48a edizione Scivac Rimini - parte1

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Atti del

SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA

in collaborazione con

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Estratti relazioni Comunicazioni brevi

Rimini, 27-30 Maggio 2004 PALACONGRESSI DELLA RIVIERA DI RIMINI


48°SCIVAC 48° CONGRESSO NAZIONALE MULTISALA

Rimini, 27-30 Maggio 2004 PALACONGRESSI DELLA RIVIERA DI RIMINI

SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA

in collaborazione con

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Estratti relazioni Comunicazioni brevi Traduzione dei testi inglesi: Dr. Maurizio Garetto e Dr.ssa Tiziana Binelli


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li atti del Congresso Multisala SCIVAC 2004, oltre che di tutti i Congressi Multisala SCIVAC dal 1998 al 2003, sono presentati in formato PDF. Oltre a consentire la fedele riproduzione digitale della versione cartacea, questo formato offre la possibilità di inserire ipertesti in modo da rendere i documenti ricercabili e navigabili. La consultazione del CD richiede Acrobat Reader 3.0 o superiore installato sul computer. Nel CD è contenuto il file di installazione del programma per gli utenti che ne fossero sprovvisti (aprire la cartella ACROBAT e quindi quella MAC o WIN in base al proprio sistema operativo. Cliccare sul file di installazione e seguire le istruzioni fornite). Per iniziare la consultazione aprire il file menu.pdf. Si può accedere agli abstracts a partire dai segnalibri (a sinistra della finestra di Acrobat reader). Le frecce gialle consentono di visualizzare in sequenza i lavori di ciascun autore. È possibile eseguire una ricerca per parole chiave (TROVA) e stampare ogni sezione degli atti.

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R Macintosh PowerPC 160 MHz MacOS 8.1 64 Mb RAM CD-ROM 8x monitor 800x600 migliaia di colori

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PC Pentium 150 MHZ WIN 95/98 32 Mb Ram CD-ROM 8x monitor 800x600 migliaia di colori

Ideazione e realizzazione Enrico Febbo, Med Vet

© SCIVAC 2004. Tutti i diritti riservati.

La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor

Hill’s* Animal Health


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COMMISSIONI DIRETTIVO SCIVAC 2001-2003 SCIVAC BOARD OF DIRECTORS 2001-2003 ERMENEGILDO BARONI PIER MARIO PIGA MASSIMO BARONI MATTEO SPALLAROSSA CARLO DAMIANI CARLO DE FEO ROBERTO TOVINI

Presidente Presidente Senior Vice Presidente Segretario Tesoriere Consigliere Consigliere

COMITATO SCIENTIFICO CONGRESSUALE CONGRESS SCIENTIFIC COMMITTEE MARCO BERNARDINI, STEFANO BO, DAVIDE DE LORENZI, SERGIO FANFONI, EMILIO FELTRI, MARGHERITA GRACIS, ADOLFO GUANDALINI, UGO LOTTI, GIOVANNI MAJOLINO, CARLO MASSERDOTTI, CARLO MARIA MORTELLARO, PIERPAOLO MUSSA, ROBERTO ORSI, CLAUDIO PECCATI, PIER MARIO PIGA, ALESSANDRO PIRAS, GIORGIO ROMANELLI, ROBERTO SANTILLI, CORRADO SGARBI, MATTEO SPALLAROSSA, ROBERTO TOVINI, ANTONELLA VERCELLI, MASSIMO VIGNOLI

ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE ORGANIZING SECRETARIAT SCIVAC - Via Trecchi 20 - 26100 CREMONA (Italy) Tel: + 39 0372 403508 - Fax: +39 0372 457091

Coordinatore Congressuale FULVIO STANGA

Segreteria Congressuale Scientifica MONICA VILLA commscientifica@scivac.it

Segreteria Marketing FRANCESCA MANFREDI marketing@evsrl.it

Segreteria Iscrizioni PAOLA GAMBAROTTI info@scivac.it

ORGANIZZAZIONE ALBERGHIERA HOTEL RESERVATIONS Agenzia ADRIA CONGREX Viale Virgilio, 30 - 47838 Riccione (RN) - Italia Tel. 0541.691150 - Fax 0541.692232 - e-mail: riccione@adriacongrex.it


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CURRICULA VITAE DEI RELATORI RELATORI NON ITALIANI DALE BJORLING DVM, Ms, Dipl ACVS, Wisconsin-Madison, USA Il Dr. Bjorling si è laureato in medicina veterinaria (DVM) presso la University of Illinois nel 1978. Successivamente, ha portato a termine un periodo di internato a rotazione in medicina e chirurgia dei piccoli animali alla University of California, Davis nel periodo 1978-1979. Ha effettuato un periodo di preparazione in chirurgia dei piccoli animali presso la University of Georgia ed ha completato il periodo di residenza nel 1982. Sempre nel 1982, ha conseguito il MS degree in Physiology presso la University of Georgia. Dal 1982 al 1985 il Dr. Bjorling è stato membro del personale della facoltà dell’University of Georgia College of Veterinary Medicine. Nel 1985, è arrivato a disporre di tutti i requisiti per l’ammissione all’American College of Veterinary Surgeons. Nel 1985 è entrato a far parte del personale della University of Wisconsin, ed attualmente è Professor and Chair of the Department of Surgical Sciences presso la University of Wisconsin School of Veterinary Medicine. JORDI CAIRÓ VILAGRAN Med Vet, Girona (SP) Laureato in Veterinaria nell'Universidad Complutense de Madrid nell'anno 1976. Dottore in Veterinaria nell'Universidad Complutense de Madrid nell'anno 1986. Veterinario residente nella Escuela Superior Veterinaria di Toulouse (Francia). Attualmente esercita in qualità di veterinario nell'Hospital Veterinario Canis di Girona. DANNIS CHEW DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA Il Dr. Dennis Chew si è laureato nel 1972 presso il College of Veterinary Medicine della Michigan State University. Ha effettuato un periodo di internato di 1 anno presso il South Weymouth Veterinary Associates (Massachusetts) ed uno di 2 anni di residenza in medicina interna e nefrologia all’Animal Medical Center (NY, NY). Nel 1977 ha ottenuto il titolo di Diplomate of the American College of Veterinary Internal Medicine (Internal Medicine). Il Dr. Chew è stato veterinario assistente presso l’Ohio State University College of Veterinary Medicine Teaching Hospital dal 1975 e dal 1989 è diventato Full Professor in the Department of Clinical Sciences. La maggior parte del suo lavoro in ambito clinico e di ricerca e delle sue pubblicazioni riguarda l’urologia/nefrologia dei piccoli animali. Si interessa specialmente dei disordini del metabolismo del calcio (ipercalcemia idiopatica del gatto) del trattamento dell’iperparatiroidismo secondario renale, dell’insufficienza renale acuta, dei disordini delle basse vie urinarie del gatto (cistite idiopatica/interstiziale) e dell’endoscopia urinaria. SIGITAS CIZINAUSKAS Dr Med Vet, Dipl ECVN, Helsinki, Finlandia Nasce a Kaunas (Lituania) nel 1969. Nel 1995 si laurea in veterinaria e Farmacia presso l’Università di Brno (Repubblica Ceca). Lavora due anni presso una clinica veterinaria per piccoli animali a Praga e successivamente è resident in neurologia Animale presso l’Università di Berna. Dal 2000 al 2001 è istruttore clinico in Neurologia Animale sempre a Berna. Dal 2001 ad oggi è primario presso la clinica Neurologica dell’Università di Helsinki.

FABRICE CLERFEUILLE Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia Dopo aver ottenuto il PhD con un lavoro sul cane guida per ciechi, Fabrice Clerfeuille lavora da sette anni come associato in una clinica veterinaria nei pressi di Nantes. Nello stesso periodo ha completato un periodo di formazione universitaria in Scienze Economiche ottenendo un MBA in Economia, un MBA in Marketing e un PhD in Marketing. Con tali diplomi ha potuto diventare Professore di Marketing presso l’Università Economica di Nantes (Francia). Le due qualifiche in Medicina Veterinaria e in Scienze Economiche gli hanno consentito di lavorare nell’industria veterinaria in qualità di Consulente di Marketing. Ha inoltre creato la prima formazione di studenti universitari in tre delle quattro scuole veterinarie francesi, insegnando per dodici anni. Ha fondato nel 1990 il Gruppo Francese di Studio e Ricerca Economica, riconosciuto dall’Associazione Veterinaria Nazionale Francese, di cui è stato presidente dal 1994 al 1997. Attualmente è Professore di Marketing all’Università di Economia, Professore di Economia in scuole veterinarie, consulente marketing e direttore di una clinica veterinaria a Nantes. È autore di numerosi articoli riguardanti la professione veterinaria e ha presentato varie relazioni nel settore economico in Francia, Italia, Svezia, Portogallo, Danimarca e Regno Unito. Ha inoltre presenziato come relatore a Congressi sul Marketing in Argentina, Cuba e negli Stati Uniti. ALAIN FONTBONNE Dr Vét, MS, Dipl ECAR, Maisons-Alfort, Francia Alain Fontbonne si è laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Nantes (Francia occidentale) nel 1985, ed è entrato a far parte della Scuola Veterinaria di Alfort (Parigi) dove è stato studente laureato in medicina interna dei carnivori. Ha scelto di stilare la propria tesi di veterinaria nel campo della riproduzione, sul livello di glicerolo necessario per il congelamento dello sperma del cane. Dopo 7 mesi di esercizio della professione a tempo pieno in una clinica veterinaria vicino a Parigi, gli è stato richiesto dal kennel club di Francia di occuparsi della banca dello sperma canino di Alfort, dove ha lavorato fra il 1988 ed il 1993. Durante questo periodo, ha sviluppato in Francia nuove tecniche per gli allevatori di cani, come l’impiego della determinazione dei livelli di progesterone durante il periodo estrale, l’inseminazione artificiale con seme refrigerato o congelato e l’endocrinologia clinica, specialmente per gli animali con problemi di fertilità. Ha scritto molti articoli tecnici destinati ai veterinari francesi e due libri sulla riproduzione canina per gli allevatori. Ha anche conseguito un Master of Science sulla spermiazione nello sperma dei primati. Nel 1993 è diventato Docente Senior presso il Dipartimento di Riproduzione della Scuola Veterinaria di Lione, dove ha aperto un centro di ricerca sulla riproduzione e sull’accoppiamento del cane e del gatto e la seconda banca dello sperma canino in Francia. Nel 1999, il parlamento francese votò una nuova legge sui cani e sui gatti e ad Alain venne chiesto dal Ministero dell’Agricoltura di Francia di condurre uno studio nazionale e redigere un rapporto sulla riproduzione di queste due specie animali nel Paese. Lo scorso settembre è ritornato alla Scuola Veterinaria di Alfort. Attualmente è impegnato in una ricerca sulla maturazione e fecondazione in vitro degli oociti del cane, nel team di Sylvie Chastant. Alain Fontbonne è Vice-Presidente del gruppo francese di veterinari impegnati nel settore della riproduzione dei piccoli animali (GERES). Già Segretario Generale di questo gruppo, ha coordinato nel


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1992 a Parigi il primo convegno di veterinari europei che ha portato alla realizzazione della EVSSAR. Alain possiede una vecchia cagna islandese e 2 gatti. I suoi numerosi hobby comprendono la recitazione teatrale, i viaggi e le passeggiate. TONY GLAUS Dr Med Vet, Dipl ECVIM –CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera 1981-1986: Studi di Medicina Veterinaria, Università di Berna 1986-1991: Tesi di Laurea seguita da un periodo di residenza presso la Clinica dei Piccoli Animali, Università di Zurigo 1991-1994: Residenza in Small Animal Internal Medicine presso il Veterinary Teaching Hospital, University of Georgia, Athens GA, USA 1994: Diplomate of the American College of Veterinary Internal Medicine (Internal Medicine) 1994-1998: Professore assistente, Clinica di Medicina Interna dei Piccoli Animali, Università di Zurigo 1996: Diplomate of the European College of Veterinary Internal Medicine (Internal Medicine) 1999: Di ruolo, Direttore della Divisione di Cardiologia, Clinica di Medicina Interna dei Piccoli Animali, Università di Zurigo 2003: Diplomate of the European College of Veterinary Internal Medicine (Cardiology) CLAUDIA HOCHLEITHNER Dr Med Vet, Vienna, Austria Nata a Linz, in Austria, si laurea nel 1981 in Medicina Veterinaria presso l’Università di Vienna. Nel 1988 sposa Manfred Hochleinthner con il quale nel 1992 apre una Clinica Privata a Vienna (50% animali da compagnia, 50% animali esotici). Aree di interesse: Animali esotici, Ecografie. È stata relatrice in diversi paesi: Usa, Israele, Argentina, Australia, Costa Rica, Jamaica, Polonia, Slovenia e Austria. Interessi personali: Diving (PADI Instructor) e Underwater Video. BARBARA KASER-HOTZ Dr Med Vet, Dipl ACVR (Radiology and Radiation Oncology), Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera Laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università di Berna, 1984. Residenza in Radiologa presso la University of Pennsylvania and Colorado State University. Dal 1990, alla Università di Zurigo, Sviluppo della Radio-oncologia. Dal 2001 Professore di Radiologia e Radio-oncologia. ELLEN KIENZLE Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania Ellen Kienzle è Professore ordinario di nutrizione e dietetica veterinaria della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università Ludwig-Maximilians di Monaco (Germania). Si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Hannover nel 1982. Nello stesso anno ha ottenuto l’abilitazione all’esercizio della Professione. Nella stessa Università ha in seguito ottenuto il Dottorato di Ricerca. Prof. Kienzle ha pubblicato su argomenti quali il metabolismo dei carboidrati, la formulazione computerizzata della dieta, i fabbisogni nutritivi di gatti adulti, cani e cuccioli. Per la sua attività di ricerca, nel 1997, l’Università di Zurigo l’ha insignita del Walter-Frei-Prize. Prof. Kienzle è past-president e attuale membro dell’European Society of Veterinary and Comparative Nutrition (ESVCN) e presidente fondatore dell’European College of Veterinary and Comparative Nutrition. Inoltre, è attualmente coeditore del Journal of Animal Physiology and Animal Nutrition.

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LESLEY KING DVM, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Dipl ECVIM, Philadelphia, Pennsylvania, USA La Dr.ssa Lesley King si è laureata presso la Faculty of Veterinary Medicine, University College Dublin, Ireland, nel 1986. Dopo un anno come Veterinario Ippiatra a Dublino, la Dr.ssa King si è trasferita alla School of Veterinary Medicine della University of Pennsylvania, dove ha portato a termine un periodo di residenza in medicina interna dei piccoli animali nel 1989. Dopo la residenza, la Dr.ssa King è rimasta a far parte dello staff della Intensive Care Unit della University of Pennsylvania ed attualmente è Associate Professor presso la Section of Critical Care e Director della Intensive Care Unit. È Diplomate of the American College of Veterinary Emergency and Critical Care, the American College of Veterinary Internal Medicine, e the European College of Veterinary Internal Medicine (Companion Animal). I settori di interesse dell’attività di ricerca della Dr.ssa King comprendono tutti gli aspetti della terapia intensiva dei piccoli animali, con particolare riguardo alla medicina polmonare ed alla previsione dell’esito della terapia nei pazienti in condizioni critiche. ANDREW MACKIN BSc, BVMS, MVS, DVS,c FACVSc, DSAM, MRCVS Dipl ACVIM, Mississippi, USA Il Dr. Mackin si è laureato nel 1983 presso la Murdoch University, ed ha lavorato presso diversi ospedali veterinari universitari in Australia, Canada, Scozia e Stati Uniti. Il Dr. Mackin è Hugh Ward Chair of Small Animal Medicine presso la Mississippi State University, e mantiene uno specifico interesse clinico e di ricerca nel campo dell’ematologia e dell’emostasi. È co-editor del BSAVA Manual of Small Animal Hematology and Transfusion Medicine, pubblicato di recente, ed è Presidente Eletto della Association of Veterinary Hematology and Transfusion Medicine. ULRIKE MATIS Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania La Dr.ssa Matis si è laureata presso l’Università di Monaco nel 1970, dove ha conseguito il titolo di Dr. med. vet. nel 1972 e quello di Dr. med. vet. habil. (PhD) nel 1981. Attualmente è Professore di Chirurgia e Direttore della Clinica Chirurgica (compresa Oftalmologia e Radiologia) dell’Università Ludwig-Maximilians di Monaco. È stata Presidente di AO Vet International (1996-1998) e Presidente della European Society of Veterinary Orthopaedics and Traumatology (1998-2000). Nel 2001 ha ricevuto il WSAVA Saki Paatsama International Award. La Dr.ssa Matis ha pubblicato numerosi articoli e capitoli di libri nel campo della chirurgia degli animali da compagnia. I suoi principali settori di interesse sono rappresentati dall’ortopedia e traumatologia dei piccoli animali, dall’analisi computerizzata dell’andatura e dalle tecniche di diagnostica per immagini. NORBERT MENCKE Dr Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Leverkusen, Germania È nato in Germania il 19 ottobre del 1959. Dopo aver portato a termine le scuole superiori ed avere svolto il servizio militare, iniziò a studiare Medicina Veterinaria alla Facoltà di Hannover (Tierärztliche Hochschule Hannover) in Germania. Dopo la laurea iniziò gli studi per il PhD presso l’Istituto di Parassitologia della Facoltà di Medicina Veterinaria di Hannover in associazione con il Dipartimento dell’Agricoltura di Adelaide, Australia, dove conseguì il PhD nel 1989. Nello stesso anno entrò a far parte della Bayer come ricercatore nel campo della Parassitologia. Dal 1989 al 1999 Norbert Mencke ha ricoperto incarichi di responsabilità in differenti posizioni nel settore ricerca e sviluppo. Dal Gennaio 1999 Norbert Mencke è entrato a far parte del dipartimento di marketing, Animali da Compagnia, e dal Luglio 2002 è responsabile mondiale dei Servizi Veterinari dei prodotti della Bayer per Animali da Compagnia. Il Dr. Mencke è Board Certified Specialist In Veterinary Parasitology ed è Diplomate of the European Veterinary Parasitology College (Dipl. EVPC). Ha pubblicato diversi lavori scientifici in riviste referee e libri.


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DARRYL MILLIS DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA Il Dr. Millis si è laureato con lode (DVM with Distinction) presso il New York State College of Veterinary Medicine dopo aver conseguito il Bachelor of Science dalla Cornell University ed il Master of Science dalla University of Florida. Dopo la laurea, il Dr. Millis ha portato a termine un periodo di internato sui piccoli animali e di residenza in chirurgia presso la Michigan State University. Attualmente è Professor of Orthopedic Surgery al Department of Small Animal Clinical Sciences della University of Tennessee College of Veterinary Medicine, dove è direttore della sezione di chirurgia. Il Dr. Millis è Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons ed è stato membro del Board of Directors for the Veterinary Orthopedic Society. Viene frequentemente invitato come relatore su argomenti di ortopedia dei piccoli animali e riabilitazione veterinaria. In questi settori svolge un attivo programma di ricerca ed è coautore di un nuovo libro, Canine Rehabilitation and Physical Therapy. YVES MOENS Dr Vét, PhD, Dipl ECVA, Vienna, Austria Laureato nel 1973 alla Facoltà Veterinaria dell’Università di Gent, in Belgio. Dal 1973 al 1980 è stato assistente in una clinica chirurgica per grandi animali. Dal 1980 al 1988 è stato direttore del dipartimento di chirurgia e radiologia dell’Università di Lubumbashi in Zaire (attualmente Repubblica Democratica del Congo). Dal 1989 al 1996 è stato assistente presso la Facoltà Veterinaria dell’Università di Utrecht in Olanda, collaborando con i dipartimenti di anestesia e di chirurgia. Nel 1992 ha conseguito il PhD presso l’Università di Utrecht con una tesi sulla ventilazione assistita nel cavallo anestetizzato. Dal 1995 è membro fondatore dell’ECVA (Collegio Europeo di Anestesia Veterinaria). Dal 1995 al 1998 è stato assistente presso il dipartimento di anestesia della Facoltà Veterinaria dell’Università di Berna, in Svizzera. Nel 1999 è stato nominato professore di chirurgia dei tessuti molli negli animali da compagnia presso il dipartimento dei piccoli animali dell’Università di Gent, in Belgio. Nell’ottobre 2000 è rientrato a Berna per ricoprire l’incarico di professore associato nella sezione di anestesia presso il dipartimento veterinario di scienze cliniche. I suoi principali interessi di ricerca riguardano l’anestesia veterinaria. DAVID MORGAN BSc, MA, VetMB, CertVR, MRCVS, Regno Unito La prima laurea, in Biochimica, conseguita da David Morgan presso l’Università di Cardiff, è stata seguita nel 1986 da quella in Medicina Veterinaria rilasciata dall’Università di Cambridge. Dopo brevi esperienze lavorative libero professionali, maturando esperienze in settori diversi, ha operato per sette anni nel settore degli animali da compagnia, indirizzando i propri interessi principalmente sulla chirurgia e sulla radiologia. Nel 1990 ha ottenuto il diploma in Radiologia Veterinaria. Nel 1993 ha iniziato a lavorare in una società privata, fornendo consulenze tecniche nel Regno Unito, nei Paesi Scandinavi ed in Sud Africa. È frequentemente coinvolto in attività di informazione ed aggiornamento rivolta alla classe medico veterinaria, docenti universitari e studenti. Ha tenuto conferenze in tutta l’Europa ed in Sud Africa, in occasione di congressi sia nazionali che internazionali. THIERRY OLIVRY Dr Vet, PhD, DipACVD, DipECVD, Raleigh, North Carolina, USA Dopo la laurea in medicina veterinaria conseguita nel 1984 presso la scuola veterinaria di Tolosa (Francia), il Dr. Olivry ha lavorato presso una clinica di referenza a Parigi, occupandosi di casi di medicina interna e di dermatologia. Nel 1991, ha compiuto un residency in dermatologia alla University of Ca-

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lifornia a Davis. Successivamente al residency, ha conseguito un PhD in patologia comparata presso la stessa istituzione. Si è diplomato sia presso lo European College of Veterinary Dermatology sia presso l’American College of Veterinary Dermatology. Il Dr. Olivry è attualmente Professore di Immunodermatologia, Capo Dipartimento Associato e Capo del Servizio di Medicina alla North Carolina State University College of Veterinary Medicine a Raleigh, North Carolina. È inoltre Professore Associato Clinico Aggiunto di Dermatologia alla University of North Carolina-Chapel Hill School of Medicine. Attualmente presiede la International Task Force on Canine Atopic Dermatitis. Le attuali aree di interesse di ricerca del Dr. Olivry includono la dermatite atopica del cane e le malattie cutanee vescicanti autoimmuni. PATRICK PAGEAT Dr Vét, MSc PhD, Apt, Francia Nato nel 1960, Patrick si è laureato in medicina veterinaria nel 1984 (Lione – Francia), e poi ha conseguito un PhD in Comportamento Animale nel 1991 (Facoltà di Parigi-VI). È stato per qualche anno Professore Associato presso le Scuole di Veterinaria francesi. È autore di “Patologia comportamentale del Cane ”, “Cane si nasce, Padroni si diventa” ed ha preso parte a molti Convegni e Congressi, nazionali ed internazionali. È coautore di un trattato enciclopedico sul cane. Ha tenuto circa 100 lezioni sul comportamento animale e su argomenti di psichiatria e psicofarmacologia. Attualmente è Research Manager di PHERSYNTHESE, s.n.c., un laboratorio privato che lavora sulla comunicazione chimica e sulle sue varie applicazioni. Ha fondato questo laboratorio nel 1995 e da allora ha sviluppato ampi rapporti con la comunità scientifica, le associazioni di allevatori e l’industria farmaceutica. ~ MARIA TERESA PENA GIMENEZ Med Vet, phD, Dipl ECVO, Barcelona, Spagna Laureata in Medicina Veterinaria nel 1987 presso la Universitat Autònoma de Barcelona (UAB), ha ottenuto il PhD (Dottorato di ricerca) presso la stessa università nel 1993 con uno studio sperimentale sugli innesti corneali penetranti nel cane. Studi qualificati in Oftalmologia veterinaria presso la Universitat Autònoma de Barcelona nel 1988 e presso la Ecole Nationale Veterinarire di Tolosa nel 1989. Ha partecipato a corsi e periodi di formazione esterna in differenti università fino a giungere alla North Carolina State University, dove ha completato il periodo di residenza in oftalmologia secondo un programma alternativo. Dal 1988 lavora presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia della Facoltà di Veterinaria (UAB) ed oggi è Professore Associato di oftalmologia e chirurgia e direttore del servizio di oftalmologia dell’Ospedale Veterinario di questa facoltà. Nel 1999 ha ottenuto il diploma dell’European College of Veterinary Ophthalmology (ECVO). È membro dell’European Society of Veterinary Ophthalmology board. Ha tenuto lezioni e comunicazioni in convegni e seminari nazionali ed internazionali. Ha pubblicato lavori su riviste nazionali ed internazionali. Il suo lavoro e la sua attività di ricerca sono dedicati in modo particolare alla chirurgia e soprattutto alla patologia e chirurgia della cornea, all’uveite ed alle lesioni oculari causate dalle malattie infettive. ULLRICH REIF Dr Med Vet, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Boebingen, Germania Il Dr. Reif si è laureato in Medicina Veterinaria nel 1995 presso l’Università di Torino, in Italia. Dopo un International Clinical Fellowship alla Michigan State University, un internato all’Università di Zurigo, ed un AO/ASIF Fellowship alla Texas A&M University, ha portato a termine un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali alla Michigan State University. Ha ricoperto il ruolo di Assistant Professor in Small Animal Orthopaedics, ma nel 2003 ha deciso di tornare in Europa. Attualmente lavora alla Tierklinik Dr. Reif, un ospedale specialistico privato in Germania.


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CORAL MATEO SANCHEZ Med vet, Gijon (Asturia) ES Laureata presso la Facoltà di Veterinaria dell’Università Complutense di Madrid nel 1982. Master in omeopatia presso l’Università del Paìs Vasco. Professore a contratto del Corso di Dottorato “Omeopatia veterinaria”, Università di Zaragoza. Professoressa e coordinatrice del Master Universitario di omeopatia dell’Università del Paìs Vasco. Membro della Lega Medica Omeopatica Internazionale. Autrice di varie pubblicazioni. Ha tenuto corsi, relazioni, conferenze e seminari, nazionali ed internazionali. Il suo lavoro di ricerca è focalizzato sulle neoplasie. Dal 1982 dirige la Clinica Veterinaria La Playa de Gijòn (Asturias), dove lavora esclusivamente come omeopata dal 1986. MARK SMITH DVM, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Blacksburg, Virginia, USA Il Dr. Mark McKim Smith si è laureato in medicina veterinaria nel 1982 presso la School of Veterinary Medicine University of Pennsylvania ed in seguito ha portato a termine un periodo di internato (1983) presso il California Animal Hospital di Los Angeles ed uno di residenza (1986) in Small Animal Surgery Program presso la School of Veterinary Medicine della University of California, Davis. È Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons (1987) e Diplomate of the American Veterinary Dental College (1998). Ha ricoperto l’incarico di Assistant Professor (1988-1993), Associate Professor (1993-1999) e Professor (1999-oggi) presso il Department of Small Animal Clinical Sciences, Virginia-Maryland Regional College of Veterinary Medicine, Virginia Polytechnic Institute and State University. È stato insignito di numerosi premi ed è autore di libri ed Editor di riviste scientifiche. JÖRG M. STEINER Dr Med Vet, PhD, Dipl ACVIM, Dilp ECVIM Jörg Steiner si è laureato nel 1992 all’Università Ludwig- Maximilians di Monaco, Germania. Dal 1992 al 1993 ha fatto il suo internato in medicina e chirurgia dei piccoli animali all’Università della Pennsylvania e dal 1993 al 1996 il suo residency in medicina interna dei piccoli animali alla Purdue University. Ha ricevuto nel 1995 il diploma di Dr. Med. Vet. alla Università Ludwig-Maximilians di Monaco, Germania, con uno studio sulla tripsina felina e l’immunoreattività tripsino-simile felina. Nel 1996 si è diplomato all’American College of Veterinary Internal Medicine e all’European College of Veterinary Internal Medicine. Nel 2000 il Dr. Steiner ha ricevuto il PhD dalla Texas A&M University per il suo lavoro sulle lipasi digestive del cane ed il loro utilizzo pratico per la diagnosi di affezioni gastrointestinali nel cane. È attualmente Professore Assistente Clinico presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia di piccoli animali alla Texas A&M University. Il Dr. Steiner è inoltre responsabile, quale co-direttore, del Laboratorio di Gastroenterologia della Texas A&M University ed è attualmente impegnato nella ricerca e sviluppo di nuovi test diagnostici per i disturbi dell’apparato gastrointestinale. ERIK TESKE Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA, Utrecht, Olanda Il Dr Teske si è laureato nel 1981 all’Università di Utrecht. Dopo un periodo di internato e residenza in medicina interna ha effettuato un clinical fellowship presso il Dutch National Cancer Institute per tre anni. Nel 1993 ha terminato la propria tesi sulla caratterizzazione del linfoma non-Hodgkin nel cane. Attualmente è Professore Associato di Oncologia a Utrecht. La sua esperienza si è sviluppata nel campo della citologia ed oncologia cliniche. Il Dr Teske è stato il primo Presidente dell’ECVIM-CA ed è anche past-president dell’EBVS.

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RELATORI ITALIANI CRISTINA ABBA Med Vet, Torino Laureata in Medicina Veterinaria nel luglio del 1998 all’Università di Torino (110/110). Dal 1999 esercita la libera professione in strutture private nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca nel 2002 presso il Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di Torino - Settore Nutrizione - lavorando in modo specifico sull’alimentazione dei piccoli animali e degli ungulati selvatici. È coautrice di lavori su riviste nazionali ed internazionali. È stata relatrice di lavori scientifici a congressi dell’ESVCN (European Society of Veterinary and Comparative Nutrition). Attualmente collabora con il Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di Torino per progetti di ricerca e per il servizio di consulenza nutrizionistica dei piccoli animali ed esercita la libera professione con particolare interesse per la dermatologia e la citologia. FRANCESCA ABRAMO Med Vet, Pisa Laureata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa nel 1986 con 110/110. Negli anni post laurea ha effettuato uno stage di un anno e mezzo presso l’Institut fuer Tierpathologie di Berna e un visiting fellowship presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Guelph (Ontario, Canada). È attualmente Professore Associato presso il Dipartimento di Patologia Animale della Facoltà di Medicina di Pisa e docente di patologia generale comparata. Presso il Dipartimento è responsabile da diversi anni della diagnostica dermatopatologica del Registro Tumori. È autrice di un centinaio di articoli su argomenti di patologia animale pubblicati su riviste nazionali e internazionali e di comunicazioni scientifiche presentate a Congressi sia in Italia che all’estero. FANCESCO ALBANESE Med Vet, Napoli Laureato nel marzo 1993 presso l’Unversità Federico II di Napoli. Sin dal 1994 si interessa di dermatologia frequentando numerosi congressi, seminari e corsi di dermatologia veterinaria post-laurea sia in Italia sia all’estero. Nel triennio 1996-98 ha frequentato il corso avanzato di Dermatologia Veterinaria presso la European School for Advanced Veterinary Studies (ESAVS). Nel giugno del 2000 ha superato presso l’Università di medicina veterinaria di Nantes l’esame per la Prima Parte del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (ECVD). È full member dell’ESVD dal 1997 e socio della SIDEV sin dalla sua fondazione. Attualmente svolge la libera professione nella clinica veterinaria “L’Arca” in Napoli e si occupa esclusivamente di consulenze dermatologiche in diverse strutture veterinarie della Campania. Dal 1997 ha svolto attività di insegnamento in qualità di relatore per corsi, seminari e congressi di livello nazionale. È autore di alcune pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. È Coautore del “Manuale pratico di parassitologia cutanea del cane e del gatto” edito dalla Pfizer. GIOVANNI ALLEVI Med Vet, PhD, Bergamo Laureato a Milano nel 1999, presso l’Istituto di Clinica Chirurgica Veterinaria, discutendo una tesi di neurochirurgia spinale (“Le cisti aracnoidee spinali nel cane: revisione della letteratura ed esperienze personali”). Nel triennio 1999-2002 svolge un Dottorato di Ricerca presso lo stesso Istituto sotto la guida del Prof. C.M. Mortellaro, occupandosi principalmente di patologie articolari su base displasica. Nel 2003 diventa Dottore di Ricerca in Ortopedia degli Animali Domestici. Ha presentato alcune comunicazioni in occasione di riunioni SCIVAC e SIOVET. È autore-coautore di varie pubblicazioni riguardanti l’ortopedia. Attualmente lavora in qualità di libero professionista ed i suoi principali settori di interesse sono rappresentati dall’ortopedia, traumatologia e neurochirurgia spinale.


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MARTA AVANZI Med Vet, Castelfranco Veneto (TV) Laureata a Bologna con lode nel 1988, nel 1993 ha aperto con un collega un ambulatorio a Castelfranco Veneto, dove lavora tuttora. Ha tenuto varie relazioni agli incontri del gruppo di studio di animali esotici, a seminari SIVAC su argomenti di medicina degli animali esotici, ed ai corsi SCIVAC sugli animali esotici. Nel 1998 è stata eletta Coordinatrice del gruppo di studio di animali esotici (fino alla costituzione della SIVAE avvenuta l’anno successivo). È tra i soci fondatori SIVAE, di cui ricopre attualmente la carica di segretario, e direttore della rivista della SIVAE, “Exotic Files”. È tra i soci fondatori ed attuale segretario dell’AAE (Associazione Animali Esotici).” MASSIMO BARONI Med Vet, Dipl. ECVN, Monsummano Terme, Pistoia Laureato in Medicina Veterinaria con Lode nel 1987 presso l’Università di Pisa. Dal 1992 al 1995 ha compiuto un Non Conforming Residency Programme in Neurologia presso l’Istituto di Neurologia, Università di Berna. Nel 1995 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Neurologia a Liegi (Belgio). Dal 1995 al 1999 ha lavorato a Genova, svolgendo attività di referenza in campo neurologico ed ortopedico. Attualmente svolge la propria attività specialistica presso la Clinica Veterinaria “Val di Nievole”, Monsummano Terme, Pistoia. È stato membro dell’Education Commitee del College Europeo di Neurologia (ECVN) dal 1996 al 1999 ed è attualmente Segretario della Società Europea di Neurologia Veterinaria (ESVN). È inoltre componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVET) e direttore del Corso di Neurologia SCIVAC. È autore di pubblicazioni riguardanti l’ortopedia e la neurologia e ha presentato oltre 80 relazioni ad incontri a carattere nazionale ed internazionale, in Italia ed all’estero. Attuali aree di interesse: Neurodiagnostica per immagini, neurochirurgia intracranica. ROBERTO BELLENTANI Med Vet, Modena Laureato nel 1982 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma. Inizia la professione prima in un Ambulatorio a Modena, poi dal 1992 al 1998 fa parte dello staff della Casa di cura San Geminiano, struttura dotata di pronto soccorso e degenza. In questo periodo si occupa di chirurgia generale, diagnostica per immagini ed anestesiologia. Dal 1999 lavora in un Ambulatorio Veterinario a Formigine, di cui è Direttore Sanitario, e collabora con l’Ambulatorio Veterinario San Prospero di Reggio Emilia dove si occupa esclusivamente di anestesia. Da parecchi anni è iscritto al gruppo di studio di anestesia, al quale ha collaborato attivamente con una relazione sul blocco del plesso brachiale con ausilio di elettrostimolatore. Sempre sullo stesso argomento ha presentato una comunicazione libera al 44° Congresso Nazionale SCIVAC. Ha inoltre svolto diversi stage di aggiornamento presso l’Ambulatorio “Città di Tortona” del Dott. Emilio Feltri. ALESSANDRO BELLESE Med Vet, Mestre (VE) Alessandro Bellese, nato il 26-11-65 a Lido di Venezia. Laureato in Medicina Veterinaria a Bologna il 0811-1994. Da sempre appassionato di zoologia in generale e di entomologia ed erpetologia in particolare. Da quando ha intrapreso la professione medico veterinaria, grazie alla comprensione dei colleghi con cui lavora ha potuto interessarsi in modo sempre più esclusivo ai piccoli animali da compagnia “non convenzionali”, fino, allo stato attuale di dedicarsi quasi interamente a questi ultimi.

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Iscritto dal 1995 dapprima al GAE, poi SIVAE. Membro del consiglio direttivo SIVAE con compito di consigliere. Collabora al notiziario SIVAE, “Exotic Files”, ha tenuto varie relazioni agli incontri della società ed ha partecipato come istruttore al primo corso SCIVAC di medicina e chirurgia dei cheloni tenuto ad Ottobre 2003. Membro ARAV ed AEMV. Socio fondatore dell’AAE (Associazione Animali Esotici). FABRIZIO BENINI Med Vet, Treviso Laureato a Bologna nel 1992, ha lavorato presso la Clinica Vet. “Il Poggetto” a Firenze per un anno poi alla Clinica vet. “Strada Ovest” in Treviso per 6 anni, dal dicembre 2000 responsabile sanitario dell’Ambulatorio Vet. “Biban”. Presso tutte queste strutture è stato sempre il responsabile per gli animali esotici. È socio fondatore SIVAE, consigliere dal 2001, rieletto nel 2002. È socio fondatore AAE di cui è consigliere dal 2000. Ha tenuto relazioni a congressi e seminari ed ha scritto diversi articoli per riviste del settore ed altre riviste a carattere divulgativo sugli animali esotici. Collabora con la LIPU. MARCO BERNARDINI Med Vet, Dipl ECVN, Bologna Si laurea presso l’Università di Bologna nel 1988. Comincia ad occuparsi di neurologia nel 1992, frequentando in Lussemburgo e Svizzera i corsi dell’European School for Advanced Veterinary Studies (ESAVS). Nel biennio 1994-95 effettua un Residency in Neurologia presso l’Università di Berna (Svizzera). Nel 1995 consegue il diploma dell’European College of Veterinary Neurology (ECVN). Dal 1997 al 2001 è docente di Neurologia Veterinaria presso l’Università di Barcellona (Spagna) e responsabile del Servizio di Neurologia e Neurochirurgia presso l’Ospedale Veterinario della stessa facoltà. Nel biennio 2002-03 è Oberassistent in Neurologie presso l’Università di Berna (Svizzera). Attualmente esercita la libera professione esclusivamente come referente di casi neurologici in Emilia Romagna. Inoltre, è docente a contratto di Neurochirurgia Veterinaria presso l’Università di Padova, presidente della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVet), membro dell’Examination Committee dell’ECVN. Relatore a mumerosi corsi e congressi in Italia e all’estero, è autore di articoli e del libro “Neurologia del cane e del gatto” (Poletto Editore, Milano). MARCO BERTOLI Med Vet, Roma Si laurea presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma nel 1997 presso la quale pratica un internato di un anno in clinica chirurgica. Relatore per due anni al Corsi di pronto soccorso SCIVAC. Membro dell’EVEECS. Ha partecipato a corsi nazionali e internazionali ed è stato relatore a Seminari e Congressi sempre riguardanti la Medicina d’Urgenza. Ha collaborato alla realizzazione del manuale di pronto soccorso SCIVAC. Da sei anni lavora presso il Centro Veterinario Gregorio VII del quale è anche responsabile del pronto Soccorso notturno. ANDREA BOARI Med Vet, Teramo Laurea con lode in Medicina Veterinaria all’Università degli Studi di Bologna nel 1983. Premio di Studio “Prof. Albino Messieri” (A.A. 1982-83). Funzionario Tecnico presso il Dipartimento Clinico Veterinario della stessa Università (dal 1986 al 1998). Professore a contratto dal 1995 al 1998 in Semiologia Medica Veterinaria presso l’Università degli Studi di Teramo. Borsa di Studio “Prof. Umberto Gasparini”: visiting researcher per l’intero 1993 presso il Department of Veteri-


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nary Clinical Sciences della Purdue University (USA) dove ha svolto sia attività di ricerca che clinica internistica. Professore Associato (1998-2000). Coordinatore Sezione di Medicina Interna (19982002). Professore Straordinario (2000-presente) in Clinica Medica Veterinaria, Semiologia Medica Veterinaria e Semeiotica e Diagnostica di Laboratorio presso l’Università degli Studi di Teramo. Maggio 2002-luglio 2002: “Visiting Researcher” presso il Department of Small Animal Medicine and Surgery della Texas A&M University (USA). Dal 1° novembre 2002 è Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie presso la stessa Università e Vice Preside della Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo. Responsabile progetti di ricerca universitari (ex-60%) del 1999-2000-2001-2002. Ha pubblicato più di 100 lavori su riviste nazionali e internazionali ed è stato relatore a numerosi Congressi nazionali ed internazionali. È stato eletto quale membro del Comitato Scientifico della Società Italiana delle Scienze Veterinarie in merito al Settore Scientifico Disciplinare di Clinica Medica Veterinaria. È socio della Società Italiana delle Scienze Veterinarie, della Società Italiana di Buiatria, della Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia, della European Society of Comparative Gastroenterology, della European Society of Veterinary Endocrinology e della Comparative Gastroenterology Society. Dal luglio 2000 è socio fondatore e consigliere della Società Italiana di Medicina Felina e Direttore della relativa rivista “Medicina Felina”. Dal 2003 ne ricopre la carica di vicepresidente. Dal luglio 2003 è socio fondatore e consigliere della Società Italiana di Gastroenterologia ed endoscopia digestiva veterinaria. DEA BONELLO Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino Si laurea nel 1989 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Si specializza nel 1997 in Radiologia Veterinaria, nel 2001 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Medicina Interna e nel 2001 ottiene un contratto di ricerca presso il Dipartimento di Patologia Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Dal 1989 si dedica all’odontostomatologia veterinaria ed in questo settore svolge attività di consulenza per i piccoli ed i grossi animali. Nel 1996 e nel 1998 è stata, a scopo di aggiornamento, all’Università di Davis in California. Dal 1998 è Diplomata dell’European College of Veterinary Dentistry. Relatore a numerosi congressi in Italia ed all’estero e autore di pubblicazioni inerenti l’odontostomatologia veterinaria e comparata. Per molti anni Coordinatore del Gruppo di Studio di Odontostomatologia della SCIVAC, dal 1998 al 2002 è stata Segretario dell’EVDC. Attualmente è Vice Presidente del College, Referee scientifico della SIODOV ed Editor della rivista Quaderni di Odontostomatologia. UGO BONFANTI Med Vet, Milano Laureato a pieni voti presso l’Università di Milano nell’anno 1992. Dal conseguimento della Laurea ha lavorato regolarmente presso alcune cliniche veterinarie. Attualmente esercita la libera professione presso la Clinica Veterinaria Gran Sasso - Milano (Dr. Bussadori), occupandosi in particolare di Medicina Interna ed Oncologia; da circa 7 anni si occupa attivamente di citologia veterinaria. Nel 1997 ha effettuato uno stage della durata di un mese presso il Dott. Teske dell’Università di Utrecht; nel 1998, per un periodo analogo, si è recato a Cambridge presso il Prof. Herrtage. Nel 2002, per un mese e mezzo, si è recato per un periodo di aggiornamento di Clinical Pathology alla School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania a Philadelphia. Ha presentato alcune relazioni di ecografia, citologia ed oncologia in occasione di gruppi di studio, seminari di citologia e congressi nazionali SCIVAC. È istruttore e relatore al corso di citologia della SCIVAC, e riveste la carica di vicepresidente della Società Italiana di Citologia Veterinaria.

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MICHELE BORGARELLI Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Torino Si è laureato presso l’Università di Torino nel 1989 con una tesi di fisiologia. Dal 1990 si occupa di cardiologia e di ecografia nei piccoli animali. Da allora ha seguito numerosi periodi di aggiornamento in Italia e all’estero. È stato professore a contratto in ecocardiografia per gli anni 1996-97, 1998-99 e 2000-01 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Nel 1999 si è diplomato al College Europeo di Medicina Interna (Cardiologia). Attualmente è Ricercatore e Dottorando di ricerca presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino dove segue programmi di ricerca sulla miocardiopatia dilatativa nel cane, sulla insufficienza mitralica nei cani di grossa taglia, sui meccanismi neuro-ormonali in corso di insufficienza cardiaca, e sugli effetti delle malattie sistemiche sull’apparato cardiovascolare. Ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la cardiologia e l’ecografia internistica nei piccoli animali ed ha presentato i risultati dei suoi esperimenti ed esperienze cliniche in congressi nazionali ed internazionali. È segretario e tesoriere della Società Europea di Cardiologia Veterinaria (ESVC). È membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria (SICARV). È autore di circa 60 pubblicazioni di cardiologia ed ecografia internistica su riviste nazionali ed internazionali. ANDREA BRANCALION Med Vet, Treviso Laureato a Bologna nel 1981. Pratica l’Omeopatia dal1989 e dal 2001 dirige la Sezione Omeopatica dell’Ospedale Veterinario “S. Francesco” di Castagnole (TV). Si è formato alla Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica di Cortona (diretta dal Dott. Franco Del Francia), nella quale è docente dall’ottobre del 1992. Nel 1991 ha fondato l’Accademia Trevigiana di Omeopatia Veterinaria, che tuttora dirige. Attualmente ricopre diversi incarichi in qualità di esperto di Omeopatia veterinaria: - Collaboratore esterno della Scuola di Specializzazione in Diritto e Legislazione Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma (diretta dal Prof. Giuseppe Zanetti). - Referente scientifico e culturale del programma RADAR, il software più diffuso al mondo per la medicina omeopatica. - Coordinatore della Sezione Veterinaria della Rivista ufficiale della FIAMO (Federazione Italiana delle Associazioni dei Medici Omeopati) “Il Medico Omeopata”. - Membro del Comitato Scientifico del Congresso della FIAMO. - Membro dell’Unione Medici Non Convenzionali Veterinari (UMNCV). Autore di numerose pubblicazioni e relazioni a congressi e convegni scientifici. Ha curato l’edizione italiana del “Compendio dei Principi di Omeopatia” di W. Boericke ed è in fase di pubblicazione il suo testo didattico “Scala LM e Prognosi nella pratica dell’Omeopatia con particolare riferimento alla Medicina Veterinaria”. SANDRA BRAU Med Vet, Maisons-Alfort, Francia Nata a Le Creusot in Francia il 01 ottobre 1974. Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Sassari il 9 aprile 2001. Dal gennaio 2002, dopo aver seguito corsi di formazione in neonatologia umana in diversi ospedali a Parigi e corsi di autopsia all’Ecole Nationale d’Alfort (Paris) è Responsabile del Servizio di neonatologia dei carnivori dove svolge un attività clinica di neonatologia e di autopsie su cuccioli e gattini. Ha partecipato a seminari e congressi nazionali e internazionali in qualità di relatore e presentando comunicazioni.


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LEONARDO BRUNETTI Med Vet, Pistoia Nato a Pistoia il 09/01/56, si laurea a Pisa nel 1982, e da allora si dedica agli animali esotici. Nasce con lui il “Gruppo di studio di animali esotici” SCIVAC, di cui rimarrà coordinatore per 6 anni, ha diretto i corsi di medicina degli animali esotici organizzati dalla SCIVAC e, nel 1982, è stato fra i fondatori della Società Italiana Veterinari Animali Esotici (S.I.V.A.E.), per la quale, dallo stesso anno, ricopre la carica di Presidente ed è inoltre relatore in congressi e seminari italiani ed europei Ha trascorso vari periodi di studio presso Giardini zoologici, in Italia e all’estero. È autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche a diffusione nazionale e internazionale. Ha curato l’edizione italiana del testo di Haplata-Wiesner di anestesia degli animali esotici, edito da Edagricole nel 1988 con il titolo “Pratica anestetica degli animali esotici”. È coautore del libro “I Camaleonti di montagna, di pianura e nani” ed. Devecchi, 2001. Ha fornito il materiale di studio utilizzato dalla SCIVAC per realizzare videocassette su medicina e chirurgia delle tartarughe, è inoltre autore della sezione dedicata agli animali esotici del “Prontuario Teapeutico Veterinario” SCIVAC edizione 1995. ANTONELLO BUFALARI Med Vet, PhD, Perugia Conseguita la maturità classica, si è laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 con lode. I suoi principali campi di interesse sono l’anestesiologia e la chirurgia. Ricercatore confermato presso il Dipartimento di Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria, dell’Università di Perugia. Tra i principali aggiornamenti professionali si ricordano un Visiting Fellowship presso il Department of Clinical Sciences, Cornell University, New York, USA, dal 1/02/93 al 30/11/93; un Post-doctoral Associate: Department of Clinical Sciences, Faculty of Veterinary Medicine, Cornell University, New York, USA, dal 01/06/96 al 31/07/97. Ha conseguito il titolo di PhD (Philosophy Doctor) presso il Department of Clinical Sciences, Faculty of Veterinary Medicine, Helsinki University, il 27 Marzo 1998. È stato Co-investigator di una ricerca sperimentale su un nuovo agente analgesico eseguita presso la Cornell University tra il 1996 e il 1997. Attualmente ha incarichi di insegnamento nei corsi di laurea in Anestesiologia e Medicina Operatoria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia. Collabora, inoltre, in programmi di ricerca con il Dipartimento di Chirurgia Generale della Facoltà di Medicina e Chirurgia di Perugia e con il Dipartimento di scienze chirurgiche e perioperative dell’Università di Umea, Svezia. Autore o co-autore di oltre settanta pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali inerenti anestesiologia e chirurgia. È stato relatore a numerosi congressi e seminari. Coautore di un capitolo su Veterinary Clinics of North America. Autore del manuale: “Concetti di base per l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”. Dal 1991 è membro della Società Italiana delle Scienze Veterinarie (SISVet) e della Società Culturale Italiana Veterinaria per Animali da Compagnia (SCIVAC) dal 1993 è ordinary member della Association of Veterinary Anaesthesist (AVA), dal 1994 è membro della Società Italiana di Chirurgia Veterinaria (SICV). PAOLO BURACCO Med Vet, Dipl ECVS, Torino È nato a Torino il 16-8-1956. È professore straordinario di Semeiotica e Clinica Chirurgica Veterinaria presso la Facoltà di Med. Vet. di Torino. Nel periodo settembre 1987-dicembre 1988 è stato Visiting Assistant Professor presso la School of Vet. Med. (Purdue University, Indiana), con Borsa di Perfezionamento Ass. It. Ric. Cancro. È diplomato dal giugno 1998 al Collegio Europeo dei Chirurghi Veterinari, piccoli animali (E.C.V.S.). È membro della Veterinary Cancer Society, della Società Ital. di Chir. Vet., dell’Europ. Soc. of Vet. Oncology e dell’European College of Veterinary Surgeons. È stato relatore in numerosi convegni nazionali ed internazionali ed è autore di circa 100 pubblicazioni su riviste italiane ed estere.

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CLAUDIO BUSSADORI Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Med Chir, Milano Nato a Milano il 24/6/56, Laureato in Medicina Veterinaria il 23/3/82. Diplomato ECVIM CA (cardiology) il 21/3/93. Laureato in Medicina e Chirurgia il 29/10/2001. Direttore sanitario della Clinica Veterinaria G. Sasso a Milano, dove è consulente in cardiologia, medicina interna ed ecografia e Direttore del programma di residenza dell’ECVIM-CA in cardiologia. Research fellow del centro di cardiologia pediatrica dell’Istituto policlinico di San Donato Milanese diretto dal Dr. Mario Carminati. Course Master del corso intensivo ESAVS di ecocardiografia. Docente a seminari di cardiologia interventistica presso la Scuola di Specialità in Cardiologia della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università degli Studi di Milano. Ha svolto attività di studio e di ricerca su vari argomenti cardiologici presso centri veterinari e medici in Europa e negli USA. Ha tenuto corsi di Cardiologia, Ecografia ed Ecocardiografia presso Università e istituzioni private in varie nazioni Europee. È stato Professore a contratto in Cardiologia presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma. È stato presidente dell’ESVC dal 1997 al 1999 attualmente e membro onorario permanente del board. È stato vice presidente Dell’E.C.V.I.M. dal 1993 al 1999. Autore di 163 publicazioni (dal 1984 al 2003), includendo: articoli originali su riviste Veterinarie e Mediche, atti di congressi e libri.

ROBERTO BUSSADORI Med Vet, Milano Roberto Bussadori si è laureato in medicina veterinaria nel 1996 presso l’università di Milano. Si occupa di chirurgia generale presso la clinica veterinaria Gran Sasso di Milano con particolare interesse per la chirurgia toracica, vascolare e delle prime vie respiratorie. Ha seguito stages in italia e all’estero presso docenti universitari e diplomati al college di chirurgia. È autore e coautore di articoli pubblicati su riviste italiane e straniere. È stato invitato come relatore ad incontri per l’aggiornamento scientifico e a congressi in Italia e all’estero per presentare relazioni che riguardavano la chirurgia toracica, vascolare, delle prime vie respiratorie e dello shunt porto-sistemico.

MARCO CALDIN Med Vet, Padova Laureato alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Bologna nell’anno 1987-88, ha coordinato il gruppo di studio SCIVAC di “diagnostica per immagini” dal 1988 al 1990. Professore a contratto presso la scuola di specializzazione della facoltà di medicina veterinaria di Pisa nell’anno 1994-1995 e di patologia medica dei piccoli animali presso la facoltà di medicina veterinaria dell’Università di Padova dall’anno 1996, incarico tuttora in corso. Ha partecipato come relatore a numerosi congressi, seminari e corsi con tematiche inerenti la medicina interna (Approccio Orientato al Problema, Ematologia clinica di base e avanzata, Coagulopatie, Biochimica clinica, Endocrinologia e Pronto Soccorso). È stato coordinatore del Gruppo di Studio SCIVAC di “Medicina Interna” dal 1992 al 2001. Svolge la libera professione a Padova presso la Clinica Veterinaria Privata San Marco della quale è direttore sanitario.


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MARIO CANIATTI Med Vet, Dipl ECVP, Milano Mario Caniatti si è laureato nel 1985 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Dottorato di ricerca in patologia comparata degli animali domestici, ha compiuto periodi di ricerca e studio presso le Facoltà di medicina veterinaria di Davis (California) e Barcellona. Dal 1990 è dipendente dell’Istituto di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia aviare dell’Università di Milano, attualmente in qualità di ricercatore confermato. La sua attività lavorativa è imperniata sul servizio di citologia diagnostica dell’Istituto. La sua attività di ricerca è focalizzata sulla citologia diagnostica, le neoplasie cutanee e linfoproliferative, le patologie croniche del cavo nasale. Ha pubblicato più di 40 articoli, di cui una decina su riviste internazionali. È diplomato del College Europeo dei patologi veterinari (ECVP). VITTORIO CAPELLO Med Vet, Milano Il dott. Vittorio Capello ha conseguito la laurea a pieni voti con lode in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Milano nel 1989, e sempre presso la stessa facoltà il diploma di specializzazione in Malattie dei piccoli animali a pieni voti nel 1993. La tesi di laurea è stata insignita di dignità di stampa sia nazionale che internazionale, ed è stata premiata con la Borsa di Studio Friskies, in collaborazione con SCIVAC. Nel giugno 1994 ha frequentato il Dipartimento di Chirurgia presso il Veterinary Medical Teaching Hospital di Davis. Dal 1990 al 1996 si occupa di medicina e chirurgia degli animali da compagnia, con interesse anche nel settore degli animali esotici. Dal 1997 collabora con la Clinica S. Siro e la Clinica Gran Sasso di Milano, occupandosi esclusivamente di medicina e chirurgia degli animali esotici, con particolare riferimento al coniglio, ai piccoli roditori e ai piccoli mammiferi. Ha pubblicato 10 articoli scientifici sulla rivista “Veterinaria” ed ha collaborato alla traduzione del testo: Birchard: “Manual of Small animal practice” (Piccin, 1996) per la sezione Animali esotici (Furetto, Coniglio domestico e Piccoli roditori). Dal 2001 è socio della Association of Exotic Mammal Veterinarians (AEMV) e ha pubblicato 7 articoli scientifici sulla rivista americana Exotic DVM magazine. Alcuni reprints sono stati pubblicati anche su riviste straniere (Japanese Journal of Small Animal Practice, Magazyn Weterynaryjny). Ha pubblicato numerosi articoli di divulgazione veterinaria su riviste a diffusione nazionale (Argos Trend, ArgosVet), ed è collaboratore della Walt Disney company Italia. È autore del: “Testo atlante di medicina e chirurgia del criceto domestico” in CD-rom (2001); e del manuale: “Il cincillà” (De Vecchi Editore, Milano, 1998). È stato ideatore, coautore e regista del programma video: “Impiego dei fissatori esterni nel cane e nel gatto”, edito da E.V (1992). È stato relatore presso l’Ordine dei medici veterinari di Brescia e di Milano; per eventi scintifici organizzati da SCIVAC quali le Delegazioni Regionali, congressi e il 1° corso SCIVAC sulla medicina e chirurgia del coniglio e dei roditori. Nel giugno 2003 è stato relatore al seminario:”Diagnosi e terapia delle patolgie dentarie del coniglio e dei roditori da compagnia”, in collaborazione con SIODOV. È stato relatore a congressi internazionali quali l’International Conference on Exotics (Palm Beach, FL, USA, giugno 2003 e Naples, FL, USA, maggio 2004), e il 12° European Congress of Veterinary dentistry (Pisa, settembre 2003). Nel marzo 2004 ha tenuto il: “Corso di medicina e chirurgia del coniglio e dei piccoli roditori” presso la Clinica Veterinaria Gran Sasso di Milano.

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MASSIMO CASTAGNARO Med Vet, PhD, Dipl ECVP, Padova Laureato in Medicina Veterinaria con lode e dignità di stampa nel 1982 presso l’Università degli Studi di Torino, ottiene il dottorato di ricerca in Patologia Comparata degli Animali Domestici nel 1986 frequentando il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino ed il Dipartimento di Patologia della Tufts University di Boston e svolgendo ricerche sulla patologia renale spontanea del cane e sulla neuropatologia comparata delle malattie da accumulo lisosomiale. Dal 1986 al 1990, in qualità di borsista dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), si interessa allo studio di marker per lo sviluppo e la progressione nei tumori della ghiandola mammaria, delle ghiandole perianali e del testicolo del cane presso il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino, mentre dal 1992 al 1993, in qualità di borsista CNR studia l’interessamento degli oncogeni N-ras, Ki-ras e Ha-ras, degli oncosoppressori p53 e retinoblastoma e del gene recettore degli androgeni nello sviluppo e nella progressione delle neoplasie mammarie del cane e dell’uomo, e nel carcinoma prostatico dell’uomo, presso il Dipartimento di Patologia della Tufts University di Boston, USA. Dal 1994 si interessa, in collaborazione con il laboratorio di Genetica dei tumori dell’Istituto per Ricerca e la Cura del Cancro di Candiolo (TO) dello studio del tumore mammario del gatto quale modello per il cancro mammario dell’uomo. Dal 1998 è responsabile del Servizio di Anatomia Patologica, Istopatologia e Citopatologia del Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria dell’Università di Padova. È autore di 140 pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Attualmente è il Preside della Facoltà di Medicina Veterinaria e Direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova. MARIA CHIARA CATALANI Med Vet, Senigallia (AN) Si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia, nell’Anno Accademico 1998/99 e, nel 2001, riceve, dallo stesso Ateneo, l’Attestazione di Perfezionamento in “Educazione Sanitaria”. Attualmente svolge il “Master di medicina comportamentale degli animali d’affezione” dell’Università degli Studi di Pisa presso la quale ha conseguito l’Attestato di Perfezionamento in “Scienze Comportamentali Applicate” nel giungo del 2003. Membro della SISCA (Società Italiana Scienze Comportamentali Applicate) dall’anno 2000, dal 2002 è referee della SIUA (Scuola di Interazione UomoAnimale) per la zooantropologia didattica. È stata autrice di alcuni articoli scientifici pubblicati su riviste italiane e di un saggio per una monografia sulla pet therapy, edita dalla SCIVAC. Svolge la sua attività professionale esclusivamente nell’ambito della medicina comportamentale e della zooantropologia applicata, sviluppando progetti di zooantropologia didattica e corsi privati di pet-ownership. Inoltre, è consulente per la prevenzione e la terapia comportamentale del cane e del gatto presso alcune strutture veterinarie. DAVID CHIAVEGATO Med Vet, Padova Laureato nel 1984 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Bologna, con 110/110 discutendo una tesi sperimentale svolta in collaborazione con l’Ist. Zoopr. Sperimentale delle Venezie. Si occupa di cardiologia e diagnostica ecografica nei piccoli animali da circa 8 anni. Dal 1996 collabora con il dott. Claudio Bussadori (DM; DVM Dipl. ECVIM – cardiology). È relatore ed istruttore a corsi SCIVAC di “Cardiologia”, e di “Ecografia” dal 1998 e al corso di “Ecocardiografia” (AVULP-2002). È stato coordinatore del Gruppo di studio di “Dia-


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gnostica per immagini” della SCIVAC nel triennio 1999/2001, ed è attualmente segretario della SICARV (Società italiana di cardiologia veterinaria). Ha tenuto varie relazioni ad incontri di aggiornamento professionale in cardiologia ed ecografia internistica. È stato relatore al congresso nazionale multisala SCIVAC Milano 2001, 2003. È stato relatore ed istruttore al corso di Ecocardiografia (advanced course “cardiology III”-ESAVS). È docente al Master di II livello presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma e presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Torino. Lavora a Padova come libero professionista dove svolge revalentemente attività di referenza in cardiologia ed ecografia addominale. Principali interessi sono rivolti all’ipertensione polmonare ed alla diagnostica ecocardiografica. ALESSANDRO CIORBA Med Vet, Perugia Laureato nella sessione autunnale dell’anno accademico 1969/70 con voti 110/110 e lode in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia. Ha frequentato dal 01.03.1971 come allievo ufficiale la scuola del Servizio Veterinario Militare di Pinerolo ed ha, quindi, prestato servizio in qualità di sottotenente veterinario presso il 4° reggimento CC a cavallo di Roma sino al 14.06.1972. Il 1.07.1972, risultato vincitore di concorso nazionale, viene nominato assistente ordinario alla cattedra di Patologia Generale e Anatomia Patologica della Facoltà di M. Veterinaria di Perugia. Nell’anno accademico 1975/76 gli viene conferito l’incarico di insegnamento di Istologia Patologica presso la Facoltà di M. Veterinaria di Perugia. Con grant della CEE, ha trascorso periodi di studio presso il dipartimento di Patologia Veterinaria del Royal Veterinary College di Londra e di Cambridge. Collocato a disposizione del Ministero Affari Esteri italiano, ha assunto impiego in qualità di esperto presso l’Università di Heredia (Costa Rica), ove ha svolto attività di docenza (in lingua spagnola) e diagnostica presso la locale Facoltà di M. Veterinaria. Nel 1983, alla prima tornata dei giudizi di idoneità, viene nominato professore universitario di II fascia. Ha partecipato a svariate commissioni di esame ed è stato relatore di un rilevante numero di tesi sia di natura sperimentale che compilativa. Ha partecipato a numerosi congressi nazionali ed internazionali presentando comunicazioni personali. Ha fondato l’associazione nazionale patologi veterinari, di cui è stato segretario nazionale per 9 anni. Nel triennio 1992-1995 è stato chiamato ad insegnare Anatomia Patologica Veterinaria presso la Facoltà di M. Veterinaria dell’Università di Camerino. Dall’anno accademico 1994/95 al 1999 è docente di Istopatologia ed Oncologia Veterinaria presso la Facoltà di M. Veterinaria di Perugia. È stato membro del consiglio di biblioteca, della commissione per le borse Socrates e della giunta di Presidenza della Facoltà di M. Veterinaria di Perugia. Dal 1999 al 2001 è stato distaccato come dirigente, responsabile dell’area tematica ricerca e sviluppo, presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche. In tale periodo si è occupato, tra l’altro, di OGM, della Scuola Nazionale dell’Alimentazione e della redazione di progetti per il Ministero della Sanità e dell’Unione Europea. Per il 2001 è consulente del laboratorio di detto Istituto per la BSE e l’oncologia. Dall’anno accademico 2000/2001 è docente di Anatomia Patologica Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia. Dal 1 Marzo 2002 è stato nominato consulente dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Lazio e Toscana. Dal 1 gennaio 2003 è stato nominato componente del Consiglio Superiore di Sanità. Dal Marzo 2004 è stato inserito nell’albo degli esperti di elevata qualificazione del Ministero dell’Agricoltura.

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All’attività accademica ha affiancato altri incarichi, quali: - Responsabile veterinario dal 1980 al 1999 del Centro Allevamento e Addestramento cani della Guardia di Finanza per l’Italia. - Redattore di dossier di registrazione per farmaci ad uso veterinario per società nazionali e multinazionali. - Consulente della società Finbiotec, nata con lo scopo di promuovere lo sviluppo di compagnie nel settore delle biotecnologie. - Direttore per cinque anni di un centro di formazione che, su incarico del Ministero Affari Esteri Italiano, ha svolto corsi per tecnici laureati nel settore agrozootecnico, provenienti da paesi in via di sviluppo (Africa, Asia, America Latina). - Consulente della Società Petrini S.p.A. di Bastia Umbra per lo sviluppo di nuovi progetti. - Coredattore di una rivista veterinaria a diffusione nazionale nel settore degli animali da compagnia (Cinologia). - Collaboratore delle riviste ARGOS, TRENTATRÈ e Farma 7. - Nel 2001 è stato nominato membro della commissione veterinaria di Federfarma con l’incarico di collaborare alla formazione del farmacista nel settore veterinario. - Presidente nazionale per 3 anni di una società specialistica nel settore dei piccoli animali aderente alla SCIVAC. Autore di numerosi articoli a carattere scientifico. DANIELE SEBASTIAN CORLAZZOLI Med Vet, Roma Si laurea nel 1991 a Milano con lode, discutendo una tesi sulla discospondilite nel cane, relatore il Prof Mortellaro. Dopo un periodo di studio in Francia, Inghilterra e negli Stati Uniti, lavora nell’area milanese occupandosi esclusivamente di neurologia e chirurgia dei piccoli animali. Dal 1995 si trasferisce a Roma dove collabora inizialmente con il Centro Veterinario Gregorio VII, quindi con lo Zoospedale Flaminio. Dal 2001 ha aperto un centro di referenza in neurologia, ortopedia e diagnostica per immagini a Roma. FEDERICO CORLETTO Med Vet, CertVA, DipECVA, MRCVS, Newmarket (UK) Nato a Castelfranco Veneto, ha conseguito la Laurea in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova nel 1997, con il massimo dei voti e la lode. Ha prestato servizio come ricercatore presso la medesima Facoltà, occupandosi di anestesiologia. Nel 2002 ha conseguito il Certificate in Veterinary Anaesthesia rilasciato dal Royal College of Veterinary Surgeons e nel 2003 il Diploma di Specializzazione in Anestesiologia Veterinaria rilasciato dal College Europeo (ECVA). Dal giugno 2003 lavora all’Animal Health Trust (Newmarket), in qualità di Anestesista Veterinario. LUISA CORNEGLIANI Med Vet, Milano Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel settore dei piccoli animali dove si occupa di dermatologia dal 1995. Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture private ed universitarie. Full member dell’ESVD sta attualmente seguendo la via alternativa per conseguire il diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria. È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore di testi di dermatologia veterinaria e co-autore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara.


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FRANCESCA COZZI Med Vet, Dipl ECVN, Milano Laureata nel 1991 in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sulle patologie del midollo spinale nei piccoli animali. Dal 1992 al 1995 svolge un dottorato di ricerca in medicina interna degli animali domestici presso l’Istituto di Clinica Medica della stessa facoltà, dove si occupa di neurologia clinica dei piccoli animali. In questo periodo prende parte ad un progetto di ricerca sulla distrofia muscolare canina. Negli anni di dottorato trascorre brevi periodi all’estero per l’approfondimento della medicina interna ed in particolare della neurologia. Acquisisce il titolo di dottore di ricerca nel 1996. Dal 1996 al 1998 è resident di neurologia presso la School of Veterinary Medicine - Università della Pennsylvania, a Philadelphia (USA). Nel 1997 consegue il diploma presso l’European College of Veterinary Neurology (ECVN). Al momento attuale lavora presso il Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di neurologia clinica, didattica e ricerca. È tesoriere del College Europeo di Neurologia Veterinaria (ECVN), e pastpresident della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SinVet). LORENZO CROSTA Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna Laureato in Medicina Veterinaria a Milano, con una tesi sugli aspetti ultramicroscopici della Bronchite Infettiva del pollo. Fino al 1999 ha svolto attività libero professionale in Italia, come veterinario di animali esotici, concentrandosi soprattutto sugli uccelli e le collezioni di animali da zoo. Dal 2000 ricopre l’incarico di Direttore Veterinario presso il Loro Parque di Tenerife, che comprende la più grande collezione di pappagalli del mondo, ed inoltre ospita grandi felini, primati (gorilla e scimpanzé), rettili (alligatori e tartarughe delle Galapagos), delfini, leoni marini, un notevole acquario ed uno dei maggiori pinguinari mondiali. È stato rappresentante italiano dell’Association of Avian Veterinarians, della quale è già stato ed è tuttora Chairman europeo. Inoltre è stato membro del Board of Directors della stessa associazione. È socio fondatore ed è stato membro del consigio direttivo della SIVAE (Associazione Italiana Veterinari per Animali Esotici), ed è socio dell’American Association of Zoo Veterinarians. È stato relatore invitato a diversi congressi internazionali in Europa, USA ed Australia ed ha scritto o presentato più di 60 fra articoli scientifici e relazioni a vari congressi. ALBERTO CROTTI Med Vet, Genova Nato a Genova il 3 Agosto del 1957 e laureato presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Pisa nell’anno 1982 con 108/110. Membro della S.O.V.I. (Società di Oftalmologia veterinaria Italiana) dalla sua costituzione e componente del Consiglio direttivo dal 1993. Presidente dell’A.LI.VE.L.P. (Associazione Ligure Veterinari Liberi Professionisti) dal 1992 al 1997. Ricopre la carica di Presidente della Delegazione Regionale SCIVAC Liguria dal 1999. Ha frequentato negli anni 1992, 1993 e 1994 il corso specialistico in oftalmologia ESAVS (European Society for Advanced Veterinary Studies. Nel 1995 ha frequentato per un breve periodo di aggiornamento in oftalmologia il Royal Veterinary College di Londra. Dal 1995 è istruttore del corso di base SCIVAC in Oftalmologia e dal 1999 è divenuto relatore presso lo stesso corso. Ha partecipato in qualità di relatore a congressi ed incontri su temi di oftalmologia. GINO D’AGNOLO Med Vet, Trieste Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna. Ha partecipato a numerosi congressi, corsi e seminari in qualità di relatore presentando relazioni riguardanti la cardiologia degli animali da compagnia. Ha collaborato con le Delegazioni della SCIVAC e con la SICARV (Società Italiana di Cardiologia Veterinaria) presentando re-

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lazioni di cardiologia durante le giornate di approfondimento e gli incontri regionali I suoi principali ambiti di interesse comprendono la radiologia toracica, le cardiopatie, l’approccio clinico al paziente cardiopatico. I suoi hobbies sono la pesca e gli sport acquatici. NUNZIO D’ANNA Med Vet, Roma Nunzio D’Anna è nato a Torino il 7/7/67. Si è laureato in medicina veterinaria a Torino nel 1992. Ha effettuato un externship tra il 1993 e il 1994 presso l’Animal Medical Center di New York con particolare interesse verso la chirurgia d’emergenza e l’oftalmologia. Autore di alcune pubblicazioni in campo oculistico e relatore in diversi incontri a livello nazionale e internazionale. Dal 1995 lavora a Roma con il dr. Guandalini con la pratica limitata all’oftalmologia clinica. Dal 2001 è tesoriere della SOVI. IVANA DE FRANCESCO Med Vet, Ricerc, Milano Ha compiuto i suoi studi presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano dove ha conseguito la Laurea. Attualmente è ricercatore confermato presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie. È lettore ufficiale della displasia dell’anca per l’FSA, con accreditamento del Prof. W. Brass, Presidente della Commissione Scientifica della FCI. Le sue principali aree d’interesse riguardano la semeiotica radiologica dei piccoli animali, con particolare riferimento ai problemi inerenti l’apparato respiratorio e digerente. DAVIDE DE LORENZI Med Vet, SMPA, Forlì Laureato in Medicina Veterinaria a Bologna nel 1988, con lode; ha conseguito nel 1992 la specializzazione in Clinica e Patologia degli animali da Affezione presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa. È stato ideatore ed è l’attuale coordinatore del Gruppo di studio SCIVAC di Citologia Diagnostica ed inoltre è relatore ed istruttore del Corso di Citologia Diagnostica della SCIVAC. Da alcuni anni tiene un seminario di Citologia Diagnostica alla Scuola di Specializzazione in Clinica e Patologia degli animali da Affezione della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa. È autore e coautore di oltre trenta fra articoli e comunicazioni su riviste ed a congressi nazionali ed internazionali aventi come oggetto la citologia diagnostica e la chirurgia. Ha curato l’edizione italiana del testo “Color Atlas of Cytology of the Dog and the Cat” di Baker e Lumsden. Dal 1993 compie regolari periodi di aggiornamento in Olanda presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Utrecht (Dipartimento Animali da Compagnia); presso la medesima Facoltà ha portato a termine un corso triennale, organizzato dall’ESAVS, avente come soggetto la medicina interna. Esercita come libero professionista a Forlì ed a Padova presso la Clinica Veterinaria S. Marco occupandosi di chirurgia generale, endoscopia e citologia diagnostica. MAURO DI GIANCAMILLO Med Vet, Milano Nato a Milano il 13 novembre 1961, si è laureato a Milano a pieni voti il 10 novembre 1988; ha conseguito il diploma di specialista in “Clinica dei Piccoli Animali”, a pieni voti con lode, il 13 novembre 1991, presso l’Università degli Studi di Milano; ha partecipato a corsi di formazione post-universitari inerenti le scienze radiologiche e la radioprotezione presso l’Università degli Studi ed il Politecnico di Milano; ricercatore universitario dal 1 aprile 1993, professore associato dal mese di dicembre 2002, presta servizio a tempo pieno presso la Sezione di Radiologia Veterinaria Clinica e Sperimentale, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università degli Studi di Milano, di cui è Coordinatore a partire dal 01 gennaio 2004; docente di Radiologia Veterinaria e Medicina Nucleare per il Corso di Laurea in Medicina Veterinaria e per la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clini-


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ca degli Animali d’Affezione”, della Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano; docente di Tecniche Radiologiche Veterinarie per i Corsi di Laurea in “Tecnico di Radiologia Medica, per Immagini e Radioterapia”, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano e Milano-Bicocca; membro del Comitato Scientifico del “Centro di Ricerche e Applicazioni Biotecnologiche in Chirurgia Vascolare”, della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano; è relatore a congressi nazionali ed internazionali; è autore di pubblicazioni su riviste veterinarie nazionali ed internazionali. L’attività clinica del Dr. Mauro Di Giancamillo si svolge nelle sale di radiodiagnostica e radioterapia della Sezione di Radiologia Veterinaria Clinica e Sperimentale. Attualmente gestisce due sale di diagnostica convenzionale (piccoli e grossi animali), una sala di roentgenterapia ed una unità comprensiva di intensificatore elettronico di brillanza e tomografia computerizzatata a raggi x. La maggior parte dell’attività clinico-assistenziale è rivolta alla salute ed al benessere degli animali da compagnia sia con indagini di tipo convenzionale che nell’ambito della radiologia interventistica. L’attività scientifica si è sviluppata secondo diverse tematiche di ricerca in diverse specie animali. Attualmente la maggiore sfera di interesse è rivolta alla sperimentazione ed all’applicazione di nuovi protocolli tomografici per acquisizioni volumetriche nella patologia spontanea dei piccoli animali. ANTONIO DI SOMMA Med Vet, SMPA, Dubai Falcon Hospital, Emirati Arabi Uniti Antonio Di Somma si è laureato all’Università di Napoli “Federico II” nel 1978. Nel 1982 ha conseguito il diploma di specializzazione in “Malattie dei piccoli animali” all’Università di Pisa. Dal 1995 al 1998 è stato presidente regionale della SCIVAC Campania. Dal 1991 al 2000 direttore sanitario della Clinica Veterinaria “Villa Felice” in provincia di Napoli. Sin dal periodo post laurea ha sviluppato particolare interesse per la Medicina Aviare ed ha collaborato con centri di riabilitazione di falchi feriti. Ha partecipato come relatore a meeting e congressi internazionali ed ha presentato relazioni specialistiche sulla medicina dei rapaci in Europa, Medio Oriente ed Australia. Nel 2001 è stato chiamato da sua Altezza Reale sh Hamdan bin Rashid Al Maktoum a dirigere il Dubai Falcon Hospital che ha una casistica di circa 1800 falchi visitati in un anno ed è il più antico Falcon Hospital del mondo. È falconiere dall’età di 16 anni ed ha volato molti tipi di falchi per la reintroduzione in natura e per il pest/control. FABRIZIO FABBRINI Med Vet, CES Derm, Milano Il Dr Fabrizio Fabbrini ha ottenuto nel 1981, a pieni voti, la laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università Statale di Milano. Il suo interesse verso la dermatologia veterinaria inizia nel 1987 quando prende parte a diverse attività del gruppo di studio di dermatologia della SCIVAC, divenendone il responsabile nazionale per il biennio 1994-1995. Ha frequentato in più occasioni seminari formativi a livello specialistico all’estero, e ha ottenuto, a seguito di un corso triennale (1993/95) presso le Facoltà Veterinarie di Lyon e Nantes il Diploma Francese di specialità in Dermatologia Veterinaria. Collabora con SCIVAC come relatore ai corsi di Dermatologia da svariati anni, ha presentato pubblicazioni scientifiche in riviste nazionali, relazioni e casi clinici in convegni e congressi nazionali ed europei. Attualmente lavora a Milano, presso la Clinica Veterinaria Papiniano. Collabora con la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano dove, per l’anno accademico 2003-2004, è stato nominato professore a contratto di Dermatologia per la Scuola di Specialità in Piccoli Animali da Compagnia. È full member della ESVD, uno dei promotori e soci fondatori della SIDEV nella quale riveste attualmente la carica di vice-presidente.

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SERGIO FANFONI Med Vet, Roma Laureato con Lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Perugia nel 1991. Dal 1998 al 2000 ha rivestito il ruolo di collaboratore nel Gruppo di Studio di Medicina Interna della SCIVAC. Dal 2001 è Coordinatore del suddetto Gruppo. È stato relatore al Corso pratico SCIVAC di “ Metodologia clinica” e a Congressi e Seminari nazionali SCIVAC. Attualmente svolge attività libero professionale nel campo della medicina interna, ecografia e cardiologia presso la Clinica Veterinaria Caffarella di Roma e nel suo ambulatorio a Monte San Savino (AR). PIERLUIGI FANT Med Vet, Dipl DESV ana-path, Padova Laureato in Medicina Veterinaria alla Facoltà di Bologna nel febbraio 1997 con lode. Nel 1998 ha compiuto uno stage annuale presso l’azienda farmaceutica Aventis-Parigi. Nello stesso anno si è iscritto al residency triennale in anatomia patologica veterinaria (Diplôme d’Etudes Spécialisées Vétérinaires, DESV, en anatomie pathologique) presso l’Ecole Nationale Vétérinaire d’Alfort (ENVA, Parigi) sotto la direzione dei Prof. A.L. Parodi e F. Crespeau. Nel settembre 2001 ha conseguito il titolo di Spécialiste en Anatomie Pathologique Vétérinaire (titolo di studio attestante la “board-eligibility” per l’European College Veterinary Pathology, ECVP). Ha lavorato per circa due anni nel campo della diagnostica istopatologica veterinaria presso il Laboratoire d’Histo-cytopathologie Vétérinaire Mialot-Lagadic di Maisons-Alfort, Parigi. Dal Giugno 2003 è responsabile del servizio di Istopatologia del Laboratorio d’Analisi Veterinarie San Marco. EMILIO FELTRI Med Vet, Castelnuovo Scrivia (AL) Laureato presso l’Università degli Studi di Parma nel 1996. Dal 1999 segue un programma di aggiornamento continuo in anestesiologia presso l’Unviersità di Gent e l’Università di Berna sotto la supervisione del Prof. Yves Moens. È membro della Società SCIVAC di Anestesiologia, della Società europea di Anestesia Veterinaria (AVA), della Società di Anestesia a Bassi Flussi (ALFA). È, inoltre, docente e istruttore ai Corsi Professionali SCIVAC di anestesia e ai Seminari professionali di livello base e avanzato in collaborazione con lo staff dell’Università di Berna. Nel triennio 2003-2005 ricoprirà l’incarico della SIARMUV (Società di Anestesia e Medicina di Urgenza SCIVAC). I suoi principali ambiti di interesse riguardano le tecniche avanzate di basso flusso nell’anestesia gassosa e nel controllo del dolore nel periodo perioperatorio, oltre che le più moderne tecniche di monitoraggio. IVAN FILECCIA Med Vet, CES Derm, Roma Laureato col massimo dei voti presso l’Università di Perugia nel 1988, dal 1992 si occupa di dermatologia veterinaria, curando l’aggiornamento permanente attraverso corsi di approfondimento e congressi in Italia ed all’estero. Nel biennio 1998-99 ha frequentato un corso avanzato di dermatologia veterinaria in Francia presso le Università di Lyon e di Nantes (Certificat d’Etude Supérieur en Dermatologie Vétérinarie) ed ha compiuto un training di perfezionamento in dermatologia veterinaria, all’Università della Florida (USA) sotto la guida della dottoressa Rosanna Marsella. È Full Member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) e dell’AAVD (American Academy of Veterinary Dermatology). Ha presentato relazioni inerenti la dermatologia veterinaria in occasione di riunioni SCIVAC di Dermatologia (SIDEV-Società Italiana di Dermatologia Veterinaria) ed in incontri provinciali e regionali. Attualmente lavora in qualità di libero professionista occupandosi esclusivamente di dermatologia veterinaria e prestando consulenze dermatologiche in diverse cliniche dislocate a Roma e nel Lazio.


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LUCA FORMAGGINI Med Vet, Dormelletto (NO) Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dopo vari periodi di tirocinio in Italia e all’estero, lavora per due anni presso la Clinica veterinaria “Città di Pavia”e per altri due anni presso il Centro veterinario “Gregorio VII” in Roma, rivestendo responsabilità di chirurgo e medico di pronto soccorso. Dal 1996 lavora presso la Clinica veterinaria “Lago Maggiore”di cui è socio fondatore. È relatore in diversi corsi SCIVAC di chirurgia, ortopedia e medicina/chirurgia d’urgenza. È stato relatore a diversi congressi e seminari a livello nazionale. Membro SCIVAC, BSAVA, VECCS e EVECCS, è Resident in training per accedere all’esame dello European College of Veterinary Surgery (ECVS). Dal 2001 è Segretario della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi di interesse sono la chirurgia/traumatologia e la medicina d’urgenza. TOMMASO FURLANELLO Med Vet, Padova Si è sempre interessato di medicina interna del cane e del gatto, con particolare interesse verso la farmacologia clinica, le malattie infettive e la diagnostica clinica. Ha frequentato l’Università della Georgia ed altri centri veterinari nordamericani. È uno degli autori del Prontuario Veterinario SCIVAC e ha pubblicato numerosi articoli scientifici su Veterinaria ed altre riviste italiane ed estere ed ha presentato delle comunicazioni anche al congresso annuale del American College of Veterinary Internal Medicine (ACVIM) negli anni 1996, 1997, 1998 e 2000 e al Congresso Annuale ESVIM/ECVIM del 2000 e 2003. È uno degli autori della monografia SCIVAC sulla filariosi cardiopolmonare. Dal 1992 è stato relatore a numerosi congressi e seminari SCIVAC ed ha partecipato ai Corsi Pratici SCIVAC, in qualità di relatore, di Approccio Orientato al Problema, Diagnostica di Laboratorio, Biochimica Clinica, Endocrinologia Clinica, Coagulopatie e Pronto Soccorso. Ha collaborato, sia nelle fasi organizzative che scientifiche, alla conduzione del Gruppo di Studio di Medicina Interna. È attualmente past-president della Società Italiana di Medicina Felina e segretario della Società Italiana di Medicina Interna Veterinaria. Dal 1996 al 2002 ha ricevuto, dalla Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, l’incarico all’insegnamento di Malattie Infettive dei Piccoli Animali e nel 2002-2003 quello per l’insegnamento di Metodologia Clinica. Attualmente sta conducendo un gruppo di lavoro per lo studio di malattie infettive trasmesse da zecche emergenti quali la rickettsiosi canina ed ehrlichiosi granulocitaria canina (infezioni da A, phagocytophila). PAOLO GAGLIO Med Vet, Roma Laureato all’università di Parma nell’aprile del 1998 (100/110). Nel periodo gennaio-maggio 1999 frequenta il tirocinio presso l’ambulatorio veterinario del Dott Giorgio Bagnasco a Bogliasco (Ge). Da maggio ad ottobre dello stesso anno frequenta tirocinio presso la Clinica Veterinaria Gregorio VII del Dott. Matteo Tommasini Degna con particolare attenzione per la disciplina della medicina d’urgenza seguendo il Dott. Gabriel Lozano. Nell’ottobre 1999 viene assunto dalla clinica veterinaria Gregorio VII dove lavora attualmente occupandosi insieme ad altri due colleghi (dott Marco Bertoli dott.sa Paola Vagnerini) della gestione del pronto soccorso notturno lavorando solo la notte. Nel marzo 2001 ha partecipato al 42° congresso nazionale SCIVAC durante il quale, nell’ambito delle comunicazioni libere, ha presentato con il dott. Migliorini il Dott Ruggiero una relazione “ Un caso di tromboembolismo aortico nel cane in seguito ad iperadrenocorticismo”. Ha seguito seguito vari congressi sul tema medicina d’urgenza e terapia intensiva. È socio SCIVAC, V.E.C.C.S., E.V.E.C.C.S. Nel settembre-ottobre 2001 ha seguito e partecipato come istruttore insieme al dott. Marco Bertoli al corso Scivac di Pronto soccorso dove ha esposto una relazione sulle emergenze respiratorie. Nell’aprile del 2002 ha partecipato ad Amsterdam al congresso di fondazione dell’E.V.E.C.C.S.

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FRANCA GALEOTTI Med Vet, Firenze Si è laureata, a pieni voti, presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa nel 1982, con una tesi di laboratorio sulle epatopatie nel cane. Svolge in Firenze attività di libera professionista dal 1985 dedicando più del 50% del suo tempo alla dermatologia. È relatrice ed istruttrice ai corsi di dermatologia patrocinati dalla SCIVAC dal 1993, anno del loro inizio. Ha partecipato a convegni, congressi nazionali ed internazionali concernenti la dermatologia in qualità di relatore. È full member dell’ ESVD, società europea di dermatologia veterinaria, ed è socio fondatore della SIDEV, società italiana di dermatologia veterinaria, di cui si è occupata della rivista ufficiale “Quaderni di Dermatologia” in qualità di curatrice dell’edizioni, scelta ed armonizzazione dei casi da pubblicare. Attualmente in ambito SIDEV riveste la carica di segretaria dal 1999. GUALTIERO GANDINI Med Vet, Dipl ECVN, Bologna Il Dr. Gualtiero Gandini si è laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bologna nel 1990. Dal 1995 ricopre il ruolo di ricercatore presso il Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università degli Studi di Bologna. Nel 1996 ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Medicina Interna Veterinaria. Dal 1998 al 2002 è stato impegnato in un “non-conforming residency programme” in neurologia veterinaria sotto la guida del Prof. André Jaggy. Dal 2000 ad oggi è membro dell’Executive Committee della European Society of Veterinary Neurology (ESVN). Nel marzo 2003 ha conseguito il titolo di “Diplomate of the European College of Veterinary Neurology (DECVN)”. È autore e coautore di circa 45 pubblicazioni scientifiche, di cui 9 su riviste internazionali peer-reviewed. GIOVANNI GHIBAUDO Med Vet, Samarate (VA) Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1994; all’Istituto di Microbiologia ed Immunologia con una tesi sul sistema immunitario del cane e del gatto. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa come referente per la dermatologia, l’ematologia, la citologia diagnostica e l’oncologia. Ha svolto il corso di Dermatologia dell’ESAVS (European School for Advanced Veterinary Studies) 1996-98. Full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) e dell’ECVIM (European College of Veterinary Internal Medicine). Ha effettuato la prima parte dell’esame per il Diploma dell’ECVD (European College of Veterinary Dermatology) nel 2000. È stato istruttore al Corso base di Dermatologia della SCIVAC (Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia) nel 2000 e 2001. Autore di diversi articoli su riviste veterinarie nazionali ed estere. È stato relatore al Congresso Nazionale della SCIVAC nel 1999 e 2002. Ha inoltre presentato alcune relazioni in occasione di riunioni SCIVAC di Dermatologia (SIDEV-Società Italiana di Dermatologia Veterinaria). SABRINA GIUSSANI Med Vet, Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA) Si laurea cum laude a Milano in Medicina Veterinaria. Lavora da libero professionista a Gallarate dal 1997 e dal 1998 si occupa di patologia comportamentale. È iscritta alla SISCA dal 1998. Consigliere della SISCA dal 2002. Ha seguito seminari, corsi di base ed avanzati di patologia comportamentale sia in Italia che in Francia. Ha conseguito nel 2002 il diploma di Medico Veterinario Comportamentalista nelle ENV Francesi. È relatrice in corsi, seminari, giornate di approfondimento di Medicina comportamentale. Ha pubblicato articoli di medicina comportamentale su riviste veterinarie e di settore. Membro di Zoopsy (associazione dei medici veterinari comportamentalisti francesi). Membro dell’ESVCE.


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MARGHERITA GRACIS Med Vet, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Milano La Dott.ssa Gracis si è laureata nel 1993 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. Dopo la laurea ha lavorato come Libero Professionista presso la Clinica Veterinaria Città di Monza. Dal 1996 al 1998 ha effettuato un Residency in Odontostomatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia (USA). Ha poi lavorato come Lecturer in Odontostomatologia Veterinaria nella stessa Facoltà fino a Luglio 2000, quando è tornata a Milano. Nel 1999 ha vinto il “Pharmacia and Upjohn European Veterinary Dental Award” per due studi radiografici del canino superiore del cane e del gatto. Dal 2000 lavora presso due cliniche private a Milano e Monza (Milano), dedicandosi esclusivamente all’odontostomatologia e alla chirurgia orale. È diplomata dei College Americano (AVDC) ed Europeo (EVDC) di Odontostomatologia Veterinaria. Attualmente ricopre la carica di Presidente dell’European Veterinary Dental Society (EVDS) e della Società Italiana di Odontostomatologia Veterinaria (SIODOV), ed è membro del Comitato Direttivo dell’European Veterinary Dental College (EVDC). La Dott.ssa Gracis è stata relatrice dal 1997 a congressi nazionali ed internazionali e autrice di diversi articoli e pubblicazioni relativi all’odondostomatologia veterinaria. OSCAR GRAZIOLI Med Vet, Reggio Emilia Oscar Grazioli, conseguita la maturità classica, si è laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli studi di Parma nel 1978. I suoi principali campi di interesse sono l’anestesiologia, la medicina interna e la patologia degli animali esotici, con particolare riferimento ai rettili. Autore di diverse pubblicazioni scientifiche è stato relatore a numerosi congressi e seminari. Dal 1992 è ordinary member della Association of Veterinary Anaesthetists (AVA) inglese. Nel triennio 1996 - 1998 è stato coordinatore del gruppo SCIVAC di Anestesia, Rianimazione, Medicina d’emergenza e terapia del dolore di cui è tuttora collaboratore. Oscar Grazioli è anche giornalista pubblicista e recentemente scrittore, avendo esordito nel campo letterario con un libro intitolato “Quello che gli animali non dicono”, che ha ottenuto unanime consenso di pubblico e di critica. Vive e lavora a Reggio Emilia. ADOLFO GUANDALINI Med Vet, Dipl ECVO, Dott. Ric. Oft Vet, Roma Si è laureato in Medicina Veterinaria nel Luglio del 1988 con 110/110 e lode presso l’Università degli Studi di Perugia. Dal Maggio 1998 è Diplomato dell’European College of Veterinary Ophthalmologists (ECVO). È Dottore di Ricerca in Oftalmologia Veterinaria. È il chairman del Comitato di “Ricertificazione” dell’ECVO. Nell’anno Accademico 1990-91 ha effettuato un Internato in Oftalmologia Veterinaria presso la Scuola Nazionale Veterinaria di Lione. Nel 1993 è stato Visiting Assistant Professor presso la Sezione di Oftalmologia Comparata del College of Veterinary Medicine dell’Università della Florida. Dal 1991 al 2000 ha effettuato numerosi externships: Animal Eye Associates (Chicago, Illinois), Animal Ophthalmology Clinic (Dallas, Texas), Ohio State University (Columbus, Ohio), Sacramento Animal Medical Group (Sacramento, California), Veterinary Ophthalmology Services (Warwick, Rhode Island), Long Island Veterinary Specialist (Long Island, New York), University of North Carolina at Chapel Hill (Chapel Hill, North Carolina), North Carolina State University (Raleigh, North Carolina). Nel 1994 ha frequentato il Basic Science Course dell’American College of Veterinary Ophthalmologists (ACVO) - North Carolina State University, Raleigh. È autore e coautore di numerosi articoli scientifici riguardanti l’Oftalmologia Veterinaria pubblicati su riviste Nazionali ed Internazionali. Dal 1992 ad oggi è membro del Consiglio Direttivo della SOVI della quale è attualmente Vice-Presidente. Dal 1997 è Relatore ed Istruttore nel Corso base SOVI/SCIVAC. È stato membro del Consiglio Direttivo e Delegato per l’estero dell’AIVPA nel triennio 1993-1996.

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ADRIANO LACHIN Med Vet, Venezia Laureato presso l’Università degli Studi di Parma nel 1996. Dal 1997 ha iniziato ad occuparsi di Chirurgia Generale frequentando diversi corsi sull’argomento tenuti dalla SCIVAC (“Corso base di Chirurgia”, “Corso base di Chirurgia Toracica”, Corso di Oncologia Chirurgica”), nonché numerosi congressi e seminari sull’argomento; sempre nello stesso anno è entrato in qualità di “ospite frequentatore” nel reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale “Villa Salus” di Mestre (Ve) frequentando attivamente la sala operatoria, attualmente sta frequentando con le medesime modalità il reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale di Dolo (Ve). Dal 1999 ha incominciato ad interessarsi di Anestesia cominciando un “continuing education” in collaborazione con il Dott. Oscar Grazioli ed il Dott. Emilio Feltri, collaborazione che continua tuttora. Membro SIARMUV, ha presentato una comunicazione libera al Congresso Multisala di Milano 2002 sull’utilizzo della Ketamina a bassissimi dosaggi per l’analgesia intra e postoperatoria; successivamente, relatore ed istruttore al Corso di Anestesia SCIVAC per l’anno 2003 e 2004, nonché relatore a numerosi seminari e corsi privati di livello base sull’argomento, ha inoltre presentato una relazione al Corso di Pronto Soccorso SCIVAC 2003. Ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “Medicina d’urgenza e terapia intensiva del cane e del gatto” (Masson-2004). I suoi principali campi di interesse professionale riguardano, oltre all’Anestesiologia, anche la Chirurgia Generale. Attualmente svolge l’attività libero professionale in due Cliniche Veterinarie a Padova e a Vicenza, di cui è uno dei titolari, occupandosi esclusivamente di Anestesia. FEDERICO LEONE Med Vet, Senigallia (AN) Nato a Roma, si è laureato in Medicina Veterinaria all’Università degli Studi di Perugia. Attualmente lavora come libero professionista a Senigallia (AN) presso la Clinica Veterinaria Adriatica, di cui è socio fondatore, occupandosi esclusivamente di Medicina Interna e Dermatologia. Nel 1995 ha effettuato uno stage di dermatologia presso la Clinique Vétérinaire Saint Bernard del Dr Eric Guaguère (Lomme, Francia). Nel biennio 1998-1999 ha frequentato la 5a sessione del Certificat d’Etude Superieures (CES) en Dermatologie Vétérinaire presso l’Ecole Nationale Vétérinaire di Nantes e di Lyon. È full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) e dell’AAVD (American Academy of Veterinary Dermatology). È autore di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. È coautore del libro “L’otite del cane e del gatto” (ed. Poletto 2001) e del “Manuale pratico di parassitologia cutanea del cane e del gatto” (ed. Pfizer 2003). FRANCESCO LONGO Med Vet, Firenze Laureato in Medicina Veterinaria. Specializzato in Riproduzione Animale. Ha conseguito gli attestati di Agopuntura Veterinaria e di Agopuntura Scientifica Veterinaria. Ha conseguito il diploma della I.V.A.S. (International Veterinary Acupuncture Society). È socio fondatore della S.I.A.V. (Società Italiana Agopuntura Veterinaria). È stato docente nel Master Universitario di “Medicine Energetiche in Veterinaria” presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Udine. Attualmente ricopre le cariche di Vicepresidente della S.I.A.V., di Vicepresidente della S.I.M.Ve.N.Co. (Società Italiana Medicina Veterinaria Non Convenzionale) e di Direttore del Dipartimento di Agopuntura Veterinaria della Fondazione Ricci. È docente e direttore dei corsi di Agopuntura Veterinaria S.I.A.V. Svolge la propria attività professionale di Agopuntura Veterinaria (soprattutto sui cavalli) in giro per l’Italia. Ha pubblicato diversi contributi sull’Agopuntura Veterinaria.


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UGO LOTTI Med Vet, Monsummano Terme (PT) Si è laureato con lode a Pisa nel 1981. Dopo il servizio militare, si è dedicato ad una “mixed practice” fino al 1988, occupandosi principalmente di medicina equina e dei piccoli animali. Nel 1989 si è specializzato in medicina dei piccoli animali presso l’università di Pisa. Dal 1990 si occupa esclusivamente di medicina dei piccoli animali (cane e gatto). Autore di pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali. Relatore presso numerosi corsi, seminari e congressi nazionali organizzati dalla SCIVAC (società culturale italiana veterinari per animali da compagnia). Dal 1994 fa parte del consiglio direttivo della SCIVAC e nel 1995 né è diventato il segretario. Attualmente lavora in un ospedale veterinario a monsummano terme in Toscana, di cui è il direttore sanitario, dove si occupa principalmente di medicina interna. GEORGES LUBAS Med Vet, Dipl ECVIM, Pisa Laureato presso l’Università di Pisa nel 1975, dove ha anche conseguito la specializzazione in “Malattie dei Piccoli Animali” nel 1977. Dal 1979 Assistente Ordinario alla Cattedra di Clinica Medica Veterinaria presso l’Università di Pisa dove ha anche svolto tutta la carriera didattica e scientifica. Dal 1983 Professore Associato dapprima di “Ematologia Clinica Comparata”, quindi dal 1995 di “Clinica Medica Veterinaria”. Dal 1985 al 2002 Professore Incaricato di “Genetica” presso la Scuola di Specializzazione in “Patologia e Clinica degli Animali d’Affezione”. Nel biennio 2002-2003 Presidente del Consiglio di Corso di Laurea Specialistica in Medicina Veterinaria. Nel Luglio 2002 ha conseguito l’idoneità a Professore Ordinario di ‘Clinica Medica Veterinaria’ e dal Dicembre 2003 è stato chiamato come Professore Straordinario nella stessa disciplina presso l’Università di Pisa. Nel settembre 1998 ha superato l’esame per ottenere il Diploma del Collegio Europeo di Medicina Interna per gli Animali da Compagnia, specialità Medicina Interna (Dipl. ECVIM - CA). Dall’aprile 2004 nominato Membro Associato del Collegio Europeo di Patologia Clinica Veterinaria (A.M. ECVCP). È autore e coautore di oltre 250 pubblicazioni inerenti l’immunoematologia e l’ematologia clinica del cane, gatto, cavallo e bovino. Ha tenuto oltre 150 tra Conferenze, Seminari e Corsi d’aggiornamento sulle medesime tematiche ai medici veterinari che si dedicano ai piccoli animali ed equini. ROBERTO MARCHESINI Med Vet, Bologna Studioso di Scienze Comportamentali Applicate, è Professore a contratto presso la Facoltà di Medicina Veterinaria delle Università di Milano e Bologna. È inoltre docente responsabile dell’area Zooantropologia generale e applicata presso il Master “Scienze del Comportamento e Pet Therapy” dell’Università degli Studi di Teramo; docente presso il Master “Medicina Comportamentale degli animali da affezione” dell’Università degli Studi di Pisa; docente responsabile dell’area Zooantropologia applicata presso il Master di II livello interateneo “Etologia applicata e benessere animale” delle Università degli Studi di Bologna e di Padova. Riveste le seguenti cariche: vice presidente della Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate (SISCA) e direttore della Scuola di Interazione Uomo Animale (SIUA). Dal 2003 è Responsabile scientifico del progetto finanziato dal Ministero della Salute: “Un percorso di prevenzione e sostegno dell’affettività attraverso le attività e terapie assistite dagli animali”, progetto in collaborazione con Istituto Zooprofilattico dell’Abruzzo e del Molise “G. Caporale”; Università degli Studi di Roma “La

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Sapienza”, Facoltà di Psicologia 1, Cattedra di Psicologia dello Sviluppo, Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica; Università degli Studi di Bari, Scienze della Formazione, Dipartimento di Piscologia. Ha pubblicato oltre un centinaio di studi e articoli di bioetica, zooantropologia teorica e applicata ed epistemologia applicata alle scienze biologiche. Tra i libri pubblicati: La fabbrica delle chimere (Bollati Boringhieri, 1999); Lineamenti di zooantropologia, (Edagricole-Calderini, 2000); Bioetica e scienze veterinarie (ESI, 2001); Post-Human (Bollati Boringhieri, 2002); Bioetica e Biotecnologie (Apèiron, 2002). MASSIMO MARISCOLI Med Vet, Dipl ECVN, Teramo Massimo Mariscoli, laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna. È stato Assistente presso l’Istituto di Neurologia Veterinaria dell’Università di Berna (CH) dal 1994 al 1996. Si è Diplomato al European College of Veterinary Neurology nel 1996. Professore a contratto presso l’Università di Padova negli AA 1996/1997; 1997/1998 e 1998/1999; presso la Scuola di Specializzazione in Chirurgia Veterinaria dell’Università di Parma nell’AA 1997/1998. Dal 1999 svolge la propria attività l’Università di Teramo prima come Ricercatore poi come Professore Associato nel s.s.d.VET/09 – Clinica Chirurgica Veterinaria. Ha partecipato in qualità di relatore a numerosi congressi, corsi e seminari nazionali ed internazionali. È attualmente Vice-Presidente della Società Italiana di Neurologia Veterinaria. FILIPPO MARTINI Med Vet, Parma Nato a Parma il 16/01/1968. Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Parma nel 1993 ed abilitato alla professione nello stesso anno. Nel 1997 ha conseguito il titolo di Dottore in Ricerca in “Ortopedia degli animali domestici”. Attualmente è Ricercatore Confermato presso il Dipartimento di Salute Animale dell’Università degli Studi di Parma ed è docente dei corsi di “Medicina operatoria”, “Chirurgia piccoli e grandi animali”, “Clinica dei piccoli animali: medicina, ginecologia-ostetricia, chirurgia, radiologia e diagnostica per immagini”; è inoltre docente del corso di “Medicina sperimentale, ingegneria tissutale e bioprotesi” nel Corso di Laurea in Biotecnologie Mediche, Veterinarie e Farmaceutiche. È autore di 40 pubblicazioni apparse su riviste nazionali ed internazionali o in forma di comunicazioni presentate a congressi nazionali ed internazionali. Ha effettuato alcuni periodi di soggiorno all’estero presso: - Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Monaco (Germania) con la supervisione del Prof. Matis. - Istituto di Diagnostica per Immagini della Facoltà di Medicina Veterinaria di Ghent (Belgio) con la supervisione del Prof. Van Bree. È socio ordinario delle seguenti società scientifiche: Società Italiana delle Scienze Veterinarie (SISVET), Società Italiana di Ippologia (SIDI), European Society of Veterinary Orthopaedics and Traumatology (ESVOT), Società Italiana di Chirurgia Veterinaria (SICV), International Elbow Working Group (IEWG), Società Italiana Traumatologia e Ortopedia Veterinaria (SITOV), Società Culturale Italiana Veterinari per Animali da Compagnia (SCIVAC). È segretario della SIMESC (Società Italiana di Medicina Sportiva del Cane). I principali campi di interesse sono rappresentati dall’ortopedia del cane e del gatto. La maggior parte dell’attività è incentrata sullo studio clinico ed applicativo del trattamento delle patologie articolari del cane con particolare riferimento all’impiego dell’artroscopia. Svolge attività di ricerca sperimentale sull’impiego dei biomateriali nella chirurgia ortopedica collaborando con diversi gruppi di ricerca.


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CARLO MASSERDOTTI Med Vet, Brescia Laureato col massimo dei voti presso l’Università di Milano nel 1990. Dal 1993 si occupa di citopatologia diagnostica, curando l’aggiornamento permanente con corsi di approfondimento e frequentando centri di referenza in Italia ed all’estero. È autore di alcune pubblicazioni inerenti la citopatologia ed è relatore a meeting nazionali ed internazionali. Dal 1988 è istruttore e relatore al corso di Citologia organizzato dalla SCIVAC. Dal 2001 ricopre la carica di presidente della SICIV (Società Italiana di Citologia Veterinaria). MAURIZIO MAZZUCCHELLI Med Vet, Gallarate (VA) Nato ad Aosta il 16 marzo 1959 si è laureato, conseguendo il punteggio di 107/110, presso l’Istituto di Biochimica e Fisiologia della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano nell’Anno Accademico 1984-1985, con una tesi sperimentale dal titolo “Determinazione della Taurina plasmatica in cromatografia liquida ad alta pressione (H.P.L.C.)”. È vice-presidente dell’Ordine dei Medici Veterinari della Provincia di Varese ed è membro del Consiglio Regionale S.C.I.V.A.C. della Lombardia. Socio della S.O.V.I.(Società di Oftalmologia Veterinaria Italiana) fin dalla sua costituzione, ricopre attualmente l’incarico di segretario all’interno del Consiglio Direttivo della stessa società. Relatore ed istruttore per l’oculistica nel Corso di formazione post-laurea per Medici Veterinari “Corso FSE - Working Experience nell’area della Medicina Veterinaria dei Piccoli Animali”, organizzato dall’ENAIP della Regione Lombardia, ha anche partecipato, sempre in qualità di relatore, ad incontri su temi di oftalmologia. Lavora dal 1986 nel suo studio di Gallarate, e presta consulenze, con attività esclusiva nel settore dell’oculistica veterinaria, presso altre strutture veterinarie. Si occupa prevalentemente di oftalmologia degli animali da affezione con particolare interesse per la ricerca e lo studio delle oculopatie di origine ereditaria nei cani di razza pura. LUCA MECHELLI Med Vet, Perugia Il Prof. Luca Mechelli ha conseguito la laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia nel 1981 e dal 1983 ha svolto la propria attività presso la Sezione di Patologia Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria - Università degli Studi di Perugia. Dal 1998 è Professore Associato con incarichi di docenza presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Ateneo di Perugia e Camerino, nonché presso la Facoltà di Agraria e di Medicina e Chirurgia di Perugia. Nel 1994 viene nominato refree della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria (S.I.D.E.V.). È autore di oltre 100 pubblicazioni inerenti la dermatopatologia e la fisiopatologia cutanea degli animali domestici e l’oncologia veterinaria. Attualmente è professore straordinario di Patologia ed Oncologia veterinaria. FRANCESCO MIGLIORINI Med Vet, Roma Laureato con lode presso l’Università degli studi di Bologna nel 1995 con una tesi dal titolo “Ultrasonografia vascolare dell’aorta addominale nel cane”. Ha frequentato numerosi centri di referenza, italiani e stranieri, per la cardiologia e l’ecografia addominale; tra gli altri ha trascorso periodi di studio presso l’Animal Medical Center-New York, il Royal Veterinary College- Londra, il reparto di cardiologia presso UCDavis. Svolge la libera professione a Roma presso la Clinica Gregorio VII occupandosi di cardiologia ed ecografia addominale. È autore di alcune pubblicazioni scientifiche su riviste italiane e straniere. È stato relatore presso incontri SCIVAC regionali e autore di comunicazioni libere presso congressi nazionali. È istruttore ai corsi SCIVAC di cardiologia ed ecografia addominale.

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MASSIMO MILLEFANTI Med Vet, Gaggiano (MI) Milanese, 47 anni, sposato, 3 figli si è laureato a Milano in Medicina Veterinaria nel 1982. Lavora in un Ambulatorio Veterinario a pochi chilometri da Milano, che ha costituito nel 1983. Si interessa in particolar modo di medicina e chirurgia di nuovi piccoli mammiferi da compagnia, di rettili e anfibi e di pesci ornamentali. È stato Coordinatore del Gruppo di Studio di Animali Esotici della SCIVAC (Società Culturale Italiana Veterinari per Animali da Compagnia) dal 1995 al 1998. Attualmente è Vicepresidente e membro della Commissione Scientifica della SIVAE (Società Italiana Veterinari per Animali Esotici), di cui è socio fondatore. Collabora con il Notiziario “Exotic files” della stessa Società. È consulente della Commissione Scientifica della SCIVAC ed è consigliere dell’ANMVI Lombardia. Ha partecipato a molti Congressi, Seminari e Corsi italiani ed europei, come relatore ed istruttore. Ha redatto numerosi lavori scientifici pubblicati anche all’estero. Ha partecipato a trasmissioni televisive e radiofoniche ed ha tenuto conferenze sulla gestione degli animali esotici e dei nuovi animali da compagnia per allevatori e proprietari. Collabora con alcuni giornali, riviste del settore, siti internet e con alcune ditte. Ha scritto dei libri sulle malattie dei pesci ornamentali, sull’iguana verde, sul pitone reale, sul boa costrittore, sui camaleonti, sulle tartarughe acquatiche e sui gechi per la De Vecchi Editore (DVE). Attualmente dirige, per lo stesso Editore, una collana di guide dedicate ad animali esotici ed affini come ragni giganti, furetti, anfibi anuri, criceti, conigli da compagnia, tartarughe, testuggini e cani della prateria. EMANUELA MORELLO Med Vet, Torino Laurea (1994) in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Torino. Dottorato di ricerca in “oncologia veterinaria e comparata” presso la stessa Facoltà dove è attualmente ricercatrice nel settore di chirurgia. Ha frequentato per un anno la Colorado State University interessandosi principalmente di oncologia e chirurgia dei tessuti molli. È autrice di pubblicazioni nazionali ed internazionali. CARLO MARIA MORTELLARO Med Vet, Milano Nato a Rivolta d’Adda, Cremona, il 5 Febbraio 1950, si è laureato in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano nel 1974. È stato professore di Anestesiologia Veterinaria presso la stessa Università dal 1976 al 1979. Dal 1980 al 1992 ha ricoperto il ruolo di Professore Associato di Patologia Chirurgica Veterinaria e Podologia e nel 1993 è stato nominato Professore Ordinario di Patologia Chirurgica Veterinaria, ruolo che tuttora ricopre. I suoi principali interessi scientifici sono rappresentati dalle patologie di orecchio, naso e gola nel cane e nel gatto, lesioni del cavo orale, endoscopia delle vie aeree superiori ed infine patologie della regione anale e circumanale (da un estremo all’altro del corpo senza transitare in mezzo). In questi ultimi anni un interesse particolare è stato rivolto alle patologie osteo-articolari distrofico-displastiche (nota la sua avversione per le forme “carenziali”) del cane e del gatto. È Presidente in carica dell’IVENTA (International Veterinary Ear Nose and Throat Association). È referente scientifico del Gruppo di Studio di Ortopedia della SCIVAC. È autore-coautore di 160 pubblicazioni. È stato relatore in numerosi congressi e seminari di aggiornamento post-universitario in Italia ed all’Estero. Talvolta suona (le tastiere).


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PIER PAOLO MUSSA Med Vet, Dipl ECVCN, Torino Nato a Camerano Casasco (AT) il 27.8.1946. Laureato in Medicina Veterinaria il 10.9.70. Professore ordinario di “Nutrizione ed Alimentazione Animale” dal 1994. Diplomato presso l’European College of Veterinary and comparative nutrition. È autore di oltre 180 pubblicazioni scientifiche che riguardano prevalentemente l’alimentazione animale, in particolare quella dei carnivori domestici e di 13 libri di tipo scientifico e scientifico-divulgativo. Altre attività: Vice-preside della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Presidente del C.I.S.R.A. (Centro interdipartimentale servizio ricovero animali) dell’Università di Torino, Presidente della S.I.A.N.A. (Società italiana di alimentazione e nutrizione animale), Presidente della WAVES (Wild Animals Veterinary Euromediterranean Society) italiana. LAURA ORDEIX Med Vet, Dipl ECVD, Milano Laureata in medicina veterinaria nel 1996 all’Universitat Autonoma de Barcelona, ha seguito dal 1996 al 1997 il programma di internship presso il Veterinary Teaching Hospital della stessa università. Dal 1998 al 2001 ha frequentato un Residency di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria a Barcellona con Lluis Ferrer e Alessandra Fondati. Nel 2002 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip. ECVD). Attualmente lavora eseguendo consulenze dermatologiche a Milano ed a Torino. È autrice di articoli pubblicati su riviste internazionali e nazionali. ROBERTO ORSI Med Vet, SMPA, Pistoia Laureato con lode in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Veterinaria di Pisa nel 1982. Specialista in Malattie dei Piccoli Animali nel 1987 presso la stessa Facoltà. Libero professionista nel settore degli animali di affezione in Pescia (Pistoia). Si occupa di Medicina Non Convenzionale Veterinaria, prevalentemente Omeopatia Unicista. Diplomato alla Scuola Italiana di Omotossicologia nel 1989 e alla Scuola Superiore Internazionale di Omeopatia Veterinaria “dr.ssa R. Zanchi” di Cortona (direttore dr. Franco Del Francia) nel 1992. Dallo stesso anno fa parte del corpo docente di questa Scuola. Ha tenuto lezioni al Corso di Perfezionamento in Terapie Omeopatiche presso il Dipartimento di Medicina e Farmacologia Veterinaria della Facoltà di Veterinaria di Messina nel 1993 e al Corso di Clinica Medica della Facoltà di Veterinaria di Pisa nel 2001. Ha seguito corsi sulla Didattica dell’Omeopatia Veterinaria all’estero. (Torremolinos, 1995; Karlsruhe 1998). Ha partecipato con relazioni sull’Omeopatia Veterinaria a vari congressi e seminari, nazionali ed internazionali (Cortona, 1996 e 1997; Versmold, 1997; Atene, 1999; Glasgow, 1999; Roma, 1999; Montecatini, 2000; Budapest, 2000). Autore di vari articoli sull’Omeopatia Veterinaria. È stato Coordinatore del Gruppo di Studio S.C.I.V.A.C. di Medicina non Convenzionale ed attuale Presidente della SIMVeNCO (Società Italiana di Medicina Veterinaria Non Convenzionale) “National representative” per l’Italia della International Association for Veterinary Homeopathy. “Teacher” presso la stessa associazione. Membro della Federazione Italiana delle Associazioni dei Medici Omeopati. MARIA CRISTINA OSELLA Med Vet, PhD, Chivasso (TO) Laureata in Medicina Veterinaria, Dottore di Ricerca in Medicina Interna, Socio fondatore SISCA e Tesoriere ESVCE 2002-2005. Ha organizzato e/o ha partecipato in qualità di relatore a congressi, corsi e se-

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minari sulle tematiche legate alla Clinica Comportamentale, sia in Italia sia all’estero. Attualmente opera come libero professionista dedicandosi al settore della diagnosi e del trattamento dei disturbi comportamentali nel cane e nel gatto; si occupa di programmi di Pet-Facilitated Therapy, a livello teorico e pratico applicativo; prosegue l’attività di aggiornamento per i colleghi e di ricerca scientifica nel settore della clinica comportamentale degli animali domestici; svolge attività di consulenza comportamentale privatamente, presso la Clinica Gran Sasso a Milano e presso il Consultorio di Medicina Legale e di Etologia Clinica applicata dell’Ospedale Veterinario della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. CLAUDIO PECCATI Med Vet, Spec Tecn Pat Av, Milano Laureato nel 1987 in Medicina Veterinaria a Milano con voto 110/110 e Lode con una tesi dal titolo “Il Difterovaiolo spontaneo e sperimentale del canarino”. Specializzato nel 1996 in Tecnologia e Patologia Aviare presso l’Università di Milano con voto 70/70 e Lode con una tesi dal titolo “Indagine sullo stato sanitario degli struzzi nel Nord Italia”. Tirocinio di 10 settimane sulla medicina e chirurgia degli animali esotici presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Utrecht (Olanda). Relatore ai congressi europei di Medicina Aviare del 1993, 1995, 1997, 1999. Presidente del Comitato Scientifico per il Congresso Europeo di Medicina e Chirurgia Aviare del 1999. Relatore a numerosi Congressi, Seminari e Corsi italiani sulla medicina e chirurgia degli uccelli. Relatore al corso su allevamento e patologie degli struzzi organizzato dall’I.Z.S. di Brescia. Relatore a diversi congressi Italiani sull’allevamento degli struzzi. Relatore e istruttore ai Corsi SCIVAC su uccelli e animali non convenzionali. Direttore del Corso di Medicina e Chirurgia degli Uccelli per la SCIVAC, nel 2000. Autore di articoli su vari aspetti della gestione e della medicina degli uccelli su varie riviste specializzate italiane. Tiene dal 1999 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Torino lezioni di anatomia, fisiologia, alimentazione e patologie degli Uccelli da gabbia e da voliera in associazione al corso di Patologia Aviare. Ha collaborato con l’Istituto di Patologia Aviare della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano alla realizzazione di Tesi di Laurea inerenti lo stato sanitario degli uccelli selvatici e con l’Istituto di Patologia Aviare della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino per una Tesi di Dottorato riguardante le malattie virali dei pappagalli. Membro della AAV (Association of Avian Veterinarians). Responsabile per l’Italia della AA, Vice-Presidente in carica della SIVAE (Società Italiana Veterinari per Animali Esotici). BRUNO PEIRONE Med Vet, Torino Nato a Torino il 23/7/1958. Laureato in Medicina Veterinaria nel 1983 e abilitato alla professione nello stesso anno. Nel 1988 ha conseguito il titolo di Dottore in Ricerca in Patologia Comparata degli Animali Domestici. Attualmente è Professore Associato presso il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino ed è titolare del Corso di “Patologia Chirurgica” e “Clinica Ortopedica e Traumatologica”. È membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca “Scienze Cliniche Veterinarie” dell’Università di Torino. È autore di 76 pubblicazioni apparse su riviste o in forma di comunicazioni presentate a congressi nazionali ed internazionali. Ha partecipato a numerosi Corsi di aggiornamento sulle tecniche di chirurgia ossea ricostruttiva e sulle tecniche ortopediche per il trattamento della patologie articolari. Ha partecipato, in qualità di relatore invitato, a diversi Congressi Scientifici ed iniziative di aggiornamento organizzate da associazioni di settore e da Ordini Provinciali di Medici Veterinari. Ha effettuato alcuni periodi di soggiorno all’estero presso:


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- Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Berna (CH) con la supervisione del Prof. Schawalder (settembre 1991). - Clinica del Dr. J.F. Bardet, 32 rue Pierret, Neuilly sur Seine, Parigi (luglio 1994). - Istituto di Clinica Chirurgica del Royal Veterinary College dell’Università di Cambridge (UK), con la supervisione del Prof. Houlton (ottobre 1997). - Clinica Chirurgica dell’Università di Zurigo (CH), con la supervisione del Prof. P.M. Montavon (ottobre 2000). Ha curato la traduzione italiana dei seguenti libri: “Atlas of Small Animal Surgery” di I. Gourley – C. Gregory, edito dalla UTET, “Current Techniques in Small Animal Surgery” sezione M- Scheletro appendicolare - di MJ Bojrab, edito dalla UTET È socio ordinario delle seguenti società scientifiche: - S.I.S.Vet. (Società Italiana Scienze Veterinarie) (dal 1984) - A.P.I.V. (Associazione Italiana Patologi Veterinari) (dal 1985) - S.I.C.V. (Società Italiana Chirurgia Veterinaria) (dal 1994) - ESVOT (European Society Veterinary Orthopaedics Traumatology) (dal 1996) - AO-Vet International (Arbeitsgemeinschaft fur Osteosynthesefragen (dal 1997) È vice-presidente della SIOVET (Società Italiana Ortopedia Veterinaria) È membro del Comitato Scientifico della IOVA (Innovet Osteoarthritis Veterinary Association) I principali campi di interesse sono rappresentati da: - Studio clinico ed applicativo del trattamento delle fratture e delle loro complicanze con tecniche di fissazione interna (Tecnica AO-ASIF) e di fissazione esterna (fissazione esterna, metodo Ilizarov) e metodiche di osteosintesi biologica (tecnica tie-in, tecnica plate and rod) - Studio clinico ed applicativo, metodologia diagnostica e protocolli terapeutici delle patologie ortopediche ossee ed articolari dei cani giovani ad accrescimento rapido - Diagnosi precoce della displasia dell’anca del cane e trattamento chirurgico differenziato nel cane giovane (triplice osteotomia pelvica) ed adulto (protesi d’anca). GRAZIANO LORENZO PENGO Med Vet, Cremona Si laurea nel 1989 in Medicina Veterinaria presso l’Università degli studi di Milano. Consulente presso diversi Studi Veterinari e Cliniche Veterinarie come Endoscopista Gastroenterologo. Titolare di ambulatorio veterinario per piccoli animali (Clinica e chirurgia dei piccoli animali). Investigatore di molteplici trial clinici sia orientati alla conferma delle dosi sia alla valutazione sugli animali con proprietari. I campi di lavoro dei trial sono stati: Parassitologia: (Zecche, pulci, vermi intestinali, filaria, acari della rogna) sia nel cane che nel gatto. Medicina interna: Antinfiammatori, otalgici, antimicotici, antiacidi Attività di ricerca: Ricerca sulla presenza e tipizzazione di Helicobacter a livello gastrico nel cane e nel gatto in accordo con la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa. Sviluppo della tecnica per dilatazioni esofagee nel cane e nel gatto con l’impiego dei palloni. È autore di diverse pubblicazioni ed è stato relatore a numerosi congressi Nazionali ed Internazionali. MARIA GRAZIA PENNISI Med Vet, Messina Nata nel 1956, si laurea in Medicina Veterinaria nel 1979 con lode e si specializza in Microbiologia Applicata nel 1982 con lode. Borsista dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno nel 1980. Assegnista del CNR presso l’ex-Istituto di Patologia Speciale e Clinica Medica Veterinaria dell’Università di Messina dal 1981 al 1983.

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- Ricercatore Universitario (settore Clinica Medica Veterinaria) presso l’ex-Istituto di Patologia Speciale e Clinica Medica Veterinaria dell’Università di Messina dal 1983 al 1991. Professore Universitario - II fascia di Patologia Medica degli Animali da Compagnia dal 1991 al 2000. Dall’1/09/2000 è Professore Universitario di I fascia per il SSD Vet08 – Clinica Medica Veterinaria, afferente al Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Messina. Supplente di Semeiotica Medica Veterinaria (1999-2001) e Patologia Medica degli animali da compagnia (2002). Incaricata dell’insegnamento di Immunologia Clinica Veterinaria nel triennio di attività della Scuola di Specializzazione in “Sanità Animale, Igiene dell’Allevamento e delle Produzioni Animali” (1991-1993) della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Messina. Docente guida di dottorandi del dottorato di ricerca in “Patologia da emoparassiti negli animali domestici delle aree mediterranea e subtropicale”, in “Oftalmologia Veterinaria” e in “Medicina Interna degli Animali da Compagnia”. Coordinatore del dottorato di ricerca in “Medicina Interna degli Animali da Compagnia” dell’Università di Messina. Responsabile della Convenzione a scopo scientifico e sanitario fra il Fondo Siciliano per la Natura di Catania ed il Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Messina. Docente al corso di perfezionamento in “Oftalmologia Veterinaria” dell’Università di Messina (1994 e 1995) e al master in “Ippologia” organizzato dal comune di Noto, Siracusa (2001). Componente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Ospedale Veterinario della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Messina. Componente del Comitato Faunistico-Venatorio della Regione Sicilia. Componente del Comitato Scientifico delle riviste “Rassegna di Medicina Felina” e “Bollettino AIVPA” e del Comitato Tecnico-Scientifico “Animali da Compagnia” dell’Unione Veterinari Italiani. Relatore a convegni nazionali ed internazionali, autore di oltre 140 pubblicazioni scientifiche, su riviste nazionali ed internazionali. CLAUDIO PERUCCIO Med Vet, Dipl ECVO, Torino Medico Veterinario, Specialista in Clinica delle Malattie dei Piccoli Animali, Diplomato dell’European College of Veterinary Ophthalmologists (ECVO), Professore Associato della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Torino, consulente con attività esclusiva nel settore dell’oculistica veterinaria. Dal 1974 si dedica all’oftalmologia veterinaria e comparata. Ha studiato presso alcune Università negli Stati Uniti (Illinois, Pennsylvania, Florida) e per molti anni gli è stato conferito il ruolo di Adjunct Associate Professor presso il Department of Clinical Medicine, College of Veterinary Medicine, University of Illinois, USA. Dal 1993 è diplomato ECVO di cui è stato uno dei fondatori. Relatore in numerosi congressi in Italia ed all’estero ed autore di molte pubblicazioni e libri di testo. Ha rivestito cariche in diverse organizzazioni nazionali ed internazionali (AIVPA, SCIVAC, FECAVA, WSAVA, ISVO, ESVO, ECVO, SOVI, SINVET, FSA). Con la sua attività editoriale ha dato vita e diretto riviste nazionali ed internazionali: Veterinaria, Ippologia, Orizzonti Veterinari, Progress in Veterinary and Comparative Ophthalmology, Progress in Veterinary Neurology, The Globe. Nel 1997 gli è stato assegnato a Birmingham il WSAVA/ WALTHAM International Award for Service to the Profession.


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ALESSANDRO PIRAS Med Vet, Spec Chir Vet, MRCVS, Newry, Irlanda del Nord Veterinario Libero Professionista, Laureato nel 1989 all’Università di Torino. Ha conseguito il Diploma di Specialista in Chirurgia Veterinaria nel 1993 a Parma. Ha svolto un Externship presso il Centro di Medicina Sportiva del College of Veterinary Medicine of University of Florida. Svolge frequenti Stages di aggiornamento presso l’Hollywood Animal Hospital in Florida. Dal ’90 si occupa di Medicina Sportiva Canina in particolare di Ortopedia e Traumatologia nei Levrieri da corsa e cani da lavoro. Socio Fondatore e Vice Presidente della Società Italiana di Medicina Sportiva del Cane. Lavora nelle sue tre cliniche in Irlanda e Gran Bretagna come chirurgo di referenza e medico sportivo. Hobbies: pesca, vela, corse di greyhounds.

ATTILIO ROCCHI Med Vet, Fosciandora (LU) Laureato presso l’Università di Pisa nel 1999 con una tesi su “La presenza di L. interrongans in suini regolarmente macellati”. Ha completato la propria formazione partecipando a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali sia in Italia che all’estero; nel 2001 ha svolto un mese di formazione intensiva teorico-pratica sull’anestesia dei piccoli animali presso l’Università di Berna sotto la supervisione del Prof. Yves Moesn. Nel 1999 ha svolto un periodo di pratica come medico veterinario e assistente manager della sezione latte presso la Marula Estate Ltd di Naivasha (Kenya). Dal 2000 ha lavorato presso l’Ospedale Veterinario “S. Francesco” di Latina, la Clinica Veterinaria “Città di Lucca” di Lucca, l’Ambulatorio Veterinario “Città di Tortona” di Tortona (AL) e la “Clinica Veterinaria 24 Ore” di Firenze. È, inoltre, tutore e relatore di corsi e seminari privati.

GUIDO PISANI Med Vet, Castelnuovo Magra (SP) Guido Pisani si è laureato presso l’Università di Pisa nel 1987. Socio SCIVAC dal 1988, membro AO/ASIF dal 1999, ha partecipato alle attività dei gruppi di studio di Chirurgia e Ortopedia nel cui ambito ha presentato numerose relazioni e riveste attualmente la carica di Vicepresidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana. Ha partecipato a corsi e congressi in ambito europeo ed è stato relatore ed istruttore dei Corsi SCIVAC di Chirurgia Generale, Chirurgia Urogenitale, Chirurgia Addominale, Pronto Soccorso e A/O BASE. Sta svolgendo l’iter didattico per l’European College of Veterinary Surgeon e in questo ambito ha trascorso un periodo di training presso la North Carolina State University. Esercita la libera professione a Castelnuovo Magra (SP).

GIORGIO ROMANELLI Med Vet, Dipl ECVS, Cusano Milanino (MI) Nato a Milano il 25/7/1956. Laureato in Medicina Veterinaria il 14/7/1981 presso l’Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano, relatore il Prof. Renato Cheli. Subito dopo la laurea partecipa ad un programma di chirurgia sperimentale sul trapianto di cuore e di pancreas. Libero professionista lavora a Milano occupandosi totalmente di casi di riferimento. I suoi interessi principali sono la chirurgia generale e l’oncologia chirurgica e medica. Charter Member e, dal luglio 1993, diplomato all’European College of Veterinary Surgeons. Presidente SCIVAC nel periodo 1993-1995. Attualmente, ricopre le cariche di Past-President SCIVAC, di Chairman della Commissione Scientifica e di Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana. Membro oltre che della SCIVAC, di ESVOT, ECVS, AO-VET, BSAVA, AAHA, ESVONC, SICV, EWG e Veterinary Cancer Society. Ha presentato relazioni ad oltre 60 congressi e meeting nazionali ed internazionali. Direttore fino al giugno 2001 del corso sulla tecnica di Fissazione Scheletrica esterna della SCIVAC, ed autore del video SCIVAC sullo stesso argomento. Direttore del corso di Oncologia Chirurgica. Ha soggiornato per periodi di studio presso le università di Cambridge (UK), North Carolina (USA) e Purdue-Indiana (USA) I suoi hobbies sono la pesca a mosca e la coltivazione di alberi bonsai.

ANNA MARIA PRATELLI Med Vet, Bari Nata il 30/07/1969. Laureata in Medicina Veterinaria nel 1994 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Bari. Dottore di Ricerca in “Patologia Infettiva degli ovi-caprini”. Dal 2002 è professore ordinario di “Patologia infettiva dei carnivori” presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Bari. Coordinatore nazionale del progetto di ricerca MIUR: Enteriti virali del cane. Componente della task-force dell’Istituto Superiore di Sanità sulla SARS. Autore del capitolo: “Canine coronavirus infection” nel testo web: “Recent Advances in Canine Infectious Diseases” dell’International Veterinary Information Service (IVIS); sito internet: www.ivis.org/. Autore di 111 pubblicazioni scientifiche. LIVIANA PROLA Med Vet, Torino Laureata in Medicina Veterinaria nel luglio del 2001 presso l’Università di Torino. Da settembre 2001 ha iniziato un Dottorato di Ricerca presso il Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di Torino settore Nutrizione- lavorando in modo specifico sull’alimentazione dei piccoli animali e degli animali selvatici. Dal marzo 2002 svolge attività come Assegnista di Ricerca presso lo stesso Dipartimento occupandosi della consulenza nutrizionistica. Dal giugno 2002 esercita la libera professione in strutture private nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Da maggio 2003 a novembre 2003 ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto di Nutrizione della Ludwig Maximilians Universität – München (Germania) occupandosi di alimentazione del gatto. È coautrice di lavori su riviste nazionali ed internazionali. Dal 2003 è membro dell’ESVCN (European Society of Veterinary and Comparative Nutrition).

FEDERICA ROSSI Med Vet, Diploma ECVDI, Sasso Marconi (BO) La dott.ssa Federica Rossi si è laureata nel novembre 1993. Ha ricevuto dall’Istituto Rotary International il “Premio Rotary Corsi di Laurea” per il miglior Curriculum di Laurea in Medicina Veterinaria nell’Anno Accademico 1992/1993. Dal 1993 lavora come Libero Professionista, svolgendo attività di referenza in Diagnostica per Immagini nella propria struttura a Sasso Marconi (BO) ed in altre Cliniche in Emilia-Romagna. Dal 1995 al 1997 ha frequentato la Scuola di Specializzazione in Radiologia Veterinaria presso l’Università degli Studi di Torino. Dal 1997 al 1999 ha trascorso diversi periodi di formazione all’estero. Ha curato la traduzione in lingua italiana del testoatlante di ecografia del cane e del gatto “Atlas und Lehrbuch der Ultraschalldiagnostik bei Hund und Katze”, C.P. Nautrup, R. Tobias, Edizioni UTET, Torino 2000. È autrice di numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali. Ha presentato poster e lavori scientifici a Congressi nazionali ed internazionali. Collabora attivamente ed è relatrice agli incontri del Gruppo di Studio in Diagnostica per Immagini SCIVAC. Ha svolto il programma di training per il College Europeo di Diagnostica per Immagini presso l’Università di Torino e Berna (Svizzera). Ha conseguito il Diploma ECVDI nel settembre 2003.


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ROBERTO SANTILLI Med Vet, Dipl ACVIM-CA (Card) Malpensa (VA) Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1990. Si è diplomato all’European College of Veterinary Internal Medicine - Companion Animals (Specialty of Cardiology) nel 1999. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) come referente per la cardiologia e la medicina interna. È stato professore a contratto in cardiologia felina per l’anno 1997-1998 presso la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione dell’Università degli Studi di Milano. È presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria. È autore di numerose pubblicazioni di cardiologia ed ecografia addominale su riviste nazionali ed internazionali. Il suo principale settore di ricerca sono le aritmie con rischio di morte improvvisa, le cardiomiopatie e l’ipertensione arteriosa del gatto. FABIA SCARAMPELLA Med Vet, Dipl ECVD, Milano Laureata all’Università di Milano nel 1982, ha lavorato come libero professionista nel settore dei piccoli animali dal 1983 sino al 1996. Dal 1997 al 2000 ha frequentato un Residency di specializzazione in dermatologia veterinaria a Milano. Nel 2000 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD). Attualmente lavora eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche nel suo studio a Milano e a Torino. È membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria (SIDEV) e del Consiglio Direttivo dell’ECVD (College Europeo di Dermatologia Veterinaria). È autrice di articoli pubblicati su riviste italiane e straniere e coautorice del libro “Manuale pratico di Dermatologia Veterinaria” (Poletto Editore, Gaggiano, 2002). SILVIA SCHIAVI Med Vet, CES Derm, CES Oculistica, Udine Laureata in Medicina Veterinaria nel 1986 all’Università di Bologna. Dal 1986 esercita la libera professione nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Socio SCIVAC dal 1984 e Full member del ESVD dal 1992. Ha conseguito il Certificato di Studi Superiori (CES) in dermatologia all’Ecole Veterinaire di Nantes e Lyon nel 1995 ed il Certificato di Studi Superiori (CES) in oculistica a Toulouse nel 2000. Per due anni ha partecipato come istruttrice ai corsi di dermatologia SCIVAC. È autrice e coautrice di lavori e poster nazionali e internazionali. Attualmente lavora nel suo ambulatorio per piccoli animali a Udine e Trieste ed esercita la libera professione con particolare interesse per la dermatologia e oculistica. PAOLO SELLERI Med Vet, Roma Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia nel 1998. Rivolge i suoi interessi da subito alla Medicina degli Animali Esotici. Frequenta numerosi stage lavorativi in varie cliniche in Nord America e in Francia. È autore di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Lavora a Roma in varie strutture come consulente per la medicina degli Animali Esotici. È Professore a contratto presso l’Università di Padova per la Medicina degli Animali Selvatici e non Convenzionali e per la Chirurgia dei Rettili. È co-Direttore del corso sulla medicina degli Animali non convenzionali della Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova. È relatore in congressi nazionali ed internazionali sulla Medicina degli Animali Esotici. È stato relatore al corso SCIVAC su Medicina e Chirurgia dei cheloni.

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CORRADO SGARBI Med Vet, Torino Presidente S.I.S.C.A. (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate). È nato a Torino il 0602-1960. Si è laureato in Medicina Veterinaria. Attualmente è Medico Veterinario responsabile della Scuola Nazionale Unità Cinofile da Valanga del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e docente presso la scuola centrale delle Unità Cinofile da Valanga e Superficie del C.N.S.A. (riconosciuta da decreto ministeriale del Dipartimento Protezione Civile nel 1997). È membro gruppo di lavoro “Standard Cinofilia da Soccorso” presso il Dipartimento della Protezione Civile Ministero degli Interni (con nomina da Decreto n° 4700 del 20/12/2000). Si occupa di medicina comportamentale degli animali da affezione dal 1990. Ha partecipato in qualità di relatore a numerosi corsi/incontri/congressi trattando temi di etologia applicata. È Presidente della S.I.S.C.A. (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate), società specialistica collegata alla SCIVAC. Ha pubblicato articoli sul tema su riviste di settore e non. GILIOLA SPATTINI Med Vet, Reggio Emilia Giliola Spattini si laurea in Medicina Veterinaria con Lode a Parma nel 1998. Nel 2000 intraprende il College Europeo di diagnostica per immagini (ECVDI) presso il Royal Veterinary College di Londra. Dal 2001 è relatrice di diagnostica per immagini in congressi internazionali. Come parte del suo training ha trascorso tre mesi negli Stati Uniti suddivisi tra la Tufts e la Pennsylvenia University. È autrice di pubblicazioni nazionali ed internazionali ed ha ricoperto incarichi trimestrali presso il reparto di Diagnostica per immagini dell’Università di Uppsala e di Utrecht. Si occupa di Radiologia, Ecografia, Tomografia Computerizzata, Risonanza Magnetica e Scintigrafia. Quando non impegnata all’estero lavora come libera professionista nella provincia di Reggio Emilia. ROBERTO TOVINI Med Vet, Milano Nato a Milano il 21 Dicembre 1959. Si Laurea in Medicina Veterinaria con pieni voti il 24 Febbraio 1986. Allievo interno presso l’Istituto di Clinica Medica dell’Università degli Studi di Milano dal 1982 alla laurea. Iscritto all’Ordine dei Medici Veterinari della provincia di Milano dal 1986. Dal 1986 ad oggi pratica attività clinica nella sua struttura veterinaria con l’aiuto di alcuni collaboratori, con particolare interesse per la medicina interna, l’anestesiologia e l’odontostomatologia. Consigliere dell’Ordine dei Medici Veterinari della Provincia di Milano dal 1991 al 1994 e dal 1997 al 2000. Presidente della Delegazione SCIVAC Lombardia dal 1991 al 1998. Membro della Commissione Professionale SCIVAC dal 1999 ad oggi. Membro del Consiglio Direttivo della SCIVAC dal 2002 ad oggi. Coordinatore del Gruppo di studio di Practice Management della SCIVAC dalla sua fondazione nel 2003. Segretario della delegazione ANMVI Lombardia dal 2003. Autore di traduzioni di articoli, atti di congressi e testi scientifici dal 1987 ad oggi. Autore di alcuni articoli a carattere professionale su riviste veterinarie.


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MARIA ELISABETTA VASCONI Med Vet, Torino Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Torino nel 1993. Dal Novembre 1994 al Novembre 1995, in seguito al conseguimento di una borsa di studio, trascorre un anno al Veterinary Referral Associates, Maryland. Ha frequentato stage alla Cornell University, alla Purdue University, all’Ohio State University e al Virginia-Maryland Regional College of Veterinary Medicine. Dal 1997 collabora con il Professor Buracco alla Facoltà di Veterinaria di Torino, dal 2000 ha intrapreso il percorso per il diploma ECVS. Aree di interesse: chirurgia dei tessuti molli e dei tessuti duri in particolare chirurgia toracica, ghiandolare e gola-naso-orecchio. Posizione attuale: Centro Veterinario Torinese. È coautrice di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali e di poster e comunicazioni a congressi in ambito italiano ed estero. ANTONELLA VERCELLI Med Vet, CES Derm, Torino Nata ad Acqui Terme (AL) l’11 Settembre 1961. Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Torino nel 1985 con 110/110 e lode. Ha conseguito il Diploma in Ofatalmologia (CES) nel 1989 presso l’ENV de Toulouse (F) e il Diploma in Dermatologia presso l’ENV de Nantes e Lyon (F). Lavora dal 1985, come libero professionista, presso l’ambulatorio associato di Torino, dove si occupa prevalentemente di dermatologia, oftalmologia e istologia nel settore dei piccoli animali. È membro fondatore della SIDEV (Società Italiana di Dermatologia) di cui è, nell’attuale Consiglio, Vice-Presidente. È Presidente della SOVI (Società Italiana di Oftalmologia). È full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) dove svolge il ruolo di Segretaria nell’attuale Board. È autore di varie pubblicazioni ed ha partecipato come relatore ad alcuni Corsi e Congressi di Dermatologia ed Oculistica. ALDO VEZZONI Med Vet, SMPA, Dipl ECVS, Cremona Laureato in Medicina Veterinaria all’Università di Milano nel 1975, Specializzato in Clinica delle malattie dei Piccoli Animali nella stessa università nel 1978, ha conseguito il Diploma di specializzazione europea in chirurgia veterinaria dell’ECVS a Cambridge nel 1993. Dal 1993 è segretario della ESVOT, la società europea di ortopedia veterinaria. Nel 1996 ha conseguito a Stoccarda l’abilitazione dell’Hoheneimer Kreis alla lettura delle radiografie per la displasia dell’anca del cane secondo il protocollo FCI e nel 1998 quella per la lettura delle radiografie per la displasia del gomito secondo il protocollo IEWG-FCI. Presidente della Fondazione Salute Animale dal 1996 e Chairman della relativa Commissione di lettura per la displasia dell’anca e per la displasia del gomito, accreditata dall’ENCI nel 2002. Dal 1997 al 2002 è stato delegato per il Sud-Europa dell’AO-Vet International. Membro della Commissione Tecnica Centrale dell’ENCI dal 2000. Relatore in Congressi nazionali ed internazionali nell’ambito della chirurgia e dell’ortopedia dei piccoli animali, ha realizzato numerose pubblicazioni scientifiche ed ha curato l’edizione italiana di numerosi testi stranieri di medicina veterinaria. Dal 1976 opera come libero professionista a Cremona, svolgendo dal 1998 un’attività prevalentemente di riferimento dei Colleghi nell’ambito della diagnostica e della chirurgia ortopedica. Socialmente impegnato per la categoria è stato Socio Fondatore e Presidente della SCIVAC, Socio Fondatore e Consigliere dell’ANMVI; dal 1996 riveste le cariche di segretario FNOVI e di Presidente dell’Ordine dei Veterinari di Cremona e dal 1999 fa parte della Commissione “Terapia del Dolore” del Ministero della Salute.

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FABIO VIGANÒ Med Vet, Milano Fabio Viganò. Laureato nel 1987 e specializzato nel 1995 in malattie dei piccoli animali presso l’università di Milano. Dal 1987 ad oggi svolge soggiorni di studio presso Università e cliniche private negli Stati Uniti specializzate in pronto soccorso e terapia intensiva. Vicepresidente SIARMUV (Società Italiana di Anestesia e Medicina d’Urgenza Veterinaria) nella quale si occupa principalmente di medicina d’urgenza. Socio fondatore e membro del comitato esecutivo della società Europea: Eveccs (European Veterinary Emergency and Critical Care Society). Relatore a numerosi congressi nazionali ed internazionali. Direttore di una clinica veterinaria con pronto soccorso 24 ore ed impegnato nella ricerca di nuove terapie in medicina d’urgenza e terapia intensiva. Autore di pubblicazioni in medicina d’urgenza e terapia intensiva dei piccoli animali, direttore e relatore di numerosi corsi di pronto soccorso e terapia intensiva. MASSIMO VIGNOLI Med Vet, Spec Rad Vet, Sasso Marconi (BO) Il Dott. Massimo Vignoli si è laureato a Bologna nell’anno 1993, con una tesi di laurea sulla “displasia dell’anca nel cane”. Nel 1997 ha conseguito il diploma di specializzazione in Radiologia Veterinaria all’Università di Torino con una tesi “sull’applicazione del sistema a schermi asimmetrici Insight nella radiografia toracica del cane”. Ha trascorso numerosi periodi all’estero in Europa e USA. Ha completato un programma alternativo per il College Europeo di Diagnostica per Immagini, ECVDI) all’Università di Torino e di Zurigo. Nel luglio 2002 ha conseguito dall’ECVDI il “Resident Prize” per la migliore presentazione con il progetto sulle “Biopsie TAC guidate nello scheletro”. È relatore SCIVAC ai corsi di Radiologia. Dall’anno 2001 è Presidente della Società Veterinaria Italiana di Diagnostica per Immagini per animali da compagnia (SVIDI). Nel Giugno 2003 ha superato la parte teorica dell’esame per il diploma del College Europeo di Diagnostica per Immagini Veterinario (ECVDI). Svolge attività libero professionale a Sasso Marconi (BO) nella propria struttura ed attività di consulente in numerose altre strutture veterinarie. È autore o coautore di 25 pubblicazioni o comunicazioni a congressi, di cui 15 internazionali. MARCO VIOTTI Med Vet, Torino Laureato a Torino nel 1994 con una tesi sperimentale sull'embriogenesi cardiaca, si occupa esclusivamente di piccoli animali. Ha frequentato numerosi corsi di aggiornamento SCIVAC, nonché congressi e seminari. Attualmente vicecoordinatore del Gruppo di Studio di Practice Management, membro del consiglio direttivo di AMNVI Piemonte, si occupa esclusivamente di medicina interna e practice management. GIUSEPPE VISIGALLI Med Vet, Milano Laureato in medicina veterinaria nel febbraio del 1989. Da sempre si occupa con grande passione di animali esotici ed in particolare di rettili, senza tuttavia mai trascurare la medicina degli uccelli, dei mammiferi, degli anfibi, dei pesci e degli invertebrati. Iscritto alla ARAV (Association of Reptilian and Amphibian Veterinarian) ed alla AAV (Association of Avian Veterinarians) dal 1994 ha partecipato in qualità di relatore a numerosi seminari a tema italiani ed europei dei quali i più importanti sono stati i seguenti: “Medicina delle tartarughe” nel 1997, il “Seminario di base ed avanzato di Medicina e Chirurgia dei Rettili” nel 1999, il “Corso di base di Medicina Aviare” nel 2000 ed il “Seminario: gestione dell’acquario patologie e terapie dei pesci ornamentali” del 2000. È inoltre autore di numerose pubblicazioni ed articoli su riviste italiane e straniere di medicina veterinaria legati alla medicina e chirurgia degli animali esotici. Dal 1999 è direttore sanitario di una clinica veterinaria che si occupa prevalentemente di “exotic pets”.


ESTRATTI DELLE RELAZIONI

Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome del relatore. Le relazioni di uno stesso autore sono elencate secondo l’ordine cronologico di presentazione.


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Acidi grassi polinsaturi in medicina veterinaria: a che punto siamo? Cristina Abba Med Vet, Torino

Gli acidi grassi essenziali sono oggetto di grande interesse da diversi anni in medicina veterinaria in differenti ambiti, primo fra tutti la dermatologia: come già in medicina umana, numerosi studi sono stati effettuati sugli acidi grassi e le patologie cutanee infiammatorie e pruriginose. Più recentemente sono stati effettuati studi in altri ambiti fra i quali l’urologia e l’oncologia.

QUALI SONO GLI EFA Gli EFA sono acidi grassi polinsaturi che non possono essere sintetizzati dall’organismo ma devono essere obbligatoriamente assunti con la dieta; includono gli acidi grassi delle famiglie ω- 3 ed ω- 6. In particolare sono essenziali l’acido linoleico (LA, 18:2n-6) e l’alfa-linolenico (ALA, 18:3n-3), precursori rispettivamente della famiglia degli ω-6 e degli ω-3. Nel gatto una supposta carenza fisiologica dell’enzima d-6 desaturasi ed una limitata disponibilità della delta 5 desaturasi lo renderebbe incapace di sintetizzare l’acido arachidonico (AA). In realtà di recente questa ipotesi è stata messa in discussione, e si ipotizza che l’acido arachidonico sia essenziale solamente in particolari condizioni fisiologiche, come accrescimento e gravidanza. I fabbisogni alimentari raccomandati dalle nuove tabelle dell’NRC (National Research Council, 2004), espressi in percentuale sulla sostanza secca (densità energetica della razione 4 kcal EM /g SS), sono: - per il cucciolo: LA 1,3%; ALA 0,07%; AA 0,03%; - per il cane adulto: LA 1,1%; ALA 0,044% (rapporto LA /ALA deve essere compreso tra 2,6 e 26); - per il gattino: LA 0,55%; ALA 0,02%; AA 0,2%; - per il gatto adulto: LA 0,55%; AA 0,02%; non è riportato un fabbisogno minimo di ALA. Fonti di acido linoleico sono gli oli vegetali, molto ricchi ne sono l’olio di girasole (circa 60 g%) seguito dall’olio di mais e di soia (circa 50 g%). L’AA e l’ALA sono invece contenuto nelle carni, in particolare quelle degli organi viscerali.

FUNZIONI DEGLI EFA NEI TESSUTI Gli EFA sono coinvolti in numerosi processi fisiologici a livello dei tessuti organici di cui le principali sono la sintesi e regolazione degli eicosanoidi, l’azione dinamico-funzionale a livello delle membrane biologiche e la modulazione del segnale cellulare a livello dei canali ionici.

Sintesi e regolazione degli eicosanoidi È la funzione degli EFA che maggiormente ne determina l’utilizzo come terapeutici. Gli eicosanoidi intervengono in diversi eventi fisiologici tra i quali l’aggregazione piastrinica, i fenomeni infiammatori, l’ipersensibilità immediata, la contrazione della muscolatura liscia, la luteolisi e regolano l’attività dei linfociti T. Molto spesso i fenomeni elencati sono regolati da un equilibrio tra le sollecitazioni antagoniste di diversi eicosanoidi. La sintesi degli eicosanoidi avviene a partire da acidi grassi polinsaturi liberati dalle membrane cellulari in seguito a stimoli di diversa natura (meccanici, immunitari, ormonali…). Gli acidi grassi, una volta liberati, possono seguire differenti vie metaboliche, che portano alla formazione di differenti eicosanoidi: • Via delle ciclossigenasi: produce prostaglandine, prostacicline e trombossani. • Via delle lipossigenasi: produce leucotrieni, idracidi grassi e lipoxine. • Via del citocromo P-450: produce epossi e idrossi-metilati. Le ciclossigenasi sono ubiquitarie mentre le lipossigenasi sono presenti so in alcuni tipi cellulari (granulociti, mastociti, monociti e macrofagi). I diversi gruppi di eicosanoidi vengono sintetizzati a partire dall’AA, diomo - -linolenico (DGLA) ed eicosapentenoico (EPA). Gli eicosanoidi che derivano dall’AA sono proinfiammatori, immunodepressivi, proaggreganti piastrinici e sono potenti mediatori delle reazioni di ipersensibilità di tipo 1. Gli eicosanoidi che derivano dal DGLA e dall’EPA sono antiinfiammatori ed inibiscono il rilascio di AA dalle membrane; inoltre i derivati dall’EPA hanno effetto antiaggregante piastrinico.

Effetti antinfiammatori degli EFA, combinazione ω-6 ed ω-3 Alcuni EFA quali il DGLA e l’EPA hanno quindi effetto antiinfiammatorio in quanto competono con l’AA per gli stessi enzimi e ne inibiscono la liberazione, causando così una maggior produzione di eicosanoidi antinfiammatori rispetto ai proinfiammatori. L’effetto antinfiammatorio, particolarmente studiato a livello cutaneo, è ottenuto più efficacemente utilizzando la sinergia delle famiglie ω-3 ed ω-6. La somministrazione di soli ω-3 in dosi antinfiammatorie e per lunghi periodi può causare la comparsa di effetti collaterali (disordini della coagulazione, aumento broncocostrizione) ma una piccola dose di ω -3 in-


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sieme ad alte dosi di ω-6 inibisce la trasformazione dell’DGLA ad AA potenziando gli effetti antinfiammatori. È importante ricordare che il GLA è precursore sia del DGLA sia dell’AA, ma la sua trasformazione a livello cutaneo si blocca al DGLA (la cute è carente dell’enzima d-5-desaturasi): questo consente di utilizzarlo come precursore antinfiammatorio. È stato visto che il miglior effetto antiinfiammatorio si ottiene con rapporto ω-6: ω-3 tra 5: a 10:1 senza causare effetti collaterali. Una considerazione importante va fatta in merito all’utilizzo degli EFA in generale: dal momento che sono integratori dietetici somministrati a dosi stabilite per ottimizzarne l’effetto terapeutico, la dieta di base del soggetto deve essere tenuta in considerazione. Può essere inutile infatti integrare una dieta commerciale che contiene già sufficienti dosi di EFA; può essere invece necessario modificare la dieta di base o l’integrazione al fine di ottenere un dosaggio corretto.

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In quasi tutti gli studi è stata utilizzata una combinazione di ω-3 ed ω-6, ma in alcuni sono stati utilizzati i soli ω6. Gli ω-6 sono stati utilizzati a dosaggi variabili tra 44 e 386 mg/kg/die; gli ω-3,dove utilizzati, sono stati somministrati in dosi variabili da 5 a 16 mg/kg/die. Quali siano i dosaggi di EFA più efficaci è tuttora incerto ed le dosi raccomandate dalle case produttrici di integratori sono piuttosto empiriche. Gli ω-3 utilizzati per l’integrazione sono l’EPA e il DHA, l’ω-6 utilizzato è il GLA (precursore del DGLA), talvolta associato a dosi limitate di LA. Alcuni studi sono stati effettuati unicamente utilizzando diete commerciali appositamente integrate con alte dosi di ω-3 ed ω-6, ottenendo risultati analoghi agli studi con integratori di EFA.. L’utilizzo di EFA insieme ad altri terapeutici quali antiistaminici (clorfeniramina, clemastina,…) e cortisonici (prednisolone) può potenziare l’efficacia dei farmaci e consentirne l’utilizzo a dosi inferiori.

EFA E DERMATOLOGIA Gli EFA rivestono fondamentale importanza per il normale trofismo cutaneo. L’adeguata fluidità della membrana cellulare, caratteristica essenziale per la sua corretta funzionalità, è garantita dalla presenza di acidi grassi polinsaturi nel foglietto fosfolipidico. Una modificazione della composizione dei lipidi dell’epidermide influenza la fluidità di membrana, la barriera idrolipidica ed il processo di desquamazione-proliferazione dei cheratinociti. In condizioni di carenza di EFA vengono incorporati a livello delle membrane altri acidi grassi polinsaturi o monoinsaturi, come ad esempio l’oleico (la cui disponibilità è generalmente elevata), che rendono la membrana cellulare meno fluida ed inefficace nel mantenere la barriera alla fuoriuscita di acqua. Carenze di EFA, in particolare di LA, causano problemi dermatologici (cute squamosa, mantello secco e opaco, ipotricosi) tuttavia sono improbabili in animali nutriti con alimenti commerciali. Possono però manifestarsi in animali nutriti con dieta casalinga non adeguatamente integrata. È sufficiente addizionare olio di semi (preferibilmente di girasole o mais o soia) o utilizzare carne e grasso di pollo per evitare carenza di LA. Inoltre la carenza di cofattori del metabolismo degli EFA, in particolare di zinco (essenziale per l’attività della d-6-desaturasi), può causare o aggravare la carenza di acidi grassi essenziali.

Efa ed atopia canina Gli EFA sembrano essere utili nella terapia dei pazienti atopici per i loro effetti antinfiammatori e immunomodulatori. Molti studi sono stati effettuati per comprovarne l’efficacia, tuttavia i risultati sono difficilmente comparabili a causa soprattutto dei differenti dosaggi utilizzati, della mancanza di una standardizzazione della dieta di base e delle differenti impostazioni degli studi stessi. In molti studi non è stato inoltre rispettato il rapporto ω-6: ω-3 considerato ottimale (tra 5:1 e 10:1). Nella maggior parte dei lavori comunque sono stati ottenuti risultati positivi per quanto riguarda il controllo del prurito ed il miglioramento delle condizioni di cute e mantello. La durata dell’integrazione deve essere di almeno 2-3 settimane per consentire per consentire l’inclusione degli acidi grassi plasmatici a livello cutaneo, ma una durata maggiore (6-8 settimane) ne aumenta gli effetti benefici.

Efa e seborrea canina Come già sperimentato per la psoriasi umana, si suppone che nella patogenesi della seborrea canina siano coinvolte alterazioni del metabolismo degli EFA, in particolare dell’LA. Applicazioni topiche di EFA possono essere utili associate all’integrazione alimentare, in particolare all’inizio del trattamento.

EFA ED ONCOLOGIA Alcuni EFA (GLA ed EPA) sembrano avere effetti benefici in pazienti oncologici. Il GLA sembra avere effetti citotossici sulle cellule tumorali ma non su quelle normali, sia in vitro sia in vivo. Sugli animali domestici non vi sono ad ora molti studi, eccetto per alcuni studi su cani affetti da linfoma: alte dosi di GLA e LA hanno avuto effetto linfolitico su cani affetti da linfoma multicentrico; un’integrazione di EPA, DHA ed arginina in cani affetti da linfoma sottoposti a chemioterapia ne ha prolungato la sopravvivenza rispetto al gruppo di controllo. In alcuni studi su roditori l’LA ha dimostrato di avere effetto carcinogenetico, tuttavia in studi su soggetti umani si sono ottenuti risultati opposti. In generale comunque, sembra che gli ω6 promuovano la crescita tumorale mentre gli ω-3 la inibiscano. Gli EFA giocano un ruolo importante nella cachessia neoplastica. È stato dimostrato che l’EPA purificato e ad alte dosi ha effetti antitumorali ed anticachettici, probabilmente legati all’azione soppressiva sul fattore catabolico circolante prodotto dalle cellule tumorali.

EFA E NEFROLOGIA Gli ω-3(DHA ed EPA) sembrano essere un valido supporto nei pazienti con insufficienza renale cronica in fasi iniziali permettendo di rallentare il progresso della patologia. In particolare giocano un ruolo nel controllo dell’ipertensione e dello stato infiammatorio glomerulare oltre che dell’iperlipidemia. Bibliografia disponibile a richiesta presso l’autore Indirizzo per la corrispondenza: Cristina Abba - cristina.abba@unito.it


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Caso clinico patologico Alopecia multifocale generalizzata in un cane meticcio Francesca Abramo Med Vet, Pisa

Franca Galeotti Med Vet, Firenze

Segnalamento: Cane meticcio, 8 anni, maschio intero. Anamnesi: Il proprietario riferisce che da circa 2 anni il cane presenta lesioni dermatologiche caratterizzate da alopecia. La perdita di pelo era iniziata sul dorso e nonostante numerosi tentativi terapeutici l’alopecia si era diffusa al tronco, alle orecchie, alla faccia e ultimamente anche agli arti. Da altri colleghi il cane era stato trattato sia con prednisone (0,3 mg/kg SID per 1 settimana) che con chetoconazolo (10 mg/kg SID per 20 giorni) per una sospetta micosi. Entrambi i protocolli terapeutici non avevano sortito nessun risultato. Anche un test sierologico per la ricerca di anticorpi anti-Leishmania aveva fornito esito negativo. Al momento della visita il proprietario era in possesso di un referto anatomopatologico ottenuto in seguito all’effettuazione, l’anno precedente, di una biopsia cutanea. Nel referto si leggeva quanto segue: “Biopsia caratterizzata da notevole fibroplasia dermica, caratterizzata da atrofia degli annessi, con assottigliamento-assenza delle papille dermiche, aumento del grado di pigmentazione, fenomeni orto-paracheratosici con ritenzione di cheratina in sede infundibolare. Diagnosi: fibrosi dermica ed atrofia annessiale. Commento: si consiglia di effettuare un dosaggio del T3/T4 dato che il soggetto potrebbe avere un quadro di ipotiroidismo.” A detta del proprietario l’esame del sangue per la determinazione del T4 era risultato nella norma.

Esame clinico: Da un esame clinico generale il cane risulta in ottime condizioni di salute, mentre alla visita dermatologica si possono apprezzare: alopecia simmetrica generalizzata del torace e dorso, alopecia delle aree perioculari e della parte dorsale della canna nasale, delle orecchie e interessamento anche di tutti e 4 gli arti. Nelle zone alopeciche si notano iperpigmentazione e scaglie bianco-grigiastre aderenti alla cute. Sono evidenti due aree con ulcerazione cutanea, una a carico del cuscinetto digitale del 4° dito della zampa anteriore sinistra e l’altra sulla cute dell’area toracica laterale destra. Il cane non mostra prurito ne lesioni indotte da grattamento e/o lambitura.

Definizione del problema: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Esame dermatopatologico: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Abramo Dipartimento di Patologia Animale, viale delle Piagge,2 56124 Pisa - abramo@vet.unipi.it Franca Galeotti Studio Veterinario Corsi-Galeotti - Viale Montegrappa 298/A, Prato e-mail: Francagaleotti@virgilio.it


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Caso dermatopatologico Francesca Abramo Med Vet, Pisa

Fabrizio Fabbrini Med Vet, Milano

Segnalamento: Bracco tedesco maschio di circa nove

Procedure diagnostiche:

mesi.

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Anamnesi: il cane sin da cucciolo (2 mesi) presenta difficoltà a deambulare a causa di lesioni ulcerative particolarmente dolenti localizzate ai polpastrelli, talvolta accompagnate da febbre (40°). Da circa un mese, a seguito di terapia antibiotica (enrofloxacina 5 mg/kg sid), pediluvi giornalieri con permanganato di potassio e fasciatura, è meno sofferente e si muove di più. Ciò nonostante, ha sviluppato nuove lesioni in altre sedi (carpo, tarso, plica inguinale). Il cane durante il giorno vive all’aperto, di notte dorme in casa e riceve una dieta industriale bilanciata. Esame clinico: E.O.G. presenza di lieve sciallorrea e di lesioni ulcerative bollose sulla mucosa orale (lingua, labbra e guance), presenza di notevole difficoltà a deambulare. Presenza di lesioni ulcerativo crostose ai cuscinetti podali, tarsi, gomiti e pliche inguinali.

Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Esame dermatopatologico: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Abramo Dipartimento di Patologia Animale, viale delle Piagge, 2 56124 Pisa - abramo@vet.unipi.it Fabrizio Fabbrini Clinica Veterinaria Papiniano, Viale Papiniano 50, 20123 Milano mail: clinvetpapiniano@tisca.it


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Il caso più strano che abbia mai visto Francesco Albanese Med Vet, Dipl ECVD, Napoli

Franca Laura Salerni, Med Vet, Napoli – Salvatore Giordano, Med Vet, Napoli

Anamnesi: Cane, Boxer, maschio, adulto. Il cane era sta-

Procedure diagnostiche:

to trovato pochi giorni prima di essere portato in ambulatorio. L’appetito era ben conservato e le feci avevano una consistenza poltacea. A parte queste notizie non era stato possibile ottenere altre informazioni anamnestiche, pertanto l’anamnesi, per quanto riguarda le lesioni dermatologiche, era da definirsi “muta”.

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Esame clinico: Il cane si presentava in scadenti condizioni di salute, magro e con la regione perianale imbrattata di feci. All’esame dermatologico si osservava la presenza di centinaia di noduli di dimensioni diverse (0,5 - 3 cm di diametro), alcuni dei quali si presentavano ulcerati. Detti noduli erano distribuiti su tutto il corpo (soprattutto collo, dorso e cosce) e sulle mucose congiuntivali ed anale. Sulle labbra e sulla mucosa gengivale erano presenti numerose neoformazioni con aspetto “a cavolfiore”. Sul corpo erano inoltre presenti aree di alopecia focale caratterizzate dalla presenza di scaglie ed iperpigmentazione. Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Indirizzo per la corrispondenza: Francesco Albanese Clinica Veterinaria “L’Arca” Via Salvator Rosa, 17/18 80135 Napoli larcavet@libero.it


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Non unione dell’epicondilo omerale mediale (UME) nel cane: un termine improprio per molteplici patologie Giovanni Allevi Med Vet, PhD, Bergamo

Carlo Maria Mortellaro, Med Vet, Milano – Aldo Vezzoni, Med Vet, SMPA, Dipl ECVS, Cremona Mauro Di Giancamillo, Med Vet, Milano – Massimo Petazzoni, Med Vet, Milano Rocco Lombardo, Med Vet, Milano – Roberto Pizzoli, Med Vet, Bergamo L’evidenza radiografica di aree a densità calcifica localizzate medialmente all’interlinea articolare del gomito e/o caudalmente all’epicondilo omerale mediale del cane, ove prendono inserzione i muscoli flessori del carpo e delle dita, è stata oggetto, nelle ultime quattro decadi, di numerose controversie circa l’origine di tali reperti. Infatti vari Autori, per riscontri radiografici apparentemente molto simili, hanno proposto nel corso degli anni teorie eziopatogenetiche estremamente differenti, dotando di volta in volta la lesione di denominazioni diverse: “mancata unione dell’epicondilo mediale dell’omero” (UME - Ununited Medial Epicondyle), “avulsione dell’epicondilo omerale mediale”, “entesopatia dei flessori”, “calcificazione dei tendini flessori”, “anormale ossificazione del bordo distale dell’epicondilo omerale”, “tenopatia inserzionale”, “calcificazione dei muscoli flessori” e “calcificazione/ossificazione distrofica della capsula articolare”. La definizione “non unione” o “mancata unione dell’epicondilo mediale”, introdotta da Ljunggren e coll. nel 1966 ad indicare una rara condizione displasica del gomito, è tuttora una terminologia ampliamente utilizzata in letteratura, con riferimento a questa affezione, nonostante essa sottenda una teoria eziopatogenetica discutibile: nessuno dei casi descritti in bibliografia, ne tantomeno quelli da noi osservati, mostrano una mancata unione dell’epicondilo, ma bensì, quando presenti, solo “irregolarità” della sua parte più caudale, tanto che radiologicamente non è mai stato possibile evidenziare una linea epifisaria tra il condilo omerale mediale e queste aree di volta in volta calcifiche od ossificate. Attenendoci alla nostra esperienza e alla casistica presente in letteratura, possiamo sostenere che queste “isole di osso” possono rappresentare l’esito di una frattura per avulsione della porzione distale dell’epicondilo, cui comunque può conseguire una calcificazione/ossificazione dei tessuti molli limitrofi. Una seconda ipotesi, invece, potrebbe essere quella secondo cui un’attività fisica intensa, soprattutto in soggetti pesanti, possa rendersi responsabile di microtraumi ripetuti o di un trauma acuto, cui conseguono disinserzioni/rotture parziali dei tendini flessori, indi disturbo vascolare locale con produzione di tessuto fibroso che in seguito va incontro a calcificazione e/o ossificazione. La prime ipotesi sono rafforzate dal fatto che tale condizione viene riscontrata anche in cani appartenenti a razze non predisposte a displasia del gomito, come pure in cani fenotipicamente esenti e nel gatto. Sebbene in Medicina umana la frattura per avulsione venga ricondotta ad un’iperestensione violenta

del gomito, cui consegue la dislocazione del frammento/i di epicondilo avulso/i che, per l’apporto trofico proveniente dai tendini, poi continua ad accrescersi, a nostro avviso è più veritiera, nel cane, l’ipotesi che prevede un’iperestensione violenta della mano in seguito ad una caduta o durante la corsa libera. Una terza ipotesi vede tali reperti come il risultato di una calcificazione distrofica con conseguente metaplasia ossea dei tessuti molli del gomito, quali la capsula articolare ed i tendini e muscoli flessori, secondaria ad alcune forme di displasia del gomito (incongruenza articolare e/o frammentazione del processo coronoideo mediale dell’ulna) e/o all’artrosi che ad essa consegue. La teoria dell’osteocondrosi, non intesa s’intende come mancata unione dell’epicondilo omerale ma, citando Bennett, come “anomala ossificazione del bordo distale dell’epicondilo”, predisponente all’avulsione di frammenti di cartilagine da tale struttura, appare senza dubbio una supposizione interessante che necessita però, prima di una sua convalida, di ulteriori e più significative conferme. Il riscontro da parte degli Autori della medesima lesione anche nel gatto, come precedentemente riportato, lascia credere che tali reperti possano comunque essere attribuiti anche ad altri meccanismi eziologici. I cani in cui è stata segnalata la lesione generalmente appartengono a razze di media-grossa taglia: Pastore tedesco, Labrador e Golden retriever, Rottweiler, Terranova, Setter inglese, Bovaro del Bernese, Alaskan Malamute, Airedale, Bracco tedesco, Pointers ecc… Tale affezione si può manifestare clinicamente sia in giovane età (4-5 mesi) che in età adulta (4-6 anni), come pure può rappresentare un reperto radiografico occasionale. Non sembrano esserci predisposizioni legate al sesso. Generalmente la presenza di aree uniche o multiple, radiodense, nel comparto mediale del gomito, qualora sintomatica si rende responsabile di una zoppia (I-III°/IV°) ad insorgenza progressiva, all’origine della quale a volte si associa un episodio traumatico acuto. Caratteristica, anche se non costante, la presenza di una tumefazione di consistenza dura più o meno evidente a livello della faccia mediale del gomito. Non di rado vi è inoltre una associazione con manifestazioni displasiche del gomito, soprattutto la frammentazione del processo coronoideo mediale dell’ulna, l’incongruenza articolare e/o alterazioni artrosiche ad esse conseguenti: in tal caso, oltre ai sintomi sopra citati, si possono associare quelli caratteristici di una displasia del gomito complicata d’artrosi, cioè ectasia dei fondi ciechi articolari, rumori di crepitio alla flessione-estensione dell’articolazione e riduzione dell’escursione articolare. Tali reperti non


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sono mai stati riscontrati in associazione alla mancata unione del processo anconeo dell’ulna. L’esame radiografico vede di grande aiuto, oltre che le proiezioni radiografiche medio-laterali ed antero-posteriori, le proiezioni antero-laterali / postero-mediali ed antero-mediali / posterolaterali, che consentono di visualizzare meglio, in alcuni casi, tutti i frammenti presenti. Ancor più dettagliate risultano essere le immagini ottenute mediante tomografia computerizzata. L’approccio terapeutico per le lesioni sintomatiche può essere di tipo medico-conservativo o, in caso di insuccesso, di tipo chirurgico. La chirurgia si prefigge l’asportazione del/dei “frammento/i”, i quali si localizzano per lo più a livello di tendini e muscoli flessori della falangi e/o del flessore ulnare del carpo e/o flessore radiale del carpo. Va sottolineata l’importanza di rimuovere completamente le aree ossificate o i “frammenti” onde evitare che la lesione si ripresenti con conseguente recrudescenza della zoppia. La prognosi dopo exeresi chirurgica, nonostante venga spesso in letteratura considerata favorevole, deve sempre intendersi riservata, soprattutto se sono presenti concomitanti pregresse patologie a carico del gomito (displasia e/o artrosi). L’esame istopatologico della lesione asportata è stata eseguita in letteratura solo in un numero limitato di pazienti, e comunque non ha mai fornito la chiave per la comprensione dell’eziologia; Ljunggren, riferendosi ai frammenti asportati, parla di tessuto spugnoso unito all’omero da fibrocartilagine; Grondalen di trabecole ossee parzialmente coperte da cartilagine ialina; May di tessuto osseo circondato da cartilagine e connettivo fibroso; Zontine di tendinite ossificante con proliferazione reattiva di nuovo osso; ancora Walker di avulsione del tendine flessore delle falangi con calcificazioni distrofiche in un caso e di ossificazione metaplastica dei tendini in un altro. Recentemente Snaps et al. descrivono un caso in cui il frammento asportato, ritrovato a livello intrarticolare, era costituito da trabecole ossee ricoperte da tessuto fibroso e cartilagine. Concludendo, nonostante l’evidenza radiografica di aree a densità calcifica localizzate medialmente all’interlinea articolare del gomito e/o caudalmente all’epicondilo omerale mediale sia stata considerata in passato tra le affezioni della displasia del gomito nel cane, a tutt’oggi non vi sono prove obiettive che facciano classificare la lesione come una costante manifestazione osteocondrosica né tantomeno, quindi, come una displasia. Possiamo sostenere, sulla scorta della nostra eperienza e dalla disamina della letteratura, che la lesione può sottendere differenti meccanismi eziopatogenetici che condividono, sfortunatamente, lo stesso aspetto radiologico. In quasi tutti i casi comunque generalmente si arriva, in tempi più o meno brevi, ad una primaria o secondaria ossificazione di tendini e muscoli flessori, terminologia che dovrebbe essere utilizzata qualora non si riesca a trovare in via definitiva il meccanismo eziopatogenetico che sta alla base della lesione. Una accurata anamnesi, con particolare attenzione verso pregressi eventi traumatici, anche se non responsabili nell’immediato di zoppia, la visita ortopedica, e la diagnostica per immagini (radiografia, tomografia computerizzata, artroscopia, etc.) devono indirizzare il clinico verso il meccanismo eziopatogenetico cui si può infine ricondurre, anche se non sempre con certezza, la lesione. Come per altre affezioni ortopediche, e tra queste la displasia del gomito, anche tali reperti possono rivestire il duplice

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aspetto di malattia sintomatica e malattia asintomatica (reperto radiografico occasionale), e questo può complicare ulteriormente il procedimento diagnostico. Sebbene alcuni Autori ritengano favorevole la prognosi dopo terapia chirurgica, a nostro avviso questa deve comunque intendersi riservata, soprattutto nei pazienti in cui sia presente una concomitante grave artrosi/displasia del gomito; è infatti doveroso ricordare che, a dispetto di questo ottimismo, nessuno dei lavori pubblicati annovera un numero di casi e soprattutto un follow-up sufficienti a formulare un giudizio obiettivo e statisticamente valido. Oltretutto la non infrequente concomitante presenza di patologie displasiche del gomito, quali l’incongruenza articolare e/o la frammentazione del processo coronoideo mediale dell’ulna e/o l’artrosi ad esse conseguenti, rendono ancor più difficile la codificazione dei risultati ottenuti.

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Indirizzo per la corrispondenza: Allevi Giovanni Med Vet, Dottore di Ricerca in Ortopedia degli Animali Domestici via Lurano, 40 - Brignano G.A., 24053 - Bergamo Tel cell 339 5726906 - Tel e fax 0363 814184 e-mail: g.allevi@libero.it


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Alimentazione e patologie alimentari nel coniglio da compagnia Marta Avanzi Med Vet, Castelfranco Veneto (TV)

La maggior parte delle patologie del coniglio da compagnia sono causate, direttamente o indirettamente, da errori alimentari. Il coniglio è un erbivoro stretto, con un apparato digerente ed una dentatura altamente specializzati, che tollerano male una dieta inadeguata. La dieta ideale è quella che più si avvicina a quella naturale, costituita da erba e piante di campo, relativamente povera dal punto di vista nutrivo, ricca di fibra e che richiede una masticazione prolungata. L’alimentazione del coniglio pet dovrebbe essere rappresentata da fieno di erbe miste in quantità illimitata, erba e verdure. Il pellet non è indispensabile, e va eventualmente razionato alla dose di un cucchiaio circa per un coniglio di media taglia. Un buon pellet deve essere composto di fieno e piante e contenere almeno il 18% di fibra. Saltuariamente si possono somministrare piccole quantità di frutta. Altri alimenti (pane, grissini, semi, cereali, dolciumi ecc.) devono essere completamente evitati. In un coniglio sano, la somministrazione di vitamine e lattobacilli è inutile. Anche i blocchetti minerali sono inutili se non potenzialmente dannosi. I conigli tenuti come pet vengono purtroppo alimentati principalmente con alimenti commerciali del tutto inadeguati, costituiti da miscele di semi, fioccati, frutta secca, pellet di cereali, il cui impiego comporta gravi effetti sulla salute di questi lagomorfi. Le conseguenze degli errori alimentari a lungo termine si riflettono sulla dentatura, che nel coniglio è costituita da denti a crescita continua. Mentre allo stato naturale l’alimento consumato, per la sua propiretà fibrosa e abrasiva, richiede una masticazione prolungata e consente quindi un adeguato consumo della dentatura, ciò non si verifica con gli alimenti commerciali (ad alta densità calorica e scarsamente abrasivi). La situazione è aggravata dallo squilibrio del rapporto calcio-fosforo di questi alimenti, che porta ad un indebolimento dell’osso di sostegno dei denti. Di conseguenza si determina con il tempo un’alterazione di crescita dei denti e malocclusione, con incurvamento dei denti, formazione di punte, allungamento delle radici, periodontite, ascessi (a carico della mandibola, della mascella o dello spazio retrobulbare), osteomielite. La terapia di queste patologie è complessa e richiede la limatura periodica dei denti, l’estrazione di quelli coinvolti nella formazione di ascessi, l’asportazione in blocco, quando possibile, degli ascessi, o il loro trattamento secondo diverse tecniche dettate di volta in volta dalle loro caratteristiche. Senza intervento, le punte dentali lacerano i tessuti molli della bocca, impedendo al coniglio di alimentarsi. Una volta instauratasi, la

malocclusione è permanente e nella maggior parte dei casi richiede trattamenti periodici di limatura dei denti. Per impostare un corretto piano terapeutico è indispensabile un’accurata visita clinica e l’esecuzione di uno studio radiografico della testa, per valutare le condizioni della dentatura oltre allo stato generale del coniglio. Gli errori alimentari hanno importanti conseguenze sull’apparato digerente, che per funzionare correttamente necessita di una dieta con un’alta percentuale di fibra indigeribile (vale a dire di dimensioni tali da non poter essere assimilata dal coniglio). La fibra svolge nel coniglio una duplice funzione: stimola una corretta motilità ciecocolica, e favorisce la presenza di una flora batterica adeguata, ostacolando lo sviluppo di batteri patogeni (E. coli e clostridi). Il sistema digerente del coniglio elimina rapidamente la fibra grossolana, non digeribile (che forma i pellet fecali). Sebbene non venga assimilata, la fibra indigeribile ha un’importanza critica nel mantenere la motilità gastro-intestinale. Il rimanente alimento viene sottoposto nel cieco a fermentazione da parte della flora ciecale, costituita da Bacteroides, bacilli non sporigeni gram negativi, altri batteri gram negativi, protozoi ciliati, e un lievito, Cyniclomyces guttulatus. In seguito a questi processi di fermentazione si formano vitamine, acidi grassi e aminoacidi, che in parte vengono assorbiti direttamente e in parte vengono espulsi sotto forma di ciecotrofo, che il coniglio ingerisce direttamente dall’ano assimilando così importanti elementi nutritivi. In presenza di una dieta commerciale a base di semi e fioccati il livello inadeguato di fibra causa un rallentamento della motilità gastrointestinale, che può arrivare alla stasi completa. Cessa l’assunzione di alimento e la defecazione e, se non si interviene, con il passare dei giorni si ha un declino progressivo delle condizioni di salute, fino alla morte. Soprattutto nei soggetti obesi, il quadro clinico può essere aggravato da una lipidosi epatica, che nel coniglio si può instaurare già dopo un paio di giorni di digiuno, e che è rapidamente mortale. La diminuzione della motilità intestinale ha anche un altro effetto deleterio, poiché altera la composizione della microflora intestinale, favorendo la proliferazione di batteri patogeni come i clostridi ed E. coli. Questi batteri sono in grado di causare enteriti ed enterotossiemie rapidamente mortali. Altre patologie possono secondariamente causare stasi intestinale: patologie epatiche o urinarie, dolori osteoarticolari, problemi dentali, e tutto ciò che può indurre stress o dolore. In tal caso è fondamentale identificare e correggere le cause scatenanti della stasi.


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La terapia delle patologie gastrointestinali del coniglio si basa su tre elementi fondamentali: reidratazione, sostegno alimentare ed analgesia. Le alterazioni della funzionalità gastro-intestinale causano disidratazione, che a sua volta aggrava la condizione, creando un pericoloso circolo vizioso. La reidratazione può essere effettuata per via orale e sottocutanea (contemporaneamente), e nei casi più gravi per via endovenosa o intraossea. La reidratazione è vitale non solo nelle enteriti, ma anche in caso di stasi gastro-intestinale, per reidratare il contenuto gastrico. La quantità di liquidi da somministrare è di 100-120 ml/kg al giorno; è importante riscaldare a temperatura corporea i liquidi da somministrare per via parenterale. L’apporto di alimento è importante per mantenere un bilancio calorico positivo, fornire un substrato alla flora intestinale benefica, stimolare la motilità gastro-intestinale e prevenire la lipidosi epatica. A questo scopo si possono utilizzare vegetali frullati, alimenti vegetali per neonati o un prodotto specifico, Critical Care Oxbow®, da somministrare mediante siringa. I conigli sono molto sensibili agli effetti negativi del dolore, che induce immunodepressione, stasi gastro-intestinale, anoressia, e nei casi più gravi shock e morte. Tra i prodotti che si possono impiegare nel coniglio appare particolarmente sicuro ed efficace il meloxicam (0,1-0,3 mg/kg PO, SC q24h). Altri prodotti che si possono impiegare sono buprenorfina (0,01-0,05 mg/kg SC, IM, EV q6-12h), butorfanolo (0,1-0,5 mg/kg SC, EV q4-6h), carprofen (2-4 mg/kg SC, IM, PO q12h), flunixin meglumine (1-3 mg/kg IM, SC q12-24h per non più di 3 giorni). In caso di stasi gastro-intestinale si possono impiegare altre misure terapeutiche. La stimolazione della motilità intestinale è favorita da farmaci procinetici; dopo il ritiro dal mercato del cisapride è stato impiegato senza effetti avversi e con apparente efficacia un prodotto analogo, il clebopride, alla dose empirica di 0,1-0,15 mg/kg PO q12h. In caso di meteorismo (evidenziabile radiologicamente), si somministra simeticone (Mylicon pediatrico® 1-2 ml per 2-3 volte a distanza di un’ora, da ripetere secondo necessità). Una misura efficace per stimolare la ripresa della motilità intestinale è un delicato massaggio dell’addome, eseguito dopo la somministrazione degli analgesici. Il recupero della funzionalità intestinale può richiedere un tempo variabile da uno a parecchi giorni, ed è dimostrata dalla ripresa dell’alimentazione spontanea e della defecazione.

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Il tradizionale approccio terapeutico a questa patologia, che si riteneva causata da un’eccessiva ingestione di pelo e formazione di tricobezoari gastrici, basata sulla somministrazione di lassativi ed enzimi proteolitici, è del tutto obsoleto. L’approccio chirurgico non è in alcun modo consigliabile in caso di stasi (comporta inoltre un’elevata incidenza di complicanze, quali peritoniti e lipidosi epatica). Questa comune patologia va gestita invece con un aggressivo approccio medico, con eccellenti possibilità di guarigione. L’enterite di origine alimentare è una condizione di gravità variabile, dalla comparsa di feci più molli a diarrea profusa. In caso di enterotossiemia, che si manifesta con depressione, anoressia e diarrea, la prognosi è riservata e talvolta sfavorevole, ed è richiesto un aggressivo approccio terapeutico. Le forme lievi di enterite rispondono spesso al semplice miglioramento della dieta con un aumento della fibra alimentare e l’eliminazione degli alimenti inadatti. Nei casi di gravi disturbi intestinali si possono somministrare antibiotici (in particolare metronidazolo 20 mg/kg PO q12h). Sperimentalmente si è rivelata efficace nel ridurre la mortalità la colestiramina alla dose di 0,5 g in 20 ml di acqua PO q8h. Un’altra conseguenza dell’alimentazione sbilanciata è l’obesità, che a sua volta predispone a patologie cardiache, epatiche e renali e all’insorgenza di pododermatite. Per ottenere una riduzione di peso l’esercizio fisico è altrettanto importante di una dieta corretta. La formazione di calcoli urinari e l’accumulo di cristalli di calcio nell’urina (“sludge”) hanno una eziologica ancora in parte oscura. È possibile che la causa non sia da ricercare in un eccesso di calcio alimentare, ma altri fattori quali disidratazione cronica per mancanza di alimenti umidi, scarsa attività fisica, confinamento in gabbia che spinge il coniglio a trattenere l’urina, infezioni urinarie croniche. Mentre la restrizione di calcio alimentare non sembra in grado di prevenire le recidive, una misura più efficace consiste nell’aumentare l’assunzione di acqua (eliminando gli alimenti commerciali, aumentando la quantità di vegetali freschi e aromatizzando l’acqua con piccole quantità di succhi di frutta non dolcificati). In conclusione, le frequenti patologie del coniglio da compagnia (malocclusione, ascessi della testa, stasi intestinale ed enteriti) sono quasi totalmente prevenibili adottando un’alimentazione naturale basata su fieno ed erba.

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La risonanza magnetica (MR) nello studio del sistema nervoso centrale Massimo Baroni Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme, Pistoia

Nell’ambito della diagnostica neurologica, più che in altri campi, lo sviluppo di nuove metodiche di diagnostica per immagini, ha costituito una vera e propria pietra miliare per l’approfondimento della conoscenza di moltissime patologie e per la messa a punto di un efficace trattamento. In particolare Tomografia Computerizzata (CT) e Risonanza Magnetica (RM) hanno ormai una applicazione routinaria in neurologia umana e trovano sempre più ampi spazi in campo veterinario, certamente ancora penalizzato dal costo elevato di tali attrezzature. Lo scopo della presente trattazione vuole essere quello di esporre i principi fondamentali su cui si basa la Risonanza Magnetica e discutere le principali sue attuali applicazioni in Neurologia Veterinaria.

RISONANZA MAGNETICA Cenni sui Principi di base All’interno di un organismo, i nuclei atomici che posseggono un diverso numero protoni e neutroni si comportano come piccoli dipoli magnetici. In particolare i protoni hanno un movimento particolare su se stessi chiamato precessione. A seconda del campo magnetico a cui sono sottoposti, la velocità di precessione, misurata come frequenza di precessione, cambia seguendo una legge fisica particolare, l’equazione di Larmour (ω0 = γ B0, dove ω0 è la frequenza di precessione e γ è la costante giromagnetica). Se essi non sono sottoposti ad alcun campo magnetico, sono orientati in maniera random. Tra i vari, i protoni idrogeno sono quelli di maggiore importanza per l’applicazione biologica della MR. In una macchina per MR, è presente un magnete che determina un campo magnetico Bo parallelamente al quale si orientano i piccoli dipoli magnetici presenti nell’organismo. Un segnale a radio-frequenza (impulso) viene quindi emesso e determina un nuovo campo magnetico B1 cambiando l’orientamento dei dipoli secondo la direzione del nuovo campo. Quando cessa il segnale i dipoli tendono a riacquistare l’orientamento primitivo Bo, emettendo l’energia prima assorbita, la quale viene captata come radiosegnale. Una percentuale costante (63.2%) del tempo che occorre ai dipoli per riacquistare l’orientamento primitivo viene chiamato Tempo di Rilassamento T1: esso viene anche detto rilassamento longitudinale, in quanto il vettore che lo rappresenta tende ad orientarsi secondo il vettore del campo magnetico Bo. I campi magnetici determinati dai singoli protoni in precessione, normalmente sono orientati in vario modo e si an-

nullano fra di loro. Quando viene applicato un impulso a radiofrequenza, la precessione diventa sincrona ovvero i protoni sono “in fase”. Una volta tolto l’impulso, la sincronia viene persa. Il 63.2% del tempo che occorre ai protoni per perdere la fase viene definito Tempo di rilassamento T2 (rilassamento trasversale). Ogni tessuto, a seconda delle sue caratteristiche, presenta un diverso tempo di rilassamento T1 e T2. Per esempio l’acqua ha lungo T1 e lungo T2, il tessuto adiposo ha corto T1 e corto T2. Le caratteristiche di un determinato tessuto non dipendono solo dalle sue caratteristiche di rilassamento T1 e T2, ma anche dalla densità dei protoni presenti in esso (densità protonica). Le caratteristiche di un tessuto in termini di Densità Protonica, Rilassamento T1 e Rilassamento T2, sono utilizzate da un computer per elaborare l’immagine. A seconda del tipo di radiofrequenza utilizzata verranno enfatizzate una delle tre caratteristiche, per cui avremo immagini T1, T2 e a densità protonica. Gli impulsi a radiofrequenza non vengono inviati singolarmente, bensì ad intervalli regolari. Il tempo che intercorre tra un impulso o una serie di impulsi e l’altro, viene chiamato tempo di ripetizione (TR). Una serie di impulsi ad intervalli regolari viene chiamata Sequenza. Il tipo degli impulsi a radiofrequenza inviati caratterizza la sequenza. Una delle sequenze più usate in RM clinica è la cosiddetta Spin Echo. Nella sequenza spin echo viene inviato un primo impulso capace di ribaltare il vettore magnetico di 90° (impulso a 90°). Durante questo impulso si crea un vettore di magnetizzazione trasversale a 90° rispetto a Bo e tutti i protoni sono in fase. Una volta tolto il primo impulso i protoni tendono a perdere la fase. Viene allora mandato un secondo impulso a 180° che provoca un rifasamento (Echo). Il tempo che intercorre fra l’impulso a 90° e il picco del rifasamento, viene definito Tempo di Echo (TE). La serie viene quindi ripetuta per x volte, intervallata dal tempo di ripetizione TR. La scelta del tempo di ripetizione e di quello di eco sono i criteri fondamentali per ottenere un’immagine “pesata” in T1 o T2, nella sequenza spin Echo. In particolare un corto TR (500-600 msec) e un corto TE (18-26 msec) caratterizzano immagini T1 pesate, Con un lungo TR (2800, 3000 msec) ed un lungo TE (80, 90 msec) si ottengono immagini T2 pesate. Con un TR intermedio si esalteranno le caratteristiche di densità protonica del tessuto. Nelle immagini T1, tutti i tessuti ricchi in acqua appaiono ipointensi (scuri), mentre i tessuti poveri in acqua appaiono iperintensi (bianchi). Quindi il CSF appare nero, la sostanza bianca appare più intensa di quella grigia. Nelle immagini T2, avviene il contrario, per cui risultano iperintensi il CSF e la sostanza grigia.


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Un’altra sequenza speso utilizzata è l’Inversion Recovery (IR). In questa sequenza si invia un primo impulso a 180°, seguito da un altro a 90° e quindi da un terzo a 180°. Il tempo tra il primo impulso a 180° e quello a 90°, viene detto Tempo di Inversione (TI). Un tipo particolare di sequenza IR, attualmente particolarmente usata, è la FLAIR (Fluid Attenuated Inversion Recovery), in cui si sceglie un TI tale da sopprimere il segnale del liquido cefalorachidiano e si pesa in T2 la sequenza. Tale sequenza è particolarmente utile per studiare lesioni situate in prossimità del liquor. Come per la CT, anche nella MR, il corpo del paziente viene esaminato secondo scansioni di spessore variabile: Tutti e tre i piani dello spazio, coronale, assiale e sagittale possono essere direttamente esaminati. Mezzi di contrasto paramagnetici vengono utilizzati per enfatizzare alcuni tipi di lesione. Il mezzo più usato è un ione paramagnetico, il gadolinio, chelato con l’acido DTPA, per abolire la sua tossicità. Il gadolinio ha la caratteristica di accorciare il T1, aumentando il segnale (iperintensità) nei distretti dove si concentra. A livello di SNC tutte le lesioni che determinano una rottura di bariera ematoencefalica, presenteranno un contrast enhancement. Le modalità e la velocità con cui una lesione prende contrasto costituiscono elementi importanti di diagnosi differenziale.

STUDIO DELL’ANATOMIA NORMALE CT e MR Anche in Neurologia Veterinaria sono ormai a disposizione varie fonti di Letteratura riguardanti la normale anatomia MR, la descrizione della quale esula dalla presente trattazione. È tuttavia necessario puntualizzare che solo una precisa e profonda conoscenza di essa, consente di avvicinarsi correttamente alla diagnostica, motivo per cui si stimola il lettore ad uno studio della letteratura suddetta prima di affrontare un approccio diretto con queste metodiche di diagnostica per immagine.

CT e MR NELLA DIAGNOSTICA INTRACRANICA Sebbene la CT rivesta ancora un ruolo molto importante nella diagnostica delle malattie intracraniche del cane e del gatto a causa del costo relativamente accessibile rispetto alla RM, quest’ultima si è rivelata di gran lunga più sensibile nella diagnostica delle malattie cerebrali e ha quasi totalmente soppiantato la Tomografia computerizzata in medicina umana. La CT è comunque idonea alla diagnosi di processi riguardanti la volta cranica o comunque i tessuti duri, compreso l’orecchio interno, le masse occupanti spazio ubicate in fossa posteriore, le lesioni di tipo vascolare nelle loro primissime fasi, alcune lesioni infiammatorie occupanti spazio (ascessi, GME), alcune anomalie (idrocefalo). Non è invece sensibile nella diagnostica di lesioni ubicate in fossa posteriore a causa del notevole spessore osseo che causa perdita di definizione.

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La RM offre una notevole sensibilità diagnostica sia nel campo delle lesioni espansive che infiammatorie e degenerative oltreché nelle anomalie congenite. Permette una ottima visione delle strutture della fossa posteriore e dell’orecchio medio e interno. Non è idonea per la visualizzazione di lesioni riguardanti i tessuti duri.

Protocollo di studio Lo studio RM del cranio va standardizzato con l’utilizzo costante di una serie si sequenze, ciascuna delle quali deve portare particolari informazioni. Uno studio classico si può considerare costituito da una sequenza Spin Echo T1 pesata sul piano traverso a cui segue una sequenza Spin Echo T2 pesata sempre sullo stesso piano e quindi altre due sequenze Spin echo T2 sui piani dorsale e sagittale. La sequenza T1 ci fornisce immagini con buona risoluzione ma è poco sensibile nell’evidenziare processi patologici, i quali spesso risultano isointensi. La T2 dà immagini meno definite, ma è altamente sensibile nell’evidenziare lesioni, qualunque sia la loro natura. Se dopo l’esecuzione di queste sequenze, notiamo processi patologici o abbiamo sospetti, è indicato uno studio T1 dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico (gadolinio 0.2 mg/kg), eseguito sui tre piani dello spazio. A questo studio base, a volte si aggiungono altre sequenze in grado di chiarire dubbi. A questo scopo una delle sequenze più utilizzate è la FLAIR, in grado di differenziare le lesioni(iperintense) dal liquido cefalo-rachidiano (ipointenso), qualora la patologia sia in prossimità del sistema ventricolare. Un parametro importante da tenere in considerazione nello studio del cranio è lo spessore di strato, ossia lo spessore cerebrale da cui la macchina attinge informazioni per ricostruire l’immagine di uno strato. Nei cani di grossa taglia si può usare 5 mm, mentre in cani di piccola taglia o gatti, si deve scendere a 4 o 3 mm.

Aspetto RM di alcune patologie di frequente riscontro NEOPLASIE Alcuni tipi di tumori mostrano caratteristiche RM tipiche che si rivelano spesso diagnostiche: GLIOMI Si mostrano come zone ipointense in T1 ed iperintense in T2, a margini non definiti, a localizzazione intrassiale, con “Contrast enhancement” ad anello o disomogeneo. Alcuni gliomi a basso indice di malignità non prendono contrasto. Esercitano solitamente notevole effetto massa. MENINGIOMI Hanno localizzazioni tipiche (meningiomi della volta, della base cranica, della falce, dell’angolo cerebello-pontino), presentano margini molto netti, spesso con chiara distinzione dal parenchima circostante, si presentano isointensi in T1 e iperintensi in T2, hanno contrast enhan-


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cement intenso ed omogeneo che si estende spesso alle meningi adiacenti (meningeal tail). Spesso presentano aree calcifiche. TUMORI DEI PLESSI CORIOIDEI Sono a localizzazione intraventricolare, sono ben definiti ed assumono intensamente ed uniformemente il contrasto. ADENOMI, ADENOCARCINOMI IPOFISARI A partenza dalla sella turcica si estendono verso il talamo. Hanno margini ben definiti e buona ed omogenea presa di contrasto. Spesso è difficile una differenziazione con il meningioma della base. A tale scopo può essere utile associare alla RM uno studio CT per la messa in evidenza di eventuali calcificazioni, elemento che fa propendere la diagnosi verso il meningioma. LESIONI INFIAMMATORIE Le sequenze T2 sono solitamente le più sensibili nell’identificare le lesioni infiammatorie, le quali appaiono iperintense in queste sequenze, mentre appaiono isointense o ipointense in T1. Decisa ipointensità si coglie in T1 nelle lesioni che portano a malacia. Il contrast enhancement delle lesioni infiammatorie varia a seconda della gravità della rottura della barriera ematoencefalica. Anche in caso di demielinizzazione, come avviene ad esempio nell’infezione cimurrosa, si possono avere aree di ipersegnale in T2 associate ad aree ipointense in T1. LESIONI VASCOLARI Nelle fasi iperacute di un’emorragia (prime 24 h) l’esame RM non trova grande applicazione, essendo più sensibile uno studio con CT. Nella fase subacuta l’RM diventa di fondamentale importanza per monitorare l’andamento e l’evoluzione del focolaio emorragico. La capacità dell’RM di monitorare l’evoluzione dell’emorragia dipende dalle diverse proprietà paramagnetiche dell’emoglobina nelle sue fasi di degradazione (Tabella 1).

UTILIZZO DELLA CT E DELLA RM NELLA DIAGNOSTICA MIDOLLARE Ancora oggi la metodica diagnostica principale per lo studio delle patologie midollari è la mielografia. La risonanza magnetica è usata in casi selezionati in cui la mielografia non è riuscita a definire una diagnosi chiara e precisa. Questo uso selettivo della RM dipende da vari fattori: alto costo dei sistemi MR, utilizzo di macchine situate in cliniche di medicina umana con conseguente accesso limitato alla sera

tardi o alla mattina presto, difficoltà tecniche di esecuzione maggiori rispetto all’uomo, considerando le piccole dimensioni del midollo spinale nel caso e nel gatto. Nonostante tutto ciò, la RM può risultare di estrema utilità diagnostica in quasi tutte le patologie midollari e sarà sicuramente destinata a diventare la metodica di prima scelta nello studio del midollo spinale in un futuro prossimo.

Protocollo di studio Il posizionamento del paziente ha un’importanza fondamentale per ottenere buone immagini. In particolare bisogna aver cura che il segmento midollare da studiare sia tutto sullo stesso piano, in modo tale da ottenere scansioni sagittali o dorsali che taglino il midollo sempre allo stesso livello. È inoltre importante curare il ritmo respiratorio del soggetto (soprattutto nello studio del tratto toraco-lombare) al fine di evitare artefatti. Il protocollo di studio più comune prevede l’esecuzione di scansioni sagittali Spin Echo T1 e T2 pesate. Se si evidenziano alterazioni di segnale e/o morfologia, si eseguono sequenze T1 e T2 pesate sul piano traverso, a livello della lesione. Lo studio in T1, viene quindi ripetuto sia sul piano sagittale che traverso dopo iniezione di mezzo di contrasto paramagnetico. Soprattutto nelle scansioni sagittali, è opportuno usare uno spessore di stato sottile (3-4 mm), considerando le piccole dimensioni del midollo spinale nei nostri pazienti.

Aspetto RM in alcune patologie midollari ESTRUSIONI DISCALI L’uso di RM per lo studio di estrusioni discali acute è limitato a quelle strutture che hanno un sistema RM in sede, considerata la natura acuta della patologia. L’RM fornisce immagini altamente diagnostiche in questa patologia e consente di delineare anche le complicanze associate all’estrusione (emorragia, contusione midollare, fenomeni infiammatori secondari). Il segnale ottenuto dal materiale di compressione varia a seconda del tipo di degenerazione discale, dal tempo trascorso dal momento dell’estrusione, dalla presenza di emorragia. In particolare possiamo avere: 1) materiale estruso fortemente ipointenso in T1 e T2: disco calcifico 2) materiale estruso isointenso in T1 e ipointenso in T2: materiale degenerato non calcifico 3) emorragia associata (in T1: ipointensa in fase acuta, 1° giorno, iperintensa in fase subacuta, dopo 48 h)

Tabella 1 Fase

Tempo

Marker

Immagini T1

Immagini T2

Iperacuta

1-6 ore

Ossi-Hb

Iso-ipointensa

Iperintensa

Acuta

6-48 ore

Deossi-Hb

Iso-ipointensa

Ipointensa

Subacuta 1

2-7 giorni

Intracellular Meta-Hb

Iperintensa

Ipointensa

Subacuta 2

2-3 sett.

Extracellular Meta-Hb

Iperintensa

Iperintensa

Cronica

> 3 sett.

Haemosiderin

Come CSF

come CSF con bordi ipointensi


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4) contrast enhancement del materiale estruso. Si verifica in corso di discopatie subacute con sviluppo di tessuto infiammatorio. PROTRUSIONI DISCALI Lo studio RM fornisce immagini altamente diagnostiche e dettagliate. Sicuramente la sensibilità è maggiore rispetto a quella fornita da uno studio mielografico. Vengono fornite informazioni riguardo al grado di degenerazione del disco, all’integrità dell’annulus fibroso e del legamento longitudinale, al grado di sofferenza parenchimale midollare. Occorre avere notevole esperienza nel giudicare la significatività delle protrusioni discali, in quanto l’RM tende a magnificare il grado di protrusione. DEGENERATIVE LUMBO-SACRAL STENOSIS (DLSS) L’avvento della RM ha cambiato radicalmente i protocolli diagnostici per questa malattia, diventando la metodica di scelta. Essa fornisce informazioni riguardanti il grado di degenerazione del disco lombo-sacrale, eventuale presenza di compressioni sulla linea mediana o lateralizzate (foraminali). Il protocollo di studio prevede l’acquisizione di immagini sul piano traverso e sagittale, T1 e T2 pesate. Solitamente non è necessario l’utilizzo di mezzo di contrasto NEOPLASIE L’utilizzo della Risonanza Magnetica è fondamentale nel delineare morfologia ed estensione delle neoplasie midolla-

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ri. Uno studio RM è assolutamente necessario se si vuole eseguire un planning operatorio adeguato. La posizione delle neoplasia rispetto al midollo (extradurale, intradurale, intramidollare), il grado di coinvolgimento delle strutture vertebrali adiacenti, il tipo di contrast enhacement costituiscono i paramentri fondamentali su cui fornire una diagnosi differenziale riguardo al tipo di neoplasia. SIRINGOMIELIA, IDROMIELIA Vengono perfettamente delineate dalla RM. Possono essere espressione di malattia congenita (es. Malformazione Arnold Chiari tipo 1) oppure possono essere secondarie a patologie compressive croniche. PATOLOGIE VASCOLARI Patologie vascolari di tipo emorragico ed infartuale, diagnosticate spesso su base clinica e per esclusione di altre patologie su base mielografica, vengono precisate e delineate dalla RM. Come abbiamo già visto, in corso di lesione emorragica, è possibile anche determinare lo stadio evolutivo del focolaio emorragico e seguirne l’ulteriore evoluzione.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Massimo Baroni Clinica Veterinaria Valdinievole Via Nigra 123 - 51015 Monsummano Terme - Pistoia, Italy Tel. +39 0572 51286 - Fax +39 0572 951499 E-mail: baromax@tin.it


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Trattamento chirurgico delle anomalie vertebrali nel cane Massimo Baroni Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme, Pistoia

Numerosi tipi di malformazione congenita vertebrale possono essere riscontrate nel cane. Alcune sono di piuttosto frequente riscontro e spesso sono associate a particolari razze, altre sono reperite solo sporadicamente o sono addirittura molto rare. Non sempre le anomalie vertebrali si associano a lesioni a carico del midollo spinale con conseguenti segni neurologici; spesso non sono responsabili di disfunzione midollare e vengono reperite durante indagini collaterali (studi Rx) svolte per tutt’altra causa. In Tabella 1 vengono riassunte le principali malformazioni della spina. Tra le malformazioni elencate verranno qui trattate solo quelle di rilievo clinico e per le quali è possibile attuare una terapia chirurgica in molti casi efficace. In particolare verrà presa in considerazione l’emivertebra e la sublussazione atlanto-assiale.

EMIVERTEBRA È il risultato della mancata formazione di parte del corpo vertebrale. Solitamente la vertebra malformata ha forma a tronco di cono con la base più ampia rivolta verso l’alto o su un lato. In dipendenza di questa peculiare forma si associano importanti deviazioni vertebrali, più spesso in cifosi, qualche volta in scoliosi. A volte il corpo vertebrale difetta della parte mediana, esitando due due distinti “nuclei ossei”, uno per lato. In questo caso l’emivertebra viene anche definita “vertebra a farfalla”. L’emivertebra costituisce un reperto abbastanza frequente nelle razze brachicefale di piccola taglia (vedi Tab. 1), tuttavia può essere associata a qualsiasi razza. Alcune volte è del tutto asintomatica. In altri casi in corrispondenza della deviazione vertebrale, si sviluppa stenosi del canale spinale con conseguente compressione mi-

dollare. La deviazione midollare patologica peggiora nella sua gravità durante l’accrescimento causando un lento e progressivo peggioramento del grado di compressione midollare, a cui consegue un aggravamento della sintomatologia. La stenosi del canale vertebrale presenta di solito due componenti biomeccaniche, una statica, l’altra dinamica, in quanto l’emivertebra è spesso sede d’instabilità vertebrale. La sede di più frequente riscontro è toracica con deviazione in cifosi di tale segmento vertebrale. La sintomatologia clinica, quando presente, è rappresentata da una paresi posteriore lentamente ingravescente con possibile esito in plegia. L’esordio dei degni clinici si verifica solitamente nel periodo sell’accrescimento, con una maggiore incidenza fra i sei e gli otto mesi di età. L’esame neurologico indica una localizzazione neuroanatomica toracolombare, con normo-iperriflessia posteriore. Raramente è presente dolore vertebrale. La diagnosi è confermata attraverso uno studio radiologico in bianco e con mezzo di contrasto (mielografia). Lo studio mielografico deve comprendere proiezioni latero-laterali stressate, in maniera tale da rendere ben evidente l’eventuale componente dinamica della patologia compressiva. Un ulteriore precisazione del grado di compressione e dello stato di sofferenza focale midollare può essere fornita da un’indagine RM del rachide toraco-lombare. La terapia chirurgica dell’emivertebra sintomatica è stata affrontata solo sporadicamente in medicina veterinaria. Al riguardo, la letteratura è pressoché assente. Molto genericamente alcuni autori indicano la possibilità di eseguire interventi di decompressione-stabilizzazione, ma la descrizione di una tecnica dettagliata non è, ad oggi, rintracciabile.

Tabella 1

TIPO

INCIDENZA

PRESENZA SEGNI NEUROLOGICI

RAZZE MAGGIORMENTE COLPITE

Emivertebra

frequente

frequente

Carlino, Bulldog, Bouledogue Francese

Vertebre a blocco

rara

Solitamente assenti

tutte

Lussazione Atlo-assiale

frequente

frequente

Piccola taglia (Yorkshire T., Maltese, barboncino) Occasionale grandi taglie

Chirurgica

Osteocondromatosi

rara

possibile

Tutte le razze

Chirurgica

Spina bifida

rara

possibile

Bulldog

Stenosi vertebrale

rara

possibile

Dobermann, Alano, altre

TERAPIA Chirurgica

Chirurgica


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Nella pratica, gli approcci dorsali si sono rivelati molto difficoltosi. La decompressione dorsale, usata come unica procedura, provoca un aumento dell’instabilità con risultati clinici disastrosi. La stabilizzazione in distrazione del rachide toracico è difficilmente effettuabile per via dorsale, a causa della inconsistente struttura degli archi vertebrali a questo livello e del difficile approccio ai corpi vertebrali, quasi per intero situati in cavità toracica e rivestiti da pleura. Per tutti questi motivi, un approccio ventrale per via transtoracica, sembrerebbe più idoneo e di seguito viene descritto.

TECNICA

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grande (rottweiler). L’autore ha trattato tale malformazione anche in pastore tedesco, dobermann, terranova. Il difetto congenito alla base dell’anomalia consiste nall’aplasia del dente dell’epistrofeo o nell’aplasia- ipoplasia del complesso legamentoso che unisce il dente dell’epistrofeo all’atlante. Ne risulta un’instabilità dell’articolazione con compressione midollare focale. I segni clinici si manifestano più frequentemente in accrescimento, tuttavia la patologia può rendersi evidente a qualsiasi età. La sintomatologia varia da dolore cervicale in assenza di deficit neurologici a forme gravi di tetraparesi. La terapia è essenzialmente chirurgica. Varie tecniche sono state descritte dettagliatamente in letteratura. L’approccio e la stabilizzazione dorsale con filo metallico ha rappresentato per lungo tempo la tecnica d’elezione. Recentemente è stata comunque quasi totalmente sostituita dall’approccio ventrale con stabilizzazione ad opera di viti transarticolari. Quest’ultima tecnica ha garantito buoni risultati, pur risultando di non sempre facile esecuzione, soprattutto in pazienti di piccolissima taglia (peso corporeo < 1 kg). In tali soggetti il teatro operatorio è di dimensioni estremamente ridotte e il corretto posizionamento delle viti transarticolari risulta poco agevole. In particolare risultano estremamente frequenti i posizionamenti troppo mediani con coinvolgimento del canale spinale, o quelli troppo laterali con scarsa tenuta delle viti. Scopo di questa presentazione è quello di presentare una tecnica di stabilizzazione fusione con approccio ventrale, che sia di facile attuazione in qualsiasi tipo di paziente.

Si effettua una toracotomia laterale, possibilmente a livello dello spazio costale corrispondente allo spazio intervertebrale di massima deviazione spinale. Spostato il lobo polmonare caudale ventralmente, si identificano alcuni punti di repere fondamentali: 1) Emivertebra 2) arco aortico ed aorta toracica 3) vasi intercostali 4) tronco simpatico. I vasi intercostali a livello dell’emivertebra e lungo tre segmenti vertebrali cranialmente e caudalmente ad essa vengono cauterizzati. Si scolla quindi la pleura parietale dai corpi vertebrali e si identificano gli spazi discali. Tra questi, quelli adiacenti all’emivertebra vengono aperti e curettati. Successivamente a questo livello si eliminano le placche terminali vertebrali con idonea fresa pneumatica. Viene quindi posizionata una vite per ciascun corpo vertebrale (due, tre viti cranialmente e caudalmente all’emivertebra). Le viti, inserite nel corpo vertebrale fino a comprendere due corticali, vengono lasciate sporgere in cavità toracica per almeno 5 mm. Sul secondo corpo vertebrale a partire dall’emivertebra, viene applicato, cranialmente e caudalmente un filo di Kirschner (diametro 1.52 mm) su cui viene ancorato il distrattore vertebrale. Si applica quindi una graduale distrazione al rachide fino ad eliminare o diminuire notevolmente la deviazione patologica. A livello degli spazi intervertebrali precedentemente aperti e fresati, si applica osso spongioso, precedentemente prelevato a livello di testa omerale. La fissazione in distrazione è quindi ottenuta con l’applicazione di polimetilmetacrilato. La chiusura della breccia toracotomia avviene more solito. I risultati fin qui ottenuti con questa tecnica sono incoraggianti. Sono stati trattati 7 pazienti (6 carlini, 1 Yorkshire Terrier). Tutti i soggetti trattati erano affetti da grave paresi posteriore. Un paziente è deceduto nel periodo perioperatorio per cause non connesse alla tecnica. In due pazienti si è registrato miglioramento fino ad una deambulazione quasi nella norma, caratterizzata da lieve atassia locomotoria. In 4 soggetti si è registrato deciso miglioramento con persistenza di paresi deambulatoria. È opinione dell’autore che l’ottimizazione della tecnica unita ad una maggiore precocità di riconoscimento della patologia e precocità di trattamento, porterà ad un ulteriore miglioramento dei risultati.

Si esegue un approccio ventrale con scheletrizzazione accurata dell’arco ventrale dell’atlante, del corpo dell’epistrofeo e dell’articolazione atlo-epistrofica. Quest’ultima viene gentilmente aperta con uno scollaperiostio e, attraverso l’uso di fresa pneumatica, viene eliminata quanta più possibile cartilagine articolare. Si applicano quindi due viti a direzione ventro/dorsale e cranio/caudale sull’arco dell’atlante, a sede paramediana. Altre due viti vengono applicate sul corpo dell’epistrofeo, questa volta a direzione cranio-caudale e medio-laterale. Il diametro delle viti varia a seconda della taglia: in soggetti di razza toy, viti di 2 mm di diametro costituiscono la soluzione ottimale. Tutte le viti vengono lasciate sporgere dalla compatta dell’osso per 5-10 mm. Si applica quindi osso spongioso a livello dell’articolazione atloepistrofica, a garanzia di una precoce fusione articolare a quindi si fissano fra loro le viti con l’applicazione di polimetilmetacrilato. La chiusura della via di accesso ventrale al collo avviene more solito. La tecnica descritta garantisce una buona stabilizzazione, eliminando gran parte delle difficoltà tecniche legate all’uso di viti transarticolari. È stata usata con successo dall’autore in soggetti di tutte le taglie, tuttavia è soprattutto raccomandabile in pazienti di piccolissima taglia per la sua facilità e rapidità di esecuzione.

SUBLUSSAZIONE ATLANTO-ASSIALE

Indirizzo per la corrispondenza:

Tale malformazione colpisce soprattutto razze di taglia piccola (barboncino, yorkshire terrier, maltese etc), tuttavia in letteratura sono segnalati casi nel gatto e in razze di taglia

Dr. Massimo Baroni - Clinica Veterinaria Valdinievole Via Nigra 123 - 51015 Monsummano Terme - Pistoia, Italy Tel. +39 0572 51286 - Fax +39 0572 951499 E-mail baromax@tin.it

TECNICA


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Anestesia nella chirurgia dell’apparato genitale: piometra e parto cesareo Roberto Bellentani Med Vet, Modena

Introduzione In questa trattazione concentreremo la nostra attenzione su due interventi di chirurgia dell’apparato genitale che per frequenza e gravità meritano una discussione a parte. Inizieremo dal parto cesareo, poi ci occuperemo dell’intervento in caso di piometra.

Parto cesareo La placenta non rappresenta una valida barriera al passaggio della stragrande maggioranza dei farmaci, inclusi gli anestetici, perciò attualmente non è possibile evitare che i feti subiscano la loro azione; possiamo però ottimizzare al massimo il nostro intervento sfruttando la differenza di diffusione fra i vari farmaci, il loro diverso metabolismo, la possibilità di avere degli antagonisti, la diversa metodica e sede di somministrazione. Facciamo un breve accenno ad alcuni problemi che potrebbero verificarsi nel corso dell’anestesia, in quanto nella partoriente avvengono modificazioni della normale fisiologia. Una prima difficoltà potrebbe essere la comparsa di ipossia, dovuta ad anemia relativa, diminuzione della capacità polmonare residua, aumento del fabbisogno di ossigeno; sarà quindi utile somministrare questo importante elemento appena possibile. Un altro problema potrebbe essere l’insorgenza di vomito o rigurgito per aumento della pressione intragastrica, per una diminuzione della motilità dello stomaco e della tenuta dello sfintere cardiale per effetti ormonali. Una terza problematica potrebbe verificarsi in soggetti cardiopatici precedentemente non sintomatici: questi potrebbero andare incontro a scompenso a causa della diminuzione della riserva cardiaca. Infine, è necessario tener conto che la condizione di partoriente aumenta la sensibilità del soggetto agli anestetici. Detto ciò, iniziamo la parte pratica del nostro lavoro cercando di fare una rapida classificazione della nostra paziente in base al suo stato di arrivo in clinica: oltre alla sua salute, sarà utile determinarne condizioni caratteriali, perché queste influenzeranno il nostro iter anestesiologico. Per comodità creiamo tre categorie: 1° Soggetti molto tranquilli e fiduciosi oppure molto stanchi e debilitati, che comunque accettano senza problemi le manualità prechirurgiche (inserimento cannula endovenosa, tosatura addome).

2° Soggetti abbastanza tranquilli, ma un po’ tesi, accettano l’inserimento di una cannula endovenosa, tendono però ad agitarsi col rumore della tosatrice e non sopportano il decubito anche laterale. 3° Soggetti molto agitati, aggressivi, impauriti, reagiscono alle manualità ed anche solo per inserire una cannula endovenosa è necessario contenere l’animale con decisione, o addirittura lottare. Se il soggetto appartiene alla prima categoria dovremmo essere in grado di espletare tutte le manovre prechirurgiche con l’animale sveglio; è opportuno che le nostre manualità siano dolci e prudenti e la presenza del proprietario in questa fase iniziale potrebbe essere d’aiuto. A questo punto l’animale è sul tavolo operatorio e possiamo iniziare l’induzione e l’anestesia del soggetto; sceglieremo il nostro protocollo di induzione e mantenimento prediligendo farmaci a rapido smaltimento o con possibilità di antagonismo. Nella relazione vengono proposte alcune alternative che, a seconda dell’attrezzatura presente nella struttura, della maggiore famigliarità con alcune manovre o farmaci da parte dell’anestesista, possono essere convenientemente utilizzate. È ovvio che, potendo disporre di un’animale già preparato che possiamo anestetizzare ed operare immediatamente, siamo nelle condizioni di mantenere una delle regole fondamentali, cioè la massima rapidità della nostra procedura anestesiologica. Passiamo ora a considerare la seconda categoria di partorienti: siamo riusciti ad inserire una cannula in vena senza stressare troppo l’animale, ma esso non ci permette altre manovre perciò, per eseguire le manualità prechirurgiche, facciamo una sedazione endovenosa. Possiamo utilizzare varie possibilità, considerando che comunque la nostra via di somministrazione già di per sé rappresenta un vantaggio. Alla fine della preparazione della paziente, passiamo alla conduzione anestesiologica come nelle pazienti della 1° categoria. Infine, nei soggetti molto reattivi che collochiamo nella 3° classe, dovremo fare precedere a tutte le metodiche precedentemente elencate una premedicazione in muscolo, ad esempio una associazione di midazolam, petidina e medetomidina, oppure al posto della medetomidina, se le condizioni dell’animale ne sconsigliano l’utilizzo, inserire la ketamina. Non si è accennato all’utilizzo dell’atropina in fase di premedicazione: come in altre procedure anestesiologiche, l’uso di questo farmaco è piuttosto controverso ed in particolare in questo tipo di anestesia, secondo molti autori, gli svantaggi supererebbero i vantaggi. L’autore non la utilizza di routine.


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Finito l’intervento dobbiamo occuparci della gestione del postoperatorio: la madre dovrebbe essere rapidamente in grado di occuparsi dei cuccioli, ma dovremo fare maggior attenzione rispetto ad un risveglio per altri tipi di chirurgia, che le sue facoltà fisiche e mentali consentano una adeguata gestione dei neonati. I cuccioli vanno rapidamente liberati dalle membrane placentari, la bocca ed il naso devono essere puliti ed eventuali liquidi verranno aspirati, poi andranno massaggiati delicatamente, asciugati e tenuti al caldo. Nel caso siano stati somministrati alla madre farmaci antagonizzabili e si sospetti che i cuccioli siano ancora sotto il loro effetto, è possibile somministrare gli antagonisti specifici.

Piometra In questi ultimi anni, la maggior disponibilità di un sensibile metodo di indagine delle patologie uterine come l’ecografo, ha sicuramente abbreviato e reso assai più preciso l’iter diagnostico per questa malattia; ciò ha consentito di vedere la patologia precocemente, spesso nelle prime fasi del suo sviluppo. Per tal motivo accade sempre più spesso di operare animali in buone condizioni con minime variazioni del loro stato di salute. Però può avvenire che, per disattenzione o incuria da parte del proprietario, o per le caratteristiche di patologia subclinica che possono essere riscontrate in alcuni soggetti o, infine, per incidenti che possono verificarsi, come la rottura dell’utero con peritonite, si arrivi ad operare animali in condizioni molto gravi. Solitamente questi soggetti presentano problemi di scompenso elettrolitico ed acido-basico e/o patologie da infezione generalizzata. Una buona gestione anestesiologica di questi soggetti comincia prima dell’anestesia vera e propria: la paziente va stabilizzata cercando di modificare con la fluidoterapia le alterazioni che sono state riscontrate con la visita e le indagini di laboratorio. In caso di sepsi anche la terapia antibiotica andrà iniziata precocemente, prediligendo la via endovenosa. Di solito i soggetti in condizioni gravi si trovano già sotto infusione endovenosa, per cui potremo iniziare la somministrazione degli anestetici attraverso questa via: inizieremo con un’analgesia-sedazione preoperatoria con un oppioide a rapida azione come il fentanest, eventualmente alternato ad un basso dosaggio di diazepam per scongiurare fenomeni eccitativi che si possono verificare con l’uso di questo farmaco in animali non premedicati. Poi si passa all’induzione, evitando farmaci come i barbiturici, per le loro doti di depressione cardiocircolatoria protratta e predisposizione alle aritmie; la scelta può ricadere sulla miscela diazepam-ketamina oppure sul propofol. I farmaci ipnotici ideali per il mantenimento sono quelli gassosi, in particolare l’isofluorano, ovviamente con l’aggiunta di altre dosi di analgesico op-

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pioide per garantire una adeguata analgesia chirurgica. Anche in questo tipo di anestesia, come per altro nel cesareo, è possibile utilizzare i bloccanti neuromuscolari, in quanto per alcuni autori questi farmaci sono in grado interagire con gli ipnotici consentendone una riduzione del dosaggio; inoltre, possono migliorare le condizioni operative rendendo più rapida e sicura la chirurgia, il tutto mantenendo sostanzialmente inalterate le funzioni cardiovascolari.

Conclusioni L’assistenza anestesiologica che prestiamo in caso di chirurgia dell’apparato genitale femminile, può richiedere un grosso impegno ed una notevole prontezza in quanto molto spesso gli animali sottoposti a questi interventi sono fortemente stressati ed in condizioni non ottimali. In particolare, nel parto cesareo, le nostre decisioni influenzeranno non solo la vita del paziente sottoposto ad anestesia, ma anche quella dei nascituri.

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Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Bellentani Ambulatorio Veterinario Via Sant’Antonio 10 - 41043 Formigine (MO) Tel-fax 059556004 E-mail bellentanivet@oksatcom.it


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Patologie gestionali nei rettili Alessandro Bellese Med Vet, Venezia

I rettili tenuti in cattività sono soggetti ad una serie di problemi e patologie legati a vari fattori correlati strettamente a tale condizione. Tali fattori comprendono la gestione e la realizzazione di un habitat adatto per ogni singola specie, il rispetto delle caratteristiche fisiche, ecologiche, eto-psicologiche dell’animale, il corretto rapporto uomo-animale. Cercheremo di puntualizzare i vari punti deboli nella gestione generale degli animali “da terrario” considerando la notevole variabilità tra le specie, di evidenziare i problemi derivanti dall’errore e di suggerire quindi le possibilità di prevenzione e terapia.

PARAMETRI AMBIENTALI DELL’HABITAT ARTIFICIALE La prima cosa da considerare nell’allevamento dei cosiddetti animali da terrario è che sebbene alcune specie siano riprodotte da varie generazioni, non possono essere considerati domestici, ma selvatici tenuti in cattività con caratteristiche fisiologiche peculiari che necessitano di vivere in un microhabitat che riproduca il più fedelmente possibile i parametri ambientali che troverebbero in natura. I parametri più importanti sono la luce, la temperatura e l’umidità ambientale. Per quanto riguarda la luce bisognerà considerare il fotoperiodo, la qualità e quindi il tipo di radiazioni utili, l’intensità luminosa. Ogni specie è adattata a vivere seguendo un determinato ritmo di luce circadiano che scandisce le varie attività fisiologiche e comportamentali giornaliere. Inoltre la variazione stagionale delle ore di luce ha un’importanza estrema per la fisiologia ed il comportamento riproduttivo di molte specie. Il tipo di radiazioni emesse dalle lampade utilizzate per l’illuminazione artificiale è d’importanza estrema per alcune specie. Per molti rettili diurni i raggi UVB sono indispensabili per la fotosintesi della vitamina D3 e quindi per l’assimilazione del calcio. Anche i raggi UVA hanno una notevole importanza, i rettili hanno la capacità di vedere nello spettro UVA, quindi lampade che emettono questa luce portano a benefici psicologici (o meglio eliminano il problema di una visione permanentemente alterata), stimolano l’alimentazione e l’attività riproduttiva. Riguardo alla temperatura bisognerà considerare quella preferita per la specie, la realizzazione di un gradiente termico, la misurazione dei valori assoluti, la modalità di somministrazione ed assorbimento. È essenziale che ogni specie abbia a disposizione un gradiente termico che permetta il raggiungimento della temperatura corporea preferita che può variare secondo il momento fisiologico. Da tenere pre-

sente che terrari di piccole dimensioni si riscaldano uniformemente non garantendo una corretta variazione di temperatura. La temperatura deve essere misurata in più punti del microhabitat per evitare il mantenimento a temperature eccessivamente basse o alte. L’assorbimento del calore varia secondo le specie, così un’iguana verde, sauro arboricolo diurno preferirà riscaldarsi da una fonte radiante che imiti il sole, mentre un serpente terricolo notturno troverà più fisiologico assorbire calore per conduzione dal substrato o da una superficie riscaldata. Infine da non sottovalutare l’effetto serra che si ottiene esponendo una teca in vetro alla luce solare diretta che può causare un surriscaldamento letale in pochi minuti. Il terzo parametro essenziale è l’umidità, considerata come atmosferica dell’habitat d’origine della specie considerata, come condensa ed accumulo sulle pareti e sul fondo e substrato, come umidità insufficiente, e come aree ad umidità diversa dal resto dell’ambiente. La scorretta gestione dell’umidità ambientale può provocare problemi cutanei più o meno gravi, come disecdisi e malattia vescicolare, problemi respiratori, renali e problemi legati all’aumento della carica batterica e micotica in ambiente caldo umido.

SISTEMI DI GESTIONE DEI PARAMETRI AMBIENTALI La luce e la temperatura sono fornite da sistemi d’illuminazione e riscaldamento, la cui gestione può essere essa stessa fonte di problemi. I cavi elettrici se aggredibili dagli animali possono causare elettrocuzioni. Le lampade ad incandescenza possono causare ustioni. Le lampade neon emettitrici di raggi UVB con il tempo diminuiscono l’emissione radiante e tale emissione è bloccata da vetro, plastica ed addirittura rete a maglie troppo fine, quindi la loro gestione corretta e la loro sostituzione periodica è importante nelle specie che necessitano di radiazione UVB. I vari sistemi di riscaldamento se non gestiti adeguatamente possono provocare ustioni e se non controllati sottopongono gli animali a temperature inadeguate. Come già detto il tipo di sistema utilizzato per fornire calore deve essere compatibile con la modalità d’assorbimento della specie ed il comportamento termoregolatore. Rettili deserticoli che sfuggono al calore sprofondandosi nella sabbia, probabilmente non apprezzeranno di trovarsi una serpentina riscaldante nascosta nel substrato. I termometri in vetro possono essere rotti e provocare traumi ed avvelenamenti da mercurio e piombo.


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ELEMENTI D’ARREDO E DELL’HABITAT ARTIFICIALE La teca o altro alloggiamento è dotato di vari elementi d’arredo e d’utilità. Il tipo d’arredo è molto importante per il benessere psicofisico dell’animale e dovrà naturalmente tenere presente dell’habitat d’origine della specie. Anche se l’animale non è tenuto in un vivario naturalistico dovranno essere rispettate le esigenze minime ambientali, un rettile arboricolo dovrà avere a disposizione dei rami in una teca sviluppata in altezza, uno deserticolo, delle rocce ed un substrato adatto. Il substrato utilizzato ha una notevole importanza e nella scelta vanno considerati diversi fattori come l’eco-etologia della specie, la tipologia d’allevamento (vivario naturalistico, teca da allevamento “intensivo”), l’igienicità, la pericolosità in caso d’ingestione. In caso di gestione all’esterno può essere importante la composizione del terreno (ad es. sufficientemente drenante per specie di habitat aridi). Importante è anche la disponibilità di un corretto substrato da deposizione per evitare problemi di distocia da indisponibilità del nido. L’acqua è un elemento essenziale dell’habitat sia per quanto riguarda la qualità dell’acqua di stabulazione nelle specie acquatiche e semi acquatiche sia per quanto riguarda l’acqua da bere ed in particolare le modalità di somministrazione, la sua qualità ed igiene. Per molte specie è importante fornire dei rifugi adatti, in mancanza dei quali si determina una situazione cronicamente stressante. In molti casi è utile disporre più rifugi in varie zone termiche e che abbiano all’interno diversi gradi d’umidità. Altri elementi d’arredo come rami, pietre ed altri vanno fissati stabilmente in quanto possono causare gravi traumi se cadono sugli animali. Le superfici non devono avere porzioni traumatizzanti come spine o margini taglienti. I rami inoltre dovranno essere di dimensione adatta a sorreggere il peso dell’animale e posizionati in funzione della preferenza delle specie, così in genere camaleonti ed iguane preferiscono rami orizzontali, mentre certi agamici strettamente arboricoli stanno preferibilmente su rami notevolmente inclinati

GESTIONE IN ESTERNO Alcune specie possono essere allevate in esterno sia in terreni recintati in vario modo sia in gabbie. In questo tipo di gestione vanno considerati vari fattori come le temperature stagionali, la corretta esposizione al sole, la presenza di rifugi e zone d’ombra, la disponibilità d’acqua, la corretta composizione del terreno, la protezione contro eventuali predatori, la possibilità di fuga, la delimitazione delle aree d’allevamento nei giardini, la corretta gestione del letargo.

QUARANTENA Importante l’instaurazione di programmi di quarantena per i nuovi arrivi e la divisione in gruppi con priorità d’interventi gestionali in caso di patologie infettive in collezioni.

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CONVIVENZA CON ALTRI ANIMALI Spesso nella gestione domestica vi è la compresenza di altre specie animali. Queste possono essere rappresentate da animali domestici classici e “nuovi” animali da compagnia come da altri “animali da terrario” sia della stessa specie sia di specie diverse. Per quel che riguarda i domestici i problemi riguardano principalmente la predazione in particolare da parte dei carnivori come cane, gatto e furetto. Quando sono alloggiati nello stesso terrario o situazione, rettili di specie diversa, i problemi possono essere legati allo scambio di patogeni contro i quali il sistema immunitario di una determinata specie non è preparato oppure ad incompatibilità eco-etologiche (predazione, diverso habitat, diversa alimentazione etc.). Anche la convivenza d’animali della stessa specie spesso è sconsigliabile e comunque deve tener conto delle caratteristiche di territorialità, dei rapporti sociali (sessuali, gerarchici ecc), della differenza di dimensioni, del rapporto numerico tra i sessi.

RAPPORTO CON L’UOMO Spesso nella gestione dei rettili tenuti come pet vi è una tendenza all’antropomorfizzazione ed alla considerazione dell’animale come un classico animale domestico, sottovalutando o addirittura non considerando le peculiari necessità ambientali di questi animali. Ci si trova quindi spesso di fronte a situazioni tipo cheloni palustri o iguane tenute come cagnolini in giro per la casa, condizione che ovviamente non garantisce i parametri minimi d’illuminazione, temperatura ed umidità esponendoli tra l’altro a tutta una serie d’incidenti domestici. La maggior parte delle specie inoltre mal sopporta la manipolazione che spesso questo tipo di considerazione del “pet” comporta. Alcune sopportano meglio di altre, ma in ogni caso solo dopo un approccio graduale e ragionato. Drammaticamente spesso, molti di questi animali (vedi “tartarughine nane”, iguane, “draghetti”, e vari piccoli ofidi) sono acquistati da o regalati a bambini o comunque a giovani persone. Nella maggioranza dei casi queste, se non educate adeguatamente e supervisionate, non sono in grado di comprendere adeguatamente il substrato cognitivo alla base della gestione delle vite che si trovano ad avere tra le mani. Concludendo, l’approccio clinico, terapeutico e prognostico a questi animali deve tenere conto anche di una numerosa serie di fattori che vanno oltre la scienza medica ma che abbracciano la biologia, l’ecologia, l’etologia e finanche la psicologia umana.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Bellese Ambulatorio SPINEA (VE), Via M. Buonarroti, 38 Tel. 041 5412007 e-mail ambuvetspinea@libero.it


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Alimentazione e patologie alimentari nel furetto Fabrizio Benini Med Vet, Treviso

Anatomia e fisiologia dell’alimentazione Il furetto è un carnivoro stretto, che richiede una dieta basata esclusivamente su proteine di origine animale. La sua anatomia e fisiologia sono specializzate per un’attività di tipo predatorio e il consumo e l’assimilazione di piccoli animali. La dentatura, costituita da denti affilati, è atta a catturare le prede con i canini acuminati e a lacerarle con i premolari e molari affilati. L’intestino è relativamente corto, senza distinzione macroscopica tra tenue e colon, caratterizzato da una velocità di transito particolarmente elevata (circa 3 ore), come adattamento ad un regime alimentare basato esclusivamente su alimenti di origine animale. Questi alimenti, molto nutrienti e facilmente assimilabili, richiedono infatti un processo digestivo relativamente semplice e rapido. Il cieco, organo tipicamente deputato a processare la fibra, è assente nel furetto, e la flora batterica è semplice e poco significativa, a ribadire la specializzazione di questa specie per un regime che non comprende alcun tipo di alimenti di tipo vegetale, ad eccezione del contenuto gastrointestinale delle prede ingerite. Il furetto richiede quindi una dieta basata esclusivamente su proteine animali di elevata qualità (altamente digeribili) e comprendente un’elevata percentuale di grassi animali come fonte energetica. I carboidrati e le proteine vegetali sono scarsamente assimilati e predispongono a diverse patologie, come verrà descritto in seguito. Anche le proteine derivate dal pesce sono scarsamente tollerate, e possono indurre vomito, e non dovrebbero quindi essere incluse nell’alimento del furetto. Le diete commerciali per cani, le diete per gatti di scarsa qualità, e gli alimenti per furetti che non sono composti principalmente da alimenti di origine animale sono quindi inadatti all’alimentazione del furetto. Un buon alimento per furetti deve contenere il 30-40% di proteine e il 1520% di lipidi; i primi tre ingredienti elencati nell’etichetta delle caratteristiche nutrizionale devono essere di origine animale, ad esclusione del pesce e derivati. Un furetto adulto ingerisce, secondo il suo peso, da 20 a 40 g di crocchette al giorno. Il mercato offre parecchie marche di alimenti confezionati per furetti, la cui qualità e rispondenza alle necessità di questo mustelide sono tuttavia raramente soddisfacenti. È sufficiente esaminare il cartellino per rendersi conto che tra gli ingredienti principali figurano spesso alimenti inadeguati quali soia, mais, riso e avena, farina di pesce, grasso deidrogenato. Inoltre nelle etichette non viene indicata la dige-

ribilità, un elemento molto importante per giudicare la qualità del prodotto. Possiamo affermare che sono pochissimi i prodotti confezionati veramente adeguati per questa specie reperibili nei negozi per animali. Alcuni autori sostengono in realtà che la dieta migliore per il furetto, quella che più risponde alle sue esigenze fisiologiche, è costituita da prede intere quali topi, ratti e pulcini, analogamente a quanto viene somministrato ai rettili carnivori. Con questo tipo di dieta le feci si presentano piccole e consistenti, al contrario delle feci voluminose e morbide prodotte da animali alimentati con cibi commerciali. Questo tipo di alimento, sebbene possa essere rappresentato da animali soppressi in modo indolore e congelati, ha d’altra parte il forte svantaggio di comportare notevoli problemi di tipo psicologico alla maggior parte dei proprietari. Altri tipi di considerazioni possono riguardare l’aspetto igienico (possibilità di trasmissione di parassiti gastrointestinali, toxoplasmosi, salmonellosi, ecc.) e dello stato di salute della preda (gli animali ammalati forniscono un alimento di scarsa qualità). Non bisogna neppure sottovalutare i pericoli derivanti dalle ossa (azione perforante o abrasiva) e da pelo e cute della preda (rallentamento sino alla stasi con blocco intestinale). Vanno completamente esclusi dalla dieta, od offerti al massimo come premio occasionale (e per occasionale il proprietario non deve intendere ogni 2-3 ore!) frutta, vegetali, dolciumi e bocconi per furetti di tipo commerciale. I prodotti contenenti lattosio possono causare diarrea in alcuni soggetti. Premi occasionali accettabili sono rappresentati da pezzi di carne o uova, preferibilmente cotti, anche se il furetto appare molto resistente allo sviluppo di salmonellosi. I furetti tendono a sviluppare forti preferenze alimentari nei primi mesi di vita, rendendo in seguito molto difficile ottenere un cambiamento di regime alimentare. Pertanto è opportuno abituare il giovane furetto ad assumere diversi tipi di alimento. In caso di necessità il furetto può essere costretto a cambiare dieta eliminando bruscamente il vecchio tipo di alimento e lasciando a disposizione solo quello nuovo. Fanno eccezione i soggetti affetti da insulinoma, per i quali un periodo di digiuno superiore a 6 ore può precipitare una crisi ipoglicemica. In questo caso è consigliabile procedere ad una modifica più graduale. L’acqua deve essere sempre a disposizione, preferibilmente somministrata tramite un beverino a goccia, il cui corretto funzionamento deve essere verificato dal proprietario almeno una volta al giorno.


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Gli errori alimentari e le loro conseguenze Le proteine di origine vegetale favoriscono la formazione di urine alcaline e quindi la precipitazione dei cristalli di struvite, predisponendo allo sviluppo di calcoli urinari. Questa condizione è rara in soggetti alimentati con proteine animali di alta qualità. Diete contenenti proteine di scarsa qualità e carenti di acidi grassi causano alterazioni a carico della cute e del pelo, con sviluppo di pelo opaco, forfora e alterazioni della cheratinizzazione dell’epidermide fino alla formazione di ulcere. Questa patologia viene corretta dall’utilizzo di integratori a base di acidi grassi, in particolare linoleico, linolenico e arachidonico. Si ritiene che la presenza di fibra nell’alimento causi al furetto alterazioni intestinali e diarrea. Diversi autori speculano che livelli eccessivi di fibra possano essere implicati nell’insorgenza delle patologie infiammatorie croniche intestinali e dei tumori intestinali del furetto. La quota di fibra nell’alimentazione del furetto idealmente non dovrebbe superare l’1,5%. Negli alimenti per furetti si trovano comunemente valori del 3% o superiori. Si ipotizza anche che l’elevata quota di carboidrati presente in buona parte degli alimenti commerciali possa favorire lo sviluppo dell’insulinoma, patologia tumorale delle cellule beta del pancreas, che nei furetti americani ha un’incidenza altissima (25-38%, secondo gli autori). L’eccesso di carboidrati causerebbe una sovrastimolazione delle cellule beta, che andrebbero incontro dapprima ad un’iperplasia e in seguito ad una trasformazione tumorale. Quest’ipotesi è rafforzata dalla constatazione che nei furetti alimentati con prede l’incidenza dell’insulinoma è bassissima. L’abuso di alimenti ricchi di carboidrati, la difficoltà di razionamento dei fuori pasto e l’abitudine a non limitare l’accesso al cibo favoriscono l’insorgenza dell’obesità, in particolare se l’animale è costretto in gabbia per lunghi periodi. L’obesità è la patologia alimentare più frequente riscontrata nei furetti da compagnia. La riduzione di peso va ottenuta preferibilmente permettendo al furetto di fare più attività fisica e riducendo la quantità di cibo a disposizione. La somministrazione di alimenti a basso contenuto calorico per altri animali è da evitare, a causa dell’eccessiva percentuale di fibra che contengono. L’eccesso alimentare di acidi grassi polinsaturi, eventualmente accompagnato da una contemporanea carenza di vitamina E, può causare l’insorgenza di steatite. La correzione dell’alimentazione e la contemporanea supplementazione con vitamina E alla dose di 30 mg al giorno per dieci giorni, seguita da 15 mg per i successivi 5 giorni e continua-

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ta con 10 mg per tutta la vita del furetto può portare al miglioramento della condizione. I cibi umidi e/o zuccherini accelerano la formazione della placca dentale destinata poi ad evolvere in tartaro. Premolari e molari sono i denti maggiormente interessati da questo problema. Uno stato di prolungata malnutrizione nel furetto adulto provoca ipofertilità sia nel maschio che nella femmina, e gravidanze con un numero ridotto di feti. I piccoli alla nascita risultano meno vitali; inoltre il latte materno insufficiente e carente degli elementi nutrizionali ne causa una crescita stentata evidenziata da disidratazione, ipotermia e ipoglicemia. Anche se non è una patologia strettamente alimentare, vale la pena citare, per la sua frequenza ed importanza in questa specie, l’ingestione di corpi estranei. L’asportazione di corpi estranei gastrointestinali è l’intervento chirurgico più frequente nel furetto, dopo la sterilizzazione. Gli oggetti in gomma morbida, in particolare, vengono rapidamente fatti a pezzi ed ingeriti, se lasciati a disposizione, cosa che è da evitare accuratamente. La prevenzione di questa patologia si effettua sull’attenta gestione del furetto, che non deve avere accesso a nessun oggetto pericoloso quando viene lasciato libero in casa. L’ingestione di materiale non alimentare può anche trarre origine da un’assenza di stimoli nei furetti trascurati e tenuti isolati in gabbia, che possono volgere le loro attenzioni agli arredi, prima distruggendoli e poi, in parte, ingoiandoli. Il furetto può sviluppare problemi legati allo sviluppo di tricobezoari causati dall’ingestione di pelo, con conseguente ostruzione intestinale. La somministrazione di lassativi (lattulosio o oli minerali) durante i periodi di muta aiuta a prevenire questa patologia. Alcuni autori sostengono che una dieta costituita da prede intere permette al sistema digestivo del furetto di liberarsi agevolmente dal pelo ingerito, senza necessità di ricorrere a lassativi. In conclusione, il regime alimentare migliore per il furetto è ancora oggetto di dibattito e probabilmente nessuna dieta commerciale risponde perfettamente alle esigenze di questo carnivoro, perfettamente adattato alla digestione di prede intere.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrizio Benini Via IV Novembre 13 Biban di Carbonera (TV) Tel. 0422 445022 fax 02 700431175 exoticben@libero.it


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Perché non si pensa mai al sistema nervoso perferico? Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Bologna

Le patologie del sistema nervoso periferico (SNP) sono frequentemente sottostimate nella clinica dei piccoli animali. La sintomatologia può infatti essere facilmente confusa con quella provocata da altre patologie del sistema nervoso o di altri apparati. Nelle forme acute, quali la poliradiculoneurite acuta idiopatica o “coonhound paralysis” del cane, si assiste alla comparsa di paresi sui quattro arti che spesso evolve in poche ore a tetraplegia flaccida. Rari casi sono segnalati anche nel gatto. L’improvvisa perdita della stazione, difficilmente accompagnata da altri segni chiaramente neurologici (il sistema nervoso sensitivo e autonomo non sono quasi mai coinvolti, al pari dei nervi cranici e dell’innervazione dei muscoli della coda e della respirazione) porta a considerare spesso patologie metaboliche o cardiocircolatorie in grado di causare debolezza, tralasciando l’ipotesi neurologica. In altri casi, l’interessamento contemporaneo dei quattro arti porta ad erronee localizzazioni neurologiche a livello cervicale, se non addirittura intracranico. In realtà, un buon esame neurologico potrebbe molte volte aiutare ad inquadrare il problema, vista la marcata ipo/ariflessia spesso presente. Gli studi elettromiografici evidenziano potenziali di fibrillazione o altri segni di denervazione, ma non sono utili per una diagnosi precoce, visto che le alterazioni sono evidenziabili in quinta-sesta giornata. La velocità di conduzione nervosa è spesso normale, principalmente perché il tratto di nervo esaminabile è distale al segmento principalmente coinvolto. Più subdole da un punto di vista diagnostico sono le forme croniche, sia di natura infiammatoria (poliradiculoneurite cronica recidivante, polineuropatia cronica recidivante, polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica), che metabolica, ormonale, degenerativa o paraneoplastica. In questi casi le manifestazioni cliniche hanno un esordio più subdolo e graduale, lentamente progressivo e possono presentare periodi di remissione spontanea o indotta da terapie sintomatiche. La debolezza e l’iporiflessia possono non essere molto marcate, specialmente nei primi periodi. L’atrofia muscolare passa sovente inosservata per la gradualità con cui si instaura o può essere mascherata da fattori esterni come, per esempio, il pelo lungo. Inoltre, viene spesso confusa con un dimagrimento dell’animale o attribuita a disuso. Animali considerati pigri o precocemente invecchiati possono essere portatori di patologie del SNP. Alcuni soggetti deboli possono tendere a compensare la debolezza con un aumento in parte volontario e in parte riflesso del tono muscolare, mostrando un certo grado di spasticità che può portare ad erronee localizzazioni. Altre volte, la forte debolezza è re-

sponsabile di andature stentate, barcollanti, che possono simulare una grave atassia. Altri fattori che possono condizionare negativamente la diagnosi di patologie del SNP possono essere riferibili a: 1. Scarsa conoscenza delle patologie. Molte sono rare, legate alla razza, su base degenerativa e/o ereditaria e poco segnalate in letteratura. 2. Assenza di familiarità con gli iter diagnostici. 3. Limitata diffusione delle apparecchiature necessarie. 4. Una certa invasività di alcune prove. Con l’elettromiografia (EMG) si possono evidenziare processi patologici a carico dei pirenofori degli α-motoneuroni, della radice del nervo, del nervo stesso e del muscolo. L’equipaggiamento per l’EMG consiste di alcuni elettrodi, un preamplificatore, un amplificatore, un monitor, un amplificatore audio e un altoparlante. Possono essere testati tutti i muscoli innervati da nervi cranici e spinali: in base al singolo caso clinico si deciderà quale muscoli esaminare. Nel cane e nel gatto sono necessari circa 5 giorni perché una qualsiasi patologia neuromuscolare sia svelabile attraverso l’EMG. Con l’EMG raramente si arriva ad una diagnosi, ma si ottengono ulteriori informazioni che indirizzano il clinico verso la risoluzione del caso: l’EMG permette di localizzare più precisamente l’estensione della lesione; è possibile vedere, in associazione alla velocità di conduzione nervosa e alla stimolazione nervosa ripetuta, quale parte dell’unità motoria è coinvolta dalla patologia; è possibile avere una valutazione oggettiva della patologia; i risultati ottenuti dopo esami ripetuti possono quindi essere confrontati per osservare il decorso della malattia e formulare una prognosi. Parallelamente all’EMG, la misurazione della velocità di conduzione nervosa (NCV) motoria e sensitiva permette di valutare la presenza di assonopatie e/o quadri di demielinizzazione primitiva o secondaria. Risposte anormali a stimolazioni ripetute dello stesso nervo (RNS) potrebbero far sospettare patologie della giunzione neuromuscolare (p. es., miastenia grave). Il prelievo di campioni nervosi e muscolari è utile quando costituisce la fase finale di un corretto approccio al SNP (esame neurologico, esami di laboratorio, elettrodiagnostica), altrimenti rischia di essere una procedura inutilmente invasiva. Fondamentale è la collaborazione con un laboratorio veterinario in grado di interpretare correttamente i campioni ricevuti. Le biopsie muscolari sono indicate principalmente in caso di miopatie, ma possono essere utili anche in caso di neuropatie periferiche. Generalmente non presentano difficoltà di esecuzione. Per ottenere un campione significativo, si consiglia di prelevarlo previo accesso chirurgico al muscolo


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prescelto, invece di usare trucut or punch. La scelta del muscolo dipende dalla sintomatologia presentata dall’animale, dalla diagnosi differenziale e dai risultati dell’EMG. A seconda delle situazioni possono essere raccolti vari campioni, dallo stesso muscolo o da più muscoli, che vengono conservati in soluzione fisiologica, in formalina o in glutaraldeide a seconda del tipo di esame che si vuole effettuare. La biopsia di un nervo periferico è indicata in caso di neuropatie periferiche e si abbina sempre ad una biopsia muscolare. La metodica consiste nell’evidenziazione chirurgica del nervo prescelto (di solito ulnare o peroneo) e l’asportazione di una sottile porzione longitudinale, della lunghezza di circa 3 cm. La difficoltà maggiore, specialmente per nervi di piccolo calibro, consiste nel non asportare un fascicolo troppo grosso, per non causare lesioni funzionali, nè troppo sottile, che ri-

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schia di essere costituito principalmente da connettivo epineurale. Una volta prelevate, le fibre devono essere mantenute stirate con un piccolo peso attaccato ad una estremità o fissandole ad un sottile pezzo di legno con due aghi. La quantità di campione prelevabile è sempre modesta, per cui, anche se studi istologici e immunoistochimici possono essere a volte utili e giustificherebbero la fissazione in formalina, l’esame principale delle fibre nervose è ultrastrutturale e il campione deve essere conservato in glutaraldeide.

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Rare neoplasie del SNC Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Bologna

Le neoplasie del sistema nervoso centrale (SNC) possono coinvolgere sia l’encefalo che il midollo spinale. In generale, un tumore può svilupparsi primariamente a carico del tessuto nervoso o metastatizzare ad esso. Tumori a carico di tessuti circostanti possono causare compressioni sul SNC o invaderlo localmente. Per ultimo, il SNC può essere interessato a neoplasie del sistema linforeticolare, quasi sempre nell’ambito di un quadro multisistemico. L’età media di presentazione è di nove anni, ma si includono le neoplasie nella diagnosi differenziale di tutti i soggetti con 5 o più anni di età. Segnalazioni in soggetti giovani sono rare, ma possibili. Cellule parenchimali (neuroni, glia), di rivestimento (meningi, ependima) o di strutture vascolari (plessi corioidei) possono essere coinvolte nella trasformazione neoplastica. I tumori del SNC non sono frequenti e vengono stimati nell’ordine di 14,5 cani e 3,5 gatti ogni 100.000. L’avvento di avanzate metodiche di indagine e l’allungamento dell’età media di vita rende la loro diagnosi sempre più frequente. Alcune di queste neoplasie sono nettamente più frequenti di altre. I meningiomi sono in generale le neoplasie più riportate nel cane e nel gatto. In alcune razze di cani, specialmente nei soggetti brachicefalici, i gliomi sono ancora più frequenti, mentre vengono descritti raramente nel gatto. Altre neoplasie vengono invece riportate raramente o in maniera occasionale e quindi sono spesso tralasciate durante la diagnosi differenziale. Fra questi ricordiamo metastasi di melanomi, tumori venerei, seminomi, emangiosarcomi, germinomi, adenocarcinomi polmonari e linfomi epiteliotropi cutanei. Condromi e fibromi aponeurotici si possono sviluppare all’interno della volta cranica, comprimendo l’encefalo. Sono segnalati anche localizzazioni al SNC dell’istiocitosi maligna del Bovaro del Bernese, plasmocitoma, tumori a cellule granulari, leucemia linfoblastica e i tumori rabdoidi. In altri casi il tumore si sviluppa in strutture limitrofe al SNC e può invadere l’encefalo dopo aver leso la scatola ossea, come nel caso degli adenocarcinomi nasali o più raramente in caso di mastocitomi faringei. Esistono segnalazioni anche riguardo ad angioendoteliomatosi, glioblastomi a cellule giganti, gangliocitomi, sarcomi indifferenziati, craniofaringiomi, teratocarcinomi. I linfomi colpiscono il SNC nel quadro di una localizzazione multicentrica. Raramente, vengono segnalati linfomi primari. Fra queste neoplasie ne esistono alcune che, pur infrequenti, non possono essere considerate aneddotiche e sono state oggetto di studi approfonditi, quali gli ependimomi e

le neoplasie intradurali-extramidollari dei cani giovani. Considerazioni sulle caratteristiche cliniche e anatomopatologiche di questi tumori costituisce il fine di questa presentazione. Gli ependimomi si sviluppano a carico del sottile strato di cellule che riveste il sistema ventricolare e possono manifestarsi sia a livello intracranico che midollare. Sono neoplasie generalmente benigne, la cui crescita locale può dare luogo a masse di notevoli dimensioni che possono essere responsabili di compressioni del SNC. Sono anche stati descritti ependimomi maligni. A livello encefalico, tali neoplasie tendono a svilupparsi all’interno dei ventricoli cerebrali, solitamente nel III e nel IV. A livello di midollo spinale, gli ependimomi si sviluppano a carico della parete del canale centrale. Anche se classificabili, quindi, come neoplasie intramidollari, esse tendono a guadagnare facilmente la superficie del midollo stesso e a protrudere all’esterno, diventando chirurgicamente aggredibili previa durotomia. Da un punto di vista clinico, la sintomatologia dipende ovviamente dalla localizzazione della massa. A parte i sintomi locali, causati dalla compressione operata dal tumore sul parenchima nervoso circostante, il coinvolgimento del sistema ventricolare e del canale centrale del midollo spinale può comportare ulteriori sintomi nervosi dovuti all’aumento della pressione intracranica per alterato deflusso del liquido cefalorachidiano. Se tali sintomi precedono quelli diretti, possono essere ipotizzate dal clinico localizzazioni erronee della lesione. Inoltre, sono state descritte metastasi via liquido cefalorachidiano in altri punti del sistema ventricolare. Macroscopicamente, gli ependimomi sono masse di colore grigio-rossastro ad aspetto lobulare. Istologicamente, sono caratterizzati da cellule allungate disposte intorno a vasi sanguigni dotati di sottili pareti, che danno luogo a caratteristiche figure denominate “pseudorosette”. Nel midollo spinale, tra i tumori intradurali-extraparenchimali (35% dei casi), oltre ai menigiomi e alle neoplasie dei nervi periferici si annovera un particolare tipo di neoplasie ad incerta classificazione. Gli aspetti istologici variano notevolmente, spesso ricordando un nefroblastoma, nome col quale sono spesso definiti. Altre volte sono stati descritti come neuroepiteliomi. Queste neoplasie presentano però una localizzazione costante tra T12 e L2 e sono riscontrabili in soggetti tra il primo e il secondo anno di vita. Per questi motivi vengono correntemente classificati come “neoplasie intradurali-extramidollari del cane giova-


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ne”. Comprimendo il midollo spinale causano una sintomatologia progressiva che spesso è sovrapponibile a quella di un’ernia discale. Non sono infrequenti i casi ad esordio acuto-subacuto. Sono masse singole, ma esiste anche una segnalazione atipica della contemporanea presenza di due tumori dello stesso tipo, per cui è stata ipotizzata una metastatizzazione intradurale. L’esame del LCR può permettere l’evidenziazione di cellule neoplastiche, vista l’ampia superficie a contatto con lo spazio subaracnoideo. Le probabilità di quadri diagnostici sono comunque limitate. L’esame mielografico può trarre in inganno, perché le immagini che si ottengono sono sovrapponibili ad una neoplasia intramidollare: aumento del diametro del midollo in entrambe le proiezioni ortogonali senza i tipici aspetti a “tee-golf”. Anche la risonanza magnetica può non risolvere il dubbio diagnostico, nonostante la migliore qualità delle immagini. La chirurgia è teoricamente possibile ed è stata segnalata. La massa appare macroscopicamente ben differenziabile dal parenchima nervoso e relativamente delimitata. Tuttavia, al momento della diagnosi il tumore ha spesso già raggiunto considerevoli dimensioni, relegando il tessuto nervoso ad un incompleto anello esterno. All’esame autoptico si rimane generalmente sorpresi nel constatare come soggetti con una compressione così grave del midollo spinale fossero ancora, seppur paretici ed atassici, in grado di camminare.

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Le abiotrofie Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Bologna

Le abiotrofie costituiscono un gruppo di malattie che colpiscono animali di età differenti, a poche settimane di vita o già in età avanzata, caratterizzate da degenerazione e morte prematura di popolazioni neuronali localizzate (esclusivamente o prevalentemente alla corteccia cerebellare) o sistemiche. Le abiotrofie cerebellari sono di gran lunga le più descritte in neurologia e costituiranno il tema di questa presentazione. Abiotrofie cerebellari sono state segnalate da tempo in bovini Angus, Holstein Friesian o incroci Hereford, pecore Merino e Charollais, cavalli Arabi e alci. Nei piccoli animali le prime seganalazioni risalgono alla fine degli anni ’70 e sono rimaste per lungo tempo confinate a poche razze (Kerry Blue terrier, Gordon setter); tuttavia, negli ultimi anni le descrizioni di singoli casi o studi genealogici di abiotrofia cerebellare compaiono con una certa frequenza. Risultano interessati soggetti di varie razze, elencate in seguito. Le abiotrofie cerebellari sono state riportate anche nel gatto. L’età di insorgenza è molto variabile e permette una classificazione delle abiotrofie in: 1) neonatali o perinatali (Beagle, Podenco Portoghese, Samoyedo); i sintomi si manifestano non appena il cucciolo comincia a camminare e progrediscono con il tempo. 2) postnatali (Australian kelpie, Border collie, Labrador retriever): comparsa tra la sesta e la dodicesima settimana di vita e rapida progressione. 3) giovanili (Schnauzer nano, Kerry Blue terrier, Airedale, Collie a pelo ruvido, Barbone nano, Pointer): il cucciolo è clinicamente normale fino al terzo-sesto mese di vita, quando cominciano a comparire i segni della malattia. A questo punto l’evoluzione può essere rapida, in pochi mesi, o molto lenta, distribuita in parecchi anni. Nei casi avanzati, nuclei encefalici possono mostrare segni di abiotrofia. 4) adulte (Gordon setter, Bovaro del Bernese, American Staffordshire terrier, Pitbull): il cane è clinicamente normale almeno fino al sesto mese di vita e può non presentare segni clinici fino al terzo-quinto anno di vita. L’evoluzione è generalmente molto lenta, per parecchi anni. 5) senili (Brittany spaniels): oltre i sette anni di età. Le alterazioni metaboliche che portano alla morte cellulare sono generalmente di natura ereditaria. Nei soggetti giovani, le abiotrofie devono essere distinte da forme di atrofia o ipoplasia. Nel caso delle abiotrofie si riscontrano popolazioni cellulari normali alla nascita e nelle prime fasi della vita, che ben presto vanno incontro a degenerazione. Negli altri casi la patologia (di solito infettiva, quindi

non ereditaria, caso mai congenita) impedisce lo sviluppo cellulare, per cui la patologia è già presente al momento della nascita. L’implicazione clinica di tali concetti è che nel caso delle abiotrofie gli animali nascono sani e in seguito cominciano a mostrare i segni di una patologia progressiva ad esito infausto; nelle atrofie gli animali nascono con i sintomi della patologia e col tempo possono compensare e quindi migliorare, anche notevolmente, la propria condizione clinica. Solitamente, solo uno o due soggetti di una cucciolata sono interessati al problema, essendo la modalità di ereditarietà autosomica recessiva. Nella forma che colpice il Pointer sembrano invece essere coinvolti i cromosomi sessuali. La reale incidenza dell’abiotrofia cerebellare richiederebbe studi approfonditi basati per lo meno sull’osservazione clinica degli animali e lo studio dei pedigree. Vari fattori pratici impediscono una corretta verifica. La nomenclatura delle abiotrofie è confusa. Talvolta si è dato peso al processo degenerativo osservato istologicamente, per cui al momento di dare un nome alla malattia si è deciso di sottolineare la presenza dell’abiotrofia stessa. Altre volte si è preferito parlare più genericamente di degenerazione neuronale. In altre occasioni ancora ci si è soffermati sulla localizzazione delle cellule colpite dal processo degenerativo, per cui si distinguono quadri puramente cerebellari e altri con interessamento di ulteriori aree del SNC. All’esame generale non si apprezzano alterazioni extraneurologiche. All’esame neurologico, la sintomatologia è caratterizzata da progressiva comparsa di atassia, aumento della base di appoggio, frequente perdita di equilibrio, ipermetria con andatura rigida e perdita di funzioni propriocettive. Nei maschi, la postura a tre zampe durante la minzione diventa presto difficile. Il tremore del capo non è un segno particolarmente prominente, specie nelle forme a lenta evoluzione. Essendo coinvolto il solo cervelletto, lo stato mentale e l’esame dei nervi cranici non risulta alterato, eccezion fatta per la reazione al gesto di minaccia, spesso dimunuita o assente. Da un punto di vista clinico l’abiotrofia cerebellare è tanto più facile da sospettare quanto più l’esordio avviene in età adulta o matura e la sintomatologia è cronica e progressiva. Tuttavia, la diagnosi definitiva è solo post mortem. Immagini ottenute con risonanza magnetica possono evidenziare, in alcuni casi, una diminuzione delle dimensioni del cervelletto che, ovviamente, non costituiscono in sé una diagnosi definitiva. Istologicamente, l’architettura della corteccia cerebellare può essere variamente alterata.


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Nella maggior parte dei casi si nota una forte diminuzione delle cellule del Purkinje, mentre le cellule dello strato molecolare e di quello dei granuli possono essere variamente coinvolti. Quadri di gliosi più o meno marcati possono essere presenti. Tuttavia, i quadri istologici possono differire notevolmente come aspetto e presentari differenti coinvolgimenti cellulari. Alterazioni a livello dei nuclei cerebellari o di altre strutture del tronco encefalico sono state riportate in alcuni casi e tendono a coinvolgere strutture strettamente correlate dal punto di vista funzionale con la corteccia cerebellare. La sterilizzazione o comunque l’impedimento alla procreazione sono moralmente consigliabili per evitare il perpetuarsi del problema di generazione in generazione. Purtroppo, nei casi ad esordio tardivo, i segni clinici della malattia possono comparire dopo che il soggetto è già stato avviato alla riproduzione. Anche i genitori e i fratelli della stessa e di altre cucciolate dovrebbero essere esclusi dalla riproduzione, in quanto possibili portatori sani.

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Tecniche di salvataggio delle vie urinarie Dale E. Bjorling DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA

Le tecniche di salvataggio delle vie urinarie vengono messe in atto per ripristinare o rimpiazzare, temporaneamente o permanentemente, l’attività dell’apparato urinario dopo che una sua porzione è andata distrutta o ha perso la propria funzionalità. Rimpiazzare una porzione delle vie urinarie è spesso problematico, data la natura altamente specializzata dei vari tratti di questo apparato. Lo scopo primario di qualsiasi procedura di salvataggio in questo settore deve essere quello di mantenere la funzione normale o conservare un livello accettabile di qualità della via sia per l’animale che per il cliente. La percezione della qualità della vita può variare con la disponibilità del proprietario a gestire le complicazioni postoperatorie.

Rene Le procedure di salvataggio del rene sono limitate a quelle che possono essere effettuate per preservare la porzione funzionale di un rene o quelle che costituiscono un’alternativa alla nefrectomia. La riparazione delle lesioni dei vasi renali ed il reimpianto degli ureteri possono essere estremamente difficili, soprattutto se vengono tentate senza mezzi di ingrandimento. Un’ischemia senza raffreddamento per anche solo un’ora esita in una grave e potenzialmente irreversibile lesione del rene. Se il danno a carico dell’organo è limitato ad un solo polo, si può effettuare una nefrectomia parziale per mantenere il tessuto renale funzionale. Una malattia diffusa del rene impone una nefrectomia totale. Le sonde da nefrostomia convogliano l’urina attraverso la parete corporea a partire dal bacinetto renale. Questi tubi vengono inseriti in previsione della risoluzione dell’ostruzione ureterale, ma si tratta di un intervento che viene effettuato con scarsa frequenza in medicina veterinaria. La maggior parte delle lacerazioni renali può essere chiusa con una sutura continua o a punti staccati in materiale assorbibile 3-0 o 4-0. L’emorragia proveniente dal parenchima renale può di solito essere controllata con l’applicazione di una pressione digitale o con la legatura dei singoli vasi. La nefrectomia parziale viene facilitata dalla temporanea occlusione dei vasi renali. La perfusione del rene non va impedita per più di 30 minuti. La porzione di rene da asportare viene identificata e rimossa. La vascolarizzazione del tessuto renale da rimuovere viene isolata e legata con materiale da sutura assorbibile. I difetti del bacinetto renale possono essere chiusi con una sutura continua semplice in materiale assorbibile di piccolo calibro (4-0 o 6-0). Il parenchima esposto viene ricoperto suturandolo al peritoneo parietale, sia in situ che realizzando un lembo sieroso muscolare. In alternativa, il parenchima esposto può essere ricoperto dall’omento o dalla superficie sierosa di un’ansa di intestino (rattoppo sieroso). In assenza di raffreddamento dell’organo, l’ischemia della durata anche solo di un’ora esita nella perdita permanente di un certo grado di funzione renale.

Uretere Le procedure di salvataggio dell’uretere consistono nel riposizionamento dello stesso, del rene o della vescica per compensare una perdita di lunghezza ureterale, la realizzazione di un lembo vescicale (Boari) o la sostituzione dell’uretere. Quest’ultima è stata effettuata con un segmento di intestino, materiale sintetico, tessuto vascolare o trapianto omologo, ma è risultata comunque decisamente infruttuosa. L’anastomosi o il reimpianto del tratto prossimale dell’uretere è tecnicamente difficile. Le lesioni del terzo medio del condotto vengono trattate preferibilmente mediante anastomosi, mentre per quelle del terzo distale si utilizza di norma il reimpianto dell’uretere stesso in vescica (neoureterovescicostomia). Per compensare una perdita di lunghezza dell’uretere, è possibile mobilizzare il rene e la sua vascolarizzazione dalle loro inserzioni a livello del peritoneo e spostarli caudalmente. Il rene può essere fissato in questa posizione suturando la sua capsula alla fascia sottolombare. Una procedura analoga può essere effettuata per spostare la vescica in direzione craniale (ancoraggio ai muscoli psoas).

Vescica Le indicazioni più comuni per la cistectomia totale o subtotale sono l’invasione dell’organo da parte di una neoplasia o la perdita della funzione contrattile dovuta ad una prolungata sovradistensione o ad una malattia neurologica. Le alternative attualmente disponibili per la diversione urinaria dopo cistectomia totale o subtotale in medicina veterinaria non sono del tutto soddisfacenti per periodi di tempo prolungati, principalmente a causa di problemi riferibili ad infezioni, incontinenza e squilibri elettrolitici. Il flusso di urina può essere deviato verso la superficie cutanea eseguendo una cistostomia mediante sonda, una cistostomia diretta o una traslocazione del trigono o degli ureteri sulla cute. Anche se la cistostomia mediante sonda, la cistostomia e la ricollocazione cutanea del trigono esitano in un significativo rischio di infezione ascendente del tratto urinario, queste procedure (in particolare la cistostomia mediante sonda) offrono una valida alternativa per la diversione urinaria temporanea, nel caso di animali affetti da condizioni inoperabili o clienti che desiderano limitare i costi.. La cistostomia o il trasferimento cutaneo del trigono sono accompagnate da una perdita completa della continenza urinaria e si possono verificare gravi ustioni da urina della cute adiacente all’apertura. Nel cane e nel gatto è stato anche descritto l’inserimento per via percutanea di sonde da cistostomia. L’introduzione e la rimozione di tali sonde applicate per via percutanea è stata accompagnata da difficoltà e si può verificare comunemente una dislocazione prematura. L’autore preferisce inserire le sonde da cistostomia attra-


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verso un’incisione laparotomica utilizzando un tunnel sottocutaneo breve (2-4 cm) (anche se è stato suggerito l’uso di un tunnel sottocutaneo di 15 cm). Come sonde da cistostomia per periodi di tempo prolungati (superiori ad un anno) sono state utilizzate con successo anche quelle da gastrostomia a basso profilo studiate per l’impianto a lungo termine nello stomaco. La terapia antibiotica cronica non è consigliata, a meno che non sia presente un’infezione sistemica, perché spesso esita nello sviluppo di ceppi batterici resistenti ed è raro che riesca ad eliminare l’infezione del tratto urinario mentre la sonda da cistostomia è ancora presente. È stato descritto un aumento della capacità vescicale dopo cistectomia parziale mediante enterocistoplastica, ma l’assorbimento dei costituenti urinari, l’aumento della frequenza della minzione ed il costante sviluppo di infezioni limitano l’utilità di queste procedure in medicina veterinaria. Varie porzioni del tratto gastroenterico, come lo stomaco ed il piccolo e grosso intestino, sono state utilizzate come condotti o serbatoi per l’urina nell’uomo e negli animali. A meno che non venga adattato allo stoma un dispositivo apposito, è necessario mettere in atto una procedura per garantire la continenza. Le valvole di sintesi non si sono dimostrate del tutto soddisfacenti. Tutte queste tecniche sono state associate ad un certo grado di assorbimento dei costituenti urinari. L’entità del riassorbimento urinario da parte dei condotti e dei serbatoi intestinali viene determinata parzialmente dalla durata dell’esposizione dell’intestino all’urina. Di conseguenza, il riassorbimento urinario è minore nei condotti intestinali che si limitano unicamente a veicolare l’urina verso la superficie ed hanno una scarsa capacità di serbatoio. La diversione dell’urina attraverso un segmento intestinale isolato può esitare in iperazotemia, ipercloremia, ipokalemia ed acidosi. Queste ultime due si possono avere meno frequentemente quando si utilizzano lo stomaco o il tratto inferiore del tenue. Altre complicazioni di questa forma di diversione urinaria sono rappresentate da infezione del tratto urinario, secrezione di muco e formazione di calcoli. Data la necessità di cateterizzazione intermittente per il drenaggio dell’urina, negli animali i condotti intestinali isolati ed i serbatoi in genere non sono soddisfacenti per questo scopo. Recentemente, sono stati descritti buoni risultati in seguito all’impianto degli ureteri nel moncone uterino in cagne ovariectomizzate di proprietà. Tuttavia, questi animali presentavano un’incontinenza urinaria completa. La trasposizione degli ureteri o del trigono nel tratto gastroenterico integro è la forma di diversione chirurgica dell’urina attualmente utilizzata con maggiore frequenza in medicina veterinaria. La diversione urinaria nel tratto gastroenterico integro offre molti vantaggi per gli animali rispetto ad altre forme di deviazione del flusso: la vescica può essere completamente rimossa, la continenza urinaria viene mantenuta, si offre all’animale una vita di qualità ragionevolmente accettabile e si mantiene la funzione renale almeno per parecchi mesi dopo l’intervento. L’impianto degli ureteri nel tratto gastroenterico in posizione situata oralmente al colon è stato abbandonato nell’uomo a causa di un relativo incremento dell’assorbimento dei componenti dell’urina dovuto ad un prolungamento della durata dell’esposizione all’urina stessa ed alle differenze fisiologiche fra grosso e piccolo intestino. I problemi che derivano da questa forma di diversione urinaria sono stati associati principalmente a disturbi metabolici dovuti all’assorbimento di urea, ammoniaca, elettroliti e ioni e (nell’uomo) allo sviluppo di neoplasie del colon a distanza di parecchi anni dall’intervento chirurgico.

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Le due tecniche che sono state utilizzate con successo in ambito clinico in medicina veterinaria per la diversione dell’urina nel tratto gastroenterico integro sono l’anastomosi trigono-colica e quella ureterocolica. L’incidenza della pielonefrite a distanza di 130 mesi dall’anastomosi trigonocolica nei cani normali era simile (33%; 4 cani su 12) a quella osservata 6 mesi dopo l’anastomosi ureterocolica in cani normali (40%; 2 cani su 5). A causa della tendenza dei tumori maligni della vescica del cane ad invadere il trigono, l’impiego clinico dell’anastomosi trigonocolica è limitato al trattamento delle disfunzioni neurologiche della vescica, dell’incontinenza intollerabile, delle malattie dell’uretra e dei traumi. Il reflusso cronico di urina contaminata dopo l’anastomosi ureterocolica conduce invariabilmente a pielonefrite e perdita della funzione renale. Nessuna delle tecniche descritte per prevenire il reflusso di urina ha avuto un successo uniforme. Oltre all’infezione del tratto urinario, dopo la diversione dell’urina nel tratto gastroenterico integro sono state osservate numerose complicazioni. Molti proprietari trovano discutibile il cattivo odore e la consistenza acquosa delle feci. Occasionalmente si verifica la perdita della continenza fecale e ciò, in associazione con la modificazione dell’odore e della consistenza delle feci, può rendere l’animale del tutto insoddisfacente come soggetto da compagnia da tenere in casa. L’iperazotemia che si riscontra dopo l’anastomosi ureterocolica può essere la conseguenza della disidratazione, dell’ostruzione ureterale, della disfunzione renale o dell’aumento dell’assorbimento dell’urea. Nei cani sottoposti ad anastomosi ureterocolica si è osservato lo sviluppo di disfunzioni neurologiche comprendenti atassia, stupore, demenza, aggressività e maneggio, che possono essere dovuti all’iperammoniemia da aumento dell’assorbimento intestinale di ammoniaca. L’acidosi metabolica accompagnata da ipercloremia costituisce un riscontro comune dopo l’anastomosi ureterocolica nel cane e nell’uomo ed è stata attribuita all’assorbimento di ioni idrogeno o ammonio in associazione con ioni cloro.

Uretra Le affezioni dell’uretra vanno trattate preferibilmente con la resezione e l’anastomosi dell’uretra stessa o la realizzazione di un’uretrostomia prossimale alla lesione. Come già ricordato, se si è avuta la perdita della funzione uretrale si deve anche prendere in considerazione il ricorso, temporaneo o permanente, alla cistostomia mediante sonda o diretta oppure alle tecniche di diversione dell’urina. Nel cane è stata descritta la sostituzione del tratto prossimale dell’uretra con un lembo vescicale ventrale, ma a questa procedura è stata associata la comparsa di incontinenza (transitoria a prolungata). L’uso di sostanze di sintesi per la sostituzione dell’uretra non ha avuto successo, principalmente a causa di problemi correlati al rigetto dell’impianto ed alla perdita di continenza dovuta all’assenza dello sfintere uretrale. Anche se l’uretra può essere rimpiazzata con un segmento isolato di intestino, è difficile mantenere la continenza e consentire la minzione normale. Nei cani maschi, si può prendere in considerazione l’anastomosi extrapelvica del condotto. Tuttavia, se si dispone di un tratto di uretra prossimale di lunghezza adeguata, l’uretrostomia prepubica resta l’opzione più ragionevole nei cani e nei gatti (sia maschi che femmine).

Indirizzo per la corrispondenza: Dale E. Bjorling, DVM, MS, Professor and Chair Department of Surgical Sciences, School of Veterinary Medicine University of Wisconsin-Madison, USA


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Ostruzione delle vie urinarie Dale E. Bjorling DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA

Valutazione iniziale

Alleviare l’ostruzione

Nella maggior parte dei casi, nella clinica dei piccoli animali l’ostruzione uretrale è dovuta ai calcoli nel cane o ad una combinazione di cristalli di struvite e muco nel gatto (una condizione comunemente indicata col termine di sindrome urologica felina o FUS). Il problema si può anche verificare come conseguenza di una neoplasia o dello spostamento della vescica attraverso un’ernia perineale o altri difetti della parete addominale caudale. Il carcinoma delle cellule di transizione che si sviluppa a partire dalla vescica o dall’uretra è il più comune disordine neoplastico capace di causare un’ostruzione delle vie urinarie. Le lesioni dell’uretra possono esitare nello sviluppo di tessuto cicatriziale che porta all’obliterazione del condotto. In rari casi, all’ostruzione uretrale possono essere associate lesioni acute dell’uretra o dell’osso del pene. Le ostruzioni uretrali portano rapidamente a disturbi metabolici che esitano in malattia sistemica; la condizione è quindi un’emergenza assoluta. L’iperazotemia associata all’ostruzione uretrale può causare vomito e gli animali colpiti sono spesso disidratati. La ritenzione di ioni idrogeno determinata dal blocco delle vie di deflusso dell’urina e la perdita di fluidi dovuta al vomito conducono ad un’acidosi metabolica. Questa è spesso accompagnata da iperkalemia. Il trattamento deve essere volto ad alleviare l’ostruzione uretrale e trattare la deplezione volumetrica e l’acidosi metabolica. Negli animali con grave depressione e disidratazione, è necessario avviare la correzione dell’acidosi metabolica e della disidratazione prima ancora di trattare direttamente il problema primario. Può sembrare che la somministrazione di fluidi per via endovenosa sia controindicata nei soggetti con ostruzione uretrale, ma si presume che questa venga alleviata o che l’urina venga drenata dalla vescica mediante cistocentesi o cistostomia. Di conseguenza, si deve inserire un catetere endovenoso ed infondere una soluzione elettrolitica bilanciata. La fluidoterapia endovenosa va effettuata alla velocità iniziale di 90 ml kg/24 ore nel cane e 65 ml kg/24 ore nel gatto. La maggior parte degli animali con ostruzione uretrale è iperkalemica, ma risolvendo l’ostruzione uretrale ed attuando la fluidoterapia endovenosa si correggono gli squilibri elettrolitici, a condizione che la funzione cardiovascolare e quella renale siano normali. La diuresi postoperatoria è comune dopo la risoluzione dell’ostruzione delle vie urinarie e la somministrazione di fluidi deve andare di pari passo con la produzione di urina, oltre a rimpiazzare ogni eventuale deficit e soddisfare i fabbisogni di mantenimento.

L’inserimento di un catetere uretrale è il mezzo più diretto per alleviare l’ostruzione uretrale. Sfortunatamente, spesso si rivela estremamente difficile. La sedazione con ketamina da sola (1-5 mg/kg IV) o con un’associazione di ketamina (1-5 mg/kg IV) e diazepam (0,1-0,25 mg/kg IV) o xilazina (nel cane; 0,5-1,0 mg/kg IV) può facilitare la cateterizzazione. In alternativa, si possono somministrare propofolo o barbiturici per ottenere il grado desiderato di sedazione o un piano leggero di anestesia, oppure ci si può servire di una maschera facciale per somministrare un anestetico inalatorio ed ossigeno. Nei gatti maschi, si può riuscire a rimuovere un tappo mucoso dall’uretra peniena con il massaggio del pene. La cistocentesi decomprime la vescica e spesso allevia la pressione sull’ostruzione, consentendo il passaggio del catetere. In presenza di un’ostruzione uretrale, con la palpazione di solito si riesce ad identificare facilmente la vescica, che viene immobilizzata contro la parete corporea dopo aver effettuato la tosatura del pelo sul fianco o sulla parte ventrale della parete stessa. Attraverso quest’ultima si introduce un ago raccordato ad una siringa o ad un deflussore, spingendolo nella vescica secondo un’angolazione tale da far sì che man mano che l’organo viene decompresso la punta dell’ago resti comunque all’interno del suo lume. Nel cane, la vescica eventualmente dislocata attraverso un’ernia perineale spesso può essere riportata in cavità addominale, dopo aver praticato la cistocentesi, applicando simultaneamente una pressione esterna ed inserendo un dito nel retto per spingere il collo dell’organo in addome. Nel gatto, se non è possibile introdurre un catetere, di solito è preferibile eseguire molteplici interventi di cistocentesi piuttosto che ricorrere ad un’uretrostomia di emergenza. È stato ipotizzato che nei gatti maschi l’ostruzione uretrale dovuta alla cristalluria da struvite ed ai tappi di muco possa essere alleviata con l’impiego di uno speciale adattatore per gli apparecchi ad ultrasuoni normalmente utilizzati per l’ablazione del tartaro dentale. Questa operazione esita nell’applicazione di una notevole quantità di calore sulla superficie dell’uretra e va effettuata con molta cautela o non effettuata affatto. Si può anche introdurre un catetere da cistostomia per consentire la diuresi ed il ripristino di un normale stato metabolico prima di anestetizzare il gatto per sottoporlo ad intervento chirurgico.


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Uretrotomia nel cane maschio Nei cani maschi, i calcoli si arrestano spesso nell’uretra all’interno dell’osso del pene o in posizione immediatamente caudale ad esso. Mentre può essere difficile accedere chirurgicamente all’uretra all’interno dell’osso penieno, l’uretrotomia caudalmente allo stesso può essere effettuata con una sedazione minima e con l’infiltrazione della cute con un anestetico locale. Bisogna fare attenzione ad incidere l’uretra lungo la linea mediana, evitando i corpi cavernosi. La cateterizzazione può facilitare l’identificazione del condotto. Si deve introdurre un catetere dalla punta del pene fino in vescica per accertare la pervietà dell’intera uretra. La decisione di chiudere l’uretrotomia suturandola oppure lasciarla guarire per seconda intenzione viene lasciata alla discrezione del chirurgo, perché si ottiene una guarigione soddisfacente indipendentemente dal fatto che la breccia venga suturata oppure no. Tuttavia, in alcuni animali se l’uretrotomia viene lasciata aperta si ha un’emorragia persistente.

Cistostomia e cistostomia mediante sonda L’uretra può anche essere aggirata, realizzando una cistostomia o una cistostomia mediante sonda. Con una cistostomia si realizza un’apertura diretta fra la vescica e la superficie cutanea, che esita in un costante scolo di urina. Le potenziali complicazioni sono rappresentate da cistite batterica, infezione ascendente e ustioni da urina della cute a livello dell’apertura cistostomica. Per queste ragioni, generalmente si sconsiglia la realizzazione di una cistostomia permanente. Le cistostomie mediante sonda consistono nell’introduzione di un catetere attraverso la parete corporea e possono essere utilizzate per deviare il flusso di urina su base temporanea o per parecchie settimane o mesi negli animali affetti da malattie non suscettibili di un trattamento chirurgico diretto. Si pratica un’incisione dell’addome lungo il tratto caudale della linea mediana ventrale. Attraverso la parete corporea, a livello di un’incisione penetrante realizzata in posizione paramediana, si introduce un catetere di Foley o un catetere con la punta a fungo (Pezzar) di dimensioni appropriate (8-12 Fr). Nella parete della vescica si applica una sutura a borsa di tabacco in materiale monofilamento non assorbibile (polipropilene 3-0 o 4-0). Il catetere viene inserito nella vescica attraverso un’incisione penetrante praticata al centro della sutura a borsa di tabacco. Quest’ultima viene serrata ed annodata. Fra la superficie sierosa della vescica ed il peritoneo si applicano 4-6 suture in materiale assorbibile o non assorbibile, in modo tale da circondare la sonda da cistostomia. Prima di serrare queste suture si applica l’omento intorno al tubo in modo da ridurre al minimo il rischio di filtrazioni di urina. L’incisione addominale viene chiusa secondo la procedura di routine. Il catetere viene fissato alla superficie cutanea e raccordato ad un sistema di raccolta chiuso e sterile per ridurre al minimo il rischio di infezioni ascendenti. In alternativa, può essere tappato per poi svuotare la vescica con cadenza intermittente (3-4 volte al giorno). La ferita attraverso la quale il catetere fuoriesce dalla cute va trattata quotidianamente con una pomata antisettica. Il cate-

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tere viene sfilato quando non è più necessario. Se la cistostomia mediante sonda è stata lasciata in posizione per non più di due settimane, la parete vescicale di solito si chiude senza bisogno di intervenire chirurgicamente. Se invece il tubo è rimasto in posizione per parecchie settimane, è necessario effettuare la revisione chirurgica della parete stessa e la chiusura primaria della breccia in anestesia generale.

Uretrostomia nel cane maschio Come già ricordato, di solito è preferibile evitare di eseguire un intervento chirurgico prolungato (come un’uretrostomia) in un animale iperazotemico. Il danno permanente dell’uretra può essere trattato mediante realizzazione di un’uretrostomia. Nei cani maschi, l’intervento può essere effettuato in sede perineale, scrotale, prescrotale o prepubica. Di solito si preferisce la localizzazione scrotale, perché a questo livello l’uretra è situata superficialmente ed ha un diametro sufficiente a consentire la realizzazione di un’apertura soddisfacente, e si incontra un’emorragia di minima entità. L’esecuzione dell’uretrostomia in sede perineale nel cane maschio ha determinato un’elevata incidenza di ustioni da urina della parte posteriore degli arti. La localizzazione prescrotale non comporta alcun particolare vantaggio, fatta eccezione per la possibilità di conservare i testicoli. È necessario stare attenti ad evitare che questi ultimi facciano ernia attraverso l’incisione praticata per realizzare l’uretrostomia prescrotale. Le opzioni per l’uretrostomia nei gatti maschi sono limitate alla sede perineale ed a quella prepubica e solo quest’ultima può essere effettuata nelle gatte e nelle cagne. Un punto chiave per la realizzazione soddisfacente di un’uretrostomia in qualsiasi sede è l’inserimento delle suture fra la mucosa uretrale e la cute, che devono avere una tensione minima. Di solito, non si lascia alcun catetere uretrale in sede dopo l’intervento. I proprietari devono essere informati del fatto che gli animali mostrano comunemente delle emorragie dopo la minzione per i 10-14 giorni successivi all’operazione. Questo problema di solito diminuisce col tempo. Tuttavia, dopo la rimozione delle suture, per alcuni giorni si può osservare un’emorragia dopo la minzione. Il sanguinamento viene promosso dalla presenza dell’urochinasi, un attivatore del plasminogeno nell’urina. Inoltre, il movimento meccanico dell’urina attraverso la linea di sutura può determinare la dislocazione dei coaguli. L’emorragia è di solito autolimitante.

Uretrostomia nel gatto maschio Nel gatto maschio, l’uretrostomia può essere effettuata in sede perineale o prepubica, ma si preferisce la prima. Il gatto viene posto in decubito ventrale con il treno posteriore sollevato. Intorno all’ano si applica una sutura a borsa di tabacco, si pratica un’incisione ellittica intorno allo scroto ed al prepuzio e, nel caso dei gatti interi, si esegue la castrazione. Mediante dissezione con strumenti taglienti e per via smussa, si libera il pene dalle sue inserzioni all’interno del canale pelvico e si identificano i muscoli ischiocavernosi. È


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necessario individuare l’origine di questi ultimi a livello dell’ischio e poi reciderli in questo punto. Ciò riduce al minimo l’emorragia, che potrebbe essere profusa nel caso che l’incisione venisse praticata attraverso i muscoli stessi. Il pene è unito al pube da tessuto fibroso, che deve essere scontinuato. L’organo viene isolato mediante dissezione per via smussa e con strumenti taglienti; tuttavia, è necessario stare attenti a ridurre al minimo la dissezione nella parte dorsale, per preservare l’innervazione. Sulla faccia dorsale dell’organo, si identifica e si asporta il muscolo retrattore del pene (o i suoi residui nei gatti maschi castrati). La dissezione deve continuare in direzione craniale fino a che non si identificano le ghiandole bulbouretrali. Prima di incidere l’uretra, è necessario effettuare una dissezione sufficiente a consentire di portare queste ultime sino a livello dell’incisione cutanea senza che vengano retratte nel canale pelvico. Per facilitarne l’identificazione, si può introdurre nell’uretra un catetere. L’uretra viene incisa lungo la linea mediana dorsale, iniziando distalmente e procedendo verso le ghiandole bulbouretrali. All’estremità craniale dell’incisione uretrale, il diametro del condotto deve essere di circa 4-5 mm. La parete dell’uretra viene unita alla cute con una sutura a punti staccati in materiale monofilamento non assorbibile 4-0 o 5-0 iniziando dall’estremità craniale dell’incisione. Le suture devono essere poste alternativamente sul lato sinistro e sul destro per un tratto di circa 1-1,5 cm dall’estremità craniale dell’incisione uretrale. Il pene viene reciso in questa sede e la sua parte distale viene eliminata insieme allo scroto. Intorno al corpo dell’organo si può applicare una sutura da materassaio in materiale assorbibile 4-0 per controllare l’emorragia. La parte restante della ferita viene chiusa secondo le procedure di routine. Si toglie dall’ano la sutura a borsa di tabacco e si applica all’animale un collare di Elisabetta per evitare l’automutilazione. La complicazione più comune che si riscontra immediatamente dopo l’intervento è rappresentata dall’emorragia. Il controllo di quest’ultima può richiedere la sedazione o l’applicazione di una pressione diretta. A condizione che dopo l’intervento venga eliminato un flusso di urina soddisfacente, non si deve far alcun tentativo per rimuovere i coaguli di sangue che si formano a livello della sede dell’uretrostomia. Altre complicazioni che possono insorgere entro giorni o mesi dall’intervento sono rappresentate da infezioni, fuoriuscita di urina con conseguente necrosi tissutale, ernia perineale e formazione di stenosi con conseguente ostruzione uretrale. La formazione delle stenosi nella maggior parte dei casi è dovuta al fatto che la porzione intrapelvica del pene non è stata adeguatamente liberata dalle sue inserzioni fibrose, per cui si verifica un’eccessiva tensione delle suture applicate fra l’uretra e la cute. Secondo l’esperienza dell’autore, questa evenienza è spesso associata alla mancata liberazione dei muscoli ischiocavernosi dalla loro origine. La formazione di stenosi può anche dipendere da un’imprecisa apposizione della mucosa dell’uretra alla cute. Fortunatamente, di solito è possibile effettuare la revisione chirurgica di una stenosi di un’uretrostomia in posizione perineale. Qualora ciò fosse impossibile, si deve prendere in considerazione l’esecuzione di un’uretrostomia prebubica.

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Uretrostomia prepubica L’uretrostomia prepubica si effettua lungo la linea mediana ventrale nelle gatte e nelle cagne e in posizione paraprepuziale nei cani maschi. Per mantenere la continenza urinaria dopo l’intervento, è essenziale che l’innervazione del collo vescicale e del tratto prossimale del condotto vengano preservati e che si conservi la maggior quantità possibile di uretra normale. Il proprietario deve essere informato prima dell’intervento del rischio di incontinenza dopo l’operazione, benché questa non sia risultata una complicazione comune di questa procedura. Si preserva la maggior quantità possibile di uretra intrapelvica e l’uretra viene fatta passare attraverso la parete addominale in modo da non formare brusche curvature, evitando di piegarla in modo acuto, perché ciò potrebbe ostruirla. La breccia nella parete addominale cranialmente e caudalmente alla sede dell’uretrostomia viene chiusa e si pratica un’incisione longitudinale (0,5- 1,0 cm) sulla faccia ventrale dell’estremità distale dell’uretra. I margini dell’apertura uretrale vengono uniti alla cute con una sutura a punti staccati in materiale monofilamento non assorbibile 4-0, in modo da realizzare la sede dell’uretrostomia. Per il resto, la ferita cutanea viene chiusa secondo le procedure di routine.

Trattamento postoperatorio Il trattamento chirurgico della FUS o della litiasi nel cane e nel gatto prevede di affrontare la presenza dell’ostruzione o dei calcoli e può diminuire il potenziale rischio di ostruzione uretrale in un momento successivo, ma l’intervento chirurgico non tratta l’infezione né previene la formazione di calcoli in futuro. È quindi essenziale effettuare nel corso dell’intervento un prelievo accurato di materiale da destinare agli esami colturali e trattare gli animali con un antibiotico efficace e con un’appropriata modificazione della dieta. Il rigoroso rispetto della giusta dieta può praticamente eliminare la formazione dei calcoli in alcuni cani e quella dei tappi uretrali in alcuni gatti. Il proprietario deve essere informato della necessità di non offrire all’animale nulla di diverso dalla dieta prescritta. Sfortunatamente, al momento non è disponibile alcuna formulazione che risulti costantemente efficace per rimpicciolire o prevenire la formazione dei calcoli di ossalato di calcio. L’infezione del tratto urinario va trattata per un periodo minimo di due settimane con un antibiotico che si sia dimostrato efficace sulla base dei risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi; inoltre, per assicurarsi che l’infezione sia stata eliminata bisogna effettuare il prelievo di un campione di urina da destinare agli esami colturali dopo che la terapia antibiotica sia stata sospesa da almeno 7 giorni.

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Incontinenza urinaria e chirurgica Dale E. Bjorling DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA

Col termine di incontinenza urinaria si indica la ritenzione o emissione inappropriata di urina, anche se di solito l’espressione viene comunemente riferita ad un’emissione inappropriata di urina o all’incapacità di ritenerla. In condizioni normali la continenza urinaria viene mantenuta da una varietà di forze che agiscono sull’uretra, come il tono della muscolatura liscia e striata, la tensione elastica all’interno della parete uretrale, la pressione endoaddominale che agisce sulla superficie esterna del condotto e la lunghezza dello stesso. Questi fattori combinati costituiscono il meccanismo dello sfintere uretrale.1,2 Le fibre elastiche all’interno dell’uretra nella cagna sono orientate in direzione longitudinale ed è stato ipotizzato che il tessuto elastico non contribuisca in modo significativo alla continenza urinaria nelle femmine di questa specie animale. Nel cane, l’incontinenza urinaria conseguente all’abnorme funzione del meccanismo dello sfintere uretrale si ha più comunemente nelle femmine; tuttavia, l’incompetenza di questo meccanismo è stata segnalata anche nei maschi.3,4 Come causa di incontinenza urinaria è stata ipotizzata la riduzione della lunghezza dell’uretra,2 e questa condizione, così come la diminuzione della lunghezza della porzione di uretra attraverso la quale la pressione intrauretrale supera la pressione vescicale a riposo, è stata correlata all’incontinenza urinaria nelle cagne. Si ritiene che la dislocazione caudale del collo vescicale nel canale pelvico (“vescica pelvica”) accorci l’uretra e impedisca l’esposizione della parete uretrale alla pressione endoaddominale; la condizione è stata correlata all’incontinenza urinaria in cani di entrambi i sessi.3,5 Benché nel cane la vescica pelvica si possa osservare senza che sia presente anche l’incontinenza urinaria, si ritiene che, nei casi in cui le due condizioni sono concomitanti, a determinare l’insufficienza del meccanismo dello sfintere uretrale contribuisca in modo significativo la localizzazione intrapelvica del collo vescicale e del tratto prossimale dell’uretra.5

Trattamento medico dell’incontinenza urinaria L’infezione del tratto urinario può contribuire a determinare l’irritazione della vescica e perciò in tutti gli animali portati alla visita a causa di un’incontinenza urinaria si rende necessaria un’accurata valutazione per rilevare la presenza di questo problema. La vaginite cronica o la dermatite perivulvare (spesso associata a vulva introflessa) può contribuire ad un’infezione persistente del tratto urinario. Il processo infettivo va affrontato in modo aggressivo prima di iniziare il trattamento delle altre eventuali cause di incontinen-

za. L’incontinenza urinaria dovuta all’incompetenza del meccanismo dello sfintere nelle cagne ovariectomizzate spesso risponde alla terapia con estrogeni (DES 0,5-1,0 mg/die per 5-7 giorni, seguiti dalla stessa dose ogni 5-14 giorni), ed è stato ipotizzato che questi ormoni esercitino il loro utile effetto aumentando la contrattilità della muscolatura liscia e la sensibilità alla stimolazione alfa-adrenergica ed incrementando l’elasticità uretrale.2 Tuttavia, l’esatto meccanismo con cui gli estrogeni intervengono positivamente nel trattamento dell’incontinenza urinaria nelle cagne ovariectomizzate non è chiaro. Per trattare l’incontinenza urinaria associata all’incompetenza dello sfintere uretrale anche nelle cagne ovariectomizzate che non rispondono alla terapia con estrogeni, sono stati utilizzati efficacemente gli agonisti alfa-adrenergici come la fenilpropanolamina (1,53,0 mg/kg ogni 8 ore). Nei cani maschi, rispetto alle femmine, questa terapia risulta di gran lunga meno efficace per il trattamento dello stesso problema. In alcuni cani sono stati utilizzati gli anticolinergici come la ossibutinina (0,2 mg/kg ogni 8-12 ore) per sopprimere le contrazioni vescicali spastiche che possono contribuire all’incontinenza urinaria. La terapia medica dell’incontinenza urinaria non è priva di complicazioni e in seguito alla somministrazione di DES in alcuni cani sono stati segnalati casi di soppressione midollare fatale. La fenilpropanolamina può causare ipertensione, diarrea o iperattività/ipereccitabilità. I potenziali effetti collaterali indesiderabili della ossibutinina sono rappresentati da vomito, ileo, costipazione e ritenzione urinaria.

Trattamento chirurgico dell’incontinenza urinaria Il trattamento chirurgico dell’incontinenza urinaria nel cane e nel gatto è stato volto ad aumentare la resistenza al flusso di urina attraverso l’uretra con una varietà di tecniche, nessuna delle quali ha ottenuto un successo uniforme. L’iniezione periuretrale di collagene è stata impiegata per trattare efficacemente l’incontinenza urinaria nella donna, mentre nelle cagne colpite dalla medesima condizione si sono ottenuti risultati incoraggianti in seguito all’iniezione periuretrale di collagene o di politetrafluoroetilene (Teflon) in pasta. Tuttavia, questa tecnica non è stata valutata in modo estensivo in medicina veterinaria. Nelle cagne sono stati utilizzati a livello sperimentale degli sfinteri artificiali che possono essere sgonfiati per consentire la minzione e poi reinsufflati per mantenere la continenza, ma non sono pratici per l’impiego clinico. Analogamente, nella specie canina è stata descritta sperimentalmente, ma non valutata clinicamente, la realizza-


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zione di uno sfintere uretrale con un lembo di tessuto prelevato dal muscolo gracile o dal sartorio. Le tecniche chirurgiche che sembrano avere la massima applicazione clinica per il trattamento dell’incontinenza urinaria nel cane e nel gatto sono rappresentate da colposospensione, applicazione di imbracature o suture per aumentare la resistenza al flusso di urina nell’uretra e procedure di allungamento uretrale.

Colposospensione La colposospensione consiste nell’applicare delle suture fra la parte craniale della vagina ed il tendine prepubico, in modo da riportare il collo vescicale ed il tratto prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale, ed è stata effettuata per trattare nelle cagne l’incontinenza urinaria da incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale.6,7 Secondo quanto segnalato in letteratura, la colposospensione risulta risolutiva in oltre il 50% degli animali trattati, mentre nella maggior parte dei casi restanti si riscontra un significativo miglioramento clinico.7 Si presume che i benefici effetti di questa procedura siano dovuti all’esposizione del collo vescicale e del tratto prossimale dell’uretra alla pressione endoaddominale, nonché all’allungamento dell’uretra ed al fatto che questa viene portata in prossimità del pube. Tuttavia, il contributo relativo di ognuno di questi fattori non è chiaro.1 Esaminando gli effetti della colposospensione sul profilo della pressione uretrale immediatamente dopo l’intervento chirurgico, è stato rilevato che questa procedura aumenta significativamente la lunghezza del tratto funzionalmente attivo del profilo e la pressione massima di chiusura uretrale e diminuisce significativamente la percentuale di deviazioni pressorie al di sotto della pressione intravescicale a riposo. La colposospensione è parsa aumentare la lunghezza uretrale nella maggior parte delle cagne sottoposte all’intervento, ma questo risultato non è stato costantemente correlato all’esito funzionale.7 Prima di eseguire una colposospensione, si introduce in vescica un catetere uretrale. Si pratica una laparotomia lungo il tratto caudale della linea mediana e si identifica la giunzione fra uretra e vagina procedendo mediante dissezione per via smussa e con strumenti taglienti. Sulla faccia craniale della vescica si può applicare una sutura di ancoraggio, da utilizzare per esercitare una tensione utile a facilitare la dissezione. Le pareti laterali della vagina, adiacenti all’orifizio uretrale vengono identificate ed afferrate con pinze atraumatiche (Babcock). Se la parte craniale della vagina non può essere raggiunta attraverso l’approccio addominale, un assistente può introdurre una sonda smussa non sterile nel lume dell’organo ed effettuarne il lavaggio cranialmente, in modo da consentire al chirurgo di afferrarla. Fra la parte craniale della vagina ed il tendine prepubico, su ciascun lato della linea mediana ventrale, si applicano preventivamente due suture in materiale non assorbibile monofilamento 2-0. Quando queste suture vengono strette ed annodate, si deve muovere il catetere uretrale per assicurarsi che l’uretra non sia stata ostruita. L’addome viene chiuso secondo la procedura di routine. Nel periodo postoperatorio si può osservare un’ostruzione urinaria transitoria e può essere necessario inserire un ca-

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tetere uretrale per alleviarla.6 Qualora si dovesse verificare un’ostruzione uretrale parziale, di solito è possibile rimuovere il catetere e lasciare che l’animale urini spontaneamente entro 3-5 giorni dall’intervento. In rari casi, può essere necessario rimuovere i punti di sutura applicati fra vagina e tendine prepubico per trattare l’ostruzione uretrale persistente. Come già ricordato, secondo quanto riferito in letteratura, questa procedura, da sola o in associazione con la terapia medica, determina nella maggior parte dei cani un significativo miglioramento dell’incontinenza urinaria.7

Cistouretropessi Un altro intervento che è stato descritto per riportare il collo vescicale ed il tratto prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale ed al tempo stesso aumentare la resistenza al flusso di urina attraverso l’uretra è la cistouretropessi.8,9 Si esegue una laparotomia ventrale e si applicano preventivamente 4-10 suture orizzontali da materassaio in materiale non assorbibile 2-0 o 4-0 attraverso il piano sieromuscolare del tratto prossimale dell’uretra e del collo della vescica e la parete addominale (a tutto spessore), su ciascun lato dell’uretra. Con un catetere uretrale in posizione le suture vengono strette ed annodate, dopodiché si inserisce un catetere da cistostomia e si chiude la parete addominale. Nel periodo postoperatorio, i cateteri uretrali vengono lasciati in sede per almeno 24 ore e quelli da cistostomia possono essere utilizzati anche per mantenere la decompressione della vescica. In uno studio su 10 cani, la maggior parte dei soggetti trattati ha manifestato segni di disuria, ma tutti sono stati infine in grado di urinare spontaneamente. I risultati sono stati considerati eccellenti in due cani su 10 e buoni in 4 cani su 10.8 In un altro studio su 100 cagne trattate mediante uretropessi per incontinenza urinaria da incompetenza del meccanismo dello sfintere, 56 casi sono stati completamente risolti mediante intervento chirurgico, 27 sono diventati meno incontinenti e 17 non hanno risposto affatto (9 animali) o hanno mostrato un iniziale miglioramento della funzione urinaria, ma in seguito hanno presentato delle recidive (8 animali).9 Di questi 17 animali, 9 furono sottoposti ad un secondo intervento di uretropessi, che ha portato alla risoluzione del problema in 6 casi e ad un miglioramento negli altri 3. Complicazioni postoperatorie si sono osservate in 21 cani e sono state rappresentate da aumento della frequenza della minzione (in 14), disuria (in 6) ed anuria (in 3). Come per gli altri interventi finalizzati ad aumentare la tensione all’interno della parete dell’uretra, le complicazioni più comuni in entrambi questi studi sono state la disuria transitoria o persistente conseguente all’ostruzione uretrale ed il mancato miglioramento.

Imbracature uretrali In associazione con la colposospensione, per aumentare ulteriormente la resistenza al flusso attraverso l’uretra sono state realizzate delle imbracature utilizzando materiali sintetici10 o lembi ottenuti a partire dalla parete vescicale11. I risultati di queste procedure erano simili a quelli descritti in


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seguito all’esecuzione della sola colposospensione e non è chiaro se esista o meno un vantaggio nell’impiego della procedura combinata. Le tecniche di imbracatura sono finalizzate ad esercitare una forza compressiva sul tratto prossimale dell’uretra utilizzando materiale di sintesi o lembi vescicali per aumentare la resistenza al flusso di urina attraverso il condotto e sono state anche utilizzatecome unico metodo per il trattamento dell’incontinenza urinaria nel cane.

Allungamento uretrale L’allungamento uretrale è stato descritto per il trattamento dell’incontinenza urinaria conseguente ad incompetenza congenita del meccanismo dello sfintere uretrale nel gatto e nel cane.12 Come già illustrato, si pratica un’incisione laparotomica ventrale e la si estende nel tratto prossimale dell’uretra. Sulla faccia ventrale della parete vescicale ventrale si realizzano due lembi a forma di “V”. La punta di questa “V” corrisponde all’estensione caudale dell’incisione nell’uretra prossimale. L’incisione si allarga lateralmente su ciascun lato e la porzione ampia della “V” si trova approssimativamente a livello degli orifizi uretrali. Il difetto realizzato nella parete ventrale del collo vescicale e nel tratto prossimale dell’uretra viene chiuso in modo da diminuire il diametro del collo della vescica. I lembi vengono quindi suturati l’uno all’altro in modo da evitare una perdita della capacità vescicale. In 7 gatti su 8 trattati con questa tecnica sono stati segnalati risultati eccellenti o buoni, e sono stati descritti buoni risultati in un cane. L’allungamento uretrale mediante lembi di parete vescicale è stato descritto per il trattamento dell’incontinenza urinaria anche nell’uomo; questa tecnica può meritare di essere ulteriormente presa in considerazione per il trattamento della condizione nel cane e nel gatto.

Trattamento chirurgico dell’incontinenza urinaria nel cane maschio Per il trattamento dell’incontinenza urinaria da meccanismo dello sfintere uretrale nei cani maschi è stata descritta

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una modificazione dell’intervento di colposospensione utilizzato nelle cagne.4 Questa procedura prevede l’impiego dei dotti deferenti per fissare il collo vescicale e la parte prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale. I cani interi vengono castrati ed i singoli dotti deferenti vengono fatti passare per via smussa attraverso delle incisioni penetranti praticate nella cute della parete addominale ventrale, su ciascun lato della linea mediana. L’estremità del dotto deferente viene afferrata con un paio di pinze e tirata attraverso la parete corporea. La localizzazione del punto di passaggio dei dotti attraverso la parete viene scelta in modo da esercitare una trazione sulla prostata in grado di riportare il collo vescicale e la parte prossimale dell’uretra in una posizione endoaddominale. In 6 cani maschi trattati su 7 sono stati segnalati risultati eccellenti o buoni ed il miglioramento è stato attribuito al fatto di riportare il collo vescicale ed il tratto prossimale dell’uretra in posizione endoaddominale.4 Questa tecnica può essere presa in considerazione per il trattamento chirurgico dei cani maschi con incontinenza urinaria da incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale.

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Indirizzo per la corrispondenza: Dale E. Bjorling, DVM, MS Professor and Chair Department of Surgical Sciences School of Veterinary Medicine University of Wisconsin-Madison, USA


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Trattamento delle rotture delle vie urinarie Dale E. Bjorling DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA

Valutazione iniziale Nella maggior parte degli animali che sono stati investiti da un veicolo si verifica un certo grado di traumatismo dell’addome, anche solo rappresentato dalla comparsa di ecchimosi. Le lesioni del tratto urinario possono esitare in manifestazioni aspecifiche e durante le prime fasi della valutazione del paziente bisogna sempre prendere in considerazione la possibilità che si sia verificato un trauma a carico di questo apparato, per essere certi di evitare ritardi nella diagnosi e nell’attivazione di un trattamento efficace. Possono essere molto utili le informazioni anamnestiche fornite dal proprietario; tuttavia, il fatto che questi abbia osservato l’animale urinare dopo l’incidente, non esclude del tutto la possibilità che la vescica o l’uretra siano lacerate.1 La superficie corporea va esaminata accuratamente per rilevare segni di ecchimosi e ferite e può essere necessario eliminare gran parte del pelo che ricopre l’addome. Le fratture delle costole, del bacino o degli arti posteriori sono fortemente indicative del fatto che l’addome ha subito un urto imponente.2 Il tragitto delle ferite penetranti, come si può ipotizzare sulla base del loro aspetto esterno, può suggerire un trauma a carico delle vie urinarie o di altri visceri addominali. Se possibile, prima di iniziare la terapia si deve effettuare il prelievo di campioni di sangue. Una fluidoterapia aggressiva può alterare i livelli ematici di urea, creatinina ed elettroliti.

Radiografia L’esame radiografico è probabilmente il più utile metodo non invasivo per la valutazione del tratto urinario nei cani e nei gatti che hanno subito un trauma. L’urografia con mezzo di contrasto positivo (urografia escretoria ed uretrocistografia) risulta utile per determinare le dimensioni, la localizzazione e l’integrità delle strutture dell’apparato. L’urografia con mezzo di contrasto negativo è di scarsa utilità nella valutazione delle lesioni traumatiche delle vie urinarie, perché fornisce poche informazioni sulla localizzazione delle lesioni. L’introduzione di aria all’interno della vescica degli animali traumatizzati è stata causa di embolie fatali, presumibilmente dovute alla captazione dell’aria da parte di vene lacerate presenti all’interno della parete della vescica distesa. Se si esegue una cistografia con mezzo di contrasto negativo, è necessario utilizzare biossido di carbonio o azoto compresso. L’urografia escretoria (pielografia endovenosa) non va effettuata negli animali sotto shock o disidratati. In questi soggetti la gittata cardiaca e la perfusione renale sono spesso diminuite e si può ottenere un’immagine scadente. Inol-

tre, l’iniezione endovenosa del mezzo di contrasto ha determinato aritmie o arresti cardiaci nei pazienti disidratati e debilitati. L’urografia escretoria fornisce una stima grossolana della funzione renale, ma non deve essere considerata un test definitivo per la valutazione della stessa. Per esaminare in modo accurato la funzione renale, è necessario eseguire specifici test di funzionalità (clearance dell’inulina o della creatinina). Le radiografie vanno riprese entro 20 secondi dall’iniezione del mezzo di contrasto per evidenziare la vascolarizzazione renale.

Paracentesi addominale e lavaggio peritoneale diagnostico Se l’esame clinico o radiografico dell’addome evidenzia la presenza di liquido all’interno della cavità, è necessario effettuare il prelievo di un campione per analisi mediante paracentesi addominale o lavaggio peritoneale diagnostico. La prima può essere eseguita servendosi di un ago ipodermico, un catetere endovenoso o uno da dialisi peritoneale. Se si utilizza un ago ipodermico, si raccomanda di ricorrere alla tecnica di puntura nei quattro quadranti, per aumentare le possibilità di riuscire a prelevare il fluido. La parete addominale ventrale viene suddivisa in quattro quadranti bisecando la linea alba con una linea passante attraverso l’ombelico. Si tosa il pelo al centro di ciascun quadrante e si prepara asetticamente la cute. Si inserisce un ago da 20 o 22 G e si esercita una pressione negativa con una siringa. Se si ottiene un campione di fluido, la procedura viene interrotta ed il liquido inviato all’analisi. Se non si riesce a prelevare un campione utilizzando un ago ipodermico, bisogna prendere in considerazione il ricorso ad un catetere endovenoso ad ago interno fenestrato o ad uno da lavaggio peritoneale. Se si utilizza il catetere endovenoso fenestrato, bisogna stare attenti che le aperture presenti nella sua parete non lo indeboliscano fino al punto da far sì che ne rimanga una porzione all’interno della cavità addominale. I cateteri da dialisi peritoneale del tipo disponibile in commercio vanno inseriti lungo la linea mediana secondo le modalità descritte in seguito. Questi cateteri presentano molteplici aperture nelle pareti, diminuendo così la probabilità che vengano ostruiti dall’omento o da altri organi endoaddominali. Se non si riesce ad ottenere un campione di liquido addominale mediante paracentesi, bisogna effettuare un lavaggio peritoneale diagnostico. Si elimina il pelo dalla linea mediana ventrale dell’addome, 1-2 cm caudalmente all’ombelico, e si prepara asetticamente la cute. Il punto previsto per l’inserimento del catetere, compresa la parete cor-


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porea, viene infiltrato di lidocaina. Per introdurre un catetere da dialisi si possono utilizzare due tecniche. È possibile praticare attraverso la cute e la parete addominale un’incisione con la punta di un bisturi ed inserire il catetere nella cavità peritoneale. In alternativa, si realizza un approccio chirurgico limitato alla cavità addominale e si incide direttamente il peritoneo. Il catetere da dialisi viene inserito attraverso l’apertura realizzata nella parete addominale procedendo in direzione caudodorsale. Se si riesce ad ottenere del fluido, il tubo viene sfilato e la ferita cutanea viene chiusa. In caso contrario, si può instillare in addome una soluzione salina bilanciata riscaldata (Ringer lattato o soluzione fisiologica normale) ad un volume pari a 20 ml/kg di peso corporeo. L’animale viene fatto delicatamente rotolare da un lato all’altro per assicurare la dispersione del liquido di lavaggio. Quindi, si ottiene un campione di fluido mediante drenaggio per gravità ed il catetere viene sfilato. Negli animali con lesioni traumatiche dell’addome è possibile lasciare la sonda in posizione per consentire il monitoraggio sequenziale del fluido endoaddominale o per drenarlo dall’addome. È necessario determinare le caratteristiche citologiche e le concentrazioni enzimatiche del fluido ottenuto mediante paracentesi addominale o lavaggio peritoneale diagnostico. Le concentrazioni di urea e creatinina nel liquido possono essere paragonate a quelle del sangue periferico per determinare la presenza di urina libera in addome.1,3 L’urea è una molecola di piccole dimensioni che raggiunge rapidamente (entro pochi giorni) l’equilibrio attraverso il peritoneo, per cui negli animali con distruzione del tratto urinario di vecchia data la sua concentrazione nel sangue periferico può essere equivalente a quella del fluido addominale. La creatinina è una molecola molto più grande, che tende a rimanere in cavità addominale ed è quindi un indicatore più sensibile della presenza di urina libera nella cavità stessa. Tuttavia, nei casi acuti di trauma delle vie urinarie, la concentrazione dell’urea di solito non ha raggiunto l’equilibrio attraverso il peritoneo ed il confronto fra i suoi livelli nel fluido addominale e nel sangue periferico mediante test rapidi consente di determinare in modo accurato la presenza di urina in addome. Attraverso la determinazione dei valori dell’ematocrito e della concentrazione di solidi totali nel fluido è possibile valutare l’esistenza di un’emorragia endoaddominale ed il numero e l’aspetto citologico degli elementi nucleati possono riflettere la presenza di un’intensa infiammazione. Il riscontro di materia organica, batteri o bilirubina indica la distruzione del tratto gastroenterico o biliare.

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Trattamento La presenza di urina libera all’interno della cavità addominale non indica necessariamente la necessità di un’immediata laparotomia esplorativa. Prima di indurre l’anestesia necessaria ad eseguire questo tipo di indagine, bisogna stabilizzare le condizioni dell’animale. La presenza di urina sterile nella cavità addominale per 2-3 giorni non comporta dei rischi, a condizione che all’animale venga inserito un catetere uretrale e che nella cavità addominale sia introdotto un catetere da dialisi per consentire il drenaggio dell’urina presente al suo interno.1 Con un drenaggio addominale appropriato, è possibile indurre la diuresi negli animali con rottura della vescica per correggere le anomalie elettrolitiche prima dell’anestesia. Se possibile, l’esplorazione chirurgica e la riparazione delle lesioni delle vie urinarie vanno rinviate fino a che l’animale non sia tornato ad uno stato metabolico relativamente normale. Non si deve eseguire la nefrectomia a meno che un’urografia discendente non abbia indicato la normale funzionalità del rene superstite. Poiché l’anastomosi ureterale è associata ad un’incidenza relativamente elevata di formazioni di stenosi, invece di questo intervento, se possibile, si deve eseguire il reimpianto dell’uretere in vescica. Le lacerazioni vescicali vanno sottoposte a revisione chirurgica e chiuse secondo le modalità standard. Bisogna preservare il trigono e la capacità vescicale aumenta col tempo dopo una cistectomia parziale. Le lacerazioni incomplete della vescica guariscono se il flusso di urina viene deviato attraverso un catetere uretrale, ma quest’ultimo va mantenuto in sede per 2-3 settimane. Se si effettua la resezione/anastomosi dell’uretra, bisogna stare attenti a limitare la tensione attraverso la linea di sutura, perché promuove la formazione di stenosi.

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Complicazioni della castrazione nel maschio e nella femmina Dale E. Bjorling DVM, MS, Dipl ACVS, Madison, Wisconsin, USA

L’ovaristerectomia (OHE) e la castrazione del cane e del gatto sono gli interventi chirurgici effettuati con maggiore frequenza dai veterinari per piccoli animali. Nella mente della maggior parte dei clinici e dei loro clienti sono considerati “di routine”. Di conseguenza, sia i clienti che i veterinari hanno nei confronti di queste procedure delle aspettative ben precise. I clienti desiderano che vengano effettuate ad un costo limitato, con complicazioni minime ed in un momento che risulti comodo per loro. Dal punto di vista dei veterinari, queste procedure devono essere attuate rapidamente, con un impiego minimo di attrezzature e complicazioni relativamente scarse. È utile ricordare che l’ovaristerectomia comporta la penetrazione in una cavità corporea, la legatura di vasi importanti e la rimozione di organi e che la castrazione prevede la legatura di vasi e l’asportazione di tessuti. L’apparato riproduttore della femmina è localizzato molto vicino a quello urinario e ciò contribuisce ad aumentare il rischio di danno iatrogeno involontario dei visceri addominali durante l’ovaristerectomia. Diversi fattori possono contribuire all’insorgenza di complicazioni durante o dopo l’ovaristerectomia e la castrazione. Queste procedure vengono spesso programmate fra le visite su appuntamento o subito prima e chi le effettua può sentirsi spinto a portarle a termine rapidamente per evitare di costringere gli altri clienti ad aspettare. Proprio a causa di questo desiderio di concludere in breve tempo l’intervento, è possibile che venga praticata un’incisione che non consenta l’esteriorizzazione delle ovaie o della biforcazione dell’utero. Ciò può rendere difficile applicare saldamente le legature e rimuovere completamente le ovaie e le corna uterine. L’impiego di una sutura semplice continua per chiudere la parete addominale consente di praticare un’incisione più lunga e di chiuderla senza un eccessivo prolungamento del tempo necessario. Anche la scelta e la manipolazione del materiale da sutura possono contribuire alle complicazioni. Il catgut confezionato in grandi rocchetti può essere utilizzato con risultati soddisfacenti, ma va manipolato con cura. Stringerlo troppo o torcerlo può determinare abrasioni o indebolimenti. Rispetto al catgut commercializzato in confezioni singole, nei rocchetti la robustezza del materiale da sutura presenta variazioni più significative lungo il filo ed inoltre è necessario scartare tutte le giunzioni fra i diversi tratti. Le variazioni anatomiche fra i singoli animali o il riferimento anamnestico ad un precedente intervento chirurgico addominale possono complicare l’esecuzione dell’ovaristerectomia, in particolare se in addome è stata praticata un’incisione di piccole dimensioni.

Emorragia associata all’ovaristerectomia Nella maggior parte dei casi, l’emorragia associata all’ovaristerectomia è la conseguenza di una dislocazione delle legature. Eseguire l’intervento in un animale in estro può esitare in un aumento dei gemizi dovuto ad una diminuzione dell’adesione piastrinica, ma, in sé e per sé, non dovrebbe esitare in un’emorragia fatale. L’intervento può richiedere più tempo ed essere più complesso da eseguire perché il gemizio può oscurare il campo operatorio, ma se le legature vengono applicate in modo appropriato, non si ha una significativa emorragia. Il flusso ematico è più rapido attraverso l’utero che nei vasi ovarici, ma in entrambi i casi un’emorragia non arrestata non dovrebbe portare all’insorgenza di segni di shock ipovolemico in meno di 2-4 ore. Spesso è difficile determinare dopo l’intervento se si stia verificando o meno un’emorragia significativa. La paracentesi addominale può evidenziare la presenza di sangue nonostante il fatto che si sia verificata un’emorragia di minima entità. Anche il riscontro di distensione addominale, aumento della frequenza cardiaca, diminuzione della perfusione periferica e concomitante calo dell’ematocrito e della concentrazione delle proteine plasmatiche suggeriscono un’emorragia significativa. Il colore delle mucose riflette la perfusione periferica, che può essere influenzata dalla pressione sanguigna, dalla resistenza vascolare periferica e dall’ematocrito. Il dolore provoca una vasocostrizione periferica che esita in pallore delle mucose. Il tempo di riempimento capillare dovrebbe riflettere la pressione di perfusione; tuttavia, in animali morti da poco si può osservare un tempo di riempimento capillare normale (1-2 secondi). Queste osservazioni (colore delle mucose e tempo di riempimento capillare) devono essere valutate alla luce di altri riscontri (frequenza cardiaca, ematocrito, ecc…). Per valutare la presenza o meno di un’emorragia endoaddominale è necessario effettuare la misurazione e registrazione dei valori dell’ematocrito (HT) e della concentrazione delle proteine plasmatiche (PPC) in una serie di campioni di sangue prelevati in sequenza. Non è raro che l’ematocrito mostri un declino dopo un intervento chirurgico a causa della somministrazione o ridistribuzione dei fluidi, ma, se è in atto un’emorragia, entrambi i parametri citati diminuiscono costantemente nell’arco di 1-4 ore. Quando l’emorragia si arresta, non è raro che l’ematocrito possa continuare a diminuire per 1-2 ore, ma le concentrazioni di proteine plasmatiche si stabilizzano. Se si sospetta un’emorra-


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gia dopo un’ovaristerectomia, è necessario monitorare diversi parametri e valutare i risultati ottenuti per decidere se ricorrere o meno all’esplorazione dell’addome. Occasionalmente, un vaso all’interno della parete uterina si sfila dalla legatura e dalla vulva si osserva una significativa emorragia. Non è raro uno scolo di fluido emorragico di minore entità che persiste per 5-7 giorni dopo l’ovaristerectomia; tuttavia, se attraverso la vagina si osserva la perdita di grandi quantità di sangue, bisogna eseguire una laparotomia per consentire l’applicazione di legature al tratto prossimale del moncone uterino. Se è necessario esplorare l’addome per valutare l’emorragia durante o dopo l’ovaristerectomia, l’incisione va prolungata in modo da offrire un adeguato accesso all’addome e consentire l’osservazione diretta dei peduncoli ovarici e del moncone uterino. È possibile afferrare il duodeno sulla destra e scostarlo verso il lato sinistro dell’addome in modo da esporre il peduncolo ovarico destro e si può usare il colon discendente per lo stesso scopo a sinistra. Può essere necessario ribaltare ventralmente la vescica per esporre il moncone uterino. Bisogna stare attenti quando si applicano le pinze sui vasi ovarici o uterini, per evitare di afferrare inavvertitamente gli ureteri. Se si è verificata una grave emorragia, è possibile prelevare il sangue dall’addome, miscelarlo con un anticoagulante ed infonderlo nuovamente nell’animale utilizzando un set da trasfusione che comprenda un filtro (autotrasfusione). In alternativa, può essere necessario ricorrere al sangue di un animale donatore.

Persistenza dell’estro dopo l’ovaristerectomia Nella maggior parte dei casi, il permanere dell’estro dopo l’ovaristerectomia viene attribuito alla ritenzione di una porzione di ovaia. Altre condizioni che possono far sì che le cagne attraggano i maschi sono la cistite batterica e la vaginite. Prima di eseguire una laparotomia è quindi necessario escludere l’esistenza di questi disordini. A meno che durante l’intervento non venga aperta la borsa ovarica, di solito l’ovaio non viene ispezionato direttamente. Nel corso di una laparotomia esplorativa eseguita per verificare l’eventuale ritenzione di tessuto ovarico, questo può essere difficile da identificare. Il grasso che circonda le formazioni cicatriziali del peduncolo ovarico caudalmente ai reni deve essere asportato in blocco ed inviato alla valutazione istologica facendo attenzione ad identificare ed evitare gli ureteri.

Piometra del moncone uterino L’infezione del residuo uterino (“piometra del moncone”) esita nella comparsa di segni clinici simili a quelli della piometra che si osserva negli animali interi. È estremamente raro che questo disordine si verifichi in assenza di tessuto ovarico ritenuto. Può darsi che la possibilità che la piometra del residuo uterino possa essere la causa dei segni clinici dell’animale non venga presa in considerazione perché si parte dal presupposto che ciò non si verifica negli anima-

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li ovariectomizzati. La presenza di questo disordine viene suggerita dall’osservazione di una massa fra la vescica o l’uretra ed il colon nelle immagini radiografiche o ecografiche. Il trattamento consiste nell’escissione del moncone uterino fino alla cervice (possibilmente comprendendola nella massa asportata) e del tessuto ovarico ritenuto.

Reazioni alla sutura dopo ovaristerectomia Occasionalmente, il materiale da sutura utilizzato per la legatura dei peduncoli ovarici va incontro a rigetto. Ciò si verifica nella maggior parte dei casi quando si utilizzano materiali multifilamento non assorbibili o certi tipi di mezzi autostatici non destinati a questo impiego. Ciò esita nello sviluppo di un tragitto fistoloso non tendente alla guarigione in posizione immediatamente caudale all’ultima costola ed il tessuto di granulazione associato alla lesione può arrivare a coinvolgere il rene e l’uretere ipsilaterali. Il trattamento consiste nell’esplorazione dell’addome con rimozione del materiale e del tessuto di granulazione associato e nell’escissione in blocco del tragitto fistoloso.

Trauma ureterale associato all’ovaristerectomia Il danneggiamento degli ureteri durante l’ovaristerectomia si verifica più comunemente nelle gatte che nelle cagne. Nelle gatte gli ureteri sono situati molto vicino al legamento largo, se non al suo interno. Il trauma subito da queste strutture nella maggior parte dei casi è dovuto al fatto che vengono inavvertitamente comprese nel tessuto afferrato in prossimità del corpo uterino. Se gli ureteri vengono semplicemente legati e l’evento viene rilevato subito dopo che si è verificato, è possibile riposizionare le legature. Se l’ostruzione ha determinato un idrouretere/idronefrosi, può essere necessario rimuovere il rene e l’uretere. Se quest’ultimo viene reciso, va reimpiantato in vescica.

Complicazioni delle ferite dopo ovaristerectomia La più comune complicazione delle ferite dopo ovaristerectomia è la comparsa di un sieroma. I fattori che contribuiscono alla sua formazione sono rappresentati da trauma tissutale (compresa un’eccessiva dissezione sottocutanea), attività dell’animale e applicazione di molteplici suture sottocutanee nella gatta. I sieromi di solito si risolvono senza ulteriore trattamento. La deiscenza della ferita addominale può essere la conseguenza del fatto che le suture non sono state applicate saldamente nella fascia esterna del muscolo retto dell’addome, i nodi sono stati stretti male o il materiale da sutura è stato danneggiato. Se la parete addominale viene chiusa con una sutura continua semplice, si deve utilizzare un materiale assorbibile di sintesi di dimensioni appropriate (gatte e cagne < 7 kg: 3-0; 7-17 kg : 2-0; > 17 kg : 0).


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Anche se è stato ipotizzato che agli animali sottoposti ad ovaristerectomia si debbano somministrare di routine degli antibiotici, questa pratica va scoraggiata data la bassa incidenza di infezioni ed il rischio di selezione di batteri antibioticoresistenti.

Emorragia dopo castrazione Se le legature vengono dislocate dai vasi spermatici dopo la castrazione, si può avere un’emorragia all’interno dei tessuti sottocutanei situati cranialmente allo scroto o in addome. Un’emorragia non controllata dai vasi spermatici può essere fatale. La valutazione dell’emorragia endoaddominale si effettua secondo le modalità descritte per l’ovaristerectomia. Se si verifica un’emorragia dopo castrazione, può essere necessario identificare e legare i vasi spermatici mediante laparotomia esplorativa.

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Ernia o infezione dopo castrazione L’ernia dei visceri addominali attraverso gli anelli inguinali dopo la castrazione è un’evenienza rara nel cane e nel gatto. Nel cane la condizione viene diagnosticata identificando con la palpazione una massa dura ed eventualmente riducibile nello spazio sottocutaneo situato cranialmente e lateralmente allo scroto. Le infezioni scrotali di minore entità conseguenti alla castrazione possono essere trattate con l’apertura della ferita per consentirne il drenaggio. Le infezioni più estese possono imporre l’escissione del tessuto colpito mediante ablazione scrotale. Indirizzo per la corrispondenza: Dale E. Bjorling, DVM, MS, Professor and Chair Department of Surgical Sciences, School of Veterinary Medicine University of Wisconsin-Madison, USA


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La gestione delle patologie gastrointestinali nel gatto Andrea Boari Med Vet, Teramo

Carla Civitella, Med Vet, Teramo

Le malattie del tratto gastrointestinale (GI) del gatto rappresentano uno dei più frequenti motivi di visita nella pratica clinica veterinaria. Nel gatto i segni clinici osservabili nei disordini dell’apparato gastroenterico sono assolutamente aspecifici e comuni a numerose patologie extraintestinali. Pertanto nell’approccio diagnostico, bisogna affidarsi ad una dettagliata raccolta anamnestica, ad un accurato esame clinico e ad indagini collaterali adeguate. In merito alle forme croniche, queste appaiono quelle più problematiche sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico. L’approccio ai disordini acuti si basa innanzitutto sul riconoscimento delle forme autolimitanti (24-36h) da quelle potenzialmente fatali (parvovirus, ostruzioni intestinali, alcune forme batteriche). Segni clinici quali depressione, anoressia, debolezza, disidratazione, febbre e melena possono indirizzare verso la presenza di una forma grave che necessita di un approfondimento diagnostico e di un’idonea terapia intensiva. Più frequentemente siamo di fronte a forme autolimitanti che migliorano indipendentemente dal trattamento essenzialmente basato su una terapia sintomatica che prevede fluidi rivolti alla correzione delle alterazioni idroelettrolitiche, acido-basiche e al riposo del tratto GI. È consigliato un digiuno di 12-48h con susseguente passaggio a piccoli quantitativi di acqua e quindi la somministrazione di piccoli pasti 6-8 volte al giorno incrementando la quota di alimento fino ad arrivare a far ricoprire, nell’arco di 3-4 giorni, i fabbisogni energetici giornalieri distribuiti in 2-3 pasti/die. L’alimento deve essere altamente digeribile, ipoallergenico, senza glutine, a basso tenore di grasso e lattosio, contenente proteine ad alto valore biologico, bilanciato in vitamine liposolubili, minerali (potassio) e acidi grassi polinsaturi. L’uso di antibiotici non è indicato se non in caso di grave danno mucosale che può predisporre allo sviluppo di batteriemia, setticemia o endotossiemia come si può verificare nelle forme enteriche emorragiche. Fra gli antibiotici e chemioterapici consigliati ricordiamo: trimethoprim-sulfonamide, l’associazione aminoglicosidici e β-lattamici quali ampicillina sodica o cefalotina sodica con gentamicina solfato e le cefalosporine di terza generazione. In caso di grave alterazione acuta della permeabilità intestinale è opportuno alimentare il gatto con la cosiddetta dieta “sacrificale” che prevede l’introduzione di una nuova proteina per 3-6 settimane, per poi tornare gradualmente alla dieta originaria. La nuova proteina non dovrebbe più far parte della dieta di quel soggetto per evitare possibili manifestazioni di ipersensibilità alimentare. La terapia farmacologica prevede anche l’uso di gastroprotettori (sucralfato), inibitori delle secrezioni acide quali farmaci H2-antagonisti (cimetidina, ranitidina, famotidina), inibitori della pompa protonica (omeprazolo/lanzoprazolo), farmaci antiemetici e regolatori della motilità GI (clorpromazina e metoclopramide). Nelle malattie croniche intestinali è fondamentale un pia-

no diagnostico accurato per identificare la sede del problema (grosso o piccolo intestino), la presenza di una enteropatia proteino disperdente (meno frequente nel gatto rispetto al cane), di una malattia malassorbitiva e se quest’ultima consegue a maldigestione la cui causa è l’insufficienza pancreatica esocrina (IPE) o a malassorbimento conseguente a problemi dietetici, batterici, parassitari, a malattie infiltrative infiammatorie (IBD) o neoplastiche (linfoma). La causa più comune di manifestazioni gastroenterologiche croniche è l’IBD che rappresenta un’infiltrazione idiopatica della parete gastrointestinale da parte di cellule infiammatorie o immunocompetenti. Tali lesioni derivano probabilmente da una risposta immunitaria appropriata ad uno stimolo abnorme o ad una risposta prolungata e anomala ad uno stimolo “normale”. La diagnosi di IBD origina dall’esclusione delle malattie infiammatorie GI ad eziologia nota (dieta, batteri, parassiti, funghi, neoplasie) e solo dopo aver eseguito un esame istologico. La terapia è mirata essenzialmente all’eliminazione di cause primarie che promuovono l’infiammazione quali allergeni dietetici e batterici. Per tale motivo la gestione include principalmente l’uso di una dieta controllata e secondariamente l’utilizzo di farmaci antinfiammatori, immunosoppressivi e antibiotici. La dieta deve essere iperdigeribile e a basso residuo, eventualmente integrata con acidi grassi polinsaturi opportunamente bilanciati. La fonte proteica ad elevata digeribilità deve essere nuova ed ipoallergenica. Lo scopo principale della terapia è quello di portare ad una riduzione dello stimolo antigenico. In tal senso, sono in commercio numerose diete opportunamente preparate e indicate per le malattie del tratto GI e alcune contengono idrolizzati proteici con peso molecolare inferiore a 3000 dalton considerati non allergenici, che vengono indicati nelle forme gravi di IBD (z/d Hill’s). Vista la riportata frequenza di carenze vitaminiche (soprattutto di folati e di cobalamina) nei gatti con IBD è consigliabile effettuare un’opportuna integrazione della dieta con queste vitamine per via parenterale ed anche di notevole ausilio appaiono aminoacidi, quali l’arginina, e la carnitina. Tali misure portano ad un significativo miglioramento della risposta alla terapia farmacologica. Per quanto riguarda quest’ultima, il farmaco d’elezione è il prednisone (5 mg/gatto bid os; 2-3 mg/kg/die bid os solo nei casi gravi di IBD ed in caso di enterite eosinofilica). Tale corticosteroide viene metabolizzato a prednisolone a livello epatico e i suoi principali effetti sono di tipo antinfiammatorio e immunosoppressivo. Nei casi refrattari alla terapia dietetica e corticosteroidea si può associare il clorambucile (0,25-0,33 mg/kg q72h os). Altri farmaci quali azatioprina e ciclofosfamide per i gravi effetti collaterali sono da sconsigliarsi nel gatto. L’antibiotico di prima scelta è il metronidazolo (10-25 mg/kg q12-24h os) o, nei casi re-


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frattari di IBD, la tilosina (20-40 mg/kg bid os). In presenza di un’IBD ad esclusiva localizzazione del grosso intestino la terapia corticosteroidea è controindicata, mentre l’integrazione di fibra appare al momento controversa. Tuttavia, l’aggiunta di modeste quantità di fibra alimentare solubile o insolubile allo scopo di aumentare la massa delle feci ed allo stesso tempo garantire un apporto di butirrato quale fonte energetica per i colonociti appare utile nel trattamento dei soggetti colpiti da tale patologia. In commercio esistono diverse diete ad elevato contenuto di fibra. Dal momento che non è possibile prevedere gli effetti delle diverse diete (fibra vs ipoallergenica) nei confronti delle colonopatie croniche del gatto, si consiglia l’adozione di accurati e adeguati trial dietetici. L’uso di farmaci contenenti 5aminosalicilato è raramente consigliato nel trattamento dell’IBD del colon nel gatto, data la sua ben nota sensibilità ai salicilati. Pertanto l’uso della sulfasalazina nel gatto è consigliata esclusivamente nei soggetti che non rispondono alle altre terapie e solo utilizzando dosaggi ridotti (10-20 mg/kg q8-24h os per un massimo di 10 giorni). Nel gatto l’IBD può talora non rappresentare un’entità patologica unica ma può associarsi a pancreatite cronica, rientrando nel cosiddetto quadro della triadite (IBD, colangioepatite, pancreatite). Da un punto di vista clinico la sintomatologia della pancreatite è aspecifica e variabile da grave (soggetto in stato di shock) a lieve (asintomatica o paucisintomatica) e la diagnosi rappresenta ancora oggi una sfida. Recenti studi hanno proposto l’utilizzo del fPLI (feline Pacreatic Lipase Immunoreactivity) nella diagnosi della pancreatite felina che ha dimostrato una sensibilità e specificità più elevata rispetto ai test considerati tradizionali (fTLI o feline Trypsin-Like Immunoreactivity ed ecografia). Una volta raggiunta la diagnosi occorre procedere all’“eliminazione” della causa (tenendo presente che circa il 90% delle pancreatiti nel gatto sono idiopatiche) e ad un trattamento di supporto caratterizzato da fluidoterapia (cristalloidi, plasma). La sospensione della somministrazione di cibo, acqua e farmaci per via orale necessaria nel cane, è controindicata nel gatto poiché tale provvedimento può predisporre a lipidosi epatica. Quindi in caso di anoressia per più di 24h è necessario ricorrere ad una alimentazione enterale o parenterale. È inoltre consigliato l’uso di analgesici quali patch transdermici di fentanyl. Gli antibiotici sono indicati solo in caso di pancreatite suppurativa. La somministrazione di dopamina (5 µg/kg/min) sembra ridurre la flogosi migliorando la circolazione pancreatica e diminuendo la permeabilità del microcircolo. I corticosteroidi sono consigliati solo in caso di shock o di concomitante IBD. La pancreatite cronica può causare nel gatto l’IPE che porta, a seguito della carenza degli enzimi pancreatici, a una sindrome da maldigestione. La terapia dell’IPE prevede la supplementazione di enzimi pancreatici in polvere o di pancreas di suino (fresco o congelato) da aggiungere ai pasti. È inoltre consigliabile la supplementazione parenterale di folati e vitamina B12 per correggere le carenze vitaminiche frequentemente osservate nei gatti con IPE. La dieta da suddividersi possibilmente in più pasti deve essere iperdigeribile, a basso contenuto di fibre e con proteine di elevata qualità. Altro disturbo frequente del tratto GI del gatto è la costipazione, tale condizione può essere indotta da svariati fattori quali: cam-

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biamenti dietetici o ambientali, ingestione di corpi estranei, ostruzioni intra-extraluminali, ileo, patologie neurologiche, terapie farmacologiche, disidratazione. La costipazione cronica esita in megacolon che può anche essere d’origine idiopatica. Il trattamento della costipazione comprende l’identificazione e l’eliminazione della causa, il ripristino dello stato di idratazione, l’uso di clisteri di acqua tiepida e di lassativi. Occorre porre attenzione ai lassativi osmotici (lattulosio) e a quelli emollienti (docusato di sodio/calcio) che possono risultare irritanti per la mucosa intestinale, quindi controindicati in presenza di uno stato infiammatorio del tratto GI e prima di procedure endoscopiche. Non bisogna utilizzare lassativi catartici contenenti magnesio e clisteri contenenti fosfati poiché questi possono indurre stati di iperfosfatemia o ipermagnesemia potenzialmente fatali nel gatto. I lassativi migliori sono quelli che aumentano la massa fecale (psillium, metilcellulosa) e i lubrificanti (vaselina). I lassativi stimolanti (bisacodile) sono indicati nei gatti con costipazione cronica o con megacolon in stadio precoce. Agenti procinetici quali la ranitidina e la nizatidina possono dimostrarsi utili nei casi refrattari alla dieta e ai lassativi e trovano quindi indicazione per aumentare le contrazioni della muscolatura liscia e quindi nel trattamento di gatti con ileo, costipazione cronica o megacolon idiopatico. L’utilizzo di diete ricche di fibra insolubile, che porta ad aumento della massa fecale, si dimostra utile nel trattamento della costipazione, sempre che lo stato di idratazione del gatto sia buono. Un altro capitolo importante in medicina felina è la gestione delle reazioni avverse al cibo dovute ad una risposta abnorme su base immunitaria (allergia o ipersensibilità) e non (intolleranza e errori) all’alimento ingerito o ad un additivo. Nel gatto la contemporanea presenza di segni GI e dermatologici indirizzano verso una sospetta allergia alimentare ed, in questo caso, la dieta rappresenta sia un mezzo diagnostico che terapeutico di fondamentale importanza. Sono state prodotte diverse diete commerciali ipoallergeniche o a limitato potere antigenico, formulate utilizzando un’unica fonte di proteine e carboidrati. La diagnosi comporta notevoli difficoltà, soprattutto perché la prova di eliminazione dura 6-12 settimane ed è caratterizzata dall’utilizzo di una dieta ipoallergenica di “eliminazione” volta a dimostrare la scomparsa dei sintomi clinici a seguito della rimozione dell’agente scatenante e a provare la ricomparsa dei sintomi quando al paziente viene ripresentata la dieta originale. Qualora si sia individuato l’elemento scatenante la reazione avversa, si prescriverà una razione equilibrata priva di tale alimento o additivo, o in alternativa il paziente continuerà a ricevere la dieta ipoallergizzante.

Letture consigliate 1. 2. 3. 4.

Jergens AE, (2003), Managing the refractory case of feline IBD, J Feline Med Surg., 5: 47-50. Zoran D, (2003), Nutritional management of gastrointestinal disease, Clin Tech Small Anim Pract, 4: 211-217. Peterson PB, Willard MD, (2003), Protein-losing enteropathies, Vet Clin N Am: Small Anim Pract 5: 1061-1082. Washabau RJ, Holt D, (1999), Pathogenesis, diagnosis, and therapy of feline idiopathic megacolon, Vet Clin N Am: Small Anim Pract 2:589-603.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Boari, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi di Teramo, Viale F. Crispi 212, 64100 Teramo Tel 0861 266972 - fax 0861 266971 - e-mail boari@unite.it


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La gestione del diabete mellito del gatto Andrea Boari Med Vet, Teramo

Francesca Rocconi, Med Vet, Teramo

Il diabete mellito (DM) è una delle più comuni endocrinopatie nel gatto, ed è segnalato soprattutto in soggetti di età superiore ai 9 anni con una media di 10 anni. Nella popolazione felina si riscontra con maggior frequenza nei maschi piuttosto che nelle femmine e tale rapporto, considerando i maschi castrati, raggiunge 1,5:1. Il termine DM racchiude un disordine metabolico a genesi multifattoriale caratterizzato da iperglicemia cronica e alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico e proteico. Conoscere a fondo la patogenesi del DM felino è un passo fondamentale per comprendere i limiti della terapia e approntare una corretta gestione del paziente. L’attuale classificazione divide il DM in insulino-dipendente (IDDM o tipo 1), non insulino-dipendente (NIDDM o tipo 2), DM transitorio e DM secondario (o tipo 3). Nel gatto la differenziazione tra IDDM da quello NIDDM risulta in pratica impossibile al momento della diagnosi, per cui spesso il clinico si deve affidare alla risposta ottenuta a seguito della terapia. In base ai caratteri istologici delle isole pancreatiche, alla mancanza di anticorpi β cellulari, al comportamento clinico della patologia e ai fattori di rischio, fra cui sono annoverati obesità, inattività fisica, farmaci e patologie intercorrenti, il NIDDM sembra essere la forma più comune nel gatto. Questo si caratterizza fondamentalmente dalla compromissione della secrezione insulinica e da insulinoresistenza da parte dei tessuti bersaglio. Tra le situazioni che possono pregiudicare la liberazione di insulina rientrano un’alterata funzione β cellulare, il fenomeno della glucotossicità e la deposizione di sostanza amiloide (IA) a livello di insule pancreatiche. La glucotossicità è una condizione che induce desensibilizzazione dei glucosensori β cellulari, nei confronti del glucosio, e quindi porta ad una ridotta secrezione insulinica in risposta allo stimolo “iperglicemia”. Tale condizione può anche essere reversibile in rapporto all’entità dell’iperglicemia e alla sua durata. La IA è costituita da amilina, proteina cosecreta con l’insulina, che in condizioni di iperglicemia è prodotta in maniera abnorme dalle cellule pancreatiche. Questa si deposita a livello insulare determinando danni irreversibili a carico delle cellule β quali degenerazione, morte per apoptosi e successiva sostituzione con IA. Per quanto riguarda l’insulinoresistenza, recenti studi hanno evidenziato come i gatti diabetici risultino circa 6 volte meno sensibili all’azione dell’insulina rispetto ai sani. L’obesità è il maggior fattore di rischio per lo sviluppo di NIDDM nell’uomo e nel gatto. Questa induce uno stato di insulinoresistenza reversibile, riducendo la sensibilità all’insulina da parte dei recettori cellulari. Questa situazione determina un aumento della richiesta insulinica

che a lungo termine porta all’“esaurimento β cellulare”. Una volta emessa diagnosi di DM non scompensato sulla base dei segni clinici e dei reperti di laboratorio (iperglicemia persistente, glicosuria, fruttosamine >400 µmol/L) e valutati eventuali fattori e patologie concomitanti (pancreatiti, insufficienza renale, endocrinopatie, ecc.), si procede ad instaurare la terapia. Questa è volta alla risoluzione dei segni clinici, al mantenimento di un peso corporeo adeguato e ad evitare l’insorgenza di complicazioni. I punti cardine della gestione prevedono la terapia insulinica o con ipoglicemizzanti orali, la dieta e l’esercizio fisico. Fino a qualche tempo fa si tendeva a trasporre le conoscenze nutrizionali relative al cane alla specie felina, in realtà nel corso degli ultimi anni è emerso come queste due specie siano profondamente diverse tra loro. Il gatto infatti in quanto carnivoro in senso stretto utilizza in maniera prioritaria quali fonti energetiche le proteine e i grassi. In uno studio condotto su 9 gatti diabetici si è evidenziato come una dieta ricca di proteine e a basso contenuto glucidico e di fibra abbia ridotto di più del 50% le richieste di insulina, consentendo l’interruzione della terapia insulinica in 8 soggetti. In base a questi presupposti attualmente il panorama delle diete indicate nei gatti con DM comprende diete caratterizzate da elevato tenore proteico e basso quantitativo di fibra e carboidrati (DM Purina, m/d Hill’s), accanto ad alimenti caratterizzati da alto tenore in grassi e basso in carboidrati e proteine (Kitten Hill’s) e infine diete ad elevato tenore di fibra e moderato contenuto in carboidrati e grassi (w/d Hill’s). Non essendo prevedibile la risposta del paziente ad un tipo di dieta piuttosto che ad un altro, la scelta iniziale si basa essenzialmente sulla risposta alla terapia. Una ulteriore diversità rispetto al cane, è che nel gatto il picco glicemico postprandiale è lieve e protratto nel tempo da cui la possibilità di alimentarlo più volte nell’arco della giornata. La frequenza di somministrazione dell’alimento è stata oggetto di alcuni studi negli ultimi anni, sulla base dei quali è emerso come l’alimentazione ad libitum determini una maggior richiesta insulinica che, in soggetti predisposti, contribuisce all’“esaurimento β cellulare”; al contrario l’alimentazione fornita una volta al dì risulta vantaggiosa in gatti predisposti ad alterata tolleranza al glucosio o al diabete. Quest’ultima soluzione tuttavia non risulta ragionevolmente attuabile viste le naturali abitudini alimentari del gatto che lo spingono a cibarsi con piccole quantità più volte nell’arco della giornata. Occorre inoltre sottolineare che sia l’obesità che la malnutrizione sono condizioni che determinano uno stato di insulinoresistenza per cui vanno corrette con opportuni presidi dietetici. Gli Autori si raccomanda-


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no di impiegare diete commerciali formulate appositamente per il gatto e di procedere al cambio della dieta in modo lento e graduale in quanto, nei soggetti diabetici, si assiste ad un rallentamento della motilità intestinale che predispone all’invaginamento. L’elevata incidenza del NIDDM nel gatto impone la scelta tra insulina e ipoglicemizzanti orali. La scelta dell’uno piuttosto che dell’altra dipende in teoria dalle condizioni generali del paziente e quindi dalla gravità dei segni clinici, dall’assenza di chetoacidosi e dalla disponibilità del proprietario. In linea generale gli Autori consigliano di utilizzare sempre prontamente la terapia insulinica e, solo laddove il proprietario rifiuti di effettuare iniezioni di insulina, impiegare gli ipoglicemizzanti orali. Tra questi la glipizide risulta l’unico farmaco dimostratosi realmente efficace nel gatto. Tuttavia, vista l’esigua percentuale (20-40%) di gatti che risponde favorevolmente all’uso di glipizide e l’impossibilità di distinguere soggetti affetti da IDDM da quelli con NIDDM, se ne sconsiglia l’utilizzo. Bisogna inoltre considerare che il meccanismo d’azione di questo farmaco si attua attraverso la stimolazione del pancreas a produrre insulina per cui è essenziale che esista attività residua pancreatica (massa funzionante). Tale secrezione tuttavia può promuovere ulteriormente la deposizione di IA accelerando la progressione della malattia. Instaurare precocemente la terapia insulinica (meglio se associata a una dieta idonea) offre l’indubbia opportunità di “salvare” quante più cellule β possibili, invertendo, talvolta, il fenomeno della glucotossicità, o comunque limitando la deposizione di IA. In questo modo nel paziente, terminata l’azione dell’insulina esogena, le poche cellule β funzionanti assicureranno una produzione basale di insulina che consentirà un miglior controllo limitando le fluttuazioni glicemiche. La scelta iniziale del tipo di insulina cade in prima battuta su quella lenta di origine animale (Caninsulin, Intervet) o in alternativa si può utilizzare il tipo ultralento ricombinante umano. È preferibile iniziare la terapia a dosaggi bassi per poi adattarli alle necessità del paziente. Si consigliano 0,5 UI/kg BID se la glicemia ≥ 360 mg/dl o 0,25 UI/kg BID se è < 360 mg/dl; alcuni Autori consigliano 1 UI/gatto BID a prescindere dal peso corporeo. Il proprietario deve essere istruito attentamente sulle modalità di conservazione, preparazione e somministrazione dell’insulina, sul riconoscimento di eventuali segni di ipoglicemia e sulle misure per contrastarla. La terapia prevede inizialmente una fase di stabilizzazione, in cui il paziente è valutato settimanalmente, poi, ottenuto un buon controllo glicemico a due monitoraggi successivi, si passa alla fase di mantenimento con controlli ogni 3-6 mesi. Il monitoraggio clinico si attua mediante un accurato esame fisico, l’esecuzione di curve glicemiche, il dosaggio delle fruttosamine ed eventuali esami collaterali atti a meglio valutare lo stato generale dell’animale. Un fattore condizionante il monitoraggio am-

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bulatoriale del gatto è l’iperglicemia stress indotta che può fuorviare il clinico nelle scelte terapeutiche. In base a questa peculiarità si consiglia di limitare l’esecuzione delle curve glicemiche ai soggetti che presentino scarso controllo e di affidarsi all’opinione del proprietario per ottenere informazioni riguardo la persistenza o la ricomparsa di segni clinici, il mantenimento di un peso costante e l’attitudine dell’animale a interagire con l’ambiente con altri animali e persone eventualmente presenti. Recentemente è sempre più frequente l’esecuzione domiciliare di curve glicemiche effettuate direttamente dal proprietario, tramite l’impiego di glucometri, prelevando il sangue capillare dall’orecchio. Valutando l’efficacia, la durata di azione e il nadir si pondera la risposta del soggetto alla terapia insulinica. Qualora ci si affidi al dosaggio delle fruttosamine per il monitoraggio del paziente bisogna evitare di operare correzioni della terapia sulla base di questo valore in quanto la risposta terapeutica dipende da numerosi fattori tra i quali l’insulina ne rappresenta solo uno. Parallelamente alla gestione clinica va effettuata quella domiciliare istruendo il proprietario sul monitoraggio dell’animale in particolar modo controllando i segni clinici, valutando settimanalmente il peso e la glicosuria e annotando poi i dati riscontrati. In una certa percentuale di gatti (20-40%) con un buon controllo glicemico, si assiste alla remissione della patologia, in genere dopo 1-4 mesi di terapia, a seguito della riduzione dell’obesità o della scomparsa degli effetti di un precedente trattamento farmacologico. Bisogna prestare attenzione a questi soggetti in quanto una volta ripresa la funzionalità β cellulare, si possono scatenare gravi episodi di ipoglicemia che a volte nel gatto possono portare ad un falso scadente controllo glicemico (Fenomeno di Somogyi).

Letture consigliate 1.

2. 3. 4.

Farrow HA, Rand JS, Sunvold GD, (2003), Once daily feeding significantly redices plasma insulin concentrations compared to ad libitum feeding in cats. Proc. 21 ACVIM Forum, North Carolina. Feldman EC, Nelson RW, (2004), Canine and Feline Endocrinology and Reproduction, 3th ed, Saunders, St Louis, 539-579. Martin G, Rand J, (2000), Current understanding of feline diabetes: part 2 treatment. J Feline Med. Surg., 2: 3-17. Zoran DL, (2002), The carnivore connection to nutrition in cats, J Am Vet Med Assoc, 221: 1559-1566.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Boari Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Università degli Studi di Teramo, Viale F. Crispi 212, 64100 Teramo Tel 0861 266972- fax 0861 266971 – e-mail boari@unite.it


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Trauma dentale e terapia endodontica Dea Bonello Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino

Classificazione dei traumi I traumi oro-facciali sono un evento piuttosto frequente, e possono comportare lesioni più o meno gravi ai denti, alle ossa ed ai tessuti molli. In seguito a tali traumi possono presentarsi i seguenti quadri clinici: • Lesioni dei tessuti duri del dente e della polpa − Infrazione di corona − Frattura di corona non complicata − Frattura di corona complicata − Frattura di corona e radice non complicata − Frattura di corona e radice complicata − Frattura di radice • Lesioni del tessuto parodontale − Concussione − Sublussazione − Lussazione intrusiva − Lussazione estrusiva − Lussazione laterale − Avulsione completa • Lesioni della gengiva e della mucosa orale − Abrasione − Contusione − Lacerazione • Lesioni dell’osso di supporto − Frattura di una parete dell’alveolo − Frattura del processo alveolare − Frattura comminuta dell’alveolo − Frattura della mandibola − Frattura del mascellare (Fort I, II, III) L’esame radiografico è comunemente usato per rilevare i traumi facciali, ma in particolare è l’esame strumentale più usato per diagnosticare i traumi alveolo-dentali.Le lesioni degli elementi dentari coinvolti in un quadro clinico di trauma oro-facciale richiedono sempre un piano di trattamento endodontico-conservativo, ad eccezione delle fratture verticali complete di radice che richiedono obbligatoriamente l’estrazione. Questo sia al fine di preservare l’elemento dentale, sia per ristabilire una corretta funzionalità dell’apparato ortognatodontico una volta guarito il trauma. Le connessioni tra i denti ed il loro apparato di sostegno (parodonto) rivestono infatti un ruolo di primaria importanza nella fisiologia dell’osso alveolare, in quanto le sollecitazioni meccaniche trasmesse dal legamento alveolo-dentale sono alla base del meccanismo di rimodellamento a cui è continuamente sottoposto il tessuto osseo.

Il dente reagisce con un meccanismo infiammatorio agli insulti gravi, che prende il nome di pulpite (infiammazione dei tessuti della polpa). Spesso la pulpite degenera nella necrosi della polpa, quando l’edema comporta lo strozzamento dei vasi sanguigni ed una progressiva ed irreversibile riduzione degli scambi metabolici a livello dei tessuti pulpari. Le conseguenze patologiche della pulpite si ripercuotono sempre sul parodonto. In caso di sublussazione e di lussazione del dente si verifica ad esempio uno stiramento del fascio vascolo-nervoso che attraversa il delta apicale, e in determinate circostanze l’emorragia può essere di entità tale da provocare la necrosi della polpa per obliterazione dei vasi. In caso di avulsione invece, se la radice non è completamente formata (denti immaturi) la sopravvivenza della polpa dentaria può essere del 30-40% dopo 10 anni, mentre nei denti maturi la percentuale di sopravvivenza è pari a zero.

Reazione della polpa all’esposizione della dentina Anche in assenza di danno diretto alla polpa (fratture non complicate) si può sviluppare una pulpite, reversibile o irreversibile. Infatti quando i tubuli dentinali vengono aperti ed i processi degli odontoblasti esposti, le terminazioni nervose ed i fluidi contenuti all’interno trasmettono lo stimolo irritativo alla polpa. Se questa supera lo shock infiammatorio e rimane vitale, il danno viene riparato tramite la deposizione di dentina terziaria da parte degli odontoblasti contenuti all’interno dei tubuli dentinali, diversamente si ha necrosi pulpare (morte del dente). Per poterne diagnosticare la vitalità, il dente deve essere monitorato nel tempo tramite l’esame radiografico. La polpa può risultare variamente traumatizzata, sempre in assenza di esposizione diretta, anche da una serie di procedure odontoiatriche, quali ad esempio la preparazione di cavità, la monconizzazione, l’utilizzo di materiali altamente irritanti per i tessuti vitali (l’acido ortofosforico, etc.), e non ultime tutte quelle situazioni in cui l’utilizzo degli strumenti, provocando attrito contro i tessuti duri del dente, genera calore. Tutte queste situazioni devono essere distinte, almeno da un punto di vista prognostico, da quei casi in cui il consumo dello smalto prima, e della dentina poi, è così lento da concedere il tempo agli odontoblasti di produrre dentina terziaria in quantità sufficiente da proteggere costantemente la polpa dal rischio dell’esposizione (consumo eccessivo provocato dall’uso improprio della dentatura, precontatti associati alle malocclusioni).


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Esposizione della polpa Quando si ha esposizione della polpa, la frattura del dente viene definita complicata. Segni clinici sono l’emorragia pulpare ed il dolore acuto. In poco tempo però i batteri invadono il tessuto ed i vasi vengono obliterati dalla pressione esercitata dall’infiammazione, provocando la necrosi della polpa. Un tappo di materiale organico essiccato occlude la cavità pulpare e questa condizione, essendo nel frattempo cessato il dolore, può rimanere inalterata per lungo tempo. Prima o poi, però, l’infezione che alberga nella cavità pulpare si diffonde nei tessuti periapicali attraverso il delta apicale, causando una paradentite periapicale, che evolverà con il tempo in un granuloma apicale o in un ascesso apicale. In questo caso la condizione diventa nuovamente dolente e si può manifestare anche gonfiore localizzato. La patologia periapicale si presenta in radiografia come una zona di lisi rotondeggiante localizzata intorno all’apice della radice.

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si intende la rimozione di parte della polpa coronale ed il suo successivo rivestimento con un materiale biocompatibile. Di qui anche il termine di pulpotomia vitale, mentre per incappucciamento diretto della polpa si intende il semplice atto di medicare la polpa che risulti accidentalmente esposta durante una procedura dentistica. Per incappucciamento indiretto della polpa si intende invece la medicazione della polpa che risulta però ancora protetta da un sottile strato di dentina. Quando la pulpotomia vitale viene praticata su di un dente immaturo, il risultato che si vuole ottenere è lo sviluppo normale della radice e la chiusura dell’apice. Questo processo fisiologico prende il nome di apexogenesi. Quando invece lo stesso scopo lo si vuole raggiungere su di un dente immaturo non vitale, la particolare procedura che bisogna eseguire prende il nome di apecificazione. Infine, l’apicectomia è quella procedura chirurgica, detta anche infatti terapia canalare chirurgica, che prevede la creazione di un accesso all’apice della radice attraverso l’osso alveolare, l’amputazione dell’apice, la rimozione del tessuto periapicale patologico e lo riempimento canalare retrogrado (dall’apice verso la corona).

Lesioni combinate endo-parodontali Spesso lesioni endodontiche e lesioni parodontali coesistono nello stesso dente. In questo caso la polpa contenuta all’interno di una o più radici è necrotica, mentre all’esterno il legamento parodontale è distrutto, dal solco gengivale fino all’apice (o allo sbocco di un canale accessorio). Le lesioni combinate endo-parodontali predispongono alle fratture patologiche, soprattutto se a carico dei denti della mandibola, in quanto privano progressivamente il dente dell’osso alveolare di sostegno, e conseguentemente indeboliscono la struttura ossea nel suo insieme. Queste lesioni si risolvono con l’estrazione del dente affetto, perché la terapia conservativa presenta una prognosi riservata e tempi di attuazione molto lunghi.

La terapia endodontica L’endodonzia è quella branca dell’odontostomatologia che studia la fisiopatologia ed il trattamento delle affezioni della polpa dentaria e dei tessuti periapicali. Per terapia endodontica o canalare si intende l’insieme dei trattamenti possibili in caso di esposizione della polpa e di necrosi pulpare. Qualora non fosse possibile eseguire il trattamento adeguato, l’estrazione del dente è obbligatoria. La terapia o cura canalare convenzionale consiste nella rimozione completa della polpa del dente attraverso un accesso praticato nella corona. Un altro termine che definisce in maniera appropriata questo intervento è quello di pulpectomia totale, mentre per pulpectomia parziale, o pulpotomia,

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Indirizzo per la corrispondenza: Dea Bonello Centro veterinario Torinese, Lungo Dora Colletta 147, Torino


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Decision-making nella cura delle patologie del cavo orale: il confronto tra clinico e patologo nell’interesse del paziente Dea Bonello Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino

Massimo Castagnaro Med Vet, PhD, Dipl ECVP, Padova

“Imparare ad apprendere tramite lo studio dei problemi. Acquisire le basi sulle quali costruire il ragionamento clinico che porta alla diagnosi ed al piano di trattamento”. Sono questi gli obiettivi che ogni medico veterinario dovrebbe perseguire nell’esercizio della propria professione, al servizio e nell’interesse del paziente, avvalendosi di tutti gli strumenti culturali e tecnici. La cura delle patologie del cavo orale, per un suo corretto svolgimento, necessita non solo di una adeguata conoscenza delle singole tecniche chirurgiche, ma anche di una sintesi tra conoscenze di anatomia topografica distrettuale, eziopatogenesi delle più comuni patologie, impostazione di una corretta diagnosi e di un adeguato piano di trattamento. Il dialogo tra clinico e patologo è un momento importante del processo di apprendimento che accompagna l’analisi e la soluzione dei problemi specifici clinico-pratici. Esso comporta però la coscienza dei limiti intrinseci della conoscenza e la capacità critica. Se si escludono quelle patologie del cavo orale che sono di natura spiccatamente oncologica, un esempio significativo di quanto premesso è rappresentato dalla Gengivo-Stomatite Cronica Felina. La gengivostomatite cronica (FCGS) è una delle patologie del cavo orale del gatto di più frequente riscontro. Nonostante diverse cause siano state via via citate dalla letteratura, dagli stati di immunodepressione ad infezioni virali e batteriche, il meccanismo patogenetico di questa malattia rimane tuttora poco conosciuto. L’età media dei soggetti colpiti è di 7,5 anni, con un range ampissimo, e sembra non esista alcuna predisposizione verso la malattia legata al sesso o alla razza dell’animale. Occasionalmente i gatti colpiti sono anche FIV o FeLV positivi. La diagnosi di FCGS è fondamentalmente clinica. I gatti affetti da FCGS presentano sintomi tipici quali alitosi, scialorrea, difficoltà nella prensione del cibo e nella masticazione, disfagia, anoressia nei casi più gravi e sempre perdita di peso. Alla visita clinica si osservano lesioni eritematose, ulcerative e/o proliferative della gengiva, della mucosa vestibolare, delle labbra, del faringe ed occasionalmente della lingua. Solitamente è presente anche linfoadenopatia regionale, malattia parodontale di vario grado con accumulo di placca

e tartaro sui denti, e lesioni odontoclastiche da riassorbimento (FORL). Il protocollo diagnostico della FCGS prevede anche l’esecuzione della biopsia delle lesioni più significative da un punto di vista clinico. La biopsia incisionale infatti, oltre che nei casi in cui la diagnosi clinica presuntiva sia dubbia, è particolarmente indicata in tutti i casi in cui la descrizione istologica della lesione risulti fondamentale per indirizzare la scelta terapeutica più idonea. Anche in letteratura infatti viene spesso ribadita l’importanza della risposta infiammatoria ed immunitaria nella progressione della malattia. Pur essendo il trattamento della FCGS sostanzialmente chirurgico (estrazione di tutti i premolari ed i molari presenti, nonché di tutti quei denti per i quali la prognosi è sfavorevole), spesso si deve accompagnare ad una terapia medica mirata alla completa eliminazione dell’infezione e/o infiammazione. In questi casi il protocollo terapeutico deve essere sempre impostato sulla base delle informazioni fornite dal referto istopatologico. Queste devono essere di natura puramente descrittiva, qualitativa e quantitativa, e la loro interpretazione rappresenta la chiave di lettura dell’eziologia, del meccanismo patogenetico e delle modalità di progressione della patologia. In tutti i casi di FCGS osservati dagli Autori era presente il classico, diffuso, intenso infiltrato linfo-plasmacellulare (LPI). Le plasma cellule frequentemente esibivano corpi di Russell nel loro citoplasma. In alcuni casi LPI era l’unica risposta infiammatoria presente. Tuttavia, in presenza di lesioni ulcerative, in associazione a LPI si reperivano anche un infiltrato neutrofilico da focale a diffuso, exocitosi ed una marcata spongiosi epiteliale. In molti campioni sono stati anche osservati numerosi eosinofili sparsi e mastociti in grande numero. L’interessamento dell’osso alveolare, caratterizzato da un infiltrato infiammatorio misto e da alterazioni litiche della struttura ossea, era presente nel 22% circa dei casi. In una chiave di lettura che consideri esclusivamente le varie tipologie cellulari presenti, i rilievi istopatologici descritti indicano che la FCGS è sempre associata ad una intensa, persistente stimolazione immunitaria. In associazione, è frequente osservare ulcerazione dei tessuti con conseguente infiltrazione diffusa di neutrofili (lesione cronica attiva).


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La frequente presenza di eosinofili suggerisce invece la concomitanza di un fenomeno di ipersensibilità o di una reazione iperergica. Osservando invece la distribuzione stratigrafica delle varie componenti cellulari, è possibile distinguere le forme superficiali da quelle profonde, ipotizzare l’origine della risposta infiammatoria ed immunitaria e stimare il grado di aggressività della malattia. In questa fase della gestione del caso clinico, a cavallo tra la formulazione del piano di trattamento e l’emissione della prognosi, il clinico deve obbligatoriamente fare un passo indietro e rivalutare in maniera critica il proprio pensiero sulla base delle osservazioni fatte dal patologo. Idealmente il confronto tra l’opinione del clinico e quella del patologo dovrebbe essere un momento di estrema sintesi deduttiva, prodromico alla miglior risoluzione possibile del caso clinico. Qualsiasi divergenza deve essere appianata possibilmente modificando il punto di vista del primo in favore del secondo, per il semplice motivo che questi ha una visione puramente oggettiva del caso.

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Indirizzo per la corrispondenza: Dea Bonello Centro Veterinario Torinese, Lungo Dora Colletta 147, Torino Massimo Castagnaro Dipartimento di Sanità Pubblica Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria Università degli Studi di Padova Viale dell'Università, 16 - 35020 Legnaro (PD)


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Differenti presentazioni citologiche in corso di neoplasie epiteliali Ugo Bonfanti Med Vet, Milano

Le neoplasie epiteliali, che sono spesso caratterizzate dalla presenza di aggregati più o meno compatti di cellule in monostrato o tridimensionali, possono assumere aspetti architetturali differenti: disposizioni acinari, alveolari, papillari, trabecolari, “a palizzata” e cordoniformi. Inoltre, le cellule delle neoplasie di origine epiteliale possono presentare caratteristiche citomorfologiche estremamente eterogenee. La suddivisione in neoplasia benigna o maligna si fonda, talvolta, su caratteri citomorfologici che non sempre consentono, però, una classificazione sicura del tipo di processo patologico. Si riconoscono infatti, ad esempio, alcune neoplasie epiteliali maligne i cui caratteri citologici non sono assimilabili a quelli comunemente descritti nei carcinomi, nonché, carcinomi ben differenziati talora difficilmente distinguibili da neoplasie epiteliali benigne o da fenomeni iperplastici. Tra i caratteri citologici specifici delle neoplasie epiteliali sono riportati l’esfoliazione di cellule in aggregati compatti, l’adesione intercellulare mediante desmosomi, la forma tondeggiante o poligonale delle cellule, spesso con margini citoplasmatici ben distinguibili, la presenza di nuclei tondeggianti o ovalari. Occorre comunque ancora sottolineare come alcune eccezioni possano non infrequentemente essere presenti e caratterizzare esse stesse la neoplasia epiteliale oggetto di approfondimento. Si prendono di seguito in considerazione, a titolo d’esempio, i caratteri citologici di alcune neoplasie epiteliali provenienti da organi e tessuti differenti.

NEOPLASIE EPITELIALI PRIMARIE CUTE Carcinoma squamocellulare: le cellule epiteliali neoplastiche che lo compongono, singole o in aggregati, sono caratterizzate da citoplasma cheratinizzato, talora contenente granuli

di cheratojalina, e nucleo presente, spesso con caratteri di atipia. Possono manifestare differenti gradi di differenziazione. Neoplasia delle cellule basali: le cellule che la compongono sono raccolte in aggregati fortemente coesi e sono spesso caratterizzate da disposizione architetturale “ a palizzata” o “cordoniforme”; sono caratterizzate da dimensioni ridotte ed uniformi, elevato rapporto N-C e dall’assenza di caratteri di evidente atipia citologica. Adenoma sebaceo: le cellule, caratterizzate da ampio citoplasma schiumoso e da piccolo nucleo centrale, senza caratteri di atipia citologica, sono organizzate in aggregati coesi e spesso tridimensionali. Neoplasia delle ghiandole perianali: si caratterizza per la presenza di voluminosi aggregati di cellule epiteliali di medie dimensioni, di aspetto simile agli epatociti, con nucleo tondeggiante spesso nucleolato e citoplasma basofilo, finemente granulare. Adenocarcinoma delle ghiandole apocrine dei sacchi anali: le cellule che lo compongono, in aggregati a coesività lassa, sono spesso raccolte in strutture microacinari, posseggono margini citoplasmatici indistinti ed atipie citologiche di modesta entità.

APPARATO RESPIRATORIO - Polmone Carcinomi ed adenocarcinomi bronchiali, bronchiolari e bronchiolo-alveolari possono manifestare disposizioni citoarchitetturali differenti (solidi, papillari, acinari). Spesso si rilevano aggregati di dimensioni differenti, e, raramente, cellule singole; pleomorfismo cellulare, nuclei tondeggianti con irregolarità del contenuto cromatinico e nucleoli prominenti, basofilia citoplasmatica e microvacuolizzazioni in sede perinucleare, rappresentano criteri citologici spesso presenti in corso di neoplasie epiteliali maligne primarie polmonari. Neoplasie epiteliali primarie polmonari e metastatiche possono comunque essere citologicamente indistinguibili.

Tabella 1 Criteri citologici comunemente impiegati per identificare cellule maligne di origine epiteliale Ipercellularità

Aumentata esfoliazione per riduzione della adesività tra le cellule

Anisocitosi e Macrocitosi

Variabilità di dimensione tra le cellule; aumentate dimensioni cellulari

Pleomorfismo

Variabilità di forma e dimensione tra le cellule di uno stesso tipo

Anisocariosi e Macrocariosi

Variabilità di dimensione del nucleo; aumentate dimensioni nucleari

Variazione del rapporto N-C

Aumentato rapporto N-C suggerisce malignità

Nuclear molding

Deformazione nucleare causata da altri nuclei della stessa cellula epiteliale o di cellule epiteliali adiacenti

Irregolarità del contenuto cromatinico

Cromatina nucleare non omogeneamente distribuita, tendenzialmente grossolana

Anisonucleoliosi

Variabilità di forma e dimensione dei nucleoli della cellula epiteliale

Mitosi atipiche

Improprio allineamento dei cromosomi in corso di processo mitotico


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CAVITÀ ADDOMINALE INTESTINO: Carcinomi ed adenocarcinomi intestinali, che possono manifestare disposizione citoarchitetturale “ a palizzata”, manifestano spesso i comuni caratteri di atipia citologica delle neoplasie epiteliali: pleomorfismo, anisomacrocitosi, anisomacrocariosi, nucleoli prominenti, basofilia citoplasmatica e vacuolizzazioni citoplasmatiche. FEGATO: Adenoma epatocellulare:gli epatociti che lo compongono manifestano lieve anisocitosi ed anisocariosi; citologicamente risulta indistinguibile dalle cellule che si possono rilevare in corso di iperplasia nodulare. Carcinoma epatocellulare: nelle forme ben differenziate caratteristica è la citoarchitettura trabecolare in cui si repertano aggregati spesso voluminosi e tridimensionali di epatociti privi di caratteri di atipia, da cui si dipartono elementi cellulari che tendono ad unirsi ad aggregati limitrofi; nelle forme meno differenziate, invece, maggiori sono i caratteri di atipia citologica frequentemente riportati in corso di altre neoplasie epiteliali maligne: elevato rapporto N-C, irregolarità della membrana nucleare e nucleoli prominenti. Colangiocarcinoma: le neoplasie dei dotti biliari esfoliano cellule ad elevato e costante rapporto N-C, raccolte in aggregati compatti di dimensioni differenti con citoarchitetture “a palizzata” ed acinari; rari sono i caratteri di atipia citologica. RENE: Carcinoma renale tubulare: si caratterizza per l’elevata cellularità, con aggregati in monostrato di cellule lassamente coese, scarsamente pleomorfe, a margini spesso indistinti e citoplasma variamente vacuolizzato; i nuclei sono tondeggianti o ovalari e la cromatina finemente punteggiata. Carcinoma squamocellulare: ha origine dall’epitelio di transizione della pelvi e possiede i caratteri citologici comuni ai carcinomi squamocellulari. VESCICA: Carcinoma transizionale: le cellule, spesso a margini citoplasmatici ben distinti con reminiscenza dell’originaria citoarchitetture pavimentosa o mosaiciforme, manifestano moderato pleomorfismo cellulare e spesso gravi caratteri di malignità citologica nucleare; non infrequentemente alcuni carcinomi transizionali manifestano caratteri di metaplasia squamosa e ghiandolare, quest’ultima sotto forma di vacuoli intracitoplasmatici contenenti materiale intensamente eosinofilo e con disposizione citoarchitetturale acinare. PROSTATA: Adenocarcinoma: le cellule neoplastiche, spesso in aggregati tridimensionali, manifestano numerosi caratteri di malignità citologica nucleo-citoplasmatica; frequentemente presenti vacuolizzazioni intracitoplasmatiche.

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to (colloide). Insulinoma: i campioni provenienti da neoplasie endocrine pancreatiche sono caratterizzati da elevata cellularità, numerosi nuclei nudi, e dalla presenza, nelle cellule intatte, di numerosi piccoli vacuoli a margini netti; come nelle altre neoplasie di origine endocrina i caratteri di malignità citologica sono inconsistenti. Chemodectoma: i campioni provenienti da queste neoplasie neuroendocrine sono spesso costituiti da numerosi nuclei nudi tondeggianti, contenenti, di solito, un singolo nucleolo prominente, con anisocariosi moderata, e tendenza alla formazione di citoarchitetture acinari. NEOPLASIE EPITELIALI METASTATICHE Neoplasie epiteliali possono metastatizzare in numerosi organi e tessuti; in particolare più frequentemente possono essere coinvolti polmoni, fegato, rene, cute, linfonodi; poiché non è sempre facile differenziare citologicamente cellule derivanti da una carcinoma primario, da quelle derivanti da una forma metastatica, in particolare per quanto riguarda il polmone, la possibilità di esaminare le cellule provenienti dall’eventuale neoplasia primaria e confrontarle con quelle che si presuppone possano essere metastatiche, rappresenta spesso la chiave diagnostica definitiva. VERSAMENTI Nel liquido contenuto nelle cavità corporee, formatosi a seguito di un processo neoplastico, si possono reperire cellule provenienti da tumori epiteliali; tali cellule spesso mantengono disposizioni architetturali e caratteristiche citologiche simili a quelle della neoplasia primaria. In particolare, ad esempio, in corso di mesotelioma, le cui cellule appaiono morfologicamente come cellule epiteliali benché l’origine sia mesodermica, si rilevano spesso cellule singole o in piccoli aggregati, spesso binucleate e giganti multinucleate, talora con “finestre” intercellulari e rilevanti caratteri di atipia citologica. In corso di adenocarcinoma metastatico a pleura o peritoneo, gli aggregati cellulari sono spesso di maggiori dimensioni, ed il citoplasma abbondante, spesso microvacuolizzato. Infine, in corso di adenocarcinoma ovarico, dall’analisi del versamento si rilevano spesso voluminosi aggregati tridimensionali con citoarchitetture papillari di cellule neoplastiche esfoliate dalla neoplasia primaria o dalle metastasi da essa derivanti.

Bibliografia 1. 2.

MAMMELLA Adenocarcinoma: in corso di adenocarcinoma mammario le cellule neoplastiche, oltre a mostrare spesso evidenti caratteri di malignità citologica, possono manifestare citoarchitetture acinari, alveolari e papillari più o meno evidenti; in corso di carcinoma infiammatorio le cellule, spiccatamente pleomorfe ed atipiche, sono spesso singole o raccolte in piccoli aggregati.

3.

SISTEMA ENDOCRINO Carcinoma tiroideo: le cellule epiteliali a margini citoplasmatici indistinti presenti nei carcinomi tiroidei, spesso raccolte in citoarchitetture acinari ed alveolari, manifestano scarsi caratteri di malignità citologica; talora presenti granuli scuri di tirosina, intracitoplasmatici, e materiale eosinofilo intercellulare rosa-

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Indirizzo per la corrispondenza: Ugo Bonfanti Clinica Veterinaria Gran Sasso Via Donatello 26, 20131, Milano, Italy Tel: +39-2-2665928. Fax: +39-2-2362048 - Email: u.bonfa@flashnet.it


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Stato dell’arte sulla terapia dell’insufficienza cardiaca nel cane Michele Borgarelli Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Torino

L’insufficienza cardiaca (IC) rappresenta una condizione fisiopatologica nella quale una anomalia della funzione cardiaca è responsabile della insufficienza del cuore a pompare il sangue in quantità adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti, oppure ci riesce solo ad una pressione di riempimento elevata 1. Negli anni 50 le conoscenze sull’IC e di conseguenza le sue modalità di trattamento differivano poco da quelle del 19° secolo. Tali conoscenze consideravano l’IC come una condizione di esaurimento della pompa cardiaca e il suo trattamento era principalmente volto ad alleviare la sintomatologia e ridurre l’eccessivo accumulo di acqua e di sodio cercando di mantenere o incrementare la funzione sistolica. L’IC era quindi trattata con riposo a letto, con una dieta rigorosamente povera di sodio, con la somministrazione di digitale ai limiti della tossicità e di diuretici mercuriali (gli unici allora disponibili) per via intramuscolare 2. Nel corso degli ultimi 40-50 anni le conoscenze sui meccanismi fisiopatologici e sul trattamento dell’insufficienza cardiaca si sono accresciute continuamente. Il riconoscimento del ruolo svolto dall’attivazione neuro-ormonale in corso di IC, ed in particolare modo di quello svolto dal sistema renina angiotensina aldosterone (RASS) e dal sistema nervoso simpatico ha stimolato una grande mole di studi sperimentali e trial clinici che hanno evidenziato come, sia nell’uomo, sia negli animali, la modulazione di questi sistemi attraverso farmaci quali gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-inibitori) e i β-bloccanti consenta di migliorare la qualità della vita e i tempi di sopravvivenza dei pazienti con IC 3,4,5,6,7,8. D’altro canto altri studi hanno evidenziato come farmaci considerati essenziali in passato per il trattamento dell’IC, come gli inotropo positivi (es. digitale), in realtà possano essere farmaci pericolosi e dannosi se utilizzati nelle terapie a lungo termine 9. Più recentemente, alcuni studi hanno evidenziato l’importanza, nella patogenesi dell’insufficienza cardiaca, di numerosi mediatori chimici dell’infiammazione (Teoria delle citochine), descrivendo una vera e propria sindrome che si manifesta con uno squilibrio fra l’azione delle citochine proinfiammatorie (α-TNF, IL-1, IL-6, ecc.) e delle citochine antiinfiammatorie (IL-10, ecc.) 10. Questi studi hanno evidenziato come nei pazienti affetti da IC i livelli circolanti e tissutali di citochine pro-infiammatorie risultino cronicamente elevati ed in quantità proporzionale alla gravità della sintomatologia e, come questi innalzamenti siano determinati dall’attivazione del RAAS. Sotto questo aspetto appare logico pensare che l’utilizzo di farmaci ACE-inibitori (ACE-i)

possa portare ad una ridotta sintesi di queste citochine proinfiammatorie e che quindi i loro effetti positivi nei pazienti affetti da IC siano da ricercarsi anche in questa loro azione. Di recente scoperta è anche l’azione antiinfiammatoria svolta dagli inibitori della fosfodiesterasi III ed in particolare dal pimobendan 11. Studi in vivo hanno infatti dimostrato che questa molecola diminuisce le lesioni infiammatorie (infiltrati cellulari e necrosi del miocardio) e diminuisce la produzione intracardiaca di IL-1β, IL-6, α-TNF e ossido nitrico (NO). Secondo i lavori effettuati, il pimobendan può essere utile nella terapia dell’insufficienza cardiaca soprattutto per gli effetti di inibizione dei livelli tissutali e plasmatici delle citochine pro-infiammatorie, che contribuiscono in modo significativo alla progressione dell’IC. Altri studi hanno infine dimostrato che la somministrazione a lungo termine di pimobendan determina una diminuzione dei livelli plasmatici di noradrenalina e del peptide natriuretico atriale (ANP). Deve comunque essere ricordato che, al momento attuale, le esperienze cliniche del trattamento dell’IC con pimobendan nel cane sono limitate e, a causa dei suoi potenziali effetti proaritmici, questo farmaco deve ancora essere testato in studi con una più ampia casistica 12. Sebbene le conoscenze concernenti i meccanismi fisiopatologici e le modalità di trattamento dell’IC siano progredite in modo significativo negli ultimi 20 anni, questa condizione continua a rappresentare una delle principali cause di morbidità e di morte sia nell’uomo sia negli animali da compagnia, in particolare nei soggetti anziani. Tuttavia, la disponibilità di nuovi farmaci nonché le aumentate conoscenze dei loro effetti sulla regolazione neuro-ormonale consentono oggi di trattare pazienti con IC grave in modo tale da ridurre la sintomatologia garantendo una adeguata qualità di vita e nell’uomo di prolungare anche le aspettative di vita. Nel cane invece esistono dati ancora contrastanti concernenti la spettanza di vita dei pazienti in terapia per IC. Sotto questo punto di vista appare quindi fondamentale che in futuro si consideri la possibilità di testare le terapie per il trattamento dell’IC attraverso studi multicentrici che permettano di arruolare un numero elevato di pazienti. Data la complessità dei meccanismi fisiopatologici attivati nel corso dell’insufficienza cardiaca la terapia dei pazienti affetti deve essere basata su una associazione di farmaci che permettano di ridurre l’eccessiva ritenzione idrica e modulino l’attivazione neuro-ormonale. In base alle considerazioni sopraesposte la terapia dell’IC nel cane oggi dovrebbe essere basata sulla combinazione di un ACE inibitore, di uno o più diuretici, e nei pazienti in grado di tollerar-


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lo, di un ‚-bloccante. Per quanto concerne il pimobendan esso rappresenta al momento un farmaco molto promettente per il trattamento dei pazienti sintomatici, ma i dati della letteratura sono ancora scarsi per trarre conclusioni definitive al riguardo. Va ricordato comunque che l’ottimizzazione della terapia dell’IC richiede da un lato che ogni paziente affetto sia considerato attentamente come singolo, e dall’altro una conoscenza approfondita dell’azione dei farmaci impiegati, nonché dei meccanismi alla base delle diverse patologie cardiovascolari.

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Indirizzo per la corrispondenza: Michele Borgarelli Dipart. Di Patologia Animale Via Leonardo da Vinci 44 10095 Grugliasco (To) tel. 011 670 9082 fax 011 670 9083 e-mail: michele.borgarelli@unito.it


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L’integrazione dell’omeopatia nella pratica ambulatoriale e ospedaliera per gli animali da compagnia Andrea Brancalion Med Vet, Treviso

Introduzione L’approccio omeopatico al paziente comprende sia la pratica convenzionale (segnalamento, anamnesi, visita clinica, esami eventuali, diagnosi e prognosi) che la pratica non-convenzionale (interrogatorio omeopatico e raccolta dei sintomi modalizzati, repertorizzazione, diagnosi omeopatica, prognosi omeopatica e terapia secondo la Legge di Similitudine, Similia similibus). Tale approccio, dunque, non solo non è riduttivo, ma addirittura aggiunge altri elementi, cosicché non si può parlare di controindicazioni metodologiche ed anzi, le premesse invitano a considerare seriamente gli aspetti integrativi della medicina omeopatica (MO) nella struttura veterinaria. In quest’ottica si ritiene utile tracciare delle linee guida per l’integrazione della MO in ambito ambulatoriale ed ospedaliero, esaminando le varie possibilità applicative.

La MO nelle malattie croniche e nelle malattie infettive a decorso cronico Solitamente, è questo il campo che viene indicato, spesso dall’utenza, ma purtroppo anche da alcuni medici, come “l’ultima spiaggia”, cioè “se non si può fare altro, proviamo con l’omeopatia”. Va precisato che è concettualmente da rifiutare tale significato passivo dell’intervento terapeutico omeopatico, dal momento che, una volta riconosciuta la patologia, non sarà mai con lo spirito di chi “tenta” una terapia il modo coerente di affrontare il problema; questo dovrebbe ovviamente essere chiaro al medico, ma dovrebbe essere reso comprensibile anche all’utente con un’opportuna informazione. Nelle malattie croniche, comprese quelle multifattoriali, di competenza non chirurgica, la MO ha il vantaggio di non aggravare ulteriormente i parenchimi eventualmente già coinvolti, considerando inoltre che i farmaci allopatici possono solo controllare tali patologie da un punto di vista esclusivamente sintomatologico, o palliarle, ma non guarirle, come invece il rimedio omeopatico corretto può riuscire qualche volta a fare. La possibilità della cura effettiva di tali patologie, come dimostra un’esperienza clinica ormai decennale, è dovuta a due principali fattori: il primo, soggettivo, riguarda la reversibilità o meno delle lesioni in organi vitali del soggetto; il secondo, oggettivo, riguarda il medico, la sua preparazione, la sua capacità e possibilità di indagine, non solo clinica ma anche omeopatica. Rispetto a quest’ultimo fattore potremmo affermare con decisione che non è mai la MO a fallire, ma il medico.

Alcuni esempi delle patologie croniche risolvibili con la MO sono il diabete, la sindrome da malassorbimento, le febbri di origine sconosciuta, l’epilessia, ecc.1, 4 Nelle malattie infettive a decorso cronico, si sa come molti soggetti mal sopportino i protocolli terapeutici ufficiali, come avviene spesso a proposito della leishmaniosi del cane8, ma anche nella miriade di casi clinici che colpiscono per la loro irregolarità e, quindi, per la loro peculiare caratteristica di sfuggire ad un logico inquadramento in un modello di evoluzione patologica noto o già descritto. Altri esempi sono le malattie virali del gatto FIV, FELV, FIP2, 3, per le quali il suggerimento ufficiale è solo la possibilità di un sostegno farmacologico ed alimentare.

La MO come correttivo costituzionale Dobbiamo qui considerare due diversi aspetti. Il primo riguarda le richieste specifiche da parte dell’utenza: oggi sempre più persone si affidano alla MO per le loro cure (si calcola che siano circa 9 milioni gli utenti della medicina non-convenzionale) e richiedono lo stesso trattamento per il loro pet. In tali occasioni, se si tratta di una prima visita, che difficilmente dura meno di un’ora, è indicato il consulto per appuntamento, da intendersi come un vero e proprio intervento specialistico, allo scopo di ricercare il rimedio costituzionale del paziente che, nel linguaggio omeopatico, viene comunemente identificato come simillimum. Se invece si tratta di una visita di controllo, molto più breve della prima, l’operatività può rientrare nella normale routine ambulatoriale. Il secondo aspetto riguarda i casi di difetto costituzionale del paziente, quindi di risposte inattese ai protocolli terapeutici o profilattici standard, alle lacune lasciate dalla super-specializzazione, alla mancanza di una terapia specifica o all’impossibilità di attuarla nel caso sia conosciuta (per es. quando l’utente non accetta i costi elevati di certe prestazioni). La MO dovrebbe essere qui considerata come “arma” supplementare a disposizione della struttura per risolvere situazioni che non possono altrimenti trovare sbocco. Dovremmo pensare a quei disturbi provocati, dalle vaccinazioni, alle quali non si vuole rinunciare, che possono essere prevenuti con un opportuno trattamento con il rimedio omeopatico costituzionale del soggetto; oppure dalle intolleranze alimentari, che a volte è troppo difficile e costoso indagare e che quasi magicamente non si presentano più dopo aver agito sul “terreno” predisposto; oppure dai farmaci, pur necessari, ma mal tollerati o non tollerati affatto, che vengono “antido-


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tati” meravigliosamente grazie al suggerimento costituito dagli stessi disturbi che hanno indotto nel paziente.

grave, viene concessa una dilatazione, spesso insperata, del tempo a disposizione dei medici per superare le fasi critiche.

Il rapporto della MO con la chirurgia e la medicina d’urgenza

Conclusioni

La chirurgia rappresenta un altro interessante aspetto circa l’integrazione della MO nella struttura veterinaria. Negli interventi di tipo ortopedico5, la riabilitazione postchirurgica può risultare estremamente più rapida; in particolare, risulta particolarmente efficace in quei casi in cui i tragitti nervosi sono stati offesi dal trauma precedente l’intervento o dall’intervento stesso e potremmo riferirci, per esempio, alla paresi del nervo radiale, o a quella dello sciatico, o a quella totale del treno posteriore a seguito di trauma della colonna o di ernia discale e conseguente laminectomia, o alla paresi degli sfinteri a seguito di trauma o di intervento in regione paranale o perineale. Molti e utilissimi rimedi abbiamo a disposizione per queste condizioni post-traumatiche. Ancora, abbiamo potuto constatare come si riesca ad agire positivamente sulla canalizzazione ed il recupero della funzione alimentare dopo un intervento sul tratto gastro-intestinale e sappiamo quanto importante sia risolvere precocemente questi tipi di problemi, che altrimenti costringono al prolungamento del ricovero del paziente e della relativa operatività. Sorprendenti risultati si ottengono anche nel controllo della coagulazione in un animale il cui profilo sia risultato alterato all’analisi pre-operatoria o che presenti problematiche nel postchirurgico: il sostegno del rimedio omeopatico corretto, a seconda della modalità dell’emorragia, se venosa o arteriosa, e della sua eziologia, quando le misure atte a garantire l’emostasi non risultano sufficienti, a volte, equivale alla vita del paziente. Molti esempi si potrebbero ancora citare, ma non si può non sottolineare quanto vantaggio si possa ottenere con la MO anche in campo anestesiologico, proprio per la rapidità d’azione che certi rimedi hanno nella rianimazione, molte volte superiore a quella dei farmaci ufficiali, e nell’antidotare gli effetti indesiderati degli anestetici in soggetti ipersensibili. Il problema di avere un antidoto per ogni farmaco impiegato è un ideale da sempre, soprattutto in campo anestesiologico ma, farmacologicamente parlando, può essere risolto solo parzialmente, mentre con la sinergia del rimedio indicato si amplificano enormemente le possibilità. Non ultima per importanza l’integrazione della MO in sede di medicina d’urgenza e pronto soccorso dove con i rimedi, a volte da soli, a volte in azione combinata a quella dei farmaci previsti dai protocolli ufficiali, si possono registrare successi rapidi ed inattesi. Risulta difficile pensare di poter allestire in fretta una terapia omeopatica in queste situazioni eppure, paradossalmente, per il medico preparato i sintomi del paziente in urgenza sono spesso molto più chiari ed indicativi dei sintomi di un paziente qualsiasi ed il rimedio salta all’occhio nei primi brevi istanti dell’esame obiettivo. Se c’è un omeopata in pronto soccorso, la somministrazione del rimedio omeopatico avviene quasi sempre prima di ogni altra operazione sul paziente, quasi immediatamente, ed i vantaggi, in caso di efficacia della terapia, non sono pochi: la stabilizzazione che si ottiene, se non ci sono lesioni importanti, spesso è duratura e definitiva, mentre se il caso è

Tutte le possibilità per le quali, a nostro avviso, la MO assume significato di specializzazione, sono in realtà già state evidenziate in molti ospedali e cliniche per l’uomo fin dagli albori dell’omeopatia, ma sono state dimenticate o accantonate, in parte, con l’affermarsi prepotente delle molecole di sintesi e con l’instaurarsi di una medicina che tende a parcellizzare sempre più il paziente. Non è obbligatorio fare omeopatia ma, se si fa, occorre essere in grado di farla con scienza e coscienza ed il suo studio è impegnativo e difficile, come lo studio di altre discipline cosiddette “ufficiali”. Anche per essa, come atto medico a tutti gli effetti, non dovrebbero essere ammesse improvvisazioni autodidattiche per ovvi motivi di correttezza professionale e deontologica, mentre invece, grazie anche al disinteresse della maggior parte della Comunità Scientifica, rimane ancora preda di superficialità e spoglia di quell’aura di dignità che a nostro avviso merita. Speriamo sia vicino il giorno in cui pronunciare la parola “omeopatia” non ci faccia il più delle volte passare per medici estrosi ed un po’ sui generis o, peggio ancora, bersaglio di equivoci servizi televisivi, ma ci identifichi come semplici ed onesti professionisti. La grande opportunità offerta oggi al veterinario omeopata è quella di confermare l’efficacia della MO in virtù della maggiore libertà d’azione di cui ancora gode rispetto al medico in campo umano e fungere da traino per una medicina integrata più rispettosa di ogni essere vivente.

Bibliografia 1. 2. 3.

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Indirizzo per la corrispondenza: Dott. Andrea Brancalion - Medico Veterinario Via L. Sartorio, 3 - 31100 Treviso Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica “Dott. Rita Zanchi” - Cortona (AR) Ospedale Veterinario “S. Francesco” - Castagnole (TV) Direttore della Sezione Omeopatica


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Cure neonatali Sandra Brau Med Vet, Maisons-Alfort, Francia

Esistono numerose definizioni del periodo neonatale. Secondo gli studiosi del comportamento il periodo neonatale corrisponde ai primi 15 giorni di vita (pressappoco fino all’apertura delle palpebre e delle orecchie). Per i fisiologi si prolunga fino allo svezzamento. Questa definizione si basa sulle caratteristiche di immaturità fisiologica del cucciolo con meno di sei settimane. Rispetto ad altre specie (puledro, vitello) il cucciolo alla nascita presenta una immaturità fisiologica che lo rende particolarmente vulnerabile. Per immaturità si intende: • immaturità epatica (incompetenza dei sistemi enzimatici e gluconeogenesi ridotta) • immaturità renale (filtrazione glomerulare e secrezione tubulare ridotta) • incompetenza immunologica • immaturità della barriera cutanea • immaturità cardiovascolare La mortalità neonatale è piuttosto rilevante, sopratutto negli allevamenti dove c’è un numero elevato di soggetti. Nonostante il fatto che il momento con massimo rischio sia quello delle 48 ore dopo il parto anche i primi 15 giorni rappresentano un periodo critico. Daltronde alcuni cuccioli con difficoltà iniziali, debilitati, sono più soggetti alle infezioni nel periodo dello svezzamento, che costituisce il secondo periodo critico. Distinguiamo le cause principali di mortalità neonatale in cause non infettive e cause infettive.

CAUSE NON INFETTIVE 1-Cause non infettive legate all’immaturità del cucciolo 1-1 Ipossia L’ipossia è legata al fatto che durante la vita fetale il polmone non è funzionale e gli scambi gassosi avvengono tramite la placenta. Prima del parto si instaura una ipossia causata dalle contrazioni uterine che determinano uno scollamento della placenta e durante il passaggio del cucciolo nel canale del parto si ha uno schiacciamento del cordone ombelicale con conseguente apnea. Questo comporta una diminuizione del ph sanguigno, della tensione di ossigeno e un aumento della CO2, che nell’insieme agiscono sul centro della respirazione stimolando il primo atto respiratorio. In caso di espulsione prolungata (atonia uterina) o nel caso in cui la cagna non apra gli invogli fetali il cucciolo inspira

liquidi con conseguente instaurarsi di uno stato di ipossia che può portare a morte nel caso in cui non si intervenga tempestivamente. Il trattamento consiste nella liberazione delle vie respiratorie, nell’utilizzo dell’ossigeno ed eventualmente nell’uso di analettici respiratori.

1-2 Ipotermia L’ipotermia è dovuta principalmente alla scarsità di tessuto adiposo, assenza di vasocostrizione periferica e alla superficie corporea troppo estesa rispetto al peso, il che determina una eccessiva dispersione di calore. L’ipotermia è limitata in caso di cucciolate numerose. La temperatura normale del cucciolo alla nascita è di 32°-33° C, aumenta fino a 34°-35° C nelle ore successive. Temperature inferiori a 34° C causano una diminuizione del riflesso di suzione con il rischio di false deglutizioni, rallentamento della funzionalità digestiva con mancata eliminazione del meconio e stasi del latte nello stomaco. Per evitare l’ipotemia occorre controllare la temperatura ambientale che deve essere di 30°-32° C nelle prime 24 ore, 28° C la prima settimana, 26° C la seconda e 24°-25° C nelle settimane che seguono. Il trattamento di un cucciolo ipotermico consiste nel riscaldarlo gradualmente (1-3 ore) tramite borse d’acqua calda, lampada ir o l’incubatrice.

1-3 Disidratazione Il cucciolo neonato è molto sensibile alla disidratazione, in quanto l’acqua costituisce l’80% del suo peso corporeo, lo strato cheratinizzato dell’epidermide è quasi assente ed è presente una immaturità renale. Infatti alla nascita il rene fetale deve subire ancora tre fasi di sviluppo prima di acquisire le caratteristiche di un rene adulto. L’urina è trasparente come l’acqua (ps 1,006) poiché il rene non è in grado di concentrarla. Una delle cause della disidratazione a parte una patologia in corso è spesso l’uso di lampade infrarossi da parte dell’allevatore ad una distanza ravvicinata. Al fine di limitare la disidratazione occorre regolare l’umidità dell’ambiente che deve essere intorno al 55-65% ed è importante non superare questo valore in quanto si creerebbe un ambiente favorevole alla moltiplicazione batterica.

1-4 Ipoglicemia Sempre legata all’immaturità fisiologica il cucciolo va spesso incontro a episodi di ipoglicemia. Questo è dovuto all’immaturità dei meccanismi di controllo della glicemia, dell’insufficiente gluconeogenesi epatica e delle basse riserve in glicogeno. Il cervello del cucciolo ha elevate necessità di


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glucosio perciò una ipoglicemia potrebbe causare dei danni cerebrali non indifferenti. Tra le cause dell’ipoglicemia a parte un digiuno prolungato c’è l’ipotermia in quanto il cucciolo utilizza le sue riserve energetiche per combattere il freddo. Il substrato glucidico è all’inizio di origine epatica e in seguito proviene dalla componente grassa del colostro perciò la sua assunzione è fondamentale.

2-Legate alla madre Certe cagne soprattutto le primipare non si occupano dei loro cuccioli alla nascita. Non liberano il piccolo dalla placenta perciò il cucciolo muore di anossia. Altre se ne occupano fin troppo, infatti può succedere che al momento della recisione del cordone provochino delle ernie ombelicali o asportino l’integrità del cordone e addiritura la vescica (che in periodo neonatale si trova nella regione ombelicale subito sotto la parete addominale) portando a morte l’animale nei primi giorni di vita. L’agalassia o ipogalassia è una causa di mortalità neonatale se non si passa all’alimentazione artificiale e si ha soprattutto in seguito a un cesareo (frequente nel bulldog). La malnutrizione della cagna durante la gestazione può dare la nascita di cuccioli più piccoli della norma che vanno incontro a ritardi di crescita. Traumi come lo schiacciamento, il leccamento in situazione di stress che hanno tendenza anche a spostare in continuazione i loro piccoli.

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1-2 Onfalite È l’infiammazione del cordone ombelicale causata da batteri che contaminano il cucciolo durante il taglio del cordone da parte della cagna se questa presenta del tartaro per esempio, oppure provenienti dall’ambiente esterno facilitato dal fatto che i cuccioli nei primi giorni di vita sono a stretto contatto con il suolo. Sia la sindrome del latte tossico che l’onfalite se non trattate in tempi brevi possono dare origine a una setticemia e morte dell’animale non dotato ancora di un sistema immunitario in grado di reagire adeguatamente.

2-Virali L’incidenza delle malattie virali durante il periodo neonatale è molto limitata grazie alla protezione passiva materna (nelle cagne correttamente vaccinate) perciò le malattie virali si manifestano piuttosto dopo lo svezzamento che nei neonati.

2-1-Herpesvirus L’herpesvirus presenta oltre a un tropismo genitale e respiratorio un alto potere patogeno per il cucciolo neonato per la sua ipotermia in quanto si replica preferenzialmente a temperature inferiori a 37°C dando mortalità nelle prime 48h di vita.

Bibliografia 1.

3-Cause congenite Alcune facilmente visibili come la palatoschisi, l’idrocefalia, l’imperforazione dell’ano, la sindrome del cucciolo nuotatore… altre praticamente non identificabli nel neonato e non tutte danno mortalità.

2. 3.

4. 5;

CAUSE INFETTIVE: BATTERICHE E VIRALI 1-Batteriche 1-2 “Syndrome del latte tossico” In seguito a metriti o mastiti di origine batterica (E. Coli, streptococchi, stafilococchi) il cucciolo può andare incontro a una diarrea profusa, disidratazione, perdita di peso e morte.

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Indirizzo per la corrispondenza: Sandra Brau sbrau@vet-alfort.fr


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Anestesia e idratazione nei cheloni? Non più un problema Leonardo Brunetti Med Vet, Pistoia

Introduzione In tanti anni di esperienza nella chirurgia dei cheloni ho maturato in modo sempre maggiore l’esigenza di disporre di un’anestesia sicura, efficace, ma soprattutto di facile somministrazione e, se necessario ripetibile, da usare anche per il mantenimento in quelle specie, mi riferisco ai cheloni terrestri, per i quali la somministrazione di un anestetico gassoso è complicata dalla vicinanza della biforcazione tracheale alla laringe (il rischio è, infatti, quello di intubare un solo bronco; è superfluo dire, inoltre, che la capacità di questi animali di trattenere il respiro anche per ore rende totalmente inutile l’uso di una maschera). Per raggiungere tale scopo è necessario un farmaco dalla breve durata e dalla rapida clearance, che sopperisca il più possibile alla lentezza con cui i rettili metabolizzano tutti i farmaci, anestetici compresi. Se, da un lato, il diffondersi dell’uso del propofol nella pratica anestesiologica veterinaria ha messo a disposizione anche dei veterinari di animali esotici un farmaco dalle notevoli potenzialità, in special modo per i rettili, dall’altro lato credo che tale potenzialità rischi spesso di rimanere inespressa per quell’unica limitazione legata al fatto che l’anestetico in questione deve necessariamente essere somministrato per via endovenosa, a volte in più dosi ripetute, ad effetto, limitazione presente paradossalmente soprattutto per i rettili ed in particolar modo per i cheloni. Infatti la scarsa accessibilità delle vene in tali specie costringe spesso non solo i colleghi inesperti a ripiegare sulla “vecchia” ketamina per via intramuscolare, oppure ad eseguire un’anestesia incompleta con il solo bolo di propofol somministrato in vena grazie ad un colpo di fortuna purtroppo non ripetibile. Senza avere la pretesa di giudicare tutta la letteratura sull’argomento, devo affermare che almeno nei testi principali di medicina e chirurgia dei cheloni la via intraossea, quando considerata, è stata sempre relegata agli ultimi posti fra le possibili scelte di somministrazione di farmaci, classicamente rappresentate dalle vene giugulari, dal plesso ascellare e cervicale e dalla vena caudale dorsale. Nell’ambito della scelta di usare la via intraossea, consigliata dai maggiori autori principalmente per l’infusione continua di fluidi, la sede d’elezione raccomandata è sempre stata il canale midollare della tibia o del femore, in analogia con i sauri. È intuitivo come tale indicazione per la fluidoterapia risieda nella stabilità del catetere, che può essere tenuto in sede anche per qualche giorno, ma presuppone che l’animale sia fortemente debilitato o già sedato/anestetizzato perché si riesca ad accedere agevolmente al canale midollare della ti-

bia o del femore; va inoltre aggiunto che per dimensioni, spessore della cute, del canale midollare e della corticale dell’osso, esiste grandissima differenza fra l’arto posteriore di un sauro e quello di un chelone. Se però pensiamo alla corazza come a qualcosa di vivo, quale è immediatamente sotto lo strato corneo, non è difficile renderci conto che abbiamo a disposizione una valida e più semplice alternativa al piantare un ago spinale nell’osso di un arto obbligandolo a condividerne necessariamente tutti i movimenti, le pressioni e le trazioni: l’alternativa è rappresentata dal tessuto osseo sottostante lo strato corneo della corazza. In questo lavoro cercherò di esporre nel modo più chiaro possibile come sia semplice e rapido, con un minimo di attrezzatura, accedere al comparto venoso di un chelone attraverso tale via.

Richiami di anatomia e istologia La corazza, caratteristica distintiva di tutti i cheloni, si compone di una parte dorsale, il carapace, ed una ventrale, il piastrone. La porzione che collega le due parti prende il nome di ponte. Ciascuna parte, in sezione, deriva dalla sovrapposizione di due strati: uno più esterno di natura cornea e uno interno, osseo, frutto della modificazione delle vertebre, delle coste, del cinto scapolare e pelvico, nonché della deposizione di matrice ossea da parte degli osteodermi, cellule derivate dal tessuto dermico. La corazza ossea è suddivisa in placche ossee unite fra loro dalle suture, mentre le placche che compongono lo strato corneo si chiamano scuti o scudi sono anch’essi uniti da suture mai sovrapposte tuttavia a quelle delle placche ossee sottostanti. Gli scuti hanno varia forma e disposizione secondo la sede. Nella specie Testudo distinguiamo: nel carapace: - s. vertebrali o centrali (5) - s. costali o laterali (4 paia) - s. marginali (numero variabile) - s. nucale - s. sopracaudali (2) nel piastrone: - s. gulari (2) - s. omerali (2) - s. pettorali (2) - s. addominali (2) - s. femorali (2) - s. anali (2)


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Cenni sul propofol È un derivato fenolico commercializzato in un’emulsione acquosa al 1%, di colore bianco latte, composta da 2,6 diisopropilfenolo (10 mg/ml), olio di soia (100 mg/ml), lecitina di soia (12 mg/ml), glicerolo (2,5 mg/ml) e idrossido di sodio come tampone. Peculiari caratteristiche dell’anestesia con P. sono, come noto, la rapida insorgenza, la breve durata ed il rapido e dolce risveglio del paziente. È attualmente considerato il farmaco d’elezione per l’induzione dell’anestesia nei rettili, con i limiti cui si è già accennato precedentemente. Molti autori consigliano la ventilazione intermittente a pressione positiva (IPPV) previa introduzione di un tubo endotracheale subito dopo l’induzione, ed il mantenimento con isofluorano. La metodica di somministrazione da noi sperimentata lo propone come farmaco utilizzabile anche per il mantenimento dell’anestesia nei cheloni.

Anestesia nei rettili: generalità Indipendentemente dal protocollo scelto, anche per l’anestesia di questi animali esistono ovviamente delle regole che andranno osservate sempre e che qui di seguito ricorderemo: 1. Prevenire, per quanto possibile, e trattare l’ipotermia prima, durante e dopo l’intervento (nei cheloni anche per le 24 ore successive), riscaldando in primo luogo l’ambiente dove si opera, immergendo il paziente in una vasca con qualche cm di acqua tiepida prima dell’intervento (procedura utile anche per correggere lievi stati di disidratazione) e quindi la superficie dove esso sarà collocato con tappetini riscaldati, che tuttavia non andranno mai posti a contatto diretto con il corpo dell’animale. 2. Correggere l’eventuale disidratazione del soggetto e prevenire l’ipovolemia con cateteri intraossei (vedi oltre). 3. Provvedere al monitoraggio continuo dell’attività cardiaca, con ECG o doppler, della temperatura corporea con sonde rettali e della respirazione.

Idratazione Il fabbisogno giornaliero di fluidi in un rettile è stimato da 15 a 30 ml/kg/24 ore; possiamo somministrare, secondo Divers: • Due parti di soluzione destrosio 2,5% e NaCl 0,45%, una parte di RLS (soluzione ringer lattato) o soluzione elettrolitica equivalente; oppure • Una parte di soluzione destrosio 5% e NaCl 0,9%, una parte RLS, una parte acqua per preparazioni iniettabili; oppure • Nove parti NaCl 0,9%, una parte acqua per preparazioni iniettabili; oppure • Soluzione 0,18% NaCl e 4% glucosio. Qualsiasi tipo di fluido si decida di infondere andrà somministrato ad una temperatura compresa fra i 25° ed i 35°C. La velocità d’infusione e/v o i/o sarà compresa fra 0,8 e 1,2 ml/kg/h per la reidratazione, mentre in caso di shock, grave disidratazione o durante la chirurgia può aumentare anche a 5 ml/kg/h per un massimo di tre ore.

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ANESTESIA E IDRATAZIONE INTRAOSSEA NEI CHELONI Materiali 1. Trapano elettrico o pneumatico con punta da 1 mm 2. Cannula metallica modificata con manico, mandrino ed ostio a becco di clarino Ø 2 mm 3. Sol. fisiologica 4. Siringa 2,5-5 ml 5. Propofol

Tecnica La procedura consiste nel praticare un piccolo foro d’invito in particolari punti del piastrone con il trapano, quindi nell’introdurre la cannula metallica fino allo spazio midollare/spongiosa dell’osso posto sotto lo strato corneo per somministrare l’anestetico, non prima, ovviamente, di aver verificato il reale raggiungimento di tale comparto: la fuoriuscita di una goccia di sangue all’estrazione della punta di trapano ci potrà mettere sulla buona strada, che accerteremo definitivamente posizionando il catetere, sfilando il mandrino e provando ad inoculare una piccola quantità di sol. fisiologica, cosa che dovrà avvenire con una modica resistenza della siringa e senza dispersione di liquido. Una resistenza eccessiva o totale indicherà che non abbiamo raggiunto l’osso spongioso (e siamo quindi ancora nella corticale), oppure che il foro d’invito è ostruito (e in tal caso potremmo provare ad aprirlo con un lavaggio); una resistenza minima o nulla dovrà al contrario farci sospettare di aver raggiunto del tessuto molle o una cavità del corpo, nel qual caso riproveremo in un altro punto e/o con una diversa angolazione. Punto cruciale per l’intero procedimento è l’individuazione della sede di trapanazione nella corazza del soggetto: osservando sezioni praticate su cadaveri congelati di Testudo spp. possiamo facilmente renderci conto che lo spessore dello strato osseo nel piastrone è maggiore che nel carapace, quindi la sede d’elezione sarà rappresentata da quei punti in cui il piastrone è più spesso ed insieme più facilmente perforabile tangenzialmente con il minimo rischio di raggiungere organi o vasi sovrastanti. Tale punto ho riscontrato essere situato a livello della porzione craniale delle placche gulari del piastrone. Nei cheloni acquatici, come ad esempio Trachemys spp., il concetto sopra esposto non è assoluto, ed è possibile che s’incontri maggiore osso spongioso perforando tangenzialmente il ponte nella sua porzione più caudale, le placche femorali o quelle anali. Il propofol può essere somministrato con relativa sicurezza in boli iniziali che vanno da 14 a 30 mg/kg, per ottenere una narcosi completa la cui durata può variare dai 10 ai 60 minuti.

Indirizzo per la corrispondenza: Leonardo Brunetti, Clinica Veterinaria Brunetti-Stroscio Via Bonellina, 236, 51100 Pistoia Tel. e fax: 0573-382344 - E-mail: leonbru@clivet.191.it


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Anestesia nel paziente pediatrico Antonello Bufalari Med Vet, PhD, Perugia

Enrico Bellezza, Med Vet, Perugia

Antonio Di Meo, Med Vet, Perugia

Introduzione Per paziente neonatale si considerano animali fino a 4 settimane di vita, mentre per pediatrico si intendono animali fino a 12 settimane. Questi soggetti, oltre a presentare dimensioni ridotte, sono anche caratterizzati da immaturità della maggior parte dei sistemi organici che ha un effetto significativo sulla capacità di mantenere una adeguata omeostasi nel periodo peri- e post-operatorio.

Differenze fisiologiche Apparato cardiocircolatorio: Il muscolo cardiaco dei pazienti pediatrici ha una minore massa cardiaca contrattile ed una inferiore distensibilità ventricolare, pertanto il volume sistolico è fisso e si ha una inferiore riserva cardiaca. Questo implica che la gittata cardiaca è in gran parte legata alla frequenza cardiaca che, in corso di anestesia, dovrebbe essere sempre mantenuta su livelli vicini a quelli normali. Nel pediatrico, inoltre, la perdita di ridotte quantità di sangue (5-10 ml/kg), può provocare una significativa anemia (Hosgood, 1998) dato che i livelli di emoglobina sono particolarmente bassi (8-9 gr/dl) (Tab. 1). Apparato respiratorio: Il paziente pediatrico ha una richiesta di ossigeno 2-3 volte superiore a quella dell’adulto con frequenze respiratorie particolarmente elevate (Tab. 1). La risposta all’ipossia appare ridotta, ciò denota una attenuata sensibilità dei chemorecettori periferici. Gli alveoli sono ancora di piccole dimensioni e hanno una minore capa-

Tabella 1 Principali parametri del paziente pediatrico (Seymour C., Gleed R, 1999) Parametri Temperatura °C

Valori Normali 35,4-36

Frequenza cardiaca (battiti/minuto)

Oltre 200

Frequenza respiratoria (atti/minuto)

20-35

Pressione sanguigna (mmHg): Sistolica Diastolica Media

70 45 60

Flavia Attili, Med Vet, Avezzano (AQ)

cità funzionale residua (FRC) e una ridotta distensibilità che si associa ad una parete toracica maggiormente estensibile (Hosgood, 1998). Sistema epato-renale: I sistemi enzimatici epatici sono funzionalmente immaturi alla nascita e rimangono inadeguati nelle prime 4 settimane mentre la piena funzionalità si raggiunge solo verso le 5-8 settimane (Hosgood, 1998). Anche la funzionalità renale è incompleta prima della terza settimana, e le capacità di concentrazione e diluizione sono inferiori a quelle dell’adulto (Poffenbarger, 1990). Infatti, l’escrezione renale dei farmaci, è alterata, dal momento che la capacità di filtrazione glomerulare è completamente matura solo tra la II e la III settimana, mentre quella di secrezione tubulare tra la IV e l’VIII. Sistema metabolico: Rispetto agli adulti, i pediatrici hanno una minore riserva d’acqua intracellulare, un maggior rapporto tra superficie e peso corporeo, un’energia relativa ed un fabbisogno di liquidi superiore. La più ampia superficie corporea comporta una maggiore perdita di calore per irradiazione ed evaporazione, richiedendo una più intensa produzione di calore ed un superiore consumo d’acqua rispetto. Ne consegue un maggior fabbisogno di liquidi rispetto all’adulto e non bisogna privarli d’acqua per tempi superiori ad un’ora prima dell’intervento, né di alimento. Sistema termoregolatore: I soggetti pediatrici sono particolarmente sensibili alle condizioni di ipotermia a causa dell’immaturità del sistema termoregolatore, della minor capacità di tremare e dell’esiguità del grasso sottocutaneo (Hosgood, 1998). L’ipotermia è causa di bradicardia la quale riduce la gittata cardiaca, induce ipotensione e prolungamento del risveglio per rallentata eliminazione dell’anestetico (Hosgood, 1998).

Considerazioni preoperatorie La visita preanestetica riveste un ruolo primario per un corretto approccio all’anestesia del paziente pediatrico. È quindi importante sapere che i valori normali dei principali parametri nei giovani sono sensibilmente differenti da quelli degli adulti (Tab. 1).

Premedicazione In molti casi, la premedicazione con agenti sedativi in animali con meno di 12 settimane può non essere necessaria.


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Per motivi di spazio nella stesura dei proceedings questa parte sarà trattata più ampiamente in sede di presentazione. Anticolinergici: La preponderanza del sistema nervoso parasimpatico, predispone i pazienti pediatrici alla bradicardia e dato che la gittata cardiaca è dipendente dalla frequenza cardiaca, la somministrazione di un anticolinergico (atropina 0,02-0,04 mg/kg, IM, EV) è sempre raccomandata quando sono usati agenti anestetici (Hosgood, 1998). Tranquillanti/sedativi: Le benzodiazepine (diazepam 0,2-0,4 mg /kg EV; e midazolam 0,1-0,2 mg/kg, IM, EV), sono i sedativi di scelta nel pediatrico in quanto producono un buon rilassamento muscolare con minima depressione del sistema cardiovascolare. L’acepromazina, anche a basse dosi (30-50 µg/kg, IM) può causare una depressione pronunciata e prolungata del sistema nervoso centrale nei giovani che presentano una funzione epatica immatura. Essendo un ottimo vasodilatatore periferico, causa ipotensione e potenzia l’ipotermia peri- e post-operatoria. Sedativi/analgesici: Gli α2-adrenocettori agonisti (medetomidina 3-10 µg/kg, IM, EV) garantiscono miorilassamento, analgesia e sedazione, ma causano depressione del sistema cardiocircolatorio caratterizzata da bradicardia, riduzione della gettata sistolica e ipotensione. Il concomitante uso di un anticolinergico è quanto meno consigliato. Metabolizzati a livello epatico, non sono raccomandati in animali al di sotto delle 8 settimane (Hosgood, 1998). Oppiacei: La bradicardia è un effetto collaterale possibile dopo somministrazione degli oppiacei. La buprenorfina (10-15 µg/kg, IM) o il butorfanolo (0,2-0,4 mg/kg, IM, EV) procurano moderata analgesia, buona sedazione e minima depressione cardiopolmonare (Seymour, 2003). Quando sono usati gli oppiacei agonisti puri (morfina 0,1-0,2 mg/kg, IM; fentanil, 2-4 µg/kg, IM, EV), che sono tra i più potenti agenti analgesici oggi disponibili, è buona norma attuare un attento monitoraggio della funzione respiratoria e intervenire con una ventilazione assistita/controllata qualora si verificasse una ridotta ventilazione alveolare.

Induzione L’induzione con maschera è il metodo di scelta negli animali che hanno meno di 8 settimane o che pesano meno di 2-3 kg. L’induzione con un anestetico intravenoso, è da preferire per gli animali con sofferenza respiratoria (problemi respiratori, ernia diaframmatica, etc.) o quando si voglia ottenere un rapido controllo delle vie aeree. Anestetici iniettabili: Il tiopentone (4-6 mg/kg, EV) ha un’azione ultrabreve, privo di azione analgesica, che deve essere impiegato solo per la fase d’induzione in soggetti in buone condizioni cliniche e, comunque, di età superiore alle 8 settimane per evitare che l’incompleta funzionalità epatica prolunghi la durata d’azione e ritardi il risveglio (Hosgood, 1998). Il Propofol (2-4 mg/kg, EV) è un agente anestetico intravenoso a breve azione, che può essere usato per l’induzione od il mantenimento dell’anestesia. La depressione respiratoria e l’ipotensione sono due dei maggiori effetti che si possono riscontrare dopo la sua somministrazione. La somministrazione lenta (30-40 sec) riduce il rischio di apnea.

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Ai dosaggi raccomandati, la ketamina (1-2 mg/kg EV; 510 mg/kg, IM) non compromette le funzioni cardiopolmonari. La durata degli effetti dipende, nel gatto, prevalentemente dalla capacità emuntoria renale e, nel cane, dalla degradazione epatica, pertanto la ketamina deve essere usata con cautela al di sotto delle 6-8 settimane. Dosi addizionali dovrebbero essere evitate, a causa dei fenomeni di accumulo che comportano ricoveri prolungati. Il riflesso laringeo è solo parzialmente abolito durante l’anestesia dissociativa, mentre può ancora verificarsi l’aspirazione di materiale rigurgitato, pertanto l’intubazione endotracheale è sempre raccomandata (Hosgood, 1998). Anestetici inalatori: L’induzione anestetica con agenti inalatori ha molteplici vantaggi rispetto a quella iniettabile e rimane la metodica da preferire nel paziente pediatrico. Alotano, isoflurano e sevoflurano sono gli agenti normalmente impiegati a questo scopo. L’isofluorano è potenzialmente meno ipotensivo dell’alotano e subisce solo un minimo metabolismo epatico. L’alotano più potente e meno irritante per le vie aeree dell’isoflurano, può, però, favorire l’insorgenza di aritmie cardiache ed ha una quota di metabolizzazione maggiore. Il sevoflurano è al momento da considerarsi l’agente inalatorio di prima scelta in pediatria veterinaria.

Metodiche di intubazione Quando possibile, tutti i pazienti pediatrici dovrebbero avere la possibilità di essere intubati per via orotracheale adottando queste accortezze: 1) impiegare tracheotubi trasparenti e morbidi con cuffia a bassa resistenza e alto volume; 2) Il diametro del tracheotubo dovrebbe avere il maggior diametro possibile al fine di ridurre la resistenza respiratoria e la possibilità di ostruzione da parte delle secrezioni; 3) i tessuti faringeo e laringeo sono alquanto delicati e particolari attenzioni devono essere poste durante l’inserimento del tracheotubo. Un’intubazione difficile o traumatica può risultare in edema laringeo e ostruzione postoperatoria delle vie aeree [(consigliabile l’uso di metilprednisolone (20-30 mg/kg)]; 4) evitare l’impiego di tracheotubi troppo lunghi (accorciarli) per non aumentare eccessivamente lo spazio morto strutturale e la quota di gas esalato rirespirato. Se l’intubazione orotracheale fosse impraticabile, l’anestesia inalatoria può essere attuata con maschere di piccole dimensioni, trasparenti ed aderenti per minimizzare lo spazio morto, consentire la visualizzazione delle mucose ed evitare il diffondersi del gas nell’ambiente.

Scelta del circuito anestetico e metodiche di ventilazione Nei soggetti pediatrici di peso inferiore a 6-8 kg, i sistemi semiaperti (Magill C, Bain, T di Ayre modificato da Jackson-Rees, etc.) sono da preferire in ventilazione spontanea in quanto consentono di ridurre la resistenza ed il lavoro respiratorio. Un flusso di ossigeno elevato (200-300 ml/kg/min) evita la rirespirazione dei gas esausti. Questo alto flusso di ossigeno, però, contribuisce in modo significativo all’ipotermia e alla perdita di vapore acqueo e quindi di fluidi corporei. La possibilità di riscaldare i tubi e il pallone respiratorio


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con materassini termici o borse d’acqua calda può contribuire a ridurre il grado di ipotermia. Per i pazienti che pesano oltre i 9-10 kg può essere usato anche un sistema circolare di tipo pediatrico con i tubi più corti e di diametro minore (1214 mm). Questi sistemi impiegano flussi di ossigeno con un range compreso tra 30-80 ml/kg/min e riducono la perdita di calore e vapore acqueo. La ventilazione controllata (manuale o meccanica) garantisce un’adeguata ventilazione e ossigenazione nei soggetti al di sotto delle 8-10 settimane. La ventilazione controllata deve prevedere pressioni non inferiori a 12-15 cm H2O ma non superiori a 18-20 cm H2O. Per motivi di spazio nella stesura degli Atti, le considerazioni sull’analgesia, il supporto perioperatorio, il monitoraggio clinico e strumentale, nonché il risveglio, saranno trattati in sede di presentazione.

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Bibliogrfia 1. 2. 3.

4.

Grandy JL, Dunlop CI, (1991), Anesthesia of pups and kittens, JAVMA, 198: 1244-1249. Hosgood G, Hoskins JD, (1998), Small animal paediatric medicine and surgery, Butterworth-Heinemann, Oxford. Poffenbarger EM, Olson PN, et al., (1990) Canine neonatology. Part I. Physiologic differences between puppies and adults.” Comp Cont Educ Practicing Veterinarian, 12: 1601-1609. Seymour C, Gleed R, (2003), Anestesia e Analgesia. UTET, Torino.

Indirizzo per la corrispondenza: Antonello Bufalari Sezione di Clinica Chirurgica, Università di Perugia Via S. Costanzo, 4 - 06126, Perugia


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Diagnostica per immagini in corso di neoplasie cardiache nel cane Claudio Bussadori Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Med Chir, Milano

Sebbene le neoplasie cardiache non siano patologie di frequente riscontro, è importante conoscerne le caratteristiche (localizzazione più frequente, aspetto ecografico, sede delle possibili metastasi) ai fini prognostici ed, eventualmente, terapeutici (chemioterapia o terapia chirurgica). Nell’uomo, si riscontrano più frequentemente tumori cardiaci benigni (69-98,6%) rispetto a quelli maligni: il mixoma rappresenta il 36,5-97% delle neoplasie cardiache. Nel cane riscontriamo con maggiore frequenza: emangiosarcoma, chemodectoma, carcinoma ectopico della tiroide, mesotelioma pericardico. È stata osservata una predisposizione di razza nella maggior parte di tali neoplasie: ad esempio il chemodectoma è più comunemente osservato in soggetti di razze brachicefaliche, l’emangiosarcoma nel pastore tedesco, ecc. L’impiego della diagnostica per immagine ha considerevolmente incrementato la possibilità di identificare e localizzare i tumori cardiaci. Il sospetto diagnostico può essere indotto dal riscontro radiografico di una o più anomalie a carico della silhouette cardiaca, dei campi polmonari e/o dalla posizione della trachea. Ad esempio, in caso di abbondante versamento pericardico, l’ombra cardiaca appare arrotondata e ben delineata oppure la presenza di un tumore alla base del cuore disloca dorsalmente la trachea prima della sua biforcazione. Tuttavia, seppure di facile esecuzione e di maggior diffusione, l’esame radiografico presenta numerose limitazioni nella diagnosi di questo tipo di patologie e perciò, in presenza di dati anamnestici o di sintomi clinici riferibili a neoplasie cardiache, tale esame dovrebbe sempre essere integrato da altre indagini diagnostiche (in particolare l’ecocardiografia e la risonanza magnetica) che consentono la visualizzazione delle lesioni o delle masse a livello cardiaco, la valutazione delle arterie e delle vene e la presenza di metastasi in altri organi. Quasi tutti i tumori possono essere identificati dall’ecocardiografia, particolarmente quelli intracardiaci. Quando l’esame ecocardiografico non è in grado di valutare correttamente i limiti della massa cardiaca, l’impiego dell’ecocardiografia transesofagea può fornire preziose informazioni. Nell’uomo, è disponibile la risonan-

za magnetica sincronizzata con il ciclo cardiaco che consente lo studio dettagliato del torace e quindi anche di aree che non potrebbero essere visualizzate mediante esame ecocardiografico. La diagnostica per immagini è necessaria per la guida chirurgica: la chirurgia cardiaca di questo tipo di tumori è nata con l’introduzione dell’esame ecocardiografico. In seguito all’individuazione di una lesione neoplastica in sede cardiaca è sempre raccomandabile eseguire un accurato esame ecografico dell’addome per escludere la presenza di neoplasie primarie o di metastasi in altri organi (soprattutto se si prospetta la possibilità di intervenire chirurgicamente).

Bibliografia Guarda F., Bussadori C., Scotti C. Sulla patologia dei tumori della base del cuore. Atti del XLIV Congresso Nazionale SISVET – Stresa, settembre 1990. Guarda F., Bussadori C., Scotti C., Appino S., Amedeo S. Patologia dei tumori della base del cuore (HBT) nel cane. Veterinaria: 1.1992 (31-48). Domenech O., Bonfanti U. Lubas G. Del Piero F, Bussadori C. ECHOCARDIOGRAPHIC PHATOLOGIC AND IMMUNOHISTOCHEMICAL STUDIES ON CANINE CARDIAC TUMORS. Proc. 12th ECVIM-CA/ESVIM CONGRESS MUNICH 2002 156. Bussadori C., Biasi, Quintavalla C., Pradelli D. DIAGNOSTIC IMAGING FOR THE IDENTIFICATION OF CARDIAC TUMOURS IN HUMANS AND DOGS, Proceedings 13th Ljudevit Jurak International Symposium on Comparative Pathology, Zagreb 2002 in Acta Clinica Croatica 155 vol 41 n°2 2002. Pradelli D., Quintavalla C., Domenech O Bussadori C. TROMBO NEOPLASTICO A PROGRESSIONE ENDOLUMINALE DIRETTA “VENA CAVA CAUDALE - ATRIO DESTRO” IN UN CANE CON NEOPLASIA SURRENALICA. Atti SISVET, Volume LVI, 319-320, Giardini Naxos, 26-28 Settembre 2002.

Indirizzo per la corrispondenza: Claudio Maria Bussadori e-mail claudiomaria_bussadori@fastwebnet.it


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Trattamento chirurgico tradizionale e radiologia interventistica del dotto arterioso persistente Roberto Bussadori Med Vet, Milano

Durante la vita fetale, il Dotto Arterioso di Botallo (PDA), rappresenta la connessione attraverso la quale la maggior parte del sangue venoso che giunge dall’arteria polmonare, passa direttamente in aorta bypassando il circolo polmonare che presenta resistenze notevolmente più elevate. In questa fase l’ossigenazione fetale avviene a livello di placenta. Al momento della nascita l’aumento della pressione sistemica (dovuta al distacco della placenta) e la diminuzione delle resistenze polmonari in seguito ai primi atti respiratori e all’apertura del letto vascolare polmonare, determina una perdita di funzione del Dotto di Botallo. In questa fase infatti il sangue venoso proveniente dall’arteria polmonare deve essere ossigenato dagli alveoli polmonari e non deviato direttamente in aorta. Nelle ore successive alla nascita normalmente si assiste ad una vasocostrizione indotta dall’inibizione di prostaglandine locali a sua volta indotto dall’aumento della PO2 del sangue arterioso (chiusura funzionale). L’obliterazione anatomica avviene successivamente grazie all’intervento di fenomeni di trombosi, proliferazione intimale e fibrosi che determinano la trasformazione del dotto in legamento arterioso. Alcuni fattori, per lo più di ordine genetico, sono alla base della mancata chiusura del dotto e del conseguente quadro patologico. Generalmente lo shunt avviene tra l’aorta e l’arteria polmonare (shunt sinistro-destro) e la quota di sangue è direttamente proporzionale alle dimensioni del dotto ed inversamente proporzionale alle resistenze polmonari. La conseguenza principale dello shunt sinistro-destro è l’instaurarsi di un iperafflusso al circolo arterioso polmonare che induce a sua volta un sovraccarico diastolico dell’atrio e del ventricolo di sinistra, determinandone l’ingrandimento. Col progredire di forme lievi o nelle situazioni particolarmente gravi (dotti di grandi dimensioni), la patologia può rendersi evidente con segni di un’insufficienza cardiaca sinistra manifesta con dilatazione atriale e ventricolare sinistra, rigurgito mitralico, dovuto alla dilatazione dell’anello valvolare, ed ipertensione venosa polmonare che può evolvere fino all’edema alveolare. La terapia medica ci consente il controllo, entro certi limiti, del sovraccarico nel circolo polmonare e di

eventuali aritmie, ma è ormai di comune riscontro che l’unica terapia risolutiva consiste nella chiusura del dotto mediante intervento chirurgico. Le tecniche chirurgiche prevedono una legatura classica, invasiva, attraverso toracotomia e una tecnica mini-invasiva percutanea che si basa sull’utilizzo della radiologia interventistica. La legatura chirurgica classica viene effettuata con toracotomia a livello del IV spazio intercostale sinistro; dopo aver retratto caudalmente il lobo polmonare craniale, si individuano l’aorta, l’arteria polmonare ed il nervo vago che viene isolato e retratto dorsalmente. Si inizia quindi la dissezione per via smussa della parte caudale del dotto con una pinza passafili, partendo per poi passare a quella craniale. Una volta isolato il dotto, il filo per la legatura (seta o nylon di grosso calibro) viene passato nel tunnel ricavato nei tessuti adiacenti. Eseguita la legatura completa del dotto, si riposiziona il lobo polmonare craniale e si richiude la breccia operatoria more solito. La chiusura chirurgica sopra descritta è una tecnica sicura, che, se eseguita correttamente, permette l’obliterazione del dotto in un’unica seduta, ma è ovviamente invasiva. Attraverso la radiologia interventistica è invece possibile ottenere lo stesso risultato con un minore traumatismo sul paziente. L’obliterazione del dotto è possibile in questo caso o attraverso embolizzazione tramite coil, che vengono rilasciati in situ da un dispositivo inserito attraverso la arteria femorale, o tramite un dispositivo di Amplatzer. La prima metodica permette la chiusura di dotti di diametro inferiore o uguale a 5 mm, mentre la seconda permette la chiusura di dotti di dimensioni maggiori, ma a costi più elevati.

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Bussadori: rbussado@tin.it


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Trattamento della Leishmaniosi canina Jordi Cairó Vilagran Med Vet, Girona (SP)

Attualmente l’utilizzo dei farmaci classici, antimoniato di N-metilglucamina ed alopurinolo, per il trattamento della leishmaniosis canina offre i migliori risultati clinici, aumentando il tempo di sopravvivenza e diminuendo la frequenza e l’intensità delle recidive. Questo aumento dell’efficacia terapeutica è dovuto ad una gestione clinica adeguata e dipende da: Diagnosi precoce della malattia. Più ampi protocolli di diagnosi differenziale delle malattie associate. Politerapia: antimoniato di N-metilglucamina, alopurinolo, antibiotici, ramipril, omeprazol, solfato ferroso, shampoo dermatologici. Aumento del tempo e dell’intensità delle terapie mediche. Maggiore collaborazione dei proprietari. Aumento del numero di esami clinici e di laboratorio; prima, durante e dopo la terapia. Maggiore conoscenza della biologia dei flebotomi, come dei focolai di alta prevalenza. Utilizzo di metodi di lotta nei confronti del vettore. Per instaurare una terapia efficace nei confronti della leishmaniosi canina, dobbiamo partire da una diagnosi di laboratorio univoca, basata su una delle tecniche seguenti: Visualizzazione del parassita nella preparazione microscopica di aspirato di midollo osseo o linfonodale, impressione dal derma, o aspirazioni ad ago sottile dei noduli. Biopsia di un tessuto organico valutata con tecniche inmunoistochimiche (inmunoperossidasa). Visualizzazione del parassita nella citologia dei liquidi organici (sinovia, toracico, addominale, seme, L.C.R). Coltura ed isolamento del parassita. Quando non sia possibile basarsi sulle tecniche di laboratorio sopra citate la diagnosi consisterà nella valutazione della presenza di sintomi clinici compatibili e nella la valutazione dei livelli di anticorpi di fronte a Leishmania infantum utilizzando tecniche di I.F.I o Elisa. Inoltre si verrà sempre eseguito proteinogramma prima di iniziare il trattamen-

to che verrà utilizzato successivamente come aiuto nel controllo dell’evoluzione post-trattamento, insieme alla scomparsa dei sintomi clinici. È difficile stabilire un solo protocollo terapeutico di fronte alla leishmaniosi canina per diversi motivi: I cani sviluppano differenti tipi di risposta immunitaria di fronte alla Leishmania infantum. In forma sporadica, si verificano cure risolutive spontanee senza ricevere alcuna terapia medica. Esistono variazioni razziali e familiari. Ci sono differenze tra l’infezione naturale e quella sperimentale. Si presenta con una certa frequenza associata ad altre malattie. La leishmaniosi canina si manifesta nelle varie fasi di sviluppo e con sintomatologie cliniche diverse. Esistono differenti manifestazioni organiche. Qui esporremo il protocollo terapeutico in quattro di esse, ponendo speciale enfasi su quelle che colpiscono il rene. A - Leishmaniosis cutanea localizzata (L.C.L). Ulcera di inoculazione. B - Leishmaniosis generalizzata (L.G), senza complicanze organiche. C - Leishmaniosis generalizzata con insufficienza organica moderata (Proteinuria). D - Leishmaniosis generalizzata con insufficienza organica grave (Uremia). I criteri che si utilizziamo al momento di stabilire il protocollo terapeutico si basano su una anamnesi dettagliata, in funzione dell’esplorazione fisica, la sintomatologia clinica ed i risultati di laboratorio delle urine, delle feci e del sangue (ematologia, biochimica). Inoltre, è di grande importanza il protocollo che si utilizza per realizzare la diagnosi delle malattie che si presentano associate alla leishmaniosi canina.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Jordi Cairó Vilagran, Hospital Veterinari Canis Girona Avda. Lluis Pericot 17, 17002 Girona (Spain) Tel. 0034972218668


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• Aggiornamenti sulle leucemie nel cane e nel gatto • Il magico mondo dei leucociti Marco Caldin Med Vet, Padova

RELAZIONI NON PERVENUTE È possibile scaricarle dal sito web: www.sanmarcovet.it

Indirizzo per la corrispondenza: Marco Caldin - Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Via Sorio n. 114/c, 35141 Padova tel 049 8561098 - fax 02 700518888 e-mail: mc@sanmarcovet.it

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Citologia veterinaria: cosa c’è di nuovo? Mario Caniatti Med Vet, Dipl ECVP, Milano

La citologia diagnostica veterinaria è una disciplina relativamente giovane. Infatti i primi lavori di un certo significato, come del resto i primi testi di citologia diagnostica, datano la fine degli anni settanta. Solo negli ultimi dieci-quindici anni si è però assistito a un crescente interesse nei confronti di questa materia e ciò è testimoniato dal crescente numero di pubblicazioni sull’argomento sia sotto forma di articoli su riviste specializzate che sotto forma di testi atlante. Non siamo ancora arrivati ad avere riviste veterinarie che si occupino solo di citologia diagnostica, come invece accade in medicina umana (es. Acta Cytologica, Diagnostic Cytopathology…), ma articoli inerenti temi citologici sono comunemente riportati da molte riviste veterinarie, soprattutto quelle che abbiano un taglio clinico. Fra tutte spicca senz’altro “Veterinary Clinical Pathology” che negli ultimi anni è quella che, fra tutte le riviste veterinarie, inserisce sempre in ogni numero uno o più lavori di citodiagnostica, soprattutto sotto forma di case report o short comunication. Non bisogna poi dimenticare le fonti di interesse citologico legate a internet sotto forma di due diverse entità: “Pubmed” e i siti in cui si parla di citologia diagnostica. Pubmed è la più autorevole fonte di informazioni bibliografiche per chi cerca in rete articoli e abstract, mentre un qualunque buon motore di ricerca (es. Google) ci permette di trovare ogni giorno nuovi siti che si occupino di citopatologia diagnostica sia medica che veterinaria. Interessante rilevare come, consultando Pubmed, si possa avere la prova di come negli ultimi anni il numero di articoli inerenti la citologia diagnostica veterinaria sia notevolmente aumentato. È proprio dalla consultazione della bibliografia e dei siti dedicati alla citologia diagnostica che si possono avere le informazioni più recenti su tutto quanto di nuovo gravita attorno alla citologia diagnostica veterinaria. Quella che segue sarà una carrellata di alcune delle più interessanti notizie disponibili negli ultimi 5 anni, ma con un po’ di tempo e pazienza è possibile trovarne numerose altre senza troppe difficoltà. Altre notizie che verranno date riguardano lavori su quali ci stiamo dedicando in questi anni all’interno del servizio di Citologia Diagnostica della Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviare della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano.

1-Aspetto citologico di malattie fungine, protozoarie, virali e batteriche poco comuni È indubbio che la messe di articoli inerenti argomenti citologici recentemente apparsi su varie riviste ha eviden-

ziato aspetti citologici riferiti a patologie infettive e infestive poco o niente descritte nel passato (es. coccidiosi epatica nei conigli, pseudomicetoma equino, tripanosomiasi nel cane, criptosporidiosi nei serpenti, dracunculiasi nel cane ecc.). Non bisogna sottovalutare il fatto che i microrganismi sono assai meglio visibili nei campioni citologici rispetto a quelli istologici a causa della distensione del materiale dovuta alla fissazione all’aria, mentre la fissazione in formalina utilizzata in istologia ottiene l’effetto opposto di contrazione delle strutture.

2-Alcune note sulle colorazioni usate in citologia Benché storicamente le colorazioni usate in citologia veterinaria siano state quelle di tipo Romanowsky (es. May-Grünwald-Giemsa, Wright, Leishman ecc. nonché le loro più comuni varianti commerciali tipo Hemacolor® o Diff-Quik®), negli ultimi anni sono apparsi alcuni articoli che fanno utilizzo anche di colorazioni più comunemente usate in citologia umana (es. Papanicolaou, EmatossilinaEosina). Queste ultime colorazioni, benché richiedano una fissazione con alcool o cytospray, possono anche essere utilizzate su campioni citologici fissati all’aria purché questi ultimi siano reidratati attraverso immersione in fisiologica entro 30 minuti dalla loro preparazione. Si può attendere comunque fino a 24 ore, ma i risultati non sono sempre soddisfacenti. I vantaggi della reidratazione risiedono in: possibilità di valutare meglio i dettagli nucleari a causa della scarsa affinità dell’Ematossilina per l’eucromatina (utile per la diagnosi di alcune neoplasie). Con la reidratazione non va sottovalutata neanche l’emolisi degli eritrociti che permette di avere un fondo pulito del vetrino senza che i globuli rossi oscurino strutture diagnostiche. In compenso i campioni reidratati tendono a perdere una certa quota delle cellule che si staccano dal vetrino. In ogni caso si ricorda come Ematossilina-Eosina e Papanicolaou siano decisamente superiori alle colorazioni tipo Romanowsky nel caso della valutazione di frammenti tessutali in quanto capaci di penetrare grossi ammassi di cellule (strisci spessi) e quindi di valutarne meglio le caratteristiche architetturali. L’indicazione ideale sarebbe quella di usare sempre entrambi i tipi di colorazione. Colorare alcuni vetrini con colorazioni tipo Romanowsky assicura una buona visualizzazione del citoplasma e della sostanza intercellulare, mentre Ematossilina-Eosina o Papanicolaou garantiscono una miglior definizione delle strutture e del dettaglio nucleare.


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Un’interessante recente articolo di medicina umana su soggetti immunocompromessi, mette in luce la possibilità di valutare la presenza di Micobatteri che, in campioni citologici colorati con Papanicolaou, mostrano autofluorescenza quando ovviamente il preparato sia osservato in fluorescenza. Ciò aumenterebbe la specificità della diagnosi citologica di micobatteriosi.

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In sostanza lo studio indica una certa discrepanza tra il significato delle frasi usate per la diagnosi citologica e suggerisce la necessità di introdurre una terminologia standardizzata. Non solo, viene indicata l’importanza di definire ulteriori studi che determinino come i clinici interpretano queste espressioni in termini di probabilità e quindi di impatto della diagnosi citologica sul destino del paziente.

3-La terminologia nei referti citologici Un interessante studio dal titolo: “clinical pathology expression of probability in cytologic diagnosis” presentato lo scorso settembre Da Christopher e Hotz al Congresso annuale della European Society of Veterinary Clinical Pathology (ESCVP), prende in considerazione l’uso che i patologi clinici fanno di termini descrittivi per indicare la probabilità di una diagnosi citologica. Lo studio è stato condotto su 96 (su 195 contattati) citologi certificati ACVP (American College of Veterinary Pathology) e con esperienza variabile da 1 a 29 anni. Soltanto tre di questi davano diagnosi suffragate da un dato percentuale, mentre tutti gli altri preferivano termini descrittivi per definire la probabilità della diagnosi citologica. Diciotto erano i termini usati nel complesso. Undici di questi termini erano usati spesso o qualche volta, mentre 7 erano usati raramente o mai da parte di più del 50% degli aderenti all’indagine. Naturalmente, data la numerosità dei termini usati, c’era anche un certo grado di sovrapposizione tra le percentuali di probabilità assegnate a termini diversi fra loro. Due dati preliminari sono interessanti: patologi di laboratori privati erano statisticamente più inclini a definire il campione “sospetto per” rispetto ai loro colleghi universitari. Le citopatologhe di sesso femminile sono più inclini a dare un risultato “diagnostico per” rispetto ai loro colleghi di sesso maschile. Le espressioni per esprimere livelli di probabilità diagnostica dallo 0 al 100% erano in totale 68 delle quali 26 indicavano “probabilità 0”. In ogni caso un gruppo di 10 termini era preferito dalla maggior parte degli intervistati con le seguenti probabilità diagnostiche: 100%- “diagnostico per” 95%- “decisamente compatibile con”, “fortemente suggestivo di” 75-95%- “compatibile con”, “probabile” 50-75%- “suggestivo di” 25-50%- “possibile” 5-25%- “non può essere escluso” 5%- “improbabile” 0-5%- “non evidenza di” In ogni caso la cellularità e la qualità del campione erano i fattori più importanti che condizionavano la probabilità citologica. Un altro rilievo interessante è che gli intervistati con maggiore esperienza (>10 anni) non ritenevano molto importanti per la diagnosi le “ulteriori informazioni diagnostiche sul paziente”.

4-Studi su serie di campioni citologici per valutarne parametri di accuratezza del test diagnostico Benché numerosi siano gli articoli dedicati alla citologia diagnostica veterinaria, relativamente pochi sono ancora gli studi dedicati a serie di casi citologici, con relativo controllo istologico, per definire gli indici di accuratezza diagnostica. Un lavoro in preparazione da parte di varie persone afferenti al nostro Dipartimento, con in testa il dottor Ghisleni, fa riferimento a 292 campioni citologici di neoformazioni cutanee con relativo controllo istologico. Quarantanove casi erano definiti inconclusivi (campione di qualità insufficiente, di solito a causa di scarsa cellularità) e quindi eliminati dalla casistica. Il concetto di cellularità è molto importante in citologia e un controllo della cellularità del campione subito dopo il prelievo sarebbe determinante nell’abbassare la quota dei campioni definiti “inconclusivi”. Degli altri campioni, 176 erano definiti citologicamente come neoplastici. Di questi, 175 si rivelavano “veri positivi” (istologia positiva per neoplasia), mentre un caso risultava invece come “falso positivo” in un gatto con una lesione cutanea infiammatoria diagnosticata citologicamente come una neoplasia di origine linfoide. Tra le forme neoplastiche, mastocitomi e emangiopericitomi sono senz’altro le entità più comunemente e facilmente diagnosticabili con l’esame citologico. Sessantasette casi erano classificati come negativi per neoplasia. Di questi 46 erano in accordo con l’esame istologico (“veri negativi”), mentre negli altri 21 l’istologia evidenziava una forma neoplastica (“falsi negativi”). Sulla base di questi dati l’indagine ha avuto una sensibilità del 89%, una specificità del 98%, un valore predittivo dei risultati positivi del 99% e un valore predittivo dei risultati negativi del 69%. Nel complesso si osservava un’accuratezza di accordo fra diagnosi citologica e istologica pari al 91% (221/243 casi).

Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Patologia Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria Sezione di Anatomia Patologica Veterinaria e Patologia Aviare Università degli Studi di Milano Via Celoria, 10 - 20133 Milano Tel. 02-50318114 Fax 02-50318106 mario.caniatti@unimi.it


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Diagnosi endoscopica e trattamento intraorale della malocclusione dentale nel coniglio e nei roditori da compagnia Vittorio Capello Med Vet, Milano

Summary Besides other diagnostic procedures (clinical exam, radiology) oral endoscopy is a very important tool for the diagnosis of dental diseases and other related oral lesions in pet rabbits and pet herbivorous rodents. Moreover, it is a very useful aid for intraoral treatment of malocclusion. This article will describe the istruments necessary to perform a thorough endoscopic examination; and normal and pathologic patterns of oral cavity of per rabbits and rodents. Main procedures for intraaoral treatment of malocclusion will be also described.

INTRODUZIONE A fianco di altre procedure diagnostiche quali l’esame clinico e l’esame radiografico eseguito in sedazione con proiezioni multiple, l’esame endoscopico della cavità orale rappresenta uno strumento diagnostico molto importante nei confronti delle patologie dentali e di altre lesioni intraorali caratteristiche del coniglio e di altre specie erbivore di roditori. La visione endoscopica fornisce inoltre un supporto estremamente utile per il trattamento di queste patologie.

L’ispezione della cavità orale del coniglio e dei piccoli roditori prevede l’utilizzo di strumenti particolari per queste specie. Oltre all’apribocca e al divaricatore guanciale più comuni per il coniglio, sono disponibili un divaricatore guanciale di piccole dimensioni utile per i roditori come la cavia e il cincillà, e un apribocca particolare, denominato “table top mouth gag”, costituito anche da una piattaforma inclinabile per il posizionamento del paziente in decubito sternale (Fig. 1). Oltre che per il coniglio, questo strumento può essere utilizzato anche nei roditori di taglia medio/grossa (cavia, cincillà, cane della prateria). Per quanto riguarda lo strumentario necessario alla riduzione coronale dei denti molariformi nel coniglio e nei roditori caviomorfi, oltre che un micromotore specifico per manualità dentistico con manipolo e frese accessorie, può essere utilizzato con ottimi risultati anche un trapano da hobbystica, con accessori particolari. I più importanti sono costituiti da un manipolo di piccolo calibro e dal controllo a pedale del motore del trapano. Quest’ultimo rende possibile una migliore precisione sia non posizionamento della fresa che della regolazione della velocità di rotazione.

STRUMENTARIO Lo strumentario indispensabile per eseguire l’esame endoscopico nel coniglio e nei roditori è di due tipi: il primo gruppo è rappresentato dall’attrezzatura endoscopica vera e propria; il secondo dagli strumenti di tipo dentistico per l’ispezione della cavità orale del coniglio e dei roditori. Nell’ambito dello strumentario endoscopico, l’utilizzo della videocamera rappresenta un ausilio indispensabile per l’esecuzione dell’esame. In questo modo, l’operatore non è costretto ad osservare le immagini direttamente nel mirino dell’endoscopio rigido, ma le immagini stesse possono essere visualizzate sul monitor, consentendo all’operatore manualità più agevoli, e di condividere la visione delle immagini con altre persone. Collegando opportunamente un dispositivo di stampa o di registrazione (computer, stampante, videoregistratore o camcorder), le immagini endoscopiche possono essere conservate per la documentazione personale e per la refertazione.

FIGURA 1 - Coniglio nano in anestesia generale posizionato sul “table top mouth gag”.


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PROTOCOLLO ANESTESIOLOGICO La trattazione dei protocolli anestesiologici relativi al coniglio e ai roditori esula dallo scopo di questo articolo. Tuttavia, il protocollo utilizzato più frequentemente dall’autore nel coniglio prevede l’induzione mediante associazione di Ketamina (30 mg./kg.) e Medetomidina (100 µg./kg.) entrambe somministrate per via intramuscolare, e di Butorfanolo al dosaggio di 0.3-0.5 mg./kg. per via sottocutanea. Il mantenimento viene ottenuto attraverso la somministrazione di miscela di Ossigeno e Isofluorano all’1%3% mediante mascherina. Nei roditori caviomorfi il protocollo è analogo, fatta eccezione per i dosaggi di Ketamina e Medetomidina, rispettivamente di 20 mg./kg. e di 50-70 µg./kg.

QUADRI ENDOSCOPICI NORMALI

FIGURA 2 - Particolare dell’arcata dentale dei molariformi inferiori di sinistra nel coniglio.

Tra le particolarità anatomiche degne di nota relative ai denti molariformi dei roditori caviomorfi (cavia, cincillà, degu), ricordiamo che la cavia presenta l’inclinazione mediale delle arcate dentali inferiori, e laterale di quelle superiori. Il piano occlusale è quindi normalmente inclinato in senso latero-mediale e supero-inferiore. Il cincillà e il degu presentano invece una superficie occlusale quasi orizzontale. Quest’ultima specie (Octodon degus), deve il suo nome al caratteristico aspetto della superficie occlusale dei denti molariformi, (a forma appunto di “8”). L’esame endoscopico è utile anche nelle specie di roditori (criceto, ratto, scoiattoli, cane dellaprateria) che non possiedono, come le specie caviomorfe, denti molariformi a crescita continua, bensì denti molari di tipo brachiodonte, cioè a crescita determinata. In particolare, nel criceto l’esame endoscopico è utile non solo per l’ispezione della cavità orale, ma anche delle tasche guanciali, duplicature cutanee poste lateralmente alla cavità orale stessa.

QUADRI ENDOSCOPICI PATOLOGICI I denti molariformi del coniglio e dei roditori caviomorfi possono sviluppare anomalie di crescita e di direzione che vengono genericamente definiti come malocclusione dentale. Questa patologia può presentare diversi aspetti. Nel coniglio, il più precoce è rappresentato da un allungamento delle corone e da una differenza di lunghezza fra denti adiacenti che determinano a carico della superficie occlusale un andamento “a saliscendi” (“wave mouth”) o “a gradini” (“step mouth”). La crescita eccessiva dei denti determina quindi un incurvamento dell’asse longitudinale del dente, con una direzione mediale per i denti molariformi inferiori e laterale per quelli superiori. L’insufficiente consumo rende più acuto il margine mediale dei denti inferiori, con la formazione di punte o cuspidi dirette verso la lingua, che possono causare anche lesioni alla lingua stessa (Fig. 3). La malocclusione dentale della cavia presenta aspetti simili a quelli descritti per il coniglio, accentuati dalla naturale inclinazione mediale del piano occlusale inferiore.

FIGURA 3 - Cuspide a carico di un dente molariforme e relativa ulcera linguale.

FIGURA 4 - Fresatura dei denti molariformi nel coniglio.


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Nel cincillà le irregolarità sono meno evidenti, e più frequentemente a carico dei premolari superioriLa diagnosi endoscopica prevede anche la valutazione di altre lesioni a carico dei tessuti molli quali ulcere della mucosa buccale, gengivale o della lingua, e di processi infiammatori conseguneti ad infezioni periapicali.

TRATTAMENTO INTRAORALE DELLA MALOCCLUSIONE DENTALE Il trattamento intraorale della malocclusione dentale nel coniglio e nei roditori caviomorfi prevede la riduzione delle corone e delle cuspidi mediante fresatura (Fig. 4). In altri casi, in concomitanza con altre lesioni quali infezioni periapicali, può essere indicata l’estrazione del dente molariforme, previa lussazione messsa in atto con il lussatore di Crossley per i denti molari. La visualizzazione fornita dall’endoscopia nell’esecuzione di queste manualità è estremamente utile.

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- consente una visione notevolmente ingrandita delle strutture anatomiche intraorali sia normali che patologiche riducendo al minimo il rischio di omissioni diagnostiche, possibili soprattutto nel caso dei roditori; - rende molto più agevole la visione in caso di manualità terapeutiche intraorali. L’’utilizzo di una videocamera accessoria consente all’operatore un’esecuzione più agevole; la possibilità di condividere la visione con altre persone; la possibilità di registrare immagini video e fotografiche sia per la documentazione scientifica personale che per la dimostrazione al proprietario agevolando al medesimo la comprensione di patologie in certi casi piuttosto singolari.

Bibliografia 1. 2. 3.

CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI 4.

L’esecuzione dell’esame endoscopico della cavità orale dei piccoli mammiferi erbivori (coniglio, roditori caviomorfi), e di altri piccoli roditori (miomorfi, sciuromorfi) riveste una notevole importanza per i seguenti motivi: - non richiede particolare abilità o specializzazione; - consente l’ispezione completa e dettagliata della cavità orale; - è estremamente utile in caso di intubazione endotracheale (qualora essa sia considerata indispensabile);

Capello V.: “Dental diseases and surgical treatment in pet rodents”. Exotic DVM 5.3: 32-37 (2003). Murray M.J.: “Application of rigid endoscopy in small exotic mammals”. Exotic DVM 2.3: 13-18 (2000). Taylor M.: “Endoscopy as an aid to the examination and treatment of the oropharyngeal disease of small herbivorous mammals”. Sem. Avian Exotic Pet Med. 8(3): 139-141 (1999). Taylor M.: “Endoscopic techniques”. Sem. Avian Exotic Pet Med. 3(3): 126-132 (1994).

Indirizzo per la corrispondenza: Vittorio Capello Clinica Veterinaria, S. Siro, Milano Clinica Veterinaria, Gran Sasso, Milano Tel. 339/1003260 e-mail: capellov@tin.it


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Benessere animale e dimensioni della pet relationship Maria Chiara Catalani Med Vet, Senigallia (AN)

Introduzione Nel 1979 sono state definite le “Cinque libertà” che garantiscono il benessere animale: 1) libertà dalla fame, sete e malnutrizione; 2) disponibilità di un riparo appropriato e confortevole; 3) prevenzione, diagnosi e rapido trattamento delle lesioni e patologie; 4) libertà di attuare modelli comportamentali normali, 5) libertà dalla paura e dallo stress. Nell’ambito della relazione uomo-animale d’affezione, il benessere animale può essere notevolmente condizionato dalla dimensione di relazione ovvero dalle attività che la caratterizzano e dal tipo di interazioni che hanno luogo. Poiché i pet sono frutto della domesticazione dell’uomo, questo dovrà assumersi la responsabilità di fornire al compagno animale condizioni di vita adeguate alla sua specie. Il medico veterinario – quale tramite tra uomo e animale d’affezione – ha il compito di intervenire come consulente di zooantropologia applicata valutando tutti i parametri di benessere e fornendo gli strumenti per equilibrare e/o indirizzare le dimensioni di relazione uomo-animale a garanzia del benessere di quest’ultimo. Per questa ragione, se nelle relazioni ordinarie il medico veterinario è chiamato a limitare le possibili interazioni negative proprietario-animale, nella zooantropologia applicata dovrà effettuare un’attenta programmazione ed analisi della attività di pet-relationship.

Dimensioni di pet relationship: caratteristiche e punti critici1-2 Con la dimensione di pet-relationship definiamo le caratteristiche di una PR (attività di pet-relationship) e della PO (relazione animale-proprietario) ed i processi d’interazione-relazione che si attivano tra uomo e animale. La coppia zooantropologica, infatti, variando secondo la dimensione prevalente, può perdere valore in situazioni di devianza, influenzando il profilo comportamentale del pet ed il suo benessere. Ogni relazione, infatti, si costruisce su motivazioni differenti e su dimensioni che sono influenzate dal tipo di attività che uomo e animale compiono insieme e dal il tipo di vita che condividono. Perciò, definendo i punti critici di ciascuna dimensione, possiamo provvedere attraverso la consulenza zooantropologica ad evitare che la PR o la PO cadano in devianze dannose per entrambi i partner, animale ed umano.

La dimensione ludica, fondata sul gioco tra pet e partner umano, se da un lato procura divertimento, contagio emozionale, distrazione e rapporto simpatetico col pet, dall’altro rischia di richiedere a questo un eccesso di arousal (attivazione emozionale), performances ad alti livelli, forte impegno cognitivo o può portare alla banalizzazione e infantilizzazione dell’animale, pericolose per il suo benessere. D’altro canto, la dimensione epistemica, costruita sulla “stimolazione alla conoscenza” che l’animale induce, può contribuire nell’uomo ad uscire dal sé e costruirsi una storia di condivisione; tuttavia, può richiedere al pet di sopportare morbosità e relazioni affilitive che non gli consentono un’espressione comportamentale adeguata. La dimensione affettiva, invece, pur essendo l’area dimensionale di maggiore importanza giacché contribuisce all’autostima, alla sicurezza, alla condivisione e all’alleanza uomo-pet, può rischiare di rendere la relazione morbosa, vicariante e poco stimolante e produrre iperprotettività sull’animale. La dimensione edonica, d’altronde, prevede che la relazione sia stabilita sulla base del piacere che lo stesso appeal dell’animale esercita sulla persona per la capacità di distrarre, stupire e ridurne l’ansia. Tuttavia, può richiedere al pet un eccessivo livello di arousal e indurre nel partner umano una difficoltà nel distacco o portare ad una visione dell’animale quale “oggetto di piacere”. La dimensione sociale, infine, descrive una relazione in grado di aprire l’uomo verso rapporti sociali in cui il pet risulta essere un tramite ed un partner di attività. Quest’ultima, però, può richiedere un’esperienza e competenza del pet-partner che, se inadeguate, provocano difficoltà nell’animale di comprendere le richieste del compagno umano con uno stress da relazione pressoché costante.

Pet relationship ed interventi a favore del benessere animale3-4 La relazione uomo-animale è distinta in due categorie: A) pet-relationship (PR), strumento di lavoro della pet therapy e della zooantropologia didattica, in cui la relazione ha luogo senza proprietà dell’animale; B) pet-ownership (PO) ovvero la relazione animale-proprietario, nella quale si dovrebbe instaurare un equilibrio dimensionale. Attraverso la consulenza zooantropologica, il medico veterinario è chiamato a valutare il rapporto tra le dimensioni di relazione e i bisogni dell’animale, al fine di contribuire al benessere del pet con interventi diversi a seconda dei casi, valutando tutti i parametri utili a questo scopo (Tab. 1).


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Tabella 1 Parametri per il benessere

Valutazione parametri “spia”

Prevenzione e controllo

Condizione genetica L’inbreeding e la selezione su criteri morfologici causano patologie ereditarie per l’espressione di caratteri recessivi che si discostano dalla naturale selezione genetica

Alterazioni fisiche o comportamentali ereditarie

Valutazione dei criteri di scelta dei riproduttori in allevamento e della presenza di patologie ereditarie. Prevenzione: consulenza e formazione degli allevatori, esclusione dalla riproduzione dei soggetti portatori di alterazioni genetiche

Stato di salute • assenza di malattia • fisiologia • welfare animale (repertorio di standards minimi e vincolanti rispetto ai bisogni fisiologici, ecologici e comportamentali della specie)

• monitoraggio epidemiologico • interventi di profilassi • parametri metabolici • EOG e valutazione delle grandi funzioni organiche • Valutazione degli indicatori di welfare

Valutazione medica del pet prima, durante e dopo le attività di PR e della PO. Valutazione dell’idoneità del soggetto animale per la relazione richiesta

Aspetti fisiologici • caratteristiche di dimensioni, sicurezza, igiene e microclima dell’habitat offerto all’animale • gestione dell’alimentazione e adeguamento allo stato fisiologico (età, gravidanza, allattamento, attività, etc.)

• Sintomi gastro-enterici, genito-urinari, neurologici, dermatologici, cardio-respiratori, endocrini • Alterazione dei parametri emato-chimici

• EOG che includa i parametri comportamentali. • Esame dei parametri metabolici • Valutazione dell’ecologia ambientale offerta al pet

Aspetti comportamentali • rispondenza ai fondamentali bisogni e alle motivazioni di specie • ginnastica funzionale adeguata • sviluppo ontogenetico (relazioni parentali e zooantropologiche, stimolazioni precoci, educazione) • metodo educativo applicato • orizzonte motivazionale di specie, grado di socialità, modalità comunicative

• Segni clinici di alterazioni comportamentali ed inserimento dei problemi comportamentali nella valutazione delle d/d • Segnali di stress • Segnali di richiesta d’interruzione dell’interazione da parte del pet (calming signals, etc.)

• Consulenza pre-adottiva • Puppy parties, puppy class, consulenza cuccioli-gattini • Consulenza e terapia comportamentale • Screening accurato dei parametri di benessere • Intervento per l’equilibrio della PR, e il controllo dimensionale • Intervento sulle devianze di PR

Nelle attività di PR (zooantropologia applicata) è necessario verificare l’idoneità del pet in base allo stato dell’animale (età, salute, assenza di zone algiche, difficoltà performative, sensibilità, sopportazione), alle attitudini (specie, socievolezza, docilità, corretta ontogenesi, socializzazione, assenza di alterazioni comportamentali, collaboratività) e alle capacità (centripetazione, gestibilità, comandi, concetti e conoscenze di base). Inoltre, è fondamentale monitorare periodicamente lo stato di salute, valutare le disposizioni (sicurezza, equilibrio, livello di stress), la performatività (assenza di disturbi, di dolori, buon livello di fitness). Infine, poiché nelle attività di zooantropologia applicata si stabilisce un indirizzo dimensionale utile agli obiettivi del progetto, è necessario assicurarsi preventivamente che questo sia perseguibile nel rispetto dei parametri di benessere, che il soggetto animale sia adeguato alla specifica dimensione sulla quale si lavorerà e che questo non sia sottoposto a tempi di lavoro eccessivamente lunghi. Nelle relazioni di PO, invece, è importante valutare l’aspetto motivazionale del pet-owner, informarlo sulle caratteristiche e necessità etologiche dell’animale, fare prevenzione e diagnosi precoce delle patologie comportamentali e di eventuali devianze della relazione, verificando i requisiti di responsible pet-ownership. Inoltre, nella PO per favorire l’equilibrio di relazione ed evitare derive dannose è necessario fornire una consulenza al pet-owner per esaminare le dimensioni di relazione prevalenti e implementare, attraverso attività specifiche, le dimensioni carenti.

Conclusioni Le dimensioni di pet relationship, influendo notevolmente sul profilo comportamentale dell’animale, possono indurre in questo situazioni di disagio e stress. Pertanto, è necessario che le attività di pet-relationship si svolgano senza che le dimensioni attivate incidano negativamente sui parametri di benessere dell’animale; diversamente, l’intervento nelle pet-ownership mira ad equilibrare tutte le dimensioni di relazione attraverso l’educazione del pet-owner, affinché sia raggiunto un rapporto corretto e positivo per entrambi. Concludendo, in tutte le forme di pet-relationship e pet-ownership è fondamentale verificare, attraverso la consulenza zooantropologica veterinaria, quali siano le dimensioni di pet-relationship attive e che il profilo comportamentale dell’animale, così come il suo stato fisiologico-sanitario, non risentano in alcun modo della relazione.

Bibliografia 1. 2. 3. 4.

Marchesini R., Catalani M.C., Battaglia L., (2003), Atti del Convegno “Pet-therapy, il valore della relazione con l’animale”, Ed. dalla Provincia di Reggio Emilia. Marchesini R., Andersen K., (2003), Animal Appeal, Ed. Hibris, Bologna, 33-48, 79-105. Marchesini R., (2001), Bioetica e scienze veterinarie, Ed. Scientifiche Italiane, Roma, 63-96. Carlson N.R., (2002), Fisiologia del comportamento, Ed. It. a cura di Petrosini L., De Gennaro L., Guariglia C., Ed. Piccin, Padova, 595603, 608-621.

Indirizzo per la corrispondenza: Dott.ssa Maria Chiara Catalani Strada del Giardino - S.Angelo 164, 60019 Senigallia (AN) E-mail: mchiaracatalani@libero.it


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Ipercalcemia nel gatto Dennis J. Chew DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA

Patricia A. Schenck, DVM, PhD, East Lansing, Michigan, USA

Introduzione Il calcio totale (tCa) comprende quello ionizzato (iCa), quello complessato e quello legato alle proteine. Nel gatto, i valori sierici di tCa ed iCa sono più bassi che nel cane. Nella maggior parte dei laboratori, viene documentata un’ipercalcemia quando i livelli sierici di tCa sono > 11,0 mg/dl ed iCa è superiore a 5,5 mg/dl nel gatto. Nei felini, rispetto al cane, l’ipercalcemia è stata tradizionalmente considerata poco comune, ma questa convinzione è stata mutata dall’aumento del riconoscimento dell’ipercalcemia idiopatica e di quella associata ad insufficienza renale nel gatto. Negli animali clinicamente normali, l’iCa sierico è tipicamente proporzionale al livello sierico di tCa (iCa = 5060% di tCa). Negli animali malati, l’iCa sierico NON è proporzionale al tCa e non può essere previsto sulla base del valore di quest’ultimo. In uno studio condotto su 434 gatti, il valore del calcio totale non è stato in grado di prevedere accuratamente la concentrazione di quello ionizzato nel 40% dei casi. In tutti i gatti, utilizzando la misurazione di tCa è stata sottostimata un’ipercalcemia ionizzata. Nei soggetti con insufficienza renale cronica è stata sottostimata l’ipocalcemia, ma in quelli colpiti da altre malattie la medesima condizione è stata sovrastimata utilizzando tCa o una formula di correzione. I pazienti con acidosi metabolica moderata o grave vanno incontro a un incremento della frazione di iCa dovuto allo spostamento del calcio dalle sue riserve legate alle proteine. Quindi, la misurazione dei livelli sierici di iCa è consigliata in tutti i pazienti con insufficienza renale o ipercalcemia. Dal momento che la concentrazione sierica di iCa è influenzata dall’esposizione all’ossigeno ed al pH, i campioni devono essere prelevati e manipolati in condizioni di anaerobiosi. I livelli di iCa sierici nel siero prelevato anaerobicamente sono stabili anche per 72 ore a temperatura ambiente o a +4 °C. La misurazione del calcio ionizzato riportata dagli analizzatori portatili è spesso inferiore ai valori forniti dagli apparecchi da banco, forse a causa dei variabili effetti dell’eparina e del volume del campione.

Segni clinici e conseguenze dell’ipercalcemia Piccoli incrementi delle concentrazioni sieriche di iCa al di sopra della norma possono avere conseguenze fisiologiche indesiderate, mentre condizioni che aumentano i livelli di tCa senza incrementare quelli di iCa non mostrano effetti deleteri.

Quindi, la misurazione dell’iCa sierico è della massima importanza. Risulta anche di notevole valore il grado di interazione col fosforo sierico, dal momento che i soggetti in cui il prodotto di tCa per la concentrazione del fosforo è superiore a 70 sono quelli con la massima probabilità di presentare gravi alterazioni tissutali associate alla mineralizzazione. L’ipercalcemia può essere tossica per tutti i tessuti dell’organismo, ma i principali effetti deleteri si osservano a livello di reni, sistema nervoso ed apparato cardiovascolare. Sulla base delle informazioni raccolte nel cane, la maggior parte degli animali con tCa sierico superiore a 15 mg/dl mostra segni sistemici e quelli con concentrazioni di tCa superiori a 18,0 mg/dl sono gravemente ammalati. I segni clinici più comuni nei gatti ipercalcemici sono l’anoressia e la letargia, seguiti da manifestazioni gastroenteriche, poliuria/polidipsia, segni urinari e neurologici. Il vomito e la poliuria/polidipsia sono molto meno comuni nel gatto che nel cane.

Diagnosi differenziale dell’ipercalcemia L’ipercalcemia può essere transitoria/senza conseguenze (comunemente), persistente/senza conseguenze (occasionalmente) o persistente/patologica. Le ipercalcemie non patologiche sono dovute a prelievi non effettuati a digiuno (aumento minimo), crescita fisiologica di animali giovani, errori di laboratorio e risultati spuri dovuti a lipemia o contaminazioni del campione/della provetta con dei detergenti. Le cause transitorie/senza conseguenze dell’ipercalcemia sono rappresentate da emoconcentrazione, iperproteinemia, ipoadrenocorticismo e grave ipotermia ambientale. Le malattie esitano in un’ipercalcemia persistente patologica causando un incremento del riassorbimento osseo, riducendo l’escrezione renale del calcio, incrementando il suo assorbimento gastroenterico ed innalzando il legame sierico con proteine/complessi. Per ricordare le malattie che possono esitare nell’ipercalcemia si può utilizzare l’eponimo HARDIONS: H = iperparatiroidismo (primario e terziario), HHM (ipercalcemia umorale da neoplasia maligna), A = morbo di Addison, R = malattia renale, D = intossicazione da vitamina D (compresa la forma granulomatosa), I = idiopatica, O = osteolitica (osteomielite, immobilizzazione), N = neoplasia (HHM ed ipercalcemia osteolitica locale), S = spurie. In uno studio retrospettivo condotto su 71 gatti, i valori medi delle concentrazioni sieriche di tCa per i soggetti ipercalcemici sono risultati di 12,2 ± 1,6 mg/dl (mediana 11,5). I livelli sierici di tCa erano massimi nei gatti con neoplasia


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(13,5 ± 2,5 mg/dl) in confronto a quelli con insufficienza renale da sola (11,5 ± 0,4), oppure associata ad urolitiasi (11,5 ± 0,5). L’insufficienza renale è stata diagnosticata nel 38% dei gatti ipercalcemici ed 1/3 di questi era anche colpito da urolitiasi (Tab. 1). L’urolitiasi da ossalato di calcio è stata notata nel 15% della totalità dei gatti con ipercalcemia. La neoplasia è stata diagnosticata nel 21% dei casi, con 1/3 di linfosarcomi, 1/3 di carcinomi squamocellulari ed il rimanente terzo di leucemie, mielomi multipli, osteosarcomi, fibrosarcomi, sarcomi indifferenziati e carcinomi broncogeni. Va rilevato che la maggior parte dei gatti con linfosarcomi ed ipercalcemia nelle re-

centi segnalazioni è risultata FeLV-negativa, a differenza di quanto riportato nei primi lavori. Il carcinoma squamocellulare associato ad ipercalcemia era localizzato nella regione della testa e del collo (mandibola e condotto uditivo). Il carcinoma squamocellulare non è stato abbinato allo sviluppo di ipercalcemia nel cane. I gatti colpiti sia da neoplasia che da insufficienza renale costituivano l’8,5% dei casi. L’iperparatiroidismo primario, l’endocrinopatia non paratiroidea e la malattia infettiva eventualmente associata ad infiammazione granulomatosa costituivano, ciascuno, il 5,6% dei casi. L’ipercalcemia può anche essere associata ad avvelenamento da rodenticidi a base di colecalciferolo (intossicazione da vitamina D), ipoadrenocorticismo ed epatopatia. I granulomi nel punto di iniezione sono stati associati ad ipervitaminosi D, dovuta all’aumento delle quantità di calcitriolo circolante nel gatto. L’istoplasmosi è occasionalmente abbinata ad ipercalcemia, probabilmente a causa della produzione di calcitriolo da parte del tessuto granulomatoso. Benché non ben documentata, l’ingestione di una popolare pianta domestica (il cestro, Cestrum diurnum) è una potenziale causa di ipercalcemia nel gatto, dal momento che questa pianta contiene sostanze calcitriolo-simili. L’ingestione di calcipotriene (una crema antipsoriasi utilizzata in medicina umana) è stata riferita come causa di ipercalcemia nel cane, ma non nel gatto; stanno comparendo segnalazioni aneddotiche dell’occorrenza di ipercalcemia nel gatto dopo il leccamento di calcipotriene dalla cute dell’uomo.

Tabella 1 Frequenza di condizioni associate all’ipercalcemia nel gatto (Savary et al., 2000) Insufficienza renale

38%

Neoplasia

21%

Urolitiasi

15% (12,7% in associazione con insufficienza renale)

Neoplasia + Insufficienza renale

8,5%

Iperparatiroidismo primario

5,6%

Endocrinopatia non paratiroidea

5,6%

Malattia infettiva

5,6%

Cause scarsamente definite (Idiopatiche?)

12,7%

Tabella 2 Modificazioni previste negli ormoni calcemici e nel profilo biochimico in associazione con i disordini dell’ipercalcemia tCa

iCa

alb

Corr tCa

Pi

PTH

PTHrP

25-OH Vit-D

1,25-OH2 Vit -D

PTG ULS, -Chirurgia

N

N

↓N

↑N

N

N

N↑

Singolo ↑

2-HPTH, Nutrizionale

N↓

N↓

N

N↓

N↑

N

↓N

N↓

Multiplo ↑

2-HPTH, Renale

N ↓↑

N↓

N

N

↑N

N

N↓

N↓

Multiplo ↑

N

N

N↓

↓N

Multiplo ↑

Ipercalcemia umorale

N↓

↑N

↓N

↓N

↑N

N

↓N↑

Locale osteolitico

N↓

↑N

N↑

↓N

N↑

N

N

Colecalciferolo

N

↑N

N

N↑

N↓

calcitriolo

N

N↑

N

N

↓N

calcipotriene

N

↑N

N

N

↓N

↓N

Ipoadrenocorticismo

N↓

↑N

↓N

N

N

↓N

N

Ipervitaminosi A

N

N

N

N

N↓

↓N

Idiopatico (gatto)

N

N↑

↓N

N

N

N↓↑

↓N

Disidratazione

N↑

↑N

↑N

N↑

N↓

N

N

N

N

Esposizione ad alluminio (insufficienza renale)

N

↑N

↓N

N

N

N↓

N↑↓

Ipertiroidismo (gatto)

N

N↑

↑N↓

N

N

N↓

N↑

Intossicazione da uva passa/acini d’uva (cane)

-

N

N↑

-

-

-

-

-

1-HPTH

3-HPTH Associato a neoplasia maligna

Ipervitaminosi D


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Ipercalcemia idiopatica del gatto 3° 1° HPTH

PTH

2° HPTH

Intervallo normale

HHM idiopatico

Hypo PTH Serum Ionized Calcium FIGURA 1 - Relazione dei valori sierici previsti di PTH con il calcio ionizzato ed i disordini del calcio nel gatto.

Il riscontro simultaneo dell’ipercalcemia e dell’insufficienza renale cronica primaria costituisce una notevole difficoltà per stabilire quale sia l’origine dell’ipercalcemia. Quest’ultima può esitare in un’insufficienza renale primaria, ma può anche avvenire il contrario. I gatti con ipercalcemia idiopatica possono anche essere colpiti da iperazotemia postrenale quando presentano ureteroliti di ossalato di calcio che determinano un’ostruzione ureterale. La misurazione di iCa è molto utile per stabilire la fisiopatologia dell’aumento dei valori sierici di tCa nei gatti con insufficienza renale cronica. In questi animali, spesso la concentrazione di iCa è bassa o normale (cause dell’aumento del legame del calcio agli agenti complessanti). Quasi il 33% dei gatti con insufficienza renale cronica ed ipercalcemia basata sul valore di tCa presentava un incremento di iCa. Quando l’insufficienza renale è associata ad elevate concentrazioni di quest’ultima, si deve sospettare la presenza di un’ipercalcemia associata a tumore maligno, ipervitaminosi D, iperparatiroidismo terziario ed ipercalcemia idiopatica. Per ottenere una diagnosi definitiva è necessaria l’integrazione della misurazione di iCa con quella dei livelli di ormone calciotrofico (PTH, PTHrP, 25(OH)-vitamina D ed 1,25(OH)2-vitamina D) (Tab. 2, Fig. 1).

Urolitiasi da ossalato di calcio L’University of Minnesota Urolithiasis Center ha notato che circa 1/3 dei gatti in cui si formano uroliti di ossalato di calcio presenta un’ipercalcemia associata di origine non determinata. In alcuni casi la concentrazione del calcio diminuiva dopo l’incremento della fibra nella dieta. L’ipercalcemia idiopatica è stata notata in cinque gatti con urolitiasi da ossalato di calcio alla University of Georgia. Per questi animali non sono stati pubblicati i profili completi degli ormoni regolatori del calcio. L’ipercalcemia si è risolta in seguito alla sospensione dell’acidificazione urinaria e/o alla modificazione della dieta. Non è chiaro se la fisiopatologia dell’ipercalcemia idiopatica nei gatti con uroliti di ossalato sia la stessa che si verifica in quelli che non formano calcio. È possibile che entrambi rappresentino fasi differenti dello stesso processo patologico.

Sino a non molto tempo fa, l’ipercalcemia veniva identificata con scarsa frequenza nel gatto, ma nell’ultimo decennio l’aumento inspiegabile dei livelli di calcio è stato riconosciuto sempre più spesso come riscontro incidentale. Questa ipercalcemia senza spiegazione è stata indicata con il termine di “idiopatica” e viene definita come una concentrazione sierica di iCa abnormemente elevata, la cui causa rimane sconosciuta anche dopo un’approfondita valutazione medica finalizzata ad escludere le cause note di ipercalcemia. La frequenza della diagnosi dell’ipercalcemia nei gatti del Nord America continua ad aumentare a velocità allarmante; siamo a conoscenza di segnalazioni sporadiche di ipercalcemia idiopatica nei gatti dell’Inghilterra e della Svizzera e si sospetta che il riscontro di questa condizione diventerà più comune in tutta l’Europa. Più del 50% dei campione prelevati da gatti ed inviati al DCPAH endocrinology laboratory per la valutazione dell’ipercalcemia è compatibile con una diagnosi di ipercalcemia idiopatica. Si rileva sempre più spesso che un certo numero di questi gatti mostra concomitanti segni gastroenterici. Presso il DCAH sono stati passati in rassegna in totale 427 casi di sospetta ipercalcemia idiopatica felina. I gatti esaminati avevano un’età compresa fra 0,5 e 20 anni (media 9,8 ± 4,6) e nel 27% dei casi erano a pelo lungo. La mancanza di segni clinici è stata notata in 196 casi (46%). Nel 15% dei casi sono stati osservati uroliti o nefroliti e nel 10% sono stati specificamente notati calcoli di ossalato di calcio. Nel 18% dei gatti è stato rilevato un lieve calo di peso non accompagnato da altri segni clinici. La costipazione cronica è stata riscontrata nel 5% dei gatti e l’infiammazione intestinale nel 6% dei gatti con ipercalcemia idiopatica. I livelli sierici di tCa sono aumentati per mesi o per più di un anno, spesso, inizialmente senza evidenti segni clinici. Anche i livelli sierici di iCa sono aumentati, talvolta in misura sproporzionata rispetto all’incremento di tCa. Il vomito (30%)e la perdita di peso (20%) erano i segni clinici più comuni nella descrizione iniziale dell’ipercalcemia idiopatica (Midkiff). Disuria (20%) e minzione inappropriata (15%) sono state attribuite allo sviluppo di urolitiasi. È interessante notare che nessun proprietario ha riferito poliuria o polidipsia. I gatti a pelo lungo costituivano il 40% dei soggetti della nostra casistica, in confronto al 14% di gatti a pelo lungo presentati alla clinica (Tab. 3). Il peso specifico medio dell’urina in questi animali era di 1,036 (con valori compresi fra 1,012 e 1,060). La funzione renale in base alla determinazione di azotemia e creatininemia era spesso normale all’inizio (12 gatti su 20 non erano iperazotemici al momento della scoperta dell’ipercalcemia, 5 su 20 presentavano simultaneamente ipercalcemia ed iperazotemia e 3 su 20 erano affetti da iperazotemia cronica prima dello sviluppo dell’ipercalcemia). Su 12 gatti inizialmente non iperazotemici, 3 svilupparono l’iperazotemia molti mesi più tardi. Nelle immagini radiografiche è stata osservata occasionalmente la nefrocalcinosi; la condizione si rileva con maggiore frequenza durante l’ecografia renale. La presenza di calcoli urinari viene identificata più comunemente con le radiografie che con le ecografie (quest’ultima tecnica spesso non evidenzia l’urolitiasi ureterale). Gli uroliti possono essere localizzati a livello di reni, ureteri e/o vescica, nonché in ogni possibile associazione di queste sedi, ma nella nostra casistica erano più comuni i calcoli renali.


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Tabella 3 Segnalamento e misurazione dei fattori di regolazione del calcio in tre studi condotti su gatti in cui è stata diagnosticata l’ipercalcemia idiopatica Studio preliminare

Midkif

Schenck

Schenck

Numero di gatti Età (anni) in cui è stata notata l’ipercalcemia Razze Sesso iCa (mmol/l) PTH (pmol/l) Calcitriolo (pmol/l) iMg (pmol/l)

20 5,8 ± 3,0 (2,0 – 13,4) 40% a pelo lungo 40% Femmine 1,65 ± 0,1 (1,48 – 1,90) 1,1 ± 0,8 (0 – 2,5) 67,2 ± 57,6 (12 – 180) —-

12 7,2 ± 4,4 (2,0 – 17,0) 50% a pelo lungo 67% Femmine 1,73 ± 0,15 (1,48 – 1,97) 0,8 ± 0,5 (0 – 1,4) 44,6 ± 12,4 (28,7 – 69,8) 0,68 ± 0,12 (0,42 – 0,80)

1000 10,2 ± 4,6 (0,5 – 22,5) 40% a pelo lungo 50% Femmine 1,70 ± 0,20 (1,44 – 2,67) 1,0 ± 0,7 (0 – 4,0) —0,6 ± 0,1 (0,26 – 1,46)

Nei gatti con ipercalcemia idiopatica, non si riscontrano segni di neoplasia maligna rilevabili mediante radiografie, ecografie addominali, valutazioni midollare e, in alcuni casi, neppure con la necroscopia completa. I test sierologici per la diagnosi delle infezioni da FeLV e FIV sono risultati negativi e i valori di T4 erano normali. I livelli di PTH sono normali o diminuiti, PTHrP non è rilevabile, la concentrazione di 25-(OH)-vitamina D è nella norma e i livelli di calcitriolo sono normali o bassi. L’analisi dei gas ematici non rivela alcun importante disturbo acidobasico. L’esplorazione della regione cervicale non è riuscita a evidenziare segni di iperparatiroidismo primario; la paratiroidectomia subtotale non è stata in grado di risolvere l’ipercalcemia. È stato riferito che un aumento della fibra nella dieta diminuisce i livelli sierici di calcio nei gatti colpiti. Tuttavia, nella nostra casistica non è stata rilevata alcuna modificazione delle concentrazioni di iCa in 11 gatti su 11 in seguito alla modificazione della dieta passando ad una che conteneva una maggior quantità di fibra o era dotata di proprietà alcalinizzanti. In alcuni gatti, la stimolazione mediante terapia con prednisone esita in un calo a lungo termine dei livelli di tCa ed iCa. Sei animali sono stati trattati con una dose giornaliera totale di 5-12,5 mg di prednisone; il valore di iCa è tornato normale in 3 gatti su 6, non è diminuito in 2 gatti su 6 ed ha mostrato una risposta equivoca in 1 gatto su 6. L’effetto del trattamento con glucocorticosteroidi sull’elaborazione renale del calcio non è stato studiato. Esiste una certa preoccupazione che questa terapia possa aumentare l’ipercalciuria riducendo il riassorbimento renale tubulare del calcio, il che potrebbe di conseguenza accentuare la genesi dei calcoli urinari. In alternativa, se questo trattamento diminuisce i livelli sierici di iCa, il carico di calcio filtrato dai glomeruli diviene minore, compensando qualsiasi riduzione del riassorbimento tubulare del calcio. Le cause dell’ipercalcemia idiopatica nel gatto restano poco chiare. Meritano ulteriore considerazione il ruolo dell’acidificazione della dieta, la restrizione del magnesio nella razione e/o il contributo di qualsiasi specifico costituente del cibo. Sono necessari altri studi che prevedano l’analisi completa degli ormoni regolatori del calcio, compreso il calcitriolo, e l’esecuzione di ripetute misurazioni di iCa in un maggior numero di gatti. È necessario raccogliere e valutare una dettagliata anamnesi alimentare, in modo da stabilire l’esistenza o meno di un potenziale ruolo eziologico di fattori legati alla dieta. Per chiarire il meccanismo dell’ipercalcemia saranno probabilmente necessari studi sull’equilibrio del calcio che prendano in

considerazione l’assunzione con la dieta, l’assorbimento intestinale, l’escrezione fecale, il riassorbimento osseo e l’escrezione urinaria. I marcatori dell’aumento del turnover osseo che compaiono nell’urina possono servire a determinare se il riassorbimento osseo contribuisce all’ipercalcemia idiopatica. La misurazione dei metaboliti della vitamina A e dell’alluminio può rivelare alcune delle cause meno usuali di ipercalcemia. Per valutare gli effetti dell’acidificazione cronica della dieta si può valutare l’opportunità di un trattamento di prova con alcali. Quando la modificazione della dieta e il trattamento di prova con prednisolone non hanno avuto successo per risolvere l’ipercalcemia, si deve considerare la terapia con bifosfonato. Si può anche pensare che l’ipercalcemia si sviluppi soltanto in una popolazione di gatti geneticamente suscettibile che sia stata stimolata da un fattore di provocazione ancora indefinito. Nei gatti in cui è stata diagnosticata l’ipercalcemia idiopatica non è stato effettuato lo studio sistematico della funzione surrenalica (ipoadrenocorticismo?) e dell’analisi dei gas ematici. L’elevata frequenza di gatti a pelo lungo suggerisce la possibilità di una componente genetica dello sviluppo della malattia. L’elevata frequenza dei gatti con ipercalcemia idiopatica in cui è stata notata un’infiammazione intestinale (IBD) può suggerire un ruolo dell’intestino nello sviluppo dell’ipercalcemia.

Bibliografia Chew, D.J., and Schenck, P.A. 2003. Clinical disorders of hypercalcemia and hypocalcemia in dogs and cats. Presented at the ACVIM Meeting, May 2003, Charlotte, NC. Chew, D.J., and Schenck, P.A. 2003. Assessment and treatment of clinical cases with elusive disorders of hypercalcemia. Presented at the ACVIM Meeting, May 2003, Charlotte, NC. McClain HM, Barsanti JA, Bartges JW. Hypercalcemia and calcium oxalate urolithiasis in cats: a report of five cases. J Am Anim Hosp Assoc 1999; 35(4): 297-301. Midkiff AM, Chew DJ, Randolph JF, Center SA, DiBartola SP. Idiopathic hypercalcemia in cats. J Vet Intern Med 2000; 14: 619-626. Savary KCM, Price S, Vaden SL. Hypercalcemia in cats: a retrospective study of 71 cases (1991-1997). J Vet Intern Med 2000; 14: 184-189. Schenck, P.A. and Chew, D.J. 2003. What’s new in the assessment of calcium disorders – Part 1. Presented at the ACVIM meeting, May 2003, Charlotte, NC. Schenck, P.A. and Chew, D.J. 2003. What’s new in the assessment of calcium disorders – Part 2 Clinical Approach to Calcium Disorders. Presented at the ACVIM meeting, May 2003, Charlotte, NC.

Indirizzo per la corrispondenza: Dennis J. Chew, DVMProfessor Department of Veterinary Clinical Sciences College of Veterinary Medicine, The Ohio State University 601 Vernon L. Tharp St., Columbus, Ohio 43210, USA


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La dieta: quale ruolo nella genesi e nel trattamento della FLUTD Dennis J. Chew DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA

Gli ingredienti della dieta e le modalità con cui vengono alimentati gli animali influiscono sul volume, sul pH e sulla concentrazione dei soluti nell’urina e, di conseguenza, possono contribuire all’eziologia, al trattamento o alla prevenzione delle recidive di alcune cause di affezioni delle basse vie urinarie. Gli effetti della dieta sulle malattie del tratto distale di questo apparato nel gatto possono essere distinti in quelli che vengono indotti dalla dieta stessa (come nello sviluppo degli uroliti di struvite durante il consumo di una dieta alcalinizzante) o quelli che vengono considerati sensibili ad essa (ad es., le diete calcololitiche o quelle studiate per prevenire il futuro sviluppo degli uroliti). Sembra che alcuni gatti sviluppino calcoli urinari o cistite idiopatica come conseguenza del fatto di essere “gatti sensibili in un ambiente provocatorio”. Le indicazioni per il trattamento dietetico dei gatti con cistite idiopatica richiedono di prendere in considerazione la costanza, la consistenza e la composizione della dieta. Costanza. La nostra esperienza clinica suggerisce che le modificazioni della dieta possano esitare in alcuni pazienti nella ricomparsa dei segni clinici della cistite idiopatica/interstiziale. Inoltre, con l’avvento di molti alimenti veterinari e commerciali caratterizzati da una formulazione simile e commercializzati per l’impiego nei gatti con segni clinici riferibili alle basse vie urinarie, talvolta si riscontra la comparsa di recidive di queste manifestazioni quando l’alimentazione di questi gatti viene cambiata passando da uno qualsiasi di questi alimenti ad un altro di essi. Queste osservazioni suggeriscono che le modificazioni della dieta possano esitare nella ricomparsa di manifestazioni cliniche. Questa ipotesi è rafforzata dall’osservazione che alcuni gatti con segni di interessamento delle basse vie urinarie sembrano essere sensibili ad una varietà di stimoli ambientali. In attesa di ulteriori studi per verificare questa ipotesi, può essere prudente limitare la frequenza delle modificazioni della dieta in questo gruppo di pazienti. Consistenza. Abbiamo riscontrato che il 60% circa dei gatti con cistite idiopatica consuma quasi al 100% alimenti secchi per gatti; un ulteriore 17% consuma il 75% o più di alimenti secchi nell’ambito dell’assunzione giornaliera totale. In confronto alla totalità dei gatti, si tratta di una quantità sproporzionata di assunzione totale di cibo in forma secca. In confronto ai risultati ottenuti da indagini condotte negli USA all’interno dei nuclei familiari, nei gatti con cistite idiopatica è risultato significativa-

mente più probabile il consumo esclusivo di alimenti secchi. Ciò non significa che questi ultimi provochino la cistite idiopatica, ma suggerisce che il loro consumo possa svelare o aggravare il disordine in alcuni soggetti suscettibili (facendo della cistite idiopatica una malattia sensibile a determinati principi nutritivi piuttosto che indotta dalla dieta). Abbiamo segnalato che le manifestazioni cliniche riferibili alle basse vie urinarie presentavano delle recidive soltanto nell’11% dei gatti con cistite idiopatica durante un periodo di un anno di alimentazione con la formulazione umida di un alimento per uso veterinario studiato per determinare la produzione di urina acida. Le recidive sono state riscontrate nel 39% dei gatti alimentati con la forma secca di questo cibo, suggerendo la possibilità che siano importanti sia la costanza che la consistenza (aumentata assunzione di acqua) anche se le ragioni di questo effetto restano da determinare. Entrambe le diete contenevano un potenziale carico di soluti renali simile ed hanno determinato un grado analogo di acidificazione dell’urina. È interessante notare che il peso specifico di quest’ultima nei gatti alimentati con la forma secca era di solito superiore a 1.050 (media di 1.050), mentre quello dei gatti alimentati con la dieta umida di solito era inferiore a 1.040 (media di 1.030). Sembra che la forma umida abbia protetto quasi il 90% dei gatti dalle recidive di segni clinici delle basse vie urinarie per periodi fino ad un anno e la costanza della dieta abbia assicurato una protezione del 60% circa, mentre al 10% non sia stata offerta alcuna protezione dalle recidive da parte della dieta. Oltre all’acqua, le diminuzioni correlate alla dieta dei livelli urinari di magnesio e/o gli aumenti di quelle di calcio, potassio e/o ioni idrogeno sono tutte cause capaci di influenzare l’attività delle fibre nervose sensoriali nell’urotelio. Sfortunatamente, la maggior parte di questi effetti è stata studiata utilizzando sistemi sperimentali in vitro. Gli effetti del contenuto di elettroliti nell’urina sui segni clinici delle basse vie urinarie non sono stati adeguatamente studiati, ma possono essere importanti nel trattamento di alcuni pazienti. L’aumento della frequenza dell’urolitiasi da ossalato di calcio può essere stato determinato come conseguenza delle modificazioni della dieta studiate per aumentare il grado di acidificazione urinaria e ridurre la concentrazione di magnesio nell’urina. È possibile che il grado di acidificazione sistemica ottenuto da alcuni di questi alimenti accentui la calciuria, dal momento che gli ioni idrogeno sono tamponati dal minerale osseo. Il magnesio nel-


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FIGURA 1 - % di calcoli urinari prelevati da gatte femmine ed inviati all’Urinary Stone Laboratory della University of California, Davis. Per cortese concessione di Dr. Jodi Westropp, Dr. Gerarld Ling and Annette Ruby.

Gatti maschi

FIGURA 2 - % di calcoli urinari prelevati da gatti maschi ed inviati all’Urinary Stone Laboratory della University of California, Davis. Per cortese concessione di Dr. Jodi Westropp, Dr. Gerarld Ling and Annette Ruby.

l’urina funge da veleno cristallino che diminuisce l’associazione di calcio ed ossalato; il calo del magnesio nell’urina potrebbe accentuare le probabilità di questa associazione. Il consumo di diete capaci di acidificare l’urina ed il ricovero in casa sono stati segnalati come fattori di rischio indipendenti per l’urolitiasi da ossalato di calcio. Nessun protocollo medico si è dimostrato in grado di determinare con successo la dissoluzione degli uroliti di ossalato di calcio, per cui in questi pazienti si raccomanda il ricorso alla chirurgia o all’eliminazione mediante uroidropropulsione. Per prevenire le recidive, può essere utile adottare alcune modificazioni specifiche per i singoli calcoli, oltre alla diluizione dell’urina. Anche se nel gatto non è mai stato documentato un calo del rischio delle recidive dei calcoli di ossalato di calcio riferibile alla modificazione della dieta, sembra essere ragionevole il passaggio ad una razione meno acidificante e non sottoposta a restrizioni dei livelli di magnesio, dal momento che il peso specifico urinario che ne deriva è < 1.030. Gli agenti acidificanti sono controindicati nei gatti con urolitiasi da ossalato di calcio. Alcuni produttori di alimenti per uso veterinario offrono diete studiate per ridurre la probabilità di formazione di calcoli di ossalato di calcio. Può essere utile la somministrazione di citrato sotto forma di sale di potassio, perché il citrato urinario può agire da inibitore della formazione di ossalato di calcio ed il suo effetto alcalinizzante può ridurre il rilascio osseo del calcio, anche se non si dispone di dati relativi a casi clinici nel gatto. Oltre a questo effetto, non sono noti vantaggi della manipolazione terapeutica del pH urinario, perché la solubilità dell’ossalato resta relativamente immutata entro un’ampia fascia di pH urinario.

FIGURA 3 - Potenziali effetti della dieta e dell’assunzione attraverso di essa di vari elementi sull’induzione, mantenimento o recidive dell’urolitiasi o sulla cistite idiopatica/interstiziale nel gatto.


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Stato dell’arte sull’insufficienza renale cronica nel cane e nel gatto Dennis J. Chew DVM, Dipl ACVIM, Columbus, Ohio, USA

Nella maggior parte dei pazienti con stadi avanzati di nefropatia cronica, la perdita progressiva di varie funzioni renali sembra inevitabile. La progressione si verifica se il danno renale sottostante non può essere trattato (ad es., una glomerulonefrite dovuta ad un antigene non identificato o un’amiloidosi), ma a volte può anche continuare quando la causa della lesione iniziale è stata rimossa. La “progressione inesorabile dell’insufficienza renale cronica”, tuttavia, si verifica soltanto dopo una perdita sostanziale della massa renale che sia già avvenuta indipendentemente dal danno scatenante originale. In cani e gatti in condizioni sperimentali, prima che si instaurasse una progressione inesorabile, è stato necessario eseguire una nefrectomia subtotale in 5 casi su 6 o 11 casi su 12. Una varietà di interventi (dietetici e farmacologici) può rallentare la progressione della nefropatia, migliorare la qualità della vita del paziente e/o prolungarla. Gli adattamenti emodinamici dei nefroni superstiti possono aumentare la velocità di filtrazione glomerulare del singolo nefrone, il flusso plasmatico glomerulare e la pressione idraulica capillare transglomerulare che rappresentano delle modificazioni iniziali di adattamento finalizzate a mantenere la funzione escretoria e ad incrementare la velocità di filtrazione glomerulare totale del rene. È possibile che questa ipertensione intraglomerulare e l’incremento del volume glomerulare finiscano però per compromettere i glomeruli, come illustrato nella Figura 1.

Adattamento/Maladattamento ↑ Emodinamiche glomerulari Ipertensione sistemica

↑ Volume glomerulare

↓ VFC

Diabete mellito

↑ Traffico proteico Reazione mesangiale

↑ Elaborazione tubulare Glomerulosclerosi Nefrite tubulointerstiziale FIGURA 1 - In alcuni casi, come illustrato nella figura, gli incrementi compensatori (adattamenti) delle emodinamiche glomerulari e del volume glomerulare possono in realtà rappresentare una forma di maladattamento.

Anche l’ipermetabolismo tubulare, l’iperammoniogenesi, la mineralizzazione renale, l’ipertensione arteriosa sistemica, la coagulazione intrarenale ed i meccanismi immunitari possono contribuire ad un danno renale progressivo cronico. Gli scopi del trattamento dell’insufficienza renale cronica sono minimizzare i segni clinici dell’uremia, ritardare la progressiva perdita di funzioni renali e massimizzare lo status nutrizionale del paziente. Uno dei principali risultati che si vogliono ottenere con questi trattamenti è un’adeguata assunzione con la dieta che consenta una buona qualità di vita con uno stato di forma ragionevole. Il calo dell’assunzione di cibo e lo scadimento della condizione corporea sono comuni durante l’insufficienza renale cronica e possono derivare da modificazioni fisiche (ulcere orali e gastriche, necrosi della lingua), alterazioni del senso dell’olfatto e del gusto, cambiamenti metabolici che influiscono sull’appetito (anemia, ipokalemia, acidosi metabolica, iperazotemia, iperparatiroidismo) e modificazioni della dieta che condizionano negativamente l’appetibilità.

Modificazioni della dieta L’assunzione di cibo con la dieta deve probabilmente essere ottimizzata e modificata in funzione dello stadio della nefropatia, della risposta individuale dell’animale ad una specifica dieta e del suo ambiente interno uremico. Recentemente, sono stati pubblicati studi di risultato della medicina basata sui fatti in cani e gatti con insufficienza renale cronica ad insorgenza spontanea che evidenziano effetti salutari della modificazione dell’alimentazione. Le diete veterinarie per soggetti nefropatici (cd “renalfriendly”) sono generalmente caratterizzate da una riduzione di proteine, fosforo, calcio e sodio, e da un’integrazione con carboidrati, fonti di alcali (citrato di potassio) ed acidi grassi polinsaturi in un rapporto favorevole fra omega-6 ed omega-3. In confronto agli alimenti che si trovano comunemente nelle drogherie o nei negozi di articoli per animali, le diete veterinarie per soggetti nefropatici presentano una restrizione dei livelli proteici di circa 1/3-1/2, mentre quelli del fosforo sono ridotti del 70-80%. Gli alimenti umidi presentano generalmente una restrizione fosforica più accentuata dei loro equivalenti secchi ed esistono sostanziali differenze fra i prodotti disponibili. Gli alimenti secchi per gatti, ma non quelli umidi, sono integrati con potassio ad un livello pari a circa il doppio di quello di


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mantenimento, apparentemente nel tentativo di evitare la nefropatia caliopenica. È necessario confrontare l’assunzione di principi nutritivi delle diete veterinarie in funzione di ogni 100 kcal di energia assunta.

Restrizione del fosforo nella dieta e leganti intestinali del fosforo La restrizione del fosforo può avere effetti positivi sull’istologia e sulla funzione renale e/o sulla mortalità nei cani e nei gatti con insufficienza renale cronica. Questi effetti sono indipendenti dalla restrizione proteica. Non è noto con precisione come la restrizione del fosforo eserciti la propria azione benefica, ma è possibile che avvenga attraverso una minore mineralizzazione renale ed un’attenuazione del grado dell’iperparatiroidismo secondario. La minore mineralizzazione renale può essere dovuta ad un calo della concentrazione e delle azioni del paratormone (PTH) ed eventualmente ad una diminuzione diretta del prodotto del calcio per il fosforo. Per ottenere un adeguato controllo del carico totale del fosforo nell’organismo e del PTH, oltre a ridurre i livelli di questo elemento nella dieta, è spesso necessario utilizzare gli agenti capaci di legarlo a livello intestinale (idrossido di alluminio, carbonato di calcio, acetato di calcio).

Ulteriore controllo dell’iperparatiroidismo secondario renale con calcitriolo La restrizione del fosforo nella dieta come singola modalità terapeutica è in grado di diminuire le concentrazioni di PTH in alcuni cani e gatti con nefropatia cronica o insufficienza renale in fase iniziale. Il ritorno della fosforemia alla normalità non fornisce una garanzia del fatto che anche le concentrazioni di PTH si normalizzino, dal momento che la restrizione fosforica agisce soltanto nei soggetti che hanno un apparato tubulare abbastanza attivo in grado di effettuare la sintesi del calcitriolo una volta che gli effetti inibitori dell’eccesso di fosforo sulla sintesi stessa siano rimossi. L’assunzione giornaliera di basse dosi di calcitriolo per via orale riduce efficacemente i livelli di PTH a valori normali o inferiori alla soglia tossica. Il calcitriolo esercita il proprio effetto attraverso l’inibizione genomica della sintesi dell’ormone paratiroideo (inibizione della trascrizione del DNA in RNA messaggero nel nucleo delle ghiandole paratiroidi). Questo effetto può richiedere mesi prima di manifestarsi pienamente in seguito alla prescrizione di una dose di 2,5-3,5 ng/kg una volta al giorno. Cani sottoposti a nefrectomia subtotale sperimentale hanno richiesto 6 ng/kg per ottenere una diminuzione efficace dei livelli di PTH ad un mese, una dose che noi prescriviamo con scarsa frequenza nei soggetti con iperparatiroidismo refrattario. Prima e durante la prescrizione dei trattamenti con calcitriolo è essenziale un adeguato controllo dei livelli sierici del fosforo, che devono essere portati a concentrazioni inferiori a 6,0 mg/dl.

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ACE-inibizione L’angiotensina-II svolge un ruolo fisiopatologico nella proteinuria e nella progressione della nefropatia. Può intervenire anche nella progressione delle nefropatie non proteinuriche. L’enzima convertente facilita la formazione dell’angiotensina-II a partire dall’angiotensina-I sia a livello locale, all’interno del rene attraverso l’orletto a spazzola dei tubuli prossimali, che attraverso l’attività dell’endotelio sistemico. L’attività dell’angiotensina-II a livello del rene provoca la vasocostrizione delle arteriole glomerulari esercitando un effetto preferenziale a livello dell’arteriola efferente in confronto a quella afferente. La vasocostrizione dell’arteriola efferente in un momento di nessuna modificazione in quella afferente aumenta la pressione capillare intraglomerulare. La progressione della nefropatia nei nefroni superstiti può essere attribuita in parte alla persistenza di questa ipertensione, un processo che è associato all’incremento del traffico delle macromolecole nel mesangio, con conseguente proliferazione di cellule mesangiali ed aumento della matrice mesangiale (glomerulosclerosi), come descritto nella Figura 1. L’angiotensina II ha effetti non emodinamici che sono potenzialmente importanti, perché può agire da fattore di crescita e stimolarne altri che influiscono sulla vascolarizzazione renale e sulla crescita tubulare. Nel corso di uno studio in doppio cieco multicentrico (Grauer 2000), in 29 cani clinicamente affetti da glomerulopatia (di tipo membranoso in 16 casi e membranoproliferativo in 13) è stato effettuato per 6 mesi un trattamento di ACE-inibizione con enalapril alla dose di 0,5 mg/kg 1 o 2 volte al giorno (n = 16) o con un placebo (n = 14). La dose dell’enalapril o del placebo è stata aumentata da 1 a 2 volte al giorno se dopo un mese di trattamento la riduzione dell’UPCR era < 50%. Tutti i cani sono stati anche sottoposti ad una terapia concomitante con acido acetilsalicilico alla dose di 0,5-5,0 mg/kg 1 o 2 volte al giorno, nonché ad una moderata restrizione proteica della dieta, studiata per il trattamento dell’insufficienza renale nel cane. I gruppi trattati con enalapril e con placebo, all’inizio della prova, si equivalevano per grado di iperazotemia, pressione sistolica e valutazione istologica glomerulare. Nel gruppo di cani trattato con enalapril 9 sono migliorati, 4 non hanno presentato alcuna progressione e 3 hanno mostrato una progressione della nefropatia; in due cani, al terzo e quinto mese dello studio, è stata necessaria l’eutanasia a causa dell’insufficienza renale. Nessun cane trattato con placebo è migliorato, 4 non hanno mostrato alcuna progressione e 10 hanno presentato una progressione. Almeno per 6 mesi, il trattamento con enalapril dei cani clinicamente affetti da glomerulonefrite idiopatica riduce la proteinuria e la pressione sistolica e ritarda l’insorgenza dell’iperazotemia che si sarebbe altrimenti avuta. Benefici analoghi sulla proteinuria e sul ritardo dell’insorgenza dell’iperazotemia sono stati osservati in cani samoiedo con nefrite ereditaria trattati con enalapril, ma senza il calo della pressione sistolica. Nell’Unione Europea, il benazepril è registrato per il trattamento dell’insufficienza renale cronica nel gatto


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[Fortekor®] sulla base di risultati ottenuti in 201 animali di questa specie in cui la malattia era dovuta a varie cause e che erano stati selezionati sulla popolazione dei felini portati alla visita presso strutture veterinarie private. I gatti di questo studio sono stati trattati con benazepril (0,5-1,0 mg/kg una volta al giorno; dose media 0,73 mg/kg) o con un placebo. Rispetto a quest’ultimo, sono stati osservati benefici effetti per quanto riguarda la qualità della vita, il miglioramento dell’appetito, l’incremento ponderale ed il prolungamento della speranza di vita. La qualità della vita è aumentata anche nel gruppo trattato con placebo (restrizione di proteine e fosforo nella dieta). Però, l’incremento ponderale è stato minore; nell’arco di un periodo di 12 mesi si è osservato un aumento di peso di maggiore entità nei gatti che erano trattati con benazepril, specialmente quelli che presentavano un’insufficienza renale cronica più grave. La sopravvivenza media nei soggetti trattati con benazepril è stata di 501 giorni, in confronto a 391 giorni dei gatti trattati con placebo. Quando sono stati presi in considerazione i gatti con grave insufficienza renale cronica, la sopravvivenza è stata di 101 giorni in quelli trattati con benazepril e 126 giorni in quelli di controllo. I risultati di questo studio sono in attesa di un’ulteriore valutazione prima di poter suggerire l’impiego dell’ACE-inibizione come metodo standard per il trattamento di tutti i gatti con insufficienza renale cronica.

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Cistite idiopatica/intestiziale nel gatto: diagnosi e trattamento Dennis J. Chew DVM, Dipl ACVIM Columbus, Ohio, USA

Cistite idiopatica La cistite idiopatica è la diagnosi più comune nei gatti con meno di 10 anni di età che presentano segni di malattia delle basse vie urinarie, dal momento che costituisce il 6070% dei casi di animali portati alla visita a causa di segni clinici riferibili ad irritazione durante la minzione. Il termine di affezione idiopatica delle basse vie urinarie è appropriato nei casi in cui non si riesce ad identificare la causa di irritazione della minzione anche dopo aver effettuato una completa indagine diagnostica comprendente analisi delle urine, urocoltura e tecniche di diagnostica per immagini quali radiografie, cistografia con mezzo di contrasto, uretrografia con mezzo di contrasto ed ecografia della vescica, variamene associate fra loro. I cristalli di struvite non sembrano danneggiare l’urotelio normale e non è necessario sforzarsi di acidificare l’urina e ridurre la cristalluria da struvite mediante modificazione della dieta. Non è stato dimostrato alcun valore dei tentativi di acidificazione dell’urina impiegando alimenti secchi per gatti formulati con un basso tenore di magnesio o ceneri ai fini del trattamento dei gatti con segni clinici a carico delle basse vie urinarie associati a cistite idiopatica. Dal momento che è significativamente più probabile che i soggetti con cistite idiopatica siano stati alimentati con un prodotto secco, la dieta deve essere cambiata passando esclusivamente ad alimenti umidi, a meno che ciò non risulti troppo stressante per l’animale o il suo proprietario. Le recidive dei segni delle basse vie urinarie dei gatti alimentati con una dieta secca erano del 39%, mentre solo l’11% di quelli che consumavano alimenti umidi ha mostrato una recidiva dei segni clinici. In alcuni gatti le modificazioni della dieta possono esitare nella ricomparsa delle manifestazioni a carico delle basse vie urinarie, per cui sembra meglio utilizzare una dieta costante, limitando la frequenza dei cambiamenti nei pazienti con segni di malattia del tratto più distale dell’apparato escretore. Quando si effettuano delle modificazioni della dieta, quella nuova deve essere inizialmente offerta come un’alternativa a quella precedente piuttosto che rimpiazzarla direttamente. Alcuni gatti con segni clinici a carico delle basse vie urinarie sembrano essere sensibili ad una varietà di stimoli ambientali (“fattori stressanti”). Lo stress nella vita di un gatto è difficile da quantificare. Quello derivante dal confinamento in casa può essere importante per perpetuare la cistite idiopatica in alcuni gatti. Potenziali fonti di stress sono rappresentati da ambiente fisico, altri animali e proprie-

tari. Alcuni esempi sono i cambiamenti dell’ambiente di vita, del clima, dell’attività, dell’uso della cassetta delle deiezioni, dell’assunzione di cibo, dei ritmi di lavoro del proprietario e l’aumento o la diminuzione dei componenti umani o animali dalla popolazione del nucleo familiare. Dal momento che molti gatti con cistite idiopatica sembrano essere più reattivi del solito (aumento dell’efflusso del sistema nervoso simpatico), nei nuclei familiari in cui vivono più gatti può essere appropriato offrire separatamente cibo, acqua e contenitori per le deiezioni a quelli colpiti. Si cerca di ottenere una riduzione della percezione dello stress da parte del gatto. Suggeriamo di offrire a questi animali dei luoghi dove nascondersi e lasciargli delle opportunità di esprimere in qualche modo il loro naturale comportamento predatorio. Queste opportunità possono essere rappresentate da luoghi dove arrampicarsi e giocattoli che possano essere inseguiti e acchiappati. Per la riduzione dello stress può essere utile migliorare la qualità del tempo passato insieme da gatto e proprietario. Col termine di “arricchimento ambientale” si indicano collettivamente i miglioramenti effettuati per i gatti che vivono in casa. In alcuni casi, perché il trattamento abbia successo può essere necessario aumentare le possibilità di accesso all’ambiente esterno. Anche se quest’ultimo suggerimento può essere criticato sulla base del fatto che determina un aumento del numero dei gatti che muoiono a causa di altri animali o traumi da incidenti stradali, occorre tenere presente che molti felini con cistite idiopatica interstiziale cronica e minzione inappropriata che non rispondono al trattamento vengono soppressi eutanasicamente oppure abbandonati presso i rifugi per animali. I veterinari hanno oggi a disposizione un feromone che esercita un effetto calmante sul gatto. Questo prodotto (Feliway®) è un analogo di sintesi di un feromone facciale felino presente in natura ed è stato sviluppato specificamente per ridurre i comportamenti del gatto riferibili all’ansia, come la tendenza a spruzzare urina e marcare il territorio. I gatti rilasciano questi feromoni quando sfregano il muso quando si trovano a proprio agio nell’ambiente. Anche se non è stato specificamente sottoposto a valutazione nei soggetti con cistite idiopatica, è stato riferito che il trattamento con questo agente riduce l’ansia percepita da alcuni gatti in circostanze non familiari. La riduzione dell’ansia è presumibilmente associata al calo del deflusso del sistema nervoso simpatico che potrebbe essere utile nella cistite idiopatica. Effetti salutari del Feliway sono stati recentemente riferiti in gatti ricoverati presso il nostro ospedale.


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FIGURA 1 - Effetti dell’infiammazione neurogena sulla vescica urinaria nella cistite interstiziale. I neuroni sensoriali (fibre C) sembrano svolgere un ruolo centrale nella trasmissione dei potenziali d’azione attraverso le radici dorsali dei gangli spinali (DRG). Questi segnali vengono percepiti come dolorosi dall’encefalo. Inoltre, le fibre sensoriali possono propagare un riflesso assonale locale senza trasmissione di un potenziale d’assone. Il riflesso assonale esita nel rilascio di neurotrasmettitori peptidici come la sostanza P (SP) da parte delle terminazioni nervose. L’interazione della SP con i recettori delle pareti vasali esita in una fuoriuscita del contenuto vascolare, che può essere aumentata dal rilascio indotto dalla SP di istamina ad opera delle mast cell. Queste azioni possono dare origine alle emorragie petecchiali della sottomucosa osservate alla cistoscopia. I recettori della SP si trovano anche sulla muscolatura liscia, che quando è attivata stimola la contrazione muscolare. È anche illustrato l’urotelio (epitelio) e lo strato sovrastante di glicosaminoglicani (GAG) adiacente al lume vescicale. Il danneggiamento o il funzionamento dell’uno o dell’altro di questi strati o di entrambi può permettere ai costituenti dell’urina, quali protoni, ioni potassio, o fluidi iperosmolari (> 2000 mOsm/l) di attivare le fibre sensoriali. Gli effetti dello stress su queste fibre possono essere correlati ai segnali simpatici (SNS) efferenti discendenti che stimolano le DRG ed inducono il rilascio di neuropeptidi a livello periferico. Anche il rilascio locale di neurotrasmettitori da parte delle fibre simpatiche vescicali può stimolare le fibre sensoriali. Un altro fattore probabilmente coinvolto nell’infiammazione vescicale cronica, ma non dimostrato, è il rilascio locale e sistemico di fattori di crescita nervosa, che può promuovere lo sprouting delle fibre sensoriali terminali per aumentare le dimensioni del campo di ricezione delle fibre stesse.

L’amitriptilina possiede diverse caratteristiche potenzialmente utili dal punto di vista terapeutico nei gatti con cistite idiopatica. Fra questi rientrano l’analgesia, la stabilizzazione delle membrane delle mast cell, l’inibizione della ricaptazione della noradrenalina (che esita nella riduzione della sensibilità alla trasmissione noradrenergica), alcuni effetti anticolinergici ed un’azione antagonista dei recettori del glutammato e dei canali del sodio. Il trattamento con amitriptilina in 15 gatti con grave cistite interstiziale ricorrente ha notevolmente ridotto i segni clinici in molti casi. Nell’ambito di questo studio, il fallimento è stato definito come la ricomparsa di qualsiasi segno clinico riferibile alle basse vie urinarie nei 12 mesi successivi. L’amitriptilina è riuscita ad eliminare i segni clinici della cistite interstiziale nel 73% dei gatti per i primi 6 mesi e nel 60% dei soggetti studiati per l’intero arco di 12 mesi. Nonostante la remissione clinica, in tutti i gatti è stata osservata la persistenza di anomalie cistoscopiche in occasione delle valutazioni effettuate a 6 e 12 mesi. In alcuni casi, sono stati riscontrati aumento di peso, sonnolenza, diminuzione della toelettatura e calcoli vescicali transitori. I valori dell’esame emocro-

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mocitometrico completo e del profilo biochimico nella nostra casistica sono rimasti normali per tutto il periodo di un anno. L’amitriptilina va utilizzata con cautela nei gatti con cardiopatie sottostanti o gravi aritmie e in tutti i soggetti trattati con questo farmaco è necessario effettuare il monitoraggio dell’emogramma e del profilo biochimico. Quando si decide di sospendere le somministrazioni, è necessario ridurre gradualmente il dosaggio dell’amitriptilina per evitare bruschi segni da astinenza. L’amitriptilina è stata recentemente studiata in due differenti casistiche di gatti con forme acute di affezioni idiopatiche non ostruttive delle basse vie urinarie. I felini del primo studio sono stati trattati con 5 mg totali una volta al giorno per complessivi 7 giorni. In confronto ai soggetti trattati con placebo, quelli che assumevano l’amitriptilina hanno mostrato una riduzione della durata della pollachiuria, ma i segni clinici sono ricomparsi presto e con frequenza più alta, come è stato rilevato in occasione delle visite di controllo a 6, 12 e 24 mesi dopo l’iniziale dimissione. Alcuni degli effetti negativi notati nei gatti trattati con amitriptilina possono essere stati associati alla brusca sospensione delle somministrazioni – la dose dell’amitriptilina va ridotta gradualmente per evitare la comparsa di segni da astinenza. I gatti del secondo studio sono stati trattati con 10 mg di amitriptilina una volta al giorno per 7 giorni senza alcun vantaggio rispetto al placebo. Noi prendiamo in considerazione l’uso dell’amitriptilina solo per il trattamento della cistite idiopatica cronica (ricorrente o persistente) in cui altre terapie “standard” hanno fallito (educazione del cliente riguardo all’alimentazione dell’animale ed alla gestione della cassetta delle deiezioni, riduzione dello stress ed arricchimento dell’ambiente ed attuazione di metodi volti ad aumentare l’assunzione d’acqua sono gli standard nel nostro ospedale). Nei pazienti umani con cistite interstiziale è stata utilizzata la terapia sostitutiva con glicosaminoglicano (GAG), con una percentuale di successo nel 10-20% circa dei pazienti. La terapia sostitutiva con GAG è stata studiata a causa delle anomalie osservate nella diminuzione dell’escrezione dello stesso e nell’aumento della permeabilità vescicale nei gatti colpiti. Il presupposto su cui si basa l’impiego di questo trattamento è che il GAG somministrato si fissa all’urotelio difettoso, diminuendo così la permeabilità vescicale, anche se ci possono essere delle differenze nell’efficacia relativa fra i vari GAG nella determinazione di questo effetto. Inoltre, i glicosaminoglicani sono in grado di esercitare azioni analgesiche ed antinfiammatorie che possono risultare utili. Per nessuna delle preparazioni a base di GAG per uso veterinario attualmente disponibili per il trattamento della cistite idiopatica è stata dimostrata l’efficacia. Sulla base dei riscontri effettuati nei pazienti umani con cistite idiopatica e dell’assenza di un’efficacia dimostrata di ognuna delle preparazioni contenenti GAG attualmente disponibili per uso veterinario, non possiamo suggerire questo trattamento per la terapia di routine della cistite idiopatica. Se lo si utilizza, è bene impiegare una forma in polvere che possa essere aggiunta al cibo per evitare lo stress della somministrazione di prodotti per uso orale.


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Segni clinici Recidivano frequentemente o persistono ?

Fase 4

Fase 3 Recidive dei segni clinici?

+ Amitriptilina (?) + GAG (?) + Stress / Modificazione comportamentale + Attenuare il dolore Cistoscopia (?) Ripetere l’analisi dell’urina

+ Feromoni facciali + Maggiore riduzione dello stress + Maggiore dinamica dell’assunzione d’acqua Ampliamento delle indagini di laboratorio: Urocoltura Radiografia con mezzo di contrasto Ecografia Dati minimi di base: Analisi delle urine ed ecografia addominale

Fase 2

+ Dieta costante (Umida = MEGLIO) + Aumento dell’assunzione di acqua + Riduzione dello stress

Attesa “di guardia” - Risoluzione spontanea Educazione del cliente - “Dal punto di vista del gatto”

Segni clinici delle basse vie urinarie

Gestione della cassetta delle deiezioni Mancanza di odori/Struttura/ Spessore dello strato Preferenze/Avversioni Localizzazione/Ventilazione/Accesso al box Aumento della frequenza delle pulizie Pulizia ed eliminazione degli odori degli“Incidenti” Anamnesi urinaria (Periuria verticale o orizzontale? Minzione da irritazione?)

FIGURA 2 - Che cosa facciamo NOI? Approccio graduale al trattamento dei gatti con segni clinici riferibili ad interessamento idiopatico delle basse vie urinarie. Quando i gatti non riescono a liberarsi spontaneamente delle manifestazioni iniziali e quando i segni clinici recidivano, è necessario effettuare un maggior numero di indagini diagnostiche per assicurarsi che la diagnosi sia realmente rappresentata da una forma idiopatica della malattia. Prove cliniche correttamente controllate possono offrire un approccio migliore al trattamento in futuro, ma questo è ciò che si può fare nel frattempo.

Bibliografia Kraijer, M., J. Fink-Gremmels, et al. “The short-term clinical efficacy of amitriptyline in the management of idiopathic feline lower urinary tract disease: a controlled clinical study.” J Feline Med Surg 2003; 5(3): 191-6. Kruger, J. M., T. S. Conway, et al. “Randomized controlled trial of the efficacy of short-term amitriptyline administration for treatment of acute, nonobstructive, idiopathic lower urinary tract disease in cats.” J Am Vet Med Assoc 2003; 222(6): 749-58. Buffington CA. External and internal influences on disease risk in cats. J Am Vet Med Assoc 2002; 220:994-1002. Westropp JL, Buffington CA. In vivo models of interstitial cystitis. J Urol 2002; 167:694-702. Lavelle JP, Meyers SA, Ruiz WG, Buffington CA, Zeidel ML, Apodaca G. Urothelial pathophysiological changes in feline interstitial cystitis: a human model. Am J Physiol Renal Physiol 2000; 278:F540-53. Griffith CA, Steigerwald ES, Buffington CA. Effects of a synthetic facial pheromone on behavior of cats. J Am Vet Med Assoc 2000; 217:1154-6. Osborne CA, Kruger JM, Lulich JP, Polzin DJ. Feline urologic syndrome, feline lower urinary tract disease, feline interstitial cystitis: what’s in a name? J Am Vet Med Assoc 1999; 214:1470-80.

Buffington CA, Chew DJ, Woodworth BE. Feline interstitial cystitis. J Am Vet Med Assoc 1999; 215:682-7. Chew DJ, Buffington CA, Kendall MS, DiBartola SP, Woodworth BE. Amitriptyline treatment for severe recurrent idiopathic cystitis in cats. J Am Vet Med Assoc 1998; 213:1282-6. Buffington CA, Chew DJ, Kendall MS, et al. Clinical evaluation of cats with nonobstructive urinary tract diseases. J Am Vet Med Assoc 1997; 210:46-50. Kruger JM, Osborne CA, Goyal SM, et al. Clinical evaluation of cats with lower urinary tract disease. J Am Vet Med Assoc 1991; 199: 211-6.

Indirizzo per la corrispondenza: Dennis J. Chew, DVM, Professor Department of Veterinary Clinical Sciences College of Veterinary Medicine The Ohio State University, 601 - Vernon L. Tharp St. Columbus, Ohio 43210, USA


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Risultati studi epidemiologici sulle cardiopatie congenite nel cane David Chiavegato Med Vet, Padova

Gruppo di studio sulle cardiopatie ereditarie del Boxer: C. Bussadori, MD, DVM, Dipl.ECVIM (card) (coordinatore dello studio) – M. Borgarelli, DVM, Dipl.ECVIM (card) G. D’Agnolo, DVM – F. Migliorini, DVM – C. Quintavalla, DVM, PhD – R. Santilli, DVM Dipl. ECVIM (card) – A. Zani, DVM Prof P. Carnier, Prof L. Gallo, Dr E. Sturaro Dr L. Menegazzo (DVM - Dip. Scienze Zootecniche Università degli studi di Padova)

La razza boxer è considerata ad alta predisposizione per le cardiopatie congenite. Su 1136 cani di razza boxer tutti con età uguale o superiore a 1 anno, si è eseguita una valutazione clinica ed ecocardiografica seguendo le linee guida pubblicate sulla metodica in oggetto (C. Bussadori et al. J.V.C. vol. 2 n.2 Dic 2000). La valutazione prevedeva lo studio morfologico completo delle camere ventricolari con particolare attenzione ai tratti di efflusso dei rispettivi ventricoli, alla radice aortica e al tronco polmonare comune. Sono state eseguite le proiezioni parasternali destre, parasternali sinistre e sottoxifoidee posizionando i soggetti nei rispettivi decubiti laterali. In B mode si sono ottenute le misure volumetriche e l’area della camera ventricolare sinistra in diastole ed in sistole, i rapporti dimensionali atrio sinistro aorta e le dimensioni dell’anulus valvolare aortico e dell’anulus valvolare polmonare. Lo studio morfologico valvolare aortico ha permesso di definire l’eventuale presenza di lesioni riferibili a processi a carattere ostruttivo facendo riferimento alla classificazione di Pyle-Paterson dove si riconoscono forme di grado 1 (nodulo sottovalvolare), grado 2 (ring sottovalvolare) e grado 3 (tipo tunnel). La classificazione della stenosi polmonare prevede la divisione in tipo A (da fusione dei lembi) e in tipo B (ipoplasia dell’ostio). In M mode, dalla parasternale destra asse corto si sono ottenute le misure del ventricolo sinistro ed applicando il sistema di Teicholz, la frazione di accorciamento e di eiezione. La metodica Doppler ha permesso di valutare in modo completo le condizioni flusso in aorta ed in polmonare. Sono stati definiti affetti da stenosi subaortica tutti quei soggetti che oltre a presentare una velocità di picco superiore

a 2 m /s presentavano turbolenza e lesione ostruttiva. La gravità della stenosi è stata classificata in lieve (< 50 mmHg), moderata (fra 50 ed 80 mmHg) e grave (> 80 mmHg). Sono stati definiti affetti da stenosi polmonare tutti quei soggetti che oltre a presentare una velocità di picco superiore a 1,8 m/s presentavano turbolenza e lesione a carattere ostruttivo. In base ai gradienti le stenosi polmonari sono state classificate in lieve (< 50 mmHg), moderata (fra 50 ed 80 mmHg) e grave (> 80 mmHg). La prevalenza complessiva delle patologie congenite in questa razza è risultata complessivamente attorno al 13% (11% femmine, 16% maschi) con prevalenza delle stenosi sottovalvolari aortiche (75% nelle femmine, 60% nei maschi). Il tipo 1 ed il tipo 2 di Pyle Paterson appaiono essere le più rappresentate con prevalenza delle forme di grado lieve (38% nei maschi e 51% nelle femmine). Nelle stenosi polmonari le più rappresentate appaiono essere il tipo A, anche in questo caso con una prevalenza delle forme di grado lieve (7% nelle femmine e 19% nei maschi). Scarsamente rappresentate appaiono le forme associate (stenosi aortica con stenosi polmonare, 4% nelle femmine ed 8% nei maschi) e altre forme di cardiopatia congenita (le più frequenti appaiono il difetto interatriale e l’ernia peritoneo-pericardio diaframmatica). Lo studio ha permesso inoltre di valutare parametri medi di razza sia per quel che concerne lo studio morfologico che per lo studio Doppler.

Indirizzo per la corrispondenza: David Chiavegato e-mail: david.chiavegato@tin.it


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Il ruolo dell’alimentazione sullo stato di salute dell’orecchio del cane Alessandro Ciorba Med Vet, Perugia

Fausto Quintavalla, Ezio Bianchi, Med Vet, Sezione di Clinica Medica Veterinaria, Dipartimento di Salute Animale - Università di Parma Stefano Guazzetti, ASL Reggio Emilia

INTRODUZIONE Nel padiglione auricolare del cane si trovano numerose ghiandole (sebacee ed apocrine modificate o ceruminose) che producono il cerume: una mix di cheratinociti desquamati e pelo, particolarmente ricco in grassi. L’esame cromatografico dei lipidi presenti nel cerume di cane ha permesso di evidenziarne la composizione: colesterolo (100%), esteri del colesterolo (93,8%), acidi grassi liberi (93,8%), aldeidi di acidi grassi (93,8%), cere (93,8%), trigliceridi (68,8%), lecitina (56,3) e sfingomielina (18,8%). Nell’orecchio del cane possono albergare numerosi microrganismi patogeni che, virulentandosi, possono dar luogo a manifestazioni patologiche. Un esempio è rappresentato dalla Malassezia pachydermatis, la quale è intimamente adesa alle cellule dell’epitelio cornificato mediante i lipidi. In vitro si è osservato come l’aggiunta di acidi grassi saturi al medium di coltura non abbia effetti sulla crescita delle colonie di M. pachydermatis, mentre acido oleico e linoleico mostrino una attività micostatica. Scopo del presente lavoro è di valutare il ruolo svolto da una alimentazione a base di pesce, con aggiunta di ananas e ginseng, sull’orecchio di cane.

MATERIALI E METODI Animali. Sono stati utilizzati per questo studio n. 29 cani di entrambi i sessi, di età e razze diverse, in buone di condizioni di salute apparente, ospitati presso il canile municipale di Parma da almeno 6 mesi ed alimentati con un mangime del commercio in formulazione secca. I soggetti in questione, stabulati in box singoli, regolarmente vaccinati, sono stati suddivisi in due gruppi di pari consistenza numerica; il gruppo A ha ricevuto una alimentazione con un mangime in crocchette del commercio, nella cui formulazione compaiono pesci e sottoprodotti di pesci oltre a gambo di ananas ed estratto secco di ginseng, il gruppo B invece ha mantenuto la precedente alimentazione, fungendo da gruppo controllo. Nel gruppo A l’introduzione del nuovo alimento è stata effettuata gradatamente nell’arco di quattro giorni.I cani sono stati alimentati una volta al giorno alle dosi consigliate in rapporto al peso corporeo. L’acqua di bevanda è stata fornita ad libitum

Test. Prima di procedere alla prova tutti gli animali sono stati sottoposti a visita clinica, compendiata da indagini di laboratorio e strumentali. In particolare ad ogni cane è stato effettuato un prelievo ematico dalla vena cefalica dell’avambraccio ed un esame otoscopico seguito da un tampone auricolare. La valutazione strumentale del condotto uditivo ha permesso di rilevare che tutti i cani in oggetto presentavano membrane timpaniche integre. L’operatore, nell’ispezionare il canale auricolare poneva particolare attenzione all’eventuale presenza di infiammazione del padiglione e del condotto, croste, ipercheratosi, cerume/essudati (quantità), proliferazioni tessutali, riportando tali parametri su una apposita scheda clinica. Ciascun canale è stato fotografato nella porzione orizzontale ed identificato con un numero progressivo. È stato eseguito un tampone auricolare con lo scopo di sottoporre ad esame citologico e microscopico il materiale presente nel condotto orizzontale di ciascun orecchio Con cadenza quindicinale per 4 volte si è proceduto ad effettuare su tutti i cani il controllo ematologico, l’esame otoscopico ed i tamponi auricolari di ciascun orecchio, oltre a valutare il peso corporeo. Analisi statistica. I dati ottenuti sono stati elaborati statisticamente mediante analisi della varianza (ANOVA) secondo il metodo SAS.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Le otiti esterne costituiscono un importante capitolo nella clinica degli animali da compagnia, sia per la loro incidenza (oscillante tra il 5 ed il 20% dei cani) sia per le difficoltà terapeutiche e di gestione del paziente. Il più comune problema sottostante in grado di scatenare un’otite è una patologia allergica, in particolare un’allergia ed un’intolleranza alimentare. In taluni casi, le otiti ricorrenti possono essere le sole manifestazioni cliniche di una allergopatia L’otite esterna, associata a prurito e compatibile con una situazione di allergia alimentare, risponde rapidamente alla somministrazione di diete ipoallergeniche, in particolare se si apporta un’adeguata integrazione con acidi grassi essenziali. In seguito a flogosi aumenta la secrezione di cerume. Esso non sembra possedere un’attività antibatte-


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rica nei pazienti con otiti ricorrenti rispetto a quelli sani, ne esisterebbe correlazione tra colore del cerume e microrganismi isolati dal canale auricolare esterno. È noto che la media dei lipidi contenuti nel cerume di cani con malattie auricolari è significativamente più bassa (media 24,4%, range 4,369,6%) rispetto a quella di cani sani Tuttavia, nonostante M. pachydermatis prediliga il canale auricolare di cani con cerume ricco di lipidi, la sua crescita dipende strettamente dalla razza canina. I fattori dietetici giocano un ruolo particolarmente significativo nel mantenimento dello stato di salute della cute e del mantello. In particolare alcuni nutrienti svolgono un’azione determinante sulle patologie a componente allergica e la bibliografia mondiale è sempre più ricca di informazioni in tal senso, specialmente sul possibile ruolo protettivo svolto da alcuni nutrienti, come lipidi, vitamine e minerali. Il mangime impiegato nei cani appartenenti al gruppo A ha permesso di osservare positive modificazioni cliniche nel tempo, che sottolineano il ruolo antinfiammatorio dei componenti nutrizionali presenti nella dieta ad essi somministrata rispetto alla formulazione B utilizzata nel gruppo di controllo. Il pesce, costituente principale della dieta A, rappresenta una fonte alimentare nobile, ricca di vitamina B12, fosforo, selenio e acidi grassi polinsaturi (PUFA) omega-3. Questi ultimi hanno un ruolo strutturale nelle membrane cellulari agendo come precursori per eicosanoidi, come le prostaglandine ed i leucotrieni, e sono fondamentali nel mantenimento di un’adeguata funzionalità cutanea. L’acido linoleico (omega-6), di cui sono ricchi molti oli di semi, come precursore dell’acido arachidonico, possiede azione promovente la sintesi delle prostaglandine E, mentre l’acido eicosapentaenoico (EPA) e in misura minore l’acido docosoesanoico (DHA) contenuti negli oli di pesci grassi (sardine, sgombro, tonno, salmone) la inibiscono. L’aumentata sintesi di PGE2 promuoverebbe a sua volta la formazione di IgE e, in definitiva, un orientamento metabolico in senso proallergico. Oltre ai lipidi alcuni micronutrienti, ed in particolare la vitamina C, la vitamina E ed il selenio, sono in grado di svolgere un’azione positiva su alcune situazioni patologiche di natura allergica. Questi nutrienti sono ben rappresentati in altri due componenti presenti nella formulazione impiegata nel gruppo A: l’ananas ed il ginseng.

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L’ananas contiene flavonoidi e vitamina C, ad elevata proprietà antiossidante, che si oppongono agli effetti legati allo stress ossidativo. L’acido ascorbico (vitamina C) è considerato il più importante antiossidante presente nei fluidi cellulari, mentre l’a-tocoferolo è l’antiossidante liposolubile predominante in tessuti, plasma e lipoproteine a bassa densità (LDL).I flavonoidi sono presenti virtualmente in ogni alimento di origine vegetale. Essi posseggono attività biologiche multiple, compresi effetti vasodilatatori, antitumorali, antinfiammatori, antibatterici, antiallergici, antivirali, estrogenici e di stimolazione del sistema immunitario. In particolare sono in grado di inibire l’attività degli enzimi proossidanti lipossigenasi e ciclossigenasi, la fosfolipasi A2 (di cui è ben noto il ruolo nel processo infiammatorio), la glutatione reduttasi e la xantina ossidasi, le proteinchinasi, la succinossidasi e la NADH-ossidasi mitocondriali. Il ginseng, somministrato in polvere per via orale, è sempre stato utilizzato empiricamente per prevenire le patologie cerebrovascolari. Recentemente è stato dimostrato che le proprietà farmacologiche spettano al principale ingrediente della radice di ginseng, il ginsenoside Rb 1.Il ginseng, somministrato per via orale, sarebbe inoltre in grado di accelerare la rigenerazione epatica. Il presente studio dimostra come la dieta possa influenzare colore e quantità di cerume presente nel canale auricolare, agendo, in particolare modo, sulla secrezione sebacea del cane ed in particolare sugli esteri del colesterolo ed i trigliceridi. Nella prevenzione delle otiti nel cane riveste particolare importanza un corretto apporto alimentare, a motivo della sua influenza sulla produzione del cerume, che può minimizzare la risposta flogistica ed opporsi ad un cambiamento dell’ambiente auricolare, che può favorire lo sviluppo di lieviti e batteri patogeni.

Indirizzo per la corrispondenza: Fausto Quintavalla Università di Parma Via del taglio,8 (Pr) e-mail: fausto.quintavalla@unipr.it


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Alterazioni dei movimenti involontari negli animali: anche il cane e il gatto hanno il Parkinson? Esempi delle discinesie più frequenti nei piccoli animali Sigitas Cizinauskas Dr Med Vet, Dipl ECVN, Helsinki, Finlandia

I disordini del movimento sono condizioni che si manifestano con anomalie della posizione e del movimento e si distinguono in sindromi negative (acinetiche) e positive (ipercinetiche). I disordini negativi del movimento sono rappresentati da paresi, paralisi, cataplessia e sindromi acinetico-rigide (ad es., il Parkinsonismo nell’uomo). I disordini negativi non verranno ulteriormente trattati in questa sede. I disordini positivi sono rappresentati da crisi convulsive, maneggio, camminamento compulsivo e movimenti involontari. Questi ultimi, come il tremore, le mioclonie, il tetano, la tetania, la spasticità, la miotonia e gli spasmi muscolari saranno l’argomento delle due relazioni. Verrà posta particolare attenzione al tremore, dal momento che costituisce il più frequente disordine da movimento involontario nei piccoli animali. Il tremore è un movimento involontario, ritmico ed oscillatorio, di tutto l’organismo o di alcune sue parti. È la conseguenza di una contrazione alternata o sincrona di muscoli antagonisti reciprocamente innervati. Una caratteristica costante del tremore è che cessa con il sonno. La sua origine può essere a livello del sistema nervoso centrale e periferico. In medicina veterinaria sono stati suggeriti differenti schemi di classificazione di questa manifestazione, ma nessuno di essi è accettato universalmente. Le sindromi caratterizzate dal tremore possono essere distinte in base alla presentazione clinica, al momento in cui si verificano ed all’eziologia. La classificazione secondo la presentazione clinica è basata principalmente sul fatto che il tumore sia localizzato o meno in un’area dell’organismo (focale, arti o testa) oppure sia generalizzata. Il tremore focale spesso indica un’anomalia regionale nel sistema nervoso centrale. Il sistema di classificazione basato sul momento in cui si verifica il tremore permette di distinguere le manifestazioni a riposo, intenzionali e da azione. Il tremore a riposo è comune nell’uomo (Parkinsonismo) e viene descritto negli animali (ma è raro). Il tremore intenzionale implica che il problema si verifichi quando il paziente intende muoversi. Si osserva spesso sotto forma di un fine tremore della testa e può essere meglio dimostrato quando l’animale cerca di mangiare o bere. Di solito è causato da patologie cerebellari nel cane e nel gatto. In confronto al tremore intenzionale, quello da azione si ha quando determinate parti del corpo vengono mantenute attivamente in certe posizioni e può essere accentuato quando è necessaria una maggior precisione dei movimenti. Questo tipo di tremore è raro negli animali.

Il tremore può essere distinto in fisiologico, patologico ed essenziale, a seconda della sua eziologia. Questo tipo di classificazione è quello preferito dall’autore ed è il più importante ai fini clinici. Il tremore indotto fisiologicamente è causato da ipotermia, freddo, dolore, desiderio intenso, paura, eccitazione e sfinimento. In questi casi, il problema scompare con il riposo o in seguito alla correzione della causa sottostante. Il tremore fisiologico è solitamente di ampiezza minore e non influisce significativamente sulle prestazioni dell’animale. Nei soggetti che ne sono colpiti l’esame neurologico è solitamente normale; questo tipo di tremore si osserva raramente nella pratica clinica quotidiana dal momento che in genere è autolimitante. Al contrario, il tremore patologico è causato da una malattia sottostante e di solito compromette il normale rendimento del paziente. L’esame neurologico di questi animali in genere evidenzia delle alterazioni Le malattie che si manifestano con maggiore frequenza con il tremore patologico nel cane e nel gatto sono le encefalopatie infiammatorie (ad es., white shaker syndrome), le cerebellopatie varie (ad es. panleucopenia felina, infezione virale), i disordini da demielinizzazione (solitamente rappresentati da malattie ereditarie), le condizioni metaboliche (ad es. ipocalcemia, ipoglicemia) e le intossicazioni (ad es. metronidazolo). Il tremore essenziale viene diagnosticato con relativa frequenza nel cane. Si può verificare in giovane età, ma di solito si osserva negli animali più anziani. Di solito è focale (ad es., a carico degli arti posteriori o della testa), ma può essere generalizzato ed in genere non influisce significativamente sulla vita quotidiana del paziente. Nei soggetti che ne sono colpiti l’esame neurologico e l’indagine clinica sono normali o negativi. È possibile che questa forma di tremore sia ereditaria nel cane, dal momento che si osserva spesso in alcune razze specifiche (Jack Russel terrier, fox terrier, Leonberger). Il tremore focale della testa è stato osservato in dobermann e bulldog. Il tremore essenziale viene talvolta trattato con il fenobarbital, con vari gradi di successo. Il tremore può essere associato, o confuso, con una gran varietà di segni clinici, quali mioclonie, tetania, debolezza, miotonia, crisi convulsive ed altri movimenti apparentemente involontari. Di conseguenza, viene presentata una breve descrizione dei fenomeni citati. Col termine di mioclonia si indica una contrazione ritmica o ripetitiva di un muscolo o di un gruppo di muscoli. La mioclonia è spesso limitata ad un’area, ma si può presentare in modo sincrono o asincrono in più aree. La sua origine è nel sistema nervoso centrale e nel cane deriva solita-


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mente dal midollo spinale. Teoricamente, qualsiasi affezione di quest’ultimo è in grado di causare una mioclonia. Quella riscontrata con maggiore frequenza è la mielite da cimurro. La spasticità è un aumento del tono muscolare ed è spesso associata al danneggiamento dei motoneuroni superiori. Un esempio del grado estremo di questa condizione è la rigidità da decerebrazione. Il crampo dello scottish (anche crampo del Norwich) è una malattia in cui si ha un aumento del tono muscolare. Gli episodi patologici vengono scatenati da esercizio, paura, eccitazione o alcuni farmaci. Si ritiene che la causa sia rappresentata da un’alterazione ereditaria del metabolismo della serotonina, dal momento che i segni clinici vengono aggravati dalla somministrazione di agenti che riducono i livelli della stessa nel sistema nervoso centrale. I farmaci che aumentano i livelli della serotonina, come gli inibitori della monoaminossidasi, hanno invece un effetto benefico.

La miotonia è una contrazione prolungata dei muscoli causata da un difetto primario della membrana muscolare. In questa condizione il difetto è in un abbassamento della permeabilità della membrana muscolare al cloro ed al sodio. Uno dei caratteristici segni clinici è la contrazione prolungata di piccoli gruppi di fibre muscolari suscitata dallo stimolo. L’esame neurologico nei pazienti con miotonia è spesso normale, fatta eccezione per l’andatura rigida e le prolungate contrazioni dei muscoli. Negli animali sono state descritte forme congenite (condizione ereditaria in parecchie razze di cani) ed a acquisite (secondarie a miosite o iperadrenocorticismo). I cani con miotonia ereditaria possono condurre una vita ragionevole. Per garantire loro un certo sollievo sono stati utilizzati i farmaci in grado di stabilizzare la membrana cellulare (procainamide). Nei pazienti con sindrome di Cushing le alterazioni miopatiche si verificano dopo la poliuria, la polidipsia e le modificazioni cutanee. I segni clinici migliorano drasticamente con la terapia appropriata per l’iperadrenocorticismo.

Algoritmo diagnostico per un paziente affetto da tremore Anamnesi del tremore

Esame clinico/ortopedico

Ipotermia, freddo, dolore, desiderio intenso, paura, eccitazione, sfinimento? Sì

No Esame neurologico Normale

Anormale

Analisi del sangue e dell’urina Normale Tremore fisiologico

Anormale

Tremore essenziale-idiopatico

Normale

Tremore patologico

Malattia neurologica

Indagine diagnostica

Correzione del problema diagnosticato

Terapia sintomatica

Correzione del problema metabolico

Terapia della malattia diagnosticata


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Il tetano o tetania è uno stato di prolungata contrazione muscolare senza periodi di rilassamento, causato da ripetute stimolazioni del tronco nervoso motorio a frequenze così elevate che i singoli spasmi muscolari si fondono e non possono più essere distinti l’uno dall’altro. Può essere causato da processi patologici localizzati nel sistema nervoso centrale (tossina di Clostridium tetani) o in quello periferico (ipocalcemia o ipomagnesemia). Il tetano è causato dalla tetanospasmina, la neurotossina di Clostridium tetani. Questa tossina viene prodotta nell’organismo durante la fase di crescita vegetativa di C. tetani. L’introduzione di spore nell’organismo ospite avviene attraverso lesioni penetranti o ferite, comprese quelle operatorie. I piccoli animali sono 7200 volte più resistenti del cavallo all’azione della tetanospasmina. Questa resistenza viene spiegata con l’incapacità della tossina di raggiungere il tessuto nervoso e legarsi ad esso. La tetanospasmina viene dapprima prodotta nella ferita, in seguito penetra nell’assone più vicino attraverso la placca motrice neuromuscolare e, con l’aiuto del trasporto retrogrado, raggiunge il midollo spinale. Qui diffonde ed infine giunge all’encefalo. La modalità d’azione della tetanospasmina nel SNC è duplice: si lega alle cellule neuronali ed alle proteine di trasporto e blocca il rilascio di neurotrasmettitori (glicina ed acido aminobutirrico-GABA) degli interneuroni inibitori. Il legame della tossina tetanica ai siti presinaptici dei neuroni inibitori è irreversibile. La guarigione dal tetano avviene dopo la gemmazione di nuovi assoni terminali, che è un processo lento. I segni clinici di solito compaiono dopo 5-10 giorni dal trauma. Le ferite situate più vicino al SNC sono associate ad una più rapida insorgenza delle manifestazioni cliniche. Il tetano può essere localizzato o generalizzato. Il primo si osserva nella maggior parte dei casi nei gatti e nei cani e in altri animali domestici. Si può riscontrare un aumento della rigidità di un muscolo o di un gruppo muscolare o dell’intero arto. Le manifestazioni localizzate possono generalizzare lentamente, dapprima interessando l’estremità opposta ed in seguito estendendosi all’intero organismo. Gli animali con tetano generalizzato di solito camminano con un’andatura rigida o si trovano in decubito laterale, con iperestensione di tutte e quattro le estremità ed incapacità di rimanere in stazione. Protrusione della terza palpebra, enoftalmo, orecchie ritte, labbra tirate all’indietro (risus sardonicus), rigidità dei muscoli facciali e masticatori, trisma, aumento della salivazione e disfagia sono le alterazioni più comunemente osservate nella regione della testa. Possono essere presenti spasmi muscolari intensi e dolorosi scatenati da stimoli tattili ed uditivi. I pazienti di solito restano coscienti e cercano di mangiare, ma la rigidità della mandibola rende l’operazione impossibile. Il grave tetano generalizzato può terminare nella morte dopo che si è verificata la paralisi completa dei muscoli respiratori o quando l’eccitazione sfocia in uno stato convulsivo. La diagnosi del tetano generalizzato di solito viene formulata puramente su basi cliniche. La tipica rigidità generalizzata associata all’anamnesi di una ferita recente rappresentano i principali indizi che giustificano il sospetto. I parametri ematologici ed il profilo biochimico sono di solito normali, fatta eccezione per un possibile aumento degli enzimi muscolari. Nei casi in cui si nota la presenza di rigurgito e/o vomito è indicato l’esame radiografico del torace, che

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può rivelare una dilatazione esofagea e/o una polmonite ab ingestis. Con l’elettromiografia (EMG) si osservano scariche persistenti dell’unità motoria. I risultati delle biopsie muscolari e nervose, così come l’analisi del liquor, sono normali. L’isolamento di C. tetani dalle ferite è di solito molto difficile. Nei casi di tetano localizzato può essere utile la misurazione dei titoli sierici degli anticorpi anti-tossina tetanica. Negli animali gravemente colpiti in genere è necessaria una terapia prolungata con ospedalizzazione, per cui il trattamento richiede tempo e risulta costoso. Per neutralizzare la tossina non ancora legata, l’autore utilizza di solito l’antitossina, cioè il siero equino antitetanico. Inizialmente, si effettua un’iniezione sottocutanea di prova di 0,1 ml di antitossina. Se non si notano reazioni indesiderate dopo mezz’ora, si inietta SC o IM la dose di 1000 U/kg di peso corporeo. Le ferite vengono sottoposte ad un’energica revisione chirurgica e il tessuto necrotico viene rimosso in anestesia generale. Può risultare utile il lavaggio della ferita con perossido di idrogeno. Si avvia l’antibioticoterapia paraenterale con penicillina G (20000-100000 U/kg BID) e metronidazolo (20 mg/kg BID) al fine di uccidere tutte le forme vegetative dei batteri che producono la tossina. Per controllare l’ipereccitabilità si utilizzano, in funzione della necessità, sedativi come le fenotiazine (clorpromazina, acetilpromazina), miorilassanti (derivati benzodiazepinici) e barbiturici. Negli animali gravemente colpiti sono estremamente importanti le cure infermieristiche intensive. Le possibili complicazioni sono rappresentate da polmonite ab ingestis, ernia iatale esofagea, decubito, sepsi, fratture di ossa lunghe durante spasmi muscolari improvvisi e ritenzione di urina e feci. Benché il trattamento del tetano richieda molto tempo e sia costoso, la malattia è di solito autolimitante e la prognosi per i cani e i gatti colpiti è generalmente buona. Gli spasmi muscolari sono solitamente definiti come segni di rigidità ed estensione degli arti nonché come dolore e tumefazione dei muscoli. La causa più comune di spasmo muscolare è la miopatia da sforzo, che si osserva spesso negli animali utilizzati come atleti (levrieri da corsa), in quelli da lavoro (cavalli e cani) o in quelli selvatici appena catturati. Si ritiene che la miopatia da sforzo sia causata da acidosi metabolica del muscolo, ischemia locale, necrosi delle cellule muscolari e mioglobinuria. Quest’ultima può essere causa di nefropatia ed insufficienza renale. Il trattamento prevede la somministrazione di fluidi per via endovenosa (per mantenere la funzione renale), correzione dell’acidosi e riposo.

Letture consigliate Movement disorders. In: Office practice of neurology, 2nd edition, 2003. Ed: Samuels MA, Feske SK. Churchill Livingstone. Disorders of involuntary movement. In: Handbook of veterinary neurology, 3rd edition, 1997. Ed: Oliver JE, Lorenz MD, Kornegay JN, WB Saunders Company. Tremor syndromes in dogs: diagnosis and treatment. Journal of small animal practice, 1991, 33, 485-490.

Indirizzo per la corrispondenza: Sigitas Cizinauskas, Neurology Service Department of Clinical Veterinary Sciences P.O. Box 57 (Hämeentie 57) 00014 University of Helsinki


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Riconoscere la debolezza neuromuscolare nel cane e nel gatto Approccio diagnostico al paziente con debolezza generalizzata Sigitas Cizinauskas Dr Med Vet, Dipl ECVN, Helsinki, Finlandia

SCHEMA GENERALE DI INDAGINE PER IL PAZIENTE CON DEBOLEZZA GENERALIZZATA PAZIENTE

Anamnesi Anormale Esame clinico generale Normale

Problema non neurologici Anormale

Esame ortopedico Normale

Problema ortopedico Normale

Esame neurologico

Problema non neurologico

Anormale Problema neurologico LOCALIZZAZIONE DELLA LESIONE NEUROLOGICA

IDENTIFICAZIONE DEL PROBLEMA DEL PAZIENTE RISPONDERE A 3 DOMANDE: SI

1. MONOPARESI? NO 2. DIMINUZIONE GENERALIZZATA DEI RIFLESSI SPINALI?

Sistema nervoso periferico

SI

Sistema nervoso periferico 1. radici dei nervi 2. nervi 3. giunzione neuromuscolare 4. muscolo

3. ANOMALIE DEI NERVI CRANICI? NO Midollo spinale

SI

Encefalo


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Malattie che causano polineuropatie (comprese le radici dei nervi) nei piccoli animali V ascolari

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Malattie che causano polimiopatie nei piccoli animali V ascolari

neuromiopatia ischemica (tromboembolizzazione secondaria a miocardiopatia o trauma)

I nfiammatorie

polimiosite idiopatica neosporosi toxoplasmosi lupus eritematoso sistemico -polimiosite dermatomiosite del Collie Leptospira icterohaemorrhagiae Clostridium spp. Hepatozoon canis

neuromiopatia ischemica (tromboembolizzazione secondaria a miocardiopatia o trauma)

I nfiammatorie

poliradicoloneurite acuta (paralisi da procione o del Coonhound) poliradicoloneurite cronica recidivante neosporosi toxoplasmosi

T raumatiche

-

A nomalie

-

T raumatiche

-

M etaboliche

polineuropatia ipotiroidea polineuropatia ipoglicemica neuropatia diabetica iperchilomicronemia nel gatto iperossaluria nel gatto polineuropatia indotta da vincristina polineuropatia indotta da Tallio polineuropatia da intossicazione cronica da organofosforici

A nomalie

-

M etaboliche

iperadrenocorticismo (miopatia da steroidi) ipotiroidismo (cane) miopatia ipertiroidea (gatto) ipokalemia iperkalemia ipertermia maligna miopatia da sforzo miopatia ipernatremica miopatie mitocondriali miopatia da carenza di vitamina E miopatia da carenza di selenio

I diopatiche

-

N eoplastiche

miosite paraneoplastica (carcinoma broncogeno, leucemia mieloide, carcinoma tonsillare)

D egenerative

distrofia musculare (devon Rex, golden retriever, Irish terrier, samoiedo, rottweiler, schnauzer nano, Welsh corgi,gatti) miopatia ereditaria del Labrador retriever miopatia miotonica (chow, Staffordshire terrier, alano, Rhodesian ridgeback, gatti) Malattie da accumulo di glicogeno (razze toy, pastore tedesco, Akita, lapland svedese, gatto norvegese delle foreste, english springer spaniel) Miopatia da nemalina nel gatto Miopatia del core centrale nell’alano Miopatia degenerativa del bovaro delle Fiandre

I diopatiche

disautonomia

N eoplastiche

polineuropatia paraneoplastica (carcinoma broncogeno, adenocarcinoma mammario, melanoma maligno, osteosarcoma, adenocarcinoma tiroideo, mastocitoma)

D egenerative

Atrofia muscolare spinale (Laplands, Brittany spaniels, pointer inglese, incroci di razze giganti, pastore tedesco, rottweiler, Cairn terrier) Neuropatia assonale gigante (pastore tedesco) Neuropatia sensoriale (boxer, bassotto a pelo lungo, Jack Russell terrier, pointer inglese, rough collie, huskie) Neuropatia ipertrofica (mastiff tibetano) Leucodistrofia globoide (Cairn terrier, West Highland white terrier, gatti) Sfingomielinosi (gatti siamesi) Polineuropatia sensoriomotoria distale (rottweiler) Polineuropatia distale (gatti birmani) Malattia da accumulo di glicogeno di tipo IV (gatto norvegese delle foreste) Neuropatia ipomielinizzante congenita (Golden retriever)

Letture consigliate

Malattie che causano giunzionopatie (affezioni della giunzione neuromuscolare) nei piccoli animali V ascolari

-

I nfiammatorie

myasthenia gravis acquisita

T raumatiche

-

A nomalie

myasthenia gravis ereditaria

M etaboliche

botulismo paralisi da zecche

I diopatiche

-

N eoplastiche

sindrome da myasthenia gravis paraneoplastica (timoma)

D egenerative

-

Tetraparesis, hemiparesis and ataxia. In: Handbook of veterinary neurology, 3rd edition, 1997. Ed: Oliver JE, Lorenz MD, Kornegay JN, WB Saunders Company. Degenerative causes of neuropathies in dogs and cats. 1996. Braund KG, Vet Med., 722-739. Endogenous causes of neuropathies in dogs and cats. 1996. Braund KG, Vet Med., 740-754. Idiopathic and exogenous causes of neuropathies in dogs and cats. 1996. Braund KG, Vet Med., 755-769. Degenerative causes of myopathies in dogs and cats. 1997. Braund KG, Vet Med., 608-617. Endogenous causes of myopathies in dogs and cats. 1997. Braund KG, Vet Med., 618-628. Idiopathic and exogenous causes of myopathies in dogs and cats. 1997. Braund KG, Vet Med., 629-634.

Indirizzo per la corrispondenza: Sigitas Cizinauskas, Neurology Service Department of Clinical Veterinary Sciences P.O. Box 57 (Hämeentie 57), 00014 University of Helsinki


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Il veterinario come businessman Fabrice Clerfeuille Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia

Allo stato attuale, la sfida lanciata alle cliniche veterinarie è quella dell’eccellenza, in particolare nella ricerca e nella conquista di nuovi mercati che corrispondano alle moderne aspettative dei clienti. Ormai, nella pratica professionale quotidiana il clinico deve venire a patti con questa nuova situazione, in modo da soddisfare la volontà dei clienti di scegliere con completa cognizione di causa un prodotto o un servizio con il miglior rapporto qualità/prezzo: da passivi, i clienti sono diventati attivi. In parallelo con questa evoluzione del comportamento, l’ambiente veterinario è in pieno cambiamento: vi sono difficoltà economiche, maggior concorrenza, nascita rapida di tecnologie o un aumento della tendenza a specializzarsi. Di fronte a questo marasma, il veterinario deve aggiungere un aspetto alla sua Arte: quella di imprenditore (nel senso più ampio del termine, non soltanto dal punto di vista finanziario). Egli ha l’obbligo di considerare la sua clinica come un’impresa a tutto campo, sviluppando una relazione valida tra gli obiettivi e le risorse della struttura da un lato e le aspettative dei clienti dall’altro. Lo scopo di questa presentazione sarà illustrare i diversi piani di riflessione che il veterinario deve imporsi di considerare nel corso della sua professione.

INTERMEDIARI

AMBIENTE TECNOLOGICO

E N O ZI A RSE RISO IALI IC R IF MATE N A PI

IN FO R M RISO A RSE ZI UMA O NE N E

AMBIENTE DEMOGRAFICO ED ECONOMICO

ARCHITETTURA

CLIENTI

O LL O TR N O C

FIN AN ZE

AMBIENTE LEGALE

PUBBLICO

O R G A N IZ ZA ZI O N E

FORNITORI

G TIN KE R MA

CONCORRENZA

AMBIENTE SOCIOCULTURALE

FIGURA 1 - La clinica, un’impresa a tutto campo. Adattato da “Marketing Management”, di Kotler e Dubois.

Partendo dai clienti, a questi sono rivolte cinque funzioni della clinica: l’architettura, le risorse materiali, le risorse umane, le finanze ed il marketing. Si parla di “ambiente interno”, che corrisponde alla Clinica stessa. Quest’ultima si può evolvere soltanto in un contesto, l’ambiente esterno, che deve essere considerato dal veterinario tendendo conto dei pericoli e delle opportunità che si presentano. L’ambiente esterno è costituito da un ambiente esterno vicino, formato dalle attività offerte ai clienti (farmacie, negozi di articoli per animali, toelettature, ecc..), i fornitori, la pubblicità ed i colleghi vicini e da un ambiente esterno ampio, costituito dall’ambiente tecnologico, l’ambiente demografico ed economico, l’ambiente socioculturale e l’ambiente legale. L’autore intende analizzare ciò che comporta ciascuno di questi settori in tre parti: l’ambiente interno, l’ambiente esterno vicino e l’ambiente esterno ampio.

I. AMBIENTE INTERNO I clienti non sono soltanto la ragion d’essere del veterinario, ma hanno anche nelle loro mani l’avvenire delle nostre cliniche. Tutti gli sforzi della Clinica devono essere concentrati su di loro, sicuramente dal punto di vista tecnico, nell’accezione più completa dell’esercizio veterinario, ma anche grazie alla conoscenza delle loro aspettative. I clienti scelgono una Clinica in funzione delle competenze sviluppate, ma anche e soprattutto dall’insieme della prestazione eseguita, dal modo con cui è stata svolta, dal loro arrivo alla Clinica sino all’uscita. Affinché questa prestazione sia percepita dal cliente nel modo migliore possibile, sono importanti cinque aspetti della Clinica: l’architettura, le risorse umane, le finanze, le risorse materiali ed il marketing. A - L’architettura I locali rappresentano il primo contatto del cliente con la clinica (parcheggio, aspetto esteriore dell’edificio e spazi interni). Come si può pensare di offrire un servizio di qualità se la prima impressione per il cliente è sgradevole: parcheggio disseminato di cartacce, piante verdi morenti, vernici scrostare sui muri, ecc..? Queste caratteristiche riflettono certamente la cura funzionale della struttura da parte delle persone che vi lavorano, una buona manutenzione esterna comporta una valida organizzazione che implica un servizio di qualità.


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B - Le risorse umane Se i locali rappresentano il primo contatto del cliente con la Clinica, il personale di quest’ultima è altrettanto importante (Assistenti e Veterinari). La validità di una gestione rigorosa delle risorse umane si esprime non solo nel peso che ha il personale nella percezione della qualità da parte del cliente della Clinica, ma anche dal suo costo per la struttura. Mentre la qualità delle prestazioni è favorita dalla presenza di un numero ingente di collaboratori, la salute finanziaria di una Clinica, al contrario, è rafforzata in primo luogo dalla presenza di un personale numericamente limitato. Si vedrà che occorre trovare un compromesso per mezzo di tecniche di motivazione, che consentano nello stesso tempo di soddisfare al meglio i clienti senza pesare sulla redditività della Clinica. C - Le finanze Vero motore dell’impresa, le finanze devono essere controllate, nei periodi lucrosi come in quelli difficili. Alla velocità con cui si verificano le trasformazioni nella nostra professione, un buon veterinario, fra dieci anni, non potrà essere un cattivo imprenditore. A pari livello di competenze, due veterinari differiscono per le loro scelte strategiche in termini finanziari. Gli investimenti attuali (in quale settore?, per quale tipo di materiale?, si deve assumere un altro assistente?, Specializzarsi?, ecc..) ed il modo con cui vengono finanziati (fondi propri, prestiti bancari, leasing) rappresentano altrettante problematiche correnti. Il veterinario imprenditore deve fare la diagnosi della sua Clinica, stabilire una strategia ragionevole e formulare delle previsioni. D - Le risorse materiali Comprendono tutti gli strumenti utilizzati per l’esercizio della professione, dal mobilio della sala d’attesa agli apparecchi per la diagnostica, passando per l’informatica, mezzo di gestione indispensabile. Vanno analizzati due grandi settori d’investimento: le risorse materiali a contatto con il cliente e le risorse materiali necessarie alla pratica medica e chirurgica. L’evoluzione delle tecnologie impone degli investimenti regolari, resi possibili da una gestione sana e da strategie di investimenti pianificati a medio e lungo termine. E - Il marketing Il marketing è l’interfaccia fra la Clinica ed i suoi clienti e la funzione che consente di collegare gli altri aspetti dell’impresa (Fig. 2). Come investire in materiale senza presentarlo ai clienti? Come motivare la propria squadra senza una cultura d’impresa? Come sviluppare dei servizi senza strategia? Come esercitare senza capire che si vende un prodotto o un servizio diverso ogni 15 minuti? Come acquistare, produrre, trasformare, vendere, consigliare, rassicurare, comunicare con la pretesa di non fare del marketing? Che lo si voglia o no, un veterinario, attraverso la sua professione, fa del marketing. Deve soltanto integrarlo come componente necessaria al buon funzionamento della sua impresa e svilupparla per il maggior bene dei suoi clienti e della sua clinica. Per definire la strategia globale della Clinica, entrano in gioco altri elementi, quelli presenti in ciò che si definisce ambiente esterno, formato da due livelli di contatto con la Clinica: l’ambiente esterno vicino e quello esterno ampio.

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RISORSE UMANE

ARCHITETTURA

MARKETING

FINANZE

RISORSE MATERIALI

FIGURA 2 - Il marketing, interfaccia fra i clienti e le altre funzioni dell’impresa.

II. AMBIENTE ESTERNO VICINO Lo studio della sua attività necessita della presa in considerazione di quattro componenti: i fornitori, le altre attività commerciali che riguardano il cliente, i colleghi vicini e la pubblicità. A - I fornitori Rappresentati da Forniture all’ingrosso, laboratori farmaceutici e fabbricanti di materiale, consentono alla clinica di offrire un valore aggiunto ai propri prodotti e servizi. Fatta eccezione per la rivendita dei farmaci, che non richiede alcun intervento di trasformazione, un gran numero di azioni impone una scelta oculata dei fornitori. Il compito del veterinario consiste infatti nel gestire in modo ottimale le sue risorse (attrezzatura, scorte, ecc…), tenuto conto dei fabbisogni nel tempo a corto, medio e lungo termine e secondo le opportunità che si presentano. Ha bisogno di conoscere, in qualità di imprenditore, la quantità di prodotti che occorrono, la loro qualità, la reputazione dei fornitori, il loro prezzo, i loro termini di consegna, le garanzie che offrono ed i diversi servizi proposti. Nelle nostre cliniche, gli acquisti occupano uno spazio di spesa sempre più ampio e lo studio ed il confronto tra fornitori hanno un valore inestimabile. B - Gli altri servizi per il cliente In particolare, si tratta dei farmacie, negozi di prodotti per animali e saloni di toelettatura che devono essere analizzati dal veterinario dal punto di vista dei prodotti distribuiti, dei prezzi praticati e dei servizi offerti. Lo studio di queste tre variabili consente, per lo più, di distinguersi per la qualità dei servizi basandosi su una concorrenza sana e sull’apporto di clienti pronti ad acquistare un prodotto o un servizio a un valore superiore in ragione di un suo alto livello di qualità. Sta al veterinario offrire questa qualità di servizio atteso dai clienti!! C - I colleghi I colleghi vicini alla clinica possiedono lo stesso vostro desiderio: servire un mercato di clienti, il più vasto possibile, fidelizzandoli. Ma è possibile che questi colleghi non abbiano la stessa vostra fascia di clientela, in ragione di un modo di esercitare diverso (solo o in società), dell’esistenza di una specializzazione oppure no, d’un livello di prezzi più o meno elevato, del parcheggio più o meno grande, dell’accesso alla clinica più o meno facile, ecc…


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Nessun veterinario può offrire competenze così varie e servizi così perfetti da soddisfare tutte le necessità dei clienti. Sta a ciascuno impostare la propria strategia per una fascia di clientela, cercando tuttavia di non avere lo stesso obiettivo del collega più vicino… sarebbe veramente rovinoso! D - La pubblicità Viene definita come gli elementi che hanno un impatto reale o potenziale sulla capacità della clinica di aumentare il suo “mercato di clienti”. Dato che la sola pubblicità autorizzata dal Codice Deontologico è il passaparola della clientela, i vari gruppi (Organismi di Protezione Animale, allevatori, club di selezione di razze, club di allevamento di cani da utilità, ecc…) assumono un’importanza crescente nella pubblicità di questa o quella clinica. E va anche definita una strategia nei confronti di questi clienti in termini di prezzi o di servizi per evitare ogni errore o scivolone inopportuno, poiché deve essere sistematicamente privilegiata l’etica professionale. Sono stati presentati i vari settori della clinica (l’ambiente interno, formato dai clienti, dall’architettura, dalle risorse umane, dalle finanze, dalle risorse materiali e dal marketing), il suo ambiente esterno vicino (fornitori, colleghi vicini e pubblicità): restano da illustrare i differenti settori dell’ambiente esterno ampio.

III. AMBIENTE ESTERNO AMPIO Anche se il veterinario non ha influenza su questo macroambiente, si deve tenere informato sulle minacce e le opportunità che vi si possono presentare, tenendo conto delle influenze che esercitano sulla strategia sviluppata dalla Clinica. A - L’ambiente demografico ed economico fornirà informazioni sul numero e la tipologia degli abitanti del comune e dei comuni circostanti. Le variazioni di questo ambiente possono indicare l’andamento che deve assumere il nostro servizio (una popolazione prevalentemente costituita da giovani non deve coincidere, per esempio, con una specializzazione di alto livello e molto onerosa). B - L’ambiente tecnologico, che inevitabilmente progredisce ogni giorno, comporta che i veterinari si adeguino. La tecnologia dà al cliente l’impressione che tutto sia possibile ai nostri giorni e un ritardo nei confronti di tecniche usate dai nostri colleghi vicini (per esempio, ecografo o apparecchio per l’analisi dei campioni di sangue) impone un adeguamento tra questa evoluzione e la sua pratica quotidiana. Anziché subirla a posteriori, è meglio anticiparla.

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Una clinica deve sforzarsi di seguire i progressi della tecnologia ed adottarli, se si rivelano fonti di sviluppo in servizi per i clienti. C - L’ambiente socioculturale a livello nazionale, ma anche e soprattutto a livello locale si ripercuote sulle aspettative dei clienti. Il cliente gestisce il proprio rapporto con il suo animale secondo i suoi valori, che si riflettono sulle necessità espresse o meno nelle cliniche veterinarie. Questi valori possono essere diversi da una categoria socioprofessionale all’altra e l’importanza o lo sviluppo nel tempo di una di queste può comportare notevoli modificazioni nelle richieste dei nostri clienti (si veda il caso della costruzione di un immobile HLM [case popolari, n.d.t.], o di un lotto di lusso abitato da categorie socioprofessionali diverse, con valori ed aspettative diverse). D - L’ambiente deontologico, infine, inquadra l’attività professionale del veterinario, ricordando che questa si deve conformare a regole rigorose. Infatti per alcuni può essere grande la tentazione di lasciarsi andare verso degli eccessi a detrimento dei clienti e dell’immagine professionale. Una clinica è un’impresa a tutto campo, il veterinario deve essere un imprenditore, ma la sua condotta deve, in primo luogo, rispondere ad un desiderio di etica che lo porti a privilegiare sistematicamente la soluzione migliore per il cliente, prima di ogni considerazione di carattere finanziario. La nostra carrellata ha mirato a presentare la clinica veterinaria come un’impresa a tutto campo. Siamo convinti che il veterinario deve essere un imprenditore per progredire nella sua professione. Ogni decisione, di qualsiasi natura essa sia, (investimento, assunzione, sviluppo di un nuovo servizio, ecc…) deve essere riflettuta, argomentata ed appoggiarsi ad un piano strategico in due fasi: - Studio dell’ambiente esterno: minacce ed opportunità: - Studio dell’ambiente interno: forze e debolezze. Lo studio di queste due fasi porta alla formulazione di obiettivi, poi di scenari (vari modi di raggiungere questi obiettivi), di una fase di valutazione (ogni metodo è analizzato in funzione delle ripercussioni sulla struttura in termini di organizzazione, di risorse finanziarie ed umane, per arrivare a sceglierne uno) ed infine di una fase di ratifica e controllo.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrice Clerfeuille DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD Marketing Professor University of Nantes Fabrice.clerfeuille@wanadoo.fr


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Come suddividere la vostra clientela per adattare i vostri sforzi alle loro aspettative Fabrice Clerfeuille Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia

Il concetto di suddivisione è associato all’analisi della domanda, e più precisamente delle funzioni della stessa per un prodotto o un servizio. Ripartire un mercato significa identificare l’insieme delle funzioni di domanda che esistono per il prodotto o il servizio considerato e caratterizzare i gruppi utilizzando ciascuna delle funzioni di domanda. Senza suddivisione, è difficile descrivere la propria clientela: Chi la compone? Quali caratteristiche consentono di comprendere meglio il comportamento dei clienti? Quale tipo di cliente ricorre di più ad un tale o talaltro servizio o prodotto nella Clinica? Quale profilo di cliente è più fedele nella clientela? Altrettante domande che dimostrano che è difficile parlare di valore della clientela senza suddivisione. Questa rappresenta la base delle analisi di Marketing della clientela al servizio delle strategie messe in atto.

I. DEFINIZIONE DELLA SUDDIVISIONE La suddivisione è la ripartizione della popolazione target in sottoinsiemi per mezzo di criteri predefiniti scelti perché pertinenti al tema posto. I criteri di suddivisione devono consentire di arrivare a fasce che presentano la maggior omogeneità intraclasse e la più grande eterogeneità interclasse possibili. Esistono tre grandi famiglie di criteri di ripartizione: le variabili sociodemografiche, quelle di comportamento e quelle psicografiche. A - Le variabili sociodemografiche Sono date da parametri quali: età, sesso, habitat, componenti effettivi del nucleo famigliare, ciclo di vita della famiglia, numero ed età dei bambini presenti, categoria socioprofessionale, professione del capofamiglia, nazionalità, razza, religione, grado di pratica religiosa, livello di istruzione, status matrimoniale, ecc… B - Le variabili di comportamento d’acquisto Sono date da parametri quali: la quantità acquistata (piccolo, medio o gran consumatore), la fedeltà alla marca del prodotto (fedeli incondizionati, non esclusivi, non fedeli), la status come utilizzatore (non-utilizzatore, nuovo o vecchio), la frequenza d’acquisto (utilizzatori regolari o irregolari), la modalità di pagamento (contante, a credito, con carta), ecc… C - Le variabili psicografiche Sono date da parametri quali le attitudini, le opinioni, gli stili sociali o i valori.

II. LE RESTRIZIONI METODOLOGICHE DELLA SUDDIVISIONE Perché una variabile possa essere considerata come un criterio per la suddivisione, deve essere: - Misurabile: facilmente e consentire di spiegare le differenze di comportamento dei clienti - Discriminante: permettendo di assegnare correttamente un cliente ad una suddivisione - Accessibile: assegnando il cliente ad una suddivisione secondo la o le variabili di ripartizione scelte - Stabile: l’influenza del criterio di suddivisione sul comportamento deve essere costante nel tempo per consentire una strategia che duri numerosi anni. Si noti che nell’ambito delle tre famiglie di variabili di suddivisione (criteri sociodemografici, criteri di comportamento d’acquisto e variabili psicografiche) la misurabilità diminuisce dalla prima all’ultima e questo in misura inversa alla loro discriminanza.

III. DALLA SUDDIVISIONE AL POSIZIONAMENTO In un andamento di mercato devono essere seguite cinque tappe, partendo dalla suddivisione, per poi focalizzare il target di una o più fasce ed infine consentire il posizionamento: - Definizione della problematica di mercato che necessita di una suddivisione - Scelta di una o più variabili di suddivisione pertinenti con il problema posto - Studio di ciascuna delle fasce ottenuta per mezzo delle variabili di suddivisione - Selezione di una o più fasce (target) - Definizione delle strategie di Marketing per il o i segmenti considerati per mezzo delle quattro variabili del mix che sono il prodotto o servizio, la comunicazione, il prezzo e la distribuzione (Posizionamento) La suddivisione della clientela per adattare i propri sforzi alle aspettative dei clienti passa attraverso una riflessione globale rappresentata nello Schema 1: Analisi dei rischi e delle opportunità del mercato ed anche delle risorse e dei punti deboli della clinica. Messa in evidenza di un obiettivo marketing. Suddivisione della clientela, target di uno o più fasce, posizionamento e poi messa in opera delle quattro variabili del mix.


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Analisi esterna - Consumatori - Mercato - Concorrenti - Ambiente legale, sociale Minacce ed opportunità Analisi delle opportunità di mercato

Suddivisione dei mercati

Target

Mix del marketing

Posizionamento

Analisi interna - Impresa Risorse e punti deboli

Analisi dei criteri di suddivisione Analisi di interesse e di competitività

Identificazione del vantaggio concorrenziale Scelta delle strategie di base

SCHEMA 1 - Posizione della suddivisione in un andamento del marketing.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrice Clerfeuille DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD Marketing Professor University of Nantes Fabrice.clerfeuille@wanadoo.fr

4P - Prodotto - Distribuzione - Prezzo - Comunicazione


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Fare la diagnosi del marketing di una clinica Fabrice Clerfeuille Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia

È necessario che la clinica faccia il punto una volta all’anno sui servizi forniti ai suoi clienti. Gli interessi sono duplici: mettersi al posto del cliente ed interrogarsi sui miglioramenti da apportare alla struttura. Per ottenere questo, il veterinario deve ripercorrere il cammino seguito dai suoi clienti nella Clinica e notare tutto ciò che può essere migliorato. Poiché ogni clinica possiede le sue peculiarità, non è possibile stilare una lista tipo dei servizi, ma verrà comunque presentata una proposta di traccia da seguire, che potrete completare tenendo conto delle vostre particolarità. I diversi elementi che possono essere valutati sono i seguenti:

I. IL SERVIZIO GLOBALE Il veterinario può porsi alcune domande: - La Clinica si rimette spesso in discussione sulla qualità dei servizi proposti ai clienti? - La Clinica si interroga frequentemente sulla ricerca e la messa in atto di nuovi servizi? - La Clinica impiega dei questionari da sottoporre ai clienti, volti a stabilire il grado di soddisfazione per i servizi offerti loro? - La Clinica dispone di un sistema centralizzato per raccogliere i motivi di malcontento dei clienti (registro o schede, che consentano di seguire le ragioni dei problemi e la loro frequenza)? - La Clinica riunisce dei clienti di tanto in tanto per analizzare con loro i modi per migliorare i servizi della struttura? - Quali procedure specifiche esistono nella Clinica per seguire i clienti (per esempio, per casi complessi o quando un cliente deve consultare numerosi operatori della stessa struttura)? - La Clinica è organizzata in modo da ringraziare i clienti che gliene procurano dei nuovi? - Gli assistenti seguono dei corsi di formazione nel settore del Marketing? - L’arredo della sala d’attesa viene cambiato spesso? - I prodotti esposti alla vista dei clienti vengono spostati regolarmente? - Ecc…

- La croce veterinaria è in buono stato e pulita? - I posti del parcheggio sono in numero sufficiente a qualsiasi ora del giorno? - I posti del parcheggio vicini all’entrata sono riservati ai clienti? - Le aiuole del parcheggio sono curate regolarmente? - La pulizia del parcheggio viene verificata quotidianamente dagli assistenti? - All’esterno della Clinica, il cliente può attendere in condizioni soddisfacenti (sedie, panca)? - La targa della Clinica che porta i nomi dei veterinari è in buone condizioni? - Sull’insegna d’ingresso, sono chiaramente indicati gli orari di apertura della Clinica e le indicazioni “in caso di urgenze”? - I muri dell’ingresso sono in condizioni decorose? - La maniglia della porta d’ingresso è in buono stato? - Ecc…

III. L’ACCOGLIENZA - Esiste un sistema sonoro che indichi l’arrivo di un cliente nella Clinica? - L’odore della Clinica è gradevole? - Tutte le stanze che si affacciano sull’entrata sono segnalate (sala visita, sala d’attesa, ecc..)? - La disposizione dei vari elementi dell’ingresso è gradevole da vedere per i clienti (colori, ordine, ecc…)? - Tutti i membri della Clinica portano dei cartellini di identificazione sulle divise (compresi gli assistenti ed i veterinari eventualmente presenti come stagisti)? - Le divise dei vari membri del personale sono pulite? - Esiste un poster vicino all’ingresso che presenti le varie stanze della Clinica (con fotografie che illustrino le attrezzature)? - Esiste un poster vicino all’ingresso che presenti i vari componenti della Clinica (fotografie e nomi)? - Nell’ingresso sono disponibili delle schede informative rivolte alle principali domande dei clienti? - L’assistente addetto alla reception indica sistematicamente il tempo d’attesa a tutti i clienti che arrivano? - Ecc…

II. L’ARRIVO DEL CLIENTE ALLA CLINICA

IV. L’ACCOGLIENZA TELEFONICA

Il veterinario deve inoltre valutare alcuni parametri, munito di una lista: - Il cartello che indica l’ingresso alla Clinica è in buono stato e pulito?

- Il numero delle linee telefoniche è sufficiente ad evitare che i clienti trovino troppo spesso la linea occupata? - Esiste una musica di sottofondo da attivare qualora il cliente debba essere messo in attesa telefonica?


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- La collocazione delle postazioni telefoniche è congruente con le necessità degli assistenti? - È facile trasferire la chiamata da una postazione all’altra? - La deviazione di una chiamata telefonica dalla postazione centrale a quelle periferiche si può effettuare velocemente se nessuno può rispondere nella prima? - I componenti della Clinica sono soliti rispondere subito alle chiamate (prima del terzo squillo)? - Gli assistenti utilizzano sistematicamente una formula di presentazione quando rispondono ad una chiamata telefonica? - La qualità del messaggio sulla segreteria viene verificata regolarmente? - Ecc…

V. LA SALA D’ATTESA - Prima delle vostre visite, vi sedete in sala d’attesa di tanto in tanto per verificarne le condizioni? - Esiste una segnaletica d’orientamento a livello dell’ingresso per dirigere facilmente il cliente verso la sala d’attesa? - Lo stato delle sedie è decoroso? - Le riviste a disposizione dei clienti sono in buone condizioni? - Le riviste a disposizione dei clienti sono recenti? - Le riviste a disposizione dei clienti sono di vario tipo? - Nella sala d’attesa esiste una zona bimbi (seggioline, tavolino e qualche gioco)? - Il tabellone dei piccoli annunci è ben visibile e gradevole a vedersi? - Esistono delle informazioni pratiche che i clienti possono consultare (schede sull’importanza del tatuaggio, sui vaccini, ecc…)? - Nella sala d’attesa viene trasmessa un musica di sottofondo? - In sala d’attesa, la convivenza di proprietari di gatti e proprietari di cani è resa più semplice da uno spazio dedicato ai primi?

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In sala d’attesa, i poster sono in buono stato? In sala d’attesa, i poster sono rinnovati spesso? In sala d’attesa, i poster sono di attualità? In sala d’attesa, l’illuminazione è adeguata (per potenza e per numero di lampade funzionanti)? - C’è un distributore di bibite a disposizione dei clienti?

VI. LA SALA VISITE - Di tanto in tanto vi sedete al posto del cliente per assicurarvi che la posizione sia comoda? - La porta è pulita? - La porta reca il nome del veterinario che vi effettua la visita? - La maniglia è pulita? - La condizione del tavolo da visita è buona? - Esiste un tabellone riscrivibile per eseguire schemi esplicativi ai clienti? - Le sedie sono in buone condizioni? - La sala visite contiene delle radiografie esemplificative per chiarire ai clienti la patologia dei loro animali? - La sala visite contiene delle schede di informazione scientifica (diabete, insufficienza renale, ecc..) per facilitare la comprensione da parte dei clienti? - Ecc… Oltre a questi esempi presi dettagliatamente in esame, si possono considerare altri elementi della Clinica, come ad esempio i locali dove vengono tenuti gli animali ricoverati, nell’eventualità che i clienti vi si debbano recare.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrice Clerfeuille DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD Marketing Professor University of Nantes Fabrice.clerfeuille@wanadoo.fr


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Le 10 regole da seguire nella selezione di un collaboratore Fabrice Clerfeuille Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia

L’assunzione di un assistente non va presa alla leggera per tre ragioni: - È più facile assumere che licenziare - Questa scelta vi impegna per parecchi anni - In una giornata passerete più tempo con il vostro assistente che con vostra moglie o vostro marito! Queste tre ragioni impongono la messa a punto di specifiche procedure di assunzione al fine di limitare gli errori. Si possono stabilire tre tappe fondamentali: la prima consiste nell’elencare ciò che l’assistente dovrà svolgere, la seconda riguarda le procedure di assunzione propriamente dette e l’ultima prenderà in considerazione il colloquio stesso.

I. ELENCARE LE MANSIONI RICHIESTE AL NUOVO ASSISTENTE Il profilo ricercato per questo assistente prevede che venga impiegato come addetto alla reception, aiuto di sala operatoria, o con compiti di tipo misto? Prendetevi il tempo necessario per elencare i requisiti richiesti in funzione delle mansioni che dovrà svolgere, tenendo conto delle ore settimanali dedicate ad ogni attività: - Amministrazione; - Accoglienza dei clienti; - Rispondere al telefono; - Attività di segreteria; - Aiuto operatorio; - Effettuare delle analisi di laboratorio; - ecc… Quindi, dovete calcolare quanto vi costa la realizzazione di questo nuovo posto di lavoro, informandovi sugli eventuali contributi all’assunzione offerti dagli enti nazionali a sostegno dell’occupazione. Calcolate i vostri fabbisogni in ore per questo incarico (tempo pieno, part-time al 50% o a due terzi del tempo, ecc…) Tenete conto di un’eventuale attività stagionale più intensa, e quindi di fabbisogni di personale variabili. Infine, scegliete il vostro assistente in funzione degli ambiti di competenza che vi occorrono: specializzato per una mansione (per esempio, come aiuto operatorio) o capace di svolgere una vasta gamma di compiti più generici.

II. PROCEDURE DI ASSUNZIONE Esistono numerose vie per assumere un assistente: tramite conoscenze, contatti con una scuola di formazione di ope-

ratori professionali del settore o, più classicamente, facendo pubblicare un piccolo annuncio di offerta d’impiego su un giornale locale. Mentre le prime due soluzioni non necessitano di commenti particolari, verranno proposte alcune riflessioni sulla terza via di assunzione, quella attraverso un annuncio di offerta d’impiego su una testata di stampa locale. - Redazione di un piccolo annuncio che definisca chiaramente le competenze richieste; - Scelta della pubblicazione di questo piccolo annuncio nell’edizione del week-end, che viene letta più di qualsiasi altro numero pubblicato durante la settimana; - Ricezione delle lettere di candidature; - Classificazione delle candidature in tre dossier: uno per i candidati respinti, uno per quelli da esaminare in un secondo tempo ed uno per quelli da incontrare; - Invio di una risposta negativa ai candidati respinti; - Contatto telefonico con i candidati potenzialmente assumibili, per incontrarli. Verranno forniti di seguito alcuni consigli per il colloquio di assunzione vero e proprio.

III. COLLOQUIO DI ASSUNZIONE Prima di ogni colloquio, la cui durata deve essere di circa mezz’ora, è necessario rileggere la lettera di curriculum del candidato. Ogni colloquio dovrà seguire una metodologia identica, per poter confrontare i candidati in modo omogeneo. Si possono descrivere tre tappe: una fase in cui si mette a suo agio il candidato, una in cui si raccolgono le motivazioni che lo spingono a cercare questo impiego ed un’ultima, conclusiva del colloquio. A - Fase in cui si mette a suo agio il candidato Poiché il colloquio è stressante per tutti i candidati, occorre fare di tutto per metterli a loro agio. A questo scopo possono essere utilizzate numerose tecniche: - Domande del tipo “Ha trovato la clinica con facilità?” - Offrite un tè o un caffè; - Iniziate presentando la Clinica, con le attività che vi si svolgono, gli operatori, gli altri assistenti, le modalità di funzionamento della Clinica, i suoi orari di apertura, ecc… - Proponete al candidato di visitare la Clinica. B - Raccolta delle motivazioni Una volta che il candidato si è disteso, può realmente iniziare il colloquio di assunzione, per valutare le sue motivazioni. Si possono raccogliere numerosi tipi di informazioni:


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- Quali sono i motivi di interesse per questo lavoro? (per valutare le sue motivazioni professionali); - Il candidato possiede degli animali? (per capire la sua passione per gli animali ed individuare alcuni problemi del tipo paura dei gatti, ecc…); - I suoi animali hanno avuto dei grossi problemi di salute? (consente di percepire l’attenzione che rivolge ai propri animali da compagnia); - Quali sono i centri di interesse del candidato (svaghi, sport, lettura, vita familiare, ecc… che consente di individuare le capacità dell’individuo ed il suo carattere solitario o atto a muoversi, per esempio, nell’ambito di un’équipe); - Domandate al candidato di elencare cinque aspetti positivi e cinque negativi del proprio carattere, perché così potrete farvi un’idea della sua capacità di adattamento. Lo scopo di questo colloquio consiste nel far parlare al massimo il candidato per conoscerlo meglio e valutare le sue qualità. C - Fine del colloquio Al termine del colloquio, precisate di nuovo le caratteristiche del lavoro, le ore impegnate, il salario proposto e verificate che nulla si opponga all’assunzione del candidato. Informatelo sulle modalità della vostra risposta (l’ideale è

Positivo Puntualità all’incontro Abbigliamento Presentazione Comportamento Discrezione Tatto Facilità d’espressione Motivazione Svaghi Vita di famiglia Sport praticati Livello di scolarizzazione Formazione professionale Esperienza professionale Cause di cambiamento professionale Possesso di animali Famiglia cliente della Clinica Esperienze come assistente di strutture veterinarie Mezzo di spostamento Domicilio Parere degli altri assistenti

Medio

una lettera entro 8 giorni), precisando che la procedura di selezione mette a confronto più persone. Una volta andato via il candidato, prendetevi cinque minuti di tempo per riempire un formulario tipo di colloquio per poter confrontare i soggetti tra loro. Di seguito viene fornito un formulario-tipo (vedi schema sotto). Al termine dei colloqui con i candidati, selezionate i tre più adatti a questo incarico e domandate loro di trascorrere una giornata in una situazione reale nella Clinica. Gli obiettivi di quest’ultima fase sono molteplici: - Assicurarsi dei tratti caratteriali individuati nel colloquio; - Essere sicuri che nulla si opponga al lavoro (vista del sangue, contenimento degli animali, contatti, ecc…); - Rilevare i commenti degli altri assistenti della Clinica. Questi tre livelli di selezione devono consentirvi di limitare gli errori di assunzione di un assistente.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrice Clerfeuille DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD Marketing Professor University of Nantes Fabrice.clerfeuille@wanadoo.fr

Negativo

Note:


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Calcolare la redditività di un investimento. Esemplificazioni pratiche Fabrice Clerfeuille Dr Vét, PhD, MBA, Nantes, Francia

La redditività è definita dal Dizionario come “la natura di ciò che è redditizio”, “che fornisce un utile soddisfacente”. In assenza di normative stabilite nell’ambito professionale, al contrario di altri settori e tenendo conto del carattere soggettivo del concetto di “utile soddisfacente”, in questa trattazione si tornerà a fare riferimento alla nozione di tasso di redditività, più obiettiva. Il tasso di redditività è definito dal “rapporto tra i profitti di un’impresa ed in capitali investiti”. Questo parametro di tasso di redditività in una Clinica può quindi essere definito da: Utili Tasso di redditività = ————————————— Volume d’affari (VA) Dal momento che la maggior parte dei veterinari sceglie una contabilità del tipo da reddito professionale (Bénéfices

Non Commerciaux), si partirà da questo tipo di contabilità per definire la redditività della clinica. Il documento base è l’insieme degli incassi e delle spese, che in un primo tempo vanno registrati e poi riconsiderati per calcolare dei rapporti che ne consentano il confronto.

A. REGISTRAZIONE DEGLI INCASSI E DELLE SPESE L’insieme degli incassi e delle spese deve essere tabulato in un prospetto del tipo Excel, per poi consentire i calcoli di redditività. Suggeriamo di convertire sistematicamente gli importi esprimendoli come percentuale del volume d’affari. Ciò consente di conoscere le parti di spesa per 100 Euro di volume d’affari effettuato. È sufficiente registrare le varie voci sul tabulato di Excel e presentarle in questo modo:

2003 Valori INCASSI SPESE

2002 % del VA

Valori

% del VA

Variazione 03/02

100%

100%

Acquisti

?

?

?

Stipendi + contributi

?

?

?

Imposte e tasse

?

?

?

Affitti

?

?

?

Noleggi

?

?

?

TFSE

?

?

?

Trasporti/spostamenti

?

?

?

Spese di reception

?

?

?

Spese varie di gestione

?

?

?

Oneri finanziari

?

?

?


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Questa tabella consente quindi di ottenere molto rapidamente le percentuali di spesa per categoria e per 100 Euro di VA. Il confronto con gli anni precedenti permette così di paragonare le variazioni di redditività di un anno rispetto all’altro e di individuarne le cause. È inoltre possibile calcolare degli indici di redditività.

B - L’INDICE, STRUMENTO INDISPENSABILE DI GESTIONE Per approfondire il tasso di redditività della propria clinica il Veterinario deve utilizzare degli indici.

1 - Che cosa si definisce indice? Un indice è una proporzione fra due grandezze che esprime la loro importanza relativa. Gli indici sono calcolati unicamente per consentire dei confronti. Se ne possono creare in misura infinita, ma sono da considerare soltanto se sono significativi.

2 - Importanza dello studio degli indici Studiato da solo, un indice di esercizio di una clinica fornisce poche informazioni. Serve soltanto se viene inserito in un quadro di confronto. Sono quindi possibili due tipi di valutazioni: - Nel tempo, confrontando lo stesso indice per esempio in tre anni; - Nello spazio, paragonandolo con cliniche diverse. Un confronto nel tempo e nello spazio deve consentire al veterinario di valutare la propria evoluzione e di individuare la propria posizione nell’ambito professionale. Questo compito è talvolta più complesso di quanto sembri perché spesso numerosi fenomeni rendono difficile tirare le conclusioni.

3 - Limiti dello studio degli indici Le metodiche generali (ad esempio, le statistiche fornite dai centri di gestione accreditati) devono essere considerate come regole valide per tutti. È quindi auspicabile ottenere dei dati statistici sulla popolazione delle cliniche vicine: numero di veterinari, localizzazione, livello di VA, ecc… Tuttavia occorre tenere presente che, in alcune strutture associate, le registrazioni dei valori vengono effettuate in modo tale da rendere impossibile ogni confronto. Analogamente, fattori eccezionali possono intervenire a falsare le valutazioni di paragone, come la perdita di un grosso cliente allevatore, una nuova struttura nata vicino alla vostra, ecc… Questi elementi devono essere isolati per determinare con precisione il loro impatto sugli indici. Anche le modalità di esercizio possono avere una certa influenza, come il rapporto spese del personale/VA HT (HT = Hors Taxe, esente da imposta, n.d.T.), che dipendono dalle strategie sviluppate dalla clinica. Il metodo degli indici deve quindi essere attuato con prudenza e discernimento.

- Gli indici di redditività sensu stricto, che influenzano la redditività sull’importo delle Spese (denominatore della redditività). 4.1 - Gli indici di crescita e di attività Appartengono a questo gruppo numerosi indici e verranno qui riportati quelli ritenuti più significativi: 4.1.1 - Andamento dell’attività (VA HT) n - (VA HT) n-1 x 100 (VA HT) n-1 L’andamento del VA è sempre considerato come l’indicatore economico numero 1 della clinica. Confrontato con le potenzialità della professione o dei colleghi vicini, questo indice consente al veterinario di misurare il proprio dinamismo nell’ambiente in cui opera. 4.1.2 - Il margine commerciale Vendite HT - Acquisti HT rivenduti x 100 Vendite HT con Acquisti HT rivenduti = Acquisti anno N + Stock iniziale - Stock finale. Questo indice necessita quindi di un inventario di stock annuale, che consenta di definire lo stock iniziale ad inizio anno e quello finale, corrispondente allo stock calcolato per l’inizio dell’anno successivo. 4.1.3 - Altri acquisti e oneri esterni Si tratta soprattutto di oneri fissi. Altri Acquisti + Oneri esterni x 100 VA HT Il peso degli oneri strutturali in relazione al VA è un elemento di analisi che consente al veterinario di soppesare nella giusta misura i risparmi da prendere in considerazione. Attenzione al confronto con altre strutture perché questo rapporto sarà necessariamente inferiore se il veterinario è proprietario dei muri (assenza di affitti). 4.1.4 - Le spese per il personale Spese per il personale x 100 VA HT Questo indice consente di stimare la validità dell’adeguatezza fra salari impiegati e risultati ottenuti. Traduce il peso della massa salariale per 100 Euro di VA HT.

4 - Come calcolare gli indici di una clinica? Si possono definire due grandi famiglie di indici: - Gli indici di crescita e di attività, che influenzano la redditività sull’importo del volume d’affari (VA) (numeratore della redditività);

4.1.5 - Gli oneri finanziari Oneri finanziari x 100 VA HT


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La modalità d’acquisto di una clinica comporta nei primi anni d’avvio degli oneri finanziari estremamente rilevanti. Peraltro, l’evoluzione di questa voce nel tempo evidenzia il buono o cattivo stato di salute finanziario della clinica (scorretti finanziamenti di partenza, aumenti insufficienti dell’utile per coprire i fabbisogni, ecc...). Per una clinica, l’evoluzione di questo indice nel tempo è estremamente significativa.

IMPIEGO DEL MLG

4.2 - Gli indici di redditività Seconda sottofamiglia di indici, comprende numerosi di questi, molto spesso calcolati dagli istituti bancari, per assicurarsi della salute economica della clinica ed autorizzare per esempio nuovi prestiti.

Il MLG consente di capire le condizioni di gestione della clinica estrapolando i dati dalle modalità di finanziamento delle attività.

4.2.1 - Il Margine Lordo di Gestione (MLG) Viene evidenziato in particolare nelle analisi condotte sullo stato di salute finanziaria delle cliniche. La formulazione e l’impiego del MLG si possono presentare nel modo seguente:

VA HT

A cosa serve l’MLG? - Rimborso dei prestiti - Andamento della vita - Imposta sul reddito - Finanziamento dei fabbisogni nei fondi di cassa - Autofinanziamento degli investimenti

MLG x 100

4.2.2 - La redditività netta Utile netto x 100 VA HT

FORMULAZIONE DEL MLG Dal VA al MLG vendite - acquisti effettuati = margine commerciale - oneri esterni = valore aggiunto - imposte - spese per il personale - contributi personali = MLG

INDICE

Esprime nel tempo l’evoluzione della capacità della clinica di realizzare degli utili. Seguirà un esempio di riduzione nella dichiarazione modello 2035, per analizzare le informazioni che se ne possono trarre:

2003

2002

2001

5,22%

3,73%

-1,25%

?

?

?

17,33%

18,06%

17,82%

19,64%

19,39%

20,94%

0,21%

0,03%

0,12%

42,88%

42,42%

40,01%

34,02%

35,17%

34,09%

23,80%

23,68%

21,17%

(VA HT) n - (VA HT) n-1 x 100 (VA HT) n-1 Vendite HT - Acquisti HT rivenduti x 100 Vendite HT Altri Acquisti + Oneri esterni x 100 VA HT Spese per il personale x 100 VA HT Oneri finanziari x 100 VA HT MLG x 100 VA HT Utile netto x 100 VA HT Acquisti x 100 VA HT


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4.2.3 - La redditività delle attrezzature Verrà qui fornito un esempio di calcolo di redditività per un’attrezzatura. Attrezzatura:

Ecografo Elekto GBM

Codice:

Data d’acquisto

28/06/99

Nuovo:

Usato:

Costo dell’apparecchio:

295000

Contante:

Prestito:

Dettaglio del prezzo:

99/2806

Leasing:

Prezzo di catalogo: 410000Frs. Ottenuto a 345000 HT - ritiro del modello vecchio 50000. Quindi pagato 295000 HT

Caratteristiche del finanziamento: Ente:

GE CAPITAL

Tasso:

Rata mensile:

5695

Prima:

Garanzia:

Inclusa

Fine:

Calcolo di redditività annuale:

Giugno 99 - Giugno 2000

Durata dell’ammortamento: 28/06/99

Ultima:

30/06/04

Caratteristiche dell’apparecchio: Costo:

Costo fisso unitario: materiale di consumo 1: 3 gel

315

materiale di consumo 2: 4 pistolet da biopsia

408

materiale di consumo 3:

0

compenso orario ASV (70,00 Frs/Ora)

0

altro

0

totale costo fisso unitario:

723

Costo annuale: numero di casi: x totale costo fisso

x

723

=

723

rata mensile x 12:

68340

riparazione:

0

altro:

0

totale costo annuale:

Incassi annuali: numero di casi: x prezzo di vendita totale incassi annuali:

69063

Eco 1

Eco 2

Eco 3

Eco 4

Eco ofta

187

187

179

20

28

91,97

183,11

275,08

459,03

140,47

17198,39

34241,57

49239,32

9180,6

3933,16

totale generale degli incassi:

601 tariffe al 19/6/2000

113793

Redditività: totale incassi annuali: totale spese annuali:

113793,04 69063

Bilancio:

44730,04

Ognuno di questi indici consente quindi di valutare le variazioni di redditività della clinica da un anno all’altro, tentando di fornirne una spiegazione. Ogni anno, i veterinari devono analizzarli in modo approfondito.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrice Clerfeuille, DVM, Business MBA, Marketing MBA, Marketing PhD, Marketing Professor University of Nantes Fabrice.clerfeuille@wanadoo.fr


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Paziente orto-neurologico o neuro-ortologico? Daniele Sebastian Corlazzoli Med Vet, Roma

Pazienti neurologici e ortopedici sono spesso accompagnati da una medesima anamnesi: difficoltà nel movimento. Distinguere un paziente ortopedico da uno neurologico è essenziale per poter attivare il corretto approccio diagnostico: l’osservazione della deambulazione è un passo essenziale, a volte il principale. Il paziente ortopedico è caratterizzato principalmente dalla zoppia, ovvero dal dolore, più raramente da riduzione del movimento come per esempio nelle contratture muscolari. Un paziente ortopedico non cade, non inciampa, non ha movimenti eccessivi del treno posteriore, l’unico suo scopo è ridurre il carico sulla parte dolente e ridurne l’escursione. Un paziente neurologico al contrario presenta una debolezza che lo obbliga ad assumere posizioni innaturali, una compromissione della coordinazione che può causargli movimeni eccessivi, la tendenza a inciampare negli ostacoli o nei suoi stessi arti. Il primo passo consiste nell’identificare l’arto o gli arti colpiti. Nelle zoppie dell’anteriore il peso della testa viene caricato sull’arto sano, la fase di protrazione dell’arto sarà inoltre ridotta sul lato dolente. Le zoppie sul posteriore sono spesso meno evidenti e l’osservazione dell’andatura di lato è importante in quanto la diminuzione della fase di protrazione del passo può essere l’unica alterazione evidenziabile. L’osservazione del paziente mentre si siede è anche molto importante, frequentemente il dolore al ginocchio si manifesta con una posizione seduta a ginocchio più esteso rispetto al controlaterale. Questo atteggiamento può essere associato anche a zoppie di tarso per quanto quest ultime siano sicuramente piu rare in Medicina veterinaria. Identificato l’arto è necessario localizzare il dolore. A questo scopo si deve palpare attentamente ogni singola articolazione valutando la presenza di ectasia dei fondi ciechi, crepitio o dolore all’esecuzione dei movimenti passivi, aumento di volume dell’articolazione. Ogni singola articolazione va valutata singolarmente e confrontata con la controlaterale. Escluse le patologie articolari, si procede alla valutazione delle ossa lunghe e quindi alla valutazione della dolorabilità muscolare. Identificata la sede del dolore si prosegue con la scelta degli esami collaterali più opportuni. Alterazioni del movimento di origine neurologica sono riferibili a lesioni cerebrali, spinali, o periferiche. I pazienti cerebrali hanno segni tipici (convulsioni, maneggio, alterazioni del comportamento, alterazioni dei riflessi dei nervi cranici) per cui sono abitualmente di facile identificazione. Pazienti con lesioni del midollo spoinale o del sistema nervoso periferico spesso hanno segni che possono essere confusi con segni ortopedici. Con l’eccezione di pazienti spinali presentati a causa esclusivamente di dolore cervicale o toraco lombare, i paziente neurologici presentano debolezza (paresi) o incoordinazione (atassia) o entrambe. Un paziente paretico assume posizioni che sono spesso innaturali a causa della difficoltà nel sorreggere il proprio peso. Un paziente atassico dimostra speso la tendenza a inciampare nei suoi stesi arti o ad avere una fase di levata e/o di protrazio-

ne dell’arto aumentata. Come in ortopedia, anche nella valutazione di un paziente neurologico la localizzazione anatomica del problema è essenziale. Per prima cosa è necessario comprendere, tramite l’osservazione dell’andatura, se il problema interessa un arto, un treno, i quattro arti o un emisoma (i due arti sul medesimo lato). La valutazione delle reazioni posturali e in particolare della propriocezione serve a confermare il reperto dell’osservazione. Con l’esclusione dei pazienti con fratture di un arto o del bacino, un paziente ortopedico ha una propriocezione normale. In funzione dell’andatura e della valutazione della propiocezione siamo in grado di affermare se un problema interessa i 4 arti, il treno posteriore o un arto. Un problema neurologico localizzato ai quattro arti può essere causato da lesioni cervicali (C1 T2) o da lesioni diffuse del sistema nervoso periferico. Un problema localizzato al treno posteriore è generalmente causato da una lesione posteriore a T2. L’esame dei riflessi dei nervi spinali può aiutarci a compiere un passo in più nella localizzazione neuroanatomica. I riflessi spinali più attendibili sono il riflesso flessorio sull treno anteriore e il riflesso flessorio e patellare sul treno posteriore associati al riflesso perineale. Le lesioni spinali che coinvolgono i plessi cervicale (C6 T2) o lombare (L5 S2) possono causare una riduzione dell’ampiezza dei riflessi spinali. Un paziente con paresi dei quattro arti, propiocezione alterata sui quattro arti, riflessi diminuiti sul treno anteriore e normali sul posteriore presenta una lesione spinale localizzata sul plesso cervicale (C6 T2). Un paziente con una presentazione simile ma con riflessi spinali mantenuti sul treno anteriore presenta una lesione spinale localizzata nel tratto cervicale C1 C5. Pazienti con tetraparesi e diminuzione diffusa dei riflesi spinali a fronte di una sensibilità normale presentano lesioni diffuse del sistema nervoso periferico. La valutazione della sensibilità dolorifica ha unicamente uno scopo prognostico ma abitualmente non contribuisce in modo sostanziale alla localizzazione neuroanatomica. Eccezionalmente un paziente neurologico può presentarsi con zoppia. Patologie spinali con compressioni foraminali possono causare una zoppia che trova la sua causa quindi a livello spinale e non nell’arto apparentemente dolente. È questo il caso delle compressioni discali lateralizzate o delle neoplasie del plesso brachiale. La distinzione tra paziente ortopedico e neurologico è un esercizio di buonsenso e di confrontro tra reperti oggettivi: l’esame dell’andatura è in assoluto l’aspetto più importante e troppo spesso purtroppo il più trascurato nella attività pratica. La localizzazione del dolore, la valutazione della propriocezione quella dei riflessi spinali, completano la valutazione dell’andatura ma non possono sostituirla. Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Daniel Sebastian Corlazzoli - daniele.corlazzoli@fastwebnet.it


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Anestesia in neurochirurgia Federico Corletto Med Vet, Cert VA, Dipl ECVA, MRCVS, Newmarket (UK)

L’anestesia di pazienti con problemi neurologici o sottoposti a procedure diagnostiche e chirurgiche che coinvolgano il sistema nervoso centrale viene generalmente considerata rischiosa, molto spesso semplicemente per la poca confidenza che il medico veterinario ha nei confronti della materia. L’anestesia e la procedura devono essere pianificate accuratamente per ottimizzare la perfusione del sistema nervoso centrale e minimizzare le possibili complicazioni perioperatorie. È ben noto che gli anestetici generali interferiscono con la funzione del SNC, tuttavia meno conosciuti sono i loro effetti sul metabolismo e sulla perfusione cerebrale. La notevole riserva funzionale dei pazienti sani consente di fronteggiare adeguatamente transitori fenomeni di ipoperfusione o una moderata diminuzione dell’efficacia dei sistemi di autoregolazione, mentre in pazienti con problemi neurologici la limitata capacità di compensare la diminuzione della perfusione del SNC può avere effetti disastrosi. L’ischemia di parti del SNC può manifestarsi come transitorio deficit neurologico, cecità, coma, oppure arresto cardiorespiratorio. Queste considerazioni valgono tanto per le patologie intracraniche quanto per quelle del midollo spinale, ma anche per il paziente epilettico o per quello a rischio di crisi convulsive postanestetiche perché sottoposto a mielografia. Il sistema di autoregolazione della perfusione del SNC garantisce un ottimale accoppiamento tra perfusione e fabbisogno metabolico all’interno di un intervallo di pressione arteriosa media compreso tra circa 60 mmHg e 140 mmHg. Al di fuori di quest’intervallo, la perfusione diventa dipendente in modo diretto dalla pressione arteriosa. L’autoregolazione è garantita da variazioni dello stato contrattile della muscolatura liscia delle arterie che vascolarizzato il SNC in relazione alla pressione arteriosa (controllo miogenico, effetto Bayliss). La liberazione di prodotti del metabolismo (ADP, potassio, protoni) e l’adenosina adeguano la perfusione all’attività metabolica locale. La muscolatura della parete dei vasi nel SNC, inoltre, altera il proprio tono in risposta a variazioni della pressione parziale della CO2, pertanto una moderata ipocapnia può transitoriamente diminuire l’ICP (Pressione Intracranica) inducendo vasocostrizione, mentre l’ipercapnia ha effetto vasodilatatore ed aumenta la pressione intracranica. L’effetto della CO2 è transitorio poiché l’acidosi e l’alcalosi respiratorie vengono rapidamente corrette dalla componente metabolica. L’eccessiva iperventilazione deve essere evitata, poiché può determinare un’eccessiva vasocostrizione e compromettere la perfusione cerebrale. I farmaci con azione vasodilatatrice inibiscono la componente miogenica dell’autoregolazione e, a causa della vasodilatazione, possono aumentare la quantità di sangue pre-

sente all’interno del cranio. La scatola cranica, rigida, non è in grado di accomodare aumenti del contenuto in modo efficiente e la pressione al suo interno aumenta molto rapidamente una volta raggiunto un volume critico. Acepromazina, isoflorano e sevoflorane sono potenti vasodilatatori, pertanto possono favorire un aumento della pressione intracranica. L’isoflorano ed il sevoflorane hanno un effetto vasodilatatore dose-dipendente, significativo soprattutto per concentrazioni maggiori di 1 MAC, oltre le quali possono compromettere il normale autocontrollo della perfusione cerebrale e sembra che la compromissione dell’autoregolazione indotta dal sevoflorane sia meno marcata rispetto a quella indotta dall’isoflorano. L’alotano altera la reattività alla CO2 e l’autoregolazione della perfusione cerebrale; diminuisce, inoltre, la portata cardiaca, pertanto è controindicato nel mantenimento dell’anestesia in pazienti neurochirurgici. Gli agenti anestetici inalatori, a causa della loro azione vasodilatatrice, possono ridurre la reattività alle variazioni della PaCO2 e quindi anche gli effetti benefici dell’ipocapnia. Il propofol, somministrato in infusione per mantenere l’anestesia, preserva la reattività alla CO2 e l’autocontrollo cerebrale. L’aumento della pressione intracranica si oppone alla perfusione cerebrale, riducendola. L’organismo cerca di ripristinare la perfusione cerebrale aumentando la pressione arteriosa e determinando una bradicardia riflessa. Questa complessa risposta è denominata riflesso di Cushing (bradicardia ed ipertensione per opporre un aumento della pressione intracranica) e, entro certi limiti, può migliorare la perfusione cerebrale, sebbene contribuisca ad un ulteriore aumento di essa. Se la perfusione non viene ripristinata, il meccanismo diventa autosostenuto e non ha più funzione protettiva. L’aumento della pressione intracranica, oltre a compromettere la perfusione cerebrale (Pressione di perfusione = pressione arteriosa - ICP), può determinare l’erniazione di parte del SNC, comprimendo i centri midollari deputati alla regolazione della funzione respiratoria e cardiocircolatoria. Clinicamente l’aumento della pressione intracranica si manifesta con depressione (fino al coma), deficit dei nervi cranici (esempio anisocoria, lenta o assente risposta pupillare), ipertensione e bradicardia (riflesso di Cushing), rigidità ed opistotono, arresto respiratorio e cardiocircolatorio. È importante identificare i segni della diminuzione della perfusione cerebrale, in modo da consentire un intervento tempestivo. Lo stato del sensorio e la funzione dei nervi cranici devono essere monitorati in modo sistematico nel periodo perioperatorio, qualora si sospetti una compromissione della perfusione cerebrale. La perfusione cerebrale può essere compromessa da condizioni patologiche quali la presenza di lesioni occupanti


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spazio (neoplasie, emorragia) e l’edema cerebrale. Il tessuto neoplastico e, in generale quello patologico, non presenta un normale autocontrollo ed una normale reattività alla PaCO2. L’ipocapnia determina una diminuzione della perfusione del tessuto sano adiacente la neoformazione piuttosto che nella neoplasia. L’effetto benefico di questa manovra deriva dalla diminuzione della pressione intracranica che può favorire la perfusione cerebrale nel cervello sano. In presenza di aree ischemiche, la vasocostrizione nel tessuto normale adiacente favorisce la perfusione del tessuto precedentemente ipoperfuso (effetto “Robin Hood”). La somministrazione di agenti con azione osmotica (mannitolo, 0.2-1 g/kg, IV lentamente in 15-20 minuti) riduce il volume intravascolare e dell’interstizio cerebrale e quindi la pressione intracranica. Il mannitolo, inoltre, sembra migliorare la perfusione cerebrale attraverso una alterazione della viscosità del sangue. Gli steroidi sembrano avere un effetto benefico nel trattamento dell’aumento della pressione intracranica causato dall’edema cerebrale con origine citotossica. Sono impiegati, inoltre, prima di intervenire chirurgicamente sul cervello e, talvolta, sul midollo spinale, per ridurre la risposta infiammatoria conseguente all’insulto chirurgico. Gli steroidi comunemente impiegati sono il metilprednisolone sodio-succinato ed il desametasone. La decisione di somministrare questi farmaci deve essere presa dopo averne considerato i possibili effetti collaterali (immunosoppressione, lesioni gastroenteriche) e prendendo misure atte a limitarli (ad esempio somministrazione di gastroprotettori). Le fondamentali misure pratiche impiegate per prevenire e controllare le complicazioni in neuroanestesia verranno di seguito elencate. - Acepromazina e crisi convulsive. Sebbene non esistano studi in condizioni controllate che determinino l’effetto proconvulsivante dell’acepromazina alle dosi comunemente impiegate, questo farmaco rimane controindicato in pazienti a rischio di crisi convulsive. L’acepromazina, inoltre, a causa della sua lunga durata d’azione, impedisce di effettuare un esame neurologico immediatamente al risveglio dall’anestesia. - Evitare di somministrare sedativi e tranquillanti, se possibile. La premedicazione, se necessaria, può essere effettuata con basse dosi di oppioidi agonisti, evitando di ricorrere alla morfina, che può indurre vomito, causando un improvviso aumento della pressione intracranica. - Induzione dell’anestesia con agenti che riducono la pressione intracranica e diminuiscono il metabolismo cerebrale (propofol o tiopentale). La ketamina è controindicata, perché può aumentare la pressione intracranica e non diminuisce il metabolismo cerebrale. - Evitare risposte (tosse, tachicardia, ipertensione) durante l’intubazione orotracheale. La tosse può aumentare drammaticamente la pressione intracranica. Prima di intubare la profondità dell’anestesia deve essere adeguata. La lidocaina (1 mg/kg IV), somministrata prima dell’induzione dell’anestesia, sembra ridurre la risposta all’intubazione orotracheale. - Mantenimento dell’anestesia con agenti che non alterino significativamente la reattività alla CO2 e l’autocontrollo. L’agente ideale, in questo, caso è il propofol (0.1-0.5

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mg/kg/min), ma possono essere usati anche agenti inalatori in basse concentrazioni (< 1 MAC). Nel gatto il mantenimento con propofol è relativamente controindicato, pertanto l’anestesia può essere mantenuta con sevoflurane. Il protossido d’azoto predispone al pneumoencefalo ed aumenta la pressione intracranica, pertanto è controindicato. L’analgesia può essere conseguita somministrando in infusione oppioidi ad azione breve ed ultrabreve (alfentanil 0.5-1 µg/kg/min, remifentanil 0.1-0.2 µg/kg/min). Il fentanyl può accumularsi significativamente se infuso per più di 1-2 ore e determinare depressione della ventilazione dopo il risveglio. La somministrazione di potenti oppioidi in infusione consente di stabilizzare il sistema cardiocircolatorio, evita risposte ipertensive causate dalla stimolazione chirurgica e riduce la dose di propofol somministrata per mantenere l’anestesia. - Ventilazione controllata a partire da immediatamente dopo l’induzione dell’anestesia, mantenendo una lieve ipocapnia (PaCO2 4 kPa, 30 mmHg). Se necessario devono essere usati agenti miorilassanti non depolarizzanti (vecuronio, atracurio, cisatracurio) per favorire il controllo della ventilazione. Il grado di paralisi deve essere, in questo caso, valutato in modo accurato, per assicurarsi che la funzione neuromuscolare sia completamente riguadagnata prima di risvegliare il paziente. Nella fase postoperatoria l’adeguatezza della funzione ventilatoria del paziente deve essere valutata in modo accurato. - Attento posizionamento del paziente, evitando la compromissione del drenaggio giugulare e mantenendo la testa leggermente elevata rispetto al corpo (ciò favorisce il ritorno venoso). - Mantenimento della pressione arteriosa all’interno del range di autocontrollo, meglio ancora se la pressione arteriosa media è mantenuta nel range 80-100 mmHg. Il monitoraggio della pressione deve essere di tipo diretto nelle procedure intracraniche e nella chirurgia più invasiva a carico della colonna vertebrale. La somministrazione di potenti oppioidi previene risposte cardiocircolatorie (tachicardia, ipertensione) durante la procedura. - In caso di chirurgia intracranica, somministrare steroidi e mannitolo prima dell’apertura della volta cranica. Ciò previene l’edema cerebrale determinato dalla stimolazione meccanica del tessuto operata dal chirurgo. - Monitoraggio intraoperatorio: ECG, pressione arteriosa invasiva, pressione venosa centrale, capnografia, pulsossimetria, emogas arteriosi, produzione di urina, temperatura, monitoraggio della paralisi neuromuscolare (se necessario). - Assicurarsi che, al termine della procedura, il paziente venga risvegliato in un ambiente tranquillo, dopo aver ripristinato la normotermia ed essere sicuri che la funzione ventilatoria e neuromuscolare siano normali. Può essere indicato, soprattutto dopo interventi maggiori, mantenere il paziente addormentato per qualche ora, per garantire un risveglio tranquillo. - Se indicato, somministrare anticonvulsivanti prima della procedure ed iniziare (o continuare) una terapia anticonvulsivante con fenobarbitale dopo il risveglio. L’impiego di antibiotici per via endovenosa deve essere valutato considerando il tipo di procedura effettuata.


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- Dopo il risveglio valutare ad intervalli regolari la funzione dei nervi cranici e lo stato del sensorio. Il diametro pupillare e la reattività della pupilla possono essere facilmente controllati in tutti i pazienti. Dopo la chirurgia a carico della colonna vertebrale valutare la risposta al dolore e, in caso di interventi a carico della colonna cervicale, monitorare il pattern respiratorio. - Fluidoterapia. Devono essere evitati i fluidi contenenti glucosio (predispone al metabolismo anaerobio in caso di ischemia cerebrale e peggiora il danno ischemico). La soluzione di Ringer è lievemente ipotonica e favorisce l’aumento del volume cerebrale. La soluzione fisiologica non presenta particolari controindicazioni, se non quella di non contenere potassio che, comunque, può essere aggiunto (1020 mmol/l) per evitare l’insorgenza di ipopotassiemia. Gli elettroliti devono essere monitorati regolarmente per riconoscere precocemente complicazioni quali ipernatriemia ed ipokaliemia. Le più comuni complicazioni incontrate sono di seguito elencate. - Crisi convulsiva al momento dell’induzione dell’anestesia, durante l’anestesia o dopo il risveglio. La crisi deve essere controllata con diazepam. In caso si sospetti sia stata causata da un mezzo di contrasto, posizionare il paziente con la testa in posizione elevata, inclinando il tavolo. In caso di mancata risposta al diazepam, si può somministrare pentobarbitale oppure propofol. I sistemi cardiocircolatorio e respiratorio devono essere supportati adeguatamente (pressione arteriosa, ossigenazione, ventilazione). Eventuali aritmie cardiache possono essere trattate con lidocaina (se ventricolari) o β bloccanti se sopraventricolari. - Ipertensione intracranica dopo l’induzione dell’anestesia ed erniazione del contenuto cerebrale. Le misure atte a controllare questa complicazione potenzialmente letale sono la ventilazione assistita e la somministrazione di mannitolo e steroidi, seguiti se necessario dalla decompressione chirurgica. - Emorragia durante la procedura. È consigliabile disporre di un donatore di sangue in caso di necessità. Questo vale per procedure intracraniche, chirurgia della colonna cervicale e, in generale, tutti i tipi di chirurgia per rimuovere neoformazioni ben vascolarizzate. - Instabilità cardiocircolatoria. Solitamente dipende da un’inadeguata profondità dell’anestesia, come anche la difficoltà a controllare la ventilazione. Le parti più dolorose dell’intervento sono l’accesso chirurgico e la ricostruzione di muscoli e cute nella chirurgia intracranica. Nella chirurgia della colonna vertebrale la rimozione di materiale discale da una radice nervosa è uno stimolo transitorio difficilmente controllabile, anche con dosi elevate di oppioidi. In queste occasioni potrebbe essere necessario aumentare la dose di oppioidi e propofol infusi. - Erniazione del contenuto cerebrale dalla breccia operatoria. È una complicazione potenzialmente disastrosa e richiede la somministrazione di mannitolo, steroidi e l’iperventilazione. - Bradicardia conseguente l’infusione di oppioidi. Normalmente non è necessario somministrare anticolinergici, che potrebbero indurre ipertensione ed aumento della pressione intracranica. Frequenze cardiache fino a 45-50

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battiti/minuto possono essere tollerate nel cane, se non associate ad ipotensione o blocco atriventricolare di II grado tipo 2 di Mobitz. In caso di necessità può essere ridotta la velocità di infusione degli oppiodi. - Ipertensione arteriosa durante l’anestesia. Può essere controllata aumentando la quantità di oppioidi e propofol infusi, se causata da una risposta del sistema simpatico alla stimolazione chirurgica. Non va trattata con vasodilatatori (acepromazina o nitroprusside), ma con sostanze che migliorino la perfusione cerebrale se si sospetta che sia causata dall’aumento della pressione intracranica. Nella chirurgia della colonna vertebrale l’ipertensione può essere efficacemente trattata aumentando la profondità dell’anestesia con agenti inalatori o somministrando propofol. - Risveglio di pessima qualità. Dopo la chirurgia a carico della colonna vertebrale è solitamente causato da un’inadeguata analgesia. Viene prevenuto somministrando oppioidi prima del risveglio ed infondendo oppioidi (morfina 0.1-0.2 mg/kg/h) nell’immediato postoperatorio. L’infusione di medetomidina (1-2 µg/kg/h) consente di sedare adeguatamente il paziente, ma al tempo stesso non compromette la sua capacità di alimentarsi e non compromette l’esecuzione di un esame neurologico. La qualità del risveglio dopo chirurgia intracranica viene migliorata evitando di risvegliare il paziente immediatamente dopo la procedura, mantenendolo addormentato per 1-2 ore dopo il termine della chirurgia intracranica. Nel frattempo i parametri vitali vengono stabilizzati ed il paziente viene riscaldato. L’infusione di oppioidi può essere terminata con la chirurgia, lasciando all’organismo il tempo di metabolizzarli adeguatamente ed evitando di incontrare depressione ventilatoria al momento del risveglio. Il tubo orotracheale deve essere rimosso prima che il paziente possa tossire, ma non prima che possa mantenere adeguatamente le vie aeree. La dose di propofol può essere gradualmente ridotta, fino a quando il paziente non riprende la ventilazione spontanea. Quando questa è giudicata soddisfacente, l’infusione di propofol può essere interrotta e circa 10-15 minuti dopo il paziente sarà sufficientemente sveglio per essere stubato. Prima di rimuovere il tubo può essere somministrata lidocaina (1 mg/kg IV), per prevenire tosse e una stimolazione cardiocircolatoria indesiderata. - Demenza dopo il risveglio. È la complicazione più frequente dopo chirurgia intracranica. Può essere controllata evitando di stimolare eccessivamente il paziente. Talvolta può essere necessario somministrare tranquillanti ed, eventualmente, farmaci analgesici. - Ipertensione arteriosa dopo il risveglio. Si manifesta frequentemente dopo chirurgia intracranica ed insorge alcune ore dopo il risveglio. Se non è associata ad un deterioramento neurologico è probabilmente causata da dolore o dalla presenza di sangue a livello peridurale. Dura solitamente circa 6-12 ore e poi si risolve. La pressione arteriosa media deve essere monitorata con l’obiettivo di mantenerla al di sotto di 140 mmHg (limite superiore del range di autoregolazione). Per controllare l’ipertensione possono essere somministrati β bloccanti (che limitano anche il vasospasmo cerebrale), bloccanti del canale del calcio, oppure, in caso di necessità, piccole dosi di agenti vasodilatatori. In questi casi, tuttavia, esiste il rischio che l’ipertensione si manifesti nuovamente al termine della terapia.


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- Deterioramento neurologico. Come già descritto, i riflessi dei nervi cranici e lo stato del sensorio del paziente devono esser monitorati ad intervalli regolari dopo il risveglio. In caso di deterioramento neurologico può essere somministrato mannitolo (e/o steroidi), in quanto la più probabile causa del quadro clinico osservato è l’ipertensione intracranica. È necessario assicurarsi, tuttavia, che la ventilazione sia adeguata (normocapnia) e che la pressione arteriosa sia all’interno del range di autoregolazione, altrimenti le misure prese non saranno efficaci. Se il paziente non risponde adeguatamente, può essere necessaria l’esecuzione di indagini diagnostiche (risonanza magnetica nucleare o tomografia assiale computerizzata) ed, eventualmente, un nuovo intervento chirurgico. L’ipertensione intracranica può essere causata da edema cerebrale postoperatorio oppure da un’emorragia. - Inappropriata diuresi ed alterazioni dell’equilibrio elettrolitico. Disordini comunemente incontrati dopo la chirurgia intracranica sono la poliuria e l’ipernatriemia. Solitamente sono transitori (alcuni giorni) e sono causati da diabete insipido centrale, somministrazione di steroidi e diuretici, infusione di oppioidi e di fluidi ricchi di sodio. Nel postoperatorio può essere somministrata soluzione di Ringer o elettrolitica bilanciata, appropriatamente integrate con potassio. È consigliabile monitorare la produzione di urina in relazione alla somministrazione di fluidi, nonché gli elettroliti e l’equilibrio acido-base per qualche giorno dopo l’intervento. - Megaesofago. Il megaesofago è una complicazione incontrata talvolta dopo la chirurgia a livello della fossa posteriore (cervelletto). Deve essere identificato ed il paziente trattato in modo da evitare il rigurgito e la polmonite ab ingestis. - Pneumoencefalo. È una complicazione rara, ma che richiede tempestivamente un secondo intervento chirurgico per drenare l’aria e decomprimere il cervello. Può conseguire al passaggio attraverso i seni frontali durante l’accesso chirurgico.

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- Embolia gassosa. È una rara complicazione intraoperatoria, ma può essere letale se non riconosciuta in tempo. In caso di cospicua emorragia dai seni venosi cerebrali o vertebrali, la pressione venosa può diventare subatmosferica e favorire l’aspirazione di aria. L’aria si accumula nel cuore destro e nell’arteria polmonare determinando prima un’alterazione del rapporto tra ventilazione e perfusione, poi ipertensione polmonare ed insufficienza cardiaca acuta. La patologia può essere riconosciuta identificando le bolle d’aria nella cavità cardiaca con un ecografo oppure con uno stetoscopio esofageo. Quando l’embolia ha raggiunto un volume significativo, induce desaturazione dell’emoglobina e diminuzione della CO2 espirata dal paziente. Successivamente induce una insufficienza cardiocircolatoria acuta.

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Indirizzo per la corrispondenza: Federico Corletto c/o Animal Health Trust Lanwades Park, Kentford, CB8 7UU, Newmarket, Suffolk, UK e-mail: fcorletto@yahoo.it


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Neuroplasticità, iperalgesia, wind up e dolore Federico Corletto Med Vet, Cert VA, Dipl ECVA, MRCVS, Newmarket (UK)

È ben noto da decenni che il dolore non è un’entità singola, bensì un fenomeno complesso che interessa l’organismo a diversi livelli. Il dolore acuto, per esempio, ha lo scopo di iniziare riflessi deputati alla protezione dell’organismo, pertanto è ben localizzato, definito ed ha una componente emozionale limitata nel tempo. Il dolore infiammatorio ha carattere differente, è sostenuto da meccanismi locali periferici e dura più a lungo dell’insulto. Ben diverso è il dolore cronico, che altera lo stato di attivazione del sistema nervoso centrale ed induce alterazioni dell’omeostasi fino a determinare un significativo decadimento della qualità della vita del paziente. Da sintomo di malattia, il dolore diviene malattia per se, in quanto rappresenta uno stato alterato del sistema nervoso centrale, in assenza di danno tessutale vero e proprio. Alla base di tale significativo cambiamento della percezione del dolore, fino allo sviluppo di un dolore autosostenuto patologico, è la capacità del sistema nervoso centrale di riorganizzare i proprio sistemi di amplificazione ed inibizione del segnale, associata ad alterazioni dei recettori a livello periferico, denominata neuroplasticità. L’idea di un sistema nervoso centrale statico e passivo nella componente sensoriale è, pertanto, superata, in favore di un modello in cui il sistema nervoso centrale è in grado di processare lo stimolo a livello subcorticale, amplificandolo fino a trasformare un fenomeno protettivo –il dolore acutoin un evento patologico, il dolore cronico. Ciò è evidente sin dal 1965, quando è stata ipotizzata l’esistenza di un sistema di modulazione del dolore. Il dolore inizia come nocicezione, l’attivazione di recettori a livello periferico. Anche a questo livello la risposta dell’organismo è dinamica. Se il dolore persiste, vengono attivati recettori normalmente quiescenti ed aumenta la sensibilità del pool generale dei recettori deputati a percepire gli stimoli nocivi. Le prostaglandine ed altri mediatori infiammatori (sostanza P, istamina, bradichinina, serotonina, TNF, noradrenalina, protoni, NGF) esercitano un ruolo fondamentale nell’iniziare e sostenere il fenomeno denominato iperalgesia primaria. La parte colpita dall’insulto e quelle immediatamente adiacenti diventano più sensibili agli stimoli dolorifici ed anche stimoli al di sotto della soglia dolorifica diventano dolorosi. Le modalità di intervento terapeutico a questo livello sono numerose, vanno ricordati i FANS, gli oppioidi ed i cannabinoidi. La persistenza dello stimolo dolorifico non adeguatamente controllato determina l’invio di una continua serie di impulsi al corno dorsale del midollo spinale, ove il segnale viene modulato localmente e da vie discendenti, quindi inviato al talamo ed alla corteccia cerebrale. Solo a quest’ulti-

mo livello la nocicezione diventa dolore che, per definizione, è un fenomeno che richiede la coscienza. A livello del corno dorsale del midollo spinale le regioni periferiche dell’organismo sono rappresentate in maniera somatotopica, pertanto possono essere individuati dei campi recettivi nei neuroni nocicettivi specifici nelle lamine superficiali del midollo spinale. Esiste un pool di neuroni, (WDR, wide dynamic range, ampio spettro dinamico, o multirecettoriali), in grado di rispondere sia a stimoli nocivi che non, secondo l’entità della stimolazione in entrata nel midollo spinale. Questi neuroni possono essere reclutati per amplificare e modulare il segnale ed hanno campi recettoriali più ampi rispetto a quelli dei neuroni nocicettivi specifici. L’attivazione ed il reclutamento di tali neuroni determinano un’alterata percezione del dolore, con un allargamento della rappresentazione somatotopica dell’area interessata dall’insulto dolorifico. La normale risposta del SNC al dolore è, come già introdotto precedentemente, l’attivazione di sistemi inibitori discendenti, che modulano il segnale in entrata nel midollo spinale a livello del corno dorsale. L’esistenza di sistemi inibitori serotoninergici, adrenergici ed oppioidi è ben nota e viene utilizzata quotidianamente nella terapia del dolore. La persistenza dello stimolo in entrata non determina, come ci si potrebbe aspettare, un aumento dell’attività dei sistemi inibitori, piuttosto induce una maggiore amplificazione del segnale. Il recettore NMDA per il glutammato costituisce un elemento essenziale per l’attivazione dei meccanismi che determinano l’amplificazione del dolore a livello del midollo spinale (iperalgesia secondaria e sensibilizzazione centrale). Il recettore NMDA per il glutammato è peculiare poiché per la sua attivazione richiede la contemporanea presenza di eventi pre e postsinaptici. Normalmente il recettore è quiescente ed il suo canale è bloccato da uno ione magnesio (blocco voltaggio dipendente). In questa condizione il glutammato liberato nello spazio sinaptica non riesce a stimolare il recettore. La persistente depolarizzazione della cellula postsinaptica ad opera del glutammato stesso su recettori AMPA e kainato, determina lo spostamento dello ione magnesio dal canale del recettore NMDA, attivandolo e rendendolo sensibile alla stimolazione del glutammato. L’attivazione del recettore NMDA determina un aumento del calcio intracellulare (influsso attraverso il canale aperto e liberazione dalle riserve intracellulari) e quindi dell’eccitabilità della cellula, oltre che aumentare l’attività delle kinasi citoplasmatiche. L’attivazione del recettore NMDA per il glutammato è l’evento fondamentale per consentire la sommazione temporale degli stimoli, o wind up, che si manifesta


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già dopo poche ore di persistenza della stimolazione. L’attivazione del recettore NMDA è legata anche all’inizio di fenomeni di trascrizione nucleare, iniziati dall’attivazione delle kinasi, che determinano una radicale mutazione dell’attività nel sistema nervoso centrale. Tra i prodotti di tale attività trascrizionale, va ricordato il protoncogene c-fos, che è un marker di sensibilizzazione centrale. La funzione del gene c-fos non è ancora chiara, ma sembra possa controllare l’attivazione di altri sistemi di produzione di neuropeptidi. A tale proposito una caratteristica interessante dei fenomeni neuroplastici che avvengono nel corno dorsale del midollo spinale è l’alterazione della produzione di neurotrasmettitori: il dolore che persiste per diversi giorni determina l’aumento della produzione da parte dei terminali in entrata nel midollo di neurotrasmettitori con azione pronocicettiva (sostanza P, neurokinine, prostaglandine, tirosina kinasi, CGRP) e dei loro relativi recettori. L’effetto finale dell’alterazione della produzione e della liberazione di neurotrasmettitori e della riorganizzazione delle sinapsi nel corno dorsale del midollo spinale è un dolore autosostenuto, afinalistico, che si estende oltre l’area dell’insulto primario e non che persiste oltre la durata dell’insulto. Per scatenare questi eventi il dolore deve estendersi per molti giorni o settimane. Il recettore NMDA interagisce anche con la modulazione del dolore esercitata dagli oppioidi. L’aumento del calcio intracellulare legato all’attivazione del recettore NMDA attiva enzimi proteina-kinasi che alterano lo stato di fosforilazione del recettore per gli oppiacei, determinando tolleranza. È probabilmente per questo motivo che il dolore cronico risponde in modo poco soddisfacente alla terapia con oppioidi. La somministrazione di oppioidi per il trattamento del dolore è in grado, in modo simile, di attivare le stesse kinasi e quindi diminuire l’efficacia del trattamento analgesico. Il metadone sembra differenziarsi dagli altri oppioidi in quanto è in grado di attivare il recettore per gli oppioidi (OR3), ma allo stesso tempo blocca il recettore NMDA, ritardando l’insorgenza della tolleranza. Il fascino teorico di questo concetto diviene interesse pratico nel momento in cui si considera che l’infusione di oppioidi potenti (fentanyl, remifentanil) determina l’insorgenza di tolleranza nel giro di alcune ore. La riorganizzazione del midollo spinale determina, se non trattata, una riorganizzazione della corteccia cerebrale. È questo il caso del “phantom limb” o del dolore neuropatico determinato dal danneggiamento di un nervo periferico. Il nervo danneggiato va incontro a persistente depolarizzazione e determina alterazioni nel midollo spinale (allargamento dei campi recettoriali, sommazione temporale). Lo stesso avviene a livello corticale, ove l’area che rappresenta la parte innervata dal nervo danneggiato si allarga progressivamente ed il dolore si estende quindi ad aree adiacenti o, nel caso dell’arto fantasma, inesistenti. Per valutare l’impatto clinico di tali fenomeni non è necessario chiedersi se gli animali manifestino la sindrome dell’arto fantasma, piuttosto è sufficiente pensare ad una

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compressione cronica di un nervo a livello del forame intervertebrale. Il dolore causato risponde in modo poco soddisfacente alle terapie analgesiche convenzionali ed è altamente invalidante. Infine, non necessariamente né classicamente considerati nella neuroplasticità, ma importantissimi dal punto di vista clinico, devono essere menzionati gli effetti del dolore cronico sugli apparati cardiocircolatorio (ipertensione, tachicardia, aumento del consumo di ossigeno), respiratorio (diminuzione della clearance mucociliare, ipoventilazione), gastrointestinale (anoressia, ipodipsia), neuroendocrino (ipercortisolemia), immunitario (depressione, ritardo della cicatrizzazione), muscoloscheletrico (ridotta mobilità) e, non ultimo in importanza, comportamentale (ridotta interazione, aggressività). Il dolore cronico e neuropatico, come gia detto, risponde in modo poco soddisfacente agli analgesici convenzionali (FANS, oppioidi), pertanto qualora il paziente non dimostri un significativo miglioramento della condizione clinica, si può ricorrere a terapie meno “convenzionali”, quali la somministrazione di bloccanti del recettore NMDA (ketamina, destrometorfano), la gabapentina (registrata per il trattamento del dolore neuropatico in medicina umana), oppure l’infusione di lidocaina, che stabilizza le membrane cellulari. Considerando le conoscenze attuali ed i farmaci disponibili, l’approccio meno convenzionale dovrebbe essere riservato, a mio avviso, ai pazienti che ne possano derivare il massimo beneficio, piuttosto che non riscontrare alcun beneficio e dedurre che tali terapie non debbano essere utilizzate. Per ora il miglior modo di prevenire le modificazioni del SNC indotte dal dolore è una efficace analgesia locoregionale, eventualmente associata alla somministrazione di FANS ed oppioidi.

Bibliografia Flecknell P, Waterman-Pearson A. (2000) Pain management in animals. WB Saunders, Londra Loeser J.D. (2003) Bonica’s Trattamento del dolore. Antonio Delfino Editore, Roma Petersen-Felix S., Curtarolo M. (2002) Neuroplasticity- an important factor in acute and chronic pain. Swiss Med Wkly; 132, 273-278 Woolf CJ, Costigan M. (1999) Transcriptional and posttranslational plasticity and the generation of inflammatory pain. Proc Natl Acad Sci, 96, 7723-7730. Rabben T, Skjelbreb P, Oye I (1999) Prolonged anlagesic effect of ketamine, an NMDA inhibitor, in patients with chronic pain. J Pharmacol Exp Ther, 289, 1060-1066 Okamoto M et al (2001) Functional reorganization of the sensory pathways in the rat spinal dorsal horn following peripheral nerve injury. J Physiol, 532, 241-250.

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Caso dermatopatologico Luisa Cornegliani Med Vet, Milano

Antonella Vercelli Med Vet, Ces Derm, Torino

Anamnesi: un gatto, di razza comune europeo, femmina sterilizzata di 3 anni, veniva portato alla visita dermatologica di consulto. Da due anni il gatto presentava prurito e lesioni nodulari sulla faccia esterna degli arti anteriori e posteriori, sul collo e sull’addome. In precedenza erano state effettuate terapie con metilprednisolone acetato alla dose di 40 mg/im/gatto (Depo-medrol, Pharmacia & Upjohn, Milano) ogni 2-3 mesi. Dopo ogni singola iniezione, le lesioni cutanee ed il prurito andavano incontro a risoluzione. Tuttavia nell’ultimo anno, le recidive erano aumentate ed infine il trattamento farmacologico era risultato inefficace. Esame obiettivo generale e particolare: il gatto era in buone condizioni fisiche generali. All’esame obiettivo particolare si osservavano noduli con croste apicali e modesto eritema localizzato sulla parte prossimale laterale di tutti gli arti e intorno al collo. Le croste erano di colore giallo-brunastre, delle dimensioni di 0.5-1cm e non dolenti alla palpazione. Intorno ad esse era presente ipotricosi ed eritema. Il gatto manifestava prurito attraverso un eccessivo leccamento degli arti.

Esame dermatopatologico: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Discussione: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

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Educazione del proprietario nella gestione cronica del paziente epilettico Francesca Cozzi DVM, Dipl ECVN, Milano

Chiara Matteri Med Vet, Tramezzo (CO)

Introduzione Nel cane e nel gatto l’epilessia è una patologia cronica, inguaribile, in quanto può essere controllata con la terapia ma difficilmente eliminata, e dinamica: sia la patologia che la terapia, infatti, subiscono generalmente modificazioni quali-quantitative nel tempo4. Il veterinario deve, da subito, essere quanto più chiaro possibile in modo che il proprietario abbia una conoscenza reale della situazione che (se accetterà) dovrà affrontare quotidianamente per tutta la vita dell’animale. In questo modo è possibile individuare correttamente chi tra i proprietari è disposto a continuare: si individua cioè la “soglia di sopportazione” di ciascuno, assolutamente soggettiva, che è un presupposto essenziale su cui basare tutto l’iter successivo: senza la totale collaborazione del cliente non ha senso la somministrazione del farmaco come tentativo di ottenere una qualche momentanea risposta del soggetto2. Una volta deciso per l’applicazione della terapia anticonvulsivante è necessario che il proprietario sia istruito, preparato e collaborante col clinico. Infatti, tra le diverse cause di insuccesso nel controllo delle crisi epilettiche rientra anche la gestione inadeguata dell’animale da parte del proprietario11. La presenza attiva e consapevole del proprietario, però, può derivare solamente da una corretta e costante partecipazione del veterinario; è indispensabile che il suo ruolo sia continuo e non si esaurisca alla prima visita7. Sulla base di numerosi riferimenti presenti in letteratura alla variabile “proprietario”, il presente lavoro mira a porre l’accento sull’approccio al cliente dell’animale epilettico come passo chiave nella gestione dell’epilessia; un’informazione adeguata e la consapevolezza del cliente sono i presupposti per ottenere un’applicazione corretta della terapia e annullare quindi gli insuccessi terapeutici legati ad una scorretta gestione del paziente.

Approccio clinico all’epilessia Ogni fenomeno clinico inusuale ed involontario che sia episodico e ricorrente andrebbe indagato come una crisi epilettiforme4. Per contro, non tutte le crisi convulsive devono essere correlate necessariamente ad una forma di epilessia. Dal momento che risulta estremamente infrequente che il veterinario abbia l’opportunità di osservare l’attacco, il ruolo del proprietario e la sua partecipazione (descrizioni accurate, video amatoriali) diventano assolutamente fondamentali; gestire correttamente e con precisione l’anamnesi permet-

te di ottenere un gran numero di informazioni che spesso sono sufficienti per formare un sospetto diagnostico ed indirizzare il clinico verso esami specifici1. La diagnosi a cui il veterinario può giungere è una diagnosi per esclusione4; ci si basa sulla descrizione dell’attività convulsiva e delle caratteristiche delle crisi, sui dati segnaletici (età di insorgenza) e su riscontri clinici (visita generale, esame neurologico). L’iter diagnostico deve comprendere accertamenti volti a considerare od escludere varie cause di crisi convulsive (cause metaboliche o tossiche come causa di crisi reattive e cause strutturali nell’epilessia secondaria) portando, in caso di assoluta normalità di tutte le indagini effettuate, al sospetto clinico di epilessia idiopatica o essenziale1. Ovviamente l’esecuzione di un iter diagnostico accurato e completo permette una successiva gestione terapeutica adeguata ed esclude che possibili insuccessi terapeutici siano da attribuire ad una diagnosi non corretta. La terapia anticonvulsivante deve essere intesa come un controllo dinamico dell’animale e della sua patologia, sia da parte del proprietario, sia da parte del clinico attraverso esami diretti periodici dell’animale2. In particolare, più che di semplice terapia si dovrebbe parlare di “gestione del paziente epilettico”: se la terapia (in senso ampio del termine) non viene applicata in modo rigoroso in ogni suo aspetto, rischia di perdere tutta la sua efficacia6. La decisione di iniziare una terapia anticonvulsivante dipende dal numero delle crisi, dalla loro frequenza, intensità e natura (rilevata attraverso l’iter diagnostico)2, 4, 14; infatti, non in tutti i casi le crisi epilettiche devono necessariamente essere trattate1. In generale si tende a non iniziare la terapia in presenza di un’unica crisi o quando l’intervallo tra un attacco e l’altro è nell’ordine di mesi2, 4, 6, 11. Al contrario, è consigliabile iniziare la somministrazione di farmaci antiepilettici quando le crisi si presentano ad una distanza uguale o inferiore alle 6 settimane4, 11, 17 o quando si presentano situazioni particolari. Un importante fattore da considerare, ancora una volta, è la disponibilità del proprietario1, 4, 6, 7: in ultima analisi, la terapia può essere iniziata solamente quando il proprietario, informato e consapevole, decide di accettare questa responsabilità.

Applicazione della terapia e suo monitoraggio Uno dei farmaci più conosciuti ed utilizzati in Medicina Veterinaria è il Fenobarbitale che può essere somministrato solo o associato ad altri farmaci (come ad esempio, il bromuro di potassio)3, 16, 17.


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Le caratteristiche del Fenobarbitale fanno si che il farmaco debba essere gestito con accuratezza ed in maniera continua: - innalza la soglia epilettogena del soggetto: può quindi ridurre l’incidenza delle crisi ma non eliminarle completamente12, 17; - la dose, sebbene si parta da valori standard di riferimento, deve essere modulata sulla base del metabolismo personale del soggetto15, 17; - la sua emivita fa si che il farmaco debba essere somministrato due (talora tre) volte al giorno3, 14; - è sottoposto ad una metabolizzazione epatica cui consegue la sua potenziale epatopatia ed il fenomeno di assuefazione dell’organismo al farmaco11, 17. Per questi motivi, la terapia anticonvulsivante con Fenobarbitale non può fare a meno del monitoraggio periodico dei livelli sierici del farmaco, applicato in maniera costante e continua2, 3, 11, 14, 17. In particolare, è importante considerare l’animale epilettico come un singolo valutando le sue personali variazioni metaboliche nei confronti della patologia e della terapia poiché ogni paziente mostra una propria farmacocinetica nei confronti del farmaco10. Utilizzando il monitoraggio dei livelli sierici ed osservando l’andamento delle crisi si deve ottenere la dose ideale per ciascun paziente6, 10.

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Il successo terapeutico si basa completamente sull’individuazione della terapia ideale per quel determinato paziente2, 3, 6, 7, 11, 12, 15, 17. Questo risultato può essere raggiunto solo con un costante controllo dell’animale, delle sue eventuali anomalie tra una crisi e l’altra, dell’andamento degli attacchi e delle dosi del farmaco. Gli strumenti a disposizione del clinico per attuare questo controllo sono: - il monitoraggio periodico dei valori sierici del farmaco; - la documentazione delle crisi, delle modificazioni di queste nel tempo, delle variazioni della terapia che dovrebbero essere scritte e conservate da parte del proprietario; - contatti telefonici periodici per ottenere informazioni su variazioni eventuali in tempi brevi. L’equilibrio tra la qualità di vita raggiunta ed il successo terapeutico, spesso, è la chiave per decidere da parte del proprietario se continuare o no. Purtoppo, a dispetto di molti sforzi, tempo, spese e partecipazione, l’animale continua ad avere crisi. Ecco perché un’adeguata educazione del cliente diventa fondamentale per il suo adeguamento alla nuova vita e alle conseguenze della presenza di un animale epilettico5.

Bibliografia 1.

Refrattarietà e pseudorefrattarietà

2.

In una percentuale di casi variabile, che talora raggiunge anche il 50%, non si riesce ad ottenere un buon controllo delle crisi3, 10, 17. Le cause di insuccesso possono essere molteplici ma occorre fare un’importante distinzione. Un soggetto può realmente essere refrattario alla terapia, generalmente per un‘eccessiva intensità della patologia (crisi prolungate, a grappolo, stato epilettico, fase postictale lunga, etc) o per mancata risposta da parte dell’animale alla somministrazione del farmaco (da subito o attraverso un’assuefazione al farmaco progressiva nel tempo)2, 6, 9. Accanto a questa refrattarietà, definita reale, occorre però considerare anche una pseudorefrattarietà ossia un mancato miglioramento del soggetto legato a diagnosi errate, a scorretta gestione del paziente da parte del proprietario o a mancato monitoraggio della farmacocinetica del farmaco1, 6, 7, 11, 14, 17. Tutto ciò può portare a modificazioni azzardate della terapia, all’aggiunta irrazionale di nuovi farmaci fino ad arrivare a considerare l’eutanasia. Un soggetto va considerato refrattario quando la mancata risposta al farmaco avviene con una terapia correttamente applicata ed un monitoraggio corretto e continuo1, 3, 10, 12. A differenza della refrattarietà reale, la pseudorefrattarietà è una variabile che può e, quindi, deve essere controllata.

3.

L’educazione del proprietario L’educazione del cliente riguardo la gestione del paziente epilettico è importante tanto quanto la scelta del trattamento adeguato e per De Lahunta è “un’importante responsabilità per il veterinario e può determinare la sopravvivenza del paziente ed il successo della terapia”4. Il proprietario deve essere informato su ogni aspetto fin dall’inizio. Occorre che sappia di dover convivere con la patologia e con la sua terapia per tutta la vita del cane; deve conoscere l’importanza dei controlli periodici; deve essere messo al corrente dei possibili rischi della terapia anticonvulsivante e sapere che si possono presentare delle situazioni di emergenza11, 17.

4. 5. 6. 7.

8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

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Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Cozzi, DVM, dipl ECVN Università degli Studi di Milano, Facoltà di Medicina Veterinaria Dipartimento di Scienze Cliniche, Sezione di Clinica Medica Via Celoria 10, 20133 Milano - Italy - tel +39 02 50317813 fax +39 02 50318171 - e-mail francesca.cozzi@unimi.it Chiara Matteri, Via Regina 10 22019 Tremezzo (Como) 349-3920690 - chiara.matteri@katamail.com


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Neonatologia aviare Lorenzo Crosta Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna

Marcellus Bürkle, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna Linda Timossi, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna

Prima di affrontare i problemi medici del paziente aviare neonato o pediatrico, è importante familiarizzarsi con l’evoluzione normale del pulcino, sia da un punto di vista dello sviluppo fisico, sia da un punto di vista psicologico. Se un veterinario non è in grado di riconoscere la differenza fra un pulcino sano e normale, e un pulcino che inizia ad avere dei problemi, la sua reazione sarà spesso troppo tardiva per avere successo. Un sistema semplice, ma precoce ed efficace, per capire se un pulcino stia crescendo bene, è quello di controllarne la curva di crescita. Un errore comune, commesso da molti avicoltori, ma anche da molti veterinari, è quello di pensare che un pulcino sia ammalato solo perché il suo peso in un momento dato, è inferiore a quello pubblicato in letteratura. L’esperienza c’insegna che questo dato ha un’importanza relativa, mentre è molto più importante analizzare e comparare la silhouette della curva di crescita nella sua completezza: una curva ondulante e con molte puntate sopra o sotto la media dei pesi per la specie, è il vero indice di un accrescimento anomalo. In genere si considera normale che nelle prime settimane di vita un pulcino raddoppi il proprio peso ogni sette giorni: se supera questo traguardo bene, altrimenti in genere ci sono dei problemi. Altri buoni indicatori di buona salute, e/o parametri da valutare, sono: • proporzioni corporee regolari; • postura normale per la specie; • stato d’idratazione; • colore della pelle, sua consistenza ed elasticità, depositi di grasso; • sviluppo normale del piumaggio; • normale forma del becco (controllare simmetria, prognatismo e brachignatismo); • tono e spessore della parete del gozzo; • risposta all’imbeccata (secondo la specie); • eventuale presenza di materiale estraneo nel gozzo; • produzione di feci normali.

Controlli routinari dei pulcini nella nursery La neonatologia aviare comprende non solo il controllo medico dei pulcini ammalati, ma anche l’esame dei pulcini in gruppo nella nursery. Controlli fatti con regolarità permettono al veterinario di avere una storia clinica piuttosto dettagliata di ogni pulcino nella nursery e lo mettono in

grado di accorgersi per tempo di ogni deviazione dalla normalità, in modo che ogni pulcino sospetto possa venire isolato dal gruppo al più presto. Il controllo routinario di base che viene attualmente attuato nella nostra nursery, è un semplice esame microbiologico del gozzo e della cloaca di ciascun pulcino in arrivo. Qualora da un pulcino si coltivino batteri potenzialmente patogeni, si effettua sempre un antibiogramma. Ciò non significa che si cominci già un trattamento, infatti questo si effettuerà solo se il pulcino mostra anche dei sintomi clinici, oppure quando si rileva la presenza di funghi o lieviti. Nel caso in cui un pulcino mostri un ridotto accrescimento, o altra sintomatologia e specialmente se si coltivano batteri potenzialmente patogeni, è bene approfondire la diagnosi con l’ausilio di qualche esame ematologico. Ciò è in funzione della taglia del pulcino e quindi della quantità di sangue che si potrà prelevare senza rischi. Inoltre, anche l’acqua ed il cibo che s’impiegano nella nursery dovranno essere testati regolarmente. Infine, quando la taglia del pulcino lo permette, si prelevano sangue e piume per la ricerca di Circo- e Polyomavirus. In linea generale, al Loro Parque, effettuiamo gli esami microbiologici in due modi distinti, in dipendenza dell’origine dei pulcini: 1. Pulcini incubati artificialmente, che originano da genitori sani ed esenti dalle principali patologie infettive. Questi soggetti sono considerati “puliti”, non avendo avuto alcun contatto diretto con animali adulti. L’esperienza c’insegna che un controllo microbiologico effettuato immediatamente dopo la schiusa non serve e che sovente ci conduce ad un’erronea interpretazione dei risultati. Infatti, spesso dai pulcini appena schiusi non si coltiva nulla, ma ciò dipende sia dalle modeste dimensioni del campione, sia dal fatto che nei pulcini appena schiusi non si è ancora sviluppata alcuna flora batterica. Dopo anni d’esperienza, il nostro protocollo prevede di testare i pulcini nati in incubatrice a 3 - 4 giorni d’età: ciò dà la maggiore probabilità di identificare i patogeni prima che diventino un problema. 2. D’altra parte, i pulcini che arrivano dai nidi, e che pertanto hanno passato un periodo con i propri genitori, sono considerati “potenzialmente sporchi”, e non verranno mischiati con i pulcini delle incubatrici. Questi uccelli verranno invece testati al loro ingresso nella “quarantena” della nursery, che lasceranno solo quando tutti i pulcini presenti nella medesima stanza saranno considerati “puliti”.


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Come identificare i pulcini ammalati I pulcini ammalati sono in genere più facili da identificare, rispetto agli uccelli adulti, infatti non hanno ancora sviluppato l’abilità di nascondere i sintomi, al fine di sfuggire ai predatori. Naturalmente esistono segni a cui fare attenzione, come rallentata crescita, rallentato svuotamento del gozzo, addome gonfio, edema generalizzato, accrescimento disarmonico, secchezza/disidratazione, feci anormali, mancata produzione di feci, sintomi neurologici, deviazione degli arti, occhi “spenti”, o semichiusi, ecc. Se tali segnali sono tipici ed evidenti, esistono naturalmente delle differenza collegate alla specie, che possono essere più difficili da identificare. Per es. i pulcini molto giovani di Cacatua e di Ara non reagiscono in maniera molto diversa, quando vengono manipolati, ma quando si avvicinano allo svezzamento, mentre gli Ara si sdraiano sulla schiena e si difendono con le zampe, i Cacatua si rannicchiano e scattano con il becco, come per attaccare un aggressore. Nella esperienza degli autori, qualunque pulcini che manifesti un comportamento anormale per la sua specie e per la sua età deve essere controllato attentamente.

Problematiche tipiche dei pulcini allevati dai genitori ed allevati a mano Benché ci siano malattie ed incidenti che si osservano in entrambe le categorie di pulcini, almeno da un punto di vista percentuale, queste due classi di pazienti mostrano problemi diversi. Generalmente i pulcini allevati da genitori sani ed esperti, crescono più rapidamente e non hanno problemi comportamentali o infettivi. Comunque, e soprattutto se i genitori sono inesperti, i pulcini nel nido devono essere controllati molto spesso per eventuali problemi con i genitori, con i fratelli, o con le condizioni ambientali. Spesso i pappagalli con pulcini possono diventare eccessivamente protettivi, quando il nido viene ispezionato e ciò può portare a incidenti attivi, come l’aggressione dei genitori verso i pulcini, oppure a incidenti passivi, come quando i genitori innervositi calpestano i piccoli senza volerlo. Questi problemi si possono evitare abituando i riproduttori all’ispezione routinaria del nido. I pulcini di psittacidi della stessa covata, normalmente non nascono nello stesso giorno, pertanto possono sorgere problemi derivanti dalla differente taglia dei pulcini. Inoltre, i pulcini nel nido possono avere dei problemi perché il nido è mal costruito, è posizionato in maniera erronea, fatto che lo può esporre (e con esso i pulcini) ad eccessivo calore, o freddo, o umidità. Infine, riproduttori mal gestiti produrranno facilmente pulcini deboli, per le carenze indirette provocate dalla alimentazione povera dei genitori. D’altra parte i pulcini che vengono allevati artificialmente (“alla mano”, “a mano”, o “allo stecco”), dipendono totalmente dall’esperienza del personale addetto, dall’igiene che il personale è capace di mantenere e, infine, dal “feeling” personale di chi li accudisce. Quando tali pulcini sono ben curati, il lavoro nella “nursery” scorre senza intoppi e gli addetti sono esperti e motivati, anche i pulcini allevati allo stecco possono essere perfettamente sani, spesso sono esen-

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ti da alcune delle tipiche patologie infettive della popolazione adulta e certamente diverranno ottimi pet-birds. Se però non si realizza una perfetta combinazione di riproduttori sani, personale addetto alla nursery esperto e igiene strettissima, i pulcini allevati artificialmente svilupperanno certamente problemi infettivi, di sviluppo e comportamentali.

Il Pulcino Grave I pulcini giovani possono morire mooolto rapidamente, quando sono malati gravi. Per questa ragione, se si sospetta che un pulcino non stia bene, è sempre meglio iniziare comunque un trattamento sintomatico. Allo stesso tempo si preleveranno i campioni diagnostici necessari. Molto spesso i risultati degli esami arriveranno dopo che è già chiaro se il trattamento ha avuto successo, o meno. Ciò non di meno, è saggio raccogliere dei campioni diagnostici in anticipo, per le seguenti ragioni: 1. il trattamento può essere modificato secondo i risultati; 2. una diagnosi presuntiva è disponibile per pulcini che mostrassero sintomi simili nello stesso allevamento. Il pulcino grave in genere si presenta ipotermico e disidratato. Probabilmente non sarà in grado di mantenere la testa eretta e spesso avrà l’addome parzialmente o totalmente dilatato. Altri sintomi molto comuni nei pulcini ammalati, sono occhi gonfi (generalmente entrambi), rallentato svuotamento dell’ingluvie, ingluvie con presenza di gas e stipsi. Tutti questi casi richiedono un trattamento antibiotico immediato ed aggressivo, accompagnato da un rapido ripristino delle perdite di liquidi. Inoltre, onde evitare una invasione secondaria con miceti e lieviti, è spesso consigliabile istituire anche un trattamento antimicotico. I tipici farmaci di prima scelta, a questo scopo, sono Enrofloxacina e Marbofloxacina, ma a causa dell’aumentato numero di ceppi batterici resistenti ai fluorochinoloni, anche le cefalosporine di terza generazione (come Ceftriaxone e Cefotaxime), sono diventate di comune impiego. I fluidi saranno prevalentemente iniettati sottocute, e ciò può essere fatto in piena sicurezza anche in pulcini molto piccoli (10 grammi PV), ma alcuni casi gravi possono richiedere fluidi per via endovenosa, o intraossea. Il deficit di fluidi può essere stimato dall’aspetto clinico del paziente: • un perdita di elasticità cutanea corrisponde circa a una disidratazione del 5%; • la pelle tende a formare delle pliche e ha perso la propria lucentezza: disidratazione del 10 - 12%; • il pulcino è depresso, o comatoso, ci sono sintomi di shock: disidratazione 12 - 15%. La quantità di fluidi da somministrare può esser calcolata come segue: Peso Corporeo Normale (PCN) x (disidratazione stimata in % x 0.001) + fabbisogno liquido giornaliero (50 ml/kg). Per esempio, un pulcino che pesi 31 grammi in cui si stimi una disidratazione del 12% riceverà: 35 (PCN) x 0.012) + 1.75 = 2.17 ml. Il cibo verrà somministrato normalmente, se il pulcino lo accetta e lo digerisce. Se esiste il rischio che venga rigurgitato è meglio ridurre la quantità di pappa per pasto di un 20 - 50% in volume.


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Nel caso ci sia stasi del gozzo, l’ingluvie può essere lavata con una soluzione salina tiepida, alla quale si potrà aggiungere qualche goccia di un disinfettante iodato (p. es. Betadine®). Un poco della soluzione salina potrà essere lasciata nell’ingluvie, dopo che questa sia stata ben lavata, ma secondo l’esperienza degli Autori, si ottengo risultati migliori somministrando, dopo il lavaggio, una infusione di semi di cumino, o di finocchio. Tale infusione può anche essere impiegata per ricostituire la pappa per alimentazione a mano, durante i primi giorni dopo la risoluzione della stasi.

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3. 4. 5.

6.

7. 8.

Casi Neonatali Selezionati

9. 10.

Alcuni casi tipici ed esemplificativi verranno esposti durante la relazione. 11.

Bibliografia 1. 2.

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Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta, Direttore Veterinario Loro Parque - 38400 Puerto de la Cruz de Tenerife Spagna Tel. +34-922-373841 - Email: veterinaria@loroparque.com


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Approccio alla selezione dei riproduttori nell’allevamento aviare Lorenzo Crosta Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna

Marcellus Bürkle, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna Linda Timossi, Med Vet, Loro Parque, Tenerife, Spagna

INTRODUZIONE La letteratura veterinaria aviare, come anche quella più incentrata sull’avicoltura, contengono pochi riferimenti alla selezione dei soggetti da riproduzione. I riferimenti alla gestione degli allevamenti di uccelli ornamentali o da compagnia, generalmente descrivono le strategie per mantenere le malattie fuori dall’allevamento, oppure si concentrano sulla gestione generale degli aviari, dell’alimentazione ed eventualmente toccano note di architettura e costruzioni. Molto spesso l’attenzione è diretta sul fatto che i posatoi siano corretti, che i beverini, le mangiatoie e i nidi siano adeguati. Molto raramente si propone un metodo per determinare se un uccello sia potenzialmente un buon riproduttore, oppure se ha un problema che può essere superato, affinché il soggetto diventi un riproduttore, o infine se l’animale debba essere escluso dallo stock dei riproduttori ed utilizzato in altri modi. La selezione di soggetti da riproduzione è spesso basata sulle semplici preferenze ed idee del proprietario dell’allevamento, o del curatore, se si tratta di una struttura professionale. Inoltre, spesso si basa sui tipici “miti” dell’avicoltura, o sul semplice aspetto fisico dei soggetti. Raramente esiste un approccio scientifico al problema della selezione, soprattutto se si affrontano casi di infertilità. In quest’ultimo caso la dieta degli uccelli è semplicemente integrata con delle vitamine, la nutrizione è “migliorata”, a volte si tentano terapie antibiotiche o ormonali. Nella maggioranza dei casi le coppie che non riproducono sono separate, per vedere se almeno uno dei due soggetti si accoppi con successo con un elemento diverso. Nel caso positivo, l’uccello che eventualmente non si riaccoppia viene venduto, senza che si giunga a una diagnosi.

GENERALITÀ La valutazione degli uccelli che si intende utilizzare come riproduttori deve iniziare con una anamnesi della coppia che includa: 1. una revisione totale dell’allevamento. Questo aiuterà a capire se l’organizzazione generale segue una sua logica, oppure se le prestazioni modeste sono generalizzate e possono dipendere da una gestione sbagliata dell’allevamento;

2. un’anamnesi completa della coppia, intesa come “unità riproduttiva”; 3. un esame clinico completo dei soggetti, intesi come “pazienti individuali”. A - Revisione totale dell’allevamento: ci sono certamente molti punti dell’allevamento da prendere in considerazione, ma i più importanti sono: • La collezione è composta da uccelli appartenenti a generi e specie differenti, o si focalizza su un singolo gruppo sistematico? • La distribuzione degli uccelli segue un ordine zoogeografico e tassonomico preciso? Oppure si basa su criteri distinti (data di introduzione in allevamento, disponibilità di voliere in un dato momento, ecc.)? • Voliere esterne: è ogni specie nel posto più adeguato (in termini di temperatura, umidità, sole/ombra, specie vicine)? • Voliere interne: è ogni uccello nell’ambiente artificiale più consono (tipo di gabbia/voliera, posatoi, abbeveratoi, nidi, ecc.)? • I vari gruppi sistematici sono nutriti correttamente (tipo e scelta di cibo, freschezza, metodo di esposizione, stoccaggio delle scorte)? • Esiste un cambio stagionale nella routine giornaliera (tipo e quantità di alimento, orari, docce, riscaldamento, arricchimento ambientale)? B - Anamnesi completa della coppia, come “unità riproduttiva”: al Loro Parque abbiamo sviluppato una scheda clinica specifica che aiuta il veterinario effettuare un’analisi completa e logica delle coppie di riproduttori non producono bene. 1. La prima parte di questa scheda analizza la storia degli uccelli come animali singoli e traccia alcune note circa la loro storia come coppia. Di ogni soggetto vogliamo sapere l’origine, l’età e l’anamnesi remota. Già questo può aiutare molto a capire l’origine di alcuni problemi. Per esempio: • i soggetti possono essere troppo differenti d’età; • possono essere troppo giovani o troppo vecchi per riprodursi con regolarità; • possono essere “mentalmente disturbati”, ovvero non conoscere bene gli schemi comportamentali della propria specie (come accade a volto negli animali imprintati); • possono arrivare da centri d’allevamento o altre istituzioni già conosciuti per avere dei problemi specifici.


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2. La seconda parte della scheda serve per valutare le prestazioni riproduttive. Si concentra pertanto sul numero, sulla fertilità e schiudibilità delle uova, ed infine sulla vitalità dei pulcini. Teoricamente sarebbe bene indagare le prestazioni quanto più addietro possibile, però, anche per motivi pratici, si considera sufficiente avere i dati degli ultimi tre anni. Questa parte è molto utile per discriminare fra: • infertilità permanente (deposizione costante di uova sterili); • fertilità bassa (numero normale di uova per anno, ma con una bassa fertilità); • problemi ciclici (sterilità legata alla stagione o ad altri fattori identificabili). Naturalmente dobbiamo anche prendere in considerazione le uova infettate. Mentre può essere impossibile determinare se un uovo infettato era fertile o no, per lo meno ciò ci indica che c’è un problema infettivo con uno dei riproduttori (spesso la femmina), che può essere trasmesso attraverso l’uovo. In questi casi è anche necessario controllare le possibili contaminazioni ambientali. Inoltre è necessario considerare la schiudibilità delle uova, cioè la percentuale delle uova schiuse rispetto a quelle fertili, e differenziare fra le uova incubate naturalmente o artificialmente. Ciò aiuta a determinare se il problema è totalmente, o principalmente legato alla tecnica d’incubazione, e se si manifesta prima, durante o dopo la schiusa. Anche la vitalità dei pulcini è importante. Individuare le causa delle morti e localizzare cronologicamente i decessi (alla schiusa, nei primi giorni, ecc.) aiuta a capire se il problema dipende da una cattiva gestione (p. es. muoiono tutti nella Nursery), oppure se può avere cause infettive (p. es. muoiono tutti per una colibacillosi). C - Esame Clinico ed Endoscopico dei soggetti, intesi come “pazienti individuali”: la quantità d’informazioni raccolte fino a questo punto può, a volte, già indicare al professionista esperto, una possibile soluzione del problema. Altrettanto spesso però, e soprattutto quando i dati anamnestici sono incompleti, un approfondimento clinico, endoscopico e di laboratorio, sono necessari per verificare il reale stato degli uccelli da riproduzione, ed infine poterne decidere un rating. La terza parte della scheda è pensata per registrare ed analizzare tutti i dati raccolti durante l’esame clinico. Gli autori preferiscono esaminare i soggetti in anestesia generale e ciò principalmente per due ragioni: 1. i soggetti da riproduzione possono essere abituati alla presenza degli esseri umani, ma generalmente non sono abituati ad essere manipolati. Un contenimento forzato è estremamente stressante per gli uccelli, molto probabilmente determina una alterazione dei valori ematici e potrebbe anche essere pericoloso per alcuni pazienti. D’altra parte, il fatto che il paziente sia anestetizzato è molto utile per scoprire difetti minimi, come un’alterata mobilità di alcune articolazioni, altrimenti di difficile diagnosi; 2. la visita clinica è immediatamente seguita dall’esame endoscopico, che comunque prevede un’anestesia generale.

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Dopo aver effettuato tutte queste indagini, il veterinario può determinare un rating di massima del soggetto come possibile riproduttore. Nell’esperienza degli autori, il rating preliminare non sarà necessariamente confermato dagli esami supplementari. Sempre nella nostra esperienza, è comunque importante fare questa valutazione al momento dell’esame fisico ed endoscopico, in modo da “fissare” l’impressione che ci si è fatta il paziente. L’ultima (quarta) parte della scheda riassume i risultati dei test di laboratorio. Alla luce di tali risultati, verrà anche proposto un rating definitivo, ed alcuni suggerimenti circa la destinazione dei pazienti (diagnosi, terapia, esclusione dalla riproduzione, ecc.)

CASI DIFFICILI Una situazione problematica s’incontra quando i dati raccolti non possono scoprire la ragione per cui gli animali non si stanno riproducendo. Naturalmente, se gli esami non raggiungono lo scopo, allora saranno necessarie analisi diverse. Una opzione è la valutazione del seme. Lo sperma può essere emesso volontariamente da un maschio addestrato allo scopo, oppure lo si può ottenere con un massaggio. Infine, il seme può venire ottenuto con un elettroeiaculatore, ma ciò ha finora avuto successo solo in alcune specie. Dal momento che l’inseminazione artificiale è una tecnica ben descritta ed è usata routinariamente in alcuni ordini (Falconiformes, Gruiformes, Galliformes), esistono anche molte pubblicazioni che contengono una descrizione della valutazione dello sperma aviare. Se consideriamo gli psittaciformi, un problema può derivare del fatto che, mentre in alcune specie (Ondulati, Inseparabili) la raccolta del seme è facile, in altre (Conuri), è imprevedibile e dipende molto dal singolo soggetto. Infine ci sono specie (Ara, Amazzoni), nelle quali la raccolta del seme è sempre difficoltosa. Quale che sia la tecnica e supponendo che il seme si sia potuto raccogliere, quest’ultimo deve essere analizzato. Al momento l’unica informazione che possiamo ottenere dall’analisi dello sperma è una determinazione della sua qualità ed eventualmente una diagnosi di ridotta fertilità (nel senso di ridotto numero di spermatozoi vitali). Pertanto, se il seme è di ottima qualità possiamo indirizzare le nostre indagini verso la femmina, ma se lo sperma è di cattiva qualità, oppure non si è potuto ottenere seme, non abbiamo comunque raggiunto una diagnosi eziologica per le ridotte prestazioni riproduttive della coppia. Una delle nuove e più importanti tecniche che abbiamo sviluppato al Loro Parque, è la diagnosi di malattie testicolari attraverso una biopsia delle gonadi, effettuata in endoscopia. La biopsia testicolare fu messa a punto come tecnica chirurgica, al Loro Parque nel 2000 e ben presto si rivelò uno strumento di insostituibile valore per la valutazione dei maschi con problemi di fertilità.


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CONCLUSIONI La selezione degli uccelli da riproduzione è una questione molto delicata e scoprire le cause d’infertilità può essere molto difficile. Un approccio razionale al management generale ed alla storia clinica dei pazienti può spesso portare alla luce le cause per una produttività bassa. Se ciò è sufficiente, un esame clinico ed endoscopico completo, potrà aiutare nel raggiungimento di una diagnosi ed alla qualificazione (rating) dei soggetti come possibili riproduttori. Se infine anche queste metodiche fossero infruttuose, diverse nuove tecniche sono oggi a disposizione del veterinario aviare per la selezione dei riproduttori. Una nuova tecnica è senz’altro l’analisi dello sperma, ma se questo test mostra una fertilità ridotta o nulla, non dà alcuna indicazione circa la causa del problema. Gli autori hanno recentemente messo a punto una tecnica mini-invasiva, per l’esecuzione di biopsie testicolari in endoscopia, ed hanno trovato tale metodica molto utile nei casi in cui gli altri sistemi diagnostici non hanno dato un risultato definitivo. La diagnosi corretta di malattia testicolare, con un riscontro istopatologico esatto può quindi migliorare la selezione ed il rating dei riproduttori e, a volte, suggerire una terapia adeguata. In ogni caso un suggerimento circa il comportamento del cliente allevatore, per quanto riguarda tali soggetti è sempre possibile con tali nuove tecniche.

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Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta Direttore Veterinario Loro Parque - 38400 Puerto de la Cruz de Tenerife Spagna Tel. +34-922-373841 - Email: veterinaria@loroparque.com


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Casi clinici didattici La profilassi medica nel glaucoma primario canino La terapia del simblefaro nel gatto Alberto Crotti Med Vet, Genova

LA PROFILASSI MEDICA NEL GLAUCOMA PRIMARIO CANINO Il glaucoma canino (GC) è caratterizzato da aumento della pressione intraoculare causante danno al nervo ottico e alle cellule ganglionari retiniche ad opera di un gruppo di sindromi cliniche associate. Per tale motivo attualmente si preferisce il termine glaucomi a glaucoma. Il GC rappresenta una delle cause più frequenti di cecità, spesso irreversibile, in questa specie. La classificazione del GC distingue glaucomi primari (PG) da glaucomi secondari (SG). I PG si hanno in assenza di malattie oculari preesistenti. I SG si manifestano in presenza di patologie oculari che predispongono alla insorgenza della malattia. I PG vengono a loro volta classificati, in relazione allo stato dell’angolo irido corneale, in glaucomi primari ad angolo aperto (POAG) e glaucomi primari ad angolo ristretto/chiuso (PCAG). Nei PG vengono anche compresi i glaucomi congeniti, poco frequenti nella specie canina, da un punto di vista sintomatologico già presenti al momento della nascita o che si manifestano nel periodo immediatamente successivo, associati a gravi malformazioni dello sviluppo oculare. Sebbene il POAG sia la forma maggiormente studiata in relazione alla importanza di tale patologia nella specie umana, il PCGA ha una frequenza di insorgenza di circa otto volte superiore. Il PG è considerato una malattia potenzialmente bilaterale, infatti anche se spesso il cane affetto da PG si presenta con interessamento monolaterale la sintomatologia può divenire bilaterale nel corso dei mesi o anni successivi nel caso molto probabile che l’occhio inizialmente non colpito presenti anomalie e malformazioni dell’angolo irido corneale. Il periodo di intervallo tra i due attacchi di glaucoma, se non viene effettuata alcuna terapia preventiva, è compreso tra i 5 e i 12 mesi nel caso di PCAG e varia a seconda delle razze esaminate; la utilizzazione di una terapia preventiva ritarda considerevolmente l’insorgenza della crisi nell’occhio inizialmente non colpito anche di alcuni anni. La terapia preventiva deve essere effettuata solo nel caso vi sia stata la manifestazione del PG e in caso di tale evenienza si preferisce curare anche soggetti che presentano l’occhio sano senza alcuna apparente anomalia. Per questi motivi è imperativo, nel momento in cui viene portato alla visita il soggetto con PG monolaterale, eseguire un attenta valutazione dell’angolo irido corneale dell’occhio non affetto. Le razze potenzialmente a rischio di PG sono molte e altre sono attualmente sotto osservazione per valutare la loro eventuale predisposizione. L’età di insorgenza della malattia varia a seconda del tipo di glaucoma e della razza. Le terapie pre-

ventive sono rappresentate esclusivamente da terapia medica topica dal momento che la terapia medica sistemica rimane abbastanza complessa, impegnativa e anche non priva potenzialmente di effetti collaterali indesiderati. La terapia chirurgica presenta molte controindicazioni e potrebbe potenzialmente indurre la crisi di PG. I farmaci utilizzati per la prevenzione del PG possono agire attraverso una diminuzione della produzione dell’umor acqueo oppure aumentandone il deflusso. Spesso vengono utilizzati prodotti con entrambe le caratteristiche e alcuni di questi principi attivi sono presenti anche in associazione tra loro. Tra i farmaci più comunemente utilizzati ricordiamo i beta bloccanti, gli inibitori della anidrasi carbonica, i parasimpaticomimetici, le prostaglandine. Nella terapia preventiva del PG canino possono essere utilizzati in alcuni casi i corticosteroidi topici con lo scopo di controllare la eventuale insorgenza di uveite anteriore che secondo alcune ipotesi potrebbe rappresentare uno dei fattori scatenanti la crisi glaucomatosa. La profilassi del PG canino è in grado di prevenire anche se non sempre in modo definitivo l’insorgenza della patologia nell’occhio sano. Si tratta senza dubbio di una terapia spesso impegnativa ed onerosa per il proprietario che deve essere protratta per tutta la vita del soggetto o fino al manifestarsi del glaucoma. Poco è attualmente conosciuto sul meccanismo patogenetico dello scatenarsi del PG e differenze esistono tra il PCAG e POAG;un ruolo importante potrebbe essere rivestito da infiammazioni concomitanti e dall’invecchiamento del soggetto e molto probabilmente variazioni esistono anche tra le differenti razze.

LA TERAPIA DEL SIMBLEFARO NEL GATTO Con il termine simblefaro si intende la presenza di aderenze permanenti di porzioni della congiuntiva bulbare, palpebrale o della nictitante tra loro o a tratti della superficie corneale. La patologia nel gatto risulta essere più frequentemente monolaterale anche se non è raro l’interessamento di entrambi gli occhi con fenomeni di differente gravità. La estensione del simblefaro può essere più o meno ampia fino ad arrivare al completo interessamento della superficie corneale determinando impedimento visivo. Le aderenze possono determinare anche procidenza della terza palpebra in modo permanente a coprire parte della superficie oculare. Al simblefaro può conseguire l’insorgenza di cheratocongiuntivite secca determinata dalla occlusione dei dotti escretori della ghiandola lacrimale principale ed accessoria annessa


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alla terza palpebra da parte di tessuto congiuntivale cicatriziale. In conseguenza del simblefaro la motilità palpebrale e il drenaggio lacrimale possono risultare alterati e da ciò consegue spesso epifora cronica. Il simblefaro può essere di origine congenita secondario a oftalmia neonatale ed in alcuni casi può essere associato ad altre patologie quali il microftalmo. Frequentemente risulta essere un fenomeno acquisito riferibile a gravi forme infiammatorie molto spesso secondarie ad infezioni da herpesvirus (Fhv1). Esso può essere anche la conseguenza di lesioni traumatiche o da alcali. La patogenesi prevede la perdita dell’epitelio congiuntivale, con conseguente formazione di fenomeni aderenziali nella fase di cicatrizzazione, ad opera di qualunque agente eziologico in grado di danneggiare in modo significativo la congiuntiva. Nella specie umana è stato dimostrato come al meccanismo patogenetico e soprattutto alla tendenza alle recidive della patologia contribuirebbe in modo determinante la distruzione delle cellule staminali a livello limbare che si viene a determinare al momento dell’infiammazione acuta e la conseguente impossibilità da parte dell’epitelio corneale di rigenerare, il tutto associato alla riepitelizzazione della cornea da parte dell’epitelio congiuntivale. Il trattamento del simblefaro è riservato a forme gravemente invalidanti la motilità palpebrale o determinanti cecità e la terapia deve essere effettuata nei casi in cui il fenomeno infiammatorio non sia più attivo. Da un punto di vista terapeutico la escissione chirurgica della aderenze ed il ricorso alla cheratectomia lamellare superficiale nel caso vi sia interessamento corneale risulta la tecnica di elezione. Alla mobilizzazione della congiuntiva adesa può essere associato il fissaggio della congiuntiva stessa al fine di ricreare il fornice congiuntivale danneggiato a causa delle aderenze. Le tecniche chirurgiche utilizzate a tale scopo sono la tecnica di Arlt e di TealeKnappe. Alla terapia chirurgica devono però essere sempre associate terapie mediche, radianti o la applicazione di lenti a contatto morbide al fine di evitare la recidiva delle lesioni trattate. Le terapie mediche utilizzate in veterinaria sono attualmente mutuate dai protocolli terapeutici umani per la terapia dello pterigio. Esse prevedono l’utilizzazione di sostanze antimetaboliti quali la mitomicina C, il 5-fluorouracile e il thiotepa. La mitomicina è una sostanza avente debole

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azione immunosoppressiva ma elevata azione inibente la proliferazione dei fibroblasti. Essa può essere utilizzata al momento della chirurgia per applicazione topica in concentrazione variabili e per un tempo limitato, può essere somministrata sotto forma di collirio oppure inoculata a livello subcongiuntivale al momento della chirurgia o un mese prima della chirurgia ai fini di rallentare la evoluzione della lesione dello pterigio. Nella specie umana le complicanze possibili dell’uso della mitomicina C sono congiuntivite, rialzo pressorio transitorio, glaucoma, simblefaro, ulcera corneale e corneo sclerale, edema corneale, perforazione corneale, cheratite superficiale puntata, iridociclite, cataratta matura a rapida insorgenza, calcificazione sclerale, emorragie subcongiuntivali, granuloma piogenico, assottigliamento sclerale, comparsa di aree ischemiche sclerali, fotofobia e dolore. Le complicanze sarebbero in relazione all’età del paziente, concentrazione della mitomicina e durata della terapia. Il 5 fluorouracile (5-Fu) è anche esso estremamente attivo nei confronti della proliferazione fibroblastica e viene utilizzato sia per applicazione topica intraoperatoria allo 0.25% sia per inoculazione subcongiuntivale in 2-4 siti differenti all’interno dello spessore della lesione. Per quanto riguarda la terapia radiante in umana è stata utilizzata la terapia con raggi beta che oltre a determinare trombosi dei vasi neoformati avrebbe anche un effetto inibente la moltiplicazione fibroblastica. La tecnica non è priva di rischi visto l’alto grado di possibilità di comparsa di complicanze quali necrosi sclerali, ulcere corneali, cheratite e glaucoma. L’utilizzo delle lenti a contatto morbide associate o meno a tarsoraffia temporanea ha lo scopo di impedire il contatto tra la cornea e la congiuntiva subito dopo l’intervento chirurgico al fine di evitare recidive e nuove aderenze. Il simblefaro nella specie felina rappresenta un fenomeno clinico di frequente riscontro nella pratica quotidiana, nonostante ciò poco è descritto in letteratura sulle possibilità terapeutiche mediche e chirurgiche da utilizzare al fine di una sua risoluzione.

Indirizzo per la corrispondenza: e-mail: alcrot@tin.it


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Diagnosi e terapia delle principali tachiaritmie sopraventricolari Gino D’Agnolo Med Vet, Trieste

Roberto Santilli Med Vet, Dipl ACVIM-CA (Card) Malpensa (VA)

INTRODUZIONE

DIAGNOSI

Le tachiaritmie sopraventricolari possono essere classificate in: 1) sinusali; 2) atriali, 3) nodali; 4) atrioventricolari. Nel primo gruppo sono incluse la tachicardia sinusale automatica (TS), da rientro (TRS) ed inappropriata, nel secondo la tachicardia automatica atriale (TA), da rientro intra-atriale, il ritmo caotico atriale (RAC), il flutter atriale (FLA tipico, tipico inverso e atipico) e la fibrillazione atriale (FA)3,6. Le tachicardie nodali sono caratterizzate da un rientro intranodale (tachicardia nodale reciprocante - TRG comune e non comune) o da un esaltato automatismo sinusale (tachicardia automatica giunzionale - TGA) 3,6. Le tachicardie atrioventricolari sono tutte da macrorientro ed usano il nodo atrioventricolare e una o più vie accessorie atrioventricolari. Secondo la direzione sono classificate in ortodromiche (TAVOR) ed antidromiche (TAVAR) 1,3,6,12-13,16. Le prime percorrono il nodo atrioventricolare in senso anterogrado e la via accessoria in senso retrogrado, le seconde la via accessoria in anterogrado ed il nodo AV in retrogrado. Esiste una forma incessante di tachicardia atrioventricolare ortodromica detta di tachicardia giunzionale permanente o di Coumel (TGP) dove la via accessoria atrioventricolare presenta conduzione retrograda decrementale1,3,6,12-13,16. Le aritmie sopraventricolari più comuni del cane sono la FA secondaria a cardiopatie congenite o acquisite con dilatazione atrioventricolare o primaria detta anche FA isolata, perché presente in cuori sani. La FA presenta un’incidenza del 0,04 – 0,18% ed il 12-16% di tutte le aritmie. Colpisce in modo prevalente i maschi (71-82%) con peso medio di 40,5 kg di razza Levriero Irlandese (10,5 – 16,5%) ed il Terranova (56,6 x 1000)2-5,7,11,15. Tutti i disturbi del ritmo ipercinetici sostenuti sia di natura ventricolare sia sopraventricolare inducono tachicardiopatia una forma ipocinetico-dilatativo con disfunzione sistolica completamente o parzialmente reversibile in 3 – 7 mesi dopo la risoluzione dell’aritmia14,17. Non sempre risulta facile per un cardiologo distinguere queste forme di tachicardiopatia da disturbi primari del miocardio, in particolar modo cardiomiopatia dilatativa o insufficienze mitraliche in stadio avanzato, con aritmie sopraventricolari secondarie. Tale distinzione merita invece di essere sottolineata vista la reversibilità dei danni miocardici nelle forme di tachicardiopatia con il solo controllo farmacologico o elettrico del ritmo.

L’iter diagnostico da seguire nel caso della scoperta di una tachicardia sopraventricolare include l’elettrocardiogramma di superficie, il monitoraggio prolungato secondo il metodo dinamico di Holter o con registratori d’evento, l’esame ecocardiografico e lo studio elettrofisiologico con mappaggio dei potenziali intracavitari 18.

Elettrocardiogramma di superficie Per studiare le tachicardie sopraventricolari occorre ottenere un elettrocardiogramma a 12 derivate con il posizionamento degli elettrodi esploranti descritto10. Tutte le tachicardie sopraventricolari sono a QRS stretti (durata QRS < 70 ms) fatta eccezione delle tachicardie pre-eccitate (TAVAR da fibre di Kent o Mahaim e la FA pre-eccitata) e delle sopraventricolari condotte con aberranza sostenuta. Le tachicardia a QRS larghi devono essere attentamente differenziate dalle tachicardie ventricolari monomorfe sostenute attraverso lo studio delle 12 derivate8. Il metodo più semplice per confermare la presenza di una tachicardia ventricolare è la ricerca di una concordanza precordiale positiva o negativa. In caso tale concordanza non sia presente esistono due algoritmi elaborati da Brugada e collaboratori che differenziano le tachicardie sopraventricolari aberranti dalle tachicardie ventricolari (algoritmo 1) e le tachicardie antidromiche dalle tachicardie ventricolari (algoritmo2) 8. Le tachicardie sopraventricolari a QRS stretti possono essere in alcuni casi differenziate con l’ECG di superficie attraverso lo studio della frequenza e regolarità dell’elettrocardiogramma e dell’attività atriale (identificazione onda P; rapporto onde P e QRS e morfologia e asse onde P). Altri punti da analizzare sono la morfologia del QRS (durata, aberranza, presenza d’alternanza elettrica), la conduzione atrioventricolare, le modalità d’inizio e d’interruzione della tachicardia, gli effetti d’interventi diagnostici quali le manovre vagali e le prove farmacologiche8. Tutte le tachicardie sopraventricolari presentano attività ventricolare regolare con eccezione della FA, del FLA e delle TA con blocchi della conduzione atrioventricolare variabile, del RAC e della TRG comune con blocco atrioventricolare di secondo grado di Wenckebach8. Nella FA le onde P sono so-


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stituite da oscillazioni di forma e polarità variabile dell’isoelettrica (onde f) con frequenze di scarica comprese tra i 450 ed i 650 bpm. Il FLA presenta caratteristiche onde F a dente di sega con polarità prevalentemente positiva o negativa nelle derivate inferiori secondo il senso di rotazione in atrio destro. Per le altre tachicardie a QRS stretti e regolari occorre valutare la presenze di onde P attraverso quattro segni guida: 1) incisura o scalino inizio onda T o durante tratto ST; 2) incisura sulla branca prossimale dell’onda T; 3) incisura sull’apice positivo o nadir negativo onda T (onda T bifida o segno del cammello); 4) incisura sulla branca distale dell’onda T. 8 Una volta stabilità la presenza e la posizione delle onde P le tachicardie sono suddivise in base alla durata dell’intervallo R-P’ in tachicardia con RP corto (tratto RP < 50% dell’intervallo RR che lo include) e tachicardie con RP lungo (tratto RP > 50% dell’intervallo RR che lo include). Le più comuni tachicardie a RP’ corto sono la TRG comune, la TAVOR con retroconduzione rapida e rare forme di TA o TS con conduzione atrioventricolare rallentata. Tra le tachicardie con RP’ lungo sono incluse la TRG non comune, la TAVOR con conduzione retrograda lenta, la TGP, molte TA e TS. Se il tratto RP’ risulta uguale al tratto PR spesso si è in presenza di TRG comune o FLA con blocco atrioventricolare 2:1, oppure TA o TS. In alcune situazioni non è possibile evidenziare l’onda P in questi casi la diagnosi differenziale si pone tra TRG comune, TGA, TA o TS. L’asse dell’onda P permette di studiare la depolarizzazione atriale anterograda o retrograda e la relativa concentricità8. La presenza di alternanza elettrica del complesso QRS depone per le TAVOR con una specificità del 96%. Tale alternanza elettrica è raramente presente in corso di TA (12%) e TRG (2%). L’aberranza funzionale o frequenza dipendente è presente in alcuni casi all’inizio delle forme atrioventricolari ortodromiche e sempre nelle antidromiche8. La continuazione di una tachicardia con blocco atrioventricolare esclude tutte le forme atrioventricolari, mentre nelle forme di TA automatiche, nei FLA e raramente nelle TRG comuni può essere presente un blocco atrioventricolare 2:1. Il blocco atrioventricolare può essere invece variabile nella TA, nel RAC, nel FLA e nella FA e nella TRS. Completa dissociazione atrioventricolare è spesso evidente nelle TGA. Le tachicardie da macro o microrientro iniziano con battito ectopico nella maggior parte dei casi atriale, se il battito ectopico evidenzia un intervallo PR prolungato bisogna pensare ad una TRG comune o ad una TAVOR con conduzione anterograda attraverso una via lenta. La TRG non comune e le TAVOR iniziano spesso con un’ectopia ventricolare. Inizio e fine parossistici sono caratteristici delle TRS e delle TA a lembi autolimitanti, mentre le forme atriali automatiche presentano un inizio con frequenza crescente (fenomeno del riscaldamento). Anche le modalità d’interruzione aiutano nel differenziare le tachicardie: un blocco atrioventricolare anterogrado testimonia che il nodo atrioventricolare fa parte del circuito ed è frequente nelle TRG comuni e nelle TAVOR, un blocco ventricolo atriale retrogrado è invece frequente nelle TRG non comuni e nelle TAVOR. L’interruzione con un’ectopia ventricolare prematura è un’evenienza comune delle TAVOR. L’induzione di blocchi atrioventricolari con manovre vagali svela l’attività atriale senza interrompere tachicardia nelle TA, nelle TRS, nel FLA e nella TS; blocca invece la tachicardia nelle

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TRG e nelle TAVOR. L’adenosina evidenzia la doppia via nodale attraverso un salto nella durata del tratto PR maggiore di 50 ms. Le forme incessanti che causano tachicardiopatia e nelle quali è particolarmente importante effettuare una diagnosi differenziale con disordini miocardici primari sono: la TGP, la TAVOR, la TRG non comune, la TRS ed alcune forme di TA automatiche o da innesco8.

ECOCARDIOGRAFIA Tachicardie sopraventricolari e ventricolari croniche sostenute inducono, a seconda della frequenza e della durata, in due –trenta giorni una tachicardiopatia caratterizzata da un quadro ipocinetico-dilatativo facilmente confondibile con la forma primaria di cardiomiopatia dilatativa. Il controllo del ritmo porta nella maggior parte dei casi ad una reversibilità dei danni con normalizzazione degli indici sistolici: frazione di accorciamento in 1-2 settimane e diametri ventricolari in 12 settimane12-14.

TERAPIA La terapia acuta delle TA richiede una terapia farmacologica duale una mirata a rallentare la conduzione AV, l’altra ad interrompere l’esaltato automatismo. Le tachicardia giunzionali ed atrioventricolari necessitano una terapia farmacologica singola atta ad interrompere il circuito. Oltre le manovre vagali spesso inefficaci, è possibile utilizzare farmaci che interrompano la tachicardia senza alterare le condizioni emodinamiche già precarie: Diltiazem 0,125-0,35 mg/kg EV, Adenosina 0,5 mg/kg, Esmololo 0,5 mg/kg EV in un minuto, procainamide 6-8 mg/kg EV in 3 minuti3,9. In casi resistenti è possibile effettuare la cardioversione con shock elettrico esterno con 70-200 J. La terapia cronica deve mirare ad interrompere il circuito o a diminuire la penetranza ventricolare. Tra i più comuni farmaci che bloccano il nodo AV la digitale (0,0055 – 0,01 mg/kg OS bid) e il diltiazem (0,5-1,5 mg/kg OS tid) sono i più usati. La procainamide orale (10-40 mg/kg OS qid – tid) è usata come agente singolo nel controllo delle tachicardie nodali e atrioventricolari, insieme ai farmaci nodo-bloccanti in corso di tachicardie atriali. Altri farmaci utilizzabili nelle TSV sono l’amiodarone ed il sotalolo3. Tutte le TPS rientranti possono essere trattate non farmacologicamente con successo ed in modo definitivo attraverso l’ablazione con radiofrequenza13,17.

Bibliografia disponibile presso gli autori

Indirizzo per la corrispondenza: Gino D’Agnolo, Via Valdirivo, 22 - 34100 - Trieste Roberto Santilli, Clinica Veterinaria Malpensa Viale Marconi, 27, 21017 - Samarate - Varese Tel. 0331-228155 - Fax. 0331-220255 e-mail: rasantil@tin.it


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Casi clinici didattici Trapianto corneale congelato in un gatto Nunzio D’Anna Med Vet, Roma

Segnalamento: Gatto, razza Persiano, femmina, 2 anni, “Minnie”

Anamnesi: Minnie venne portato a visita oculistica per un’infezione corneale a carico dell’occhio sinistro che si protraeva ormai da circa 15 giorni senza alcun segno di miglioramento nonostante la terapia assegnata da un collega a base di un collirio contenente una miscela di antibiotico e cortisone. Prima di questo problema non aveva mai sofferto di problemi oculari.

Reperti clinici iniziali: Intenso blefarospasmo a carico dell’occhio sinistro tale da richiedere la somministrazione di anestetico locale per poter effettuare la visita. Al centro della cornea era presente un’ulcera superficiale di circa 2 mm di diametro. Ad essa si associava un lieve edema corneale diffuso e un intensa uveite riflessa indicata da una miosi estrema associata a resistenza alla dilatazione. La pressione intraoculare (IOP) era di 8 mm Hg a carico dell’occhio sinistro e 15 mm Hg a carico del destro. Il resto della cornea era trasparente e non si osservavano altre anomalie a carico del segmento anteriore e posteriore in entrambi gli occhi (OU) all’osservazione biomicroscopica ed oftalmoscopica. Il riflesso pupillare diretto era assente a sinistra come anche l’indiretto di destra (causa la miosi intensa di OS) mentre era presente il diretto a destra.

Diagnosi differenziali: 1) Infezione herpetica complicata da infezione batterica. 2) Infezione batterica e/o micotica secondaria a trauma corneale. Indagini diagnostiche: Si procedette a effettuare una citologia e un tampone corneale sterile per la coltivazione del campione prelevato alla ricerca di batteri o funghi presenti.

mera anteriore. Consigliata a questo punto la terapia chirurgica i proprietari optarono per tentare ancora con una terapia medica eventualmente più intensa. Si procedette così ad una somministrazione oraria degli antibiotici topici, l’atropina fu intensificata ad 8 ore di intervallo e fu aggiunto del siero omologo somministrato ogni 2 ore. Minnie fu ricontrollata dopo 24 ore e a questo punto l’ulcera diventata ormai a collagenasi aveva coinvolto 2/3 della cornea. La cornea periferica era fortemente edematosa e non era possibile osservare la camera anteriore. I proprietari acconsentirono, a questo punto, ad effettuare una terapia chirurgica. Fu effettuato quindi un trapianto corneale lamellare congelato con cornea omologa del diametro di 9 mm. La cornea del donatore, prima di essere suturata al ricevente fu scongelata, disepitelizzata e fu liberata di endotelio, membrana di Descemet e parte dello stroma profondo. La cornea del ricevente fu accuratamente curettata al fine di eliminare il più possibile tessuto corneale malacico. Al momento della chirurgia al microscopio operatorio si osservava una lacerazione della Descemet e dell’endotelio centrale di circa 2 mm. Un tappo di fibrina coagulata manteneva chiuso il foro suddetto A protezione del trapianto fu posto un flap della 3* palpebra per 3 settimane. Rimosso il flap si osservò il trapianto integrato, perifericamente vascolarizzato ed edematoso. L’edema e i vasi regredirono circa in 2 mesi residuando un lieve edema stromale centrale.

Diagnosi clinica e conferma diagnostica: Il risultato fu negativo per entrambi i tests colturali. Il materiale raccolto per la citologia fu molto scarso e non diagnostico. L’aspetto clinico e il comportamento dell’ulcera nonostante la terapia fece fortemente sospettare un’infezione batterica di non chiara origine iniziale (Herpetica, traumatica?).

Trattamento iniziale: Si instaurò una terapia topica iniziale con l’uso di 2 colliri antibiotici, uno a base di tobramicina e l’altro di ofloxacina somministrati ogni 2 ore a distanza di 10 min. tra di loro e dell’atropina 1% collirio ogni 12 ore.

Aggiornamenti: Il giorno successivo Minnie fu controllata e non si osservò alcun miglioramento, anzi: il blefarospasmo era sempre presente e la lesione era diventata di 4 mm. con margini lievemente malacici, la pupilla era solo parzialmente dilatata, l’humor acqueo era torbido e si osservava un’importante ipopion nella porzione inferiore della ca-

Conclusioni: L’uso del trapianto corneale congelato per la riparazione di gravi lesioni corneali è, tra le varie opzioni chirurgiche a nostra disposizione, quella che consente uno dei migliori risultati in termini di garanzia di successo e di trasparenza (soprattutto nel gatto) e quindi particolarmente indicata in caso di ampi difetti corneali in termini di profondità e di estensione. Il problema maggiore può essere la sua reperibilità non essendo sempre a disposizione i donatori. La sua conservazione in collirio a base di gentamicina in contenitore sterile e a una temperatura di –30° C, come descritto in letteratura,


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o a –22* C, secondo la nostra esperienza, ne consente un suo sicuro utilizzo fino a circa 12 o a 6 mesi rispettivamente dall’espianto. Il flap della 3* palpebra ha consentito di limitare, secondo la nostra personale esperienza, un eccessivo edema iniziale del trapianto, fenomeno ravvisato in trapianti precedentemente effettuati senza l’ausilio del flap.

Bibliografia Artensen J. Penetrating keratoplasty techniques. International Ophthalmology Clinics 28,1988 Brightman AH, McLaughling SA, Brogdon JD.Autogenous lamellar corneal grafting in dogs. JAVMA 1989;195:469-475 Capella JA. Techniques of corneal cryopreservation. In: Corneal Preservation, (ed. Thomas CC), pp308-314. Springfield, 1973 Gimenez MTP, Farina IM. Lamellar keratoplasty for the treatment of feline corneal sequestrum. Veterinary Ophthalmology 1998;1:162-166. Hacker D.Frozen corneal graft in dogs and cats: a report on 19 cases. JAAHA 1991;27:387

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Indirizzo per la corrispondenza: Nunzio D’Anna Via Arrigo Davila, 61 00179 Roma e-mail ndanna@libero.it


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Casi clinici didattici Uveite facoclastica in un coniglio nano Nunzio D’Anna Med Vet, Roma

Segnalamento: Coniglio nano, femmina, di circa 1 anno, “Neve”.

Anamnesi: Occhio sinistro opaco da circa 20gg. e lieve epifora associata. Nessun evento traumatico pregresso segnalato dai proprietari.

Reperti clinici iniziali: I riflessi palpebrale e pupillare, diretto ed indiretto, erano presenti bilateralmente anche se incompleto quello diretto a carico dell’occhio sinistro e indiretto a carico dell’occhio destro. All’osservazione biomicroscopica si osservava una lieve iperemia congiuntivale ed iridea nell’occhio sinistro oltre ad estese sinechie posteriori causanti discoria, una cataratta capsulare anteriore con estensione corticale ed un’area biancastra sulla capsula anteriore associata ad una rottura focale della capsula stessa. In corrispondenza di essa era presente una sinechia posteriore. L’esame del fondo era normale in entrambi gli occhi così come tutte le altre strutture dell’occhio destro. Il test di Shirmer era di 8 mm/min nell’OD e di 13 mm/min nell’OS. Il test della fluoresceina era negativo inentrambi gli occhi (OU). La pressione intraoculare (IOP) era di 18 mmHg OD e 12 mmHg OS.

Diagnosi differenziali: Uveite facoclastica secondaria a 1) Encephalitozoon cuniculi, 2) Infezione batterica, 3) Rottura spontanea della lente, 4) Trauma.

Indagini diagnostiche: Fu effettuato un profilo ematobiochimico completo che rivelò una spiccata leucopenia ed un esame delle urine considerato nella norma. Fu inoltre inviato un campione di siero per la ricerca di E. cuniculi. Il test di immunofluorescenza effettuato fu positivo con un titolo anticorpale di 1:2560. Il risultato si ottenne dopo 3 settimane dall’invio.

Trattamento iniziale: Neve fu trattata con 2 colliri a base rispettivamente di desametazone 0,2% QID e tropicamide 1% TID e terapia sistemica con enrofloxacin 5mg/kg PO BID per 10 gg. Fu consigliata una terapia chirurgica mediante facoemulsificazione in associazione alla terapia medica.

Aggiornamenti: Dopo circa 3 settimane, alla luce dell’alto titolo anticorpale ottenuto, fu prescritto del febendazolo alla dose di 20 mg/kg PO SID per 15 gg. I proprietari acconsentirono all’intervento solamente dopo circa un mese e mezzo dalla visita iniziale, quando si resero conto che la so-

la terapia medica non riusciva a ridurre in maniera significativa l’infiammazione intraoculare. Neve fu premedicata con medetomidina 0,5 mg/kg IM e Ketamina 25 mg/kg IM. Fu quindi successivamente intubata e mantenuta in anestesia generale in decubito dorsale con una miscela di isofluorano e ossigeno. In fase preoperatoria fu somministrato del desametazone 0,2% collirio e tropicamide 0,5% con fenilefrina collirio ogni 30 min. per un totale di 3 volte per ciascun collirio oltre ad un’unica somministrazione di atropina 1% collirio. Inoltre fu somministrato del carprofen 2,2 mg/kg SC e dell’enrofloxacin 10 mg/kg SC. La facoemulsificazione durò 3 min. e 32 sec. con una potenza di ultrasuoni del 70%, un vuoto di 100 mmHg e una velocità di infusione di 20 cc/min. Per il mantenimento della camera anteriore oltre che per la protezione dell’endotelio fu utilizzata dell’Idrossipropil Metilcellulosa 2%. Il manipolo dell’infusione/aspirazione fu utizzato per la rimozione delle masse corticali residue oltre che per l’area biancastra rilevata presente sulla capsula anteriore. La cornea fu suturata con vicryl 9-0 con una sutura continua e alcuni punti nodosi staccati. Il materiale lenticolare aspirato unito alla soluzione di irrigazione utilizzata durante l’intervento fu raccolta in una sacca sterile e inviata al laboratorio per la ricerca citologica di microsporidi di E. cuniculi. Neve fu dimessa in giornata con terapia locale a base di desametazone 0,2% collirio e ofloxacina 0,3% collirio ogni ora fino alle 24.00 e un’unica somministrazione di tropicamide 1% collirio alle 22.00. Il giorno successivo l’occhio operato presentava una modica infiammazione intraoculare e diverse sinechie posteriori (già presenti prima dell’intervento). La IOP era di 15 mmHg OD e 13 mmHg OS. La terapia generale con enrofloxacin a 5 mg/kg PO BID fu continuata per 10gg. mentre la terapia topica fu diminuita ad una somministrazione ogni 2 ore di desametazone e ofloxacina e ogni 8 ore di tropicamide per le successive 24 ore e gradualmente ridotta fino ad una loro somministrazione ogni 12 ore a 3 settimane dall’intervento. Ad un mese dall’intervento l’occhio sinistro non presentava più segni clinici visibili di infiammazione ancora attiva ma esiti avidenti della pregressa uveite (discoria causata da estese sinechie posteriori).

Diagnosi clinica e conferma diagnostica: La ricerca citologica dei microsporidi diede esito negativo nonostante l’elevato titolo anticorpale ed evidenti segni clinici oculari imputabili al protozoo in questione.


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Conclusioni: E. cuniculi è un protozoo, parassita intracellulare obbligato in grado di sporulare producendo microsporidi ed in grado di infettare conigli ed altri mammiferi. Le lesioni più comuni nei conigli sono encefaliti granulomatose e nefriti; di solito comunque l’infezione è subclinica, cronica e persistente. Negli ultimi anni si sono osservate sempre più lesioni intraoculari associabili a tale infezione ma molto raramente si è riusciti ad isolare i microsporidi di E. cuniculi se non dopo enucleazione. In un solo caso in letteratura è stato descritto l’isolamento di microsporidi di E. cuniculi ottenuto in seguito a facoemulsificazione. Il tentativo di isolamento in questo caso non ha dato esito positivo forse per la precedente terapia con febendazolo, forse per assenza del parassita o forse per un’incorretta tecnica attuata dal laboratorio. Rimane quindi il dubbio che la rottura della lente potesse essere spontanea mentre è indubbia la convinzione dell’Autore che, qualunque sia la causa dell’uveite facoclastica, la terapia medica unita a quella chirurgica mediante facoemulsificazione sia la più idonea per una pronta e definitiva guarigione.

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Bibliografia Ashton N, Cook C. Clegg F. Encephalitozoonosis (nosematosis) causing bilateral cataract in a rabbit. British Journal of Ophthalmology 1976;60:618-631 Davidson MG, Nasisse MP, Jamieson VE et al. Traumatic anterior lens capsule disruption. JAAHA 1991;27:410-414 Hubbersty FS, Gourly JS. Secondary glaucoma due to spontaneous rupture of the lens capsule. British Journal of Ophthalmology 1953;37:432-435 Lisa M. Felchle and Ron L. Sigler. Phacoemulsification for the management of Encephalitozoon cuniculi-induced phacoclastic uveitis in a rabbit. VO 2002;3:211-215 Stiles J, Didier E, Richie B et al. Encephalitozoon cuniculi in the lens of the rabbit with phacoclastic uveitis: confirmation and treatment. VCO 1997;7:233-238 Wolfer J, Grahn B, Wilcock B et al. Phacoclastic uveitis in the rabbit. PVCO 1993;3:92-97 Wolfer J, Grahn G, Taylor M et al. Treatment of phacoclastic uveitis in rabbit by phacoemulsification. Transaction of the American College of Veterinary Ophthalmologist 1995,12

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I mezzi di contrasto: come, quando e perché Ivana De Francesco Med Vet, Milano

I mezzi di contrasto (m.d.c.) sono sostanze che introdotte nell’organismo del paziente ne modificano la capacità di assorbire i raggi X. Il m.d.c. ideale non dovrebbe essere irritante nè tossico, avere un buon effetto di contrasto, persistere per un tempo sufficiente all’esecuzione dei radiogrammi, essere completamente eliminato1. I m.d.c. possono essere suddivisi in opachi o positivi (con un maggiore assorbimento di raggi X) e trasparenti o negativi (con minor assorbimento di raggi X). Le metodiche “miste” prevedono l’uso combinato di mezzi positivi e negativi.

Mezzi di contrasto opachi Sono rappresentati da Bario e Iodio, sostanze ad elevato numero atomico Bario Il solfato di bario (BaSO4) è il contrasto più usato per lo studio dell’apparato digerente, è insolubile in acqua e nei liquidi organici, non viene assorbito e per questo non è tossico. Non è ipertonico e non richiama liquidi nell’intestino. Gli svantaggi di questa sostanza sono rappresentati dalle perforazioni intestinali, in quanto il passaggio di bario attraverso soluzioni di continuo nella cavità peritoneale può provocare granulomi o processi adesivi. L’aspirazione di bario nei polmoni può causare polmoniti e a volte, in soggetti defedati o, quando il materiale aspirato è notevole, anche morte. In commercio il BaSO4 è reperibile sottoforma di polvere, che viene mescolata con acqua, di pasta o di sospensione colloidale. La concentrazione delle sospensioni variano da 25 a 60% p.v., a seconda dell’organo od apparato da studiare. Il bario liquido può essere mescolato anche a cibo. La pasta, a concentrazione del 70-100% p.v, di solito si utilizza per lo studio dell’esofago, la sospensione al 30-60% p.v. per lo stomaco e l’intestino tenue, la sospensione al 15-20% p.v. per il colon.

Mezzi di contrasto iodati Si suddividono in composti iodati ionici e non ionici. Ionici Costituiti da un anello benzenico cui sono legati tre atomi di Iodio, sono sali sodio o meglumina dell’acido iotalamico, diatrizoico, metrizoico. Formano in soluzione sali con l’anione contenente Iodio e e il catione (sodio o meglumina) e questo conferisce loro un’alta osmolalità3. Hanno anche alta viscosità, che può essere ridotta riscaldando il prodotto a temperatura corporea prima dell’uso.

Le reazioni avverse comprendono danni endoteliali, ipervolemia, aumento della viscosità ematica, vasodilatazione, edema con neurotossicità diminuita contrattilità miocardica, tossicità sistemica. Gli effetti collaterali più comuni sono nausea e vomito. Non Ionici Derivati triiodati dell’acido benzoico, non si dissociano in soluzione, con più bassa osmolalità e più bassa incidenza di effetti collaterali A questi m.d.c. appartengono la metrizamide, di prima generazione, che venne utilizzata per la mielografia, ma con molti effetti collaterali, lo iopamidolo e lo ioexolo, di seconda generazione, ottenuti dalla modificazione della catena laterale della metrizamide, che ha minimizzato gli effetti collaterali. Infine esiste una terza generazione di prodotti non ionici, lo iodixanolo e lo iotrolan, che sono i soli finora ad aver quasi raggiunto l’osmolalità con il plasma.

Mezzi di contrasto negativi I m.d.c. più utilizzati sono gassosi rappresentati da CO2, NO2, O2 e aria ambiente. Quest’ultima vede un ampio impiego, soprattutto per lo studio della vescica e del colon, mentre per lo studio dello stomaco vengono usate per lo più polveri effervescenti che liberano CO2.

Studio dell’apparato digerente Preparazione del paziente Per lo studio dell’apparato digerente è necessario che i tratti da studiare siano privi di materiale che può disturbare la distribuzione del m.d.c. e di conseguenza l’interpretazione radiografica. Per questo si consiglia il digiuno di circa 24 ore per il tratto gastrointestinale e di circa 4-6 ore per lo studio dell’esofago. Sarebbe anche meglio praticare un enema la sera precedente l’esame, e nel caso di esami contrastografici del colon, anche 6 ore prima. Esofago Le principali indicazioni per l’esame dell’esofago includono forme acute e croniche di rigurgito, vomito, disfagia, episodi ripetuti di insufficienza respiratoria4. Si impiegano BaSO4 in pasta a causa della buona adesività alla mucosa esofagea per evidenziare processi infiammatori, infiltrazioni neoplastiche della parete esofagea, stenosi, sospensioni di bario liquido, a concentrazioni tra 30-


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45% p.v. per valutare la funzionalità dell’esofago, eventuali dilatazioni, diverticoli; alle sospensioni, con concentrazioni del 30%, si può mescolare cibo solido, soprattutto nei casi in cui esista disfagia per i cibi solidi e non per quelli liquidi. L’esame a doppio contrasto si ottiene somministrando prima una piccola quantità di sospensione di bario al 30% seguita dall’insufflazione di aria, e viene impiegata per lo studio delle lesioni murali esofagee3. Si possono usare anche composti iodati ionici se si sospetta una soluzione di continuo dell’esofago, ma essendo ipertonici possono essere pericolosi in soggetti già disidratati. Sarebbe raccomandato l’impiego di m.d.c. iodati non ionici, che sono isosmolari e quindi possono essere più maneggevoli rispetto a quelli ionici, che posseggono anche l’inconveniente di essere amari e quindi poco palatabili,ma vengono utilizzati poco a causa del loro elevato prezzo. Stomaco I segni clinici che conducono alla necessità dell’esecuzione di un gastrogramma sono vomito, ematemesi, dolore addominale nel settore craniale, anoressia, melena, sospette masse della porzione craniale dell’addome2. Preparazione del paziente: oltre al digiuno è necessario sospendere farmaci che possano influenzare la motilità gastrica. Gastrogramma positivo: sospensioni di BaSO4 (30-60% p.v.), circa 12 ml/kg per pazienti di piccola taglia e gatti, e 57 ml/kg per quelli di taglia grande; prodotti organici iodati idrosolubili, di solito ionici (sodio diatrizoato 40% p.v.), circa 2-3 ml/kg. Viene utilizzato soprattutto per lo studio della funzionalità e morfologia gastrica e per il riconoscimento di lesioni extramurali. La ripresa dei radiogrammi avviene a tempo 0, dopo 1520’ dalla somministrazione del contrasto, dopo 60’ e dopo 3 h. per poter seguire tutto lo svuotamento gastrico. Se vengono usati composti iodati ionici, a causa della loro ipertonicità i tempi di svuotamento sono accelerati. Gastrogramma negativo o pneumogastrogramma Si possono usare polveri effervescenti o bevande gassate, che liberano CO2 o aria ambiente che viene introdotta tramite sondino esofageo. È difficile valutare l’esatta dose per la distensione gastrica, perché in parte viene eruttata subito e in parte passa nell’intestino tenue, per cui è necessario aiutarsi con la palpazione dello stomaco valutando la resistenza che si incontra all’insufflazione. È utile per il riconoscimento di corpi estranei (c.e.) radiotrasparenti, per lesioni extramurali, murali e intraluminali. Esame a doppio contrasto Con l’impiego combinato di un contrasto positivo e negativo, si ottiene un verniciamento della mucosa e ciò permette uno studio dettagliato della mucosa. M.d.c. positivo: sospensione di solfato di bario al 30%, 5-30 ml a seconda della taglia del soggetto seguito da m.d.c.negativo da 50 a 200-300 ml finché lo stomaco è disteso. Piccolo intestino Indicazioni: vomito, rigurgito, anoressia,melena,diarrea, dolore addominale, ileo meccanico, ricerca di c. e l.ineari, studio morfologico e funzionale dell’intestino tenue.

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I m.d.c. impiegati sono gli stessi dello studio dello stomaco, sospensioni di BaSO4 al 30% p.v., o iodati ionici idrosolubili, alla stessa dose usata per il gastrogramma opaco. I radiogrammi vanno eseguiti a 1, 3 e 5 ore dalla somministrazione del pasto opaco nel cane e a 5, 30, 60 minuti nel gatto. Colon Questo tipo di metodica radiografica è diventata meno frequente con l’impiego dell’endoscopia. Indicazioni: disordini della defecazione, presenza di sangue, muco, diminuzione di calibro delle feci, tenesmo e dischezia. Questo tratto dell’intestino non si può valutare con un m.d.c. dato per os, perché non si riesce ad ottenere un buon grado di distensione dell’organo. Clisma opaco: si usano solfato di bario micropolverizzato al 15-20%, alla dose di 7-14 ml/kg, oppure prodotti iodati idrosolubili (sodio diatrizoato), al 15-20%, di elezione se si sospetta una perforazione. Si usa per localizzare il colon e per uno studio morfologico Pneumocolon: di solito si impiega aria ambiente, in quantitativo variabile da 60 a 100 e più ml.Si impiega per localizzare il colon o per studiare lesioni intraluminali Esame a doppio contrasto: metodica vantaggioso per lo studio delle lesioni della mucosa, lesioni intramurali. Il m.d.c. opaco alla dose di 2-3-ml viene introdotto prima, seguito da aria (da 25-50 ml fino alla distensione del colon monitorata con intensificatore di brillanza o con radiogrammi).

Sistema urogenitale Le procedure più usate per esaminare il sistema urinario sono urografia escretoria, per il tratto urinario superiore e cistografia e uretrografia per le basse vie. Urografia Fornisce una valutazione qualitativa sulla funzionalità renale e morfologica (recessi pelvici, pelvi renale, ureteri). Si possono usare m.d.c. ionici (diatrizoato o iotalamato) o non ionici (iopamidolo o ioexolo), che sono escreti per la maggior parte per via renale, a concentrazione di 880 mg Iodio/kg5, iniettati per via e.v. a bolo. Preparazione del paziente Digiuno per 24 ore, acqua ad libitum, clisma intestinale di pulizia Esami di laboratorio: BUN, creatinina,urinalisi. Si eseguono radiografie a 7-10” dall’iniezione del bolo di contrasto per la fase nefrografica (radiopacità del parenchima renale), a 3’ e 5’ per la fase pielografica (radiopacità del sistema collettore e ureteri). La controindicazione maggiore è rappresentata dalla disidratazione, che può dar luogo a necrosi acuta tubulare. A volte può comparire ipotensione iatrogena da contrasto e causare insufficienza renale acuta. Cistografia Indicazioni: ematuria, disuria, pollachiuria, calcoli, processi infiammatori, assenza dell’ombra vescicale, neoplasie Cistografia opaca Si usano m.d.c.iodati idrosolubili al 15-20% alla dose di 50-100 ml. È una metodica utile per la localizzazione della vescica e per evidenziare rotture e soluzioni di continuo.


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Pneumocistografia Si inietta aria lentamente alla dose di circa 25-500 ml, a seconda della taglia e del tipo di lesione da studiare6. Si usa per localizzare la vescica, in quanto è semplice e poco costosa. Cistografia mista Si introducono da 3 a 10 ml di contrasto iodato idrosolubile,poi si immette lentamente aria (4-10 ml/kg) valutando con la palpazione la distensione della vescica. Ottima per lo studio di lesioni della mucosa e per i difetti intraluminali. Le complicanze delle cistografie sono date dall’ematuria macroscopica, per la massima distensione della vescica o per traumatismi da cateterizzazione. Uretrografia Si usano per lo più m.d.c. positivi ionici e non ionici al 15%, da 5 a 20 ml. È utile per identificare ostruzioni, stenosi, rotture e difetti congeniti dell’uretra.

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Indirizzo per la corrispondenza: Ivana De Francesco, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi di Milano, 0250317808 ivana.defrancesco@unimi.it


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Nuove applicazioni in citologia diagnostica veterinaria: il Sistema Nervoso Centrale Davide De Lorenzi Med Vet, SMPA, Forlì

Marco Bernardini, Med Vet, Dipl ECVN, Bologna

Maria Teresa Mandara, Med Vet, Perugia

INTRODUZIONE La recente applicazione di moderne e sofisticate tecniche di diagnostica per immagine (Tomografia Computerizzata e Risonanza Magnetica) alle patologie intracraniche ed intrarachidee del cane e del gatto ha permesso al clinico di individuare e localizzare una grande varietà di lesioni, neoplastiche e non, del sistema nervoso centrale. Nonostante l’estrema accuratezza e la qualità delle immagini ottenibili con le apparecchiature di ultima generazione ed il contemporaneo impiego di adeguati mezzi di contrasto, una diagnosi definitiva può essere ottenuta unicamente attraverso la valutazione al microscopio delle linee cellulari implicate nel processo patologico. La valutazione istologica di biopsie chirurgiche eseguite in corso di craniotomia ha rappresentato per lungo tempo, l’unica opzione possibile, con ovvi e comprensibili problemi di morbilità, mortalità e costi. Il recentissimo impiego in medicina veterinaria di sistemi di centratura stereotattica, adottati da tempo in neurochirurgia umana, permetterà di ridurre grandemente i rischi correlati a procedure chirurgiche invasive e complesse. La possibilità di raccogliere in sicurezza frammenti di tessuto nervoso da lesioni sospette in zone poco accessibili e di poterli esaminare rapidamente consente al neurochirurgo di prendere decisioni fondamentali relative alle varie opzioni terapeutiche possibili, una volta definita con precisione la natura della patologia in corso. La valutazione citologica di strisci preparati da frammenti bioptici richiede solamente pochi minuti e si pone come valida alternativa all’impiego di campioni istologici preparati con microtomo congelatore. La corrispondenza fra diagnosi citologica ed istologica è alta variando dal 75 al 95% a seconda dei lavori pubblicati. L’accuratezza diagnostica dei campioni citologici dipende da vari fattori fra i quali la capacità di allestire campioni adeguati usando tecniche appropriate, l’impiego di coloranti con i quali si abbia dimestichezza, una buona conoscenza della citologia normale delle varie aree del SNC ed una adeguata conoscenza dei principali quadri citopatologici relativi alle più frequenti patologie infiammatorie, degenerative e neoplastiche che possono coinvolgere il SNC. Lo scopo della prima parte di questo lavoro è quello di descrivere le caratteristiche citologiche di differenti aree del SNC normale di cane e gatto mentre nella seconda parte verranno descritte alcune delle caratteristiche citopatologiche incontrate dall’esame di 30 lesioni

Citologia normale del sistema nervoso centrale Sono pochi i lavori relativi alla descrizione citologica del SNC normale del cane e del gatto; questa trattazione e le immagini presentate nella relazione derivano tutte da campioni allestiti e colorati con le stesse tecniche; le descrizioni e le osservazioni sono state eseguite su 3 cani e 3 gatti, tutti soppressi in maniera eutanasica per patologie non correlate a problemi neurologici. La necroscopia e la craniotomia sono state eseguite immediatamente dopo la morte dei soggetti; i prelievi di tessuto dal SNC sono stati eseguiti con Tru-Cut 18 G x 9 cm (Temno Biopsy Device, T 189, Allegrance Healthcare Corporation, USA). Dal cilindro bioptico così raccolto viene asportato circa 1 mm3 di tessuto da entrambe le estremità; i piccoli frammenti vengono posti fra due vetrini, schiacciati e strisciati (cd “crush technique) mentre il pezzo principale di tessuto viene inserito in una provetta contenente formalina tamponata al 10%. Da questo ultimo campione vengono eseguite valutazioni istopatologiche per confermare l’effettiva normalità del tessuto raccolto. Tutti i campioni citologici sono stati colorati con MGG in coloratrice automatica (Aerospray Slide Stainer 7100, Wescor) ed inclusi con coprioggetto. Sono state eseguite varie biopsie da differenti aree corticali di encefalo e cervelletto e sono inoltre stati allestiti campioni per schiacciamento da frammenti prelevati da tessuto ependimale, plessi corioidei e meningi. Il cervello non è un organo singolo, ma un sistema multiorganico di complessità estrema riguardo al quale ancora molte sono le scoperte da effettuare. Le cellule del cervello possono essere divise in elementi di derivazione neuroectodermica ed elementi di derivazione mesenchimale; Le prime possono essere ulteriormente divise in neuroni e neuroglia. NEURONI: Cajal, il padre della neurocitologia, sottolineò che i neuroni rappresentano la popolazione più diversificata dell’intero organismo, potendo assumere infinite dimensioni e varianti morfologiche ed ogni area del cervello mostra una particolare “ predilezione” per una morfologia specifica.


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I neuroni costituiscono l’elemento cellulare di base di tutto il SNC ed i loro corpi cellulari risultano prevalentemente localizzati nella corteccia, o sostanza grigia. I neuroni variano in dimensioni e forma più di qualsiasi altro elemento cellulare costituente il SNC: i neuroni più piccoli si incontrano nello strato granulare del cervelletto (4-5 µm) mentre i più grandi (100 µm) si rinvengono nella corteccia motoria e nel corno anteriore del midollo spinale. Nonostante l’estrema variabilità, i neuroni possiedono certe caratteristiche comuni: forma angolata o poligonale ed estroflessioni citoplasmatiche ramificate che rappresentano i dendriti ed i singoli assoni. Il citoplasma risulta generalmente abbondante, granuloso, ripieno di cd. sostanza di Nissl, ricca di RNA e neurofilamenti. In alcune aree del cervello il citoplasma neuronale può contenere neuromelanina. I nuclei dei neuroni risultano rotondi, centrali con tenue pattern cromatinico a distribuzione regolare ed un singolo nucleolo, generalemente ben evidente. Neuroni molto piccoli possono difficilmente essere distinti da astrociti reattivi e tecniche particolari di colorazione sono necessarie per una precisa distinzione; in generale, gli astrociti hanno nuclei di forma ovale e questo può permettere una distinzione dai neuroni i cui nuclei risultano rotondi. Corteccia CEREBELLARE: Strisci da campioni della corteccia cerebellare risultano generalmente ad elevata cellularità a causa dell’alto numero di neuroni che costituiscono lo strato interno, granuloso del cervelletto stesso. Si tratta generalmente di piccoli neuroni che hanno dimensioni simili a quelle di un piccolo linfocita e spesso appaiono come nuclei nudi, ipercromatici e circondati da un fondo fibrillare basofilo. Occasionalmente, mescolate alle cellule sopra descritte, si rinvengono neuroni di grandi dimensioni, con nucleoli prominenti ed estroflessioni citoplasmatiche: si tratta delle cellule del Purkinje della corteccia cerebellare. Una ottima conoscenza della citologia normale cerebellare è essenziale poiché le piccole cellule dello strato granulare possono facilmente essere confuse con cellule neoplastiche aventi le stesse caratteristiche citomorfologiche (ad es. medulloblastoma) Neuropilo: questo termine indica la matrice intercellulare nel SNC. Si tratta di una fitta tramatura composta dalle fini estroflessioni citoplasmatiche di neuroni, astrociti ed oligodendrociti ed i nuclei di queste cellule risultano completamente circondati da questa struttura. Con il MGG, il neuropilo appare particolarmente prominente e si colora intensamente di blu-viola. NEUROGLIA: comprende tre elementi principali: - astrociti - oligodendroglia - cellule ependimali Gli astrociti, come il nome stesso suggerisce, sono cellule di forma stellata anche se questa morfologia citoplasmatica può essere osservata unicamente con colorazioni speciali (ad es. impregnazione argentica); si riconoscono 2 tipi di astrociti (fibrillari più frequenti nella sostanza bianca e protoplasmatici che predominano nella sostanza grigia) ma la loro distinzione non è possibile con le colorazioni tradizionali.

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Gli astrociti occupano, nel SNC, la maggior parte dello spazio interposto ai neuroni; si insinuano attorno e lungo gli altri elementi cellulari del SNC. In particolare, i prolungamenti citoplasmatici si applicano, tramite pedicelli, alla lamina basale dei capillari e proiettano contemporaneamente analoghi prolungamenti sulla superficie dei neuroni. I questo modo gli astrociti formano compartimenti cellulari attraverso i quali possono avvenire gli interscambi di varie sostanze fra neuroni e torrente circolatorio. La selettività adottata dagli astrociti e l’endotelio dei capillari del SNC costituiscono una parte fondamentale della Barriera Ematoencefalica. Gli astrociti, a seguito di lesioni tissutali del SNC possono assumere attività fagocitaria e forniscono materiale cellulare per la formazione di cicatrici a seguito di fenomeni degenerativi; in questo senso possono essere paragonati agli elementi connettivali presenti in altri tessuti. Gli astrociti sono distribuiti in tutto il SN e si ritiene abbiano una funzione di sostegno nei confronti dei neuroni; hanno anche tendenza a moltiplicarsi nei siti di danno tissutale. Queste cellule possono essere riconosciute per i loro nuclei piccoli, ovali, che misurano dai 7 ai 10 µm, a pattern cromatinico “aperto” e nucleolo piccolo. Gli astrociti hanno estroflessioni citoplasmatiche delicate e sinuose che si sviluppano in tutte le direzioni e possono essere meglio evidenziate in corso di patologie neoplastiche oppure in corso di reattività tissutale conseguente a danno del SN. Nel cervello normale il citoplasma astrocitico non è evidente e le cellule appaiono come nuclei nudi sulloi sfondo del neuropilo. Le cellule oligodendrogliali hanno solamente pochi processi citoplasmatici, ed anch’essi possono evidenziarsi unicamente con speciali tecniche di colorazione. Gli oligodendrociti sono cellule che formano la mielina nel SNC. Negli strisci essi appaiono come piccoli nuclei rotondi e nudi (5 - 7 µm) sullo sfondo fibrillare del neuropilo. Il loro citoplasma non è evidente e, a causa delle dimensioni e del pattern cromatinico, possono essere confusi con piccoli linfociti. La cromatina degli oligodendrociti risulta tuttavia più finemente organizzata rispetto a quella linfocitica. In campioni istologici gli oligodendrociti possono essere confusi con piccoli astrociti; in generale, questi ultimi hanno un nucleo più ovale rispetto a quello oligodendrogliale, rotondo. I plessi corioidei rappresentano tessuto specializzato, localizzato all’interno dei ventricoli, e deputato alla sintesi del LCR. Cellule da queste zone possono essere inavvertitamente raccolte in biopsie da aree prossime al III e IV ventricolo. Negli strisci solo raramente il tessuto dei plessi mantiene la sua architettura papillare con presenza di un asse fibrovascolare circondato da epitelio monomorfo cuboidale o cilindrico basso. Più in generale le cellule si presentano in foglietti, clusters a lassa coesione o cellule singole. Come le cellule mesoteliali, gli elementi dei plessi corioidei sono rotonde od ovali, con nucleo piccolo, rotondo e centrale. Con le colorazioni di Romanowsky, le similitudini fra cellule mesoteliali e cellule dei plessi corioidei risultano particolarmente evidenti: il nucleo si colora intensamente di blu ed il citoplasma, relativamente abbondante, risulta di colore porpora.


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Le cellule ependimali delimitano la superficie interna dei ventricoli ed il canale centrale del midollo spinale. La superficie ventricolare di queste cellule è ciliata a che se questa caratteristica tende a scomparite con l’età. Nei campioni citologici queste appaiono come cellule colonnari, con nuclei ovali, cromatina granulare, nucleoli non evidenti ed organizzate in piccoli clusters. Poiché le giunzioni intercellulari risultano molto forti, più raramente queste cellule si trovano come singoli elementi. Queste cellule vengono incontrate molto raramente in campioni citologici da SNC La funzione delle cellule ependimali è ancora oggetto di discussione: di certo costituiscono una barriera fra neuroni e LCR ed inoltre alcune di esse hanno capacità di assorbire ed altre di secernere sostanze.

Citologia patologica del Sistema Nervoso Neoplasie primarie del sistema nervoso (SN) sono state segnalate in tutte le specie di animali domestici, pur essendo più frequentemente diagnosticate nel cane dove l’incidenza e la distribuzione delle neoplasie risulta molto simile a quella della popolazione umana adulta. Cani e gatti vivono sempre più frequentemente in ambiente domestico, a stretto contatto con i proprietari, raggiungendo sempre più spesso una età nella quale le neoplasie endocraniche mostrano maggiore incidenza. Sulla base dei relativamente pochi reports relativi alle neoplasie del SN degli animali domestici, una percentuale variabile dal 60% all’80% di tali tumori coinvolge il cane, una percentuale variabile dal 10% al 20% colpisce il gatto e solamente una percentuale variabile dal 10% al 20% interessa tutto l’insieme delle altre specie animali. La prevalenza dei vari tipi di neoplasia differisce a seconda di specie e razza interessata: ad esempio, il numero dei meningiomi risulta relativamente alto nel gatto mentre i gliomi vengono più frequentemente segnalati nel cane ed in questa specie, le razze brachicefale sembrano avere la più alta incidenza di oligodendrogliomi. La classificazione dei tumori del SN è complessa e mutevole; la classificazione veterinaria corrente si rifà a quella sviluppata nel 1976 dal WHO ed è impostata sulla base delle strutture cellulari primariamente coinvolte dal processo neoplastico. Le neoplasie vengono divise in quelle che ori-

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ginano da strutture neuroepiteliali (neuroni, glia, ependima e plessi crioidei) e da strutture non neuroepiteliali (meningi, guaine dei nervi, ipofisi); in aggiunta si riconoscono linfoma, metastasi ed estensione da strutture contigue (es cavità nasali, osso, etc). La nostra casistica è formata da 32 patologie primarie (31 lesioni neoplastiche ed una non neoplastica) endocraniche ed endorachidee di cane e gatto. In particolare i campioni provengono da 24 cani (15 m e 9 f con una età variabile da 2 a 16 anni) ed 8 gatti (3 maschi di cui 2 castrati e 5 femmine delle quali 3 sterilizzate) con una età variabile da 1 a 15 anni. La seconda parte di questa relazione prevede la descrizione citologica delle neoplasie riscontrate nella nostra casistica. Siccome non solamente il tempo ma anche lo spazio è tiranno, non è possibile fornire con questi atti una adeguata descrizione citopatologica. Chiunque fosse interessato ad approfondire l’argomento può tuttavia richiedere la bibliografia completa ed il testo delle descrizioni al seguente indirizzo: ddeloren@tin.it.

Letture consigliate 1. 2.

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Moissonnier P, Blot S, Devauchelle P. et al. (2002), Stereotactic CTGuided brain biopsy in the dog, JSAP, 43: 115 – 123. Vernau KM, Higgins RJ, Bollen AW et al (2001), Primary canine and feline nervous system tumors: intraoperative diagnosis using the smear technique, Vet Pathol, 38: 47-57. Long SN, Anderson TJ, Fenella HA et al. (2002), Evaluation of rapid staining techniques for cytologic diagnosis of intracranial lesions, AJVR, 63: 381- 386. Koblik PD, LeCouteur RA, Higgins RJ et al (1999) CT-guided brain biopsy using a modified Pelorus Mark III stereotactic system: experience with 50 dogs, Vet Radiol Ultrasound, 40: 434-440. Vernau KM, Higgins RJ, LeCouteur RA et al (1997) Cytological characteristics of brain tumors in dogs and cats using crush preparations. Proc 15th ACVIM Forum, 665. Harari J, Moore MM, Leathers CW et al (1996) CT guided, free-hand needle biopsy of brain tumors in dogs, ProgVet Neurol, 4: 41-45.

Indirizzo per la corrispondenza: Davide De Lorenzi, Clinica Veterinaria S.Marco, Via Sorio 114/c Padova Tel 0498561098 ddeloren@tin.it


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Frattura dell’osso radiale del carpo Mauro Di Giancamillo Med Vet, Milano

Filippo Martini Med Vet, Parma

La frattura e la lussazione dell’osso radiale del carpo del cane, tipiche lesioni da iperestensione dell’articolazione radio-carpica, rappresentano un’evenienza relativamente rara1. Più comuni sono forse le lesioni a carico dell’osso accessorio del carpo soprattutto nella razza Greyhound2. La lussazione dell’osso radiale del carpo è stata descritta da Punzet (1974)3 e Miller e coll. (1990)4. Le lesioni alle strutture legamentose di sostegno dell’articolazione del carpo, che frequentemente si riscontrano a seguito di un evento traumatico, sono anch’esse ampiamente documentate5,6,7. Fratture isolate dell’osso radiale del carpo sono state recentemente oggetto di segnalazione in Inghilterra da parte di Ferguson (1998)8 e Li e coll. (2000)9 nonché in Irlanda10. Undici dei 15 cani, che costituivano la casistica di Li e coll.9, appartenevano alla razza Boxer, mentre un’alta prevalenza nella razza Setter irlandese è emersa dallo studio di Piras10. Sorprendentemente un solo paziente dei 15 descritti da Li e coll.9 aveva un’anamnesi suggestiva di un episodio traumatico acuto. La nostra casistica è composta da 14 cani affetti dalla frattura dell’osso radiale del carpo, in sette casi bilaterale ed in sette monolaterale. I soggetti, 7 Pointer inglesi, 3 Setter inglesi, 2 Boxer, 1 Breton ed 1 Springer spaniel, 13 maschi ed 1 femmina, di età compresa tra 12 e 84 mesi, sono stati sottoposti alla nostra osservazione perché affetti da zoppia a carico di uno od entrambi gli arti anteriori che, a detta dei proprietari, si manifestava dopo un intenso e prolungato esercizio. In tutti i pazienti l’esordio, peraltro subdolo, risaliva a due/tre mesi prima della visita ed anche oltre, in assenza di eventi traumatici acuti noti. Dopo aver sottoposto gli animali alle prove funzionali dinamiche, veniva individuato l’arto affetto dalla zoppia ed il grado di intensità della stessa (secondo la classificazione di Cinotti11). Da un accurato esame obiettivo particolare, era possibile rilevare che la zoppia era costantemente riconducibile ad un’alterazione dell’articolazione radio-carpica. All’esame ispettivo si poteva osservare, infatti, una modesta tumefazione della regione carpica, ectasia della capsula ed al pizzicamento transcutaneo della membrana sinoviale era apprezzabile l’ispessimento della stessa. L’iperflessione dell’articolazione radiocarpica risvegliava un intenso dolore, con escursione articolare conservata o leggermente diminuita. Si è proceduto, in tutti i casi, allo studio radiologico di entrambi i carpi, eseguendo le proiezioni ortogonali medio-laterale e dorsopalmare e la proiezione medio-laterale in flessione. In due

soggetti sono anche state eseguite, per entrambe le articolazioni le proiezioni dorsoprossimali-dorsodistali. Sono state utilizzate pellicole radiografiche da mammografia ad alta definizione Agfa MR 6. In tre soggetti è stato eseguito un esame tomografico in condizioni basali, impiegando un protocollo che prevedeva l’acquisizione di strati contigui di 1 mm di spessore, filtri di convoluzione per tessuti duri e finestre di visualizzazione di 2400WW/600WL. Il campo di scansione si estendeva dall’estremità distale radio-ulnare all’estremità prossimale delle ossa metacarpali. Dall’osservazione dei radiogrammi ottenuti con la proiezione dorsopalmare si è potuto rilevare la presenza di una sottile linea radiotrasparente a margini regolari, con direzione obliqua latero-mediale-prossimo-distale. Questa linea divideva l’osso in due grossi frammenti pressoché uguali. Nelle proiezioni medio-laterali, estesa e flessa, si è potuto osservare in tre casi un’ulteriore linea radiotrasparente, più marcata, in corrispondenza della faccia dorso-mediale dell’osso radiale, che mostrava un frammento osseo parzialmente dislocato cranialmente. I margini della linea di separazione del frammento dislocato si presentavano irregolari. Le indagini tomografiche confermavano e meglio precisavano le anomalie morfostrutturali dell’osso radiale evidenziate all’esame radiografico. Inoltre nel carpo destro di un Pointer maschio di 3 anni si evidenziavano due linee di separazione, ortogonali tra loro, che consentivano il riconoscimento di tre frammenti. Adiacenti alle linee di separazione erano facilmente riconoscibili delle aree ipodense disomogenee, segno indiretto di sofferenza osteocondrosica. L’arto controlaterale presentava invece un’incisura lungo la limitante scheletrica posteriore del radiale, che si prolungava nel contesto dell’osso per alcuni mm, senza tuttavia attraversarlo a tutto spessore. Il quadro c1inico-radiologico da noi osservato, sovrapponibile a quello descritto da Li e coll.9 e da Piras10, induce a pensare che ci si trovi dinanzi alla stessa condizione patologica. L’assenza anamnestica di un trauma acuto ed il quadro sintomatologico ad insorgenza progressiva e decorso cronico depongono per un’eziopatogenesi rappresentata da ripetute sollecitazioni funzionali sull’osso radiale, oppure da un’inerente debolezza dell’osso stesso, o da entrambi i momenti causali9. Il fatto stesso che gli Autori sopraccitati abbiano osservato tale patologia prevalentemente nel cane Boxer (11 casi su 15) e nel Setter irlandese (dati non disponibili) e, chi scrive, nel cane Pointer e nel Setter inglese, può


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far supporre un diverso processo evolutivo di ossificazione in certe razze canine rispetto ad altre, come originariamente ipotizzato da Pomriaskinsky-Kobozieff e coll. (1954)12. L’osso radiale del cane, situato medialmente sulla fila prossimale delle ossa del carpo, origina dalla fusione dell’osso radiale primitivo o Scafoide con le ossa carpali centrale ed intermedio o Semilunare. La fusione dei tre centri di ossificazione avviene intorno ai tre/quattro mesi di età12. Nel caso in cui l’ossificazione fosse incompleta, le superfici di fusione di detti centri potrebbero rappresentare “loci minoris resistentiae” dell’osso stesso. Le linee di frattura dell’osso radiale del carpo, osservate nei casi descritti, corrispondono approssimativamente a questi siti. L’esiguo numero dei casi da noi osservati e le sporadiche segnalazioni reperibili in letteratura non consentono di trarre conclusioni definitive, ma tutt’al più di proporre alcune considerazioni. La stretta correlazione tra l’insorgenza della sintomatologia e l’intensa attività fisica di questi animali può indurre a pensare che l’incompleta fusione dei centri di ossificazione dell’osso radiale del carpo possa essere presente, anche in forma asintomatica, in cani che non svolgono intensa attività fisica, fino a quando non si vengano a determinare quelle condizioni di stress meccanico tali da causare la frattura dell’osso radiale a livello delle linee di ossificazione dei suoi centri, con conseguente instabilità articolare che, nell’evoluzione della patologia, porterà inevitabilmente a quadri clinici sintomatici di osteoartrite. Stress meccanico che, nel caso dei Boxer descritti da Li e coll. (2000)9, potrebbe essere esclusivamente rappresentato da una condizione di “overweight” cui questa razza non si sottrae, a differenza dei soggetti adibiti a lavoro quali quelli inclusi nella nostra casistica. Relativamente al frammento dorsale dislocato, è probabile che un eccessivo carico, conseguente all’iperestensione dell’articolazione radio-carpica durante le veloci andature abbia determinato la dislocazione del frammento dorso-mediale.

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Ipotesi di incompleta ossificazione sono state formulate anche per altre sedi anatomiche come il condilo omerale, in cani di razza Cocker spaniel da Marcellin-Little e coll. (1994)13 e Rottweiler da Rovesti e coll. (1998)14, dove l’ossificazione è stata sostituita da un’unione di tipo fibroso. Gli Autori hanno ipotizzato un fattore ereditario quale responsabile dell’incompleta unione. Per quanto riguarda le nostre osservazioni non siamo in grado, data l’esiguità della casistica, di avvalorare questa ipotesi che, tuttavia, non può essere esclusa a priori. Sulla scorta di queste nuove acquisizioni, riteniamo opportuno sottolineare l’attenzione che il clinico ortopedico dovrà prestare alla regione del carpo quando dovrà accertare la causa di una zoppia di origine ignota.

Bibliografia disponibile presso gli autori

Indirizzo per la corrispondenza: Ass. Prof. Mauro Di Giancamillo Sezione di Radiologia Veterinaria Clinica e Sperimentale Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Facoltà di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Milano Via Celoria 10 - 20133 - Milano Tel.: +39.02.50317807 Fax: +39.02.50317803 E-mail: mauro.digiancamillo@unimi.it

Filippo Maria Martini Dip. di Salute Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Parma


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Visita clinica del rapace e procedure diagnostiche Antonio Di Somma Med Vet, SMPA, Dubai, United Arab Emirates

Tom Bailey, BSc, BVSc, MRCVS, MSc, PhD, CertZooMed, Dip ECAMS, Dubai, United Arab Emirates. Christudas Silvanose, BMLT, Dubai, United Arab Emirates. Celia Garcia-Martinez, LicVet, MRCVS, MSc, Dubai, United Arab Emirates

Sommario Con la continua crescita del numero di falchi che vivono in cattività è richiesto al medico veterinario uno specifico aggiornamento professionale e una maggior conoscenza del delicato equilibrio psico-fisico degli uccelli da preda. L’arte della diagnosi nella medicina dei rapaci si basa sul riuscire a raccogliere una completa informazione tramite questionario con domande mirate, eseguire un veloce ma esauriente esame fisico, raccogliere numerosi dati dagli esami collaterali e quindi interpetrare tutte le informazioni raccolte. Infine terminare la visita avendo inflitto al falco meno danni possibili, sia fisici che psicologici. Ottenere una buona anamnesi è un punto fondamentale per arrivare alla diagnosi. Inoltre conoscere i più comuni segni clinici di malattia aiuta nalla formulazione di diagnosi differenziali. Anche se il falco può presentare un evidente sintomo spesso il problema è più complesso ed il primo sintomo che appare può anche non essere il più grave. È difficile, se non impossibile, condurre un adeguato esame fisico su un rapace spaventato e combattivo se non viene anestetizzato, non solo è difficile ma può risultare anche pericoloso per il veterinario, per il suo assistente e per il paziente stesso. È raccomandata sempre l’anestesia con isoflorano o con la combinazione di isoflorano e una premedicazione iniettabile mediante ketamina/medetomidina. Una volta ottenuta la diagnosi definitiva è importante seguire ogni caso con il trainer del falco e sviluppare un programma di medicina preventiva.

Introduzione Si ritiene che l’arte della falconeria è originata 4000 anni fa sugli altopiani dell’Asia centrale, in un’area corrispondente agli attuali stati di Corea, Giappone e Cina. Ancora oggi queste regioni possiedono le piu alte concentrazioni di uccelli da preda adatti alla falconeria come Sacri, Pellegrini, Lanari e Aquile. La passione per la falconeria si propagò quindi lungo la rotta del commercio della seta fino al mondo arabo e quindi arrivò in Europa ai tempi delle crociate.

La caccia con i rapaci è quindi lo sport più antico del mondo. Il termine rapace deriva dal latino rapere, ovvero afferrare o stringere e viene impiegato per indicare in generale qualsiasi uccello da preda. Oggi i rapaci sono mantenuti in cattività per varie ragioni che includono riabilitazione, spettacoli di volo, centri di allevamento, attività di pest control e di falconeria.

Obbiettivi della relazione 1) come raccogliere una esauriente anamnesi. 2) riassumere le basi dell’esame fisico del rapace includendo le tecniche di contenimento dell’animale. 3) come raccogliere le informazioni sufficienti per arrivare alla diagnosi compiendo vari esami collaterali.

Cosa devi chiedere Durante il primo incontro fra il veterinario e il suo paziente, avviene una serie di importanti dinamiche. Per primo il falco è avvicinato, catturato e mantenuto costretto nonostante i suoi sforzi per sfuggire alla presa. Una volta contenuto, il falco viene esaminato dal veterinario per accertarsi delle sue condizioni. Mentre il veterinario è impegnato ad eseguire l’esame clinico, è il contenimento del falco che attira l’attenzione e la preoccupazione del trainer. Nulla può distruggere la fiducia di un falconiere verso il suo veterinario più velocemente di un incompetente contenimento del falco durante l’esame fisico. E questo a buon ragione poiché i danni inferti alle penne primarie e alla coda possono rivelarsi addirittura incompatibili con il futuro di agonismo o di riabilitazione del soggetto, avendo danneggiato seriamente le sue capacità di volo. È importante tener presente la posssibiltà di danni iatrogeni e intanto rapportarsi con il trainer per instaurare un rapporto di fiducia e per apprendere nuove tecniche di manipolazione del falco. Quando ti viene presentato un rapace per la visita è essenziale ricevere una anamnesi la più dettagliata possibile. Ricorda di essere paziente e spendere tempo per ottenere informazioni circa l’alimentazione e qualsiasi altra storia del


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falco, poiché queste note potranno rilevarsi fondamentali per la diagnosi. L’anamnesi si verte su un questionario da rivolgere al proprietario del rapace mentre ancora il falco è incappucciato sul pugno o è contenuto nel trasportino. Questionario del Dubai Falcon Hospital: Provenienza del rapace? Ragione della visita e problema attuale? Durata del problema? Tipo di cibo? È stato somministrata preda abbattuta con armi da fuoco? Il falco è riluttante ad ingerire o mangiucchia a piccoli bocconi? Altri falchi con lo stesso problema? Hai notato cambiamenti nella voce del falco? Hai notato cambiamenti nel carattere? E stato visitato da altri veterinari? Qual’è il suo alloggio? Cambiamenti nell’appetito? Qual’è la sua performance nel volo? Le feci sono normali? Per risparmiare tempo ognuna di queste domande ha risposte già codificate per cui il falconiere deve solo selezionare la casella corrispondente.

Osservazione del paziente L’osservazione del falco prima di eseguire l’esame fisico è indispensabile. Non è possibile cominciare l’osservazione nel mezzo di una normale clinica per piccoli animali poiche il falco sentirà la presenza di un cane o di un gatto come quella di un predatore e questo aumenterà lo stress della visita. La maggior parte dei falchi addestrati arriverà già con adeguato cappuccio e “geti” (lacci di cuoio che assicurano le zampe contro tentativi di fuga). Per i falchi che arrivano nel trasportino sarà cura del veterinario procurarsi cappucci e geti di varie misure per i vari tipi di rapaci. I manufatti in pelle per la falconeria “made in Italy” sono famosi nel mondo e facilmente reperibili. Gli uccelli selvatici in genere e i falchi in particolare possiedono un enorme capacità di nascondere segni di malattia fino al punto in cui è impossibile non manifestare malessere. Questa è una strategia di sopravvivenza in quanto l’apparenza del segno di malattia rende l’animale selvatico a rischio di predazione. Devi osservare il falco attentamente: annota il tipo e la frequenza degli atti respiratori, la posizione delle ali, se il piumaggio è arruffato o aderente, la postura sui 2 arti, la velocità di reazione allo stress. La frequenza respiratoria di un falco a riposo è da 11 a 28 atti al minuto. Lo stress test può servire per determinare intolleranza allo sforzo. La condizione del piumaggio va valutata attentamente controllando le primarie eventualmente danneggiate. Lo stato di idratazione è stimato elevando una plica cutanea a livello delle dita del falco. Le condizioni fisiche e il

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peso del falco sono in genere direttamente correlate per cui un uccello in buone condizioni ha un peso corporeo adeguato per la sua specie e per il suo sesso (il maschio è circa un terzo più piccolo della femmina). Il peso corporeo è controllato mediante apposita bilancia con trespolo mentre le condizioni corporee sono valutate tramite palpazione manuale dei muscoli pettorali. È questo il momento di effettuare anche l’esame delle feci che è semplice e procura molte informazioni. In clinica a volte bisogna aspettare che il falco deponga le feci su superficie non contaminata, falchi incappucciati di solito sono stimolati appena viene rimosso il cappuccio poiché lo stress di ritrovarsi in ambiente non familiare stimola l’escrezione. Se ciò non avviene bisogna depositare alcune gocce di acqua tramite un siringa direttamente nella bocca del rapace.

Contenimento ed esame fisico L’esame fisico non può esere condotto senza un adeguato contenimento dell’animale. Il paziente rapace può essere molto più difficile da contenere rispetto a un cane o a un gatto ed una esatta tecnica è essenziale perché il contenimento sia un episodio senza stress per veterinario, assistente ed animale. Qualsiasi cosa richiesta per l’esame fisico e la raccolta di campioni dovrebbe essere preparato prima di manipolare l’animale. Ricorda che i falchi sono particolarmente suscettibili allo stress e i falchi malati lo sono ancora di più. L’esame fisico andrebbe eseguito in maniera piu rapida possibile e in quasi tutti i casi e preferibile anestetizzare l’animale. Logicamente va valutato il rischio dell’anestesia rispetto al solo contenimento manuale del falco. In Dubai Falcon Hospital usiamo indurre l’anestesia con un miscela di Ketamina (3 mg /kg) e medetomidina (0,06 mg/kg) e mantenere quindi l’anestesia tramite isoflorano somministato via maschera facciale. Nello stadio dell’esame fisico nulla può essere trascurato poiché potrebbe risultare difficile se non impossibile riaddormentare o ricontenere di nuovo l’animale. Per non tralasciare nulla è importante adottare una routine ‘step by step’: il miglior approccio è una logica progressione dalla testa alla coda. Prima di iniziare l’esame è meglio prestare attenzione al tipo e alla frequenza respiratoria per assicurarsi che il paziente non sia in pericolo di vita durante l’esame fisico. Nella regione della testa osserviamo gli occhi, le orecchie, le narici, il becco, la bocca e l’orofaringe. Gli occhi devono apparire non infiammati e simmetrici. Le narici vanno esaminate per eventuali detriti o sierosità. La cheratina del becco deve essere liscia e senza cracks o deviazioni. La lingua, la glottide e l’orofaringe vanno osservati per eventuali masse, placche o aeree infiammatorie. Il collo va palpato per stimare il gozzo e la presenza di eventuali corpi estranei. Per l’esame dei sistemi cardiovascolare e respiratorio ricorriamo all’auscultazione. Auscultazione dei polmoni, sacchi aerei e cuore prevede porre lo stetoscopio sia sul lato dorsale che su quello ventrale dell’uccello. Normalmente non sono udibili suoni respiratori poiché il tessuto polmonare non si espande attivamente. Il battito cardiaco è facilmente udibile su entrambi i lati e il suo rate è intorno ai 350 battiti al minuto.


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La palpazione dell’addome è particolarmente difficile poiché l’area addominale è stretta e gli organi sono situati profondamente: risulta importante specialmente nei casi di ascite o di epatomegalia. Le ali andrebbero esaminate separatamente per ogni evidenza di fratture o lussazioni, umettare con alcool le piume aiuta per evidenziare traumi dei tessuti molli. Una ala leggermente abbassata rispetto all’altra può indicare rottura del tendine del muscolo sopracoricoideo. Le zampe vanno estese per evidenziare asimmetrie ed è fondamentale esaminare con buona luce e aiuto di occhiali igrandenti la superficie palmare dei piedi per non trascurare la presenza di primi stadi di pododermatite, relativamente frequente nei falchi mantenuti in cattività. Ultimo doveroso sguardo alla condizione di tutto il piumaggio e specialmente alla condizioni delle remiganti primarie e secondarie e alle penne dela coda: ricorda che si può anche ottenere una eccellente guarigione dell’animale ma, se hai trascurato una primaria danneggiata, quel falco non volerà mai nemmeno discretamente. Per veterinari impegnati nella medicina dei rapaci può risultare utile diventare familiari con le tecniche di imping (riparazione di penne primarie, secondarie e della coda mediante innesti).

Esami diagnostici L’esame fisico dei rapaci risulta più veloce di quello dei mammiferi ma di solito procura meno informazioni e quasi sempre non è diagnostico. Per raccogliere ulteriori informazioni è essenziale tutta la rete degli esami diagnostici da compiere sull’animale ancora manualmente contenuto e che prevede esame radiografico nelle due proiezioni, esame ematologico e profilo bichimico, prelievo di campione dalla mucosa esofagea, esami citologici e colturali, esami microbiologici, esami tossicologici. Inoltre, nella esperienza del nostro ospedale, molte volte risulta indispensabile l’esame endoscopico a livello dei sacchi aerei. Radiografie correttamente posizionate sono imperative per una corretta interpetrazione. Se lo sterno e le vertebre non sono perfettamente sovrapposti nella posizione ventrodorsale, se le ali non sono estese simmetricamente e le zampe non sono estese al massimo avrai difficoltà a valutare polmoni, sacchi aerei e fegato. Nella proiezione laterale, la tendenza è quella di ruotare eccessivamente l’uccello abbassando entambe le ali a livello del tavolo. Questo non permette allo sterno di essere parallelo all’asse del tavolo radiologico e rende l’interpetazione degli organi addominali falsata. Il sangue dovrebbe essere prelevato per l’esame emocromocitometrico e per il profilo biochimico. La venipuntura può essere effettuata dalla vena mediale metatarsale, dalla brachiale o dalla cutanea ulnare superficiale e infine dalla vena giugulare destra. Il prelievo dall’ala va effettuato solo in paziente in anestesia per la tendenza a sanguinare dopo il prelievo e per i molteplici rischi di ematoma, la-

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cerazione della vena e anche fratture dovute o improprio contenimento. L’esame ematologico nei pazienti aviari è uno dei punti più importanti nel pannello diagnostico. Forse non esiste altro singolo test che procura tante informazioni circa lo stato di salute del soggetto. Il profilo leucocitario varia tra le varie specie di falchi e la valutazione del leucogramma include la morfologia dei leucociti e la classificazione dei vari tipi. Gli eterofili tossici possono indicare setticemia, infezioni virali o fungine. Il profilo biochimico negli uccelli è di difficile valutazione poiché i risultati sono influenzati da molti fattori: i dati più consistenti derivano da Proteine totali, AST, acidi biliari e acido urico. Altri esami collaterali come l’esame delle feci e l’esame delle urine dovrebbero già essere stati eseguiti e quindi avrai già in mano i risultati. Gli esami parassitologici includono esame microscopico diretto e dopo flottazione delle feci ed inoltre esame diretto e dopo colorazione del campione dalla mucosa del gozzo. Le indicazioni per l’esame delle urine sono poliuria e anomala apparenza dei reni all’esame radiografico. Per eseguire il campionamento devi aspirare con siringa la parte liquida e trasparente delle escrezioni evitando contaminazioni da feci ed urati. L’esame endoscopico con endoscopio rigido 2,7 mm è diventata parte integrante dell’esame diagnostico dato il grande numero di informazioni e per la possibilità non solo di visione diretta ma anche di campioni bioptici da vari organi come fegato, milza, reni e tessuto polmonare. Logicamente l’abilità del veterinario deve essere supportata da esami citologici, colturali e istopatologici da parte di laboratori sensibilizzati. Comunque l’esame endoscopico è quasi sempre diagnostico ed assolutamente essenziale per diagnosticare gli stadi precoci di aspergillosi, quando la malattia fungina riserva la prognosi più favorevole.

Conclusioni La raccolta dell’anamnesi è essenziale per la visita clinica del rapace.Viene consigliato di preparare un questionario da sottoporre al falconiere. L’osservazione attenta del rapace e la raccolta di feci e urine deve precedere la fase di contenimento del falco. L’esame fisico deve essere eseguito metodicamente e deve obbligatoriamente essere integrato dalla rete degli esami collaterali diagnostici.

Bibliografia disponibile su richiesta al relatore

Indirizzo per la corrispondenza: Antonio Di Somma Falcon Hospital, PO Box 23919, Dubai, United Arab Emirates antonio.disomma@dfh.ae


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Aspergillosi aviare: nuovo approccio terapeutico Antonio Di Somma Med Vet, SMPA, Dubai, United Arab Emirates

Tom Bailey, BSc, BVSc, MRCVS, MSc, PhD, CertZooMed, Dip ECAMS, Dubai, United Arab Emirates. Christudas Silvanose, BMLT, Dubai, United Arab Emirates. Celia Garcia-Martinez, LicVet, MRCVS, MSc, Dubai, United Arab Emirates

Sommario Il Voriconazolo è un nuovo-triazol derivato ad ampio spettro antifungino e con spiccata attività in vitro e in vivo contro Aspergillus spp. In uno studio non comparativo fra gennaio 2003 e marzo 2004 abbiamo utilizzato il Voriconazolo in 25 falchi con definitiva diagnosi di aspergillosi per un periodo di 18-108 giorni (media 49 giorni). Il voriconazolo si è dimostrato ben tollerato dai falchi e ha avuto una efficacia curativa eccellente contro l’aspergillosi. I casi di risposta completa sono stati 19/25 (76%), 4/25 i casi di risposta parziale (16%) e solo 2 casi si sono dimostrati refrattari al trattamento (4% di fallimento). Il tasso di sopravvivenza dei falchi a 12 settimane è stato di 25/25 (100%). Un follow-up a lungo termine è stato compiuto su 19/25 soggetti, durante un periodo di 3-12 mesi post-trattamento. Solo un falco ha dimostrato ricorrenza della malattia (6.25% di recrudescenza). Oltre alla evidenza clinica, le condizioni atletiche di 10/25 falchi sono state controllate durante gli esercizi di volo. Nel 90% dei casi (9 casi su 10) i falchi sono stati considerati in alto livello di fitness. In falchi con acuta aspergillosi, la terapia iniziale con voriconazolo produce miglior risposta terapeutica e superiore tasso di sopravvivenza e risulta in minori effetti secondari rispetto all’approccio iniziale standard con amfotericina B o con itraconazolo.

Introduzione Le infezioni fungine rimangono una causa di significativa mortalità per tutto il mondo animale, nonostante le recenti ricerche e l’emergenza di nuovi agenti antifungini. Nell’uomo l’aspergillosi invasiva complica malattie associate all’immunosoppressione ed è in drammatico aumento nei casi riconosciuti di AIDS e nei casi di trapiantati dove raggiunge la percentuale di incidenza di 8%. L’aspergillosi porta una mortalità del 100% se la malattia non viene trattata. L’aspergillosi è anche la più comune delle malattie negli uccelli selvatici mantenuti in cattività. Anche se può occor-

rere in tutte le specie aviari ci sono chiaramente predilezioni in alcune specie: i gifalchi, gli astori, le poiane codarossa e le aquile reali sembrano, fra i rapaci, le specie più predisposte a contrarre la malattia. In Middle East l’aspergillosi nei falchi è una malattia frequentemente diagnosticata e, fra i fattori predisponenti, sono considerati la scarsa ventilazione dei locali, lo stress e le avverse situazioni climatiche, specialmente per falchi che sono originari di altre regioni geografiche (girfalchi). Nell’ultima decade la percentuale dei girfalchi e dei loro ibridi è aumentata notevolmente e questi falchi hanno sostituito le specie semiautoctone nella preferenza dei falconieri del Middle East. In un review di 49 casi di aspergillosi di “Abu Dhabi Falcon Hospital” è stata descritta una mortalità di 17/37 (46%) ma il tasso di mortalità sale al 78% (37/47) se consideriamo i soggetti a cui è stata praticata l’eutanasia subito dopo la diagnosi. I limiti delle correnti terapie contro l’aspergillosi includono i problemi di tollerabilità e di nefrotossicità dell’amfotericina B e della scarsa biodisponibilità orale dell’itraconazolo.

Farmacologia Gli azoli sono composti sintetici con uno o più anelli di 5 membri. Essi sono divisi in 2 classi, imidazoli e triazoli, a seconda se ogni anello contiene 2 (imidazoli) o 3 (triazoli) atomi di nitrogeno. Fra gli imidazoli annoveriamo il miconazolo,il ketoconazolo e il clotrimazolo, fra i triazoli il fluconazolo e l’itraconazolo. Una delle maggiori differenze fra i triazoli è che il fluconazolo è solubile in acqua e l’itraconazolo no. Il voriconazolo è il risultato di un programma sintetico per migliorare l’efficacia e lo spettro del fluconazolo. Come tutti gli altri triazol derivati il voriconazolo esercita la sua attività mediante l’inibizione della demitilazione di 14 –alpha-lanosterol da parte dell’enzima P450. Questa inibizione è piu selettiva per le membrane fungine che per i sistemi enzimatici dei mammiferi. L’accumulo di 14-alphamethyl sterod risulta in una diminuzione di ergosterolo, il quale è un essenziale componente della formazione della membrana fungina, e conseguente deplezione del materiale dalla cellula fungina.


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Farmacocinetica Le proprietà farmacocinetiche del voriconazolo sono simili sia dopo somministrazione endovenosa che orale con biodisponibiltà di oltre il 95%. Sono necessarie solo 1 o 2 ore per raggiungere i picchi ematici. Comunque la biodisponibiltà risulta diminuita e il tempo per raggiungere i picchi ematici aumentati quando il voriconazolo è somministrato insieme al pasto. Il Voriconazolo è rapidamente assorbito e virtualmente tutto il medicinale viene metabolizzato dal fegato con il 2% escreto immutato nelle urine. La sua emivita è stata calcolata dalle 6,30 ore fino alle 24 ore.

Indicazioni Il Voriconazolo si è dimostrato efficace in pazienti umani che. erano refrattari o intollerati alle terapie con amfotericina B e con itraconazolo ed in particolare ha dimostrato buona attività contro aspergillosi invasiva in pazienti neutropenici e profondamente immunocompromessi. Nello studio 307/602 una risposta soddisfacente a 12 settimane (completa o parziale risoluzione dei sintomi attribuibili e delle lesioni radiografiche-broncoscopiche) è stata osservata in 53% dei pazienti trattati con voriconazolo rispetto a 32% dei pazienti trattati con amfotericicina b. La sopravvivenza a 12 settimane è stata del 70% nel gruppo con Voriconazolo rispetto a 57% nel gruppo con amfotericina B. In uno studio su modello animale fu instaurata endocardite da aspergillus fumigatus in cavie tramite inoculazione con conidia nella vena femorale Questo modello animale è stato usato per paragonare l’efficacia clinica del voriconazolo rispetto all’itraconazolo. Negli esperimenti di profilassi il voriconazolo al dosaggio di 10 mg/kg fu efficace in quasi tutti gli animali (11 su 12) mentre l’itraconazolo allo stesso dosaggio si dimostrò non curativo (0 su 12). Infine il voriconazolo ha dimostrato eccellente protezione contro l’aspergillosi in ratti immunocompromessi ed ha dimostrato scarsa tossicità quando somministrato agli stessi al dosaggio di 250 mg/kg per 28 giorni. Negli studi umani iniziali il voriconazolo è stato ben tollerato. Fra le reazioni avverse sono state notati transitori disturbi visivi, aumenti degli enzimi epatici e reazioni cutanee.

Materiale e metodi L’obbiettivo di questo studio è stato di valutare l’efficacia clinica del voriconazolo nel trattamento dell’aspergillosi nei falchi. Il protocollo dello studio è stato quello di uno studio non comparativo in uccelli del genus falco con definitiva diagnosi di aspergillosi. La diagnosi di aspergillosi ha previsto: 1) l’evidenza di invasione di tessuti da parte di ife fungine morfologicamente consistenti con Aspergillus. 2) Isolamento di Aspergillus spp da campioni bioptici prelevati dai sacchi aerei. 3) Evidenza di lesioni o placche all’esame endoscopico.

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Per l’inclusione nello studio tutti i casi dovevano rappresentare un nuovo episodio di acuta invasiva aspergillosi. Sono stati esclusi tutti gli uccelli con cronica aspergillosi definita da durata dei sintomi o da lesioni radiologiche presenti da più di 4 settimane. Sono anche stati esclusi tutti i casi che avevano ricevuto sistemica terapia antifungina con itraconazolo o con amfotericina B per più di 4 giorni nelle ultime 2 settimane. Tutti i rapaci inclusi nello studio sono stati ospedalizzati per tutto il periodo della somministrazione del medicinale per annotare eventuali reazioni avverse al medicinale. Gli uccelli trattati nello studio sono stati sottoposti ad endoscopia per il prelievo dei campioni e nella maggioranza dei casi è stata possibile la coltura ed il riconoscimento del tipo di Aspegillus (fumigatus, niger, flavus, terreus, nidulans). Un sistema endoscopico,specificamente designato per uccelli (Karl Storz Veterinary Endoscopy) è stato adoperato in ogni caso. L’endoscopio rigido (telescopio 30 gradi 2,7 mm di diametro) è stato utilizzato all’interno di un canale con passaggio di servizio per pinza bioptica. L’esame endoscopico è stato effettuato al livello dei sacchi aerei toracici caudali e della trachea durante anestesia generale con isoflorano.

Concentrazione minima inibente (MIC) Nel periodo fra ottobre e novembre 2003 sono stati eseguiti nel laboratorio del Dubai Falcon Hospital studi in vitro sulla concentrazione minima inibente nei confronti di 62 isolati di Aspergillus coltivati su Sabouraud agar dopo prelievo dai sacchi aerei in uccelli del genus falco. In particolare sono stati eseguiti studi comparativi sull’efficacia del voriconazolo rispetto all’amfotericina B e all’itraconazolo. In 45 casi su 62 il voriconazolo si è dimostrato il medicinale antifungino attivo alla più bassa concentrazione. Mentre vi sono stati 8 casi di resistenza all’amfotericina B e 4 casi di resistenza all’itraconazolo, solo un ceppo di Aspergillus flavus si è dimostrato refrattario al voriconazolo. Il range e la media della MIC del voriconazolo nei vari ceppi di Aspergillus:

A. fumigatus A. niger A. terreus A. flavus (sensible) A. nidulans

Minimun

Maximun

Mean

0.064 0.094 0.023 0.094 -

0.38 1 0.38 1 -

0.23437 0.43828 0.23546 0.3505 0.047

Falchi Fra Gennaio 2003 and Marzo 2004, 25 falchi con diagnosi di aspergillosi sono stati trattati con Voriconazolo. 15 degli uccelli (60%) erano femmine and 10 (40%) maschi. 23 falchi (92%) erano giovani sotto 1 anno di età and 2 (8%) erano gli adulti. Tutti appartenevano a Order Falconiformes, Familia Falconidae.


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Specie Girfalco (Falco rusticolus): 6/25 (24%) Pellegrino (Falco peregrinus): 3/25 (12%) Lanario (F. biarmicus): 1/25 (4%) Red-naped shaeen (F. pelegrinoides babylonicus): 1/25 (4%) Sacro (F. cherrug): 1/25 (4%) Ibrido Girfalco/Sacro (F. rusticolus x F. cherrug): 3/25 (12%) Ibrido Girfalco/pellegrino (F. rusticolus x F. peregrinus): 7/25 (28%) Ibrido Girfalco/Red-naped shaeen (F. rusticolus x F. pelegrinoides babylonicus): 1/25 (4%) Ibrido Girfalco/lanario (F. rusticolus x F. biarmicus): 2/25 (8%)

Esame clinico Tutti gli uccelli sono stati sottoposti ad esame fisico completo e inoltre ad esami parassitologici, endoscopici, radiologici ed ematologici. At momento della presentazione, le malattie concomitanti erano: • Coccidiosi 7 /25 • Ascaridiasi 2/25 • Trematodi2 /25 • Teniasi 1/25 • Serratospiculiasi 4/25 • Candidiasi 4/25 • Pododermatite 1/25 I segni clinici al momento della presentazione includevano perdita di peso (5/25), Inappetenza(3/25), dispnea (2/25), rumore inspiratorio (1/25), tachipnea (5/25) e biliverdinuria (2/25). I problemi ematologici comprendevano leucocitosi (20/25), eterofilia (20/25), eterofili tossici (1/25), linfociti reattivi (4/25), limfocitosi (1/25), monocitosi (1/25), leucopenia (1/25). 2 falchi su 25 presentavano elevazioni degli enzymi epatici. Anomalie radiologiche erano presenti in 14/25 birds (56%).

Trattamento Voriconazolo è stato somministrato come segue: Dose orale Per le prime 72 ore (Dose di carico)

12.5 mg/kg ogni 12 ore per 3 giorni

Dose dopo le prime 72 ore (Dose di mantenimento)

12.5 mg/kg una volta al giorno

Il trattamento è stato somministrato in un range da 18 giorni to 108 giorni (media di trattmento 49.8 giorni). Il Voriconazolo è stato diluito in acqua (compressa di 50 mg in 5 ml of acqua) e somministrato tramite crop gavage al minimo 1 ora prima del pasto.

Addizionale topico trattamento è stato acquisito tramite nebulizzazione in 15/25 uccelli, mentre 10 falchi hanno ricevuto solo il trattamento orale. La nebulizzazione è stata compiuta con amfotericina B (6/25), with F10 (nome commerciale) (5/25) o con voriconazolo (4/25). La nebulizzazione è stata provvista una volta al giorno per 60 minuti. In 14/25 casi l’endoscopista ha compiuto pulizia chirurgica, rimovendo i granulomi con pinza da biopsia, dai sacchi aerei e dai polmoni. In 5 di questi 14 casi chirurgici, è stata applicata. irrigazione con voriconazolo. Il voriconazolo per nebulizzazione e per irrigazione è stato VCZ formulazione intravenosa (10mg/ml), diluendo 25mg di voriconazolo (2.5 ml of IV solution) in 20 ml of NaCL2. Dopo il debris chirurgico è stata somministrata antibiotico-terapa con marbofloxacin (7/14), amoxicillin (3/14), trimethoprim/sulphadiazine (2/25). Durante il corso del trattamento 4 uccelli hanno sviluppato aersacculite batterica secondaria dopo l’endoscopico debris. 1 falco ha sviluppato moderata amiloidosi epatica (dati da biopsia del fegato durante esame endoscopico) e un altro falco ha avuto problema di lesioni da geti al metatarso che ha richiesto antibiotico-terapia.. Terapia fluida parenterale e alimentazione forzata è sono stati dispensati a 2/25 falchi con segni clinici.

Risultati Gli uccelli con aspergillosi inattiva o cronica sono stati identificati ed esclusi dallo studio. I falchi inclusi nello studio sono stati sottoposti a controlli quindicinali che hanno previsto visita clinica, esame radiografico, esame endoscopico, esame ematologico, profilo biochimico, esame citologico e colturale. La completa risoluzione della malattia ha previsto l’assenza di sintomi attribuibili all’aspergillosi, colture o citologie negative e completa risoluzione delle anormalità endoscopiche o radiografiche. Inoltre è stato richiesto il ritorno nel range di normalità dell’esame ematologico. La risposta parziale ha previsto la quasi completa risoluzione dei sintomi e per lo meno il 70% di miglioramento delle anormalità radiografiche o endoscopiche. Fallimento della terapia ha previsto evidenza di deterioramento delle lesioni dopo la terapia e cosi anche la precoce discontinuazione per anormali test epatici o per intolleranza al medicinale. Efficacia del Voriconazolo come primaria terapia Completa risposta Parziale risposta Fallimento

19/25 (76%) 4/25 (16%) 2/25 (8%)

Discussione Problemi visivi sono stati riportati in studi umani. Queste anomalie oculari sono state rappresentate da visione diminuita e da fotofobia.Nel nostro studio noi non siamo stati


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in grado di identificare disturbi oculari nei soggetti ma comunque è preferibile non usare iI voriconazolo in fachi che sono in periodo di volo.Il voriconazolo ha alcuni distinti benefici rispetto agli altri medicinali antifungini. Ha una buona bidisponibilità orale ed ha un eccellente attività contro molteplici ceppi di Aspergillus che sono resistenti ad altri farmaci. Comunque, il voriconazolo ha anche significanti effetti tossici ma la maggioranza di questi sono simili a quelle degli altri triazol-derivati e in particolare non minacciano la vita del paziente. Studi umani e anche il nostro sui falchi, suggeriscono che spontanee varianti di Aspergillus resistenti al voriconazolo possono emergere sotto pressione farmacologica e, nella opinione degli autori, questo medicinale non andrebbe mai usato in protocolli di profilassi dell’aspergillosi in falchi.

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Conclusioni 1) Il Voriconazolo è efficace nel trattamento dell’aspergillosi nei falchi. 2) Il Voriconazolo ha una buona attività contro l’aspergillus in falchi sottoposti a stress ed in uccelli immunocompromessi. 3) Il Voriconazolo è ben tolllerato dai falchi con poche reazioni avverse. Bibliografia disponibile su richiesta al relatore

Indirizzo per la corrispondenza: Antonio Di Somma, Falcon Hospital, PO Box 23919, Dubai, United Arab Emirates – antonio.disomma@dfh.ae


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Caso dermatopatologico Fabrizio Fabbrini Med Vet, Dipl CES Derm, Milano

Luca Mechelli Med Vet, Perugia

Segnalamento: Siberian Husky di circa cinque anni.

Esame dermatopatologico:

rale alla terza palpebra destra.

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Definizione dei problemi dermatologici:

Trattamento proposto:

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Anamnesi: il cane presenta aree eritematose depigmentate sul tartufo estese successivamente anche alle labbra. La somministrazione di antibiotici (amoxi/clav a 22 mg/kg bid) e di integratori a base di zinco, non ha portato giovamento. Il cane riceve una dieta mista, durante il giorno vive all’aperto assieme a un altro cane, mentre di notte viene ricoverato in casa.

Esame clinico: E.O.G.: presenza di lesione monolate-

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrizio Fabbrini Clinica Veterinaria Papiniano Viale Papiniano 50, 20123 Milano mail: clinvetpapiniano@tisca.it


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Approccio clinico diagnostico al prurito nel gatto Fabrizio Fabbrini Med Vet, Dipl CES Derm, Milano

Premesse Il prurito nella specie felina è un segno clinico suggestivo non solo delle ectoparassitosi, o delle patologie allergiche ma anche di molte altre malattie come infezioni micotiche, batteriche, virali, malattie autoimmuni, neoplastiche e disturbi comportamentali. Il gatto reagisce allo stimolo “pruriginoso” con diversi quadri clinici, sebbene nessuno di questi sia indicativo di una causa precisa: La dermatite miliare, data da piccole papulo-croste rilevabili passando le mani sul mantello dell’animale, interessa l’addome, il tronco il collo e la testa. Spesso è riconducibile ad un’allergia alla puntura di pulci (DAP), a cheylettiellosi, o ad altre malattie come la dermatofitosi. L’alopecia auto-indotta dovuta al continuo leccamento, mordicchiamento o strappamento del mantello da parte dell’animale, è spesso simmetrica e interessa l’addome, i fianchi, il torace, gli arti e la coda. Il gatto spesso si lecca quando è solo o quando il proprietario non lo osserva, per tale motivo è fondamentale accertarsi che l’alopecia sia effettivamente auto-indotta strappando alcuni peli e osservandoli al microscopio: le punte risulteranno danneggiate ed i fusti spezzati alla stessa altezza. È associata a DAP, a reazione avversa al cibo, a dermatite atopica, alla presenza di parassiti e a disturbi comportamentali. Le lesioni del “Complesso Granuloma Eosinofilico”: attualmente si pensa che siano nella maggior parte dei casi riconducibili a reazioni d’ipersensibilità alle pulci, agli alimenti o ad allergeni ambientali, anche se, almeno per quanto concerne l’ulcera indolente ed il granuloma eosinofilico, in alcuni soggetti è stata riconosciuta una predisposizione genetica. La placca eosinofilica di solito è intensamente pruriginosa ed interessa nell’80% dei casi la faccia mediale della coscia, anche se può essere osservata a livello del collo, dell’addome e della regione perineale. È spesso associata, come il granuloma eosinofilico, ad eosinofilia. L’ulcera indolente si osserva a carico del labbro superiore: le lesioni bilaterali sono spesso dovute ad infezioni batteriche e rispondono bene al trattamento antibiotico. Il granuloma eosinofilico è caratterizzato dalla presenza di noduli, talvolta ulcerati e con foci biancastri in sede facciale, podale o intraorale; oppure da lesioni nodulari lineari lungo gli arti posteriori. Sono lesioni che richiedono una conferma istopatologica, sono spesso asintomatiche e difficili da correlare alla causa scatenante. Sono comunque segnalati casi di risoluzione spontanea.

Il “prurito localizzato alla testa ed al collo” è caratterizzato dalla presenza di escoriazioni, ulcere profonde, edema, ispessimento cutaneo e croste localizzate nelle aree raggiungibili dagli arti posteriori. Spesso associata a reazioni avverse al cibo, a parassiti (otodectes, demodex, notoedres, trombicula) a dermatite atopica, oppure a malattie autoimmuni (pemfigo foliaceo/eritematoso), malattie virali (pox, herpes) batteriche o fungine. Il prurito spesso è intenso, non stagionale e risponde poco alla terapia cortisonica.

Raccolta dati anamnestici Le informazioni che si ottengono dal proprietario, devono comprendere come minimo la durata del problema, se questo è stagionale, se il paziente esce, se convive con altri animali, che tipo di dieta e di “extra” riceve, se è esente da FIV-FeLV e se è sottoposto regolarmente a profilassi antipulci. L’età, razza e stile di vita: le malattie infestive contagiose come ectoparassitosi, dermatofitosi, infezioni virali, sono frequenti in cuccioli o in giovani adulti specie se provengono da negozi/allevamenti o hanno la possibilità di uscire all’aperto (con ulteriore rischio di esporsi a punture d’insetto, al contatto con sostanze irritanti, e ad ascessi o infezioni FIV-FeLV trasmesse da randagi). Gatti timidi/caratteriali che subiscono le eccessive attenzioni di bambini, un cambio d’abitazione, la perdita di un componente della famiglia o l’introduzione nell’ambiente di nuove persone o nuovi animali, sono candidati a sviluppare disturbi comportamentali. Le malattie allergiche esordiscono tra i sei mesi e i tre anni d’età, le malattie autoimmuni in gatti adulti e le malattie neoplastiche per lo più negli anziani. I gatti persiani sono predisposti alla dermatofitosi e alla seborrea facciale mentre i gatti siamesi, burmesi e abissini ad alopecia autoindotta su base comportamentale. Presenza concomitante di problemi non dermatologici: diarrea correlabile a reazioni avverse al cibo o alla presenza di una teniasi (a testimoniare la presenza di pulci); infezioni respiratorie correlabili a herpesvirosi. Risposta a terapie pregresse: a seguito del cortisone, la scomparsa del prurito e delle lesioni suggerisce una causa allergica, mentre la persistenza o l’aggravarsi delle lesioni è riconducibile ad altre malattie (infettive, parassitarie,..); l’improvviso aggravarsi del quadro clinico a seguito di terapia sistemica (es. antibiotici) o topica (otologici, antifungini,..) è correlabile a reazioni da farmaco o a reazioni irritative allergiche da contatto.


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Esame clinico Tramite l’esame obiettivo generale si valuta la presenza di segni clinici riconducibili alla presenza di malattie sistemiche (infettive, metaboliche, autoimmuni, neoplastiche) correlabili ai problemi dermatologici. L’esame dermatologico permette di valutare la distribuzione, il tipo di lesioni presenti e correlarli alle possibili diagnosi differenziali: l’alopecia ventrale all’addome/inguine/ arti (DAP), l’alopecia ventrale/fianchi/arti/coda (psicodermatosi); lesioni erosivo-ulcerative a testa e collo (malattie allergiche, parassitarie, virali, batteriche, autoimmuni, neoplastiche); lesioni nodulari facciali (punture d’insetto, infezioni, neoplasie). Il prurito incoercibile a testa e collo è spesso associato a ectoparassitosi (notoedres, otodectes), malattie allergiche (DA, RAC), infezioni virali (herpes, pox); se stagionale a ipersensibilità a pollini, pulci, zanzare.

Esami preliminari Nei gatti è sempre indicato eseguire esami micologici completi (wood, esame tricoscopico e colturale fungino) specie in presenza d’alopecia e dermatite miliare. I raschiati e l’esame con nastro adesivo da aree alopeciche o da papule, sono necessari per la ricerca di ectoparassiti, mentre l’esame citologico per apposizione da lesioni essudative, tramite cotton fioc da pliche facciali/ ulcere/condotto auricolare, e tramite ago fine da lesioni nodulari, permette d’identificare la presenza d’infezioni batteriche/ fungine o di suggerire la presenza di malattie autoimmuni o neoplastiche (indicando la biopsia come esame da eseguirsi nell’iter diagnostico).

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agli animali conviventi. Se il paziente presenta grave disagio per il prurito è consigliabile trattarlo anche con prednisolone (1-1,5 mg/ kg/ bid) per sette dieci giorni. Il passo successivo, in assenza di risposta dopo 8 settimane e mantenendo comunque la profilassi contro le pulci, prevede l’uso di una dieta a eliminazione industriale idrolizzata o casalinga (composta da una fonte proteica mai assunta prima es. a base di carne di maiale) per almeno 8-10 settimane. Nel caso non si noti miglioramento, è possibile fare un altro tentativo utilizzando una nuova dieta a eliminazione ed eseguire delle biopsie, specie se presenti lesioni nodulari, ulcerative crostose ed alopeciche (diagnosi di follicolite murale, d’infezioni virali, di neoplasie,..). Quando la dieta ad eliminazione ed il controllo degli ectoparassiti e delle pulci, non permettono di ottenere risultati, si ipotizza per esclusione, la presenza di una dermatite atopica o di una psicodermatosi. Le alternative possibili sono l’esecuzione di test allergologici (intradermoreazioni e test sierologici in vitro) e di una terapia desensibilizzante, l’esecuzione di una terapia farmacologia del prurito, oppure l’intervento di un veterinario comportamentalista.

Riferimenti bibliografici 1. 2.

3. 4.

5.

Iter diagnostico Il primo passo prevede sempre, per eliminare possibili ectoparassitosi, l’uso di selamectina (6 mg/kg) o di ivermectina (0,25 mg/kg) ogni due settimane per almeno tre applicazioni. Sospettando una possibile DAP, è preferibile utilizzare inizialmente anche l’imidacloprid o il fipronil ogni due settimane per almeno quattro volte, iter da applicarsi anche

Guaguére E, Prélaud P. A practical guide to Feline Dermatology. Merial ed. 1999 Hargis AM, Ginn PE, Mansel J, Garber RL: Ulcerative facial and nasal dermatitis and stomatitis in cats associated with feline herpesvirus 1. Vet Dermatolology, 1999, 10: 267-274. Moriello K, Mason I: Handbook of Small Animal Deramatology. 1th ed. Pergamon: Oxford, 1995. Roudebush P, Hypoallergenic diets for Dogs and Cats. In: Bonagura JD, ed: Current Veterinari Therapy XIII. Philadelphia: WB Saunders, 2000, 530-535. Scott DW, Miller WH, Griffin CE: Muller and Kirk’s Small Animal Dermatology, 6th ed. WB Saunders: Philadelphia, 2000.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabrizio Fabbrini Clinica Veterinaria Papiniano, Viale Papiniano 50, 20123 Milano mail: clinvetpapiniano@tisca.it


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Patologie spleniche dal punto di vista del clinico e del patologo Sergio Fanfoni Med Vet, Roma

Pierluigi Fant Med Vet, Dipl DESV ana-path, Padova

La milza è un organo impari annesso all’apparato circolatorio e svolge una funzione importante nella difesa dell’organismo in quanto organo linfoide secondario. Ha un ruolo importante nella regolazione della pressione sanguigna, nell’attività emocateretica, nell’immagazzinamento del ferro. Nel feto presenta una funzione emopoietica; nell’adulto l’attività ematopoietica è assente in condizioni fisiologiche ma può essere riassunta in certe condizioni patologiche. La struttura istologica riconosce una precisa organizzazione tridimensionale: è delimitata da una capsula fibro-elasticomuscolare dalla quale originano delle trabecole d’identica costituzione che ramificandosi danno origine ad un esile stroma reticolare che sostiene il parenchima splenico o lienale. Quest’ultimo è costituito dalla polpa rossa e dalla polpa bianca. La prima costituisce la maggior parte della polpa lienale ed è formata dai seni venosi e dai cordoni lienali o di Billroth. I seni venosi sono ampie lacune vascolari intercomunicanti, rivestite da cellule endoteliali allungate sostenute da una membrana basale e da fibre reticolari. Situati tra i seni venosi, i cordoni lienali presentano una delicata impalcatura tridimensionale di fibre reticolari tra le quali si osservano vari elementi cellulari (c. reticolari, eritrociti, macrofagi, linfociti, monociti). La polpa bianca è costituita dal tessuto linfatico disposto in formazioni nodulari e manicotti peri-vascolari (guaine linfatiche peri-arteriose) infiltranti la tonaca avventizia dei vasi e sostenuti da un’impalcatura di fibre reticolari in intimo rapporto con linfociti e plasmacellule. A seconda dello stadio funzionale i noduli lienali possono presentare oppure no un centro germinativo. Tale tessuto linfatico peri-vascolare si sviluppa attorno alle arterie pulpari che si continuano con le arteriole centrali le quali terminano in ciuffi di arteriole terminali a decorso rettilineo denominate arteriole penicillari: ognuna di esse si prolunga mediante un rigonfiamento fusiforme (capillare con guscio o ellissoide) a livello del quale il lume si restringe e la muscolatura viene rimpiazzata da fibre e cellule reticolari e macrofagi. Al di là dell’ellissoide la parete si riduce ad un’assisa di cellule endoteliali ed infine si apre nella polpa rossa. Non c’è ancora accordo se esista una reale continuità del rivestimento endoteliale tra terminazioni delle arteriole penicillari e seni venosi o se invece l’endotelio si interrompa all’estremità dei capillari e il sangue resosi libero circoli nei cordoni raggiungendo i seni attraverso le soluzioni di continuità del rivestimento di questi ultimi.

Le patologie spleniche del cane e del gatto si manifestano con segni clinici spesso poco specifici come anoressia, debolezza, dolore, distensione addominale, vomito ed altri ancora meno frequenti come il tenesmo fecale o la poliuria/polidipsia. In considerazione di ciò un approccio quanto più possibile sistematico è di aiuto nella diagnostica di tali patologie. L’anamnesi può essere utile in caso di viaggi o permanenza in aree endemiche per patologie infettive trasmesse da artropodi come causa di splenomegalia o ad esempio in caso di traumi come causa di ematomi o rotture dell’organo e conseguente debolezza dovuta all’emorragia. Il segnalamento è altrettanto importante: ad esempio è segnalata un alta incidenza del’emangiosarcoma nel pastore tedesco; anche l’età è importante in caso di sospette paratopie (es. ernie peritoneo pericardio diaframmatiche). L’esame fisico in caso di sospetta patologia splenica non deve limitarsi alla palpazione dell’organo, utile esclusivamente in caso di aumento delle dimensioni dell’organo, ma anche all’osservazione delle mucose che possono presentarsi pallide in caso di emorragia, itteriche in caso di emolisi o con petecchie nel caso di alterazione dell’emostasi. Anche gli altri organi linfatici devono essere palpati in quanto la splenomegalia è spesso accompagnata da linfoadenomegalia. L’esame emocromocitometrico è fondamentale nelle patologie spleniche o comunque in malattie che comportino un coinvolgimento dell’organo: il rilevamento di blasti linfoidi o mieloidi in circolo può essere diagnostico di una neoplasie emolinfatice in fase leucemica nel corso delle quali si può rilevare coinvolgimento sia focale che diffuso dell’organo; la pancitopenia è frequente sia in corso di patologie infettive come l’ehrlichiosi cronica nel cane che nelle retrovirosi del gatto malattie nelle quali la milza è frequentemente megalica; inoltre è possibile visualizzare direttamente gli agenti infettivi come babesia o emobartonella. Di fondamentale importanza è la diagnostica per immagini radiografica e soprattutto ecografica. Quest’ultima tecnica permette la conferma di lesioni diffuse o localizzate dell’organo. In alcuni casi come nella torsione di milza l’ecografia permette una diagnosi rapida e la possibilità di un rapido intervento. Anche la visualizzazione di trombosi venose è una possibilità quasi esclusiva dell’esame ecografico ancor più se associato ad uno studio doppler. Tuttavia eccetto questi casi la diagnostica ecografica non permette di emettere una diagnosi di certezza poiché nessun aspetto


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ecografico è patognomonico di un unica patologia. Anche la visualizzazione di lesioni a complex mass non deve spingere a commettere l’errore di diagnosticare una neoplasia vascolare maligna vista la possibilità di diagnosi differenziale con gli emangiomi, gli ematomi e gli ascessi. L’esame ecografico risulta fondamentale per l’esecuzione di prelievi ecoguidati per la conferma della diagnosi. La biopsia ecoguidata ha una sensibilità diagnostica bassa mentre decisamente più elevata è la possibilità di ottenere risposte con un prelievo ad ago sottile da eseguire nelle aree parenchimatose nel caso di lesioni focali e soprattutto cercando di evitare le zone a contenuto liquido e quindi più probabilmente necrotiche dove la possibilità di eseguire un prelievo diagnostico è nettamente inferiore. È importante valutare la capacità coagulativa prima di eseguire l’esame e controllare il soggetto nelle ore successive all’aspirazione. Una nota di rilievo merita il mastocitoma splenico, la patologia più frequente in grado di provocare splenomegalia nel gatto; in caso di sospetto è bene considerare la procedura di aspirazione molto più rischiosa rispetto ad altre patologie per la possibilità di liberazione di sostanze vasoattive. Alla luce di quanto scritto è chiaro come sia fondamentale eseguire un esame istologico preferibilmente dopo asportazione dell’organo per poter emettere una diagnosi di certezza. Allorché si riscontrino dei quadri di splenomegalia e si proceda alla splenectomia, è necessario valutare l’aspetto macroscopico dell’organo (splenomegalia uni-multinodulare o diffusa) e delle lesioni: i maggiori rischi diagnostici sono generalmente riferibili alla distinzione tra ematomi ed emangiosarcomi per la frequente presenza in entrambi di aree emorragiche e necrotiche e per la difficoltà nell’esecuzione di un corretto campionamento. In tali casi si impone un’esame ispettivo accurato del tessuto anormale e la scelta di aree non necrotiche ai fini di un esame istologico. La milza può presentare svariate alterazioni strutturali; si distinguono: Alterazioni cadaveriche: presenza di chiazze blu-verdastre a livello della capsula in corrispondenza delle aree di contatto con stomaco e intestino oppure un rammollimento-enfisema-autolisi riferibili a fenomeni degradativi post-mortem. Alterazioni congenite: agenesia (asplenia, evento raro), eterotopia toracica, presenza di incisure, lobature, milze accessorie a livello del leg. gastro-lienale, dell’omento, del peritoneo, del pancreas. Processi regressivi: atrofia, infiltrazione amiloidotica, patologie da accumulo (tesaurismosi), emosiderosi, placche sidero-fibrotiche-calcaree, necrosi. Alterazioni di posizione: torsione, rotazione, ptosi. Alterazione dell’integrità: rottura post-traumatica, conseguente a distensione per flogosi, infiltrazione tumorale e non.

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Disturbi circolatori: congestione-iperemia passiva (milza da stasi in corso di ostacolo al deflusso venoso) o attiva (in corso di infiammazione) con conseguente infarcimento emorragico; ematomi, infarti. Emopoiesi extra-midollare o metaplasia mieloide. Infiammazione: splenite iperemico-emorragica, iperplastica, purulenta, necrotizzante, cronica, granulomatosa, in corso di parassitosi. Noduli d’iperplasia linfoide. Alterazioni neoplastiche. Gli studi sulla patologia splenica rivelano una frequenza variabile delle forme neoplastiche. Nel cane spiccano per frequenza i tumori vascolari (rappresentati principalmente dall’emangiosarcoma) mentre le neoplasie mesenchimali fuso-cellulari (fibrosarcoma, istiocitoma fibroso maligno, leiomiosarcoma, sarcomi indifferenziati) e le neoplasie rotondo-cellulari (linfoma, mastocitoma, istiocitosi etc) sembrano essere relativamente meno frequenti. Al contrario, nel gatto1 risultano più frequenti le neoplasie a cellule rotonde (mastocitoma e linfoma). Recentemente sono stati descritti nel cane i noduli fibro-istiocitiari quale nuova entità patologica splenica2,3: si tratterebbe di ammassi nodulari macroscopicamente evidenziabili e di dimensioni variabili, la cui analisi cito-istologica rivela la presenza di elementi linfoidi e fibroblastico-istiocitari, in percentuali variabili ed associati ad aree emorragiche o necrotiche. Per questa costituzione cellulare tale lesione si pone al limite tra una proliferazione linfoide nodulare di tipo iperplastico (non tumorale) ed una neoplasia mesenchimale (istiocitoma fibroso maligno).

Bilbiografia 1.

2.

3.

Spangler WL e Culbertson MR (1992), Prevalence and type of splenic diseases in cats: 455 cases (1985-1991), J Am Vet Med Assoc, 201: 773-776. Spangler WL e Hass PH (1998), Pathologic and prognostic characteristics of splenomegaly in dogs due to fibrohistiocytic nodules: 98 cases, Vet Pathol 35: 488-498. Bettini G, Mandrioli L, Brunetti B, Marcato PS (2001) Canine splenic pathology; a retrospective study of 109 surgical samples, with special emphasis on fibrohistiocytic nodules. Eur. J Vet Pathol, 7(3): 101-109.

Indirizzo per la corrispondenza: Sergio Fanfoni Ambulatorio Veterinario Santa Cristina 464, 52048 Monte San Savino Arezzo, tel. 0575/810574 e-mail: fanfoni@ntc.it Pierluigi Fant Laboratorio d’Analisi Veterinarie “San Marco” Istopatologia, Via Sorio 114/c, 35141 Padova, tel. 049 8561039 fax 02 700518888, e-mail: plf@sanmarcovet.it


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Anestesia nella chirurgia toracica Emilio Feltri Med Vet, Castelnuovo Scrivia (AL)

Introduzione Le condotte anestesiologiche in chirurgia toracica hanno subito nell’’arco di questi ultimi anni molti affinamenti di pari passo con il progresso della tecnica chirurgica stessa. Si sono affrontati temi quali la ventilazione controllata, la capnografia, la cinetica dei gas e loro compartimentazione, il blocco neuromuscolare ed il suo monitoraggio, le tecniche di analgesia generali e loco regionali, la TIVA(Anestesia Totalmente Intravenosa) ed infine proprio in questo congresso la ventilazione monopolmonare. Ritengo quanto mai indispensabile la presenza di uno specialista in questa particolare chirurgia dove l’asse chirurgo-anestesista se affiatato può veramente determinare la differenza tra vita e morte del paziente.

Condotta Preoperatoria Gioca un ruolo fondamentale nelle scelte delle tecniche da adottare e nella loro riuscita. Forse la sola distinzione conosciuta di “ASA Status” per questo tipo di paziente è un po’ limitante, ritengo per questo utile accompagnarla ad un’altra scala di rischio rapportata al tipo di chirurgia cui il paziente è sottoposto (Ernia diaframmatici, risoluzione di bolla toracica, lobectomia parziale totale…) ed alle condizioni dei distretti respiratorio e cardiocircolatorio del soggetto. Ottenere quest’ulteriore classificazione tramite esami strumentali quali emogasanalisi, spirometria, radiografie, ecografie, tac, citologia dell’espettorato.. facendoli quasi di routine in questi casi. Cercare segni di patologia broncopolmonare cronica ostruttiva e non; quindi segni di ipertensione polmonare (ipertrofia ventricolare destra, soffio sistolico di eiezione polmonare...). Conoscere insieme al chirurgo la tecnica adottata, la vicinanza a sedi vascolari o nervose importanti durante la pratica ed i rischi chirurgici intra e postoperatori completeranno il quadro mosaico che ci guiderà alla classificazione del paziente. Esempi potrebbero essere: • Paziente di Livello 1: Asa 2 intervento di scarsa difficoltà e piuttosto routinario in soggetto con buoni valori di tensione arteriosa d’ossigeno e d’anidride carbonica. (Ernia diaframmatica modesta poco sintomatica compensata).

• Paziente di Livello 2: Asa 3 intervento ancora non difficile e routinario oppure Asa 2 ma chirurgia difficile per sede (vicino al vago) e non più di routine. • Paziente di Livello 3: Asa 4 fortemente dispnoico scompensato chirurgia per Romanelli..anestesia per Moens.Questo per tracciare l’identikit di questo paziente come uno con saturimetria al 75% tensione arteriosa della Co2 pari a 85 mmhg, polipnoico.(Pneumotorace iperteso a valvola… neoplasie… ascesso rotto in torace). La chimica della fase preoperatoria o sedazione del paziente dipende quindi dal livello assegnato al soggetto anche se tuttavia non capirei l’uso di molecole con latenze lunghe che possano deprimere la funzionalità respiratoria e cardiovascolare. L’uso di farmaci quali le fenotiazine in questi frangenti è a mio avviso discutibile. Sicuramente è auspicabile la preossigenazione del paziente se questo non lo agita troppo rendendolo un paziente troppo pericoloso per se stesso. Metodiche quali il Flow BY od il collare ad ossigeno sono talvolta più tollerate della maschera o della camera ad ossigeno. Naturalmente Scegliere frazioni inspirate d’ossigeno elevate in questa fase 80-100%. Ovviamente la preossigenazione assume maggior importanza in pazienti con scambio ridotto d’ossigeno e paO2 sotto la soglia fisiologica. L’uso di molecole quali oppiacei come il Butorfanolo o La Morfina in questa fase può esser strategicamente vantaggioso secondo il caso per il loro potere analgesico (Preemptive Analgesia) ma anche antitussigeno (vedi Butorfanolo) nonché per far sopportare meglio l’ipossia ai tessuti molto vascolarizzati come il cervello. La somministrazione di fluidi può talvolta cominciare già in questa fase.

Condotta Intraoperatoria Siamo giunti all’induzione intubazione e mantenimento del soggetto durante la chirurgia. Il segreto è nel rispettare l’obiettivo e l’obiettivo principale in anestesia per torace aperto è: garantire un adeguata ventilazione. L’induzione in questo paziente è di norma velocissima in modo da gestire al più presto la sua ventilazione per influire positivamente sulla respirazione esterna (Alveolare) ed interna (Cellulare).


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La chimica dell’induzione può trovarsi a secondo del caso nell’uso di un bolo di propofol o di tiopentale o di ketamina o di ketamina e benzodiazepina preceduto dalla somministrazione di un oppiaceo agonista puro quali fentanil o sufentanil alternato alla somministrazione di una benzodiazepina nella logica della neuroleptoanalgesia. La metodica della neuroleptoanalgesia rispetta molto la funzionalità circolatoria influenzandola al minimo ma sopratutto l’uso delle benzodiazepine in associazione all’oppiaceo produce un aumento dell’altrimenti scarso effetto ipnotico degli oppiacei. L’uso del propofol quale induttore in questi pazienti va ben soppesato poiché susseguendo il fentanil che ne rallenta la clearance aumenta del 50% la sua concentrazione plasmatica (quindi usare dosi ridotte per indurre)producendo apnea di lunga durata. Ora, questo potrebbe alla luce di ciò che dovremo fare non essere un problema ma il vero problema potrebbe esser il sinergismo tra propofol e fentanil nel loro effetto vagotonico con comparse di blocco atrioventricolare e asistolia (Dornigton K.L. Asistolye after subanestetic dose of propofol and fentanil aa, 658 1989 Anaestesia). Mia opinione che l’uso del barbiturico in molti di questi pazienti è utile nell’’induzione con minor effetti collaterali rispetto ad altri ipnotici. Non in ultimo ricordo che anche la stessa benzodiazepina può essere talvolta usata quale induttore specialmente in pazienti molto critici midazolam, atracurium besilato intubazione fentanil ed alogenato; protocollo per mani più esperte sicuramente. Dunque ora si deve mantenere il soggetto in anestesia ed analgesia durante la chirurgia e l’obiettivo rimane garantire un adeguata ventilazione. Ecco dunque la necessità della ventilazione controllata a pressione positiva eseguita ovviamente da un ventilatore. Non aspettare l’apertura del torace per iniziare la ventilazione meccanica ma iniziare al più presto vincendo le resistenze del paziente con l’uso di un bloccante neuromuscolare (preferibile) o di un bolo d’oppiaceo o con l’iperventilazione e la susseguente ipocapnia ed apnea.

Scegliere un volume corrente o tidalico di 10-5 ml/kg e 10-20 atti respiratori a compiere una ventilazione con pressioni non superiori a 18cm di h20 a torace chiuso e 10 cm di h20 a torace aperto. Mantenere normocapnico l’alveolo (40 mmhg etco2) ed un valore di saturimetria del 99%. A questo punto per il mantenimento dell’ipnosi si potrà ricorrere all’uso d’alogenati: isoflorano con dosi non superiori ad 1mac anzi direi che l’obiettivo sarà quello di mantenere l’alogenato a circa mezza mac (0,8etiso); alle infusioni di fentanil e ketamina per il controllo dell’analgesia. Altra tecnica di mantenimento che dobbiamo ricordare in questo tipo di paziente e la TIVA o anestesia totalmente intravenosa con l’infusione simultanea di ipnotici, sedativi, bloccanti neuromuscolari, ketamina, oppiacei, tecnica molto specialistica ed adatta a mani superesperte di difficile controllo adattissima a tutti quei pazienti dove l’uso di isoflorano è assolutamente sconsigliato. Brevemente poi ricordo l’uso di apparecchi di monitoraggio in questa fase intraoperatoria. La scala valore degli strumenti potrebbe essere in questa chirurgia: Spirometria, analisi multigas, pressione arteriosa, pressione venosa centrale, spo2, ecg, Tof(train of four).Tuttavia molto dipende dal livello di rischio paziente e per questo potete consultare la tabella sotto riportata (Tab. 1). Il monitoraggio del Spo2 è in questo paziente spesso più affidabile di quello della co2 nel determinare la % di shunts polmonare che si sta avendo. Spesso in questa chirurgia il paziente è posto in decubito latero- laterale con il verificarsi che il polmone gravitario sarà molto per fuso e poco ventilato per contro quello antigravitario sarà ipoperfuso e molto ventilato.Se a ciò associamo un calo dell’attività compensatoria della vasocostrizione ipossica la situazione non sarà facile ed andremo incontro ad alta percentuale di deviazione polmonare con conseguente desaturazione. Infine mantenere buone pressioni arteriose medie significa non altera il rapporto ventilazione perfusione che guida un’efficiente ventilazione, respirazione, anestesia, equilibrio neurovegetativo… quindi un successo garantito.

Tabella 1 Monitoraggio

Macchina anestesia

O2

APNEA

VENTIL

SCAMBI

MECCANICA VIE AEREE

CARDIO CIRCOL

MIORISOLUZIONE

TEMP

Livello 1

Check list completa

Fio2 Feo2

Stetoscopio esof Ecto2

Stetoscopio esof Ecto2 Borsa resp torace

Colore sangue TRC ECTO2 SPO2

Stato esof, tattilità sulla borsa

Freq Press Ecg Ecto2

Clinico

Sonda esof

Livello 2

Check list completa

Fio2, Feo2

Vedi sopra + D-E-G-F

Vedi sopra + SPIROMETRIA

Vedi sopra + Emogasanalisi

Vedi sopra + Tutta la spirometria

Vedi sopra + Press invas Bilancio elettrolitico

TOF

Vedi sopra

Livello 3

Check list completa

Fio2, Feo2

Vedi sopra

Vedi sopra

Vedi sopra + I/EO2

Vedi sopra + Compliance e resistenza

Vedi sopra

TOF

Vedi sopra


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Condotta Postoperatoria Il periodo postoperatorio comprende il risveglio e la fase immediatamente a seguire per almeno le prime ventiquattro ore post chirurgiche. In genere in questo periodo si controlla soprattutto il dolore che in questa fase si arricchisce della componente emozionale della percezione dello stesso. Innanzi tutto il risveglio deve esser tranquillo in assenza di spasmi o tosse per cui l’utilizzo di farmaci che ci possono aiutare in tal senso sono auspicabili (butorfanolo). Estubare il paziente non al masticare il tracheotubo ma quando compare il riflesso palpebrale potrebbe aiutarci a non avere risveglio eccitativo. Continuare a monitorare la saturimetria eseguire emogasanalisi che ci guidano sulla scelta di lasciare ancora il paziente sotto ossigeno a frazioni inspirate alte o meno.

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Controllare il dolore vuole dire migliorare la ventilazione dunque è indispensabile come? Oppiacei in infusione costante uso di cerotti analgesici, tecniche loco regionali di infiltrazione costale di anestetico locale o inserimento pleurico di catetere per infusione o somministrazione continua di anestetico locale analgesia spinale sono in rapporto alla esperienza tutte vie percorribili disgiunte ma piÚ verosimilmente combinate in un approccio multimodale al dolore. Tra i farmaci usati ricordo morfina, buprenorfina, fentanil, bupivacaina, lidocaina, ropivacaina, carprofene. Il futuro: forse la crioanalgesia. Indirizzo per la corrispondenza: Emilio Feltri emilio <mailto:emilio.feltri@tin.it> .feltri@tin.it <mailto:emilio.feltri@tin.it>


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Il caso più strano che abbia mai visto Ho visitato un gatto grigliato Ivan Fileccia Med Vet, CES Derm, Roma

Segnalamento ed anamnesi: Camilla è un gatto

Lista di diagnosi differenziali:

europeo, femmina sterilizzata, di 6 anni d’età. Il proprietario, un anziana signora, lo aveva portato a visita subito dopo aver notato la presenza di strane lesioni cutanee. Le lesioni erano comparse presumibilmente da pochi giorni ed erano localizzate sugli arti e sulle regioni ventrali di torace ed addome. L’animale presentava da tempo un discreto prurito generalizzato, ma, a detta del proprietario, non sembrava particolarmente disturbato dalla presenza delle nuove lesioni. Il gatto in passato era sempre stato in buona salute, ma aveva presentato, un paio d’anni prima, dei problemi dermatologici associati a prurito e caratterizzati da un eruzione papulo-crostosa distribuita al tronco e risoltasi spontaneamente. L’animale vive in un appartamento insieme ad altri 8 gatti, è alimentato con cibo commerciale e non svolge nessun tipo di profilassi antiparassitaria.

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Esame clinico: All’esame fisico generale l’animale non presentava nessuna alterazione clinica evidente. L’esame dermatologico mostrava la presenza, ampiamente diffusa, sulle porzioni dorsali del tronco, di tante, piccole papule associate a croste. Erano anche presenti, con distribuzione irregolare, aree di ipotricosi e lesioni erosive di evidente origine autotraumatica. Sui cuscinetti dei quattro arti erano presenti lesioni ulcerativo-crostose associate ad abbondanti scaglie. Lesioni crostose circoscritte si sviluppavano sulla cute di entrambi gli arti posteriori, ventralmente, in prossimità del calcagno. Lesioni eritematose, erosive e sormontate da spesse croste aderenti erano presenti sulla cute che riveste le porzioni ventrali di torace ed addome. La loro distribuzione era limitata esclusivamente alla linea mediana. L’animale risultava infestato da un numero elevato di pulci.

Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Ivan Fileccia Ambulatorio Veterinario Preneste, via Prenestina 68 00176 Roma tel. 0670300761 e-mail: ivafilec@tin.it


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Inseminazione artificiale nella specie canina: tecniche e regolamentazioni (esperienza francese) Alain Fontbonne Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia

In allevamento canino si ricorre spesso all’inseminazione artificiale in quanto è giustificata in diverse circostanze. Nonostante ciò nella maggior parte dei paesi europei i veterinari non si dedicano abbastanza a cio perciò sempre più allevatori praticano l’inseminazione sui loro animali senza l’aiuto del veterinario. Inoltre è difficile per un veterinario consigliare il nome di un altro veterinario in un paese straniero che pratica il prelievo del seme e l’inseminazione artificiale questo per almeno due ragioni principali: 1) Non esiste una rete europea di veterinari “inseminatori di cani” 2) La regolamentazione degli scambi internazionali di seme varia enormemente da un paese all’altro Questo è veramente un peccato in quanto i veterinari potrebbero sviluppare questa tecnica di riproduzione che è sotto sviluppata in europa rispetto all’America per esempio. Addiritura in alcuni paesi i cuccioli nati dopo inseminazione artificiale non vengono riconosciuti.

1- Determinare il momento ideale per l’inseminazione Una delle cose più importanti per ottenere dei buoni risultati con l’inseminazione artificiale nella cagna è di determinare il momento ottimale per effettuare l’inseminazione. Sappiamo infatti che l’accettazione del maschio da parte della femmina, il numero di giorni dall’inizio del calore etc non sono dei criteri affidabili. Le cagne devono essere inseminate tra il 1° e il 3-4° giorno dopo l’ovulazione se si tratta di inseminazione con seme fresco e 2-3 (o 4) giorni dopo l’ovulazione se il seme utilizzato è refrigerato o congelato. Attualmente uno dei migliori metodi per determinare il momento esatto dell’ovulazione è il dosaggio del progesterone. Ci si basa sulla stima del picco dell’LH (circa 2 giorni prima dell’ovulazione) che si ha la vigilia o il giorno in cui la progesteronemia è di circa 2 ng/ml. Uno studio recente condotto alla Scuola Veterinaria di Alfort ha dimostrato che l’ovulazione, in tutte le cagne di qualsiasi razza, si ha quando il valore di progesteronemia è di circa 6 ng/ml +/- 24 h. Al contrario, la data in cui si osserva l’inizio dell’aumento della progesteronemia è molto variabile da una cagna

all’altra. Perciò è importante fare dei dosaggi quantitativi di progesterone. Esistono numerosi laboratori di analisi di umana che effettuano dosaggi di progesterone con risultato in giornata. La maggior parte dei veterinari utilizzano dei kits semiquantitativi basati sulla tecnica Elisa. Questi non danno sempre dei risultati di grande affidabilità. Prima di inseminare la cagna sarebbe bene confermare l’avvenuta ovulazione tramite almeno un dosaggio quantitativo. Per avere informazioni più precise sul momento preciso dell’ovulazione o sulle turbe dell’ovulazione l’esame più adatto è l’ecografia e in questi ultimi anni viene utilizzata sempre più di frequente dal veterinario pratico.

2- I diversi tipi di inseminazione artificiale L’inseminazione artificiale con seme fresco può essere realizzata quando l’accoppiamento non avviene come dovrebbe per esempio per motivi comportamentali (cagna dominante), organici (malformazioni che compromettono la monta), sanitari (per evitare il contaggio di malattie infettive per es herpesvirosi). L’inseminazione artificiale con seme refrigerato è indicata per due ragioni principalmente: la distanza geografica tra i due riproduttori evitando cosi dei lunghi spostamenti degli allevatori con risparmio di soldi e fatica. L’altra ragione è l’esistenza di una barriera sanitaria per es è impossibile portare una cagna dalla Francia all’inghilterra per una monta. Contrariamente agli Stati Uniti questa tecnica è poco utilizzata al punto che gli allevatori stanno iniziando effettuano scambi di seme senza l’aiuto del loro veterinario. Eppure la tecnica è semplice: è sufficiente saper prelevare il seme del cane, avere a disposizione una centrifuga se non siamo riusciti a frazionare le diverse parti al momento della raccolta, avere un diluitore, refrigerarlo a 4°C e possedere un termos per la spedizione. L’inseminazione artificiale con seme congelato a –196°C è più complicata ma è molto indicata quando la distanza che separa due riproduttori è troppo grande. Sarebbe bene ricevere il seme prima che la cagna sia in calore in modo da non rischiare in caso di problemi durante il trasporto. Anche se i nuovi contenitori “dry-shippers” non contengono più azoto liquido per cui non vengono più rifiutate dai trasportatori o dalle compagnie aeree in quanto considerati pericolosi.


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3- Inseminazione intra-vaginale o intrauterina?

4- Una rete europea dei veterinari inseminatori

Nel momento in cui pratichiamo una inseminazione con seme fresco non è necessario depositare il seme direttamente nell’utero a meno che il seme non sia di bassa qualità. Invece sarebbe la sola chance di riuscita nel caso di una cagna inseminata tardi rispetto all’ovulazione dove il collo dell’utero è gia chiuso e impedisce il passaggio del seme nonostante la cagna sia ancora fecondabile. Catharina Linde-Forsberg che a prescindere dal tipo di seme utilizzato, fresco, refrigerato o congelato, l’inseminazione intra-uterina da migliori risultati. Il veterinario pratico ha spesso difficoltà a praticare la tecnica tramite palpazione trans-addominale del collo uterino (messa a punto da Andersen in Norvegia) in quanto necessita di una sonda speciale e di molta manualità. Un altra tecnica di inseminazione intra uterina è quella tramite laparotomia o celioscopia che viene spesso rifiutata dai proprietari. L’inseminazione tramite vaginoscopia rappresenta sicuramente la tecnica del futuro.

Per cercare di introdurre i veterinari nella pratica dell’inseminazione artificiale in Europa, l’EVSSAR (European Veterinary, Society for Small Reproduction) sta creando una lista europea dei veterinari che utilizzano questa tecnica. Sarà disponibile tra qualche mese sul sito internet dell’EVSSAR. Per saperne di più consultare il sito: www.ivis.org

Indirizzo per la corrispondenza: Alain Fontbonne Ecole Nationale Vétérinaire, D’Alfort (Paris), France afontbonne@vet-alfort.fr


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Riproduzione felina: fisiologia, patologia, infertilità e inseminazione artificiale Alain Fontbonne Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia

Sempre piu di frequente gli allevatori di gatti chiedono consiglio ai loro veterinari. Nell’ambito della riproduzione bisogna sapere che il gatto non è un cane di piccola taglia. D’altra parte, questa specie è servita come modello di studio per la riproduzione dei grandi felini e grazie a cio numerose tecniche possono essere praticate come per esempio l’inseminazione artificiale.

1- Fisiologia 1-1 La femmina La gatta è una specia a ovulazione indotta e la sua riproduzione è stagionale: per cui in inverno numerose gatte sono in anaestro. Una illuminazione artificiale prolungata tuttavia permette di avere dei calori tutto l’anno (14 ore di giorno X 8 ore di notte). La durata dell’anaestro stagionale varia a seconda della razza ed è spesso piu lungo nelle razze a pelo lungo. L’insorgenza della pubertà è legata al peso corporeo (sopraggiunge in genere al raggiungimento del 90% del peso dell’adulto) e alla stagione. Comunque se il peso corporeo è raggiunto in inverno, i primi calori appariranno solo l’anno sucessivo. Nel periodo riproduttivo, in assenza di ovulazione, il ciclo sessuale si ripete ogni tre settimane. Esiste nel gatto tre tipi di ciclo. In genere i cicli sono anovulatori e in questo caso non si verifica alcunasecrezione di progesterone. Se invece si verifica l’ovulazione, possiamo avere una pseudogravidanza o una gravidanza. Nel caso della pseudogravidanza la gatta pur avendo ovulato non risulta comunque gravida: in questo caso il progesterone ematico rimane alto durante 40 giorni circa. Nel caso della pseudogravidanza è raro osservare l’insorgenza della lattazione. La gravidanza nella gatta dura da 64 a 66 giorni. La fase estrale è molto evidente, a causa del comportamento dell’animale, mentre è difficile determinare il momento del proestro. È consigliabile comunque non far accoppiare la gatta nei primi due giorni in quanto ha meno probabilità di ovulare. Qualche autore ha cercato di determinare il momento ottimale per la fecondità nella gatta, ma in realtà si è scoperto che è il numero dei coiti a giocare il ruolo più importante. È importante che la gatta si accopi più volte nel più breve tempo possibile: tutto cio permette l’insorgenza del picco di LH. Infatti un solo coito determina l’ovulazione solo nel 50% dei casi. È stato dimostrato che l’intervallo tra l’accoppiamento e l’ovulazione è di cir-

ca 25-30 ore. Secondo alcuni autori l’ovulazione accorcierebbe la durata dei calori, ma non tutti sono concordi con questa affermazione. Recentemente è stato dimostrato che in alcuni allevamenti, le gatte a seguito delle interazioni sociali, potevano ovulare spontaneamente. Questo spiega perché che alcune gatte possono sviluppare piometra pur non essendosi accoppiate. Gli strisci vaginali sono molto utili nella gatta, ma la tecnica di realizzazione è diversa rispetto alla cagna. La diversità è dovuta al fatto che il tratto vaginale è molto corto e vengono. osservate cellule superficiali cheratinizzate nei periodi tra due calori anovulatori successivi.

1-2 Il Maschio Anche nel maschio la pubertà è legata al peso corporeo. In genere i primi spermatozoi iniziano ad essere eiaculati verso le 30-36 settimane. Il gatto produce degli eiaculati di piccolo volume e ció che rende difficile la raccolta e la manipolazione del liquido seminale felino. Esistono dei dati contradittori sulla qualità del seme durante il periodo invernale. Dal punto di vista ormonale il gatto castrato continua a produrre in grande quantità il testosterone. Per di piu i gatti che presentano una infezione urinaria presentano un forte aumento dela testosteronemia. Questa ultima aumenta nel caso in cui venga effettuata una anestesia generale, es quando vengono usati degli alfa2 agonisti.

2- Patologia 2-1 Il complesso mucometra-piometra nella gatta La mucometra è caratterizzata dalla presenza di un liquido non infiammatorio all’interno dell’utero (talvolta piu di 500 ml!). Questa affezione è più frequente nelle giovani gatte e in genere dà pochi segni clinici. L’origine è mal conosciuta e potrebbe essere legata alla somministrazione di progestinici. La piometra è probabilmente sottostimata in questa specie in quanto numerose gatte sono sterilizzate. È descritta una incidenza dello 0,6%, ma in certi gattili puó superare il 5%. La causa potrebbe legata all’insorgenza di ovulazioni spontanee. Il trattamento prevede la somministrazione di prostaglandine F2 alfa che sono meglio tollerate nella gatta piuttosto che nella cagna. È possibile associare degli anti-


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progestinici (aglepristone) con lo scopo di aprire il collo dell’utero, o degli antiprolattinici ad effetto luteolitico (cabergolina). È fondamentale associare un trattamento antibiotico per tutta la durata del trattamento.

2-2 Fibroadenomatosi mammaria La fibroadenomatosi mammaria, chiamata anche mastosi, è caratterizzata dall’iperplasia, con una componente infiammatoria, del tessuto mammario di una o più mammelle. La causa è il piu delle volte legata al progesterone o ai suoi derivati: gravidanza, assunzione di pillola contracettiva. Si verifica soprattutto nelle giovani gatte adulte puberi, anche se si può trovare in gatte prepuberi, sterilizzate o nei maschi. Il trattamento è spesso chirurgico (ovariectomia) ma questo raramente è sufficiente a far diminuire le dimensioni delle mamelle. Alcuni autori insistono sull’uso dell’aglepristone. Personalmente preferisco associare l’uso di corticoidi a forti dosi (2mg/kg) per almeno due settimane.

3- Infertiltà Gli allevatori chiedono sempre piu spesso al loro veterinario di risolvere i problemi di infertiltà. E dunque interessante conoscere le cause principali. L’anaestro permanente è un problema frequente nei gattili e particolarmente nei gatti a pelo lungo (persiano). In queste razze ci sono spesso dei calori silenti che fanno credere che la gatta non entra in calore. Il modo migliore per metterli in evidenza consiste nell’effettuare più strisci vaginali. L’assenza di calore puó essere provocata da una insufficiente illuminazione, da cattive condizioni ambientali, alimentari e infine i farmaci come per esempio gli antimicotici usati per combattere la micosi in allevamento. Al contrario esistono casi in cui i calori sono anormalmente prolungati fino ad essere permanenti. Questo è spesso legato a una sovraposizione di piu ondate di maturazione follicolare. Nelle gatte siamesi la durata degli interestri successivi è talvolta corta in quanto sono frequenti le cisti follicoliniche. Esse tendono ad aumentare con l’età dell’animale. La diagnosi è facilmente realizzabile tramite ecografia ovarica. Le cause dell’infertilità del maschio non sono ben conosciute. Tra le ipotesi vi sono: gengiviti che impediscono al maschio di mordere la femmina nel momento del coito, strozzamento del pene da parte dei peli della regione genitale. La qualità del seme viene valutata tramite spermogramma: il seme è raccolto tramite elettroeiaculazione, che è molto facile da realizzare se si possiede un elettroeiaculatore.

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Le malattie infettive sono una causa frequente di infertilità in allevamento. La FeLV rappresenta il problema virale maggiore cosi come il parvovirus della panleucopenia, l’herpesvirus felino o il coronavirus. Anche i batteri possono essere responsabili dei problemi riproduttivi nel gatto, come la Chlamydophila felis o i batteri commensali del tratto genitale (E. Coli, Streptococchi, Stafilococchi.....).

4- Inseminazione Artificiale Contrariamente ad altre specie domestiche, l’inseminazione è poco frequente nel gatto. Nonostante cio, ci sono sempre piu numerose pubblicazioni su questo argomento. La raccolta del seme rappresenta la prima difficoltà. Un ristretto numero di gatti può essere abituato alla raccolta manuale tramite masturbazione. Tuttavia sarebbe meglio poter disporre di un elettroeiaculatore. L’esame del seme risulta difficoltoso a causa del ridotto volume (supera raramente 0,3 ml) ottenuto tramite elettreiaculazione. Lo sperma normalmente contiene tra i 3 e 120 milioni di spermatozoi, con una mobilità tra il 60 e 90%. Prima dell’inseminazione occorre indurre l’ovulazione. Per questo bisogna aspettare uno o due giorni in modo la maturazione follicolare sia sufficiente. Gli studi condotti da Elise Malandain alla Scuola Veterinaria di Alfort hanno dimostrato l’utilità a questo proposito dell’ecografia ovarica. L’ovulazione può essere indotta tramite due metodi: ormonale (100-250 U.I di hCG) o tramite stimolazione vaginale (5 stimolazioni a 30 minuti di intervallo con un tampone sterile) L’inseminazione deve essere praticata immediatamente o nelle 24 ore successive l’induzione dell’ovulazione. Attualmente vengono realizzate sopratutto delle inseminazioni con seme fresco, poiché si hanno pochi studi sull’inseminazione con seme congelato. L’inseminazione intravaginale è la tecnica piu semplice: consiste nel depositare il seme nella parte craniale della vagina con una sonda urinaria sterile e tenere il treno posteriore sollevato per 10 minuti. Le inseminazioni intrauterine possone essere realizzate tramite laparotomia. Recentemente, Zambelli e coll. (2002) hanno dimostrato che è possibile eseguire dei cateterismi transcervicali.

Indirizzo per la corrispondenza: Alain Fontbonne Ecole Nationale Vétérinaire, D’Alfort (Paris), France afontbonne@vet-alfort.fr


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Patologie infettive dell’apparato riproduttivo (1a e 2a parte) Alain Fontbonne Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia

PATOLOGIE INFETTIVE DELL’APPARATO GENITALE DELLA FEMMINA Le patologie dell’apparato genitale rappresentano frequentemente motivo di visita in medicina veterinaria. In realtà diverse patologie sono poco conosciute dal veterinario pratico cosí come le tecniche di diagnosi e la loro interpretazione.

1- Nella cagna 1-1 La piometra Fino a poco tempo fa la piometra in una cagna riproduttrice costituiva un dramma: il soggetto affetto subiva un’ovario-isterectomia per cui veniva automaticamente eliminata dalla riproduzione. Ormai è possibile trattare farmacologicamente numerose piometre e addirittura ottenere nuovamente dei cuccioli. Esistono numerosi protocolli farmacologici per il trattamento della piometra, tra i quali un associazione di alizine e cloprostenol, messo a punto dal mio collega Francis Fieni all’Ecole Nationale Veterinaire di Nantes ed è stato osservato un solo insuccesso (F. Fieni ha pubblicato nel 2002 un lavoro in cui la percentuale di successo è stata superiore al 86% su un effettivo di 43 cagne). Le cagne vengono ricoverate e ricevono un’iniezione s.c. di 10 mg/kg di Alizine il primo e secondo giorno e per 5 giorni consecutivi una iniezione al giorno di prostaglandine a basse dosi (cloprostenol 1 µg/kg s.c.). Durante tutto il trattamento si associa una terapia antibiotica ed un monitoraggio della funzionalità renale (prima, durante e dopo la terapia) e le costanti ematiche. Il trattamento medico della piometra si giustifica nel momento in cui viene individuata la sua patogenesi. Il progesterone è alla base dello sviluppo di quello che gli anglosassoni chiamano “iperplasia endometriale cistica”. Questo ormone promuove il trofismo endometriale e l’attività secretoria ghiandolare, sopprimendo la motilità miometriale e facilitando l’accumulo di prodotti di secrezione, che costituiscono un eccellente “pabulum” per i batteri. Inoltre si ha una diminuzione delle difese immunitarie locali, la chiusura del collo dell’utero con conseguente perdita della capacità di drenaggio di eventuali prodotti di secrezione come il muco e il pus (Verstegen 2002). La maggior parte degli autori considerano la piometra come il risultato dell’interazione tra batteri potenzialmente

patogeni (E. Coli) con l’endometrio che si trova in fase luteale in un momento in cui l’organismo si trova sotto impregnazione progestinica. Ad influire sullo sviluppo della piometra potrebbero contribuire anche: l’impregnazione estrogenica preliminare o concomitante che si ritiene favorisca lo sviluppo di una piometra, cosi come un tumore secernente dell’ovaio o la presenza di cisti follicoliniche. Si riconosce come causa di piometra anche l’aborto provocato da sostanze a base di estrogeni, somministrate prima dell’annidazione in un momento in cui la cagna secerne alte dosi di progesterone. Dopo la risoluzione della piometra con la terapia medica, una recidiva è comunque possibile. Si può manifestare nel 10% dei casi nei tre mesi successivi al trattamento (Trasch e coll.) e nel 10-20% dei casi durante i calori seguenti (Trasch e coll.). Secondo Johnston la gravidanza sembra prevenire il rischio di recidive per cui si consiglia di far riprodurre la cagna a partire dal calore successivo.

2- La vaginite nella cagna Secondo alcuni autori è una patologia molto frequente nella cagna, ma i segni clinici subdoli e le difficoltà dei metodi di diagnosi la rendono spesso inosservata.

2-1 Le vaginiti della cagna impubere Costituisce un motivo di visita frequente. L’animale affetto è in buono stato clinico, gli unici sintomi sono il lambimento continuo della vulva e le perdite di tipo purulento sulla rima vulvare. Nel 90% dei casi si osserva la guarigione completa col primo calore, dovuta all’aumento del tasso di estrogeni che comporta una rigenerazione della mucosa e quindi un migliore drenaggio delle secrezioni. È di origine batterica ma favorita da determinati fattori predisponenti: - vagina ristretta in età prepubere con conseguente debole drenaggio dell’organo - presenza di malformazioni anatomiche - certi vaccini a virus attenuato (Carré) Spesso ritroviamo nella vagina delle femmine colpite degli streptococchi coagulasi +. Trattamento Spesso viene intrapreso un trattamento in seguito a ripetute richieste da parte dei proprietari.


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Alla terapia medica segue un miglioramento clinico intervallato da periodi di recidive che non ci devono comunque spingere al trattamento chirurgico prematuro. Con l’uso di antisettici locali (betadine ginecologico, clorexidina) e di antibiotici (locali e sistemici) non otteniamo buoni risultati. In una recente pubblicazione viene sconsigliato il ricorso troppo frequente alle irrigazioni locali vaginali nella cagna prepubere in quanto viene cosi favorit lo sviluppo di batteri patogeni (come ad esempio i Micoplasmi) in età adulta. Qualche autore consiglia l’utilizzo di estrogeni a debole dose, associato o no ad antibiotici (pomata a base di estrogeni) ma l’uso deve essere di breve durata per evitare gli effetti collaterali (aplasia midollare)

2-2 La vaginite della cagna adulta Con l’utilizzo di nuove tecniche di diagnosi più sofisticate (vaginoscopia), ci si è resi conto che il riscontro di vaginiti nella cagna è frequente. Svolge un ruolo importante nelle recidive delle infezioni urinarie (cistite) in quanto la vagina funge da serbatoio di germi e difficilmente accessibile dagli antibiotici. Fattori predisponenti Le vaginiti batteriche, sono spesso secondarie ad altri problemi: - trauma della vagina (accoppiamento, inseminazione artificiale, corpo estraneo, cateterismo uretrale) - anomalie congenite o aquisite (stenosi della vulva o del vestibolo, persistenza dell’imene, vagina doppia, ipertrofia clitoridea, uretere ectopico) - tumori vaginali o vestibolari - uso improprio di antibioticoterapia sopratutto in allevamento - problemi urinari (cistite) L’anatomia della vagina, organo lungo e stretto (10-15 cm in una cagna di 10 kg) diminuisce il drenaggio e favorisce la moltiplicazione microbica. Le vaginiti dell’adulto possono apparire indifferentemente sulle cagne sterilizzate e non. Fattori determinanti - Una eziologia batterica sembra preponderante. La flora batterica vaginale è in maggioranza costituita da batteri aerobi. In genere, una vagina sana si diffende bene contro le moltiplicazioni batteriche e i batteri non colonizzano il terzo anteriore dell’organo. Nel momento in cui una specie batterica si replica in modo importante può invadere tutta la vagina e raggiungere una soglia di patogeneicità tale da far apparire dei segni clinici. Non sembrano esistere delle modificazioni per quanto riguarda i tipi di batteri nella fase che segue il calore (la carica microbica sembra invece aumentare durante i calori). L’accoppiamento può favorire il passaggio di germi dalla flora prepuziale alla flora vaginale della cagna e viceversa. - Un tempo si pensava a un origine virale delle vaginiti (herpesvirus responsabile di vaginite pustolosa durante il calore, il virus del cimurro), ma la concomitanza con i batteri sembra comunque probabile. - L’origine micotica è poco probabile.

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I sintomi sono spesso poco evidenti e l’andamento clinico è nella maggior parte dei casi di tipo cronico con la cagna in buon stato generale. La diagnosi è basata su: - Un esame clinico uro-genitale accurato, che comprende una palpazione rettale, una palpazione vaginale (per escludere masse o malformazioni), un esame con lo speculum e una bandelette urinaria. - realizzazione di uno striscio vaginale (presenza di numerosi neutrofili, anche se frequente non è sistematico) - vaginoscopia ogni volta che questo è possibile - vaginografia può essere usata per confermare la presenza di malformazioni o eventuali masse. L’esame ematologico può in certi casi mostrare una eosinofilia. Nel momento in cui la diagnosi di vaginite è confermata e ci siamo assicurati che non esistono poblemi anatomici o patologici primari (da trattare in primo luogo), sarebbe opportuno realizzare un tampone il più sterilmente possible nella parte più profonda della vagina (regione normalmente sterile in una cagna sana), piuttosto che iniziare un trattamento antibiotico a largo spettro, che può alterare la flora intestinale senza neanche eliminare I batteri responsabili. Per realizzare il tampone nelle migliori condizioni, il tampone sarà protetto da una camicia sanitaria tagliata all’estremità e guidata nel terzo anteriore della vagina grazie a uno speculum sterile. Usare sempre i guanti almeno nella mano che tiene la vulva per evitare di contrarre zoonosi (es brucellosi). È indicato eseguire un esame batteriologico delle urine tramite cistocentesi. L’esame batteriologico ha un interesse solo se vengono isolati al massimo due tipi di germi (spesso uno solo cresce abbondantemente). Se vengono isolati più di tre tipi di batteri, l’esame si considera senza valore in quanto c’è sicuramente stata una contaminazione al momento del prelievo. La prognosi delle vaginiti croniche, in assenza di trattamento, è sfavorevole per pricipalmente due ragioni: - Nella maggior parte delle cagne, cio aumenta il rischio di insorgenza di infezioni urinarie ricorrenti. L’insorgenza della metrite è un evento raro ma non è da escludere. - Nelle cagne riproduttrici, esiste una stretta relazione tra vaginiti e infertilità senza che il meccanismo d’azione sia chiaro (fattori spermicidi, una endometrite che impedirebbe l’annidazione) Oltre tutto, se le cagne restano gravide il passaggio di cuccioli in vagina durante il parto puó portare a una loro contaminazione e a una possibile mortalità neonatale nei primi 15 giorni di vita. È dunque indispensabile saper diagnosticare le vaginiti e trattarle. In allevamento, è consigliato isolare le cagne fino alla guarigione in quanto certe vaginiti sono contagiose e il leccarsi reciprocamente favorisce il contagio. Se viene evidenziata una causa predisponente, sarà opportuno trattarla per prima (chirurgie vaginali, episiotomia, trattamento di una eventuale patologia urinaria) Le vaginiti sono per lo più di origine batterica perciò è frequente il trattamento antibiotico. Quest’ultimo verra scelto in base al risultato dell’antibiogramma.


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PATOLOGIE INFETTIVE DELL’APPARATO GENITALE DEL MASCHIO IL MASCHIO 1- le prostatiti

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acuta. La scelta dell’antibiotico dipende dal risultato dell’antibiogramma e dalle caratteristiche chimiche dell’antibiotico. La durata del trattamento deve essere di almeno due mesi. Si esegue una cultura di controllo sul liquido prostatico dopo qualche giorno, dopo un mese e due mesi dopo la fine del trattamento. La castrazione è un trattamento adiuvante che determina la diminuzione del volume della prostata. Nonostante tutto, l’infezione può persistere se sono presenti delle cisti o degli ascessi (serbatoi di infezione urinaria ricorrente)

1-1 Prostatiti acute Le prostatiti acute si possono manifestare con segni clinici generali (anoressia, febbre, disidratazione), sintomi intestinali (costipazione, tenesmo) e locomotori (anomalie di postura, rigidità dei posteriori) ma sono frequenti anche sintomi locali quali perdite purulente o ematiche che interessano il prepuzio. Il trattamento è basato sull’antibioticoterapia e il tipo di antibiotico è scelto dopo aver messo in coltura il liquido prostatico e aver fatto l’antibiogramma. In caso di prostatite acuta, la barriera emato-prostatica è alterata perciò permette il passaggio della maggior parte degli antibiotici. In attesa dei risultati dell’antibiogramma si inizia una terapia a base dell’associazione sulfamide-trimetoprim (30 mg/kh/8h) due volte al giorno) o l’associazione ampicillina (22 mg/kg/8h) e gentamicina (2 mg/kg/8h), chinoloni (marbocyl 2 mg/kg/j una volta al giorno). Se sono presenti anche sintomi generali è consigliato mettere un catetere venoso all’animale per effettuare una fluidoterapia e somministrare gli antibiotici per questa via e passare alla via orale nel momento in cui l’animale sta meglio. È importante valutare lo stato dell’animale 3-7 giorni dopo la fine del trattamento antibiotico in quanto esiste il rischio che la patologia cronicizzi. La castrazione costituisce un trattamento adiuvante, che diminuisce il rischio della recidiva infettiva, riduce il numero delle colonie batteriche (UFC) per ml di urina e evita che la prostatite diventi cronica.

1-2 Prostatiti croniche La prostatite cronica è la complicazione della prostatite acuta non trattata, di una urolitiasi o di una infezione del tratto urinario. I sintomi sono la maggior parte delle volte poco evidenti (segni urinari e intestinali) Trattamento Antibioticoterapia La barriera ematoprostatica è una membrana epiteliale a doppio strato lipidico che gioca un ruolo particolare: impedisce il passaggio dei microrganismi. In caso di prostatite cronica, la barriera è intatta perciò gli antibiotici la attraversano meno facilmente rispetto a quando vi è una prostatite

1-3 Le balanopostiti Le balaniti sono delle infiammazioni del pene e le postiti del prepuzio. Ma sono spesso associate. Il cavo prepuziale rappresenta un eccellente riserva di batteri con conseguenti cistiti, prostatiti, orchiepididimiti, passaggio di germi nella femmina al momento dell’accoppiamento…. La balanopostite nella maggior parte dei casi è primaria e di origine batterica anche se possono esistere delle cause predisponenti quali ferite, corpi estranei, tumori (stickers), cistiti, infiammazione genitale profonda. Questa patologia è più frequente negli stalloni ma la si può riscontrare anche nei castrati. È consigliato trattare prima di tutto le cause primitive se ve ne sono, quali cistiti, tumori…. Il trattamento specifico della balanopostite dipende dall’importanza dell’infiammazione ed è consigliata la castrazione nella fase di evoluzione della malattia.

1-4 Le orchi-epididimiti L’infiammazione testicolare e epididimale, il piu delle volte di origine infettiva, evolve in genere come forma cronica che passa inosservata nei cani non destinati alla riproduzione in quanto il solo segno è una alterazione dello spermogramma. Le epididimiti sono senza alcun dubbio più frequenti delle orchiti alle quali sono spesso associate. La via di entrata principale dei germi è traumatica principalmente morsi. Ma la sua origine può essere anche retrograda (cistite, uretrite, prostatite, balanopostite). La forma cronica è la più frequente anche se passa spesso inosservata tranne nei riproduttori in quanto lascia le cagne “vuote”. Può manifestarsi o direttamente con andamento cronico oppure come conseguenza della forma acuta.

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Ecografia del tratto genitale Alain Fontbonne Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia

La diagnostica per immagini e in particolare l’ecografia, occupano ai giorni nostri un ruolo importante nella visita ginecologica e andrologica. Questo lavoro ha lo scopo di spiegare cio che si può osservare tramite radiografia ed ecografia in entrambi i sessi.

NELLA CAGNA 1- Le ovaie Le ovaie normalmente si trovano a livello del polo caudale del rene, misurano dai 10 ai 15 mm di lunghezza e sono circondate da grasso. Contrariamente a quello che si è creduto per tanto tempo è possibile ora esplorare le ovaie nella cagna e nella gatta soprattutto con gli ultimi ecografi caratterizzati da miglior risoluzione. In ragione della loro posizione alquanto superficiale si usano delle sonde ad alta frequenza (7,5 MHz minimo). La cagna può essere messa in decubito dorsale o laterale o essere lasciata in piedi a condizione che non si muova troppo (tranquillizzare l’animale se necessario). È importante evitare la polipnea dell’animale (decubito dorsale con appoggio sui grossi vasi e polipnea compensatrice, sala mal ventilata e calda nel periodo estivo) Viene utilizzata nei seguenti casi: • Monitoraggio della maturazione follicolare e dell’ovulazione durante il calore: I follicoli in crescita vengono facilmente messi in evidenza nella cagna sotto forma di piccole cavità molto anecogene a parete fine. Al momento dell’ovulazione sembra che spariscano per 24-48 ore (l’ovaio sembra privo di formazioni) poi ricompaiono delle immagini ipoecogene a parete più spessa (corpi lutei). • Cisti ovariche: Le cisti appaiono come delle formazioni anecogene circolari ben delimitate, per lo più con parete sottile, evidenziate da un cono di rafforzamento posteriore. • Tumori dell’ovaio Conferiscono all’ovaio un aspetto eterogeneo, con zone più o meno aneconegene e mal delimitate. Se il tumore è molto grande l’ovaio può essere spostato. A volte compaiono nuclei di mineralizzazione che possono donare un aspetto iperecogeno, evidenziati da un cono d’ombra. Talvolta è possible mettere in evidenza delle metastasi loco-regionali. • Individuazione di un emorragia del moncone uterino a seguito di un’ovarioisterectomia. • Frustoli di ovaio nella cagna sterilizzata.

2- L’utero L’ecogrfia rappresenta l’esame di elezione per visualizzare l’utero con migliori risultati rispetto alla radiografia. Ideale è evitare che la cagna urini nelle due ore che precedono l’esame poiché la vescica serve da finestra acustica per rinforzare l’immagine del corpo uterino che si trova propio al di sotto della vescica. Al contrario se la vescica è troppo piena e la cagna è posta in decubito dorsale l’utero può essere troppo schiacciato. Uno dei metodi che può essere utilizzato per ricercare l’utero consiste nel porre la sonda in posizione trasversale quindi nel ricercare la vescica. L’utero appare come una formazione rotonda ipoecogena, situata per lo più a destra del colon. Occorre orientare quindi la sonda in posizione longitudinale rimanendo sul piano mediano per evitare di perdere l’utero. Risulta difficile individuare le corna uterine e distinguerle dagli altri organi contenuti nella cavità addominale quando all’interno delle corna uterine non è presente liquido e non ci sono anomalie della parete. L’operatore avrà la sicurezza di aver esaminato per intero l’uero nel momento in cui avrà percorso con la sonda il tratto che va dai reni alla vescica. L’ecografia consente di fare diagnosi: di gravidanza, piometra e la fase iniziale di una iperplasia ghiandolarecistica.

3- La vagina L’esame ecografico dalla vagina, con un approccio ventrale, risulta impossibile a causa della sua localizzazione all’interno del bacino.

NEL MASCHIO L’ecografia testicolare consente di ottenere un elevato numero di informazioni. Pochi veterinari comunque ricorrono a questo esame. Nei cani anziani nel momento in cui si pratica una ecografia addominale (prostata, vescica….) sarebbe opportuno effetuare anche una ecografia testicolare. A causa della posizione molto superficiale di questi organi per ottenere delle buone immagini, occorre aumentare lo spessore tra la sonda e l’organo utilizzando o uno strato di gel o l’altro testicolo. La sonda ideale è quella da 7,5 MHz (5MHz se dobbiamo ricercare un testicolo intraddominale). Il parenchima testicolare ha una ecogenicità media (simile a quella della milza). La convergenza dei setti fibrosi provenienti dall’albuginea al centro del testicolo, che formano il mediastino testicolare, appare come una linea iperecogena (bianca) con la sonda in posizione longitudinale e un punto iperecogeno con la sonda in posizione trasversale.


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L’ecografia testicolare mette in evidenza: - Tumori testicolari anche se di piccola taglia - Edema o accumulo di liquidi attorno al testicolo (idrocele, ematocele, orchide….) - Cisti, granulomi o ascessi all’interno del testicolo - Torsione del testicolo - La presenza di organi intra-addominali in caso ernie inguinali o scrotali. - Vacuità dei tubuli seminiferi in caso di azoospermia secretoria in seguito all’arresto della spermatogenesi.

1- L’epididimo L’epididimo è situato in posizione ventro-craniale rispetto ai testicoli. A l’ecografia sono ipoecogeni (nettamente più “neri” dei testicoli”). L’ecografia permette di evidenziare delle dilatazioni, delle zone di fibrosi o l’accumulo di sperma a monte del punto di ostruzione (granulomi). Questo esame complementare è interessante soprattutto nei cani riproduttori.

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2- La prostata L’ecografia permette di vedere formazioni (cisti,a ascessi) che non modificano il volume dell’organo.

3- Pene e prepuzio Con l’ecografia si possono localizzare ascessi o zone edematose. Nel gatto In questa specie l’ecografia è usata per il monitoraggio dell’ovulazione e per la diagnosi precoce di patologie quali piometre, mucometre o turbe nella riproduzione. Per ottenere delle belle immagini è indispensabile l’uso di sonde ad alta frequenza.

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Alterazioni di tipo congenito del tratto genitale in relazione a problemi di infertilità Alain Fontbonne Dr Vét, MSc, Dipl. ECAR, Maisons-Alfort, Francia

Le malformazioni congenite o genetiche possono dare turbe della riproduzione nella specie canina. I veterinari non conoscono bene ancora oggi le malformazioni congenite o genetiche che possono causare problemi nella riproduzione canina. Essi inoltre non hanno a disposizione i mezzi adatti per fare diagnosi.

La cagna Alcune cagne non si accoppiano a causa delle anomalie congenite del tratto genitale posteriore (vulva, vestibolo, vagina). I problemi più comuni sono una diminuzione del diametro vaginale o una persistenza del setto verticale che sono la conseguenza di una mancata fusione del dotto del Muller. In Francia le stenosi vestibolari e vulvari sono frequenti soprattutto nel Berger Picard e nel Collie. Un ‘altra anomalia è legata alla mancata scomparsa dell’imene che è situato nella giunzione tra la vagina e il vestibolo. Quest’ultima anomalia spesso può causare delle vaginiti croniche o infezioni urogenitali. L’endoscopia vaginale o vaginoscopia rappresenta un esame particolarmente utile nella diagnosi delle malformazioni della cagna mentre l’esame tradizionale (esplorazione rettale e vaginale, speculum, strisci vaginali) del tratto vaginale da informazioni limitate.

Iperplasia vaginale Si verifica durante il calore o alla fine della gravidanza quando aumentano i livelli degli estrogeni. E più frequente nelle razze brachicefale (bullmastiff, boxer). Cio rappresenta un ostacolo meccanico all’accoppiamento e aumenta l’incidenza delle vaginiti con conseguente infertilità. Questa anomalia è in parte ereditaria e può ricomparire anche dopo la rimozione chirurgica. Anche lo pseudoermafroditismo e l’ermafroditismo vero possono causare infertilità. Questi vengono facilmente diagnosticati clinicamente: clitoride peniforme.

Cane maschio Anche nel maschio l’ermafroditismo e lo pseudoermafroditismo (maschi con genitali esterni e gonadi femminili) causano sterilità. I difetti congeniti comprendono: ipoplasia testicolare, aplasia segmentale dell’epididimo, agenesia dei deferenti, curvatura congenita dell’osso penieno, ipo ed epispadia. Tutte queste patologie causano azoospermia e incapacità all’accoppiamento. Se le dimensioni del pene sono troppo ridotte, questo non può essere trattenuto in vagina durante l’accoppiamento perciò la quantità di sperma depositato in vagina sarà insufficiente. Il criptoschidismo bilaterale causa azoospermia mentre il monorchidismo unilaterale non da problemi di fertilità. Nelle razze di grossa taglia il dimorfismo può portare a problemi nell’accoppiamento quando il maschio è troppo pesante e la femmina non ne sopporta il peso durante l’accoppiamento. Le anomalie cromosomiche possono causare infertilità con azoospermia. Talvolta la libido è normale. Queste anomalie comprendono: - sindrome 79 XXY: è caratterizzata da ipoplasia testicolare e genitali esterni di dimensioni ridotte ma di conformazione normale. - Inversione sessuale XX (maschio XX 78): nella quale il maschio ha i genitali esterni normali ma può avere o un testicolo o un ovotestis. Questa anomalia è stata descritta nel Cocker Spaniel, Pointer, Beagle, Weimaraner… Noi abbiamo recentemente osservato un caso in un bassotto fulvo della Bretagna. Nella nostra clinica, abbiamo osservato che in alcune razze la qualità del seme è inferiore rispetto ad altre. Ciò accade soprattutto nelle razze di grossa taglia come il Mastiff, Bovaro del Bernese, Dogue de Bordeaux.

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Approccio diagnostico e terapeutico all’insufficienza respiratoria nel gatto Luca Formaggini Med Vet, Dormelletto (NO)

Il cosiddetto “gatto che respira male”, rappresenta nell’ambito della clinica dei piccoli animali una delle evenienze più comunemente riscontrate. Al fine di evitare gli onnipresenti errori di gestione, il Medico DEVE considerare, durante ogni singolo passo diagnostico e terapeutico, l’estrema instabilità di questa categoria di pazienti. Proprio l’approccio diagnostico strumentale, non occupa un preciso standard temporale e procedurale nell’iter diagnostico e terapeutico del paziente dispnoico; non solo, ma è proprio l’approccio diagnostico strumentale che nella maggior parte dei casi, scompensando il paziente ne favorisce il decesso. L’obiettivo che ogni Struttura di Pronto Soccorso deve raggiungere, è la messa in atto di procedure il più possibile standardizzate al fine di ridurre al minimo il margine di errore legato alla natura stessa dell’uomo; ma, le stesse procedure dovrebbero essere espletate da medici in grado di adattare il protocollo alle necessità di ogni singolo paziente. Nell’approccio al paziente dispnoico, il primo passo è rappresentato dal riconoscimento di due distinte situazioni che guideranno in modo differente lo svolgersi dell’intervento: la difficoltà respiratoria e l’insufficienza respiratoria vera e propria. Nel primo caso, le condizioni del paziente al momento della presentazione consentono, dopo aver instituito alcune manovre di supporto (ossigenoterapia) di intraprendere procedure diagnostiche strumentali (radiografia del torace, ecografia, toracentesi guidata) prima del trattamento definitivo. Al contrario, nel paziente con insufficienza respiratoria, le procedure terapeutiche (ossigenazione, ventilazione -intubazione orotracheale, tracheostomia- toracentesi, drenaggio toracico) devono sempre precedere le manovre diagnostiche. Dal punto di vista clinico, l’insufficienza respiratoria presenta una palese e drammatica esacerbazione di tutti gli atteggiamenti messi in atto dal paziente al fine di compensare la situazione di malattia: decubito sternale o laterale con continui cambiamenti di posizione, gomiti divaricati, respirazione a bocca aperta, colore bluastro (cianosi) o pallido delle mucose. Dal punto di vista ematologico, il paziente affetto da insufficienza respiratoria presenta un PaO2 al di sotto dei 50-60 mmHg (ipossiemia) e una PaCO2 al di sopra di 6070 mmHg (ipercapnia). Il primo passo nell’approccio al gatto dispnoico, è rappresentato sempre dall’ossigenoterapia (flow by, gabbia ad ossigeno). Durante questa prima fase occorre osservare ed ascoltare la modalità e lo sforzo respiratorio al

fine di localizzare la lesione. L’apparato respiratorio viene diviso empiricamente in 5 parti: vie aeree superiori (alte vie: dalle narici ai bronchi principali), piccole vie aeree (basse vie), parenchima polmonare, spazio pleurico, parete toracica e diaframma. In base alla modalità respiratoria verranno distinte difficoltà e insufficienze ostruttive (delle alte e delle basse vie aeree) e difficoltà e insufficienze restrittive (del parenchima e/o dello spazio pleurico). Una ostruzione delle alte vie è associata a rumore respiratorio (stridore e stertore) e ad uno sforzo inspiratorio (fase inspiratoria prolungata) seguito da una fase espiratoria breve. Una fase espiratoria prolungata con un accentuato sforzo addominale è caratteristica dell’asma felina (dispnea mista delle basse vie aeree). Praticamente tutte le altre cause di inadeguatezza respiratoria provocano pattern respiratori misti e non rumorosi. Le patologie dello spazio pleurico determinano il caratteristico respiro rapido e superficiale, ma, l’assenza di questo pattern respiratorio non esclude completamente la presenza di patologie a questo livello. Ad esempio, nei versamenti cronici il paziente manifesterà un tipo di dispnea prevalentemente inspiratoria ma assolutamente senza provocare rumore. In base alla localizzazione e al grado di inadeguatezza respiratoria verrà stabilito un ordine tra le procedure da eseguire: sedazione, intubazione, toracentesi, radiografia, ecografia, drenaggio toracico, toracotomia. È importante che ogni manovra sul paziente sia preceduta e seguita da un periodo di ossigenoterapia. L’auscultazione del torace è un altro mezzo diagnostico estremamente utile nell’approccio al paziente dispnoico. In particlare, la distribuzione e la qualità dei rilievi auscultatori, risulta di grande utilità per emettere una serie di diagnosi differenziali. Il crepitio è causato da bolle d’aria che si rompono e che si muovono all’interno di un mezzo liquido; la localizzazione dorsocaudale di questo rilievo auscultatorio in un cucciolo presuppone la presenza di un edema neurogeno, mentre lo stesso rilievo alla base del cuore farebbe pensare ad un edema cardiogeno. L’assenza di rilievi auscultatori nella parte ventrale associata a rumori polmonari rinforzati nella parte superiore del torace è un quadro caratteristico del versamento pleurico, in cui i polmoni galleggiano nel mezzo liquido. Nello pneumotorace lo scenario auscultatorio è esattamente l’oposto, in quanto l’aria si accumula nella cavità pleurica dorsale. Nel gatto con versamento pleurico, i suoni cardiaci non vengono mascherati, anzi, spesse volte vengono irradiati su una superficie più ampia


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della parete toracica; al contrario nel paziente con ernia diaframmatica, i rumori cardiaci nella grande maggioranza dei casi vengono attutiti monolateralmente. Ancora rispetto all’auscultazione cardiaca, l’assenza di soffi e di ritmi alterati (galoppo), nel gatto non esclude la presenza di patologie cardiache gravi; così come l’assenza del rilievo clinico della tosse non esclude la presenza di edema polmonare. La capacità di creare un piano di lavoro solamente sulla base dell’anamnesi, del segnalamento e della visita clinica senza esami collaterali (es. radiografia), oppure l’abilità di inserire gli esami collaterali al momento giusto e sulla base di questi presupposti, trattare farmacologicamente il paziente tenendo in considerazione solamente i segni clinici non solo risulta eticamente corretto e moralmente lecito ma oltretutto può fare la differenza tra la vita e la morte del paziente dispnoico.

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Letture consigliate Crowe, DT: Handbook of emergency surgery-protocols and techniques. In Proocedings of ECVS pre-Congress Seminar, Vienna, 2002. Plunkett, SJ: “Respiratory Emergencies”. In Plunkett, SJ (ed.): Emergency Procedures for the Small Animal Veterinarian (2th ed). Saunders, 2001. pp. 27-45. Tseng, LW, Waddel LS: Approach to the patient in respiratory di stress. Clinical techniques in small animal practice. 15, 2, 2000. pp 53-62. Crowe DT and Devey JJ: Thoracic drainage. In Bojrab MJ, Ellison GW, Slocum B (eds): Current Techniques in Small Animal Surgery. Fourth edition. Williams & Wilkins, 1998. pp 403-417. Raffe MR: “ Respiratory care”. In Wingfield WE, Raffe MR (eds.): The veterinary ICU Book. Jackson Hole, Wyoming. Teton NewMedia. 2002. pp147-165.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Luca Formaggini Clinica Veterinaria “Lago Maggiore”, C.so Cavour, 3 Dormelletto (NO) Tel +39 0322 243716 - Fax +39 0322 232756


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Addome acuto: quando, come e perché Luca Formaggini Med Vet, Dormelletto (NO)

Il termine “addome acuto” fa riferimento alle caratteristiche cliniche di un animale con sintomatologia ad inorgenza acuta riferibile ad una qualsiasi patologia intraaddominale. I sintomi comprendono comunemente vomito, diarrea e dolore addominale. Tuttavia occorre considerare che non tutte le patologie addominali che mettono in serio pericolo la vita del paziente sono fonte di dolore. Il compito del clinico risiede nel fatto di saper identificare nel minor tempo possibile la presenza di liquido addominale e tutte quelle situazioni che richiedono una chirurgia immediata. Nella prima parte della visita, il segnalamento e l’anamnesi consentono di emettere una serie di diagnosi differenziali (D.D.) e in base a queste indirizzare gli esami collaterali finalizzandoli all’identificazione del sospetto diagnostico più grave (Tab. 1). Il dolore può originare dall’apparato gastrointestinale, urogenitale, epatobiliare, pancreas, milza e peritoneo. La sintomatologia correlata ai differenti apparati e organi può essere causata da loro alterato posizionamento, infiammazione, infezione, ostruzione, perforazione, distensione, rottura o compromissione vascolare. Nella maggior parte dei casi, i pazienti manifestano stato del sensorio alterato (eccitato o depresso), segni di disidratazione e/o ipovolemia e dolore. L’anamnesi riferisce di un’insorgenza improvvisa dei sintomi e il proprietario può essere stato testimone di ingestione di corpi estranei o eventualmente di un trauma. Nella valutazione iniziale (ABC= Airways – Breathing –

Circulation) si possono riscontrare segni di alterazione del respiro (polmonite ab ingestis, dispnea restrittiva per distensione addominale), ostruzione delle prime vie aeree (vomito), tempo di riempimento capillare aumentato (ipoperfusione) o diminuito (Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica: SIRS), polso debole e frequente (ipovolemia, dolore) oppure saltellante (fase iperdinamica dello shock settico), ipotermia (ipoperfusione, esposizione prolungata al freddo intenso) o ipertermia (peritonite, altre infezioni), sollevamento in plica della cute (disidratazione). In genere tutti i pazienti con addome acuto necessitano primariamente di fluidoterapia, ossigenoterapia e terapia del dolore. Contemporaneamente all’accesso vascolare (centrale o periferico) vengono prelevati sangue e urine per la valutazione del Minimum Data Base (MDB) che comprende ematocrito (PCV), proteine totali (TS), glicemia (Glu), azotemia (BUN), striscio di sangue su vetrino, peso specifico delle urine (USG); se disponibile un apparecchio per emogasanalisi verranno valutati eventuali squilibri acido-basici ed elettrolitici. I risultati ottenuti da questi esami, permetteranno da un lato di correggere le anomalie riscontrate nei compartimenti liquidi e nel metabolismo del paziente, dall’altro la loro interpretazione unitamente ad anamnesi e sintomatologia clinica guideranno la scelta diagnostica successiva più opportuna. A questo punto, lo scopo principale è la rapida identificazione del paziente chirurgico.

Tabella 1 Cause di addome acuto correlate al segnalamento Cani di razza grande/gigante con torace stretto e profondo

GDV e torsione splenica

Cani di piccola tagli obesi (Schnauzers femmina iperlipemica)

Pancreatite

Pastore Tedesco

GDV, volvolo mesenterico

Cuccioli di cane e gatto

Corpi estranei gastrici e intestinali, invaginamento intestinale, gastroenterite virale

Gatti

Corpi estranei lineari

Femmine vecchie intere di cane e gatto

Piometra (D.D. rottura e torsione dell’utero)

Cani maschi vecchi

Prostatiti, ascesso prostatico

Maschi criptorchidi

Torsione del testicolo

Cani dalmata, bassotti, bull dog

Ostruzione uretrale da calcoli

Labrador retriever, golden retriever e pastore tedesco vecchi

Emangiosarcoma splenico con emoperitoneo


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È un paziente chirurgico? Il punto cruciale nella decisione chirurgica del paziente con addome acuto viene identificato nelle due parole SE e QUANDO il paziente deve essere sottoposto a chirurgia d’urgenza. Mentre alcune chiare indicazioni sono presenti e non lasciano dubbi nei casi di ferite addominali penetranti, in corso delle quali il paziente DEVE avere

un trattamento chirurgico immediato, lo stesso discorso appare più nebuloso e fuorviante in corso di trauma addominale chiuso o comunque di addome acuto non traumatico. In linea generale il paziente necessita di chirurgia in ogni caso di ferite penetranti la cavità addominale, presenza di aria libera in addome, presenza di batteri al prelievo del liquido addominale, urine e/o bile libera in cavità, emoaddome instabile. L’emoaddome si definisce in-

Tabella 2 Interpretazione del Minimum Data Base in corso di addome acuto PCV < 20% PCV > 60%

Emorragia, neoplasia Disidratazione, contrazione splenica

TS < 3,5 g/dl TS > 8,0 g/dl

Emorragia, infiammazione (settica) Disidratazione

Glicemia < 60 g/dl

Sepsi, neoplasia, ipoglicemia razze Toy, artefatti (PCV > 50%)

Stick BUN > 40

Rotture del tratto urinario, insufficienza renale acuta, disidratazione, shock

Potassemia > 5,5 mmol/l

Rotture del tratto urinario, insufficienza renale acuta

Striscio ematico • Neutropenia • Trombocitopenia

• Sepsi • CID, sepsi, infiammazione/infezione, emorragie gravi, neoplasia

Da: Walters, PC: Approach to the acute abdomen. 2000. Modificato

Tabella 4 Lavaggio peritoneale diagnostico (DPL)

Tabella 3 Addominocentesi: Tecnica dei quattro quadranti

4. si attende 1-2 minuti la fuoruscita di liquido da uno o più aghi. Più probabile la raccolta di liquido dal quadrante craniale destro

(A) svuotare la vescica, tricotomia e disinfezione dell’addome (B) inserire il catetere endovenoso di tipo “sopra l’ago” da 18 G – 16 G nella cavità addominale appena caudale e laterale all’ombelico (C) infondere 20 ml/kg di soluzione salina tiepida e rimuovere il catetere (D) massaggiare delicatamente l’addome (E) dopo trenta minuti eseguire una singola centesi o la tecnica dei quattro quadranti, analizzare il liquido e interpretare i risultati

5. analisi del versamento e interpretazione dei risultati

È normale non riuscire a rimuovere completamente la soluzione infusa.

1. tricotomia e disinfezione della regione ventrale dell’addome 2. tenendo l’ombelico come centro si divide la parete ventrale dell’addome in quattro quadrati immaginari 3. in ognuno dei quattro quadrati viene inserito un ago da 22 G (senza siringa)

Tabella 5 Interpretazione del liquido peritoneale Colore

Verde = peritonite biliare Emorragico = emorragia Sieroso trasparente = infiammazione

Torbidità

Torbido con flucculi di fibrina = peritonite

PCV addominale

Comparare l’andamento con quello del sangue periferico

Globuli bianchi

> 500 mm3 = peritonite

Citologia

Neutrofili tossici con o senza presenza di batteri = peritonite settica/suppurativa Materiale vegetale = perforazione intestinale

Analisi chimica

Creatinina, BUN e potassio più elevati rispetto al siero in caso di rottura del tratto urinario; amilasi più elevata in caso di pancreatite

Da Spreng, D: “To cut or not to cut” EVECCS Proceedings 2002. pp 14-16. Modificato.


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stabile quando lo shock ipovolemico non risponde alle terapie mediche del caso, quando lo stato di shock si ripresenta dopo un iniziale miglioramento dovuto alle terapie mediche, aumento repentino della circonferenza addominale, aumento della pressione intraddominale, valutazione della comparazione tra i valori di ematocrito del liquido addominale rispetto a quelli del sangue periferico. Gli esami collaterali comunemente utilizzati sono la radiografia, l’ecografia (se disponibile), la centesi addominale (o paracentesi), il lavaggio peritoneale diagnostico e la celiotomia esplorativa.

Centesi addominale (paracentesi) e Lavaggio peritoneale diagnostico (DPL) (Tabb. 3 e 4) Il liquido ottenuto tramite le tecniche sopra descritte, deve essere valutato sia dal punto di vista macroscopico (colore, torbidità) che microscopico (SG, TS, PCV, GLI, conta cellulare e tipo cellulare). In conseguenza all’interpretazione dei valori ottenuti (Tab. 5) sarà istituita l’appropriata terapia medica o chirurgica.

Letture consigliate Mattoon JS, Nyland TG: “Ultrasonography of the general abdomen”. In Mattoon JS, Nyland TG (eds.): Veterinary Diagnostic Ultrasound. Philadelphia, PA, Saunders, 1995, pp. 43-51. Hughes, D: “Approach to the acute abdomen”. In ECVECC Proceedings, Amsterdam 2002, pp 11-14. Kolata RJ: Diagnostic abdominal paracentesis and lavage: Experimental and clinical evaluation in the dog. J Am Vet Med Assoc 168: 697-699, 1976. Walters PC: Approach to the acute abdomen. Clinical Techniques in Small Animals Practice. 15, 2, pp. 63-69, 2000. O’Brien, R: “Radiography of the Critical care Patient”. In Wingfield WE, Raffe MR (eds.): The veterinary ICU Book. Jackson Hole, Wyoming. Teton NewMedia. 2002.

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Wrigley, RH: “Critical Care Applications of Abdominal Sonography”. In Wingfield WE, Raffe MR (eds.): The veterinary ICU Book. Jackson Hole, Wyoming. Teton NewMedia. 2002. Spreng, D: “To cut or not to cut”. In ECVECC Proceedings, Amsterdam 2002, pp 14-16. Mongil et al: Traumatic hemoperitoneum in 28 cases. A retrospective review. J Am Anim Hosp Assoc, 1995. Devey, J: Pluggin the holes. What to do with the bleeding trauma patient. In EVECCS Proceedings, Lisbona 2003, pp 78-85. Holt, D and Brown, D: Acute abdominal and gastrointestinal emergencies. In Lesley King and Richard Hammond (eds) Manual of canine and feline emergency and critical care. BSAVA pp 127-144. Kirby BM: Peritoneum and peritoneal cavity. In Textbook of Small Animal Surgery. Third Edition. Slatter D (ed). Saunders Philadelphia, 2003 pp 414-445. Aumann M and Drobatz, K: Uroperitoneum in cat: a retrospective study. In IVECCS Proceeding 1996. CD Room www.veccs.org Schmiedt et al: Evaluation of abdominal fluid: peripheral blood creatinine and potassium ratio for diagnosis of uroperitoneum in dogs. JVECCS 11,4; 2001 pp 275-280. Kyles AE, Aronsohn M, Stone EA: Urogenital surgery. In Lipowitz AJ, Caywood DD, Newton CD, Schwartz A (eds) Complications in Small Animal Surgery: diagnosis, management, prevention. Williams & Wilkins, 1996. pp 455-525. Hardie EM, Rawlings CA, Calvert CA: Severe sepsis in selected small animal surgical patient. JAAHA 1986; 22: 33. Lanz OI, Ellison GW, Bellah JR: Surgical treatment of septic peritonitis without abdominal drainage in 28 dogs. JAAHA, 2001, 37: 87. Staaz AJ, Monnet E, Seim HB 3rd. Open peritoneal drainage versus primary closure for the treatment of septic peritonitis in dogs and cats: 42 cases (1993-1999). Vet Surg 2002; 31:74. Hosgood GL and Salisbury KS: Pathophysiology and pathogenesis of generalized peritonitis. Prob Vet Med. 1989; 1: 159. Crowe DT: The septic and dirty abdomen. In Proceedings IVECCS VII. Orlando, FL, 2000 p 567.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Luca Formaggini Clinica Veterinaria “Lago Maggiore”, C.so Cavour, 3 Dormelletto (NO) Tel +39 0322 243716 - Fax +39 0322 232756


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È possibile diagnosticare una malattia infettiva? Tommaso Furlanello Med Vet, Padova

RELAZIONE NON PERVENUTA È possibile scaricarla dal sito web: www.sanmarcovet.it

Indirizzo per la corrispondenza: Tommaso Furlanello - Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Via Sorio n. 114/c, 35141 Padova tel 049 8561098 - fax 02 700518888 e-mail: mc@sanmarcovet.it


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Approccio diagnostico-terapeutico all’otite cronica Casi clinici interattivi Giovanni Ghibaudo Med Vet - Samarate (VA) e Fano (PU)

Federico Leone Med Vet - Senigallia (AN)

L’orecchio esterno del cane e del gatto è rivestito da cute che non differisce da quella riscontrabile nel resto della superficie cutanea. Con il termine di otite esterna si definisce un processo infiammatorio, acuto o cronico, del condotto uditivo esterno (CUE). Il CUE è costituito da due porzioni: una, ad andamento verticale, in diretta comunicazione con il padiglione auricolare e l’altra, ad andamento orizzontale che si porta fino all’ingresso della cavità timpanica. La membrana del timpano, che oblitera l’ingresso alla cavità, costituisce il fondo del CUE e separa l’orecchio esterno dall’orecchio medio. L’otite esterna è una patologia ad eziologia multifattoriale. Secondo la classificazione eziologica vengono identificati tre categorie di fattori in grado di dar luogo ad un’otite esterna (Tab. 1): fattori predisponenti, fattori primari e fattori perpetuanti. I fattori predisponenti sono quelli che aumentano notevolmente il rischio di insorgenza di otite, i fattori primari sono sufficienti da soli a causare otite mentre i fattori perpetuanti sono quelli in grado di mantenere ed alimentare l’infiammazione aggravandone l’espressione clinica ed impedendone la risoluzione. Il risultato dell’azione, singola o combinata, di queste tre categorie di fattori, è rappresentato dall’otite il cui quadro clinico sarà tanto più grave in funzione della quantità di fattori in causa. L’approccio diagnostico-terapeutico a un otite cronica prevede di identificare e controllare, in una prima fase, le infezioni secondarie (fattori perpetuanti) e, successivamente, identificare e combattere i fattori primari e predi-

sponenti eventualmente coinvolti nell’insorgenza dell’otite. Durante la relazione verranno presentati dei casi clinici interattivi di otiti con problematiche diagnostiche e terapeutiche.

Bibliografia Arcelli R, Leone F: Otiti nel cane e nel gatto. Ed. Poletto, Gaggiano (2001). August JR: Malattie del canale auricolare. Cl. Vet. Del Nord America ed. Delfino (1990). Carlotti DN, Taillieu-Le Roy S: L’otite externe chez le chien: étiologie et clinique, revue bibliographique et etude retrospective portant sur 752 cas. Prat Méd Chir Anim Comp, 32: 243 (1997). Gotthelf LN: Small animal ear disease: an illustrated guide. Ed Saunders (2000). Griffin CE: Otitis externa and media. In Current veterinary dermatology (Griffin CE, Kwochka KW, MacDonald JM). Mosby-Year Book, St Louis 245 (1993). Harvey RC, Larari J, Delauche AJ: Malattie dell’oreccho del cane e del gatto. Ed Masson-EV, Milano (2001). Marignac G: Atlas des otites chez les carnivores domestiques. Ed. Med’Com, Paris (2000). Scott DW, Miller WH, Griffin, CE: External ear diseases. In Muller and Kirk’s small animal dermatology. 6th ed., WB Saunders, Philadephia, 1203 (2001).

Indirizzo per la corrispondenza: g.ghibaudo@tin.it Federico Leone, Clinica Veterinaria Adriatica SS Adriatica Nord 50/1-2, 60019 Senigallia (AN) Telefax: 071.66.10.072 – E-mail: mrfeleo@libero.it

Tabella 1 FATTORI PREDISPONENTI

FATTORI PRIMARI

FATTORI PERPETUANTI

Conformazione

Parassiti

Infezioni batteriche

Eccessiva umidità

Microrganismi

Infezioni da lieviti

Conseguenza di trattamenti

Ipersensibilità

Alterazioni patologiche progressive

Patologie ostruttive del condotto

Disordini della cheratinizzazione

Otite media

Patologie sistemiche

Corpi estranei Malattie autoimmuni Malattie virali o presunte tali


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Lo sviluppo comportamentale del gattino, la comunicazione territoriale e la scelta del gattino Sabrina Giussani Med Vet, Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA)

Lo sviluppo comportamentale del gattino L’accrescimento corporeo e l’acquisizione dei moduli comportamentali sono strettamente legati allo sviluppo del sistema nervoso e alle stimolazioni presenti nell’ambiente. Il processo di attaccamento è fondamentale per portare a compimento sia l’accrescimento corporeo sia la maturazione psichica dei gattini: la madre grazie alla percezione dei feromoni di adozione contenuti nel liquido amniotico mette in atto le cure parentali mentre la secrezione delle apaisine permette un corretto sviluppo sensoriale e motorio dei piccoli. Durante il periodo prenatale l’embrione possiede alcune competenze sensoriali: la sensibilità tattile è presente intorno al ventunesimo giorno di gravidanza mentre il gusto e in parte l’olfatto compaiono intorno al quarantesimo giorno di vita. Per migliorare la tolleranza al contatto dei gattini è necessario accarezzare e massaggiare ripetutamente l’addome della gatta gravida. Nel periodo neonatale, che si estende dalla nascita all’apertura degli occhi da parte dei piccoli, nasce il legame di attaccamento madre – gattino che permette la messa in atto delle cure parentali. A volte, soprattutto in relazione alla presenza di un pericolo, la madre sposta i gattini sollevandoli e afferrandoli alla collottola: i piccoli devono rilassare completamente l’intera muscolatura ad eccezione del dorso, la coda viene portata tra le gambe, gli occhi sono socchiusi e ogni comportamento è inibito. Il riflesso “di portage” sarà utilizzato dal Medico Veterinario durante la prima visita post adozione per valutare la tolleranza alla manipolazione del gattino. Il periodo di transizione è molto breve, quasi virtuale nel gattino. Il legame di attaccamento diventa reciproco e il piccolo identifica quella forma e quell’odore come “la propria madre”, un polo rassicurante: la presenza delle apaisine, feromoni di appagamento prodotti nel solco intermammario, stabilizza le emozioni del gattino. Il periodo di socializzazione, che inizia intorno alla seconda settimana di vita del gattino e si conclude con il distacco dalla madre, è caratterizzato dalla socializzazione primaria, dall’acquisizione degli autocontrolli e dalla creazione di un livello di omeostasi sensoriale di riferimento. La socializzazione comporta l’acquisizione di sistemi di comunicazione tra il gatto ed altre specie (socializzazione interspecifica) e/ o tra il gatto e i conspecifici (socializzazione intraspecifica). In questo modo gli esseri umani, i cani o gli altri animali saranno considerati conosciuti e non pericolosi. Dall’età di tre settimane i gattini effettuano giochi di lotta corpo a corpo che consistono in mordicchiamenti e in graffiature. L’eccitazione provocata dal gioco porta ad aumentare l’intensità del morso fino a provocare

un grido di dolore da parte del compagno. La madre punisce i morsi non controllati e le corse sfrenate infliggendo piccoli colpetti sul naso del gattino o graffiandogli l’addome con gli arti posteriori. Il piccolo viene punito anche quando sfodera le unghie durante un gioco o una relazione sociale. È fondamentale inoltre che il gattino possa interagire con gli stimoli esterni esplorando il mondo che lo circonda al fine di permettere la creazione di una corretta omeostasi sensoriale. Il distacco inizia subito dopo lo svezzamento e termina tra la settima e la nona settimana di vita del gattino: la madre si allontana sempre più frequentemente e si sottrae in occasione della poppata. Il gattino diventa “autonomo” dal punto di vista comportamentale e la fonte di appagamento sarà costituita dall’organizzazione del territorio.

La comunicazione territoriale Il territorio è composto da numerose aree ciascuna riservata allo svolgimento di un preciso comportamento, delimitate da marcature visive e olfattive. È possibile rilevare tre tipi di campi territoriali: i campi di attività, i campi di isolamento e il campo di aggressione. I campi di attività sono le zone in cui il gatto svolge la caccia (comportamento di alimentazione), il gioco, l’eliminazione. I campi di isolamento corrispondono alle aree di riposo o alle zone in cui l’animale si apparta ed evita il contatto. Per quanto riguarda il campo di aggressione si tratta di uno spazio di dimensione variabile incentrato sull’individuo. Qualsiasi introduzione provoca un comportamento di aggressione. Le dimensioni di questa area variano in funzione dello stato emozionale e fisiologico dell’animale: quando un gatto è ferito o impaurito è notevolmente ampia. I campi territoriali sono collegati fra loro per mezzo di sentieri invisibili che il gatto organizza nel corso delle differenti attività di esplorazione. I segnali visivi (le posture) e olfattivi (i feromoni) non solo permettono al gatto di orientarsi nell’ambiente ma costituiscono anche il mezzo di comunicazione con i conspecifici e con gli esseri umani. I segnali territoriali sono costituiti dalle graffiature e dalle marcature urinarie. Le graffiature possiedono una funzione di comunicazione grazie alla combinazione di segnali visivi (le tracce lasciate dai graffi) e olfattivi (i feromoni escreti dalle ghiandole interdigitali). Sono effettuate in vicinanza dei campi di isolamento, di caccia (o di alimentazione), di eliminazione e nei luoghi di passaggio tra l’interno e l’esterno dell’abitazione. Le marcature urinarie sono realizzate emettendo uno spot di urina del diametro


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di 10-20 centimetri (che costituisce un segnale visivo) circa ad un’altezza di 30-50 centimetri da terra su di un supporto verticale. Sono caratterizzate da una specifica sequenza comportamentale: il gatto rimane in stazione quadrupedale (non si accuccia), muove alternativamente i piedi mentre la coda tenuta in posizione verticale vibra. Le marcature urinarie di tipo reattivo indicano la presenza di un occupante abituale del territorio e sono deposte nei pressi dell’intersezione tra una via di passaggio (sentiero) ed un campo di attività mentre quelle di tipo sessuale sono effettuate in prossimità delle uscite verso l’esterno (porte e finestre) e vengono spesso accompagnate da vocalizzi. Le marcature urinarie sono realizzate sia dai maschi sia dalle femmine. L’orchiectomia e l’ovariectomia sono in grado di inibirne la comparsa solo se effettuate prima del periodo pubertario. I segnali di identificazione sono costituiti dai feromoni facciali. Sono deposti mediante lo sfregamento della parte laterale del viso sugli oggetti inanimati (la frazione F3 è la secrezione deposta sugli oggetti che fanno parte dell’ambiente in cui il gatto vive, soprattutto su quelli che si trovano lungo i sentieri) e sugli esseri viventi esplorati (la frazione F4 è la secrezione deposta sui conspecifici appartenenti alla stessa colonia, sugli animali e sugli esseri umani che fanno parte “del gruppo famigliare”). Grazie alla presenza dei feromoni facciali l’ambiente diviene conosciuto e non rappresenta più un pericolo.

La scelta del gattino L’età ottimale di adozione si aggira intorno ai 55 giorni di vita. È necessario scoraggiare il proprietario di fronte ad una adozione precoce. È preferibile scegliere il gattino che si avvicina spontaneamente al futuro proprietario, che depone le marcature facciali sfregando le guance, che mostra una buona tolleranza alla manipolazione e che, in risposta al sollevamento effettuato afferrando la cute alla collottola (“test di portage”) si rilassa ponendo la coda tra gli arti posteriori. Questa prova è indice della relazione avuta con la madre ed ha valore predittivo per quanto riguarda la tolleranza al contatto.

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Conclusioni Un corretto sviluppo del sistema nervoso, un ambiente di vita ricco di differenti stimoli (uditivi, visivi e tattili) e la presenza di una figura di attaccamento (che svolge non solo un ruolo educativo ma anche di polo rassicurante) sono “ingredienti” indispensabili per raggiungere un corretto sviluppo comportamentale. È necessario che il Medico Veterinario realizzi efficaci strategie di prevenzione presso gli allevatori al fine di garantire il corretto sviluppo comportamentale del gattino. La visita comportamentale post adozione è fondamentale per preparare i proprietari alla convivenza con un animale da compagnia. Le necessità etologiche del gattino spesso sono ignorate e dare informazioni corrette permette di prevenire alcune patologie del comportamento salvaguardando sia il benessere dell’animale sia quello della famiglia.

Bibliografia Arpaillange C. e Mège C., (2000), “Texte de conferences”, Scuola di Specializzazione in Patologia del Comportamento del cane e del gatto, Tolosa. Bradshaw J. W. S. (1996), “Il comportamento del gatto”, Edagricole, Bologna. Dehasse J., (2001), “L’educazione del gatto”, Alberto Perdisa Editore, Bologna. Giussani S., (2001), “L’educazione del cucciolo e del gattino… il ruolo del Medico Veterinario Generalista”, il Chirone, Organo ufficiale pro tempore della federazione degli ordini dei Medici Veterinari della Lombardia. Giussani S., Colangeli R., (2004), “Medicina comportamentale del cane e del gatto”, Poletto Editore, Gaggiano. Leyhausen P., (1994), “Il comportamento dei gatti”, Ethologica 1, Adelphi edizioni, Milano. Pageat P. (1997), “La communication chimique dans l’univers des carnivores domestiques“, Le Point Vétérinaire, vol. 28, n° 181. Pageat P. (1999), “Les phéromones d’attachement “, Pre – congrès Mondialvet, Lyon. ZOOPSY, (2001), “ Le comportement du chien et du chat dans la pratique quotidienne “, Module prévention et éducation, Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon.


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Nuovi impieghi dei feromoni nel cane: - le paure - l’iperattaccamento Sabrina Giussani Med Vet, Comportamentalista ENVF, Busto Arsizio (VA)

I feromoni I segnali chimici sono il più antico e diffuso mezzo di comunicazione utilizzato nel mondo vegetale e animale. Tra le sostanze ad azione intraspecifica è possibile evidenziare i feromoni. I Carnivori, tra i Mammiferi, sono dotati del maggior numero di strutture in grado di produrre feromoni ma i meccanismi neurofisiologici messi in gioco dalle secrezioni feromonali non sono ancora totalmente conosciuti. Secondo P. Pageat i feromoni sembrano influenzare la produzione degli ormoni sessuali e provocare modificazioni emozionali che sono alla base dell’emissione di risposte comportamentali differenti (come ad esempio l’evitamento, la fuga o l’aggressione) a seconda delle variazioni dello stato reattivo dell’individuo. Nei Mammiferi i feromoni sono escreti da differenti strutture ghiandolari distribuite nell’epidermide e nelle mucose attorno agli orifizi naturali. Nel cane le principali strutture secernenti sono le ghiandole sebacee poste nel solco intermammario, le ghiandole periorali, le ghiandole ceruminose poste nel padiglione auricolare, le ghiandole anali (che comprendono le ghiandole epatoidi circumanali, le ghiandole sebacee poste nella parte cutanea dell’ano, la mucosa rettale e i seni paranali), le ghiandole sottocaudali, le ghiandole sopracaudali e le ghiandole podali (diffuse nei cuscinetti plantari e nella cute della regione interdigitale). Inoltre è possibile evidenziare la presenza di feromoni definiti di adozione che sembrano essere in soluzione nel liquido amniotico. Le secrezioni feromonali possono essere trasmesse attraverso l’aria, l’acqua, oppure deposte sul suolo o su supporti solidi. Nella percezione e riconoscimento dei feromoni sembra essere maggiormente coinvolto l’organo vomeronasale o di Jacobson, costituito da un canale pari situato nel pavimento della cavità nasale che sbocca nel canale incisivo. Per quanto riguarda i Mammiferi, i feromoni evidenziati sono stati classificati in relazione alle ghiandole secernenti o in ragione della loro azione. È possibile riconoscere feromoni di adozione, di appagamento (le apaisine), di identificazione, di delimitazione territoriale, di allarme e sessuali. L’Apaisina favorisce la nascita del legame di attaccamento primario (cucciolo – madre), legame che si instaura nella sua completezza tra la seconda e la terza settimana di vita del cucciolo. La madre diviene un punto di riferimento, un polo rassicurante attorno al quale vengono messe in atto le prime esplorazioni. L’attaccamento permette un corretto sviluppo sensoriale, psicomotorio e sociale. In oc-

casione dell’esplorazione dell’ambiente circostante, il cucciolo tende ad avvicinarsi alla madre in seguito alla percezione di una situazione di pericolo. In questo periodo di sviluppo comportamentale incentrato intorno alla figura materna, l’Apaisina stabilizza la risposta emozionale del cucciolo, tranquillizzandolo e rilanciandone il comportamento esploratorio. Durante il distacco il ruolo della madre si modifica e il cucciolo viene privato dell’appagamento fornito dall’Apaisina. Ne deriva una fase di stress e di ricerca di un nuovo legame all’interno del gruppo sociale di appartenenza. Le ricerche effettuate hanno evidenziato la presenza di una molecola analoga all’Apaisina, prodotta a livello del padiglione auricolare del capogruppo, che sembra essere alla base dell’attaccamento del cucciolo al gruppo sociale.

Le paure La paura è un’emozione primaria di difesa dell’animale provocata da una contesto di pericolo reale. Quando lo stimolo è presentato in una situazione che lascia una via di fuga, piano piano la paura diminuisce ed è possibile l’abituazione: il cane sarà in grado di esplorare lo stimolo e lo identificherà come conosciuto. Quando questa emozione permane anche in assenza di un contesto di pericolo reale prende il nome di fobia, “uno stato reazionale di timore o paura che non permette un adattamento, scatenato da uno stimolo ben identificato (per esempio un rumore, l’essere umano, un’automobile) che normalmente fa parte dell’ambiente in cui vive l’animale” (P. Pageat). È possibile evidenziare fobie ontogeniche e fobie post traumatiche. Le fobie ontogeniche sono legate alle condizioni ambientali in cui avviene lo sviluppo comportamentale del cucciolo dalla terza settimana fino alla dodicesima settimana di vita circa (periodo di socializzazione): • Lo stimolo può non essere mai stato incontrato durante il periodo di socializzazione e sarà immediatamente considerato come pericoloso. • Lo stimolo può essere incontrato regolarmente ma l’animale non può sottrarsi, per esempio allontanandosi, e rapidamente lo stimolo stesso assume una connotazione nefasta e avversiva. In breve tempo si assiste alla sensibilizzazione e alla generalizzazione della fobia anche agli stimoli che precedono e seguono lo stimolo primario ormai divenuto fobogeno.


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Le fobie post traumatiche appaiono dopo il termine del periodo di socializzazione e sono dovute alla esposizione violenta ed improvvisa ad una situazione “pericolosa” come per esempio un incidente. Rapidamente il cane impara a non essere confrontato agli stimoli temuti grazie all’evitamento o alla messa in atto di un comportamento di aggressione. Lo stato fobico evolve e i sistemi neurotrasmettitoriali coinvolti sono dapprima i noradrenergici (midriasi, tachipnea, tremori, minzioni emozionali), successivamente i dopaminergici (ptialismo, vomito, colite) e i serotoninergici. L’utilizzo precoce dei feromoni di appagamento (D.A.P. o Dog Appeasing Pheromone), associato ad una adeguata terapia comportamentale, impedisce l’evoluzione dello stato fobico e permette l’abituazione allo stimolo.

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durre il disagio emozionale quando è presente una patologia del comportamento come la Sindrome da Privazione Sensoriale, la Sindrome Ipersensibilità – Iperattività, la Sociopatia e così via. La presenza del legame di iperattaccamento primario o secondario provoca una “dipendenza” affettiva dall’essere di attaccamento: in assenza del proprietario il cane può effettuare distruzioni (per esempio mobili, divani, libri) vocalizzi, deiezioni emozionali (minzioni e defecazioni realizzate su di un supporto orizzontale ed emesse in tutta l’abitazione). L’utilizzo precoce dei feromoni di appagamento (D.A.P. o Dog Appeasing Pheromone) associato ad una adeguata terapia comportamentale e farmacologica, permette la risoluzione della malattia comportamentale.

Conclusioni L’iperattaccamento Il legame di attaccamento madre - cucciolo nasce nel periodo neonatale grazie alla presenza dei feromoni di adozione disciolti nel liquido amniotico provoca la messa in atto delle cure parentali mentre il legame di attaccamento cucciolo - madre (legame di attaccamento primario) viene messo in atto nel periodo di transizione grazie alla presenza dei feromoni di appagamento. Tale legame permette un corretto sviluppo sensoriale (l’omeostasi sensoriale), psicomotorio (gli autocontrolli) e sociale (le regole gerarchiche, la comunicazione). Il distacco è un “meccanismo” attivo e provoca una grande angoscia nei cuccioli adolescenti. Questo disagio emotivo è solo transitorio poiché il cucciolo crea un legame di attaccamento al gruppo sociale con il quale vive. Il legame di iperattaccamento è indice di una dipendenza affettiva: è legato al mancato distacco (iperattaccamento primario) o alla presenza di una malattia del comportamento che comporta la nascita di uno stato ansioso o depressivo (iperattaccamento secondario). La presenza del legame di iperattaccamento primario sottintende l’Ansia da Separazione mentre il legame di iperattaccamento secondario è un meccanismo “adattativo” messo in atto dall’animale per ri-

Grazie alla nascita della feromonoterapia, le molecole feromonali sono state oggetto di un grande interesse soprattutto nei Carnivori. Il Medico Veterinario, dopo aver emesso una diagnosi, può avvalersi della feromonoterapia e della terapia comportamentale senza l’ausilio farmacologico oppure in associazione a psicofarmaci al fine di risolvere la malattia del comportamento.

Bibliografia Ceva Santé Animale “ I feromoni nel cane e il loro impiego“, La Settimana Veterinaria n° 360, 16 ottobre 2002. Giussani P., Colangeli R., Fassola F., (2002), “L’uso dei feromoni nella terapia comportamentale del cane. Esperienze cliniche”, Rivista di zootecnia veterinaria, vol. 30 n° 2 luglio – dicembre 2002. Giussani P., Colangeli R., Fassola F., (2002), “Approccio clinico all’utilizzo della feromonoterapia nel cane”, Rivista di zootecnia veterinaria, vol. 30 n° 2 luglio – dicembre 2002. Pageat P. (1997), “La communication chimique dans l’univers des carnivores domestiques“, Le Point Vétérinaire, vol. 28, n° 181. Pageat P., (1998), “ Pathologie du comportement du chien “, 2 éditions, Edition du Point Vétérinaire, Maison Alfort Cedex. Pageat P. (1999), “Les phéromones d’attachement “, Pre – congrès Mondialvet, Lyon.


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Ipertensione polmonare nel cane Tony Glaus Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera

Definizione, meccanismi ed eziologia L’ipertensione polmonare (PH) viene definita come un aumento della pressione nell’arteria polmonare e può essere una condizione primaria (PPH) o secondaria. La PPH è un’entità molto rara nell’uomo e viene diagnosticata nei casi in cui non si riesce ad identificare alcuna causa sottostante per la PH e si rilevano i segni istologici tipici della PPH (Fishman, 1998). I fattori scatenanti possono essere rappresentati da tossine, farmaci, infezioni ed una suscettibilità geneticamente determinata a queste lesioni (Rubin, 1997). Nel cane, la PPH è stata caratterizzata di recente (Glaus, 2004).

Tabella 1 Eziologie e meccanismi dell’ipertensione arteriosa polmonare cronica secondaria nell’uomo (Fishman, 1998, modificata) Cardiopatie a) Ipertensione venosa polmonare associata a cardiopatia acquisita (insufficienza miocardica sinistra, endocardiosi della valvola mitrale) b) Aumento della perfusione ematica polmonare nella cardiopatia congenita (grande shunt da sinistra a destra) Vasocostrizione ipossica a) Malattia cronica ostruttiva delle vie aeree profonde (bronchite, enfisema) b) Malattia cronica ostruttiva delle vie aeree superficiali c) Disordini che portano ad ipoventilazione alveolare 1. Obesità 2. Sindrome della morte improvvisa del neonato in culla 3. Malattia neuromuscolare 4. Disfunzione della parete toracica 5. Disordini del controllo della respirazione d) Mal di montagna cronico Occlusione del letto vascolare polmonare a) tromboembolismo b) parassiti c) patologia vascolare del collagene Affezioni del parenchima polmonare con perdita di superficie vascolare a) Enfisema b) Bronchiectasia c) Pneumopatia interstiziale cronica diffusa 1. fibrosi 2. Infezione micotica cronica 3. Sindrome da difficoltà respiratoria nell’adulto

L’ipertensione polmonare secondaria si può trovare in molte malattie differenti ed è dovuta a vari meccanismi. Due gruppi importanti di meccanismi patogenetici sono l’aumento della pressione nell’atrio sinistro e l’incremento della resistenza vascolare polmonare. Le cause riconosciute di quest’ultimo sono l’ostruzione intravascolare, il rimodellamento vascolare, le modificazioni patologiche dell’interstizio polmonare, la vasocostrizione arteriosa ed un’associazione di più meccanismi (Fishman, 1998, Tab. 1). In medicina veterinaria, la condizione non è stata oggetto di molta attenzione, fatta eccezione per la forma secondaria a tromboembolismo polmonare ed in particolare associata a filariosi cardiopolmonare (Atkins et al., 1988). Solo recentemente è stato riferito che l’insufficienza cardiaca sinistra e la malattia cronica respiratoria possono essere cause importanti di ipertensione polmonare nel cane (Johnson et al., 1999, Schober et al., 2002). Nella maggior parte dei processi patologici, l’aumento pressorio è dovuto a molteplici meccanismi e quindi è difficile valutare l’importanza di ogni singolo fattore. Ad esempio, in un cane con insufficienza cardiaca da endocardiosi mitralica, l’incremento della pressione nell’atrio sinistro e l’ipossia alveolare da edema polmonare possono essere due fattori che contribuiscono a determinare il problema. Nella filariosi cardiopolmonare l’ostruzione dovuta alla presenza dei parassiti stessi a livello intravascolare, la vasculite, la trombosi e la vasocostrizione ipossica sono tutti fattori capaci di contribuire all’ipertensione polmonare.

Ipertensione polmonare – Ruolo dell’ecocardiografia nella diagnosi In passato, la diagnosi dell’ipertensione polmonare veniva formulata mediante cateterizzazione del ventricolo destro e dell’arteria polmonare principale. Questa modalità è ancora lo standard aureo, tuttavia è invasiva ed è caratterizzata da una disponibilità limitata (Feigenbaum, 1993). Nel cane, la cateterizzazione deve essere effettuata sotto anestesia e ciò può determinare un abbassamento della pressione dell’arteria polmonare e, quindi, influire sulla precisione. Recentemente, è stata oggetto di notevole attenzione l’ecocardiografia, che viene considerata molto utile nella diagnosi dell’ipertensione polmonare perché è assolutamente non invasiva ed ampiamente disponibile. L’indagine ecografica in questo ambito svolge un duplice ruolo. In primo luogo, consente di confermare qualitativamente e quantitativamente un sospetto di ipertensione polmonare. Secondariamente, rappresenta un mezzo importante per escludere o confermare certe cause della condizione, come le cardiopatie sinistre acquisite


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FIGURA 1 - Esame ecocardiografico bidimensionale in M-mode e Doppler a codice di colore di un cane con sincope associata ad endocardiosi bilaterale della valvola atrioventricolare e collasso tracheale.

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FIGURA 2 - Immagine ecocardiografica ed angiografica dell’ipertensione polmonare che si sviluppa secondariamente ad un dotto arterioso pervio (PDA) sinistra-destra.

Figura 2a Figura 1a

Figura 2b

Figura 1b

I riscontri bidimensionali ed in M-mode (Fig. 1a, veduta parasternale destra ad asse breve) indicativi di grave ipertensione polmonare sono rappresentati da dilatazione ed ipertrofia del ventricolo destro (punte di freccia) e dei muscoli papillari (freccia piccola), diminuzione delle dimensioni del ventricolo sinistro ed appiattimento del setto interventricolare (freccia grande). L’esame Doppler a codice di colore (Fig. 1b, immagine congelata da un videotape, veduta parasternale destra ad asse lungo) illustra un rigurgito mitralico e tricuspidale moderato o marcato. In questo caso, si è ritenuto che la grave ipertensione polmonare fosse dovuta a rigurgito mitralico cronico associato ad un’affezione ipossica delle vie aeree superiori ed eventualmente ad iperadrenocorticismo. Alla necroscopia, non è stato possibile identificare alcuna altra causa di sovraccarico pressorio del ventricolo destro.

come l’insufficienza miocardica primaria o quella valvolare cronica (Fig. 1) e le affezioni cardiovascolari congenite con shunt sinistra-destra (Fig. 2). Per rilevare l’ipertensione polmonare sono utili differenti modalità ecocardiografiche. I risconti tipici nelle immagini bidimensionali (2-D) ed in modalità movimento (M-mode) sono la dilatazione del ventricolo destro e dell’atrio destro, l’ipertrofia della parete ventricolare destra e dei muscoli papillari, il movimento paradosso del setto interventricolare e la diminuzione delle dimensioni della camera del ventricolo sinistro (Atkins et al., 1988). Queste anomalie qualitative o persino semiquantitative sono notevoli nell’ipertensione polmonare grave (Fig. 1). Il più utile mezzo ecocardiografico non solo per confermare la condizione, ma anche per misurarne l’entità, è l’esame Doppler del flusso di sangue durante la sistole attraverso una valvola tricuspide insufficiente. Il principio fisico che sta alla base di questa metodica è quello della Conservazione dell’Energia che si esprime nell’equazione di Bernoulli. La base del principio è che la velocità del flusso di sangue fra due comparti dipende dalla caduta di pressione fra di loro, per cui il flusso ematico è tanto più rapido quanto più è elevato il gradiente pressorio. Se attraverso l’esame Doppler a codice di colore è possibile visualizzare un getto di rigurgito della tricuspide e le dimensioni e la qualità del getto stesso consentono la misurazione della sua velocità di picco (vmax), è possibile calcolare il gradiente pressorio di picco (PG) fra il ventricolo destro e l’atrio destro nella sistole, utilizzando l’equazione di Bernoulli semplificata: PG = 4 x vmax2 (Fig. 3) (Currie et al., 1985, Feigembaum, 1993).

Figura 2c L’ecocardiografia bidimensionale (Fig. 2a, veduta parasternale destra ad asse lungo) evidenzia l’ipertrofia ventricolare destra compatibile con sovraccarico pressorio: la parete libera del ventricolo destro (freccia grande) è chiaramente più spessa di quella del ventricolo sinistro (freccia piccola). Esame Doppler a codice di colore (Fig. 2b, veduta parasternale destra ad asse corto) del cono arterioso polmonare: il flusso laminare esclude la stenosi polmonare come causa di sovraccarico pressorio del ventricolo destro; inoltre, esclude un significativo volume di shunt dall’aorta all’arteria polmonare attraverso il PDA. Immagine angiografica (Fig. 2c) in decubito laterale destro dopo iniezione manuale di mezzo di contrasto nell’aorta discendente al di sopra del PDA. Il mezzo di contrasto opacizza simultaneamente l’aorta discendente (Ao), il PDA e la vascolarizzazione polmonare, determinando un quadro compatibile con un PDA sinistra-destra. Il quadro radiologico dell’ipertensione polmonare è dato dal riscontro di arterie polmonari leggermente distorte (frecce; MPA = arteria polmonare principale).

FIGURA 3 - Esame Doppler ad onda continua del rigurgito della tricuspide in un cane con sincope associata ad endocardiosi valvolare atrioventricolare bilaterale e collasso tracheale (veduta apicale sinistra, stesso cane della Fig. 1).

La velocità di picco misurata del rigurgito della tricuspide è di 5,77 m/s, il gradiente pressorio calcolato fra atrio e ventricolo di destra è di 133 mm Hg, il che, in assenza di stenosi polmonare, è compatibile con una grave ipertensione polmonare.


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In condizioni normali, nei pazienti umani e nei cani la pressione dell’atrio destro durante la sistole ventricolare è prossima a 0 mm Hg e nei soggetti con affezioni cardiovascolari del lato destro ma senza segni di insufficienza cardiaca destra la pressione atriale destra è di solito inferiore a 10 mm Hg. Quindi, il valore calcolato di PG del rigurgito della valvola tricuspide (TR) nei soggetti che non presentano segni di insufficienza cardiaca destra è una stretta approssimazione della pressione ventricolare sistolica destra. In assenza di stenosi polmonari, cioè di un gradiente pressorio fra il ventricolo destro e l’arteria polmonare nella sistole, la pressione sistolica del ventricolo destro equivale a quella dell’arteria polmonare. In queste circostanze, il PG del TR è una stretta stima della pressione sistolica dell’arteria polmonare. Come indicato più sopra, per riuscire a calcolare con questi mezzi la pressione del ventricolo destro è indispensabile un getto di rigurgito della tricuspide di elevata qualità, che consenta la misurazione della sua velocità di picco. All’aumentare dell’esperienza dell’operatore e della qualità delle apparecchiature ecografiche, sarà possibile dimostrare e misurare il TR in un gran numero di soggetti. In presenza di un incremento della pressione ventricolare destra, la prevalenza di TR è ancora più elevata (Currie et al., 1985). In presenza di un’insufficienza della valvola polmonare (PI), è possibile calcolare in modo analogo la pressione diastolica dell’arteria polmonare. Partendo dal presupposto che la pressione diastolica del ventricolo destro è prossima a 0 mm Hg, il PG fra l’arteria polmonare ed il ventricolo destro nella diastole equivale alla pressione diastolica dell’arteria polmonare (Feigembaum, 1993).

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Bibliografia ATkins, C.E., Keene, B.W. & McGuirk, S.M. (1988) Pathophysiologic mechanism of cardiac dysfunction in experimentally induced heartworm caval syndrome in dogs: an echocardiographic study. American Journal of Veterinary Research 49,403-410 Currie, P.J., Seward, J.B., Chan, K.L., Fyfe, D.A., Hagler, D.J., Mair, D.D., Reeder, G.S., Nishimura, R.A. & Tajik, A.J. (1985) Continuous wave Doppler determination of right ventricular pressure: a simultaneous Doppler-catheterization study in 127 patients. Journal of the American College of Cardiology 6, 750-756. Feigenbaum, H. (1993) Haemodynamic information derived from echocardiography. In Echocardiography. 5th edn. Ed H. Feigenbaum. Williams & Wilkins. pp 181-215 Fishman, A.P. (1998) Pulmonary Hypertension. In Hurst’s The Heart. 9th edn. Eds R.W. Alexander, R.C. Schlant, V. Fuster. McGraw-Hill. pp 1699-1717 Glaus, T.M., Soldati, G., Maurer, R. & Ehrensperger, F. (2004) Clinical and pathological characterisation of primary pulmonary hypertension in the dog. Veterinary Record 2004 (in press) Johnson, L., Boon, J. & Orton, E.C. (1999) Clinical characteristics of 53 dogs with Doppler-derived evidence of pulmonary hypertension: 1992-1996. Journal of Veterinary Internal Medicine 13, 440-447 Schober, K., Baade, H., Ludewig, E., Aupperle, H. & Oechtering, G. (2002) Cor pulmonale bei Terrierhunden mit chronisch progressiver idiopathischer Lungenfibrose: 19 Fälle (1996-2001). Tierärztliche Praxis 30, 180-189

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Diagnosi, terapia e prognosi del dotto arterioso pervio Tony Glaus Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera

Fisiopatologia

Approccio diagnostico

Durante la vita intrauterina, nell’embrione non si può avere alcuna ossigenazione del sangue presente nei polmoni. Per evitare una perfusione polmonare non necessaria, è presente un’ipertensione polmonare fisiologica, ed il dotto arterioso di Botallo è uno dei numerosi shunt fisiologici che consentono di aggirare i polmoni negli organismi in via di sviluppo. Alla nascita, sotto l’influenza di un’elevata concentrazione di ossigeno nei polmoni, si ha una marcata caduta della pressione arteriosa polmonare ed il dotto arterioso si occlude entro poche ore, inizialmente solo per costrizione da parte dei muscoli periduttali. Dopo la nascita, le pressioni sanguigne sistemiche, sistoliche e diastoliche fisiologiche sono intorno a 120 ed 80 mm Hg, mentre le pressioni fisiologiche sistoliche e diastoliche nell’arteria polmonare sono intorno a 20 e 10 mm Hg. Se il dotto non si occlude, è presente un elevato gradiente pressorio dall’aorta verso l’arteria polmonare nella sistole (120 mm Hg ➠ 20 mm Hg) e nella diastole (80 mm Hg ➠ 10 mm Hg). Quindi, di solito si ha un costante shunt ematico sinistra-destra, dalla circolazione sistemica a quella polmonare. Dal momento che il sangue eiettato dal ventricolo sinistro nell’aorta discendente viene deviato nuovamente verso la circolazione polmonare, la periferia non ne riceve una quantità appropriata. Per compensazione, si deve avere un aumento del volume spinto dal ventricolo sinistro, che quindi va incontro ad un’ipertrofia eccentrica (cioè dilatazione e ipertrofia). Se non si riesce a giungere ad uno stato compensato, si ha una progressiva dilatazione del ventricolo sinistro fino a che la dilatazione stessa raggiunge il punto di scompenso. Il tempo necessario per giungere a questo scompenso dipende dalle dimensioni del dotto e dalla quantità del volume deviato attraverso lo shunt; alcuni cani possono mostrare segni di insufficienza cardiaca congestizia sinistra nel primo anno di vita, mentre altri arrivano a non sviluppare mai alcun segno clinico.

Il dotto arterioso pervio può essere diagnosticato quando si esamina un cane giovane che mostra intolleranza all’esercizio fisico associata a dispnea e tosse, oppure può costituire un riscontro incidentale durante una valutazione clinica di routine. La diagnosi viene formulata principalmente sulla base di semplici metodi clinici, utilizzando le mani ed uno stetoscopio. Nella maggior parte dei cani è possibile apprezzare con la palpazione sotto forma di un fremito ed auscultare una forte turbolenza continua sistolica e diastolica, che è essenzialmente patognomonica della condizione. Tuttavia, in molti cani il fremito può essere estremamente localizzato sul lato sinistro del torace, dietro la scapola. Quindi, se la palpazione e l’auscultazione vengono eseguite soltanto a livello dell’apice o della base del cuore, il soffio può passare inosservato. Un altro riscontro clinico tipico è il polso saltellante. Nel gatto, la componente diastolica del soffio può non essere udibile, il che rende più difficile la diagnosi clinica. Per la valutazione del grado di sovraccarico volumetrico e del rischio di insufficienza cardiaca incombente risultano utili altri test diagnostici aggiuntivi. Se si esegue un ECG, l’anomalia predominante è il voltaggio elevato (onde R alte) che può essere molto marcato. Ciononostante, è raro che un ECG aggiunga importanti informazioni, tranne che nei casi in cui con l’auscultazione si rileva un’aritmia. Al momento della diagnosi è talvolta presente una fibrillazione atriale, che nel contesto del dotto arterioso pervio implica una marcata dilatazione dell’atrio sinistro. Le radiografie del torace sono indicate in tutti i casi per la valutazione delle dimensioni del cuore, del grado di dilatazione dell’atrio sinistro, dei segni di congestione delle vene polmonari o dell’edema polmonare. L’ecografia cardiaca è utile per quantificare il grado di ipertrofia eccentrica del ventricolo sinistro, che può essere esorbitante, la contrattilità e le dimensioni dell’atrio sinistro. L’esame Doppler a codice di colore è utile per la visualizzazione del dotto arterioso pervio e dell’insufficienza mitralica secondaria al grave sovraccarico volumetrico. L’esame Doppler ad onda pulsante e continua del cono arterioso dell’arteria polmonare risulta utile per dimostrare il flusso laminare al di sotto della valvola polmonare e la turbolenza continua al di sopra della stessa e per quantificare il gradiente pressorio dell’insufficienza della valvola polmonare.

Prevalenza La stenosi aortica sottovalvolare, la stenosi della valvola polmonare, il difetto del setto interventricolare ed il dotto arterioso pervio (PDA) sono i quattro disordini congeniti più comuni nel cane. Per ognuna di queste anomalie esistono determinate predisposizioni di razza; tuttavia, il PDA può essenzialmente colpire qualsiasi cane perché fra le razze colpite nei vari Paesi si riscontrano elevate differenze, dovute a diversi pool genetici. Nel gatto, l’anomalia è molto rara.


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Trattamento

FIGURA 1 - Angiografia di un dotto arterioso pervio dopo iniezione di mezzo di contrasto nell’aorta discendente; è evidente la deviazione (shunt) del sangue nell’arteria polmonare e si apprezza chiaramente il diametro minimo del dotto.

FIGURA 2 - Radiografia di un barbone di 6 mesi dopo embolizzazione mediante spirale di un dotto arterioso pervio, effettuata con 4 spirali staccabili. Sono presenti una marcata cardiomegalia ed una dilatazione dell’atrio sinistro secondaria a sovraccarico volumetrico del ventricolo dello stesso lato.

Il trattamento d’elezione è rappresentato dall’occlusione del dotto pervio. Anche se alcuni cani possono vivere parecchi anni senza alcuna occlusione, ad un certo punto ci si deve attendere la comparsa di un sovraccarico volumetrico progressivo con insufficienza cardiaca congestizia. Quindi, se è dimostrabile un grado rilevante di sovraccarico volumetrico, si raccomanda l’occlusione precoce. Esistono due opzioni chirurgiche di base, mediante legatura tramite toracotomia o occlusione per embolizzazione servendosi di cateteri periferici. Il grande vantaggio dell’occlusione con catetere è l’invasività minima, dal momento che non è necessaria alcuna toracotomia, e, quindi, è possibile escludere il dolore associato all’intervento e le potenziali complicazioni. Lo svantaggio è dato dalla necessità di apparecchiature speciali, come il fluoroscopio e gli appositi cateteri. Per la chiusura con catetere, si esegue dapprima un’angiografia per valutare esattamente la localizzazione del dotto, le sue dimensioni e la sua forma (Fig. 1). L’embolizzazione del dotto si ottiene introducendo speciali dispositivi al suo interno, sia attraverso l’arteria femorale che attraverso la vena femorale. A seconda delle dimensioni del dotto, si utilizzano spirali da embolizzazione staccabili (Fig. 2) o l’Amplatzer duct occluder® (Fig. 3). Anche l’impiego del catetere può essere associato alla comparsa di complicazioni, che possono essere rappresentate da dislocazione di una spirale o emolisi in caso di occlusione non completa. Entrambe queste complicazioni non sono state sinora associate ad alcuna compromissione clinica. Le spirali dislocate verso i polmoni di solito vengono ignorate senza tentarne la rimozione. Nei casi di emolisi persistente, si introducono delle spirali aggiuntive per ottenere l’occlusione completa. Entro pochi giorni da un’occlusione del dotto eseguita con successo, si osserva una riduzione significativa del diametro diastolico del ventricolo sinistro, ma non di quello sistolico. Contemporaneamente, di solito si osserva una calo moderato della frequenza cardiaca, probabilmente dovuto al valore elevato della gittata sistolica del ventricolo sinistro, che ora spinge completamente il sangue verso la periferia. Nei mesi successivi si riscontrano solo lievi modificazioni delle dimensioni del cuore, che indicano un rimodellamento irreversibile del ventricolo sinistro secondariamente al sovraccarico volumetrico.

Bibliografia Baumgartner C, Glaus TM. Congenital cardiac defects in dogs: a retrospective analysis. Schweiz Arch Tierheilk 2003;145:527-536 (german). Buchanan JW. Patent ductus arteriosus – morphology, pathogenesis, types and treatment. J Vet Cardiol 2001;3:7-16. Glaus TM, Martin M, Boller M, Johnson MS, Kutter A, Flückiger M, Tofeig M. Catheter closure of patent ductus arteriosus in dogs: variation in ductal size requires different techniques. J Vet Cardiol 2003;5:7-12. Stokhof AA, Sreeram N, Wolvekamp WT. Transcatheter closure of patent ductus arteriosus using occluding spring coils. J Vet Intern Med 2000;14:452-455. Schneider M, Hildebrandt N, Schweigl T, et al. Transvenous embolization of small patent ductus arteriosus with single detachable coils in dogs. J Vet Intern Med 2001;15:222-228.

FIGURA 3 - Angiografia dopo chiusura di un dotto arterioso pervio mediante Amplatzer® duct occluder.

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Diagnosi e trattamento delle malattie delle prime vie respiratorie nel gatto Tony Glaus Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera

Nella maggior parte dei pazienti con malattie respiratorie, non è difficile localizzare il problema al relativo apparato. Esistono numerose anomalie cliniche tipiche, quali starnuti, starnuti inversi, scolo nasale, rumori respiratori udibili, tosse, dispnea e cianosi, che lasciano pochi dubbi sull’origine respiratoria del problema. Il punto centrale per risolvere con successo un problema dell’apparato respiratorio è la sua esatta localizzazione. Sono di importanza cruciale la raccolta di un’anamnesi approfondita e l’accurato esame clinico. La localizzazione alle vie aeree superiori o a quelle profonde è la chiave per formulare una diagnosi differenziale logica e per compiere i passi diagnostici più efficienti. - Si devono effettuare delle radiografie? Se sì: della testa, del collo, del torace? - Si deve ricorrere all’endoscopia? Se sì: del naso, del rinofaringe, della laringe o della trachea e dei bronchi? - Sono necessari degli esami di laboratorio? Quali? Alcuni dei segni chiave citati, come gli starnuti inversi ed i forti rumori respiratori udibili, hanno la loro origine soltanto nelle vie aeree superiori. Altre manifestazioni, come lo scolo nasale, la tosse, la dispnea e la cianosi, possono derivare sia dalle vie aeree superiori che da quelle profonde. Lo starnuto è provocato semplicemente dall’irritazione della mucosa nasale determinata da qualsiasi genere di stimolo fisico o chimico. Lo starnuto inverso è causato in modo simile da qualsiasi irritazione della mucosa del rinofaringe, che provoca uno spasmo della muscolatura faringea. L’animale produce un suono russante inspiratorio e mostra segni di dispnea. Lo starnuto inverso può essere provocato ed aggravato dall’assunzione di cibo o dalla palpazione dell’area faringea. Respirazione rumorosa udibile senza stetoscopio: il flusso laminare dell’aria nelle vie aeree non è udibile. Lo diventa solo quando diviene turbolento. La velocità di flusso è un parametro primario della turbolenza. La causa usuale dell’aumento della velocità e della turbolenza del flusso è il restringimento delle vie aeree, che può essere determinato da proliferazione tissutale, accumulo di muco, corpi estranei o spasmi. A seconda della localizzazione del restringimento, è possibile udire un soffio da stenosi nasale o uno stertore (rumore russante, anche detto stridore rinofaringeo), o uno stridore laringeo. Lo scolo nasale può essere mono- o bilaterale e viene distinto in sieroso, mucoso, purulento o emorragico. Il riscontro monolaterale indica, ma non esclusivamente, un problema nasale locale (ad es., tumori, corpi estranei, nel gatto molto raramente l’aspergillosi).

La tosse è un altro meccanismo di difesa per eliminare le sostanze estranee e si ha in seguito alla stimolazione dei recettori specifici situati fra laringe e bronchi. La dispnea può essere dovuta fondamentalmente a problemi delle vie aeree superiori o inferiori, del cuore, del mediastino, del cavo pleurico, della muscolatura respiratoria (compreso il diaframma), della cavità addominale o del SNC, oppure ad un disturbo metabolico. La difficoltà respiratoria che origina dalle vie aeree superiori risulta particolarmente pronunciata durante l’inspirazione. Di regola, in caso di grave dispnea derivante dalle vie aeree superiori deve essere presente una marcata stenosi e quindi la condizione deve essere accompagnata da forti (inspiratori) rumori respiratori (stridore o stertore).

Ulteriori test diagnostici a seconda della localizzazione del problema Dopo la localizzazione clinica nelle vie aeree superiori, si deve prendere in considerazione la diagnosi differenziale, seguita dai logici passi diagnostici. Le indagini diagnostiche più importanti sono le radiografie (meglio, la tomografia computerizzata) del cranio e l’esame endoscopico con prelievo di biopsie.

Sospetto nasale: Di solito le radiografie vengono effettuate prima dell’endoscopia per evitare di interpretare erroneamente immagini derivanti da lesioni endoscopiche iatrogene.

Sospetto rinofaringeo: Le radiografie spesso non sono molto utili, per cui si ricorre all’endoscopia diretta in anestesia totale.

Sospetto laringeo: La laringoscopia sotto sedazione è il modo più diretto per formulare la diagnosi. Se esiste un sospetto di neoplasia (metastasi?) o di polmonite ab ingestis (ad es., secondaria a paralisi laringea), si può effettuare prima la radiografia del torace.

Sospetto tracheale: Radiografie; quando si sospetta un’ostruzione dinamica (collasso tracheale): l’ideale è la fluoroscopia; in alternativa: radiografie inspiratorie ed espiratorie; se le radiografie non hanno valore diagnostico, endoscopia (tracheoscopia).


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Varie: A seconda dell’età e delle condizioni generali dell’animale, è possibile effettuare per prime le radiografie del torace, l’esame emocromocitometrico completo o il profilo biochimico. Se sono presenti linfonodi ingrossati (infiammatori?, neoplastici?), è indicata l’aspirazione con ago sottile. L’esame citologico dei campioni prelevati con questa tecnica dalle strutture anormali è sempre indicato quando esista qualsiasi sospetto di neoplasia. Ad esempio, se il dorso del naso è deformato in caso di sospetta neoplasia nasale, spesso è possibile penetrare con un ago attraverso le strutture ossee litiche di questa regione.

Malattie nasali I segni tipici delle affezioni nasali sono rappresentati da starnuti, scolo nasale e rumore respiratorio da stenosi nasale. Le malattie importanti delle vie e delle cavità del naso sono le infezioni virali e le neoplasie. Rispetto al cane, le aspergillosi, i corpi estranei ed i parassiti nasali sono rari. Nei casi in cui l’infezione virale è considerata improbabile, è indicata la radiografia (meglio ancora la tomografia computerizzata) della testa seguita da rinoscopia. Quest’ultima va eseguita soltanto dopo la ripresa delle radiografie, per evitare di determinare artefatti radiografici dovuti ad una precedente indagine endoscopica. Per la rinoscopia è possibile utilizzare un semplice otoscopio, un artroscopio rigido o un endoscopio flessibile a fibre ottiche. Dal momento che le vie nasali sono strette, l’esame con tutte le apparecchiature citate è limitato. Servendosi di un otoscopio è possibile visualizzare il tratto prossimale delle vie nasali per un’estensione di 0,5-1 cm. Con un endoscopio rigido (artroscopio) la visualizzazione può giungere fino a livello degli occhi. Con un endoscopio flessibile (ureteroscopio) è possibile esaminare tutte le vie nasali sino al rinofaringe. Si devono sempre prelevare dei campioni bioptici per differenziare le lesioni infiammatorie da quelle neoplastiche. Se si sospetta un’aspergillosi, bisogna prelevare un campione da destinare alle colture micotiche; in questi casi, effettuiamo anche di routine l’invio al laboratorio di un campione di siero per i test sierologici specifici per l’aspergillosi. Il vantaggio di una semplice coltura batterica è discutibile, dal momento che nelle vie aeree superiori si trova in condizioni normali una moltitudine di microrganismi. Il trattamento delle affezioni nasali dipende dalla causa sottostante. La terapia più efficace di una neoplasia (maligna) è la radiazione. I corpi estranei vengono rimossi con delle pinzette. I rari casi di aspergillosi vengono trattati come nel cane mediante applicazioni locali di clotrimazolo ed un ciclo di 6 settimane di itraconazolo per via orale (5-10 mg/kg/die).

Malattie rinofaringee Le manifestazioni cliniche tipiche sono le difficoltà respiratorie con respirazione stertorosa, accessi di dispnea, starnuto inverso, respirazione a bocca aperta e anomalie della deglutizione. Le comuni affezioni rinofaringee del gatto sono rappresentate da corpi estranei (cibo, vegetali), proliferazioni benigne

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(polipi), neoplasie maligne (soprattutto linfoma maligno). Meno comunemente si riscontrano la rinite linfoplasmocitaria cronica e la stenosi rinofaringea (NPS) acquisita. Nell’indagine diagnostica delle affezioni rinofaringee di solito non è necessario ricorrere alle radiografie. Ogni volta che esista il sospetto di una malattia a carico di questi settori, la tecnica diagnostica d’elezione è rappresentata dall’esame endoscopico con uno strumento flessibile. I corpi estranei rinofaringei sono facili da rimuovere. Quando si asporta un polipo rinofaringeo, che di solito origina dall’orecchio medio, è importante rimuoverlo completamente. Una complicazione comune è la sindrome di Horner. Per diminuire il rischio di recidiva, si prescrive un trattamento con prednisolone (1 mg/kg/die per 2-3 settimane). La stenosi rinofaringea viene trattata preferibilmente mediante dilatazione con palloncino utilizzando un catetere insufflabile da valvuloplastica. Questo tipo di approccio è caratterizzato da un’invasività minima e nella nostra esperienza risulta estremamente efficace. Per ridurre il rischio di stenosi recidivante, si prescrive anche in questo caso il prednisolone. Il trattamento d’elezione di un linfoma maligno nasale isolato è la radioterapia, che può essere combinata con la chemioterapia.

Affezioni laringee I segni clinici delle affezioni laringee sono la perdita o la modificazione della voce, la respirazione a bocca aperta, le difficoltà di deglutizione e la dispnea inspiratoria con stridore. Tuttavia, nel gatto le affezioni laringee “cattive” come i tumori, gli ascessi o la paralisi sono rare. Anche in questo caso, la migliore modalità diagnostica è l’endoscopia. Per la valutazione della funzione laringea, l’anestesia deve essere il più possibile superficiale. La migliore visualizzazione si ottiene servendosi di un normale laringoscopio. In presenza di una massa patologica, si può giungere alla diagnosi definitiva attraverso l’esame istologico di un campione bioptico, perché un ascesso o un granuloma non può essere differenziato macroscopicamente da una neoplasia maligna. Gli ascessi vengono trattati chirurgicamente e con antibiotici. La chirurgia della paralisi laringea deve essere effettuata unicamente da uno specialista. Per valutare la fattibilità e l’utilità della radioterapia dei tumori maligni è necessario richiedere la consulenza di un radioncologo. In tutte le malattie citate, può essere necessario praticare una tracheotomia transitoria.

Bibliografia Allen H.S. et al. Nasopharyngeal diseases in cats: a retrospective study of 53 cases. J. Amer. Anim. Hosp. Assoc. 1999; 35:457-461. Glaus T. et al. Balloon dilation for the treatment of chronic recurrent nasopharyngeal stenosis in a cat. J. Small Anim. Pract. 2002; 43:88-90.

Indirizzo per la corrispondenza: Tony Glaus, Dipl. ACVIM und ECVIM-CA Leiter Abteilung für Kardiologie Klinik für Kleintiermedizin Universität Zürich, Winterthurerstr. 260, CH-8057 Zürich


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Diagnosi, terapia e prognosi del versamento pericardico Tony Glaus Dr Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Int. Med), Dipl ECVIM-CA (Car), Dipl ACVIM, Zurigo, Svizzera

Eziologie/cause Il versamento pericardico è la terza cardiopatia del cane in ordine di frequenza e costituisce il 10% circa della totalità delle malattie cardiovascolari. Le neoplasie ed il versamento pericardico idiopatico (IPE) sono le cause più importanti, mentre l’insufficienza cardiaca congestizia, lo sdoppiamento atriale, il trauma, la pericardite batterica o micotica, l’uremia, le ernie peritoneopericardiche, le cisti intrapericardiche e l’ipoalbuminemia sono rare. La neoplasia più comune è l’emangiosarcoma, che origina in genere dall’orecchietta destra, seguita dai tumori della base del cuore. Neoplasie meno comuni sono il carcinoma tiroideo ectopico, il linfoma maligno e il mesotelioma. La diagnosi di neoplasia si fonda sul riscontro ecocardiografico di una massa, tuttavia i tumori diffusi come il linfoma ed il mesotelioma non possono essere differenziati dal versamento pericardico idiopatico. La diagnosi di quest’ultimo viene formulata per esclusione ed il sospetto si ha quando si rileva l’accumulo di fluidi sieroematici o emorragici nel pericardio ed i metodi diagnostici di routine non riescono a dimostrare alcuna causa sottostante (assenza di masse rilevabili all’interno del pericardio mediante ecocardiografia, nessun segno di infiammazione suppurativa o neoplasia all’esame citologico del fluido pericardico, mancanza di qualsiasi cardiopatia rilevante ed assenza di qualsiasi neoplasia polmonare o addominale [milza, fegato] che possa aver determinato metastasi cardiache). [Nel gatto, il versamento pericardico è raro. La causa più rilevante è rappresentata dalla peritonite infettiva felina (FIP). Il versamento pericardico può anche complicare una grave miocardiopatia ipertrofica.] Il decorso clinico della malattia varia in funzione della causa sottostante, persino all’interno della medesima categoria eziologica. Di regola, nei cani con emangiosarcoma la prognosi è estremamente sfavorevole. Al contrario, i soggetti con tumore della base del cuore possono non sviluppare alcun versamento o non mostrare segni clinici di tamponamento per mesi o anni. Nei casi di versamento pericardico idiopatico, esiste un’ampia variazione del decorso; alcuni cani possono essere guariti in seguito alla rimozione della totalità del versamento pericardico con un’unica pericardiocentesi, mentre in altri casi il versamento può presentare ripetute recidive. Questa variazione può essere dovuta a differenti eziologie e/o a diverse risposte dell’ospite ad una causa scatenante. Al momento attuale, l’eziologia del versamento pericardico idiopatico nel cane non è nota; si ritiene che intervengano meccanismi immunitari e, in un ridotto nu-

mero di cani, è stata identificata la presenza di virus. Nell’uomo, è stata essenzialmente stabilita un’associazione eziologica fra differenti virus e meccanismi immunomediati. Infine, va sottolineato che ciò che sembra essere un versamento pericardico idiopatico in alcuni casi può in realtà non esserlo, ma essere invece una neoplasia non rilevata, soprattutto un mesotelioma, che può presentare un decorso progressivo lentissimo.

Approccio diagnostico La diagnosi del versamento pericardico si fonda sui riscontri clinici, supportati dai quadri radiografici ed elettrocardiografici, e viene verificata mediante ecocardiografia. I riscontri anamnestici tipici sono causati dall’insufficienza cardiaca anterograda che si manifesta con intolleranza all’esercizio fisico, debolezza e, talvolta, sincope ed insufficienza destra retrograda, che si presenta con ascite. Ulteriori riscontri all’esame clinico sono rappresentati da tachicardia, polso debole, toni cardiaci attutiti, vene giugulari congeste ed eventualmente reflusso epatogiugulare. L’ascite è tipicamente formata da un trasudato modificato caratterizzato da un basso numero di cellule e da livelli proteici > 25 g/l. Quando tutte queste anomalie sono presenti, è fortemente giustificato il sospetto diagnostico e le ulteriori indagini vengono effettuate principalmente per raffinare la diagnosi. I riscontri radiologici tipici sono rappresentati da cardiomegalia generalizzata, nessun segno di congestione delle vene polmonari e prominenza della vena cava caudale. I riscontri elettrocardiografici tipici comprendono tachicardia sinusale, basso voltaggio ed alternanza elettrica. L’ecocardiografia, oltre ad essere il test più definitivo, risulta utile nella ricerca di una causa sottostante, cioè nell’identificazione di un emangiosarcoma dell’orecchietta destra o di un tumore della base del cuore. Come già ricordato, il mesotelioma è impossibile da differenziare ecograficamente dalla pericardite. Inoltre, l’ecocardiografia è utile per guidare l’ago durante la pericardiocentesi terapeutica. Se ecocardiograficamente non è possibile identificare alcuna massa, l’analisi del fluido pericardico può fornire ulteriori informazioni sul processo patologico sottostante. Citologicamente, è possibile diagnosticare rari casi di linfoma o infiammazione batterica suppurativa. Con la stessa metodica è possibile individuare anche il mesotelioma, tuttavia si possono avere risultati falsi negativi e falsi positivi, per cui gli esiti devono essere interpretati con cau-


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tela. L’analisi del pH del fluido pericardico è stata descritta come un metodo sensibile e specifico per differenziare le neoplasie dalla pericardite idiopatica, ma questa affermazione potrebbe non essere confermata in altri studi e non è di alcuna utilità nelle nostre mani. Infine, in casi particolari, l’esame istologico del tessuto pericardico risulta estremamente utile per la diagnosi definitiva e la scelta del miglior trattamento possibile. Ciò vale in particolare per i casi con versamento ricorrente, in cui non si riesce con altri mezzi ad identificare alcuna causa sottostante. Il tessuto da esaminare può essere prelevato mediante toracotomia di routine, “mini”-toracotomia o toracoscopia.

Trattamento Il trattamento palliativo iniziale per qualsiasi caso di natura neoplastica o idiopatica consiste nella pericardiocentesi. Pur essendo utile, la guida ecografica non costituisce un prerequisito indispensabile. Il monitoraggio ECG, invece, è fortemente consigliato per rilevare l’insorgenza di aritmie iatrogene. I cani vengono posti in decubito laterale sinistro, e si effettua la rasatura e successiva preparazione chirurgica del lato destro del torace nella zona intorno al 4-5° spazio intercostale in corrispondenza della giunzione costocondrale. L’ago si introduce nel punto in cui si riesce ad apprezzare meglio il battito cardiaco. Servendosi di un deflussore e di una valvola a tre vie, si rimuove tutto il versamento. Nei cani in condizioni critiche, la pericardiocentesi viene eseguita senza sedazione, ma in anestesia locale. In quelli in condizioni stabili e in quelli di piccola taglia e particolarmente nervosi, ricorriamo ad una lieve sedazione con buprenorfinaacepromazina IM per evitare movimenti improvvisi dell’animale durante la puntura e quindi per ridurre il rischio di lesione miocardica iatrogena. L’entità del trattamento successivo dipende dalla causa sottostante e dal decorso della malattia. Nei casi di versamento ricorrente è possibile intervenire mediante semplici pericardiocentesi ripetute, pericardiotomia con palloncino, minitoracotomia, toracoscopia e toracotomia esplorativa. Lo scopo della pericardiotomia con palloncino è quello di determinare con metodi caratterizzati da un’invasività minima la formazione di un grosso foro nel pericardio, in modo da consentire il drenaggio permanente del versamento nello spazio pleurico. Lo svantaggio di questa tecnica è che il foro si può richiudere spontaneamente. L’indicazione primaria per questa procedura nel cane è la neoplasia maligna con prognosi sfavorevole. Un passo più aggressivo è rappresentato dalla minitoracotomia. I vantaggi di questa procedura sono la possibilità di realizzare una finestra più ampia nel sacco pericardico e di ottenere un campione di tessuto da destinare all’analisi istologica, praticando soltanto una piccola incisione toracica in confronto a quella di una normale toracotomia. Gli svantaggi sono la necessità di un’anestesia totale, l’aumento dell’invasività con i costi e le potenziali complicazioni che ciò comporta e la mancanza di un’esplorazione diagnostica. L’approccio più definitivo da un punto di vista diagnostico e terapeutico è rappresentato dalla toracotomia completa. Questa permette l’esplorazione totale della cavità pleurica, la pericardectomia subtotale e l’esame isto-

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logico del tessuto. Gli svantaggi sono l’invasività ed i costi per l’anestesia e l’intervento chirurgico, che possono rappresentare il fattore limitante in un cane anziano con una potenziale neoplasia. Un approccio completo simile, ma meno invasivo, è dato dalla toracoscopia; tuttavia, solo pochi istituti accademici sono attrezzati per effettuare questo intervento, e i costi sono ugualmente elevati. Nei casi di neoplasia, oltre alla pericardectomia palliativa si può utilizzare la chemioterapia adiuvante. La somministrazione sistemica di chemioterapici è indicata principalmente per i rari casi di linfoma maligno. Nei soggetti con mesotelioma pericardico si può utilizzare la chemioterapia sistemica con doxorubicina associata alla chemioterapia intracavitaria con cisplatino, tuttavia i risultati ottenuti sono stati molto variabili. Nei casi caratterizzati dalla presenza di una massa a livello dell’atrio/orecchietta di destra, che molto probabilmente sono rappresentati da un emangiosarcoma, di solito non è giustificato il ricorso a sforzi eroici.

Bibliografia Aronsohn, M. G., and J. L. Carpenter. Surgical treatment of idiopathic pericardial effusion in the dog: 25 cases (1978-1993). J. Am. Anim. Hosp. Assoc. 1999;35:521-525. Baumgartner, C., and Glaus, T.M. Acquired cardiac diseases in the dog: a retrospective analysis. Schweiz. Arch. Tierheilk. 2004; submitted (german). Berg, R. J., and W. E. Wingfield. Pericardial effusion in the dog: a review of 42 cases. J. Am. Anim. Hosp. Assoc. 1984;20:721-730. Buchanan, J. W. Prevalence of cardiovascular disorders. In P. R. Fox, D. Sisson and M. S. Moise (ed.), Textbook of canine and feline cardiology: principles and clinical practice, W. B. Saunders, Philadelphia, 1999: pp 457-470. Bussadori, C., Grasso, A., Santilli, R.A. Percutaneous pericardiotomy with balloon catheter in the treatment of malignant pericardial effusion in dogs. Padio Med (Torino) 1998;96:503-506. Day, M. J., and M. W. S. Martin. Immunohistochemical characterization of the lesions of canine idiopathic pericarditis. J. Small Anim. Pract. 2002;43:382-387. Glaus, T.M.: Balloon pericardiotomy for treating idiopathic pericardial effusion in 2 dogs. Proceedings 9th Annual Congress of the ESVIM, IPerugia. 1999, 102. Guglielmino, R., B. Miniscalco, A. Tarducci, M. Borgarelli, F. Riondato, E. Zini, A. Borrelli, and C. Bussadori. Blood lymphocyte subsets in canine idiopathic pericardial effusion. Vet. Immunol. Immunopathol. 2004;98:167-173. Maisch, B. Pericardial diseases, with focus on etiology, pathogenesis, pathophysiology, new diagnostic imaging methods, and treatment. Curr. Opin. Cardiol. 1994;9:379-388. Zayas, R., M. Anguita, F. Torres, D. Giménez, F. Bergillos, M. Ruiz, M. Ciudad, A. Gallardo, and F. Vallés. Incidence of specific etiology and role of methods for specific etiologic diagnosis of primary acute pericarditis. Am. J. Cardiol. 1995;75:378-382. Zini, E., Glaus, T.M., Margiocco, M., Borgarelli, M., et al. Identification of viral genomic sequences in pericardial fluid of dogs affected by idiopathic pericardial effusion. 2004; submitted.

Indirizzo per la corrispondenza: Tony Glaus, Dipl. ACVIM und ECVIM-CA Leiter Abteilung für Kardiologie Klinik für Kleintiermedizin Universität Zürich Winterthurerstr. 260 CH-8057 Zürich


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Patologie dell’articolazione temporomandibolare del cane e del gatto Margherita Gracis Med Vet, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Milano

L’articolazione temporomandibolare (ATM) è una condilartrosi sinoviale, costituita dal processo condiloideo o articolare della mandibola e dalla fossa mandibolare o cavità glenoidea dell’osso temporale. La fossa mandibolare è delimitata caudalmente da un processo retroarticolare (o retroglenoideo) e cranialmente da un’eminenza articolare (rima articolare dorsale). Nei felini domestici la fossa mandibolare è molto profonda, con il processo retroarticolare e l’eminenza articolare sottili ma ben sviluppati. Nel cane, l’eminenza articolare è invece decisamente meno sviluppata. Un menisco, che aderisce circumferenzialmente alla capsula articolare, separa lo spazio articolare in due compartimenti distinti. La porzione laterale della capsula è rinforzata dal legamento temporomandibolare laterale. Nel cane, il processo condiloideo è posto trasversalmente rispetto all’asse lungo di ogni emimandibola, con la porzione mediale inclinata in senso ventrale. Durante l’estensione mandibolare, la porzione laterale scivola ventralmente e rostralmente, ponendo in tensione il legamento laterale. Nel gatto, invece, l’asse di rotazione dei condili è comune ed è praticamente perpendicolare al piano mediano del cranio, per cui l’articolazione può essere vista come un vero e proprio cardine, con movimenti laterali molto limitati o nulli. L’apertura della cavità orale è dovuta all’azione del muscolo digastrico e alla forza di gravità, mentre i muscoli temporale, massetere e pterigoideo mediale sono responsabili dell’adduzione mandibolare, e quindi della chiusura della bocca. Il muscolo pterigoideo laterale è il principale responsabile dei lievi movimenti mandibolari in lateralità. Nel cane, a differenza del gatto, vi è una certa mobilità indipendente delle due emimandibole, grazie alla sinfisi mandibolare dotata di un tessuto fibrocartilagineo lungo il bordo dorsocraniale, e di legamenti crociati fibrosi in sede ventrale. Le patologie più comuni che interessano l’articolazione temporomandibolare del cane e del gatto includono la displasia congenita, la dislocazione traumatica, le fratture ossee, e l’anchilosi. La diagnosi di patologia dell’ATM deve essere basata sui reperti clinici e su quelli radiografici. Le proiezioni radiografiche utili all’individuazione di lesioni articolari includono la proiezione ventro-dorsale o dorso-ventrale, le due laterali oblique, e la frontale a bocca aperta che da alcuni autori viene consigliata solo nel caso in cui le prime tre proiezioni non siano sufficienti ad emettere una diagnosi certa. Le radiografie vanno sempre eseguite in anestesia generale poiché anche lievi errori di posizionamento possono rendere la lettura delle immagini estremamente difficile. Anche l’esame tomografico assiale costituisce un ausilio diagnostico di sicura utilità.

La displasia è riconosciuta in particolare, ma non esclusivamente, nei cani di razza Basset Hound, Setter irlandese e San Bernardo. Radiograficamente in questi soggetti si evidenzia la mancanza o più spesso un ispessimento del processo retroarticolare temporale, un appiattimento della rima articolare dorsale e della fossa glenoidea, oltre che del processo condiloideo mandibolare, il cui asse risulta frequentemente deviato, e un aumento dello spazio articolare. La displasia articolare congenita non è sempre accompagnata da una sintomatologia clinica, ma è tuttavia spesso causa di sublussazione mandibolare. Poiché infatti il processo condiloideo dei soggetti displasici è angolato maggiormente rispetto all’asse lungo della mandibola, durante l’estensione mandibolare la sua porzione laterale si sposta in senso laterorostrale, con stiramento del legamento laterale e conseguente lassità dei tessuti di contenimento dell’articolazione. Questa maggior lassità articolare di un lato, accompagnata da una certa mobilità della sinfisi, permette in alcuni soggetti la dislocazione del processo coronoideo controlaterale lateralmente all’arco zigomatico, causando la cosiddetta intermittent open-jaw locking syndrome (la sindrome da blocco della mandibola in posizione aperta). Questa patologia sembra colpire raramente il gatto in quanto l’arco zigomatico in questa specie è molto arcuato e distante dal processo coronoideo, e vi è probabilmente una minor predisposizione alla displasia articolare. Tuttavia vi sono alcuni casi riportati in letteratura, prevalentemente di razza esotica. Tipicamente i soggetti colpiti dislocano la mandibola lateralmente all’arco zigomatico dopo estensione massima della mandibola, come in seguito ad ampi sbadigli. Un certo grado di lassità articolare deve essere forzatamente bilaterale perché la dislocazione avvenga, ma se è unilaterale, sarà il processo coronoideo controlaterale ad accavallarsi esternamente all’arco zigomatico. È frequente il caso di displasia bilaterale con jaw locking recidivante solo da un lato. I segni e i sintomi clinici includono deviazione mandibolare verso il lato in cui avviene la lussazione laterale del processo coronoideo, con rotazione ventrale della mandibola interessata, lo sviluppo di una tumefazione laterale allo stesso arco zigomatico, incapacità a chiudere la bocca, ptialismo, scialorrea, agitazione, e certa dolorabilità alla palpazione. I cani colpiti a volte imparano a riposizionare spontaneamente la mandibola spalancando ulteriormente la cavità orale e liberando il processo coronoideo dall’arco zigomatico, ma è spesso necessario un intervento sotto sedazione o anestesia da parte del veterinario. Sono stati riportati anche alcuni casi in cani Boxer e Labrador in cui l’impossibilità a chiudere la bocca non era ac-


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compagnata dalla dislocazione del processo coronoideo, ma dalla sola sublussazione del processo articolare. È stato ipotizzato che nei soggetti colpiti da jaw locking recidivante in assenza di displasia articolare si sviluppi una contrattura anomala dei muscoli pterigoidei. Il trattamento della jaw locking syndrome è prevalentemente di tipo chirurgico, mediante osteotomia parziale o totale dell’arco zigomatico, osteotomia del processo coronoideo, o condilectomia. La riduzione manuale della lussazione e l’uso di una museruola di cerotto per alcuni giorni può essere efficace in taluni casi. Le fratture delle strutture articolari costituiscono l’1120% delle fratture mandibolari. Queste possono essere presenti come unica lesione o accompagnare altre lesioni mandibolari e/o mascellari, pertanto l’esecuzione di uno studio radiografico completo del cranio nei soggetti traumatizzati è sempre consigliabile. Le cause principali di frattura dell’ATM sono le cadute dall’alto e gli incidenti d’auto. Tipicamente, i segni clinici includono dolore e rumori di crepitio alla manipolazione mandibolare, eccessiva mobilità, ecchimosi lateralmente agli archi glossofaringei, e malocclusione con deviazione omolaterale della mandibola. Il trattamento può essere chirurgico mediante fissazione intraossea con cerchiaggi metallici (raramente possibile per le ridotte dimensioni anatomiche dei frammenti ossei), condilectomia, o fissazione interarcata con l’uso di resine a ponte tra i canini mascellari e mandibolari. Se si opta per un trattamento conservativo, che risulta spesso efficace, è necessario eseguire controlli clinici e radiografici nei mesi successivi al trauma per escludere lo sviluppo di anchilosi articolare. La lussazione mandibolare di origine traumatica avviene prevalentemente in senso dorsocraniale sia nel cane che nel gatto. La dislocazione caudale della mandibola può avvenire solo in presenza della frattura del processo retroarticolare. Nel caso di lussazione craniale unilaterale si evidenzierà malocclusione e deviazione mandibolare nel senso opposto rispetto al lato lussato (per es. deviazione destra in presenza di una lussazione sinistra). La dislocazione del processo coronoideo in posizione retrobulbare determinerà una riduzione nella retropulsione del globo oculare omolaterale. La lussazione caudale, molto più rara, determina una deviazione caudale della mandibola dello stesso lato. Le lussazioni bilaterali determinano un prognatismo o un brachignatismo mandibolare relativo. Le lesioni traumatiche dell’ATM sono accompagnate da ecchimosi della mucosa orale lateralmente agli archi glossofaringei. Generalmente, la lussazione avvie-

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ne in concomitanza ad altre lesioni ossee che vanno ricercate mediante esame radiografico completo. Il trattamento prevede il reinserimento manuale del condilo nella cavità glenoidea mediante trazione rostrale della mandibola e pressione in senso ventrale del processo coronoideo. Una volta ridotta la lussazione, è consigliabile applicare una museruola di cerotto per alcuni giorni. Se l’instabilità articolare non si risolve, è possibile stabilizzare l’articolazione chirurgicamente mediante cerchiaggi transarticolari, flap muscolari o altre tecniche. La condilectomia omolaterale è un’altra opzione terapeutica di estrema validità. L’anchilosi può essere vera o falsa. Nel primo caso, è causata da lesioni che coinvolgono le strutture intracapsulari, quali fratture, tumori, ferite penetranti e infezioni secondarie. Tipicamente l’anchilosi vera dell’ATM è conseguenza di traumi articolari nel gatto ed estensione di un processo osteomielitico a partenza dalla bolla timpanica nel cane. L’anchilosi falsa è invece conseguenza di patologie extrarticolari che limitano i movimenti dell’articolazione, quali fratture dell’arco zigomatico e del processo coronoideo con formazione di un callo esuberante, e osteopatia craniomandibolare. In ambedue i casi, vi è un’incapacità o limitazione all’apertura della cavità orale, con conseguenti difficoltà di alimentazione. La ridotta mobilità mandibolare induce anche un’atrofia da disuso dei muscoli masticatori. Spesso si sviluppa anche una malocclusione con dislocazione caudale della mandibola. Radiograficamente, nel caso di anchilosi vera si evidenzia un assottigliamento dello spazio articolare, sclerosi ossea, e produzione di osteofiti. Il trattamento chirurgico richiede l’ostectomia di tutte le strutture ossee coinvolte. Tessuto connettivo fibroso occuperà il sito chirurgico in breve tempo, e i muscoli della masticazione manterranno la funzione mandibolare.

La bibliografia è a disposizione su richiesta

Indirizzo per la corrispondenza: Margherita Gracis Clinica Veterinaria Gran Sasso (Via Donatello, 26 - 20131 Milano) Clinica Veterinaria Città di Monza (Via Messa, 7, 20052 Monza, Milano) Tel 338 1874498 E-mail: mgracis@tiscali.it


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Anestesia negli animali non convenzionali Oscar Grazioli Med Vet, Reggio Emilia

RELAZIONE NON DISPONIBILE IN QUANTO BASATA SU VIDEOFILMATI

Indirizzo per la corrispondenza: Oscar Grazioli e-mail: belvet@fastwebnet.it

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Un caso di ciste della ghiandola della terza palpebra (dacriops) in un cane Adolfo Guandalini Med Vet, Dipl ECVO, Roma

Anamnesi: Un cane di razza Dalmata, maschio, 9 mesi fu inviato per la presenza di un “occhio destro rosso” ciclicamente manifesto da circa 1 mese. Il soggetto era stato trattato dal Veterinario curante con antibiotici ad uso topico per circa 15 giorni senza ottenere miglioramento. Le condizioni generali dell’animale erano buone. Non venivano riportati eventi oculari traumatici o flogistici pregressi.

Esame clinico: Il soggetto evidenziava a carico dell’occhio destro (OD) lieve scolo sieroso, iperemia congiuntivale e lieve protrusione della terza palpebra. Il riflesso pupillare diretto ed indiretto erano presenti e normali bilateralmente; la reazione alla minaccia era presente in entrambe gli occhi. Il test di Schirmer (STT), tonometria, biomicroscopia, test della fluoresceina ed esame del fondo dell’occhio mediante oftalmoscopia indiretta erano normali bilateralmente. Il lavaggio nasolacrimale era normale in entrambe gli occhi. La retropulsione del globo era nella norma bilateralmente e non si osservava alcuna resistenza all’apertura della bocca. Alla palpazione del canto mediale attraverso la terza palpebra si percepiva il margine di una massa con superficie liscia non dolente di consistenza duro-elastica. Con la estroflessione della terza palpebra mediante pinza atraumatica non era possibile evidenziare la ghiandola superficiale.

esame ecografico si evidenziò una massa a contenuto liquido di 1.66 X 2.08 cm. di diametro. Fu effettuata una dacriocistorinografia per evidenziare possibili rapporti anatomici tra la massa e l’apparato escretore lacrimale. Tale esame radiografico con mezzo di contrasto diede risultati nei limiti della norma. Per mettere in luce le relazioni anatomiche con le strutture circostanti fu effettuata una TAC senza e con mezzo di contrasto che evidenziò una struttura di natura cistica di 1.8 X 1.89 X 1.67 cm. a contenuto disomogeneo, posta rostro - medialmente al globo oculare. La diagnosi presuntiva fu di ciste (dacriops) della ghiandola superficiale della terza palpebra.

Terapia: Il soggetto fu sottoposto a chirurgia per la rimozione della massa mediante accesso ventro-mediale attraverso la terza palpebra. La struttura fu perforata durante la chirurgia ma fu, comunque, asportata in toto e sottoposta ad esame istologico. L’esame effettuato con colorazione con ematossilina-eosina mostrò una struttura cistica con rivestimento epiteliale cilindrico ed una infiltrazione nello stroma di neutrofili e macrofagi. La diagnosi presuntiva di dacriops fu così confermata.

Aggiornamenti: Il giorno dopo la chirurgia il cane maDiagnosi differenziale: Data la posizione della massa evidenziata erano possibili neoformazioni a carico della terza palpebra e della ghiandola superficiale: neoplasie (melanoma, adenocarcinoma della ghiandola, carcinoma squamocellulare, mastocitoma, papilloma, emangioma, angiocheratoma e linfosarcoma), episclerocheratite nodulare granulomatosa (NGE), granuloma, fasciite nodulare, ciste (dacriops); masse orbitali: ciste dermoide, ascesso, mucocele salivare zigomatico, neoplasie (meningioma, osteosarcoma, reticulum cell sarcoma, mastocitoma, fibrosarcoma, neurofibrosarcoma, adenoma, adenoma lobulare, adenocarcinoma e tumori a componente mista connettivale ed epiteliale), prolasso del grasso orbitale; masse che possono originare da o coinvolgere l’apparato escretore lacrimale: dacriocistite, neoplasie dei turbinati nasali e dei seni mascellari, ciste (canaliculops).

Indagini diagnostiche: L’esame citologico dopo aspirato con ago sottile mostrò la presenza di un contenuto liquido sieromucoso-emorragico contenente emazie degenerate, macrofagi e granulociti neutrofili. Il materiale sottoposto ad esame colturale diede esito negativo. Mediante

nifestava un moderato scolo sieroso ed un lieve edema congiuntivale. Al controllo al giorno 15, l’edema tessutale era del tutto risolto e la ferita chirurgica presentava del tessuto di granulazione. Al controllo del giorno 30 la ferita chirurgica era del tutto guarita, la posizione del globo era normale e non si notavano differenze oggettivabili tra i due occhi.

Discussione e conclusioni: Le lesioni cistiche della regione periorbitale sono dovute alla capacità di ghiandole e dotti presenti nell’area di subire modificazioni cistiche. Queste strutture sono rappresentate, nel cane, dalla ghiandola lacrimale, ghiandola superficiale della terza palpebra, ghiandola salivare zigomatica, epitelio congiuntivale, canalicolo, sacco e dotto nasolacrimale, mucosa dei seni frontali, nasali o mascellari. L’eziologia di queste cisti è legata a malformazioni congenite od a processi riparativi anormali in seguito ad eventi flogistici o traumatici. In questo caso clinico, l’anamnesi, l’età, le caratteristiche cliniche, l’esame istologico erano compatibili con un fenomeno congenito. La localizzazione della ciste è stata descritta come l’indicatore clinico più importante del tessuto di origine.


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La ghiandola superficiale della terza palpebra era l’origine più probabile della ciste. Per ottenere una dimostrazione più convincente dell’origine della ciste sarebbe stato necessario uno studio radiografico con mezzo di contrasto della ciste. Tale studio non fu però effettuato perché l’aspirazione iniziale collassò la porzione orbitale della ciste. Peraltro, dopo la rimozione della ciste fu possibile estroflettere la ghiandola superficiale della terza palpebra, a differenza della situazione clinica iniziale. Sette casi di dacriops sono stati riportati precedentemente nella letteratura veterinaria e ciò evidenzia l’infrequenza di queste lesioni.

Bibliografia Gerding PA, 1991, Epiphora associated with canaliculops in a dog, JAAHA, 27, 424-426; Grahn BH & Mason RA, 1995, Epiphora associated with dacryops in a dog, JAAHA, 31, 15-19, Grahn BH, 1999,Diseases and surgery of the canine nasolacrimal system. In: Gelatt KN, ed.Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 569-581;

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Harvey CE et al., 1968, Orbital cyst with a conjunctival fistula in a dog, JAVMA, 153, 1432-1435; Latimer CA et al., 1983, Membrana nictitans gland cyst in a dog, JAVMA, 183, 1003-1005; Martin CL et al., 1987, Cystic lesions of the periorbital region, Comp Cont Educ Pract Vet, 9, 1022-1029; Moore CP, 1999, Diseases and surgery of the lacrimal secretory system. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 583-607; Playter RF & Adams LG, 1977, Lacrimal cyst (dacryops) in 2 dogs, JAVMA, 171, 736-737; Spiess BM & Wallin-Hakanson N, 1999, Diseases of the canine orbit. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 511-533; Ward DA, 1999, Diseases and surgery of the canine nictitating membrane. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins. 609-618.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Adolfo Guandalini Ambulatorio Veterinario, Via Casetta Mattei 331 00148 Roma Tel.: 06/7804062 Fax: 06/66155059 e-mail: adoreye@tin.it


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Un caso di melanoma epibulbare in un gatto Adolfo Guandalini Med vet, Dipl ECVO, Roma

Anamnesi: Gatto, maschio, castrato, 17 anni. Il proprietario riportava la recente presenza di una massa scura evoluta rapidamente sul globo destro medialmente e di un “occhio rosso” a sinistra.

Esame clinico: Alla visita generale il gatto appariva in buone condizioni generali. Il PLR diretto ed indiretto erano normali bilateralmente. La reazione alla minaccia era normale in entrambe gli occhi così come la reazione alla luce intensa. STT e test della fluoresceina erano normali. Con l’esame tonometrico per applanazione la IOP era di 13 mmHg nell’occhio destro e 23 mmHg nell’occhio sinistro. Mediante l’esame biomicroscopico si evidenziava una massa leggermente rilevata di colore nero localizzata alla giunzione corneosclerale medio-dorsalmente nell’occhio destro; altresì la cornea, l’iride e la lente bilateralmente erano normali. A carico dell’occhio sinistro si osservava l’iniezione dei vasi episclerali. All’esame gonioscopico dell’occhio destro si notava una compressione ma non l’invasione dell’angolo iridocorneale; nell’occhio sinistro l’angolo iridocorneale era normale. L’esame oftalmoscopico indiretto evidenziava un fondo normale bilateralmente.

Diagnosi differenziale: per l’occhio destro coloboma sclerale, stafiloma sclerale, melanoma congiuntivale, melanoma limbare o epibulbare, estensione transclerale di melanomi intraoculari, melanoma metastatico e corpo estraneo. Per l’occhio sinistro la diagnosi prevedeva la differenziazione tra glaucoma primario, secondario o congenito.

Diagnosi: Emocromo e profilo biochimico risultavano nella norma eccetto i valori della creatinina che risultavano ai limiti superiori della norma. Radiografia del torace, ecocardiografia ed ecografia addominale erano normali. Data l’età del soggetto, la posizione e l’aspetto clinico della lesione la diagnosi presuntiva fu di melanoma limbare a carico dell’occhio destro. Data l’assenza di altre manifestazioni cliniche nell’occhio sinistro (uveite, lussazione della lente, ifema, neoplasia intraoculare) la diagnosi proposta fu di glaucoma primario.

Trattamento: Data la rapida evoluzione della massa e l’età del soggetto fu deciso di effettuare un trattamento mediante fotocoagulazione con laser a diodi (30 spots, 1500 mw X 1000 msec) dopo rapida rimozione della porzione della massa rilevata sul piano del globo. La parte asportata fu inviata per l’esame istologico. La terapia postoperatoria consisteva di desametazone 0.2% ad uso topico 3 volte al dì. L’occhio sinistro fu sottoposto a terapia medica con timololo maleato allo 0.5% 2 volte al dì.

Aggiornamenti: Il giorno dopo l’intervento il gatto mostrava un moderato scolo sieroso, iperemia congiuntivale, lieve edema corneale perilesionale ed una uveite anteriore di lieve en-

tità; la massa era contratta e piana sulla superficie del globo. La IOP era di 8 mmHg. A 2 settimane dalla chirurgia si osservava sul sito chirurgico una cicatrice scura e dispersione di pigmento nei tessuti trattati. La IOP a carico dell’occhio sinistro era di 18 mmHg.

Diagnosi: I risultati dell’esame istologico riportavano una diagnosi di melanoma maligno, ben differenziato e non infiltrante a carico dell’occhio destro. Fu diagnosticato sulla base dei rilievi clinici un glaucoma primario a carico dell’occhio sinistro.

Discussione e conclusioni: Il melanoma limbare è riportato infrequentemente nel gatto. Per lo più si tratta di neoplasie con comportamento biologico benigno in soggetti, in genere, > gli 8 anni di età, benché di recente siano stati riportati gatti più giovani affetti. Anche se il termine benigno viene usato per convenzione per queste neoplasie, una descrizione più accurata sarebbe quella di melanomi maligni con sviluppo di metastasi ritardate. Sono localizzati, in genere, nella porzione dorsale del globo, come in questo caso. L’origine di queste neoplasie potrebbero essere i melanociti normalmente presenti al limbo. Il soggetto qui riportato non manifestava il coinvolgimento di altri organi ed apparati benché la neoplasia fosse descritta come istologicamente maligna. Considerando il lungo periodo di latenza descritto in altri casi pubblicati, questo soggetto dovrebbe essere sottoposto ad esame fisico completo (soprattutto linfonodi, milza e fegato), radiografia del torace ed ecografia addominale ogni 3-6 mesi ad iniziare da 6 mesi dopo la diagnosi iniziale. L’occhio sinistro fu diagnosticato affetto da glaucoma primario per l’assenza di altre patologie oculari che potessero generare una ostruzione secondaria dell’angolo iridocorneale.

Bibliografia Betton A et al., 1999, Atypical limbal melanoma in a cat, J Vet Intern Med, 13, 379-381; Day MJ & Lucke VM, 1995, Melanocytic neoplasia in the cat, J Small Anim Pract, 36, 207-213; Glaze MB & Gelatt KN, 1999, Feline ophthalmology. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology.3rd ed. Baltimore: Lippincott, Williams & Wilkins, 997-1052; Harling et al., 1986, Feline limbal melanoma: four cases, JAAHA, 22, 795-802; Martin CL, 1981, Canine epibulbar melanomas and their management, JAAHA, 17, 83-90; Neumann W & Juchem R, 1988, Epibulbares Melanom bei ener katze (epibulbar melanoma in a cat), Tierarztl Prax, 16, 65-68; Sullivan et al., 1996, Photocoagulation of limbal melanoma in dogs and cats:15 cases(1989-1993), JAVMA, 208, 891.894; Whitley RD & Gilger BC, 1999, Diseases of the canine cornea and sclera. In: Gelatt KN, ed. Veterinary Ophthalmology. 3rd ed. Baltimore: Lippincott, Williams & Wilkins,635-673.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Adolfo Guandalini Ambulatorio Veterinario, Via Casetta Mattei 331 00148 Roma Tel.: 06/7804062 Fax: 06/66155059 e-mail: adoreye@tin.it


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Efficacia clinica di Enrofloxacin negli uccelli e nei rettili Claudia Hochleithner Dr Med Vet, Vienna, Austria

Manfred Hochleithner, Dr Med Vet, Dipl ECAMS, Vienna, Austria

Il numero degli animali esotici è in continuo aumento in medicina veterinaria, così come la qualità delle procedure diagnostiche utilizzate in queste specie, come gli esami ematochimici, le radiografie, le ecografie e l’endoscopia. Tuttavia, i veterinari che si dedicano a questi animali devono ancora affrontare principalmente gli stadi finali delle malattie, specialmente negli uccelli ed ancor più nei rettili. Questi casi devono essere trattati come emergenze, anche se sono essenzialmente problemi cronici. Di conseguenza, la diagnosi e la terapia devono essere quanto più possibile rapide per avere una buona probabilità di non perdere il paziente. La proliferazione batterica è uno dei problemi principali in questi stadi della malattia. La malnutrizione, le scadenti condizioni dei ricoveri e le cattive condizioni ambientali sono la causa primaria delle diverse patologie, ma vari batteri peggiorano la situazione e quindi devono essere opportunamente trattati. Da un punto di vista scientifico, si raccomanda il ricorso alle colture microbiologiche con identificazione degli agenti patogeni presenti e antibiogrammi, tuttavia, di solito nella medicina degli animali esotici non c’è il tempo di inviare dei

campioni ad un laboratorio ed aspettare i risultati per avviare la terapia. Quindi, l’esecuzione di indagini colturali a livello ambulatoriale non è solo una pratica economicamente conveniente, ma in molti casi anche una procedura in grado di salvare la vita del paziente. Specialmente negli uccelli, tutto ciò risulta facilmente attuabile, dal momento che fisiologicamente questi animali presentano solo pochissimi batteri Gram-positivi nella flora normale dei tamponi delle coane e della cloaca. Pertanto, qualsiasi crescita abbondante su agar sangue e/o qualsiasi crescita su agar MacKonkey può essere interpretata come “non normale”. Negli anni, sono stati identificati moltissimi ceppi batterici resistenti negli uccelli e, ancor più, nei rettili. Fra i numerosi e differenti batteri, quelli di primario interesse clinico sono E. coli negli uccelli e Pseudomonas aeruginosa nei rettili. Non esiste un “farmaco buono per tutte le terapie antimicrobiche”, per cui gli autori nei casi più gravi ricorrono all’esecuzione di antibiogrammi ambulatoriali anche senza l’esito di esami colturali precedenti. Ciò consente di ottenere risultati entro 12 ore. Antibiotici utilizzati negli uccelli e nei rettili:

Farmaco

Dosaggio negli uccelli

Dosaggio nei rettili

Amikacina

10-15 mg/kg im, iv, sc BID o TID

5 mg/kg iniziali, poi 2,5 g/kg im ogni 72 ore

Cefalessina

35-50 mg/kg QID po

20-40 mg/kg po BID

Cloramfenicolo

50 mg/kg TID im

50 mg/kg po ogni 24ore

Clindamicina

100 mg/kg SID po

5 mg/kg po ogni 24h

Doxicillina

100 mg/kg ogni 5-7 giorni

10 mg/kg ogni 5-7 giorni

Enrofloxacin

5-15 mg/kg im, po SID o BID

5-10 mg/kg im, po ogni 24 ore, tranne che nei serpenti ogni 48 ore

Metronidazolo

10-30 mg/kg po BID

150 mg/kg po settimanalmente

Trimethoprim/Sulfadiazina

16-24 mg/kg po, BID o TID

30 mg/kg im ogni 48h

Normalmente, i clienti portano alla visita i loro animali perché presentano differenti manifestazioni di inappetenza, dispnea, diarrea, talvolta scolo nasale o orale. Tuttavia, la causa di questi segni clinici non è sempre necessariamente un’infezione batterica - per giungere alla diagnosi corretta è necessario effettuare una chiara differenziazione seguita da ulteriori procedure diagnostiche. E in alcuni casi ciò va effettuato entro 1-2 giorni, talvolta anche entro poche ore. La maggior parte dei farmaci antimicrobici utilizzati in medicina veterinaria e umana possono trovare impiego an-

che negli animali esotici. Sono agenti di questo tipo l’enrofloxacin, la doxiciclina e la cefalessina.

Indirizzo per la corrispondenza: Claudia Hochleithner TIERKLINIK STREBERSDORF Mühlweg 5 1210 Vienna AUSTRIA


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Come interpretare le radiografie del torace Barbara Kaser-Hotz Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera

La radiografia toracica è parte integrante di molte procedure di indagine diagnostica. Tuttavia, si tratta di una regione difficile da interpretare radiograficamente. Il presente lavoro è finalizzato a fornire alcune linee guida per questa interpretazione.

Tecnica Le radiografie toraciche vanno ottenute preferibilmente durante la completa inspirazione. Si utilizza una tecnica con valori elevati di kV e bassi di mAs. Ciò è in contrasto con la ripresa delle immagine radiografiche a livello addominale, dove si sceglie il prodotto con il più basso valore di mAs. Nel torace, esiste un elevato contrasto naturale, dato dall’aria all’interno dei polmoni. Se si utilizzassero alti valori di mAs, le costole si sovrapporrebbero completamente ai polmoni e questi ultimi si presenterebbero con una trama interstiziale. Inoltre, le radiografie toraciche sono suscettibili agli artefatti da movimento e questa è un’altra ragione per mantenere bassi i valori di mAs. Una proiezione non è sufficiente. È necessario effettuare di routine almeno una ripresa laterolaterale sinistra ed una destra. Per la valutazione del cuore, spesso si ottengono due immagini, una in proiezione dorsoventrale ed una laterolaterale. È importante ricordare che, a differenza di quanto avviene in altre regioni dell’organismo, le lesioni dei campi polmonari superiori risultano più facili da visualizzare. Ad esempio, una metastasi polmonare circondata da aria si osserva nella parte superiore dei polmoni; se il medesimo lobo polmonare fosse in posizione declive risulterebbe meno pieno di aria e una massa di piccole dimensioni non verrebbe rilevata a causa del minor contrasto.

Interpretazione radiografica Quando si inizia a leggere una radiografia toracica, è preferibile seguire un approccio sistematico. Non ha importanza se tale approccio si attiene ad un disegno anatomico o è maggiormente geometrico. Tuttavia, è preferibile adottare sempre lo stesso approccio per l’interpretazione delle radiografie toraciche. Una possibilità è quella di effettuare la lettura dall’esterno verso l’interno ed iniziare dalla parete toracica, dall’ingresso del torace e dal diaframma e procedere verso il cuore e la vascolarizzazione polmonare per iniziare infine con l’interpretazione del parenchima polmonare.

Parete toracica/diaframma La parete toracica può simulare lesioni localizzate all’interno del polmone. Di conseguenza, è importante effettuare la ripresa di due proiezioni ortogonali. I pazienti traumatizzati possono essere portati alla visita con fratture costali, enfisema, tumefazioni di tessuti molli ed ernie di organi endoaddominali. Esistono lesioni primarie che originano all’interno della parete toracica, come i tumori, gli ascessi o i granulomi. La neoplasia più frequentemente osservata fra quelle che originano dalla parete toracica è il condrosarcoma. Il diaframma viene esaminato per valutarne la continuità. Possono essere presenti ernie traumatiche e congenite. Si considera anche la posizione del diaframma, verificando se entrambi i pilastri siano allo stesso livello o se uno sia più avanzato dell’altro, a causa di un danno nervoso o di una lesione intratoracica o endoaddominale.

Versamento pleurico Anatomia normale Un’importante condizione preventiva per la corretta interpretazione è la conoscenza dell’aspetto normale delle strutture toraciche e delle relative variazioni. Il grasso nel mediastino di un cane brachicefalo non va confuso con una massa, così come il grasso sotto il cuore non deve essere interpretato come un fluido. Un altro trabocchetto è dato dalle giunzioni costocondrali di alcuni cani, che simulano un versamento pleurico. Spesso, le pliche cutanee causano la comparsa di strane linee che attraversano il torace. Tali linee di solito si estendono oltre i campi polmonari e non sono segno di uno pneumotorace.

Nel ridotto spazio esistente fra pleura polmonare e pleura parietale, detto spazio pleurico, si ha un accumulo di liquido. Il torace presenta due sacchi pleurici, uno a sinistra e l’altro a destra. Questi due sacchi comunicano fra loro reciprocamente. La pleura normale non è visibile nelle radiografie. Solo quando il fascio di raggi è diretto ortogonalmente ad essa si disegna una linea sottile. Ciò si verifica talvolta nelle radiografie in proiezione laterolaterale, dove può divenire evidente la linea di fessura fra il lobo polmonare medio e quello caudale. Nei cani anziani, all’interno della pleura è presente una maggior quantità di tessuto fibroso, per cui la sierosa risulta ispessita. L’aumento di spessore della


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pleura è difficile da differenziare da un versamento pleurico di lieve entità. Per poter essere visibile in una radiografia, in un cane di piccola taglia o un gatto devono essere presenti circa 50 ml di fluido, che diventano circa 100 ml in un cane di grossa taglia. Il fluido può essere rappresentato da un trasudato, un essudato, chilo o sangue. Radiograficamente, è impossibile differenziare l’uno dall’altro. Quando i fluidi si accumulano in una sede, monolateralmente, è probabile che la causa di questa raccolta si trovi all’interno del polmone o della parete toracica. L’accumulo bilaterale di fluidi è spesso secondario ad una massa mediastinica, una malattia sistemica (ipoproteinemia) o un problema di origine cardiaca. I segni radiografici del versamento pleurico sono rappresentati da allargamento delle linee di fessura pleuriche, ampliamento delle incisure pleuriche, arrotondamento dei lobi polmonari, segno della silhouette cardiaca e/o diaframmatica, collasso secondario di un lobo polmonare. Per rilevare la presenza di piccole quantità di fluidi, la proiezione dorsoventrale è meno sensibile, perché il versamento si accumula intorno al cuore. Al contrario, nelle immagini ventrodorsali, piccole quantità di fluidi si localizzano negli spazi interlobari e, dal momento che il fluido fa contrasto con i polmoni pieni d’aria, risultano facilmente rilevabili. Normalmente, il liquido pleurico appare uniformemente distribuito fra l’emitorace sinistro e destro, poiché il mediastino non costituisce una barriera. In presenza di aderenze, dovute ad essudati infiammatori o invasione neoplastica, l’accumulo di fluidi può avvenire più localmente. La presenza di liquido pleurico può essere simulata da ernie e masse, soprattutto mediastiniche.

Pneumotorace Si definisce come pneumotorace l’accumulo di aria libera nello spazio pleurico. Quest’aria può derivare da una rottura della struttura polmonare, dal mediastino o direttamente da una ferita penetrante della parete toracica. I segni radiografici dello pneumotorace sono rappresentati da linee e zone radiotrasparenti fra il polmone e la parete toracica. Il cuore si presenta sollevato dallo sterno. In realtà, si sposta verso una porzione più declive del torace. In presenza di un’apertura della parete toracica, l’aria si accumula fino a che la pressione intrapleurica non corrisponde a quella atmosferica. Secondariamente allo pneumotorace, il polmone collassa.

Parenchima polmonare La trama radiografica del polmone serve ad identificare e classificare le lesioni dell’organo. Tuttavia, il riscontro di una specifica trama polmonare non consente di formulare una precisa diagnosi istologica. Tipicamente, si osserva un disegno alveolare nella polmonite ab ingestis. Il parenchima polmonare risulta pieno di fluidi e i soli spazi contenenti aria sono i bronchi. Pertanto, compaiono le broncografie gassose. La polmonite ab ingestis è localizzata più comunemente

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nelle porzioni ventrali del polmone, interessando con maggiore frequenza il lobo medio e la porzione caudale del lobo craniale di sinistra. Anche emorragie, edema e contusioni possono causare le broncografie gassose. L’edema polmonare secondario a insufficienza cardiaca sinistra risulta localizzato a livello dell’ilo e dei campi polmonari caudodorsali. Dapprima si osserva una trama vascolare, con un progressivo riempimento delle vene polmonari, e poi una trama interstiziale ed infine, quando la pressione all’interno della vascolarizzazione polmonare diviene troppo elevata, l’edema determina la comparsa di una trama alveolare. Una trama interstiziale si osserva nelle “alterazioni del cane vecchio”, nelle polmoniti virali o nelle infiltrazioni da linfoma. La trama interstiziale è molto aspecifica. Le metastasi neoplastiche nella maggior parte dei casi si presentano sotto forma di molteplici noduli tondeggianti, piccoli o grandi. Si possono riscontrare anche dei tumori polmonari primari, nel qual caso viene visualizzata solo una massa isolata.

Alterazioni vascolari Il cuore e la vascolarizzazione polmonare vengono esaminati per valutarne dimensioni, forma e localizzazione. Vene e arterie polmonari devono avere le stesse dimensioni. Nella proiezione ventrodorsale, i vasi devono essere più piccoli della corrispondente 9a costola. Nelle radiografie in proiezione laterolaterale si può utilizzare come riferimento dimensionale la 4a costola. In presenza di sovraccarico volumetrico, quale si osserva nello shunt sinistra-destra, si rileva un’ipervascolarizzazione arteriosa. L’aumento di dimensioni delle vene si ha nell’insufficienza cardiaca sinistra. L’alterazione cardiaca osservata più comunemente è l’ingrossamento dell’atrio sinistro, che provoca una dislocazione dorsale dei bronchi principali a livello della biforcazione della trachea. La miocardiopatia nel cane può causare un aumento di dimensioni del cuore con insufficienza cardiaca secondaria sinistra e destra. L’ingrossamento cardiaco destro determina un aumento del contatto con lo sterno ed un arrotondamento del cinto cardiaco craniale. Il versamento pericardico rende il cuore ingrossato e globoide.

Mediastino Esistono diverse anomalie che originano all’interno del mediastino. A livello dell’esofago, che è una tipica struttura mediastinica, si possono riscontrare corpi estranei, ingrossamento e riempimento di liquidi o masse intraparietali. Possono anche essere presenti ernie paraesofagee o gastroesofagee. Si possono effettuare indagini contrastografiche con bario o composti iodati per classificare ulteriormente una lesione. Le neoplasie possono essere presenti in particolare nel mediastino craniale, dove si possono sviluppare linfomi o timomi. Quando vengono delineati i vasi mediastinici, come il tronco brachiocefalico o la vena cava, è presente uno pneumomediastino.


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Ecografia del tratto gastroenterico Barbara Kaser-Hotz Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera

Per lungo tempo, l’esame ecografico del tratto gastroenterico è stato ritenuto impossibile per la presenza di gas nell’intestino. Tuttavia, oggi questa è una procedura d’indagine ben consolidata, che presenta molti vantaggi rispetto alla radiografia convenzionale.

Tecnica d’esame Gli animali vengono disposti preferibilmente in posizione laterale. Il gas si accumula nella porzione non declive dell’addome e quindi, applicando il trasduttore su quella situata più in basso ed effettuando la scansione a partire da questa direzione, si riesce ad evitare le interferenze e gli artefatti causati dal gas intestinale. L’animale può anche essere ruotato per trovare il miglior accesso per la scansione. Si raccomanda che il cane o il gatto siano a digiuno, ma in molte situazioni ciò non è possibile e l’animale deve essere esaminato ugualmente. È stata descritta la somministrazione di fluidi attraverso una sonda gastrica, ma sembra che spesso questa procedura richieda molto tempo e sia stressante. Riassumendo, il tratto gastroenterico può essere esaminato ecograficamente senza alcuna preparazione. È importante seguire una procedura di esame standard. Lo stomaco può sempre essere identificato. Non tutte le regioni possono essere visualizzate con la medesima facilità, ma il corpo e l’antro del piloro di solito risultano accessibili. Si esegue una visualizzazione sia longitudinale che trasversale. Successivamente è possibile identificare il duodeno e seguirlo caudalmente fino alla curvatura inferiore. Le singole anse del digiuno possono venire esaminate, ma risulta impossibile determinarne l’esatta visualizzazione. Ileo e cieco sono visibili ed anche il colon può essere evidenziato, specialmente quando si utilizza la vescica urinaria come finestra acustica.

Anatomia La parete gastroenterica è caratterizzata da una tipica struttura parietale con un’alternanza di strati ipo- ed iperecogeni. Gli strati cosiddetti “m” sono ipoecogeni e risultano costituiti dalla mucosa e dalla muscolare, mentre gli strati “s”, rappresentati da sierosa e sottomucosa, sono iperecogeni. La superficie della mucosa si presenta iperecogena per l’accumulo di gas all’interno delle pieghe della mucosa stessa. Se questa stratificazione va perduta, si può presumere la

presenza di un processo patologico. Lo spessore della parete varia da 2 a 3 mm nel colon sino a 5 mm a livello dello stomaco. Il tratto gastroenterico viene osservato per valutarne la motilità. Lo stomaco si contrae circa 5 volte al minuto, il tenue 3 volte e nel colon non si osservano contrazioni. Normalmente è presente una piccola quantità di gas e fluidi, misti ad ingesta. Un notevole vantaggio dell’ecografia gastroenterica è la possibilità di esaminare nel corso dello stesso esame i linfonodi mesenterici. Questi si presentano come strutture allungate ipoecogene.

Indicazione La prima tecnica di diagnostica utilizzata è ancora l’esame radiografico senza mezzo di contrasto. Questa metodica fornisce un’eccellente valutazione complessiva e può indicare in quali regioni del tratto gastroenterico si deve sospettare la presenza di una patologia. Inoltre, è possibile rilevare i corpi estranei radiopachi ed identificare una posizione anormale o una dilatazione dell’intestino. L’ecografia viene impiegata in presenza di segni clinici acuti di vomito, specialmente quando le radiografie senza mezzo di contrasto risultano inconcludenti. L’esame ecografico può essere effettuato prima di iniziare una procedura con mezzo di contrasto. Un’altra indicazione è la presenza nelle radiografie in bianco di anomalie quali masse non chiaramente identificabili, dilatazioni e quadri gassosi anomali. Negli animali con vomito o diarrea cronici le radiografie possono apparire normali e l’ecografia può servire a valutare ulteriormente la parete del tratto gastroenterico.

Riscontri ecografici anormali L’ispessimento della parete gastroenterica è un riscontro anomalo che si osserva in presenza di infiammazione o infiltrazione neoplastica. Il linfosarcoma, specialmente nel gatto, provoca un ispessimento parietale focale o diffuso con perdita della tipica stratificazione. Anche altri tumori, come il leiomiosarcoma o il carcinoma, causano un aumento di spessore della parete. Sulla base dell’ecografia, è impossibile differenziare esattamente il tipo di tumore. È però possibile prelevare senza rischi un campione per aspirazione con ago sottile da una parete abnormemente spessa. Frequentemente, nelle malattie neoplastiche sono anormali anche i


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linfonodi adiacenti. Non tutti gli ispessimenti parietali sono da attribuire ad un processo tumorale. Anche l’infiltrazione infiammatoria eosinofilica può causare un aumento di spessore della parete, che può essere molto pronunciato. Tuttavia, nella maggior parte dei casi la stratificazione della parete è intatta. In seguito a lacerazioni, corpi estranei o infezioni virali o batteriche del tratto gastroenterico, si può anche riscontrare una parete ispessita ed edematosa. La perdita di stratificazione della parete, come già indicato, è un altro tipo di riscontro identificabile ecograficamente. Si tratta di un notevole vantaggio rispetto alle tradizionali procedure con mezzo di contrasto, che consentono solo una valutazione molto limitata della parete gastroenterica. Il tratto digerente può essere abnormemente dilatato e colmo di fluidi. Questo quadro si osserva in presenza di ileo paralitico o meccanico. Un approccio per definire le cause della dilatazione delle anse intestinali prevede di seguire il decorso dell’intestino partendo dal duodeno e procedendo in direzione distale. Se le anse intestinali sono normali, la causa è più probabilmente rappresentata da un’ostruzione meccanica e seguendo il viscere dilatato spesso è possibile trovare il corpo estraneo o la massa responsabili. Fortunatamente, la maggior parte dei corpi estranei determina la comparsa di un’ombra acustica. Rientrano in questa categoria i materiali come la plastica, la gomma, le pannocchie, il legno, ecc… L’identificazione dei corpi estranei lineari è più difficile, dal momento che non sempre si osserva la dilatazione dell’intestino. In questi casi, è più tipica la formazione di pliche del viscere. Il tratto digerente si presenta vuoto. Un quadro ecografico classico è anche presente nelle intussuscezioni. Invece di una stratificazione parietale, si osservano molteplici strati. A seconda della durata dell’ostruzione, si possono rilevare anche anse intestinali piene di liquido. Le più recenti tecniche Doppler esaminano l’apporto ematico della parete gastroenterica prima e durante l’assun-

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zione dei pasti e permettono di identificare una notevole variazione del flusso ematico a seconda del tipo e della quantità di cibo assunta.

Pancreas Quando si effettua l’esame del tratto gastroenterico, è preferibile comprendere anche il pancreas nella valutazione. Il lobo destro dell’organo si può trovare dorsomedialmente al duodeno, mentre il corpo ed il lobo sinistro sono localizzati caudalmente alla curvatura dello stomaco. Il pancreas normale è leggermente ipoecogeno in confronto al mesentere circostante. La pancreatite può causare un calo focale o diffuso dell’ecogenicità. Spesso, è presente una piccola quantità di liquidi. Il dotto biliare può essere dilatato e la papilla può apparire ispessita. Le lesioni pancreatite più croniche sono maggiormente difficili da trovare. La struttura ecogena può essere immutata o leggermente iperecogena. Gli ascessi pancreatici sono rari, come le cisti. Gli adenocarcinomi dell’organo possono avere un aspetto simile. Gli insulinomi sono tipicamente rappresentati da piccole lesioni tondeggianti ed ipoecogene all’interno del parenchima del pancreas. Le tecniche Doppler possono contribuire a differenziare le tecniche neoplastiche da quelle infiammatorie ed a rilevare la pancreatiche cronica.

Conclusione L’ecografia del tratto gastroenterico è un mezzo di diagnostica per immagini elegante e non invasivo. La maggiore controindicazione è il fatto di dipendere dall’abilità dell’operatore. Tuttavia, con una certa pratica e ripetuti esami, la tecnica può essere impiegata di routine nell’esercizio della professione.


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Diagnostica per immagini in oncologia Barbara Kaser-Hotz Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera

La diagnostica per immagini svolge un ruolo cruciale in oncologia. In primo luogo, nell’indagine diagnostica per definire l’estensione locale e regionale di un tumore ai fini della stadiazione, in secondo luogo per la pianificazione del trattamento ed in terzo luogo per il monitoraggio della risposta terapeutica. La radiografia classica è ancora ampiamente utilizzata per una prima valutazione del paziente neoplastico. In questi soggetti, le radiografie del torace vengono eseguite di routine. Si tratta dell’esame, più semplice, più rapido e più importante effettuato fondamentalmente in tutti i pazienti neoplastici. Prima di attuare un intervento chirurgico aggressivo, un trattamento chemioterapico, una radioterapia o un’associazione di queste metodiche, è necessario escludere la presenza di metastasi polmonari. Ciò non significa che un animale non possa essere trattato se si riscontrano delle metastasi nelle radiografie, ma dal momento che la prognosi è di solito meno favorevole quando un tumore è diventato sistemico, il proprietario può optare per una scelta meno aggressiva o per nessun trattamento. Le radiografie del torace vanno riprese preferibilmente con una tecnica con elevati valori di kV e bassi valori di mAs e durante la completa inspirazione. È fondamentale disporre per l’interpretazione di due proiezioni. Si suggerisce la ripresa delle radiografie toraciche laterolaterali destra e sinistra o di una proiezione laterolaterale ed una dorsoventrale e ventrodorsale. In presenza di una lesione dubbia, si può ricorrere ad una serie di tre differenti radiografie. Se non è ancora chiaro se siano presenti o meno delle metastasi, si può effettuare una tomografia computerizzata o, nel caso in cui questa non fosse disponibile, un esame radiografico di follow-up a distanza di due settimane. Tuttavia, con questo tipo di approccio è necessario essere consapevoli che il tumore primario può continuare a crescere e che l’approccio terapeutico può cambiare. Le metastasi polmonari sono di solito rappresentate da noduli interstiziali sferici di varie dimensioni. Quelle di origine sarcomatosa spesso risultano meglio definite rispetto a quelle derivanti dai carcinomi. Questi ultimi tendono ad infiltrare lo spazio alveolare e, quindi, può essere presente una trama a chiazze. Questo è ad esempio il caso del carcinoma mammario. Si solito è possibile rilevare più di un nodulo, ma anche il riscontro di uno solo di essi può indicare una metastasi. Il tumore polmonare primario è meno comune di quello metastatico. I segni radiografici possono anche essere rappresentati da una massa isolata, ma molto spesso, in particolare nel gatto, risulta coinvolto un intero lobo polmonare. Nel linfosarcoma si osserva una marcata trama interstiziale o finemente nodulare. Spesso sono anche ingros-

sati i linfonodi tracheobronchiali e quelli mediastinici e sternali. Un altro tipo di tumore diagnosticato frequentemente è l’istiocitosi maligna. Queste neoplasie determinano la formazione di grandi masse lobari, con o senza coinvolgimento linfonodale. Occorre sempre tenere in mente che una diagnosi radiografica di metastasi non è una diagnosi istopatologica. Fortunatamente, in Europa non esistono molte diagnosi differenziali per una trama polmonare nodulare diffusa, perché le affezioni micotiche che si osservano negli Stati Uniti non esistono. Tuttavia, è necessario tenere in considerazione le malattie polmonari da infiltrazione eosinofilica o granulomatose dovute a parassiti. Per differenziare ulteriormente queste condizioni è possibile ricorrere all’esame di un campione aspirato con ago sottile da un nodulo superficiale. La radiografia è anche il principale mezzo di diagnostica per immagini per valutare le alterazioni ossee nelle neoplasie primarie o secondarie dell’osso. Consente una buona valutazione complessiva e permette in molte situazioni di differenziare le lesioni aggressive da quelle benigne. Anche in questo caso, dal momento che le micosi non rappresentano un problema in Europa, le lesioni ossee più aggressive sono da ritenere di origine neoplastica. I tumori primari dell’osso di solito riconoscono una componente litica ed una produttiva. Queste neoplasie sono localizzate nelle metafisi delle ossa lunghe, tipicamente nel tratto distale del radio e della tibia, ma anche in quello prossimale dell’omero o in quello distale del femore. I tumori che originano dal sistema emopoietico si osservano più comunemente a livello della diafisi. Le metastasi possono essere localizzate in entrambe le sedi, diafisaria e metafisaria. La tomografia computerizzata, la risonanza magnetica o la medicina nucleare sono tecniche di diagnostica per immagini utili per caratterizzare ulteriormente i tumori scheletrici. Mentre la medicina nucleare è ideale per evidenziare le metastasi occulte, la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica consentono una migliore definizione dell’estensione di una lesione. Per la diagnosi istopatologica, è possibile effettuare un prelievo per aspirazione con ago sottile sotto guida ecografica o tomografica. La radiografia addominale rappresenta un mezzo di indagine eccellente. È possibile rilevare una perdita di dettaglio, l’aumento di dimensioni degli organi o alterazioni ossee. Con l’impiego di mezzi di contrasto, è possibile identificare neoplasie renali, tumori vescicali, o, in misura minore, gastrici e intestinali. Tuttavia, la sensibilità è piuttosto bassa e per definire ulteriormente le sospette lesioni tumorali si utilizza di solito l’ecografia addominale. La sen-


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sibilità di questa tecnica è molto elevata. Consente di rilevare lesioni molto piccole (linfonodi mesenterici ingrossati, non visualizzabili nelle radiografie addominali). La specificità dell’ecografia addominale è però bassa. Pertanto, questo esame viene spesso utilizzato in associazione con una biopsia. L’ecografia addominale è di primario interesse per l’oncologo. Tuttavia, con questa tecnica vengono studiate anche molte lesioni toraciche, come la presenza di masse mediastiniche, polmonari o pleuriche. Queste lesioni possono essere efficacemente sottoposte a prelievo bioptico sotto guida ecografica. Attualmente, in medicina veterinaria vengono introdotte nuove tecniche ecografiche, come la visualizzazione armonica, l’impiego di mezzi di contrasto e varie metodiche Doppler. Grazie a queste modalità, si prevede di distinguere ulteriormente i disordini neoplastici da quelli non neoplastici e di monitorare in modo più efficace la terapia del tumore. La tomografia computerizzata (TC) si va sempre più diffondendo, anche nella libera professione. Con le tecniche di TC spirale è possibile diminuire significativamente la durata dell’anestesia. Ciò consente di effettuare questo tipo di esame a costi più convenienti. Inoltre, oggi è possibile esaminare più facilmente regioni corporee come il torace o l’addome suscettibili di artefatti da movimento. La tomografia computerizzata va impiegata nell’analisi delle masse tumorali della regione della testa. Nel cavo orale, con la radiografia convenzionale è possibile diagnosticare in modo efficace soltanto i tumori localizzati rostralmente. Per la prognosi di un animale, è di importanza cruciale conoscere l’esatta estensione di una lesione tumorale prima di scegliere un dato protocollo terapeutico. Nella nostra esperienza, l’estensione di un tumore viene spesso sottostimata e l’intervento chirurgico risulta incompleto. Poiché il primo intervento chirurgico è quello più efficace, è importante eseguire adeguate tecniche di diagnostica per immagini prima di iniziare la terapia. Tipicamente, le lesioni neoplastiche della testa sono caratterizzate da distruzione ossea, invasione di organi adiacenti e masse di tessuti molli. Nei tumori orali si può osservare la caduta dei denti. I tumori nasali che originano dai tessuti molli tendono ad invadere e distruggere localmente. I linfomi sembrano essere

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meno invasivi, spesso è presente una massa di tessuti molli. I tumori nasali possono prendere origine nell’area della lamina cribrosa ed invadere i bulbi olfattivi. Pertanto, è importante includere questa regione nell’esame tomografico, sia in caso di animali inviati per la valutazione di un tumore cerebrale che per i tumori nasali. Di solito, nella maggior parte dei pazienti neoplastici si utilizza un mezzo di contrasto endovenoso. In questo modo è possibile definire meglio l’estensione del tumore e differenziare i fluidi dalle masse. Spesso, al centro di un tumore si trova una regione che non assume affatto il contrasto. Si può presumere che questo quadro sia compatibile con una necrosi tumorale. La TC è la modalità di diagnostica per immagini d’elezione per la pianificazione computerizzata dei trattamenti in radioncologia. Si esegue la ripresa di una tomografia con l’animale nella posizione in cui verrà trattato, poi si invia il file alla stazione di pianificazione per abbozzare i vari volumi di trattamento ed infine calcolare il piano terapeutico. La risonanza magnetica (MRI) è il mezzo ideale per i tumori del SNC. Consente di caratterizzare le neoplasie meglio della TC utilizzando differenti sequenze di scansione. È anche utile per i tumori che originano dai tessuti molli in altre localizzazioni corporee. Esistono anche dei programmi computerizzati che fondono le immagini della TC e della MRI. Questa metodica viene utilizzata in particolare per la pianificazione del trattamento. Tuttavia, è necessario che il paziente sia posizionato in modo identico durante la ripresa delle due immagini, il che non è sempre facile da ottenere. La medicina nucleare è stata utilizzata a lungo per la valutazione dei pazienti neoplastici. In medicina veterinaria, il tracciante utilizzato più comunemente è il tecnezio 99m. Nei piccoli animali, le indicazioni più frequenti sono le scansioni dell’osso per rilevare la presenza di metastasi e l’esame della tiroide. In medicina umana si vanno rapidamente diffondendo nuove tecnologie come la PET (Positron Emission Tomography) che forniscono utili informazioni tridimensionali. La PET associata alla TC sembra diventare il metodo più elegante ed efficace di diagnostica per immagini per la stadiazione delle neoplasie ed il monitoraggio dei tumori. Allo stesso tempo, consente di ottenere superbe immagini anatomiche associate ad informazioni molecolari di un tumore. Sembra il sogno di un radiologo trasformato in realtà.


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Principi ed indicazioni della tomografia computerizzata (TC) Barbara Kaser-Hotz Dr Med Vet, Dipl ACVR, Dipl ECVDI, Zurigo, Svizzera

Fra le modalità di diagnostica per immagini in medicina umana, la tomografia computerizzata si è talmente diffusa da essersi meritata il titolo di “stakanovista”. Via via che sul mercato compariranno sistemi più nuovi e più rapidi, questa tecnologia diventerà più facilmente disponibile per i veterinari, anche nell’ambito della libera professione. Storicamente, il concetto matematico di TC è stato presentato più di 70 anni fa, ma sono occorsi parecchi decenni di progressi nella tecnologia computerizzata per rendere questa tecnica una parte di routine della diagnostica per immagini, come avviene oggi.

APPARECCHIATURE Una unità da TC è costituita da un’incastellatura che contiene i detector ed il tubo radiogeno. Poi, è presente un apposito tavolo su cui collocare il paziente nel campo da visualizzare e, infine, un sistema computerizzato per la formazione e la presentazione delle immagini. Il tubo radiogeno, in un’unità TC è molto più piccolo di quello utilizzato negli apparecchi radiografici convenzionali, perché il fascio prodotto deve essere più stretto e ben collimato. La capacità termica dei tubi radiogeni da TC supera quella degli apparecchi normali. Invece di un sistema schermo/pellicola, come metodo di rilevamento si utilizzano cristalli di scintillazione allo stato solido, che emettono luce in seguito all’interazione con le radiazioni ionizzanti, oppure camere di ionizzazione contenenti gas xenon. Nei sistemi di terza generazione, sia il tubo che lo strato dei detector si muovono all’interno dell’incastellatura intorno al paziente, mentre in quelli di quarta generazione l’anello rilevatore è fisso e disposto a 360° intorno al paziente. Ciò non si applica ai sistemi ad elica o a spirale, che sono quasi esclusivamente quelli in uso oggi. Questi sistemi utilizzano un tavolo continuo, alimentato con una rotazione a spirale intorno al paziente. Oggi sono disponibili apparecchi che, invece uno solo, hanno fino a 64 strati di detector e ciò consente la visualizzazione di strutture in movimento, come il cuore. Le immagini vengono formate in base alla misurazione dell’assorbimento dei raggi x all’interno di un pixel definito. In altre parole, le immagini TC sono una rappresentazione del differente assorbimento dei tessuti. Mentre con la radiografia convenzionale è possibile differenziare solo 5 diverse radiopacità (gas, grassi, tessuti molli, ossa, metalli) con la TC le radiopacità dei tessuti molli possono

essere ulteriormente distinte. In onore di uno degli inventori della TC, il coefficiente di assorbimento lineare viene convertito in un numero TC e detto unità di Hounsfield. All’acqua è assegnata un’unità Hounsfield pari a 0, all’aria un’unità di meno di 1000 e all’osso di oltre 1000. Le immagini vengono poi visualizzate su una specifica apparecchiatura. Il livello viene tarato intorno al tessuto di interesse, il numero TC centrale, e viene detto livello finestra. Il range dei numeri di TC sopra e sotto il livello finestra viene detto ampiezza della finestra. In pratica, è possibile esaminare molteplici livelli ed ampiezze di finestra, nel tentativo di trarre le massime informazioni diagnostiche. Per l’esame delle ossa, si utilizza una finestra ampia, mentre per quello del tessuto cerebrale si ricorre ad una finestra stretta. Una volta portato a termine lo studio, è possibile effettuare varie ricostruzioni delle immagini. Questa tecnica viene detta ricostruzione multistrato. In questo modo, vengono anche analizzate di routine immagini dorsali, che in medicina umana sono dette coronali, ed immagini sagittali. È possibile ricostruire immagini su qualsiasi piano. Con i software più recenti si riesce anche ad ottenere una ricostruzione tridimensionale delle strutture ossee o persino ad effettuare il “cosiddetto” volume rendering, utilizzando una specifica unità di Hounsfield come riferimento.

INDICAZIONI In medicina umana la TC è diventata la procedura standard per l’esame di torace, addome e scheletro. In veterinaria, per la valutazione dell’addome si utilizza più comunemente l’ecografia. Un problema con la TC è l’elevata dose di radiazioni associata alla metodica. Attualmente, il 50% della dose totale annua di radiazioni assorbite in una popolazione umana viene attribuito alla TC. Questo non è un problema di pari entità in medicina veterinaria, ma è necessario tenere comunque sempre conto della dose di radiazioni, specialmente quando si esaminano animali in accrescimento. La TC è un mezzo notevole per la valutazione di strutture anatomiche complesse, come ad esempio il bacino, la testa, in particolare la zona mascellare. Pertanto, viene ampiamente utilizzata nella diagnosi delle lesioni delle vie nasali, della mascella, del cranio in generale e dell’encefalo. Anche se è necessario utilizzare molteplici protezioni radiografiche per la valutazione, ad esempio, delle cavità nasali, la scan-


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sione trasversale delle stesse fornisce una rappresentazione anatomica in sezione trasversale molto più precisa e senza sovrapposizioni. In molte situazioni la TC è anche più rapida, perché per ottenere radiografie di buona qualità del cranio è necessario ricorrere anche all’anestesia ed alla ripresa di molteplici proiezioni. Ciò vale in particolar modo quando si utilizzano scansioni ad elica. La TC è anche estremamente utile nella valutazione delle anomalie del torace, per differenziare, ad esempio, le lesioni mediastiniche da quelle polmonari oppure per identificare le metastasi polmonari o i corpi estranei. La TC ad elica è quasi indispensabile per la visualizzazione di routine del torace, perché gli artefatti dovuti al movimento disturbano la formazione dell’immagine. Con le moderne unità da TC, è possibile effettuare una completa tomografia computerizzata del torace in un solo respiro. Un’altra indicazione è la mielografia TC. L’informazione in sezione trasversale spesso contribuisce a caratterizzare ulteriormente una specifica lesione. Nella tomografia computerizzata si utilizzano di routine i mezzi di contrasto. Gli agenti iodati, ionici o non ionici, vengono iniettati per via endovenosa. Si utilizza sia l’iniezione in bolo che l’infusione goccia a goccia. Il contrasto si accumula nei tessuti altamente vascolarizzati e quando si è verificata la distruzione della barriera ematoencefalica. Ciò risulta particolarmente utile nella differenziazione delle lesioni cerebrali. Ad esempio, un’accentuazione ad anello in

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una lesione encefalica ipodensa è altamente indicativa di un tumore gliale. Le neoplasie ipofisarie tendono a presentare un’accentuazione più uniforme. I meningiomi sono tipicamente iperdensi già nelle immagini riprese prima della somministrazione del mezzo di contrasto e mostrano un’accentuazione meno evidente. Gli studi pre- e post-mezzo di contrasto vengono utilizzati anche nell’indagine diagnostica delle masse di tessuti molli in altre sedi. Gli ascessi o le regioni necrotiche non mostrano alcuna accentuazione, che invece può essere pronunciata nei tumori ben vascolarizzati. La TC viene ampiamente utilizzata nella pianificazione e nel monitoraggio del trattamento. Ciò vale in particolare in oncologia, dove i dati rilevati con questa tecnica vengono trasferiti direttamente al computer utilizzato per la pianificazione del trattamento. Su questa stazione computerizzata vengono disegnate in singole sezioni TC trasversali il tumore mascroscopico, il volume del tumore clinico ed il volume al quale verrà prescritta la dose. Infine, la TC viene anche utilizzata nei pazienti traumatizzati, non solo per rilevare le fratture, ma in particolare per identificare gli ematomi cerebrali. La TC è più sensibile della MRI per riconoscere il sanguinamento acuto. In conclusione, la TC è una tecnica di diagnostica per immagini che sta rapidamente emergendo in medicina veterinaria, è estremamente versatile e fornisce un’eccellente risoluzione di contrasto di immagine.


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Trattamento nutrizionale nelle malattie gastroenteriche croniche: gestione e trials dietetici Ellen Kienzle Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania

I principi della nutrizione del cane e del gatto con malattie gastroenteriche croniche sono relativamente simili per la maggior parte dei problemi. La base della nutrizione è una dieta con ingredienti altamente digeribili e con scarse probabilità di irritare ulteriormente il tratto gastroenterico. Per variare il tempo di transito, il legame dell’acqua e l’attività microbica nell’apparato digerente si utilizzano i carboidrati non degradabili enzimaticamente (NEDC, nonenzymatically degradable carbohydrates, compresa la fibra). Come fonti proteiche risultano adeguate il pollo ed altre carni bianche, talvolta le carni rosse, le proteine del latte e quelle (denaturate) delle uova. In genere si raccomanda un apporto proteico moderato (cioè tale da soddisfare i fabbisogni, ma non superarli considerevolmente). Fanno eccezione l’ipoacidità gastrica, l’insufficienza del pancreas esocrino (EPI) e l’enteropatia proteinodisperdente. Soprattutto in quest’ultima condizione, l’assunzione proteica deve essere notevolmente aumentata. Le fonti di lipidi devono contenere molti acidi grassi desaturati. Il grasso contenuto nel pollo o nel suino risulta adatto così come molti oli vegetali come quello di girasole. L’olio d’oliva contiene principalmente acido oleico, che non è essenziale. Nell’olio di rapunzia, in quello di semi di lino o in quello di pesce si trovano acidi grassi che possono modificare i processi infiammatori. A seconda della causa sottostante, possono risultare utili. A differenza di quanto avviene nell’uomo, nel cane e nel gatto i trigliceridi a catena media non vengono tollerati in grandi quantità. Il contenuto totale di grassi della dieta deve essere basso. Fanno eccezione a questa regola l’EPI, a condizione che venga garantito un apporto di enzimi pancreatici sostitutivi, e l’ipoacidità gastrica. Come fonte energetica sono utili i carboidrati digeribili. Risulta adatto l’amido altamente scomposto, come quello del riso cotto o delle patate bollite. Si può anche utilizzare il glucosio, ma, specialmente nei gatti, ciò può portare ad iperglicemia. Esistono due gruppi di NEDC: fermentabili e non fermentabili. Sono esempi di NEDC fermentabili il lattulosio, gli oligosaccaridi, la pectina ed il guar, nonché l’amido resistente. La loro fermentazione da parte della flora enterica con-

duce ad un aumento della produzione di acidi grassi a catena corta e di lattato, con un calo più o meno marcato del pH ed un aumento del contenuto d’acqua. I benefici effetti di tutto ciò sono rappresentati da una diminuzione dei batteri proteolitici e da un aumento dell’acido butirrico, che è importante per la nutrizione delle cellule della mucosa del colon. L’ingestione di dosi elevate di NDEC fermentabili può esitare in una diarrea osmotica acida (avvisate i vostri clienti!). Nei pazienti con proliferazione batterica, costipazione ostinata o che hanno subito un esteso trattamento antibiotico possono essere utili i probiotici. Il loro utilizzo deve essere associato ad una dieta che contenga dei substrati che possano essere fermentati da questi microrganismi, cioè NDEC fermentabili. I NDEC non fermentabili sono rappresentati principalmente dalla cellulosa. A seconda della struttura della fibra e della lignificazione, la capacità di legare l’acqua delle cellulose può essere piuttosto differente. Le cellulose in cui tale capacità è elevata sono molto utili per la terapia sintomatica della diarrea che origina a livello del grosso intestino. Questo trattamento può risultare molto efficace nei casi di colon irritabile. In varie malattie del tratto gastroenterico può essere coinvolta l’ipersensibilità alimentare. In molti casi può valere la pena di fare una prova con una dieta speciale ipoallergica (elimination diet) basata su poche componenti ed una fonte proteica inusuale. Ciò ha anche il vantaggio di far sì che i proprietari cessino di cambiare continuamente la dieta nella speranza che il problema migliori. Le diete fatte in casa utilizzando gli ingredienti precedentemente indicati sono carenti della maggior parte dei principali oligoelementi e vitamine. Non possono quindi essere utilizzate per un periodo di tempo prolungato senza un’adeguata integrazione. È anche molto importante rimpiazzare gli elettroliti che vanno persi in quantità elevate a causa del vomito o della diarrea. Oltre al sale, risultano adatti i carbonati di potassio e magnesio. Per i casi di ipersensibilità alimentare, si raccomandano miscele di sali minerali purificati e vitamine cristalline. È possibile apportare vitamine liposolubili con piccole quantità di fegato delle specie animali utilizzate per l’apporto di carne.


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Relazione uomo-animale come fattore di rischio di obesità nell’animale da compagnia Ellen Kienzle Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania

In teoria, i proprietari degli animali sovrappeso potrebbero controllare l’assunzione di cibo dei loro compagni. Anche se hanno un fabbisogno energetico piuttosto basso, i cani e i gatti non diventano obesi a meno che il proprietario non offra loro più energia del necessario. Se l’animale è già sovrappeso e il proprietario riduce l’alimentazione a valori inferiori ai fabbisogni di mantenimento per un periodo di tempo prolungato, si ottiene un calo ponderale. In pratica, tuttavia, la lotta contro il sovrappeso negli animali da compagnia in genere non è un successo. Perché i proprietari degli animali obesi non riducono l’assunzione energetica dei loro compagni? La risposta si trova più probabilmente nella psicologia della relazione uomo-animale che nella fisiologia della nutrizione. Per studiare questo problema, sono stati intervistati mediante questionari standard 120 proprietari di gatti e 120 proprietari di cani (60 sovrappeso e 60 normali, in entrambi i casi). Nei casi in cui risultavano applicabili, ai proprietari degli animali delle due specie sono state poste domande simili. In genere, i cani sovrappeso dormivano nel letto dei proprietari. Questi parlavano più spesso e di una maggior varietà di argomenti con i loro cani e si preoccupavano meno del rischio di contrarre da loro delle malattie. L’esercizio, il lavoro o la protezione dal cane venivano considerati come meno importanti. Queste caratteristiche del rapporto uomo/animale sono state interpretate come segni di iperumanizzazione dei cani obesi. Anche nei gatti sovrappeso la relazione uomo/animale ha dimostrato la presenza di indicatori di iperumanizzazione, come il fatto di parlare all’animale di argomenti che non lo riguardavano. I proprietari dei cani e dei gatti sovrappeso sor-

vegliavano più spesso i loro animali quando stavano mangiando. Diversi dati indicano che dar da mangiare all’animale era un importante fattore di stimolazione della comunicazione con il soggetto sovrappeso. Il rapporto uomo/animale dei proprietari dei gatti obesi era caratterizzato da una maggiore intensità del legame. Al contrario, sono state rilevate ben poche indicazioni del fatto che l’unione fra cani sovrappeso e i loro proprietari fosse più forte di quello fra cani normali e i loro proprietari. I proprietari dei cani sovrappeso sono parsi essere maggiormente consapevoli del problema rispetto ai proprietari dei gatti nelle stesse condizioni. Nei cani sovrappeso il numero di pasti e di spuntini era significativamente aumentato rispetto a quelli normali. Nei gatti normali e in quelli sovrappeso non è stata rilevata alcuna differenza nella frequenza dei pasti e degli spuntini, tuttavia i soggetti obesi avevano spesso la possibilità di scegliere liberamente la quantità di cibo da ingerire. A cani e gatti sovrappeso venivano dati avanzi di cucina, spesso in misura maggiore alla loro dieta abituale. Gli interventi di medicina preventiva per gli animali da compagnia (come i controlli sanitari, l’osservazione della qualità delle feci e le vaccinazioni) erano più importanti per i proprietari degli animali normali rispetto a quelli dei soggetti sovrappeso. I proprietari di questi ultimi, rispetto a quelli dei cani normali, erano anche meno interessati alla medicina preventiva nei confronti di se stessi. Proprietari e cani spesso condividevano uno “stile di vita da patata bollita” ed avevano in comune il problema del sovrappeso. Al contrario, il rischio di obesità nel gatto non era influenzato dallo stile di vita del proprietario.


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Alimentazione e patologie scheletriche nei cuccioli di razze giganti Ellen Kienzle Dr Med Vet, Dipl ECVCN, Monaco, Germania

Nei cani di grossa taglia, esistono tre principali cause di malattie scheletriche correlate alla nutrizione. i) Carenza di calcio ii) Eccesso di calcio iii) Eccesso di energia che porta ad una crescita estremamente rapida I proprietari dei cuccioli di grossa taglia sono spesso consapevoli del fatto che i loro animali sono altamente esposti al rischio di sviluppare malattie scheletriche correlate alla nutrizione. Per contrastare questo rischio, spesso si servono di piani di nutrizione molto complicati ed evitano di utilizzare un alimento specifico per cuccioli come unica fonte di energia. Quando gli alimenti per animali vengono diluiti con ogni sorta di cibo ad alta energia o ad alto tenore proteico e basso contenuto di calcio, come la carne, il formaggio fresco, l’olio, il miele ed altri avanzi di cucina, spesso si verifica una carenza di calcio. Questa evenienza è anche tipica delle diete fatte in casa. In entrambi i casi i proprietari sanno che il loro cane ha bisogno di calcio, ma non hanno alcuna idea della quantità necessaria e della quota di alimento e di integratore che devono utilizzare. Un problema tipico è che pensano che l’integrazione di calcio delle diete fatte in casa con le compresse calciche per uso umano o con prodotti a base di latte sia adatta ai cani di grossa taglia in accrescimento. Queste fonti, tuttavia, non apportano neppure la metà del calcio necessario. A meno che non si offrano agli

animali quantità considerevoli di ossa (il che non è raccomandato) l’unico modo per garantire un apporto sufficiente di calcio in un cucciolo di grossa taglia in accrescimento attraverso una dieta fatta in casa consiste nell’impiego di un alimento minerale contenente almeno il 20% di calcio in quantità di circa 20-40 g al giorno (a seconda del peso previsto alla maturità e dell’età dell’animale). L’eccesso di calcio può essere indotto dall’aggiunta di miscele minerali ricche di questo elemento, calcare o ossa ad un alimento completo per cuccioli. Per ovvie ragioni, quest’ultimo contiene già una quota sufficiente di calcio e l’aggiunta di un’integrazione calcica elevata può facilmente raddoppiare o triplicare l’assunzione di questo elemento. L’associazione di alimenti completi per cuccioli, avanzi di cucina ed integratori può esitare in un eccesso o una carenza di calcio. L’eccesso di energia si può verificare con qualsiasi dieta altamente appetibile e ad elevata densità energetica, sia fatta in casa che preparata industrialmente. Nei cuccioli in crescita questa condizione non induce necessariamente la deposizione di una quantità esagerata di grassi, per cui i soggetti sovralimentati possono presentare punteggi di condizione corporea nella media ed apparire normali al proprietario. Spesso vengono definiti “grandi per la loro età”. Tuttavia, lo sviluppo del peso può essere confrontato con delle curve standard e il cucciolo va alimentato in funzione della sua crescita ponderale. Se questa supera il peso corporeo consigliato per la corrispondente età, la quantità di cibo va ridotta.


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Lo shock e la disidratazione nel cane e nel gatto Lesley G. King MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA

È importante comprendere chiaramente alcuni termini fondamentali che vengono utilizzati per definire in ambito clinico la distribuzione dell’acqua all’interno dei comparti dell’organismo dei nostri pazienti. Capire chiaramente la distribuzione dei fluidi corporei contribuisce a guidare la nostra scelta delle soluzioni da somministrare. La disidratazione implica una perdita di fluidi dallo spazio interstiziale ed intracellulare, e di solito si verifica più lentamente che nelle perdite intravascolari che accompagnano lo shock. I segni clinici della disidratazione sono rappresentati dalla persistenza delle pliche cutanee, secchezza delle mucose ed occhi infossati o vitrei. Ovviamente, in alcuni animali, lo shock e la disidratazione possono essere presenti simultaneamente, in grado variabile. Lo shock può essere semplicemente definito come una mancata perfusione tissutale ed implica un calo del volume intravascolare efficace dell’animale. Nel gatto, si riconosce clinicamente sulla base del riscontro di pallore delle mucose, polso debole e debolezza generalizzata o collasso. I cani possono presentare pallore e polso debole, ma in questa specie animale si osserva anche uno shock iperdinamico caratterizzato da mucose iperemiche e polso saltellante. I cani in condizioni di shock sono solitamente tachicardici. Al contrario, nei gattini e nei gatti in stato di shock la frequenza cardiaca è imprevedibile e può determinare sia tachicardia che bradicardia. Clinicamente si possono riconoscere diverse forme di shock, ma da un punto di vista pratico quest’ultimo viene distinto in cardiogeno, ipovolemico o settico.

TIPI DI SHOCK Shock cardiogeno Lo shock cardiogeno implica l’insufficienza della perfusione tissutale dovuta a scarsa gittata cardiaca conseguente ad una cardiopatia primaria. Anche se si tratta della forma più rara di shock, bisogna sempre escluderla immediatamente durante il trattamento dei pazienti colpiti, perché in questo caso è appropriata una restrizione dei fluidi piuttosto che una loro espansione. Lo shock cardiogeno va preso in considerazione in tutti gli animali che presentano un soffio cardiaco o suoni polmonari anormali al momento della visita o in tutti i gatti con toni cardiaci anormali (soffi, galoppo), dispnea o anomalie come la presenza di rantoli all’auscultazione toracica. In questi soggetti, la fluidoterapia è da limitare o evitare del tutto.

Shock ipovolemico Lo shock ipovolemico è probabilmente la forma di shock più comunemente identificata nella pratica clinica quotidiana. L’ipovolemia può essere assoluta o relativa. La prima può essere causata dall’emorragia, ad esempio nei pazienti traumatizzati, oppure dalla perdita di fluidi nel tratto gastroenterico o attraverso le cavità corporee, come può avvenire nel vomito. L’ipovolemia relativa si può anche osservare come conseguenza di scarsa gittata cardiaca in caso di cani con dilatazione/torsione dello stomaco con ostruzione del ritorno venoso. Man mano che si sviluppa un deficit assoluto o relativo del volume intravascolare nei pazienti con shock ipodinamico, entrano in gioco diversi meccanismi compensatori per mantenere la perfusione degli organi vitali. Nel tentativo di incrementare la gittata cardiaca, a dispetto del calo di quella sistolica ad ogni contrazione del cuore, insorge una tachicardia. Successivamente, la vasocostrizione della periferia consente di mantenere la pressione sanguigna, conservando così la perfusione di organi vitali come l’encefalo, il muscolo cardiaco ed il letto vascolare splancnico. Man mano che il volume intravascolare si riduce progressivamente, la vasocostrizione aumenta, esitando in un ulteriore calo dell’apporto ematico ai reni ed all’intestino. I tessuti scarsamente perfusi divengono acidosici, con conseguente sviluppo di un danno endoteliale e cellulare. Infine, quando il volume intravascolare si è ridotto così tanto che la vasocostrizione non può più mantenere la pressione sanguigna, si sviluppa un’ipotensione e gli organi vitali non vengono più perfusi. Lo shock ipovolemico si riconosce clinicamente per la presenza di pallore delle mucose, tachicardia, freddezza delle estremità e, solitamente, polso debole o filiforme, anche se alcuni animali negli stadi iniziali possono presentare un polso a scatti o saltellante.

Shock settico Lo shock settico è un disordine circolatorio che si verifica a causa del rilascio di batteri o endotossine batteriche in circolo. Gli effetti dei microrganismi o dei loro prodotti vengono mediati da numerose citochine endogene, eicosanoidi ed altri mediatori dell’infiammazione, che provocano una varietà di alterazioni della vascolarizzazione, del cuore e del volume circolante. Nel cane, gli stadi iniziali di questo processo comportano una vasodilatazione periferica me-


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diata dalle endotossine e la comparsa di febbre. La vasodilatazione periferica determina un incremento iniziale del flusso ematico ai tessuti. Nel cane, a questo punto l’esame clinico rivela mucose iperemiche e accorciamento del tempo di riempimento capillare. Altre cause di iperemia, quali anafilassi, policitemia o colpo di calore, possono di solito essere escluse sulla base dell’anamnesi, della visita clinica e degli iniziali risultati degli esami di laboratorio. A questo primo stadio dello shock settico, la frequenza cardiaca aumenta e la gittata cardiaca è elevata, perché l’organismo cerca di mantenere la perfusione tissutale ed il flusso ematico nonostante un calo della resistenza vascolare periferica. Il polso può apparire saltellante: vale a dire che si localizza facilmente e si presenta “a scatti”, indicando una differenza eccessiva fra la pressione sistolica e quella diastolica. Il grave shock settico può essere associato a riduzione della contrattilità miocardica, talvolta abbastanza grave da simulare una miocardiopatia dilatativa all’esame ecocardiografico. Se si verifica, la riduzione della contrattilità miocardica diminuisce la gittata cardiaca e, via via che l’organismo cerca di compensare la diminuzione della gittata sistolica, la tachicardia si aggrava. Col progredire della stimolazione settica, la vasodilatazione periferica diviene eccessiva ed il ritorno venoso al cuore diminuisce perché il sangue ristagna a livello periferico. La gittata cardiaca quindi si riduce ulteriormente e, nel tentativo di mantenere la pressione sanguigna, si ha una vasocostrizione arteriolare periferica. Questa e la stasi del sangue nei capillari periferici dilatati conducono ad un calo della perfusione tissutale ed all’acidosi. Ciò esita negli stadi iniziali di una grave maldistribuzione del flusso ematico ai tessuti, con fenomeni regionali di vasocostrizione, vasodilatazione e stasi, che concorrono a diminuire l’apporto di ossigeno e principi nutritivi alle cellule e l’allontanamento dei cataboliti tossici. Nello shock settico in stadio terminale nel cane, il collasso cardiovascolare si riconosce per la presenza di pallore o grigiore delle mucose, tachicardia e polso debole. Il processo infiammatorio iniziato dall’endotossina è uno dei principali fattori che intervengono nella progressione dello shock settico. Il rivestimento endoteliale dei capillari diviene più permeabile e fluidi ed albumine iniziano a filtrare nell’interstizio. Ciò conduce in ultima analisi all’ipoproteinemia ed all’emoconcentrazione, ed aumentano la viscosità ematica ed aggravano il ristagno e la stasi nei capillari periferici. L’attivazione e la chemiotassi dei neutrofili contribuiscono al processo infiammatorio e nei capillari si embolizzano piccoli grappoli di leucociti, alterando ulteriormente il flusso ematico. Un processo simile si verifica a carico delle piastrine, che vanno incontro ad aggregazione ed adesione agli endoteli danneggiati, con ostruzione del flusso ematico. Il danno e l’infiammazione endoteliali conducono all’attivazione delle reazioni a cascata della coagulazione e della fibrinolisi. La trombosi microvascolare può ulteriormente alterare il flusso ematico tissutale. Quindi, il processo clinico dello shock settico, se non trattato e grave, progredisce fino al punto in cui i tessuti hanno subito una profonda ipoperfusione. La gittata cardiaca è bassa, la viscosità del sangue risulta elevata, alcuni capillari sono ostruiti o costretti ed altri sono dilatati, la pressione sanguigna cade, i vasi sanguigni sono più permeabili e tutte

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le reazioni a cascata dell’infiammazione, della coagulazione e della fibrinolisi sono state attivate.

ACCESSO VASCOLARE Una volta che sia stato determinato che il paziente è disidratato o in shock, il passo successivo consiste nello stabilire un accesso vascolare funzionalmente valido. Tale accesso consente la somministrazione di fluidi endovenosi e farmaci come il glucosio e gli antibiotici. La cateterizzazione di vene periferiche come la cefalica e la safena costituisce un punto di partenza di routine nella sala d’emergenza. Se possibile, bisogna stare attenti a tosare e disinfettare accuratamente la sede interessata prima dell’inserimento del catetere. In situazioni di emergenza bisogna sempre utilizzare i cateteri dal diametro più ampio e dalla lunghezza minore possibile, per facilitare la rapida somministrazione di fluidi ed il prelievo di campioni di sangue. Se non è possibile inserire facilmente il catetere in una vena periferica, il passo successivo consiste nella rapida esecuzione di un cut-down a livello di un vaso centrale come la vena giugulare e nell’inserimento al suo interno di un catetere di grosso calibro. In situazioni di emergenza, specialmente in una crisi come un arresto, l’accesso intraosseo offre una via rapida e facile paragonabile a quella endovenosa. Ciò risulta particolarmente utile per i neonati collassati e difficili da sottoporre a cateterizzazione endovenosa. Attraverso la corticale si inserisce un ago spinale o un ago endovenoso normale spingendolo fino nella cavità midollare del femore, della tibia o dell’omero. L’inserimento di questi cateteri è abbastanza facile, specialmente se prima di tentare su un paziente si è fatta pratica su cadaveri. Una volta penetrati nella cavità midollare, è possibile somministrare facilmente e far defluire a velocità molto rapida fluidi, emoderivati o farmaci. L’accesso intraosseo offre un mezzo per la rapida rianimazione dei neonati collassati, che può poi essere seguita dalla cateterizzazione endovenosa una volta che le condizioni del gattino o del cucciolo si siano maggiormente stabilizzate. Gli animali vengono spesso portati alla visita con mucose pallide e debolezza generalizzata. Prima di formulare una diagnosi di shock è necessario rispondere ad un’altra domanda. È possibile che questo paziente presenti un pallore delle mucose dovuto ad anemia piuttosto che a vasocostrizione e diminuzione del volume ematico? A questa domanda di solito è possibile rispondere facilmente basandosi sulla misurazione dell’ematocrito effettuata nell’ambito delle analisi di laboratorio d’emergenza. Se è presente una grave anemia, si deve prendere immediatamente in considerazione il ricorso alla trasfusione di sangue piuttosto che alla fluidoterapia. I risultati delle prime analisi di laboratorio d’emergenza forniscono una serie di informazioni inestimabili, poco costose e di facile acquisizione su qualsiasi paziente in condizioni di emergenza, specialmente quando sono presenti i segni clinici della disidratazione e dello shock. I valori minimi da rilevare sono rappresentati da ematocrito misurato mediante microcentrifugazione, solidi totali (TS) misurati mediante rifrattometria, glicemia stimata mediante strisce reattive o analizzatori manuali ed azotemia valutata con strisce


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reattive. Se disponibile, la misurazione degli elettroliti sierici (sodio e potassio) e l’analisi dei gas ematici venosi forniscono un’ulteriore ed abbondante quantità di dati. I valori dell’ematocrito e quelli dei solidi totali vengono spesso valutati nella loro relazione reciproca. La presenza di un’emoconcentrazione (aumento dell’ematocrito) indica di solito una significativa disidratazione sino al punto dell’ipovolemia, che si può avere a causa di perdita idrica dal tratto gastroenterico o in una cavità corporea del terzo spazio, o per il ristagno in anse intestinali distese. La diminuzione dell’ematocrito può essere un indizio importante del fatto che si sta verificando una perdita di eritrociti da emorragia o emolisi oppure della presenza di una malattia più cronica, con insufficiente produzione di eritrociti. Il riscontro di un ematocrito normale deve essere interpretato facendo riferimento ai dati rilevati attraverso l’esame clinico: l’animale può essere anemico ed affetto da emoconcentrazione oppure aver subito un’emorragia iperacuta che non è ancora andata incontro a diluizione da ridistribuzione del liquido interstiziale. Il valore di TS è un’informazione importante. Se tanto l’ematocrito che i TS sono elevati, le ipotesi più probabili sono ovviamente la disidratazione e l’emoconcentrazione. Altre cause di aumento dei TS sono rappresentate dalle iperproteinemie come le gammopatie poli- o monoclonali, che possono indicare una neoplasia o una risposta infiammatoria aspecifica. La riduzione dei valori di TS rappresenta un segno clinico comune ed abbastanza infausto, dal momento che spesso riflette una perdita proteica. Le proteine in genere vanno perdute nel tratto gastroenterico negli animali che vomitano, ma possono anche passare nel terzo spazio dell’organismo, come ad esempio nella cavità peritoneale degli animali con peritonite o nell’interstizio di quelli con sepsi. Analogamente, se i TS sono normali al momento della presentazione dell’animale alla visita, il clinico si deve aspettare che scendano di 1-2 g/dl con la successiva fluidoterapia. La combinazione di emoconcentrazione ed ipoproteinemia è molto significativa, dal momento che la fluidoterapia causa un ulteriore calo delle proteine plasmatiche, che può predisporre l’animale all’edema. In condizioni di stress si possono verificare degli aumenti della glicemia, specialmente nel gatto. I campioni che presentano un aumento significativo dei livelli ematici di glucosio devono essere ripetuti immediatamente per confermare l’anomalia, dal momento che ciò può indicare la presenza di diabete mellito, chetoacidosi e/o pancreatite. Bassi valori di glicemia si possono osservare in caso di shock settico nei neonati o nell’ipoadrenocorticismo. È importante riconoscere che l’anoressia da sola non è una causa comune di ipoglicemia nella maggior parte dei cani e dei gatti. Si possono osservare riduzioni artificiose dei livelli ematici di glucosio quando gli eritrociti non vengono separati dal siero entro breve tempo dal prelievo o nei campioni con un ematocrito elevato quando vengono analizzati con un Dextrometer. La stima dell’azotemia fornisce utili informazioni relative all’eziologia ed alle conseguenze del vomito. Un valore normale di questo parametro esclude l’insufficienza renale o l’iperazotemia postrenale come causa prossima dell’emesi. Gli incrementi dell’azotemia, invece, non permettono di distinguere l’iperazotemia prerenale da quella dovuta ad altre cause. Prima di iniziare la fluidoterapia è necessario prelevare un campione di urina, in modo da determinarne il peso specifico pre-

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cedente la somministrazione dei fluidi. In entrambi i casi, il monitoraggio sequenziale del valore dell’azotemia dopo rianimazione mediante fluidoterapia contribuisce ulteriormente a distinguere l’iperazotemia prerenale da quella renale. Anche la misurazione dei livelli di elettroliti può fornire utili indicazioni. Il sodio è il principale catione extracellulare ed è distribuito uniformemente in tutto il volume del fluido extracellulare (ECF). L’ECF è costituito sia dai fluidi intravascolari che da quelli interstiziali. In realtà, il sodio è uno dei principali fattori che determinano l’osmolalità dei fluidi extracellulari. Dal momento che l’osmolalità regola il volume dell’ECF, ne deriva che la quantità di sodio è uno dei principali fattori che determinano la quantità totale dell’ECF. Negli animali normali, l’equilibrio fra l’assunzione del sodio con la dieta e la sua escrezione attraverso il rene determina il sodio totale dell’organismo. Se quest’ultimo è elevato, si ha un’espansione dell’ECF - che si manifesta clinicamente con edema o raccolte di fluidi nelle cavità corporee. Se il sodio totale dell’organismo è basso, il volume dell’ECF diminuisce, e la condizione si manifesta clinicamente con i segni della disidratazione (scarso turgore della cute, secchezza delle mucose) o dell’ipovolemia (vasocostrizione, tachicardia). Esistono numerosi regolatori fisiologici del sodio totale dell’organismo (e quindi dell’ECF). Il più importante è il sistema renina-angiotensina-aldosterone. Le cellule juxtaglomerulari secernono renina in risposta al calo della perfusione renale (diminuzione del volume efficace di sangue circolante), che esita infine nell’attivazione dell’angiotensina II. Quest’ultima provoca la ritenzione di sodio da parte del tubulo renale e promuove il rilascio di aldosterone dalle surreni. Anche l’aldosterone promuove la ritenzione di sodio dal nefrone. Oltre a questo sistema, recettori volumetrici situati negli atri e nelle vene cave percepiscono il sovraccarico volumetrico e, quando sono attivati, portano al rilascio di fattore natriuretico atriale, che provoca la perdita di sodio attraverso il rene. Infine, l’attivazione del sistema nervoso simpatico porta alla ritenzione renale di sodio. Gli aumenti di Na sono di solito causati dalla perdita di acqua libera, spesso attraverso il tratto gastroenterico, i versamenti o i reni. L’iponatremia in qualsiasi animale che vomiti deve immediatamente spingere a prendere in considerazione la possibilità di un ipoadrenocorticismo. Anche la riduzione del Na nei soggetti con vomito è associata alla perdita di questo elemento attraverso il tratto gastroenterico. È importante rendersi conto, tuttavia, che la pseudoiponatremia può essere documentata in animali iperglicemici o lipemici. Questa iponatremia spuria non richiede terapia e di solito si risolve con la correzione del problema sottostante. La più comune anomalia elettrolitica nei pazienti in condizioni d’emergenza che vomitano è l’ipokalemia. Ciò riflette una perdita di potassio attraverso il tratto gastroenterico associata ad un calo dell’assunzione con il cibo nei soggetti con vomito acuto. L’iperkalemia può essere associata a gravi conseguenze cardiovascolari quali bradicardia e arresto atriale. Se è presente e grave risulta appropriato un trattamento aggressivo. Le cause dell’iperkalemia comprendono acidosi metabolica, diminuzione della filtrazione glomerulare e quindi riduzione della secrezione del potassio ed ipoadrenocorticismo.


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Usando i cristalloidi: come rendere razionale la scelta della fluidoterapia Lesley G. King MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA

IDENTIFICARE LA NECESSITÀ DELLA FLUIDOTERAPIA Un approccio logico alla fluidoterapia basato sulla valutazione clinica accurata e sul monitoraggio del paziente può rendere efficace la gestione dei fluidi con scarse complicazioni. È bene ripetere alcune importanti definizioni fornite nella relazione precedente, perché costituiscono la base delle nostre decisioni riguardo alla fluidoterapia: La disidratazione implica una perdita di fluidi dallo spazio interstiziale, e di solito si verifica più lentamente delle perdite intravascolari che insorgono nello shock. I suoi segni clinici sono rappresentati da persistenza delle pliche cutanee, mucose secche ed occhi infossati o vitrei. Ovviamente, in alcuni animali si può avere la presenza simultanea di vari gradi di shock e disidratazione. Lo shock può essere semplicemente definito come la mancata perfusione tissutale ed implica un calo del volume intravascolare efficace dell’animale. Viene clinicamente riconosciuto nel gatto sulla base della presenza di pallore delle mucose, polso debole e debolezza generalizzata o collasso. I cani possono presentare pallore delle mucose e polso debole, ma in questa specie animale si osserva anche uno shock iperdinamico caratterizzato da mucose iperemiche e polso saltellante. Ai fini pratici, sia nei cani e nei gatti adulti che in quelli che non hanno ancora raggiunto la maturità, la fluidoterapia viene distinta in due tipi. Possiamo scegliere di somministrare un bolo di fluidi caratterizzato dalla rapida (nell’arco di 20-30 minuti) iniezione di volumi variabili di fluidi per via endovenosa, oppure possiamo optare per una velocità di infusione più lenta e più costante, nell’arco di molte ore, rimpiazzando molto più gradualmente il volume perduto. Il metodo ed il tipo di fluido prescelto dipendono dal comparto fluido dell’organismo che è necessario riempire nuovamente e questa decisione si basa sui semplici riscontri dell’esame clinico e dei risultati di laboratorio degli esami di base. Quando si prende in considerazione il ricorso alla fluidoterapia, è necessario dare sempre la priorità alla rapida riespansione ed al mantenimento del volume intravascolare, perché una sua diminuzione esita in un calo dell’apporto di ossigeno ai tessuti e nel conseguente danno e morte cellulare. Al contrario, la disidratazione che si verifica in un paziente con un volume intravascolare apparentemente normale può essere rimpiazzata gradualmente. Pertanto, gli animali con segni di shock vengono di solito trattati con boli di fluidi, mentre quelli disidratati possono essere sottoposti ad

un’infusione più conservativa, finalizzata al ripristino delle perdite nell’arco di 12-24 ore.

Dosaggio della terapia con fluidi cristalloidi Dosaggio della fluidoterapia nei pazienti disidratati La fluidoterapia nei pazienti disidratati si basa sul calcolo e sulla graduale correzione del deficit interstiziale nell’arco di 12-24 ore. Per rimpiazzare le perdite è necessario infondere una soluzione elettrolitica bilanciata isotonica ed effettuare il monitoraggio e l’integrazione secondo necessità delle concentrazioni di elettroliti come il potassio. Il fabbisogno di soluzioni cristalloidi per il ripristino completo dei deficit viene calcolato come segue: Deficit totale = [Fabbisogni di mantenimento (2-4 ml/kg/ora)] + [valore stimato delle perdite in atto] + [percentuale di disidratazione (Peso corporeo x percentuale di disidratazione)] Una volta calcolato il deficit totale per un periodo di 24 ore, è possibile stabilire una velocità di infusione che consenta di rimpiazzare la quota mancante nell’arco del periodo di tempo desiderato.

Dosaggi della fluidoterapia nei pazienti in shock La fluidoterapia resta il caposaldo del trattamento dello shock associato alla diminuzione del volume intravascolare. Apportando grandi quantità di fluidi endovenosi, ci auguriamo di migliorare il volume del sangue circolante, diminuire la viscosità sanguigna ed incrementare il ritorno venoso, favorendo così il miglioramento della gittata cardiaca. Di conseguenza, si ha un aumento della perfusione tissutale, che inizia a far regredire l’acidosi cellulare ed offre un apporto di ossigeno alle cellule. È importante rendersi conto che il volume di sangue circolante non deve solo essere riportato alla normalità ma, in molti casi, spinto a valori superiori alla norma. Per ottenere questo risultato può essere necessario impiegare volumi molto elevati di fluidi endovenosi. Il cristalloide ideale è una soluzione di ripristino bilanciata come quella di Ringer lattato. Si può prendere in considerazione l’iniezione di boli antishock di 90 ml/kg nei cuccioli e nei


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cani adulti e di 60 ml/kg nei gattini e nei gatti. Inizialmente si iniettano rapidamente 30-40 ml/kg mentre l’animale viene attentamente osservato per rilevare una risposta o la comparsa di segni che indichino che il bolo di fluidi sta causando un problema. Se il paziente inizia a migliorare, il clinico può rallentare la somministrazione del fluido prima di aver infuso totalmente il bolo. Molti soggetti in grave stato di shock necessitano di un bolo completo di 60-90 ml/kg. In una situazione di emergenza, specialmente quando non c’è molto tempo a disposizione per la somministrazione di un bolo antishock completo di soluzioni cristalloidi, si può impiegare una soluzione ipertonica (7,5%) di NaCl, alla dose di 5 ml/kg. Questa soluzione agisce aumentando rapidamente l’osmolalità dello spazio vascolare e quindi trascinando l’acqua fuori dall’interstizio nella vascolarizzazione. Inoltre, mentre la soluzione ipertonica procede attraverso l’arteria polmonare, vengono stimolati una varietà di riflessi che esitano in un incremento della gittata cardiaca e della perfusione renale. A causa di una natriuresi indotta e della rapida ridistribuzione delle molecole di sodio, gli effetti positivi della soluzione ipertonica sono però di breve durata. La rianimazione antishock con NaCl al 7,5% deve essere seguita da un’appropriata fluidoterapia secondo le modalità richieste per mantenere i parametri fisiologici normali. Per ottenere una soluzione al 7,5% di cloruro di sodio, di solito si diluisce con destrano o amido eterificato una soluzione ipertonica di NaCl al 23,4% in rapporto 1 : 2,5; questo metodo consente di prolungare efficacemente la durata d’azione di questo fluido da rianimazione. Dopo un periodo di shock, il supporto fluidoterapico non deve essere interrotto bruscamente. È importante continuare a garantire una certa espansione del volume intravascolare, in modo da assicurare un’adeguata perfusione renale costante e continuare a rimpiazzare tutte le eventuali perdite in atto. Una volta che il bolo antishock sia stato completato, la maggior parte dei pazienti necessita quindi di infusione endovenosa continua di fluidi di ripristino a velocità pari a 2-3 volte quella di mantenimento (circa 4-12 ml/kg/ora). La velocità di infusione necessaria e la durata totale della fluidoterapia endovenosa variano notevolmente da un soggetto all’altro. Dopo la rianimazione iniziale, alcuni animali in shock settico possono quindi richiedere più di 8-14 ml/kg/ora nelle prime 24 ore di rianimazione. I cani con perdite idriche in atto (grave diarrea, peritonite ecc…) possono aver bisogno di elevati volumi di fluidi per mantenere livelli normali di frequenza cardiaca, qualità del polso e produzione di urina. La velocità della fluidoterapia viene determinata attraverso parametri clinici come la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e la produzione di urina. Per facilitare la scelta di un fluido e stabilire se sia necessaria o meno la somministrazione di potassio è importante valutare frequentemente i livelli sierici degli elettroliti (Na, K).

TRATTAMENTO FLUIDOTERAPICO NEI PAZIENTI CON PERDITE EMATICHE NEI POLMONI La maggior parte degli animali con contusione polmonare o emorragia polmonare abbastanza significativa da

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causare uno shock ipovolemico mostra i segni clinici di una difficoltà respiratoria. Questi pazienti si trovano evidentemente a disagio, con un aumento della frequenza e dello sforzo respiratorio, adattamenti posturali quali tendenza a rifiutare di sdraiarsi, abduzione del gomito ed estensione del collo, pallore, mucose bianche o cianotiche e suoni polmonari aspri o rantoli all’auscultazione toracica. Poiché lo pneumotorace è una causa comune di difficoltà respiratoria nei pazienti traumatizzati, oltre a trattare le contusioni polmonari si deve prendere in considerazione il ricorso alla toracentesi diagnostica. Bisogna avviare immediatamente l’ossigenoterapia mediante maschera facciale, cannula nasale o gabbia ad ossigeno. Se è presente un’ipossia, la somministrazione di ossigeno da sola può talvolta determinare un miglioramento dello status cardiovascolare di questi pazienti. La considerazione più importante nella rianimazione mediante fluidoterapia di un animale con contusioni polmonari è il rischio di incrementare l’emorragia dopo la somministrazione di fluidi e quindi di aggravare la compromissione respiratoria. Il miglioramento della pressione sanguigna con la somministrazione di cristalloidi e colloidi esita in un incremento della pressione idrostatica capillare ed è potenzialmente in grado di esacerbare lo spostamento dei fluidi nell’interstizio del polmone. I colloidi e/o la soluzione ipertonica di NaCl possono teoricamente passare nell’area dell’emorragia e, attraverso l’incremento della pressione oncotica od osmotica, trascinare con sé l’acqua. In effetti, in qualsiasi paziente che abbia subito un’emorragia polmonare ci si aspetta un certo grado di concomitante edema polmonare dopo la rianimazione mediante fluidoterapia. Nei pazienti con contusioni polmonari, i colloidi potrebbero essere considerati vantaggiosi perché rispetto ai cristalloidi richiedono l’infusione di un minor volume per la rianimazione dallo shock. I cristalloidi possono avere una maggiore tendenza a distribuirsi nello spazio interstiziale, il che potrebbe aggravare l’edema polmonare e l’emorragia se il sistema linfatico polmonare non è in grado di mantenere inalterati i volumi prodotti. Nei pazienti con aumento della permeabilità microvascolare, i colloidi possono anche essere una migliore scelta di fluido grazie alla loro elevata massa molecolare. Nelle gravi sindromi da filtrazione capillare polmonare, tuttavia, queste soluzioni possono anche fuoriuscire dai vasi e passare nell’interstizio, con il rischio che facciano più male che bene. Il clinico deve utilizzare le proprie capacità di valutazione per decidere se nei singoli pazienti con contusioni polmonari siano appropriati i cristalloidi o i colloidi. Nei casi dubbi, e quando il paziente presenta livelli significativamente bassi di TS, si può somministrare una piccola dose di prova di colloidi ed osservare accuratamente il soggetto per valutare la risposta alla terapia. Se dopo questa dose di prova si osserva un deterioramento dello status respiratorio del paziente, l’ulteriore somministrazione di colloidi è da evitare. Quando sono presenti contusioni polmonari, si deve procedere per incrementi molto piccoli del bolo antishock di cristalloidi o colloidi, valutando continuamente la funzione dell’organo colpito. Quando i pazienti con difficoltà respiratorie mostrano anche i segni dello shock, la determinazione del volume totale di fluidi necessario per la rianimazione


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può essere molto impegnativa. Ancora una volta, il clinico si trova a cercare di camminare lungo una linea sottile fra il miglioramento della perfusione tissutale ed il peggioramento dello status polmonare. Per stabilire da che parte penda la bilancia risultano utili le misurazioni in serie della produzione di urina, dei vari parametri dell’analisi dell’urina, della pressione arteriosa, dei livelli arteriosi di lattati e dei gas ematici arteriosi. In alcuni pazienti che possono tollerare solo piccoli volumi di fluidi, può essere necessario aggiungere alla terapia la somministrazione di catecolamine per aumentare la pressione sanguigna ad uno stadio della rianimazione molto più precoce del solito. Nonostante l’uso oculato della fluidoterapia, nei pazienti più gravemente colpiti l’emorragia polmonare può continuare, l’edema interstiziale si può accumulare e la funzione polmonare può deteriorarsi. Dopo la fluidoterapia, in alcuni di questi pazienti, una volta ottenuta un’adeguata espansione del volume intravascolare, si può prendere in considerazione il ricorso a piccole dosi di diuretici (furosemide 0,5-1 mg/kg o 0,1-0,3 mg/kg/ora a velocità di infusione costante CRI) nel tentativo di risolvere la componente della compromissione respiratoria rappresentata dall’edema polmonare. Non ci si deve attendere che i diuretici eliminino gli eritrociti dal parenchima polmonare e, poiché il meccanismo primario dell’azione di questi farmaci è quello di ridurre il volume intravascolare attraverso l’induzione della diuresi, non esiste alcun presupposto razionale per il loro uso immediatamente dopo la presentazione dell’animale alla visita. Se la PaO2 rimane inferiore a 60 mm Hg o se la PaCO2 resta superiore a 50 mm Hg, nonostante un’integrazione con ossigeno con una FiO2 del 60% o superiore, si deve prendere in considerazione il ricorso alla ventilazione meccanica come mezzo per sostenere il paziente fino alla risoluzione delle contusioni polmonari.

TRATTAMENTO FLUIDOTERAPICO DEI PAZIENTI CON EMORRAGIA INTRACRANICA I riscontri dell’esame clinico di un animale che abbia riportato un trauma cranico ed una perdita ematica intracranica variano in funzione dell’entità e della sede dell’emorragia. I segni clinici che devono mettere in sospetto il veterinario sono rappresentati dalla presenza di sangue nelle orecchie, epistassi, emorragie sclerali, ifema e fratture del cranio e/o della mandibola. Inoltre, si riscontrano manifestazioni neurologiche quali anisocoria, depressione del sensorio, crisi convulsive e/o coma. I pazienti con trauma cranico devono essere valutati accuratamente per determinare la gravità dello shock e l’entità delle concomitanti lesioni dei tessuti molli e delle strutture ortopediche nel resto dell’organismo. La priorità più importante in questi casi è il mantenimento della pressione arteriosa sistemica per prevenire l’ipoperfusione cerebrale. La pressione di perfusione cerebrale è direttamente correlata a quella arteriosa e, in presenza di shock ipovolemico e ipoperfusione, si può avere una morte ischemica delle cellule neuronali. Questi elementi rilasciano quindi citochine e radicali liberi dell’ossigeno che portano ad un incremento della permeabilità capillare con conse-

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guenti edemi, vasodilatazione e innalzamento della pressione intracranica. La seconda priorità nei pazienti con trauma cranico è il mantenimento dell’ossigenazione e la necessità di evitare assolutamente i periodi di ipossia. Bisogna monitorare accuratamente il contenuto di ossigeno arterioso utilizzando la pulsossimetria o l’emogasanalisi arteriosa e, nei casi dubbi, effettuare la somministrazione di un’integrazione con ossigeno al 40%. Si ritiene che il fluido d’elezione nel trauma cranico sia la soluzione ipertonica di NaCl (7,5%) visto che alcune segnalazioni hanno dimostrato che può avere un effetto protettivo a livello cerebrale. In virtù della sua azione osmotica, la soluzione salina ipertonica trascina i fluidi dall’interstizio nello spazio vascolare, diminuendo così l’edema. La sua capacità di aumentare la contrattilità cardiaca e ridurre la resistenza vascolare sistemica attraverso la vasodilatazione periferica può esitare in un miglioramento della pressione di perfusione cerebrale. Un bolo antishock di soluzione salina ipertonica è costituito da 5 ml/kg in confronto ai 90 ml/kg di cristalloidi isotonici. Quindi, dato il ridotto volume necessario per la rianimazione, i possibili effetti protettivi cerebrali e le azioni a livello vascolare, la soluzione salina ipertonica è il fluido d’elezione per il trauma cranico. Le possibili complicazioni sono rappresentate da ipernatremia transitoria, ipercloremia ed iperosmolalità. Per la rianimazione dei pazienti con trauma cranico in stato di shock si possono utilizzare anche i colloidi, che risultano potenzialmente utili in questa popolazione di pazienti a causa dei minori volumi necessari per la rianimazione e delle minori probabilità di fuoriuscita dai vasi e passaggio nell’interstizio. Se è presente un’emorragia intracranica in atto, sia la soluzione salina ipertonica che i colloidi potrebbero teoricamente passare nell’area dell’emorragia e trascinare con sé l’acqua, aggravando le dimensioni della lesione. Data la natura chiusa e non espandibile del cranio, anche un’emorragia di lieve entità può portare ad un incremento deleterio della pressione intracranica, con conseguente calo della perfusione cerebrale. È estremamente importante eseguire frequenti esami neurologici. Se la funzione neurologica peggiora o se si rilevano segni di incremento della pressione intracranica, si deve instaurare un ulteriore trattamento. Le modalità terapeutiche per ridurre la pressione intracranica sono rappresentate da somministrazione di mannitolo (0,5-1 g/kg nell’arco di 20 minuti), sollevamento della testa e del collo su una tavola, prevenzione della tosse e delle compressioni giugulari e mantenimento della ventilazione a valori di PaCO2 compresi fra 30 e 32 mm Hg.

ANOMALIE DEI LIVELLI PLASMATICI DI ELETTROLITI E FLUIDOTERAPIA Ipernatremia Nella maggior parte dei casi, in ambito clinico l’ipernatremia si verifica come conseguenza di perdite idriche superiori a quelle di sodio. Poiché l’ipernatremia è una causa molto potente di rilascio di ADH e di risposta della sete, la sua insorgenza richiede che l’incremento della perdita idrica sia accompagnato da una diminuzione dell’accesso all’acqua o della capacità di ingerirla. L’animale può essere colpi-


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to da una malattia neurologica che impedisce una risposta appropriata, oppure da un’affezione gastroenterica che preclude l’ingestione di acqua. Le cause più comuni di perdita idrica sono rappresentate da: • Perdita gastroenterica attraverso vomito e/o diarrea • Aumento delle perdite insensibili (ad es. pazienti in ventilazione) • Diabete insipido centrale (mancato rilascio di ADH) - idiopatico - da neoplasia - da encefalopatia ipossica - da trauma • Diabete insipido nefrogeno (mancata risposta all’ADH) - alcune forme di nefropatia - ipercalcemia - alcool - ipokalemia (< 3,0 mmol/l) - diuresi osmotica Occasionalmente, l’ipernatremia può derivare da un sovraccarico di sodio - ingestione o somministrazione iatrogena di soluzioni ad elevato contenuto di questo elemento. I gravi incrementi dei livelli plasmatici di sodio nell’avvelenamento da sale sono principalmente associati a segni neurologici come crisi convulsive, coma o morte. Le cause più comuni del sovraccarico di sodio sono rappresentate da: • Ingestione di sale (accidentale o come emetico) • Somministrazione di soluzione salina ipertonica (> 0,9% NaCl) • Somministrazione di NaHCO3 durante la rianimazione o CPR L’ipernatremia non va mai corretta troppo rapidamente. Attualmente si suggerisce di ridurre i livelli sierici di sodio ad una velocità massima di 0,5 mmol/l per ora. I casi di deficit di acqua (di gran lunga la causa più comune di ipernatremia) vengono trattati mediante ripristino dell’acqua libera utilizzando la fluidoterapia endovenosa isotonica o ipotonica. I fluidi da ripristino isotonico vengono scelti se il paziente necessita di boli o infusioni ad elevata velocità di flusso, mentre quelli ipotonici non vanno utilizzati come boli. I casi confermati di sovraccarico di sodio vengono trattati con diuretici per indurre una diuresi di sodio ed acqua e una concomitante fluidoterapia endovenosa.

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Iponatremia L’iponatremia può essere dovuta sia alla perdita di soluto (sodio) che alla ritenzione di acqua. Nei piccoli animali, la causa più comune sembra essere la prima, mentre nell’uomo può risultare più frequente la ritenzione idrica. La perdita di fluidi isotonici attraverso il tratto gastroenterico o i versamenti nelle cavità corporee può esitare in iponatremia se i liquidi persi vengono rimpiazzati dall’ingestione di acqua libera o se questa viene ritenuta in seguito al rilascio di ADH. Le cause più comuni dell’iponatremia sono rappresentate da: • Perdita relativa di soluti attraverso vomito e/o diarrea • Perdita relativa di soluti da danno tissutale, come in caso di ustioni o ferite da morso • Perdita relativa di soluti in cavità corporee (in particolare peritonite) • Somministrazione di diuretici • Ipoadrenocorticismo • Sindrome di inappropriata secrezione di ADH • Polidipsia primaria • Iperglicemia o iperosmolalità (trascinamento di acqua nel plasma e conseguente iponatremia da diluizione) • Pseudoiponatremia [Quando si verifica una riduzione della frazione plasmatica composta da acqua, ad esempio in caso di grave iperlipemia o iperproteinemia), la concentrazione plasmatica di sodio (misurata per litro di plasma, non acqua plasmatica), può venire artificiosamente diminuita. In questi pazienti, l’iponatremia non richiede alcuna terapia.] In generale, se il soggetto ha subito una deplezione volumetrica, l’iponatremia viene trattata con la somministrazione di fluidi endovenosi contenenti sodio. Questa è la situazione più comune nella clinica dei piccoli animali. Se il paziente è normovolemico o ha subito un sovraccarico volumetrico, il trattamento può semplicemente richiedere la restrizione dell’assunzione di acqua o una riduzione della dose di diuretico. Inoltre, è di importanza vitale trattare la causa sottostante - ad esempio, la somministrazione di mineralcorticoidi in pazienti con ipoadrenocorticismo. Ancora una volta, è preferibile aumentare la concentrazione di sodio ad una velocità che non superi il limite di 0,5 mmol/l per ora.


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I colloidi nella rianimazione e nel mantenimento: quando, come, quanto e perché? Lesley G. King MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA

La determinazione degli esami ematochimici d’emergenza, rappresentati da ematocrito, proteine totali, glicemia ed azotemia, è parte integrante della valutazione iniziale e del trattamento di tutti i pazienti in condizioni critiche. L’ematocrito viene misurato utilizzando una provetta e una centrifuga da microematocrito, mentre i livelli di proteine totali si determinano facilmente utilizzando un rifrattometro. La conoscenza dell’ematocrito permette al clinico di stabilire se il paziente è anemico, nel qual caso potrebbe essere necessario utilizzare degli emoderivati per la sua stabilizzazione e rianimazione. La ragione più importante per effettuare la misurazione delle proteine totali è ottenere un’indicazione generale del grado di disidratazione e della pressione colloidosmotica (COP) del sangue, che rende più facile prendere alcune importanti decisioni relative al tipo di fluidoterapia da attuare per la rianimazione del paziente. I livelli iniziali dell’ematocrito e delle proteine totali costituiscono inoltre un valore basale da utilizzare come riferimento per il confronto in futuro degli stessi parametri rilevati mentre il trattamento è in atto. Le misurazioni seriali dell’ematocrito e dei livelli di proteine totali ed il monitoraggio frequente dei parametri rilevabili attraverso l’esame clinico risultano estremamente importanti nei casi in cui esiste un’emorragia attiva.

COLLOIDI E PRESSIONE COLLOIDOSMOTICA In termini fisiologici, le particelle di soluti presenti nel plasma possono essere suddivise in cristalloidi (principalmente elettroliti) con pesi molecolari inferiori a 30.000 Dalton e colloidi (principalmente proteine plasmatiche) con pesi superiori a 30.000 Dalton. L’endotelio vascolare agisce come una membrana semipermeabile, che di solito non consente il passaggio dei colloidi nell’interstizio, mentre permette il libero spostamento delle particelle di cristalloidi. Rispetto al liquido interstiziale, il plasma contiene più particelle colloidi, che esercitano una pressione colloidosmotica attraverso la membrana semipermeabile dell’endotelio vascolare. La presenza di proteine nel plasma promuove il mantenimento del volume intravasale attraverso la ritenzione di acqua e cristalloidi nel comparto intravascolare. La pressione colloidosmotica del sangue è quindi una caratteristica importante che determina il flusso dei liquidi fra i vari comparti fluidi dell’organismo. Per trattare un cane o un gatto in shock ipovolemico è necessario decidere se utilizzare per la rianimazione iniziale

cristalloidi, colloidi, emoderivati o tutti e tre. Questa decisione dipende principalmente dai valori di ematocrito e proteine totali del paziente al momento della presentazione alla visita. Se le proteine totali (e quindi la COP) sono basse, è possibile la comparsa di un edema che potrebbe essere esacerbato dalla somministrazione di fluidi cristalloidi. Di conseguenza, in questa situazione come fluidi da rianimazione si utilizzano spesso plasma o colloidi di sintesi invece dei cristalloidi, perché questi ultimi provocano un’ulteriore significativa emodiluizione ed esitano in gravi diminuzioni della pressione colloidosmotica. Se le proteine totali sono inferiori a 4 g/dl, nella maggior parte dei pazienti risulta utile che il bolo infuso per il trattamento dello shock sia costituito in tutto o in parte da colloidi. Nello shock ipovolemico i colloidi hanno un duplice vantaggio primario: in primo luogo aumentano rapidamente il volume intravascolare; in secondo luogo, grazie al loro elevato peso molecolare, quasi tutto il volume somministrato tende a rimanere all’interno dello spazio vascolare. Al contrario, a causa della rapida ridistribuzione nell’interstizio del 75% dei cristalloidi somministrati, per determinare l’espansione dello spazio intravascolare è necessario infondere una quantità quadrupla di cristalloidi (in confronto ai colloidi). Nel cane la dose antishock di cristalloidi è di 6090 ml/kg (45-60 ml/kg nel gatto) che corrisponde ad un volume ematico. Questo valore può essere confrontato con una dose antishock di colloidi nel cane di 15-20 ml/kg (1015 ml/kg nel gatto). Se si utilizzano insieme cristalloidi e colloidi, la dose dei primi deve essere ridotta del 40%. Quindi, in confronto ai cristalloidi, è sufficiente impiegare volumi relativamente ridotti per ottenere un effetto cardiovascolare simile. Anche se è difficile quantificare clinicamente la riduzione dell’accumulo del fluido interstiziale, abbiamo osservato a livello aneddotico degli incrementi della sopravvivenza e dei cali della morbilità in pazienti in condizioni critiche incrementando l’impiego di soluzioni di colloidi di sintesi. Queste ultime vanno prese in considerazione in tutti gli animali che necessitano di elevati livelli di supporto mediante fluidoterapia endovenosa, in particolare se è presente un’ipoproteinemia. Negli animali con vasculite, a seconda delle dimensioni del difetto di permeabilità, le molecole colloidi possono rimanere nello spazio vascolare. I colloidi offrono quindi un’opzione per l’espansione rapida e prolungata del volume intravascolare. Se la sindrome di perdita vascolare è grave, tuttavia, le molecole di colloidi possono anche lasciare la vascolarizzazione e passare nell’interstizio, il che


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può esitare in un insuccesso terapeutico. Si può somministrare come prova un bolo di colloidi e valutarne la risposta clinica. Se il paziente mostra un miglioramento, la terapia con colloidi deve continuare. In caso contrario, il clinico deve considerare accuratamente la possibilità che le grandi molecole siano fuoriuscite dai vasi passando dall’interstizio. In questa situazione, l’impiego dei cristalloidi potrebbe rappresentare un’opzione più sicura, perché hanno minori probabilità di determinare una spinta osmotica, esacerbando l’edema interstiziale. La misurazione diretta della pressione colloidosmotica utilizzando un colloidosmometro è l’unico modo obiettivo per valutare la ritenzione di molecole di colloidi nella vascolarizzazione, fornendo utili informazioni aggiuntive per il monitoraggio della terapia con soluzioni di colloidi.

A. Colloidi di sintesi disponibili I destrani sono polimeri lineari di glucosio sintetizzati a partire dal glucosio stesso da batteri del genere Leuconostoc spp. Sono disponibili in vari pesi molecolari, ma quelli utilizzati più comunemente in ambito clinico sono compresi fra 40.000 e 70.000 Dalton. L’idrossietilamido viene prodotto mediante modificazione chimica dell’amilopectina, un altro polimero del glucosio. I pesi molecolari delle molecole di amido eterificato variano da 30.000 a 2.000.000 Dalton. Al contrario, le gelatine sono molecole proteiche che di solito hanno un peso molecolare di 30.000-40.000 Dalton. I colloidi di sintesi vengono eliminati dall’organismo mediante idrolisi intravascolare che gradualmente rimuove frammenti di polimero, ed infine tramite escrezione renale quando le molecole sono diventate abbastanza piccole da filtrare attraverso il glomerulo. Inoltre, le grandi molecole si accumulano all’interno dei macrofagi in tutto l’organismo, senza determinare apparenti effetti indesiderati. L’emivita dei destrani e dell’amido eterificato è di circa 25 ore, ma le grandi molecole di amido eterificato possono resistere per periodi più lunghi. L’emivita delle gelatine è molto più breve perché le molecole sono più piccole, e la maggior parte delle preparazioni garantisce solo un’espansione volumetrica di 3-4 ore. I destrani causano numerose modificazioni della coagulazione, come il rivestimento delle membrane piastriniche, la precipitazione dei fattori della coagulazione, l’emodiluizione e la diminuzione dell’attività del fattore di Von Willebrand. Questi cambiamenti possono portare ad episodi clinici di emorragia in animali trattati con volumi elevati di destrano. Gli effetti dell’amido eterificato sul sistema della coagulazione sono simili, ma meno pronunciati. Anche se in cani in condizioni sperimentali sono state dimostrate modificazioni dei risultati degli esami di laboratorio, è difficile documentare un’eccessiva emorragia in cani e gatti con malattie ad insorgenza spontanea trattati con volumi elevati di amido eterificato, perché la maggior parte di questi pazienti presenta già anche una concomitante coagulopatia da consumo. Quando si somministrano volumi elevati di amido eterificato, effettuiamo contemporaneamente l’infusione di plasma fresco congelato, che sembra prevenire le più gravi coagulopatie e spesso è in grado di normalizzare il profilo della coagulazione di questi pazienti. È importante riconoscere

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che i piccoli volumi di plasma fresco congelato necessari ad apportare i fattori della coagulazione di solito non sono adeguati per garantire un supporto colloidale o cardiovascolare.

Dosaggio dei colloidi Se sono presenti i segni dello shock, è necessario effettuare un trattamento specifico mediante iniezione di un bolo di colloidi (20 ml/kg). Le attuali indicazioni in letteratura veterinaria suggeriscono di non superare dosaggi di amido eterificato e destrani superiori a 20 ml/kg/die. Recenti ricerche sperimentali nel cane hanno dimostrato che dosaggi di amido eterificato superiori a 20 ml/kg possono causare una coagulopatia, che è principalmente del tipo da diluizione, ma anche dovuta ad inattivazione del fattore di von Willebrand ed agli effetti diretti sulle piastrine. Questa posologia massima, tuttavia, è basata su studi condotti in cani normali. Noi abbiamo riscontrato che questo dosaggio spesso deve essere notevolmente superato nei soggetti in condizioni critiche, senza che ciò comporti la comparsa di effetti indesiderati evidenti. Per mantenere il volume intravascolare e la pressione colloidosmotica nei pazienti settici, può essere necessario utilizzare i colloidi a dosi fino a 40-60 ml/kg/die. Mentre dosaggi inferiori a 20 ml/kg di qualsiasi colloide di sintesi sembrano essere sicuri, se è necessario impiegare dosaggi più elevati suggeriamo la concomitante somministrazione di plasma fresco congelato (10-15 ml/kg) come fonte di fattori della coagulazione. Nei casi in cui all’infusione di volumi elevati di amido eterificato si associa il plasma, la comparsa di coagulopatie clinicamente rilevanti e direttamente attribuibili ai colloidi di sintesi sembra essere inusuale. Inoltre, il plasma fresco congelato costituisce un’importante fonte di albumina e di altri fattori come l’antitrombina III, un modulatore della cascata della coagulazione. Poiché la coagulopatia indotta dai destrani è più grave di quella dovuta all’amido eterificato, i dosaggi del destrano 70 non devono essere superiori a 20 ml/kg/die. Il clinico deve monitorare accuratamente i parametri fisiologici secondo le modalità descritte più oltre per determinare i fabbisogni idrici in atto di ogni singolo individuo. L’amido eterificato può essere somministrato a velocità di infusione molto rapide nell’ambito di un bolo totale per il trattamento dello shock, se lo si desidera. I dosaggi del bolo antishock sono molto inferiori a quelli dei cristalloidi, perché all’interno della circolazione viene trattenuta una quantità più elevata di colloidi. Per la rianimazione in caso di shock si possono utilizzare dosaggi totali di 15-20 ml/kg, solitamente procedendo per aumenti di 5 ml/kg alla volta. Nei pazienti in shock che presentano bassi livelli plasmatici di proteine, queste posologie elevate possono rappresentare una parte vitale della rianimazione dallo shock. Nel gatto, rispetto al cane, l’amido eterificato va somministrato più lentamente, perché esiste la segnalazione di un’incidenza aneddotica di reazioni anafilattiche avverse come il vomito e la difficoltà respiratoria. Quindi, è possibile somministrare un bolo di 5 ml/kg ogni 15 minuti nel cane, ma nel gatto bisogna attendere più di 30-40 minuti. Quando si utilizzano i colloidi di sintesi nei felini, è necessario stare attenti, perché in questa specie animale si può verificare facilmente un sovraccarico idrico. In generale, noi non raccomandiamo di superare il limite di 25 ml/kg/die (1 ml/kg/ora a velocità di in-


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fusione costante - CRI) in questa specie, a meno che non si stia monitorando la pressione venosa centrale. Quando si utilizzano colloidi di sintesi per il trattamento continuo dei pazienti ipoproteinemici in condizioni critiche, raccomandiamo di effettuare la misurazione della pressione colloidosmotica per determinare la dose richiesta.

Monitoraggio della terapia con colloidi Con l’aumento dell’impiego dei colloidi di sintesi nei pazienti in condizioni critiche, l’uso delle proteine totali come stima della pressione colloidosmotica diventa problematico. Dopo la somministrazione di queste soluzioni ai pazienti, qualsiasi correlazione fra TP e COP va perduta, perché il rifrattometro non misura i colloidi di sintesi. Fra questi ultimi, quelli comunemente utilizzati come l’amido eterificato ed i destrani non determinano modificazioni prevedibili delle misurazioni delle TP. Il valore di queste ultime può essere molto basso, ma la COP può essere entro i limiti normali a causa della presenza delle molecole dei colloidi di sintesi. Queste soluzioni possono quindi aumentare efficacemente il valore della COP, con risoluzione di versamenti o edema, a dispetto del fatto che le TP restino immutate o siano persino diminuite. Quando si utilizzano i colloidi di sintesi per il trattamento dei pazienti, può essere estremamente difficile calibrare l’adeguatezza della terapia. Senza la capacità di misurare direttamente la COP, l’unico modo per monitorare la terapia con colloidi di sintesi è quello di basarsi sui segni

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clinici manifestati dal paziente. I riscontri clinici come il miglioramento dello stato emodinamico o la risoluzione dell’edema possono fornire utili informazioni, ma dipendono da una varietà di fattori, come la presenza di sepsi o vasculite, e non solo dalla COP. Questa situazione è analoga a quella che si verificherebbe se effettuassimo trasfusioni di sangue senza monitorare i risultati mediante determinazioni in sequenza dei valori di ematocrito o pressione venosa centrale. Inoltre, i colloidi di sintesi non determinano un aumento prevedibile della COP secondo una modalità correlata alla dose. Le perdite in atto di collodi dovute a vasculiti, versamenti o perdite attraverso il tratto gastroenterico possono esitare in un incremento minimo della COP nonostante un dosaggio apparentemente adeguato. La misurazione diretta della pressione colloidosmotica è quindi l’unico modo per monitorare efficacemente la terapia con colloidi di sintesi. L’osmometria dei colloidi è quindi uno dei più importanti mezzi di monitoraggio disponibili per i clinici che si dedicano al trattamento dei pazienti in condizioni critiche ed utilizzano la terapia con colloidi di sintesi. Le misurazioni seriali della COP contribuiscono a determinare se i colloidi stiano rimanendo nello spazio vascolare ed a valutare l’efficacia della terapia. I valori medi della COP nel sangue intero dei cani normali sono pari a 19,95 ± 2 mm Hg, mentre nei gatti normali sono di 24,7 ± 3,7 mm Hg. Lo scopo della terapia con colloidi dovrebbe essere quello di mantenere il valore di COP al di sopra di 15 mm Hg.


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La fluidoterapia nel gatto: è diversa dal cane? Lesley G. King MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA

Nei felini, la fluidoterapia presenta parecchi aspetti che differiscono dal cane. La prima è più importante distinzione fra le due specie animali è che in condizioni normali il volume ematico del gatto (circa 60 ml/kg) è minore di quello del cane (circa 90 ml/kg). Poiché il bolo di fluidi utilizzato per il trattamento dello shock è derivato dal volume ematico, in generale nel gatto rispetto al cane la fluidoterapia necessita di essere somministrata in modo molto più conservativo. I gatti sono molto più suscettibili al sovraccarico di fluidi e bisogna stare molto attenti a non determinare la comparsa di segni clinici da eccesso volumetrico, rappresentati solitamente da difficoltà respiratorie dovute alla presenza di un versamento pleurico. Di conseguenza, non solo si somministrano di solito volumi più bassi, ma i boli di fluidi, soprattutto colloidi, vengono iniettati molto più lentamente.

FISIOPATOLOGIA DELLO SHOCK NEL GATTO Lo shock ipovolemico nel gatto si presenta in modo simile a quello riscontrato nel cane. Come in quest’ultimo, i gatti con ipovolemia acuta sono solitamente pallidi, tachicardici con polso prima saltellante e poi debole. Lo shock cardiogeno è molto più comune nel gatto che nel cane, con un’insufficienza diastolica che si verifica di frequente nei gatti con miocardiopatia ipertrofica. Poiché gli animali con shock cardiogeno generalmente non devono essere trattati con fluidi endovenosi, la terapia di questo problema non verrà illustrata in questa relazione. Dal punto di vista clinico, nel gatto rispetto al cane lo shock settico si presenta in modo leggermente differente (e scarsamente compreso). Anche se la fisiopatologia generale dell’infiammazione come sequela della presenza di batteri o endotossine è la stessa, i segni clinici fra le due specie differiscono. Nel gatto, lo stadio iperdinamico o iperemico dello shock settico si osserva molto raramente. Invece, i gatti con sepsi di solito sembrano progredire direttamente verso lo stadio vasocostrittivo dello shock settico. Quindi, si presentano clinicamente con pallore delle mucose, polso debole e collasso generalizzato, manifestazioni non facilmente distinguibili da quelle dello shock ipovolemico. I gatti settici sono spesso ipotermici e mostrano frequentemente i segni di un’anemia lieve o moderata e di ittero. Nei gatti con shock settico si osserva un interessamento spesso drammatico, ma temporaneo, della funzione cardiaca, un fattore che riveste un notevole significato per le decisioni relative alla fluidoterapia. In questi animali, la con-

trattilità cardiaca è spesso diminuita, il cuore può apparire ingrossato e l’atrio sinistro può essere aumentato di dimensioni: tutti riscontri che simulano la miocardiopatia. Da un punto di vista clinico la frequenza cardiaca può essere un utile indizio circa la presenza di una funzione cardiaca anormale nei gatti con sepsi. Gli animali colpiti da alterazioni miocardiche dovute a sepsi sono spesso bradicardici, con frequenze cardiache di 120-160 bpm. Questo valore risulta inappropriato in presenza di ipovolemia ed ipotensione. È necessario rilevare la bradicardia eventualmente presente ed effettuare la somministrazione di fluidi in modo oculato, perché esiste un rischio reale che la fluidoterapia possa esitare in versamento pleurico ed edema polmonare. La causa di queste modificazioni cardiache, che sembrano essere del tutto reversibili in seguito a risoluzione della sepsi, non è stata ben compresa.

I FLUIDI CRISTALLOIDI NELLO SHOCK IPOVOLEMICO E SETTICO DEL GATTO La fluidoterapia resta il caposaldo del trattamento dello shock nel gatto e nel cane. Negli animali con shock, attraverso l’infusione endovenosa di elevati volumi di liquidi ci si augura di migliorare il volume ematico circolante, diminuire la viscosità del sangue ed incrementare il ritorno venoso, contribuendo così a migliorare la gittata cardiaca. Ne deriva quindi un aumento della perfusione tissutale, che inizia a far regredire l’acidosi cellulare ed assicura un apporto di ossigeno alle cellule. Per ottenere questo risultato può essere necessario impiegare volumi molto elevati di fluidi endovenosi. Nel cane, si effettua la somministrazione di boli antishock di cristalloidi sostitutivi (Ringer lattato, soluzioni elettrolitiche bilanciate di ripristino) fino a 90 ml/kg nell’arco di un’ora. Nel gatto, il volume ematico intravascolare è molto più piccolo che nel cane e la dose totale del bolo antishock di cristalloidi è di 45-60 ml/kg. Inizialmente, si infondono rapidamente per via endovenosa 10-30 ml/kg (nell’arco di 15-20 minuti), mentre si tiene l’animale sotto attenta osservazione per rilevarne la risposta o per cogliere i segni del fatto che il bolo di fluidi stia causando un problema. Questa dose può poi essere ripetuta se necessario fino al raggiungimento della posologia totale antishock. Se l’animale inizia a migliorare, è possibile rallentare la somministrazione prima che sia stato infuso il bolo totale. Il fine della rianimazione è il miglioramento della perfusione tissutale, che si riconosce clinicamente sulla base di un cambiamento favorevole del


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colore delle mucose, della qualità del polso, della frequenza cardiaca (che diminuisce avvicinandosi alla normalità) e dello stato del sensorio. Prima, durante e dopo ciascun bolo di fluidi è necessario effettuare il monitoraggio dei valori di ematocrito, solidi totali, elettroliti e glicemia. Il cristalloide ideale è una soluzione sostitutiva bilanciata come quella di Ringer lattato. In condizioni ottimali, come bolo antishock si devono impiegare soltanto fluidi isotonici come le soluzioni elettrolitiche bilanciate sostitutive o quella di NaCl allo 0,9%. In generale, i fluidi ipotonici come le soluzioni di mantenimento o quella di NaCl allo 0,45% non vanno somministrate sotto forma di bolo, perché ne può derivare una grave alterazione elettrolitica. Per facilitare la scelta di un fluido e per determinare se sia necessaria un’integrazione con potassio, è importante effettuare frequentemente la valutazione dei livelli sierici degli elettroliti (Na, K). Gli animali con perdite idriche in atto (grave diarrea, peritonite, ecc…) di solito necessitano di una fluidoterapia continua per mantenere valori normali di frequenza cardiaca, qualità del polso e produzione di urina. La velocità della fluidoterapia sostitutiva viene determinata sulla base di parametri clinici come la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e la produzione di urina. Come conseguenza dell’infusione ad elevata velocità di fluidi cristalloidi possono insorgere diversi problemi, che risultano più gravi nei pazienti ipoproteinemici o in quelli affetti da vasculite. Dal momento che solo il 25% circa di una soluzione cristalloide rimane in circolo in condizioni normali, ed ancora meno nei pazienti con aumentata permeabilità vascolare ed ipoproteinemia, si può avere un accumulo di fluidi interstiziali. I meccanismi di difesa che si oppongono all’edema come l’incremento del drenaggio linfatico e la diminuzione delle concentrazioni di proteine a livello interstiziale possono essere travolti, portando all’accumulo di fluidi ed alla comparsa di edema. Quest’ultimo, oltre ad ostacolare la funzione degli organi, compromette l’apporto di principi nutritivi alle cellule e conduce ad una compromissione della guarigione. Gli organi colpiti più gravemente sono i polmoni, che possono potenzialmente subire una limitazione dello scambio gassoso. Nel gatto, il versamento pleurico rappresenta la presentazione più comune del sovraccarico idrico nei pazienti sottoposti a fluidoterapia ed è probabilmente causato da una associazione di fuoriuscita del contenuto vascolare e scarsa funzione miocardica.

TRASFUSIONI DI SANGUE Gli emoderivati possono essere molto importanti nel trattamento dello shock e della grave anemia e sono spesso di utilità vitale nei gatti in condizioni critiche. In questi ultimi, se l’ematocrito mostra una brusca caduta al di sotto del 20% circa, la trasfusione di emazie concentrate o di sangue intero può significativamente migliorare l’apporto di ossigeno ai tessuti ed esitare in un notevole miglioramento della pressione sanguigna. Le trasfusioni di sangue sono spesso ben tollerate nei gatti in condizioni critiche, anche quando non sopportano altre forme di fluidoterapia. La trasfusione di plasma può essere un’utile fonte di albumina in caso di grave ipoproteinemia, specialmente nei pazienti di piccole di-

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mensioni, quando è possibile somministrare volumi relativamente elevati di plasma in confronto al loro peso corporeo. Per il trattamento delle coagulopatie da diluizione o della DIC può essere necessario impiegare il plasma fresco o fresco congelato. Prima della somministrazione, gli emoderivati devono essere riscaldati ad una temperatura prossima a quella corporea, senza però porli nel forno a microonde o in acqua troppo calda perché esiste il rischio che ciò causi un’emolisi. Gli emoderivati vanno somministrati utilizzando speciali filtri per rimuovere tutti i piccoli coaguli eventualmente formatisi. Ciascuna trasfusione deve richiedere da 1 a 2 ore per essere completata. Sia nel cane che nel gatto esistono specifici gruppi sanguigni, basati sulla presenza di antigeni sulla superficie degli eritrociti. Nel gatto esistono tre tipi ematici, A, B ed AB, che è relativamente raro. La maggior parte dei gatti domestici a pelo corto è di tipo A. I gatti differiscono dal cane in quanto presentano degli anticorpi ad insorgenza spontanea contro gli altri tipi ematici. Quindi, un gatto di tipo B nasce con gli anticorpi contro gli eritrociti del tipo A e presenterà una grave reazione da trasfusione se trattato con sangue di questo tipo, anche se non è mai stato sottoposto in precedenza a trasfusione. Analogamente, i gatti di tipo A possiedono anticorpi antieritrociti di tipo B, anche se le reazioni da trasfusione osservate in questo caso non sono così gravi. Quindi, in tutti i gatti da sottoporre a trasfusione è necessario effettuare prima la tipizzazione del sangue. Le reazioni da trasfusione possono essere classificate come immunomediate e non immunomediate. Le prime nella maggior parte dei casi sono emolitiche, dal momento che gli anticorpi nell’organismo ricevente reagiscono con gli antigeni delle cellule del donatore. Nei gatti di tipo B sottoposti inavvertitamente a trasfusione con sangue di tipo A, si possono osservare collasso improvviso e morte dopo la somministrazione di solo poche gocce di sangue. Alterazioni respiratorie quali tachipnea ed edema polmonare, o morte improvvisa sono i segni clinici più comuni della reazione da trasfusione nel gatto. Altre manifestazioni di questo tipo sono rappresentate da: - ansia, irrequietezza - orticaria, prurito, edema facciale - tremori muscolari - nausea, salivazione, vomito - emoglobinemia, emoglobinuria - bilirubinemia, bilirubinuria - febbre - tachipnea, apnea - edema polmonare - tachicardia - incontinenza fecale e/o urinaria - anuria/insufficienza renale - convulsioni - shock anafilattico Se si sospetta una reazione da trasfusione, quest’ultima va immediatamente interrotta e il paziente deve essere monitorato per rilevare la risoluzione dei segni clinici. Le reazioni più gravi possono richiedere il trattamento con antistaminici o corticosteroidi. Lieve febbre, tachipnea, nausea e


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vomito possono semplicemente rappresentare un’indicazione del fatto che la trasfusione è stata somministrata troppo rapidamente e può essere ripresa più lentamente.

MONITORAGGIO CARDIOVASCOLARE DEI GATTI IN STATO DI SHOCK ECOGRAFIA DOPPLER PER LA MISURAZIONE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA I sistemi di rilevamento del polso con metodo Doppler individuano il flusso di sangue attraverso un vaso oppure il movimento nella parete dell’arteria. Il metodo più comunemente utilizzato in medicina veterinaria rileva il flusso di sangue attraverso i vasi e viene tipicamente impiegato per misurare soltanto la pressione sistolica. Il flusso arterioso viene rilevato servendosi di onde di ultrasuoni e si percepisce sotto forma di un segnale udibile emesso dall’amplificatore Doppler. Intorno all’arto si applica un manicotto insufflabile che viene gonfiato fino ad occludere il flusso del sangue arterioso e poi sgonfiato gradualmente. Per ottenere dei rilevamenti accurati il manicotto deve essere posizionato correttamente. La pressione a cui si ha la ricomparsa del fluido è quella sistolica, misurata con uno sfigmomanometro associato all’apparecchio. Per precisione, la determinazione va ripetuta più volte fino a che non si ottengono risultati costanti. Con un po’ di pratica risulta relativamente facile effettuare una misurazione della pressione sistolica con l’ecografia Doppler. È stato documentato che i valori così rilevati devono essere di circa 15 mm Hg inferiori a quelli ottenuti mediante misurazione diretta delle pressioni nell’arteria femorale. Di solito è possibile effettuare le letture nei gatti e negli animali con moderata ipotensione, per cui ci si può aspettare che il metodo Doppler fornisca alcune indicazioni sulla pressione sistolica anche negli animali in condizioni di compromissione, in cui altri metodi hanno fallito. La misurazione risulta non invasiva e ben tollerata da tutti i pazienti ad eccezione di quelli più aggressivi. I principali svantaggi del metodo Doppler sono due. Quello più importante è che di solito di ottiene soltanto la determinazione della pressione sistolica. Anche se questo è un utile frammento di informazione, il valore della pressione arteriosa media fornisce l’indicatore fisiologicamente più importante della perfusione tissutale a livello capillare. Dal momento che la pressione media è più strettamente correlata a quella diastolica, la conoscenza della sola pressione sistolica può essere più fuorviante se quella diastolica è bassa. In questi pazienti, una bassa pressione sistolica normale può indurre nel clinico in un falso senso di sicurezza, perché la pressione media può essere ancora significativamente al di sotto del limite desiderato. Il secondo svantaggio del metodo Doppler è la necessità di tenere in posizione al di sopra dell’arteria il cristallo che rileva il flusso per periodi di tempo relativamente prolungati, soprattutto se si desidera effettuare misurazioni ripetute. L’arteria può essere difficile da localizzare nei gatti o nei pazienti con scarsa perfusione e questi tentativi possono richiedere molto tempo ed essere frustranti.

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Monitoraggio della pressione venosa centrale Il monitoraggio della pressione venosa centrale (CVP) fornisce informazioni molto differenti da quelle che si ottengono dalla pressione arteriosa. Il sistema venoso è quello di capacitanza: cioè la parte di apparato circolatorio che conserva la maggior parte del volume ematico di riserva. Le variazioni della CVP forniscono informazioni sul grado di riempimento dei grossi vasi. Il valore di questo parametro è di solito basso (0-5 cm H2O), ma può aumentare se la capacitanza dei grossi vasi viene superata, sia attraverso un sovraccarico assoluto del circolo (ad es., nell’insufficienza renale oligurica), che per un sovraccarico circolatorio relativo (ad es., nell’insufficienza cardiaca, dove il cuore non è in grado di pompare in avanti tutto il sangue che torna ad esso). Questa tecnica è quindi utile soprattutto per il monitoraggio degli animali con un rischio di sovraccarico idrico, come quelli colpiti da una cardiopatia che richiede la somministrazione di fluidi. In generale, è possibile infondere senza rischi dei liquidi per via endovenosa a condizione che non si verifichi un aumento della pressione venosa centrale, sebbene occorra agire con cautela e si debbano monitorare anche altri parametri come l’auscultazione polmonare. Una volta che si sia verificato un aumento della pressione venosa centrale, la somministrazione di fluidi deve essere ridotta o sospesa. La pressione venosa centrale può essere elevata se si verifica un aumento di quella intratoracica, come nello pneumotorace iperteso e nella ventilazione a pressione positiva. Analogamente, la pressione venosa centrale aumenta nei pazienti con cardiopatia come una pericardite restrittiva o un tamponamento pericardico. Per misurare la pressione venosa centrale, si inserisce un catetere nella vena giugulare facendolo avanzare sino a livello della vena cava craniale. Il catetere non deve giungere fino in fondo nell’atrio destro. Viene bendato in posizione e raccordato ad un manometro ad acqua o a un trasduttore sensibile alla pressione. Il manometro viene riempito con soluzione fisiologica attraverso una valvola a tre vie ed azzerato a livello dell’atrio destro. La soluzione fisiologica viene lasciata defluire dal manometro al catetere fino a che non si pone in equilibrio con la pressione venosa e si effettua la lettura del valore rilevato dal manometro ad acqua. Si eseguono quindi ripetute misurazioni. La determinazione della pressione venosa centrale comporta alcuni svantaggi. Il catetere deve essere inserito nella vena giugulare ed essere abbastanza lungo da arrivare nella vena cava intratoracica. Le coagulopatie e la trombocitopenia sono controindicazioni relative all’inserimento di questi cateteri. Una piega del catetere o la formazione di coaguli di sangue al suo interno possono portare a misurazioni erroneamente elevate. Anche i cambiamenti di posizione dell’animale in differenti misurazioni influiscono sulle letture, per cui è importante assicurarsi che il soggetto venga contenuto nella medesima posizione ogni volta che si effettua una misurazione. I valori della pressione venosa centrale sono molto utili, non assoluti. Non ci si deve mai dimeticare di associare queste informazioni ai riscontri dell’esame clinico e ad un’accurata valutazione complessiva dell’animale.


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CATECOLAMINE Se il gatto non risponde alla fluidoterapia, o nei casi in cui quest’ultima è controindicata, l’infusione continua di catecolamine costituisce un modo importante per sostenere la circolazione e migliorare la perfusione tissutale. Sono disponibili numerosi farmaci, ma l’agente inotropo e pressorio più ampiamente utilizzato in questa specie animale è la dopamina. Questa è ben tollerata dalla maggior parte dei felini, nei quali a dosi basse o moderate non sembra avere molti effetti negativi. Spesso risultano efficaci ed utili i dosaggi con azione agonista sui betarecettori (5-8 µg/kg/min a velocità di infusione costante - CRI), mentre nei pazienti gravemente colpiti può essere necessario ricorrere a dosi agoniste sugli alfarecettori (8-15 µg/kg/min). Occasionalmente può essere necessario impiegare altre catecolamine come la dobutamina, l’adrenalina o la noradrenalina, che però rappresentano una “seconda linea” da impiegare solo se la dopamina è inefficace. Il monitoraggio Doppler della pressione sanguigna fornisce importanti informazioni per guidare la somministrazione delle catecolamine. Ci si deve sforzare di mantenere la pressione sistolica al di sopra di 90 mm Hg nel gatto sveglio (normale = 110-150 mm Hg). Si deve prendere in considerazione l’aggiunta di dopamina al trattamento del paziente se: • I valori Doppler sono inferiori ad 80 mm Hg nonostante un’adeguata rianimazione mediante fluidoterapia

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• I valori Doppler sono inferiori ad 80 mm Hg e non è possibile somministrare dei fluidi abbastanza rapidamente da correggere l’ipotensione • La somministrazione di fluidi è probabilmente necessaria, ma la presenza di una pneumopatia o di un versamento pleurico riduce le possibilità di infonderne maggiori quantità • La pressione venosa centrale è superiore a 5 cm H2O e l’ipotensione persiste. Nota: se siete in dubbio se un gatto abbia o meno bisogno della dopamina, probabilmente ne ha bisogno!! È preferibile sbagliare utilizzando il farmaco piuttosto che evitare di impiegarlo. La somministrazione della dopamina va iniziata ad una velocità di 5 µg/kg/min, per poi effettuare la misurazione Doppler della pressione sanguigna ogni 15 min. Il dosaggio del farmaco può essere aumentato per incrementi di 2,5 µg/kg/min fino a 15 µg/kg/min, fino a che la pressione sanguigna non migliora. La dopamina deve essere diluita in fluidi, ad una concentrazione che possa essere somministrata con una velocità di infusione molto lenta (1-3 ml/ora), al fine di prevenire l’aggravamento del sovraccarico idrico nei gatti, che sono pazienti di piccole dimensioni. I felini devono essere trattati con la dose minima di dopamina necessaria a mantenere la pressione sistolica al di sopra di 90 mm Hg. Il farmaco viene quindi sospeso gradualmente sulla base della risposta dell’animale e di ripetute misurazioni della pressione sanguigna.


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Valutazione della funzionalità polmonare utilizzando l’emogasanalisi arteriosa e gli indici pressori dell’ossigeno Lesley G. King MVB, DACVECC, DACVIM, DECVIM-CA, Philadelphia, PA, USA

INDICAZIONI PER LA MISURAZIONE DEI GAS EMATICI E L’EQUILIBRIO ACIDO-BASICO NEI PICCOLI ANIMALI L’analisi dei gas ematici fornisce informazioni sulla funzione polmonare e sull’equilibrio acido-basico complessivo, comprendendo sia le componenti metaboliche che quelle respiratorie. Si tratta di una tecnica di indagine adatta a tutti i casi in cui vi sia un’indicazione di malattia respiratoria, dal momento che il metodo più definitivo per valutare la funzione polmonare resta la misurazione delle pressioni parziali di ossigeno (PO2) e biossido di carbonio (PCO2) nel sangue arterioso. La determinazione dello status acido-basico è indicata in tutti gli animali gravemente malati, poiché le alterazioni di questi parametri sono comuni e sovente forniscono utili informazioni diagnostiche. Per risolvere con successo queste malattie è spesso necessario trattare gravi anomalie.

STRUMENTI PER LA MISURAZIONE DEI GAS EMATICI Gli analizzatori utilizzati di solito misurano direttamente il valore di pH, PO2 e PCO2 e sulla base di questi calcolano l’eccesso di basi ed il livello di HCO3, utilizzando il nomogramma di Siggard-Andersen. Il pH nel sangue intero viene misurato direttamente utilizzando un elettrodo da pH in vetro. La PCO2 viene determinata servendosi di un elettrodo che separa una soluzione tampone di bicarbonato dal campione, utilizzando una membrana permeabile alla CO2. Quest’ultima diffonde nella soluzione tampone a partire dal sangue, modificando il pH del tampone stesso. Si impiega quindi un pHmetro per calcolare la quantità di CO2 utilizzando l’equazione di Henderson-Hasselbach. L’elettrodo da O2 è polarografico: genera una minuta corrente elettrica proporzionale al valore di PO2. Per la misurazione dei gas ematici in medicina veterinaria è disponibile una gran varietà di strumenti, alcuni dei quali relativamente poco costosi e portatili.

PRELIEVO DI CAMPIONI DI SANGUE ARTERIOSO I campioni di sangue arterioso si possono ottenere mediante puntura diretta di qualsiasi arteria. Più comunemente

si utilizza quella femorale, ma altre sedi sono rappresentate dalle arterie metatarsale dorsale, brachiale ed auricolare. Si possono anche prelevare dei campioni attraverso i cateteri inseriti nell’arteria metatarsale dorsale, femorale o auricolare. Le siringhe per i prelievi da emogasanalisi devono essere preventivamente eparinizzate, sia effettuando un lavaggio preventivo con una soluzione di eparina sodica che impiegando speciali siringhe da emogasanalisi contenenti litioeparina liofilizzata. Per prelevare un campione mediante punture dirette sono necessari 1 o 2 assistenti che contengano l’animale in decubito laterale. Con la palpazione, sulla faccia mediale dell’arto posteriore si identifica l’arteria femorale, nel punto quanto più possibile in alto vicino all’area inguinale. L’operatore deve sentire le pulsazioni sotto le dita di una mano e dirigere l’ago con un’inclinazione di circa 60° verso l’arteria così individuata. Una volta penetrati nel vaso, si osserva un getto di sangue a livello del cono dell’ago. Questo viene tenuto fermo nell’arteria e si preleva il campione esercitando un’aspirazione con lo stantuffo. Le siringhe preconfezionate del commercio contengono un filtro attraverso il quale viene eliminata l’aria e lo riempimento avviene per effetto della pressione arteriosa diretta, senza bisogno di esercitare alcuna aspirazione su uno stantuffo. Alla rimozione dell’ago, si deve applicare sull’arteria una pressione diretta da mantenere per alcuni minuti, allo scopo di prevenire la formazione di ematomi. Tutte le bolle d’aria devono essere eliminate immediatamente ed il campione va tappato con una chiusura ermetica per evitare l’esposizione all’ambiente. Il sangue va esaminato il più presto possibile e mantenuto sotto ghiaccio fino all’analisi. In condizioni ideali, quest’ultima va effettuata entro due ore dal prelievo.

FONTI DI ERRORE NELL’ANALISI DEI GAS EMATICI Nell’emogasanalisi è possibile determinare una considerevole quantità di errori dovuti alla tecnica dell’operatore ed alle modalità di conservazione del campione. Se quest’ultimo viene esposto all’aria ambientale o alle bolle d’aria presenti nel campione, man mano che questo si pone in equilibrio con la tensione di ossigeno del gas il valore di PCO2 diminuisce e quello di PO2 subisce a sua volta delle modificazioni. Anche la diluizione del campione con eparina intro-


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duce un errore. L’eccessiva eparinizzazione della siringa porta ad una considerevole riduzione dei valori misurati di PCO2, ma a scarse modificazioni del pH. Questo errore può essere ridotto al minimo espellendo tutta l’eparina dalla siringa dopo il lavaggio, lasciando solo quella che riempie lo spazio morto del cono dell’ago, oppure utilizzando eparina liofilizzata. La conservazione prolungata del campione conduce a delle modificazioni delle tensioni misurate dei gas, per effetto del metabolismo operato dalle cellule. La glicolisi anaerobica effettuata dagli eritrociti porta alla produzione di CO2. L’impiego dell’ossigeno per il metabolismo anaerobico da parte dei leucociti e dei reticolociti determina una diminuzione di PO2. Queste alterazioni diventano tanto più prolungate quanto più a lungo viene conservato il campione e quanto più è elevato il conteggio dei leucociti. Il mantenimento del campione sotto ghiaccio fra il prelievo e l’analisi riduce al minimo questo effetto diminuendo il metabolismo cellulare. I campioni di sangue di piccole dimensioni vengono rapidamente refrigerati a 0° quando sono posti in acqua e ghiaccio e quindi non mantengono il metabolismo cellulare per più di pochi minuti. L’analisi deve anche tenere conto della temperatura corporea dell’animale al momento del prelievo del campione. L’impiego di valori stimati delle temperature corporee o dei valori normali per una data specie può introdurre un errore significativo nella misurazione di PO2 e PCO2. La maggior parte degli analizzatori richiede automaticamente all’operatore di specificare la temperatura corporea al momento dell’analisi. Sono disponibili dei nomogrammi per il calcolo manuale della correzione dovuta alla temperatura se ciò non viene fatto automaticamente dall’analizzatore. I valori calcolati per l’eccesso di basi ed i livelli di HCO3 vanno ottenuti dopo aver corretto il campione in funzione della temperatura.

GAS ARTERIOSI E FUNZIONE POLMONARE

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sione della causa della pneumopatia. Valori inferiori a 55 mm Hg indicano un pericolo di morte imminente e richiedono un intervento immediato. Valori di PaCO2 superiori a 50 mm Hg sono significativi e necessitano di un trattamento specifico e valori superiori a 70 mm Hg sono segno di pericolo di morte imminente. Una PaCO2 inferiore a 20 mm Hg può esitare in un’eccessiva vasocostrizione cerebrale e va trattata in modo aggressivo.

Pressioni parziali dell’ossigeno Il valore parziale di PO2 rappresenta l’ossigeno disciolto nell’acqua, che quindi determina la saturazione di ossigeno nell’emoglobina in una relazione sigmoide secondo la curva di dissociazione dell’O2. Si prevede che l’emoglobina sia completamente saturata ad una pressione parziale arteriosa di ossigeno (PaO2) compresa fra 60 e 70 mm Hg. Gli animali con funzione polmonare normale, che respirano aria ambientale, devono avere valori di PaO2 superiori a 85 mm Hg. L’iperventilazione associata allo stress del prelievo del campione di sangue arterioso può esitare nella comparsa di valori di PaO2 fino a 120 mm Hg. Gli aumenti della concentrazione di ossigeno inspirato portano ad un ulteriore incremento di PaO2. Un’utile regola pratica in ambito clinico è che PaO2 dovrebbe aumentare di circa cinque volte la concentrazione di ossigeno inspirato: un animale che respira il 100% di ossigeno (anestetizzato ed intubato) dovrebbe avere una PaO2 di circa 500 mm Hg ed uno che respira il 40% di ossigeno (ossigeno nasale o gabbia ad ossigeno) dovrebbe avere una PaO2 di 200 mm Hg. È importante ricordare che la grande maggioranza dell’ossigeno viene veicolata nel sangue sotto forma di ossiemoglobina e che le quantità trasportate come ossigeno disciolto sono relativamente piccole. Quindi, una volta che l’emoglobina sia completamente saturata, sciogliendo più ossigeno nel plasma si ottengono solo lievi incrementi complessivi dell’apporto di ossigeno ai tessuti. In seguito alla modificazione della concentrazione di ossigeno inspirato, l’equilibrio alla nuova PaO2 viene raggiunto entro 2-3 minuti.

Intervallo di riferimento per i gas arteriosi La maggior parte degli studi condotti nei cani normali fornisce per gli animali di questa specie un valore medio di pH di 7,407 ± 0,028, PaCO2 di 36,8 ± 3,0 mm Hg e PaO2 di 92,1 ± 5,6 mm Hg. Anche se nell’uomo la PaO2 diminuisce normalmente con l’età, non è stata riscontrato un calo di questo parametro né nei cani da esperimento anziani né in quelli da compagnia in età geriatrica tenuti in ambiente urbano. Nel gatto, tutti gli studi riportati in letteratura sono stati condotti utilizzando cateteri permanenti inseriti nell’arteria femorale, nell’aorta discendente o nella carotide. La maggior parte dei lavori concorda nel ritenere che l’intervallo di riferimento nel gatto sia di 106,8 ± 5,7 mm Hg per la PaO2, di 7,38 ± 0,038 per il pH e di 31,0 ± 2,9 mm Hg per la PaCO2. Tutti gli studi riferiscono anche una lieve acidosi metabolica nei gatti svegli normali con eccesso di basi di – 5,9 ± 3,9 mmol/l e valori di HCO3 di 18,0 ± 1,8 mmol/l. Valori di PaO2 inferiori a 75 mm Hg vengono solitamente trattati mediante somministrazione di ossigeno ed aggres-

Pressioni parziali di biossido di carbonio La velocità di eliminazione di CO2 dall’organismo influisce direttamente sulla pressione parziale arteriosa di CO2 (PaCO2), mentre la produzione di CO2 da parte del metabolismo tissutale è più strettamente correlata alla pressione parziale venosa di CO2. Dal momento che è molto solubile e presenta una curva di dissociazione quasi lineare, quest’ultima diffonde facilmente fuori dal sangue e esiste un’enorme riserva di eliminazione di CO2 attraverso il polmone. Quindi, la PaCO2 dipende principalmente dall’entità della ventilazione. La ventilazione/minuto è una misura della quantità totale di gas spostato dentro e fuori dal polmone per ogni minuto ed è una funzione della frequenza respiratoria e del volume tidalico. L’iperventilazione in quanto tale si può avere in caso di paura, dolore o affezioni del parenchima polmonare, esitando in un abbassamento della PaCO2. L’ipoventilazione porta ad un incremento della PaCO2 e si os-


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serva comunemente nei disordini che colpiscono la capacità meccanica di spostare l’aria nei polmoni.

IPOSSIEMIA La diminuzione di PaO2 è dovuta ad una delle seguenti cause: • Calo dell’ossigeno nell’aria inspirata (ad es., riduzione della pressione barometrica ad altitudini elevate). • Ipoventilazione, che riduce il movimento dell’aria nei polmoni, portando ad una minore disponibilità di ossigeno per il trasferimento dei gas (vedi oltre). • Mescolanza venosa; derivante da shunt, disaccoppiamento di ventilazione/perfusione o compromissioni della diffusione. La mescolanza venosa è la causa più comune di calo della PaO2. Ricordate: il valore di PaO2 rappresenta la gravità del processo patologico polmonare piuttosto che avere un valore diagnostico per uno specifico processo patologico.

Mescolanza venosa L’esistenza di uno shunt implica che il sangue aggiri completamente gli alveoli funzionalmente attivi. Ciò può avvenire sia a causa di shunt venoarteriosi che immettono il sangue venoso direttamente nella circolazione arteriosa (ad es., dotto arterioso pervio inverso, anastomosi bronchiali), sia per effetto della vascolarizzazione di aree polmonari completamente non funzionanti, come quelle gravemente atelettasiche o occupate da masse neoplastiche. In entrambi i casi, il sangue venoso ritorna alla circolazione sistemica e si mescola con quello arterioso, determinando un calo complessivo di PaO2. Se si verifica uno shunt, non vi è assolutamente alcuna possibilità di ossigenazione del sangue venoso, indipendentemente da quanto venga aumentata la concentrazione dell’ossigeno inspirato. La seconda causa di mescolanza venosa è il disaccoppiamento fra ventilazione/perfusione. Negli animali normali, la ventilazione (apporto di aria agli alveoli) e la perfusione degli alveoli da parte del sangue sono accoppiati abbastanza strettamente, in modo da ottenere il massimo trasferimento di gas. Processi patologici come le affezioni delle vie aeree o degli alveoli possono modificare le modalità della ventilazione. Analogamente, disordini vascolari come le patologie tromboemboliche possono mutare il quadro della perfusione. Ne deriva un significativo disaccoppiamento fra ventilazione e perfusione, che causa ipossiemia. In questi casi, assicurare un aumento della concentrazione dell’ossigeno inspirato può portare ad un incremento dei valori di PaO2. La diffusione dell’ossigeno attraverso la membrana alveolocapillare può essere compromessa da qualsiasi processo che porti ad un ispessimento della stessa. Dal momento che diffusione dell’ossigeno possiede un’enorme riserva, è raro che questa sia il fattore limitante per il trasferimento dell’ossigeno, fatta eccezione per i processi patologici molto gravi. Dal momento che la CO2 è circa 20 volte più solubile dell’O2, la diffusione non limita quasi mai il trasferimento della CO2 nei polmoni.

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IPERCAPNIA L’ipoventilazione porta ad un incremento di PaCO2 e si osserva comunemente nei disordini che colpiscono la capacità meccanica di spostare l’aria nei polmoni. L’aumento della PaCO2 nell’ipoventilazione è accompagnato da un calo della PaO2. In un paziente in ipoventilazione, la somministrazione di ossigeno aumenta la PaO2, ma non determina alcun cambiamento dei valori di PaCO2 perché non modifica il volume totale di aria spostata dentro e fuori dai polmoni per minuto. Gli esempi delle più comuni cause di ipercapnia sono: • malattie neurologiche o anestesia che influiscono sulla spinta respiratoria midollare centrale • disfunzioni del midollo spinale localizzate cranialmente a C4-C5 • disfunzioni del nervo frenico • lesioni della parete toracica • disfunzioni della muscolatura respiratoria • ostruzione delle vie aeree. Se la PaCO2 è elevata, l’animale va incontro a dispnea. Dall’ipercapnia può derivare una profonda acidosi respiratoria, che può essere potenzialmente letale perché determina diminuzione della gittata cardiaca, ipotensione e depressione neurologica da narcosi da biossido di carbonio. Quindi, se si riscontra un’ipoventilazione nei pazienti, il clinico deve prendere in considerazione il ricorso a misure che migliorino lo status della ventilazione trattando la causa dell’ipoventilazione. Se correggere la causa primaria risulta impossibile o richiede tempo, si deve valutare l’opportunità di impiegare la ventilazione a pressione positiva.

INDICI BASATI SULLA TENSIONE DI OSSIGENO Il valore misurato di PaO2 dipende dall’entità della ventilazione e dalla concentrazione dell’ossigeno inspirato, nonché dalla presenza della pneumopatia. È possibile effettuare numerosi calcoli che consentono di confrontare in modo significativo i valori anormali di PaO2 a differenti frequenze di ventilazione e mentre il paziente viene trattato con ossigeno.

Gradiente di ossigeno alveoloarterioso Il calcolo del gradiente di ossigeno alveoloarterioso (P(A-a)O2) fornisce una stima dell’efficacia del trasferimento dei gas, mentre si elimina il contributo variabile dell’entità della ventilazione. Man mano che la disfunzione polmonare peggiora, il gradiente di ossigeno fra gli alveoli e le arterie aumenta. Per calcolare la PaO2 è necessario prima stimare la pressione parziale di ossigeno negli alveoli (PAO2) utilizzando l’equazione dei gas alveolari: PAO2 = FiO2 (Pb-PH20) – PaCO2/RQ dove FiO2 è la concentrazione della frazione di ossigeno inspirato, Pb è la pressione barometrica, PH2O è la pressione del vapore acqueo saturo a temperatura corporea ed RQ è il quoziente respiratorio. A livello del mare, in aria ambien-


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tale e assumendo che RQ per il cane sia pari a circa 0,9 nei soggetti alimentati con le diete tipiche, l’equazione dei gas alveolari può essere semplificata come: PAO2 = 150 – (PaCO2) 1,1 Questa equazione fornisce un’utilissima stima clinica della PO2 alveolare. Il valore misurato della PO2 arteriosa viene sottratto da quello della PaO2 per dare il gradiente alveoloarterioso: P(A-a)O2 = PAO2 – PaO2 L’intervallo di riferimento per P(A-a)O2 è inferiore a 15 mm Hg. Gradienti aumentati si osservano nei pazienti con affezioni del parenchima polmonare, mentre ci si aspetta un gradiente normale nei soggetti con ipoventilazione pura e nessuna pneumopatia parenchimatosa. Il calcolo di

P(A-a)O2 consente di confrontare clinicamente una serie di emogasanalisi in pazienti con status di ventilazione variabile.

Rapporto PaO2 : FiO2 Un secondo indice basato sulla tensione di ossigeno e utile in ambito clinico è il rapporto fra PaO2 : FiO2. In molti casi il prelievo di gas arteriosi viene effettuato in pazienti in condizioni critiche trattati con somministrazione di ossigeno. In questi animali, l’eliminazione dell’apporto di ossigeno per ottenere campioni arteriosi basati sulla respirazione di aria ambientale può essere pericoloso o inaccettabile dal punto di vista umanitario. Il calcolo dei rapporti PaO2 : FiO2 permette di confrontare serie di campioni prelevati a varie concentrazioni di ossigeno inspirato. Negli animali normali, il valore di PaO2 : FiO2 è solitamente > 400. Valori inferiori a 200 implicano gravi patologie polmonari.


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Anestesia nel paziente anziano Adriano Lachin Med Vet, Venezia

Il timore di eseguire un’anestesia in un paziente anziano, è tanto radicata quanto diffusa non solo tra i proprietari dei nostri pazienti ma anche tra classe medica veterinaria, ed è una paura in gran parte ingiustificata per lo meno limitatamente ai soggetti geriatrici sani, senza patologie in atto.

FUNZIONALITÀ EPATICA Non sembrano esservi, nel cane anziano sano, modificazioni significative delle funzioni enzimatiche epatocellulari. Quello che è invece possibile riscontrare è una riduzione del volume epatico con conseguente perdita di tessuto funzionale (anche se nel cane anziano si può riscontrare epatomegalia come conseguenza di un sovraccarico lipidico). Anche il flusso sanguigno può diminuire, sia come conseguenza della riduzione del tessuto epatico che del flusso cardiaco. Si può riscontrare, inoltre, una diminuzione della sintesi proteica con possibile ipoalbuminemia. Le possibili conseguenze di queste modificazioni sono le seguenti: • Diminuzione della clearance dei farmaci a metabolismo epatico flusso-dipendente con aumento della loro durata d’azione • Aumentata biodisponibilità dei farmaci anestetici che si legano alle proteine circolanti (probabilmente vero solo per elevate concentrazioni di principio attivo).

FUNZIONALITÀ RENALE Anche in questo caso la maggior parte degli effetti dell’invecchiamento sul rene è dovuto a processi di atrofia tissutale. Le possibili modificazioni renali che più frequentemente sono legate alla senescenza sono le seguenti: • Processi d’atrofia tissutale con scomparsa d’unità funzionali, il peso dei reni può subire una diminuzione del 20 -30%. • Compromissione della vascolarizzazione, con conseguente calo della perfusione renale • Minore sensibilità all’ormone antidiuretico • Riduzione della filtrazione glomerulare e della capacità di concentrazione dell’urina Tutto ciò può comportare: • Maggiore rischio di fenomeni ischemici renali. • Minore capacità di fronteggiare squilibri elettrolitici ed eccessi fluidoterapici. • Prolungamento dell’emivita di eliminazione di farmaci e metaboliti a stretta eliminazione renale con aumento della loro durata d’azione

• Grazie alla possibile attività vicariante del fegato (nel cane l’eliminazione biliare dei farmaci coinvolge molecole di PM superiore a 325 mentre nell’uomo a partire da un PM di 500) per i farmaci ad eliminazione epato-renale, la via biliare può supplire in caso di insufficienza renale • Il paziente anziano sano, non sembra richiedere quindi particolari protocolli di fluidoterapia, ma piuttosto un calcolo preciso ed un monitoraggio dell’equilibrio idroelettrolitico.

FUNZIONALITÀ CARDIOVASCOLARE In assenza di patologia manifesta, le modificazioni anatomiche osservate nel cuore del paziente geriatrico sono soprattutto imputabili ad ipertrofia delle pareti ventricolari, fibrosi miocardica e talvolta a fenomeni di degenerazione valvolare mixomatosa. In pratica tutti questi cambiamenti implicano una variazione della funzione ventricolare ed una maggiore sensibilità del cuore alle modificazioni sia di precarico (volemia), che di postcarico (resistenze periferiche). Un altro importante effetto funzionale dell’invecchiamento sul cuore sembra essere senz’altro una riduzione della gittata cardiaca massimale, tuttavia studi più recenti suggeriscono che la diminuzione dell’indice cardiaco a riposo nei soggetti anziani sani, rappresenterebbe un adeguamento dell’attività cardiaca alle diminuite necessità metaboliche e di perfusione che conseguono alla diminuzione della massa scheletrica, tissutale e parenchimatosa legata alla senescenza Nel complesso possiamo sostenere che la funzione cardiovascolare nel soggetto anziano sano, si modifica meno di quanto ci si aspetterebbe dalle alterazioni strutturali dovute all’invecchiamento.

FUNZIONALITÀ POLMONARE E RESPIRATORIA La componente strutturale maggiormente influenzata dall’età in questo sistema è l’elasticità polmonare: con l’invecchiamento si assiste sia ad una riduzione del contenuto polmonare di elastina che un aumento del tessuto connettivo fibroso, fenomeno quest’ultimo che può estendersi anche alla componente vascolare alveolare. Fenomeni di calcificazione e fibrosi si osservano inoltre anche a carico delle cartilagini bronchiali e costali con conseguente irrigidimento della gabbia toracica. L’atrofia dei muscoli scheletrici dovuta all’invecchiamento coinvolge ovviamente anche la muscolatura del compartimento


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toracico con conseguente diminuzione d’efficienza dei mm. intercostali ed accessori della respirazione. In virtù di queste possibili modificazioni strutturali si possono verificare le seguenti alterazioni funzionali: • Diminuzione della compliance toracica. • Diminuzione dell’efficacia del “mantice respiratorio” • Progressivo disaccoppiamento del corretto rapporto ventilazione/perfusione. • Aumento progressivo dello spazio morto anatomico ed alveolare. • Possibile aggravamento degli effetti emodinamici negativi che caratterizzano la ventilazione a pressione positiva

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FUNZIONALITÀ DEL SNA E NEUROVEGETATIVO Il SNA del paziente anziano mostra una progressiva diminuzione di efficienza ed un meccanismo di autoregolazione più scadente rispetto al giovane adulto. • Maggiore predisposizione all’ipotermia intraoperatoria e postoperatoria. • Minore capacità a compensare eventuali eventi ipotensivi.

CONDOTTA ANESTESIOLOGICA La riuscita di un’anestesia e l’assenza di complicanze dipendono da: • Un “protocollo” anestesiologico compatibile con lo status clinico del paziente e del tipo di chirurgia. • Un’attenta valutazione delle condizioni fisiche del paziente ed una accurata analisi delle eventuali patologie coesistenti correlate all’età. • Un monitoraggio costante, accurato ed il più completo possibile. • Attenzione per i particolari. – Considerare il paziente anziano, anche se apparentemente sano, come un paziente a rischio e potenzialmente affetto da una patologia renale sub-clinica – Preferire, quando possibile, farmaci e tecniche anestesiologiche che abbiamo il minor impatto possibile sia sul app. cardiovascolare che sul SNA e che siano facilmente reversibili o di rapida eliminazione – La somministrazione di farmaci in dose ridotta, lentamente e fino ad ottenimento dell’effetto desiderato, a prescindere della dose preconizzata, è di norma sufficiente a ridurre in maniera significativa il rischio anestesiologico nell’anziano sano – Tenere conto di una eventuale ipoalbuminemia nel calcolo dei dosaggi degli anestetici che si legano alle proteine – In pazienti con patologie in atto, prestare attenzione ad eventuali interazioni con farmaci in assunzione terapeutica. – Valutare con attenzione l’uso di ATROPINA • La tachicardia indotta aumenta il consumo e la domanda d’ossigeno del miocardio. • Può far aumentare in maniera controproducente la viscosità delle secrezioni dell’apparato respiratorio (già ridotte nel soggetto anziano). • Può far aumentare le probabilità di rigurgito gastro-esofageo, diminuendo il tono dello sfintere. • Aumento dello spazio morto anatomico – Non c’è una controindicazione assoluta all’uso di ACETILPROMAZINA

• A dosaggi minimi (10-20 µg/kg. i.m. 20 min. prima dell’induzione) può rappresentare nell’animale anziano sano un ottimo mezzo di sedazione, ed in alcuni soggetti una scelta irrinunciabile In alcuni pazienti selezionati, può essere vantaggioso l’utilizzo in premedicazione di MEDETOMIDINA a bassissimi dosaggi L’utilizzo di OPPIOIDI sia in premedicazione che nell’intraoperatorio è senz’altro auspicabile • Rappresentano una scelta irrinunciabile per poter garantire un’adeguata analgesia intra e post-operatoria. • Hanno un effetto sedativo sinergico con i tranquillanti. • Permettono di ridurre le dosi d’induzione e mantenimento degli anestetici, diminuendone gli effetti depressori sull’apparato cardiovascolare. • Ai dosaggi normalmente utilizzati raramente creano problemi di depressione respiratoria nel postoperatorio Per l’induzione il PROPOFOL è da preferire ai TIOBARBITURICI per la minor durata d’azione e l’assenza di effetti cumulativi e di metaboliti La fluidoterapia intraoperatoria e postoperatoria deve essere particolarmente accurata e mirata nel paziente anziano e deve tenere conto degli eventuali squilibri elettrolitici. Il paziente anziano necessita, ancor più del giovane adulto, di un monitoraggio completo, accurato, ma soprattutto continuo del comparto emodinamico e respiratorio, sia durante l’intervento chirurgico che eventualmente nel post-operatorio Durante l’intervento chirurgico e nel post-operatorio occorre adottare tutte le precauzioni possibili per cercare di mantenere costante la temperatura corporea. Proteggere adeguatamente la posizione del paziente sul tavolo operatorio per evitare lesioni iatrogene sull’apparato muscolo-scheletrico correlate all’età e alla predisposizione di razza.

CONCLUSIONI L’invecchiamento determina una progressiva atrofia, fibrosi e perdita di elasticità, praticamente in tutti gli organi e tessuti. È innegabile che i soggetti anziani rappresentino, se confrontati con la controparte più giovane, una categoria di pazienti a maggior rischio di mortalità e morbilità intra e postoperatoria, ciò soprattutto a causa di un’elevata incidenza di patologie legate all’invecchiamento. Ma, se non sopraggiungono malattie, i vari organi ed apparati riescono, pur afflitti da riserve funzionali e capacità massimali a volte ridotte, a soddisfare le richieste di base ed anche quelle di entità moderata. Non si può ragionevolmente affermare che esista, per l’anziano, una tecnica anestesiologica od un farmaco d’elezione, la scelta è strettamente ed inderogabilmente correlata ad eventuali stati patologici in atto; possiamo quindi affrontare con la dovuta serenità le anestesie sui nostri pazienti geriatrici avendo cura di eseguire un accurato screening preoperatorio che porti ad una precisa diagnosi e terapia delle eventuali patologie concomitanti ed osservando una meticolosa attenzione ai dettagli sia durante la preparazione che durante la conduzione dell’intervento.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Adriano Lachin, adriano_lachin@virgilio.it


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Il caso più strano che abbia mai visto Federico Leone Med Vet, Senigallia (AN)

Anamnesi: Gatto europeo maschio castrato 11 anni. Re-

Procedure diagnostiche:

golarmente vaccinato, alimentazione industriale, nessuna patologia pregressa. Vive in casa, con possibilità di uscire durante il giorno, insieme ad altri due gatti che non presentano problemi dermatologici. Zoppia arto posteriore destro insorta da circa due settimane trattata con antibioticoterapia (amossicillina-ac.clavulanico 20 mg/kg/bid) senza nessun miglioramento clinico.

Esame clinico: Esame obiettivo generale nella norma. Tumefazione terzo dito arto posteriore destro con dolorabilità alla palpazione. In corrispondenza della tumefazione la cute si presenta alopecica.

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Definizione dei problemi dermatologici:

Trattamento proposto:

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Lista di diagnosi differenziali:

Evoluzione clinica:

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Indirizzo per la corrispondenza: Federico Leone Clinica Veterinaria Adriatica, SS Adriatica Nord 50/1-2, 60019 Senigallia (AN), Telefax: 071.66.10.072 - E-mail: mrfeleo@libero.it


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Formule magistrali in agopuntura veterinaria Francesco Longo Med Vet, Firenze

Scopo del Lavoro: In anni recenti la conoscenza della Medicina Veterinaria Tradizionale Cinese (MVTC) si è molto ampliata grazie a studi sperimentali molto complessi che hanno visto l’impiego di strumentazioni ad alta tecnologia basata sulle teorie della fisica quantistica. Ne è derivata una nuova interpretazione ‘bio – fisica’ della medicina ed una conoscenza globale dell’attività energetica degli agopunti nei confronti di organi e tessuti.1 Un aspetto sorprendente è che le conclusioni a cui sono ‘scientificamente’ pervenuti questi studi erano già note ai medici cinesi del passato. Attraverso le loro evidenze cliniche, è stato possibile individuare quegli agopunti principali che risultano essere particolarmente efficaci nel trattare specifiche condizioni.2 Metodi impiegati e Risultati: Nella clinica pratica in Agopuntura Veterinaria, si è fatto spesso ricorso proprio agli agopunti segnalati nei testi classici cinesi in riferimento al loro impiego specifico ed alla loro combinazione nelle diverse patologie, valutandone la reale efficacia. I successi terapeutici ottenuti sono la base di discussione di questo lavoro. L’ideogramma “xue”, comunemente inteso come ‘agopunto’, racchiude in sé diversi significati reconditi, tra cui quelli di: caverna, grotta, abitazione trogloditica, abitazione scavata nel terreno, apertura. Gli agopunti sono quindi finestre aperte sull’energia, stazioni di comando e di regolazione energetica.3 La chiave del trattamento agopunturale risiede nello stimolare in modo appropriato quei punti che permettono allo Yin ed allo Yang del corpo di ritrovare il loro equilibrio.4 Nel suo “Xi Hong Fu” il maestro Xi Hong della dinastia Ming (XVI sec.) avverte: “Esaminate accuratamente i punti prima di applicare gli aghi”. “Ode dei dodici celesti punti – stella”. Si tratta di un’opera redatta da Ma Dan – yang: (1123 – 1183) in cui vengono considerati dodici agopunti la cui attività energetica è così intensa da essere paragonati a delle ‘stelle’ nel firmamento dei punti. LU 7 (Lieque).5 LI 11 (Quchi). ST 44 (Neiting). HT 5 (Tongli). BL 40 (Weizhong). BL 57 (Chengshan). BL 60 (Kunlun). LR 3 (Taichong).6 GB 30 (Huantiao). GB 34 (Yanglingquan).7 LI 4 (Hegu).8 ST 36 (Zusanli).8

“Zhen Jiu Da Quan”. (“Grande Trattato di Agopuntura e Moxibustione”). Si tratta di un’opera redatta da Xu Feng (1439 ca.) in cui vengono considerati quattro punti generali che riconfermano il valore degli stessi: LU 7 (Lieque). BL 40 (Weizhong). LI 4 (Hegu). ST 36 (Zusanli). In epoca Ming furono aggiunti sempre quali punti generali: PC 6 (Neiguan).9 GV 26 (Renzhong). Sempre nella stessa opera vengono considerate alcune combinazioni particolari la cui efficacia è notevolissima: ST 36 + ST 44 LI 11 + LI 4 BL 40 + BL 60 GB 34 + GB 30 SI 3 + LU 7 di questi dobbiamo considerare: SI 3 (Houxi). 10 “Qian Jin Yao Fang”. (“Prescrizioni Importanti che valgono Mille Pezzi d’Oro”). Si tratta dell’opera di Sun Si Miao (682 d.C.) che allarga la categoria dei punti di grande efficacia anche ai seguenti: ST 42 (Chongyang). ST 40 (Fenglong). Huangdi Neijing Ling Shu. Il grande classico si occupa degli agopunti ad azione incisiva in due capitoli: - Capitolo 19: CV 6 (Qihai). ST 37 (Shangjuxu). ST 36 (Zusanli) - Capitolo 24: BL 64 (Jinggu). BL 60 (Kunlun). Huangdi Neijing So Wen. Anche nella prima sezione del grande classico si trovano indicazioni preziose sui punti più efficaci da impiegare nella clinica pratica. - Capitolo 60: In caso di dolore lombare che impedisce il movimento e la torsione pungere le Otto Fessure dell’Osso (‘Liao’: Foro); i primi tre sono in relazione con il meridiano della Vescicola Biliare (GB): BL 31 (Shangliao) BL 32 (Ciliao) BL 33 (Zhongliao) BL 34 (Xialiao).


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“Zhen Jiu Ju Ying”. (“Il Fiore dell’Agopuntura e della Moxibustione”). L’autore dell’opera, Gao Wu (1529), mette l’accento su altri importanti punti: BL 67 (Zhiyin)11 GV 16 (Fengfu) HT 8 (Shaofu) LR 8 (Ququan).

Jing tratta la dispnea, tosse, l’alternanza di brividi di freddo e febbre dovute a perturbazioni del Polmone (Sblocca il LU e tratta le sindromi superficiali; arresta la tosse ed abbassa l’energia) Ho tratta i flussi energetici controcorrente, le fughe di energia dovuti a perturbazioni del Rene (Ricostituisce il KI e nutre lo Yin).

“Zhou Hou Ge” (“Canto delle prescrizioni dei casi d’urgenza”). In quest’opera si afferma: “In caso di trauma, ferite esterne, tetano pungere innanzitutto le zone dolorose” (lo stesso concetto era già presente in Ling Shu, al capitolo 13: “Impiegare le zone dolorose come punti di agopuntura”).

Huangdi Neijing Ling Shu. Già in esso si considera la corrispondenza delle Cinque Trasformazioni con i Cinque Punti Shu antichi: Gli Zang corrispondono all’Inverno: pungere Ting in questa stagione (Patologie degli Organi) I Colori corrispondono alla Primavera: pungere Yong in questa stagione (Patologie che concernono le tinte) Le Stagioni corrispondono all’Estate: pungere Yu in questa stagione (Patologie ora benigne, ora gravi) I Suoni corrispondono alla fine Estate: pungere Jing in questa stagione (Patologie attinenti alla fonazione) I Sapori corrispondono all’Autunno: pungere Ho in questa stagione (Patologie a livello gastrico dovute ad alimentazione inadeguata, con i canali pieni ed ingorgati di sangue).14

“Yu Long Ge” (“Canto del Dragone di Giada”). Si tratta del testo di Yang (epoca Song, X – XI sec. d.C.) che considera i seguenti agopunti: GV 24 (Shenting) GV 16 (Fengfu) ST 40 (Fenglong). In caso di dolori che attanagliano l’intero corpo, esaminare rigorosamente i punti che non sono agopunti; pungere superficialmente a livello di tendini ed ossa; dosare bene la quantità di Artemisia quando si applica la moxibustione. In caso di dolori dovuti a lesioni traumatiche, occasionalmente si riscontrano a livello degli agopunti; questi ultimi sono piuttosto difficili da trattare. “Yi Xue Gang Mu” (“Compendio di Medicina”). Lou Ying (1565) afferma: “In caso di dolori, pungere lì dove essi stessi si localizzano se non è possibile sel.ezionare altri agopunti, tuttavia è bene evitare tendini ed ossa; queste aree dolorose sono denominati Tian Ying Dian, punti naturalmente reattivi alla palpazione”.12 “Nan Jing” (“Classico delle Difficoltà”). Bian Que (II sec. d.C.), alla ‘Difficoltà 68’, parlando dei punti Wu Shu ne indica l’azione clinica: Ting tratta la pienezza a livello epigastrico Yong tratta la febbre Yu tratta la pesantezza del corpo ed i dolori articolari Jing tratta la dispnea, tosse, l’alternanza di brividi di freddo e febbre Ho tratta i flussi energetici controcorrente e le fughe di energia “Zhen Jiu Ji Cheng” (“Raccolta dei Successi in Agopuntura e Moxibustione”). Nell’opera di Liao Run Hong (XIX sec. d.C.) è nuovamente sottolineato l’impiego dei Wu Shu: Ting tratta la pienezza al di sotto del cuore che è dovuta a perturbazioni del Fegato (Sblocca il LR ed arresta il vento; regolarizza l’energia ed elimina la stagnazione)13 Yong tratta la febbre che è dovuta a perturbazioni del Cuore (Rinfresca il HT e calma lo Shen; disperde il calore e rinfresca il sangue) Yu tratta la pesantezza del corpo ed i dolori articolari dovuti a perturbazioni della Milza (Rinforza la SP ed armonizza lo ST; elimina l’acqua e l’umidità)

Il Su Wen al capitolo 5 definisce la figura dell’eccelso agopuntore: “Così, chi eccelle con gli aghi dallo Yin trae lo Yang e dallo Yang trae lo Yin; con la destra tratta la sinistra e con la sinistra tratta la destra”.15

Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

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Indirizzo per la corrispondenza: Francesco Longo Tel.: 347/1861679 - e-mail: longo.agovet@katamail.com


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Principali utilizzi dell’endoscopia in medicina interna veterinaria Ugo Lotti Med Vet, Monsummano Terme (PT)

L’endoscopia è una delle procedure diagnostiche più importanti da utilizzare nella medicina interna dei piccoli animali, fornisce inoltre, al clinico, un metodo poco invasivo per esaminare, con un rischio molto basso, il tratto gastroenterico, le vie respiratorie superiori ed inferiori, le vie genitali e con procedure chirurgiche, sempre mini-invasive, anche il torace e l’addome. Per motivi di tempo, in questa mia trattazione parlerò principalmente di apparato respiratorio e tratto gastroenterico. La presentazione orale, sarà basata principalmente su casi clinici, lasciando la parte teorica ai presenti atti ed ai trattati specifici, il cui nome è disponibile su richiesta.

Strumentazione L’endoscopia moderna si avvale di almeno tre componenti: 1) l’endoscopio rigido o flessibile, 2) la fonte di luce, 3) la telecamera che, permettendo una visione su di un monitor, consente l’utilizzo di uno o più assistenti, spesso indispensabili specialmente nelle procedure toracoscopiche o laparoscopiche. A questa strumentazione di base, si possono aggiungere numerosi accessori come pinze di varie forme e misure, spazzolini da citologia, elettrobisturi, insufflatore a CO2 per laparoscopia, aspiratore, vari strumenti per la cattura e la duplicazione delle immagini acquisite ecc. Gli endoscopi flessibili sono di due tipi i fibroscopi classici, a cui viene aggiunta una telecamera e i videoendoscopi dove la telecamera è localizzata nella parte terminale dello strumento. Il videoendoscopio trova il suo limite nel costo molto elevato, anche se la qualità delle immagini ottenute è nettamente superiore, per questa ragione la maggioranza dei veterinari utilizza i fibroscopi classici. Il diametro esterno di un fibroscopio è il limite principale per l’utilizzo nell’ampia variabilità di dimensione dei nostri animali, altro punto critico, anche se meno importante, è la lunghezza, infatti per potere eseguire una corretta gastroduodenoscopia, procedura utile sia nella diagnosi delle malattie gastriche che in quella delle malattie del piccolo intestino, si deve oltrepassare il piloro e questo è possibile, in un cane di oltre 30 Kg, solo se la lunghezza dello strumento è di almeno 120-130 cm. Acquistando un fibroscopio pediatrico di 6-7 mm di diametro e 110120 cm di lunghezza, si possono eseguire broncoscopie fino a pazienti di 6-7 Kg di peso, e gastroduodenoscopie in quasi tutte le taglie di cane e anche nei gatti. Se desideriamo avere una maggiore sicurezza di utilizzo, allora sarebbe necessario un secondo strumento più piccolo, possibilmente di 3-4mm di spessore con il quale potremmo fare anche le ri-

noscopie e le broncoscopie nel gatto. Gli endoscopi rigidi prevedono una tecnologia di costruzione molto più semplice quindi hanno un costo inferiore e sono molto più resistenti e durevoli nel tempo, altro vantaggio è che, non avendo nel loro interno meccanismi di movimento, hanno dimensioni più ridotte. Il diametro esterno di un endoscopio rigido può variare da 1 a 10 mm, anche se quelli più usati sono di 2,5-3 mm; altro fattore da valutare è l’angolo di visione, che dipende sia dall’angolazione della punta dello strumento, infatti una punta angolata a 0° permette un più facile orientamento nella zona esaminata ma ha un angolo inferiore, invece se la punta è inclinata a 30° già di per se amplia il campo di vista, che dalla tecnologia costruttiva per cui gli endoscopi delle ultime generazioni permetto un campo di vista più ampio. Ci sono tre tipi di fonte di luce disponibili per gli endoscopi; allo Xenon, alogena al tungsteno e all’alogenuro di metallo. Attualmente la fonte di luce migliore è quella allo xenon, ma è anche la più costosa, però offre un tipo di luce molto simile alla luce solare, quindi produce delle immagini più reali e nitide. Le altre due producono comunque una buona illuminazione e, soprattutto la luce alogena, hanno un costo notevolmente inferiore. A parte i videoendoscopi, per potere vedere una corretta immagine ed usufruire di uno o più assistenti, è necessaria una telecamera da endoscopia, che va adattata all’endoscopio e permette di essere utilizzata per più tipi di strumenti, la focale può essere fissa e quindi si dovrà cambiare l’adattatore a seconda della grandezza di immagine che voglio avere, oppure variabile da usare, quindi, come uno zoom. Le procedure endoscopiche più usate nella medicina interna dei piccoli animali sono: l’esofagoscopia, la gastroduodenoscopia, la rettocoloscopia, la broncoscopia e la rinoscopia; meno usate ma non per questo non importanti sono la uroendoscopia, la laparoscopia, la toracoscopia, la otoscopia e l’endoscopia del tratto riproduttivo. L’esofagoscopia e la gastroduodenoscopia, di solito, vengono eseguite nella medesima procedura, si possono eseguire con un gastroscopio anche di 9-10 mm di diametro e di almeno 1,10 – 1,30 mt di lunghezza, in quasi tutte le razze di cani ed anche nei gatti. Il paziente viene preparato con un digiuno di almeno 12-18 ore, quindi viene messo in anestesia generale cercando di non usare agenti preanestetici come atropina od oppioidi che potrebbero disturbare il tono dello sfintere pilorico, quindi si può indurre con tiobarbiturici o propofol, intubare e mantenere con alotano o isofluorano. Durante l’esecuzione dell’esame si dovrebbe tenere a mente l’anatomia endoscopica dello stomaco, per raggiungere lo sfintere pilorico ed esaminare accuratamente tutta la superfi-


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ce dell’organo. L’intubazione del piloro può essere una procedura non semplice ma è indispensabile eseguirla tutte le volte che facciamo una gastroscopia, perché molte patologie che causano vomito hanno la loro origine nel piloro o nel duodeno. La retto-colo-ileoscopia è, anche questa, una procedura che si esegue in un’unica seduta anche se, per la sola rettoscopia, la strumentazione necessaria è molto più semplice ed economica potendo usare un rettoscopio rigido. Lo strumento adatto è lo stesso della gastroduodenoscopia ma, in questo caso, il punto chiave per l’esecuzione dell’esame è rappresentato dalla preparazione del paziente che deve essere molto accurata per evitare di vedere solo feci durante l’esame. Personalmente preparo il paziente con un digiuno di 26-48 ore almeno, quindi somministro per tre volte una soluzione di lavaggio denominata Isocolan 24 ore, 18 ore e 12 ore prima dell’esame, alla dose di 25-30 ml Kg. usando una sonda gastrica. La sera prima si somministra una lassativo, il Bisacodil, alla dose di 5 mg, e prima di iniziare l’esame, faccio eseguire dei clismi di acqua calda, sotto controllo endoscopico, alla dose di 500 ml per i cani piccoli e di anche 1 lt, 1,5 lt nei cani grossi, fino a che il colon non sia pulito. Come regola generale cerco di non infilare mai una sonda alla ceca nel retto di animali che abbiamo delle patologie in quella sede per non rischiare perforazioni, rese più probabili dal tenesmo spesso presente in un paziente sveglio, che ha una patologia localizzata al retto-colon. Punto cardine è che, sia eseguendo una esofago-gastro-duodenoscopia che una retto-colo-ileoscopia, anche in assenza di lesioni visibili, se non vengono eseguite varie biopsie delle aree esaminate, l’esame non è completo. L’esecuzione di una broncoscopia richiederebbe uno strumento dedicato, quindi di calibro inferiore ai precedenti ma, fino a cani delle dimensioni di 6-7 Kg, un fibroscopio di 6 mm è adeguato, quindi anche lo strumento usato nelle procedure suddette. La broncoscopia nel gatto richiede, invece, uno strumento di almeno 3-4 mm e non di più. Il paziente si posiziona in decubito sternale ed il tipo di anestesia può variare da un’anestesia gassosa che si può effettuare in pazienti di medie-grandi dimensioni pas-

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sando il broncoscopio attraverso il tracheotubo ed un’anestesia endovenosa, che permette di avere la trachea libera. Personalmente uso una preanestesia a base di oppioidi allo scopo di deprimere il riflesso della tosse ed un’anestesia endovenosa a base di propofol, somministrando forzatamente l’ossigeno attraverso una mascherina nasale oppure attraverso il canale dell’endoscopio. Anche in questo caso bisogna avere ben chiara l’anatomia endoscopica dell’albero bronchiale per localizzare dove stiamo entrando con lo strumento. Una corretta broncoscopia dovrebbe essere seguita da una citologia e da un BAL (lavaggio broncoalveolare) che andrebbe eseguito in assoluta sterilità per permettere un corretto esame colturale. La rinoscopia è una procedura diagnostica un po’ meno diffusa delle altre due, anche perché richiede, in genere, una strumentazione dedicata che in generale comprende un fibroscopio di 2,7 – 3 mm oppure, più frequentemente, un endoscopio rigido di 2-3 mm di diametro. Le procedure anestetiche si basano su una preanestesia a base di oppioidi, induzione con propofol e mantenimento con O2 ed isofluorano, con il paziente posizionato in decubito sternale. Personalmente preferisco zaffare il faringe con garze laparatomiche allo scopo di impedire che i liquidi di lavaggio passino in trachea. L’esecuzione dell’esame deve essere il più delicata possibile, ma a volte il sanguinamento è inevitabile per cui è necessario eseguire l’esame sotto lavaggio di soluzione salina sterile. Anche in questo caso l’esecuzione di una o più biopsie è spesso indispensabile, anche se può succedere che non siano diagnostiche a causa della mancata diffusione della patologia alla mucosa.

Bibliografia su richiesta

Indirizzo per la corrispondenza: Ugo Lotti Clinica Veterinaria “Valdinievole” - Monsummano T. (PT) clinicavaldinievole@dada.it


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Aggiornamenti nella terapia emotrasfusionale del cane George Lubas Med Vet, Dipl ECVIM, Pisa

Alessandra Gavazza, Med Vet, PhD, SMPA, Pisa

Introduzione La trasfusione ematica è una sorta di trapianto temporaneo di elementi cellulari che per essere efficace deve rispettare le differenze immunoematologiche presenti. È un trattamento sintomatico per molti disordini ematologici impiegato per sopperire alle richieste di ossigenazione tessutali, per ristabilire la volemia e per supplire alle deficienze coagulative. Questa pratica, previa raccolta di campioni ematici per le analisi di laboratorio pre-trasfusione, permette di stabilizzare temporaneamente un paziente in emergenza (ad es. in shock ipovolemico con grave ed acuta emorragia), consentendo di emettere una diagnosi precisa dell’affezione (ad es. grave coagulopatia). Nell’ambito della medicina trasfusionale veterinaria si utilizzano sia il sangue intero, prodotto piuttosto generico, sia gli emoderivati, che consentono invece un efficace uso delle diverse componenti ematiche.

(suggerita la versione rapida). La presenza di ‘anticorpi naturali’ nel cane è segnalata in maniera irregolare e a titolo ridotto. Le cagne che hanno partorito o i soggetti che hanno già ricevuto una trasfusione ematica potrebbero aver sviluppato anticorpi (immunizzazione) diretti contro antigeni eritrocitari e quindi essere a rischio di una reazione trasfusionale immunomediata grave. La donazione di sangue deve essere eseguita dalla vena giugulare (talora nei cani di peso superiore a 40 kg, dalla cefalica dell’arto anteriore) con rigorosa asepsi. I materiali trasfusionali sono quelli impiegati in medicina umana con sacche in PVC che permettono lo scambio gassoso (rilascio di CO2 ed incremento dell’O2) con gli RBC, attraverso la loro parete. Sono in commercio sacche singole, doppie (sacca madre con unità di trasferimento e conservazione del plasma) e triple (sacca madre con una unità di trasferimento e conservazione per gli eritrociti con additivo e una unità per il plasma).

Selezione dei donatori

Prodotti emotrasfusionali

Il cane donatore, preferibilmente di sesso maschile, deve avere i seguenti requisiti: peso superiore ai 25 kg, età tra i 2 e gli 8 anni, carattere docile, sano alla visita clinica, regolarmente vaccinato (ad es. Cimurro, Epatite Infettiva, Leptospirosi ect.), sotto profilassi per endo/ectoparassiti (ad es. Filariosi, zecche), gruppo sanguigno DEA 1.1 negativo, valori dell’emogramma, del profilo biochimico e della coagulazione nei limiti di riferimento, sierologia negativa per malattie infettive (ad es. Leishmania, Ehrlichia ecc.) ed assenza di anticorpi sierici naturali ad attività antiRBC (essenziale in caso di preparazione del plasma). I donatori possono essere organizzati in un sistema a ‘colonia chiusa’ (i soggetti sono tenuti isolati in un canile o sono di proprietà della struttura veterinaria) e a ‘colonia aperta’ (i cani generalmente sono di proprietà di singoli, che accedono volontariamente al programma di donazione). Ognuno di questi sistemi presenta vantaggi e svantaggi da tenere in debita considerazione. Le prove di compatibilità crociata devono essere sempre eseguite prima di ogni trasfusione. Saggiano la compatibilità tra donatore e ricevente e possono essere eseguite su vetrino o in provetta a 3 differenti temperature di incubazione

Sangue Intero – È il prodotto trasfusionale più semplice da ottenere in quanto non è necessaria nessuna procedura dopo il prelievo, se non la chiusura della sacca in condizioni di asepsi. Il Sangue intero fresco (FWB), è quello utilizzato entro 6-8 ore dal prelievo e contiene inalterati gli RBC, i WBC, le PLT e i fattori della coagulazione. Il Sangue intero conservato (SWB), è il prodotto trasfusionale composto da sangue conservato oltre le 6-8 ore dal prelievo dove la componente RBC è pressoché inalterata, mentre le PLT e i WBC sono inutilizzabili o con ridotta funzionalità, in dipendenza dei tempi di conservazione. In questo prodotto si assiste a un decadimento dei fattori della coagulazione e dopo 24-48 ore residuano esclusivamente i fattori stabili. Il sangue intero conservato in CPDA-1, mantenuto tra 1 e 6°C si utilizza fino a 30 giorni dopo il prelievo e va somministrato previo riscaldamento a temperatura non superiore a 37°C. Concentrato di eritrociti (PRBC) – È la parte cellulare residua dopo che dalla sacca madre è stato allontanato circa l’80% del plasma con un apposito estrattore. Si ottiene dalla sacca madre centrifugandola ad alta velocità (circa 3.000 G) per 20 minuti, a 4-8°C. Nel caso siano utilizzate


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sacche multiple (triple), al concentrato di eritrociti è aggiunta e miscelata una soluzione conservante e nutritiva che ne allunga ulteriormente la conservabilità fino al massimo di 5-6 settimane. Senza questa soluzione il PRBC può essere utilizzato fino a 4 settimane dal prelievo. Il PRBC va conservato refrigerato a 1-6°C con le stesse modalità del SWB. Al momento dell’impiego è suggerita l’aggiunta di una quantità di soluzione fisiologica pari al plasma estratto per risospendere gli RBC e per favorire il deflusso durante l’infusione nell’animale ricevente. La sacca deve essere somministrata al ricevente previo riscaldamento a 37°C. Di recente è disponibile anche un prodotto denominato “Crio-eritro-concentrato, Reblood®” (Cryo-RBC), un concentrato di RBC cui è stato aggiunto idrossietilamido per la stabilizzazione degli RBC nel congelamento. Il prodotto si conserva fino a 5 anni in congelatore a –20°C e per l’utilizzo va scongelato in bagnomaria a 37°C. Questo emoderivato ha caratteristiche colloido-osmotiche simili al sangue intero. Plasma Fresco Congelato (FFP) – È il sovranatante della centrifugazione del sangue intero (vedi PRBC), preparato entro 6 ore dal prelievo, congelato immediatamente a –70°C e quindi conservato a –20°C. Il FFP mantiene inalterati tutti i fattori della coagulazione, sia quelli labili (Fattore V e VIII) che quelli stabili (Fattori II, VII, IX, X, XI, XII, Fibrinogeno, Antitrombina) e tutte le proteine plasmatiche. Il limite di conservazione è di circa 1 anno, anche se nel tempo si verifica un progressivo decadimento dell’attività dei fattori labili della coagulazione. Per l’impiego nel ricevente deve essere scongelato in bagnomaria a 37°C. Dopo lo scongelamento deve essere usato nel più breve tempo possibile, comunque non oltre le 24 ore se conservato a 2-4°C e non può essere ricongelato. Plasma Congelato (FP) – È costituito dal plasma separato dopo 6 ore dal prelievo ovvero il FFP non impiegato entro 8 ore dallo scongelamento o conservato per più di un anno. Questa unità presenta ancora una residua attività dei fattori della coagulazione (ad es. Fattore IX), ma è impiegato principalmente come fonte di Albumina. Il FP può inoltre essere preparato da unità di SWB alla scadenza, ma in questo caso è solo fonte di Albumina. Il tempo di conservazione è di circa 5 anni.

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mia (superiore al 30%), emorragia o emolisi in atto, stato di shock in fase due, caratterizzato da scarsa risposta alla terapia convenzionale con fluidi e colloidi sintetici, mucose pallide, tempo riempimento capillare prolungato, tachicardia e polipnea. L’uso di FWB o di FFP permette di ristabilire la volemia e di compensare i disturbi coagulativi ereditari ed acquisiti della fase secondaria dell’emostasi (ad es. malattia di von Willebrand, emofilia A, DIC, avvelenamento da rodenticidi). L’FFP è un colloide naturale con caratteristiche superiori a quelli sintetici in commercio ed è la fonte dei fattori della coagulazione necessari alla funzione emostatica. I disturbi primari della coagulazione possono essere controllati esclusivamente con FWB. Il FP può essere utilizzato anche per gli avvelenamenti da antagonisti della vitamina K.

Conclusioni La medicina trasfusionale nel cane è ormai una scienza ben conosciuta, consolidata e di larga diffusione. L’unico limite è la pronta disponibilità di prodotti emotrasfusionali con caratteristiche adeguate. In Italia esistono alcuni centri trasfusionali organizzati sia all’interno di strutture veterinarie sia come entità a se stanti. Inoltre, di recente un’azienda si è inserita nella commercializzazione dei prodotti emotrasfusionali. I prodotti emotrasfusionali disponibili dai centri trasfusionali e dall’Azienda sono preparati con garanzie di GMP e GLP nel controllo di qualità, sia dal punto di vista immunoematologico, sia di potenziale trasmissibilità di malattie infettive e salvaguardano anche il benessere del donatore. È auspicabile che la pratica estemporanea della donazione di sangue e della trasfusione, anche se effettuata secondo ‘scienza e coscienza’, sia abbandonata a favore dell’utilizzo di prodotti controllati e di sicura efficacia.

Referenze bibliografiche 1. 2.

Utilizzo della trasfusione La principale applicazione della medicina trasfusionale avviene nei casi di anemia attraverso l’utilizzo di FWB, SWB, PRBC e Cryo-RBC al fine di migliorare il trasporto di ossigeno (DO2) nel ricevente. Alcuni studi hanno però stabilito che gli RBC conservati perdono progressivamente le caratteristiche di deformabilità, a causa delle ridotte capacità enzimatiche. Pertanto si riduce la capacità di transito nei capillari e di conseguenza il trasporto di O2 ai tessuti bisognosi. I criteri per stabilire quando effettuare una trasfusione, non sono semplicemente in ragione del valore Hct del ricevente, in genere stabilito al di sotto del 20-25% nelle anemie acute e del 15-20% nelle anemie croniche. Nelle anemie acute è suggerita la emotrasfusione quando vi è una rapida riduzione della vole-

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Indirizzo per la corrispondenza: George Lubas Dip. Clinica Veterinaria, Università di Pisa, V.le Piagge 2, Pisa, 050-2216794, fax 050-2216813 labgsvet@vet.unipi.it Alessandra Gavazza: agavazza@vet.unipi.it


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Anemia felina Andrew Mackin BSc, BVMS, MVS, DVSc FACVSc, DSAM, MRCVS, Dipl ACVIM, Mississippi, USA

La natura (la perdita ematica, emolitica o non rigenerativa), la durata e la gravità dell’anemia possono essere definite con pochi semplici test. L’anamnesi, i riscontri clinici ed i risultati di queste analisi permettono di stabilire se sia necessario o meno ricorrere ad altri test. 1. Ematocrito: Gatto: 24 – 45% È possibile ottenere una valutazione più completa dei parametri eritrocitari, quali emoglobina, conteggio degli eritrociti, volume corpuscolare medio (MCV), emoglobina corpuscolare media (MCH) e concentrazione emoglobinica corpuscolare media (MCHC) inviando un campione di sangue ad un laboratorio diagnostico dotato di un analizzatore da ematologia ad impedenza (Coulter). Recentemente, analizzatori di questo tipo sono diventati disponibili anche per l’impiego ambulatoriale in medicina veterinaria. In condizioni ideali, l’apparecchio andrebbe calibrato in modo differente per il cane ed il gatto, dal momento che nei felini gli eritrociti sono significativamente più piccoli. 2. Esame di strisci ematici colorati direttamente 3. Conteggio dei reticolociti Il conteggio dei reticolociti quantifica la risposta rigenerativa degli eritrociti. Conteggio corretto dei reticolociti: Normale: < 0,4% Risposta rigenerativa: Lieve 0,5-2% Moderata 3-4% Marcata > 5% Sulla base dei risultati dei test sopracitati, di solito è possibile distinguere l’anemia secondo una semplice classificazione che prevede tre forme:

1. Emorragica (i) Perdita ematica acuta La grave perdita ematica acuta causa uno shock ipovolemico piuttosto che un’anemia. La perdita proporzionale di tutte le principali componenti ematiche fa sì che inizialmente sia l’ematocrito che i livelli di proteine sieriche restino normali. L’espansione volumetrica durante il recupero dell’ipovolemia determina una progressiva diluizione sia dell’ematocrito che delle proteine. La contrazione splenica riflessa, tuttavia, inizialmente provoca un aumento del numero degli eritrociti, per cui la proteinemia tende a cadere prima dell’ematocrito. Il calo dei livelli sierici delle proteine si ha entro 1-4 ore dalla perdita ematica, mentre quello dell’ematocrito insorge dopo 24 ore. La perdita di più del 30% del volume ematico in un singolo episodio di emorragia può causare morte da shock ipovolemico. È quindi improbabile che i pazienti che sopravvivono abbiano perso più

del 30% degli eritrociti circolanti; non si ha neppure lo sviluppo di una grave anemia, a meno che il sanguinamento non continui ad una velocità minore. La rigenerazione degli eritrociti non risulta evidente per 3-4 giorni. La perdita ematica acuta può quindi simulare un’anemia non rigenerativa. La successiva risposta rigenerativa raggiunge il picco dopo 5-7 giorni, anche se l’ematocrito può richiedere sino a 2-3 settimane per tornare ai valori di partenza. I livelli di proteine si normalizzano più rapidamente (una settimana). La persistenza di anemia ed ipoproteinemia suggerisce un sanguinamento continuo. Caratteristiche diagnostiche L’anemia diventerà rigenerativa dopo 3-5 giorni, presentando anisocitosi, policromasia e, talvolta, eritrociti nucleati all’esame degli strisci colorati, con un aumento del conteggio corretto dei reticolociti. Per la prima settimana dopo l’episodio di sanguinamento si può anche rilevare un’ipoproteinemia. Ulteriori indagini Occorre valutare l’emostasi mediante test quali conteggio piastrinico, tempo di protrombina, tempo di tromboplastina parziale, tempo di coagulazione attivata e tempo di sanguinamento della mucosa boccale. È necessario valutare la potenziale presenza di emorragie gastroenteriche, urinarie ed intracavitarie mediante ricerca del sangue occulto nelle feci ed esame coprologico per flottazione per la diagnosi delle endoparassitosi, analisi dell’urina con strisce reattive ed esame del sedimento e radiografie del torace e dell’addome. (ii) Perdita ematica cronica I gatti rispondono all’anemia cronica in maniera prevedibile. La riduzione dell’ossigenazione dei reni secondaria all’anemia stimola il rilascio di eritropoietina, che a sua volta spinge il midollo osseo ad aumentare la produzione di eritrociti. I gatti con anemia cronica possono presentare una compensazione particolarmente buona e mostrare evidenti segni clinici soltanto quando la riduzione del numero degli eritrociti diviene di grado estremo (ematocrito inferiore al 15% o anche al 10%). I segni clinici dell’anemia nel gatto riflettono sia l’insufficiente ossigenazione dei tessuti da parte dell’emoglobina (pallore delle mucose, letargia, debolezza) che la risposta prevedibile del sistema nervoso simpatico all’ipossia tissutale (tachipnea, tachicardia e, frequentemente, polso saltellante). L’anemia da perdita ematica è tipicamente rigenerativa. L’emorragia esterna cronica, tuttavia, può col tempo causare una carenza di ferro e l’insorgenza di un’anemia non rigenerativa. Caratteristiche diagnostiche Inizialmente, l’anemia risulta di tipo rigenerativo, con anisocitosi, policromasia, reticolocitosi e, talvolta, eritrociti nucleati con possibile ipoproteinemia. Infine, l’anemia diviene scarsamente rigenerativa, microcitica ed ipocromica.


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Ulteriori indagini Nei gatti con anemia acuta è necessario valutare l’emostasi e la potenziale presenza di emorragie gastroenteriche, urinarie e cavitarie. Occorre determinare lo status del ferro mediante misurazione dei suoi livelli sierici, della capacità totale di legarlo e delle sue riserve a livello midollare. Una marcata diminuzione di queste ultime è indicativa di carenza di ferro nel cane, ma si può osservare spesso nei gatti normali.

2. Emolitiche L’emolisi distrugge soltanto gli eritrociti, per cui il volume ematico e le proteine sieriche restano normali; come la perdita ematica acuta, l’anemia emolitica acuta si presenta di tipo non rigenerativo fino a che non si instaura la risposta del midollo, dopo 3-5 giorni. L’emoglobina rilasciata dagli eritrociti viene metabolizzata dai tessuti in bilirubina non coniugata (che circola legata alle proteine) e viene quindi efficientemente captata dagli epatociti, coniugata ed escreta con la bile. Solo un’emolisi imponente è in grado di travolgere questo processo. Cause di emolisi: Anemia emolitica immunomediata (IMHA) Anemia emolitica indotta da zinco Anemia con corpi di Heinz (cipolle, acetaminofene) Emolisi microangiopatica (DIC) Difetti ereditari degli eritrociti Nel gatto, considerare in particolare: Anemia emolitica associata a FeLV Emobartonellosi (agente eziologico Mycoplasma hemofelis) Grave ipofosfatemia L’emolisi intravascolare determina il rilascio di emoglobina direttamente in circolo. Questa si lega all’aptoglobina plasmatica, che le impedisce di passare nell’urina. Un imponente rilascio di emoglobina in caso di grave emolisi intravascolare travolge il legame aptoglobinico, causando emoglobinemia ed emoglobinuria. Dal momento che l’emolisi extravascolare non determina il rilascio di emoglobina in circolo, non si hanno emoglobinemia ed emoglobinuria. L’ittero compare soltanto durante le crisi acute. L’emolisi nel gatto è di solito extravascolare e rappresenta una causa poco comune di emoglobinemia/uria. L’emolisi extravascolare è comunemente subacuta e se la funzione epatica è normale non causa ittero persistente. Caratteristiche diagnostiche dell’anemia emolitica L’anemia emolitica diviene fortemente rigenerativa dopo 3-5 giorni, quando si osservano anisocitosi, policromasia, reticolocitosi e, talvolta, eritrociti nucleati. A differenza dell’anemia da perdita ematica, le concentrazioni sieriche di proteine restano normali. Bilirubinemia e bilirubinuria indicano una grave anemia emolitica acuta (intra- o extravascolare), mentre l’emoglobinemia e l’emoglobinuria denotano un’emolisi intravascolare. Gli sferociti (piccoli eritrociti sferici) indicano specificamente che l’emolisi è di tipo immunomediato, ma sono difficili da identificare nel gatto. Ulteriori indagini I test specifici per la IMHA comprendono l’agglutinazione su vetrino ed il test di Coombs. Le cause non immu-

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nologiche di anemia emolitica possono essere ulteriormente studiate mediante esame radiografico dell’addome alla ricerca di metalli nel tratto gastroenterico. È anche necessario effettuare il FeLV-test e l’esame di una serie di strisci di sangue alla ricerca di Mycoplasma hemofelis.

3. Anemia non rigenerativa La vita media degli eritrociti circolanti nel gatto è di circa 2 mesi. Lo sviluppo dell’anemia non rigenerativa è quindi tipicamente graduale, man mano che il midollo danneggiato non riesce a rimpiazzare gli eritrociti persi. Esistono dei meccanismi compensatori ben stabiliti, che consentono ai pazienti di sopravvivere nonostante la grave anemia. Cause di anemia non rigenerativa Molti dei disordini sistemici che causano l’anemia non rigenerativa determinano soltanto lievi forme subcliniche, mentre i disordini midollari primari provocano tipicamente un’anemia moderata o grave. Disordini sistemici Anemia moderata o grave Carenza di ferro (perdita ematica cronica) Insufficienza renale cronica Iperestrogenismo (tumore delle gonadi) Anemia associata a FeLV Insufficienza midollare indotta da farmaci Anemia lieve (subclinica) Anemia da malattia cronica Avvelenamento da piombo Disordini midollari primari Aplasia eritrocitaria pura Anemia aplastica Mielottisi (infiltrazione midollare) Mielofibrosi Caratteristiche diagnostiche Le tipiche caratteristiche dell’anemia non rigenerativa sono rappresentate da anisocitosi o policromasia e da basso conteggio dei reticolociti. Gli eritrociti di solito non presentano alterazioni (anemia normocitica, normocromica). Anche i livelli sierici delle proteine sono di solito nella norma. I disordini midollari spesso causano concomitanti leucopenia e trombocitopenia. Ulteriori indagini Le malattie sistemiche che causano depressione secondaria della produzione di eritrociti possono di solito essere identificate sulla base di anamnesi, esame clinico e risultati degli esami ematologici e biochimici. Quella non rigenerativa lieve o moderata è, nella maggior parte dei casi, un’anemia da malattia cronica, associata a processi patologici quali infiammazioni croniche, infezioni e neoplasie. Nei gatti con anemia non rigenerativa sono indicati i test sierologici per la diagnosi delle infezioni da retrovirus (virus della leucemia felina e dell’immunodeficienza felina). Per stabilire una diagnosi nei gatti con anemia non rigenerativa da disordini midollari è essenziale l’analisi del midollo osseo.


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Alterazioni delle piastrine nel gatto Andrew Mackin BSc, BVMS, MVS, DVSc FACVSc, DSAM, MRCVS, Dipl ACVIM, Mississippi, USA

I disordini piastrinici che si possono verificare nel gatto sono rappresentati da trombocitopenia (diminuzione del numero delle piastrine), trombocitopatia (diminuzione della funzione delle piastrine) e trombocitosi (aumento del numero delle piastrine). Nel gatto, queste condizioni sono poco comuni. La più frequente è la trombocitopenia, che si riscontra nell’1% circa dei campioni di sangue felino inviati agli esami ematologici. Tuttavia, occorre tenere presente che, anche se la trombocitopenia significativa è poco comune nel gatto, capita spesso di riscontrare un valore artificiosamente basso (pseudotrombocitopenia), che costituisce una delle principali cause di confusione diagnostica.

VALUTAZIONE DEL NUMERO DELLE PIASTRINE In confronto ad altre specie animali, nei felini le piastrine tendono ad essere iperaggregabili. L’aggregazione in vitro di questi elementi può essere scatenata dalla puntura venosa e dalla loro manipolazione/stoccaggio. Dal momento che la formazione di aggregati è una causa comune di riscontro di un numero erroneamente basso di piastrine, la puntura venosa deve essere il meno traumatica possibile ed i campioni vanno esaminati subito dopo il prelievo. L’aggregazione piastrinica può essere influenzata da anticoagulanti, ed in particolare dall’EDTA. La pseudotrombocitopenia EDTA-dipendente nell’uomo è un fenomeno in cui si verifica la formazione di ammassi di piastrine in presenza di questo anticoagulante, portando a sottostimare il numero reale di trombociti da parte degli analizzatori da ematologia. La pseudotrombocitopenia EDTA-dipendente è stata ben documentata nel cavallo e sembra colpire anche il cane ed il gatto. Il citrato di sodio ha una minore probabilità di causare la formazione di ammassi e può essere l’anticoagulante d’elezione per il conteggio delle piastrine nel gatto. L’esposizione delle piastrine alla prostaglandina E1, un inibitore della loro funzione, si è dimostrata in grado di migliorare la precisione degli apparecchi contaglobuli per il conteggio delle piastrine feline riducendo la formazione di ammassi. Una recente indagine da noi condotta ha dimostrato che trattando le provette con EDTA con una piccola quantità di un antibiotico, la kanamicina, si eliminano i conteggi erronei delle piastrine nel gatto.

Metodi di stima del numero delle piastrine Secondo quanto pubblicato in letteratura, l’intervallo di riferimento normale per il conteggio delle piastrine nel gat-

to è compreso fra 300 e 800 x 109/piastrine/l, anche se i valori variano a seconda dei differenti laboratori e delle diverse metodologie di conteggio. 1. Analizzatori da ematologia La maggior parte degli analizzatori da ematologia utilizza la resistenza elettronica (impedenza) per valutare le dimensioni ed effettuare il conteggio delle cellule che passano attraverso un’apertura elettronica, oppure la tecnologia del buffy coat quantitativo (QBC) in cui si impiega la centrifugazione per separare i tipi cellulari da suddividere in diversi strati da destinare all’analisi successiva. Per essere accurati, entrambi i tipi di analizzatori devono essere in grado di differenziare in modo affidabile i tipi cellulari, sulla base principalmente delle dimensioni e/o della densità. Il conteggio accurato del numero delle piastrine nel gatto, tuttavia, è un compito che nessuna analizzatore è in grado di padroneggiare completamente. Questi apparecchi spesso non possono riconoscere i grandi ammassi piastrinici che si possono formare nel sangue dei felini dopo il prelievo né sono in grado di conteggiare le singole piastrine all’interno di un ammasso. Dal momento che l’aggregazione porta al mancato riconoscimento delle piastrine, il problema più significativo associato all’uso degli analizzatori per il conteggio piastrinico è la falsa segnalazione di una trombocitopenia in un gatto in cui in realtà il numero delle piastrine è normale. La precisione diagnostica del conteggio piastrinico nel gatto mediante analizzatori a QBC e ad impedenza è quindi scarsa ed il conteggio di valori erroneamente bassi costituisce un’evenienza comune. Al contrario, poiché gli analizzatori non tendono a creare piastrine che non esistono, il riscontro di valori di trombocitemia entro i limiti normali è da considerare tipicamente affidabile. 2. Conteggio mediante emocitometro Il metodo probabilmente più accurato per determinare il numero delle piastrine nel gatto è quello manuale, basato sull’impiego di un emocitometro. L’uso di questo conteggio, tuttavia, non è stato adottato da molte strutture veterinarie probabilmente perché i clinici ritengono che si tratti di una tecnica laboriosa e che richiede molto tempo. 3. Strisci ematici colorati Il conteggio piastrinico può essere stabilito in modo attendibile attraverso l’esame di uno striscio di sangue colorato. Gli strisci devono essere preparati e lasciati asciugare all’aria entro pochi minuti dal prelievo del campione con un anticoagulante. Si conteggia il numero delle piastrine per campo micro-


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scopico ad immersione in olio (ingrandimento 1000 x) nell’area di monostrato dello striscio. Si esaminano quindi più campi microscopici e si determina il numero medio di piastrine per campo, moltiplicandolo poi per un fattore di 20 in modo da ottenere un conteggio piastrinico (x 109/l). L’intero striscio deve quindi essere esaminato a basso ingrandimento per assicurarsi che non siano presenti degli ammassi che potrebbero portare al riscontro di valori artificiosamente bassi. La presenza di molti aggregati piastrinici in un preparato è di solito compatibile con un conteggio normale, anche se non è possibile stabilire il numero delle singole piastrine. Inoltre, l’esame degli strisci colorati rappresenta un metodo per riconoscere le piastrine da spostamento o da stress (megatrombociti), trombociti di grandi dimensioni (almeno quasi pari a quelle di un eritrocita) indicativi di un aumento della produzione midollare e del rilascio delle piastrine. Dal momento che la trombocitopenia autentica nel gatto è poco comune, mentre quella artificiosa è di frequente riscontro, i veterinari devono partire dal presupposto che fino a prova contraria un valore inaspettatamente basso del conteggio piastrinico in questa specie animale è molto probabilmente dovuto ad un artefatto e che il numero delle piastrine deve poi essere valutato utilizzando un emocitometro o l’esame di uno striscio di sangue colorato.

infettiva felina (FIP) e da Toxoplasma gondii. È stata segnalata nel gatto una trombocitopenia causata da microrganismi Ehrlichia-simili.

TROMBOCITOPENIA

Cause di trombocitopenia felina

Nel gatto, i sanguinamenti spontanei sono rari, a meno che il conteggio piastrinico non cada al di sotto di circa 30 x 109/l. I segni clinici associati alla trombocitopenia sono tipici di un difetto dell’emostasi primaria, e comprendono emorragie petecchiali ed ecchimotiche, emorragie oculari, epistassi e sanguinamenti gastroenterici (melena ed ematemesi) ed urogenitali (ematuria). I test che possono essere indicati nei gatti in cui è stato accertato che la trombocitopenia è reale piuttosto che da artefatto sono rappresentati da:

Le cause della trombocitopenia nel gatto possono essere divise in quattro categorie principali:

1. Esame emocromocitometrico completo di routine I disordini midollari che esitano in trombocitopenia causano spesso concomitanti anemia e leucopenia. Il riscontro di eritrociti frammentati (schistociti) in uno striscio allestito con il sangue prelevato da un gatto trombocitopenico suggerisce una possibile coagulopatia intravasale disseminata (DIC).

2. Aumento dell’utilizzazione delle piastrine La trombocitopenia nel gatto può essere causata da coagulopatie da consumo come la DIC. Questa si verifica secondariamente ad una gamma di malattie che comprendono neoplasie, infezioni (specialmente FIP), epatopatia, cardiopatia e shock. La DIC è spesso associata ad aumento dei FDP, schistocitosi, compromissione della funzione piastrinica e prolungamento di PT e PTT.

2. Parametri dell’emostasi Per confermare la diagnosi di una coagulopatia “complessa” come la DIC, una causa comune di trombocitopenia nel gatto, è necessaria la determinazione del tempo di protrombina (PT), di quello di tromboplastina parziale attivata (PTT) e dei prodotti di degradazione della fibrina (FDP). 3. Test per la diagnosi di malattie infettive La trombocitopenia nel gatto è spesso associata a malattie infettive, ed in particolare all’infezione da virus della leucemia felina (FeLV). Nei gatti trombocitopenici è indicata l’esecuzione del FeLV-test. Altri agenti infettivi che possono talvolta essere presi in considerazione sono rappresentati dai virus dell’immunodeficienza felina (FIV) e della peritonite

4. Diagnostica per immagini Dal momento che la trombocitopenia nel gatto si verifica spesso secondariamente a neoplasia, in genere è indicato l’esame radiografico del torace e dell’addome e quello ecografico dell’addome (alla ricerca di masse patologiche, linfoadenopatia od organomegalia). 5. Valutazione midollare (mediante aspirazione e/o biopsia a core) L’analisi del midollo osseo consente di valutare i megacariociti ed altre cellule progenitrici per stabilire se la trombocitopenia sia dovuta ad un’insufficiente produzione di piastrine a livello midollare. 6. Test immunologici La conferma della diagnosi della trombocitopenia immunomediata nel gatto è difficile. In questi animali, i vari test immunologici diretti o indiretti per la determinazione degli anticorpi antipiastrinici, che sono disponibili nel cane, non sono ancora stati ben descritti.

1. Diminuzione della produzione di piastrine Il calo della trombopoiesi è la causa più comune di trombocitopenia felina. Quest’ultima può essere dovuta ad infezioni (FeLV, FIV), farmaci citotossici, disordini midollari immunomediati e neoplasie del midollo, come il linfoma e le leucemie. Per stabilire la causa della trombocitopenia nei gatti colpiti è spesso necessaria l’analisi midollare.

3. Aumento della distruzione delle piastrine Nel gatto, la trombocitopenia immunomediata (IMT) è molto più rara che nel cane. La condizione può essere autoimmune (primaria) oppure secondaria a farmaci, vaccini vivi modificati, neoplasie (soprattutto malattie mieloproliferative) o processi infettivi quali l’infezione da FeLV o l’erlichiosi. La IMT felina si può anche verificare in concomitanza con anemia emolitica autoimmune e lupus eritematoso sistemico. Non si dispone facilmente di test immunologici affidabili per l’identificazione degli anticorpi antipiastrinici e la diagnosi di IMT viene spesso formulata sulla base della risposta alla terapia immunosoppressiva.


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4. Sequestro delle piastrine La splenomegalia o epatomegalia può in teoria causare una trombocitopenia dovuta ad aumento della capacità di stoccaggio delle piastrine nei vari organi. La trombocitopenia risulta transitoria perché il midollo è in grado di rispondere rapidamente aumentando il numero delle piastrine.

TROMBOCITOSI La trombocitosi è poco comune nel gatto. Probabilmente, la causa più frequente dell’aumento del numero delle piastrine in questa specie animale è la trombocitosi secondaria (reattiva), che si riscontra in seguito all’eccitazione (dovuta alla contrazione splenica) ed anche a molti altri processi quali splenectomia, carenza di ferro, infezione, malattie infiammatorie ed eccesso di glucocorticoidi. Conteggi piastrinici molto elevati (spesso superiori a 109/l) si possono osservare nelle leucemie piastriniche primarie, come componente di disordini quali trombocitemia primaria (essenziale), leucemia megacarioblastica e policitemia vera.

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TROMBOCITOPATIE I disordini che compromettono la funzione piastrinica possono essere ereditari o acquisiti. I primi sono rari nel gatto e comprendono la malattia di von Willebrand, le malattie da carenza del collagene e la sindrome di ChediakHigashi. Le potenziali cause acquisite di disfunzione piastrinica nel gatto comprendono numerosi farmaci (in particolare antinfiammatori non steroidei), l’insufficienza renale e l’epatopatia, l’IMT (gli anticorpi antipiastrinici possono compromettere la funzione delle piastrine stesse) e le neoplasie. Il tempo di sanguinamento della mucosa boccale (BMBT) consente una valutazione in vivo della funzione piastrinica. Con questa procedura, ci si serve di uno strumento caricato a molla per praticare un’incisione standardizzata della mucosa boccale del gatto sotto sedazione o in anestesia. Il valore medio del BMBT nel gatto è di 2 minuti e il riscontro di un tempo superiore a 3-4 minuti è altamente indicativo di un disordine emostatico.


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Trasfusioni di sangue nella pratica clinica felina Andrew Mackin BSc, BVMS, MVS, DVSc FACVSc, DSAM, MRCVS, Dipl ACVIM, Mississippi, USA

Tecniche di prelievo di sangue L’uso delle trasfusioni di sangue in medicina veterinaria è aumentato enormemente negli ultimi anni. I veterinari ed i tecnici devono quindi essere in grado di prelevare e somministrare il sangue in condizioni di sicurezza in tutti i casi in cui sia indicata una trasfusione. Uno dei principali ostacoli all’emotrasfusione in medicina veterinaria è l’assenza di animali donatori appropriati. L’identificazione dei possibili donatori in previsione di necessità di sangue consente di effettuare con rapidità e sicurezza delle trasfusioni capaci di salvare la vita dei pazienti. Quanto può fornire un donatore? Il prelievo di un elevato volume di sangue dagli animali donatori esita entro alcune ore in un’immediata ipovolemia ed anemia. I gatti possono donare il 10% del loro volume ematico totale senza alcun effetto indesiderato. Il prelievo del 20% del volume stesso non dovrebbe esitare in un’anemia clinicamente significativa, ma nel breve periodo può determinare un’ipovolemia. Il prelievo di più del 20% del volume ematico può essere causa di ipovolemia di entità sufficiente a compromettere la salute del donatore e, quindi, non è consigliata. Nel gatto, il volume ematico è di circa 66 ml/kg. Di conseguenza, partendo dal presupposto che non si può prelevare senza rischi più del 20% di tale volume, un gatto di 4 kg può donare fino a 50 ml di sangue, specialmente se viene contemporaneamente sottoposto alla somministrazione di fluidi (come la soluzione fisiologica infusa ad un volume pari a 2-3 volte quello del sangue prelevato). Prima del prelievo bisogna sempre misurare l’ematocrito del donatore. Si può prelevare del sangue da un donatore ogni 4-6 settimane. Prelievi più frequenti esitano nello sviluppo di un’anemia da carenza di ferro. Se i donatori vengono utilizzati per fornire sangue ad intervalli minori di un mese è quindi consigliabile un’integrazione con ferro. Gruppi sanguigni del gatto Nel gatto è stato identificato un sistema di gruppi sanguigni basato su tre tipi ematici (A, B ed AB). Il più comune è il tipo A, ed in 1/3 circa dei gatti con sangue di questo tipo si riscontra la presenza spontanea di bassi titoli di anticorpi anti-B. I gatti di tipo B presentano tutti titoli elevati di anticorpi anti-A di origine spontanea. La frequenza dei gatti di tipo B varia (dallo 0% fino al 59%) nelle differenti razze. Persiani, himalayani, abissini e British shorthair sono caratterizzati da un’elevata incidenza di antigeni di tipo B. I gat-

ti di tipo AB sono rari. Quelli di tipo B che vengono sottoposti a trasfusione con sangue di tipo A mostrano la rapida e spesso fatale insorgenza di reazioni trasfusionali anche in seguito ad una singola infusione di ridotti volumi di sangue non compatibile. I gatti di tipo A sottoposti a trasfusione di sangue di tipo B mostrano una lieve reazione che può anche non rendersi evidente clinicamente, tuttavia l’ematocrito del ricevente scende a livelli di prima della trasfusione entro pochi giorni dalla stessa. Il donatore felino ideale: 1. Gatto domestico che vive in casa, clinicamente sano, completamente vaccinato, del peso di 4 kg o più (massa corporea magra). 2. FeLV-FIV e Mycoplasma hemofelis (Hemobartonella felis) negativo 3. Ematocrito nella metà superiore dell’intervallo normale (>30-35%) 4. Tipo sanguigno noto (quello più comunemente richiesto è il tipo A) 5. Adatto per temperamento e risposta alla sedazione

Compatibilità fra donatore e ricevente Nelle trasfusioni nel gatto, la compatibilità è di importanza vitale, perché l’introduzione di sangue di tipo A nei gatti di tipo B esita in una reazione fatale. Attualmente, esistono due metodi per valutare la compatibilità fra donatori e riceventi nel gatto: la compatibilità crociata e la tipizzazione sanguigna. Compatibilità crociata: La compatibilità crociata valuta l’effetto degli anticorpi del siero del ricevente sugli eritrociti del donatore (compatibilità maggiore) e quello del siero del donatore sulle cellule del ricevente (compatibilità minore). Dato che lo scopo principale della trasfusione è quello di fornire al ricevente degli eritrociti, è della massima importanza che gli anticorpi di questo animale non distruggano queste cellule né suscitino una reazione. La compatibilità minore valuta il rischio di distruzione delle cellule del ricevente da parte del siero del donatore, un rischio molto minore perché il volume di siero trasfuso viene a costituire solo una piccola quota del volume sierico totale del ricevente. La prova di compatibilità crociata può essere effettuata presso alcuni laboratori di analisi cliniche veterinarie, nonché a livello ambulatoriale.


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Tipizzazione sanguigna: Attualmente, sono disponibili dei kit da tavolo per identificare il sangue di tipo A, B o AB nel gatto. Questi kit sono semplici da utilizzare e forniscono risultati rapidi ed accurati. La tipizzazione preventiva dei possibili donatori consente una rapida organizzazione delle trasfusioni da effettuare.

Prelievo e conservazione del sangue Nel gatto, il sangue va sempre prelevato dalla vena giugulare, perché a livello delle vene periferiche le velocità di flusso sono troppo lente. Prima di essere posizionati in decubito laterale, i gatti donatori devono essere sedati per garantire un contenimento appropriato. Si preferisce impiegare un’associazione sedativa come quella di ketamina e midazolam o diazepam. Nel gatto, l’acepromazina è da evitare perché provoca ipotensione, che può essere accentuata dall’ipovolemia associata al prelievo di sangue. Il sangue del gatto viene prelevato di routine in una siringa da 50 ml raccordata ad un catetere di tipo butterfly. Anche se è possibile aggiungere dell’eparina alla siringa, come anticoagulanti si preferisce impiegare l’acido citrato destrosio (ACD) o il citrato fosfato destrosio (CPD), perché il sangue può essere conservato per alcune settimane dopo il prelievo a condizione che sia refrigerato. La siringa deve contenere 1,3 ml di ACD o CPD (ottenuto da una sacca di raccolta di sangue per uso umano) per ogni 10 ml di sangue da prelevare. Dal momento che la raccolta del sangue da una siringa rende difficile l’inserimento di un filtro in linea durante la trasfusione, si raccomanda di trasferire il materiale prelevato ad una sacca di raccolta, a meno che non venga somministrato immediatamente. Sono disponibili speciali sacche di raccolta destinate all’impiego nel gatto. Il sangue va conservato in condizioni di sterilità, perché la sua contaminazione batterica esita in una grave reazione da trasfusione. Il sangue dei pazienti trombocitopenici va utilizzato entro 8-12 ore dalla raccolta, dal momento che le piastrine danno rapidamente origine ad ammassi e vanno incontro a disfunzioni. A differenza delle piastrine, i fattori della coagulazione possono essere congelati, tanto che, se viene separato e congelato immediatamente, il plasma rimane una buona fonte di fattori della coagulazione.

Principali indicazioni per le trasfusioni di sangue 1. Anemia 2. Disordini dell’emostasi 3. Carenze delle specifiche componenti plasmatiche Quando effettuare la trasfusione? Il fattore più importante per determinare la necessità della trasfusione è rappresentato dalle condizioni del paziente. L’intervento è sempre indicato in un soggetto anemico che mostri i segni di compromissione clinica quali debolezza, dispnea ed atassia. Molti pazienti con anemia, tuttavia, presentano alterazioni cliniche minime e possono spesso sopravvivere per lunghi periodi senza trasfusioni. Molti autori hanno suggerito di ricorrere alla trasfusione

ogni volta che l’ematocrito di un paziente scende al di sotto del 20%. I gatti però tollerano bene l’anemia e possono mostrare solo una lieve letargia con valori di ematocrito del 10-15%. L’anemia cronica tende ad essere meglio tollerata di quella acuta. Date queste considerazioni, un approccio adeguato sarebbe quello di raccomandare la trasfusione se il paziente mostra significative manifestazioni cliniche di anemia, se l’ematocrito è inferiore al 10% o se è rapidamente caduto a meno del 15%. Volume di sangue richiesto dal ricevente: Per alleviare i segni clinici, eliminare lo stimolo per il paziente ad aumentare la propria produzione di eritrociti non è necessario effettuare trasfusioni fino al raggiungimento di un ematocrito normale. Di solito, un ematocrito post-trasfusionale del 20% nel gatto è sufficiente a far regredire i segni dell’anemia senza smorzare significativamente la risposta rigenerativa. Per ottenere questi risultati negli animali con gravi anemie può essere necessaria la trasfusione con elevati volumi di sangue. Fortunatamente, tuttavia, anche un piccolo aumento dell’ematocrito del ricevente è spesso sufficiente ad alleviare una crisi potenzialmente letale. Per calcolare il volume necessario si utilizza la seguente equazione (k = 66 nel gatto): Volume di sangue da trasfondere = k x peso in kg (ematocrito richiesto- ematocrito del ricevente) ematocrito del sangue donato

Somministrazione del sangue Via di somministrazione L’ideale è somministrare il sangue nella vena cefalica o giugulare attraverso un catetere endovenoso. Nei pazienti con grave ipotensione o in età pediatrica, l’infusione può essere effettuata nel femore servendosi di un ago endovenoso da 1820 G o di un ago spinale introdotto nella fossa trocanterica. La somministrazione intraperitoneale di sangue è un metodo inefficiente di trasfusione, perché consente di ottenere soltanto l’estrazione del 40% del sangue somministrato. Metodo di somministrazione Il sangue va somministrato attraverso un set di infusione filtrato studiato per gli emoderivati. Ciò può essere particolarmente importante quando il fluid è stato conservato per un certo periodo dopo il prelievo. Gli speciali set di infusione contengono filtri che eliminano gli aggregati cellulari ed i microtrombi che possono portare al danneggiamento dei capillari polmonari ed all’edema polmonare. Il sangue non va miscelato a fluidi endovenosi contenenti calcio o glucosio. Il sangue va riscaldato delicatamente sino a temperatura corporea prima dell’infusione. In caso di surriscaldamento si possono avere fenomeni di coagulazione ed emolisi. Se è necessario ottenere un incremento termico rapido, è preferibile riscaldare i tubi di deflusso durante la somministrazione piuttosto che aumentare eccessivamente la temperatura della sacca di raccolta del sangue. Una volta che questa sia stata riscaldata, va utilizzata entro 24 ore.


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La velocità di somministrazione deve tenere conto delle condizioni del paziente. Ai gatti normovolemici si possono somministrare 5-10 ml/kg/ora di sangue e questa quantità può essere aumentata nei pazienti ipovolemici fino ad un massimo di 20 ml/kg/ora. Anche se si raccomanda spesso l’impiego di un volume di trasfusione massimo standard di 20 ml/kg/die, in determinate circostanze, come in caso di gravi emorragie in atto, è possibile somministrare senza rischi volumi molto più elevati. Nei gatti colpiti da disfunzioni cardiovascolari o insufficienza renale, il flusso deve essere limitato a 2 ml/kg/ora per evitare il sovraccarico circolatorio dovuto ad un’improvvisa espansione del volume ematico.

Emoderivati In determinate condizioni cliniche come l’emorragia cronica, l’anemia emolitica o non rigenerativa, la trombocitope-

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nia, le carenze di fattori della coagulazione o l’ipoalbuminemia, la somministrazione di specifici emoderivati può essere più appropriata delle trasfusioni di sangue intero. Nell’emorragia cronica e nell’anemia emolitica o non rigenerativa il paziente è normovolemico e richiede soltanto l’infusione di emazie concentrate per risolvere i segni clinici associati all’anemia. I gatti con trombocitopenia o carenze di fattori della coagulazione spesso non necessitano di eritrociti, mentre traggono vantaggio, rispettivamente, dal plasma ricco di piastrine e dal plasma. Dal momento che un’unità di sangue fresco intero può essere divisa in due o anche tre emoderivati distinti, l’uso di prodotti appropriati per le specifiche situazioni cliniche garantisce la possibilità di ottenere i massimi vantaggi da ogni singola donazione. In commercio si trovano specifici emoderivati attraverso i servizi di banche del sangue. Nella pratica professionale, spesso è possibile effettuare una semplice separazione degli eritrociti dal plasma con costi minimi.


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Prelievo di midollo osseo nel gatto Andrew Mackin BSc, BVMS, MVS, DVSc FACVSc, DSAM, MRCVS, Dipl ACVIM, Mississippi, USA

Il prelievo di midollo osseo è una tecnica relativamente semplice e facilmente attuabile nella pratica clinica generica. Tuttavia, per perfezionare la procedura è necessaria una certa esperienza, dal momento che si tratta di un’operazione che può risultare frustrante perché risulta difficile e, nel paziente vivo che rifiuta di sottoporvisi, richiede tempo. Di conseguenza, si raccomanda caldamente di perfezionare preventivamente la tecnica di prelievo midollare su cadaveri, quando sono disponibili.

Iperglobulinemia inspiegabile (in particolare, gammopatie monoclonali). 4. Ricerca di agenti infettivi Micosi profonde, soprattutto istoplasmosi nel gatto Test per la diagnosi di infezione da virus della leucemia felina (immunofluorescenza) 5. Test diagnostici specializzati Colorazione immunologica per anticorpi antieritrociti, antileucociti o antiprecursori piastrinici.

Indicazioni per l’analisi del midollo osseo 1. Diagnosi o stadiazione di neoplasia Diagnosi: Mieloma multiplo Mastocitoma Stadiazione: Linfosarcoma Leucemia 2. Diagnosi di vari disordini ematologici Diminuzione persistente ed inspiegabile delle cellule ematiche: Pancitopenia inspiegabile Grave neutropenia inspiegabile Compromissione dell’eritropoiesi (anemia non rigenerativa) Compromissione della trombopoiesi Aumento persistente ed inspiegabile delle cellule ematiche: Policitemia Marcata trombocitosi Marcate neutrofilia, linfocitosi o eosinofilia Presenza di cellule anormali in circolo: Rubrocitosi inspiegabile (aumento di eritrociti nucleati) Inappropriata preponderanza di elementi immaturi di qualsiasi linea cellulare Sospette cellule neoplastiche (ad es., mast cell) 3. Valutazione di specifici problemi medici L’analisi midollare può, occasionalmente, far parte della valutazione standard per lo studio di: Febbre di origine sconosciuta Ipercalcemia inspiegabile

6. Monitoraggio della risposta alla terapia L’analisi midollare di follow-up è molto utile per il monitoraggio della risposta alla terapia, in particolare nei casi in cui questa risulta evidente a livello midollare ben prima di causare un miglioramento dei conteggi cellulari del sangue periferico. È possibile monitorare: Risposta all’immunosoppressione (disordini midollari immunomediati) Risposta alla chemioterapia (leucemia) Dal momento che il prelievo midollare può sembrare difficile, si sta cercando di evitare l’aspirazione/biopsia midollare e di trovare nuovi approcci diagnostici/terapeutici. Tuttavia, ogni volta che sia indicato, il regolare prelievo midollare rappresenta il modo migliore per prendere confidenza con la tecnica. Una volta accettata come procedura di routine, i risultati dell’analisi midollare spesso migliorano significativamente la qualità delle cure prestate al paziente.

Sedi di prelievo midollare Nel gatto, sono disponibili molte sedi potenzialmente adatte al prelievo midollare quali: Cresta iliaca dorsale Diafisi femorale (attraverso la fossa intertrocanterica) Diafisi omerale (attraverso la faccia laterale del tubercolo maggiore) La maggior parte dei siti citati consente di ottenere buoni campioni di midollo, anche se questo può essere piuttosto sparso nella cresta iliaca. Nella maggior parte dei casi, il midollo prelevato di qualsiasi sede è ragionevolmente rappresentativo dello status complessivo di tutto quello del gatto. La personale preferenza dell’autore in questa specie animale è l’uso del tratto prossimale dell’omero. La maggior par-


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te dei gatti richiede una sedazione profonda (ad es, con ketamina/diazepam) o un’anestesia generale per il prelievo midollare. Quest’ultima è indubbiamente una procedura moderatamente dolorosa. I gatti sedati spesso sembrano manifestare la stessa risposta algica alla distruzione della cavità midollare (in particolare durante l’aspirazione). La procedura può quindi innervosire abbastanza gli operatori inesperti, che possono preferire il ricorso al prelievo midollare in anestesia totale.

Metodi di valutazione midollare Il midollo osseo può essere valutato sia attraverso l’osservazione citologica degli aspirati che con l’esame istopatologico delle biopsie a core. Ciascun metodo presenta vantaggi e svantaggi. Citologia midollare per aspirazione Il midollo osseo viene aspirato attraverso un apposito ago, strisciato su un vetrino da microscopia, lasciato asciugare all’aria, colorato con le tecniche ematologiche standard e valutato citologicamente. Vantaggi (a) Breve intervallo di tempo dal prelievo all’esame (b) Superiore valutazione dei dettagli citoplasmatici e nucleari delle singole cellule (c) Tecnica d’elezione per l’immunofluorescenza

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La decisione di effettuare la biopsia per aspirazione oppure a core dipende da molteplici fattori, quali il sospetto processo patologico, il tipo di ago disponibile e le preferenze personali dell’operatore. Molti clinici tentano inizialmente l’aspirazione midollare e poi, se non riescono a giungere ad una diagnosi, prelevano una biopsia a core. Tuttavia, poiché gli aspirati midollari e le biopsie a core possono essere prelevati dalla medesima sede, richiedono entrambi lo stesso livello di sedazione e/o di anestesia e ciascuna tecnica può fornire informazioni differenti (e spesso complementari), l’autore preferisce effettuare nello stesso tempo il prelievo simultaneo di aspirati e biopsie a core. Nei casi dubbi riguardo ai campioni da prelevare e le modalità con cui trattarli, si suggerisce di contattare il laboratorio di riferimento per ottenere indicazioni prima del prelievo. La maggior parte degli specialisti preferisce che insieme ai campioni midollari venga inviato all’analisi un campione di sangue da sottoporre agli esami ematologici. I clinici con un particolare interesse nel campo della citologia possono esaminare in modo ben definito gli aspirati e sviluppare un’impressione diagnostica preliminare, ma gli strisci midollari devono sempre essere inviati ad un istopatologo clinico esperto per un’interpretazione definitiva. Tecniche specifiche I seguenti due protocolli delineano il prelievo di midollo dall’omero, la sede preferita dall’autore nella maggior parte dei gatti.

Aspirazione midollare Svantaggi (d) Molte malattie midollari tendono a fornire aspirati con cellularità scarsa o assente, oppure campioni non rappresentativi. (e) Le informazioni utili riguardo all’architettura cellulare complessiva del midollo osseo sono scarse (f) Gli operatori inesperti possono facilmente distruggere le cellule durante la preparazione dello striscio Esame istopatologico dei campioni bioptici midollari a core Utilizzando un apposito ago, si effettua il prelievo di un core osseo di materiale midollare che poi viene fissato (di solito in formalina), decalcificato ed esaminato istopatologicamente. Vantaggi (a) Si dovrebbe riuscire ad ottenere un campione rappresentativo da qualsiasi gatto, indipendentemente dalla gravità o dal tipo dell’affezione midollare. (b) È possibile valutare l’architettura midollare complessiva e le relazioni fra cellula e cellula. (c) Sui campioni fissati in formalina si può effettuare la colorazione immunoperossidasica. Svantaggi (d) I campioni devono essere inviati ad un laboratorio di istopatologia ed i risultati tardano invariabilmente di 3-4 giorni. (e) Il livello di dettaglio citoplasmatico e nucleare delle singole cellule può essere inferiore a quello ottimale.

L’aspirazione midollare può essere effettuata con appositi aghi multiuso o monouso (a perdere). L’autore preferisce impiegare i cosiddetti aghi monouso. Pur essendo relativamente costosi e non potendo essere sterilizzati in autoclave, questi aghi possono essere sterilizzati a freddo. Nelle mani di un operatore esperto, possono essere impiegati nuovamente per circa 5-10 volte prima di perdere il filo in modo apprezzabile. Procedura 1. Sedare o anestetizzare il gatto e porlo in decubito laterale. 2. Identificare con la palpazione l’ampia zona appiattita nella faccia craniolaterale del tratto prossimale dell’omero. 3. Tosare e preparare chirurgicamente l’area, eseguire l’anestesia locale se il gatto è sedato e, servendosi di una lama da bisturi, praticare una piccola incisione di punta attraverso la cute che ricopre il tratto prossimale dell’omero. 4. Precaricare l’ago da aspirazione e la siringa con una piccola quantità di soluzione fisiologica mista ad EDTA come anticoagulante. 5. Indossando guanti sterili ed esercitando un movimento energico, inserire l’ago midollare nella faccia craniolaterale del tratto prossimale dell’omero, dirigendosi caudalmente e un po’ medialmente e distalmente, fino a che non sia saldamente conficcato nell’osso. 6. Rimuovere il mandrino e raccordare saldamente una siringa da 10 ml contenente una piccola quantità di soluzione di EDTA all’ago midollare. Effettuare una serie ripetuta di energiche aspirazioni fino a che nella siringa


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non passa una piccola quantità di midollo; sono sufficienti appena 0,5 ml e una quota superiore a 2 ml è ampiamente superflua rispetto ai fabbisogni. L’iniziale aspirazione spesso suscita una risposta algica da parte del paziente. 7. Allestire degli strisci di aspirato midollare utilizzando sia le preparazioni per schiacciamento che la metodologia standard per gli strisci ematici. 8. I vetrini possono essere lasciati asciugare all’aria ed inviati al laboratorio oppure colorati per un esame ambulatoriale.

Core midollare Come nel caso dell’aspirazione, la biopsia midollare a core può essere effettuata sia con aghi da biopsia multiuso che con strumenti monouso (a perdere). Gli aghi da biopsia a core sono estremamente difficili da utilizzare a meno che non siano affilati, si smussano molto facilmente e sono praticamente impossibili da affilare. Di conseguenza, come nel caso degli aghi da aspirazione, l’autore preferisce utilizzare aghi da biopsia monouso, che possono essere sterilizzati a freddo e reimpiegati. Procedura: 1. Preparare il paziente come per l’aspirazione midollare. 2. Indossando guanti sterili ed esercitando un energico mo-

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vimento di torsione e spinta verso il basso, inserire l’ago da biopsia midollare a core, con il mandrino in posizione, nel tratto prossimale dell’omero fino a che non vi risulti saldamente conficcato. Un volta che l’ago sia stato inserito, rimuovere il mandrino. Dal momento che per questa procedura l’ago deve soltanto essere fatto passare attraverso la corticale dell’omero, il mandrino può essere rimosso dopo che l’ago è stato conficcato nell’osso sino ad una profondità stimata di 6 mm. Esercitando un energico movimento di rotazione, continuare ad inserire l’ago da biopsia cavo molto più in profondità nella cavità midollare. Provocare il distacco del core all’interno dell’ago sottoponendo quest’ultimo ad un’energica rotazione, oppure ritirandolo leggermente e cambiandone la direzione. Rimuovere l’ago ruotandolo e tirandolo indietro. Inserire un mandrino nell’ago (preferibilmente, dalla punta verso il cono). Ci si augura di riuscire a spingere fuori dal lume un core solido di materiale osseo e midollare. Se non si riesce ad ottenere un campione adeguato, ripetere più volte l’operazione. Porre il core in formalina o in un altro fissatore. Prima della fissazione, il core può essere fatto rotolare su un vetrino da microscopia, che verrà successivamente lasciato asciugare all’aria, per effettuare un esame citologico nel caso che il precedente prelievo per aspirazione non abbia avuto successo.


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Febbre di origine sconosciuta Andrew Mackin BSc, BVMS, MVS, DVSc FACVSc, DSAM, MRCVS, Dipl ACVIM, Mississippi, USA

Ipotermia e febbre autentica La temperatura corporea normale del gatto è compresa fra circa 37,8 e 39,4 °C. Non tutti i gatti con una temperatura superiore a questo limite sono però necessariamente colpiti da febbre. L’aumento della temperatura può essere dovuto a febbre autentica oppure a ipertermia. Nella prima, il punto di taratura della termoregolazione dell’animale è stato spostato (aumentato) dagli effetti di una gamma di pirogeni Questi ultimi possono essere esogeni (introdotti dall’esterno dell’organismo) oppure endogeni. I potenziali pirogeni esogeni sono rappresentati da molti differenti microrganismi, antigeni, sostanze estranee e farmaci. I pirogeni esogeni inducono tipicamente la produzione di pirogeni endogeni (rappresentati in particolare da citochine infiammatorie come la IL-1, la IL-6 ed il fattore di necrosi tumorale) in risposta ad un’ampia gamma di stimoli differenti, quali infezioni, infiammazione non infettiva, malattia immunomediata, neoplasia e farmaci pirogeni. I pirogeni endogeni servono a ritarare il centro della termoregolazione attraverso l’azione locale delle prostaglandine. Dal momento che una vasta gamma di processi patologici differenti e di pirogeni esogeni scatena il rilascio della stessa serie di pirogeni endogeni, il risultato finale è lo stesso per molte malattie: la febbre, dovuta allo spostamento del centro della termoregolazione. Inoltre, dal momento che molti pirogeni endogeni sono anche potenti mediatori dell’infiammazione, i gatti con febbre dovuta a quasi qualsiasi causa mostrano spesso anche molte delle caratteristiche della risposta infiammatoria sistemica, quale letargia, anoressia, leucogramma infiammatorio, anemia da malattia cronica, induzione di proteine di fase acuta e lieve ipoalbuminemia. Queste modificazioni infiammatorie, quindi, sono prevedibili negli animali febbricitanti e non sono indicative di una qualsiasi particolare causa di febbre.

Cause di febbre La gamma dei differenti processi patologici in grado di causare la febbre è enorme. Mentre è impossibile per qualsiasi clinico ricordare tutti i differenti agenti infettivi e le malattie non infettive che possono provocarla, è possibile in ambito pratico distinguerne le differenti eziologie suddividendole in alcune ampie categorie: Infettiva Virale Batterica Micotica Protozoaria da Rickettsiae da Micoplasmi Altro (da alghe, oomicetali)

Infiammatoria non infettiva Immunologica Disordini immunomediati Neoplastica da Farmaci

All’interno di queste ampie categorie, è razionale focalizzarsi inizialmente sulle malattie più comuni, andando alla loro ricerca. Tuttavia, in molti casi in cui la causa della febbre non è immediatamente evidente, è pericoloso presumere che il paziente febbricitante debba necessariamente essere colpito da una condizione appartenente ad una ridotta manciata di malattie comuni. In realtà, esistono molte centinaia di potenziali cause infettive e non infettive della febbre. In queste circostanze, spesso ha più senso mantenere la mente aperta concentrarsi sulla localizzazione dell’origine del rialzo termico e poi cercare di isolare o identificare un’eziologia specifica.

Approccio diagnostico iniziale Di solito, in un gatto portato alla visita perché presenta temperatura elevata risulta semplice distinguere l’ipertermia dalla febbre. Nelle circostanze in cui questo compito è più difficoltoso, ad esempio un gatto esaminato in una giornata molto calda, vale la pena di ripetere il controllo della temperatura dopo aver lasciato riposare l’animale in un ambiente fresco. Come regola generale, tuttavia, un gatto che viene portato alla visita perché presenta segni quali anoressia e letargia, appare molto quieto durante l’esame e mostra temperatura elevata è di gran lunga più probabile che sia colpito da febbre piuttosto che da ipertermia. Febbre di origine sconosciuta La febbre di origine sconosciuta (FUO, fever of unknow origin) è un problema comune nella pratica professionale. Interpretando alla lettera questa espressione, qualsiasi gatto che presenti una febbre della quale non sia ancora stata determinata la causa è affetto da “febbre di origine sconosciuta”. In termini più pratici, tuttavia, una definizione clinica più utile da un punto di vista operativo per questa condizione sarebbe “qualsiasi febbre che dura da più di qualche giorno e la cui causa non risulta evidente attraverso l’anamnesi iniziale e la visita clinica”. Anamnesi ed esame clinico In qualsiasi gatto con febbre, l’anamnesi e l’indagine clinica devono essere il più possibile complete. L’obiettivo di questa prima valutazione è quello di tentare di trovare qualsiasi indizio, per quanto sottile, che possa aiutare a localizzare la malattia. Ogni volta riusciti ad identificare la sede di un processo patologico in un animale con piressia, di solito è anche possibile determinare l’eziolo-


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gia del problema. Al contrario, ogni volta che non si riesce a localizzare un processo patologico, trovare la causa della febbre del paziente può richiedere molto tempo e risultare difficile e costoso. Anamnesi ed esame clinico rappresentano la prima, migliore e meno costosa opportunità per localizzare il processo patologico che causa la febbre. Anamnesi: I proprietari devono essere interrogati molto accuratamente per rilevare qualsiasi indizio che possa suggerire un’eziologia o contribuire a localizzare il processo patologico. Le indicazioni anamnestiche che suggeriscono un’eziologia o una localizzazione della malattia devono essere approfondite con l’indagine diagnostica. Anche gli indizi più sottili possono servire ad orientare il clinico verso il percorso diagnostico corretto. Esame clinico: L’esame clinico dell’animale con piressia, come la raccolta dell’anamnesi, deve essere completo. Oltre ad un’approfondita valutazione standard, si devono effettuare le indagini neurologiche, ortopediche ed oftalmologiche (compreso l’esame del fondo dell’occhio). Certe localizzazioni anatomiche sono notoriamente in grado di ospitare malattie pirogene (in particolare, quelle infettive ed immunomediate), e l’uso di una “check-list” mentale delle prime localizzazioni da esaminare a fondo serve a non dimenticare alcun processo patologico. Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di una valutazione clinica accurata nel paziente con febbre. L’esame clinico è, senza dubbio, il singolo passo diagnostico con le maggiori probabilità di portare ad una diagnosi definitiva nei soggetti con febbre di origine sconosciuta. L’esecuzione di una singola indagine anamnestica e di una sola visita clinica può non essere sufficiente nei gatti in cui la condizione si rivela difficile da diagnosticare. I processi patologici spesso cambiano col tempo e, anche quando rimangono statici, un secondo o più accurato esame può rivelare indizi che erano sfuggiti la prima volta. Dati minimi di base Ogni volta che la febbre persiste da più di qualche giorno e non è stato possibile accertare alcun processo patologico attraverso l’anamnesi e l’esame clinico, è indicata un’ulteriore indagine. L’obiettivo di quest’ultima è quella di realizzare un’ampia rete diagnostica che sia il più possibile economicamente conveniente e non invasiva. I dati minimi di base standard per la febbre di origine sconosciuta nel gatto comprendono di solito gli esami ematologici, il profilo biochimico, l’analisi dell’urina, i test per la diagnosi dell’infezione da retrovirus e la misurazione dei livelli di ormone tiroideo nei gatti anziani. Questo screening di base consente di evidenziare un’ampia gamma di processi patologici attraverso un numero relativamente limitato di test. Gli indizi suggeriti dai dati minimi di base devono essere studiati a fondo fino alla formulazione di una diagnosi. Nella grande maggioranza dei pazienti con febbre di origine sconosciuta, l’approccio diagnostico iniziale

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porta ad una diagnosi definitiva o, come minimo, serve a localizzare la malattia in una sede specifica. Una volta effettuata questa localizzazione, per giungere ad una diagnosi definitiva sono di solito sufficienti solo pochi altri passi diagnostici, basati tipicamente sulla valutazione citologica, bioptica o colturale dell’apparato colpito. Queste indagini sono di solito agevoli. Certamente, le valutazioni mirate sono molto più risolutive di quelle di screening necessarie in un paziente con piressia che non mostra segni di localizzazione. Quando si utilizza l’“approccio alla diagnosi orientato al problema”, la febbre è un problema estremamente aspecifico che porta ad estesi test diagnostici. Al contrario, problemi più specifici (ad es., pancitopenia, miopatia o piuria) comportano un approccio molto più mirato che di solito può restringere il campo ad una gamma limitata di diagnosi differenziali o ad una singola diagnosi definitiva impiegando solo un numero estremamente ridotto di test aggiuntivi. Ulteriore indagine diagnostica: I test più avanzati in un paziente in condizioni stabili con febbre di origine sconosciuta vengono condotti in modo sequenziale e per gradi, facendo attenzione ad ottenere i risultati di una serie di test prima di avviare quella successiva. La valutazione in genere comincia con gli esami che hanno le maggiori probabilità di portare ad una diagnosi riducendo al minimo i costi e l’invasività e poi procedendo, se necessario, fino a quelli caratterizzati da un campo diagnostico più ristretto e più costosi ed invasivi. 1. Diagnostica per immagini Radiografia del torace e dell’addome Ecografia dell’addome 2. Emo- ed urocolture 3. Test avanzati ed invasivi Poco comunemente: • Ecocardiografia • Esame citologico di campioni linfonodali prelevati mediante aspirazione con ago sottile • Puntato di liquor • Aspirati/biopsie midollari • Tomografia computerizzata o risonanza magnetica

Test specifici per le varie malattie Sono disponibili molti test sierologici studiati per identificare le malattie causate da specifici agenti infettivi. Durante la valutazione di un caso di febbre che si rivela frustrante, occorre cercare di effettuare una serie di indagini sierologiche per identificare le malattie infettive. Sfortunatamente, l’esecuzione della maggior parte di questi test in assenza di precedenti prove diagnostiche ha buone probabilità di portare a risultati che sono causa di confusione e ad un’elevata incidenza di diagnosi errate sulla base di esiti falsi positivi. Con poche eccezioni specifiche, la maggior parte dei test sierologici per le malattie infettive non è né abbastanza sensibile né abbastanza specifica per potersene fidare in assenza di riscontri clinici di sostegno. I


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test specifici per la diagnosi degli agenti infettivi, d’altro canto, risultano utili quando una precedente indagine suggerisce che la malattia per cui si effettua l’esame è da ritenere altamente probabile fra le possibili diagnosi differenziali. Dal momento che questi test sierologici specifici per la malattia hanno un valore diagnostico molto più elevato quando sono sostenuti dai risultati delle precedenti indagini, di solito è preferibile riservarli ad una fase relativamente avanzata della valutazione clinica della febbre. Esempi di test sierologici per la diagnosi di malattie infettive che possono portare ad una diagnosi non corretta sono rappresentati da: • Sierologia protozoaria (Toxoplasma)

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• Sierologia virale (coronavirus felino nell’ambito della valutazione della peritonite infettiva felina e, oggi che è disponibile un vaccino, potenzialmente anche del virus dell’immunodeficienza felina). I test sierologici per la diagnosi delle infezioni da microrganismi vanno effettuati preferibilmente nei casi in cui l’indagine diagnostica è altamente indicativa di un particolare agente infettivo. Anche in queste circostanze, è ancora preferibile cercare di giungere ad una diagnosi con mezzi più specifici (ad es., identificando un microrganismo con le tecniche colturali, citologiche, istopatologiche o mediante test antigenici o PCR) rivedere piuttosto che basarsi sulla sola sierologia.


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Valenze ed applicazioni della relazione uomo-animale (1a e 2a parte) Roberto Marchesini Med Vet, Bologna

Negli ultimi quarant’anni, in svariati contesti applicativi - dall’ambito assistenziale a quello educativo - ha trovato diffusione e creato interesse di ricerca e occupazione (anche nell’ambito della medicina veterinaria) un settore della partnership uomo-animale domestico che, seppur presente da sempre nella storia dell’uomo, solo oggi si è iniziato a studiare in modo specifico e dettagliato: il ruolo referenziale del partner animale. Per ruolo referenziale s’intende il complesso di contenuti (emozionali, motivazionali, cognitivi) che vengono trasmessi, nella specifica situazione di incontro-dialogo con il pet, dal contesto relazionale all’uomo e che contribuiscono a favorire i suoi processi formativi, a dargli benessere, a supportarlo nelle situazioni di difficoltà. La referenza animale apporta cioè dei contenuti che assolvono a tre grandi ordini di necessità dell’uomo: 1) il bisogno formativo, vale a dire i contenuti che arricchiscono lo sviluppo ontogenetico del bambino; 2) il bisogno espressivo, ossia i contenuti che danno la possibilità al singolo di esprimere il proprio orizzonte motivazionale; 3) il bisogno assistenziale, ovvero quei contenuti che danno un supporto o favoriscono i processi emendativi. Per capire il significato e la specificità di questi contenuti è necessario differenziare la produttività referenziale - quella che esita dalla relazione con l’animale e che viene studiata dalla zooantropologia - dalla produttività performativa - quella che esita dalle prestazioni dell’animale e che viene studiata dalla zootecnia - ove è implicito che nella complessa interattività dell’uomo con gli animali domestici (siano stati questi ultimi da utilità o da compagnia) sempre ci si è avvalsi sia di ritorni performativi che di ritorni referenziali. La differenza tra queste due diverse acquisizioni è che, mentre la performatività dipende in modo diretto da una prestazione specifica compiuta dall’animale, i contenuti referenziali discendono dalla tipologia della relazione in essere ossia dalla dimensione di incontro e di dialogo che si accende tra uomo e animale. In altre parole lo stesso animale - caratterizzato da un preciso profilo performativo mette a disposizione dell’uomo contenuti referenziali differenti a seconda della dimensione di relazione che viene implementata. Il punto sta proprio qui: mentre in zootecnia mi preoccupo di rifinire la collezione di prestazioni offerte dall’animale, in zooantropologia studio le diverse dimensioni di relazione e in specifico come accenderle e quali contenuti offrono. Nella storia dell’uomo la domesticazione è stata una conquista assolutamente centrale per lo sviluppo di alcuni tra i più importanti predicati di umanità, sia per gli apporti zootecnici sia per quelli zooantropologici che l’uomo ha ricevuto dai diversi partner animali. Studiare le dimensioni di

relazione e i diversi contenuti referenziali che esse rendono possibili è assolutamente necessario quando si fa riferimento non a prestazioni specifiche (come imbrancare le pecore o fare la guardia) ma a contenuti che vanno a modificare il fronte delle conoscenze e l’immaginario, l’assetto emozionale e il tono di arousal, le capacità cognitive del soggetto, l’equilibrio affettivo, l’autostima e via dicendo. In questo caso il prodotto esce dalla relazione e non dall’animale in senso stretto, si rende disponibile dalla dimensione di relazione (come ci rapportiamo al pet, cosa facciamo con lui, in che situazioni ci troviamo durante il dialogo), per cui è corretto dire che in zooantropologia si utilizza la relazione (o meglio i contenuti referenziali che scaturiscono dalla relazione) e non l’animale in quanto tale. La dimensione di relazione è costituita da diversi fattori e molte sono le variabili che possono spostare l’ago della bilancia da una dimensione all’altra - tra queste anche le caratteristiche dell’animale che possono indurre prioritariamente nell’uomo una disposizione piuttosto che un’altra - ma non vi è dubbio che il fattore prevalente sia dato dal tipo di attività relazionale che uomo e animale stanno compiendo in un particolare contesto. La dimensione è pertanto data dalle attività di relazione, per cui una prevalenza di attività di cura e accudimento (per esempio alimentare, pulire il giaciglio, spazzolare, proteggere) darà vita a una dimensione epimeletica, mentre una continua richiesta affettiva indirizzata all’animale o la tendenza a vederlo come propria base sicura di ordine affettivo darà vita a una dimensione di attaccamento. Diversa sarà la tipologia relazionale tra questi due esempi e diversi saranno i contenuti messi a disposizione dalla relazione come diverse saranno ovviamente le eventuali criticità. Le dimensioni di relazione vengono pertanto influenzate dal tipo di attività di relazione che caratterizza un incontro con il pet o la vita che una persona conduce con il proprio pet. In zooantropologia si tende a differenziare: a) le situazioni di pet-ownership (ossia di proprietà del pet) dove si cerca di portare a equilibrio le diverse dimensioni per non rischiare di chiudere l’animale in un ruolo troppo angusto e incentivare nella persona forme di morbosità relazionale; b) gli interventi di pet-relationship, dove un uomo e un animale si incontrano all’interno di una particolare cornice dimensionale scelta appositamente per rispondere ai bisogni referenziali di quel particolare utente. La definizione dimensionale nella pet-ownership serve per contemperare i diversi bisogni espressivi del pet-owner e assicurare benessere al pet; l’obiettivo è sempre l’equilibrio dimensionale e le attività che il consulente zooantropologo compie sono mirate a bilanciare le diverse componenti di-


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mensionali del pet-owner, in modo tale da evitare derive relazionali. Le derive relazionali possono influenzare il prospetto comportamentale del pet, per questo la zooantropologia consulenziale riferita alla pet-ownership (consulenza preadottiva, sistemica, training) è in stretto rapporto con la medicina comportamentale, giacché alcuni tra i più importanti problemi comportamentali sono l’esito di una deriva relazionale. Il medico veterinario formato in zooantropologia consulenziale e in medicina comportamentale è in grado di offrire al proprietario una consulenza a largo spettro per risolvere le criticità nella relazione con il proprio pet. Al contrario, negli interventi di pet-relationship (per esempio in zooantropologia didattica o in pet therapy) si opera l’indirizzo dimensionale; l’obiettivo in questo caso è quello di accendere nel fruitore solo quelle dimensioni di relazione che rendono disponibili i contenuti referenziali utili all’utente, evitando quelle dimensioni che potrebbero dar luogo a situazioni di criticità o addirittura essere contrastanti con l’obiettivo del progetto. Le dimensioni di relazione sono diverse e ciascuna è in grado di apportare specifici contenuti referenziali che, a loro volta, sono in grado di rispondere a diverso titolo ai bisogni dell’uomo, siano essi formativi, espressivi o assistenziali. Le attività di pet relationship sono interventi che un operatore (conduttore o pet partner) compie dando a un fruitore (sia esso un bambino, un anziano, un disabile) l’opportunità di venire in relazione con il pet in un preciso contesto dimensionale. In questi progetti, siano essi di ordine formativo o assistenziale, si individua la cornice dimensionale ovvero: 1) le dimensioni di relazione prescritte, quelle che cioè vanno a mettere a disposizione i contenuti referenziali che servono a conseguire gli obiettivi del progetto; 2) le dimensioni di relazione tollerabili, quelle che contribuiscono ad accendere la relazione in modo autentico e immediato, evitando il tecnicismo o il produttivismo dell’intervento, ma che nello stesso tempo non apportano contenuti problematici; 3) le dimensioni di relazione da evitare, quelle che contrastano con gli obiettivi del progetto, che possono essere problematiche o pericolose per quel particolare utente, che contrastano con altre attività che il fruitore sta compiendo. In un progetto di zooantropologia didattica o di pet therapy è pertanto sempre necessario prima di tutto evi-

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denziare le caratteristiche del fruitore (bisogni e criticità), al fine di stabilire gli obiettivi referenziali del progetto e infine scegliere quelle attività che attivano una specifica cornice dimensionale, e in seconda battuta i contenuti referenziali adatti ad assolvere gli obiettivi che ci si è posti. In genere tanto in pet therapy quanto in zooantropologia didattica dopo la valutazione ambientale (dove viene realizzato il progetto) e la valutazione delle caratteristiche del fruitore (bisogni e criticità) si stende un progetto che a fronte dell’esplicitazione degli obiettivi indica quali attività di pet relationship (APR) si dovranno implementare. Le attività si dividono in: a) attività di relazione vere e proprie (APR relazionali) dove è presente concretamente l’animale, b) attività di referenza (APR referenziali) dove si svolgono attività che fanno riferimento all’animale senza che questo sia presente. I progetti di zooantropologia didattica hanno come obiettivo utilizzare i contenuti referenziali a scopo: 1) educativo, ossia favorire i processi formativi del bambino; 2) didattico, ovvero favorire la partecipazione del ragazzo all’attività scolastica; 3) disciplinare, vale a dire migliorare le conoscenze del ragazzo; 4) emendativo, ossia colmare particolari difficoltà di capacità o integrazione del ragazzo. I progetti di pet therapy hanno l’obiettivo di utilizzare i contenuti referenziali per ottenere effetti di: 1) coadiuvazione, vale a dire migliorare efficienza ed efficacia di altri interventi terapeutici; 2) assistenza, ovvero intervenire sui deficit effettivi o percepiti aiutando il paziente; 3) integrazione, ossia migliorare la coniugazione sociale del paziente; 4) benessere, favorire l’espressività globale del paziente. L’analisi dimensionale e l’applicazione dei contenuti referenziali apre una nuova strada di valorizzazione della relazione uomo-animale e la cornice disciplinare offerta dalla zooantropologia permette di uscire dall’empirismo e dall’improvvisazione in questi settori particolarmente importanti e delicati.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Roberto Marchesini Casella postale, 21- 40018 San Pietro in Casale (BO) E-mail: qbioetic@tin.it


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Patologie neurologiche correlate a malattie trasmissibili da zecche e zanzare Massimo Mariscoli Med Vet, Dipl ECVN, Teramo

Da alcuni anni le patologie trasmesse da zecche e zanzare hanno assunto un’importanza sempre maggiore per una più frequente segnalazione di specie e generi di artropodi fino a qualche anno fa assenti nel territorio nazionale o diffusi in aree circoscritte, così come una aumentata prevalenza delle patologie ad esse correlate.

MALATTIE TRASMESSE DA ZECCHE Le zecche sono artropodi ectoparassiti ematofagi obbligati che appartengono alla classe degli aracnidi e all’ordine degli acari. Delle varie famiglie di zecche, due rivestono maggiore importanza nel nostro paese, Argasidae (zecche molli) e Ixodidae (zecche dure). Le zecche comprendono, in Italia, 6 generi: Ixodes, Boophilus, Hyalomna, Rhipicephalus, Dermacentor, Haemaphysalis. Le zecche, fin dagli stadi di larva e di ninfa, sono vettori estremamente efficienti nella trasmissione di un gran numero di agenti patogeni quali virus, rickettsie, batteri e protozoi e possono produrre neurotossine.

Ehrlichiosi Le Ehrlichie appartengono alla famiglia delle Rickettsiaceace e sono parassiti intracellulari obbligati in grado di determinare malattia nell’uomo e negli animali. E. Canis. può causare alterazioni neurologiche in circa un terzo dei soggetti colpiti. Le manifestazioni neurologiche riportate includono segni centrali e periferici quali convulsioni, atassia e paresi associata a disfunzione del motoneurone superiore o inferiore, sindrome vestibolare centrale o periferica, sintomi cerebellari, iperestesia generalizzata o focale associata a cifosi e marcata algia al rachide. In due cani sierologicamente positivi per E. canis sono stati osservati segni riferibili ad una polimiosite quali atrofia muscolare, tetraparesi ad insorgenza acuta e iporiflessia generalizzate. Dal punto di vista diagnostico in soggetti con sintomatologia neurologica l’esame del liquido cefalorachidiano evidenzia un aumento delle contenuto proteico e pleocitosi mononucleare. Occasionalmente nelle cellule mononucleari e nei neutrofili presenti nel LCR si riscontrano le morule. In uno studio condotto su cani deceduti per ehrlichiosi canina nel 96% dei soggetti sono state riscontrate lesioni microscopiche nel SNC,

prevalentemente meningiti plasmacellulari con caratteristica distribuzione perivascolare e meningoencefalite non suppurativa maggiormente distribuita a livello periventricolare e ventralmente nel tronco encefalico.

La febbre maculosa delle montagne rocciose è un’infezione sostenuta da Rickettsia rickettsii, che colpisce il cane e l’uomo. I vettori del microorganismo sono le zecche del genere Dermatocentor. Questi artropodi, oltre ad essere i vettori, sono anche gli ospiti naturali e i serbatoi della malattia.. Una volta penetrate nel corpo dell’ospite tramite il morso della zecca infetta, le Rickettsie vengono disseminate attraverso il sistema circolatorio in vari distretti dell’organismo animale, dove iniziano ad invadere e a replicare negli endoteli delle arteriole e venule. La maggior parte dei segni clinici è attribuibile a vasculite, in particolare a livello di meningi, retina e apparato scheletrico, e/o iperplasia linforeticolare. In corso di infezione da R. rickettsii si possono riscontrare alterazioni neurologiche analoghe a quelle descritte in precedenza per l’Ehrichiosi. I pochi dati esistenti in letteratura riguardo alle alterazioni del LCR in corso di febbre maculosa delle montagne rocciose suggeriscono che differentemente dall’Ehrlichia, nella infezione da Rickettsia la pleocitosi è prevalentemente neutrofilica. L’estensione della reazione infiammatoria dalle pareti dei vasi sanguigni affetti nel sistema nervoso centrale determina una meningite e una encefalite multifocale.

Tick born encephalitis (TBE) È una patologia sostenuta da un virus appartenente alla famiglia dei Flaviviride. Colpisce il cane e l’uomo. Le zecche responsabili della trasmissione della malattia appartengono ai generi Ixodes e Dermatocentor. La malattia è stata segnalata nei cani adulti delle regioni centrali dell’Europa. La sintomatologia clinica insorge nei mesi estivi ed ha un decorso rapidamente progressivo ad esito infausto. La sintomatologia è di tipo multifocale e include alterazioni quali mioclono, convulsioni, emi/tetraparesi, stupore e anisocoria. L’analisi del LCR evidenza pleocitosi mononucleare. Dal punto di vista istopatologico si riscontra meningoencefalite non suppurativa con lesioni predominanti a livello di cervelletto e tronco encefalico.


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Malattia di Lyme

MALATTIE TRASMESSE DA ZANZARE

La malattia è un’affezione multisistemica causata dalla spirocheta Borrelia burgdorferi. Sono colpiti frequentemente l’uomo e il cane. Il ciclo biologico della B. burgdorferi prevede una zecca del genere Ixodites come vettore e piccoli mammiferi o uccelli come ospiti di riserva. Non tutti i cani infetti mostrano sintomatologia clinica che si manifesta in particolar modo nei soggetti giovani che mostrano debolezza spesso accompagnata da febbre, anoressia e linfoadenopatia, artrite a livello delle articolazioni del carpo e del tarso, glomerolonefrite e miocardite. La neuroborreliosi è il risultato dell’infezione dell’encefalo e del midollo spinale da parte delle spirochete, che generalmente si manifesta come meningite linfocitara e/o focale o diffusa encefalomielite. In medicina umana le alterazioni neurologiche possono essere suddivise in encefalomieliti, meningite; neuriti e neuropatie periferiche e poliradicoloneuriti e neuropatie dei nervi cranici come nella neuropatia del nervo facciale. Nel cane la sintomatologia descritta include atassia, convulsioni toniche “persistenti” e iper-riflessia. In Svezia è stata descritta una meningite nel cane attribuita a infezione da B. burgdorferi e simili alterazioni istologiche a carico del sistema nervoso sono stati riscontrati in giovani cani infettati sperimentalmente. Sono stati anche descritte perineurite e raramente neurite con infiltrazione linfo-plasmacellulare in assenza di necrosi vascolare. Le alterazioni riscontrabili nel liquido cefalorachidiano sono caratterizzate da pleocitosi mononucleare e modico aumento delle proteine totali. Il titolo anticorpale risulta più elevato nel LCR rispetto al siero Questo dato è stato interpretato come “evidenza” di una produzione intratecale di immunoglobuline, piuttosto che come una semplice diffusione di anticorpi dal sangue al liquor. La diagnosi nel cane si basa sull’anamnesi di esposizione a zecche nelle aree endemiche, segni clinici compatibili con la patologia, segni laboratoristici compatibili con infezione, esclusione di altre patologie e risposta positiva al trattamento antibiotico con amoxicillina, o cefrizone.

Le zanzare appartengono all’ordine dei Ditteri, sottordine Nematoceri, e costituiscono la famiglia Culicidi. Rivestono interesse veterinario principalmente i generi Anopheles, Aedes, Culex, vettori biologici della Dirofilaria immitis e D. Repens e la famiglia dei Phlebotomidae come vettori biologici della Leishmania spp, agente eziologico della leishmaniosi nel cane e nell’uomo.

Paralisi da zecche

Leishmaniosi

È una disfunzione neuromuscolare conseguente al morso di una zecca appartenete ai generi Dermacentor e Ixodides. Il cane è il più frequentemente colpito dalla malattia, sebbene anche i ruminanti e l’uomo possono manifestare analoga sintomatologia. L’eziologia della patologia probabilmente è legata ad una neurotossina prodotta dalle ghiandole salivari della zecca. L’azione della tossina si esplica probabilmente attraverso l’inibizione del rilascio di acetilcolina. Il quadro clinico esordisce con debolezza degli arti, che rapidamente evolve in tetraplegia. Tipicamente si osserva ipotonia muscolare, iporiflessia, con sensibilità dolorifica normale, mentre nell’uomo si riscontra parestesia.

La leishmaniosi è una malattia parassitaria causata da protozoi del genere Leishmania che colpisce l´uomo e animali selvatici e domestici. I flebotomi, in particolare P. perniciosus, P. perfiliewi e P. major, sono gli insetti ematofagi responsabili della malattia nelle zone endemiche del bacino mediterraneo. Nell´apparato buccale del flebotomo infatti i protozoi si sviluppano e si moltiplicano dando luogo a forme flagellate infettanti (promastigote) che vengono trasmesse all’ospite definitivo durante il pasto di sangue che la femmina compie sulla cute dell’ospite. La tipizzazione isoenzimatica ha permesso di stabilire che la leishmaniosi umana e canina sono entrambe causate da diverse specie e sottospecie di L. infantum.

La filariosi cardiopolmonare (FCP) È una patologia parassitaria causata da Dirofilaria immitis, un nematode appartenente alla famiglia Filaride. I segni neurologici sono piuttosto rari. È riportata l’insorgenza di paresi a seguito di migrazione di una forma larvale aberrante nello spazio epidurale; debolezza degli arti posteriori, parestesia e crisi convulsive nei soggetti affetti da dirofilariosi sistemica arteriosa e tromboembolismo. Le forme parassitarie aberranti possono occasionalmente raggiungere la circolazione cerebrale e determinare un infarto cerebrale associato a sintomatologia neurologica ad insorgenza acuta. Le alterazioni istopatologiche riscontrabili nella fase acuta sono emorragie recenti e necrosi neuronale, le quali vengono in una fase successiva sostituite da cavità cistiche delimitate da astrociti fibrillari In un caso è stata descritta anche una forma di encefalomielite associata a miosite necrotizzante a carico del muscolo quadricipite e gastrocnemio con vacuolozzazione, frammentazione e perdita delle fibre e necrosi associata ad una massiva infiltrazione di neutrofili. Alterazioni neurologiche sono state osservate anche secondariamente al trattamento con melarsomina diidroclorido, un derivato arsenicale utilizzato come adulticida. Sono stati infatti descritti tre casi con manifestazioni neurologiche insorte a breve distanza temporale dalla somministrazione del farmaco nella muscolatura epiassiale lombare. La sintomatologia neurologica comprendeva atassia, paresi, decubito persistente, deficit propriocettivo e delle reazioni posturali negli arti posteriori, alterazioni dei riflessi spinali.


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Nel cane la malattia si presenta nella ben nota forma generalizzata, detta anche viscero-cutanea, mentre le forme localizzate esclusivamente cutanee sono rarissime. I segni clinici piú frequenti da riscontrare sono linfoadenopatia sistemica, lesioni cutanee, dimagrimento, letargia, ipertermia, splenomegalia, insufficienza renale, lesioni oculari, epistassi, artropatie. Le alterazioni sul sistema immunitario quali eccessiva produzione di anticorpi e l’inadeguata risposta cellulomediata determinano immunodepressione e produzione di immunocomplessi, che dal punto di vista clinico si manifestano come vasculiti, poliartriti, ulcerazioni cutanee, uveiti e glomerulonefriti. È stata appurata la presenza di immunoglobuline antileishmania nel liquido cefalorachidiano di cani affetti da forme acute e croniche di leishmaniosi, sebbene i titoli anticorpali siano risultati sensibilmente inferiori a quelli sierici. Tale riscontro è stato interpretato come conseguenza di un’alterata permeabilità della barriera ematoencefalica o come una produzione intratecale di immunoglobuline. Attraverso studi sperimentali condotti sui topi è stata recentemente dimostrata la presenza di macrofagi parassitati da L. amazonensis nel parenchima cerebrale, confermando la capacità di questa specie di attraversare la barriera emato-encefalica e di determinare alterazioni patologiche importanti quali infiltrazione e iperemia delle meningi e necrosi del parenchima cerebrale. È stato inoltre segnalato un caso di leishmaniosi canina in cui le lesioni tipiche decorrevano in associazione a chiari sintomi neurologici quali letargia, paresi e dolore alla palpa-

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zione del rachide cervicale e toracico. L´esame istopatologico ha evidenziato segni di infiammazione meningea cronica caratterizzata da infiltrato linfocitario e plasmacellulare, presenza di cellule polimorfonucleate e soprattutto cellule istiocitarie parassitate. Il coinvolgimento del sistema nervoso periferico in corso di leishmaniosi non è stato segnalato in medicina veterinaria, sebbene in medicina umana sia stata osservata la presenza di infiltrato infiammatorio linfoistocitario nello spazio perineurale e negli assoni dei nervi periferici, associato a forme amastigote nello spazio perineurale così come neuriti granulomatose associate a degenerazione neuronale. In ambito veterinario si stanno approfondendo le conoscenze relative alla capacitá delle Leishmanie di coinvolgere il sistema nervoso e di indurre sintomatologie relative, soprattutto sulla scorta delle segnalazioni riguardanti la specie umana, dove sono state individuate forme amastigote di leishmania nel liquido cefalorachidiano di pazienti con segni clinici riferibili a meningoencefalite.

Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Mariscoli DECVN Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Facoltà di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Teramo Web: www.unite.it Viale F. Crispi, 212 64100 Teramo @mail mariscoli@unite.it


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Applicazioni diagnostiche della colorazione di Oil-Red-O in citopatologia Carlo Masserdotti Med Vet, Brescia

INTRODUZIONE L’utilizzo di colorazioni speciali permette di evidenziare determinate caratteristiche cellulari od extracellulari e si pone come obiettivo quello di perfezionare la diagnosi morfologica. In particolare, la colorazione di Oil-Red-O consente di colorare selettivamente le sostanze lipidiche e conseguentemente fornisce un’interpretazione corretta di strutture vacuolari intracitoplasmatiche e di materiale extracellulare. Il punto di forza dell’applicazione su campioni citologici della colorazione di Oil-Red-O è il fatto che metodi efficaci per colorare le sostanze lipidiche su campioni tissutali sono complessi ed economicamente svantaggiosi; in effetti l’applicazione del metodo di Oil-Red.O sulle sezioni istologiche standard non permette il raggiungimento di tale obiettivo, poiché la processazione del campione, che utilizza numerosi passaggi in alcool, determina la solubilizzazione dei lipidi contenuti nel pezzo anatomico e conseguentemente una resa cromatica nulla. A questo proposito si precisa che l’unica possibilità per colorare efficacemente i lipidi tissutali è fornita da una processazione che prevede l’impiego del criostato. Tale strumento, costoso e complesso da utilizzare, consente di ottenere sezioni istologiche di tessuto congelato; le sezioni possono essere quindi colorate con il metodo Oilred-O, con il metodo Sudan Black o con il metodo Sudan III, benché i risultati qualitativi con queste due ultime metodiche siano inferiori. In tale contesto tecnico l’applicazione della colorazione sul preparato citologico assume importanza fondamentale quando si renda necessario riconoscere la natura lipidica di vacuolizzazioni citoplasmatiche dubbie o di materiale extracellulare, utilizzando contemporaneamente metodi di facile realizzo.

METODO I preparati citologici, allestiti secondo le tecniche in uso, devono essere fissati all’aria. Successivamente, evitando tassativamente passaggi in fissativi alcoolici, i campioni vengono sottoposti alla colorazione, secondo il metodo proposto da Johnson, applicando sulla superficie del vetrino una soluzione di Oil-Red-O miscelata con un buffer in diluizione 1:0,6. La soluzione viene lasciata agire sul materiale per circa 10 minuti, dopodiché si procede al lavaggio del vetrino con acqua corrente. Il campione viene quindi ricoperto per circa 1 minuto con alcune gocce di emallume, con l’intento

di ottenere il contrasto nucleare. Infine si procede a risciacquo, ad asciugatura e a montaggio del campione, utilizzando per quest’ultima operazione il montante acquoso Crystal Mount®, che permette la conservazione delle caratteristiche cromatiche del metodo.

Validazione del metodo Sono state condotte, presso la sezione di Istopatologia e Citopatologia Diagnostica del Laboratorio Biodiversity, una serie di valutazioni sperimentali, che hanno consentito di inquadrare correttamente l’effettiva efficacia della colorazione di Oil-Red-O su allestimenti citologici, ed hanno permesso di individuare i limiti di applicazione e di ottimizzare il metodo. Validazione della colorazione per il materiale lipidico: per verificare l’effettiva risposta cromatica dei lipidi all’OilRed-O sono stati analizzati strisci citologici di materiale ottenuto da frustoli di tessuto adiposo, che hanno fornito risultati di intenso cromatismo rosso-aranciato del materiale lipidico. Alcune porzioni dello stesso tessuto sono state sottoposte a criocongelamento ed all’esecuzione di tagli eseguiti al criostato di sezioni di 4 µm di spessore, su cui è stata eseguita la colorazione di Oil-Red-O, ottenendo anche in questi casi intenso cromatismo rosso-aranciato brillante del citoplasma degli adipociti; altre porzioni sono state infine fissate in formalina, processate ed allestite come sezioni istologiche standard, ottenendo campioni di tessuto morfologicamente riconoscibili come tessuto adiposo normoconformato. Ottimizzazione del metodo: oltre alla colorazione specifica con Oil-Red-O, abbiamo utilizzato un colorazione, per il contrasto del materiale nucleare, tramite immersione in ematossilina, anziché apposizione di gocce di emallume sull’allestimento, come suggerito dal metodo secondo Johnson. Il risultato è l’ottenimento di cromatismo rosso per il materiale lipidico e cromatismo blu per il nucleo, anziché color magenta. L’accorgimento permette di ottenere un contrasto migliore del profilo nucleare e del materiale cromatinico. Limiti: sono rappresentati prevalentemente dall’estrema suscettibilità del materiale colorato a qualunque reagente alcoolico ed all’impossibilità di osservare l’allestimento con olio da immersione, senza prima aver sottoposto il campione a metodi di conservazione e montaggio tramite mezzi acquosi. Per ovviare alla completa perdita del cromatismo rosso del materiale lipidico, i campioni da noi analizzati sono stati sottoposti a montaggio preliminare in Crystal Mount® e,


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dopo asciugatura per almeno 24 ore a temperatura ambiente, a montaggio definitivo con balsamo di Eukitt e vetrino coprioggetto. I tempi di lavorazione del materiale citologico non sembrano influenzare il risultato finale, benché si osservi tendenza alla degenerazione del materiale lipidico dopo 48 ore dall’allestimento.

Applicazione del metodo L’utilizzo del metodo trova impiego nella dimostrazione della natura lipidica di vacuolizzazioni citoplasmatiche e di materiale extracellulare. In particolare il suo utilizzo è stato applicato alle seguenti condizioni patologiche: - Pannicolite. Processi flogistici a carico del tessuto adiposo sottocutaneo sono eventi frequenti e determinati da varie cause. L’indagine citologica permette di rilevare caratteristiche morfologiche significative, rappresentate dalla presenza di abbondante materiale lipidico in gocciole grossolane distribuito sul fondo dell’allestimento, in associazione a proliferazione infiammatoria di tipo granulocitario neutrofilico e istiocitario/macrofagico. Le cellule infiammatorie sono caratterizzate dall’attività di fagocitosi del materiale lipidico, espressa dalla presenza di microvacuolizzazioni citoplasmatiche Oil-Red-O positive. - Lipidosi epatica. Nella classificazione dei disordini degenerativi vacuolari dell’epatocita, la lipidosi è descritta citologicamente dalla presenza di micro o macrovacuolizzazioni citoplasmatiche Oil-Red-O positive. - Adenoma sebaceo. È una frequente condizione neoplastica cutanea, citologicamente non distinguibile dall’iperplasia ghiandolare sebacea, rappresentata dall’esfoliazione di aggregati coesivi di sebociti, caratterizzati da citoplasma microvacuolizzato, OilRed-O positivo, e nucleo rotondo ipercromatico. La positività alla colorazione è presente anche in neoplasie quali l’epitelioma sebaceo, dove la differenziazione vacuolare citoplasmatica è morfologicamente meno ovvia. - Liposarcoma. Sono stati indagati con la colorazione Oil-Red-O allestimenti citologici provenienti dall’agoaspirazione di liposarcomi, successivamente confer-

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mati dall’analisi istopatologica. In tutti i casi le vacuolizzazioni irregolari citoplasmatiche sono risultate positive alla colorazione; tale rilievo non è considerato tuttavia patognomonico della neoplasia, poiché vacuolizzazioni riscontrate in corso di altre neoplasie mesenchimali, quali l’emangiopericitoma, sono risultate variabilmente positive alla colorazione. Attualmente sono allo studio i riscontri alla colorazione di altre condizioni patologiche, quali le neoplasie surrenaliche, le neoplasie testicolari, le patologie pancreatiche, i versamenti chilosi e le alterazioni degenerative vacuolari dell’epitelio di transizione.

CONCLUSIONI La colorazione di Oil-Red-O trova ampio riscontro in citologia come mezzo semplice, rapido ed economico per dimostrare la natura lipidica delle vacuolizzazioni citoplasmatiche e di materiale extracellulare e fornisce un supporto diagnostico nell’indagine di numerose patologie. Sono necessari approfondimenti ulteriori ed estensione del metodo ad un numero maggiore di campioni, per individuare tutte le potenzialità di questa colorazione nel fornire informazioni utili alla gestione clinica.

Bibliografia F.B. Johnson. Lipids, in E.B. Prophet, J.B.Harrington, L.H. Sobin. Laboratory Methods in Histotechnology, Washington, DC, American registry of Pathology; 1992:177. H.J. Conn’s. Biological Stains, Ninth Edition, R.D. Lillie, Editor, The Williams & Wilkins Co., 1977. R.W. Horobin, J.A. Kiernan. Conn’s Biological Stains: A Handbook of Dyes, Stains and Fluorochromes for Use in Biology and Medicine, Bios Scientific Pub Ltd, 2002.

Indirizzo per la corrispondenza: Carlo Masserdotti Laboratorio Biodiversity - Divisione Veterinaria Via Corfù n° 71, 25124 Brescia Tel. 030/221095 e-mail: veterinaria@biodiv.it


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Impianti spinali AO per la Sindrome di Wobbler nel cane Ulrike Matis Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania

Per il trattamento dei cani con sindrome di Wobbler, in particolare quelli con degenerazione discale e conseguente ipertrofia dell’anello fibroso, sono state utilizzate con successo parecchie tecniche di trazione-mobilizzazione. Questi metodi prevedono il ricorso ad una tecnica basata sull’impiego di una vite ed una doppia rondella, l’uso di un tappo di polimetilmetacrilato fra i corpi vertebrali, o placche spinali polivinilidiniche, chiodi di Steinmann più cemento osseo metilmetacrilato e barre di Harrington. Gli svantaggi consistono nella possibilità che l’impianto penetri nel canale spinale, nell’insufficiente stabilizzazione che richiede un supporto esterno, nel cedimento dell’impianto e nell’aumento dello stress a livello degli spazi intervertebrali adiacenti, che favorisce l’insorgenza di lesioni secondarie (“effetto domino”)1,11. La maggior parte di questi svantaggi può essere superata utilizzando il Syncage-C e la Cervical Spine Locking Plate (CSLP) progettati dall’AO per il trattamento delle instabilità spinali cervicali nell’uomo. Procedura: il paziente viene posizionato in decubito dorsale con il torace ed il collo sollevati ed estesi, sopra un vello arrotolato o un apparato di sostegno rigido (sotto vuoto) e fissato al tavolo per evitare i movimenti laterali. Si garantisce libero accesso ad un braccio a C. L’uso di un intensificatore di brillanza risulta molto utile per visualizzare la colonna vertebrale cervicale in proiezione laterolaterale mentre si prepara lo spazio intervertebrale e si applicano gli impianti. Con gli arti anteriori estesi caudalmente, le metafisi prossimali di entrambi gli omeri risultano facilmente accessibili per il prelievo di osso spongioso. Dopo una esposizione ventrale lo spazio discale intervertebrale collassato viene fenestrato e scostato utilizzando un divaricatore di Caspar. La divaricazione del segmento è essenziale per alleviare la compressione del midollo spinale e delle radici nervose attraverso lo stiramento dell’anello fibroso e l’ampliamento dei fori. Inoltre, assicura un buon accesso allo spazio intervertebrale per la successiva rimozione del materiale discale rimanente ed una ottimale preparazione delle placche terminali. Lo strato cartilagineo viene accuratamente rimosso dalle placche terminali vertebrali; ciò risulta importante per l’apporto vascolare all’innesto osseo. Tuttavia, è necessario evitare una pulizia eccessiva, perché l’osso corticale al di sotto dello strato cartilagineo aumenta la resistenza allo sprofondamento degli impianti nelle vertebre adiacenti. In commercio si trovano gabbie curve ed a forma di cuneo di 4 dimensioni differenti (4,5, 5,5, 7,0 ed 8,5 mm),

che corrispondono all’anatomia individuale ed alla preparazione della placca terminale craniale. Entrambi i tipi di Syncage facilitano il ripristino dello spazio discale naturale e della normale lordosi. Prima dell’impianto, è necessario rimuovere dallo spazio intervertebrale ogni eventuale osteofita, per ottenere una decompressione completa delle strutture nervose. Per determinare il tipo e le dimensioni del Syncage appropriato, si utilizzano degli impianti di prova a codice di colore. A questi ultimi viene fissato con una vite uno speciale “manico”, in modo che il suo lato craniale corrisponda al lato craniale dell’impianto di prova. Con il segmento in distrazione completa, l’impianto di prova deve adattarsi strettamente ed accuratamente fra le placche terminali, in modo da massimizzare la stabilità del segmento attraverso la tensione nel legamento longitudinale e nell’anello fibroso. Infine, si sceglie il Syncage-C corrispondente, montato sul manico, zaffato con osso spongioso autogeno e inserito nel segmento scostato. Se necessario, l’impianto viene spinto con delicati colpi di martello nello spazio discale. Anche lo spazio intorno all’impianto deve essere colmato con materiale osseo aggiuntivo. Prima di rimuovere il divaricatore e il manico, si verifica con l’intensificatore di brillanza la posizione della gabbia in relazione ai corpi vertebrali. Nei cani troppo piccoli per accettare i Syncage, si può utilizzare come spaziatore intervertebrale un tappo in polimetilmetacrilato. Qui, la preparazione delle placche terminali prevede la realizzazione di pochi fori con il trapano per aumentare l’interfaccia fra osso e cemento. In entrambe le tecniche, la fissazione interna va assicurata utilizzando una Cervical Spine Locking Plate (CSLP). Questa placca a forma di H si trova in due differenti dimensioni e lunghezze, da 24 e 92 mm. Viene fissata alle vertebre utilizzando delle viti con testa ad espansione monocorticale convergenti. Quando si sceglie la placca di dimensioni adatte, è necessario tenere presente che i dischi intervertebrali della regione del collo sono leggermente inclinati in senso ventrocaudale-dorsocraniale. Le viti devono restare completamente nel corpo vertebrale e non penetrare nei dischi intervertebrali. Una valida serie di strumenti assicura un’interpretazione affidabile. I chiodi da fissazione temporanea consentono di prevenire il movimento della placca durante la realizzazione dei fori con il trapano e l’inserimento della vite. Il meccanismo di espansione di una speciale guida da trapano autostatica blocca la placca e consente di realizzare senza ri-


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schi il foro nella direzione corretta. Per evitare la penetrazione nel canale spinale si utilizzano delle punte da trapano con un arresto di sicurezza. Il sistema di viti con testa ad espansione blocca le viti monocorticali ad un determinato angolo del foro della placca. Sino ad oggi, sono stati trattati 8 cani di peso compreso fra 20 e 58 kg che presentavano una discopatia degenerativa dinamica a livello di C2-3 (n = 1), C5-6 e/o C6-7 (n = 7) utilizzando gli impianti spinali cervicali AO/ASIF. Nel primo cane, lo status neurologico si è deteriorato 3 giorni dopo l’intervento. Era stata effettuata una trazione-fissazione utilizzando soltanto il Syncage-C. La gabbia si era spezzata ed era migrata determinando la recidiva dell’instabilità. L’impianto è stato sostituito e rinforzato con la Cervical Spine Locking Plate, che ha consentito di ottenere una rapida guarigione. Gli altri 7 cani sono stati stabilizzati primariamente utilizzando la Cervical Spine Locking Plate, 6 in associazione con un Syncage-C ed 1 con un tappo di cemento osseo. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una nuova valutazione clinica e radiografica dopo un periodo medio di 11 (da 2 a 21) mesi dopo l’operazione. Anche se sono necessarie ulteriori esperienze, i nostri risultati preliminari sono incoraggianti e depongono a favore dell’uso dei sistemi spinali cervicali AO/ASIF per il trattamento della sindrome di Wobbler nel cane. Per mantenere la stabilità e ridurre al minimo la mobilità postoperatoria non è necessario un supporto esterno. L’affidabilità e la sicurezza giustificano i costi proporzionalmente elevati dell’impianto.

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Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5.

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Vet Fix per il trattamento delle fratture nei piccoli animali Ulrike Matis Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania

Il sistema CRIF, anche noto come VetFix, è stato sviluppato dall’AO Institute come fissatore interno adatto in particolare alla riparazione delle fratture nei piccoli e grandi animali. È costituito da barre rotonde di acciaio inossidabile che sono sagomate ed avvitate all’osso utilizzando speciali pinze che vengono fatte scivolare sulla barra portandole in qualsiasi posizione si desideri. Serrando le viti, i morsetti vengono compressi fissandoli saldamente alla barra ed unendo il sistema all’osso. Le dimensioni dei morsetti corrispondono alle convenzionali viti da osteosintesi standard da 2,0, 3,7, 3,5 e 4,5/5,5 mm e i diametri delle barre variano da 2 a 3, 5 ed 8 mm. Inoltre, sono stati sviluppati morsetti terminali e morsetti emergenti, nonché strumenti speciali come le guide per il trapano, le pinze e una pressa per curvatura. L’applicazione dell’impianto VetFix e degli strumenti è stata esaminata in vivo ed in modelli ossei4. Altri studi hanno determinato i parametri biomeccanici del VetFix 4,5/5,5 per grandi animali1,2,3. Estesi studi biomeccanici condotti sul sistema CRIF per piccoli animali hanno dimostrato che le proprietà meccaniche di questo sistema di impianto sono paragonabili a quelle delle placche convenzionali5. Sulla base dei risultati di questo confronto biomeccanico, il CRIF è stato sinora applicato presso la clinica di chirurgia veterinaria dell’Università di Monaco in 50 cani e 70 gatti con fratture chiuse (n = 93) ed esposte (n = 10) trasversali, oblique e comminute nonché non unioni (n = 14) di femore, tibia, omero, acetabolo, radio, scapola ed ulna. Inoltre, il sistema è stato utilizzato per la riparazione di fratture/lussazioni della colonna vertebrale (n = 3)6. Il posizionamento dei pazienti e l’approccio chirurgico sono stati scelti in accordo con gli standard per l’osteosintesi con placca. Dopo la riduzione della frattura, è stata determinata la lunghezza necessaria della barra, tagliandola da una lunga barra rotonda servendosi di una trancia o un tagliafili. Per il corretto adattamento del sistema all’osso, la barra è stata sagomata con l’aiuto di una pressa di curvatura. Poi, di solito sono stati fatti scivolare tre morsetti sulla barra da entrambe le estremità. Prima di connetterli alla barra, i morsetti sono stati leggermente allargati utilizzando un paio di pinze o di forbici. I fori per le viti per i due morsetti situati vicino all’estremità della barra sono stati preparati preventivamente utilizzando delle convenzionali guide da trapano e le viti sono state introdotte e serrate. Solo a questo punto le altre viti sono state poste e strettamente serrate fino a che le flange dei morsetti non sono state portate in compressione. Di solito era possibile

ottenere una sutura della ferita senza tensioni anche nelle aree caratterizzate da una scarsa copertura di tessuti molli, come il radio e la tibia. Dopo un periodo medio di 5 mesi (con estremi variabili fra 6 settimane e 3 anni), 45 cani e 55 gatti trattati con il sistema CRIF sono stati rivalutati clinicamente e radiograficamente. In 75 pazienti (75% del totale) si era ottenuta una guarigione della frattura senza rilievi degni di nota. In 10 casi (10%) i riscontri sono stati effettuati soltanto 6 settimane dopo l’intervento e la guarigione della frattura non era ancora completa. Su un totale di 15 complicazioni (15%), 5 poterono essere risolte con la sola limitazione dell’esercizio fisico, mentre in altri 6 pazienti è stato necessario rimpiazzare il CRIF. Un paziente ha dovuto essere soppresso eutanasicamente a causa di una situazione neurologica sfavorevole e nei restanti tre animali con complicazioni non è stato possibile alcun followup. Contando le guarigioni avvenute senza rilievi degni di nota e senza complicazioni e con risultati almeno buoni, 86 pazienti (86%) hanno mostrato una guarigione completa della frattura. Come versione semplificata di sistemi analoghi derivati dalla chirurgia spinale umana, il CRIF offre una variabilità di lunghezza paragonabile alle placche tagliabili per uso veterinario ed anche alle placche da ricostruzione. In contrasto con gli altri sistemi, le superiori caratteristiche di rigidità del CRIF assicurano un buon sostegno persino alle fratture comminute delle ossa lunghe. Questo metodo offre delle notevoli proprietà di sagomatura, che lo rendono adatto alle ossa curve. Oltre a ciò, non deve essere adattato perfettamente all’osso dal momento che i morsetti, che possono essere divaricati liberamente, possono compensare una sagomatura insufficiente. Questa proprietà permette un trattamento delle fratture delle ossa lunghe con un’invasività minima mediante brevi incisioni a livello delle estremità prossimale e distale. La libera disposizione delle viti su entrambi i lati lungo la barra è particolarmente vantaggiosa. Gli assi delle viti possono essere inclinati quasi fino a 90° l’uno rispetto all’altro. Quindi, è possibile fissare saldamente persino brevi frammenti e le viti possono essere posizionate anche in aree fessurate. Nei casi in cui è necessario ottenere un aumento della stabilità, è possibile applicare due barre CRIF di dimensioni uguali o differenti l’una accanto all’altra. In seguito, rimuovendo una delle due barre, si ottiene la dinamizzazione e si evita un’eccessiva protezione dalle sollecitazioni.


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Il CRIF è in linea con il concetto moderno di osteosintesi biologica: la ridotta area di contatto, limitata soltanto alla superficie dei morsetti, consente il mantenimento di un valido apporto ematico al periostio, il che rende questo tipo di impianto superiore alle placche convenzionali. Il sistema consente di ottenere la fissazione e di preservare in modo eccellente i tessuti molli che circondano la regione della frattura accentuando la rapidità della guarigione e della convalescenza. In conclusione, si può affermare che il CRIF soddisfa tutti i requisiti di un impianto per uso veterinario: lunghezza variabile, rigidità regolabile, fissazione sicura di piccoli frammenti grazie alla breve distanza fra le viti, idoneità all’impiego con viti da osteosintesi standard di differenti dimensioni e convenienza economica in termini di stoccaggio ed uso. Sulla base dei risultati ottenuti sinora, si può raccomandare senza alcuna restrizione la produzione commerciale di questo sistema.

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Bibliografia 1. 2.

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Analisi computerizzata dell’andatura nei piccoli animali Ulrike Matis Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania

L’analisi computerizzata dell’andatura si è dimostrata un metodo valido per valutare l’esito degli interventi chirurgici e medici nelle affezioni ortopediche. Le tecniche basate sull’impiego di piastre di forza e sull’analisi computerizzata del movimento sono quelle che forniscono i maggiori risultati per lo studio della cinetica e della cinematica in medicina veterinaria.

Analisi con piastra di forza L’analisi delle forze di reazione al suolo durante l’andatura nei quadrupedi richiede la determinazione simultanea delle forze che agiscono su tutte le aree in contatto con il suolo. Nel cane, le forze di reazione al suolo pubblicate sinora sono state registrate principalmente mediante piastre di forza che erano inserite nel terreno. Tuttavia, queste misurazioni necessitano di molto tempo. Al cane può venire richiesto di attraversare la piattaforma fino a 5 volte prima di ottenere una registrazione valida. La velocità non può essere mantenuta costante e la misurazione di tutte e quattro le estremità contemporaneamente – un requisito per la diagnosi di un processo patologico – risulta impossibile. Al fine di superare questi svantaggi, presso il Dipartimento di chirurgia veterinaria di Monaco viene utilizzato un treadmill attrezzato. Questo strumento consente di misurare molteplici cicli di andatura, rilevando così un gran numero di misurazioni in un breve arco di tempo. Contiene 4 piastre di forza separate, dotate ciascuna di 4 trasduttori di forza di Kistler tridimensionali. Due motori sincronizzati muovono due cinghie sopra le piastre di forza (con un coefficiente di frizione fra cinghie e piastre noto). La velocità delle cinghie viene controllata accuratamente ed in modo molto sensibile da parte dei momenti motori. Questi sono misurati simultaneamente ed utilizzati per il calcolo delle forze di taglio anteroposteriori, in associazione con le forze misurate dalle piastre. Quando l’animale cammina sul treadmill ad una data velocità, le forze di reazione tridimensionali al suolo attive a livello di ciascuno degli arti e le forze di taglio trasmesse alla cinghie vengono misurate con una frequenza di campionamento di 500 Htz e filtrate digitalmente a 50 Htz. La distribuzione delle forze di taglio alle piattaforme dovuta ai momenti dei motori viene effettuata in relazione alla componente di forza verticale.

Analisi cinematica dell’andatura L’analisi cinematica dell’andatura fornisce la posizione e l’orientamento dei diversi segmenti degli arti in funzione del tempo. I dati vengono ottenuti registrando la posizione di un certo numero di riferimenti applicati sui vari arti con tecniche video tridimensionali. Presso il laboratorio di analisi dell’andatura di Monaco, per filmare l’andatura del cane da tutti i lati sono disponibili 9 videocamere sincronizzate e con possibilità di genlock (accettazione di un segnale di riferimento esterno), che operano a 50 Hz (50 campi per secondo). I marcatori vengono posti in diverse sedi sul corpo dell’animale, che corrispondono a strutture anatomiche e/o orientamenti dei vari segmenti ed il movimento di ciascuno di questi marcatori viene rilevato e registrato da almeno due videocamere, consentendo così una ricostruzione tridimensionale dei dati. Per questo scopo, si utilizza la tecnica di trasformazione lineare diretta. Le informazioni video vengono immagazzinate in videoregistratori industriali (Panasonic®) che consentono una risoluzione di 400 linee. Tale risoluzione è risultata sufficiente per la ricostruzione tridimensionale di punti di riferimento in uno spazio inferiore a 1,5 x 1 x 1 m. L’analisi dei dati viene eseguita con il sistema di analisi del movimento SIMI®. Tale sistema trasmette ciascuna sequenza di ripresa ad un computer attraverso una scheda video. Dopo che ciascun punto di riferimento è stato identificato su ciascuna ripresa delle videocamere e tracciato per l’intero ciclo dell’andatura, l’impiego della tecnica DLT consente una ricostruzione tridimensionale. Questi dati grezzi vengono poi filtrati utilizzando un filtro Butterworth di second’ordine ad una frequenza di cutoff di 5-6 Hz. Sulla base delle coordinate spaziali dei punti di repere vengono definiti dei sistemi di coordinate dei centri articolari e dei segmenti degli arti. Per la valutazione clinica, lo studio della cinematica bidimensionale fornisce sufficienti dati angolari, come l’escursione del movimento e la velocità angolare. Per questo scopo, si effettua simultaneamente la valutazione bilaterale. L’analisi dei dati cinematici sincronizzati in una curva della forza in funzione del tempo permette una definizione esatta delle fasi di appoggio e di oscillazione. Ad esempio, l’inizio della fase di appoggio degli arti posteriori coincide con la massima flessione dell’anca e precede immediatamente la massima estensione del ginocchio e il primo picco dell’estensione del garretto. Quest’ultimo presenta due picchi; uno più piccolo, appena dopo il punto di contatto, ed uno più alto, nel punto di sollevamento. Durante la fase di


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appoggio, si verifica un aumento della flessione del ginocchio, una flessione temporanea del garretto ed un’estensione continua dell’anca. Verso la fine della fase di appoggio, la propulsione anterograda viene evidenziata dall’estensione di tutte e tre le articolazioni e il punto di sollevamento si trova appena dopo che l’estensione ha raggiunto il massimo.

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torio di analisi dell’andatura deve quindi scegliere i dati più importanti e servirsi del laboratorio per accrescere le proprie capacità di percezione e di precisione nella valutazione della funzione muscoloscheletrica4,11.

Bibliografia Studi clinici Dopo l’attivazione del laboratorio di analisi dell’andatura, presso il Dipartimento di Chirurgia Veterinaria di Monaco sono stati portati a termine 6 studi. Due indagini hanno documentato: a) l’andatura al passo in cani pastore tedesco sani11 e b) lo schema dell’andatura di 4 differenti artropatie in cani con il fenotipo del pastore tedesco5

1.

2.

3. 4.

Quattro studi clinici hanno riguardato la valutazione del cane: c) dopo escissione della testa e del collo del femore7,8 d) dopo sostituzione totale dell’anca6 e) dopo un programma di riabilitazione successivo a riparazione del legamento crociato anteriore2 f) dopo osteotomia di livellamento del plateau tibiale, valutando l’efficacia clinica di un FANS, il Tepoxalin1.

5.

6.

7.

8.

Conclusione Le tecniche cinetiche e cinematiche permettono di identificare differenze molto piccole fra i vari gruppi. Ciò generalmente accresce il valore scientifico di uno studio; tuttavia, è importante che differenze statisticamente significative vengano valutate accuratamente con riferimento alla loro importanza biologica9,10. L’osservatore umano nell’analisi dell’andatura non è così efficiente ed accurato come le moderne apparecchiature utilizzate per le misurazioni dei diversi schemi di andatura. Allo stesso tempo, questi ultimi sono assolutamente in grado di inondare il ricercatore con enormi quantità di dati irrilevanti. L’operatore umano di un labora-

9.

10.

11.

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Gestione delle fratture nel gatto Ulrike Matis Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania

I principi del trattamento delle fratture nel gatto sono gli stessi degli altri animali. Esistono soltanto poche differenze anatomiche e fisiologiche di notevole importanza; tuttavia, non sarebbe saggio considerare il gatto un piccolo cane. I felini traumatizzati spesso mostrano lesioni multiple che precludono il ricorso all’anestesia e ritardano il trattamento della frattura. La gestione di un gatto traumatizzato richiede particolare attenzione, perché questi animali sono maggiormente suscettibili allo stress e tendono a sviluppare grave ipotermia in stato di shock. Quando si stabiliscono i protocolli terapeutici, bisogna stare molto attenti al possibile sviluppo di edema polmonare in risposta ad eccessivi carichi di fluidi, in particolare in caso di lesioni polmonari, che sono più frequenti nel gatto che nel cane. I vantaggi del gatto come paziente fratturato sono dati dal fatto che questi animali generalmente pesano meno e sono più agili dei cani. Rispetto a questi, inoltre, possiedono una migliore capacità funzionale di compensare le lesioni che potrebbero invece impedire il movimento. Nei felini le deformazioni della crescita sono rare e l’accorciamento degli arti dovuto al ritardo dell’accrescimento o alla perdita di osso è difficile da vedere, dal momento che i gatti mostrano un’andatura più accovacciata e sono in grado di compensare l’accorciamento dell’arto aumentando la copertura degli angoli articolari. In confronto alle ossa del cane, quelle feline sono meno angolari e con un diametro della cavità midollare più uniforme. Quindi, molte fratture delle ossa lunghe possono essere stabilizzare ricorrendo ad un chiodo endomidollare. Gli svantaggi delle fratture nei felini dipendono dall’elevata incidenza di fratture comminute, dal momento che le ossa del gatto sono più fragili. Presentano corticali sottili che vengono facilmente fessurate o fratturate dagli strumenti utilizzati per afferrare le ossa ed offrono una minor presa agli impianti. D’altra parte, molti gatti non tollerano bene l’immobilizzazione esterna. La necessità di aumentare la vigilanza per monitorare le complicazioni dell’ingessatura è motivo di notevole stress per questi animali. Di conseguenza, la terapia conservativa viene spesso abbandonata in favore della stabilizzazione chirurgica. Nella maggior parte dei casi le fratture e dislocazioni spinali riguardano le vertebre della zona lombare inferiore, sacrale e coccigea. È necessario effettuare un accurato esame clinico e neurologico, dal momento che le funzioni del tratto distale dell’intestino, dell’ano, della vescica e degli arti posteriori possono essere compromesse. Come nel cane, per consentire la visualizzazione e la decompressione del

midollo spinale può essere necessaria la (emi)laminectomia. Le ridotte dimensioni delle vertebre del gatto domestico limitano il tipo di fissazione che si può applicare. Di conseguenza, i chiodi di piccole dimensioni ed i fili metallici sono generalmente più versatili delle placche per la stabilizzazione spinale10. Le fratture della scapola sono rare e relativamente stabili perché i frammenti ossei sono immobilizzati fra i muscoli. La chirurgia è indicata soltanto nelle fratture con dislocazione del collo della scapola ed in quelle del glenoide, se i frammenti sono abbastanza grandi da offrire una presa agli impianti. Per la fissazione delle fratture del collo si utilizzano miniplacche a T o a L. I fili di Kirschner o le viti di piccole dimensioni possono contribuire a tenere in posizione i frammenti articolari. Le fratture dell’omero si verificano più frequentemente nella metà distale dell’osso e possono coinvolgere il condilo. Quelle semplici della diafisi portano di per sé all’immobilizzazione mediante chiodo endomidollare. Le fratture con instabilità rotazionale richiedono l’impiego combinato di fili da (emi)cerchiaggio e steccatura con un emichiodo percutaneo, rispettivamente. Il modo migliore per stabilizzare le fratture comminute della diafisi può essere rappresentato dall’impiego del VetFix o di una placca con viti. Questa viene fissata cranialmente o lateralmente quando la frattura è localizzata nel terzo prossimale; se decorre nella parte centrale dell’osso, la placca può essere fissata alla superficie laterale o mediale, mentre nelle fratture distali si preferisce una fissazione mediale. Una differenza importante rispetto al cane è data dal fatto che, nel gatto, il nervo mediano decorre attraverso il foro sopracondiloideo, prossimalmente all’epicondilo mediale, e deve essere liberato rimuovendo la parete mediale del foro con un paio di pinze ossivore per fissare la placca sotto il nervo. La maggior parte delle fratture che coinvolgono l’articolazione del gomito è di natura bicondilare (a T ed a Y). L’approccio mediale generalmente offre un’esposizione sufficiente per la ricostruzione. Tuttavia, nelle fratture comminute può essere necessario l’approccio transolecranico. Si ripara per prima la componente condilare, utilizzando una piccola (1,5 o 2,0 mm) vite da corticale. Per unire nuovamente i condili alla diafisi dell’omero sono stati impiegati vari metodi. In presenza di brevi segmenti distali, si possono utilizzare dei fili di Kirschner incrociati, altrimenti si preferisce ricorrere alla fissazione mediante placca da osteosintesi. A seconda della stabilità necessaria, per l’omero del gatto risultano adatte le placche DCP 2,0, quelle pieghevoli 1,5 o 2,0 o le DCP 2,711.


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Le fratture dell’avambraccio di solito interessano entrambi gli arti e sono principalmente localizzate a livello del terzo medio e del terzo distale dell’avambraccio stesso. Le fratture della diafisi non dislocate e quelle con dislocazione minima sono particolarmente adatte all’applicazione di un’ingessatura o una stecca. Nei casi in cui il paziente è poco disposto ad accettare questi mezzi di immobilizzazione si deve preferire il fissatore interno. Nella maggior parte dei casi è sufficiente stabilizzare il solo radio; tuttavia, quando la frattura di quest’ultimo è comminuta, si può riparare solo l’ulna. In confronto al cane, nel gatto sono possibili maggiori movimenti di pronazione e supinazione dell’avambraccio e dell’estremità distale dell’arto. Nei felini con fratture, la fissazione del radio o dell’ulna da soli ha meno probabilità di determinare un’immobilizzazione stabile dell’osso adiacente. Per la stabilizzazione del radio, è preferibile servirsi delle mini-DCP con viti da 2,0 mm. Le fratture dell’ulna sono suscettibili di stabilizzazione mediante chiodi endomidollari. Se è coinvolta l’incisura trocleare, è necessario utilizzare un altro cerchiaggio di tensione in filo metallico. Nelle fratture dell’ulna con dislocazione dell’articolazione radio-omerale (frattura di Monteggia), può essere necessario sostituire il legamento dell’animale utilizzando una sega circolare. Le fratture prossimali del radio e dell’ulna richiedono spesso la riparazione di entrambe le ossa. È necessario prestare molta attenzione alla tumefazione dei tessuti molli. I gatti sono maggiormente esposti al rischio di sindrome compartimentale a livello delle estremità distali degli arti. Di conseguenza, la fascia profonda non deve essere chiusa dopo la riparazione della frattura. Nei casi trattati in modo conservativo in cui la tumefazione persiste, può essere indicata una fasciotomia longitudinale con miotomia, per evitare la necrosi della zampa2. Le fratture del carpo non sono comuni nel gatto, a differenza di quelle del metacarpo, che di solito derivano da una caduta o da una lesione da schiacciamento. La fissazione interna si ottiene facilmente con piccoli chiodi endomidollari che vengono affondati nella cavità midollare. In questo modo, è possibile evitare qualsiasi interferenza con tendini ed articolazioni metacarpofalangee. La stessa tecnica può essere usata per stabilizzare le fratture del metatarso6. Le fratture del tarso sono frequenti nel gatto, specialmente a livello dell’astragalo. I migliori risultati si ottengono con la ricostruzione della superficie articolare. Nelle fratture multiple, si deve optare per la fissazione percutanea del tarso, con l’articolazione del garretto immobilizzata in flessione a 100°. Nei felini, l’artrodesi primaria è raramente necessaria e viene effettuata preferibilmente con una piccola placca fissata cranialmente. Le fratture calcaneali e malleolari vengono trattate preferibilmente con la tecnica del cerchiaggio di tensione3,13,14. Fra quelle esposte, l’incidenza più elevata è data dalle fratture della diafisi della tibia e della fibula. Molte di queste sono difficili da trattare nel gatto a causa del danneggiamento dei tessuti molli e dell’apporto vascolare dell’osso; inoltre, queste lesioni sono spesso altamente comminute e difficili da stabilizzare. Nelle fratture esposte di terzo grado, è indicata la fissazione esterna. Le fratture a legno verde sono stabili e vengono trattate con successo applicando un’in-

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gessatura o una steccatura. Anche le fratture lunghe oblique e spirali senza distruzione della cute possono essere trattate in modo conservativo o utilizzando fili di (emi)cerchiaggio e un chiodo endomidollare. Nelle fratture tibiali segmentali e multiple – lesioni comuni nel gatto – si raccomanda l’applicazione di placche biologiche. Quelle più comunemente utilizzate sono le DCP da 2,7mm e quella tagliabili da 1,5 o 2,0 mm. Quando si utilizza la placca tagliabile, se la rigidità costituisce motivo di preoccupazione, è possibile disporre due placche una sull’altra per aumentare la robustezza. Per le fratture tibiali che decorrono in prossimità della fisi prossimale o attraverso di essa, i fili di Kirschner assicurano una stabilità sufficiente5. Le fratture della rotula vengono diagnosticate raramente nel gatto. Le avulsioni della punta distale possono essere rimosse. Quando queste fratture sono associate alla distruzione del meccanismo del quadricipite, è indicata la fissazione interna. Per il mantenimento della riduzione si utilizzano piccoli chiodi in associazione con un cerchiaggio di tensione in filo metallico. Per immobilizzare il ginocchio in estensione si deve applicare una coaptazione esterna. Le fratture del femore sono molto frequenti. Nell’area del ginocchio è tipica la dislocazione caudale del frammento distale. È necessaria una riduzione a cielo aperto con fissazione interna. Per le fratture (bi)condilari si raccomanda l’impiego di viti a compressione transcondilari (1,5 o 2,0 mm). Per la riparazione delle fratture sopracondilari e fisarie, si possono impiegare due fili di Kirschner (incrociati o abbinati). Nelle fratture comminute del tratto distale del femore, si preferisce la fissazione con placca. Quest’ultima deve essere piegata caudalmente, in modo da non intrappolare la capsula articolare femororotulea. L’inserimento dei chiodi endomidollari risulta pratico nelle fratture semplici della diafisi femorale, perché l’impianto può riempire in modo uniforme la cavità midollare. Inoltre, possono essere necessari degli (emi)cerchiaggi in filo metallico o un emifissatore esterno come metodo di stabilizzazione ausiliaria, per assicurare la stabilità rotazionale. La fissazione con placca si è dimostrata la più efficace nelle fratture multiple della diafisi. Dal momento che il femore è soggetto a forze di curvatura, si devono scegliere placche lunghe. Vicino al focolaio di frattura si deve applicare il minor numero possibile di viti. La placca viene fissata a livello periferico ai frammenti principali, utilizzando due o tre viti. Per funzioni di sostegno, le placche con fori da 2,7 mm o quelle tagliabili disposte una sopra l’altra conferiscono una rigidità sufficiente. Anche il sistema VetFix ha permesso di ottenere buoni risultati. Le fratture della testa e del collo del femore vengono riparate con notevole successo utilizzando due fili di Kirschner, mentre l’artroplastica con escissione è indicata soltanto nelle lesioni irreparabili o di vecchia data4,7,8,9,12. Le fratture del bacino derivano da gravi traumi e sono spesso associate a lesioni multiple. Quelle dell’acetabolo sono meno comuni nel gatto che nel cane, mentre i distacchi dell’articolazione sacroiliaca sono più frequenti nei felini. La chirurgia è indicata nelle lesioni che coinvolgono il nervo sciatico, nelle fratture con dislocazione dell’acetabolo e quando il canale pelvico risulta ristretto. Anche le lussazioni sacroiliache e le fratture dell’ileo con dislocazione ma-


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croscopica possono trarre vantaggio dall’intervento chirurgico. Le fratture acetabolari ed iliache vanno preferibilmente riparate utilizzando miniplacche da 1,5 o 2,0 mm, che necessitano soltanto di una limitata sagomatura nel bacino relativamente diritto del gatto. I distacchi dell’articolazione sacroiliaca vengono stabilizzati con una vite a compressione da 2 mm che decorre attraverso l’ala dell’ileo e penetra nel corpo del sacro. Nelle lussazioni sacroiliache bilaterali è possibile applicare una vite per ciascun lato1. Riassumendo, il trattamento chirurgico delle fratture nel gatto richiede una tecnica particolarmente delicata. Solo a questo punto, i risultati ottenuti saranno migliori di quelli raggiunti da madre natura e padre tempo.

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Fratture del gomito Ulrike Matis Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania

Le fratture del gomito si riscontrano comunemente nella chirurgia dei piccoli animali. Possono essere distinte in fratture omerali distali, fratture ulnari prossimali e fratture della testa del radio. Esistono tre tipi di fratture omerali distali: 1. Fratture sopracondilari 2. Fratture del condilo omerale laterale (capitello) o mediale (troclea) 3. Fratture bicondilari (a Y o T). Data la complessità dell’articolazione del gomito, è essenziale ottenere una perfetta riduzione anatomica ed una fissazione stabile. Le fratture sopracondilari decorrono nell’articolazione omero-ulnare. Negli animali giovani, la lesione può essere un’associazione di frattura metafisaria e distacco fisario (distacco di Salter II). Questo tipo di lesione può essere stabilizzata con una vite compressiva obliqua che attraversi la linea di frattura metafisaria ed un filo di Kirschner attraverso il piano epifisario. Con l’animale in decubito laterale, si inserisce la vite compressiva attraverso l’approccio mediale. La ferita viene quindi chiusa e si esegue un’esposizione laterale per stabilizzare il distacco fisario. Nelle fratture sopracondilari con un segmento distale corto può anche essere necessario adottare entrambi gli approcci, mediale e laterale. In questi casi, per la fissazione interna si utilizzano chiodi crociati. Se è possibile ancorare al segmento distale due o più viti, la fissazione con placca assicura la migliore stabilità. La placca viene preferibilmente fissata alla superficie mediale, per cui è necessario soltanto l’approccio mediale. Anche le fratture condilari interessano l’articolazione omero-radiale. Per un completo ripristino della funzione dell’arto è necessaria una riparazione precoce e perfetta. Le fratture condilari laterali vengono esposte attraverso l’approccio laterale e quelle condilari mediali con l’approccio mediale. La fissazione si effettua utilizzando una vite compressiva transcondilare. Inoltre, con un trapano si inserisce un filo di Kirschner attraverso la linea di frattura sopracondilare per migliorare la stabilità rotazionale. Nelle fratture oblique lunghe, invece del filo di Kirschner si usano 1 o 2 viti compressive più piccole. Nelle fratture condilari laterali, la vite transcondilare viene inserita lateralmente, in quelle condilari mediali viene introdotta medialmente. In entrambi i casi, si preferiscono le viti da corticale. Nell’inserimento della vite, il condilo fratturato viene ruotato verso l’esterno e si pratica con il trapano un foro di scivolamento in direzione retrograda, iniziando al centro della superficie della frattura. Dopo aver inserito la guida del trapano dal lato opposto, si esegue la riduzione utilizzando la guida stessa come leva.

Nella maggior parte dei casi la riduzione può essere supervisionata semplicemente controllando la linea di frattura sopracondilare. Nelle fratture comminute, tuttavia, può essere necessaria l’esposizione della superficie articolare che regge il carico, utilizzando, rispettivamente, l’approccio craniolaterale o transolecranico. Il riallineamento viene mantenuto utilizzando delle pinze da riduzione a punta: una viene applicata nell’area dell’epicondilo mediale e laterale e l’altra in posizione più prossimale. Passando attraverso la guida del trapano, si pratica il foro guida nel condilo opposto e poi lo si filetta. Infine, si inserisce la vite. Negli animali giovani, si deve introdurre preventivamente un filo di Kirschner per prevenire la rotazione dei frammenti durante la filettatura e l’inserimento della vite. Ciò evita il rischio di danneggiamento dell’osso attraverso l’impiego di pinze da riduzione. La vite deve essere serrata delicatamente, evitando la necessità di una rondella. Le fratture bicondilari (a Y e a T) consistono di una componente sopracondilare ed una intercondilare, ed interessano non solo l’articolazione omero-ulnare ma anche quella omero-radiale. Con poche eccezioni, i condili vengono fissati dapprima l’uno all’altro, assicurandosi di aver ottenuto un’accurata riduzione della superficie articolare che regge il carico. La vite transcondilare viene preferibilmente inserita dal lato mediale, dal momento che questo approccio fornisce un’esposizione sufficiente nella maggior parte delle fratture bicondilari. Soltanto nei casi di comminuzione o di segmenti distali corti è necessaria un’ulteriore osteotomia della tuberosità olecranica. Iniziando dalla superficie di frattura del condilo omerale mediale, si pratica con il trapano il foro di scivolamento in senso retrogrado, seguito dalla riduzione anatomica delle componenti articolari. Ciò si ottiene tirando il segmento prossimale dell’omero lateralmente e distalmente in modo da alleviare la tensione muscolare, mentre il condilo laterale viene sollevato con le pinze. I tessuti molli localizzati sulla faccia caudale vengono spostati utilizzando un divaricatore di Hohmann, in modo da esporre il foro sopratrocleare. Se i segmenti condilari sono correttamente allineati in questa sede, si può presumere che la superficie di carico sia stata ricostruita anatomicamente altrettanto bene. Entrambi i condili omerali vengono temporaneamente tenuti insieme con pinze da riduzione a punta o con un filo di Kirschner ausiliario durante la realizzazione del foro guida con il trapano e la filettatura e l’inserimento della vite. Per rifissare i condili alla diafisi omerale si utilizzano vari metodi. In presenza di segmenti distali brevi si possono impiegare dei chiodi incrociati (fili di Kirschner), altrimenti è preferibile la fissazione con placca. Per sagomare correttamente la placca, che viene modellata sulla superficie ossea


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mediale destra dietro la vite compressiva transcondilare, può essere utile una maschera. Di solito, una lieve torsione è sufficiente ad adattare la placca all’epicondilo. Le due viti distali della placca vengono ancorate nel condilo mediale con la terza vite che decorre subito sopra il foro sopratrocleare. La placca viene fissata al segmento prossimale utilizzando tre viti o, preferibilmente, quattro. Se i segmenti distali sono troppo corti per incontrarsi oltre il foro sopratrocleare, si può unire prima il condilo mediale alla diafisi con una placca, trasformando la lesione in una frattura in due pezzi. Dopo la chiusura della ferita, il condilo laterale viene fissato a quello mediale applicando una vite transcondilare attraverso un approccio laterale3,4,7,8,9. Le fratture prossimali dell’ulna che coinvolgono l’incisura trocleare vengono esposte attraverso un’incisione caudale. Si devono inserire due fili di Kirschner per superare le forze di rotazione e di taglio. Un filo metallico a 8 unisce i chiodi che protrudono sull’estremità prossimale con un foro praticato con il trapano nel frammento distale, trasformando le forze di tensione del muscolo tricipite in compressione. Nelle fratture comminute si preferisce la fissazione con placca. Quest’ultima viene di solito sagomata sulla faccia laterale dell’ulna. Nei cani delle razze di grossa taglia si può anche utilizzare la superficie caudale. Le fratture della parte prossimale dell’ulna con dislocazione del radio si riscontrano più comunemente nel gatto. Possono essere riparate con l’impiego di un chiodo endomidollare nell’ulna. Nei casi di fratture ulnari con dislocazione della testa del radio e distacco del radio e dell’ulna (frattura di Monteggia) il legamento anulare viene suturato o rimpiazzato dopo la ricostruzione dell’ulna. Nelle fratture del processo anconeo e nella non unione del processo anconeo (UAP), si deve preferire la fissazione interna precoce all’escissione. L’intervento chirurgico si esegue attraverso un approccio caudolaterale, con il paziente in decubito dorsale. A seconda dell’instabilità del processo anconeo e dell’età dell’animale, per la fissazione si utilizzano due fili di Kirschner o un filo di Kirschner ed una vite a compressione. Gli impianti vengono applicati dal lato caudale dell’ulna. La riduzione del processo anconeo viene mantenuta con un paio di pinze da ossa a punta e controllata flettendo ed estendendo l’articolazione, per la trapanazione è necessario servirsi di strumenti ausiliari per assicurare il perfetto posizionamento dell’impianto, che è indispensabile per il successo della riparazione. La vite viene inserita nel comparto distale del processo anconeo e il filo di Kirschner convergente alla vite nel comparto anconeo prossimale. Nel pastore tedesco, risulta appropriata una vite delle dimensioni di 3,5 mm. Dal momento che la maggior parte dei cani con UAP mostra discrepanze di lunghezza di radio ed ulna, l’osteotomia ulnare deve essere effettuata di routine. Nel basset hound e nel bassotto si raccomanda l’osteotomia ulnare distale, perché la resezione prossimale dell’ulna comporta un elevato rischio di dolorosa non unione nei cani con arti corti. Abbiamo osservato la guarigione spontanea del processo anconeo in basset hound dopo risoluzione delle forze di tensione esercitate sulla sua breve ulna. Nei cani con arti lunghi, si raccomanda l’osteotomia ulnare prossimale per una

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migliore correzione dell’incongruenza articolare. Tuttavia, questa tecnica è associata ad una morbilità più elevata. Le valutazioni a lungo termine hanno dimostrato che i cani in cui il processo anconeo viene stabilizzato con successo hanno una prognosi migliore rispetto a quelli trattati con escissione1,2,5,6,8. Le fratture della testa del radio sono estremamente rare negli animali. Vengono esposte attraverso un approccio laterale e generalmente sono riparate con piccole viti compressive e/o fili di Kirschner. Presso la clinica di chirurgia veterinaria dell’Università Ludwig-Maximilians di Monaco, abbiamo eseguito valutazioni cliniche e radiografiche di follow-up a distanza di 1-12 anni (in media, 4 anni) dopo l’intervento in 82 cani e 26 gatti con fratture del gomito. Nel 35% dei casi è stata riscontrata una compromissione funzionale occasionale o permanente. L’incidenza delle alterazioni osteoartritiche era del 78%. I cani con fratture della parte distale dell’omero presentavano una frequenza particolarmente elevata di zoppia (41%) nelle valutazioni a lungo termine, mentre nei gatti le fratture della parte prossimale dell’ulna avevano causato i maggiori problemi per effetto della frequente concomitante lussazione del radio. Ciò non deve sorprendere se si considera che le lussazioni generalmente comportano una prognosi più sfavorevole delle fratture articolari, che possono essere riparate in modo anatomicamente corretto. In particolare, articolazioni “che non pedonano”, come il gomito, richiedono la perfezione operatoria, che a sua volta si basa su un’estesa conoscenza anatomica ed un’esperienza chirurgica specialistica.

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Fratture del ginocchio Ulrike Matis Med Vet, Dipl ECVS, Monaco, Germania

Le fratture dell’articolazione del ginocchio si possono riscontrare a livello della parte distale del femore, di quella prossimale della tibia e della rotula. Le fratture distali del femore costituiscono circa 1/3 delle fratture femorali del gatto e circa 1/4 di quelle del cane. Possono essere classificate come fratture sopracondilari, distacchi fisari, fratture monocondilari e bicondilari (a T o a Y). Il trattamento conservativo è di solito inadeguato. L’obiettivo della terapia deve comprendere la riduzione anatomica (nelle fratture sopracondilari e fisarie, il frammento distale può essere leggermente sovraridotto) e la fissazione ininterrotta rigida, in modo che l’animale sia libero di muovere il ginocchio durante il periodo di guarigione. L’intervento chirurgico si esegue con il paziente in decubito dorsale. Per l’esposizione, si preferisce un approccio laterale, separando il muscolo bicipite dal vasto laterale; nei casi di frattura intracapsulare – come nelle lesioni monocondilari, bicondilari e fisarie – si incide la capsula articolare in modo da poter lussare medialmente la rotula. Questo tipo di approccio può anche essere utilizzato per l’esposizione di una frattura rotulea, con l’opzione di essere ampliato sino a raggiungere le fratture tibiale prossimali2,5,6. La fissazione interna varia con il tipo di frattura e le preferenze del chirurgo. La fissazione con placca viene considerata nelle fratture sopracondilari comminute che si verificano in prossimità della diafisi. Queste lesioni si riscontrano principalmente vicino al termine della fase di accrescimento o poco dopo. Le fratture sopracondilari semplici che sono localizzate immediatamente al di sopra della troclea femorale possono essere riparate con una vite a compressione inserita in diagonale. In alternativa, si utilizzano due fili di Kirschner, il metodo d’elezione nelle fratture fisarie. Utilizzando la tecnica dell’autore, i fili di Kirschner vengono diretti in senso prossimodistale e perpendicolarmente alla fisi, leggermente divergenti nei condili femorali. Nei distacchi di tipo II di Salter con grandi frammenti metafisari, questa tecnica basata sull’impiego di due fili di Kirschner può essere associata all’uso di una vite compressiva inserita trasversalmente al di sopra della fisi al fine di migliorare la stabilità senza distruggere l’accrescimento. Le fratture monocondilari sono molto rare. La riduzione anatomica si ottiene utilizzando un uncino per tirare il frammento in direzione craniale e facendo leva per l’adattamento finale. Per la fissazione, si inserisce una vite compressiva diagonalmente dalla parte prossimale nel condilo fratturato. In alcuni casi, può essere necessario un altro filo di Kirschner o una vite. Le fratture bicondilari sono costituite da una frattura intercondilare associata ad un distacco fisario o ad una frattura sopracondilare; quest’ultima è più comune. La linea di

frattura intercondilare può essere difficile da riconoscere nelle radiografie. Queste lesioni vengono riparate dapprima applicando una vite compressiva transcondilare. A seconda dell’entità della linea di frattura e dell’età dell’animale, la fissazione dell’epifisi alla diafisi si può ottenere mediante chiodi endomidollari, fili di Kirschner e una placca e/o viti. Le placche devono essere sagomate per adattarsi alla curvatura distale del femore. In quest’area si ottengono buoni risultati con le placche da ricostruzione, così come con il nuovo sistema VetFix. È anche possibile curvare in una certa misura le placche diritte. La placca deve essere posta caudolateralmente per evitare dolorose pizzicature della capsula articolare femororotulea. I frammenti articolari troppo piccoli per accogliere le viti vengono fissati mediante fili di Kirschner affondati nell’osso. I frammenti lassi che non possono essere stabilizzati vanno rimossi2,4,5. Le fratture prossimali della tibia costituiscono circa il 14% delle lesioni di questo tipo nel cane e l’8% nel gatto. Possono essere distinte in fratture metafisarie e fisarie, avulsioni della tuberosità tibiale e fratture epifisarie. Le fratture metafisarie, in cui i frammenti sono saldamente incuneati insieme in un allineamento assiale corretto, vengono trattate in modo conservativo. Le fratture metafisarie instabili, invece, sono predisposte a dislocazione secondaria, che richiede la fissazione interna. Le placche assicurano una buona stabilità, a condizione che nel frammento prossimale sia possibile inserire due o più viti. Altrimenti, è necessario prendere in considerazione il ricorso a fili di Kirschner incrociati o chiodi di Steinmann. La maggior parte delle fratture prossimali della tibia sono distacchi dell’epifisi di tipo II di Salter. I casi senza dislocazione possono essere trattati in modo conservativo. In presenza di una dislocazione macroscopica o di un malallineamento dovuto a interposizione periostale, è necessario il trattamento chirurgico. La fissazione si può ottenere con una vite a compressione inserita parallelamente e distalmente alla fisi, nel caso di grandi frammenti metafisari, oppure semplicemente con l’applicazione di fili di Kirschner. Le avulsioni della tuberosità tibiale si trovano principalmente nei cani di 4-8 mesi. Mediante fissazione con vite compressiva e cerchiaggio di tensione, la tuberosità tibiale viene fissata al punto di inserzione, in modo che non possa seguire la dislocazione prossimale dell’epifisi derivante dalla crescita longitudinale. È possibile prevenire questo malposizionamento utilizzando uno o due fili di Kirschner inseriti il più possibile verticalmente. Per prevenire la flessione dell’articolazione del ginocchio è necessaria un’immobilizzazione ausiliaria mediante applicazione di un bendaggio per due settimane.


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Le fratture epifisarie della tibia sono molto rare in confronto all’uomo. La fissazione si ottiene mediante viti compressive transcondilari. Nei soggetti in accrescimento, la vite non deve essere inserita attraverso il disco epifisario, ma piuttosto al di sopra di esso. A seconda del tipo di frattura, la fissazione dell’epifisi alla diafisi si può ottenere con chiodi incrociati o con una placca di sostegno3,6,8,11. Le fratture rotulee spesso di presentano sotto forma di lesioni esposte derivanti dall’azione di una forza diretta. I frammenti della rima rotulea possono essere rimossi senza svantaggi. Le fratture gravemente comminute possono richiedere una rotulectomia. Nelle fratture trasversali il metodo di fissazione d’elezione è rappresentato dal cerchiaggio di tensione associato ad uno o due fili di Kirschner. Per alleviare l’eccessiva tensione esercitata sul campo operato durante il periodo di guarigione è necessaria una fissazione esterna aggiuntiva1. La prognosi relativa al ritorno alla funzionalità nei casi di frattura rotulea è migliore di quanto le radiografie riprese in occasione del follow-up a lungo termine potrebbero indicare; tutti i 16 casi osservati presso la clinica di chirurgia veterinaria della Ludwig-Maximilians-University di Monaco hanno sviluppato una gonotroclosi1. L’ossificazione metaplastica rotulosimile che si verifica nell’area della resezione dopo la rotulectomia rappresenta una reazione di adattamento alle richieste biomeccaniche dell’articolazione. Le fratture della parte prossimale della tibia comportano la prognosi migliore perché è raro che coinvolgano la superficie articolare e, nella nostra esperienza, sono risultate caratterizzate da una bassa incidenza di zoppia ed artrosi; su 99 casi trattati in modo conservativo (n = 29) o chirurgico (n = 70), la frequenza della zoppia e dell’artrosi è risultata pari solo al 10%, senza alcuna differenza fra i due gruppi di trattamento3. In 408 cani e gatti con fratture del tratto distale del femore, il follow-up a breve termine non ha rivelato la presenza di artrosi nel 72% dei casi né di zoppia nell’81%7. Tuttavia, i risultati a lungo termine in 30 cani e 35 gatti di età compresa fra 1 e 13 anni (media = 6,5 anni) in seguito hanno dimostrato che solo il 26% dei soggetti era rimasto indenne da artrosi. D’altro canto, la frequenza della zoppia non è aumentata in modo altrettanto drammatico; il 74% degli animali ne è rimasto indenne. L’artrosi secondaria è stata osservata con maggiore frequenza nel gatto che nel cane perché il primo presentava un’incidenza più elevata di fratture comminute che coinvolgevano la superficie articolare. Indipendentemente da ciò, i felini erano in grado di caricare il peso sull’arto colpito quasi come i cani, confermando la no-

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zione generale che i gatti sono in grado di compensare estremamente bene10. L’accorciamento degli arti, che si verifica principalmente in caso di lesioni della cartilagine di accrescimento entro i primi sei mesi di vita, svolge un ruolo meno importante dell’artropatia degenerativa e delle conseguenze funzionali ad essa associate; i cani ed in particolare i gatti sono in grado di compensare aumentando l’angolo delle articolazioni dell’anca, del ginocchio e del garretto. Secondo la nostra esperienza, il momento dell’intervento è meno importante della gravità della dislocazione. In presenza di frammenti gravemente dislocati, la stabilizzazione va ottenuta il più rapidamente possibile per assicurare le condizioni ottimali per una rapida rivascolarizzazione. Anche se l’articolazione del ginocchio tollera le incongruenze più del gomito, per rispettare i principi generali della chirurgia è necessario effettuare una ricostruzione anatomica precisa.

Bibliografia 1.

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Indirizzo per la corrispondenza: u.matis@chir.vetmed.uni-muenchen.de


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Oculopatie ereditarie nei cani di razza pura: il punto sulla situazione in Italia Maurizio Mazzucchelli Med Vet, Gallarate (VA)

PREMESSA Le malattie oculari di origine ereditaria nei cani di razza pura sono conosciute da tempo in ambito veterinario. I quadri patologici con cui esse si manifestano, pur avendo anche aspetti clinici simili, si possono differenziare nelle diverse razze per il meccanismo di trasmissione genetica, per l’età di insorgenza, per la velocità del decorso o per la gravità della prognosi. Alcuni esempi: • a causa dell’atrofia progressiva della retina (PRA) un Setter Irlandese può essere già cieco ad un anno di vita, mentre essa può manifestarsi dopo i 4–6 anni in un Cocker Spaniel Inglese portandolo più lentamente alla cecità, ma dopo probabilmente che si è già riprodotto • sempre riguardo alla PRA la sua ereditarietà è generalmente ritenuta un tratto autosomico recessivo, ma non nel Siberian Husky, nel quale è collegata al cromosoma X • una cataratta ereditaria (HC) può essere localizzata in una zona limitata del cristallino di un Labrador Retriever e non comportare quindi seri problemi visivi, oppure può coinvolgere completamente la lente fino a portare alla perdita della funzione visiva in un Barboncino • una displasia retinica (RD) nel Labrador può essere limitata a una piccola piega retinica o assumere caratteristiche di tipo geografico con il rischio di seri danni alla visione. Ne consegue che è importante conoscere l’espressione clinica delle singole malattie con riferimento ad ogni specifica razza e sottoporre i cani delle razze a rischio ad una visita oculistica completa, anche ripetuta negli anni, onde rilevare le alterazioni al momento della loro comparsa e non solo quando appaiono evidenti anche al proprietario dell’animale.

SCOPO DEL LAVORO Da alcuni anni la Società di Oftalmologia Veterinaria Italiana (SOVI) e la Fondazione Salute Animale (FSA) cooperano per far capire al mondo cinofilo e veterinario italiano l’importanza dello studio delle oculopatie ereditarie nei cani delle diverse razze, onde favorire la realizzazione di un programma di prevenzione che porti alla selezione di animali sani in grado di mantenere una normale funzione visiva per tutta la vita. La SOVI è altresì impegnata in programmi di

“continuing education” per i medici veterinari volti a favorire una maggior competenza sulle problematiche oculistiche. Il fine ultimo di questo lavoro è la creazione di una banca dati nazionale relativa alle varie razze di cani colpite da patologie oculari di natura ereditaria; altro dato importante è che questa banca dati sia in continuo aggiornamento. Un successivo passo è quello di stabilire, in base ai dati ottenuti, a quale età sia opportuno sottoporre i cani ad una visita oculistica completa in funzione della razza e delle patologie da indagare. I dati utilizzati in questa ricerca sono stati raccolti grazie al lavoro ed alla cooperazione di altri colleghi che voglio qui elencare: Bandini Marina, Crotti Alberto, D’Anna Nunzio, Farina Giovanna, Giordano Cristina, Guandalini Adolfo, Maggio Federica, Mertel Luca, Multari Domenico, Peruccio Claudio, Pizzirani Stefano, Raduzzi Giovanni, Rizzini Flavia, Rovesti Gianluca, Tomain Walter e Vercelli Antonella.

MATERIALI E METODI La visita oculistica vera e propria è preceduta dall’osservazione del riflesso fotomore (PLR) diretto e consensuale, del riflesso dell’abbagliamento (DRT), della reazione alla minaccia ed infine dalla somministrazione di 1-2 gocce di collirio a base di tropicamide 1% (Visumidriatic®, Visufarma), onde ottenere una buona midriasi. Subito dopo l’instillazione del farmaco, prima del raggiungimento dell’effetto midriatico, si inizia con la valutazione oftalmologica degli annessi oculari e dell’iride mediante osservazione sia con una loupe, od ingranditore, da 2,5x o 3,5x che con il transilluminatore di Finoff, ed infine con la lampada a fessura. Una volta ottenuta la dilatazione delle pupille vengono esaminate tutte le strutture oculari mediante l’uso della lampada a fessura, dell’oftalmoscopio indiretto binoculare (utilizzando lenti biconvesse convergenti da 28 D, 20 D e, quando necessario, anche da 14 D) e dell’oftalmoscopio diretto. In alcuni casi vengono svolte anche altre indagini più sofisticate onde definire i valori della pressione intraoculare (IOP), mediante tonometria per applanazione, ed evidenziare difetti di conformazione dell’angolo irido-corneo-sclerale, predisponenti al glaucoma primario, mediante gonioscopia; test, questi ultimi, non previsti nella visita standard per lo screening delle oculopatie ereditarie. I risultati vengono successivamente riportati su di un apposito certificato con i dati identificativi dell’animale e del proprietario, certificato che è consegnato in copia a quest’ultimo.


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RISULTATI PRELIMINARI Come precedentemente detto, i dati sull’incidenza delle malattie oculari ereditarie sono in continuo aggiornamento e variazione. Ciò dipende dal numero dei soggetti di ogni singola razza sottoposti a visita oculistica ed al successivo inserimento nel “data-base” con cui viene fatta l’elaborazione statistica. I valori che vengono qui di seguito forniti, sono quindi da ritenersi puramente indicativi poiché parziali e soggetti a possibili variazioni numeriche anche considerevoli. Essi infatti fotografano la situazione alla data in cui viene richiesto l’abstract per la stampa degli atti di questo congresso. Dato lo spazio a disposizione sono state scelte solo alcune razze che fossero significative o dal punto di vista numerico, o dal punto di vista dell’importanza e della gravità della patologia od infine perché razze di origine italiana. COLLIE: oltre il 50% dei soggetti esaminati presenta un’anomalia del fondo oculare definita Collie Eye Anomaly (CEA). Tra questi la CEA di I° grado, la forma meno grave, risulta presente nel 65% dei casi, quella di II° grado in circa il 30%, quella di III° grado nel 4% e quella di IV° grado è al di sotto dell’1%. Altre patologie, come l’Atrofia Retinica Progressiva (PRA), sono più rare. BORDER COLLIE: sembra una razza ben selezionata nel nostro paese, con il 90% dei soggetti esenti da oculopatie. La CEA è la patologia più frequente e si attesta intorno al 7%. LABRADOR RETRIEVER: dalle nostre indagini più dell’80% dei soggetti risulta esente. La displasia retinica (RD) è indubbiamente la patologia più frequente in Italia, con quasi il 6% dei soggetti affetti. Al secondo posto troviamo la cataratta ereditaria (HC) che coinvolge poco più del 5% della popolazione. La PRA è stata riscontrata con una frequenza inferiore all1%, ma, dai dati in nostro possesso, è sicuramente una patologia sottostimata. Altre patologie come la distrofia corneale, il coloboma del disco ottico o le membrane pupillari persistenti sono per ora di scarso interesse numerico. SIBERIAN HUSKY: anche in questa razza il 50% dei soggetti risulta colpito da malattie oculari ereditarie. Si ri-

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scontrano diversi casi di distrofia corneale che non sono invalidanti quanto la HC che colpisce il 30% dei soggetti o, peggio ancora, il glaucoma primario che coinvolge più del 17% degli esaminati causando, oltre alla cecità, anche la sofferenza dell’animale. Sono anche stati segnalati pochi casi di PRA. MASTINO NAPOLETANO: razza autoctona che presenta oculopatie di tipo ereditario in più dell’80% dei soggetti esaminati. Le patologie più fraquenti sono quelle che interessano gli annessi oculari, in primo luogo l’ectropion seguito dall’entropion. Vogliamo però soffermare in particolar modo l’attenzione sul fatto che nell’11% dei soggetti è presente il prolasso della ghiandola lacrimale della nictitante (cherryeye), ma, dato più allarmante, nel 37% dei soggetti tale ghiandola risultava asportata con possibile correlazione all’instaurarsi della cherato-congiuntivite secca (KCS). VOLPINO ITALIANO: altro cane di origine italiana particolarmente interessante, con circa il 50% dei soggetti che presenta patologie oculari ereditarie, ma il dato più allarmante è che più del 26% degli animali presentano lussazione primaria del cristallino. CANE CORSO: anche questa è una razza italiana che presenta un’altissima frequenza di ectropion pari quasi al 60% degli esaminati, seguita da una discreta incidenza di macroblefaro ed entropion. PASTORE MAREMMANO/ABRUZZESE: cane italico che presenta un 30% di soggetti colpiti da malattie oculari di presunta origine ereditaria. Di questi circa il 37% risulta affetto da HC e circa il 18% colpito da problemi retinici tipo PRA e RD.

Indirizzo per la corrispondenza: Ambulatorio Veterinario Dr. Mazzucchelli Maurizio Via G. Carducci 1 21013 GALLARATE (VA) tel. & fax 0331-782023 e-mail: mazzu.maurizio@tin.it


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Aspetti comparativi delle neoplasie melanocitarie Luca Mechelli Med Vet, Perugia

Introduzione Le neoplasie melanocitarie rappresentano un gruppo di tumori estremamente eterogenei per sede, morfologia e comportamento biologico. La classificazione proposta, nel 1999, dalla “World Health Organization” (WHO) identifica i tumori melanocitari benigni con il termine di melanocitomi, quelli maligni con il termine di melanomi maligni, le lesioni simil-tumorali con lentigo simplex, le forme iperplastiche con iperplasia melanocitaria.1 Sono relativamente comuni nel cane, rappresentando il 3% di tutte le neoplasie e più del 7% di tutti i tumori maligni. Le localizzazioni più frequenti sono la cavità orale (56%), le giunzioni muco-cutanee (23%), la cute (11%), il letto ungueale (8%) mentre le altre sedi, tra cui l’occhio, rappresentano solo il 2%.2 Tali tumori si osservano più comunemente negli animali anziani, con oltre 10 anni di età3 e le localizzazioni cutanee più comuni sono la testa, la coda, le estremità distali e la regione lombare.4 La prognosi è generalmente infausta poiché in più della metà dei casi si verificano recidive e metastasi regionali. Il melanoma cutaneo non è comune nel gatto, rappresentando circa il 0,5% dei tumori cutanei. Nel cavallo oltre il 15% delle neoplasie cutanee sono di origine melanocitaria; più del 90% di questi sono benigni al momento della comparsa ma circa i due terzi progredisce poi verso la malignità.2 La gran parte dei melanocitomi della specie equina colpisce i cavalli grigi, generalmente intorno al quinto anno di età, mentre i melanomi coinvolgono cavalli oltre i 6 anni. La maggior parte dei melanomi del cavallo originano dalla cute del perineo, dalla faccia ventrale della coda e dai genitali esterni.

Patogenesi Per quanto riguarda la patogenesi, poco si conosce sul processo di iniziazione di queste neoplasie negli animali; il 65% dei melanomi cutanei dell’Uomo e quelli diagnosticati nelle capre d’Angora si ritengono secondari a mutazioni indotte da radiazioni attiniche. La predisposizione di talune razze suggerirebbe anche una partecipazione genetica allo sviluppo della neoplasia. Eccezion fatta per i melanomi dei cavalli grigi, si ritiene che negli animali la progressione neoplastica di lesioni benigne verso la malignità sia veramente rara e che la maggior parte dei melanomi sviluppi ab initio come lesione maligna. L’intervento di fattori promuoventi, rappresentati da traumi, sostanze chimiche, infezioni, etc.

possono stimolare la proliferazione delle cellule melanocitarie iniziate. Ciò porterebbe alla perdita dell’equilibrio esistente tra geni deputati al controllo della proliferazione cellulare e pro-apoptotici, come Rb (retinoblastoma protein) e p53, e geni inibitori dell’apoptosi, come bcl-2.5 La crescita autonoma è un ulteriore requisito per la progressione neoplastica ed i principali fattori di crescita autocrini associati allo sviluppo del melanoma sono: bFGF (basic fibroblast growth factor), MGSA (melanoma growth stimulatory activity), IL-8, IL-10, IL-18, platelet-derived growth factor-A, e α-MSH (α-melanocite stimulating hormone).

Aspetti morfologici Il melanoma del cane può esprimersi attraverso varie tonalità di colorazione, con masse solide, non capsulate, infiltranti e dimensioni comprese tra 1 e 3 cm. A livello cutaneo può presentarsi come una lesione nodulare liscia, sessile, polipoide, a placca o lobulata. Nel cavallo è spesso piatta e non mobile, con insorgenza singola o multipla. Le cellule possono metastatizzare attraverso i vasi linfatici o ematici; i linfonodi regionali ed i polmoni sono gli organi più frequentemente colpiti. La valutazione istologica dei melanomi risulta spesso complessa. In linea generale, la gran parte di loro esprime una certa attività giunzionale, intesa come la presenza di melanociti neoplastici nell’interfaccia dermo-epidermica. In base al grado di pigmentazione i melanomi vengono indicati come melanotici o amelanotici. In alcuni melanomi si osservano cellule neoplastiche di grandi dimensioni (Paget cells), sia singole che aggregate, negli strati superficiali dell’epidermide o della mucosa; questa caratteristica, osservata anche in altri tipi di tumori umani ed animali, è stata indicata con il termine di pagetoid. Sebbene i melanomi esprimano uno spiccato pleomorfismo, i citotipi di più frequente riscontro sono l’epitelioide ed il fusato. Il primo è costituito da cellule rotondeggianti con citoplasma vitreo ed abbondante, grande nucleo e nucleoli prominenti. Le cellule, singole o riunite in piccoli clusters, possono mostrare un comportamento pagetoid. Il citotipo a cellule fusate mostra cordoni e fasci cellulari con nuclei ben evidenti e nucleoli prominenti. Un terzo modello istologico, tipicamente cutaneo, è caratterizzato da cellule fusate organizzate in vortici, ad “impronta digitale” o dendritica. Quest’ultimo modello neoplastico è considerato benigno, mentre gli altri vengono indicati come tipicamente maligni. Va-


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rianti istologiche meno comuni sono il tipo a cellule chiare (clear cells), indicato come tipo large pale o balloon-type ed osservato a livello cutaneo ed orale nel cane e cutaneo nel gatto.6 Il tipo ad anello con castone, riscontrato nella cavità orale del gatto, è di tipo amelanotico e caratterizzato da cellule pleomorfe con nuclei eccentrici. Alcune cellule mostrano inclusi citoplasmatici di grandi dimensioni localizzati in sede perinucleare.

Criteri di malignità Nel melanoma, la sede di insorgenza rappresenta un importante fattore prognostico. In tal senso, infatti, le neoplasie con insorgenza orale, sub-ungueale e delle giunzioni mucocutanee del cane sono considerate maligne ab inizio6, in stretta analogia con quanto osservato nell’Uomo. Diversamente, nelle neoplasie melanocitarie della cute e dell’occhio il rilievo di maggior interesse prognostico è rappresentato dall’indice mitotico. Nel gatto questo valore prognostico è ancora poco chiaro, specialmente per quanto riguarda il melanoma oculare ma le ultime ricerche tendono a correlare un elevato indice mitotico con un maggiore rischio metastatico. Un ulteriore parametro di malignità del melanoma è la presenza di cellule neoplastiche negli strati più superficiali dell’epidermide, considerata discriminante rispetto all’attività giunzionale. La valutazione di un linfonodo per la ricerca di metastasi può essere complicata dalla presenza di numerosi melanofagi. Il pigmento può essere tanto abbondante ed intenso da impedire l’identificazione delle cellule, così che melanofagi possono essere confusi con melanoblasti. Nel melanoma cutaneo felino, i parametri istologici proposti come fondamentali per la malignità sono rappresentati dalle atipie nucleari, dall’indice mitotico e dal citotipo (i tumori a cellule epitelioidi sono più frequentemente maligni). Dal punto di vista immunoistochimico, la maggior parte dei melanomi umani, canini e felini è vimentina, S-100 e Melan-A - positiva. Quest’ultimo anticorpo consente anche di discriminare tra melanociti e melanofagi e tra tumori benigni e maligni. L’ibridizzazione in situ è una tecnica utile per la diagnosi di melanomi amelanotici scarsamente differenziati. Nel cane, oltre l’85% dei melanomi originati da cute coperta da peli ha un comportamento benigno. La valutazione dell’indice mitotico ha un valore predittivo sul comportamento del tumore in circa il 90% dei casi. Un indice mitotico inferiore a 3 figure mitotiche in 10 campi microscopici è indice di prognosi benigna. Anche la razza ha un importante significato prognostico: il 75% dei tumori melanocitari nel Dobermann e nello Schnauzer nano sono, dal punto di vista

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biologico, benigni, mentre l’85% di quelli diagnosticati nei Barboncini nani sono maligni. Nel cane, i tumori melanocitari della cavità orale sono sempre maligni e costituiscono le più comuni neoplasie orali maligne. Essi originano prevalentemente dalla gengiva e rappresentano il 33% delle neoplasie maligne gengivali; meno frequentemente possono originare da lingua, faringe, tonsille e palato, con un indice di metastatizzazione del 7090%. Il Pastore Tedesco, il Boxer, il Chow-chow sono maggiormente predisposti. Molti cani colpiti da melanoma orale hanno un’età superiore ai 10 anni, con un rapporto maschio/femmina di 3:1. Questa sede non è comune nel gatto e nel cavallo, dove rappresentano rispettivamente l’1 ed il 7% di tutte le neoplasie orofaringee. Soltanto il 25% circa dei cani affetti da melanoma orale sopravvive oltre un anno ed il carattere prognostico più attendibile sembra essere la dimensione della neoplasia. Infine, nel cane, il melanoma subungueale è la neoplasia più frequente delle estremità dopo il carcinoma squamoso e lo Schnauzer, lo Scottish terrier, l’Irish Setter ed il Golden Retriver hanno un rischio maggiore di sviluppare la neoplasia. Questo tipo di melanomi sono potenzialmente maligni e circa il 33-50% sviluppano metastasi.

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Indirizzo per la corrispondenza: mechelli@unipg.it


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Studio comparativo dell’efficacia dei trattamenti contro Ixodes ricinus (zecche) Norbert Mencke Dr Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Leverkusen, Germania

D. Stanneck, T. Bach, K. Krieger, Leverkusen, Germania G. Galli, Italia

La borreliosi o malattia di Lyme è una malattia batterica dell’uomo e del cane causata dalla spirocheta Borrelia burgdorferi trasmessa da zecche, molto diffuse in tutta l’Europa, del complesso di Ixodes ricinus. Oltre alla borreliosi di Lyme le zecche del genere Ixodes trasmettono altri agenti patogeni, come ad es. il protozoo Ehrlichia. Per proteggere i cani da questa malattia, la capacità di inibire la fissazione ed il pasto della zecca deve essere considerata come il primo requisito essenziale di qualsiasi agente destinato al controllo delle zecche. Per ottenere questo risultato è stato condotto il seguente studio finalizzato a valutare la capacità anti-fissazione ed acaricide di Advantix (Imidacloprid 10% P/V, Permetrina 50% P/V) nei confronti delle zecche della specie Ixodes ricinus nel cane. Cani infestati sono stati suddivisi, sulla base di un conteggio pretrattamento delle zecche, in tre gruppi di dimensioni identiche (6 animali per gruppo). Al giorno 0 gli animali del gruppo 1 sono stati trattati con 0,1 ml/kg di Imidacloprid 10%/Permetrina 50% Spot-on (Advantix®), gli animali del gruppo 2 con 0,067 ml/kg di Fipronil 10% Spot-on (Frontline® Spot On, Merial) e quelli del terzo gruppo hanno svolto le funzioni di soggetti di controllo non trattati. I cani sono stati reinfestati settimanalmente con 25 femmine adulte e 15 maschi di Ixodes ricinus per un periodo di 4 settimane. A distanza di 2 e 48 ore dalla reinfestazione è stato

condotto il conteggio delle zecche sui cani, per valutare, rispettivamente, l’efficacia repellente e quella acaricida. Quest’ultima è stata calcolata confrontando il conteggio delle zecche in ciascuno dei gruppi trattati con quello rilevato nel gruppo di controllo non trattato. L’efficacia repellente di Advantix è stata del 100, 97, 93,8 e 89,5% nei giorni 7, 14, 21 e 28. L’efficacia acaricida di Advantix è stata del 100, 95,9, 92,1 e 91,8% nei giorni 9, 16, 23 e 30, mentre il Fipronil ha mostrato un’efficacia acaricida del 92,5, 82,1, 70.6 e 52,9%. In conclusione, Advantix (10% imidacloprid/ 50% permetrina) conferisce al cane un’elevata protezione nei confronti delle zecche già entro le prime due ore successive all’esposizione. Di conseguenza, grazie all’azione combinata repellente ed acaricida, viene assicurata ai cani una protezione dal morso delle zecche, a differenza di quanto avviene con un composto acaricida privo di proprietà repellenti. Ciò riduce il rischio di trasmissione delle malattie trasmesse da questi parassiti, come la Borreliosi di Lyme. Indirizzo per la corrispondenza: Norbert Mencke Bayer Health Care D 51368, Leverkusen, Germany e-mail: norbert.mencke@bayerhealthcare.com


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Studi di efficacia contro Culex spp e Phlebotomus spp Norbert Mencke Dr Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Leverkusen, Germania

D. Stanneck, T. Bach, K. Krieger, Leverkusen, Germania G. Galli, Italia

Oltre alle ben note zecche e pulci, nel cane sono importanti come ectoparassiti anche le zanzare ed ancor più i flebotomi. Le prime sono considerate insetti nocivi, dal morso doloroso che può portare a reazioni allergiche e, spesso, ad infezioni batteriche secondarie della ferita. Inoltre, la trasmissione di agenti patogeni può condurre a gravi malattie, come l’encefalomielite causata dal West Nile Virus. Quest’ultimo si mantiene nei cicli naturali fra uccelli e zanzare, in particolare Culex species, mentre altri vertebrati come l’uomo ed il cavallo sono considerati ospiti incidentali. Anche se il significato clinico del West Nile virus nella specie canina necessita di ulteriori indagini, è necessario impedire che i cani vengano punti dalle zanzare. I flebotomi del genere Phlebotomus spp. sono i ben noti vettori di Leishmania infantum. Sono stati condotti parecchi studi per valutare la capacità di un’associazione di imidacloprid/permetrina (Advantix) di inibire il pasto di sangue da parte di Culex e Phlebotomus spp., confrontandola con quella di altri ectoparassiticidi applicati a livello topico. Nel corso di una di queste indagini, 4 gruppi di cani (3 precedentemente trattati con imidacloprid al 10% P/V [Peso/Volume] (Advantage), imidacloprid/permetrina 10% P/V/ 50% P/V (Advantix) o permetrina 45% P/V ed 1 di controllo non trattati) sono stati esposti a C. pipiens o C. tarsalis, le note specie di zanzare vettrici del West Nile Virus in Europa o negli USA. L’esposizione alle zanzare è stata effettuata nei giorni 1, 3, 7, 14, 21 e 28 dopo il trattamento. Nei cani trattati con Advantix l’inibizione del pasto di sangue fino al giorno 28 dello studio è stata confermata nel 96,5-100% dei casi nei confronti di C. pi-

piens e nel 98,7-100% dei casi per C. tarsalis. Advantage ha evidenziato un’elevata efficacia insetticida, con una limitata inibizione del pasto di sangue. Advantix garantisce un’inibizione del pasto di sangue superiore a quella della sola permetrina. In conclusione, in tutte le osservazioni post-trattamento l’inibizione del pasto di sangue per i cani trattati con Advantix è stata significativamente maggiore rispetto ai cani trattati con permetrina ed a quelli di controllo. La valutazione dell’efficacia repellente ed insetticida di Advantix nei confronti dei flebotomi (Phlebotomus spp.) nel cane. Il criterio dell’efficacia come repellente è stato basato sulla percentuale di pasto di sangue dei flebotomi nei cani trattati in confronto a quelli del gruppo di controllo non trattati. I cani sono stati esposti ai flebotomi per circa 1,5 ore su base settimanale. A distanza di un giorno dall’esposizione è stato effettuato il conteggio diretto degli insetti morti. Advantix ha dimostrato un’efficacia repellente del 94,6% (giorno 1), 93,3% (giorno 8), 80,0% (giorno 15), 72,8% (giorno 22) and 55,9% (giorno 29). Questo studio ha chiaramente dimostrato il potenziale dell’associazione di imidacloprid/permetrina, proteggendo così i cani dalle punture di flebotomo e, di conseguenza, dalla trasmissione di Leishmania infantum. Indirizzo per la corrispondenza: Norbert Mencke Bayer Health Care D 51368, Leverkusen, Germany e-mail: norbert.mencke@bayerhealthcare.com


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Aritmie in corso di patologie sistemiche Francesco Migliorini Med Vet, Roma

Introduzione: alcune patologie sistemiche sono associate ad aritmie cardiache, soprattutto di origine ventricolare: complesso dilatazione-torsione gastrica, patologie spleniche, disordini della funzione tiroidea, alterazioni dell’equilibrio elettrolitico, traumi, patologie del sistema nervoso centrale, piometra, pancreatite sono condizioni che possono predisporre a disturbi del ritmo cardiaco. Alcune di queste condizioni sono particolarmente frequenti nella pratica clinica quotidiana e il riconoscimento dei disturbi del ritmo a loro associati riveste un ruolo di primaria importanza durante la loro gestione terapeutica. L’elettrocardiografia di base spesso non consente una valutazione corretta del fenomeno aritmico e, soprattutto nel paziente emodinamicamente instabile, è auspicabile un monitoraggio continuo del tracciato elettrocardiografico durante l’ospedalizzazione per aumentare la possibilità di svelare la presenza di aritmie e per la loro più corretta valutazione. Le aritmie secondarie a patologie sistemiche possono avere gravità diverse e richiedere o meno interventi terapeutici finalizzati a ripristinare il ritmo sinusale normale. I disturbi del ritmo cardiaco che provocano segni clinici di bassa portata, debolezza, sincope, stato di shock, devono essere diagnosticati con tempestività ed eventualmente trattati per ripristinare un normale equilibrio emodinamico e impedire il peggioramento del fenomeno aritmico che potrebbe avere conseguenze fatali.

Dilatazione-torsione gastrica: la sindrome dilatazione-torsione gastrica è una delle emergenze più comuni in campo veterinario. I pazienti con GDV che sviluppano fenomeni disritmici sono tra il 40 e il 50%: la tachicardia sinusale è spesso presente in questi soggetti che arrivano solitamente in stato di shock; il periodo post-detorsione e post-chirurgia è invece quello più critico per lo sviluppo di aritmie ventricolari: depolarizzazioni premature ventricolari, tachicardia ventricolare, ritmi idio-ventricolari accellerati, tachicardie ventricolari polimorfe. Le alterazioni del circolo portale e del circolo di ritorno dalla vena cava caudale, indotte dalla dilatazione e torsione gastrica, provocano calo della gittata cardiaca, diminuzione della pressione arteriosa e del flusso arterioso coronarico1. Sono stati dimostrati danni ischemici miocardici in corso di GDV nel cane2, che possono spiegare in parte l’alta incidenza di disritmie in questi pazienti. Alterazioni dell’equilibrio acido-basico, dell’equilibrio elettrolitico e modificazioni a carico del Sistema Nervoso Autonomo sono altri fattori modulanti coinvolti nel meccanismo dell’aritmogenesi. Il fatto che le aritmie insorgano tardivamente, quando gli squilibri acido-base ed elettrolitici sono già stati corretti, fa pensare che il danno ischemico sia, tra i fattori scatenanti, quello più consistente e che i danni da ri-

perfusione possano avere un ruolo primario anche nell’aritmogenesi in corso di GDV3. Sembra che non ci sia una correlazione significativa tra aritmie ventricolari insorte nel periodo post-operatorio e prognosi ad vitam nei cani colpiti da GDV: questo tipo di aritmie non sembrano essere tra i fattori che aumentano il rischio di mortalità in corso di GDV, maggiore importanza, tra i fattori prognostici negativi, è invece attribuita alla presenza di necrosi della parete gastrica al momento dell’esplorazione chirurgica e alle scadenti condizioni cliniche al momento della presentazione4. Al contrario la presenza di aritmie nel periodo pre-operatorio sembra essere associata con un maggiore tasso di mortalità. La scelta del trattamento del fenomeno aritmico prevede la valutazione dei dati clinici, dei segni di bassa portata, e dei caratteri di malignità della disritmia, fenomeni di R su T, tachicardie polimorfe, tachicardie sostenute ad elevata frequenza. I farmaci abitualmente usati per il trattamento di queste aritmie sono: la lidocaina in boli di 2-8 mg/kg seguita da CRI a 40-80 µg/kg/min; la procainamide a 0,5-4 mg/kg seguita da CRI a 40 µg/kg/min o per via IM a 6-8 mg/kg QID.

Patologie spleniche: le patologie spleniche nel cane sono spesso accompagnate da aritmie ventricolari, in particolare tachicardia ventricolare. Questo tipo di aritmie si possono manifestare prima o dopo l’intervento di splenectomia e sono particolarmente frequenti in corso di rottura della neoplasia splenica, con conseguente emoaddome. L’anemia è una delle condizioni associate più frequentemente a disritmie in corso di masse spleniche: in corso di anemia acuta, l’aumento della frequenza cardiaca e l’aumentato inotropismo a scopo compensatorio, provocano un incremento delle necessità metaboliche del miocardio e un suo aumentato consumo di ossigeno; questi eventi sono accompagnati da un diminuito apporto di ossigeno anche a livello miocardico secondario all’anemia, l’ipossia miocardica che ne consegue spiega in parte la genesi delle aritmie. Le metastasi cardiache di neoplasie spleniche possono coinvolgere il miocardio di conduzione o danneggiare il miocardio di lavoro generando fenomeni aritmici5.

Traumi: nelle prime 48 ore successive ad un evento traumatico possono rendersi evidenti alterazioni del tracciato elettrocardiografico, tra le più comuni: depolarizzazioni premature ventricolari, tachicardia ventricolare, tachicardia sinusale, fibrillazione atriale, alterazioni del tratto ST. Uno dei meccanismi che possono produrre disritmie in seguito a traumi è quello della contusione diretta o indiretta del miocardio. Questo evento può portare allo sviluppo di aree di emorragia miocardica, danno cellulare fino alla necrosi e


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conseguentemente sviluppo di disturbi del ritmo. Lo stato di shock, l’overstimolazione catecolamminica, danni intracranici sono altri eventi che possono provocare alterazioni elettrocardiografiche secondarie a trauma. In funzione della sua gravità la disritmia può ulteriormente peggiorare la bassa portata e l’ipotensione che possono conseguire all’evento traumatico6.

Ipotiroidismo: i danni sulla funzione cardiaca in corso di ipotiroidismo sono importanti per l’alta incidenza in alcune razze di questa disendocrinia e di insufficienza cardiaca. Qualsiasi alterazione della funzione cardiaca indotta dall’ipotiroidismo può quindi far peggiorare una malattia cardiaca concomitante. I cani ipotiroidei presentano frequentemente un’alterata funzione sistolica che si manifesta con diminuzione della frazione di accorciamento, aumento dei diametri telesistolici del ventricolo sinistro, aumento del periodo pre-espulsivo, diminuzione della velocità di accorciamento circonferenziale. Nei cani ipotiroidei si riscontrano anomalie della morfologia delle onde P e dei complessi QRS e disritmie. Diminuzione del voltaggio dell’onda P e dell’onda R e aumento dell’intervallo PR sono reperti comuni in caso di ipofunzione tiroidea. La conduzione atrio-ventricolare, la refrattarietà del nodo atrio-ventricolare e la durata del potenziale d’azione ventricolare sono tutti parametri aumentati in corso di ipotiroidismo nel cane. In alcuni casi la supplementazione con ormoni tiroidei, normalizzando i parametri elettrofisiologici menzionati, può slatentizzare disritmie preesistenti che venivano mantenute silenti dall’effetto “protettivo” dell’ipotiroidismo. Alcuni studi correlano positivamente la fibrillazione atriale e l’ipotiroidismo primario, probabilmente la disendocrinia può scatenare la fibrillazione atriale in soggetti con malattia cardiaca preesistente7. Le alterazioni della funzione cardiaca secondarie a ipotiroidismo, sono reversibili a seguito della supplementazione con levotiroxina.

Ipertiroidismo: è stato dimostrato che la somministrazione di un eccesso di ormoni tiroidei provoca aumento del numero e della sensibilità dei β-recettori a livello miocardico. Gli effetti tossici degli ormoni tiroidei si esplicano a livello di apparato cardio-vascolare con ipertrofia miocardica, aumento dello stato inotropo, aumento della frequenza cardiaca e sviluppo di tachiaritmie. Le più frequenti alterazioni ECG-grafiche in corso di ipertiroidismo nel gatto sono: tachicardia sinusale, aumentato voltaggio dell’onda R, aritmie ventricolari e sopraventricolari. Queste anomalie posso essere corrette sia con una terapia finalizzata a ripristinare una normale funzione tiroidea, che con la somministrazione di farmaci β−bloccanti, dimostrazione empirica del ruolo del sistema nervoso autonomo nei meccanismi di aritmogenesi in corso di ipertiroidismo.

Iperkaliemia: la sindrome di Addison, l’insufficienza renale acuta oligurica o anurica, le sindromi urologiche

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ostruttive, la rottura delle vie urinarie possono creare quadri di iperkaliemia con effetti deleteri sul ritmo cardiaco. Quadri di iperkaliemia da moderata a severa possono portare al ritmo seno-ventricolare caratterizzato dall’assenza di onde P sul tracciato elettrocardiografico con intervalli R-R regolari. Dal nodo del seno l’impulso elettrico raggiunge il nodo atrio-ventricolare attraverso i fasci internodali, la muscolatura atriale non riesce a depolarizzarsi provocando l’assenza dell’onda P. Altre modificazioni del tracciato ECG-grafico in corso di iperkaliemia sono, diminuzione della frequenza di scarica del nodo del seno, alterata morfologia dell’onda T, aumentata durata del complesso QRS. Il reperimento di bradicardia e ritmo seno-ventricolare può essere l’epifenomeno che induce il clinico a svelare la presenza di iperkaliemia e a correggere lo squilibrio elettrolitico ed eventualmente la sua causa primaria.

Altre patologie sistemiche: meno frequenti o che meno frequentemente provocano aritmie significative sono: feocromocitoma, pancreatite, shock settico, disordini neurologici centrali. Anche queste sono condizioni durante le quali i fenomeni arimtici possono essere “attesi” e nella loro gestione riveste quindi particolare importanza una valutazione del ritmo cardiaco tramite elettrocardiografia di base o monitoraggio continuo. Bibliografia 1.

2. 3.

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Horne WA, Gilmore DR, Dietze AE, Freden GO, (1985), Effects of gastric distention-volvulus on coronary blood flow and myocardial oxygen consumption in the dog, Am J Vet Res, 46: 98-104 Muir WW, Weisbrode SE, (1982), Myocardial ischemia in dogs with gastric dilatation- volvulus, JAVMA, 181: 363-366 Badylak SF, Lantz GC, Jeffries M, (1990), Prevention of reperfusion injury in surgically induced gastric dilatation-volvulus in dogs, Am J Vet Res, 51: 294-299. Brockman DJ, Washabau RJ, Drobatz KJ, (1995), Canine gastric dilatation /volvulus syndrome in a veterinary critical care unit: 295 cases (1986-1992), JAVMA, 4: 460-464 Marino DJ, Matthiesen DT, Fox PR, Lesser MB, Stamoulis ME, (1994), Ventricular Arrhythmias in dogs undergoing splenectomy: a prospective study, Vet Surg, 23: 101-106 Snyder PS, Cooke KL, Murphy ST, Shaw NG, Lewis DD, Lanz OI, (2001), Electrocardiographic findings in dogs with motor vehicle-related trauma, JAAHA, 37(1): 55-63 Gerritsen RJ, van den Brom, Stokhof AA (1996), Relationship between atrial fibrillation and primary hypothyroidism in the dog, Vet Quart, 18: 49-51.

Indirizzo per la corrispondenza: Dott. Francesco Migliorini DVM Centro Veterinario Gregorio VII Roma Via Gregorio VII, 518 Tel 066621686 Fax 066620187 Email: migliof@tiscali.it


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Comuni errori alimentari nell’allevamento dei rettili: conseguenze, prevenzione e rimedi Massimo Millefanti Med Vet, Gaggiano (MI)

RELAZIONE NON PERVENUTA È possibile farne richiesta al relatore. Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Millefanti e-mail: millefanti@supereva.it


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Il treadmill in piscina nella terapia riabilitativa: protocolli di impiego Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

La terapia acquatica è caratterizzata da molti benefici. L’esercizio in acqua risulta efficace per migliorare la forza, la resistenza muscolare e quella cardiorespiratoria, l’escursione del movimento, l’agilità e il benessere psicologico, mentre riduce al minimo il dolore.

Proprietà fisiche dell’esercizio in acqua L’acqua possiede molte proprietà che risultano utili per riabilitazione, quali la spinta di galleggiamento, la viscosità, la resistenza, la pressione idrostatica e la tensione superficiale. La spinta di galleggiamento, o galleggiabilità, è la spinta verso l’alto esercitata dall’acqua su un corpo che determina un’apparente diminuzione del suo peso quando esso viene immerso. Tale spinta favorisce la riabilitazione dei muscoli deboli e delle articolazioni dolenti. In uno studio condotto sul cane, la quantità del peso corporeo sostenuta grazie all’immersione in acqua (espressa come percentuale del peso corporeo sulla terra ferma) era del 91% circa quando l’acqua era a livello del malleolo laterale della tibia, dell’85% a livello del condilo laterale del femore e del 38% a livello del grande trocantere. Questa informazione può essere particolarmente utile quando si trattano pazienti con artrite, perché le articolazioni possono essere scaricate grazie alle proprietà di galleggiamento in acqua. Quando un corpo viene immerso in acqua, la pressione idrostatica si esercita sui tessuti, raggiungendo valori più elevati in corrispondenza di quelli più profondi. La pressione idrostatica si oppone alla tendenza del sangue e dell’edema a ristagnare nelle porzioni più declivi del corpo e può quindi contribuire alla riduzione delle tumefazioni. Inoltre, la pressione idrostatica può ridurre il dolore durante l’esercizio. La viscosità o resistenza al flusso dei fluidi è maggiore nell’acqua che nell’aria, il che rende più difficile muoversi attraverso la prima piuttosto che nella seconda. L’acqua offre una resistenza che può irrobustire i muscoli e migliorare lo stato di forma cardiovascolare. Può anche servire ad evitare le cadute aumentando il tempo lasciato ai pazienti per reagire. La resistenza al movimento è leggermente superiore sulla superficie dell’acqua, poiché a questo livello esiste una maggiore coesione. La tensione superficiale non è un fattore se la parte del corpo in movimento è completamente immersa nell’acqua, ma diviene tale quando un arto ne spezza la superficie. Se il paziente è debole, i movimenti si possono effettuare più facilmente in acqua subito sotto la superficie piuttosto che a livello della stessa o al di sopra di essa.

Condizioni che traggono beneficio dalla terapia in acqua Esistono molte condizioni per le quali la terapia al treadmill in piscina può essere utile, come le fratture, la stabilizzazione del legamento crociato craniale, le condizioni neurologiche, le tendiniti, il condizionamento ed altri disordini in cui sono presenti scarsa forza, ridotta escursione di movimento, insufficiente capacità propriocettiva o capacità di caricare l’arto.

Funzioni ed uso del treadmill in piscina La riluttanza ad utilizzare un arto dopo un danno è un evento comune. I cani che tendono a non impiegare un arto sul terreno possono invece servirsene sott’acqua. Un giubbotto di salvataggio o altri mezzi di galleggiamento possono aumentare la galleggiabilità. Il gioco di andare a prendere una palla o un altro oggetto può determinare un spinta motivazionale. I cani possono anche essere portati a passeggio nelle acque di laghi o fiumi. In questo caso, è necessario operare con cautela per evitare che si immergano o saltino giù dai moli o dalle sponde per prevenire le lesioni. Inoltre, è necessario tenere presente la sanità dell’acqua ed i pericoli naturali. Le passeggiate in acqua possono essere utilizzate come progressione verso il nuoto se l’animale è troppo debole o afflitto da un dolore troppo intenso per nuotare sin dall’inizio. Oltre alla galleggiabilità dell’acqua, durante la terapia in piscina si ha anche un’alterazione della cinematica articolare e la conoscenza di ciò è utile per mettere a punto i programmi di esercizio. Ad esempio, l’estensione del ginocchio è inferiore nei cani che nuotano rispetto a quelli che camminano nell’acqua. Regolare il livello dell’acqua può influire ulteriormente sulla cinematica articolare perché quelle particolari articolazioni che si trovano sotto la superficie devono acquisire il momento necessario per superare la tensione superficiale dell’acqua. Uno studio ha confrontato cani condotti al passo su un treadmill normale con quelli condotti al passo su un treadmill sott’acqua. Il livello dell’acqua era regolato all’altezza del grande trocantere, del ginocchio, del garretto e dell’estremità distale del piede. Gli angoli articolari sono stati determinati durante l’andatura sia a livello degli arti anteriori che posteriori. A differenza del nuoto, con le passeggiate al treadmill in piscina non si osserva alcuna riduzione significativa dell’estensione articolare durante la fase iniziale di appoggio quando i livelli dell’acqua sono situati in corrispondenza del ginocchio e distalmente ad esso. Di conse-


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guenza, i cani presentano una completa estensione attiva di tutte le articolazioni durante un ciclo dell’arto. Tuttavia, l’estensione dell’anca, del ginocchio e del garretto durante l’ultima fase della propulsione era diminuita quando il livello dell’acqua era portato sino al grande trocantere. La flessione articolare era aumentata con le passeggiate al treadmill sott’acqua. In generale, la flessione articolare era maggiore con i livelli dell’acqua in corrispondenza o al di sopra dell’articolazione di interesse. Quindi, i vantaggi della flessione articolare aggiuntiva ottenuta con il nuoto sono presenti anche nelle passeggiate al treadmill in piscina, ma in questo caso si ha anche una completa estensione delle articolazioni. Per alterare la cinematica articolare si può anche utilizzare un mezzo di galleggiamento applicato ad un arto. Se si desidera un ulteriore movimento di tutte le articolazioni di un particolare arto, il galleggiante può essere applicato all’arto colpito. Se si vuole ottenere un’estensione articolare aggiuntiva ed un aumento del tempo di appoggio, deve essere applicato all’arto controlaterale.

Controindicazioni e precauzioni della terapia acquatica Alcuni cani temono l’acqua e questo fattore va preso in considerazione prima del trattamento. Sembra tuttavia che le probabilità che gli animali si spaventino siano minori con il treadmill sott’acqua in confronto al nuoto in una piscina. Un cane in preda al panico può ferire se stesso o il conduttore dibattendosi eccessivamente. Se possibile, i cani trattati con la terapia acquatica devono essere abituati all’acqua prima dell’intervento chirurgico. La valutazione preoperatoria non è possibile nel caso di alcune lesioni traumatiche, come ad esempio le fratture. I cani non devono mai essere lasciati in acqua senza sorveglianza. Per ridurre al minimo il rischio di infezione, il trattamento acquatico va rinviato fino alla rimozione delle suture se non vi sono complicazioni delle ferite, come la presenza di un essudato a livello dell’incisione, il mancato accostamento dei margini della lesione o la presenza di segni di infezione. Possono esserci delle condizioni che richiedono una terapia acquatica più precoce. Indipendentemente da ciò la ferita deve essere chiusa prima di iniziare la terapia acquatica. La pulizia dell’acqua può influire su questa decisione, così come la salute complessiva dell’animale e l’anamnesi medica. Bisogna anche tenere conto dello stato di forma del cane, perché molti di questi animali inizialmente non sono in grado di svolgere l’esercizio per più di qualche minuto prima di mostrare segni di stanchezza.

Esercizi specifici I treadmill disponibili in commercio possiedono una camera destinata all’esercizio, il treadmill, una con funzioni di stoccaggio dell’acqua, un cloratore, un riscaldatore, filtri e pompe. È importante non lasciare che il livello dell’acqua salga molto più su dell’articolazione del gomito, perché il cane può talvolta essere preso dal panico durante il passaggio dalla stazione al nuoto. Dopo aver raggiunto il livello dell’acqua appropriato, si avvia il treadmill. La maggior parte dei cani riesce a camminare facilmente sull’apparecchio. Se un animale è affetto da problemi neurologici o risulta molto debole, può essere necessario servirsi di un assistente per aiutarne il movimento degli arti.

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Nella maggior parte dei casi, il treadmill viene avviato ad una velocità corrispondente ad una passeggiata lenta. Inizialmente, in genere risultano adeguati 3-5 minuti due volte al giorno per abituare gli animali al treadmill sott’acqua ed iniziare il programma di riabilitazione. Quando questi soggetti diventano più vigorosi ed il dolore si risolve, la durata di ciascuna sessione e la velocità della passeggiata possono essere facilmente aumentati fino ad arrivare ad un passo molto rapido o al trotto per 20 o 30 minuti due volte al giorno. È necessario tenere in considerazione il tipo e la gravità della condizione da cui è colpito l’animale. Se il paziente è affetto da gravi problemi neurologici, la semplice stazione in acqua senza che il treadmill si muova può consentirgli di sostenere il proprio peso in un ambiente che favorisce il galleggiamento. Molti pazienti che non cercano di alzarsi in stazione sul terreno asciutto lo fanno in acqua, proprio grazie al sostegno che questa conferisce. Man mano che il cane recupera una certa funzione motoria degli arti, si può tentare qualche passeggiata al treadmill, ma è sempre necessario un assistente che aiuti a muovere gli arti colpiti in avanti durante la fase appropriata del ciclo dell’andatura. I pazienti convalescenti da un ciclo di chirurgia articolare, soprattutto per rottura del legamento crociato craniale, possono iniziare il trattamento 4-10 giorni dopo l’operazione, a seconda delle condizioni dell’incisione. Il treadmill deve essere regolato ad una velocità corrispondente ad una passeggiata lenta per il cane, iniziando da 3 minuti due volte al giorno ed aumentando di circa 1 o 2 minuti per sessione, a seconda dei progressi del cane. A partire dalla seconda settimana, la velocità può essere aumentata ogni giorno fino ad arrivare ad un passo costante al termine della seconda settimana. Il paziente deve essere monitorato accuratamente per accertarsi che la zoppia non peggiori dopo ogni sessione. L’osteoartrite è una delle condizioni più utili da trattare con il treadmill in piscina. La galleggiabilità dell’acqua contribuisce ad alleviare la pressione sulle articolazioni artritiche, mentre la sua resistenza consente l’irrobustimento della muscolatura ed il condizionamento cardiovascolare. La pressione idrostatica aiuta ad alleviare la tumefazione articolare e può determinare qualche effetto analgesico benefico. Inoltre, il che è forse la cosa più importante, il treadmill sott’acqua offre al paziente artritico ed obeso l’opportunità di fare esercizio in un ambiente in cui gli effetti degli urti sono limitati e di ottenere uno sgravio di peso, che rappresenta una parte importante del trattamento complessivo dei pazienti artritici. Quasi tutti questi animali traggono vantaggio dalla terapia con il treadmill sott’acqua.

Bibliografia Bates A, Hanson N: Aquatic exercise therapy, Philadelphia, 1996, W.B. Saunders. Jackson A et al: Joint kinematics of dogs walking on ground and aquatic treadmills. In Proc 2nd Int Symp Rehabil Phys Ther Vet Med, Knoxville, Tenn, 2002, p 191. Levine D, Tragauer V, Millis DL: Percentage of normal weight bearing during partial immersion at various depths in dogs, Proceedings of the Second International Symposium on Rehabilitation and Physical Therapy in Veterinary Medicine, Knoxville, Tenn, 2002. Marsolais GS et al: Kinematic comparison of swimming and terrestrial motion in normal dogs and dogs stabilized for cranial cruciate ligament rupture. In Proc 29th Annu Conf Vet Orthoped Soc 2002, p 45. Millis DL, Levine D, Taylor RA. Canine Rehabilitation and Physical Therapy. 1st ed. Elsevier, 2004. Tovin BJ et al: Comparison of the effects of exercise in water and on land on the rehabilitation of patients with intra-articular anterior cruciate ligament reconstructions, Phys Ther 74:710-719, 1994.


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