglesi in Afghanistan, sono stati realizzati portando lunghi pezzi di carta fotografica nella zona di guerra ed esponendoli alla luce, senza usare una macchina fotografica. Ne risultavano delle strisce colorate, le tracce della luce di un luogo specifico, accompagnate da didascalie che riportavano uno degli eventi di cronaca del giorno in cui erano state esposte. A fare da accompagnamento alle opere, Broomberg e Chanarin avevano realizzato un video che mostrava il tragitto della loro scatola di carta fotografica da Londra all’area del conflitto afghano, trasportata dagli artisti e dai soldati.
OC: Tutto è cominciato molto prima di andare in Afghanistan. Adam ed io eravamo stati invitati a visitare il centro di riabilitazione militare di Headley Court, in Inghilterra, per fotografare e intervistare i soldati che erano rimasti amputati in Afghanistan o in Iraq. Lì scoprimmo che ora i mutilati di guerra in Gran Bretagna sono molto più numerosi persino rispetto alla Prima Guerra Mondiale, a causa dell’avanzamento della medicina militare, che ha aumentato le possibilità di sopravvivenza. Incontrammo molti soldati, alcuni di soli 19 anni,
rientrati dall’Afghanistan da una o due settimane: alcuni avevano perso un braccio, altri entrambe le gambe. AB: Ad interessarci non era solo la ferita fisica, ma anche quella psicologica; questo tipo di conflitto è simile a quello della Prima Guerra Mondiale anche per la natura particolarmente passiva della ferita o della morte subita dai soldati. Durante la Prima Guerra Mondiale ci fu uno studio che confrontava lo stato psicologico dei piloti di guerra con quello dei soldati bloccati in trincea. I piloti, pur correndo un rischio di morte molto più alto, rimanevano emotivamente più intatti, perché, durante il conflitto, avevano la sensazione di potere controllare meglio la situazione. Al contrario, i soldati bloccati nelle trincee sperimentavano un’attesa passiva che portava a un tipo particolare di
trauma. È proprio il tipo di shock che ci siamo trovati di fronte a Headley Court. Come sai, abbiamo passato gli ultimi anni viaggiando in diverse zone di conflitto, guidati dalla costante preoccupazione di come rappresentare il trauma e di come la rappresentazione possa divenire complice della guerra. JS: Pensate di usare quelle immagini degli amputati? OC:Abbiamo capito immediatamente che quelle immagini non riuscivano e mai sarebbero riuscite a rappresentare il trauma. Erano impossibilitate a rappresentare quell’esperienza.
JS: La vostra risposta, qualche anno fa, sarebbe stata di intervistarli, e di accompagnare le fotografie con degli estratti dalle interviste, come avevate fatto ad esempio in Mr. Mkhize’s Portrait. Anche in quel libro c’erano persone che avevo subito trattamenti disumani. Ora avete l’impressione che quella risposta fosse inadeguata? OC: È interessante paragonare Mr. Mkhize con questo lavoro più recente. Ci sono alcune preoccupazioni simili, come il ruolo della fotografia come prova, le relazioni di potere che si instaurano tra noi e i nostri soggetti, la rappresentazione del trauma e soprattutto la gestione dell’autorità. Il lavoro di Mr. Mkhize’s Portrait era stato commissionato dalla Corte Costituzionale del Sudafrica; una relazione che si rivelò estremamente problematica. La nostra strategia di
allora, la presentazione di ritratti ed interviste, ora ci sembra naïf. Nonostante tutto, poi, in quell’occasione eravamo abbastanza liberi, rispetto all’Afghanistan. Come giornalisti al seguito delle truppe dovevamo sottostare a centinaia di restrizioni. Ci proibivano di fotografare soldati feriti, o persino i risultati del fuoco nemico. Non potevamo nemmeno scattare fotografie all’interno dell’obitorio, negli ospedali, o nelle tende degli ufficiali. Di fatto non avevamo il permesso di fotografare nulla che potesse sembrare un segno di guerra. JS: Potete parlarci di questa esperienza, come fotografi al seguito delle truppe? Quali erano le aspettative dell’esercito? Pensate di averle soddisfatte? AB: Negli ultimi anni Olly ed io abbiamo dovuto mentire molto. Ad esempio, prima di riuscire a conquistare la
fiducia delle forze di difesa israeliane passarono 8 mesi, in cui telefonavo almeno una volta alla settimana, aiutandomi con il poco ebraico che conosco. Dopo 8 mesi di negoziazioni, ottenemmo di entrare per un’ora e mezza a Chicago, un finto villaggio arabo costruito nel mezzo del deserto del Negev per l’addestramento militare. Dato che siamo ebrei, si aspettavano che fossimo solidali nei loro confronti. Abbiamo affrontato il progetto in Afghanistan un po’ allo stesso modo: non siamo stati completamente sinceri riguardo ai nostri reali scopi. OC: È stato affascinante osservare da vicino come funziona il meccanismo dell’informazione di guerra. Nonostante ci trovassimo lì, sul campo, nel mezzo di una guerra, comunque gli eventi ci arrivavano come titoli di
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giornali lontani, e questo iato era surreale. Ad esempio, la notizia del centesimo morto di guerra non ci arrivò attraverso l’esercito, ma da un giornalista del Sun, che lo aveva saputo dal suo editore di Londra. Da dove veniva quest’informazione? Fu sconvolgente scoprire che i giornali hanno la loro rete di spionaggio nell’esercito, un network di spie sempre impegnato a raccogliere informazioni. Se pensiamo a una scala graduale di testimoni, con il soldato a un estremo e il giornalista all’altro, il fotografo da combattimento si colloca in un’ambigua zona intermedia. È una questione che solleva una serie di domande riguardo al ruolo del giornalista al seguito delle truppe. Per noi è diventato chiaro che essere un giornalista al seguito delle truppe, inevitabilmente, richiede più collusione che collaborazione. Lavori insieme all’esercito per creare immagini. La strategia che abbiamo adottato – non mostrare nulla – ci sembrava il modo più sovversivo di gestire la cosa. JS: Una delle mostre della Biennale della fotografia di Brighton del 2008 esponeva molte fotografie di questo tipo, dell’esercito americano. Sono affascinanti perché molte di loro rivelano cose che non ti aspetteresti da parte dell’esercito. Ad esempio c’è un’immagine straordinaria che mostra delle truppe americane in una casa occupata, fotografate attraverso uno
OC: Quest’anno abbiamo fatto parte della giuria del World Press Photo Awards, che è soprattutto un premio per fotogiornalisti, che premia immagini di cronaca. In quell’occasione abbiamo passato in rassegna migliaia di immagini di guerra. Ce n’era una particolarmente interessante, che ha vinto il primo premio nella categoria “Spot News”, scattata durante l’assassinio di Benazir Bhutto da un giornalista che era vicinissimo alla scena dell’esplosione, a qualche metro dalla detonazione. Tutto avvenne a una tale velocità che non riuscì a mettere a fuoco, e la macchina era di traverso. Quella fotografia non è veramente una fotografia – è più che altro una macchia di colore e luce, non vi si può distinguere molto. Era interessante perché era soprattutto una prova del fatto che il testimone era stato lì. A quel punto abbiamo cominciato a interrogarci su che cosa costituisca una foto giornalistica. Il nostro progetto non intende opporsi al fotogiornalismo in quanto tale. Non stiamo cercando di minare alla base il lavoro dei fotogiornalisti che vanno in zone di guerra e che rischiano le loro vite cercando di ottenere immagini di guerra. Stiamo solo chiedendo ai fotografi in quelle situazioni di riflettere un po’ sul tipo di immagini che stanno producendo e su quali regole estetiche stanno seguendo.
JS: Un altro aspetto che va affrontato è il ruolo dell’osservatore. L’immagine di Bhutto presenta uno spettacolo di luce e colore in cui ci si può proiettare grazie alla didascalia. Il vostro lavoro sembra simile, anche voi fornite una didascalia; ma come pensate che funzioni questa proiezione? È qualcosa che volete incoraggiare o frustrare? Cosa vi aspettate dalle persone che escono dalla vostra mostra? Visivamente, le vostre immagini sono curiose, ricordano un po’ i quadri astratti di Morris Lewis. I colori suggeriscono impressioni di cielo, ma anche di sangue. Dove volete collocare il vostro osservatore? AB: Mia madre si è aggirata tra le nostre fotografie passando da: “Ooh, questo sembra così violento” a “questo è davvero raffinato”. Affrontiamo la realtà: queste immagini mostrano le tracce che la luce lascia sulla carta. Naturalmente giochiamo sul concetto pittorialista e sublime di bellezza, sul fatto che le nostre immagini possano essere percepite come meravigliose o violente perché il rosso denota il sangue e quindi violenza. Ma per noi
“Abbiamo capito immediatamente che quelle immagini non riuscivano e mai sarebbero riuscite a rappresentare il trauma.”
AB: Dobbiamo anche considerare
dell’osservazione stessa. Di privare l’osservatore dell’effetto catartico che deriva dal guardare e subito ignorare immagini di trauma umano. AB: Comunque le nostre immagini non sono completamente inutili. Non sono utili perché sono belle, o utili come tele nere in cui proiettare se stessi. Sono utili perché la sofferenza richiede un testimone. Portare con noi un pezzo di carta che è stato proprio lì; portare indietro un pezzo di carta, non una fotografia ma proprio quel pezzo di carta, ed appenderlo alla parete, è un po’ come portare indietro una forma viscerale di prova, più ancora di quanto quell’immagine di Bhutto costituisca una prova. JS: Forse potreste approfondire questo aspetto. La discussione con le persone all’apertura della vostra mostra è stata un’esperienza interessante, perché alcuni erano stati avvinti dalle immagini e intrigati dalla combinazione di testo e immagine, mentre altri erano piuttosto arrabbiati. Una donna ha descritto il vostro lavoro come un “concettismo”, un’espressione interessante, mi pare, perché non implica necessariamente una condanna. Lo si può prendere, letteralmente, come un gioco di parole e immagini, forse un’allegoria. Le reazioni sono state molto diverse tra loro, perciò mi interesserebbe sapere perché pensate che il carattere di prova, o la presenza
ismo, il funzionamento della guerra. AB: Penso che la rabbia sia una risposta importante. Perché le immagini sui giornali non fanno arrabbiare? Guardando un’immagine di guerra, il lettore può passare attraverso diverse emozioni, fino alla totale repulsione. Ma la repulsione lo farebbe smettere di comprare quel giornale: perciò naturalmente i redattori non pubblicheranno mai immagini che mostrino i reali effetti della guerra sui civili. Tutto ciò che mostrano sono immagini inoffensive. C’è un accordo tra redattori e inserzionisti che permette solo certi tipi di immagini – quelle che non suscitano rabbia. JS: L’elemento di performance presente in tutto il vostro lavoro porta a riflettere non solo sulle immagini ma su quello che volevate fare attraverso le riprese video. Da un lato le immagini della mostra possono essere viste proiettandovi uno spettacolo sublime di violenza e distruzione, o persino del raccapricciante procedere della guerra in Afghanistan e di quello che è accaduto negli ultimi anni, ma, d’altro lato, il video mette tutto in una luce diversa e vi presenta quasi come come dei burloni surrealisti. Potreste parlare del contrasto tra questi due aspetti? AB: Abbiamo lavorato su questo aspetto in termini Brechtiani, ispirandoci al modo in cui il suo teatro epico era basato su una serie di interruzioni. La performance era oscurata fino al punto da rendere evidente il meccanismo, il funzionamento che vi stava dietro. Un attore recita la sua Images from the film shot by Oliver Chanarin and Adam Broomberg to accompany and document their project.
AB: Ci siamo sempre aggirati ai bordi del conflitto. Andammo in Iraq durante la guerra, ma non al centro del combattimento, e lo stesso è avvenuto con il Rwanda, o con il Darfur. Abbiamo sentito che era arrivato il momento di collocarci al centro e di esaminare il prodursi della rappresentazione in quello spazio.
la relazione tra il fotografo, il photoeditor e il mercato. Forse qualche responsabilità va attribuita al mercato. Il lavoro di Thomas Hirschhorn, un altro artista incluso nella Biennale di Brighton del 2008, è uno striscione lungo 5 metri, formato da un collage di immagini che mostrano gli effetti delle armi moderne sul corpo umano. La cosa più raccapricciante che si possa immaginare. Secondo me il modo migliore di fare un lavoro radicale oggi è un attacco in due direzioni. La prima è quella scelta da Hirschhorn: presentare immagini che i media non sono preparati a mostrare, mostrare la realtà della guerra e i suoi effetti fisici sul corpo. L’altra direzione è quella che abbiamo tentato di prendere noi: sottrarre immagini. Il che significa colludere, ma esporre quel processo di collusione.
la cosa più importante del lavoro non è tanto ciò che l’osservatore vede nei rotoli di carta, ma piuttosto la sua reazione al film. Non credo che mostreremmo mai uno di questi rotoli senza il film che descrive il processo di produzione: questa performance è la cosa fondamentale. Non mi interessa qual è l’aspetto della carta. OC: Immagini di altre persone che soffrono hanno l’obiettivo di suscitare un senso di vergogna. È proprio ciò che vogliamo mettere in discussione nel nostro progetto... Qual è l’effetto di quelle immagini, oltre ad una catarsi di qualche tipo? Guardare immagini di guerra ci permette di aggirare ogni appello all’azione immediata. È ciò che accade ogni volta che sfogliamo un giornale. Uno degli obiettivi del nostro lavoro è di provare a caricare l’osservatore del fardello
della carta in quel determinato luogo sia necessaria o interessante. Avreste potuto esporre la carta qui a Hoxton e ne sapremmo quanto prima. OC: Penso che sia utile tornare all’esperienza di essere lì e di portare in giro quella scatola con l’esercito inglese. Certo può venire in mente la parola “concettismo”. C’era una guerra, soldati che rischiavano la vita, e noi chiedevamo loro di portare da un posto all’altro questa pesante scatola di cartone, mentre noi li filmavamo. C’è qualcosa di sovversivo in tutto questo. C’è stato un articolo sul Times riguardo al nostro progetto. Quando la giornalista arrivò per l’intervista era molto arrabbiata con noi per avere coinvolto i soldati in questa assurda performance, per avere cooptato l’esercito. Ma il viaggio della scatola mostra il meccan-
parte, ma allo stesso tempo esplicita molto chiaramente la sua natura di attore. Nel nostro caso, il fatto che la scatola della carta fotografica appaia in ogni scena mina lo spettacolo alla sua base. Lo svolgersi del conflitto è costantemente interrotto da questo testimone comico e muto che blocca letteralmente la vista durante tutto il viaggio. OC: La scatola agisce per conto dello spettatore, lo porta in questo viaggio e gli mostra questa guerra che non vedrebbe mai in un contesto giornalistico. Vedere il meccanismo significa vedere qualcosa di estremamente banale, il modo in cui l’intera macchina è costruita per permettere alla guerra di funzionare. Julian Stallabrass, critico e curatore, insegna al Courtauld Institute of Art di Londra
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specchio appannato. È un’immagine molto sinistra, e si può scaricare dal sito internet dell’esercito americano. Più tipicamente, queste fotografie sono come ci si aspetta, molto più generiche: molte immagini di soldati statunitensi con bambini iracheni, o mentre giocano a calcio. Comunque, non riesco a capire come siete passati dalle interviste ai mutilati, che si trovavano in uno stato profondamente traumatico e passivo, alla decisione di calarvi in una situazione simile.
il mito di EUROPA
giugno/luglio 09
ECOESTETICA: ARTE OLTRE L’ARTE Manifesto per il 21˚ Secolo rasheed araeen
L
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’arte oggi si trova intrappolata nell’idea superficiale di “libertà individuale di espressione”, che produce solamente sensazionalismo e banali scandali mediatici, allargando ulteriormente la separazione tra arte e vita. L’arte oggi si mette in scena puramente come merce. L’enorme successo dell’artista al giorno d’oggi ha gonfiato il suo ego narcisista, convertendolo, o convertendola, in celebrità capace di intrattenere il pubblico, ma priva di qualsiasi potere trasformativo. Tutto questo è dovuto al fallimento delle avanguardie storiche: la capacità critica dell’avanguardia è stata espropriata da quelle stesse forze che essa voleva sfidare e cambiare. Il potenziale di intervenire nella vita e trasformarla, proprio dell’avanguardia, è ancora presente. Ma deve liberarsi sia dall’ego dell’artista, sia dall’istituzione artistica borghese. L’arte deve andare oltre la creazione di oggetti isolati che vengono mostrati in musei e/o venduti come merce preziosa sul mercato. Solo allora potrà accedere al mondo della vita di tutti i giorni e contribuire alla sua energia
Ratcliffe on Soar 3 from the series: “Light After Dark” © Toby Smith www.shootunit.com
collettiva. La lotta dell’avanguardia è stata storicamente quella di integrare arte e vita, in modo da aprire percorsi attraverso i quali i processi creativi individuali potessero inserirsi nei processi dinamici della vita stessa. Ma fu solo con il movimento “Land art” dei tardi anni ‘60 e primi ‘70 che emerse, benché paradossalmente, un metodo per abbandonare la produzione di oggetti in favore di un’arte di concetti. La terra è sempre stata oggetto dello sguardo dell’artista, ma in questo caso lo sguardo nonproduceva dipinti paesaggistici. Al contrario, fu la stessa concezione della terra come arte a diventare un’opera d’arte. Si interveniva sulla terra, trasformandola, ma lasciando che continuasse ad essere parte della terra, come un oggetto stabile o in continua trasformazione. Ma, ancora, quello che sarebbe dovuto divenire parte del processo vivente finii in musei come opere d’arte fotografica, come un oggetto dello sguardo. Dieci anni più tardi, Joseph Beuys provò a risolvere questo difficile paradosso suggerendo che la sua opera di rimboschimento (Kassel, 1982) potesse divenire parte del lavoro quotidiano delle persone. Offriva un modello sociale per il potere trasformativo dell’arte, ma la sua proposta di piantare alberi non
riuscì ad andare oltre all’idea di arte legittimata e avvolta dall’istituzione artistica borghese. Nonostante queste idee radicali dell’avanguardia siano fallite, le idee stesse sono ancora presenti, e possono essere sottratte ai loro dogmatismi istituzionali. Queste idee, certo, sono state confiscate e il loro autentico significato revocato; sono state manipolate fino a diventare oggetti istituzionalmente controllabili, cristallizzate nelle loro temporalità. Ma le idee, come la conoscenza, non potranno mai essere congelate, potranno sempre essere recuperate dalla storia e, a partire da un nuovo contesto, plasmate per avanzare, all’interno di nuove dinamiche temporali e spaziali. Ma per conseguire questo ruolo l’arte deve andare oltre e integrarsi alla lotta collettiva della vita contemporanea, riscoprendo la sua vera funzione sociale. Un pezzo di terra può essere concepito come un processo dinamico continuo ed autonomo, caratterizzato da un movimento generato dall’interno, che legittima se stesso. Questa azione non è quella di un individuo, ma è l’opera collettiva di coloro che lavorano la terra. E’ questo lavoro collettivo delle masse – e non della natura come percepito dagli artisti americani Smithson and Morris – che trasforma continu-
amente la terra, materializzando un agente che non è solo creativo nella produzione ma che postula, filosoficamente, un’ idea progressiva. Il fenomeno del cambiamento climatico può essere studiato dagli scienziati nelle loro torri d’avorio, ma la realtà delle sue disturbanti conseguenze è affrontata da ogni forma di vita sulla terra. La soluzione a questo problema non si trova tanto nelle teorie degli accademici, ma nella creatività produttiva delle stesse persone, e si può intensificare attraverso l’immaginazione artistica. Il mondo oggi ha bisogno di fiumi e laghi di acqua pulita, di fattorie collettive e di alberi piantati in tutto il mondo – qualcosa che iniziò in Kenya qualche anno prima della proposta di Beuys, grazie a Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace nel 2004. L’obiettivo dell’Ecoestetica è quello di riconciliare entrambe le visioni, in una coralità che colmi la separazione tra arte e vita. Sebbene sia estremamente importante proteggere le foreste tropicali esistenti, questo sforzo da solo non basta a ridurre l’effetto serra nell’atmosfera. È necessario piantare più alberi, che hanno bisogno di quantità enormi di acqua – un obiettivo che si può raggiungere concettualizzando il processo di desalinizzazione dell’acqua di mare come una costante, eterna opera
d’arte, con le sue proprie dinamiche e organizzazione. La creazione di impianti di desalinizzazione in tutto il mondo – che possono essere milioni – fornirebbe ingenti quantità di acqua. La desalinizzazione dell’acqua di mare concepita come arte è basata sul suo potenziale di alterare oggetti. Essa costituisce un complesso ciclo di continue trasformazioni dell’energia solare: quando portata a contatto con l’acqua, diventa vapore che mantiene funzionante l’impianto di desalinizzazione e produce acqua fresca, che a sua volta fertilizza la terra dando vita ad alberi e piante. Questo fenomeno avviene già in natura. Ma quando è ripetuto attraverso una combinazione tra arte, scienza e tecnologia, i suoi risultati rafforzano e ribadiscono l’autenticità del fenomeno naturale. L’arte deve liberarsi dal romanticismo del confronto anarchico, dalla prigione della facile ironia (Baudrillard) e dai regimi di rappresentazione (Rancière, Deleuze), in modo da sprigionare un movimento eterno, entro il processo naturale della vita, divenendo finalmente e autenticamente egualitaria. Rasheed Araeen e’ un artista e il fondatore di Third Text, storica rivista pioniera nell’introdurre il pubblico alla produzione artistica non occidentale