48a edizione Scivac Rimini - parte2

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Metodiche di riabilitazione nelle lesioni da attività sportiva Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

Le competizioni canine stanno diventando sempre più popolari. Le gare di agility per questa specie animale sono quelle caratterizzate dalla più rapida crescita. Altri sport canini continuano a suscitare notevole interesse, come le corse di cani da slitta, il training schutzhund, la caccia, le gare di frisbee e la caccia coi levrieri. Indipendentemente dall’evento sportivo, esistono numerose lesioni che possono colpire il cane, alcune delle quali di minore entità ed altre capaci di porre fine alla carriera agonistica di uno di questi animali. Esistono numerosi fattori che possono ridurre le probabilità di lesione. La riabilitazione può migliorare le chances di un cane di tornare in attività.

Prevenzione Anche se alcune lesioni sono inevitabili, la prevenzione è preferibile al fatto di riportare un grave danno. I programmi di prevenzione ottimale si basano su corretta selezione di un cane per un particolare evento, inizio della preparazione alla giusta età, adozione di un appropriato programma di condizionamento e preparazione fisica, educazione dei proprietari riguardo alla valutazione del loro cane dopo ogni impegno sportivo e controllo regolare per essere certi che non si siano verificati problemi da impiego eccessivo. Scelta appropriata: Alcuni cani sono più adatti di altri a certi sport. I soggetti alti con arti lunghi sono più predisposti alla corsa ed alle competizioni di endurance, mentre quelli con una struttura più corta possono essere più adatti alle attività di potenza. La conformazione può influire sulle forze esercitate sugli arti durante l’attività. Ad esempio, durante il salto le forze esercitate sugli arti anteriori sono maggiori nei cani con angoli articolari minori piuttosto che in quelli in cui tale angolazione risulta maggiore. Programmi di preparazione fisica: un programma di preparazione fisica appropriato è essenziale per prevenire le lesioni. Per evitare l’insorgenza della fatica è fondamentale un opportuno condizionamento cardiovascolare. Quando gli animali si stancano, la loro coordinazione viene compromessa, per cui risultano maggiormente suscettibili alle lesioni. I programmi di preparazione devono essere il più possibile specifici per ogni singolo sport. Ad esempio, è essenziale che i cani da slitta vengano sottoposti al condizionamento nella neve, per irrobustire i muscoli delle spalle e delle anche che verranno utilizzati per trascinare la slitta. Bisogna fare attenzione ai programmi di preparazione attuati nei cani che non hanno ancora raggiunto la maturità scheletrica. La maggior parte degli operatori che si occupano della preparazione all’agility sconsigliano un allenamento intenso ai salti fino all’età di 12-18 mesi. Queste linee guida rappresentano un’indicazione prudente, perché le forze concussive associate al salto possono danneggiare la cartilagine di sviluppo. Ad esempio, i ca-

ni di grossa taglia che saltano da un’altezza di circa 60 cm caricano sui propria arti anteriori al momento dell’atterraggio una forza equivalente al 310% del loro peso corporeo, mentre quelli che saltano un ostacolo di circa 90 cm sottopongono i loro arti anteriori all’equivalente del 430% del loro peso corporeo. Riconoscimento precoce: Il riconoscimento precoce dei problemi può esitare nella riduzione del tempo di guarigione e consentire di prevenire lesioni tali da compromettere la carriera agonistica degli animali. L’identificazione precoce del superlavoro può consentire al cane di recuperare prima che si sviluppi un danno permanente. È necessario insegnare ai proprietari ad esaminare con la palpazione gli arti, le articolazioni, il dorso ed il collo dei loro cani per rilevare ogni eventuale problema prima e dopo ogni sessione di allenamento.

Lesioni sportive L’osteoartrite è l’affezione più comune dei cani sportivi. Si riscontra con maggiore frequenza nei soggetti con anomalie della biomeccanica articolare, dovute ad alterazioni di conformazione oppure a lesioni. La riabilitazione può influire profondamente sull’osteoartrite dei cani sportivi. In questi animali, la rottura del legamento crociato craniale è probabilmente la lesione più devastante. Oltre alla rottura del legamento, i cani sviluppano un’osteoartrite. Distorsioni e stiramenti sono relativamente frequenti, ma spesso non vengono diagnosticati. I cani con lesioni lievi possono essere tenuti a riposo e sottoposti ad una terapia conservativa. La sindrome di iperestensione carpale è una grave distorsione che interessa i legamenti del carpo e la fibrocartilagine palmare e che di solito richiede la fusione delle articolazioni. Nei cani che saltano spesso o vengono allenati in terreni fangosi sono particolarmente comuni le distorsioni dei muscoli bicipite e sopraspinato. Le lesioni muscolari vengono graduate in funzione della loro gravità, ed i muscoli colpiti più comunemente sono rappresentati da gracile, tensore della fascia lata, tricipite, ileopsoas, gastrocnemio e bicipite femorale. La contrattura del muscolo infraspinato è una condizione ben riconosciuta.

Trattamento delle lesioni acute La prognosi sarà tanto migliore e le probabilità di un danno permanente saranno tanto minori quanto più rapidamente viene avviato il trattamento di una lesione acuta. La chiave per il riconoscimento precoce di queste condizioni è la valutazione frequente ed approfondita. In alcuni casi, un cane può compensare un danno sottostante, determinando la comparsa di un problema a livello di un’altra articolazione o di un altro arto. Durante il danno tissutale acuto si ricorre alla crioterapia per ridurre le lesioni dei tessuti e le risposte infiammatorie secon-


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darie. Gli effetti primari della crioterapia sono rappresentati da vasocostrizione, riduzione del flusso ematico, diminuzione del metabolismo e della permeabilità cellulari, calo della velocità di conduzione nervosa, analgesia, riduzione dell’edema e diminuzione dello spasmo muscolare. Per l’applicazione superficiale del freddo si possono utilizzare diversi metodi. Il più semplice consiste nell’applicare direttamente sull’area colpita del ghiaccio tritato avvolto in un telo sottile e poi in una borsa di plastica. Per prevenire il danno cutaneo, bisogna evitare il contatto diretto dell’impacco ghiacciato con la cute dell’animale. Le applicazioni devono durare per 15-25 minuti alla volta.

Escursione del movimento ed esercizi di stiramento L’escursione attiva del movimento (ROM, active range of motion) è necessaria per un esito di successo. Alcuni pazienti che non vengono sottoposti precocemente ad esercizi di ROM dopo l’intervento chirurgico per la rottura del legamento crociato craniale presentano una riduzione dell’estensione del ginocchio, che in alcuni soggetti, se non vengono trattati con una riabilitazione appropriata, risulta permanente. Anche se può essere necessario immobilizzare un arto, è ben rendersi conto delle conseguenze. In seguito all’immobilizzazione articolare si ha la riduzione della escursione attiva del movimento e possono occorrere 8-12 settimane di ripresa della mobilizzazione per ottenere un miglioramento. La riabilitazione può contribuire ad abbreviare questo periodo. Per eseguire l’escursione attiva del movimento il paziente deve essere posto in decubito laterale, con l’arto colpito verso l’alto. Si flette lentamente l’articolazione trattata, mantenendo le altre in posizione neutrale, fino a che il paziente non inizia a mostrare segni di disagio, e poi la si estende lentamente fino alla comparsa delle prime manifestazioni di fastidio. È possibile effettuare l’escursione attiva del movimento funzionale su numerose articolazioni simultaneamente. Risulta anche utile flettere ed estendere tutte le articolazioni di un arto in un modo da simulare il normale quadro dell’andatura. Nella maggior parte delle condizioni, sono probabilmente adeguate 15-20 ripetizioni effettuate 24 volte al giorno. Quando l’escursione attiva del movimento ritorna alla normalità si può ridurre la frequenza. I pazienti possono trarre beneficio dall’attuazione di attività che incoraggino una maggiore escursione attiva del movimento, come il nuoto o le passeggiate nell’acqua. Altre attività sono le passeggiate nella neve, nella sabbia o nell’erba alta, lo strisciare attraverso una galleria da gioco, il salire le scale e il camminare scavalcando una serie di cavalletti. Le tecniche di stiramento vengono spesso attuate in associazione con gli esercizi di escursione attiva del movimento per migliorare la flessibilità delle articolazioni e l’estensibilità dei tessuti periarticolari, dei muscoli e dei tendini. Lo stiramento viene effettuato per allungare i tessuti che hanno subito un accorciamento patologico e per aumentare la flessibilità ed il movimento articolare. Lo stiramento porta i tessuti oltre i limiti normali della escursione attiva. Bisogna evitare uno stiramento eccessivo per assicurarsi che i tessuti non vengano danneggiati. La presenza di aderenze cicatriziali fra i tessuti normali funge da vincolo ed impedisce il normale movimento di scivolamento reciproco di queste strutture. È possibile prevenire la formazione di queste aderenze con un appropriato stiramento e, forse, con il massaggio dei tessuti profondi. Muscoli, legamenti, tendini, capsula articolare e cute rispondono in modo differente allo stiramento. Il terapista deve pren-

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dere in considerazione quali tessuti stiano limitando la motilità e scegliere le tecniche appropriate per contribuire ad ottenere una funzione più normale. L’effetto acuto dello stiramento è l’immediato allungamento della componente elastica dell’unità muscolotendinea. Uno stiramento cronico nel tempo con i tessuti bersaglio dell’arto immobilizzati in posizione allungata può esitare nell’aggiunta di sarcomeri al tessuto muscolare allungato. Quando viene stirato alla fine di una escursione attiva del movimento, il tessuto rimane elastico, ed il suo rilascio esita in un ritorno alla normale posizione di riposo. Se la sollecitazione perdura, si può avere una deformazione plastica. Bisogna stare attenti ad evitare di effettuare lo stiramento in modo troppo rapido, perché ciò può causare un danno tissutale o una stimolazione del fascio muscolare ed un aumento della contrazione muscolare. Lo stiramento statico consiste nel porre le articolazioni in una posizione tale che muscoli e tessuto connettivo vengano stirati mentre tiene i tessuti alla loro massima lunghezza per 15-30 secondi. Dopo lo stiramento, i tessuti vengono lasciati tornare in posizione neutrale, dopo di che si applica nuovamente lo stiramento anche per 20 volte in una sessione. Il programma di stiramento effettuato 3-5 volte alla settimana può aumentare la flessibilità. Lo stiramento meccanico prolungato è uno stiramento a bassa intensità esercitato per un periodo minimo di 20 minuti e fino a diverse ore. Negli animali, è possibile applicare stecche o altri mezzi di immobilizzazione per assicurare uno stiramento prolungato. Il riscaldamento dei tendini prima dello stiramento può esitare in un minor danno tissutale ed in un maggiore allungamento. Per riscaldare i tessuti prima dello stiramento si ricorre al trattamento terapeutico con ultrasuoni.

Altre modalità L’irrobustimento e le attività di endurance devono essere reintrodotte gradualmente dopo una lesione durante la riabilitazione, accertandosi che la condizione patologica non venga esacerbata. Le attività che determinano un aumento della potenza, come il salto, lo sprint ed il tirare dei pesi devono essere strettamente monitorate. Per contribuire a raggiungere la meta di un aumento del rendimento e concorrere al controllo dell’infiammazione si deve prendere in considerazione la possibilità di ricorrere ad un uso oculato di farmaci antinfiammatori non steroidei. Le attività acquatiche sono molto utili nei pazienti con osteoartrite per contribuire alla escursione attiva del movimento, allo sviluppo muscolare ed alla robustezza cardiovascolare. Tuttavia, non servono ad aumentare la massa ossea. Di conseguenza, la riabilitazione deve comprendere alcune attività specifiche per lo sport praticato.

Bibliografia Loonam JE, Millis DL, Evans M, Moyer TL, Hamilton S: The effect of therapeutic ultrasound on tendon heating and extensibility. Proc Vet Orthop Soc, Steamboat Springs, CO, 2003 McMaster W: A literary review on ice therapy in injuries. Am J Sports Med 5:124-126, 1977 Millis DL, Levine D, Taylor RA. Canine Rehabilitation and Physical Therapy. 1st ed. Elsevier, 2004. Olson J, and Stravino V: A review of cryotherapy. Physical Ther 62:840-853, 1972 Olson,VL: Evaluation of joint mobilization treatment. A method. Phys.Ther 67:351-56, 1987 Schollmeier,G, Sarkar,K, Fukuhara,K, Uhthoff, HK: Structural and functional changes in the canine shoulder after cessation of immobilization. Clin Orthop (323):310-15, 1996 Yanoff SR, Hulse DA, Hogan HA, Slater MR, Longnecker MT: Measurements of vertical ground reaction force in jumping dogs. Vet Comp Orthop Trauma 5:44-50, 1992


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Esercizi terapeutici Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

L’esercizio terapeutico è una delle più valide modalità utilizzate nella riabilitazione fisica del cane. Alcuni suoi scopi sono il miglioramento dell’escursione attiva dei movimenti che è possibile compiere senza dolore, l’irrobustimento della massa e della forza muscolare, l’equilibrio, il rendimento delle funzioni giornaliere e la capacità aerobica; inoltre, contribuisce a prevenire ulteriori danni ed a ridurre il peso e la zoppia. L’attrezzatura necessaria è relativamente poco costosa ed è possibile applicare principi simili ad una gran varietà di individui e condizioni diverse. Man mano che l’animale migliora e la condizione tissutale progredisce, il piano dell’esercizio deve essere modificato in modo da adattarsi ai progressi del paziente.

ESERCIZI IN STAZIONE I pazienti con gravi lesioni possono non essere in grado di mantenere la stazione e sostenere il proprio peso corporeo. Gli esercizi in stazione possono irrobustire gli animali, contribuire all’allenamento propriocettivo ed incrementare il benessere psicologico del paziente. Gli scopi degli esercizi assistiti sono quelli di incoraggiare la funzione neuromuscolare, rieducare i muscoli e sviluppare forza e vigore della muscolatura di sostegno. Sono candidati agli esercizi in stazione gli animali con molteplici lesioni ortopediche o colpiti da affezioni neurologiche. Per eseguire gli esercizi in stazione, si fa passare un’imbracatura o un telo sotto la parte craniale del torace e/o quella caudale dell’addome per le condizioni che colpiscono, rispettivamente, gli arti anteriori, quelli posteriori o entrambi. Gli arti dell’animale vengono collocati nella normale posizione in stazione, con le estremità appoggiate sul terreno in modo da formare un rettangolo. Il cane deve essere incoraggiato a sostenere il proprio peso corporeo e bisogna offrirgli solo l’assistenza necessaria a mantenere la posizione in stazione. Mentre sostiene l’animale, l’operatore allenta lentamente la tensione del sistema di sospensione, permettendo al soggetto di continuare a caricare il proprio peso fino a che è in grado di reggerlo. Se il cane inizia a collassare, l’imbracatura viene delicatamente tirata verso l’alto in modo da aiutare il paziente a tornare nella posizione in stazione e si ripete l’esercizio. Anche se la durata di ogni sessione deve adattarsi alla tolleranza dell’animale, inizialmente ci si propone di effettuare 10-15 serie ripetute 2 o 3 volte al giorno, aumentando gradualmente fino a 5 minuti per sessione.

DEAMBULAZIONE INDIPENDENTE Passeggiate al guinzaglio Le lente passeggiate al guinzaglio sono forse l’esercizio più importante nel primo periodo di riabilitazione, ma spesso vengono effettuate in modo non corretto. La passeggiata deve essere abbastanza lenta da consentire il carico degli arti. Quando l’animale è riluttante ad impiegare un arto a causa di dolore, debolezza o deficit della propiocezione, sono indicate le passeggiate lente al guinzaglio. Queste incoraggiano l’appoggio di ciascun arto sul terreno, aumentando la durata della stazione e del periodo di carico. Il cane deve essere premiato quando appoggia l’arto al suolo. Quando poi l’animale recupera l’uso dell’arto colpito e risulta costantemente in grado di appoggiarlo a terra durante una lenta passeggiata al guinzaglio, è possibile accelerare la cadenza del passo.

Passeggiate al treadmill Le passeggiate al treadmill sono molto utili durante la riabilitazione. La maggior parte dei cani abituati ad un guinzaglio impara facilmente a camminare sul treadmill in una o due sessioni. Per sostenere il cane se inciampa o cade, può servire una pettorina. Guide laterali o barriere collocate su entrambi i lati del treadmill sono utili se il cane tende a scendere di lato. Altre valide caratteristiche sono il controllo variabile della velocità, un timer e la capacità di modificare l’inclinazione della superficie. I treadmill sono utili per stabilire uno schema dell’andatura ed incoraggiare l’iniziale carico dell’arto dopo un intervento. Gli animali non sono abituati al fatto che il terreno si muova sotto di loro, per cui quando camminano su un nastro in movimento, hanno difficoltà di propiocezione, coordinazione ed equilibrio. Il terreno che si muove sotto di lui spesso spinge un cane che non pone sotto carico un arto ad iniziare ad usarlo. Per i pazienti colpiti da affezioni neurologiche, il terapista si può collocare dietro il cane e far avanzare manualmente un piede durante la normale sequenza dell’andatura, per incoraggiarne la rieducazione. La passeggiata al treadmill è meno dolorosa in alcuni pazienti perché il nastro scorrevole offre assistenza all’estensione dell’anca e del ginocchio tirando indietro l’arto posteriore. Il treadmill può essere inclinato verso l’alto o verso il basso in modo da ridurre o aumentare le forze esercitate sugli arti anteriori o posteriori. Per aumentare la re-


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sistenza opposta agli arti durante l’attività del treadmill, è possibile impiegare una banda elastica che si opponga a specifici gruppi muscolari. Questa banda viene fissata all’estremità coinvolta e l’operatore la assicura stabilmente al capo opposto. L’avanzamento attivo assistito di un arto durante la fase di oscillazione dell’andatura può anche essere eseguito utilizzando una banda elastica. Un animale con deficit della propiocezione conscia o debolezza muscolare che non sia in grado di sollevare il piede dal suolo durante la fase di oscillazione del passo può essere assistito utilizzando una banda elastica.

Salire le scale Quando il cane inizia ad utilizzare costantemente l’arto colpito al passo e la zoppia diminuisce, è possibile aggiungere al piano di lavoro l’esercizio di salire le scale. Questo risulta utile per aumentare la potenza dei muscoli estensori dell’arto posteriore. Questo tipo di attività si può iniziare se la riparazione è stabile ed il cane utilizza costantemente l’arto al passo e la zoppia diminuisce. Bisogna incoraggiare il cane a procedere lentamente e deliberatamente, salendo le scale con un piede dopo l’altro e non a balzi. Si comincia con 5-7 passi e si aumenta gradualmente di 2-4 rampe di scale 1 o 2 volte al giorno.

Ballare e fare la carriola Il ballo aumenta il carico sugli arti posteriori e stimola la propiocezione, la coordinazione e l’equilibrio. Prima dell’esercizio, è necessario mettere la museruola al cane. Gli arti anteriori vengono sollevati dal suolo, lasciando che il paziente scarichi il proprio peso solo su quelli posteriori. I cani con propiocezione normale spostano gli arti posteriori come “danzassero” avanti ed indietro. Possono anche danzare su e giù da piani inclinati o pendii. La carriola è un esercizio simile al danzare, tranne che per il fatto che è finalizzato ad agire sugli arti anteriori. Anche in questo caso, si deve applicare una museruola al cane. L’operatore solleva dal suolo gli arti posteriori dell’animale e lo spinge in avanti. I cani con propiocezione normale spostano gli arti anteriori in modo da non cadere. La carriola può essere effettuata anche in salita ed in discesa, per ottenere un maggiore rafforzamento muscolare.

Jogging Il jogging si può iniziare nei casi in cui la riparazione chirurgica è stabile ed il cane è in grado di camminare sull’arto mostrando zoppia e dolore di grado minimo. Si inizia lentamente, per periodi di 0,5-3 minuti 1-3 volte al giorno, per arrivare fino a 20 minuti 2 o 3 volte al giorno. Bisogna assicurarsi che la zoppia non peggiori dopo l’esercizio.

Esercizio seduto-in piedi L’esercizio seduto-in piedi aiuta a rafforzare i muscoli estensori dell’anca e del ginocchio e migliora l’escursione

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del movimento attivo. Bisogna prestare attenzione al fatto che l’animale si sieda e si alzi restando diritto, senza inclinarsi verso uno dei lati, e che le articolazioni di entrambi gli arti posteriori vengano simmetricamente flesse, in modo che il cane si sieda assumendo una posizione squadrata sulle sue anche. L’operatore ordina al cane di alzarsi, fare qualche passo avanti e poi sedersi di nuovo. In alcuni casi, può essere più facile condurre il cane in un angolo, con l’arto colpito vicino ad una parete, in modo che non possa far scivolare l’arto verso l’esterno mentre si alza o si siede. Si comincia con delle serie da 5-10 ripetizioni 1 o 2 volte al giorno e si arriva fino a 15 ripetizioni 3-4 volte al giorno.

Barriere a cavalletto Le barriere a cavalletto sono delle barre disposte su sostegni in modo tale che si trovino orizzontalmente rispetto al terreno, ad un’altezza ridotta. Incoraggiano l’escursione attiva del movimento e l’allungamento del passo. Possono anche essere utilizzati per stimolare la propiocezione, l’equilibrio ed il coordinamento. Le barre devono essere distanziate e collocate a distanza appropriata, da stabilire in funzione della normale lunghezza del passo del cane. Quest’ultimo può essere stimolato aggiungendo più barre, aumentando l’altezza a cui sono collocate per indurre una maggiore flessione ed estensione attiva dell’articolazione e disponendole alternativamente ad altezze variabili rispetto al suolo.

Slalom fra i pali Lo slalom fra pali verticali aiuta a promuovere la curvatura laterale del tronco del cane ed inoltre stimola la funzione propriocettiva e l’irrobustimento dei muscoli abduttori ed adduttori dell’arto. La distanza fra i pali deve essere regolata in modo tale che ne derivi una sufficiente curvatura laterale. In generale, deve essere leggermente inferiore alla lunghezza del corpo del cane. Inoltre, l’operatore deve condurre l’animale in modo da ottenere una flessione della testa, del collo e del corpo nel momento in cui vengono superati i pali.

Trasporto di pesi Agli arti dei cani è possibile applicare dei pesi. È necessario fare attenzione quando si esegue questa operazione per la prima volta, perché alcuni di questi animali possono scuotere l’arto o mostrare un movimento esagerato a causa della modificazione della sensazione. È possibile che si verifichi un danno, per cui è importante introdurre gradualmente il peso al fine di consentire un periodo di accomodamento. Un altro fattore da tenere in considerazione è la localizzazione del peso applicato all’arto. La forza richiesta per muovere un arto è maggiore se il peso è situato più distalmente e ciò esercita un’ulteriore forza torcente sulle articolazioni, il che può essere indesiderabile se l’animale sta guarendo da un intervento di chirurgia articolare. In questa situazione, l’applicazione del peso in posizione più prossimale riduce le forze esercitate sull’arto e sulle articolazioni.


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Giocare a palla in condizioni controllate Il gioco della palla è una forma efficace di esercizio terapeutico apprezzata sia dai cani che dai loro proprietari. Il livello di attività dipende dall’intervento chirurgico eseguito, dalle condizioni dei tessuti e dal loro stadio di guarigione. Il gioco deve iniziare servendosi di un guinzaglio relativamente corto, in modo da evitare che l’animale si lanci in un’attività fisica esplosiva nel primo periodo postoperatorio. Man mano che le condizioni del paziente progrediscono, il cane potrà giocare a palla in un’area chiusa, come un recinto. Questa attività aumenta la potenza, la velocità e la robustezza della muscolatura. Nella maggior parte dei casi è necessario evitare i salti per ridurre il rischio di lesioni.

Metodi per incoraggiare il carico degli arti In alcuni cani e la maggior parte dei gatti sono necessarie speciali stimolazioni per la riabilitazione dopo un evento traumatico. Sull’estremità dell’arto non lesionato è possibile applicare un cappuccio da siringa tenendolo in posizione con del nastro adesivo, in modo da incoraggiare il carico dell’arto controlaterale colpito. Molti gatti cercano di acchiappare

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la macchia di luce proiettata da una torcia elettrica sulle pareti ed il pavimento di una stanza. Alcuni cani e gatti inseguono anche la luce rossa di un puntatore laser. La maggior parte dei gatti ed alcuni cani giocano con un giocattolo. È importante fornire al proprietario informazioni relative alla durata del periodo di gioco, in modo da ridurre il rischio di affaticamento e lesioni. Un’altra tecnica che risulta talvolta utile per incoraggiare l’uso dell’arto nei casi difficili è quella di porsi davanti all’animale e muoversi tenendo in mano un bocconcino, incoraggiando l’animale a seguirlo. Questa tecnica è anche utile per stimolare la curvatura laterale negli animali che presentano rigidità del collo o di altre porzioni della colonna vertebrale. Con il soggetto in stazione, il bocconcino può essere spostato da destra a sinistra e su e giù, in modo da favorire la mobilità della colonna e dei muscoli circostanti. Questa tecnica è controindicata negli animali con instabilità del canale spinale o in quelli con instabilità dei dischi intervertebrali.

Bibliografia Millis DL, Levine D, Taylor RA. Canine Rehabilitation and Physical Therapy. 1st ed. Elsevier, 2004.


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Esercizi di propriocezione: basi scientifiche e metodiche Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

RELAZIONE NON PERVENUTA

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Metodiche per la misurazione dei miglioramenti ottenuti: come e quando Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

La valutazione dell’esito dei trattamenti della riabilitazione fisica è essenziale per stabilire come un animale stia progredendo e per determinare l’efficacia dei protocolli terapeutici. La valutazione deve basarsi, ogni volta che sia possibile, su dati obiettivi. Documentare i progressi è importante per giustificare la prosecuzione del trattamento. Per la valutazione dei risultati sono molto utili diverse misure, come il recupero funzionale, la capacità di eseguire normali attività della vita quotidiana, l’analisi dell’andatura, la funzione articolare, la composizione corporea, la massa muscolare e le impressioni dei proprietari e dei veterinari.

bile del carico dell’arto. I sistemi basati sulle placche di forza sono disponibili presso molte facoltà di medicina veterinaria ed alcune strutture private. La cinematica, o analisi del movimento dell’andatura rappresenta un mezzo potente che può essere utilizzato per misurare gli angoli di flessione ed estensione delle articolazioni durante l’andatura, la lunghezza del passo ed altri parametri dello stesso. L’analisi cinematica tridimensionale dell’andatura ha invece una disponibilità piuttosto limitata perché necessita di apparecchiature sofisticate e costose.

Attività della vita quotidiana

Il movimento articolare può essere valutato utilizzando criteri obiettivi e soggettivi. Il movimento di flessione ed estensione dell’articolazione può essere quantificato utilizzando un goniometro. In letteratura sono stati indicati gli angoli normali di massima flessione ed estensione. La misurazione degli angoli massimi può comportare un certo disagio. È improbabile che un animale che percepisce sensazioni sgradevoli di questo tipo utilizzi l’arto con quelle angolazioni durante la deambulazione. Di conseguenza, dal punto di vista clinico può essere maggiormente applicabile la misurazione dell’escursione confortevole. Per misurare questo valore, l’articolazione viene flessa lentamente fino a che non si notano i primi segni del disagio. L’articolazione viene quindi estesa lentamente fino alla comparsa delle prime manifestazioni di disagio. Si registrano gli angoli rilevati. La qualità del movimento articolare è un parametro più soggettivo e comporta la valutazione della biomeccanica articolare, della presenza di crepitio e del dolore durante il moto. La qualità del movimento articolare può indicare anomalie come la restrizione da parte di tessuto fibroso, capsula articolare, osso o cartilagini. Il crepitio è spesso associato ad irregolarità superficiali della cartilagine articolare o ad alterazioni periarticolari, come si riscontrano nell’osteoartrite. Altre sensazioni come schiocchi o scoppiettii possono indicare anomalie come la lacerazione di un menisco.

Alcune condizioni sono così gravi che è impossibile aspettarsi una guarigione completa. In queste situazioni, è necessario informare il proprietario riguardo agli esiti che ci si può ragionevolmente aspettare. Gli scopi della riabilitazione devono essere realistici e concentrarsi sulle funzioni di base, come il mangiare e bere, il cambiare posizione corporea senza aiuto, l’alzarsi da seduto ed il passeggiare fuori casa per urinare e defecare. I progressi possono essere lenti, ma devono essere registrati.

Analisi dell’andatura La valutazione dell’appoggio di un cane fornisce informazioni relative a quanto l’animale sia disponibile a caricare completamente il proprio peso su un arto colpito. L’appoggio può essere valutato osservando il piede in relazione a quello controlaterale. Il cane può tenerlo completamente o parzialmente sollevato dal terreno. I punteggi di valutazione delle zoppie sono un mezzo di giudizio di importanza vitale dal punto di vista clinico. Il passo ed il trotto sono le andature più comunemente valutate perché sono simmetriche e quindi facilitano l’identificazione di un arto claudicante. È importante separare il passo dal trotto quando si assegna il punteggio alla zoppia, dato che nel cane quest’ultima risulta generalmente minore al passo perché le forze esercitate sull’arto sono inferiori. Il trotto può accentuare la zoppia a causa delle maggiori forze esercitate sull’arto al crescere della velocità. L’assegnazione di punteggi di zoppia distinti per il passo ed il trotto consente di discriminare in modo più fine l’andatura e può essere più sensibile per rilevare sottili miglioramenti durante la riabilitazione. La valutazione cinetica dell’andatura consiste nella misurazione delle forze di reazione al suolo con una placca o piattaforma di forza. Si tratta di una misurazione obiettiva e ripeti-

Movimento articolare

Muscolo Il recupero della massa muscolare e della forza dopo un evento patologico è importante per contribuire a migliorare la funzione e prevenire ulteriori danni. La massa muscolare indica l’uso dell’arto ed è associata alla forza. Può essere stimata clinicamente con la misurazione della circonferenza dell’arto. I risultati accettabili dipendono dall’impiego di metodi standard e ripetibili di misurazione della circonferenza dell’arto. Per migliorare l’applicazione costante della


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tensione sul nastro quando si effettuano le misurazioni risulta utile un nastro misuratore con un sistema di tensione a molla. Per misurare la circonferenza della coscia se ne determina la lunghezza dalla punta del grande trocantere all’estremità distale della fabella laterale. La circonferenza viene misurata a livello del 70% di questa lunghezza. La tosatura nei cani a pelo corto ha scarso effetto sulla misurazione della circonferenza. Nei cani a pelo lungo l’influenza di questo parametro può essere maggiore. Il ginocchio deve essere completamente esteso, il che provoca l’allungamento dei ventri muscolari. Queste misurazioni della circonferenza sono abbastanza sensibili da rilevare l’atrofia muscolare due settimane dopo la chirurgia del ginocchio. Esaminatori indipendenti possono rilevare misurazioni simili, a condizione che si utilizzi una tecnica standard e che gli operatori che effettuano le misurazioni abbiano sviluppato una certa pratica. La circonferenza della coscia presenta una correlazione significativa con l’effettiva massa muscolare del cane.

Composizione corporea La valutazione della condizione corporea o stato di forma è importante nella riabilitazione dei pazienti perché l’obesità è stata associata all’esacerbazione di alcune condizioni, come l’osteoartrite. Inoltre, molti animali da compagnia sono obesi o sovrappeso e ciò può influire sulle prestazioni. I sistemi di assegnazione di un punteggio di condizione corporea, comunemente utilizzati nella pratica clinica sono semplici, poco costosi e, in genere, ragionevolmente accurati. La conformazione corporea viene valutata osservando l’animale di fianco e dall’alto ed effettuando la palpazione di determinate regioni. Questi profili vengono poi confrontati con un valore standard per assegnare un punteggio di condizione corporea.

Valutazione del dolore La valutazione del dolore e del disagio sono importanti nella riabilitazione fisica degli animali. Un disagio eccessivo può impedire o rallentare i progressi durante il trattamento, ma la misurazione obiettiva del dolore negli animali risulta difficile, perché questi soggetti non esprimono verbalmente l’intensità del dolore che provano. Di conseguenza, per giudicare i comportamenti ritenuti associati al dolore ed al disagio vengono utilizzati i punteggi di valutazione del dolore. Inoltre, talvolta si utilizzano scale analogiche ordinali o visuali in cui si chiede ai proprietari di indicare quale sia a loro parere l’entità del dolore provato dagli animali. Per la valutazione del dolore nel periodo postoperatorio acuto sono stati utilizzati alcuni parametri fisiologici, come la frequenza cardiaca, quella respiratoria e la pressione sanguigna, che però generalmente non sono utili per la stima del dolore nelle condizioni croniche. Il comportamento algico nel cane può essere indicato da uggiolii, gemiti o altre forme di vocalizzazione che l’animale emette quando si muove oppure quando viene manipolata la parte del corpo colpita. Spesso, dopo gli interventi chirurgici, si nota che l’arto interessato viene tenuto in posizione leggermente flessa o protetta. Gli animali possono essere particolarmente restii alla palpazione ed alla manipolazione di quest’area. I comportamenti dettati dal dolore possono an-

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che essere limitati solo allo stare sdraiati tranquillamente nel retro del giardino o in un angolo della stanza mostrando scarso desiderio di alzarsi e muoversi. Questo può essere un meccanismo di protezione finalizzato ad evitare che il movimento provochi ulteriori danni e sensazioni algiche. L’entità del dolore in questi pazienti è spesso sottostimata per la loro natura tranquilla.

Impressioni di proprietari e veterinari Cani e gatti hanno personalità differenti e possono rispondere in modo molto diverso alle varie terapie. È importante che i soggetti che conoscono meglio questi pazienti ne valutino i progressi. I proprietari sono spesso ben consci delle sottili modificazioni del comportamento dei loro compagni. Anche se è abbastanza difficile quantificare queste modificazioni, questi riscontri soggettivi spesso forniscono al terapista importanti informazioni sui progressi del paziente. Se possibile, i cambiamenti devono essere caratterizzati dalla massima obiettività, come la registrazione della quantità di tempo che l’animale passa a giocare, la misurazione della distanza che un soggetto è in grado di coprire al passo prima di aver bisogno di riposarsi o la valutazione del periodo di tempo in cui un paziente neurologico è in grado di rimanere in stazione senza assistenza. I proprietari devono tenere un diario delle attività giornaliere per definire ulteriormente la progressione del paziente a casa. Inoltre, riprendere regolarmente l’animale con una videocamera consente di effettuare dei confronti nel tempo.

Recupero funzionale Il recupero funzionale è forse la migliore indicazione del successo dopo il trattamento. Il livello di funzione desiderato dipende dall’uso a cui si intende destinare l’animale, che varia da un cane da lavoro altamente allenato ad un soggetto da compagnia. Alcuni esiti sono relativamente facili da quantificare, come il fatto di riuscire ad eseguire un particolare compito nel caso dei cani da lavoro. Altri sono più nebulosi, come il ritorno ad una funzione accettabile come animale da compagnia. Indipendentemente dall’esito desiderato, è necessario fissare delle aspettative ragionevoli basate sulla gravità della condizione da trattare; il proprietario ne deve essere chiaramente informato. Ad esempio, è irragionevole aspettarsi che un vecchio cane artritico torni a correre a livello competitivo, ma può essere ragionevole attendersi che riesca a giocare a palla per brevi periodi di tempo. Può essere necessario modificare le proprie aspettative se la risposta al trattamento risulta migliore o peggiore del previsto. Possono risultare utili i sistemi di assegnazione di un punteggio funzionale per le specifiche lesioni, come il punteggio funzionale del ginocchio. Il metodo ottimale di misurazione del grado di inabilità funzionale nel cane è sconosciuto. In questa specie animale, un sistema utile dovrebbe probabilmente comprendere la valutazione di uso dell’arto, zoppia, appoggio, dolore, atrofia muscolare, escursione del movimento, versamento articolare, movimento del cassetto e attività funzionali per la valutazione della funzione dell’arto dopo un intervento sul legamento crociato craniale. Altri test funzionali che sono stati utilizzati nell’uomo possono essere applicati al cane, con alcune modifiche.


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Protocolli specifici di riabilitazione per i pi첫 frequenti problemi ortopedici Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

RELAZIONE NON PERVENUTA

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Impiego dell’ultrasonografia terapeutica e della elettrostimolazione neuromuscolare: protocolli specifici e discussione dei risultati ottenuti Darryl Millis DVM, MS, Dipl ACVS, Knoxville, Tennessee, USA

IMPIEGO TERAPEUTICO DEGLI ULTRASUONI L’impiego terapeutico degli ultrasuoni (US) è stata utilizzato per trattare una vasta gamma di condizioni patologiche ed i suoi effetti possono essere divisi in due campi principali, quelli termici e quelli non termici, o biologici. Benché gli impacchi caldi siano efficaci per il riscaldamento superficiale, in certi casi può essere auspicabile riuscire a portare il calore più in profondità. Gli effetti termici degli ultrasuoni comportano la diminuzione del dolore e dello spasmo muscolare e l’aumento dell’estensibilità del collagene, che consente ai tessuti di venire stirati con maggiore efficacia. Gli ultrasuoni penetrano fino a 5 cm e riscaldano i tessuti a 40-45 °C. Per ottenere un aumento delle capacità di estensione delle varie strutture, queste devono subire un riscaldamento di 3-8 °C. Gli ultrasuoni vengono assorbiti più facilmente nell’osso che nei tessuti ricchi di proteine come il derma ed i muscoli, che a loro volta hanno un assorbimento superiore a quello del grasso. Gli ultrasuoni da 1 MHz hanno i massimi effetti sui tessuti posti ad una profondità compresa fra 2,5 e 5,0 cm. Quelli da 3,3 MHz raggiungono i massimi effetti fra 1,0 e 2,5 cm. Per il riscaldamento si utilizza la modalità continua. Oltre a riscaldare i tessuti, gli ultrasuoni possono anche aumentare la deposizione del collagene, la chiusura delle ferite e la loro resistenza alla rottura. Fra gli effetti specifici non termici o biologici sinora dimostrati per gli ultrasuoni rientrano l’accelerazione della fase infiammatoria (con un passaggio più rapido nella fase proliferativa della riparazione), la stimolazione della proliferazione dei fibroblasti e la diminuzione del dolore. Altri effetti biologici sono rappresentati dalla promozione di tessuto cicatriziale più robusto e più elastico, dovuta ad un aumento della formazione di collagene ed alla modificazione del disegno delle fibre collagene ed alle variazioni della permeabilità di membrana che può accelerare il processo di guarigione. Per eseguire il trattamento con ultrasuoni, si deve tosare il pelo ed applicare uno strato abbondante di gel sulla sede da trattare. Anche la scelta dell’agente di accoppiamento utilizzato per la trasmissione degli ultrasuoni ha un’importanza critica. I gel specifici disponibili in commercio offrono la migliore trasmissione ed il massimo grado di riscaldamento. È necessario scegliere un trasduttore con una testa delle giuste dimensioni e con una frequenza adeguata alla profondità tissutale che si vuole raggiungere. La potenza viene tipicamente tarata ad 1-1,5 Watt/cm2. La maggior parte degli ap-

parecchi dispone di un timer che ne determina lo spegnimento dopo il trattamento. L’area su cui intervenire deve essere pari a due volte il diametro della testa del trasduttore. L’impiego di aree di dimensioni maggiori non determina un efficace aumento della temperatura tissutale. La testa dello strumento viene mossa lentamente sull’area da trattare con un andamento circolare o a griglia. Il movimento deve essere continuo per evitare la formazione di “punti caldi”. L’animale va tenuto sotto osservazione per rilevare eventuali segni di disagio, come il fatto di tirare indietro l’arto o gemere, che può indicare un eccessivo riscaldamento, specialmente in corrispondenza di articolazioni o superfici ossee. La durata dell’innalzamento della temperatura tissutale è relativamente breve, per cui gli esercizi di stiramento e quelli volti ad aumentare l’escursione del movimento vanno effettuati sia durante l’ultima metà del trattamento che immediatamente dopo, per trarre il massimo vantaggio dall’estensibilità dei tessuti. L’uso degli ultrasuoni per il riscaldamento dei connettivi superficiali e profondi risulta molto promettente nel settore della riabilitazione veterinaria. Occorre sottolineare che se non vengono utilizzati in modo corretto gli ultrasuoni possono causare un danno tissutale come la necrosi del derma o l’eccessivo riscaldamento dei tessuti, con conseguente risposta infiammatoria.

STIMOLAZIONE ELETTRICA NEUROMUSCOLARE La stimolazione elettrica (ES) è una modalità utilizzata comunemente in fisioterapia e risulta efficace per molti scopi, come l’incremento dell’escursione del movimento, l’irrobustimento muscolare, la rieducazione muscolare, il controllo del dolore, l’accelerazione della guarigione delle ferite, la riduzione dell’edema e l’attenuazione dello spasmo muscolare. Per evitare confusioni, la terminologia relativa a questo tipo di trattamento è stata standardizzata. Col termine di stimolazione elettrica, che è quello più ampiamente utilizzato, si indica qualsiasi tipo di sollecitazione effettuata con l’elettricità. L’uso della stimolazione elettrica per indurre l’eccitazione di un nervo periferico e causare una risposta sensoriale, motoria o nociva è detto stimolazione elettrica neuromuscolare (NMES). Questo è il tipo di ES più comunemente utilizzato e comprende tutte le applicazioni di questa tecnica finalizzate al rafforzamento, fatta eccezione per i casi di muscoli denervati. L’uso della stimolazione elettrica per ec-


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citare direttamente i muscoli denervati, come avviene nei soggetti con lesioni del midollo spinale, è detto stimolazione muscolare elettrica (EMS). Col termine di TENS, o stimolazione nervosa elettrica transcutanea, si indica comunemente l’applicazione di uno stimolatore portatile per il controllo del dolore. La presente relazione verterà principalmente sull’impiego della NMES per il rafforzamento della muscolatura.

PRECAUZIONI/CONTROINDICAZIONI DELLA STIMOLAZIONE ELETTRICA Esistono determinate condizioni in cui l’elettrostimolazione non va usata, oppure va impiegata con cautela. - Stimolazione ad elevata intensità direttamente al di sopra del cuore o elettrostimolazione in animali con pacemaker. - Animali con disordini convulsivi. - Al di sopra delle aree analgesiche. - Al di sopra di aree infette o neoplasie. - Al di sopra del seno carotideo. - Ogni volta che sia controindicato il movimento attivo.

TIPI DI CORRENTE Gli stimolatori possono essere distinti in tre categorie: a corrente diretta continua, che viene utilizzata soltanto per la iontoforesi, a corrente alternata pulsante (AC) e a corrente diretta pulsante (DC). Gli apparecchi del tipo a DC vengono comunemente indicati come monofasici, mentre quelli del tipo ad AC sono detti bifasici. I dati delle ricerche compiute depongono a favore dell’impiego delle apparecchiature ad AC per il rafforzamento della muscolatura, perché causano un minor disagio, ma si possono utilizzare anche quelli a DC pulsante. Un altro tipo di corrente utilizzata per la NMES è quella polifasica a frequenza media, talvolta indicata come “stimolazione russa”.

TIPI DI STIMOLATORI Sul mercato esistono molti apparecchi da stimolazione elettrica. Molte delle superiorità che ciascuna di queste macchine vanta rispetto alle altre sono infondate. Esistono stimolatori più adatti ad un particolare impiego, come il rafforzamento, la riduzione del dolore o la diminuzione dell’edema. Per scegliere ed utilizzare correttamente questi strumenti, è necessario conoscerne adeguatamente caratteristiche e capacità.

ELETTRODI Sono disponibili molti tipi di elettrodi superficiali. Gli elettrodi devono: 1) essere flessibili per assumere la conformazione del tessuto, 2) avere una bassa resistenza (tipicamente < 100 ohm), 3) essere altamente conduttivi, 4) essere riutilizzabili e 5) essere poco costosi. Alcuni

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elettrodi risultano validi solo per un numero limitato di impieghi, mentre altri possono essere utilizzati 100 o più volte (elettrodi in gomma siliconica impregnata di carbone). Per trasmettere la corrente, gli elettrodi richiedono un mezzo, come gel, spugne o teli di carta. Le spugne ed i teli di carta tendono ad asciugarsi ed è necessario inumidirli nuovamente ogni 30 minuti. Il rendimento conduttivo degli elettrodi diminuisce nel tempo. Gli elettrodi devono essere di dimensioni appropriate per stimolare il muscolo desiderato senza sollecitare anche quelli vicini che non si vogliono coinvolgere. Quanto più l’elettrodo è piccolo, tanto più elevata sarà la densità di corrente e tanto più doloroso potrà essere lo stimolo. Per il rafforzamento, si devono applicare vicino al punto motorio del muscolo da stimolare (cioè l’area dove il nervo motore entra nel muscolo) uno o più elettrodi. Ciò consente di ottenere la migliore contrazione con la minima quantità di corrente e quindi di ridurre al minimo il disagio.

PARAMETRI TIPICI DISPONIBILI NEGLI APPARECCHI DA NMES 1. Frequenza - La frequenza dell’oscillazione in cicli per secondo, espressa come impulsi/sec (pps) o Hertz (HZ). Spesso indicata sugli stimolatori come frequenza di impulso o impulsi/sec, o semplicemente frequenza. 2. Fase/impulso durata – La durata di una fase o di un impulso, solitamente misurata in microsecondi. 3. Ampiezza – il valore corrente in un impulso monofasico o per qualsiasi fase di un impulso bifasico. 4. Forma dell’onda – la forma della rappresentazione visiva della corrente pulsante o del grafico della corrente in funzione del tempo o del voltaggio in funzione del tempo. Può essere simmetrica, asimmetrica, bilanciata, sbilanciata, bifasica, monofasica, polifasica, ecc… 5. Tempo di ON/OFF – arco di tempo durante il quale lo stimolatore trasmette corrente in secondi. 6. Rampa – il tempo necessario partendo dal margine d’entrata della fase per aumentare l’ampiezza di una fase dal valore basale di 0 sino a quello di picco o per tornare dall’ampiezza di picco al livello basale.

RECLUTAMENTO L’elettrostimolazione recluta dapprima le fibre a contrazione rapida, poi quelle a contrazione lenta, che rappresentano la riserva della contrazione volontaria. Un aumento della durata dell’impulso incrementa il reclutamento di unità motorie di piccolo diametro alla stessa profondità. Un eccessivo prolungamentodella durata dell’impulso può stimolare fibre indesiderabili (fibre del dolore di piccolo diametro). L’aumento dell’ampiezza o della durata dell’impulso incrementa la forza della contrazione. L’innalzamento della frequenza fa sì che le unità motorie esistenti vengano stimolate con una frequenza più rapida e ne accentua la forza di contrazione, ma è anche causa di affaticamento.


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PARAMETRI DELLA CORRENTE PER IL RAFFORZAMENTO La frequenza è generalmente compresa fra 25 e 50 Hz. Forma dell’onda - sul mercato si trovano apparecchi con onde di molte forme, la migliore può essere quella bifasica simmetrica. Durata dell’impulso o della fase fra 150 e 250 microsecondi. Rampa (tempo di aumento e decadimento) 2-4 secondi in aumento per aumentare il comfort, 1 secondo in diminuzione Tempo di ON/OFF: rapporto di 1:4 o 1:5. Comunemente, si utilizza uno schema che prevede 10 secondi di accensione seguiti da 40 o 50 secondi di spegnimento.

REAZIONE DELL’ANIMALE – SICUREZZA L’animale deve sempre essere dotato di una museruola e posto in decubito laterale durante il trattamento iniziale. In alcuni casi, se il paziente è particolarmente ansioso può essere necessaria la sedazione. Suggeriamo di effettuare il trattamento soltanto sotto la supervisione di personale esperto.

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trattamento. Sarà necessario localizzare il punto motore (l’area dove il nervo motore penetra nel muscolo), in modo tale da ottenere una contrazione adeguata, con il minimo livello possibile di corrente, al fine di minimizzare il disagio. Con l’apparecchiatura accesa, si può spostare l’elettrodo fino a che non si ottiene una buona contrazione. A questo punto, con una penna indelebile si traccia un cerchio intorno all’elettrodo. Ciò consente di applicarlo nuovamente nella stessa area in occasione dei trattamenti successivi.

TRATTAMENTO 15-20 minuti tre volte alla settimana. Se non si desidera alcun movimento articolare, prendere in considerazione la cocontrazione.

Bibliografia 1.

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PREPARAZIONE/APPLICAZIONE DELL’ELETTRODO È necessario tosare il pelo sopra l’area da trattare per diminuire l’impedenza. La cute va pulita con alcool prima del

3. 4.

Robinson AJ, Snyder-Mackler L, eds. Clinical Electrophysiology: Electrotherapy and Electrophysiologic Testing. 2nd ed. Baltimore: Williams & Wilkins. 1995. Gersh MR FA Davis. Electrotherapy in Rehabilitation. Philadelphia: WB Saunders Co. 1992 Morrissey MC. Electromyostimulation from a clinical perspective. Sports medicine 1988; 6:29-41. Delitto A, Rose SJ, McKowen JM, Lehman RC, Thomas JA, Shively RA. Electrical stimuation versus voluntary exercise in strengthening thigh musculature after anterior cruciate ligament surgery. Phys Ther 1988; 68:660-3.


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Terapia del dolore nel paziente maxillofacciale Yves Moens Dr Vét, PhD, Dipl ECVA, Vienna, Austria

Attualmente, i principi generali della terapia analgesica perioperatoria possono essere riassunti come segue. In primo luogo – se possibile – si deve utilizzare un approccio preventivo. Ciò significa che la terapia analgesica va incominciata prima dell’inizio della stimolazione nocicettiva. Ciò si può fare soltanto in caso di interventi chirurgici programmati, ma anche nei pazienti traumatizzati il trattamento del dolore deve iniziare prima possibile. L’idea di base è che in questo modo è sufficiente una minore disattivazione del sistema nervoso e il controllo del dolore postoperatorio risulta più facile. Inoltre, ci si può attendere un certo effetto di riduzione dell’anestesia, che consente di diminuire gli effetti collaterali negativi (principalmente rappresentati dalla depressione cardiopolmonare) degli anestetici generali utilizzati. Un secondo principio è l’approccio multimodale. Ciò significa utilizzare simultaneamente farmaci e tecniche di analgesia che agiscano su differenti sedi della via del dolore in modo da ottenere un effetto sinergico per il controllo delle percezioni algiche. Non esiste un protocollo analgesico universale. Ciascun soggetto è molto differente e la strategia analgesica deve essere adattata al singolo caso. Di conseguenza il paziente deve essere esaminat ad intervalli regolari ed è altamente auspicabile la conoscenza dei principi che stanno alla base della valutazione dell’entità del dolore nelle differenti specie animali. Si può utilizzare la scala più semplice di classificazione del dolore – quella visiva –, ma qualsiasi forma di scala multifattoriale risulta migliore. L’uso della determinazione dei livelli del dolore è particolarmente utile per sensibilizzare le persone meno esperte al fine di migliorare la qualità della gestione del dolore stesso.

Protocolli anestetici/analgesici per la fase operatoria e postoperatoria precoce degli interventi (programmati) di chirurgia maxillofacciale La chirurgia maxillofacciale ed il trauma sono sempre accompagnai dal rischio di eccessiva tumefazione dei tessuti molli, con possibile compromissione delle vie aeree superiori. Inoltre, nella fase postoperatoria e nei giorni successivi il trattamento con farmaci per uso orale può essere difficile o inappropriato. Le differenti classi di agenti con proprietà analgesiche generalmente utilizzati sono a) gli oppiacei, b) gli antinfiammatori non steroidei – FANS –, c) gli anestetici locali, d) la ketamina, e) gli agenti misti come il tramadolo. Tutti questi possono essere impiegati per ottimizzare i protocolli analgesici nei pazienti maxillofacciali.

Nel protocollo di premedicazione bisogna sempre utilizzare un sedativo e un analgesico. L’intervento maxillofacciale di regola può essere considerato doloroso o molto doloroso e un agente potente come un oppiaceo rappresenta una buona scelta (se disponibile). Si può scegliere fra un αagonista puro come la morfina, il metadone o un agonista antagonista misto come la buprenorfina (lunga durata) o il butorfanolo (breve durata). Alcuni ritengono l’impiego di quest’ultima categoria controindicato quando nel corso dell’intervento si utilizza un α-agonista puro (spesso rappresentato dal fentanil) per ragioni di interferenza recettoriale. L’inserimento di un FANS nella premedicazione deve essere preso in seria considerazione. I FANS di nuova generazione come il ketoprofen, il meloxicam e il carprofen sono moderati inibitori della ciclossigenasi o inibitori preferenziali della ciclossigenasi-2. Possiedono una documentata scarsa influenza sulla funzione renale e determinano (specialmente gli ultimi due) effetti gastroenterici ed anticoagulanti relativamente scarsi. Esistono alcuni tipi più vecchi di farmaci di questo genere, come l’acido tolfenico, e tipi più recenti, come la tepoxallina (inibizione della ciclossigenasi e della lipossigenasi), che possono essere utilizzati, ma dispongono di una minore documentazione relativa ad impiego clinico ed effetti collaterali. L’azione antinfiammatoria desiderata è abbinata a una moderata attività analgesica. La prolungata ipotensione durante l’anestesia sarebbe tuttavia una controindicazione per il loro impiego “preventivo”. Nei casi dubbi, i FANS si possono somministrare solo nella fase postoperatoria. Durante l’intervento e l’anestesia generale (principalmente mediante agenti inalatori come l’isoflurano) è possibile offrire una specifica copertura analgesica per mezzo di oppiacei somministrati sotto forma di boli endovenosi intermittenti di agenti come il metadone oppure con un’infusione continua di fentanil. In alternativa agli oppiacei in questa fase si possono utilizzare i boli o l’infusione continua di basse dosi di ketamina (1 bolo di 1 mg/kg seguito da 10 µg/kg/min) o lidocaina (bolo di 1-2 mg/kg seguito da 30 µg/kg/min). Ogni volta che sia possibile, è indicato l’uso concomitante dell’anestesia locoregionale. Questa può essere rappresentata da applicazione topica (spruzzo), infiltrazione o blocco nervoso con anestetico locale (principalmente lidocaina ad azione breve, 1-1,5 ore, in generale alla dose di 1-2 ml, oppure bupivacaina per una durata di 3-6 ore). È possibile mescolare lidocaina e bupivacaina per trarre vantaggio nello stesso tempo dalla rapida insorgenza d’azione della prima e dalla lunga durata della seconda. L’anestesia dell’occhio e dell’orbita si ottiene mediante desensibilizzazione della divisione oftalmica del nervo trigemino. L’anestesia del labbro inferiore si determina dopo applicazione di


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un anestetico locale a livello del foro mentale per desensibilizzare il nervo alveolare mandibolare. Il labbro superiore ed il naso, il pavimento della cavità nasale e la cute circostante fino al foro intraorbitale possono essere desensibilizzati mediante deposizione di anestetico locale sul nervo infraorbitale a livello del foro omonimo. La mandibola, compresi i denti molari, premolari e canini, la cute e la mucosa del mento e del labbro inferiore richiedono l’applicazione dell’anestetico locale a livello del ramo del nervo mandibolare che entra nel foro mandibolare. La mascella, i denti superiori, il naso ed il labbro superiore vengono desensibilizzati mediante applicazione sul nervo mascellare. Alla luce dell’elevato rischio di grave tumefazione, l’uso limitato di corticosteroidi ad azione breve può supportare l’azione antinfiammatoria generale ed analgesica degli altri farmaci. L’analgesia postoperatoria può essere gestita con la somministrazione di FANS, oppiacei misti agonisti ed antagonisti e α-agonisti puri. In generale, il dolore lieve o moderato può essere trattato a sufficienza con tramadolo o FANS, mentre i dolori più intensi richiedono l’uso di oppiacei, da soli o associati ai FANS. La valutazione regolare dell’intensità del dolore può guidare la terapia. L’applicazione orale di questi farmaci nei pazienti sottoposti ad interventi maxillofacciali può essere controindicata o impossibile. In questi casi, si suggerisce il ricorso ad iniezioni intermittenti. Nel dolore intenso difficilmente trattabile si può ricorrere all’infusione continua dell’oppiaceo fentanil o di lidocaina o ketamina. Un’alternativa è rappresentata dall’uso di fentanil per via transcutanea sotto forma di cerotto. Occorre ricordare che l’assorbimento e quindi i livelli plasmatici raggiunti variano e che l’applicazione di un cerotto appropriato non corrisponde ad un’analgesia sufficiente. I cerotti richiedono

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tempo per svolgere il proprio effetto, perché bisogna che si raggiungano i livelli plasmatici analgesici (24 ore nel cane, 12 ore nel gatto). Devono quindi essere applicati molto prima di un intervento chirurgico programmato, in modo da ottenere l’analgesia al momento dell’operazione. L’uso perioperatorio di materassi riscaldati richiede cautela. Il paziente non va posizionato in modo che il cerotto risulti a contatto della fonte di calore. Quando si utilizza questo metodo di applicazione nel periodo postoperatorio si deve stabilire un protocollo analgesico che funga da ponte per il periodo di tempo che intercorre fra l’intervento ed il pieno raggiungimento dell’azione del cerotto. Le ulteriori misure da adottare sono quelle di supporto, rappresentate dalla prevenzione/trattamento dell’ipotermia perioperatoria, dal controllo dello riempimento della vescica, dalla realizzazione di una lettiera confortevole, ecc.

Bibliografia 1.

2.

Preemptive analgesia-treating postoperative pain by preventing the establishment of central sensitization,CJ Woolf and MS Chong Anesth Analg 1993;77. 362-79. Pain Management in animals, edit P. Flecknell and A. WatermanPearson; WB Saunders 2000.

Indirizzo per la corrispondenza: Prof Dr Yves Moens, University of Veterinary Medicine, Clinic for Anaesthesia and perioperative Intensive Care. Vienna; Austria yves.moens@vu-wien.ac.at


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Anestesia nella chirurgia laparoscopica Yves Moens Dr Vét, PhD, Dipl ECVA, Vienna, Austria

Per gli interventi laparoscopici l’addome viene insufflato con un gas (pneumoperitoneo). Ciò provoca effetti cardiopolmonari indesiderati che devono essere tenuti in considerazione dall’anestesista. Inoltre, talvolta si desidera posizionare il corpo dell’animale in modo particolare. La testa piegata verso il basso amplifica gli effetti cardiopolmonari negativi dell’intervento chirurgico. L’aumento della pressione endoaddominale determina un rigonfiamento del diaframma ed un’alterazione dei meccanismi polmonari. La compliance polmonare, il volume tidalico e quello minuto diminuiscono. Si verifica anche un mutamento della meccanica cardiovascolare: una pressione intraddominale (IAP) > 15 mm Hg riduce la gittata cardiaca. Ciò è dovuto ad un calo del precarico da diminuzione del ritorno venoso, ma anche ad un aumento del postcarico causato dall’incremento della resistenza vascolare polmonare e sistemica. La testa piegata verso il basso (posizione di Trendelenburg) fa sì che gli organi addominali esercitino una pressione sul diaframma e ciò riduce ulteriormente la compliance polmonare ed i volumi respiratori. Gli effetti cardiovascolari sono mediati da riflessi dei barocettori e consistono in vasodilatazione e riduzione della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna, della contrattilità miocardica, della gittata sistolica e di quella cardiaca. L’inclinazione con la testa sollevata ha un’influenza relativamente scarsa sulla meccanica polmonare, ma provoca vasocostrizione e aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna. La gittata cardiaca risulta diminuita a causa di un calo del ritorno venoso. È chiaro che gli effetti cardiopolmonari dell’anestesia, la distensione addominale ed eventualmente la posizione concorrono a determinare degli effetti negativi nel paziente. Ciò è particolarmente vero quando quest’ultimo si trova in condizioni di instabilità cardiovascolare, ad esempio a causa di una ipovolemia o di una cardiopatia. Questi effetti sono anche direttamente correlati all’entità della IAP che si viene a realizzare. Quindi, la IAP deve essere mantenuta il più possibile bassa (quando ciò risulta compatibile con una corretta esecuzione della procedura laparoscopica) ed in linea di principio deve essere < 15 mm Hg. Negli animali che respirano spontaneamente questa situazione (aumento della IAP ed eventualmente inclinazione con la testa verso il basso) conduce alla ipoventilazione (diminuzione del volume tidalico e di quello minuto) ed alla ipercapnia (aumento della PaCO2). L’ipercapnia derivante dall’ipoventilazione sarà più pronunciata nei casi in cui come gas per l’insufflazione viene utilizzata la CO2, come conseguenza del suo assorbimento transperitoneale. Quando si

impiega l’N2O, non si osserva alcun aumento extra della CO2. Simultaneamente, la PaO2 può presentare una considerevole caduta, anche quando si utilizza O2 al 100%, e si può verificare a valori di IAP di 10 mm Hg. Questa diminuzione della PaO2 è causata dall’ipoventilazione, ma anche da un aumento dello shunt intrapolmonare destra-sinistra causato dall’atelettasia in certe regioni polmonari (compressione e riduzione della capacità vitale). L’aumento della IAP è associato alla riduzione della perfusione polmonare ed a oliguria. Quest’ultima (diminuzione della perfusione renale e della filtrazione) diviene rilevabile a partire da valori di IAP > 15 mm Hg. Per livelli di IAP > 40 mm Hg è stata documentata la comparsa di anuria. L’ipoventilazione può essere trattata con la IPPV (ventilazione a pressione positiva intermittente), che corregge l’ipercapnia. L’evacuazione supplementare della CO2 derivante dall’assorbimento transperitoneale richiede l’impiego di un’elevata ventilazione/minuto. Un certo grado di ipercapnia ed acidosi respiratoria (ad es. fino a 60 mm Hg) è relativamente ben tollerato e stimola la funzione cardiovascolare. Ciò sarebbe accettabile nei pazienti senza concomitante acidosi metabolica. Dato il calo della compliance polmonare e toracica, il picco della pressione di inspirazione risulta più elevato del normale durante la IPPV. Ciò provoca un aumento della pressione intratoracica ed eventualmente un calo del ritorno venoso. Il volume tidalico e la frequenza respiratoria della IPPV devono essere finemente regolati in modo da apportare il volume minuto desiderato al più basso valore medio di pressione intratoracica. Per ottenere una IPPV corretta nelle procedure laparoscopiche è necessaria la misurazione della pressione delle vie aeree. Con la ventilazione a pressione controllata occorre una forma di misurazione/valutazione del volume tidalico o come minimo una misurazione della CO2 teletidalica. Con la ventilazione a volume controllato si deve utilizzare un’accurata osservazione del picco di pressione inspiratoria. L’ideale è monitorare la compliance polmonare utilizzando mezzi spirometrici che mostrino le curve pressione/volume e flusso/volume di ogni respiro. I protocolli anestetici che compromettono troppo la funzione cardiaca sono da evitare. Negli animali malati, la laparoscopia può essere effettuata soltanto dopo la correzione dell’ipovolemia e la stabilizzazione della funzione cardiovascolare. Durante un intervento di laparoscopia con IAP elevata può essere necessario un supporto inotropo che viene effettuato preferibilmente utilizzando un’infusione endovenosa di dobutamina o dopamina (2-6 µg/kg/min). Gli agenti alogenati come l’isoflurano causano una riduzione dose-di-


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pendente della gittata cardiaca e vanno impiegati in concentrazioni che non superino il valore di 1,5MAC. Negli animali sani è possibile utilizzare come premedicazione un’associazione di tranquillante/analgesico (ad es., acetilpromazina/oppiaceo, come il metadone) che consente di ridurre la dose di anestetico necessaria. L’uso delle acetilpromazine è controindicato negli animali ipovolemici. Nei pazienti in condizioni subottimali l’oppiaceo può essere l’unico preanestetico (impiegando oppiacei puri come la morfina ed il metadone o misti come la buprenorfina ed il butorfanolo). Gli alfa-2 agonisti vanno usati con cautela a causa del loro effetto bradicardico ed aritmogeno che riduce la gittata cardiaca. Il farmaco di induzione può essere rappresentato da tiopenthal, propofolo o un’associazione di ketamina/diazepam. L’ideale è lasciare stabilizzare il paziente dopo l’induzione utilizzando la IPPV e cercando di raggiungere l’eucapnia prima di effettuare la laparoscopia ed inclinare il corpo dell’animale. L’uso del monitoraggio capnografico come metodo per la stima della PCO2 e della pulsossimetria per la valutazione indiretta della PaO2 sono altamente auspicabili per effettuare in condizioni di sicurezza l’intervento. L’ideale è che l’anestesista sia sempre consapevole della IAP. Quando è necessario effettuare la legatura, la resezione o la cauterizzazione del mesovario o del mesorchio all’interno dell’ad-

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dome, si consiglia caldamente l’applicazione preventiva di lidocaina (massimo 10 mg/kg) su queste strutture (attraverso il laparoscopio) sotto forma di spray o di infiltrazione. L’anestesista può cercare di controllare gli effetti negativi della riduzione della funzione cardiopolmonare sullo scambio gassoso scegliendo farmaci e/o concentrazioni di anestetici generali dotati della minor azione cardiodepressiva possibile, assicurando sempre una normovolemia, sostenendo (se necessario) la funzione cardiaca con agenti inotropi e regolando la ventilazione meccanica in modo da ottenere la minima pressione intratoracica media.

Bibliografia 1.

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Indirizzo per la corrispondenza: Prof Dr Yves Moens University of Veterinary Medicine, Clinic for Anaesthesia and perioperative Intensive Care - Vienna; Austria yves.moens@vu-wien.ac.at


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Ventilazione monopolmonare nel cane: perché e quando? Yves Moens Dr Vét, PhD, Dipl ECVA, Vienna, Austria

Col termine di ventilazione monopolmonare (OLV, one lung ventilation) si indica l’isolamento e la selettiva ventilazione di un solo polmone. Quello controlaterale, non ventilato, quindi collassa. Questa tecnica è comune in anestesia umana per migliorare l’esposizione chirurgica nel corso di interventi intratoracici cardiovascolari ed esofagei, della pneumectomia totale o parziale, della chirurgia esofagea e della toracoscopia. La tecnica è stata sviluppata sperimentalmente utilizzando cani, suini e gatti. Le indicazioni negli animali possono essere le stesse. L’impiego clinico in medicina veterinaria non costituisce una routine e richiede per un intervento sicuro un’attrezzatura anestetica completa, con endoscopi adeguati, un monitoraggio speciale che preveda come minimo la capnografia e la pulsossimetria e una buona conoscenza delle implicazioni fisiologiche della procedura e dell’anatomia delle vie aeree. La tecnica è relativamente semplice nei cani di grossa taglia, ma diviene tecnicamente impegnativa man mano che le dimensioni del paziente diminuiscono. La ventilazione monopolmonare può essere attuata in decubito laterale o dorsale. Quando un polmone è ventilato, l’altro collassa gradualmente in seguito al riassorbimento dell’ossigeno (O2) presente al suo interno e diviene completamente atelettasico. Nei casi in cui il torace è aperto (toracotomia) o quando durante la toracoscopia si realizza uno pneumotorace, il collasso polmonare viene accelerato dalla contrazione elastica del polmone quando la pressione intrapleurica negativa diviene pari a quella atmosferica. La ventilazione monopolmonare determina un grave disaccoppiamento di ventilazione e perfusione, che può portare ad una grave ipossiemia e che richiede una continua attenzione da parte dell’anestesista. In condizioni normali, la gittata cardiaca e la ventilazione sono più o meno ugualmente distribuite fra i due polmoni. Il normale rapporto di ventilazione/perfusione (V/Q) è di circa 0,8. Quando un polmone non è ventilato (e diviene atelettasico) la sua perfusione non partecipa più in alcun modo allo scambio gassoso e rimane essenzialmente di natura venosa (“shunt”, valori molto bassi di V/Q in questo polmone). Ciò dovrebbe normalmente causare una profonda ipossiemia (bassi valori di PaO2 ed SpO2), ma fortunatamente il fenomeno della vasocostrizione ipossica, HPV, che si sviluppa nel polmone non ventilato comporta una parziale compensazione. L’aumento della resistenza vascolare polmonare indotto dalla vasocostrizione ipossica reindirizza una parte della perfusione del polmone non ventilato verso quello ventilato. Se quest’ultimo è ventilato con il normale volume/minuto che si utilizze-

rebbe per entrambi i polmoni, in principio è possibile ristabilire un livello normale di V/Q e di scambio gassoso con uno shunt di lieve entità. Tuttavia, questo meccanismo di compensazione può essere influenzato negativamente dagli anestetici generali E dalla ventilazione subottimale dell’altro polmone e dipende anche dalla gittata cardiaca e dalla saturazione mista di O2 venosa.

Tecnica di ventilazione monopolmonare Si possono utilizzare tre principi: 1) il tubo orotracheale a doppio lume studiato per l’impiego nell’uomo, 2) l’intubazione endobronchiale e 3) il blocco bronchiale. I tubi a doppio lume vengono adattati da quelli realizzati per l’anatomia umana e specificamente studiati per la ventilazione del solo polmone di destra o di sinistra. Non si adattano sempre all’anatomia animale, vanno bene per una limitata gamma di taglie dei pazienti e devono essere inseriti sotto guida endoscopica effettuata attraverso uno dei due lumi del tubo. Disponendo di un’apparecchiatura da ventilazione e di circuiti appropriati è possibile in effetti controllare entrambi i polmoni. L’intubazione endobronchiale viene realizzata introducendo un (lungo) tracheotubo di diametro relativamente piccolo nel tronco principale di destra o di sinistra. Sul lato destro il lobo apicale omolaterale può essere non ventilato quando si effettua la ventilazione artificiale attraverso questo tubo (questo lobo origina a livello della biforcazione della trachea). Inoltre, il tronco principale si ramifica precocemente in bronchioli che possono essere ostruiti dal manicotto. Il blocco bronchiale è probabilmente il metodo più versatile. Consente di escludere dalla ventilazione un polmone ed anche solo alcuni particolari lobi dell’organo. A livello della biforcazione della trachea si colloca un catetere a palloncino (da blocco bronchiale). Quindi, l’animale viene intubato normalmente. Mediante endoscopia attraverso il tubo orotracheale, il tubo di blocco bronchiale viene quindi guidato nel bronco principale del polmone che deve essere escluso dalla ventilazione. Infine, si insuffla il manicotto del catetere a palloncino. A seconda della profondità del posizionamento e della qualità della visualizzazione endoscopica dell’albero bronchiale, si potrebbe arrivare ad escludere un solo lobo polmonare, se lo si desidera. L’esclusione dell’intero polmone di destra è difficile, a causa dell’origine del lobo apicale destro. Si può utilizzare qualsiasi tipo di catetere a palloncino, ma ne esistono di appositamente studiati per


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il blocco bronchiale e si trovano anche specifiche associazioni di catetere/tubo. L’Univent® tube (Fuji Systems Corp; Tokyo, Japan) è dotato di catetere di blocco bronchiale incorporato nella propria parete. È stato documentato il suo impiego clinico nel cane. Nel tubo di Arndt (Cook®) il sistema di blocco si trova nel lume del tubo orotracheale. Gli stessi cateteri di blocco bronchiale possono essere o meno dotati di un lume.

Problemi Durante questa procedura è consigliabile la ventilazione artificiale con un’elevata concentrazione di O2 inspirata (>90%). L’esperienza clinica con la ventilazione monopolmonare nel cane ha dimostrato che è possibile mantenere un livello normale di ossigenazione ed eucapnia. Se si verifica un’ipossiemia pericolosa, il lobo polmonare escluso può essere facilmente riventilato quando si utilizza un tubo a doppio lume connettendo attraverso un raccordo a Y i due lumi al ventilatore. Inoltre, sarebbe possibile, in linea generale, effettuare una ventilazione differenziata dei due polmoni servendosi di un secondo ventilatore. Con una tecnica di blocco endobronchiale il polmone escluso può essere riventilato sgonfiando il manicotto del catetere. I cateteri a palloncino endobronchiali vengono facilmente spostati quando si cambia la posizione del paziente. Dopo ogni riposizionamento, si raccomanda il controllo endoscopico. Il manicotto insufflato del catetere può fare ernia sulla biforcazione della trachea ed ostruire l’intera via aerea. Durante la ventilazione monopolmonare è indicato l’accurato monitoraggio della pressione delle vie aeree. Quest’ultima risulta più elevata che durante la ventilazione convenzionale perché ad un solo polmone viene portato un volume tidalico più elevato del normale. L’aumento della frequenza respiratoria consente al volume tidalico di rimanere relativamente piccolo ed al picco di pressione inspiratorio di non diventare troppo elevato.

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In condizioni ideali, si effettua l’analisi dei gas ematici per verificare i valori di PaO2 e PaCO2. Il monitoraggio non invasivo prevede la capnografia (indica più o meno la PaCO2 e la pulsossimetria (SpO2, saturazione di O2). Insieme alla misurazione della pressione delle vie aeree, ciò dovrebbe permettere di effettuare la ventilazione monopolmonare in condizioni di sicurezza. In centri specialistici di medicina umana si utilizza spesso la spirometria con visualizzazione delle anse di pressione/volume e l’indicazione continua della compliance polmonare. La ventilazione monopolmonare nei pazienti molto piccoli è tecnicamente molto impegnativa. È necessario servirsi di endoscopi e cateteri di dimensioni estremamente ridotte mentre il limitato diametro dei tubi porta ad un incremento molto netto della resistenza delle vie aeree, specialmente quando l’area di sezione trasversale è ulteriormente diminuita dai cateteri di blocco bronchiali intraluminali.

Bibliografia 1.

2.

3.

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Indirizzo per la corrispondenza: Prof Dr Yves Moens University of Veterinary Medicine, Clinic for Anaesthesia and perioperative Intensive Care. Vienna; Austria yves.moens@vu-wien.ac.at


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Neoplasie tiroidee nel cane e nel gatto Emanuela Morello Med Vet, Torino

Introduzione Le neoplasie tiroidee del cane e del gatto differiscono tra loro per comportamento biologico, sintomatologia e prognosi. Nel cane hanno maggior incidenza le forme carcinomatose, non secernenti, a localizzazione unilaterale. I soggetti con neoplasia hanno, pertanto, livelli ormonali tiroidei nella norma. Nel gatto, al contrario, sono più frequenti le forme benigne, adenomatose, ormonosecernenti, a localizzazione bilaterale. In tale specie le neoplasie tiroidee sono generalmente associate a ipertiroidismo.

Biologia delle neoplasie tiroidee Cane. I carcinomi hanno incidenza maggiore rispetto agli adenomi; il 90-95% delle neoformazioni tiroidee clinicamente diagnosticate è di natura carcinomatosa; di queste, solo il 6-10% è ormono-secernente. L’età media d’insorgenza si aggira tra i 9 e i 10 anni. Non sono segnalate predisposizioni di sesso. Una maggior incidenza di forme carcinomatose è riportata nel beagle e nel golden retriever. I boxer sembrano predisposti all’insorgenza di entrambe le forme, benigne e maligne. Due/terzi dei carcinomi tiroidei ha localizzazione unilaterale alla diagnosi, con uguale incidenza su entrambi i lobi. Le forme maligne sono caratterizzate da invasività locale; possono essere incapsulate ma nella maggior parte dei casi invadono le strutture adiacenti quali trachea, esofago, laringe, muscoli cervicali, vasi e nervi. Possono, inoltre, disseminare principalmente ai polmoni e ai linfonodi regionali, ma anche a livello di vertebre, reni, miocardio, fegato, surreni e cervello. Il tipo istologico (solido, follicolare, papillare o misto) non ha valore prognostico, contrariamente al grado di invasività locale e alle dimensioni tumorali. In letteratura sono segnalate forme carcinomatose a carico del tessuto tiroideo ectopico con localizzazione pericardica, alla base del cuore e della lingua e mediastinica. Le forme benigne adenomatose sono di solito asintomatiche e crescono ben incapsulate all’interno del parenchima tiroideo. Non deformano l’organo tranne nel caso di forme cistiche che possono raggiungere grosse dimensioni; rappresentano, pertanto, un reperto causale in corso di necroscopia. Gatto. La maggior parte dei tumori tiroidei è rappresentata da forme benigne (adenoma o iperplasia adenomatosa), secernenti. I carcinomi sono rari, rappresentando l’1-2% dei tumori tiroidei; la loro attività secernente è, secondo alcuni, autonoma; per altri la produzione endocrina sarebbe invece associata a concomitanti modificazioni adenomatose. Non

sono riportate predisposizioni di razza o sesso. L’età media di insorgenza è di 13 anni. Nel 70% dei casi la patologia è bilaterale. Le forme a carico del tessuto tiroideo ectopico (soprattutto entrata del petto) sono rare.

Segni clinici È fondamentalmente riconducibile alla presenza di una massa o a ipertiroidismo. La maggior parte dei cani con tumore tiroideo presenta una massa nella porzione medio-ventrale del collo, solida, indolente, di dimensioni variabili, più o meno adesa ai tessuti adiacenti. In caso di compressione/ infiltrazione della trachea, dell’esofago, dei vasi o di coinvolgimento linfonodale regionale (sottomandibolare, retrofaringeo, cervicale caudale) e/o polmonare possono comparire tosse, dispnea, disfagia, edema facciale, dimagramento, anoressia. La maggior parte dei cani è generalmente eutiroide; alcuni soggetti possono essere ipotiroidei a seguito di estesa distruzione del parenchima tiroideo da parte della neoplasia. L’ipertiroidismo, sia nel cane che nel gatto, è caratterizzato da perdita di peso nonostante un appetito mantenuto od aumentato, polidipsia, poliuria, vomito, iperattività. Con minore frequenza possono comparire diarrea, anoressia, debolezza muscolare, tremori muscolari, dispnea, alopecia, alterazioni del comportamento, ventro-flessione del collo. Circa il 10% dei gatti ipertiroidei presenta una forma c.d. “apatetica” caratterizzata da depressione, letargia, inappetenza e debolezza. Lo stato di tossicosi tiroidea determina un aumento del metabolismo e della sensibilità alle catecolamine con gravi turbe cardiovascolari e metaboliche. L’80% dei gatti presenta alterazioni cardiache quali tachicardia, ritmo di galoppo, murmure sistolico, tachiaritmie atriali e ventricolari; alcuni soggetti possono avere insufficienza cardiaca congestizia con versamento pleurico e grave dispnea. Meccanismi multifattoriali possono indurre disfunzioni neuromuscolari e del SNC causando debolezza, stanchezza, tremori, atassia, apatia, stupore, incordinazione, etc. Ad una attenta palpazione ventrale del collo è possibile percepire, anche nei gatti (nel 90%), la presenza di nodulo/i o di un uniforme ingrossamento della tiroide.

Diagnosi In presenza di una massa palpabile è possibile eseguire una biopsia per agoinfissione ad ago sottile (22G). In caso di neoplasia tiroidea i campioni prelevati con questa tecnica so-


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no generalmente fortemente contaminati da sangue e poco cellulari. La citologia è in grado identificare la natura tiroidea della lesione ma non dà in genere informazioni sul suo grado di malignità; è, però, utile per differenziare le neoplasie da altre patologie quali ascessi, linfoma, granulomi, sarcomi dei tessuti molli, etc. Il prelievo può essere effettuato sotto guida ecografica. Se l’esito citologico è dubbio, è consigliabile eseguire un prelievo bioptico e un esame istologico. A causa dei forti rischi di emorragia, la biopsia escissionale rappresenta la miglior tecnica, nel caso si tratti di una massa asportabile chirurgicamente. Contrariamente, è possibile eseguire una biopsia incisionale o utilizzare un tru-cut. L’esame ecografico o la TAC forniscono informazioni sul grado di invasività della massa, sul coinvolgimento uni-bilaterale della tiroide (gatti), sui suoi rapporti con le strutture circostanti. L’ecografia addominale e l’ecocardiografia (o ECG) servono ad indagare sulla presenza di metastasi endoaddominali e sulla funzionalità cardiaca (gatto). È necessario eseguire, inoltre, un esame radiografico del torace per escludere una possibile disseminazione metastatica polmonare e la presenza di cardiomegalia (nel 50% dei gatti ipertiroidei), associata o meno ad edema polmonare e versamento pleurico. I tumori tiroidei secernenti possono essere visualizzati con scintigrafia con pertecnetato radioattivo (99mTc). Tale esame è utile nei gatti ipertiroidei prima della chirurgia per valutare l’uni- o bilateralità della lesione, soprattutto in assenza di masse palpabili. Può servire, inoltre, a diagnosticare le forme ectopiche secernenti, sebbene queste non possano essere distinte, sulla base della sola scintigrafia, dalle lesioni metastatiche. I carcinomi tiroidei del cane, in quanto non secernenti, non sono sensibili a tale indagine. Gli esami ematologici ed ematochimici sono generalmente poco indicativi. La diagnosi di ipertiroidismo si ottiene dimostrando un incremento dei valori serici di T4, T4 libero. In caso di valori basali normali ma in presenza di sintomatologia clinica riconducibile a ipertiroidismo o di una massa nel collo è consigliabile eseguire un test di soppressione con T3 o di stimolazione con TRH.

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ratoria. In sede intraoperatoria è comunque opportuno controllare entrambi i lobi tiroidei. È, infatti, possibile si verifichino tre situazioni: a) coinvolgimento di entrambi i lobi (70% dei casi) con necessità di escissione bilaterale preservando almeno una delle due paratiroidi craniali; b) lesione unilaterale con atrofia del lobo controlaterale. È indicato eseguire una tiroidectomia extracapsulare includente anche le paratiroidi dello stesso lato; c) ingrandimento unilaterale con lobo tiroideo controlaterale di dimensioni normali. Si può procedere alla sua esclusiva escissione. I livelli serici di T4 dovranno, però, essere controllati ogni tre mesi per monitorare l’eventuale recidiva dell’ipertiroidismo. Le complicanze chirurgiche includono sindrome di Horner, paralisi laringea e ipocalcemia, quest’ultima in caso di escissione completa di tutte le paratiroidi. Nel cane la chirurgia rappresenta l’opzione terapeutica di scelta. La completezza dell’escissione neoplastica dipende dal grado di invasione delle strutture adiacenti. In caso di asportazione incompleta o di neoplasia ad elevato grado di malignità, alla chirurgia può essere associato un trattamento chemioterapico con doxorubicina, cisplatino o un’associazione di doxorubicina, ciclofosfamide e vincristina. Gli effetti di tali trattamenti non sono però supportati da sufficienti studi che possano provarne o meno la validità terapeutica. Sembra, comunque, che l’efficacia della chemioterapia sia limitata alle sole lesioni microscopiche.

Conclusioni La chirurgia, se possibile, rappresenta nel cane l’unica valida opzione terapeutica. La prognosi, in questa specie, dipende dalle dimensioni della neoplasia, dal grado di adesione alle strutture adiacenti e naturalmente dalla benignità vs malignità della lesione. I carcinomi, se di piccole dimensioni e mobili, hanno buona prognosi post-chirurgica. Quelli di volume superiore ai 20 cm3 e/o poco mobili hanno prognosi sfavorevole. Nel gatto, portatore di forme benigne, la prognosi post-chirurgica è generalmente eccellente.

Trattamento Bibliografia Nel gatto le opzioni terapeutiche includono l’uso di farmaci antitiroidei, di Iodio 131, le iniezioni con alcol e la chirurgia. Il metimazolo, farmaco ad azione antitiroidea, può essere somministrato a lungo termine, quale unico presidio terapeutico, ottenendo una remissione della patologia limitata, però, alla sola durata della cura. Il trattamento con I131 rappresenta la terapia di scelta in caso di adenoma tiroideo del gatto. Si tratta di una proceduta non invasiva che distrugge in modo selettivo il tessuto tiroideo ipersecernente, preservando il tessuto tiroideo normale e le paratiroidi. Tuttavia, necessita di strutture attrezzate poco diffuse e richiede un lungo periodo di ricovero del paziente. La chirurgia rappresenta una valida alternativa allo I131. Può essere mono o bilaterale. Informazioni sulla localizzazione della lesione possono essere ottenute eseguendo una scintigrafia preope-

1. 2. 3. 4.

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Indirizzo per la corrispondenza: Emanuela Morello Dipartimento di Patologia animale, Università degli Studi di Torino,Via Leonardo da Vinci 44, tel. 011/6709062, fax 011/6709165 emanuela.morello@unito.it


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Patologie gastroenteriche: come l’alimentazione può fare la differenza David Morgan BSc, MA, VetMB, CertVR, MRCVS, Regno Unito

INTRODUZIONE I disturbi intestinali nei cani e nei gatti rappresentano un problema piuttosto diffuso nella pratica veterinaria. In relazione al ruolo rivestito dal tratto gastrointestinale (GIT) nell’assorbimento dei nutrienti, il trattamento dei disturbi gastrointestinali comporta di solito una combinazione di interventi sul piano farmacologico e su quello nutrizionale, nei quali l’accurata formulazione e l’inserimento nella dieta di singoli componenti giocano un ruolo importante. Gli obiettivi nutrizionali per i pazienti possono essere centrati su supporto di sei specifiche aree:

1. Microflora intestinale e stato immunitario Il controllo alimentare apporta vantaggi in caso di: - insufficienza pancreatica esocrina; - IBD (Idiophatic inflammatory Bowel Disease): malattia infiammatoria intestinale; - diarrea cronica; - disturbi relativi alla motilità; - ostruzione parziale; - malfunzionamento degli strati mucosali. Un coinvolgimento della flora intestinale si evidenzia con“una moltiplicazione eccessiva dei batteri a livello del tenue” (in inglese: Small Intestinal Bacterial Overgrowth -SIBO), quando la concentazione risulti pari a > 105 unità che costituiscono la colonia batterica (colony forming units-cfu-) / ml di succo duodenale. La SIBO è in genere legata dall’irregolare funzionamento di uno o più dei meccanismi che normalmente controllano numero e specie dei batteri. Una recente ricerca, che ha interessato cani con diarrea cronica, ha consentito di evidenziare che l’83% degli stessi era affetto da SIBO.1 È stata presa in esame l’integrazione della dieta con oligosaccaridi (per es., fruttooligosaccaridi -FOS-), non digeribili da parte della Salmonella e della E.coli spp. I FOS sono una fibra considerata anche dei prebiotici, non digeriti, ma ottimamente metabolizzati dalla flora batterica intestinale saprofita (Lactobacilli e Bifidobacteria) ed alla fine evidenziano un effetto positivo sull’organismo ospitante. Queste nuove fonti di fibre, allorché somministrate a cani con SIBO, producono positive variazioni nella composizione della flora batterica intestinale2 facendo anche aumentare il numero dei batteri saprofiti (come, per es., i Lactobacilli) a scapito dei batteri patogeni (come, per es., i Clostridia). Una recente ri-

cerca ha evidenziato la presenza di E.coli enteropatici nel 38% dei succhi duodenali aspirati da cani con diarrea cronica1, la qualcosa dimostra l’utilità di fare ricorso ai prebiotici. I mannanoligosaccaridi (MOS) costituiscono un’altra fonte di fibre, simile ai FOS, che si rivela utile in caso di crescita patogena dei batteri. I MOS bloccano le proteine legate ai carboidrati (chiamate lectine) presenti su alcuni batteri patogeni. Poiché tali lectine sono normalmente rappresentano il legame batterico con la mucosa intestinale, i MOS impediscono ai batteri patogeni quali le Salmonellae e gli E.coli (questi ultimi si attaccano ai residui di zucchero mannano) di legarsi alla parete intestinale e di colonizzre il lume intestinale. La somministrazione congiunta di FOS e di MOS ai cani ha anche lo scopo di innalzare le difese immunitarie locali con concentrationi ileali IgA più elevate nei cani in questione.3 L’integrazione di FOS e MOS riduce nel contempo la possibilità che gli amminoacidi siano attaccati nell’intestino crasso da batteri patogeni (Clostridium spp) producendo sostanze meno portate alla putrefazione e con ridotto odore fecale. L’inclusione sia dei FOS che dei MOS è indicata negli alimenti destinati ai cani per migliorare lo stato di salute intestinale.

Flora batterica intestinale nella specie felina Studi e ricerche condotte presso l’Università di Bristol, nel Regno Unito, hanno evidenziato che il conteggio medio di tutti i batteri era compreso tra 105.8 cfu/ml e 107.9 cfu/ml. Il ricorso ai FOS ha indotto cambiamenti apprezzabili sulla flora intestinale a livello fecale. I Lactobacilli sono aumentati 164 volte ed i Clostridia perfringes e gli E.coli sono stati ridotti.4 Deve ancora essere dimostrato se il ricorso a più alti livelli di FOS produce effetti più consistenti sulla flora a livello duodenale.

2. Riparazione mucosa intestinale Il controllo alimentare apporta vantaggi in caso di: - danneggiamento della mucosa (IBD); - SIBO (per al cattivo funzionamento della mucosa); - reazioni avverse al cibo (mantenendo l’integrità della barriera mucosale); - danneggiamento meccanico (corpo estraneo); - post-anoressia (ritorno all’alimentazione dei pazienti con problemi gastrointestinali -GI-); - mantenimento della normale integrità della mucosa.


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La modifica della composizione della microflora nel tratto intestinale può risultare utile per diverse ragioni, la principale delle quali riguarda la produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA-Short Chain Fatty Acid-) attraverso la fermentazione di fibre selezionate ad opera dei batteri intestinali. Gli SCFA possono coprire i fabbisogni dei colonociti per il 70% totale dei consumi. I cani che sono alimentati ricorrendo ad una dieta con fibre moderatamente fermentescibili (polpa di barbabietola) evidenziano la più bassa incidenza di alterazioni della flora intestinale mucosale (per es., variazioni rivestimento mucosale, esfoliazione e/o infiammazione delle cripte), se paragonati alle fibre a bassa fermentescibilità, come la cellulosa.5 La polpa di barbabietola è la fibra di elezione pertanto sia per i cani che per i gatti.

3. Riduzione dell’infiammazione Il controllo alimentare apporta vantaggi in caso di: - disturbi infiammatori; - danneggiamento della mucosa (IBD); - mantenimento della normala integrità della mucosa. La variazione nella dieta della percentuale di acidi grassi omega-6 (precursori degli eicosanoidi proinfiammatori) e di acidi grassi omega-3 (precursori degli eicosanoidi anti-infiammatori) è in grado di ridurre i sintomi dell’infiammazione. Somministrando ai cani una dieta caratterizzata da una percentuale complessiva di acidi grassi omega-6 ed omega-3 compresa tra 5:1 e 10:1, si realizzano una ridotta produzione di leucotriene B4 proinfiammatorio ed un’accresciuta produ-zione di leucotriene B5 anti-inflammatorio (con una riduzione complessiva del rischio di infiammazioni) nel plasma e nei neutrofili.6 Tali risultati sperimentali consentono di giustificare il ricorso a diete con percentuale ottimale di acidi grassi omega-6 e omega-3 in molte affezioni infiammatorie, compresi i disturbi infiammatori dell’intestino7 e le coliti, come hanno evidenziato studi sulla diarrea nei cani (IBD idiopatica) responsiva al trattamento con corticosterioidi, in merito alla iperregolazione dell’espressione di citochinine pro-inflammatore.7

4. Riduzione dei grassi assorbiti Il controllo alimentare apporta vantaggi in caso di: - insufficienza pancreatica esocrina (Exocrine Pancreatic Insufficiency – EPI-); - pancreatite; - diarrea non specifica all’intestino tenue ed a quello crasso; - IBD; - enteropatia con perdita di proteine; - linfangiectasia. Agli animali affetti da disturbi gastrointestinali di non definita eziologia dovrebbe essere som-ministrata una dieta a più basso apporto in lipidi. L’assunzione di elevati livelli di grasso può infatti rivelarsi inopportuna in presenza di insufficienza pancreatica esocrina, di pancreatite cronica in forme post-acuta e leggera,8 di IBD7 o di linfangiectasia, situazioni in cui può essere compromessa la capacità di assimilazione

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di normali livelli di lipidi nella dieta. La qualità di grasso facente parte della dieta è importante, dato che la digeribilità ed il gusto possono essere influenzati da tale fattore. Una dieta specifica per il controllo dei disturbi intestinali a basso apporto di grassi o anche una dieta studiata per la perdita di peso, con ridotto apporto calorico, dovrebbero essere prese in considerazione. I grassi sono anche importanti componenti per l’assunzione di acidi grassi omega-6 ed omega-3.

5. Nuove fonti di proteine, diete idrolizzate Il controllo alimentare apporta vantaggi in caso di: - IBD; - reazioni avverse al cibo (intolleranza o allergia); - disturbo cronico idiopatico gastrointestinale nei gatti; - colite cronica idiopatica nei cani. Nell’IBD canina la patogenesi in fase avanzata comporta ipersensibilità a livello di lume agli antigeni batterici o della dieta; così, la terapia punta a rimuovere qualsiasi fonte antigenica di infiammazione ricorrendo ad una dieta con proteine nuove, altamente digeribili, fonti di fibre fermentescibili (integrità della mucosa) o anche alla eliminazione farmacologica della reazione infiammatoria. Per il trattamento dei casi di IBD sono anche disponibili diete con proteine idrolizzate (molecole di polipeptidi di dimensioni inferiori ai 18.000 dalton). Le reazioni avverse di tipo alimentare possono far insorgere allergia (immunologica) o intolleranza (non-immunologica) al cibo. I disturbi gastrointestinali (vomito, diarrea e colite) possono evidenziarsi nel 10-15% dei cani e dei gatti attraverso forme di reazion avverse al cibo. Per il trattamento di tali pazienti si può ricorrere sia a diete con combinazione di proteine e carboidrati nuove per il paziente che a diete idrolizzate. In quasi il 50% dei gatti affetti da problemi gastrointestinali cronici, alimentati con una nuova fonte proteica, si è verificata la scomparsa dei sintomi clinici, mentre nel 29% di tutti i casi è stata evidenziata un’alta sensibilità alimentare, confermata da una riprovocazione con cibo originale.9 Le condizioni del 90% dei cani affetti da coliti croniche idiopatiche si sono stabilizzate dopo 2 mesi di somministrazione di una dieta altamente digeribile di pollo e riso, con ridotto apporto antigenico.10 Sebbene il pollo ed il riso non siano in realtà considerati “nuove” fonti proteiche, è dimostrato che le diete altamente digeribili, contenenti due o più (multiple) fonti di proteine, possono garantire eccellenti risultati.

6. Aumentata digeribilità Il controllo alimentare apporta vantaggi in caso di: - diarrea da interessamento dell’intestino tenue; - insufficienza pancreatica esocrina; - IBD; - colite. Nel trattamento dei disturbi gastrointestinali non si dovrebbe fare ricorso a diete contenenti eccessive quantità di fibre, specialmente della varietà non-fermentescibile. Vari importanti effetti nutrizionali si evidenziano con un apporto


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alimentare in fibre aumentato: diminuisce la digeribilità delle proteine, diminuisce la digeribilità delle fonti energetiche, diminuisce la digeribilità dei lipidi, diminuisce la digeribilità della sostanza secca, aumenta il volume delle feci ed aumenta la frequenza della defecazione. L’apporto in fibre dovrebbe complessivamente rimanere su livelli moderati (37%, percentuale complessiva) e dovrebbe anche favorire un’alta digeribilità, facendo diminuire il carico di lavoro a livello intestinale. Inoltre, l’alta digeribilità riduce la quantità di nutrienti rimasti nel lume dell’intestino perché non digeriti, che potrebbero causare diarrea osmotica.

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grità della mucosa, per ridurre la presenza complessiva di grassi nel lume intestinale e per garantire un’alta digeribilità dei nutrienti. L’oculato ricorso a specifici interventi nella dieta degli animali da compagnia può agevolare la pronta e completa guarigione dei disturbi gastrointestinali.

Riferimenti bibliografici 1.

2.

Tipi di diete disponibili 3.

Mentre ciascun componente della dieta alimentare è importante come entità a sé stante, la formulazione delle diete per il trattamento di disturbi intestinali, che utilizzino miscele di vari componenti o la totalità degli stessi, dovrebbe essere considerata come un’opzione chiave nel trattamento dei disturbi gastro-intestinali. I particolari fabbisogni dei cuccioli, in fase di crescita, richiedono per il loro trattamento un approccio specifico, in quanto si rende necessaria una dieta alimentare “ad hoc”.

CONCLUSIONI

4.

5.

6.

7. 8.

La formulazione di diete con nutrienti specifici dovrebbe essere preso in considerazione nella costituzione di una completa matrice nutrizionale di alta qualità per il trattamento di alterazioni della flora batterica intestinale, per mitigare i processi infiammatori intestinali, per favorire l’inte-

9. 10.

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Il mastocita nell’artrosi del cane Carlo Maria Mortellaro Med Vet, Milano

Alda Miolo, Padova

Introduzione Nell’ultima decade, l’Ortopedia Veterinaria ha visto il progressivo affermarsi di una nuova visione patogenetica dell’artrosi o osteoartrosi (OA). Oggi, questa entità clinica non è più considerata una semplice “affezione prevalentemente degenerativa a carico della cartilagine articolare”, quanto piuttosto una “patologia globale” dell’organo articolazione ad impronta combinata, degenerativa, infiammatorio-ossidativa e neurogenica (Hedbom e Hauselmann, 2002; Salo et al., 2002; Miolo e Mortellaro, 2003; Clegg e Mobasheri, 2003). Non solo, ma sono sempre più numerose le evidenze scientifiche che a queste tre componenti attribuiscono pari dignità nell’innesco e nella cronicizzazione dell’OA. Tra gli elementi del distretto articolare che appaiono maggiormente implicati nella genesi combinata di queste tre caratteristiche patogenetiche dell’OA, figura una cellula immunocompetente, costitutivamente residente nelle articolazioni (es. strato subintimale della membrana sinoviale, capsula articolare), in stretta associazione con i vasi e le terminazioni nervose locali: il mastocita. Intorno alla sua biologia, sono nati specifici filoni di ricerca che ne hanno messo in evidenza le straordinarie caratteristiche anatomo-funzionali, da una parte definendone il ruolo di “regolatore omeostatico” dell’ambiente articolare (Wassermann, 1984) e, dall’altra, decretandone il coinvolgimento diretto in specifiche malattie del sistema muscoloscheletrico, come l’OA, il dolore cronico da compressione discale e, raramente, l’artrite reumatoide (Arnason e Malone, 1995; Freemont et al., 2002; Woolley, 2003). Specificatamente nell’OA, le prime evidenze sull’importanza dei mastociti risalgono agli anni Novanta, quando fu chiaramente dimostrato il loro marcato aumento numerico (Mican e Metcalfe, 1990; Renoux et al., 1995; Marone, 1998), in special modo nei siti di giunzione tra cartilagine in degenerazione e panno infiammatorio sinoviale (Woolley e Tetlow, 2000). Risultò, inoltre, che i mastociti articolari erano soggetti ad un’iper-attivazione funzionale, direttamente correlata alla comparsa dei segni patognomonici di OA (es. erosioni cartilaginee, poussées flogistiche e dolorose) (Arnason e Malone, 1995; Marone, 1998). Fu chiaro, fin da allora, che tale iper-attivazione funzionale traeva origine dall’ampio ventaglio di stimoli agonisti (es. citochine, neuropeptidi, frammenti osteocartilaginei, traumi e, raramente, infezioni) che, convergendo sul mastocita sinoviale, ne stimolavano la degranulazione, la liberazione, cioè, del contenuto dei propri granuli, rappresentato

da una variegata pletora di mediatori (es. citochine, fattori di crescita, fattori chemotattici, amine vasoattive, enzimi proteolitici, neurotrofine, prostanoidi, radicali liberi) a valenza proteolitica, pro-infiammatoria, pro-ossidante ed algogena (Arnason e Malone, 1995; Marone, 1998). Scopo del presente lavoro è quello di definire - attraverso la disamina della letteratura finora pubblicata sull’argomento - il ruolo che, oggi, viene riconosciuto al mastocita nell’OA del cane: quello, cioè, di effettore trasversale di danno, in quanto capace di influenzare condrodegenerazione, infiammazione/ossidazione e dolore, coesistenti in tale artropatia.

Mastociti e condrodegenerazione La cartilagine è il primo tessuto che, in corso di OA, manifesta segni di danno. Sottoposta ad un eccesso di stimoli disreattivi, meccanici e non, tale tessuto va, infatti, incontro ad ingravescenti involuzioni degenerative, collettivamente note con il termine di “condrodegenerazione”. Rammollimenti (condromalacia), fibrillazioni, fissurazioni, erosioni, ulcerazioni, flap cartilaginei sono, in sostanza, l’esito macroscopico di un complesso di alterazioni - cellulari e di matrice - tutte riconducibili ad un progressivo decremento delle potenzialità anaboliche dei condrociti, a favore di un aumento del loro potenziale degradativo. I mastociti liberano una serie di mediatori che, per varie vie, sono in grado di influenzare il metabolismo cartilagineo, esaltandone la valenza catabolico-distruttiva rispetto a quella anabolico-riparativa. In particolare, citochine di provenienza mastocitaria come IL-1 e TNF agiscono sui condrociti, non solo compromettendone le capacità biosintetiche, ma anche diminuendone la responsività a fattori di crescita (es. IGF-1) ad attività riparativa (Schalkwijk et al., 1989). È stato, inoltre, dimostrato che enzimi litici (triptasi, chimasi), citochine (es. IL-6, IL-8, TNF), radicali liberi (es. NO) ed amine vasoattive (es. istamina) di origine mastocitaria sono in grado di avviare ed amplificare la degradazione della matrice cartilaginea, influenzando la sintesi (Tetlow e Woolley, 2002) e l’attivazione/disattivazione (Gruber et al., 1988; Frank et al., 2001) delle metalloproteasi, sostanze oggi ritenute fattori patogenetici chiave nella condrodegenerazione artrosica. Da non dimenticare come la variegata pletora di mediatori mastocitari condizioni anche fenomeni concomitanti alla condrodegenerazione, quali le alterazioni metaboliche e di rimodellamento dell’osso subcondrale, le modificazioni fi-


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brotiche della capsula articolare, le variazioni di assetto immunitario che sottendono alla cronicizzazione del processo artrosico (Arnason e Malone, 1995; Goldring, 2003).

Mastociti ed infiammazione/ ossidazione articolare La flogosi articolare ha, di recente, assunto un ruolo patogenetico primario nell’OA (Attur et al., 2002; Saxne et al., 2003; Haywood et al., 2003), non solo in virtù delle caratteristiche macroscopiche dell’articolazione artrosica – che, contestualmente a manifestazioni di condrodegenerazione ed osteofitosi, mostra anche segni di sinovite – ma, soprattutto, in funzione dei meccanismi cellulari e molecolari che la caratterizzano. Indipendentemente dalla comparsa dei classici segni di infiammazione, originariamente descritti da Celso (rubor, calor, tumor, dolor, functio laesa), è stato, infatti, dimostrato che, alla base del processo artrosico, esistono “cicli viziosi” di danno, alimentati e sostenuti da mediatori infiammatori (es, citochine, fattori di crescita, radicali liberi, metaboliti dell’acido arachidonico, neuropeptidi, enzimi litici), dotati anche di potenzialità condrolitiche ed algogene (Fernandes et al., 2002). In tale ottica, anche la cartilagine – pur nella sua avascolarità – si può considerare dotata di un’intrinseca potenzialità flogogena, dato che i condrociti attivati sono in grado di produrre mediatori alcuni di tali mediatori, chiaramente implicati nell’innesco di fenomeni infiammatori, oltre che nella degradazione della matrice cartilaginea (Attur et al., 2002). Nell’ambito dell’infiammazione articolare, il mastocita ha progressivamente assunto un ruolo di primum movens, non solo per la sua precoce e massiva infiltrazione nelle zone di flogosi (Gryfe et al., 1971; Renoux et al., 1995; Pu et al., 1998; Schiltz et al., 2002), ma anche per l’aumento della sua attività degranulatoria (Aloe et al., 1992). Mediatori ad attività vasodilatatoria, chemotattica, pro-angiogenetica e pro-ossidante sono, infatti, prontamente rilasciati dai mastociti sinoviali, ad avvalorare la partecipazione diretta di tali cellule nella genesi di quelle modificazioni microcircolatorie, biochimiche e cellulari che sottendono flogosi ed alterato ambiente ossidativo endoarticolare e che vengono complessivamente riconosciute con il termine di “stress ossidativo-infiammatorio”(Miolo e Mortellaro, 2003). Da tale condizione, dipendono le classiche manifestazioni di infiammazione articolare (es. panno sinoviale), nonché gli “innesti flogistici” (poussées) tipici dell’OA (Renoux et al., 1995; Renoux et al., 1996; Olsson et al., 2001). Mediatori come TNF, istamina, radicali liberi e prostanoidi di derivazione mastocitaria stimolano anche i condrociti a produrre altre sostanze a chiara valenza infiammatoria, ad indicare l’ormai indubbia partecipazione del tessuto cartilagineo alla genesi dell’infiammazione nell’OA (Attur et al., 2002; Hedbom e Hauselmann, 2003).

Mastociti e dolore Le manifestazioni dolorose che accompagnano l’artrosi si ascrivono solitamente a forme di dolore muscolo-schele-

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trico somatico profondo di tipo nocicettivo, dovuto, cioè, alla sensitizzazione e/o attivazione delle fibre nocicettive (capaci, cioè, di trasferire gli stimoli dannosi verso il sistema nervoso centrale), uniformemente distribuite nei tessuti articolari (es. ossa, capsula articolare), peri ed extra-articolari (es. muscoli), nonché nelle guaine dei nervi sensoriali periferici (Kyles e Ruslander, 1997; Creamer, 2000; McLaughlin, 2000; Niv et al., 2003). Molteplici sono i fattori che, in corso di OA, attivano le vie del dolore. L’infiammazione, innanzitutto, che, da una parte, influenza la nocicezione, tramite l’effetto sensitizzante e/o attivante dei suoi mediatori (Dray, 1995; Inoue et al., 2001) e, dall’altra, viene essa stessa potenziata dai neuropeptidi (es. sostanza P, CGRP, VIP) liberati localmente dalle terminazioni nervose (Hernanz et al., 2003) e capaci di avviare la cosiddetta “infiammazione neurogenica” (Saito e Koshino, 2000; Kirker-Head et al., 2000). A confermare l’intima interrelazione tra attivazione dei nervi sensoriali ed infiammazione in corso di artrosi, sono i dati che dimostrano una correlazione diretta tra la concentrazione sinoviale di neuropeptidi e la gravità della sinovite e l’entità del dolore articolare (Nishimura et al., 2002). Recente anche la conferma di un coinvolgimento della componente nervosa nei fenomeni di rimodellamento osseo e degenerazione cartilaginea. In particolare, i neuropeptidi (es. sostanza P, VIP) influenzano la formazione degli osteocondrofiti (Garcia-Castellano et al., 2000; Wu et al., 2002) ed accelerano i fenomeni degradativi a carico della matrice cartilaginea (O’Byrne et al., 1990; Niissalo et al., 2002). La localizzazione in prossimità delle locali terminazioni nervose afferenti peptidergiche e simpatiche (Hukkanen et al., 1991) rappresenta il presupposto anatomico della stretta interdipendenza funzionale reciproca che, a livello articolare, lega nervi e mastociti e che consente a tali cellule di intervenire nei meccanismi alla base del dolore nocicettivo infiammatorio. Infatti, i neuropeptidi (es. sostanza P) rilasciati dalle fibre nervose perturbate da stimoli di varia natura, oltre ad avviare e/o potenziare la risposta infiammatoria vasale (infiammazione neurogenica), si comportano da agonisti diretti del meccanismo di degranulazione mastocitaria. Dal canto loro, i mastociti, una volta stimolati per via neurogenica, rilasciano sostanze capaci di attivare le fibre nervose sensoriali, sia direttamente (es. istamina, IL-2, triptasi), sia indirettamente (es. sostanza P, VIP, serotonina, NGF, PGE2), attraverso, cioè, la cosiddetta sensitizzazione, un meccanismo che rende le fibre nervose più sensibili all’attivazione (Richardson e Vasko, 2002). Di particolare importanza, il rilascio mastocitario di NGF (Leon et al., 1994) che, in corso di infiammazione, non solo raddoppia il proprio contenuto intra-articolare (Aloe et al., 1992; Aloe et al., 1993; Falcini et al., 1996), ma, in virtù delle proprietà neurotrofiche, vaso-attive e sensitizzanti, diventa un fattore chiave nell’innesco e nell’amplificazione di quei meccanismi alla base dei fenomeni infiammatori e nervosi (es.iperalgesia) che accompagnano l’OA (Theodosiou et al., 1999). In sostanza, quello che si viene a creare all’interno dell’unità morfo-funzionale nervo-mastocita è un vero e proprio circuito di reciproca alimentazione, sia autocrina (da sé stessi) che paracrina (dalle cellule vicine), tale per cui questo binomio biologico ha, nel tempo, acquisito una posizione centrale nell’ambito dei meccanismi neurofisiologici


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del dolore nocicettivo su base infiammatoria. C’è, infine, da considerare che la componente algica dell’artrosi può manifestarsi anche con una genesi non infiammatoria. È il caso del dolore conseguente ad un’abnorme sollecitazione meccanico-irritativa delle fibre nervose articolari, diretta conseguenza, ad esempio, dello stiramento/compressione ad opera degli osteocondrofiti, delle microfratture ossee, dell’ipertensione midollare dovuta alle variazioni di flusso ematico a livello delle trabecole ossee, degli spasmi muscolari. Il persistere di questi fattori può indurre particolari modificazioni neurofisiologiche di natura sensitizzante, riconosciute alla base di specifiche alterazioni sensoriali (es. iperalgesia, allodinia, iperestesia) che accompagnano il dolore cronico, tipico dell’artrosi (Aguggia, 2003). Soprattutto in età avanzata, alla genesi meccanico-irritativa può affiancarsi l’origine primariamente neuropatica del dolore articolare, diretta conseguenza della degenerazione età-dipendente dell’innervazione sensoriale e propriocettiva (O’Connor et al., 1992; Niissalo et al., 2002). Tale meccanismo viene riconosciuto non solo come causa primaria di danno articolare (Salo et al., 2002; Niissalo et al., 2002), ma anche come fattore di accelerazione del processo artrosico (O’Connor et al., 1992; Vilensky e Cook, 1998). Anche nel dolore neuropatico è stato, di recente, dimostrato il coinvolgimento diretto dei mastociti (Zuo et al., 2003). Infatti, il danno diretto alla fibra nervosa – sia esso di natura traumatica, compressiva o degenerativa – attiva, tramite il rilascio di grandi quantità di neuropeptidi, la degranulazione mastocitaria. Il risultato è la liberazione massiva di mediatori (es.istamina, NGF) che potenziano e sostengono quelle alterazioni elettrofisiologiche delle fibre nervose, alla base dello sviluppo di iperalgesia da causa neuropatica.

Conclusioni Riassumendo, sulla scorta della letteratura finora pubblicata, sembra evidente l’importanza cruciale dei mastociti articolari residenti nel determinismo delle alterazioni combinate – degenerative, infiammatorie-ossidative e nervose – che si riscontrano nell’OA. Tale ruolo primario viene essenzialmente esercitato attraverso il meccanismo della degranulazione, cioè il rilascio di una pletora di mediatori a potente attività condrolitica, pro-infiammatoria, pro-ossidante ed algogena. Si tratta, in ultima analisi, di un filone di ricerca alquanto promettente, non solo in termini di una maggior comprensione dei complessi meccanismi patogenetici dell’OA, ma, soprattutto, per i potenziali approcci terapeutici che, attraverso la modulazione della degranulazione mastocitaria, possano esercitare un’efficacia sinergica sulle tre componenti patogenetiche principali dell’artrosi: condrodegenerativa, infiammatorio-ossidativa e neurogenica.

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI CITATE CGRP IGF IL-1 IL-2 IL-6

Calcitonin Gene-Related Protein Insulin Growth Factor Interleuchina-1 Interleuchina-2 Interleuchina-6

IL-8 NGF NO PGE2 TNF VIP

Interleuchina-8 Nerve Growth Factor Nitric oxide (monossido di azoto) Prostaglandina2 Tumor Necrosis Factor Vaso-Intestinal Peptide

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Indirizzo per la corrispondenza: Carlo Maria Mortellaro Sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Via Celoria 10, 20133 MILANO Tel. 02-50317812; Fax 02-50317817; email: Carlo.Maria.Mortellaro@unimi.it Alda Miolo Ce. D.I.S v.le dell’Industria 8, 35030 Rubano (PD) e-mail alda.miolo@innovet.it


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Osteopatia metafisaria, osteodistrofia ipertrofica, scorbuto canino: tre nomi ma la sostanza non cambia Carlo Maria Mortellaro Med Vet, Milano

L’osteopatia metafisaria (OM), conosciuta anche con il termine di Osteodistrofia ipertrofica e con altre denominazioni di cui oggi si è quasi completamente perso l’uso (Scorbuto scheletrico, malattia di Möeller-Barlow, Osteodistrofia ipertrofica), è una patologia ossea idiopatica che colpisce cani in accrescimento, appartenenti soprattutto a razze di taglia media, grande e gigante tra cui Alano3, Boxer5,6, Pastore tedesco3, Setter irlandese, Weimaraner3,8, Borzoi3, Dobermann, Labrador, Collie5,3. Non sono tuttavia escluse le razze di piccola taglia, tra cui i terrier, o le razze toy, come il maltese. Recenti osservazioni hanno rivalutato l’importanza di tale malattia per i cani di razza Weimaraner sia per quanto riguarda la frequenza epidemiologica, sia per la costante ed inconsueta gravità dei segni clinici soprattutto sistemici che accompagnano la OM, tanto da consigliare, per questi cani, trattamenti farmacologici più aggressivi rispetto alle terapie attuate in soggetti appartenenti ad altre razze1. Prevalentemente interessate sono le ossa lunghe le cui metafisi contribuiscono maggiormente all’accrescimento del soggetto7, quali radio, ulna, metacarpei, metatarsei, tibia e femore2,7,3, ma anche ossa piatte quali mandibola e coste3,8. Caratteristico è il coinvolgimento bilaterale simmetrico delle ossa colpite. Alcuni Autori considerano la OM autolimitante purché adeguatamente trattata con terapia supportiva (farmaci antiinfiammatori) e con una restrizione dell’esercizio fisico, anche se talvolta le complicanze sistemiche possono condurre all’exitus o risultare così gravi da spingere il proprietario a richiedere l’eutanasia del proprio animale. Nonostante le prime segnalazioni riguardanti l’OM risalgano ormai a circa 100 anni fa e numerosi Autori si siano dedicati allo studio di tale malattia, fornendoci utili informazioni per un suo tempestivo riconoscimento e per un efficace e duraturo controllo dei sintomi, molti dubbi permangono ancora circa la patogenesi e soprattutto l’eziologia. Fino ai primi anni del secolo scorso, a causa delle scarse conoscenze e del limitato impiego della radiologia, grande confusione regnava nella diagnosi delle malattie ortopediche degli animali domestici o quantomeno di quelle non traumatiche, e ciò portò a considerare “rachitici” tutti i cani giovani che presentavano deviazioni degli arti, tumefazioni periarticolari e zoppia; è dunque molto probabile che in quel gruppo di cani rientrassero anche quelli colpiti da OM. Fu necessario attendere gli anni ’30, quando le interpretazioni dei radiogrammi diventarono sempre più precise e utili a differenziare le diverse malattie scheletriche sia in campo umano che in campo veterinario, per la formulazione delle prime ipotesi eziopatogenetiche. Proprio la medicina umana diede

un primo contributo per lo sviluppo di una teoria che ancora oggi influenza negativamente la scelta terapeutica di molti veterinari: i reperti radiografici di molti bambini malati di scorbuto infantile o malattia di Barlow, patologia causata da una carenza di vitamina C, risultarono infatti, a detta dei primi Autori che trattarono l’argomento, simili a quelli di cani colpiti da OM, in particolare per quanto concerne il segno della “doppia fisi” o linea scorbutica (linea radiotrasparente parallela alla fisi) e il segno di Wimberger (linea radiopaca tra la fisi e la linea scorbutica)2. Negli anni successivi tuttavia, molte critiche vennero mosse a questi Autori dopo la dimostrazione tramite studi sperimentali che, a differenza di quanto accade nei primati, il cane, grazie alla presenza di un enzima che sintetizza la vitamina C a partire dal glucosio, è indipendente da un’assunzione di tale vitamina con la dieta. L’osservazione istologica delle lesioni ossee contribuì poi a differenziare definitivamente la malattia canina da quella umana; in particolare, se nelle ossa dei pazienti affetti da scorbuto umano si assiste ad un problema nell’ossificazione per un difetto della matrice ossea prodotta dagli osteoblasti, causato da una carenza di vitamina C8 nella malattia canina ciò accade a causa della presenza di necrosi e di un processo flogistico a carattere suppurativo, assenti nel quadro istologico dello scorbuto umano8. Altri Autori ipotizzarono dunque che, date le sue peculiarità epidemiologiche, ovvero una significativa predilezione per le razze di grossa taglia a rapido accrescimento, l’OM fosse correlata ad un’iperalimentazione o ad una sovraintegrazione mineralvitaminica, teoria supportata dal ritrovamento, nel corso di esami autoptici, di calcificazioni distrofiche5 riferibili, secondotali Autori, ad una “intossicazione da vitamina D”7. Secondo tale ipotesi la patologia si scatenerebbe in quanto una dieta in eccesso di nutrienti e di integratori minerali, soprattutto calcio, è in grado di provocare un aumento della secrezione di alcuni ormoni gastro-intestinali come gastrina, pancreozimina, glucagone, i quali, a loro volta, stimolano la secrezione di calcitonina. La calcitonina, abbassando i tassi del calcio nel sangue, ritarda il riassorbimento osseo, bloccando l’osteolisi osteocitica ed osteoclastica e riducendo il processo di trasformazione delle cellule progenitrici in osteoblasti; verrebbe inoltre ostacolata la maturazione della cartilagine impedendo così il processo di ossificazione encondrale e creando, quindi, uno stato di osteocondrosi. Una dieta squilibrata in eccesso, dunque, provocherebbe soprattutto a livello metafisario, dove il metabolismo è più attivo, un’aumentata deposizione ossea, il cui rimaneggiamento sarebbe impedito dallo stato di ipercalcitoninismo. Discusso e controverso appa-


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re poi il ruolo dei fattori genetici e dell’ereditabilità dell’OM: sono infatti segnalati episodi di malattia in più cani della stessa cucciolata8, ma con assenza di sintomi sia nei genitori sia nei fratelli nati anche da parti precedenti o successivi. L’accoppiamento di questi soggetti ha poi dato vita ad intere cucciolate con segni riferibili a ritenzione di cartilagine encondrale (RCC – Retained cartilage core) nelle metafisi ulnari distali, ma nessuno dei cuccioli ha presentato segni conclamati di OM8. Oggi, l’ipotesi eziopatogenetica che gode di maggiori favori è senza dubbio quella virale. La presenza di un microrganismo nell’iter eziopatogenetico, già in passato invocato, è suggerita dalla comparsa di sintomi clinici come febbre, scolo nasale, anoressia, ancor prima che si rendano visibili lesioni ossee; all’esame autoptico di molti soggetti si repertano onoltre numerosi focolai di flogosi in vari organi quali polmoni, fegato, milza8. Il microrganismo chiamato in causa come agente eziologico è il Paramyxovirus del Cimurro in quanto all’interno di osteoblasti ed osteoclasti di pazienti affetti da OM è stato ritrovato m-Rna virale, e la presenza di virus all’interno di colture di cellule ossee ha determinato un aumento del numero degli osteoclasti, potenzialmente in grado di modificare il normale accrescimento osseo a livello metafisario6. In anni più recenti, tuttavia, alcuni Autori hanno spostato l’attenzione dal virus del Cimurro alle alterazioni sistemiche determinate nei cuccioli dalle reazioni vaccinali1,4 ipotizzando la comparsa di una sindrome postvaccinale dovuta ad una reazione agli adiuvanti presenti nel vaccino oppure un’infezione da Cimurro secondaria all’immunodeficienza indotta dall’inoculazione di virus vaccinale, ricadendo dunque nella teoria “virale”1. Per quanto riguarda gli aspetti clinici, l’OM è da considerarsi sporadica; i sintomi riportati in anamnesi possono variare dalla presenza di tumefazioni simmetriche degli arti, soprattutto a livello di carpo e tarso, riluttanza al movimento o zoppia, a manifestazioni molto più gravi con decubito permanente2,5,3, febbre, anoressia, diarrea3 scolo nasale8. All’esame clinico, i segni più significativi sono rappresentati dalle tumefazioni bilaterali calde, dolenti e di consistenza dura che risultano essere localizzate caratteristicamente a livello metafisario distale di radio-ulna e tibia, senza coinvolgimento delle vicine articolazioni.2,5,3. All’esame radiografico si reperta il patognomonico segno della “doppia fisi”, li-

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nea radiotrasparente all’interno della metafisi e parallela alla fisi5, separata da quest’ultima da una linea radiopaca di piccole dimensioni8. Le metafisi, soprattutto distali, risultano allargate “a fungo”, mentre sono visibili reazioni periostali che le avvolgono a manicotto. La terapia, essendo ancora ignota l’eziologia, è da intendersi solo sintomatica, basata sull’utilizzo di FANS o corticosteroidi e, se il caso clinico lo richiede, fluidoterapia, antibiotici ed antidiarroici. Se la dieta al momento della comparsa dei sintomi non è equilibrata è bene correggerla eliminando ogni eccesso ed evitando al contempo qualsiasi sovraintegrazione mineral-vitaminica,. La somministrazione di vitamina C non trova giustificazione alcuna8 ed è pertanto fortemente sconsigliata.

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Indirizzo per la corrispondenza: Carlo Maria Mortellaro Sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Via Celoria 10, 20133 MILANO Tel. 02-50317812; Fax 02-50317817; email: Carlo.Maria.Mortellaro@unimi.it


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Cause alimentari ed ambientali di obesità: esiti di una indagine epidemiologica sui cani Pier Paolo Mussa Med Vet, Dipl ECVCN, Torino

L. Banche, Med Vet, Strambino (TO) E. Cura, Med Vet, Buttigliera Alta (TO)

PREMESSA L’obesità costituisce la patologia nutrizionale maggiormente diffusa tra gli uomini ed i carnivori domestici delle società benestanti, superando di gran lunga quelle dovute a fenomeni carenziali1,2,5,6,9. Si stima che, in dette società, il 25% circa degli individui adulti e il 24-44% dei cani siano obesi, mentre soltanto il 2-3% dei cani è magro1,6. Alcune ricerche, svolte in Gran Bretagna, hanno dimostrato che il 33% dei cani si trova in condizioni di sovrappeso, prodromo dell’obesità10. Uno degli studi più recenti, condotto negli Stati Uniti, indica che il 25% di 23.000 cani visitati in 60 ambulatori veterinari privati è sovrappeso od obeso1. Il numero di cani obesi è in aumento a causa della sovralimentazione, della crescente disponibilità di alimenti molto appetibili e di uno stile di vita più sedentario1,4,5,6,7. L’incidenza dell’obesità aumenta con l’età. Nei cani, così come negli esseri umani, l’accumulo di grasso aumenta durante tutto l’arco della vita, dal 15% in fase di pubertà sino al 30% circa nei maschi e al 40% nelle femmine adulte1,6. La sterilizzazione è un ulteriore fattore predisponente all’obesità in entrambi i sessi. In carenza di dati relativi alla situazione italiana, abbiamo predisposto un’indagine finalizzata ad accertare quale fosse la sua incidenza sulla popolazione canina e ad identificarne le principali cause.

MATERIALI E METODI Presso due ambulatori veterinari della provincia di Torino sono stati esaminati 250 cani, di età superiore ad un anno. Sono stati esclusi dallo studio i soggetti affetti da patologie acute o croniche tali da compromettere lo stato generale dell’organismo. Per ognuno di questi cani, con la collaborazione del proprietario, è stato compilato un apposito questionario. La classificazione dello stato di nutrizione è stata effettuata utilizzando il Sistema a nove categorie elaborato per Purina Pet Care Center3. Il tipo di alimentazione è stato indagato mediante 3 variabili qualitative binarie “Yes or No” (“casalinga”, “scatolette”, “crocchette”) in modo da individuare anche i soggetti con alimentazione mista. Sono stati poi presi in considera-

zione la quantità giornaliera di cibo somministrata, il numero di pasti giornaliero, la presenza-assenza di fuoripasto e di alimentazione ad libitum. Le condizioni di vita sono state valutate mediante tre variabili qualitative binarie “Yes or No” (“appartamento, “box”, “giardino/cortile”). Sono stati considerati due tipi di attività fisica utilizzando variabili qualitative binarie “Yes or No” (“passeggiata” e “lavoro”) e sono stati indicati i minuti giornalieri di attività. Per la raccolta, l’elaborazione e l’analisi dei dati sono stati utilizzati come strumenti di lavoro il software Epi Info nella versione 6.04 ed il software R nella versione 1.4.1.

RISULTATI Dalla nostra indagine risulta che il 35,2% dei cani è sovrappeso od obeso. L’obesità aumenta con l’età: il 50,5% dei soggetti esaminati di età superiore ai sette anni è sovrappeso od obeso. La sterilizzazione rappresenta un importante fattore di rischio: il 64,5% dei soggetti sterilizzati è sovrappeso od obeso. Il tipo di alimentazione costituisce un fattore chiave nel determinismo della malattia: ALIMENTAZIONE CASALINGA Dall’analisi statistica si evince che: il 64,8% dei soggetti include l’alimentazione casalinga nella dieta; il 22,8% dei soggetti mangia esclusivamente prodotti casalinghi; il 44,6% dei soggetti che mangiano solo prodotti casalinghi è sovrappeso-obeso; i soggetti che mangiano solo prodotti casalinghi hanno una probabilità di diventare obesi di 1,34 volte superiore rispetto a quella dei soggetti con altra alimentazione (P.R. 1,34; 0,94<P.R<1,92). ALIMENTAZIONE CON CROCCHETTE Dall’analisi statistica risulta che: il 66,8% dei soggetti include le crocchette nella dieta; il 21,6% dei soggetti mangia esclusivamente crocchette; il 22,2% dei soggetti che mangiano solo crocchette è sovrappeso-obeso. C’è un’associazione negativa tra crocchette ed obesità: i cani che mangiano esclusivamente crocchette hanno una probabilità di diventare obesi di circa la metà quella dei soggetti con altra alimentazione (P.R. 0,56; 0,33<P.R.<0,95).


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ALIMENTAZIONE CON SCATOLETTE Dall’analisi statistica si evince che: il 32,4% dei soggetti include le scatolette nella propria dieta; il 3,2% dei soggetti mangia esclusivamente scatolette; il 62,5% dei soggetti che mangiano solo scatolette è sovrappeso-obeso; i soggetti che mangiano solo scatolette hanno una probabilità di diventare obesi di 1,61 volte superiore rispetto a quella dei soggetti con altra alimentazione (P.R. 1,61; 0,88<P.R.<2,97). ALIMENTAZIONE MISTA Dall’analisi statistica risulta che: il 12% dei soggetti presenta un’alimentazione mista con prodotti casalinghi, crocchette, scatolette; il 30% dei soggetti è sovrappeso-obeso; L’analisi statistica delle varie combinazioni di alimentazione mista hanno fornito i seguenti risultati: CASALINGA E CROCCHETTE: il 23,2% dei soggetti ha un’alimentazione mista di soli prodotti casalinghi e crocchette; il 29,3% dei soggetti che mangiano prodotti casalinghi e crocchette è sovrappeso-obeso; CASALINGA E SCATOLETTE: il 7,25 dei soggetti mangia prodotti casalinghi e scatolette; -il 33,3% dei soggetti è sovrappeso-obeso; CROCCHETTE E SCATOLETTE: il 10% dei soggetti mangia crocchette e scatolette; il 56% dei soggetti è sovrappeso-obeso. Di tutti i tipi di diete esaminati nel nostro studio, quella a base di sole crocchette risulta associata alla minore probabilità di manifestare la patologia; i soggetti che invece mangiano solo scatolette hanno la più alta probabilità di diventare obesi. Ciò può essere dovuto ad errori di razionamento da parte del proprietario, favoriti dalla maggiore appetibilità del prodotto umido rispetto a quello secco. Il 70,4% dei soggetti con dieta di sole crocchette presenta peso ideale, mentre solo il 50% dei cani con dieta casalinga ed il 37,5% di quelli con dieta di sole scatolette sono normali. La somministrazione di fuoripasto (avanzi di cucina, dolciumi, leccornie e bocconcini) rappresenta un importante fattore di rischio: il 65% dei soggetti che li consuma è infatti sovrappeso od obeso. L’esame dell’influenza dell’ambiente in cui vivono gli animali ha fornito i seguenti risultati: APPARTAMENTO Dall’analisi statistica risulta che: il 41,6% dei soggetti vive anche in appartamento; il 28,8% dei soggetti vive esclusivamente in appartamento; il 43,1% dei soggetti che vive solo in appartamento è sovrappeso-obeso; i soggetti che vivono esclusivamente in appartamento hanno una probabilità di diventare obesi di 1,34 volte superiore rispetto a quella dei soggetti che vivono in altri ambienti (P.R. 1,34; 0,96<P.R.<1,89); BOX Dall’analisi statistica risulta che: il 9,2% dei soggetti vivono anche nel box; l’8% dei soggetti vive esclusivamente nel box; il 15% dei soggetti è sovrappeso-obeso; nessun soggetto riceve fuoripasto; i soggetti che vivono esclusivamente nel box hanno una probabilità di diventare obesi di circa la metà quella dei cani che vivono in altri ambienti (P.R. 0,41; 0,14<P.R.<1,17). GIARDINO Dall’analisi statistica si evince che: il 63,2% dei soggetti vive anche in giardino; il 49,6% dei soggetti vive esclusivamente

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in giardino; il 32,3% dei soggetti che vive solo in giardino è sovrappeso-obeso; il 14,5% riceve fuoripasto; i soggetti che vivono esclusivamente in giardino hanno una probabilità di diventare obesi di 0,85 volte inferiore a quella dei cani che vivono in altri ambienti (P.R. 0,85; 0,60<P.R.<1,19); APPARTAMENTO E GIARDINO Dall’analisi statistica risulta che: il 12,4% dei soggetti vive in appartamento e giardino; il 45,2% dei soggetti che vive in appartamento e giardino è sovrappeso-obeso; Il tipo di ambiente influenza notevolmente lo stato nutrizionale del soggetto: i cani che vivono in appartamento sono più obesi di quelli che vivono in giardino o nel box. L’85% dei soggetti che vive nel box ha peso ideale, mentre il 67,7% dei cani che vivono in giardino e solamente il 56,9% di quelli che vivono in appartamento sono normali.

CONCLUSIONI L’elevata incidenza dell’obesità nell’ambito della popolazione canina italiana e la gravità delle conseguenze che ne derivano dovrebbero stimolare una sistematica azione preventiva da parte dei Veterinari. Essa dovrebbe riguardare prioritariamente la formulazione di un corretto piano di razionamento8 e la sua conferma mediante periodiche pesate di controllo dell’animale. Non vanno dimenticati peraltro gli altri fattori di rischio: la razza, la sterilizzazione, le condizioni di vita, l’eccessiva accondiscendenza del proprietario verso i capricci del proprio animale.

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Indirizzo per la corrispondenza: Pier Paolo Mussa, Professore Ordinario Dipartimento di Produzioni animali, epidemiologia ed ecologia Facoltà di Medicina Veterinaria – Università di Torino via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO) Tel 011/6709210 - fax 011/6709240 e-mail: pierpaolo.mussa@unito.it


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Ciclosporina: un nuovo immunomodulatore per la dermatologia dei piccoli animali Thierry Olivry DVM, PhD, Dip ACVD, Dip ECVD, Raleigh, North Carolina, USA

Modalità d’azione della ciclosporina nelle infiammazioni cutanee Le proprietà antinfiammatorie della ciclosporina (CsA) sono da ricondursi alla sua capacità di inibire l’attivazione di molti tipi di cellule coinvolte nella infiammazione allergica cutanea (esaminata in 5). In vari modelli sperimentali, la CsA ha evidenziato un’inibizione della sopravvivenza e della conta mastocitaria cutanea, del rilascio di istamina, della produzione di prostaglandine e della secrezione di citochine. A seguito di incubazione con CsA il rilascio di istamina da parte di mastociti di cane è ridotta. Analogamente alla inibizione della funzione mastocitaria, la CsA può inibire la sopravvivenza degli eosinofili, il rilascio di sostanze ad attività tossica dai granuli citoplasmatici, la secrezione e il reclutamento di citochine nei siti di infiammazione allergica. La ciclosporina inibisce gran parte delle funzioni dei linfociti T, soprattutto l’attivazione dei linfociti e la produzione di citochine. In maniera analoga, anche la secrezione di citochine da parte dei cheratinociti diminuisce in misura considerevole a seguito di terapia con CsA. La ciclosporina riduce inoltre il numero di cellule di Langerhans nell’epidermide ed inibisce le funzioni di attivazione linfocitaria di queste cellule presentanti l’antigene. Nel complesso, la CsA inibisce l’infiltrazione cellulare IgE e mastocito-dipendente nei siti di infiammazione cutanea, prevenendo le reazioni tardive TNF-mediate. In conclusione, la CsA manifesta forti proprietà antiallergiche perché inibisce 1) le funzioni cellulari che attivano le reazioni immunitarie (cioè le cellule di Langerhans e i linfociti) e 2) le funzioni delle cellule effettrici della risposta allergica (cioè mastociti ed eosinofili).

Esame delle prove di evidenza dell’efficacia della ciclosporina nel trattamento delle malattie cutanee negli animali La relazione si basa su casi o su studi clinici nei quali la CsA è stata somministrata ad animali con malattie cutanee. Non verranno trattati casi singoli. Sono stati inclusi gli studi pubblicati entro l’1 febbraio 2004.

La ciclosporina per il trattamento della dermatite atopica nel cane Al 1° febbraio 2004, la nostra ricerca nella letteratura ha individuato quattro studi clinici sponsorizzati dall’azienda

produttrice, sull’efficacia della CsA nel trattamento della dermatite atopica canina.2, 10, 12, 15. Una relazione descriveva i risultati di un piccolo studio aperto, condotto in un numero limitato di esemplari, della durata di due settimane2, mentre gli altri tre erano studi randomizzati controllati condotti in cieco in un numero di esemplari più elevato.10, 12, 15 Per tutti gli studi erano disponibili analisi “intention-to-treat”. Nel complesso, in questi quattro studi hanno partecipato 311 cani con dermatite atopica diagnosticata con metodi standard. Dei 311 cani, 207 (67%) sono stati trattati con CsA concentrato preemulsionato (Neoral, Novartis Pharma; Atopica/Atoplus, Novartis Animal Health), mentre i restanti cani hanno ricevuto un placebo12, prednisolone10 o metilprednisolone (Tab. 1).15 Tutti e quattro gli studi hanno riferito che la CsA somministrata a una dose di 5,0 mg kg-1 die-1 ha indotto una diminuzione nei segni clinici di dermatite atopica. La riduzione media o mediana nei punteggi basali delle lesioni valutati dai ricercatori variava da 5215 a 67%.12 Analogamente, il miglioramento rispetto al punteggio basale relativo al prurito, valutati dai proprietari, era compreso tra 3615 e 100%.2 Un controllo soddisfacente delle lesioni e del prurito (cioè riduzione dei punteggi nel corso dello studio ≥ 50%) è stato raggiunto rispettivamente nel 6615 - 79%2 e nel 4015 - 86%2 dei cani. Occorre notare che il miglioramento più contenuto ottenuto nello studio più recente15 potrebbe trovare una spiegazione nella decrescente frequenza di somministrazione di CsA nel corso dello studio. Rispetto ad altri medicinali, la CsA è risultata efficace al pari di prednisolone10 e metilprednisolone15 impiegati a dosi antinfiammatorie standard (si veda la sezione GC). Infine, l’induzione con la dose più bassa di CsA (2,5 mg kg-1 die-1) non è risultata più efficace del placebo.12 A 5,0 mg kg-1 die1 , la somministrazione di CsA ha indotto una riduzione significativamente superiore nei punteggi delle lesioni e del prurito rispetto all’assunzione del suo veicolo.12 Reazioni avverse al farmaco sono state riferite in 142 - 81% dei casi.15 Tali reazioni sono state classificate come moderate o lievi nella maggior parte dei pazienti12, 15, consistendo in genere in vomito (14-42%) e diarrea (16-18%) intermittenti.2, 10, 12, 15 Infezioni cutanee sono comparse nel 29% dei soggetti arruolati nello studio randomizzato controllato più ampio e lungo. 15 In questo studio, la gravità degli eventi avversi al farmaco ha portato alla sospensione del trattamento nel 6% dei cani trattati con CsA.15 Eventi occasionali hanno indotto la sospensione del trattamento in altri studi, ma la prova che fossero causati dalla CsA non è risultata inequivocabile.10


86% "da buono a eccellente" valutazione globale proprietario

60% 100% 79% 86%

CsA preconcentrato microemulsionato 5,0 mg/kg QD

30 30 15 6 (6)

A3 adeguata adeguata adeguato adeguate ben caratterizzata

Olivry, 2002

NA

58% 78% 69% 77%

CsA preconcentrato microemulsionato 5,0 mg/kg QD

Abbreviazioni: EOD: a giorni alterni; QD: una volta al giorno; TW: due volte la settimana; NA: non disponibile.

Altri criteri valutazione risultato

% riduzione media/mediana punteggi lesioni % riduzione media/mediana punteggi prurito % cani con _ 50% riduzione nei punteggi lesioni % cani con _ 50% riduzione nei punteggi prurito

Trattamento farmacologico

14 14 14 2 (2)

C3 assente assente inadeguato adeguate ben caratterizzata

Qualità dell’evidenza Randomizzazione (Generazione allocazione) Randomizzazione (Occultamento allocazione) Valutatore risultato in cieco Analisi “intention-to-treat” Qualità inclusione soggetti studio

# Cani inclusi nello studio (totale) # Cani inclusi nello studio (solo AD) # Cani con AD trattati con principio attivo Durata studio (durata trattamento farmacologico) (sett.)

Fontaine, 2001

Citazione (Riferimento)

6 (6)

31

33-40% "da buono a eccellente" valutazione globale della efficacia di proprietario e clinico

41% 31% 47% 33%

61% "da buono a eccellente" valutazione globale della efficacia di proprietario e clinico

67% 45% 71% 48%

CsA preconcentrato microemulsionato 2,5 mg/kg QD 5,0 mg/kg QD

30

91 91

A2 adeguata adeguata adeguato adeguate ben caratterizzata

Olivry, 2002

75-76% "da buono a eccellente" valutazione globale della efficacia di proprietario e clinico

52% 36% 66% 40%

CsA preconcentrato microemulsionato 5,0 mg/kg QD, EOD o TW

176 176 117 16 (16)

A1 adeguata adeguata adeguato adeguate ben caratterizzata

Steffan, 2003

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Abbreviazioni: BID: due volte al giorno; QD: una volta al giorno; NA: non disponibile.

36% dei cani con ricorrenza durante il follow-up di 1-13 mesi dopo trattam.

69% 27% 4% NA

% Cani con remissione completa % Cani con remissione parziale % Cani senza miglioramento % media/mediana % riduzione superficie lesioni

Altri criteri valutazione risultato

assenti

Altri trattamenti

CsA preconcentr. microemuls. 4,0 mg/kg BID

26 26 qt. necess. per remissione completa

# Cani inclusi nello studio (foruncolosi anale) # Cani con PAF trattati con principio attivo Durata studio (sett.)

Trattamento farmacologico

C2 assente assente inadeguato nessuna analisi statistica

Hardie, 2000

remissione in tutti i cani per oltre 6-18 mesi dopo trattamento

100% 0% 0% NA

Antibiotici q.s.

Qualità evidenza Randomizzazione (generazione allocazione) Randomizzazione (occultamento allocazione) Valutatore risultato in cieco Analisi “intention-to-treat”

Riferimento

Altri criteri valutazione risultato

% Cani con remissione completa % Cani con remissione parziale % Cani senza miglioramento % media/mediana % riduzione superficie lesioni

Altri trattamenti

CsA (non emulsionata) 5,0-10,0 mg/kg BID

9 9 8-20

# Cani inclusi nello studio (foruncolosi anale) # Cani con PAF trattati con principio attivo Durata studio (sett.)

Trattamento farmacologico

C3 assente assente inadeguato nessuna analisi statistica

Mathews, 1997a

Qualità evidenza Randomizzazione (generazione allocazione) Randomizzazione (occultamento allocazione) Valutatore risultato in cieco Analisi “intention-to-treat”

Riferimento

0% dopo 4 sett. 0% dopo 4 sett. 100% dopo 4 sett. pggioram. 9%

assente

placebo (veicolo)

43% dei cani con ricorrenza entro un anno dal trattamento

93% 7% 2 cani ritirati – non inclusi nei calcoli

Chetoconazolo 0.0 mg/kg QD

CsA preconcentr. microemuls. 1,0 mg/kg BID

16 16 16

C3 assente assente inadeguato nessuna analisi statistica

Mouatt, 2002

63% dei cani con ricorrenza ricorrenza (media: 12 sett. dopo sospens. trattamento)

75% (media: 14 sett.) 25% 0% NA

Chetoconazolo 8,0 mg/kg QD

CsA preconcentr. microemuls. 2,5 mg/kg BID o 4.0 mg/kg QD

12 12 qt. necess. per remissione completa

C3 assente assente inadeguato nessuna analisi statistica

Patricelli, 2002

62% riduzione profondità 11% aumento prof. fistole dopo 4 sett. fistole dopo 4 sett. Fistole guarite nell’85% di tutti i cani trattati con CsA dopo 16 sett.

0% dopo 4 sett. 100% dopo 4 sett. 0% dopo 4 sett. miglioram.78%

Cefalexina per 10 gg.

CsA preconc. microemulsionato 5.0 mg/kg BID

20 10 16

A3 adeguata adeguata adeguato adeguate

Mathews, 1997b

miglioramento correlato alla dose remissione più lunga gruppo 7,5mg/kg 75% remissione completa gruppo 7,5 mg/kg

25% (tutti gruppi insieme) 46% (tutti gruppi insieme) 29% (tutti gruppi insieme) maggiore riduzione gruppo 7,5 mg/kg

assenti

CsA preconcentr. microemuls. 1,5 a 7.5 mg/kg QD

24 24 13

B4 adeguata inadeguata inadeguato studio completato da tutti i cani

Doust, 2003

ricorrenza solo in 1 cane durante follow-up di 4-14 mesi dopo trattemento

83% 17% 0% 50-90% dopo 1 sett.

CsA preconc. microemulsionato 7,5 mg/kg BID

6 6 10-20

C4 assente assente inadeguato nessuna analisi statistica

Griffiths, 1999

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Nel complesso, queste quattro relazioni (uno studio aperto e tre studi controllati randomizzati) forniscono prove di evidenza che la monoterapia con CsA è efficace nella riduzione delle lesioni cutanee e del prurito nei cani con dermatite atopica, a una dose di induzione di 5,0 mg/kg/die. Questi studi forniscono una valida evidenza a suffragio dell’impiego consigliato di CsA per via orale nel trattamento della dermatite atopica nel cane.

NUOVI POSSIBLI IMPIEGHI IN DERMATOLOGIA La ciclosporina nel trattamento di fistole/foruncolosi perianali nel cane L’efficacia della CsA nel trattamento di fistole/foruncolosi perianali (PAF) è stata riportata in sette studi (Tab. 2).1, 3, 4, 6, 7, 8, 13 Uno studio era di tipo controllato randomizzato in cieco7, uno controllato randomizzato non in cieco1 e cinque studi aperti.3, 4, 6, 8, 13 113 cani hanno preso parte ai diversi studi e 103 sono stati trattati con CsA. L’efficacia di CsA nel trattamento del PAF è risultata superiore al placebo 7, ed è sembrata dipendere dal tempo e dalla dose, con una percentuale di remissioni superiore dopo 16 settimane rispetto a quattro settimane 7 e in cani riceventi 7,5 mg/kg/die sotto forma di dose singola, rispetto a dosi inferiori.1 Nel complesso, nei cani riceventi almeno 4,0 mg/kg di CsA al giorno, la percentuale di soggetti pervenuti a una completa remissione dei segni variava tra 33 1 e 100%.6 Dopo la sospensione del trattamento, le lesioni sono ricomparse in una percentuale variabile da zero 6 a 63% dei soggetti 13 , con un tempo medio alla recidiva di 12 settimane.13 L’efficacia di CsA alla dose di 5,0-10,0 mg/kg/die1, 3, 4, 6, 7 è parsa simile a quella di dosi minori (2,0-5,0 mg/kg/die) somministrate assieme a 8,0-10,0 mg/kg di chetoconazolo una volta al giorno.8, 13 Reazioni avverse al farmaco si sono manifestate in misura variabile e sono state classificate minime e ben tollerate nella maggior parte dei pazienti.1, 4, 7, 8 Nel complesso, questi studi (cinque aperti e due controllati randomizzati) contengono prove di evidenza che la CsA potrebbe essere considerata una valida alternativa all’inter-

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vento chirurgico nei cani con PAF. Tali studi forniscono una valida evidenza a suffragio dell’impiego orale di CsA nel trattamento del PAF nel cane, a dosi quotidiane comprese tra 5,0 e10,0 mg/kg.

La ciclosporina nel trattamento del Pemphigus Foliaceus nel cane Un dei primi studi riguardava l’impiego della CsA non microemulsionata alla dose di 10,0-25,0 mg/kg/die in tre cani e due gatti con pemfigo superficiale14. Una risposta da buona a completa delle lesioni al trattamento è stata osservata in quattro-sei settimane in due cani e un gatto. In un cane e un gatto, vi è stata una riduzione parziale temporanea nei segni clinici, ma le lesioni non hanno risposto a dosi superiori quando la gravità della malattia peggiorava. Uno studio pilota ha descritto i risultati della induzione con CsA microemulsionata somministrata alla dose di 5 e, successivamente, 10 mg/kg/die in cinque cani con pemfigo foliaceo.11 In questo studio pilota di breve durata, la somministrazione di CsA non è stata in grado di indurre una completa remissione in tutti i soggetti arruolati. Inoltre, quattro cani su cinque hanno dovuto abbandonare lo studio per un’esacerbazione dei punteggi delle lesioni. Data la mancanza di evidenza di efficacia costante e rilevante, la somministrazione di CsA alle dosi proposte non può con le modalità descritte, essere consigliata per il trattamento di pemfigo foliaceo nel cane.

Bibliografia disponibile su richiesta al relatore

Indirizzo per la corrispondenza: Thierry Olivry Professor of Immunodermatology & Associate Department Head Department of Clinical Sciences North Carolina State University College of Veterinary Medicine Raleigh, North Carolina, USA Adjunct Clinical Associate Professor of Dermatology Department of Dermatology UNC School of Medicine Chapel Hill, North Carolina, USA


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Caso clinico patologico Dermatosi esfoliativa generalizzata in un gatto Laura Ordeix Med Vet, Dipl ECVD, Milano

Fabia Scarampella Med Vet, Dipl ECVD, Milano

Segnalamento e anamnesi: Un gatto comune eu-

Procedure diagnostiche:

ropeo, castrato di tre anni di età viene portato alla visita clinica perché da due mesi presenta intenso prurito, croste sul tronco e perdita di pelo. L’animale non mostra apparenti segni di malessere generale. Il gatto è sottoposto a profilassi antipulci regolare (selamectina spot on) è alimentato con dieta varia (cibo commerciale e casalingo) ed è l’unico animale presente nell’appartamento. Il soggetto soffre da tempo di stomatite. Il veterinario referente aveva in precedenza eseguito un esame colturale per dermatofiti e test sierologici per FIV e FeLV a cui il gatto era risultato negativo. Erano stati tentati vari protocolli terapeutici con antibiotici (amoxicillina/ac.clavulanico, enrofloxacina), antistaminici (oxatomide) e antinfiammatori (prednisolone) senza ottenere alcun miglioramento della sintomatologia clinica.

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Esame clinico: L’esame obiettivo generale rivela la presenza di ulcere diffuse nel cavo orale e una moderata linfoadenopatia sottomandibolare e ascellare. All’esame dermatologico sono osservabili aree di ipotricosi e presenza di scaglie biancastre adese alla superficie cutanea del tronco e degli arti. Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Esame dermatopatologico: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ Indirizzo delle autrici presentatrici: Via Sismondi 62, Milano Tel. 02 717378, fax 02 7490750


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Il caso più strano che abbia mai visto Dermatite papulo-crostosa cronica in un gatto Laura Ordeix Med Vet, Dipl ECVD, Milano

D. Cereda, Med Vet, Milano F. Scarampella, Med Vet, Dipl. ECVD, Milano

Segnalamento e anamnesi: Un gatto di razza comune Europea, femmina di 3 anni di età viene portata alla visita dermatologica per un problema di dermatite crostosa e prurito intenso da 15 giorni. Il soggetto è alimentato con una dieta ipoallergenica a base di idrolisati proteici e trattato con cetirizina (5 mg/gatto SID PO) da 10 giorni. Il gatto, randagio, era stato trovato 5 mesi prima e, al momento dell’adozione presentava lesioni crostose intensamente pruriginose localizzate alla regione infrascapolare, sulle facce laterali di entrambe le estremità anteriori e sulla sommità del capo. Le lesioni erano lievemente regredite dopo il trattamento con selamectina in spot on. Successivamente a causa alla comparsa di un’artrite settica localizzata all’articolazione carpale destra il soggetto era stato trattato con antibiotici (cefadroxile ed enrofloxacina) e sia l’artrite che la dermatite erano regredite completamente. La gatta convive con due altri gatti senza problemi cutanei. L’animale non mostra apparenti segni di malessere generale, mangia con appetito e non manifesta aumento della sete o alterazioni delle funzioni organiche. Esame clinico: L’esame obiettivo generale al momento della visita dermatologica è nella norma. All’esame dermatologico sono osservabili lesioni papulo-crostose sul tronco, sull’addome e sul dorso del naso, alopecia cicatriziale sui padiglioni auricolari con croste confluenti, ipercheratosi ed esfoliazione dei cuscinetti plantari e onicomadesi.

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

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Approccio clinico alla “demenza senile” nel cane e nel gatto: diagnosi, terapia e prevenzione Maria Cristina Osella DVM, PhD, Chiasso (TO)

Introduzione I cani e gatti anziani sono una popolazione in costante aumento nel nostro Paese, grazie ai progressi compiuti in Medicina Veterinaria e al maggior coinvolgimento della clientela nelle cure dispensate ai propri animali d’affezione (Dairin, 1996). Uno degli aspetti più salienti delle conseguenze della senilità è la progressiva discrepanza tra comportamento manifestato dall’animale e adeguatezza del contesto, espressione tipica nel cane e nel gatto di forme analoghe alla demenza senile dell’uomo; l’analisi post mortem di reperti anatomo-patologici sembra confortare tale ipotesi, evidenziando alcune affinità con quelle rilevate nel morbo di Alzheimer in umana (Cummings et al., 1996). È infatti noto che con l’invecchiamento il cervello va incontro ad una progressiva perdita delle proprie caratteristiche fondamentali: continuità d’azione, plasticità e ridondanza, intesa come la capacità di compenso suppletivo di una funzione con l’altra; i danni neuroanatomici e funzionali che ne derivano sono inizialmente modesti, spesso compensati, e non si traducono perciò in segni clinicamente manifesti. Col procedere dell’età, tale processo tende gradualmente a corredarsi di segni clinici, che possono rimanere nella sfera del cosiddetto soggetto borderline, che può rimanere tale o procedere verso entità cliniche conclamate, note sotto il termine di disturbi cognitivi, comportamentali ed emozionali della fascia geriatrica. Da un punto di vista etimologico, tali disordini vengono classificati in maniera molto diversa a seconda delle diverse scuole di pensiero in Europa e in Nord America nel settore della medicina comportamentale (Dehasse, 2003). Nel presente lavoro si farà unicamente riferimento alla patologia considerata sovrapponibile alla “demenza” senile dell’uomo, già nota come sindrome confusionale o disfunzione cognitiva del cane anziano, e recentemente proposta quale disfunzione cognitiva del gatto anziano (Landsberg, 2003); si intende quindi una patologia senile ben specifica, che offre un quadro clinico ben delineato anche se diverso nel cane e nel gatto, tipicamente sostenuto da un processo neurodegenerativo progressivo peculiare dell’invecchiamento, e caratterizzato da un graduale declino delle funzioni cognitive, emozionali e comportamentali. Scopo del presente lavoro è quello di presentare al veterinario un approccio semplice e razionale alla diagnosi precoce delle patologie canine e feline riferibili a disfunzione senile, riconoscendo i primi segni di degenerazione funzionale, o addirittura di agire in senso preventivo; si forniscono

inoltre gli strumenti per trattare efficacemente tale sindrome geriatrica, attraverso l’impostazione di idonei piani terapeutici. Le linee guida applicative proposte sono il risultato dell’attività professionale svolta direttamente dall’autore nel settore della clinica comportamentale comportamentale del cane e del gatto (Osella et al., 2003).

Gli effetti clinici e comportamentali dell’invecchiamento Nel cane e nel gatto gli effetti dell’invecchiamento si riflettono a livello organico e funzionale sui diversi apparati dell’organismo (Mosier, 1989), determinando modificazioni comportamentali, che talora sono erroneamente interpretate come patologie puramente di ordine organico. L’invecchiamento non rappresenta una patologia di per sé, ma il complesso processo biologico caratterizzato da una progressiva ed irrimediabile modificazione dei tessuti e delle cellule, può esitare in una ridotta capacità dell’organismo a mantenere l’omeostasi in risposta a stressori fisici ed ambientali (Landsberg e Ruehl, 1997), al punto da interferire con le funzioni vitali dell’individuo. Gli animali presentano conseguentemente una riduzione delle loro performance, sia fisiche che cognitive, associata ad un generico aumento della vulnerabilità dell’organismo (Milgram, 1994). È per questo che nei cani e nei gatti anziani i problemi comportamentali spesso sono riferibili ad una combinazione di disturbi organici e funzionali (Houpt e Beaver, 1981). Essi vengono di solito considerati, tanto dai proprietari quanto dai veterinari, se particolarmente gravi, come “infermità senili”; tuttavia, a volte, possono anche essere attribuiti erroneamente al “normale invecchiamento” del soggetto, inesorabile e di conseguenza incurabile. Il passaggio da un semplice rallentamento delle attività psicomotorie ad una vera e propria alterazione dei processi “cognitivi” segna il punto di confine tra l’invecchiamento fisiologico e quello patologico (Goldman e Côté, 1994). Infatti, così come nell’uomo si osservano condizioni geriatriche che vanno da un fisiologico declino cognitivo età-correlato fino alle più gravi forme di demenza (comunemente caratterizzate da un generale deterioramento mentale sufficiente a produrre un totale deficit funzionale del soggetto), anche nel cane si sta delineando la “sindrome da disfunzione cognitiva del cane anziano” o sindrome confusionale del cane anziano (Ruehl et al., 1995). Tale patologia può essere in parte considerata l’equivalente canino del Morbo di Alzheimer e presenta modificazioni se-


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nili che si verificano a livello cerebrale, che influiscono negativamente sui processi mentali e di conseguenza sulle interazioni dell’animale con il proprio ambiente. Questa sindrome, che include numerose modificazioni comportamentali tra cui disorientamento, diminuzione o alterazione delle interazioni sociali, variazioni dell’attività generale, nonché perdita delle corrette abitudini eliminatorie ed alterazione del ciclo sonno-veglia (Ruehl & Hart, 2000), appare piuttosto frequente nel cane e nel gatto anziano. Il gatto, paradossalmente ampiamente utilizzato quale animale da laboratorio nell’area sperimentale neurofisiologica, solo recentemente viene considerato quale soggetto geriatrico che può presentare alterazioni tipicamente senili, riferibili alla sfera della medicina comportamentale (Landsberg, 2003).

Aspetti patogenetici Gli aspetti patogenetici includono alterazioni strutturali, vascolari e funzionali (Borras et al, 1999). Col progredire dell’età, tende a verificarsi una riduzione della massa cerebrale complessiva; ciò avviene per una serie di processi che vanno dall’atrofia del cervello e dei gangli basali, all’aumento dello spazio ventricolare, dall’assottigliamento delle circonvoluzioni corticali, all’allargamento dei solchi cerebrali, dall’aumento del numero e della dimensione degli astrociti, alla riduzione numerica dei neuroni. Tali neuroni, inoltre, presentano inequivocabili segni di neurodegenerazione. L’aspetto più distintivo dell’invecchiamento cerebrale patologico del cane sta nell’accumulo di infiltrati perivascolari e di placche senili a carattere diffuso, costituite da depositi di beta-amiloide. Recentemente è stato dimostrato che l’entità di tali depositi è direttamente correlata al grado di deficit cognitivo (Colle et al., 2000). Il dato non sorprende dal momento che la beta-amiloide è nota esercitare effetti neurotossici (compromette la funzionalità neuronale, induce degenerazione sinaptica, riduce il numero di neuroni, abbassa il livello di neurotrasmettitori). Oltre alla beta-amiloide, anche i radicali liberi rappresentano importanti fattori patogenetici nello sviluppo delle malattie associate all’invecchiamento cerebrale, da cui deriva l’impiego degli antiossidanti nel ritardare l’insorgenza dei deficit cognitivi dell’anziano. Nel cervello del cane anziano possono anche manifestarsi specifiche alterazioni vascolari e perivascolari, come microemorragie ed infarti dei vasi periventricolari, nonché arteriosclerosi di tipo non-lipidico (Pageat, 2001); tale angiopatia può compromettere il flusso ematico e la disponibilità cerebrale di glucosio, senza contare il fatto che all’ipossia cerebrale dell’animale anziano possono anche contribuire la diminuita gittata cardiaca, l’anemia, l’iper-viscosità ematica, l’iper-coagulabilità piastrinica, e le malattie organiche accompagnate da ipertensione (es. diabete, ipertiroidismo, nefropatie, insufficienza cardiaca o respiratoria). Nel cervello senile possono verificarsi alterazioni funzionali, tra cui riduzione dei livelli neurotrasmettitoriali delle catecolamine (noradrenalina, serotonina, dopamina), aumento di attività dell’enzima monoamino-ossidasi B; il calo di catecolamine ed il deficit di trasmissione nervosa possono rappresentare un fattore importante nell’eziopatogenesi della demenza senile. Lo stesso dicasi per un possibile deficit a ca-

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rico del sistema colinergico, potenzialmente dovuto ad un aumento dell’acetilcolinesterasi e/o ad una riduzione dei recettori muscarinici (Pageat, 1996).

Inquadramento clinico La sindrome confusionale del cane e del gatto anziano è a tutti gli effetti di competenza della clinica veterinaria; ciascun soggetto deve perciò essere sottoposto ad un esame fisico completo, preceduto da un’accurata raccolta dell’anamnesi clinica e comportamentale; qualora ritenuto necessario, può essere richiesto un consulto specialistico (neurologico, dermatologico, ortopedico, cardiologico etc.) e/o possono rendersi necessari specifici accertamenti diagnostici e determinate analisi di laboratorio al fine di valutare correttamente se, e a che livello, l’alterazione del comportamento possa essere l’espressione di un’alterazione organica. L’esame ematochimico dovrebbe essere effettuato di routine, escludendo i soggetti in cui tale indagine sia stata svolta negli ultimi due mesi. Il controllo della funzionalità tiroidea e/o dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene è consigliabile soltanto qualora i segni clinici e/o comportamentali ne diano specifica indicazione, così come altre indagini collaterali di un certo rilievo. Come l’uomo (Govoni et al., 1998), anche l’animale da affezione presenta una variabilità di declino cognitivo, con condizioni che spaziano dall’“invecchiamento di successo”, al calo età-dipendente della memoria, fino al vero e proprio deterioramento cognitivo patologico (demenza senile). È solo attraverso un’attenta intervista al proprietario che è possibile identificare precocemente i primi segni di demenza senile, e, conseguentemente, poter intervenire tempestivamente, lì dove i processi neurodegenerativi sono ancora in fase iniziale e la finestra di intervento gode di ben più alte probabilità di successo. Sotto il profilo prettamente comportamentale, i principali sintomi della demenza senile canina e felina sono da ricondursi a disorientamento, cambiamenti nell’interazione sociale e a livello ambientale, variazioni del ciclo sonno/veglia e disturbi di tipo eliminatorio. Per una valutazione comportamentale mirata in ambito geriatrico, devono essere considerati i sistemi comportamentali specie-specifici di base (Scott e Fuller, 1965; Houpt, 2000); nel dettaglio sono da valutare i comportamenti investigativo, epimeletico (rivolgere cure a se stessi ed ai compagni sociali, inclusa la cura del corpo), et-epimeletico (richiedere cure ed attenzione ai compagni sociali), allelomimetico (facilitazione sociale), agonistico (inclusi i comportamenti competitivi intraspecifici, i segnali di affermazione di sé e di autoprotezione), eliminatorio (atto fisiologico, marcatura), sessuale (atto fisiologico, significato sociale), ingestivo (acqua ed alimenti), ricerca di comfort ambientale (inclusi bioritmo e sonno) (Dodman e Shuster, 2000; Overall, 2001; Pageat, 2001), come già recentemente proposto (Osella et al., 2003). Il comportamento di un animale può essere influenzato da molti fattori, da cui la necessità di comprenderne i diversi aspetti, non solo per formulare una diagnosi corretta ma anche per impostare un efficace piano di trattamento


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che spesso si fonda su una combinazione di elementi diversi per la correzione del problema. I cardini dell’intervento terapeutico sono le modificazioni ambientali, l’applicazione di tecniche di modificazione del comportamento basate sui principi dell’apprendimento e l’intervento farmacologico. L’ambiente, sia fisico, cioè il luogo in cui l’animale vive, che sociale - considerando l’interazione uomo-animale e la relazione intraspecifica, sia in ambito domestico che in esterno - può essere modificato in modo da migliorare la qualità della vita dell’animale, anche in rapporto alle specifiche esigenze del proprietario. Nel dettaglio, devono essere fornite al cliente informazioni generali sulla detenzione e sulla gestione dell’animale, componenti che devono forzatamente cambiare come conseguenza della sua condizione senile, valutando lo stile di vita dell’intero nucleo famigliare ed in rapporto alle specifiche esigenze della specie di appartenenza. Per quanto concerne le prescrizioni farmacologiche si rilevano in letteratura indicazioni relative alla selegilina, alla fluoxetina, alla clomipramina e a particolari vasodilatatori cerebrali (Ruhel et al., 1995; Pageat, 1996); quale intervento di supporto, recentemente è stato introdotto l’uso di nutraceutici a base di fosfatidilserina (Re et al., 2003; Landsberg e Miolo, 2003; Landsberg, 2003).

Conclusioni Il veterinario pratico è testimone, nello svolgimento dell’attività professionale sui piccoli animali, delle innumerevoli alterazioni comportamentali del cane e del gatto anziano, sovente riportate dai proprietari quali espressioni di senilità. Il primo passo consiste nella conoscenza delle potenziali alterazioni comportamentali geriatriche; successivamente è necessario un approccio clinico/comportamentale razionale, sia per individuare eventuali cause organiche (neurologiche, ormonali, anatomo-funzionali etc.) che potrebbero contribuire alla modificazione comportamentale, sia per un corretto inquadramento diagnostico della patologia geriatrica.

Bibliografia Borras D, Ferrer I, Pumarola M: Age-related changes in the brain of the dog. Vet. Pathol. 36: 201-11, 1999 Colle M-A, Hauw J-J, Crespeau F, Uchihara T, Akiyama H, Checler F, Pageat P, Duykaerts C: Vascular and parenchymal Abeta deposition in the aging dog: correlation with behavior. Neurobiol Aging. 21(5):695-704, 2000 Cummings BJ, Head E, Ruehl W, Milgram NW, Cotman CW: The canine model as an animal model of human aging and dementia. Neurobiol. Aging, 17(2): 259-68, 1996 Dairin F: Bien-fondé de la mise en place d’une consultation spécialisée chez l’animal agé. In: Gériatrie Canine & Féline. Merial, Pairault S.A., Lezay, cap. I, pp. 17-21, 1996

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Indirizzo per la corrispondenza: Osella Maria Cristina Via Basso 2 - 10034 Chivasso


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• Alterazioni dell’apparato gastroenterico e patologie del comportamento • Problemi neurologici e problemi comportamentali • Le alterazioni ormonali e i problemi comportamentali • Problemi dermatologici e problemi comportamentali • Il dolore e i problemi comportamentali • Dieta e comportamento: dalla leggenda alla realtà clinica • Il comportamento e i disturbi eliminatori nel gatto Patrick Pageat Dr Vét, MSc PhD, Apt, Francia

RELAZIONI NON PERVENUTE


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Alimentazione e patologie alimentari negli psittacidi Claudio Peccati Med Vet, Spec Tecn Pat Av, Milano

I fabbisogni nutrizionali specifici degli Psittaciformi sono ancora molto scarsi e per la maggior parte delle specie sono ignoti. L’alimentazione degli Psittacidi granivori si è basata per lungo tempo sulla somministrazione di un miscuglio di semi (in cui la parte dominante è sempre stato il girasole), integrato da frutta e verdura e dai cosiddetti cibi della tavola. Da alcuni anni sono comparsi sul mercato i mangimi pellettati o estrusi, tuttavia la formulazione di queste diete non sempre è basata su dati scientifici certi e specifici per le varie specie. Più spesso i valori analitici dei prodotti commerciali sono formulati in base ad esperienze empiriche o sono mutuati dalla nutrizione degli uccelli zootecnici d’allevamento intensivo. Le diete dei pappagalli lori e lorichetti si basano invece ancora su prodotti in polvere, da fornire secchi o umidi, ad alto contenuto di zuccheri. Solo negli ultimi tempi si è cominciato a portare avanti delle ricerche specifiche mirate a conoscere i fabbisogni alimentari di alcune specie di pappagalli. In questa relazione accenneremo brevemente alle più recenti scoperte relative alla nutrizione degli Psittacidi e rivedremo in sintesi le conoscenze già consolidate, ma troppo spesso ancora non applicate. Vit. A: vitamina liposolubile la cui carenza si manifesta con deficit della visione, deficit riproduttivi, difetti di crescita, metaplasia degli epiteli e ridotta efficienza immunitaria. Gli eccessi di vitamina A possono, per assurdo, assomigliare alle carenze. Sembra inoltre che la vit. A accentui l’assorbimento del ferro. Inoltre, poiché le vitamine liposolubili e i carotenoidi vengono assorbiti mediante i medesimi meccanismi di trasporto, un eccesso di vit. A (ma lo stesso vale per altre vitamine liposolubili) riduce l’assunzione delle altre vitamine del gruppo (D, E e K) con il rischio di una carenza secondaria. I fabbisogni nel pollo e tacchino della vit. A sono di 4.000 UI/kg e 5.000 UI/kg rispettivamente. Nei calopsitte (Nymphicus hollandicus) gli studi indicano un fabbisogno di 2.000-6.000 UI/kg e una tossicità certa con livelli superiori alle 10.000 UI/kg. La somministrazione con l’alimento di precursori di vit. A elimina il rischio di sovradosaggio. Carotenoidi: sono precursori della vit. A e antiossidanti naturali. Il β-carotene, il prodotto con la maggior attività provitaminica, è presente in buone quantità nelle albicocche e nelle patate dolci americane, ma è assente in arance, banane, mela e molte bacche. Altri carotenoidi a ridotta o scarsa attività provitaminica A sono i licopeni (potenti antiossidan-

ti) contenuti, per esempio, in pomodori, cocomeri e uva. La luteina invece è presente in cavoli, uva, pomodori, fragole e mirtilli. La conversione a vit. A avviene in base al fabbisogno e una volta che sia stata raggiunta la necessità dell’organismo i carotenoidi in eccesso vengono utilizzati quali antiossidanti naturali. Vit. E: interviene nell’integrità delle membrane cellulari e come sostanza antiossidante. Le carenze si manifestano con disturbi neuromuscolari, vascolari e riproduttivi. Il fabbisogno aumenta in caso di stress (nutrizionale, ambientale, infettivo o di altro tipo). Uno dei più comuni motivi di incrementato fabbisogno è l’alimentazione con noci o comunque ricca di lipidi. Il fabbisogno minimo consigliato nel cibo destinato agli Psittacidi è di 200 mg/kg. Per una corretta alimentazione andrebbero evitate le diete con eccessi di vit. A (sopra i 10.000 UI/kg) che riducono l’assorbimento della vit. E per competizione dei siti recettoriali e dei meccanismi di trasporto. Vit. D: vitamina liposolubile assorbita nel tenue insieme ai lipidi. I fabbisogni di vit. D3 nel pollo sono 200 UI/kg e nel tacchino 900 UI/kg sulla sostanza secca. I pochi dati attuali indicano che per i pappagalli il fabbisogno è minore di quanto osservato nel pollame, ma nei prodotti commerciali per pappagalli e altri uccelli non zootecnici l’integrazione è quasi sempre superiore (in alcuni prodotti anche 10.000 UI/kg). Questo alto livello di vit. D3 potrebbe favorire un eccessiva assorbimento del calcio della dieta con conseguente tossicità, considerando anche che l’integrazione è fatta con vit. D3, facilmente assorbibile dall’intestino. Non esiste invece il rischio di intossicazioni da vit D alimentando i pappagalli con diete ricche di precursori vitaminici o con vit. D2 poiché scarsamente assorbiti in tutte le specie studiate. Le calopsitte sono più sensibili di altre specie di pappagalli agli effetti nocivi delle alte concentrazioni di vit. D3. I pappagalli cenerini (Psittacus erithacus) sembrerebbero richiedere una sorgente di UV-B anche in presenza di un adeguato contenuto di vit. D3 nella dieta. Vit. C: antiossidante e importante per numerosi processi metabolici. Interviene nell’assunzione del ferro a livello intestinale (facilita la conversione in ambiente acido del ferro da ferrico a ferroso). Poiché la vit. C è presente nelle varietà domestiche di frutta in quantità decisamente superiori a quelle contenute nei frutti selvatici, questo aspetto potrebbe essere la spiegazione della relativa alta incidenza di malattia da accumulo di ferro negli psittacidi (e in altri uccelli) in cattività.


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Calcio: il fabbisogno nelle varie specie di pappagalli non è conosciuto, ma è stato visto che nei cocoriti (Melopsittacus undulatus) il calcio deve essere presente nella percentuale del 0,3-0,7%. Oltre questo livello si possono avere effetti tossici. Per confronto i dati nel pollame parlano di 0,673,78% in relazione all’età e allo stato produttivo (ma questi uccelli hanno delle aspettative di crescita e di produzione molto spinte per cui i fabbisogni sono alti). Cocoriti e ara (soprattutto Ara ararauna) sono più sensibili agli eccessi alimentari di calcio. Inoltre per un meccanismo inibitorio, un elevato livello di calcio o di vit. D riduce l’assorbimento intestinale di fosforo con possibili squilibri nutrizionale e conseguenti effetti clinici. Le carenze di calcio si manifestano con problemi scheletrici, neurologici e con alterazioni della coagulazione, gli eccessi prolungati nel tempo provocano calcificazioni ectopiche in vari organi e tessuti. Ferro: in base alle attuali conoscenze non dovrebbe superare i 100 mg/kg mangime, ideale sarebbe 80-90 mg/kg. Un eccesso di ferro alimentare o un eccessivo apporto di vitamine che ne facilitano l’assorbimento (vit. C, vit. A) determinano un accumulo di questo minerale in vari parenchimi e in primo luogo nel fegato, nella milza e nel cuore con inevitabili insufficienze funzionali. Grassi: tra le più comuni offerte alimentari ai pappagalli ci sono le noci. Questi frutti sono una buona fonte di grassi e di acidi grassi, ma le differenze qualitative tra le varie noci sono importanti dal punto nutrizionale: le macadamia e le noci del Brasile hanno un alto livello di acidi grassi saturi, le noci comuni e le noci del Brasile invece sono le più ricche di acidi grassi polinsaturi (PUFA). Importanti sono inoltre gli acidi grassi essenziali ω-6 (acido linoleico) and ω-3 (acido α-linolenico). Negli uccelli è essenziale l’acido linoleico (ω-6), ma l’acido α-linolenico (ω-3) è fondamentale per lo sviluppo cerebrale e retinico dell’embrione. Le noci con un miglior rapporto ω-3: ω-6 sono le pecan e le noci del Brasile. Le noci sono scarse in calcio e hanno un Ca:P < 1. I semi di girasole contengono oltre il 50% di grassi e più del 20% di proteine. Tuttavia il profilo degli acidi grassi e degli aminoacidi dei semi di girasole non soddisfano affatto le necessità alimentari dei pappagalli, soprattutto se, come spesso succede, i semi sono la componente alimentare consumata in maggior quantità. Gli eccessi di lipidi sono responsabili di un aumento di peso degli animali, di arteriosclerosi, di disturbi cardiocircolatori e di una minor efficienze fisica e riproduttiva. Le carenze lipidiche, in particolar modo degli acidi grassi essenziali, riducono l’efficienza riproduttiva e in generale predispongono l’organismo a un maggior numero di infezioni e patologie.

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Un discorso un po’ più ampio meritano i pappagalli chiamati lori e lorichetti. Questi uccelli ricavano i carboidrati dal nettare e da altre secrezioni animali (esempio dagli afidi) e vegetali, mentre le proteine e i grassi sono ottenuti dal polline e dagli insetti. Gli zuccheri della razione (piante, essudati da insetti) consistono di saccarosio e fino al 15% di raffinosio, carboidrato con legami non prontamente scindibili dall’organismo. Questo zucchero agisce quindi come fibra e promuove la colonizzazione intestinale di batteri “benefici” come i Bifidobacterium. Una fonte di raffinosio è, per esempio, la farina di soia. La frutta commerciale è ricca di zucchero e povera di proteine e fibra, mentre la frutta selvatica dell’areale dei lori e lorichetti ha molte proteine (7,2-15%), e più fibra (anche il 49%). I fichi selvatici di cui si nutrono stagionalmente i lori hanno un rapporta Ca:P di circa 5,2 contro il 2,5 di quelli sul mercato e possono essere un’importante fonte alimentare nella stagione riproduttiva. La frutta coltivata per l’alimentazione umana è più ricca di vit. C (maggior rischio di malattia da accumulo di ferro). Le proteine della dieta dei lori derivano principalmente dal polline. Il polline delle specie indigene è più proteico delle specie introdotte e ricco degli aminoacidi essenziali. Nell’alimentazione degli animali liberi è impossibile un sovradosaggio proteico poiché la digeribilità del polline è molto bassa ed aumenta con l’aumentare del tempo trascorso nell’intestino. Poiché i lori, come tutti i pappagalli, non hanno i ciechi e il tempo di transito intestinale è molto breve, l’assunzione proteica dal polline non eccede mai i livelli di guardia. Il nettare commerciale è molto arricchito di vitamina A, anche oltre i livelli considerati tossici per altri pappagalli (10.000 UI/kg). Alti livelli di vit. A possono indurre una danno da iperdosaggio e riducono l’assorbimento di vit. E. Gli sviluppi delle conoscenze sui fabbisogni nutrizionali specifici degli psittacidi comporteranno senza alcun dubbio una maggior differenziazione alimentare rispetto a quanto si fa attualmente, una riformulazione delle diete commerciali soprattutto per l’aspetto delle integrazioni di vitamine e minerali, e un cambiamento nella consolidata pratica di vecchia data delle integrazioni vitaminico-minerali necessarie per migliorare diete e razioni approssimative e basate su prove empiriche e non su dati sperimentali e scientifici.

Indirizzo per la corrispondenza: Claudio Peccati: Specialista in Tecnologia e Patologia Avicunicola Ambulatorio Veterinario, via Ravasi 23 – 21100 Varese Tel-fax: 0332287724 – e-mail: cpeccati@libero.it


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La visita ortopedica nel cane: dalla A alla Z Bruno Peirone Med Vet, PhD, Torino

Introduzione: nell’accingersi a visitare un paziente affetto da zoppia, può venire spontaneo iniziare a manipolare l’arto che viene indicato come patologico dal proprietario. Questo tipo di approccio istintivo può condurre ad errori diagnostici o alla mancata identificazione di patologie concomitanti. È preferibile adottare un protocollo di indagine sistematico che si articola nei seguenti punti: • segnalamento • anamnesi • valutazione dell’andatura • valutazione del paziente in stazione • esame ortopedico I vari dati raccolti devono essere raccolti su una apposita scheda e, al termine della visita, analizzati e interpretati. Consiglio di archiviare, meglio se su computer, tutte le schede in modo da creare una banca dati personale che, quando consultata, fornirà sempre risposte e spunti interessanti. Ritengo un ottimo investimento l’acquisto di una macchina fotografica e/o di una telecamera digitale: la vostra banca dati diventerà uno strumento straordinario e versatile, che vi consentirà di interagire e confrontarvi con altri colleghi.

Segnalamento: combinando razza ed età è possibile restringere considerevolmente il numero delle patologie ortopediche in rapporto al paziente che stiamo esaminando. Inoltre relativamente alla razza, recentemente è stato proposto il B.O.A (Breed Oriented Approach): questo moderno approccio clinico elenca le principali patologie ortopediche statisticamente più significative in diverse razze canine di taglia medio-grande. Relativamente all’età è intuitivo che nei soggetti giovani devono essere vagliate con maggior attenzione le patologie da sviluppo, mentre nei soggetti adulti/ anziani le malattie degenerative e artrosiche. Anamnesi: l’obbiettivo di questo punto è la raccolta di informazioni, che deve essere completa ed esauriente. Per ottimizzare il risultato, il clinico deve essere anche un po’ psicologo, entrare in sintonia con il proprietario, metterlo a proprio agio e, conversando con lui, valutare l’affidabilità del suo racconto e delle sue risposte. Non và dimenticato che a volte i proprietari tendono a minimizzare o a esaltare gli aspetti relativi alla patologia del loro animale, e a volte possono raccontare qualche piccola bugia per mascherare una precedente mancanza di attenzione o tentativi terapeutici “fai da te”. Inoltre sottoponendolo ad un interrogatorio troppo serrato o utilizzando un approccio troppo brusco si rischia di non ottenere la necessaria collaborazione da parte del proprietario, che può sentirsi imbarazzato e chiudersi in se stesso. Tra i dati anamnestici è importante conoscere:

• come viene alimentato il soggetto • se ha subito un trauma • quanto tempo è intercorso tra l’esordio della zoppia e la visita clinica • le caratteristiche della zoppia • gli eventuali approcci terapeutici precedentemente effettuati

Valutazione dell’andatura: obbiettivo di questa indagine è identificare l’arto/gli arti affetti da zoppia: questa è una fase spesso complessa, soprattutto in presenza di zoppia lieve o a carico di più arti, e a volte si viene fuorviati dalle indicazioni del proprietario. Il paziente deve essere esaminato in un locale ampio, meglio all’esterno, e condotto al guinzaglio dal proprietario. L’ambiente deve essere tranquillo, senza particolari stimoli esterni (presenza di altri cani), in modo che il soggetto si senta a suo agio e in grado di muoversi normalmente. Inizialmente il cane viene portato al passo, avanti e indietro, in modo che il clinico possa esaminarlo da tutti i lati. Successivamente lo stesso percorso viene ripetuto con il paziente al trotto: questa andatura, nella quale solo due arti sono sempre in appoggio, determina una maggior ripartizione del peso sugli arti che a volte può essere utile per rendere maggiormente manifesta la zoppia. In seguito il paziente viene fatto camminare/trottare in circolo in senso orario e poi antiorario, al fine di dare un maggior carico prima sul bipede destro e poi su quello sinistro. Infine il soggetto viene fatto avanzare su un percorso in salita e poi in discesa, utilizzando una rampa o una collinetta: durante la salita si sollecita maggiormente il bipede posteriore, in discesa quello anteriore. I parametri da considerare sono: • ripartizione del peso sugli arti • simmetria dei movimenti della testa e della coda • spostamento dell’arto durante l’andatura

Valutazione in stazione Obbiettivo di questa fase è confermare il dato ottenuto dall’esame dell’andatura. Si pone il paziente in stazione quadrupedale in modo da valutare la distribuzione del carico: un soggetto normale posiziona gli arti in modo simmetrico e congiungendo i quattro punti di appoggio si ottiene un rettangolo. Viceversa in presenza di un arto patologico, si ottiene una figura geometrica di tipo trapezoidale, perché l’arto affetto da zoppia viene abdotto o addotto rispetto al piano sagittale mediano. Spesso la sottrazione dell’arto al carico viene completata da una supinazione della mano. Poi si osserva


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la conformazione degli arti al fine di apprezzare la presenza di deviazioni assiali che possono rappresentare il risultato di un danno, traumatico o congenito, a carico delle fisi o l’esito di un malconsolidamento successivo a una frattura. Successivamente si chiede al proprietario di afferrare gli arti anteriori del suo cane in modo da sollevare il treno anteriore. Questa posizione o “stand test”risulta poco gradita ai soggetti affetti da patologie a carico dell’anca o del rachide lombo-sacrale: in questo caso il paziente, dopo pochi secondi, cerca di divincolarsi e di riacquistare la stazione quadrupedale. Infine si fa assumere al paziente la posizione seduta o “sit test”: l’atteggiamento del cane che si siede su un fianco e con un arto mantenuto parzialmente esteso ci indica che quell’arto presenta un problema presumibilmente a carico del ginocchio o del garretto.

Esame ortopedico Obiettivo di questa indagine è porre una diagnosi di sede, ovvero identificare il distretto anatomico (o i distretti anatomici) affetto da patologia. In questa fase è particolarmente importante mettere a proprio agio il paziente. Personalmente effettuo l’esame con l’animale sul pavimento, con il proprietario al mio fianco che accarezza la testa del suo cane (c.d. floor examination). Nella maggior parte dei casi il paziente rimane tranquillo e collaborativo; viceversa quando si effettua l’esame sul tavolo, spesso l’animale è impaurito, agitato e quindi poco disponibile ad accettare le diverse manipolazioni, ma piuttosto propenso a fornire risposte falsamente positive. Si inizia effettuando una palpazione bimanuale comparativa del bipede anteriore, cominciando dalle estremità distali per proseguire in direzione prossimale, fino alla muscolatura della spalla. Si ricercano alterazioni morfologiche dei raggi ossei, variazioni delle masse muscolari, tumefazioni articolari, variazioni di calore. Contemporaneamente si effettua un esame ispettivo ravvicinato, confrontando mentalmente i dati rilevati dalla valutazione visiva dell’animale in stazione. La palpazione comparativa contemporanea del bipede anteriore consente di apprezzare con maggiore facilità alterazioni e differenze. Per ottenere un dato obbiettivo delle masse muscolari, si possono effettuare misurazioni con un metro da sarto, in corrispondenza di punti standard: terzo prossimale dell’avambraccio, terzo medio del braccio etc. Questi dati possono essere successivamente confrontati nel tempo, per valutare l’efficacia della terapia e valutare l’effettivo recupero funzionale della parte. Lo stesso esame viene ripetuto sul bipede posteriore. Poi si esamina singolarmente ciascun arto, iniziando dal controlaterale sano: in questo modo si ottiene una serie di rilievi utili per il

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successivo confronto con l’arto identificato come patologico. Inoltre è possibile intuire l’indole del paziente: possiamo trovarci di fronte a pazienti stoici come a pazienti particolarmente reattivi. Si cominciano ad esaminare le unghie e il loro consumo: un’usura eccessiva può segnalare una patologia neurologica, come delle unghie troppo lunghe indicano un prolungato mancato appoggio dell’arto. Successivamente si esamina ogni singola articolazione, eseguendo manovre di flesso-estensione. In primo luogo si valuta l’ampiezza del movimento articolare (R.O.M. range of motion): per le articolazioni maggiori è utile rilevare il ROM con un goniometro, al fine di ottenere un dato oggettivo, confrontabile al termine della terapia. Nella valutazione della singola articolazione si considera anche la presenza di artralgia, ovvero la risposta del paziente alla manipolazione: il cane può rimanere indifferente, muovere la testa, vocalizzare o anche mordere. Inoltre si cerca di percepire l’eventuale presenza di fruscio, segno di artropatia degenerativa, ed alterazioni morfologiche, quali tumefazioni o versamenti articolari. Nelle articolazioni maggiori si effettuano anche manovre di intra/extrarotazione e si applica uno stress in direzione mediale e laterale, al fine di testare la stabilità articolare. Esistono poi alcuni test specifici utili per completare la valutazione di alcune articolazioni e a volte patognomonici per patologie specifiche. Mentre si procede in direzione prossimo-distale, tra un’articolazione e la successiva, si effettua una palpazione profonda dei singoli raggi ossei e si seguono i profili delle strutture tendinee esplorabili.

Conclusioni Le informazioni raccolte con la visita ortopedica consentono in genere di identificare l’arto affetto da zoppia e il distretto anatomico interessato dalla patologia. Inoltre spesso si è in grado di sospettare la natura dell’affezione responsabile della zoppia e di allestire un elenco di diagnosi differenziali. Le diverse ipotesi diagnostiche devono essere successivamente confermate mediante l’esecuzione di indagini complementari, quali l’esame radiografico e l’esame del liquido sinoviale, o da esami specialistici quali l’artroscopia, l’ecografia, la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica.

Indirizzo per la corrispondenza: Prof. Bruno Peirone, Dipartimento di Patologia Animale via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco Tel. 011.6709061, e-mail: bruno.peirone@unito.it


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Stato dell’arte del trapianto corneale in Medicina Veterinaria: trapianto lamellare, trapianto penetrante e trapianto di superficie Maria Teresa Pen˜ a Med Vet, phD, Dipl ECVO, Barcelona, Spagna

RELAZIONE NON PERVENUTA


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Lesioni oculari in corso di Leishmaniosi Canina Maria Teresa Pen˜ a Med Vet, phD, Dipl ECVO, Barcelona, Spagna

Introduzione La Leishmaniosi è una malattia sistemica del cane, grave e spesso fatale, causata da un protozoo parassita, Leishmania infantum. La malattia è endemica nei Paesi del Mediterraneo e si riscontra occasionalmente nel Nord Europa e nel Regno Unito in cani che siano stati nelle aree endemicamente infette. Il parassita viene trasmesso da flebotomi della sottofamiglia Phlebotominae. In Spagna, i due vettori sono Phlebotomus perniciosus e P. ariasi, caratterizzati da un’attività crepuscolare e notturna, dall’inizio della primavera all’autunno avanzato. I parassiti del genere Leishmania si moltiplicano nei flebotomi femmina come forme flagellate (promastigoti). Queste vengono poi inoculate a livello intradermico quando il flebotomo assume un pasto di sangue. Negli ospiti mammiferi i promastigoti vengono captati dai macrofagi e successivamente evolvono in forme non flagellate ed arrotondate, dette amastigoti. I macrofagi infetti infine scoppiano e gli amastigoti penetrano in altre cellule fagocitarie dell’ospite. Quando gli amastigoti di L. infantum si moltiplicano all’interno dei macrofagi e di altre cellule del sistema fagocitario mononucleato causano processi infiammatori e/o lesioni immunomediate. Il periodo di incubazione della malattia è variabile, da tre mesi a parecchi anni, ed anche le caratteristiche cliniche mostrano ampie differenze. La malattia ha l’ulteriore importanza di essere una zoonosi in cui il cane viene considerato il principale serbatoio del parassita. Per gli oftalmologi è importante non solo conoscere le manifestazioni oculari, ma anche i segni sistemici, le procedure diagnostiche, il trattamento e la prognosi.

Segni clinici Le caratteristiche cliniche variano ampiamente in conseguenza dei numerosi meccanismi patogeni del processo patologico e della diversità delle risposte immunitarie dei singoli ospiti, indipendentemente dal fatto che siano rappresentati dall’uomo o da altri mammiferi. I principali riscontri clinici nella Leishmaniosi del cane sono il deperimento cronico con anemia, piressia intermittente, perdita di peso, linfoadenopatia generalizzata e gravi lesioni cutanee. Alcuni cani mostrano anche epistassi, lesioni oculari, artrite, zoppia, diarrea ed insufficienza renale cronica (glomerulonefropatia). La cute è uno dei principali organi colpiti dalla leishmaniosi del cane e le lesioni dermatologiche sono altamente variabili. La più comune è la desquamazione generalizzata che conduce alla comparsa di ampie aree di alopecia.

Secondo quanto riportato in letteratura in tre studi, la prevalenza relativa delle lesioni oculari nei cani con leishmaniosi sistemica varia fra il 16% e l’80%. In un’indagine retrospettiva, la comparsa di manifestazioni oculari è stata riscontrata in 105 (24,4%) casi di leishmaniosi canina su 430 diagnosticati dal 1993 al 1998 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Barcellona. La maggior parte di questi animali presentava segni sistemici della malattia, ma in 15 soggetti il proprietario aveva portato l’animale alla visita a causa delle anomalie oculari. Le lesioni oculari sono rappresentate da uveite anteriore, congiuntivite, cheratite, cheratocongiuntivite secca, blefarite, corioretinite e distacco retinico. Variazioni delle lesioni palpebrali sono rappresentate da dermatite secca con alopecia, edema palpebrale diffuso, ulcerazione cutanea e formazione di granulomi nodulari. In alcuni casi di cheratite le lesioni corneali erano clinicamente simili ad una episclerocheratite granulomatosa nodulare. L’uveite può avere insorgenza acuta e manifestarsi con edema dell’iride e della cornea, miosi e formazione di fibrina nella camera anteriore. Spesso l’uveite diviene ipertesa e risulta difficile da controllare, portando allo sviluppo di un glaucoma secondario. In altri casi di uveite si osserva la formazione di noduli multifocali isolati nello stroma dell’iride. Molti di questi episodi si sviluppano ad intervalli di tempo variabili dopo la terapia antiprotozoaria. L’uveite posteriore è molto rara e sempre concomitante con quella anteriore. I riscontri più costanti sono la corioretinite multifocale con piccole aree focali di iporeflettività ed emorragie del fondo tappetale. L’alopecia perioculare costituisce un riscontro comune; nella maggior parte dei casi, i cani colpiti presentano anche un’analoga assenza di peli in altre aree cutanee del corpo. Le zone alopeciche tipicamente colpiscono un’area della larghezza di 4-5 mm adiacente al margine palpebrale e spesso sono caratterizzate da una lesione seborroica secca con desquamazione. Si possono osservare diverse varianti della blefarite quali ispessimento palpebrale diffuso, edema ed iperemia (in alcuni casi accompagnate da meibomite), ulcerazione superficiale del margine palpebrale e della cute adiacente con dermatite umida e presenza di 1-3 noduli cutanei del diametro di 2-5 mm. La congiuntivite è tipicamente caratterizzata da chemosi diffusa e indurimento della congiuntiva, iperemia ed essudato purulento. Occasionalmente si notano a livello congiuntivale dei noduli bianchi isolati e multifocali.


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Una cheratocongiuntivite si può osservare in associazione con le lesioni della congiuntiva con aree geografiche focali di edema corneale, vascolarizzazione ed infiltrazione cellulare interstiziale, generalmente situate vicino alla giunzione corneosclerale. In alcuni casi è possibile trovare un nodulo focale rilevato di colore rosa del diametro di 3-5 mm, clinicamente simile ad un’episclerocheratite granulomatosa nodulare. Altre manifestazioni oculari sono rappresentate da cheratocongiuntive secca e cellulite orbitale caratterizzata da profondo esoftalmo, chemosi e tumefazione perioculare. Come già ricordato, i segni oculari possono essere accompagnati o meno da quelli sistemici. Nella maggior parte dei casi è possibile ottenere una risoluzione marcata o completa delle manifestazioni a carico dell’occhio, ma alcune di esse richiedono un lungo periodo di terapia topica. Negli animali trattati con farmaci anti-Leishmania si ha sempre la risoluzione. Ciò nonostante, alcuni casi sono difficili da controllare e progrediscono per diversi mesi. Si osserva frequentemente il nuovo sviluppo o la recidiva di lesioni oculari con nuovi episodi di leishmaniosi. Dal momento che per ottenere il miglioramento delle manifestazioni oculari è necessario il trattamento dell’infestazione da Leishmania, la diagnosi della malattia è molto importante.

Diagnosi La diagnosi della leishmaniosi nel cane può essere difficile per molti veterinari, perché si tratta di una malattia caratterizzata da un pleomorfismo straordinario e da segni clinici molto variabili e capaci di simulare altre affezioni. Nella pratica professionale, il veterinario di solito si trova di fronte a casi che dal punto di vista clinico sono compatibili con la leishmaniosi canina o la suggeriscono e con parecchi test diagnostici, occasionalmente con risultati contradditori. Il test diagnostico più attendibile per la leishmaniosi del cane è l’osservazione diretta del parassita negli strisci di midollo osseo o linfonodo. Strisci per impronta si possono anche allestire da lesioni delle mucose o della cute. Lo svantaggio di questo metodo è che in alcuni casi è impossibile rilevare il parassita negli animali infestati. Si utilizzano anche tecniche immunoistochimiche che rilevano la presenza di Leishmania in sezioni tissutali (normalmente, biopsie cutanee) (IPI). I quadri istopatologici non sono specifici della leishmaniosi canina e variano da una dermatite granulomatosa diffusa ad una dermatite lichenoide o pustolosa. In queste condizioni, una diagnosi definitiva può essere formulata soltanto con l’identificazione degli amastigoti di Leishmania. Spesso, tuttavia, ne sono presenti pochissimi, che possono sfuggire ad un esame tissutale di routine. L’immunoistochimica ha sostanzialmente migliorato la diagnosi istopatologica, così come l’applicazione della PCR alle biopsie incluse in paraffina. Per superare questi problemi molti veterinari utilizzano l’identificazione degli anticorpi specifici per il parassita nel siero attraverso test sierologici come l’immunofluorescenza indiretta (IFAT), l’ELISA o l’agglutinazione diretta (DAT). I metodi più comunemente utilizzati sono L’IFA e l’ELISA.

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Si basano principalmente sull’impiego di antigeni grezzi e, in generale, possiedono buoni livelli di sensibilità e specificità. Tuttavia, l’esperienza clinica nei Paesi in cui la malattia è endemica ha dimostrato che alcuni animali infetti restano sieronegativi e, allo stesso tempo, che la presenza degli anticorpi non è sinonimo di malattia patente. La reazione a catena della polimerasi (PCR) è stata impiegata con successo come potente tecnica diagnostica per il riconoscimento della leishmaniosi canina utilizzando campioni di midollo osseo, linfonodi e cute. Parecchi target di DNA di Leishmania sono stati identificati da differenti autori e il loro uso in un protocollo diagnostico basato sulla PCR è stato sottoposto a valutazione nel cane. L’uso della PCR su sangue periferico si è dimostrato un po’ meno accurato, dal momento che il tasso di sensibilità complessivo utilizzando questi campioni è solo del 60% circa. Perciò, è stato descritto l’impiego di tecniche di PCR nidificata (nested) per aumentare la sensibilità dell’identificazione del microrganismo nella leishmaniosi umana. Inoltre, il riscontro del parassita mediante PCR in campioni di sangue canino ha il vantaggio teorico di essere meno invasivo del prelievo di midollo osseo, degli aspirati linfonodali o delle biopsie cutanee. Attualmente, un nuovo metodo promettente, la PCR in tempo reale, può offrire la possibilità di quantificare la presenza del parassita e quindi di stimare l’evoluzione della malattia. In uno studio condotto sugli occhi di animali morti o soppressi eutanasicamente per l’infestazione da Leishmania, i parassiti sono stati riscontrati in tutti i tessuti intraoculari compresa congiuntiva, cornea, iride, corpo ciliare, sclera, coroide e retina, con o senza infiammazione.

Trattamento Negli ultimi 50 anni, i farmaci di prima scelta per il trattamento della leishmaniosi nell’uomo e nel cane sono stati i composti antimoniali pentavalenti. In Europa, i cani vengono comunemente trattati con meglumine antimoniato, da solo o in associazione con allopurinolo a differenti dosaggi. Alcuni autori hanno suggerito di utilizzare il solo allopurinolo. La guarigione completa è rara. Una delle difficoltà del trattamento dei cani colpiti da Leishmania è decidere quando sospendere il trattamento. Alcuni veterinari suggeriscono che questo debba continuare fino a che l’animale non sia guarito clinicamente ed il titolo degli anticorpi specifici anti-Leishmania non sia ridisceso entro i limiti normali. Il composto antimoniale utilizzato è l’N-metil-glutamina (Glucantime, Rhone-Merieux, Lyon, France) alla dose di 80 mg/kg/24 ore per un minimo di 30 giorni, mentre l’allopurinolo si impiega alla dose di 10 mg/kg/12 ore per 6 mesi o un anno. Sono stati impiegati anche altri agenti come l’amfotericina B o l’aminosidina. Nelle aree endemiche, la prevenzione della malattia è difficile ed al momento attuale si fonda principalmente sul controllo degli insetti vettori, data la mancanza di farmaci profilattici e di vaccini efficaci. Le misure suggerite per proteggere i singoli cani consistono nel tenere gli animali in casa da un’ora prima del tramonto ad un’ora dopo l’alba durante la stagione degli insetti vettori e nell’impiegare agenti repellenti ed insetticidi per i flebotomi. I collari alla deltametrina possono proteggere i cani dalle punture di questi parassiti.


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Oftalmologia pediatrica Maria Teresa Pen˜ a Med Vet, phD, Dipl ECVO, Barcelona, Spagna

Le anomalie oculistiche osservate negli animali in età pediatrica possono essere congenite o acquisite. Le prime sono tutte quelle presenti alla nascita; ciò nonostante, si tratta di una condizione difficile da valutare, perché i cani e gatti presentano le palpebre chiuse per i primi 10 giorni di vita. Le anomalie acquisite possono essere dovute a cause traumatiche, degenerative, infettive, ecc… Alcune di esse sono incluse in un gruppo dette “anomalie di sviluppo”. Queste ultime compaiono lungo la vita dell’animale, in relazione a specifiche caratteristiche della razza. Le anomalie congenite ed acquisite possono essere su base ereditaria oppure no. La distinzione è molto importante per suggerire di utilizzare o meno un singolo soggetto per scopi riproduttivi. Le anomalie si possono trovare in tutti i tessuti intraoculari ed extraoculari. Pochissime sono esclusive dei pazienti in età pediatrica, dal momento che la maggior parte di esse si riscontra anche nei soggetti più anziani. In questa sede, verranno trattate solo quelle più importanti e frequenti. Alcune delle anomalie oculistiche diagnosticate nei pazienti pediatrici richiedono un trattamento chirurgico. Prima dell’attuazione di una specifica tecnica operatoria e della decisione del momento più appropriato, è necessario tenere conto di alcune considerazioni, quali: - Gli occhi del cane e del gatto sono molto piccoli durante i primi mesi di vita. Queste ridotte dimensioni sono al tempo stesso un vantaggio ed uno svantaggio. Lo svantaggio è dato dalla difficoltà di applicare le tecniche di microchirurgia, il vantaggio dipende dal fatto che qualsiasi cicatrice si rimpicciolirà con la crescita. - È molto importante tenere presente che gli occhi continuano il loro sviluppo dopo la nascita. Fondamentalmente, la retina necessita dello stimolo luminoso per completare il proprio sviluppo, le ghiandole lacrimali iniziano la propria secrezione 10 giorni dopo la nascita (proprio nel momento in cui le palpebre si aprono) ed il globo continua ad aumentare di dimensioni fino a che non raggiunge quelle definitive dell’animale adulto. - Alcune delle lesioni considerate irreversibili negli animali adulti non lo sono sempre nei cuccioli. Un esempio è la buftalmia. L’elasticità della tonaca fibrosa dell’occhio è molto elevata negli animali di quest’età. L’occhio può diventare più grande, sotto l’influsso della pressione endoculare, determinando sulle cellule gangliari della retina e sul nervo ottico lesioni meno gravi che negli animali adulti. - Anche l’anestesia è un aspetto importante da tenere in considerazione. L’immunità nei cuccioli non è ben sviluppata ed alcuni non sono stati sottoposti ad un corretto

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protocollo vaccinale. Le ridotte dimensioni di alcuni di questi soggetti costituiscono una difficoltà per l’esecuzione di un protocollo sicuro per procedure di lunga durata. Per questa ragione, quando è possibile, è meglio scegliere tecniche che consentano soluzioni temporali, ma richiedano solo una sedazione profonda o un’anestesia di breve durata. Tutte le caratteristiche sopradescritte sono solo alcuni esempi per illustrare come sia sempre necessario valutare completamente le strutture e la funzione dell’occhio di un cucciolo prima di decidere che questo sia “perso”.

Palpebre Nel cane e nel gatto, le palpebre restano chiuse durante i primi 10-15 giorni di vita. La loro mancata apertura è spesso accompagnata da infezione e prende il nome di anchiloblefaro. Si sviluppa una congiuntivite neonatale e si ha un accumulo di essudato purulento al di sotto delle palpebre chiuse. Nei cuccioli, il problema viene frequentemente attribuito a batteri, mentre nei gattini, oltre a questi ultimi, viene ritenuta responsabile anche l’infezione da herpesvirus felino. Le palpebre devono essere separate con una gentile pressione digitale o con un paio di forbici a punta smussa. Dopo aver risciacquato l’occhio, si somministra un antibiotico topico ad ampio spettro per 3-6 volte al giorno. Nel gatto potrebbe essere necessaria una terapia antivirale. Una sequela di questa malattia nei felini prende il nome di simblefaro. Negli animali giovani possono anche essere presenti distichiasi e cilia ectopiche. Sono più frequenti nel cane e di solito richiedono un trattamento soltanto quando determinano un’affezione oculare grave o molto insidiosa. Sono ereditarie in alcune razze come l’english e l’american cocker spaniel, l’english bulldog, il pechinese, lo Yorkshire terrier… L’entropion viene definito come l’inversione della palpebra nell’occhio, responsabile di vari gradi di alterazioni corneali e congiuntivali. Può essere congenito o acquisito ed è correlato alla presenza di eccessive pliche facciali in alcune razze come lo shar pei. È necessario applicare il più presto possibile un trattamento temporaneo con due o tre suture verticali da materassaio. Si induce l’anestesia mediante maschera facciale con isoflurano. Nel gatto, l’entropion congenito è molto raro, nella maggior parte dei casi secondario a prolungato dolore oculare (blefarospasmo). La blefarite batterica si può presentare come parte della piodermite giovanile. Il segno clinico più caratteristico è una meibomite generalizzata.


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Congiuntiva

Glaucoma

La congiuntiva svolge un ruolo importante per l’occhio, contribuendo alla dinamica lacrimale, alla protezione immunologica, ai movimenti oculari ed alla guarigione corneale. Le sue alterazioni possono essere associate a molte malattie degli annessi e del bulbo, nonché ad affezioni sistemiche. In tutti i casi di congestione congiuntivale, prima di formulare una diagnosi di congiuntivite è necessario effettuare una completa valutazione oculare e clinica. La congiuntivite è la più frequente affezione congiuntivale. Quella batterica primaria è poco comune nel cane e frequente nel gatto. I più comuni agenti infettivi della congiuntivite nel gatto sembrano essere l’herpesvirus felino, Chlamydia e Mycoplasma.

Il glaucoma primario nel cane e nel gatto è raro. Di solito comporta una prognosi sfavorevole perché è associato ad altre anomalie del segmento anteriore o ad alterazioni di sviluppo dell’angolo iridocorneale. Per la formulazione della diagnosi sono necessarie la tonometria e la gonioscopia.

Sistema nasolacrimale L’aplasia dei punti lacrimali è l’anomalia congenita diagnosticata con maggiore frequenza. Solo quella del punto inferiore è sintomatica e determina la comparsa di epifora. La condizione viene trattata chirurgicamente.

Terza palpebra Le due anomalie più frequenti sono la curvatura della cartilagine, che si risolve nell’inversione o eversione della terza palpebra, ed il prolasso della ghiandola. In entrambi i casi, il trattamento d’elezione è chirurgico. La presenza della terza palpebra è fondamentale per la protezione della cornea, la produzione delle lacrime e l’immunologia dell’occhio. Per questa ragione, tutti i trattamenti sono finalizzati a preservare, quando possibile, la forma e la funzione di questa struttura. La tecnica più utile per risolvere il prolasso della ghiandola è quella di Morgan o della “tasca”. Nella maggior parte dei casi, la resezione ghiandolare è controindicata.

Cornea Le malattie corneali più frequenti in età pediatrica sono i dermoidi, le erosioni corneali e le ulcerazioni, il descemetocele ed i corpi estranei. Un dermoide è una massa congenita di tessuto in posizione anormale. Di solito è localizzato a livello dell’area limbare temporale e necessita di resezione chirurgica. Erosioni corneali, ulcerazioni, descemetocele, perforazioni e corpi estranei devono essere trattati come negli animali adulti, tenendo conto delle speciali considerazioni già riportate più sopra. Nel cane le infiammazioni ed infezioni corneali (cheratite) sono di solito secondarie ad affezioni palpebrali o lacrimali o a eventi traumatici, mentre nel gatto conseguono di norma all’infezione da herpesvirus.

Lente Le cataratte sono la più frequente anomalia della lente osservata negli animali giovani. Possono essere congenite o acquisite e, in entrambi i casi, possono essere causate da fattori genetici o esogeni. Se sono evolutive e/o comportano difficoltà di visione, il trattamento d’elezione è rappresentato dalla rimozione del materiale della lente mediante facoemulsificazione e impianto intraoculare di una protesi.

Uvea L’uveite anteriore è l’infiammazione dell’iride e del corpo ciliare. Nei soggetti in età pediatrica può essere dovuta a numerose cause quali infezioni, traumi contundenti o penetranti e malattie immunomediate. Le più frequenti eziologie infettive sono rappresentate da virus del cimurro, peritonite infettiva felina, epatite infettiva del cane, setticemia batterica, Ehrlichia, Rickettsia e Toxoplasma.

Orbita Nei cani e nei gatti giovani la causa più comune di esoftalmo è la cellulite o ascesso dell’orbita. La condizione ha un’insorgenza acuta. Di solito è monolaterale e causa dolore alla palpazione o all’apertura della bocca. In genere, si sviluppa secondariamente ad un evento traumatico o ad un corpo estraneo del palato molle, della cute o della congiuntiva con penetrazione all’interno dell’orbita, ascessualizzazione delle radici dentali o estensione di infezioni dei seni paranasali. La proptosi è una protrusione rostrale del globo oculare dalla sua normale posizione nell’orbita, indotta dal trauma. Il danneggiamento del nervo ottico può essere dovuto all’abnorme posizione dell’occhio ed alla tumefazione retrobulbare. La condizione insorge secondariamente a traumi contundenti, morsi o contenimento eccessivo, soprattutto nelle razze brachicefale. Si tratta di un’emergenza oftalmica. La prognosi per la visione è sempre riservata. È importante suggerire una cantoplastica laterale e/o mediale a livello di entrambi gli occhi, per prevenire l’insorgenza della medesima situazione a livello controlaterale.

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Linee guida per la chirurgia corneale di base senza rischi Maria Teresa Pen˜ a Med Vet, phD, Dipl ECVO, Barcelona, Spagna

La cornea è la parte più anteriore dell’occhio. La sua trasparenza è fondamentale per la messa a fuoco della visione sulla retina. Molte malattie corneali possono richiedere un trattamento chirurgico. Da un punto di vista pratico, queste condizioni possono essere suddivise in due gruppi; quelle che devono essere affrontate come situazioni di emergenza e quelle che richiedono interventi che possono essere effettuati su appuntamento. In condizioni ideali, l’obiettivo di qualsiasi operazione chirurgica corneale è quello di ottenere la guarigione mantenendo al tempo stesso la trasparenza della struttura e, quindi, la visione. Ciò nonostante, in alcuni casi, a seconda della gravità della malattia, la priorità potrebbe essere quella di ottenere la guarigione della cornea e salvare il globo oculare, lasciando in secondo piano il fatto di mantenerne la trasparenza. Perciò, è molto importante stabilire quale sia l’obiettivo fondamentale e con quale tecnica si possa ottenere. Infine, è essenziale considerare il grado di difficoltà tecniche dell’operazione, l’esperienza necessaria al chirurgo per effettuare l’intervento con sicurezza e gli strumenti e le apparecchiature occorrenti. Uno dei fattori più importanti da prendere in considerazione per giungere al successo è conoscere tutti i rischi e le complicazioni dell’intervento ed essere sicuri di essere pronti ad affrontare e risolvere quelli che dovessero eventualmente insorgere. In caso contrario, la cosa più ragionevole da fare è inviare il caso ad uno specialista in oftalmologia. Prima di effettuare un intervento di chirurgia corneale, il clinico deve dare una risposta alle seguenti tre domande: 1. È un’emergenza? 2. Qual è l’obiettivo dell’intervento? 3. Quali sono le attrezzature e l’esperienza necessarie? L’operazione viene classificata come un’emergenza quando l’integrità dell’occhio è in pericolo. Sono emergenze tutte le malattie che assottigliano la cornea e potrebbero determinarne la perforazione, nonché le perforazioni corneali stesse. Non sono emergenze le ulcere corneali superficiali né le opacizzazioni.

INTERVENTI CHIRURGICI NON DI EMERGENZA In questo gruppo vengono comprese tutte le tecniche che migliorano la velocità ed il grado di guarigione e quelle il cui obiettivo è ripristinare la trasparenza corneale.

1. Ulcere corneali non tendenti alla guarigione: un’ulcera corneale non guarisce quando la causa che l’ha provocata è ancora presente o esiste un difetto dell’epitelio corneale o della sua membrana basale. Se la causa è ancora presente, è essenziale trattarla ed eliminarla. Una delle eziologie più frequenti è la lagoftalmia nelle razze brachicefale. Questa condizione è solitamente secondaria a macroblefaro. Determina ulcere corneali centrali che non guariscono a causa dell’inefficace protezione del film lacrimale precorneale e della diminuita sensibilità della cornea. L’intervento chirurgico d’elezione in questi casi è la cantoplastica laterale e/o mediale. L’intervento va effettuato a livello di entrambi gli occhi, con fini terapeutici in un caso e preventivi nell’altro. Quando la causa è la non unione fra l’epitelio corneale e la sua membrana basale nello stroma della cornea (ulcere indolenti), la tecnica d’elezione è la revisione chirurgica dell’ulcera. Questa viene effettuata con un tampone di cotone sterile eliminando l’epitelio alterato dopo aver instillato nell’occhio alcune gocce di anestetico. Nei casi in cui questa tecnica non è sufficiente, il passo successivo è rappresentato dalla cheratotomia a griglia. Questa è una tecnica in cui vengono praticati piccoli e superficiali graffi della membrana basale epiteliale fino a raggiungere la parte anteriore dello stroma corneale. Attraverso questi graffi, la produzione di nuovo collagene e di una nuova membrana basale stimola l’adesione dell’epitelio. La procedura deve essere effettuata con la parte laterale di un ago per iniezione intramuscolare. Per evitare incidenti, il cane deve essere molto tranquillo ed in sedazione profonda o sottoposto ad una breve anestesia. Se i graffi giungono in profondità nello stroma, si ottiene una cicatrizzazione a griglia. È importante fare attenzione alle infezioni postoperatorie ed alle infiammazioni che possono causare il degrado della cornea. Per questo intervento è necessario disporre di una buona fonte luminosa e di un valido sistema di ingrandimento (loupe con lenti). 2. Opacità corneale: prima di decidere se un’opacità corneale necessiti di essere trattata con metodi chirurgici, è essenziale stabilire la diagnosi, l’eziologia e la localizzazione della lesione nella profondità della cornea. Per quest’ultima determinazione è necessario valutare la cornea stessa con una lampada a fessura. Anche la localizzazione e l’estensione della lesione sono elementi importanti per la scelta della tecnica operatoria e per la sua applicazione. Se l’obiettivo è quello di ottenere la trasparenza corneale, la tecnica chirurgica deve essere attuata in modo molto preciso e richiede


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sempre strutture di adeguato livello tecnico, strumenti da microchirurgia ed esperienza. Ad esempio, l’edema corneale endoteliale necessita di innesti corneali freschi, mentre le cicatrici corneali profonde richiedono una cheratectomia superficiale ed un innesto lamellare. Dal momento che non si tratta di emergenze, il suggerimento per tutti questi interventi è quello di inviare il caso ad uno specialista. Quando il difetto si trova a livello della periferia e l’asse visivo non risulta colpito, la precisione tecnica ha un’importanza minore. Ad esempio, per un dermoide limbare, la soluzione chirurgica è rappresentata da una cheratectomia superficiale. In un caso come questo lo scopo dell’intervento non è quello di ottenere la trasparenza, ma l’eliminazione di tutto il tessuto ectopico. In ogni modo, se l’operazione non viene effettuata correttamente, si può avere la ricrescita di parti cutanee. Per questi interventi è necessario un buon sistema di ingrandimento ed illuminazione, preferibilmente un microscopio operatorio o una loupe di buona qualità. Il chirurgo deve conoscere la profondità della lesione corneale e la quantità di tessuto che può asportare senza rischi.

INTERVENTI CHIRURGICI D’EMERGENZA In questi casi, le decisioni chirurgiche devono essere prese rapidamente. È necessario tenere in considerazione: 1. Quali sono le possibilità di preservare la visione. 2. La disponibilità economica del proprietario. 3. La vicinanza di uno specialista in oftalmologia. In molti trattati viene indicata la realizzazione di un lembo di terza palpebra per coprire e proteggere il difetto corneale e migliorare la guarigione. Con questo intervento, i farmaci non raggiungono bene la cornea e la camera anteriore, l’ossigenazione corneale risulta diminuita, il metabolismo è difficile e, cosa più importante, risulta impedita l’osservazione diretta dell’occhio. Questo metodo non consente il controllo della pressione endoculare né la modificazione del trattamento sulla base dell’evoluzione dei segni clinici. In alcuni casi i risultati possono essere buoni, ma in molti altri le conseguenze sono estremamente gravi. Un’importante indicazione di questa tecnica è quella di proteggere l’occhio in caso di perforazione, fino a che l’animale non possa essere trattato da uno specialista in oftalmologia e sottoposto a ricostruzione chirurgica. La protezione transitoria conferita dalla terza palpebra diminuisce la frequenza dell’infiammazione e dell’infezione nelle perforazioni corneali e negli stafilomi dell’iride. La ricostruzione chirurgica sotto microscopia rappresenta la migliore opzione, che offre le più elevate possibilità di recupero funzionale (visione).

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Anche le ulcere complicate possono richiedere una riparazione chirurgica. Possono essere considerate come tali tutte le ulcere che interessano più di 1/3 dello spessore corneale, tutte quelle infette e tutte quelle rese progressive dalla presenza di collagenasi. In molti casi, il trattamento d’elezione è la realizzazione di un lembo congiuntivale peduncolato. La congiuntiva offre un supporto strutturale alla cornea, nonché fattori che contribuiscono ad arrestare l’infezione e promuovere la guarigione. I vasi sanguigni permettono ai farmaci di giungere attraverso una via più efficace. Se non si dispone di microscopio operatorio o strumenti da microchirurgia è possibile modificare la tecnica realizzando un lembo a banda, a cappuccio o a 360°. Senza il microscopio operatorio la cicatrizzazione risulta maggiore, ma queste tecniche possono arrestare la progressione delle lesioni in una situazione di emergenza. I corpi estranei corneali devono essere esaminati con la lampada a fessura. È importante differenziare quelli che giungono sino alla camera anteriore da quelli che si arrestano prima. Questi ultimi possono essere estratti facilmente, in anestesia generale, servendosi di un ago per iniezioni intramuscolari. La lesione che ne deriva deve essere trattata come un’ulcera complicata. Se il corpo estraneo giunge sino alla camera anteriore, è necessario essere pronti a suturare la cornea e ripristinare la camera stessa. È molto importante stabilire se sia o meno colpita anche la lente. Quando la capsula anteriore di quest’ultima viene lacerata, è necessario estrarre la lente mediante facoemulsificazione. Ciò è particolarmente importante negli animali giovani, per evitare un’uveite facoplastica che si risolve in un glaucoma secondario e nella perdita della visione dell’occhio. Il clinico deve sospettare il coinvolgimento della lente quando si osserva un coagulo di fibrina adeso alla capsula anteriore della stessa.

Bibliografia Gelatt. Kirk N “Veterinary Ophthalmology” Third edition. Lea & Febiger. Philadelphia. 1999. Gelatt, Kirk N. “Essentials of Veterinary Ophthalmology”. Lippincott Williams & Wilkins. Baltimore, Maryland 2000. Gelatt. Kirk N & Gelatt J.P. “Handbook of Small animal Ophthalmic Surgery”. VOL 1: Extraocular procedures. Edi. Pergamo. N.Y.1994 VOL 2: Corneal and intraocular procedures. Edi. Pergamo. N.Y.1995 Petersen-Jones Simon M. & Crispin Sheila M. “manual of Small animal Ophthalmology”. British small animal Veterinary association. 1994. Slatter D. “Fundamentals of Veterinary Ophthalmology” Third edition W.B. Saunders company. Philadelphia, 2001 Stades, F.C.; Wyman M.; Boevé M.H.; Newmann W. “ophthalmology for the veterinary practitioner”. Schlülersche. 1998.


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Correlazione tra eosinofilia a livello intestinale ed allergia alimentare Graziano Pengo Med Vet, Cremona

Il sistema gastroenterico è forse l’apparato che più è a contatto con antigeni esogeni, infatti, tutti i nutrimenti che sono introdotti con l’alimentazione presentano un corredo antigenico che è estraneo all’organismo e per questo motivo l’apparato digerente è continuamente stimolato e posto sotto stress, a tale proposito ha sviluppato una serie di difese (anatomiche e MALT) mirate a mantenere una “TOLLERANZA ALIMENTARE”, ciò significa che si è adattato a riconoscere tali antigeni esterni ed a permetterne l’introduzione all’interno dell’organismo. La sensibilità alimentare si può identificare come una reazione immunologica ad un antigene alimentare (allergia alimentare) o una reazione non immunologica (intolleranza alimentare). Entrambe possono avere dei sintomi simili e possono essere trattate clinicamente allo stesso modo, ma la loro differenza è più complessa. L’allergia alimentare è una reazione avversa ripetibile la cui insorgenza è legata, da un punto di vista immunologico ad un componente della dieta, il quale determina l’insorgenza di uno o più meccanismi che portano alla rottura della tolleranza alimentare. Tale meccanismo immunologico non è stato ancora perfettamente chiarito; si pensa che sia determinato da reazioni di tipo I, anche se smbrano implicate reazioni di tipo III e IV. Le cause dell’intolleranza alimentare devono essere invece ricercate in alterazioni dell’attività enzimatica intestinale, in una aumentata permeabilità intestinale, in un alterato metabolismo post assorbimento, nella stabilità dei mastociti oppure in alterazioni della flora intestinale. La sintomatologia può ricondurre ad una sintomatologia gastroenterico che cutanea e la difficoltà sta nel riconoscere che si tratta di una patologia allergica e successivamente nell’identificare l’alimento che la scatena.

MATERIALI E METODI La casistica è stata raccolta considerando tutti i pazienti con sintomi gastroenterici sottoposti ad esame endoscopico in un periodo che va dal gennaio 1999 all’agosto del 2003. Tutti i pazienti esaminati sono stati sottoposti a visita clinica, con raccolta dei dati relativi a: segnalamento, anamnesi (recente e remota), tipo di alimentazione, sintomatologia ed indagini collaterali (esame delle feci per flottazione utilizzando solfato di zinco, esami ematochimici, endoscopie, biopsie ed esami istologici).

L’esame endoscopico consisteva nella valutazione macroscopica della mucosa dei vari tratti intestinali, con prelievo di frammenti bioptici per l’esame istologico successivamente inviati all’istopatologo, sempre il medesimo, il quale provvedeva alla loro colorazione tramite ematossilina ed eosina. Ogni campione istologico è stato poi sottoposto a descrizione istologica delle lesioni per arrivare ad una diagnosi morfologica (riassunto della lesione principale). Successivamente alla biopsia ed alla terapia, il follow-up veniva eseguito tramite visita clinica (da 7 giorni a 1 anno) o nei casi gravi telefonicamente a scadenza giornaliera.

CASISTICA Dal gennaio 1999 all’agosto del 2003 sono stati sottoposti ad esame endoscopico 2237 soggetti fra cani e gatti, che presentavano sintomatologia gastro-enterica. Di tali pazienti, sono stati selezionati 41 cani e 15 gatti che mostravano una sintomatologia riconducibile all’allergia alimentare e che all’esame istologico presentavano una predominanza di popolazione eosinofilica. Per quanto riguarda la specie canina, dai dati raccolti, si è potuto notare una maggiore incidenza nei cani meticci (10), seguiti da Boxer (7), Pastore Tedesco (3), Rottweiler e West Highland White Terrier (2), il rapporto tra maschi e femmine era di 2/1 circa, mentre l’età dei soggetti con problemi di allergia alimentare variava da 11 mesi a 15 anni (media di 6,2 anni). Per quanto riguarda i gatti, si è registrata una netta prevalenza di meticci (14) e un solo caso di gatto Persiano, il rapporto tra maschi e femmine è risultato equo, mentre l’età dei pazienti sottoposti ad endoscopia variava dai 3 ai 13 anni (media di 6,8 anni). Il sintomo gastroenterico che si è riscontrato con maggior frequenza è stato il vomito, seguito da diarrea ed insorgenza di dolori colici. Nel cane le alterazioni istologiche più frequenti in corso di allergia alimentare si son evidenziate a livello di piccolo intestino (32 casi) rispetto al grosso intestino (7 casi) e in soli 2 casi tali modificazioni si potevano riscontrare sia a livello di piccolo che grosso intestino, mentre nel gatto le alterazioni istologiche son state messe in evidenza soprattutto nel piccolo intestino (14 casi) rispetto al grosso intestino (1 caso). Nel piccolo intestino le enteriti eosinofiliche pure comprendevano 26 casi, mentre i casi in cui erano associate ad


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una flogosi linfoplasmacellulare, ma con una prevalenza di granulociti eosinofili, corrispondevano a 19 casi; solo in 2 casi è stata descritta associata ad una enterite eosinofilica una popolazione di mastociti. Nel grosso intestino in 8 casi si è potuto notare una popolazione eosinofilica pura, mentre in un solo caso la popolazione eosinofilica era associata a quella linfoplasmacellulare, inoltre, in due casi, ma solo nel cane, sia il piccolo che il grosso intestino erano interessati da alterazioni flogistiche: in un caso veniva descritta una enterocolite eosinofilica, nell’altro veniva evidenziata anche una popolazione linfoplasmacellulare. Di tutti i casi presi in considerazione è stato possibile raccogliere il follow-up dopo un periodo che poteva andare da 7 a più giorni.

DISCUSSIONE Dai dati raccolti in questo lavoro, si può vedere come i pazienti affetti da allergia alimentare, siano una piccola percentuale (2,5%). Tale patologia non sembra manifestarsi ad un’età precisa e, nel nostro lavoro, corrisponde ad una media di 6,2 anni nei cani e 6,8 anni nei gatti. Le razze canine più predisposte sono sicuramente i Boxer, anche se con una certa frequenza si manifesta in Pastori Tedeschi, Dobermann, Rottweiller, West Hiland White Terrier e comunque sembra avere una certa predilezione per i cani che presentano mantello bianco. Per quanto riguarda i gatti, l’allergia alimentare non sembra avere una predisposizione di razza. Il sintomo gastro-enterico più frequentemente riscontrato è stato quello del vomito, seguito dalla diarrea, con feci che potevano contenere sia muco che sangue vivo, uno stato cachettico del paziente, associato ad una cospicua perdita di peso, soprattutto nei casi in cui era colpito il piccolo intestino. Il quadro endoscopico poteva variare a seconda dell’intensità del processo flogistico, l’aspetto comune, è la presenza di una mucosa fortemente iperemica associata, nei casi più gravi, ad erosioni o alla presenza di strutture a placche di colore biancastro. Al prelievo bioptico la mucosa si presentava molto friabile e con un cospicuo sanguinamento al prelievo. Il quadro istologico è caratteristico: presenza di una numerosa popolazione di granulociti eosinofili, che in alcuni casi poteva essere accompagnata alla presenza di mastociti, spesso associata ad edema ed emorragie della sottomucosa. In alcuni casi le alterazioni istologiche comprendevano anche la presenza di una popolazione di linfociti e plasmacellule associata a quella eosinofilica. Nel nostro studio abbiamo correlato i segni clinici con i referti istologici delle biopsie enteriche e si è potuto notare come la popolazione di granulociti eosinofili sia sempre presente in corso di allergia alimentare. La diagnosi di allergia alimentare, in veterinaria, si basa sul concetto per cui in seguito ad un cambiamento nella dieta si ha una risposta positiva alla patologia. È necessario, quindi, provare la remissione dei sintomi in seguito all’e-

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sclusione di uno specifico componente della dieta e la ricaduta conseguente alla reintroduzione dell’alimento precedentemente eliminato. Questo, infatti, è quanto abbiamo potuto verificare con la nostra casistica, in quanto tutti i soggetti con le caratteristiche istologiche di eosinofilia sono stati trattati con alimenti ipoallergenici ottenendo la risoluzione della sintomatologia. Seguendo il follow-up di tutti i soggetti si è visto come le recidive erano dovute solo a proprietari che, spontaneamente, vedendo l’ottima condizione del loro animale, tornavano alla vecchia dieta. Nonostante la vasta gamma delle intolleranze alimentari, la cui eziologia è difficilmente dimostrabile, si può affermare che l’impiego di un alimento che sia molto digeribile nonché anallergico è un importante coadiuvante alla terapia farmacologia che sta alla base. In veterinaria, si è cercato di introdurre altri test per evitare la difficoltà delle prove alimentari, questi vengono identificati come “indiretti”, ma non hanno portato a risultati soddisfacenti. L’unico test che ha dato risultati più specifici è il test gastroscopico di sensibilità alimentare, dove antigeni alimentari vengono iniettati direttamente a livello della mucosa enterica. Nel nostro lavoro comunque la terapia di base è stata l’introduzione di un alimento ipoallergenico che presentava tre caratteristiche principali: unica fonte proteica, unica fonte lipidica ed unica fonte di carboidrati. Bisogna tenere in considerazione il fatto che questo regime d’alimentazione, una volta che ha sortito effetti positivi, può essere mantenuto dal paziente anche per tutta la vita e, a qualsiasi deviazione dal protocollo, ne consegue la recidiva della malattia. Anche per questo è importante che, dopo una prima fase di desensibilizzazione, si prosegua con alimenti che mantengano caratteristiche di ipoallergenicità. Per quanto riguarda la terapia, alcune volte è stato necessario prescrivere una terapia antibiotica di supporto a quella alimentare. In questi casi, l’introduzione dell’antibiotico nella terapia è stata necessaria per prevenire complicanze batteriche che potevano insorgere secondariamente ai danni a livello della mucosa intestinale o a livello cutaneo. In conclusione, si può dire che le forme d’allergia alimentare non sono molto frequenti nella specie canina e sono di difficile differenziazione dalle forme d’intolleranza alimentare. L’unico sistema per identificare una forma allergica resta quello della dieta da privazione e successiva prova di stimolazione. In questo tipo di patologia il semplice cambio alimentare, utilizzando un alimento adeguato, porta a degli ottimi risultati fino ad avere la remissione dei sintomi. Bisogna infine considerare che la diagnosi precoce di allergia alimentare è molto importante per evitare il sovrapporsi di altre forme infiammatorie che potrebbero complicare il quadro clinico.

Indirizzo per la corrispondenza: Graziano Lorenzo Pengo Clinica Veterinaria Oriolo, SS 415 Km 41,500 26012 Castelleone (CR) tel. 0374.359949; fax. 0374.358868 e-mail: grazianovet@libero.it


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Terapia della leishmaniosi canina: a che punto siamo? Maria Grazia Pennisi Med vet, Messina

Gli studi sulla chemioterapia della leishmaniosi canina hanno avuto un forte impulso a partire dagli anni ’90. L’affinamento delle tecniche diagnostiche sia indirette (IFAT, Western-Blotting) che dirette (PCR) ha permesso un monitoraggio più accurato dell’infezione, in passato basato solo su diagnosi microscopica e colturale, e ha dimostrato la difficoltà di ottenere nel cane una guarigione parassitaria. Oltre a ciò, l’evidenziazione di fenomeni di chemioresistenza indotti da diversi farmaci impiegati contro L. infantum, compresi quelli considerati di prima scelta per la terapia della malattia nell’uomo (amfotericina B, antimonio, aminosidina), ha contribuito all’interesse per la valutazione dell’efficacia terapeutica di nuove molecole o di nuove associazioni. Una notevole mole di dati è stata prodotta mediante studi svolti in vitro o sul topo, alcuni dei quali hanno fornito la base scientifica per prove di campo sul cane. Manca ancora una standardizzazione dei trial clinici e quindi i dati prodotti dai diversi studi non sono confrontabili fra loro. Ad esempio, l’associazione meglumine antimoniato & allopurinolo, considerata terapia d’elezione nel cane, viene utilizzata con schemi terapeutici diversi e la sua efficacia valutata con metodologie e follow up non comparabili. Personalmente abbiamo verificato mediante una prova di campo l’efficacia terapeutica dell’associazione spirami-

cina& metronidazolo nel trattamento della leishmaniosi canina.1. Sulla scorta di questa esperienza e dell’effetto sinergistico fra metronidazolo e meglumine antimoniato dimostrato nel topo 2, siamo successivamente passati a valutare l’efficacia clinica dell’associazione Glucantim® & Stomorgyl® in cani affetti da leishmaniosi canina.

Bibliografia 1.

2.

Pennisi M.G., De Majo M., Masucci M., Britti D., Vitale F., Del Maso R. (2004), Efficacy of metronidazole-spyramicin combined therapy in the treatment of canine leishmaniasis. Vet. Rec., in press. Gangneux J.P., Dullin M., Sulahian A., Garin Y.J., Derouin F. (1999), Experimental evaluation of second-line oral treatments of visceral leishmaniasis caused by Leishmania infantum. Antimicrobial Agents and Chemotherapy, 43:172-174.

Indirizzo per la corrispondenza: Maria Grazia Pennini Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria, Polo Universitario dell’Annunziata, 98168 Messina-Italia Tel +39 090 3256253 Fax +39 090 356675 e-mail MariaGrazia.Pennisi@unime.it


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Caso clinico di cecità a rapida insorgenza nel gatto Claudio Peruccio Med Vet, Dipl ECVO, Torino

Elena Barbasso, Dottore di Ricerca in Oftalmologia Veterinaria, Torino Cristina Crosta, Med Vet, Milano

Segnalamento: Gatto persiano femmina di 5 anni di età, di colore tartaruga, di 4,5 kg di peso

loghi in letteratura 1,2,3,4, è stata emessa una diagnosi di degenerazione retinica a rapida evoluzione associata a somministrazione di enrofloxacina.

Motivo della visita: Progressiva veloce perdita della funzione visiva nelle due settimane precedenti la visita oculistica

Prognosi: Negativa per la ripresa della funzione visiva. Terapia: Nessuna utile.

Anamnesi: La storia clinica remota non evidenzia problemi della funzione visiva né malattie oculari. Unico dato anamnestico recente di rilievo è una cistite diagnosticata 22 giorni prima e trattata per soli due giorni con enrofloxacina per os alla dose di 11 mg/kg/die (1 compressa da 50 mg/die) invece dei 5 mg/kg/die prescritti. Terapia sospesa al terzo giorno dal proprietario per comparsa di alterazioni comportamentali riferibili a difficoltà di funzione visiva, in particolare alla sera e con luce crepuscolare, con evidente midriasi.

Esame obiettivo generale: Nessun rilievo dal punto di vista organico; evidente midriasi e comportamento riferibile ad alterazioni della funzione visiva.

Visita oculistica: Reazione alla minaccia = 0/+ (destra e sinistra). Riflesso fotomotore e abbagliamento = 0/+ (destra e sinistra). Nessuna alterazione riferibile agli annessi oculari, al segmento anteriore ed ai mezzi diottrici. Fondo oculare con alterazioni caratteristiche di un processo atrofico degenerativo in fase evolutiva avanzata nei due occhi.

Lista dei problemi:

• Rilevati dall’anamnesi: cistite trattata con enrofloxacina per 2 giorni a dosi doppie rispetto alla prescrizione. • Segnalati dal proprietario: midriasi e perdita della funzione visiva prevalentemente alla sera insorte dopo la terapia per cistite. • Osservati con la visita oculistica: atrofia generalizzata bilaterale del fondo oculare.

Ipotesi di diagnosi differenziale: Atrofia della retina su base iatrogena, genetica, taurinopriva.

Diagnosi: Con riferimento al segnalamento, all’anamnesi, al decorso clinico ed a quanto descritto per altri casi ana-

Discussione: Nel gatto sono stati segnalati casi di degenerazione della retina ad insorgenza improvvisa conseguenti alla somministrazione di enrofloxacina a dosi superiori a quelle raccomandate dal produttore ma anche un caso successivo a terapia con posologia a dosaggio normale (4,6 mg/kg /die) e comparsa di midriasi già dopo tre giorni 1. Il reperto oftalmoscopico è caratterizzato da aumento del riflesso del fondo tappetale ed attenuazione o scomparsa dei vasi retinici, del tutto sovrapponibile a quello conseguente ad atrofia della retina su base genetica descritto nel gatto Abissino. Inoltre anche nelle fasi avanzate dell’atrofia retinica per carenza di taurina il quadro clinico è simile e questa ipotesi eziopatogenetica deve essere presa in considerazione. Nel nostro caso la rapida insorgenza descritta nell’anamnesi rende del tutto improbabile questo tipo di diagnosi. Nel caso da noi osservato il rilievo del proprietario di maggiore difficoltà serale faceva pensare ad un’atrofia progressiva della retina su base genetica anche se nei mesi precedenti non erano stati rilevati comportamenti sospetti da parte del gatto. Inoltre la somministrazione di 11 mg/kg/die per os per due soli giorni non sembrava tale da poter determinare in poco tempo così gravi lesioni. La convinzione del proprietario che prima della somministrazione di enrofloxacina il gatto vedesse perfettamente e la pupilla fosse di dimensioni normali, quanto riportato in letteratura 1,2,3,4,5 e la mancanza di casi di atrofia retinica in altri gatti della stessa famiglia ci hanno indotto ad emettere una diagnosi di degenerazione retinica su base iatrogena. Nei casi analoghi in cui è stato possibile effettuare una elettroretinografia, la risposta era indicativa di una grave ed estesa compromissione dei fotorecettori 1,2,3 ed i reperti istopatologici confermavano una diffusa perdita degli strati dei nuclei esterni e dei fotorecettori oltre ad ipertrofia e proliferazione delle cellule dell’epitelio pigmentato 1,2,4. In un recente lavoro la somministrazione di 50 mg/kg/die per os di enrofloxacina in singola dose già al terzo giorno aveva determinato la comparsa di gravi alterazioni retiniche caratterizzate da imponente edema e formazione di vacuoli


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nel citoplasma dei fotorecettori 4. Al quinto giorno il loro numero era consistentemente diminuito e l’alterazione più evidente era la picnosi dei nuclei. Al settimo giorno sopravvivevano pochi bastoncelli mentre i coni erano meglio conservati; gli strati interni della retina non erano alterati 4. Il maggiore coinvolgimento dei bastoncelli che pare siano più sensibili dei coni agli effetti tossici di questo farmaco può in parte spiegare il riscontro di cecità prevalentemente notturna nel caso da noi osservato. I casi clinici descritti in letteratura mettono in evidenza che i gatti anziani corrono i maggiori rischi di degenerazione retinica in seguito a somministrazione di alte dosi del farmaco 1,2. Considerato che viene in gran parte eliminato per via renale, le nefropatie possono aumentare sensibilmente il rischio di complicazioni conseguenti alla sua somministrazione 2.

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vanti ed in seguito alla conferma dell’efficacia mediante antibiogramma. In ogni caso si deve rispettare la posologia consigliata dal produttore, l’eventuale somministrazione per via endovenosa deve essere lenta e si deve diminuire la dose in presenza di insufficienza renale e nei gatti anziani. La comparsa di midriasi implica l’immediata sospensione del trattamento.

Bibliografia 1.

2. 3.

Raccomandazioni: Il medico veterinario deve conoscere nel dettaglio indicazioni, controindicazioni ed effetti collaterali dei farmaci che utilizza per evitare la comparsa di lesioni su base iatrogena. In linea di massima i chinolonici dovrebbero essere utilizzati solo per il trattamento di infezioni gravi o recidi-

4. 5.

Gelatt KN, van der Woerdt A, Ketring KL et al, (2001), Enrofloxacinassociated retinal degeneration in cats, Veterinary Ophthalmology 4,2,99-106 Wiebe V, Hamilton P (2002) Fluoroquinolone-induced retinal degeneration in cats, JAVMA 22 1568-1571 Ford MM, Narfstrom K, Giuliano EA, Moore CP (2003), Enrofloxacin and the feline retina: ophthalmoscopic and electroretinographic effects, Proc. 34th ACVO Annual Conference, 43 Dubielzig RR, Ford MM, Narfstrom K (2003), Enrofloxacin and the feline retina: histologic effcts, Proc. 34th ACVO Annual Conference, 67 Glaze MB, Gelatt KN. Feline Ophthalmology. In: Veterinary Ophthalmology, 3th edn (ed. Gelatt KN) Lippincott/Williams & Wilkins, Philadelphia, 1999, 997-1052


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Caso clinico con alterazioni oculari e dermatologiche nel cane Claudio Peruccio Med Vet, Dipl ECVO, Torino

Fabia Scarampella, DECVD, Milano Elena Barbasso, Dottore di Ricerca in Oftalmologia Veterinaria, Torino Daniela Terlizzi, Dottore di Ricerca in Oftalmologia Veterinaria, Torino

Segnalamento: Kit, cane meticcio (incrocio pastore /Doberman), maschio di 10 anni di 29 kg di peso, nero focato

Motivo della visita oculistica: Occhi opachi, arrossati, con accumulo di muco e croste

Anamnesi: Nell’arco della sua vita il cane aveva viaggiato in Piemonte e Liguria, era stato regolarmente vaccinato, aveva contratto una filariosi cardio polmonare ed aveva subito una splenectomia. Circa 4 mesi prima della nostra visita aveva presentato tosse e temperatura febbrile per cui gli era stata somministrata un’associazione di trimetoprim e sulfametossazolo (cotrimossazolo nella preparazione commerciale Bactrim) alla dose di 20 mg/kg/BID per 2 settimane. La terapia era stata sospesa dopo 7 giorni per la comparsa di inappetenza, progressivo dimagramento, polidipsia, zoppia ed alterazioni cutanee caratterizzate da croste, ulcere ai cuscinetti plantari e nel cavo orale, per cui i proprietari avevano richiesto la visita dermatologica. La visita del medico veterinario dermatologo aveva messo in evidenza la presenza di lesioni ulcerative nel cavo orale, sul tartufo, ai cuscinetti plantari alla faccia interna dei padiglioni auricolari ai cercini ungueali ed allo scroto. La diagnosi differenziale emessa era stata reazione a farmaco (Eritema Multiforme-Necrolisi Epidermica Tossica), malattie autoimmuni (pemfigoide bolloso, lupus eritematoso sistemico, pemfigo volgare), sindromi paraneoplastiche (carcinoma dei dotti biliari, fibrosarcoma splenico) e leishmaniosi. L’esame sierologico (IFI) per la ricerca di anticorpi specifici per leishmania risultò negativo. Vennero eseguiti una serie di prelievi bioptici dalle sedi cutanee e giunzioni muco-cutanee colpite e il quadro istologico risultò compatibile con eritema multiforme. La terapia prescritta in attesa dei reperti istopatologici fu prednisolone 1 mg/kg/SID ed augmentin 22 mg/kg/BID. Risultato della biopsia: Necrosi coagulativa e presenza di numerose apoptosi a tutti i livelli dell’epidemide. Tali alterazioni sono compatibili con Eritema Multiforme - Necrolisi Epidermica Tossica e una reazione da farmaco era, in questo caso, la causa più probabile, per cui la diagnosi del dermatologo fu: Eritema Multiforme Major. La terapia fu integrata con azatioprina alla dose di 1 mg/kg/die.

Dopo una settimana di cura le lesioni cutanee erano molto migliorate; era comparso prurito allo scroto per sovra-infezione da Malassezia spp. per cui era stata prescritta una terapia locale con miconazolo in soluzione ginecologica (Daktarin®). A distanza di tre settimane la cute era ulteriormente migliorata ma erano comparse epistassi ed erosione scrotale, risolte nell’arco di altri 20 giorni mantenendo inalterata la terapia. Era però comparsa secchezza oculare accompagnata da blefarospasmo per cui era stata richiesta la visita oculistica.

Visita oculistica: Riflesso fotomotore, all’abbagliamento e reazione alla minaccia nella norma. Test di Schirmer = 4 mm/min (dex e sin). La congiuntiva appare inspessita, edematosa, non spostabile, di colore biancastro con pieghe cicatriziali. Terza palpebra lievemente procidente da ambo i lati con margine parzialmente depigmentato. Sul bordo palpebrale non sono osservabili i normali sbocchi delle ghiandole di Meibomio. La cornea è di aspetto normale, del tutto trasparente, anche gli altri mezzi diottrici ed il fondo oculare non presentano alterazioni.

Lista dei problemi di competenza oculistica: Ipolacrimazione, congiuntivite con alterazioni strutturali della mucosa.

Diagnosi differenziale: Congiuntivite secca (ma la scarsa lacrimazione non giustifica alterazioni così gravi del tessuto congiuntivale); contatto con sostanza caustica (non evidenziato dall’anamnesi); processo infiammatorio cronico (giustificherebbe la depigmentazione ma non le alterazioni strutturali); coinvolgimento oculare della patologia cutanea in atto.

Indagini collaterali: Una biopsia congiuntivale ha messo in evidenza un tessuto moderatamente e multifocalmente edematoso delimitato superficialmente da un epitelio ben differenziato. Frammisti al tessuto subepiteliale si osservano moderati aggregati linfoplasmacellulari multifocali as-


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sociati a macrofagi attivi disseminati contenenti residui di materiale brunastro granuleggiante, riferibili a emosiderina.

Diagnosi: In base al quadro clinico, al reperto istopatologico ed al concomitante Eritema Multiforme è stata emessa una diagnosi di estensione congiuntivale di patologia sistemica con ipolacrimazione probabilmente conseguente ad occlusione degli sbocchi ghiandolari e/o a danno diretto dell’associazione trimetoprim/sulfametossazolo alle ghiandole lacrimali.

Prognosi: Riservata ai fini funzionali per le possibili complicazioni indotte dalla scarsa lacrimazione.

Terapia: Sostituti lacrimali, ciclosporina, Decorso: Dal punto di vista dermatologico sono comparse aree di iperpigmentazione postlesionale non patologiche nel cavo orale, persisteva una lieve erosione della porzione dorsale del tartufo ed otite monolaterale sinistra che è guarita dopo somministrazione di un polifarmaceutico topico contenente marbofloxacina, clortrimazolo e desametasone (Aurizon®) per 2 settimane nell’orecchio e glicole propilenico + mipurocina pomata (Bactroban®) sul tartufo. Dal punto di vista oculistico nell’arco di un mese il test di Schirmer si è azzerato e, dopo alcune settimane, è comparsa intensa cheratite con pigmentazione e deficit della funzione visiva. La congiuntiva ha presentato piccole aree di simblefaro, è diminuita di spessore pur persistendo un quadro clinico di congiuntivite cronica.

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parenterale, topica o inalatoria di diversi principi attivi. I meccanismi patogenetici possono essere riferiti: • all’azione diretta del farmaco in rapporto alla dose somministrata, che può determinare liberazione di mediatori dell’infiammazione ed alterazioni metaboliche • all’attivazione di meccanismi immunomediati La definizione “Eritema Multiforme Major” è utilizzata per descrivere dal punto di vista clinico ed istopatologico le conseguenze della reazione a farmaci e la diagnosi differenziale deve essere fatta nei confronti di altre reazioni da farmaco, ustioni, malattie autoimmuni quali pemfigo volgare, LES, malattie bollose subepidermiche (es. Pemfigoide bolloso), vasculiti ed altre cause di necrosi ischemica (neoplastiche, infettive). Le lesioni più frequenti descritte in letteratura sono a livello della cute del muso, alle giunzioni muco-cutanee, ai cuscinetti plantari ed alla mucosa di faringe, esofago, trachea, bronchi e mucosa gastrointestinale 2,3,4,5,6,7. La mucosa congiuntivale di solito non è coinvolta.

Bibliografia 1.

2. 3. 4. 5.

Discussione: Le alterazioni cutanee e degli annessi oculari indotte per reazione ai farmaci sono poco conosciute dai medici veterinari che si dedicano alla cura degli animali da compagnia e probabilmente sono spesso confuse con altre manifestazioni patologiche (dermatiti e congiuntiviti di origine diversa). Si possono verificare per somministrazione orale,

6.

7.

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Patologie muscolari e tendinee di origine traumatica e non: diagnosi e trattamento Alessandro Piras Med Vet, Spec Chir Vet, MRCVS, Newry, Irlanda del Nord

Le lesioni che interessano il muscolo ed il tendine possono essere di origine traumatica come contusioni e lacerazioni, dovute a danno vascolare od essere diretta conseguenza della stessa contrazione muscolare durante l’esercizio fisico come gli strappi. Gli insulti di origine traumatica sono spesso associati ad altre gravi lesioni come fratture o lussazioni e possono essere difficili da diagnosticare nel contesto del paziente traumatizzato; la conseguenza è che vengono purtroppo spesso trascurate influenzando negativamente il recupero funzionale. Le lesioni da strappo muscolare rappresentano una vera e propria sfida diagnostica; se il soggetto non viene esaminato in fase acuta o se la lesione non è altamente debilitante i sintomi clinici tendono ad essere molto scarsi e di difficile interpretazione. Nell’ambito dei cani da compagnia la letteratura che si occupa dell’argomento è piuttosto scarsa mentre è più estesa nel settore dei cani da lavoro con particolare riguardo ai levrieri da corsa.

TIPOLOGIA E MECCANISMO DI LESIONE Le lesioni muscolari possono essere di diversa natura in relazione al meccanismo che le genera. Contusioni, strappi e piccole lacerazioni sono in genere considerate lesioni minori mentre rotture parziali e totali sono considerate lesioni gravi. La contusione interessa più spesso le porzioni profonde del muscolo adiacenti il periostio. Sono lesioni causate da un trauma di tipo contusivo come collisioni contro oggetti od ltri cani, cadute o trauma stradale. Per via della natura contusiva del trauma, si ha in genere danno vascolare locale con travaso ematico dal letto capillare o da vasi maggiori con formazione di ematoma. Con l’eccezione di contusioni massive, il trattamento è in genere conservativo con terapia antinfiammatoria e riposo. Le lacerazioni muscolari possono essere provocate da morsi o collisioni contro oggetti appuntiti o affilati come il vetro. Il trattamento dipende dalla gravità della lesione; sia esso conservativo o chirurgico vanno comunque rispettati i principi di base per il trattamento di ferite aperte contaminate. Per un migliore approccio alla diagnosi ed al trattamento delle lesioni da strappo è necessario capire come un muscolo possa lesionarsi durante l’attività atletica. Nell’ambito delle contrazioni quella concentrica è il tipo più comune, consiste nell’accorciamento del muscolo a se-

guito dell’attivazione dell’unita motoria. La contrazione eccentrica consiste nell’allungamento del muscolo durante la sua contrazione. La lesione da strappo avviene quando il muscolo viene disteso passivamente (allungamento passivo durante la contrazione attiva) o quando viene attivato durante l’allungamento da una potente contrazione eccentrica. La contrazione eccentrica del muscolo contribuisce alla lesione generando forze che durante la distensione si sommano a quelle già prodotte dagli elementi passivi del tessuto connettivo. Gli elementi passivi del muscolo che non dipendono dalla attivazione sono il tessuto connettivo e le fibre che possono agire passivamente. Gli elementi contrattili attivati durante la contrazione sono le fibre. I muscoli proteggono se stessi e le strutture articolari dalle lesioni. Sia gli elementi passivi che contrattili contribuiscono alla capacità del muscolo di assorbire energia; questa abilita si esprime al massimo quando il muscolo è attivato durante la contrazione concentrica. Qualsiasi condizione che diminuisce la capacita del muscolo a contrarsi, diminuisce la sua capacita di assorbire energia predisponendo il muscolo alle lesioni. La gravita delle lesioni da strappo muscolare varia, a seconda della quantità di fibre coinvolte, da rottura parziale a completa. Nonostante la lesione da strappo possa interessare qualsiasi porzione del muscolo, lavori sperimentali provano che la zona più suscettibile è la giunzione muscolo-tendinea distale con una piccola porzione di muscolo che resta unita al tendine. Ulteriori ricerche suggeriscono che i muscoli che attraversano due articolazioni o che presentano una architettura complessa sono più vulnerabili alle lesioni.

CLASSIFICAZIONE DEGLI STRAPPI MUSCOLARI Per praticità, le lesioni muscolari sono state classificate da Hill in tre categorie a seconda della loro gravità. Questa classificazione, benché originariamente creata per i Greyhound da corsa può convenientemente venire adattata a qualsiasi cane che svolge attività fisica a qualsiasi livello. Primo grado: miosite, semplice contusione e leggera iperemia. Causate in genere da trauma diretto o sovradistensione; il danno alle fibre muscolari è minimo senza formazione di ematoma.


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I segni clinici consistono in dolore localizzato ed inabilità a resistere ad una palpazione decisa; il gonfiore e calore della parte affetta sono da minimi ad assenti; la perdita di funzione è generalmente minima o assente. Secondo grado: danno parziale alle fibre muscolari con miosite, rottura di entità variabile della fascia muscolare. I segni clinici consistono in evidente dolore alla palpazione, gonfiore localizzato ed aumento della temperatura locale, con un attento esame è possibile palpare la lesione fasciale. Una zoppia leggera può essere presente nelle prime 24\48 ore dopo l’insorgenza della lesione. Terzo grado: rottura della fascia muscolare, danno grave alle fibre muscolari con possibile rottura totale del ventre muscolare e formazione di imponente ematoma. I segni clinici consistono in algia intensa, distruzione evidente e palpabile dell’architettura del muscolo interessato, gonfiore e calore evidenti, zoppia di grado variabile a seconda del muscolo interessato. Alcuni soggetti, specie se di razze da lavoro, tendono ad essere molto stoici e possono presentare, in fase acuta, un movimento quasi normale con segni di zoppia da minimi ad assenti in rapporto alla gravita della lesione stessa. Se la zoppia persiste per più di 48 ore sarà necessario valutare la possibilità di lesioni addizionali, spesso a carico di strutture ossee o legamentose.

DIAGNOSI Anamnesi: prima di procedere all’esame clinico è necessario raccogliere una accurata anamnesi. È importante avere informazioni sul tipo di attività atletica del soggetto, sul tempo di insorgenza dei sintomi sulla loro gravità e su come sono variati dal momento della lesione fino alla presentazione. Se il soggetto da lavoro svolge un tipo di attività ripetitiva con schemi di allenamento e competizione ben precisi (vedi cani da corsa o da utilità e difesa) l’anamnesi può indirizzare verso lesioni cosi dette classiche.

Esame clinico: La maggioranza delle lesioni muscolari, specie nei soggetti sportivi, viene diagnosticata con la palpazione diretta. Alcune lesioni, specie in soggetti a pelo raso, sono evidenti per via dell’ovvio gonfiore o aspetto anomalo della parte interessata, un tipico esempio è la rottura del muscolo Gracile nei levrieri da corsa. In altri casi la lesione può essere di difficile localizzazione per via della complessità strutturale del muscolo interessato o della sua locazione anatomica. L’esame clinico per palpazione di lesioni muscolari è una procedura molto soggettiva, un approccio sistematico è essenziale ed idealmente il Veterinario ortopedico dovrebbe sviluppare una personale tecnica e sequenza d’esame. Il lavoro eccellente prodotto da Davis rappresenta una guida estremamente utitile. Le seguenti sono alcune linee guida da tenere a mente quando si conduce l’esame muscolo scheletrico:

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Quando è possibile, esaminare ogni muscolo individualmente per tutta la sua lunghezza, dall’origine fino alla inserzione valutando anche il ventre. La palpazione va effettuata sia con muscolo non in tensione che con il muscolo disteso. Le manovre di flessoestensione e adduzione-abduzione dell’arto a livello delle articolazioni attraversate dal muscolo aiuteranno nell’esame. Ricordarsi di seguire una routine comparando i due lati del soggetto procedendo allo stesso tempo con la palpazione del muscolo controlaterale. Ogni asimmetria o differente risposta algica va registrata. Palpare con delicatezza alla ricerca di tumefazioni, edema, perdita di dettaglio anatomico e risposta algica. È possibile palpare lesioni fasciali e separazione delle fibre lungo il decorso del muscolo. Le lesioni croniche sono caratterizzate da tessuto fibroso cicatriziale facilmente identificabile, presenza di ispessimenti lungo la giunzione teno-muscolare, così dette “cording” per la caratteristica sensazione di palpare una corda. Esaminare il soggetto a diverse andature, passo lento e veloce, trotto, lesioni acute che provocano una leggera zoppia possono essere identificate dall’atteggiamento caratteristico della andatura specie se interessano strutture muscolari maggiori. Ogni muscolo ha una funzione ben precisa nel contribuire al movimento dell’arto, una dettagliata conoscenza anatomica e funzionale è una condizione necessaria ed indispensabile per potere interpretare una zoppia. Nel caso di lesioni croniche con perdita di funzione più o meno parziale ed accorciamento od allungamento cronico del muscolo, è possibile osservare durante le andature movimenti a scatto caratteristici. Questi movimenti sono dovuti alla inabilita delle fibre a contrarsi e rilasciarsi in maniera appropriata, a contrazioni eccentriche multifocali ed alla presenza di tessuto cicatriziale che agisce come una banda elastica.

AUSILI DIAGNOSTICI Ultrasonografia: Gli aspetti sonografici del muscolo e tendine normale e patologico sono stati abbondantemente studiati in campo umano, con presenza di vasta letteratura. In campo veterinario questa disciplina è agli albori e la letteratura specifica è scarsa e relegata ad alcune strutture muscolo-tendinee (soprattutto tendine di Achille e gastrocnemio, tendine del muscolo bicipite brachiale ed infraspinato). L’ultrasonografia è un mezzo diagnostico molto utile ed in mani esperte più fornire informazioni vitali riguardo la gravità ed estensione della lesione, purtroppo la curva di apprendimento è lenta e richiede molta dedizione. Le sonde più idonee sono la 7.5 MHz sia fluid offset che accompagnata da cuscinetto di gel e la 10 MHz, queste offrono una panoramica ottimale ed una definizione eccellente per strutture sia superficiali che profonde.

Risonanza magnetica: tecnica diagnostica estremamente utile. L’estrema accuratezza dei risultati ne fa un mezzo diagnostico eccellente, unico fattore limitante sono le ovvie considerazioni in termini economici e di disponibilità sul territorio.


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Teletermografia: Questa tecnica ormai obsoleta veniva condotta con macchinari residuati di archeologia industriale e merita una menzione solo dal punto di vista storico. Una sonda registra le variazioni di temperatura lungo il muscolo, un computer trasforma queste variazioni in una scala di colori che viene riportata su uno schermo. Il risultato iconografico è entusiasmante ma la mancanza di specificità e la quantità di artefatti ne fa una tecnica inaffidabile e poco accurata. PRINCIPI DI TRATTAMENTO Il primo intervento mira a ridurre il sanguinamento locale a livello delle fibre danneggiate e di conseguenza controllare e minimizzare la formazione dell’ematoma contribuendo a diminuire l’edema ed il fenomeno infiammatorio. La riduzione del gonfiore favorisce la circolazione locale, diminuisce la sensazione algica velocizzando il recupero funzionale. Applicazione del freddo: la applicazione del freddo nella fase acuta della lesione riduce il sanguinamento e l’infiammazione causando vasocostrizione. Il freddo può essere applicato sotto forma di impacchi di ghiaccio od altri refrigeranti chimici. Linee guida: trattare la zona interessata per 15-20 minuti per due tre volte al giorno nelle le prime 48 ore dall’insorgenza della lesione. Evitare temperature estreme, interporre uno strato di tessuto od altro materiale tra impacco e cute per evitare di danneggiare quest’ultima, evitare di avvolgere in maniera cerchiante gli impacchi attorno alle estremità. Bendaggi compressivi: quando consentito dalla localizzazione anatomica dell’area interessata, un bendaggio compressivo rappresenta una scelta adeguata. Questo limita il movimento che può causare dolore sia in fase posttraumatica che post-operatoria, la limitazione del movimento aiuta a prevenire danno aggiuntivo. L’effetto compressivo del bendaggio riduce inoltre l’accumulo di fluidi ed il gonfiore locale rendendo il trattamento conservativo o chirurgico più agevole.

Trattamento antinfiammatorio: il trattamento antinfiammatorio riduce la miosite, di conseguenza rappresenta un passo essenziale nel trattamento delle lesioni muscolari in fase acuta. Farmaci antinfiammatori sia steroidei che non, sono stati tradizionalmente usati nel trattamento di queste lesioni per controllare il fenomeno infiammatorio e l’algia. Nonostante il beneficio prodotto dall’uso di FANS, ricerche recenti suggeriscono che il trattamento a lungo termine può creare ritardo nei processi di cicatrizzazione. A seconda dei casi possono inoltre essere utilizzati antinfiammatori per uso topico applicati in genere con leggero massaggio. In commercio esistono una vasta gamma di prodotti utilizzati sia in campo umano che equino, l’efficacia è più o meno variabile ed i risultati sono spesso anedottici. Il Dimetilsulfossido, da solo od in associazione con altre sostanze, rappresenta un ottima scelta per il trattamento locale delle lesioni muscolari, la sua azione è ancora non completamente ben definita ma la sua efficacia è ormai largamente accettata.

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Trattamento di condizioni specifiche Le lesioni da strappo di primo grado vengono trattate in maniera conservativa. Trattamento con impacchi freddi nelle prime 24 ore seguite da leggero massaggio sono in genere sufficienti, accompagnati da una combinazione di riposo per due settimane ed attività controllata. A seconda del caso possono essere usati FANS per 3/5 giorni. Le lesioni di secondo grado con rottura della fascia minore di 1 cm possono essere trattate come per il primo grado. In caso di lesione fasciale estesa, la riparazione chirurgica è raccomandabile soprattutto in soggetti ad alte prestazioni. Le lesioni di terzo grado devono essere trattate chirurgicamente. Il primo intervento consiste in impacchi freddi, bendaggio compressivo e terapia anti infiammatoria nelle prime 24 ore. Il periodo ottimale per la riparazione chirurgica è entro i primi 3 giorni dalla lesione. Dopo 4\5 giorni i capi muscolari si ritraggono rendendo la loro apposizione e sutura molto difficile. Lesioni muscolari di terzo grado guariscono se non trattate chirurgicamente, per interposizione di tessuto cicatriziale con notevole perdita di funzione.

LINEE GUIDA PER LA RIPARAZIONE CHIRURGICA DEL MUSCOLO Il muscolo è una struttura contrattile sottoposta a forze di trazione longitudinale che associate alla naturale scarsa capacità di resistere alla tensione delle suture, ne fa un tessuto difficile da riparare. Gli obbiettivi del trattamento chirurgico sono l’eliminazione dell’ematoma, la pulizia delicata dei capi danneggiati, la riparazione per apposizione termino-terminale dei capi separati eliminando cosi gli spazi morti fino ad ottenere un riallineamento anatomico della struttura. Per ottenere la massima rigenerazione il muscolo necessita di un buon apporto vascolare e di un substrato di cellule mioblastiche che possono provenire sia dallo stesso focolaio di lesione che da trapianto di tessuto muscolare denervato. Per questo motivo bisogna curettare con estrema delicatezza i capi danneggiati e bisogna rispettare l’apporto ematico. Tenere in considerazione le caratteristiche anatomiche del muscolo interessato; i muscoli possono essere mono-, bi- o multipennati. Questo significa che le loro fibre convergono in uno o più tendini i quali, insieme con porzioni fasciali adiacenti, rappresentano un eccellente ancoraggio per le stesse suture. I capi separati possono essere apposti con punti da materassaio orizzontali. Le suture possono essere alternate così da distribuire la tensione con punti brevi e lunghi, profondi e superficiali. Questo tipo di sutura può essere combinata con suture di Kessler modificate quando si vogliono includere capi tendinei a scopo di rinforzo o per rotture localizzate alla giunzione muscolo tendinea. Nel caso il muscolo danneggiato sia molto friabile e fornisca scarso ancoraggio per le suture, è possibile passare queste ultime su piccoli bottoni o porzioni di tubo di gomma o silicone. Per diminuire la tensione e facilitare il serraggio delle suture è conveniente flettere o addurre e abdurre l’arto.


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Raccomandazioni per il materiale da sutura Diametro USP da 0 a 3.0 Materiali: monofilamento, non riassorbibile come Nylon o Polipropilene, riassorbibile come PDS. Riassorbibile intrecciato come Poligalactin 910 o Acido Poliglicolico.

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Bibliografia 1. 2. 3.

Post operatorio Il ritorno alla funzione nel muscolo riparato chirurgicamente non è mai totale. Come dimostrato da studi sperimentali il muscolo recupera fino all’80 per cento della capacita contrattile ma solo il 50 per cento della sua forza tensile. È necessario fornire nel post-operatorio un periodo di immobilizzazione di 2\3 settimane cosi da consentire al collagene neoformato di sostenere lo stress della rimobilizzazione. Dopo questo periodo è necessario iniziare con protocolli riabilitativi ed esercizio controllato fino ad un evidente recupero clinico. Il processo di guarigione può essere monitorato ecograficamente. Alcune lesioni specifiche verranno presentate nel corso della relazione.

4. 4. 5. 6.

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Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Piras, The Willows, 44 Pound Road, Newry, BT358DT, Northern Ireland


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Fratture del cane in accrescimento Alessandro Piras Med Vet, Spec Chir Vet, MRCVS, Newry, Irlanda del Nord

Il tipo di lesione è una conseguenza diretta dell’ambiente in cui il cane vive e dell’attività che svolge. La maggior parte delle lesioni osservate durante le primissime settimane di vita possono essere causate dalla madre o dalle persone che si occupano dei cuccioli. Durante le ultime settimane del periodo di svezzamento, alcune cagne possono essere estremamente nervose o intolleranti ai tentativi dei cuccioli di raggiungere le ghiandole mammarie. La reazione che manifestano consiste nell’alzarsi rapidamente con movimenti improvvisi degli arti. Specialmente nelle razze di grossa taglia, l’energia sviluppata dal calcio è sufficiente a danneggiare gli arti dello sfortunato cucciolo che si trova vicino alla madre. Dopo 8 settimane di vita, se il cucciolo vive all’aperto, le lesioni possono essere causate da oggetti vari e materiali di recinzione presenti nel giardino o nei canili e, in misura minore, dalle collisioni fra cuccioli e contro gli stessi oggetti e recinti. All’interno di un ambiente domestico, qualsiasi cosa può rappresentare un rischio potenziale per un cucciolo vivace e giocherellone, che può cadere dalle scale o dall’alto, rimanere schiacciato in una porta, o, come avviene spesso, venire calpestato da bambini o proprietari che provocano a questi animali delle lesioni alle zampe. Quando il cane inizia ad uscire per le passeggiate nei parchi o lungo le vie, una causa molto comune e grave di lesione degli arti è rappresentata dagli incidenti stradali. Per comodità, il primo anno della vita di un cane può essere suddiviso in due periodi: un’età pediatrica, dalle prime settimane di vita a 4 mesi, ed una giovanile, da 4 a 12 mesi. Le lesioni durante il periodo giovanile possono essere estremamente gravi e nei cani destinati all’impiego agonistico possono arrivare a porre fine al potenziale sportivo dell’animale. Correndo nel giardino o nei parchi, il cane giovane impara a controllare il proprio equilibrio e la propria velocità, ma, sfortunatamente, la curva di apprendimento non è esente da rischi. Le collisioni alla massima velocità contro recinti, oggetti o compagni di gioco possono esitare in danni catastrofici che coinvolgono spesso più di un cane. Le lesioni più comunemente riscontrate durante il periodo giovanile sono rappresentate da fratture delle falangi e delle ossa lunghe, alterazioni dei dischi epifisari e fratture con avulsione delle origini o delle inserzioni legamentose.

LESIONI DELLA DIAFISI Le fratture diafisarie possono essere di due tipi; complete o incomplete.

Le fratture a legno verde della corticale sono molto comuni; si tratta di lesioni ossee incomplete in cui risulta scontinuato un solo lato della corticale, mentre quello opposto è solo incurvato, grazie all’elasticità ed alla plasticità dell’osso giovanile. Queste fratture tendono a guarire molto rapidamente per effetto del periostio, robusto e molto attivo. Il cucciolo può venire portato alla visita con un’anamnesi di zoppia con sottrazione totale o parziale dell’arto al carico. L’area colpita può mostrare vari gradi di deformazione, tumefazione e dolore locale, mentre lo scroscio è di solito assente. La diagnosi può essere molto difficile perché la zoppia scompare dopo pochi giorni e, nei casi di fratture non accompagnate da dislocazione dei capi ossei, può non essere semplice identificare la linea di frattura. Per giungere alla diagnosi, è necessario un approfondito esame clinico e radiografico (sono necessarie almeno due proiezioni). Nei casi in cui la deformazione è minima (inferiore a 5°) e la dislocazione è scarsa o del tutto assente, il trattamento consiste nell’associare alcune forme di immobilizzazione esterna, riposo e restrizione del movimento mediante confinamento in gabbia per 3-5 settimane. Data la rapida crescita degli animali giovani, è consigliabile il frequente monitoraggio radiografico del processo di guarigione. Il trattamento delle fratture complete varia in funzione dell’entità della deformità. Di solito, nei cani molto giovani (in età pediatrica) si raccomanda la riduzione ed immobilizzazione con ingessature o stecche, perché grazie alla loro età questi soggetti guariscono molto rapidamente. Le fratture diafisarie del radio e dell’ulna e quelle della tibia possono essere trattate con ingessature di vari materiali, preferibilmente fibra di vetro, bendaggi speciali come quello di Robert Jones semplice o modificato e stecche. Per le fratture localizzate al di sopra del gomito o del ginocchio, può essere sufficiente il metodo conservativo. La fissazione interna delle fratture diafisarie complete va impiegata negli animali più anziani (in età giovanile) e quando è assolutamente necessaria, come nel caso delle lesioni irriducibili ed in presenza di gravi deformità. Anche se le fratture complete nello scheletro che non ha ancora raggiunto la maturità possono essere trattate per la maggior parte come quelle che si verificano negli adulti, è essenziale tenere a mente gli effetti associati al procedere dell’accrescimento. Chiodi endomidollari, chiodi incrociati, chiodi di Rush, placche, viti o fissatori esterni non devono interferire con la normale crescita a livello dei dischi epifisari, né limitarla. Un fattore limitante nella scelta dell’impianto è rappresentato dalla notevole sottigliezza delle corticali e dalle


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grandi dimensioni della cavità endomidollare dei cuccioli in crescita, soprattutto nelle razze di grossa taglia e giganti. Spesso si utilizza la fissazione interna con l’inserimento di chiodi multipli, chiodo associato a placca o placche applicando i principi della fissazione biologica oppure si utilizza la fissazione esterna. Uno dei limiti di quest’ultima tecnica è la mancanza di tenuta dei chiodi lisci o a filetto negativo sulle corticali morbide e sottili dei giovani cani in accrescimento; questo è il motivo per cui, ogni volta che sia possibile, si raccomanda l’impiego di chiodi filettati a profilo positivo. Nei casi in cui risulta applicabile, la configurazione tie-in contribuisce a stabilizzare l’impianto, riducendo la tensione a livello dell’interfaccia fra chiodo e corticale.

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Trattamento chirurgico

Le fratture che coinvolgono il disco epifisario vengono distinte in 5 tipi, come descritto nella classificazione di Salter-Harris. La diagnosi può essere molto difficile, perché la dislocazione può variare da minima ad assente. I segni clinici tipici sono rappresentati da dolore, tumefazione ed eventualmente deformità vicino all’estremità di un osso lungo. L’accurato esame clinico deve comprendere la palpazione dell’area interessata, la valutazione del grado di deviazione dell’epifisi dalla metafisi ed il confronto con l’arto controlaterale. L’esame radiografico consiste nella ripresa di immagini in proiezioni standard ed oblique, la cui interpretazione può essere difficoltosa quando i riscontri presenti sono minimi; anche in questo caso, la radiografia dell’arto controlaterale può contribuire a valutare l’area epifisaria confrontando la parte normale con quella sospetta.

È essenziale un’accurata selezione della tecnica di fissazione ed il pronto intervento chirurgico, in particolare nelle fratture di tipo III e IV. Generalmente, si ammette che i piccoli fili di Kirschner lisci e applicati perpendicolarmente al disco epifisario rappresentino una forma ideale di fissazione interna. Negli animali immaturi, grazie alla velocità di guarigione, è ammissibile in quanto sufficiente, l’impiego di impianti leggermente sotto dimensionati. La fisi non deve mai essere compressa, per cui viti, chiodi filettati, chiodi di Rush, cerchiaggi di tensione, placche e fissatori esterni sono teoricamente da evitare. Se l’uso di questi dispositivi ortopedici è inevitabile, bisogna rimuoverli non appena si sia ottenuta l’unione, di solito dopo 3-4 settimane. La mancata rimozione precoce degli impianti può portare alla chiusura prematura della cartilagine di accrescimento con accorciamento e/o deformità degli arti. È necessario manipolare delicatamente la parte durante la riduzione e rispettare la vascolarizzazione della fisi, evitando quando possibile di fare leva con troppa forza e di esercitare trazioni eccessivamente energiche con strumenti di prensione come pinze da riduzione. Un trattamento chirurgico aggressivo può danneggiare ulteriormente il delicato disco epifisario. Se il trattamento viene effettuato entro le prime 24-48 ore dalla lesione la riduzione risulta più facile, mentre a distanza di pochi giorni può diventare problematica o impossibile. I cani ai quali vengono richieste prestazioni fisiche elevate, come i levrieri da corsa, tollerano ben poco l’imperfetto allineamento degli arti, perché è improbabile che le possibili deformità in varo o valgo siano compatibili con la carriera di sportiva.

Principi di trattamento

Conclusione

La precocità del trattamento, la delicatezza delle manipolazioni durante la riduzione e l’impiego di un metodo di stabilizzazione che non interferisca con il dinamismo del disco di accrescimento sono le chiavi del successo nel trattamento delle lesioni fisearie. Nelle fratture della fisi di tipo I o II situate distalmente al ginocchio ed al gomito, caratterizzate da minima dislocazione, è possibile adottare un trattamento di tipo conservativo mediante ingessatura o stecche; nelle razze con arti lunghi, l’applicazione di queste ultime, oltre che facile, è anche indicata. Bisogna tenere comunque a mente che le forze di compressione e leva applicate durante la riduzione a cielo chiuso possono danneggiare la fisi e che la inaccurata riduzione può esitare in un allineamento inadeguato, aumentando in entrambi i casi il rischio di deformità; per queste ragioni, il trattamento conservativo è più indicato negli animali anziani con scarso potenziale di crescita residua. Le fratture di tipo III e IV sono intrarticolari; in questo caso, è indicato il trattamento chirurgico. Nella pianificazione pre operatoria il chirurgo deve considerare che la classificazione di Salter Harrys è basata esclusivamente sull’aspetto radiografico della lesione e non esprime la gravita del danno a livello della fisi e di conseguenza non ha proporzionale valore in termini prognostici.

Le comuni complicazioni della riparazione delle fratture nei cani giovani possono essere di minore entità, come l’accorciamento di un segmento osseo (che viene comunque ben tollerato), oppure più gravi, come le deformazioni degli arti, i difetti di allineamento, le deformazioni rotazionali, le contratture muscolari e, per il femore, il mancato sviluppo del collo femorale con sublussazione della testa dell’osso. Sfortunatamente, troppo spesso la responsabilità di queste complicazioni è da imputare al chirurgo, responsabile di errori di pianificazione, tecnica operatoria scadente, scelta sbagliata degli impianti e selezione inadeguata del tipo di fissazione in relazione al tipo di proprietario ed alle caratteristiche del cane.

LESIONI DEL DISCO EPIFISARIO

LESIONI PARTICOLARI Fratture delle ossa lunghe Fratture del femore e dell’omero: non sono molto comuni e di solito sono caratterizzate da dislocazione minima; i principi di trattamento sono quelli descritti più sopra. La prognosi varia secondo il grado di deformazione ed accorciamento residui.


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Fratture di radio ed ulna: sono più comuni di quelle del femore e dell’omero. Mentre negli adulti sono di solito dislocate o esposte, nei cuccioli tendono ad essere incomplete o complete, con una dislocazione minima. I principi di trattamento sono quelli sopradescritti. Le fratture della tibia, secondo l’esperienza dell’autore, sono le più comuni fra quelle delle ossa lunghe in età pediatrica e giovanile. Possono essere incomplete o complete, con vari gradi di dislocazione. Nonostante l’aspetto drammatico di alcune di esse, sono facili da ridurre grazie alla scarsità di tessuti molli che circondano l’area e si possono trattare senza difficoltà. Nelle fratture non dislocate, gli eccellenti risultati che si riescono ad ottenere con una semplice associazione di ingessatura a breve termine e riposo in gabbia possono essere impressionanti. Le fratture complete nei cani in età giovanile, specialmente quando è presente una dislocazione, richiedono un trattamento chirurgico mediante riduzione a cielo aperto o a cielo coperto ed una fissazione interna o esterna adeguata al singolo caso ed alle preferenze del chirurgo. Le fratture della scapola sono molto comuni, di solito come conseguenza di collisioni e traumi stradali. A seconda della gravità della frattura, il cane può venire portato alla visita con una lieve zoppia o con sottrazione dell’arto al carico. È sempre presente una tumefazione, associata a dolore alla palpazione dell’area colpita. La maggior parte delle fratture scapolari può essere trattata in modo conservativo con il riposo in canile per 4-6 settimane seguito da un lieve esercizio fisico controllato per altre 2 settimane. Ci si può aspettare un certo grado di atrofia dei muscoli infraspinato e sopraspinato, che regredirà non appena il cane riprenderà l’esercizio. Il trattamento chirurgico è riservato alle fratture che coinvolgono l’area sopraglenoidea, a quelle con avulsione dell’acromion ed a quelle che coinvolgono la spina con gravi deformità. La prognosi varia di solito da ottima ad eccellente; per le fratture intrarticolari è in genere sfavorevole. Le fratture della rotula non sono molto comuni, ma possono essere devastanti e porre fine alle prospettive atletiche del cane colpito. Derivano da collisioni e possono essere altamente comminute, determinare piccoli distacchi parcellari localizzati a livello dell’origine del tendine rotuleo oppure essere intrarticolari. La rimozione dei frammenti, il curettage della lesione e la riparazione delle fibre danneggiate del tendine costituiscono il trattamento d’elezione delle fratture semplici. La prognosi è solitamente buona. Per le fratture più complicate, scelte su base individuale, può valere la pena di effettuare un tentativo di fissazione interna; al momento attuale i dati disponibili sono insufficienti per definire la prognosi. Secondo l’esperienza dell’autore, le fratture del metacarpo/metatarso non sono comuni. Quando si verificano nel cucciolo, sono dovute al fatto che il piede viene sottoposto ad una leva eccessiva dopo essere stato intrappolato in una buca o in un recinto, un giaciglio o altri oggetti. Di solito, è coinvolto più di un osso e la dislocazione può essere grave. La scelta fra il trattamento conservativo oppure chirurgico dipende dal numero di ossa coinvolte e dal grado della dislocazione. Le fratture delle falangi sono estremamente comuni. In genere, sono colpite la prima e la seconda. La frattura può essere spirale ed interessare la diafisi, oppure coinvolgere la cartilagine di accrescimento distale con una lesione di ti-

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po I o II di Salter-Harris. Il trattamento conservativo mediante applicazione di stecche o bendaggi di solito è molto efficace. Nei cuccioli già più adulti e quando è presente una grave dislocazione è indicato il trattamento chirurgico mediante fissazione con mini viti (1.5mm) ad effetto compressivo, cerchiagli o, specie in soggetti di taglia gigante, mini placche. Avulsione della cresta tibiale: si tratta di una lesione molto comune e ben riconosciuta nei levrieri da corsa soprattutto Greyhound e nei Whippet. L’avulsione acuta si verifica di solito in cani di età compresa fra 3 e 6 mesi. Può esistere una predilezione su base sessuale per i maschi e si sospetta una predisposizione ereditaria. L’eziopatogenesi dell’avulsione della tuberosità tibiale è ancora controversa; sono state formulate parecchie teorie, dalla necrosi ischemica epifisaria al microtrauma cronico ed al trauma acuto. L’avulsione può essere parziale, spesso bilaterale o acuta, di solito monolaterale. I segni clinici sono rappresentati da zoppia, tipica andatura con ginocchio rigido e tumefazione di grado variabile nella regione craniale del ginocchio, con dolore durante la palpazione diretta della tuberosità. Se il cane viene esaminato nei primi giorni successivi all’evento patologico, è possibile rilevare un’instabilità macroscopica della tuberosità tibiale. Il trattamento conservativo risulta appropriato nei casi caratterizzati da una separazione molto piccola con dislocazione minima o nelle lesioni croniche stabili già in fase di guarigione. Il trattamento conservativo consiste in 3 settimane di riposo in canile; in alcuni casi può essere necessaria l’applicazione di un bendaggio di Robert-Jones per i primi 710 giorni. Il trattamento chirurgico è indicato nell’avulsione acuta con dislocazione o quando sono presenti altre fratture concomitanti che interessano la rotula o il plateau tibiale. La correzione precoce e la riduzione accurata sono di importanza vitale. Come impianti si utilizzano due fili di Kirschner diretti attraverso la tuberosità nella metafisi tibiale, inseriti parallelamente alla fisi prossimale; per ottenere una maggiore stabilità è possibile realizzare un cerchiaggio di tensione a 8 in filo metallico. È essenziale rimuovere subito gli impianti, dopo 3-4 settimane, specialmente se si utilizza il cerchiaggio di tensione. Le cure postoperatorie consistono nel confinamento in canile fino alla rimozione degli impianti. Successivamente, si incoraggia per 5-6 settimane l’esercizio precoce in un recinto. La prognosi è di solito buona, ma risulta influenzata dalla complessità della lesione. Sono state descritte parecchie complicazioni quali la non unione secondaria a cedimento degli impianti, la deformazione e la traslocazione distale della cresta tibiale dovuta alla chiusura prematura della fisi.

Bibliografia disponibile a richiesta presso l’autore.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Piras, The Willows, 44 Pound Road, Newry, BT358DT, Northern Ireland


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Fratture di radio e ulna: trattamento nell’atleta di elite Alessandro Piras Med Vet, Spec Chir Vet, MRCVS, Newry, Irlanda del Nord

Fratture di Radio ed Ulna sono con poche eccezioni di origine traumatica, provocate in genere da cadute o salti durante la attività atletica,collisioni contro oggetti fissi od altri cani, traumi stradali, ed ancora, una combinazione tra intrappolamento e leva dell’arto in buchi, ostacoli e reti di recinzione. Nei soggetti da caccia, da difesa e nei cani utilizzati dalle forze dell’ordine la frattura del Radio ed Ulna può essere causata da colpo di arma da fuoco. Nella popolazione canina da compagnia, le fratture del radio e dell’Ulna sono molto frequenti, fino al 18 per cento di tutte le fratture in accordo con la letteratura. Le fratture diafisarie sono le piu` frequenti, con localizzazione al terzo medio o distale nella maggioranza dei casi. Il grado di comminuzione e di dislocazione dipende dalla natura del trauma, le fratture provocate da cadute durante la corsa o leve, sono generalmente semplici o con un frammento a farfalla che interessa l’aspetto mediale del Radio. Le fratture provocate da traumi ad alta velocità e collisioni possono assumere gli aspetti piu svariati con gradi di comminuzione piu o meno severi. A causa della scarsa copertura muscolare del Radio medio e distale, queste fratture si presentano spesso esposte con la porzione del moncone prossimale che penetra la cute. Per la suddetta ragione, specie nei soggetti a pelo lungo, è necessaria una accurata visita clinica per escludere la presenza di ferite cutanee anche di minima entità.Quando è possibile palpare i monconi di frattura direttamente sulla cute è necessario trattare la frattura come se fosse contaminata per via della permeabilità della cute lesionata. Le fratture diafisarie di Radio ed Ulna sono considerate da alcuni Autori tra le piu facili da trattare sia in maniere conservativa che chirurgica a seconda dei casi,offrendo con poche eccezioni una prognosi per il ritorno alla attività sportiva da buona ad ottima. Le Fratture diafisarie di Radio ed Ulna in soggetti in accrescimento e giovani possono, in casi selezionati, essere trattate in maniera conservativa con bendaggio gessato o docce palmari e confinamento. La scelta conservativa si addice per fratture semplici non scomposte e dove sia possibile ottenere, sotto anestesia generale, una buona riduzione ed un allineamento soddisfacente. Il trattamento chirurgico offre una vasta gamma di scelte, dalla fissazione interna con viti e placche, alla fissazione esterna lineare o circolare. Regole d’oro: La scelta della tecnica deve assolutamente tenere in considerazione diversi fattori tutti ugualmente importanti: la familiarità del chirurgo verso la tecnica scelta, la dispo-

nibilità di strumentario specialistico e degli impianti, la tipologia della frattura, la natura del soggetto da trattare, le finanze e la capacita del proprietario di capire la natura del trattamento e le sue responsabilità nel post operatorio, il tipo di attività sportiva del paziente e le aspettative in termini prognostici. Il trattamento per riduzione chirurgica e fissazione interna con placca si avvale di una vasta selezione di impianti a seconda della taglia del paziente. In genere la scelta è per placche da 2.7 e 3.5 DCP o VCP(placca veterinaria tranciabile Syntes) da 2.0\2.7. Dopo riduzione della frattura la placca viene applicata sia in compressione che neutralizzazione sull’aspetto cranio mediale o mediale del Radio cosi da non interferire con le strutture tendinee degli estensori. In cani ad alte prestazioni come Greyhound ed altri levrieri da corsa, soggetti iper attivi o di grossa taglia, la riparazione viene rinforzata con placca applicata sull’aspetto caudale o laterale dell’Ulna. Questa tecnica, largamente utilizzata nei Greyhound da corsa, consente una riparazione robusta con formazione minima di callo e soprattutto, garantendo una perfetta riduzione anatomica dell’Ulna diminuisce il rischio di formazione di sinostosi tra questa ed il Radio. Il posizionamento della placca sull’aspetto dorsale del Radio va evitata in quanto produce invariabilmente una diminuzione del grado di flessione del Carpo di 10 gradi. A seconda della taglia del soggetto è possibile utilizzare le VCP da 2.0/2.7 sovrapposte a wafer; questa tecnica si rivela molto utile in soggetti con Radio molto sottile e lungo come nei Whippet in cui la placca si adatta perfettamente all’aspetto mediale e cranio mediale dell’osso. Nel post operatorio si suggerisce il confinamento in gabbia o spazi ristretti con esercizio controllato per 6\8 settimane. In soggetti iper attivi si consiglia la applicazione di un bendaggio di Robert Jones rinforzato o di un bendaggio supportato da doccia palmare per le prime 3 settimane in aggiunta alle misure sopradescritte. Il controllo radiografico per il monitoraggio della guarigione ogni 2/3 settimane fornirà dati necessari per stabilire la misura ed i tempi per il ritorno alla attività. La rimozione degli impianti non è generalmente necessaria a meno che questi creino dei problemi. Il rischio di protezione da stress e rimodellamento con predisposizione a frattura della interfaccia tra osso e placca, come descritto da Glennon ed Altri è minimo. La rimozione delle placche è invece necessaria in soggetti ad alte prestazione come i Greyhound da corsa. La rimozione deve essere eseguita non appena sono visibili ca-


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ratteristici segni radiografici di guarigione, i tempi sono variabili, 4\6 settimane come suggerita da R.E. Wells o 8\9 settimane come suggerito da altri Autori. È fondamentale eseguire una precisa valutazione del controllo radiografico per stabilire correttamente i tempi ed evitare il rischio di ri frattura, specie quando la perfetta riduzione e compressione interframmentaria non consentono lo sviluppo di callo. Nel dubbio meglio eccedere in prudenza. Dopo rimozione degli impianti è comunque raccomandabile un graduale ritorno alla attività accompagnato da esercizi riabilitativi volti a ricostituire la muscolatura ed a riottenere un normale grado di movimento del Carpo. Le fratture diafisarie di Radio ed Ulna possono essere trattate con la fissazione esterna lineare, generalmente impianti di tipo IA ed IB, con fissatori circolari con la metodica di Ilizarov, oppure con impianti di tipo ibrido che accoppiano le due metodiche sopra descritte. Queste tecniche, in mani esperte ed in casi selezionati forniscono in genere risultati eccellenti e rappresentano le tecniche di scelta in caso di fratture altamente comminute o fratture esposte. Il chirurgo deve tenere a mente che nonostante gli indubbi vantaggi, la fissazione estera richiede un elevato livello di cura durante il post operatorio, con frequenti controlli e possibili revisioni. La scelta del Paziente|&Cliente idoneo è vitale onde evitare conseguenze disastrose.

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La responsabilità per il fallimento nella riparazione di queste fratture cosi come le complicazioni giace spesso ai piedi del chirurgo colpevole di non avere rispettato le cosi dette “regole d’oro”. Per concludere: “I germi non amano i bravi Chirurghi” G.Clayton-Jones

Bibliografia 1. 2.

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Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Piras, The Willows, 44 Pound Road, Newry, BT358DT, Northern Ireland


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Patologie degli ureteri Guido Pisani Med Vet, La Spezia

Elisabetta Vasconi Med Vet, Torino

Claudio Penazzi, Med Vet, Imola

Anatomia chirurgica Gli ureteri sono strutture tubulari retroperitoneali che partono dalla pelvi renale e raggiugono la vescica, decorrono in posizione paravertebrale a contatto con i muscoli psoas; dorsalmente ai vasi spermatici interni nel maschio e alla vena ed arteria utero-ovarica nella femmina. Passano ventralmente alle arterie e vene iliache circonflesse profonde e iliache esterne. Nel maschio corrono dorsalmente ai dotti deferenti, a 2 centimetri dalla giunzione di questi con il collo vescicale; entrano poi tra i due strati di peritoneo che formano il legamento largo della vescica e raggiungono la vescica in posizione dorso-laterale, immeditamente caudale al suo collo. Nella femmina raggiungono il legamento laterale della vescica dopo essersi associati con il legamento largo dell’utero. Gli ureteri entrano nella vescica obliquamente e formano la base del trigone vescicale. L’apporto ematico agli ureteri è dato dall’arteria renale cranialmente e dall’arteria prostatica o vaginale caudalmente. Le arterie craniali e caudali si anastomizzano a livello dell’avventizia ureterale. L’innervazione degli ureteri proviene dai plessi celiaco e pelvico. La progressione dell’urina dal rene verso la vescica avviene per movimenti peristaltici della muscolatura liscia che sono stimolati da un pacemaker a livello di ilo renale.

Patologie ureterali Patologie congenite: 1) uretere ectopico; 2) ureterocele; 3) agenesia ureterale; 4) duplicazione ureterale. Patologie acquisite: 1) traumi; 2) ostruzioni; 3) tumori.

URETERE ECTOPICO L’ectopia ureterale è una malformazione congenita in cui uno o entrambi gli ureteri terminano in una sede diversa dal trigono vescicale.Le sedi più comuni dello sbocco degli ureteri ectopici sono la vagina (70%), l’uretra (12%), il collo della vescica (8%) e l’utero (3%). Nella sua porzione vescicale, il percorso dell’uretere ectopico può essere extramurale, quando oltrepassa completamente la vescica oppure, più frequentemente, intramurale. In quest’ultimo caso l’uretere arriva a livello del trigono vescicale, non si apre nel lume vescicale, ma decorre sotto la mucosa della parete della vescica, per poi terminare in sede anomala; oppure, si apre nel lume vescicale, nella sede normale, continuando distalmente il suo percorso fino ad una ulterirore apertura nell’uretra o a un fondo cieco. L’esatta incidenza dell’uretere ectopico al momento non è conosciuta. È comunque diagnosticato 20-25 volte più frequentemente nella femmina rispetto al maschio. L’uretere ectopico si osserva con una prevalenza più elevata in alcune razze: Siberian Husky, Golden Retriever, Labrador Retriever, Terranova, West Highland White Terrier, Fox Terrier e Barboncini nani. Il carattere congenito dell’affezione è dimostrato, mentre è solo sospettato il suo carattere ereditario. Sintomatologia Incontinenza urinaria, “imbrattamento” e odore urinoso del pelo, irritazione cutanea nella zona perivulvare. Diagnosi La diagnosi di ectopia ureterale è prima di tutto una diagnosi di sospetto, basata sull’anamnesi e sull’esame clinico. L’urografia discendente è il metodo più comunemente utilizzato per confermare la diagnosi di uretere ectopico e per rilevare l’eventuale presenza di altre anomalie. Altri mezzi diagnostici sono l’ecografia, l’urografia ascendente e la cistoscopia. Terapia La chirurgia rappresenta il trattamento di elezione per la correzione dell’uretere ectopico e la scelta della tecnica chirurgica dipende dal suo decorso distale. Le opzioni chirurgiche sono: uretere intramurale → neoureterostomia uretere extramurale → ureteroneocistotomia


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Complicanze l’edema e l’infiammazione post-operatori, o la presenza di coaguli, possono determinare l’ostruzione dell’uretere reimpiantato. stenosi della giunzione ureterovescicale. incontinenza post-operatoria. infezioni del tratto urinario. URETEROCELE L’ureterocele è una dilatazione cistica congenita dello strato sottomucosale dell’uretere distale,che non trae origine da stenosi, ostruzioni o da un orifizio ureterale imperforato. Patologia rara nei p.a. In base ai rapporti tra la localizzazione anatomica della cisti e l’apertura ureterale si distinguono due tipi di ureterocele: 1) ortotopico (o semplice o intravescicale); 2) ectopico. Sintomatologia L’ortotopico è spesso asintomatico, anche se si possono osservare dolore cronico o intermittente, ematuria, stranguria, infezione delle vie urinarie. Se raggiunge grandi dimensioni può portare a uremia e idronefrosi. L’ectopico è sempre associato a uretere ectopico; è caratterizzato da parziale o totale ostruzione del deflusso urinario (uremia, idronefrosi, infezione delle vie urinarie). Diagnosi Si basa sull’esame radiografico con mezzo di contrasto (urografia discendente e uretrocistografia) o sull’esame ecotomografico: viene evidenziata una cavità a parete molto sottile ripiena di liquido all’interno della vescica o dell’uretra. Terapia Varia in base alla presentazione anatomica e clinica. 1) Uretere ortotopico: nei casi clinici che lo richiedano si esegue una resezione intravescicale. Nel caso sia presente un reflusso vescicoureterale si pratica una neoureterocistostomia. 2) Uretere ectopico: la chirurgia delle basse vie urinarie è costituita da escissione chirurgica dell’ureterocele, neoureterocistostomia e ricostruzione della vescica e/o dell’uretra. TRAUMI URETERALI I traumi a carico degli ureteri sono patologie rare; ciò è spiegabile considerando le loro catteristiche anatomiche: per gran parte della loro lunghezza sono protetti dalla colonna vertebrale e dai muscoli lombari, ed inoltre sono mobili. Le cause possono essere: • traumatiche contusive o penetranti; • iatrogene: durante interventi chirurgici (spt ovarioisterectomie) o laparoscopici; • secondarie a fenomeni ostruttivi da calcoli, neoplasie, fibrosi o restringimenti. Sintomatologia I sintomi sono riferibili a uremia e peritonite; nel caso dei traumi non sono facilmente interpretabili perché possono essere attribuiti a lesioni a carico di altri organi addominali. In caso di rottura degli ureteri la palpazione dell’addome può evidenziare masse liquide fluttuanti.

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Diagnosi L’urina fuoriuscita dagli ureteri danneggiati si può raccogliere in cavità addominale oppure nello spazio retroperitoneale, che può apparire aumentato di volume e radiopaco. In alcuni casi (per perdite croniche e lente) si possono originare delle raccolte capsulate che prendono il nome di urinoma (pseudocisti urinifera, pseudocisti paraureterale). L’esame radiografico con mezzo di contrasto (spt urografia discendente) permette spesso una localizzazione della rottura ed inoltre consente di valutare attentamente l’integrità anatomica e funzionale dei reni e dell’altro uretere. La T.A.C. con mezzo di contrasto è la migliore tecnica diagnostica, potendo eliminare gli artefatti o le interferenze causate dalle altre strutture addominali. Terapia La terapia è essenzialmente chirurgica; la scelta della tecnica da attuare è influenzata da vari fattori: • tempo intercorso tra l’evento e la diagnosi: il contatto prolungato dei tessuti retroperitoneali con l’urina può portare alla loro macerazione; • gravità/estensione delle lesioni; • localizzazione del trauma: identificarla perfettamente è fondamentale prima di pianificare la chirurgia; • interessamento di uno o di entrambi gli ureteri. Le opzioni chirurgiche sono: 1. anastomosi ureterale; 2. neoureterocistostomia; 3. ureteroplastica con lembo vescicale; 4. nefroureterectomia; 5. sostituzione dell’uretere; 6. posizionamento di uno stent ureterale con o senza drenaggio nefrostomico. Complicazioni frequenti della chirurgia ureterale sono l’idronefrosi, l’idrouretere e i restringimenti del lume. Per cercare di ridurle al minimo occorre manipolare i tessuti nella maniera più delicata possibile, creare una perfetta apposizione degli strati da suturare, attuare eventualmente una deviazione temporanea dell’urina. OSTRUZIONI URETERALI L’ostruzione ureterale può essere causata da fattori intraluminali (urolitiasi, coaguli, neoplasie) e da fattori extraluminali (fibrosi, processi infiammatori, traumi, corpi estranei, neoplasie). La calcolosi ureterale viene diagnosticata con sempre maggiore frequenza, anche se è spesso un reperto occasionale. L’ostruzione (completa o parziale) è una patologia che può presentarsi senza sintomatologia (spt se viene colpito solo un uretere), così come può portare a quadri molto gravi come l’idronefrosi, la pielonefrite, la setticemia e la morte. Sintomatologia Stranguria, ematuria, infezione delle vie urinarie. Diagnosi Si basa sull’esame ecotomografico,l’urografia discendente, la T.A.C. con mezzo di contrasto. Queste indagini evidenzieranno uno stato di idronefrosi e di dilatazione ureterale prossimale all’ostruzione


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Terapia Nel caso di calcolosi ureterale la tecnica d’elezione (spt per calcoli non mobili) è la ureterotomia. Può essere combinata con un drenaggio nefrostomico per ottenere una diversione dell’urina. Complicazioni frequenti sono i restringimenti e le deiescenze. In caso di calcoli mobili si possono eseguire lavaggi ureterali per portare gli uroliti in vescica o a livello di pelvi renale, per poi eseguire una cistotomia o una pielolitotomia. Una terza scelta può essere la nefroureterectomia. NEOPLASIE URETERALI I tumori primari degli ureteri sono rarissimi nel cane e nel gatto. Nel cane sono stati descritti: • papilloma, • leiomioma, • leiomiosarcoma primario, • carcinoma a cellule transizionali. L’uretere distale può essere invaso dal carcinoma a cellule transizionali della vescica. Sintomatologia I sintomi sono riferibili a idronefrosi. Spesso è presente ematuria. Diagnosi Si basa sull’esame ecotomografico e sull’urografia discendente. Terapia Nefroureterectomia (se neoplasie confinate al solo uretere)

Conclusioni Le patologie ureterali sono rare, ma comunque vanno sempre considerate tra le possibile cause di incontinenza urinaria, stranguria, ematuria, uremia, infezioni delle vie urinarie osservate soprattutto in soggetti neonati o in fase di svezzamento (per le forme congenite), ed in pazienti adulti (traumatizzati e non). La soluzione di queste patologie è spesso di tipo chirurgico: non bisogna assolutamente dimenticare che la programmazione di interventi sugli ureteri deve essere sempre preceduta da un’attenta valutazione della buona funzionalità dei tratti urinari superiori. Ciò richiede un’attenta diagnostica per immagini, che può andare dall’urografia discendente o dall’esame ecografico dell’addome fino alla T.A.C. con mezzo di contrasto o alla scintigrafia nucleare (l’esame più attendibile anche se poco diffuso in Italia). L’intervento chirurgico, come spesso accade, è solo la prima parte di una terapia che spesso richiede per le infezioni urinarie secondarie trattamenti antibiotici mirati (esami colturali, antibiogrammi) prolungati, controlli frequenti per

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verificare eventuali restringimenti del canale ureterale (esiti frequenti di chirurgie ricostruttive) che conducono ad alterata funzionalità renale.

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Indirizzo per la corrispondenza: Elisabetta Vasconi Centro Veterinario Torinese Lungo Dora Colletta, 147 10153 Torino


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Profilassi della parvovirosi nel cane: attualità e prospettive Annamaria Pratelli Med Vet, Bari

Il parvovirus del cane tipo 2 (CPV2), comparso quale agente causale di una grave enterite emorragica del cane nel 1978, tra il 1979 ed il 1984 ha subito alcune modifiche antigeniche ed è stato completamente sostituito dalle varianti, CPV2a e CPV2b. La variante CPV2a differisce dal tipo antigenico originario in alcuni epitopi riconosciuti dagli anticorpi monoclonali, mentre la seconda variante, CPV2b, è caratterizzata dalla perdita di un epitopo di neutralizzazione. Nel corso degli ultimi anni CPV2 ha subito una ulteriore “evoluzione antigenica” e la nuova variante, CPV2c, presenta la sostituzione di un singolo aminoacido della proteina del capside VP2. L’evoluzione antigenica di CPV2 pone diversi quesiti sul ruolo patogeno delle varianti (modificazioni dello spettro d’ospite, aumentata virulenza, ecc.) e, soprattutto, sulla capacità dei vaccini tradizionali, allestiti con lo stipite originale CPV2, di assicurare una buona protezione anche nei confronti delle varianti. Fino a qualche tempo fa si riteneva che i vaccini in commercio fossero completamente efficaci anche nei confronti delle varianti. Tuttavia, recenti ricerche hanno dimostrato che lo stipite originale CPV2 è in grado di sviluppare un alto grado di immunità solo nei confronti del virus omologo vaccinale, mentre i titoli anticorpali nei confronti della variante CPV2b sono significativamente inferiori. Questi dati pongono molti interrogativi sulle strategie da adottare in futuro per una sempre più efficace profilassi della parvovirosi del cane.

Indirizzo per la corrispondenza: Annamaria Pratelli Department of Animal Health and Well-being Strada per Casamassima Km 3 70010 Valenzano - Bari - Italy Tel: +39/080/4679833 Fax: +39/080/4679843 e-mail: a.pratelli@veterinaria.uniba.it

IL CORONAVIRUS DEL CANE: UN PATOGENO EMERGENTE Il ruolo del coronavirus del cane (CCoV) quale agente enteritogeno sta diventando sempre più importante. La diffusione di questo virus è stata per molto tempo sottostimata e a CCoV per anni è stato attribuito un ruolo di scarsa importanza nel determinismo delle gastroenteriti in quanto, a fronte di elevate percentuali di positività sierologica, gli isolamenti da campioni di feci erano limitati anche in ragione delle difficoltà di isolare il virus su colture cellulari in quanto CCoV si adatta poco alla replicazione in vitro. I test PCR messi a punto di recente hanno permesso di acquisire importanti informazioni di tipo epidemiologico sulla reale diffusione dell’infezione da CCoV nella popolazione canina e sulle caratteristiche genomiche di questo virus. L’analisi completa dei geni che codificano per le proteine S e M di CCoV ha messo in evidenza l’esistenza nel cane di un nuovo genotipo virale molto simile al coronavirus felino tipo I, FCoV tipo I, ed indicato come CCoV tipo I, mentre il virus “classico” come CCoV tipo II. Ricerche mirate devono essere indirizzate alla valutazione del significato clinico, patologico e immunologico di questo genotipo di CCoV.


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Possibilità di impiego di nutraceutici in medicina veterinaria Liviana Prola Med Vet, Torino

Pier Paolo Mussa, Med Vet, Dipl ECVCN, Torino

RIASSUNTO Negli ultimi anni, analogamente a quanto si è riscontrato nella medicina umana, anche nella medicina veterinaria si è diffusa la cosiddetta “nutrimedicina”. I “nutraceutici”, come dice il termine, è un tipo di prodotto che sta a metà strada tra l’alimento e il farmaco. I precursori di questa categoria sono stati gli integratori a base di calcio, fibra e olio di pesce. Attualmente la lista di prodotti che hanno un valore medico (o presunto tale) si è rapidamente allungata fino ad includere molti alimenti o parti di essi. Nonostante esistano prodotti non facilmente catalogabili, in questo lavoro si è cercato di individuare le principali categorie di nutraceutici destinate agli animali da compagnia e di descriverne a grandi linee le utilità.

INTRODUZIONE Fin dai tempi più antichi alcune sostanze (erbe, minerali, ecc.) sono state avvolte nel mistero o addirittura venerate come sacre per il loro “potere salutare”. La medicina “classica” ha preso poco in considerazione questo aspetto di alcuni alimenti. Solo in tempi recentissimi, medici e nutrizionisti hanno iniziato ad interessarsi alla cosiddetta “nutrimedicina”. Questo fenomeno non poteva non coinvolgere l’ambito degli animali da compagnia e, pertanto, gli ambulatori veterinari e i negozi specializzati negli ultimi anni sono stati interessati dall’avvento dei cosiddetti “nutraceutici” che, analogamente a quanto è successo per l’alimentazione umana, si sono largamente diffusi anche nel nostro paese. Inoltre, spesso questi prodotti, negli animali da compagnia, vengono utilizzati, per analogia, sulla base degli effetti documentati nell’uomo senza che vi sia un vero e proprio riscontro in medicina veterinaria. Intorno a questi prodotti si è venuta a creare molta confusione innanzitutto a partire dalla terminologia. Il termine, inizialmente, fu coniato in modo da riferirsi a sostanze che possono essere somministrate oralmente (come il cibo) per migliorare la salute ma che non sono farmaci. La Food and Drug Administration (FDA) definisce: “cibo” una sostanza che fornisce nutrimento, gusto o aroma. Mentre è definito “farmaco” una sostanza in grado

di trattare, curare, mitigare o prevenire gli stati patologici. I nutraceutici sono sostanze che si trovano a metà strada fra queste due categorie. Il North American Veterinary Nutraceutical Council definisce “nutraceutico veterinario” una sostanza prodotta in forma purificata o estratta e somministrata oralmente ai pazienti al fine di fornire loro sostanze richieste dalla normale struttura e fisiologia corporea con l’intento di migliorare la salute e il benessere degli animali1. Tra le sostanze che più comunemente ritroviamo in questo tipo di prodotti abbiamo:

Piante ed erbe Gli estratti vegetali sono usati efficacemente da migliaia di anni per curare vari disturbi, grazie ai principi attivi in essi contenuti. È comunque sempre importante ricordare che in medicina veterinaria la letteratura sugli effetti tossici degli estratti vegetali è tuttora scarsa e vi è la tendenza ad agire in analogia con la medicina umana senza considerare le notevoli differenze metaboliche che esistono tra uomo ed animali domestici.

Agenti antiossidanti La relazione tra alimentazione, sistema immunitario ed invecchiamento cellulare è stata oggetto di grande attenzione nell’ultima decade. Su questo presupposto si basa la teoria dei radicali liberi ipotizzata primariamente da Harman8,9. L’ossidazione e la produzione di radicali liberi sono parte integrante della vita ma quando si viene ad avere un’eccessiva produzione di questi radicali, data la loro reattività estrema, si arriva alla morte cellulare e al danno genetico. Importanti dati sperimentali dimostrano come questo meccanismo sia alla base del processo d’invecchiamento e di patologie come il cancro e l’artrite7. Negli alimenti esistono, appunto, delle sostanze ad azione antiossidante che possono “combattere” gli effetti deleteri provocati dai radicali liberi. Perciò alimenti ricchi in vitamina C, vitamina E, β-carotene e licopene possono avere un effetto protettivo contro disordini degenerativi, come il cancro, attraverso una diminuzione del dan-


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no al DNA3. In un recente studio10 è stato dimostrato che in cani alimentati con un cibo arricchito con una miscela di antiossidanti, sono stati riscontrati minori danni al DNA rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, i cani appartenenti al gruppo che aveva ricevuto l’integrazione hanno sviluppato in minor tempo una maggiore risposta anticorpale rispetto al gruppo di controllo.

Il loro uso in medicina veterinaria è ancora dibattuto6 anche se un’indagine americana2 svolta su 3080 veterinari di piccoli animali, ha dimostrato che questi prodotti sono prescritti dal 64% dei veterinari intervistati. La maggior parte di questi ritiene che i condroprotettori abbiano una buona o eccellente efficacia nel trattamento della DJD (degenerative joint disease).

Acidi grassi polinsaturi

Bibliografia

Gli acidi grassi essenziali (EFA) sono indispensabili componenti dei fosfolipidi delle membrane cellulari e sono precursori di un gran numero di sostanze biologicamente attive come prostaglandine, leucotrieni e altri eicosanoidi. Una carenza di EFA si manifesta in più siti dell’organismo; a livello cutaneo, però, a causa dell’elevato turnover cellulare, questa carenza si manifesta più precocemente rispetto ad altri distretti12. L’inclusione nella dieta di integratori con un rapporto ottimale tra omega-6 ed omega-3 si è dimostrato avere effetti preventivi e terapeutici in alcune patologie infiammatorie. Diversi studi4,5,13,11 hanno evidenziato che un rapporto tra 5:1 e 10:1 di acidi grassi nella dieta riduce la produzione di mediatori dell’infiammazione a livello cutaneo, plasmatico e neutrofilico.

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Agenti “miglioratori delle performance” In questa categoria ritroviamo sostanze di diversa natura che interferendo con meccanismi quali miglioramento del trasporto di ossigeno, riduzione dell’accumulo di acido lattico, miglioramento dei tempi di recupero e dei tempi di reazione, migliorano la resa negli animali sportivi.

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Agenti condroprotettori I condroprotettori sono sostanze che: • promuovono la sintesi di macromolecole da parte dei condrociti; • promuovono la sintesi di acido ialuronico da parte dei sinoviociti; • inibiscono gli enzimi degradativi (collagenasi, ialuronidasi) e i mediatori dell’infiammazione; • rimuovono o prevengono la formazione di fibrina e trombina a livello del liquido sinoviale e dei vasi subcondrali.

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Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia Università di Torino - Via L. da Vinci, 44 - 10095 Grugliasco (TO) e-mail: liviana.prola@unito.it


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Importanza dell’angolo del piatto tibiale nelle patologie del legamento crociato craniale Osteotomia prossimale della tibia per il trattamento del ginocchio con alterazioni del crociato Ulrich Reif Med Vet, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Boebingen, Germania

La rottura del legamento crociato craniale è una delle malattie ortopediche trattate con maggiore frequenza nel cane. Anche se è stata studiata ampiamente, la condizione non è ancora stata del tutto compresa. Per la sua patogenesi, sono stati incriminati parecchi fattori. È noto che la degenerazione correlata all’età indebolisce le proprietà meccaniche del legamento, rendendolo più propenso alla rottura.1 Nella metà circa della totalità dei cani colpiti da rottura del legamento crociato craniale si possono riscontrare autoanticorpi contro le fibre di collagene di tipo I e di tipo II.2 Non è chiaro se questa reazione immunomediata sia la causa o l’effetto della degenerazione del legamento. È stato ipotizzato che la conformazione scheletrica che porta all’iperestensione del garretto e del ginocchio predisponga i cani alla rottura del legamento crociato craniale.3 Anche se nell’uomo la causa principale delle lesioni del legamento crociato anteriore è il trauma, nel cane si ritiene che svolga solo un ruolo minore. Benché tutti questi fattori siano stati identificati, non si riesce a spiegare perché fra tutte le possibili lesioni legamentose quella che si osserva con maggiore frequenza nel cane sia la rottura del legamento crociato craniale. Nel 1982, Read e Robins pubblicarono una casistica di 5 cani colpiti da deformazioni bilaterali della crescita del tratto prossimale della tibia che erano esitate in un abnorme aumento degli angoli del piatto dell’osso.4 Di questi 5 cani, 4 erano affetti da rottura del legamento crociato craniale. Gli autori suggerirono che l’aumento dell’angolo del piatto tibiale incrementasse lo stress esercitato sul legamento crociato craniale portando, in ultima analisi, alla sua rottura. Nel 1983, Slocum e Devine ipotizzarono che l’inclinazione del piatto tibiale fosse responsabile del test di compressione della tibia e chiamarono spinta tibiale craniale la forza che spinge cranialmente l’osso.5 Nel 2001 Warzee dimostrò che l’angolo del piatto tibiale è effettivamente correlato all’entità ed alla direzione della spinta tibiale craniale generata quando l’arto viene posto sotto carico.6 Inoltre, il grado di rotazione era correlato all’entità della spinta tibiale caudale che veniva generata. Nel 2003 Reif ha dimostrato che dopo l’osteotomia livellante del piatto tibiale, l’entità della spinta tibiale caudale generata durante la compressione assiale della tibia è correlata all’entità della forza che agisce sulla tibia stessa.7 Ciò significa che un aumento della forza assiale che agisce sulla tibia quando l’arto viene posto sotto carico porta ad un incremento della spinta tibiale caudale e, quindi, stabilizza ulteriormente l’ar-

ticolazione del ginocchio. Sapendo che un angolo abnormemente elevato del piatto tibiale può aumentare lo stress esercitato sul legamento crociato craniale e, in ultima analisi, può condurre alla sua rottura si può ipotizzare che i cani colpiti da rottura del legamento crociato craniale presentino un aumento dell’angolo del piatto tibiale. Mentre noi avevamo iniziato a raccogliere i dati per uno studio,8 Morris e Lipowitz riferirono un valore medio dell’angolo del piatto tibiale di 18,1° nei cani normali e di 23,8° in quelli nei quali era stata diagnosticata una rottura del legamento crociato craniale.9 In confronto al gruppo normale, il valore medio dell’angolo del piatto tibiale nei soggetti con rottura del legamento crociato craniale era più elevato di 5,7°. Gli autori ipotizzarono che la maggiore ampiezza dell’angolo del piatto tibiale potesse causare un aumento dello stress sul legamento crociato craniale portando infine alla sua rottura. Gli studi condotti hanno dimostrato che l’angolo del piatto tibiale varia da una razza all’altra, che il posizionamento dell’arto durante le riprese radiografiche può alterare le misurazioni del piatto tibiale e che il ricorso ad osservatori differenti ed il verificarsi di errori di misurazione influiscono sulla misurazione dell’angolo del piatto tibiale.10 È anche difficile identificare cani a basso rischio di rottura del legamento crociato craniale. Di conseguenza, abbiamo preso in considerazione l’età di insorgenza in tutti i Labrador retriever trattati presso la Michigan State University durante un periodo di 5 anni. Dopo un picco intorno ai 3 anni di età, l’incidenza diminuiva e solo il 6% dei cani aveva 8 o più anni di vita. Il nostro studio è stato realizzato utilizzando due gruppi di animali. Quello dei soggetti con rottura del legamento crociato craniale comprendeva cani nei quali la condizione era stata diagnosticata mediante artroscopia o artrotomia. Per essere inseriti nel gruppo dei soggetti normali, i cani dovevano soddisfare i seguenti criteri: in primo luogo, non dovevano aver presentato alcun riferimento anamnestico a problemi ortopedici, in secondo luogo non dovevano mostrare alcun segno di artropatia degenerativa in atto nelle radiografie del ginocchio ed in terzo luogo dovevano avere 8 o più anni di età e quindi non essere esposti al rischio di sviluppare una patologia del legamento crociato craniale in futuro. Da ciascun cane venne ripresa la radiografia della tibia in proiezione laterolaterale e si effettuò la determinazione dell’angolo del piatto tibiale. Nel tentativo di ridurre la variazione derivante dalle differenze fra le razze, vennero uti-


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lizzati soltanto Labrador retriever. Per ridurre la variazione dovuta alla tecnica radiografica, le riprese vennero ripetute fino ad ottenere la sovrapposizione dei condili tibiali e femorali. Per ridurre la variazione dovuta al ricorso a differenti osservatori, che è stata anche chiamata variazione interosservatori, tutte le radiografie vennero valutate da una sola persona. Infine, per ridurre la variazione dovuta all’errore di ripetizione o intraosservatore, per ciascun cane vennero effettuate 4 misurazioni allo scopo di determinare l’angolo del piatto tibiale. Il gruppo della rottura del legamento crociato craniale risultò costituito da 42 cani, e quello normale da 39. Considerando il valore medio dell’angolo del piatto tibiale nei due gruppi, abbiamo riscontrato un angolo di 23,5° nel gruppo con rottura del legamento crociato craniale e di 23,6° in quello normale. Non era presenta alcuna differenza statistica significativa fra i due gruppi. Il nostro studio non ha potuto confermare i risultati pubblicati in precedenza. Non era presente alcuna correlazione fra la rottura del legamento crociato craniale e l’ampiezza dell’angolo del piatto tibiale. Anche se tale ampiezza è essenziale per determinare l’entità della rotazione durante l’osteotomia di livellamento del piatto tibiale, il valore di questo angolo non deve essere utilizzato per prevedere la rottura del legamento crociato craniale. Per trattare i cani con rottura del legamento crociato craniale, nell’arco degli anni sono state sviluppate molte tecniche differenti. La maggior parte di esse è volta a ricostruire il legamento stesso (tecniche intrarticolari) o a fornire un certo grado di stabilità attraverso la realizzazione di una fibrosi periarticolare o l’impiego di strutture anatomiche esterne all’articolazione (tecniche extrarticolari). Negli anni più recenti, sono state descritte metodiche differenti, che non rientrano nella classificazione tradizionale. Questi interventi modificano la biomeccanica dell’articolazione del ginocchio attraverso un’osteotomia tibiale mutando l’orientamento della superficie articolare prossimale della tibia. Mentre le tecniche convenzionali ricostruiscono una sorta di contenimento anatomico al movimento del cassetto craniale, le osteotomie tibiali alte sono volte a determinare una stabilità funzionale dell’articolazione del ginocchio durante il carico dell’arto. Ad oggi, sono state descritte 4 tecniche: l’osteotomia tibiale craniale a cuneo, l’osteotomia di livellamento del piatto tibiale, l’osteotomia tibiale alta a cuneo e l’avanzamento della cresta tibiale. L’osteotomia tibiale craniale a cuneo è stata illustrata da Slocum nel 1983.11 Dopo aver osteotomizzato la tibia seguendo un orientamento trasversale sotto la sua cresta, si rimuove un cuneo di osso. L’osteotomia viene quindi stabilizzata con una normale placca da osteosintesi, mentre il piatto tibiale si trova perpendicolarmente all’asse funzionale della tibia. L’osteotomia tibiale craniale a cuneo abbassa la posizione della rotula rispetto alla troclea femorale (rotula bassa) dal momento che l’escissione del cuneo viene praticata appena sotto la cresta tibiale. Ciò può esitare in una grave desmite del tendine rotuleo, che costituisce il principale svantaggio della tecnica. Per evitare di modificare l’orientamento della cresta tibiale, lo stesso Slocum in seguito (1993) descrisse l’osteotomia di livellamento del piatto dell’osso.l Per modificare l’orientamento di quest’ultimo si pratica un’osteotomia circolare a livello della parte prossimale del-

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la tibia. L’osteotomia viene effettuata caudalmente alla cresta tibiale e, quindi, non interferisce con l’articolazione femororotulea. Una speciale placca da osteosintesi immobilizza quindi il piatto tibiale fino a che la guarigione dell’osso non è completa. Gli svantaggi sono rappresentati dal brevetto richiesto e dalla complessità della procedura, ma i risultati preliminari sono promettenti. In alternativa, presso l’Università di Zurigo è stata utilizzata l’osteotomia tibiale alta a cuneo. Con questa tecnica, si effettua l’escissione di un cuneo di osso appena caudalmente all’inserzione del legamento rotuleo e cranialmente ai condili tibiali. Dopo la rimozione del cuneo, il piatto dell’osso viene spostato cranialmente e fissato in posizione con due viti a compressione inserite con un orientamento craniocaudale attraverso la cresta tibiale. Montavon et al. hanno descritto una tecnica nel 2002.13 La procedura consiste nel far avanzare la tuberosità tibiale, al fine di posizionare il legamento rotuleo perpendicolarmente al piatto dell’osso, riducendo così a zero la forza di taglio tibiofemorale e facilitando la funzione del legamento crociato craniale deficitario. La cresta tibiale viene spostata cranialmente, nell’osteotomia si inserisce uno spaziatore e la cresta tibiale viene stabilizzata con una placca da osteosintesi. Attualmente, non sono stati pubblicati studi.

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Indirizzo per la corrispondenza: Tierlinik Dr. Reif, Schönhardterstr. 36, 73560 Böbingen, www.tierlinik-reif.de, info@tierklinik-reif.de


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TPLO: un’opzione migliore per la rottura del crociato craniale? Ulrich Reif, Dr Med Vet, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Boebingen, Germania

Tutte le procedure chirurgiche per il trattamento dell’instabilità del legamento crociato craniale (CrCL) iniziano con un’approfondita esplorazione dell’articolazione del ginocchio attraverso un approccio pararotuleo o l’artroscopia. L’autore preferisce impiegare l’approccio pararotuleo mediale a quello laterale, perché facilita l’esplorazione e la rimozione del menisco mediale. Si esaminano tutte le strutture intrarticolari. Quando si utilizza la tecnica tradizionale vengono rimossi i monconi residui del legamento rotto e ogni eventuale porzione rimasta integra. Si presume che le parti non lacerate del legamento crociato craniale siano danneggiate oppure destinate ad andare incontro a completa rottura se lasciate in sede. Al contrario, quando si effettua la TPLO è stato ipotizzato di eseguire una resezione parziale del legamento crociato craniale senza escissione delle parti integre superstiti.1 Dopo un procedura di TPLO la spinta tibiale craniale viene diminuita ed il carico viene allontanato dalla parte residua del legamento crociato craniale. La lesione che più comunemente coesiste con la rottura del CrCL è la lacerazione del corno caudale del menisco mediale. I menischi vengono ispezionati accuratamente in tutte le articolazioni. Se il corno caudale del menisco mediale è danneggiato, si esegue una menischectomia parziale o completa, a seconda dell’entità del danno meniscale e delle preferenze del chirurgo. Poiché la guarigione della porzione non vascolare del menisco è improbabile, la rimozione di qualsiasi parte danneggiata di questa struttura costituisce una terapia chirurgica appropriata. Il danno meniscale viene trattato ugualmente quando si effettua una TPLO. Il menisco integro, invece, richiede un intervento di liberazione per eliminare la sollecitazione a cerchio della sua parte caudale mediale, in modo da prevenire il danno meniscale postoperatorio. Questo risultato si può ottenere in due modi.2 È possibile praticare un’incisione nel menisco in senso trasversale appena caudalmente al legamento collaterale mediale dopo aver eseguito un approccio caudomediale all’articolazione. Se è presente una rottura completa del legamento crociato craniale e l’articolazione può essere sublussata, la liberazione del menisco si può eseguire attraverso l’approccio pararotuleo tagliando il corno caudale del menisco mediale, appena medialmente all’inserzione laterale sulle eminenze intercondiloidee. Col termine di embricatura della fascia lata si indica la sovrapposizione di due strati in modo da portare ogni porzione lassa al di fuori della fascia lata e, quindi, tendere il tessuto. Questa tecnica come solo mezzo di stabilizzazione venne descritta per la prima volta nel 1966 ed in seguito mo-

dificata nel 1969 con l’aggiunta di un secondo piano di suture di Lembert.3,4 Il modo più appropriato per utilizzare l’embricatura della fascia lata è in aggiunta ad altri metodi di stabilizzazione del ginocchio; l’intervento non va effettuato come unico metodo di stabilizzazione. DeAngelis e Lau descrissero per la prima volta nel 1970 un’embricatura retinacolare laterale per la stabilizzazione del ginocchio colpito da alterazioni del legamento crociato craniale. Questa tecnica viene comunemente indicata come tecnica di DeAngelis.5 In origine, la metodica consisteva nell’applicare un robusto materiale da sutura non assorbibile intorno alla fabella laterale e sino al terzo distale del legamento rotuleo. Il materiale da sutura corrisponde all’orientamento del legamento crociato craniale normale che decorre attraverso l’articolazione, tranne che per il fatto che la sutura si trova all’esterno della capsula articolare. Sono state realizzate numerose modifiche di questa tecnica, come l’applicazione della sutura attraverso un foro praticato con il trapano nella tuberosità tibiale e l’aggiunta di una sutura simile diretta dal lato mediale dell’articolazione.6 Per la tecnica di embricatura retinacolare modificata (MRIT o tecnica di Flo) si utilizza un robusto materiale non assorbibile (nylon, poliestere intrecciato). Col tempo, tutte queste suture si rompono o si allentano. Ci si augura che mantengano la stabilità articolare fino a che l’articolazione non viene consolidata da una fibrosi periarticolare. Le più comuni complicazioni postoperatorie di questa tecnica, escludendo il danno meniscale successivo all’intervento, sono la tumefazione ed il drenaggio dalla sutura. Secondo quanto segnalato in letteratura, questi due eventi si verificano nel 18% e nel 21% dei casi.7,8 La trasposizione della testa della fibula è una tecnica di riparazione extrarticolare che utilizza il legamento collaterale laterale per stabilizzare il ginocchio.9 Le ricerche condotte sulla valutazione di questa tecnica hanno dimostrato che non era in grado di controllare il movimento del cassetto craniale o l’instabilità rotazionale, non riusciva a ripristinare la funzione dell’arto e non preveniva la degenerazione articolare.10 Nelle prime tre settimane dopo l’intervento si verificava un significativo allungamento del legamento collaterale laterale.11 Le più comuni complicazioni associate alla trasposizione della testa della fibula erano la frattura iatrogena della testa stessa in sede intraoperatoria (12,5%) e la formazione di sieromi (10,7%) sopra di essa nel periodo postoperatorio. Altre complicazioni erano la rottura del filo metallico, l’allentamento e la migrazione del chiodo, il danneggiamento del nervo peroneo e la lacerazione dell’arteria genicolata caudale.


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Esistono numerose procedure in cui un innesto di fascia, legamento rotuleo o materiale non biologico viene tirato attraverso l’articolazione del ginocchio in modo tale da simulare strettamente la naturale funzione del legamento crociato craniale. La maggior parte di queste procedure viene effettuata attraverso un approccio pararotuleo laterale e l’articolazione viene esplorata e sottoposta a revisione come nelle procedure extrarticolari. La tecnica “sotto e sopra” è generalmente rappresentativa di queste procedure, nonché quella utilizzata più comunemente. Si serve di un innesto autogeno che comprenda 1/3 laterale del legamento rotuleo e la fascia lata dalla coscia laterale. L’innesto viene fatto passare sotto il legamento intermeniscale ed attraverso l’articolazione “sulla sommità” del condilo femorale laterale dove viene ancorato da suture o una vite da osteosintesi ed una rondella. La rivascolarizzazione dell’innesto avviene lentamente e per garantire la sopravvivenza del tessuto trapiantato sono necessari lunghi periodi di riposo. I risultati sono stati simili a quelli ottenuti con le tecniche di embricatura retinacolare. Recentemente è stata descritta la stabilizzazione artroscopica del ginocchio.12 Al momento attuale è in corso di valutazione il follow-up a lungo termine. La tecnica di livellamento del piatto tibiale (TPLO) può essere utilizzata nel cane per “livellare” il piatto stesso come metodo per diminuire la spinta tibiale craniale. La tecnica consente di ottenere una stabilità funzionale del ginocchio modificando l’inclinazione del piatto tibiale. Allo scopo si esegue un’osteotomia circolare del tratto prossimale dell’osso e la rotazione del piatto per prevenire la spinta tibiale craniale quando l’arto viene posto sotto carico. L’osteotomia viene quindi stabilizzata con una placca da osteosintesi e viti mentre avviene la guarigione. In un ginocchio normale il legamento crociato craniale integro si oppone alla spinta tibiale craniale, una forza orientata cranialmente che deriva dalla compressione della tibia generata durante il carico dell’arto. Dopo la TPLO, lo stesso carico esita in una spinta tibiale caudale, che è limitata dal legamento crociato caudale integro. Si esegue un intervento di liberazione del menisco secondo le modalità descritte in precedenza. Secondo quanto segnalato in uno studio, le complicazioni chirurgiche postoperatorie della TPLO si riscontrano nel 28% dei casi.13 Questo valore, tuttavia, comprende anche complicazioni di minore entità, come le ecchimosi della cute e l’edema, nonché quelle derivanti da errori chirurgici. Le complicazioni descritte sono rappresentate da fratture della tibia, della rotula e della fibula, nonché eccessiva emorragia, inserimento intrarticolare della vite, cedimento del mezzo di stabilizzazione, infezione della ferita e desmite del tendine rotuleo. Slocum, che è stato l’ideatore della tecnica, ha riferito un esito buono o eccellente nel 94% dei pazienti.2 Dee ha segnalato un esito buono o eccellente nel 90% dei pazienti.14 Alcuni chirurghi ritengono che la TPLO esiti in una rapida guarigione dopo l’intervento, una maggiore escursione di movimento ed una progressione più lenta verso l’osteoartri-

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te in confronto alla MRIT.15 I risultati preliminari di uno studio condotto utilizzando l’analisi mediante piastra di forza confrontando MRIT e TPLO, tuttavia, non hanno riscontrato differenze di esito fra le due tecniche.16 Personalmente, l’autore ritiene che nelle mani di un chirurgo esperto la TPLO possa essere utilizzata in condizioni di sicurezza. Anche se i potenziali rischi e complicazioni possono essere gravi, i vantaggi sembrano essere una guarigione precoce, un eccellente risultato clinico nella maggior parte dei pazienti ed una minima progressione dell’osteoartrite. Resta da dimostrare se i risultati a lungo termine siano superiori a quelli ottenuti con tecniche convenzionali.

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Rottura del crociato craniale: suggerimenti e trucchi per la tecnica di embricatura laterale Ulrich Reif Med Vet, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Boebingen, Germania

La prima descrizione di una rottura del legamento crociato craniale nel cane risale al 1926, ma è stato solo negli anni Cinquanta che venne pubblicata la prima descrizione della correzione chirurgica. Da allora, in letteratura sono apparse numerose tecniche operatorie per la riparazione del ginocchio privo di un legamento crociato craniale.1 L’embricatura del retinacolo laterale per la stabilizzazione del legamento crociato craniale deficitario venne descritta per la prima volta nel 1970 da DeAngelis e Lau. Questa tecnica viene comunemente indicata come tecnica di DeAngelis.2 In origine consisteva nell’applicazione di un robusto materiale da sutura non assorbibile intorno alla fabella laterale ed al terzo distale del legamento rotuleo. Il materiale da sutura corrisponde all’orientamento del legamento crociato craniale normale che decorre attraverso l’articolazione, tranne che per il fatto che la sutura si trova all’esterno della capsula articolare. Sono state realizzate numerose modificazioni di questa tecnica, come l’inserimento della sutura attraverso un foro praticato con il trapano nella tuberosità tibiale e l’aggiunta di un’altra sutura simile diretta dal lato mediale dell’articolazione.3 Per la stabilizzazione del ginocchio, è stata anche descritta l’applicazione di due suture dal legamento collaterale laterale alla rotula e di una sutura dalla fabella al legamento rotuleo. Per la tecnica di embricatura retinacolare modificata (MRIT o tecnica di Flo) si utilizza un robusto materiale da sutura non assorbibile (nylon, poliestere intrecciato). È stato anche impiegato il filo d’acciaio inossidabile.4 Tipicamente, la sutura viene serrata con il ginocchio in estensione e la tibia ruotata verso l’esterno. Per assicurarla sono necessari molteplici nodi. Far passare il filo attraverso un foro praticato nella tuberosità tibiale probabilmente consente un migliore ancoraggio della sutura. Le più comuni complicazioni postoperatorie con questa tecnica sono la tumefazione ed il drenaggio dalla sutura. Secondo quanto segnalato in letteratura, queste due evenienze si verificano nel 18% e nel 21% dei casi. L’embricatura retinacolare laterale è stata utilizzata per la stabilizzazione del ginocchio di cani di tutte le taglie. Tipicamente, questo intervento dà buoni risultati nei cani di 20-25 kg di peso o meno. Man mano che la taglia dell’animale aumenta, si ottengono risultati variabili. Tutti gli interventi chirurgici per l’instabilità del legamento crociato craniale (CrCL) iniziano con un’approfondita esplorazione dell’articolazione del ginocchio. L’autore preferisce adottare l’approccio pararotuleo mediale rispetto a quello laterale, dal momento che molti cani presentano un danno del menisco mediale. Nella maggior parte degli ani-

mali è possibile effettuare una miniartrotomia per esplorare l’articolazione del ginocchio. Se il chirurgo è sicuro della malattia in atto nell’articolazione del ginocchio, questo approccio può essere privo di rischi e consentire una completa visualizzazione dei legamenti crociati e dei menischi. Se sussistono dei dubbi sulla diagnosi di rottura del legamento crociato craniale o se è necessario effettuare l’esplorazione dell’articolazione femororotulea, l’approccio può essere facilmente ampliato sino a quello pararotuleo normale. Per eseguire una miniartrotomia si incidono la cute e la capsula articolare come per l’approccio pararotuleo normale, ma la lunghezza dell’incisione è limitata. La breccia inizia a livello del punto medio della rotula e raggiunge la cresta tibiale. Per assicurare la visualizzazione dell’articolazione si utilizzano due divaricatori di Gelpi. Questa tecnica fornisce i migliori risultati quando si utilizzano divaricatori di Gelpi di medie dimensioni con estremità corte ed appuntite. Il primo divarica la capsula articolare in senso trasversale. Il secondo viene utilizzato per indurre il movimento del cassetto craniale nell’articolazione del ginocchio ed ottenere la distrazione dell’articolazione per poterla esplorare. Le estremità appuntite del divaricatore vengono inserite fra il legamento intermeniscale (cranialmente) e la parte cranioprossimale dell’incisura intercondilare (caudalmente). Bisogna stare attenti a non danneggiare il legamento crociato caudale che origina a livello di questa incisura. Nei cani di piccola taglia, un divaricatore da ginocchio di Wallace può essere più utile di quello di Gelpi.7 Dopo aver ispezionato i legamenti ed aver completamente escisso il crociato craniale, si esaminano i menischi mediale e laterale. Se il corno caudale del menisco mediale è danneggiato, si effettua una menischectomia parziale o completa, a seconda del danno meniscale e delle preferenze del chirurgo. Poiché la guarigione della parte non vascolare del menisco è improbabile, la rimozione di qualsiasi porzione meniscale danneggiata costituisce una terapia chirurgica appropriata. Attualmente, l’autore effettua un intervento di liberazione del menisco per eliminare la sollecitazione della parte caudale del menisco mediale; nella maggior parte dei cani, ciò previene il danno meniscale postoperatorio. Sino ad oggi, nessuna ricerca a ha valutato i vantaggi e gli effetti collaterali di questa procedura. Tuttavia, la liberazione del menisco sembra prevenire il danno meniscale postoperatorio, che è una delle principali complicazioni che impongono una seconda artrotomia o un’esplorazione artroscopica. Dopo che il legamento crociato craniale è stato completamente reciso, l’articolazione può essere sublussata e si può eseguire la liberazione del menisco attraverso la miniartrotomia ta-


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gliando il corno caudale del menisco mediale appena medialmente all’inserzione laterale sulle eminenze intercondilari. Risulta utile inserire un piccolo divaricatore di Hohman o una pinza emostatica curva per aumentare la sublussazione craniale e favorire la visualizzazione della parte caudale del menisco. Questi strumenti inoltre proteggono il legamento crociato caudale durante la liberazione del menisco. L’autore preferisce impiegare una lama da bisturi n.11, che viene inserita di lato fra la superficie articolare del condilo tibiale e la superficie ventrale del menisco mediale. Inizialmente, il filo tagliente dello strumento viene diretto lateralmente; poi, una volta inserita, la lama viene ruotata di 90° in modo da essere diretta in senso prossimale. Abbassando il manico della lama, si determina lo spostamento della punta in direzione prossimale incidendo il corno caudale del menisco. È necessario operare con estrema cura per non danneggiare il legamento crociato caudale. Per l’embricatura laterale, si applica una sutura intorno alla fabella laterale e la si fa passare attraverso una galleria praticata con il trapano nella cresta tibiale. È impossibile inserire la sutura in modo autenticamente isometrico, dal momento che l’articolazione del ginocchio ruota internamente durante la flessione. Di conseguenza, la distanza fra i punti di ancoraggio varia durante l’intera escursione del movimento. La sutura viene sottoposta ad un carico ciclico e finisce per cedere. Ci si augura che mantenga la stabilità articolare fino a che l’articolazione non viene stabilizzata da una fibrosi periarticolare. Per l’embricatura laterale sono stati utilizzati molti materiali da sutura differenti. Il più adatto è un robusto filo di nylon monofilamento. Molteplici progetti di ricerca hanno valutato il tipo di sutura, i differenti produttori ed il tipo di nodi da impiegare.8-10 Attualmente, l’autore utilizza un particolare filo di nylon da pesca (leader line) di differenti dimensioni. Nei cani di piccola taglia e nei gatti si impiega più comunemente quello con una resistenza di 1015 kg circa. Per un cane di media e grossa taglia si impiegano solitamente due suture da circa 30 kg con una tecnica di scivolamento del nodo dalla parte laterale. Se il materiale da sutura ha una resistenza superiore a 30 kg diventa difficile stringere i nodi. Se vi sono delle preoccupazioni relative alla stabilità, specialmente se è presente una lesione traumatica, si può aggiungere un’altra sutura sul lato mediale. In commercio si trova anche un sistema di ondulazione che facilita l’applicazione della sutura.11 Per far passare il filo intorno alla fabella, la fascia del bicipite femorale viene scissa lateralmente e scostata caudalmente. Ciò consente un’adeguata esposizione della fabella. La sutura può essere diretta in senso prossimodistale o craniocaudale. Alcuni chirurghi fanno passare il filo prossimale della sutura sotto il legamento rotuleo all’interno dell’artico-

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lazione prima di inserirlo nel foro praticato nella cresta tibiale. Ciò evita la compressione e la deviazione caudale del legamento rotuleo da parte della sutura. Altri fanno passare il filamento distale della sutura sotto il muscolo tibiale craniale per evitare che venga compresso dal filo. Dal momento che l’anatomia varia da un individuo all’altro, è bene tenere a mente queste possibilità ed utilizzarle quando è necessario. Dopo aver annodato i nodi, si può utilizzare la fascia incisa del muscolo tibiale craniale per coprirli. Dopo la chiusura della capsula articolare, si accosta la fascia del bicipite femorale. Il sottocute e la cute vengono quindi chiusi sopra la faccia mediale dell’articolazione del ginocchio. Nel periodo postoperatorio è necessario attuare un’analgesia adeguata. Alcune delle opzioni disponibili sono rappresentate da oppiacei sistemici, farmaci antinfiammatori non steroidei e bupivacaina intrarticolare.

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Anestesia nei pazienti affetti da ipercorticosurrenalismo e feocromocitoma Attilio Rocchi Med Vet, Firenze

Il feocromocitoma è un tumore del tessuto nervoso in grado di secernere catecolamine. La sua distribuzione può essere oltremodo varia, potendo localizzarsi lungo tutto il rachide, ma di norma esso colpisce la parte midollare del surrene. Può secernere solo noradrenalina, oppure una miscela di noradrenalina e adrenalina; in base al tipo di secrezione le manifestazioni potranno essere diverse. Nel primo caso prevarrà una stimolazione α con ipertensione sia sistolica che diastolica ed una bradicardia riflessa; una consistente secrezione di adrenalina, invece, comporterà più marcata stimolazione β con tachicardie, eventuali tachiaritmie e ipertensione sistolica. Alla luce di questi dati la valutazione preoperatoria del paziente non può prescindere da un attento esame del sistema cardiocircolatorio. È auspicabile disporre di una misurazione della pressione e di un indagine ecocardiografica, alla ricerca di miocardiopatie, dovuta ad esempio all’ischemia coronaria secondaria allo stimolo da catecolamine. Nel tentativo di acquisire questi dati è tuttavia importante evitare di stressare il paziente, dal momento che ciò potrebbe di per sé essere causa di una crisi parossitica con ipertensione estrema e accentuazione delle alterazioni di ritmo cardiache. Può essere valutato il ricorso a blanda sedazione con benzodiazepine ed oppioidi per poter portare a termine le indagini. Assolutamente da evitare è l’uso di droperidolo, disponibile ad uso veterinario in tavolette per os (Halkan®), in quanto potrebbe causare crisi ipertensive gravi per il blocco dei recettori dopaminergici postsinaptici che presiedono al rilascio delle catecolamine. Da evitare anche l’impiego di medetomidina o altro αagonista, che determina nella prima fase della sua azione una vasocostrizione arteriosa con un ulteriore aumento delle resistenze periferiche e possibile aggravamento della sintomatologia del paziente; inoltre la medetomidina blocca il rilascio di insulina da parte del pancreas, risultando iperglicemizzante: alcuni pazienti con feocromocitoma possono presentare elevati tassi glicemici a digiuno. Per preparare all’intervento i pazienti ipertesi si utilizzano farmaci α e β bloccanti. Alla preparazione con α bloccante (Prazosin; Fenossibenzamina, non disponibile in Italia), fa seguito l’introduzione di un β bloccante (Propranololo o Atenololo), al fine di evitare che quest’ultimo causi crisi ipertensive. La Fenossibenzamina, α bloccante non competitivo,viene somministrata a dosi di 0,25-0,5 mg/kg per Os SID nei 10-15 giorni precedenti l’intervento, salendo progressivamente di dose e monitorando la pressione.

L’Atenololo (Seles Beta®) risulta altamente cardioselettivo con marcata attività β1; agisce rapidamente per via orale (6,25-25 mg/kg per Os BID; nel Gatto e Cane gigante non superare i 12,5 mg) ed i suoi effetti si instaurano in 60 minuti; si raccomanda la somministrazione a distanza dal cibo, che può ridurne l’assorbimento per quote del 20%; scarsamente liofilo, è escreto velocemente dal rene. Il Propranololo (Inderal®), fortemente lipofilo, va in contro ad ampio metabolismo epatico; non risulta cardioselettivo. Esiste anche in formulazione iniettabile; la dose orale e quella intravenosa sono assai diverse a causa di un elevato metabolismo di primo passaggio (0,15-0,5 mg/kg per Os TID; 0,3-1 mg/kg IV). L’uso del solo Labetalolo, α-β bloccante è sconsigliato in quanto la sua azione prevalente di tipo β può generare ipertensione. Nell’impiegare β bloccanti è da tener presente che essi protraggono l’azione dei bloccanto neuromuscolari e riducono la clearence della lidocaina, aumentando il rischio di effetti tossici da anestetico locale. Anche in fase di premedicazione è consigliabile affidarsi all’impiego di un oppioide quale il fentanil e ad una benzodiazepina (Diazepam o Midazolam). Il metodo ideale è la somministrazione endovenosa lenta, dell’oppioide prima, seguito poi dalla benzodiazepina; tuttavia anche nel tentativo di guadagnare l’accesso venoso va ricordato di evitare ogni stress al paziente e quindi ricorrere a contenzioni minime; può essere di aiuto la desensibilizzazione della cute con pomata anestetica Emla®. In alternativa si può ricorrere all’uso di Fentanil e Midazolam per via intramuscolare. Fra gli oppioidi agonisti puri è sconsigliabile il ricorso a Morfina o a Petidina per il rischio di rilascio di istamina. Il ricorso ad Acepromazina può presentare vantaggi in presenza di ipertensione e può stabilizzare il miocardio nei confronti degli effetti delle catecolamine; tuttavia è bene far uso di dosi piuttosto basse per evitare che l’ipotensione e l’ipotermia da essa prodotte causino problemi nelle fasi successive dell’intervento. Controindicato è l’uso di Atropina per gli effetti cronotropi e potenzialmente aritmogeni. Per l’induzione è da preferirsi l’uso di Propofol; il Tiopentale risulta poco adatto avendo effetti aritmogeni, cronotropi e iperglicemizzanti. È importante raggiungere un’adeguata profondità del piano anestesiologico prima di tentare l’intubazione, per evitare stimolazioni. Il ricorso all’instillazione di Lidocaina 1% o di Xilocaina® spray per desensibilizzare il laringe può essere di notevole aiuto.


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Assolutamente impensabile è il ricorso a metodi quali la gabbia di induzione o l’induzione in maschera con un prodotto irritante quale l’isofluorano, che rappresenterebbero una fonte di stess intollerabile. Già in fase di induzione può risultare utile la somministrazione endovenosa di Lidocaina 2% al fine di stabilizzare il miocardio e ridurre al sensibilità del paziente alle prime manovre; a questo bolo si può eventualmente far seguire un’infusione continua. Per il mantenimento è da escludere l’uso di Alotano per la sua proprietà di sensibilizzare il miocardio alle aritmie indotte da catecolamine. Durante l’intervento sarà di estrema importanza evitare l’instaurarsi di ipercapnia e ipossiemia, condizioni in gradi di produrre aumento delle resistenze di circolo ed in generale una risposta adrenergica; pertanto è sempre necessario supportare un’adeguata ventilazione, possibilmente facendo ricorso ad un ventilatore da adoperare in blocco neuromuscolare per evitare che il paziente contrasti e riducendo al minimo l’impatto cardiocircolatorio. Cautela è da usarsi con l’Atracurio per il possibile rilascio di istamina, e assolutamente sconsigliato è il Pancuronio, che produce una risposta adrenergica. Più facilmente utilizzabile è il Vecuronio. Se le manovre intraoperatorie, ed in particolare la manipolazione del tumore, possono dar vita a fenomeni di grave ipertensione, essa può essere controllata con Nitroprussiato sodico. Essenziale è un adeguato controllo del dolore, ottenibile mediante l’uso di Fentanil in infusione continua.

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L’ipotermia, anch’essa in gradi di produrre risposta adrenergica, deve essere monitorata e prevenuta. Il monitoraggio dei parametri vitali deve essere quanto più completo possibile e non può prescindera da capnografia, pulsossimetria, ECG, pressione non invasiva e temperatura. Là dove siano state accertate alterazioni cardiocircolatorie significative e sia richiesto l’uso di farmaci per il controllo della pressione, è auspicabile poter disporre di un sistema di monitoraggio invasivo della pressione, sia arteriosa che venosa centrale. È anche importante disporre di un sistema rapido di controllo della glicemia per tutto il periodo perioperatorio. Il momento critico dell’intervento è la legatura del peduncolo vascolare del tumore, alla quale fa seguito una brusca caduta del tasso ematico di catecolamine che può comportare un repentino crollo della pressione ematica; essa va prevenuta riducendo la somministrazione di vasodilatatori e controllando la volemia mediante l’impiego di cristalloidi e colloidali; in questa fase va valutata frequentemente la glicemia e se necessario cominciare un’infusione di glucosio. In fase post-operatoria il paziente necessita ancora di attento monitoraggio, sia della glicemia, sia se possibile della pressione ematica e della funzione cardiaca al fine di stabilire quanto rapidamente ridurre la dose di farmaci per il controllo della pressione: è infatti sconsigliata l’interruzione immediata dei β agonisti dopo somministrazioni protratte in quanto l’ipersensibilità indotta alle catecolamine endogeno può produrre grave tachicardia, tachiaritmie. Nel piano di controllo del dolore postoperatorio va ricordato che i FANS possono ridurre l’effetto degli antipertensivi a causa del blocco del rilascio di prostaglandine vasoattive.


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Neoplasie vescicali nel cane: cosa c’è di nuovo Giorgio Romanelli Med Vet, Dipl ECVS Cusano Milanino (MI)

Le neoplasie vescicali sono rare nel cane, comprendendo meno del 2% di tutte le neoplasie. Fra tutte le forme neoplastiche della vescica, il carcinoma a cellule di transizione (Transitional Cell Carcinoma TCC) è sicuramente la più comune. Infatti, in uno studio su 115 cani con neoplasia vescicale, 100 erano TCC. Tutti gli altri tipi istologici sono quindi da considerarsi estremamente rari. Eccezionali sono i tumori vescicali benigni.

EZIOLOGIA L’eziologia dei TCC è da considerarsi multifattoriale. Fra i fattori di rischio, bisogna considerare l’esposizione ad alcuni prodotti per il controllo delle pulci e delle zecche, l’obesità, la somministrazione di ciclofosfamide e l’appartenenza ad alcune razze (Scottish Terrier). C’è anche probabilmente una relazione fra TCC ed inquinamento ambientale.

CARATTERISTICHE ISTOPATOLOGICHE La maggior parte dei TCC sono carcinomi infiltrativi a media differenziazione ed il 79% sono aneuploidi. Di grande interesse è l’espressione Cox-2 nel TCC. La cicloossigenasi è composta da 2 isoenzimi: Cox-1, nativa e Cox2, infiammatoria. La Cox-1 è espressa in molti tessuti normali, compreso l’epitelio vescicale, mentre la Cox-2 non è espressa nell’epitelio vescicale normale ma è evidente, mediante immunoistochimica, nella maggior parte dei TCC, cosa che giustifica l’uso di un farmaco anti Cox-2 nel trattamento.

SEGNALAMENTO, SEGNI CLINICI, DIAGNOSI E COMPORTAMENTO BIOLOGICO Il TCC è una malattia dei soggetti anziani. L’età media è infatti di 11,1 anni e il rapporto femmine/maschi è di 1.7:1 I segni clinici più comuni alla presentazione sono disuria, ematuria e pollachiuria. Meno comuni sono zoppia, letargia e perdita di peso. La diagnosi può essere ecografia, radiografica o tomografica. La diagnosi definitiva richiede l’esame istologico su un frammento prelevato mediante cistotomia, cistoscopia o biopsia tramite catetere. La citologia sul sedimento urinario è sicuramente positiva in meno del 40% dei casi. In generale è poco consigliata una biopsia vescicale transcutanea per la elevata possibilità di disseminazione metastatica lungo il tratto bioptico ed sulla cute.

Le metastasi sono prevalentemente linfonodali, polmonari ed epatiche e presenti in circa il 15% dei casi al momento della diagnosi. In circa il 50% dei casi c’è anche invasione uretrale e nel 30% prostatica.

TERAPIA La terapia dei TCC si basa sul trattamento chirurgico e medico da soli od in combinazione e sulla terapia radiante.

CHIRURGIA Deviazione ureterale I risultati della deviazione degli ureteri nel colon o nella vagina sono scarsi sia in termini di sopravvivenza sia per l’alto numero di complicanze, legate soprattutto, in caso di trapianto colonico, alla iperammoniemia ed alla spesi conseguente. Recentemente è stata proposta, con discreti risultati, l’anastomosi uretrobiureterale.

Cistectomia con o senza ricostruzione vescicale Buona parte delle chirurgie vescicali demolitive e ricostruttive sono limitate dalla frequentissima invasione trigonale da parte della neoplasia. In una serie di 102 cani, la resezione completa della neoplasia (margini liberi) è stata ottenuta solo in 2 casi. In due altri lavori la sopravvivenza media è stata di 125 e 86 giorni L’uso di neovesciche dopo cistectomia totale, pratica comune nell’uomo, risulta inaccettabile per la incontinenza conseguente.

“Debulking” e terapia medica La sopravvivenza media di soggetti trattati con chirurgia citoriduttiva e terapia medica è stata di 272 giorni, contro i 195 di soggetti trattati con chirurgia per biopsia e terapia medica ed i 159 di soggetti trattati solo medicamente. Rimane in ogni caso importante il ruolo della chirurgia in almeno due situazioni; quando sussiste occlusione uretrale da parte della neoplasia e quando il tumore sanguina così abbondantemente da anemizzare il paziente.


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Terapia radiante È stata proposta la terapia radiante intraoperatoria. In 11 cani la sopravvivenza media è stata di 15 mesi. È anche riportata la terpia radiante assieme a terapia medica combinata con mitoxantrone e piroxicam con una sopravvivenza media di 240 giorni.

CHEMIOTERAPIA Chemioterapia intravescicale Contrariamente all’uomo, dove la terapia intravescicale con Bacillo di Calmette e Guérin è la norma in pazienti con TCC non invasivo o carcinoma in situ, nel cane, data la normale invasività della neoplasia la chemioterapia locale ha dato scarsi risultati.

Chemioterapia sistemica I farmaci più attivi sono la doxorubicina, il mitoxantrone ed i sali di platino (cisplatino e carboplatino). In nessun caso si è avuta una risposta completa e la sopravvivenza media è stata di circa 130 giorni. Un nuovo chemioterapico, la gemcitabina, sembra avere un ruolo importante nel trattamento ed in uno studio preliminare tutti i soggetti trattati hanno dimostrato un miglioramento oggettivo dei sintomi, ma non si conosce l’andamento clinico completo. Un fattore limitante è il costo estremamente elevato.

Farmaci antinfiammatori non steroidei (nonsteroidal anti-inflammatory drug NSAID) L’effetto degli NSAID è dovuto non tanto ad una attività antineoplastica diretta, quanto alla regolazione dell’apoptosi ed alle proprietà immunomodulatrici ed antiangiogeniche.

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Il più usato di questa classe farmacologia è il piroxicam. In uno studio su 62 casi ci sono state 2 risposte complete, 9 risposte parziali e 35 pazienti con malattia non progressiva. 16 cani non hanno risposto la trattamento e la sopravvivenza media è stata di 195 giorni. È stata anche indagata l’attività del piroxicam assieme al carboplatino con risultati comparabili ma tossicità, soprattutto renale, molto maggiore. Un altro NSAID che sembra avere attività è il deracoxib.

Fattori prognostici Dal punto di vista prognostico, si sono dimostrati importanti l’invasione vascolare, l’interessamento uretrale, la differenziazione ghiandolare e lo stadio T3.

NEOPLASIE VESCICALI NON TRANSIZIONALI Seppur rari, una piccola parte dei tumori vescicali non appartengono ai carcinomi a cellule di transizione. I più comuni sono i tumori mesenchimali (fibroma e fibrosarcoma) ed il rabdomiosarcoma botroide. I primi possono avere una buona prognosi dopo cistectomia parziale. Il rabdomiosarcoma botroide è una neoplasia molto rara che colpisce prevalentemente soggetti giovani di razza grande e gigante. Il trattamento si basa sulla cistectomia parziale accompagnata da chemioterapia adiuvante con doxorubina. Sono segnalate guarigioni complete.

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Chirurgia di prepuzio, pene e scroto Giorgio Romanelli Med Vet, Dipl ECVS Cusano Milanino (MI)

ANATOMIA

MALATTIE DEL PENE

Pene

Ipospadia

Il pene è composto di tre principali divisioni: la radice, il corpo e l’estremità distale o glande. La radice è attaccata alla tuberosità ischiatica tramite la crura destra e sinistra. Ogni crura è composta dalla parte prossimale dei corpi cavernosi e dai muscoli ischiocavernosi. Il corpo spongioso contiene l’uretra peniena. Il corpo inizia dalla curvatura della crura e termina all’osso del pene e costitutivo per la maggior parte dal corpo cavernoso ed a corpo spongioso. Il glande è diviso in un bulbo ed una parte lunga che è la più distale. I corpi penieni contengono degli spazi venosi allargati. I corpi cavernosi sono coperti da uno strato connettivale denso, la tunica albuginea. Il corpo spongioso origina nella cavità pelvica ed avvolge l’uretra lungo tutta la sua lunghezza. Il bulbo del glande circonda la parte prossimale dell’osso del pene che origina caudalmente al bulbo e si estende fino alla parte terminale del glande. Vi sono 4 paia di muscoli penili intrinseci: il retrattore del pene, l’ischiocavernoso, il bulbospongioso e l’ischiouretrale. L’apporto arterioso del pene avviene tramite tre branche dell’arteria peniena che è una continuazione della pudenda interna ed il drenaggio venoso avviene tramite le vene pudende interna ed esterna. L’innervazione proviene dai plessi sacrale e pelvico.

Prepuzio Il prepuzio è una struttura tubulare che contiene tutto il pene in stato di riposo ed è connessa alla parete addominale ventrale. È composto di uno strato esterno cutaneo e da uno strato interno d’epitelio squamoso. L’irrorazione deriva dalle arterie pudende mentre quella della cute prepuziale deriva dall’arteria epigastrica superficiale.

Scroto È una tasca bilobata, divisa in 2 cavità, composta di 2 strati: la cute, esterna, e la tunica dartos, interna. Quest’ultima è composta di tessuto connettivale e muscolatura liscia. Lo scroto contiene i testicoli, gli epididimi e la parte distale dei funicoli spermatici. La cute dello scroto è sottile e glabra. Anche l’irrorazione dello scroto deriva dalle arterie pudende. Sia pene che prepuzio che scroto drenano nei linfonodi inguinali superficiali.

È l’errata terminazione dell’uretra sulla punta del glande. L’uretra si può aprire in qualsiasi punto dell’uretra: penile, scrotale o perineale. I segni clinici possono essere assenti o legati ad uno stato infiammatorio del prepuzio. Il paziente a volte si lecca insistententemente il pene. Alcune volte non richiede alcuna terapia e la semplice sutura dello sbocco anomalo non è utile vista l’ipoplasia coesistente dell’uretra a valle. In caso sia necessaria una terapia, si esegue una uretrostomia scrotale.

Ferite Possono essere secondarie a morsi da altri cani, dall’accoppiamento, da salti o da traumi da autoveicoli. La diagnosi è semplice. In casi di ferite superficiali si può suturare la mucosa con materiale riassorbibile monofilamento 3 o 4/0. In caso di ferite più profonde è necessario suturare anche la tonaca albuginea. È corretta una terapia antibiotica per 5-7 giorni. In caso di rottura dell’uretra si deve lasciare un catetere in situ per 5-10 giorni. Se l’uretra è completamente tagliata, si deve suturarla con un filo monofilamento riassorbibile 4 o 5/0.

Fratture dell’osso del pene Sono poco comuni e possono presentarsi da sole o assieme a ferite penetranti. In caso di fratture non scomposte si può attuare una terapia conservativa mediante il mantenimento di un catetere uretrale per 10-15 giorni. In caso di fratture complesse o quando il callo occlude l’uretra è necessaria un’uretrostomia scrotale.

Strangolamento del pene È causata dall’applicazione di lacci alla base del pene. Ne deriva una necrosi tissutale massiccia con necrosi del pene distalmente al laccio. In caso di diagnosi precoce si deve rimuovere la legatura ed applicare una pomata antibiotica. Nei casi più severi è necessaria l’amputazione parziale o completa del pene. È necessario differenziare questa patologia dalla parafimosi perché il trattamento è diverso.

Neoplasie del pene e dell’osso penieno I tumori primari del pene non sono rari. Gli istotipi più comuni sono il tumore venereo trasmissibile, il carcinoma squamocellulare, i papillomi, l’emangioma e l’emangiosarcoma. L’osso penieno può essere sede di osteosarcoma. Mentre la terapia del tumore venereo trasmissibile è medica e si attua mediante la somministrazione di vincristina alla dose di 0,5 mg/m2 per via endovenosa una volta la setti-


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mana per 4-6 settimane, la terapia delle altre forme neoplastico è prettamente chirurgica e consiste nella ablazione totale del pene con uretrostomia scrotale, tranne che per i papillomi che possono essere trattati con exeresi locale.

Persistenza del frenulo Malattia rara, più comune nei cani di razza toy. Lo sfoderamento del pene è impossibile e anche l’urinazione può essere difficoltosa. Il paziente si lecca il pene. La terapia consiste nella resezione del frenulo.

Parafimosi Il pene protende dall’orifizio prepuziale e non può essere riposizionato nella sua normale posizione. I segni clinici dipendono dalla durata della parafimosi e sono normalmente causati dal coito o dalla masturbazione nei cani giovani. Il trattamento prevede l’allargamento dell’ostio prepuziale o l’accorciamento dei muscoli prepuziali. Nei casi lievi si può lubrificare il pene, riposizionarlo nel prepuzio e mantenerlo mediante una sutura non completa. I casi gravi ed inveterati possono richiedere l’ablazione del pene con uretrostomia scrotale.

Prolasso dell’uretra Malattia tipica del bulldog inglese e riportata anche nello yorkshire. La mucosa uretrale prolassa sulla punta e sanguina facilmente. Il trattamento consiste nell’amputazione della parte prolassata.

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TECNICA CHIRURGICA Ablazione totale del pene con uretrostomia scrotale Paziente in decubito dorsale. Si seguono due incisioni a lato del prepuzio che si estendono fino al margine posteriore dello scroto, avendo cura di conservare una certa quantità di cute scrotale al fine di evitare un’eccessiva tensione nel punto d’uretrostomia. Si controlla il sanguinamento e si allacciano i rami prepuziali dei vasi epigastrici superficiali. Si separa il prepuzio dalla fascia addominale fino alla zona prescrotale e si amputa il pene poco anteriormente allo scroto. Il sanguinamento del bulbo e dei corpi cavernosi si controlla mediante 1 o 2 punti ad U trapassanti il moncone penieno. Si asporta la parte ventrale dello scroto e si esegue una orchiectomia bilaterale standard. A questo punto si retrae il muscolo retrattore del pene, s’individua l’uretra e si esegue un’uretrostomia scrotale suturando a punti staccati con materiale monofilamento non riassorbibile l’uretra e la cute. In alternativa, per diminuire la possibilità di sanguinamento postoperatorio si esegue una prima sutura fra il sottocute e l’albuginea ed una seconda sutura fra l’uretra e al cute. La ferita lasciata dall’ablazione prepuziale si sutura in doppio strato.

Frenulectomia Si evidenzia il frenulo che viene tagliato alla base sia dal pene che dal prepuzio. Si applica una sutura con filo riassorbibile monofilamento 4 o 5/0.

Prolasso dell’uretra MALATTIE DEL PREPUZIO Fimosi È il contrario della parafimosi e consiste nell’impossibilità d’estroflettere il pene dall’orifizio prepuziale. I segni clinici sono conseguenti alla balanopostite risultante dal ristagno d’urina e dall’impossibilità di leccarsi. Il trattamento consiste nell’allargamento dell’orifizio prepuziale.

Ferite prepuziali

S’introduce un catetere urinario come guida e si eseguono 4 incisioni a tutto spessore della parte prolassata in corrispondenza dei 4 punti cardinali. Si suturano quindi le due porzioni di mucosa alla base dell’incisione. Si ripete il passaggio nei 3 punti rimanenti in modo da vere un ancoraggio robusto ed evitare la retrazione della mucosa. Si asporta quindi tutta la mucosa prolassata tagliandola e suturandola per tutta la circonferenza.

Ampliamento dell’ostio prepuziale

Le più superficiali possono essere trattate conservativamente. Le ferite profonde richiedono una sutura in 2 strati separati, mucosa e cute.

Si esegue un’incisione di 1.5 – 2 cm sulla parte più ventrale del prepuzio e si suturano la cute con la mucosa prepuziale. È necessario eseguire una incisione un po’ più ampia in previsione della retrazione cicatriziale.

Tumori prepuziali

Accorciamento dei muscoli prepuziale

Il prepuzio è sede di tumori cutanei. Particolarmente comuni sono il mastocitoma e l’adenoma delle ghiandole epatoidi. Il trattamento consiste nell’exeresi parziale del prepuzio in caso di neoplasie di piccole dimensioni o nell’ablazione totale del pene con uretrostomia scrotale. Gli adenomi epatoidi rispondono alla castrazione come quelli perineali.

Si esegue un’incisione a mezzaluna davanti al prepuzio. Si individuano i 2 muscoli prepuziali che sono accorciati suturandoli a S. La ferita cutanea si sutura in 2 strati.

Uretrostomia scrotale

MALATTIE DELLO SCROTO

La fase scrotale è esattamente la stessa dell’intervento d’ablazione totale del pene. È importante mantenere una parte della cute scrotale per evitare un’eccessiva tensione sulla sutura.

Ferite

Ablazione scrotale con castrazione

Poco comuni nonostante la sacca scrotale sia molto esposta. Le ferite più lievi si trattano conservativamente e con l’uso di suture molto sottili. È bene ricordare di usare con attenzione gli antisettici perché la cute scrotale è molto delicata. Ferite o traumi più estesi richiedono l’ablazione dello scroto con castrazione.

Si esegue un’incisione ellittica alla base dello scroto, che viene asportato. Si cauterizzano i vasi capillari e si esegue una castrazione standard. La ferita si sutura in doppio strato. Da molti è considerata la tecnica più indicata e più estetica in tutti i casi di castrazione.

Neoplasie

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Il tumore più comune a carico dello scroto è il mastocitoma. La terapia richiede l’ablazione dello scroto con castrazione.


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Il costo ed il relativo onorario della prestazione specialistica chirurgica Giorgio Romanelli Med Vet, Dipl ECVS Cusano Milanino (MI)

RELAZIONE NON PERVENUTA

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Nuove tecniche e tecnologie in ecografia veterinaria Federica Rossi Med Vet, Diploma ECVDI, Sasso Marconi (BO)

INTRODUZIONE

ENDOSONOGRAFIA

Negli ultimi anni molti sforzi sono stati fatti per sviluppare nuove tecnologie in ecografia con l’obiettivo di aumentare il numero e la specificità delle informazioni che questa metodica può produrre. Due sono le strade percorse nello sviluppo di queste apparecchiature. La prima ha la finalità di migliorare la visualizzazione della struttura per descrivere in modo più accurato le caratteristiche morfologiche della lesione, mediante un incremento della risoluzione spaziale e/o di contrasto dell’immagine e la riduzione di artefatti o elementi di disturbo. Va in questa direzione l’utilizzo di sonde elettroniche ad altissima risoluzione, inoltre lo sviluppo della tecnologia del sistema armonico e delle sonde a “banda larga”. Un’immagine migliore può essere ottenuta anche con un approccio che ottimizzi la finestra acustica portando il trasduttore a stretto contatto con la struttura da esaminare. È il campo dell’ecografia endo-cavitaria (endo-sonografia), che utilizza sonde di piccolissime dimensioni veicolate da uno strumento adatto a portarle nel lume dell’organo esaminato, che può essere l’apparato gastro-enterico o il lume di un vaso. Dettagliate informazioni sulle dimensioni, i margini, l’ecostruttura di lesioni non raggiungibili mediante un approccio standard sono acquisite mediante questa metodica. Tuttavia non viene superato il limite dell’ecografia in B-mode di avere bassa specificità nella differenziazione della natura della lesione1. Questo problema ha spinto la ricerca a percorrere la seconda strada, che ha l’obiettivo di trovare altri elementi utili alla CARATTERIZZAZIONE della lesione, cioè l’identificazione di fattori specifici che consentono di differenziarla in base alla propria natura. Fanno parte di questo gruppo le metodiche che valutano la vascolarizzazione degli organi e delle lesioni come l’ecografia Doppler (PW, Color, Power). Gli studi effettuati in Medicina Umana hanno permesso di mappare la vascolarizzazione di diversi tipi di lesioni nell’uomo2,3, tuttavia hanno evidenziato anche i limiti di questa metodica nel visualizzare flussi a velocità lente, con basse intensità associati spesso ad artefatti da movimento3. L’introduzione dei mezzi di contrasto ha risvegliato nuovo interesse per la possibilità di studiare la PERFUSIONE di una struttura e nell’uomo questa metodica ha già acquisito un ruolo importante per la differenziazione di lesioni maligne e benigne4,5,6. Le prime esperienze in Medicina Veterinaria risalgono a diversi anni fa7, tuttavia le principali applicazioni riguardavano gli animali da esperimento utilizzati per la ricerca Umana8,9. Recenti esperienze nel cane e nel gatto mostrano risultati incoraggianti10-12. L’obiettivo della relazione è di presentare alcune delle metodiche di recente introduzione che hanno interessanti applicazioni anche per i piccoli animali da compagnia.

L’endosonografia è una metodica utilizzata da circa 20 anni in Medicina Umana per lo studio dell’apparato grastroenterico e di organi adiacenti. Il vantaggio di questa tecnica è quello di fornire immagini di elevatissima qualità anche di strutture difficilmente raggiungibili mediante l’ecografia trans-addominale o trans-toracica, per la loro sede (circondate da aria o da osso) e/o per le loro dimensioni. La visualizzazione della lesione è ottimale in quanto il trasduttore viene posizionato a stretto contatto con la parte di interesse. Con questa metodica è possibile effettuare prelievi bioptici mirati a tutto spessore. Inizialmente utilizzata esclusivamente in Gastroenterologia, oggi prevede numerose altre indicazioni ed applicazioni in caso di lesioni polmonari, esofagee, gastriche, epatiche, pancreatiche e linfonodali. Le prime esperienze in Medicina Veterinaria risalgono alla metà degli anni 90 e riguardano lo studio dell’anatomia del mediastino, del pancreas e l’ecocardiografia transesofagea13-16. Negli ultimi due anni nuovo interesse per questa tecnologia ha portato ad incrementare l’esperienza e le sue applicazioni nei piccoli animali17-18. La strumentazione ha subito rapida evoluzione negli ultimi decenni. I primi studi venivano condotti utilizzando piccole sonde introdotte nel canale di servizio dell’endoscopio. Successivamente piccoli trasduttori meccanici venivano incorporati all’estremità di endoscopi convenzionali. Le attrezzature più moderne consentono di usare video-endoscopi flessibili accoppiati a sonde elettroniche lineari, provviste di tecnologia Doppler spettrale, Colore e Power Doppler.

SISTEMA ARMONICO E MEZZI DI CONTRASTO ECOGRAFICI Il sistema armonico è una metodica che utilizza una diversa frequenza di ultrasuoni in trasmissione e ricezione. Il fascio ultrasonoro che ritorna dalla struttura esaminata alla sonda non è mai costituito da un’unica frequenza poiché l’interazione delle onde ultrasonore con i tessuti genera frequenze che sono multipli della frequenza fondamentale emessa. Di tutte le nuove frequenze generate, le onde che hanno frequenza 2f sono la componente dominante e rappresentano la cosiddetta “seconda armonica”. Per esempio, gli ultrasuoni emessi da una sonda con frequenza fondamentale di 4 MHz (f) vengono modificati per formare onde di 8 MHz (2f). Questo fenomeno si realizza continuamente durante l’esame ecografico, tuttavia con i sistemi convenziona-


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li esso non viene sfruttato per la formazione dell’immagine, per la quale vengono utilizzate solo frequenze molto simili alla fondamentale. Sistemi ecografici innovativi sono in grado di ricevere il segnale di seconda armonica, che può essere successivamente isolato e rielaborato. Due sono le applicazioni del sistema armonico nella pratica clinica, l’“armonica tissutale” e l’utilizzo in associazione ai mezzi di contrasto ecografici.

Armonica tissutale L’applicazione della metodica della seconda armonica per l’esame ecografico in B-mode può produrre vantaggi in quanto può determinare la riduzione di alcuni artefatti ecografici (ring down, lobi laterali, averaging) ed il miglioramento della risoluzione laterale. Nell’uomo studi riguardanti l’ecocardiografia trans-toracica hanno dimostrato vantaggi soprattutto in pazienti obesi e con parete spessa19-21, mentre in ecografia addominale i risultati sono più discordanti2224 . L’esperienza in questo settore in Medicina Veterinaria è limitata25,26 ed i vantaggi portati da questa metodica per ora non sembrano giustificarne l’utilizzo nella pratica clinica.

Mezzi di contrasto ecografici L’idea di aumentare le caratteristiche di ecoriflettenza di una struttura mediante l’utilizzo di una sostanza iniettata nel sangue risale a numerosi anni fa ed ha portato allo sviluppo di mezzi di contrasto ecografici sempre più sofisticati. Le difficoltà legate ai primi mezzi di contrasto (bolle di gas libere) erano legate alle loro grandi dimensioni (tra 10 e 100 µm) ed alla scarsa persistenza nel circolo ematico. Questi limiti sono stati superati dall’introduzione di bolle di gas stabilizzate, in cui i gas sono immersi in una sostanza solubile che agisce da elemento stabilizzante. Le piccole dimensioni delle microbolle (2-5 µm) ne consentono il passaggio attraverso il filtro polmonare e la distribuzione alla circolazione sistemica ed ai tessuti periferici grazie anche ad una maggiore persistenza. L’utilizzo del mezzo di contrasto con tecnologia tradizionale in B-mode non da risultati adeguati in quanto si ha una riduzione del contrasto tra il sangue ed il tessuto circostante, inoltre le microbolle altamente riflettenti impediscono la visualizzazione delle strutture sottostanti. Questo problema ha spinto verso lo sviluppo di sistemi ecografici dedicati, basati sul concetto che il mezzo di contrasto è un ottimo produttore di segnale in seconda armonica. Le bolle di gas, investite dal fascio di ultrasuoni che attraversa il tessuto producono questo segnale che viene utilizzato per formare l’immagine, nella quale la differenziazione tra il sangue e il compartimento extravascolare è ottimale. Un ulteriore passo avanti nello sviluppo di questa tecnologia è sta-

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to fatto con l’introduzione dei mezzi di contrasto di seconda generazione e dei moduli ecografici a basso indice meccanico. Infatti il limite dei mezzi di contrasto di prima generazione, caratterizzati dalla presenza di aria nel loro interno (es. Levovist®), è rappresentato dalla fragilità delle bolle che si rompono velocemente quindi il tempo utile in cui è possibile visualizzare mdc è limitato. Gli studi condotti associando metodica Doppler e mezzi di contrasto di prima generazione hanno evidenziato difficoltà legate alla comparsa di artefatti ed alla scarsa sensibilità a rilevare flussi a bassa velocità27-29. Al contrario, i mdc di seconda generazione contengono gas anziché semplice aria (es. SonoVue®), le cui microbolle producono un forte eco di ritorno quando il guscio che compone la bolla oscilla senza rompersi. L’oscillazione della microbolla senza la rottura è resa possibile dall’impiego di apparecchiature che possono lavorare con basso indice meccanico (MI), che è il parametro che quantifica l’effetto meccanico dell’ultrasuono sui tessuti. Lavorando con MI molto basso (inferiore a 0,2) e selezionando il segnale di seconda armonica proveniente dal mdc è possibile eliminare completamente l’eco proveniente dal tessuto a favore di quello proveniente dal mezzo di contrasto. Con questo tipo di apparecchiature (es. EsaTune, Esaote Biomedica) è pertanto possibile studiare in modo ottimale non solo la distribuzione del mdc nei vasi ma anche nei capillari tissutali per valutare la PERFUSIONE di un organo o di una lesione29-31. I primi studi effettuati nei piccoli animali hanno permesso di studiare la perfusione di lesioni della cavità addominale con risultati incoraggianti11-12.

CONCLUSIONI Le nuove tecnologie ecografiche offrono interessanti applicazioni anche in Ecografia Veterinaria. L’endosonografia aumenta i campi di applicazione dell’ecografia diagnostica ed interventistica. L’uso del sistema armonico e dei mezzi di contrasto ecografici di seconda generazione aprono nuove possibilità per la caratterizzazione delle lesioni mediante lo studio della loro perfusione. I costi elevati di queste attrezzature costituiscono un limite per il loro utilizzo nella pratica clinica.

Bibliografia disponibile presso l’autore

Indirizzo per la corrispondenza: Federica Rossi Ambulatorio Veterinario dell’Orologio, Via dell’Orologio, 38 40037 Sasso Marconi (BO) Tel e fax: 051 6751232 e-mail: chiccarossi@yahoo.it


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Introduzione alla malattia psicosomatica: casi clinici risolti Coral Mateo Sànchez Med Vet, Gijon (Asturia), Spagna

L’organismo elabora le emozioni nel cervello limbico, che stimola la neocortex. Se è molto forte, o se si mantiene a lungo, l’emozione altera l’ipotalamo e determina l’insorgenza di una malattia psicosomatica. La risposta del cervello è identica, indipendentemente dal fatto che la stimolazione sia reale o immaginaria. Il cervello funziona al meglio quando si sente bene; in caso contrario, quando sperimenta sensazioni di paura, insicurezza o angoscia, ha un rendimento inferiore al 100%. Sentirsi sicuri è molto importante. Senza lo studio dell’omeopatia questi pazienti rimangono senza trattamento. Esempio: consideriamo un cucciolo molto pauroso e con rachitismo, che trema costantemente e si spaventa per tutto. Potrebbe rispondere bene al trattamento con calcio, benché il miglioramento dell’osteopatia non sia affatto sicuro, ma il timore costante con cui convive non scompare; invece, il trattamento omeopatico con calcarea carbonica fa sparire anche la paura, ristabilendo l’equilibrio del cucciolo su tre livelli: 1° emozionale -sparisce la paura-; 2° mentale -sparisce il nervosismo- e 3° fisico -sparisce l’osteopatia-. Questa terapia eviterà inoltre che al crescere della paura il cucciolo sviluppi un atteggiamento di difesa, trasformandosi in un animale aggressivo. Uno dei molti vantaggi della prescrizione di un farmaco omeopatico e la possibilità di utilizzare un agente che è stato sperimentato su persone, per la maggior parte medici, che hanno potuto registrare non solo i cambiamenti fisici, che sono gli unici che si possono osservare in un animale di laboratorio che non è in grado di parlare e dirci come si è sentito durante l’esperimento, ma anche quelli mentali ed emotivi. Un altro vantaggio dello studio dell’omeopatia è che questa è sempre uguale, non cambia, si amplia soltanto. I risultati ottenuti nelle sperimentazioni sono sempre gli stessi; durante quasi 200 anni queste prove si sono ripetuti in molte occasioni, in distinte parti del mondo, e i risultati sono stati sempre uguali. La cosa più interessante è però che si possono trattare tutte le malattie (incluse quelle per le quali non esiste terapia) in modo semplice, economico ed efficace. Per i veterinari che si occupano di grossi animali l’omeopatia presenta poi altri vantaggi: non apporta materia, non lascia alcun residuo tossico e, nel caso che si renda necessario l’abbattimento, l’animale arriva al macello senza essere stato trattato con farmaci. Non apporta alcuna materia?

A cosa serve avere un trattamento senza materia? Il medico tedesco Samuel Hahnemann scoprì il primo medicamento con effetto omeopatico in modo casuale, come accade spesso. Così si dedicò allo studio di altri prodotti, 90 per la precisione, per lo più tossici come l’arsenico, la cicuta, la digitale o il mercurio; per evitare di danneggiare i suoi discepoli con la sperimentazione, alla quale partecipò anche la sua famiglia, sviluppò un metodo per ridurre al minimo la dose, anche a rischio di far scomparire l’effetto, e il risultato fu sorprendente: ogni volta otteneva un maggiore potere curativo, vale a dire più energia, e man mano che riduceva la materia diminuiva il danno. La materia scompare completamente a partire dalla 12a diluizione centesimale (CH), in assenza di impedimenti il medicamento risulta ogni volta più forte, modificando la mente al di sopra della 30a CH e stabilizzandola alla 200a CH, arrivando ad assicurare l’equilibrio emotivo alla 1000a CH. È un’ingiustizia storica che si consideri come padre della sperimentazione in biologia Claudio Bernal per via del suo lavoro sugli animali del 1865; infatti, Hahnemann pubblicò il suo nel 1810, cioè 55 anni prima. Analogamente, scoprì il potere della mente prima ancora che nascesse Freud, e le emozioni prima che venissero fissate le basi della malattia psicosomatica. Con l’omeopatia si possono trattare tutte le malattie? Tutto si può migliorare. Bisogna solo trovare fra tutti i medicamenti conosciuti quello che provoca i medesimi sintomi, così che l’organismo faccia quello che si è previsto, ma senza consumare le “sue” energie, bensì utilizzando quelle del medicamento, così che il processo di riparazione avvenga quasi gratuitamente. L’esito della cura omeopatica si deve a ciò che aiuta l’organismo a conseguire quello che si propone, invece di contrastarlo. Tuttavia, è necessario comprendere perché fra questi sintomi così insoliti ce ne siano alcuni che possono arrivare a costituire un pericolo per la sopravvivenza. L’omeopatia non sempre è in grado di spiegare “perché” l’organismo si comporta in questo modo, ma sa per esperienza che se lo aiuta e potenzia i sintomi, questi scompariranno. Esempio: l’influenza. L’organismo viene attaccato dal myxovirus influenzale. La cellula attaccata avvisa dell’invasione e con la sua morte violenta e non programmata, secondo i meccanismi previsti (apoptosi) allerta l’organismo, che pone in marcia il sistema immunologico con tutte le sue componenti.


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Tutti i sintomi che compaiono progressivamente sono prodotti dall’organismo per liberarsi dell’attaccante; fra queste manifestazioni risultano molto efficaci la febbre, la produzione di muco e la tosse. Non è corretto annullare i sintomi: vuol dire porsi dalla parte del microrganismo. Fortunatamente, questo sopravvive solo una settimana. Domanda importante: Stiamo malati perché siamo colpiti dal virus dell’influenza? o siamo stati colpiti dal virus perché eravamo malati? L’omeopatia non si oppone all’organismo, annullando i sintomi, anzi, tutto il contrario, si pone accanto ad esso e provoca i medesimi sintomi. Utilizzando un medicamento scelto correttamente nel repertorio di quelli disponibili, l’influenza scompare nel volgere di poche ore e questo non è tutto, il paziente si sente meglio di prima della “malattia”. Il motivo per cui ci sono tante scuole di omeopatia e tanti metodi differenti di applicarla, che confonde così tanto i

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principianti, è da attribuire alla seconda moglie di Hahnemann, la francese Melanie, che negò la pubblicazione dell’ultima opera di suo marito, la sesta edizione dell’Organon, dove era stato anche risolto il problema degli aggravamenti iniziali, mediante le diluizioni cinquantamillesimali (LM), ce costituiscono una modalità terapeutica senza lo sgradevole e a volte pericoloso aggravamento iniziale; e quando finalmente la tanto attesa sesta edizione vide la luce, 80 anni dopo, i discepoli dei suoi discepoli avevano sviluppato differenti tecniche di terapia senza aggravamento, con risultati tanto soddisfacenti che le LM al principio passarono quasi inosservate e senza dubbio sono le migliori.

Bibliografia Hahnemann Organon 6ª ediccion. Hahnemann 90 Medicamentos homeopaticos. Miraguano 1986. Shuji Murata. Lecciones de homeopatia. Academia de homeopatia de Asturias.1990. Zalman J. Bronfman. Dialogos con un homeopata. Club de estudio 1998.


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Casi clinici dermatologici risolti: atopia canina, rogna demodettica, alopecia, dermatiti psicogene e lupus Coral Mateo Sànchez Med Vet, Gijon (Asturia), Spagna

I primi esseri viventi che abitarono questo pianeta traevano la loro energia dallo zolfo. Non è strano che lo facciano tuttora i loro discendenti e che lo zolfo sia il medicamento più utilizzato e, curiosamente, quello che si adatta meglio.

ATTEGGIAMENTI MENTALI 1. SIMPATICO, saluta tutti, si trova bene con tutti, sembra un esperto di pubbliche relazioni, ma non è affettuoso, è disposto a comportarsi bene, ma per stare in pace e poter avere quello che desidera. 2. OTTIMISTA, si nota principalmente quando sta male, vocalizza e agita la coda, anche se è gravemente malato. 3. PIGRO, sta comodo, non gli piace l’esercizio fisico (soprattutto da adulto) e sta sempre accovacciato, inoltre abbaia piano. Nella sala di attesa dorme e se si tarda di un secondo lo fa anche sul tavolo da visita. 4. SUDICIO, se si insudicia o si spettina non mostra alcuna intenzione di pulirsi e non ama bagnarsi; è l’unico momento dove sembra attivo. Urina e defeca ovunque e gli sembra una cosa corretta, anche se è seduto al vostro fianco. 5. SI ADATTA a tutto. Non pretende di risolvere la mancanza di fiducia, come fa il “tipo Licopodyum” pavoneggiandosi o, come il “tipo Pulsatilla”, cercando un appoggio, ma semplicemente con un atteggiamento sicuro. 6. CORAGGIOSO, non è aggressivo, ma se necessario si batte a morte. Sente la paura come tutti, ma la accetta, non si nasconde come il tipo calcarea, semplicemente osserva il pericolo e decide cosa fare, non si blocca e dà l’impressione di non avere paura. 7. EGOISTA, mangia e si preoccupa dei pasti anche se non ha più fame. Non gli piace che lo molestino, e sta sempre con qualcuno, ma separato, cerca compagnia solo quando ha bisogno di qualcosa. Quando si ammala mostra un’avversione per la compagnia (sintomi molto importanti per un omeopata, si apparta e si nasconde e se lo si va a cercare si alza e se ne va altrove). 8. COLPA, come il tipo seppia, silicea o thuya, dopo aver manifestato un comportamento aggressivo o aver ringhiato perché è afflitto da qualche dolore, viene verso di voi agitando la coda e/o leccandovi la mano.

SINTOMI FISICI GENERALI 1. Caloroso. Mangia di tutto, tutto gli piace. Questo comportamento si accentua con la fame. Ha molta sete, soprattutto dopo mangiato. I pazienti che presentano in generale un cattivo odore lo mantengono nonostante il bagno o lo eliminano solo per poco tempo. Sensibile a odori forti o sgradevoli (eccetto i suoi). Non sopportano abiti stretti o di lana.

SINTOMI FISICI LOCALI Tendenza centrifuga dei disturbi del paziente. Eliminazione cutanea: inizia con prurito e grattamento accentuato che migliora momentaneamente; inoltre favorisce le lesioni da grattamento. Escoriazioni umide maleodoranti che tendono alla suppurazione. Queste essudazioni si aggravano per il leccamento e peggiorano di notte o per effetto del calore e della lana. Atopia e allergie cutanee. Eczemi secchi o umidi: periodicamente alternati con diarrea, asma, reumatismo, etc. Suppurazione: cutanea (da stafilococco, streptococco), foruncoli, carbonchio. Secrezioni irritanti, ferite e che provocano escoriazioni delle mucose. Autointossicazioni da: congestioni venose ed arteriose attive (con arrossamento delle aperture mucocutanee, soprattutto l’ano), che cercano il fresco a causa di un intenso riscaldamento di certe zone, mentre altre restano fresche. Malattie con andamento altalenante: per la difficoltà di disintossicarsi (diarrea, eczema. rinorrea, congiuntivite, etc.) o a causa di interventi terapeutici inadatti perché basati solo su sintomi locali. Flatulenza addominale: gas maleodorante (odore sulfureo, o di uova marce). Alterna stitichezza e diarrea. Prurito anale, escoriazione anale, ano arrossato. Tendenza alle infestazioni parassitarie (psorinum, calcarea silicea, china) Fegato congestionato, sensibile alla palpazione Epilessia.


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DISTURBI DI TIPO: EMOZIONALE: mortificazione. NON EMOZIONALE: mancanza di secrezioni e vaccinazioni. TENDENZE PATOLOGICHE Cute Mucose digerenti e respiratorie. Circolatorie. Gatto “Solfuro” Dormiglione, solitario e amante delle comodità (preferisce la sedia morbida a quella dura). Desidera la tranquillità assoluta. Si nasconde perché non lo disturbino, sebbene talvolta si nasconda anche per fare uno scherzo al proprietario, per spaventarlo. E il gatto che dorme e che si stira di più nella vita e che si lava meno. Felice, sporco, arruffato e maleodorante. Non ha problemi, si adatta a tutto. Capace di urinare e defecare in qualunque posto, Non ha né grandi fobie né grandi paure. Davanti ad un cane non si spaventa, lo guarda e lo analizza. È prudente. Caloroso. Ha un buon appetito e una sete nella norma. Non è un bravo cacciatore, caccia solo se la preda gli passa vicino.

CONSIDERAZIONI DA TENERE PRESENTI Il paziente non può presentare tutti i sintomi del medicamento, sarebbe impossibile (il solfuro ha 11000 sintomi registrati), ma È IL MEDICAMENTO CHE DEVE COMPRENDERE TUTTI I SINTOMI DEL PAZIENTE. Il solfuro è indicato, inoltre, nei seguenti casi: - quando il rimedio scelto accuratamente non funziona, utilizzandolo come trattamento intercorrente (=nosodi) per eliminare gli ostacoli che si oppongono all’azione del rimedio corretto “Allen e Nash”; - quando il caso è oligo- o asintomatico. Non avere sintomi non significa necessariamente essere sano, a volte è tutto il contrario, non si mostrano sintomi perché non si ha energia sufficiente, per cui la riparazione dell’organismo risulta quasi impossibile. Una piccola dose di solfuro darà l’energia necessaria perché appaiano i sintomi che, se rilevati e valutati correttamente, porteranno a trovare il trattamento adeguato per il paziente.

Bibliografia Dr. Farrington. Materia Medica Clinica. New Delhi 1996. Dr. Paschero. Homeopatia.El ateneo.1991. Dr. E.B.Nash.Fundamentos deterapeutica homeopatica. Dr. Candegabe. Materia medica comparada.


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Casi clinici risolti: epilessia ed urolitiasi Coral Mateo Sanchez Med Vet, Gijon (Asturia), Spagna

SINTOMI MENTALI In casa, è felice e tranquillo. Mangia, gioca e dorme (RISPARMIA ENERGIA). Nella clinica è ansioso, guarda continuamente la porta, insiste per scappare, con la lingua fuori e le pupille dilatate. PAUROSO: Il cuccioletto Calcarea teme tutto (non tollera la paura e può passare al panico) e si rifugia vicino ai suoi proprietari, ma migliora a casa sua. Quando cresce comincia a perdere la paura per gli estranei, si va riaffermando e si trasforma in un buon cane da guardia. HA PAURA di star solo, degli sconosciuti, dell’oscurità e dei temporali. Quando va a passeggio, tende a restare entro i limiti della zona conosciuta. Quando va in un posto che non gli è noto, la novità lo infastidisce e desidera tornare a casa. Di fronte a situazioni di paura si paralizza o esce di corsa, sembra perdere il controllo potendo anche manifestare scoppi di violenza o dirigersi da qualche parte (anche cercando di lanciarsi attraverso le pareti). VIOLENTO: si manifesta quando la paura è molto intensa o quando conosce bene la situazione, ma di fronte all’improvvisa reazione dell’attaccante o dell’aggredito non sa come comportarsi (debilitazione mentale). TESTARDO: ostinato, resta nella clinica manifestando insistentemente il desiderio di andarsene, insieme ad un atteggiamento di inquietudine ansiosa. In generale quando cerca qualcosa insiste fino alla fine, se lo spinge la paura può sfondare porte, reticolati, etc. Difficile da addestrare, se ha paura si blocca. DESIDEROSO DI CAREZZE, ma non per affetto, bensì per il contatto fisico, che gli piace e che chiede con insistenza quando ne ha voglia. CACCIATORE PROFESSIONISTA, si rotola in mezzo alle carogne putride di animali morti ed agli escrementi per mascherare i propri odori e poter cacciare. Se non ha nulla di meglio, si dedica ad acchiappare le mosche.

sto e l’altro si presenta sonnolento. Sotterra gli alimenti per “condirli”. Apprezza i cibi marci, infestati da vermi e acidi. PUBERTÁ ritardata. FEBBRE: brividi, soprattutto di notte. Convulsioni.

SINTOMI LOCALI Dentizione difficile e lenta, con disturbi (diarrea convulsioni). Crisi diarroiche acute e giallognole (più raramente verdi), schiumose e a spruzzo, dovute all’iperacidità dello stomaco e dell’intestino. Apprezza molto il latte, che però gli provoca diarrea. Stitichezza abituale da atonia intestinale, che può essere caratterizzata da feci dure oppure prima dure e poi molli, interrotta di tanto in tanto da crisi diarroiche acute. Tendenza alle parassitosi. Atopia canina. Allergia. Verruche e polipi. Calcoli urinari, l’80% dei casi di FUS sono gatti Calcarea Spasmi epilettiformi da ipocalcemia. Epilessia: insorge per paura, eccitazione sessuale o brusca soppressione di eruzioni cutanee. Difetti della fissazione del calcio (rachitismo, osteopatia). Disturbi: eccesso. Calcioterapia. Displasia dell’anca. Ritardo nel raddrizzare le orecchie. Ulcere corneali ribelli. Cheratocongiuntivite secca. DISTURBI PER: CALCIO. Mancata assimilazione o eccesso di calcio. Dentizione. SOPPRESSIONE delle secrezioni (cute o durante il calore) EMOZIONALI (timore, ansietà, collera e spavento)

SINTOMI FISICI GENERALI In tutti i casi possono apparire le convulsioni. GRASSO, tendenza ad accumulare liquidi. Ha molti ectoparassiti, nell’uomo i soggetti Calcarea Carbonica sono molto attaccati dalle zanzare. FREDDOLOSO Peggio: per correnti d’aria, freddo umido. GHIOTTONE, mostra un desiderio smodato (compulsivo) di latte e di materiali non commestibili come LE PARETI, il legno, la carta, il cartone e la terra (nux vomica, silicea, solfuro) e ruba spazzatura e carbone. Mangia tutto il giorno. Tra un pa-

GATTO CALCAREA: Grande, cicciottello, tranquillo, casalingo. Pauroso. Letargico, muscoli deboli, l’addome si palpa molto bene. Gioca molto, si stanca e dorme. Somiglia un po’ al tipo solfuro, può calpestare lo sterco


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per disattenzione, ma poi si pulisce e inoltre il tipo Calcarea chiede di essere massaggiato dai suoi padroni. Il miglior gatto da caccia, porta i topi come trofei. Mangia molto e tutto, gli piacciono le ossa. Succhia i tessuti, lecca di tutto e mangia fili e spaghi. Apprezza molto il latte, che però in alcuni casi gli provoca diarrea. Tendenza alla formazione di boli fecali. Tendenza patologica a: Alterazioni cutanee. Parassiti. Diarrea. Calcoli: l’80% dei gatti con FUS (Sindrome Urologica Felina) appartiene al gruppo Calcarea. TRATTAMENTO MEDIANTE DILUIZIONE CON METODO PLUS. È il metodo con più forza. Si può iniziare con: 30CH (diluizioni centesimali) per eliminare i sintomi FISICI. 200CH per equilibrare la MENTE. 1000CH per le EMOZIONI. Se il malato che si desidera trattare presenta gravi lesioni o è un paziente geriatrico, non bisogna correre alcun rischio con un aggravamento iniziale, per cui si usa il medicamento in diluizione cinquantamillesimale (LM). 6LM è pari a 30CH. 12LM equivale a 200CH si procede aumentando di 3 in 3 fino alla 30LM.

Se si arriva alla 30LM e il paziente non è completamente guarito, si può invertire la scala e scendere dalla 30LM alla 9LM Come si prepara il Metodo Plus: Diluire in 30 ml di acqua 2 granuli del medicamento scelto, usare il flacone di cristallo color topazio. Agitare la preparazione, colpendo il flacone per 10 volte con il palmo della mano e somministrare al paziente 2ml nella bocca ESEMPIO: Atopia canina in un soggetto solfuro. Prescrizione: Solfuro 30CH diluizione metodo plus, 2ml ogni 12 ore, per 3 giorni. Saltare 1 settimana. Solfuro 200CH, uguale, 2ml ogni 12 ore, per 3 giorni. Saltare 3 settimane. Solfuro 1000CH, 2,ml ogni 24 ore, per 3 giorni. Saltare 4 settimane. Se il paziente con epilessia è di tipo Solfuro o Calcarea (che già conoscete). Si somministra il medicamento alla 200CH, secondo le modalità illustrate, ed è ben probabile che non sia necessario ripetere la dose. Nei miei primi anni da omeopata, ho guarito senza volerlo vari pazienti affetti da epilessia. Senza saperlo. Erano venuti alla clinica per essere trattati per altri problemi, ma poiché io utilizzo molto la 200 CH, il paziente si equilibrava nella sua totalità e dopo molto tempo me lo riferivano: Sa che dopo che lo ha trattato per i suoi problemi intestinali non ha più avuto nessuna crisi? Erano tutti casi di tipo Calcarea.


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Diagnosi strumentale di comunicazione porto-sistemica nel cane e nel gatto Roberto Santilli Med Vet, Dipl ACVIM-CA (Card), Malpensa (VA)

GianMarco Gerboni, Med Vet, Samarate (VA)

Le comunicazioni porto-sistemiche (CPS) sono alterazioni dell’anatomia vascolare epatica che permettono un collegamento diretto tra il sistema venoso portale ed il circolo venoso sistemico14,15. Sono classificabili come congenite le comunicazioni vascolari singole2,3,15 e costituite da vasi embrionali anomali. Sono tipicamente multiple le anomalie acquisite e secondarie ad una patologia epatica primaria o ad ipertensione portale. Le comunicazioni sono suddivisibili in base alla sede anatomica in intra ed extra-epatiche ma anche per dimensioni e numero di vasi anomali. Tra le anomalie vascolari intraepatiche occorre citare la displasia microvascolare che si caratterizzata per la presenza dei residui intralobulari delle vene vitelline10. Questa particolare forma non è visualizzabile con le comuni tecniche di diagnostica per immagine ma richiede un’indagine istologica. È possibile l’associazione della displasia microvascolare (DME) con le altre anomalie vascolari. Le CPS congenite sono diagnosticate preferibilmente nei cani di razza, quelle intra-epatiche nei soggetti di grossa taglia, quelle extra-epatiche nelle razze medio-piccole2,3,5,14,15. Nella specie felina sono prevalenti le comunicazioni extraepatiche e le razze più colpite sono i Persiani e gli Himalaiani2. I segni clinici dei soggetti affetti da CPS sono altamente variabili e spesso riflettono la gravità dell’anomalia. Caratterizzati da presentazione incostante e spesso intervallati da periodi di assoluta normalità. Sono riferibili a tre apparati: sistema nervoso centrale, gastroenterico e urinario. Gli esami di laboratorio ematologici e biochimici sono fondamentali per formulare un sospetto di CPS ma non ne consentono la diagnosi definitiva. La metodiche per immagine utili ad identificare la presenza di una comunicazioni porto-cavale sono: l’ecografia addominale con ausilio di Doppler pulsato a codice di colore1,4,8,9, l’angiografia portale previa laparotomia13, l’angiografia portale transcutanea retrograda11, la spleno-portografia transaddominale13, la scintigrafia epatica transrettale o con iniezione di 99Tc-macroaggregato attraverso una vena splenica6 e la risonanza magnetica. La portografia mesenterica con mezzo di contrasto positivo è una procedura di sicura efficacia, utilizzata anche dagli autori soprattutto in passato. Possiede il grande pregio di fornire un’accurata localizzazione anatomica delle CPS13, ma lo svantaggio di non prescindere dall’anestesia generale e soprattutto dall’isolamento chirurgico di una vena mesenterica, previa celiotomia. Lo studio completo richiede proie-

zioni radiografiche multiple latero-laterali e dorso-ventrali ognuna con iniezione ripetuta del mezzo di contrasto. L’interpretazione dei radiogrammi angiografici consente di localizzare la sede anatomica dell’anomalia vascolare. Si considerano CPS intra-epatiche quelle in cui il margine caudale del vaso a fine inspirazione risulta posto caudalmente al dodicesimo spazio intercostale e CPS extra-epatiche quelle in cui a fine espirazione la porzione del vaso anomalo risulta a livello o caudale alla tredicesima costa13. È sempre vantaggioso in corso di celiotomia eseguire il prelievo dei campioni bioptici da almeno tre lobi del fegato, utili ad escludere la concomitante presenza di displasia microvascolare epatica10. La portografia transcutanea retrograda è un metodo di recente applicazione che si propone come interessante alternativa per l’identificazione e la caratterizzazione delle comunicazioni anomale tra sistema portale e circolo venoso sistemico11. La fondamentale differenza con le tradizionali tecniche agiografiche descritte e quella di non richiedere chirurgia addominale. La metodica si basa sull’inserimento in anestesia generale di un catetere giugulare che permette il posizionamento di un catetere a doppio lume con palloncino terminale. Attraverso la vena giugulare craniale il catetere è indirizzato nella vena cava craniale e poi spinto e posizionato dorsalmente nel lume della vena azygos. Dopo aver insufflato il palloncino e aver determinato l’occlusione del lume vascolare è possibile, sotto visione fluoroscopica, iniettare il contrasto in modo retrogrado evidenziando le vene intercostali e intervertebrali11. Normalmente il flusso retrogrado porta il contrasto nella porzione pre-epatica della vena cava caudale attraverso le vene intervertebrali. Questa prima iniezione di contrasto è utile ad evidenziare le comunicazioni porta-azygos11. Per la ricerca delle eventuali comunicazioni porta-cava si procede posizionando il catetere in vena cava caudale attraverso l’atrio destro. Dopo aver dilatato il palloncino in posizione craniale alla proiezione diaframmatica si esegue la contrastografia retrograda. Questa seconda iniezione permette di studiare la porzione addominale della vena cava caudale e le eventuali comunicazioni anomale con la vena porta11. L’ecografia addominale è considerata il mezzo di elezione per la diagnosi delle CPS poiché la sensibilità raggiunta è considerata del 95%, con una specificità del 98% e un’accuratezza diagnostica del 94% per la specie canina e del 100% per quella felina8,9,12. L’esame ecotomografico consente di visualizzare nel 100% dei casi le CPS intra-epatiche4 macrovascolari mentre nelle comunicazioni extraepa-


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tiche la sensibilità dimostrata nei più recenti studi ha raggiunto il 92%8. Questo progresso è da attribuire anche all’utilizzo di apparecchiature più sofisticate e dotate di Doppler a codice di colore che consente l’identificazione dei flussi anomali nel punto esatto di innesto con la cava caudale12. Le valutazioni sui dati elencati ed il basso grado di invasività della metodica spiegano il ruolo centrale che l’ecografia ha raggiunto nell’iter diagnostico della CPS ma forse, non pongono nella giusta evidenza quanto l’accuratezza di questo esame sia operatore dipendente. Con lo studio retrospettivo della casistica è stato possibile stabilire la distribuzione dell’anatomia e la sede delle CPS, ma anche apprezzare la sensibilità di alcuni segni ecografici indiretti a carico del fegato e di altri organi ed apparati. Le CPS extra-epatiche sono identificabili nella quasi totalità in proiezione obliqua intercostale destra dorsale7,12 dove è possibile identificare i vasi anomali che mettono in comunicazione i rami portali con la cava caudale o la vena azygos. Le CPS intra-epatiche macrovascolari sono visibili attraverso le proiezioni standard sotto-xifoidea, intercostale sinistra ventrale ed obliqua intercostale destra dorsale1,4,7,12. In base alla sede anatomica possono poi essere descritte come CPS sinistro-poste, centro-poste e destro-poste. È essenziale focalizzare l’attenzione anche sui segni ecografici indiretti perché possono aiutare l’operatore quando non è identificabile con certezza l’anatomia della comunicazione anomala. La possibilità di visualizzare e descrivere ecograficamente le alterazioni epatiche, renali e dei flussi vascolari secondarie ad una CPS costituisce una prova indiretta dell’esistenza stessa dell’anomalia. La riduzione delle dimensioni epatiche8 e la diminuita visualizzazione della trama portale8, rappresentano le alterazioni più immediate e malgrado la soggettività di valutazione, sono sempre presenti nelle CPS del cane e nel 50% di quelle del gatto9; l’aumento di ecogenicità del parenchima epatico11 apprezzabile attraverso il confronto con quello della corticale renale destra e della milza; l’aumento del rapporto tra l’area vena cava caudale misurata in sezione trasversale e quella dell’aorta che diviene > di 1,2 per l’aumentato flusso ematico12; l’aumento della velocità e la pulsatilità del flusso portale ottenuto attraverso le misurazioni con Doppler pulsato e metodo dell’insonazione (> 15 cm/sec) 4,8,9; l’aumento delle dimensioni renali e la presenza di una banda iperecogena midollare e/o di nefroliti9,12; la presenza di uroliti o sabbia urolitica vescicale. Inadeguatezza dello strumentario, pazienti non adeguatamente preparati o poco collaborativi, esperienza dell’operatore sono tutti fattori che possono portare alla non ottimale visualizzazione delle CPS o peggio ad un risultato dubbio.

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La mancata visualizzazione del vaso anomalo potrebbe anche confondere una CPS con una DME, che presenta sintomatologia e rilievi ecografici simili. La presenza dei segni ecografici indiretti può essere sufficiente a far comunque sospettare la presenza della comunicazione porto-sistemica. Nel caso sia sospettata o diagnosticata ecograficamente una CPS il passaggio successivo può essere la scintigrafia epatica quantitativa. In presenza di CPS permette di studiare e confermare la presenza del vaso anomalo ma soprattutto di valutare la “frazione di shunt” 6 attraverso una metodica non invasiva che non richiede anestesia o sedazione del paziente. La scintigrafia quantifica esattamente la quota di sangue che non entra nel fegato ma passa direttamente al cuore e fornisce un indice indiretto della reale perfusione epatica. In condizioni di normalità la frazione di shunt non supera il 15% mentre risulta aumentata in presenza di CPS. Il portogramma nucleare avviene per iniezione transrettale di Na99mTcO46 e attraverso la valutazione delle immagini scintigrafiche seriali è possibile calcolare la quota di sangue che arriva direttamente al cuore attraverso la vena cava caudale saltando il circolo portale epatico. I valori normali di frazione di shunt nel cane sono di 5-15% e nel gatto di 5,9 ± 3,9%, in presenza di CPS sono risultati di 78 ± 5,95% nel cane12 e 52% nel gatto6. La frazione di shunt può essere usata secondo alcuni autori anche per valutare il risultato della chiusura chirurgica del vaso anomalo. L’associazione ecografia-scintigrafia permette di diagnosticare con certezza la quasi totalità delle CPS12 senza ricorrere ad anestesia del paziente, ad esami invasivi o celiotomia esplorativa e consente di acquisire le informazioni utili per stabilire prognosi e terapia ottimale. La contrastografia rimane il mezzo più sensibile quando le altre tecniche presentano risultati contrastanti o quando si sospetta la presenza di anomalie vascolari multiple. I vantaggi della contrastografia retrograda percutanea rispetto agli altri metodi contrastografici sono quelli di non richiedere chirurgia addominale e di permettere valutazioni pressorie, pre-operatorie e in corso di chirurgie difficoltose l’identificazione del vaso stesso attraverso catetere.

Bibliografia disponibile presso l’autore

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Santilli Clinica Veterinaria Malpensa Viale Marconi, 27 21017 - Samarate - Varese Tel. 0331-228155 Fax. 0331-220255 e-mail: rasantil@tin.it


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La sincope: dalla diagnosi alla terapia Roberto Santilli Med Vet, Dipl ACVIM-CA (Card), Malpensa (VA)

Introduzione La sincope è un sintomo definito clinicamente come perdita della coscienza transitoria e a fine spontanea, che in genere causa caduta. Il meccanismo fisiopatologico della sincope è un’ipoperfusione cerebrale globale transitoria4. In alcuni casi la sincope presenta dei prodromi (nausea, vomito, sudorazione, debolezza), ma nella maggior parte dei casi insorge in modo improvviso senza segni premonitori. La durata dell’episodio sincopale è solitamente inferiore a 20 secondi, con una fase di recupero solitamente pronta e completa. Per pre-sincope o lipotimia s’intende una condizione nella quale il paziente avverte l’incombenza di una perdita di coscienza1. La lipotimia è caratterizzata in alcuni casi da sintomi poco specifici quali vertigini e nausea, in altri durante l’episodio può comparire atassia, con decubito sternale o laterale e coscienza conservata. In quest’ultimo caso si preferisce parlare di debolezza periodica9. Durante la sincope, l’alterazione dello stato di coscienza provoca spesso perdita del tono posturale, altre volte induce spasmi localizzati o generalizzati con perdita del controllo degli sfinteri. La seconda evenienza descritta può indurre il clinico a confondere un attacco sincopale con una forma primariamente epilettica5.

Fisiopatologia La sincope è causata da una riduzione transitoria e repentina della consegna d’ossigeno al cervello. Tale consegna è regolata dal flusso cerebrale, dalla tensione parziale arteriosa d’ossigeno e dalla concentrazione d’emoglobina. L’ipossia per indurre una perdita dello stato di coscienza deve diminuire improvvisamente sotto i 20-30 mmhg con ovvia cianosi6. La più frequente causa di perdita della coscienza è la riduzione del flusso cerebrale per una caduta della pressione arteriosa o una brusca variazione della portata cardiaca, con cessazione improvvisa del flusso cerebrale per almeno 6-8 secondi11-12. Il flusso cerebrale medio è di circa 50-60 ml/100 g di tessuto cerebrale al minuto pari a circa il 12-15% della portata cardiaca. Nei soggetti anziani o nei pazienti con sottostante patologia cardiaca tale flusso risulta compromesso con facile insorgenza d’episodi sincopali. Riduzioni delle resistenze periferiche e del ritorno venoso con discesa improvvisa della pressione sistolica sotto i 60 mmhg e un calo dell’apporto cerebrale d’ossigeno del 20% inducono le sincopi disautonomiche e neuromediate11-12. Alla base delle sincopi cardiache vanno ricercati invece tutti i fattori che riducono la gittata car-

diaca quali: bradiaritmie, tachiaritmie, cardiopatie ostruttive, malattie valvolari, malattie pericardiche con tamponamento cardiaco, embolia ed ipertensione polmonare, infarto miocardico acuto4.

Classificazione Sindrome sincopale riflessa neuromediata: è causata da un riflesso che, quando innescato, dà luogo a vasodilatazione e bradicardia, di entità e rapporto variabile, con riduzione del flusso cerebrale. In questo gruppo sono incluse la sincope vasovagale, la seno-carotidea, le situazionali (emorragia acuta, tosse, starnuto, deglutizione, defecazione, dolore viscerale, la post-minzionale e la postesercizio)4. La più comune sincope neuromediata del cane è la situazionale da tosse. Per questo tipo di sincope due ipotesi sulla fisiopatologia sono state formulate. Secondo la prima l’aumento della pressione intra-addominale ed intra-toracica aumenta la pressione venosa centrale e conseguentemente intracranica con ipoperfusione cerebrale. La seconda teoria riferisce che la tosse risulta in una trasmissione attraverso le fibre afferenti del vago al centro vasomotore con successiva vasodilatazione e bradicardia9. Sincope ortostatica: si verifica quando il sistema nervoso autonomo non è in grado di attivare i meccanismi vasocostrittori efficienti con ipotensione ortostatica ed ipovolemia. Esisto diverse forme disautonomiche con insufficienza neurovegetativa primaria e secondaria (insufficienza renale cronica, diabete, ipotiroidismo). Tra le forme legate principalmente all’ipovolemia vengono incluse l’emorragia, la diarrea e l’ipoadrenocorticismo. Una particolare forma di sincope ortostatica è la post-prandiale13. Nel cane in terapia cronica con Ace-inibitori e diuretici sono molto frequenti le intolleranze ortostatiche. Sincopi aritmiche: In questo gruppo rientrano tutti i disturbi del ritmo che possono indurre una calo improvviso della gittata cardiaca. Tra le più comuni le disfunzioni sinusali, i disturbi della conduzione atrioventricolare, le tachicardie parossistiche sopraventricolari o ventricolari con frequenze di scarica superiori a 300 bpm, le sindromi ereditarie come il QT lungo e la sindrome di Brugada4. Nelle disfunzioni del nodo del seno e nei blocchi di terzo grado l’evenienza morte improvvisa è rara, mentre nelle forme aritmiche ventricolari in particolar modo se associate a disfunzioni sistoliche (cardiomiopatia dilatativa dei Dobermann), la morte improvvisa risulta frequente9.


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Sincopi da cardiopatia strutturali: anche in questo caso la causa della perdita della coscienza va ricercata in una brusca riduzione della portata cardiaca causata da cardiopatie valvolari o ostruttive, infarto miocardico acuto, malattie pericardiche con tamponamento cardiaco, ipertensione ed embolismo polmonare9. Nel cane la stenosi subaortica è la più comune causa di sincopi cardiache strutturali. In questo gruppo di pazienti durante l’esercizio la stimolazione dei meccanocettori ventricolari induce uno stimolo vagale con vasodilatazione e bradicardia e sincope (riflesso di Bezold-Jarish). Tale riflesso insieme all’ipossia sono causa di sincope nei pazienti con tetralogia di Fallot. L’ipertensione polmonare e l’embolismo polmonare possono indurre sincope in special modo durante l’esercizio per una riduzione della portata polmonare e quindi sistemica e l’ipossia. Anche la cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva può indurre sincope per l’attivazione del riflesso di Bezold-Jarish. Rare cause di sincopi cardiache strutturali sono ostruzioni al flusso per la presenza di trombi o tumori endoluminale9.

Diagnosi La valutazione iniziale, con intervista dei testimoni dell’evento sincopale, spesso riesce ad identificare la causa della sincope e deciderne l’eventuale malignità. La parte più importante è differenziare un evento sincopale da uno epilettico. Il momento in cui avviene l’evento riveste particolare importanza: gli attacchi a riposo e supini e quelli durante lo sforzo indirizzano verso una sincope aritmica o cardio-strutturale, l’associazione con tosse o minzione verso le forme vasovagali situazionali, l’occorrenza al passaggio dalla posizione seduta a quella in piedi le forme ortostatiche. Le forme epilettiche durano più a lungo, sono precedute dall’aura e seguite da uno stato confusionale post-attacco di circa 5 minuti, c’è morsicatura della lingua che appare classicamente cianotica, è spesso presente per attivazione sistema autonomo salivazione, urinazione, defecazione e vocalizzazioni, gli attacchi tonicoclonici sono prolungati (> 15 minuti) e compaiono al momento della perdita di coscienza. Le forme sincopali durano meno di 20 secondi, non sono precedute da aura, la ripresa è rapida e pronta, solitamente se sono presenti attacchi tonico-clonici seguono di alcuni secondi la perdita di coscienza, la lingua appare pallida, è possibile avere perdita del controllo degli sfinteri5. Alla visita clinica deve seguire la misurazione della pressione arteriosa con la metodica Doppler in clino- ed ortostatismo per valutare le intolleranze ortostatiche caratterizzate da una caduta della pressione sistolica al passaggio in ortostatismo sotto i 90 mmHg o con una differenza di almeno 20 mmHg da una postura all’altra13. L’elettrocardiogramma di base raramente può mostrare aritmie responsabili della sincope: disfunzioni sinusali, blocchi atrioventricolari, blocchi di branca sinistri completi, tachicardie sopraventricolari o ventricolari. Nella maggior parte dei casi, se si sospetta una sincope aritmica, è consigliabile usare, per il più alto valore diagnostico, il monitoraggio Holter8,10, il registratore d’evento2-3 o il registratore

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impiantabile. Coon questi monitoraggi spesso è possibile cogliere l’evento sincopale e confermare o escludere la causa aritmica. Per quanto riguarda il monitoraggio dinamico secondo la metodica Holter occorre tener presente l’enorme variabilità giornaliera del ritmo cardiaco del cane. In condizioni normali è possibile trovare variazioni della frequenza cardiaca da 20-30 bpm fino a 300 bpm durante l’eccitazione o l’esercizio, pause sinusali fino a 5,7 secondi in assenza di disfunzioni sinusali, blocchi atrioventricolari di 2 grado e ectopie ventricolari premature non organizzate. I nuovi registratori permettono inoltre di valutare, con l’elettrocardiogramma ad alta risoluzione, la presenza di potenziali tardivi ventricolari, indici della possibile occorrenza di aritmie ventricolari fatali. Da ultimo è sempre consigliabile eseguire un’ecocardiografia al fine di escludere deficit contrattili, malattie del pericardio o valvolari, miocardiopatie ostruttive ed ipertensioni polmonari che solitamente peggiorano la prognosi della sincope per l’alto rischio di aritmie fatali. In casi selezionati sono indicate prove farmacologiche, rispettivamente con isoproterenolo, atropina e/o adenosina, per svelare aritmie ventricolari catecolaminergiche, disfunzioni sinusali o blocchi atrioventricolari parossistici.

Terapia Le sincopi neuromediate e le intolleranze ortostatiche non presentano rischio di morte improvvisa per cui la terapia deve essere indirizzata al controllo dei sintomi scatenanti o alla riduzione dei farmaci che inducono ipovolemia. In casi selezionati in assenza di insufficienza cardiaca è possibile usare fluidrocortisone. Le sincopi aritmiche possono essere trattate a secondo del tipo con terapia farmacologica, cardiostimolazione nelle bradiaritmie e nei blocchi della conduzione7, ablazione con radiofrequenza in caso di tachiaritmie, in particolar modo sopraventricolari, da rientro. Nei soggetti con aritmie ventricolari ad alto rischio di aritmie fatali oltre al controllo del ritmo farmacologico è suggerito l’impianto di defibrillatori endocavitari. Le sincopi cardiostrutturali vengono trattate, dove possibile, correggendo la causa scatenante.

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Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Santilli, Clinica Veterinaria Malpensa Viale Marconi, 27 21017 - Samarate - Varese Tel. 0331-228155 Fax. 0331-220255 - e-mail: rasantil@tin.it


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Prurito nel cane e nel gatto: trabocchetti diagnostici ed errori terapeutici. I cinque più comuni errori che possono condurre ad una diagnosi sbagliata Fabia Scarampella Med Vet, Dipl ECVD, Milano

Dimenticare l’anamnesi

essere individuate le lesioni primarie (papule e croste) in aree cutanee dove il soggetto non arriva a mordersi, ad esempio, sui padiglioni auricolari. L’esecuzione di raschiati troppo superficiali può essere invece la causa di falsa negatività in caso di rogna demodettica. Questo parassita vive infatti in profondità nei follicoli piliferi e per raggiungerlo la cute deve essere raschiata sino ad apprezzare la comparsa di emorragia capillare. Limitarsi nel numero e nell’estensione delle aree cutanee da raschiare è un altro comune errore, così come tralasciare di tagliare il pelo nelle sedi da campionare. Più raschiati e più superficie cutanea campioniamo e maggiori saranno le possibilità di trovare i parassiti. Inoltre è importante stemperare in abbondante olio di vaselina il materiale raccolto. Preparati troppo ricchi in detriti cutanei e peli precludono una buona osservazione del campione.

Quando viene portato in ambulatorio un animale con prurito un grave errore è iniziare l’esame clinico senza avere prima interrogato il proprietario. Una buona anamnesi generale e dermatologica, remota e recente, compresa la lista dei farmaci già somministrati probabilmente costituisce il 70% della diagnosi. È importante accertare la provenienza dell’animale. Malattie parassitarie quali la rogna sarcoptica, la rogna notoedrica e la cheyletiellosi sono molto contagiose e sono più facilmente riscontrabili in soggetti giovani che provengono da canili, gattili negozi o pensioni. L’eventuale presenza di segni clinici analoghi in cani o gatti conviventi e/o la presenza di papule eritematose sugli avambracci dei proprietari sono ulteriori elementi utili alla diagnosi. L’età in cui si è manifestato il prurito è un altro dato importante. Le allergie si manifestano con prurito cronico mentre la comparsa improvvisa di prurito in soggetti anziani è suggestiva di una malattia autoimmune o di una neoplasia. La localizzazione del prurito ci può dare suggerimenti utili: nel cane un prurito localizzato alla base della coda e al perineo deve fare sospettare un’infestazione o un’allergia alle pulci, mentre la stessa ipersensibilità può manifestarsi nella specie felina con un prurito facciale e del collo e/o con lesioni del complesso del granuloma eosininofilico. Inoltre nel cane la localizzazione del prurito rappresenta uno dei criteri diagnostici maggiori nella diagnosi di dermatite atopica. Infine è importante informarsi sulla risposta a terapie precedenti. Un prurito che cessa con la somministrazione di antibiotici, è probabile che sia dovuto ad un infezione batterica, mentre una parziale o scarsa risposta ai cortisonici è suggestiva di allergia alimentare o di una infestazione parassitaria.

L’esame microscopico di preparati citologici è un mezzo molto utile, rapido, poco costoso, che ci permette di ottenere informazioni importanti sulla lesione in meno di 5 minuti. La sua esecuzione ci permette di diagnosticare facilmente infezioni batteriche e da Malassezia o può suggerirci la presenza di una malattia autoimmune come il penfigo foliaceo o di una dermatite eosinofilica felina. Per ottenere i migliori risultati con questo test bisogna che il materiale raccolto sia il più rappresentativo possibile della condizione in esame. Un errore da non commettere è scegliere le lesioni da campionare “a caso” rischiando di perdere le lesioni primarie intatte, quali papule e pustole. Se commettiamo l’errore di scegliere lesioni secondarie, in aree traumatizzate, potremo solo diagnosticare la presenza di problemi secondari!!!!!

Errori nell’esecuzione dei raschiati cutanei

Impiego errato dei test allergologici

L’esecuzione di raschiati cutanei ci permette di confermare la presenza di una malattia parassitaria. La falsa negatività di questo esame in cani con rogna sarcoptica spesso dipende da errori di manualità o di scelta della sede da campionare. È importante evitate le aree di autotraumatismo, dove sono scarse le probabilità di ritrovare gli acari. Devono

L’abuso dei test allergologici per la diagnosi eziologica del prurito nel cane e nel gatto è un errore molto comune. È importante ricordare che questi esami non hanno un’utilità diagnostica, ma hanno come unico scopo quello di individuare gli aeroallergeni da includere nell’immunoterapia specifica per i cani con dermatite atopica.

Errori nell’esecuzione dell’esame citologico


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Prescrivere una dieta ad eliminazione senza prima aver eliminato le infezioni secondarie La dieta ad eliminazione, è ad oggi, l’unico test attendibile per la diagnosi delle reazioni avverse al cibo. Questo test si considera positivo in caso che il prurito e le lesioni dell’animale regrediscano sensibilmente durante la dieta. Un errore fondamentale è iniziare la prova senza prima aver individuato e trattato eventuali infezioni batteriche e da Malassezia secondarie. Queste infezioni infatti possono aumentare notevolmente il prurito dei soggetti affetti ed essere responsabili di risposte falsamente negative al test. Inoltre, poiché la dieta ha una durata variabile da 6 a 8 settimane è importante ricontrollare periodicamente il cane o il gatto nel corso della prova, per valutare la comparsa di recidive.

I CINQUE PIÙ COMUNI ERRORI TERAPEUTICI La fretta di eliminare il prurito Il prurito è uno dei motivi più frequenti di consulto veterinario, ed è in assoluto il segno clinico che un proprietario è più ansioso di vedere sparire dal proprio animale. La fretta di eliminare il motivo d’ansia del cliente può spingerci a commettere l’errore di prescrivere una terapia sintomatica prima di avere identificato la causa del problema. In particolare l’impiego della terapia cortisonica, può ridurre sensibilmente l’intensità del prurito e di parte dei segni clinici anche in cani e gatti affetti da malattie parassitarie o infettive rendendo così più difficile l’identificazione dell’agente eziologico e la sua eliminazione con la terapia specifica.

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minimo i motivi di fallimento dovuti ad errori nella somministrazione dei farmaci. Un proprietario ben informato infatti, che incontreremo regolarmente ai controlli ogni 3-4 settimane, difficilmente sbaglierà ad interpretare la nostra prescrizione o deciderà arbitrariamente di sospendere la terapia perché il proprio animale gli sembra guarito. Rivalutare il soggetto al termine della terapia è inoltre importante al fine di valutare la presenza di segni clinici che possono suggerirci la presenza di una malattia primaria sottostante. La persistenza di eritema interdigitale e sui padiglioni auricolari in un soggetto che abbiamo curato per una dermatite da Malassezia deve, ad esempio, farci sospettare la presenza di una dermatite atopica sottostante.

Profilassi antipulci inadeguata L’incidenza dell’allergia al morso delle pulci nei cani atopici è significativamente maggiore, se confrontata con l’incidenza nella popolazione generale e questo suggerisce che l’atopia sia un importante fattore predisponente per questa malattia. Per questo motivo una profilassi antipulci rigorosa è essenziale negli animali affetti da dermatite atopica. I più comuni errori nello svolgimento del controllo alle pulci, consistono nell’impiego di antiparassitari a dosi insufficienti o applicati solo ad uno degli animali di casa. Altre comuni cause di fallimento sono da ricercarsi nell’uso di adulticidi senza regolatori della crescita o viceversa oppure in intervalli troppo lunghi fra le applicazioni dei prodotti. Per ridurre al minimo i rischi di fallimento è senz’altro preferibile consigliare prodotti in formulazioni che siano semplici da somministrare per i proprietari.

Errori nell’impiego della terapia cortisonica Mancato controllo delle infezioni secondarie Il ruolo delle infezioni secondarie come fattori esacerbanti il prurito nei animali atopici è spesso sottovalutato. Le dermatiti allergiche sono malattie croniche e in particolare i cani affetti sono predisposti a contrarre infezioni secondarie per il frequente autotraumatismo e per la terapia corticosteroidea cui sono spesso sottoposti. Essi infatti presentano comunemente un aumento della popolazione di Staphylococcus intermedius e di Malassezia pachydermatis sulla superficie cutanea e le tossine prodotte da questi microrganismi sono responsabili delle improvvise crisi di prurito. Un errore comune è trattare tutte le esacerbazioni del prurito con la terapia antinfiammatoria (cortisonica) senza avere valutato attentamente la presenza di infezioni secondarie. Spesso, in queste situazioni, la terapia antimicrobica da sola è in grado di risolvere efficacemente la crisi.

Carente monitoraggio dell’evoluzione clinica È importante dedicare tempo all’informazione del cliente e programmare una serie di appuntamenti per controllare l’evoluzione clinica del paziente. Questa condotta ridurrà al

Al momento il prednisone a basso dosaggio somministrato per via orale è considerato la terapia di elezione per il controllo della dermatite atopica del cane. In generale si impiega la dose giornaliera di 0,25-0,5 mg/ kg per circa una settimana per poi passare al regime di mantenimento a giorni alterni. Gli errori più comuni nell’impiego della terapia cortisonica sono l’improvvisazione del protocollo terapeutico e la scelta errata del cortisonico o della sua formulazione. Nel cane, prescrivere un cortisonico più potente del prednisone tutti i giorni per lunghi periodi, non offre vantaggi terapeutici e aumenta gli effetti collaterali, così come l’impiego dei cortisonici iniettabili a deposito è sconsigliabile per l’aumento potenziale degli effetti collaterali e per la capacità di indurre atrofia cutanea nelle sedi di inoculo. Alcuni soggetti apparentemente ben controllati con prednisolone a giorni alterni possono manifestare improvvisi aumenti del prurito, dando l’impressione di essere diventati resistenti alla terapia. Un grave errore in questi casi è aumentare il dosaggio o sostituire il prednisone con un altro cortisonico senza aver prima indagato la presenza di altre cause responsabili. Le infezioni secondarie batteriche e da Malassezia, l’esposizione improvvisa all’infestazione da pulci o


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una reazione da ipersensibilità a farmaci topici, quali shampoo o preparazioni otologiche sono spesso responsabili di queste false tachifilassi. Nel gatto il dosaggio del cortisone può essere da due a quattro volte superiore a quella del cane e gli effetti collaterali in questa specie sono meno preoccupanti. Un errore comune pertanto è quello di prescrivere un cortisonico ad un dosaggio insufficiente per ottenere un efficace effetto antinfiammatorio.

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Indirizzo per la corrispondenza: Fabia Scarampella - Via Sismondi 62 - 20133 Milano


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Il caso più strano che abbia mai visto Un caso di dermatite lichenoide lineare in un gatto Fabia Scarampella Med Vet, Dipl. ECVD, Milano

Laura Ordeix, Med Vet, Dipl. ECVD

Segnalamento e anamnesi: Un gatto di razza Persiana, femmina castrata di sei anni di età viene portata alla visita perché da circa tre mesi zoppica, si mordicchia le zampe e ha intensificato notevolmente le operazioni di tolettatura. La gatta è sottoposta a profilassi antipulci regolare (selamectina spot on) è alimentata con un cibo commerciale ed è l’unico animale presente nell’appartamento. Non le è possibile uscire di casa ad eccezione del mese di agosto in cui viene portata dai proprietari in Liguria in una casa con giardino. L’animale non mostra apparenti segni di malessere generale, mangia con appetito e non manifesta aumento della sete o alterazioni delle funzioni organiche.

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: Esame clinico: L’esame obiettivo generale è nella norma. All’esame dermatologico sono osservabili una serie di alterazioni: 1. marcata ipercheratosi di tutti i cuscinetti plantari con formazione di corni cutanei sub-ungueali 2. presenza di alopecia e placche iperpigmentate ed esfoliative su entrambi i padiglioni auricolari 3. papule multiple poligonali ed ipercheratotiche sulla porzione ventrale del tronco

Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Lista di diagnosi differenziali: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

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Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Indirizzo dell’autore Presentatore: Fabia Scarampella, via Sismondi 62, Milano Tel. 02 717378, fax 02 7490750 @: fabia.scarampella@dermvet.fastwebnet.it


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Caso clinico patologico Silvia Schiavi Med Vet, CES Derm, CES Oculistica, Udine

Antonella Vercelli Med Vet, Dipl CES Dermatologia, Torino

Segnalamento e anamnesi: Matilde, gatta europea di

Lista di diagnosi differenziali:

10 anni, femmina sterilizzata di colore bianco. La gatta viveva in casa, ma era libera di uscire in giardino, dove non vi erano animali conviventi. Riceveva un’alimentazione industriale umida. Era regolarmente vaccinata e negativa ai test FIV-Felv eseguiti annualmente. Da circa un mese e mezzo aveva sviluppato un’otite purulenta bilaterale trattata dal veterinario curante per via sistemica con una cefalosporina iniettabile per sette giorni, seguita da enrofloxacina per via orale e terapia topica con un prodotto otologico veterinario contenente gentamicina e desametazone per circa due settimane. Dopo un iniziale miglioramento, alla sospensione dei farmaci si osservava recidiva nell’arco di pochi giorni; alla quale seguiva un’ulteriore terapia iniettabile con una cefalosporina per altri otto giorni ed un ‘iniezione sottocutanea di ivermectina per escludere la rogna notoedrica occulta. Nonostante i trattamenti prescritti, le condizioni delle orecchie e dei padiglioni auricolari si erano deteriorate gravemente nell’arco di pochi giorni con comparsa di ulteriori lesioni cutanee anche su testa e collo, a questo punto l’animale veniva riferito per una visita dermatologica di consulto.

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Esame clinico: All’esame clinico generale si rilevava ottundimento del sensorio, estremo dolore alla palpazione dei padiglioni auricolari, scarso prurito, e lieve ipertermia (39.2°). I linfonodi cervicale erano moderatamente aumentati di volume, mentre gli altri linfonodi esplorabili erano nella norma. L’esame diretto particolare mostrava spesse croste ed ulcere sanguinanti che coinvolgevano il padiglione auricolare sia esternamente che internamente. Il condotto auricolare non era esplorabile. Sulla testa in zona temporale e frontale si osservavano lesioni alopeciche a bersaglio di forma circolare-ovalare, con contorno eritematoso, caratterizzate da placche di cheratina di colore biancastro, moderatamente esfoliative, analoghe lesioni erano focalmente presenti sul collo e sul dorso.

Definizione dei problemi dermatologici: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Procedure diagnostiche: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Esame dermatopatologico: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Trattamento proposto: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................

Evoluzione clinica: ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................ ................................................................................................


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Iperadrenocorticismo nel furetto (mustela putorius furo): eziopatogenesi, diagnosi e terapia Paolo Selleri Med Vet, Roma

L’iperadrenocorticismo è una delle patologie endocrine più frequenti del Furetto (Mustela putorius furo). In Nord America questa patologia viene diagnosticata in più del 70% dei furetti visitati, mentre in Italia l’incidenza è inaspettatamente più bassa. L’iperadrenocorticismo è caratterizzato da un aumento di volume di una (80%) o entrambe (20%) le ghiandole surrenali e da un’esagerata produzione di ormoni sessuali da parte di queste. L’estradiolo è l’ormone che più frequentemente risulta aumentato. Da un punto di vista istologico il parenchima ghiandolare può essere interessato da semplice iperplasia, adenomi o adenocarcinomi.

Eziopatogenesi Le teorie proposte per spiegare la comparsa di questo disturbo sono molteplici. Il fattore principale nella comparsa dell’iperadrenocorticismo del furetto sembra essere la gonadectomia; le probabilità di comparsa dell’iperadrenocorticismo sono tanto più alte quanto più precoce è la sterilizzazione. La maggior parte dei furetti che si trovano nei negozi vengono sterilizzati in allevamento a circa 6 settimane di età con lo scopo di ridurre notevolmente il tipico odore forte del furetto e l’aggressività, questo ne consente una più semplice commercializzazione. La gonadectomia eseguita ad un età così precoce comporta un annullamento del feedback negativo che le gonadi hanno sulla produzione del GnRH ipofisario. Nelle furette ovari-isterectomizzate i livelli plasmatici di ormone luteinizzante (LH) risultano aumentati rispetto a quelli di furette intere. La porzione corticale del surrene e le gonadi hanno la stessa origine embrionale. In seguito ad una stimolazione cronica alcune cellule del parenchima surrenale particolarmente sensibili all’ormone luteinizzante (LH), possono andare incontro ad iperplasia ed iniziano una produzione aberrante di estrogeni sessuali. A conferma di ciò è interessante notare che il tessuto tumorale del surrene del furetto si presenta particolarmente ricco di recettori per l’ormone luteinizzante. Studi effettuati su topi hanno dimostrato che l’esagerata secrezione di gonadotropine ipofisarie induce nelle surrenali di animali gonadectomizzati in età neonatale la formazione di tumori secernenti estrogeni. Negli animali sterilizzati in età adulta invece, non accade lo stesso fenomeno.

Un altro fattore il cui coinvolgimento viene considerato nella comprensione della patogenesi dell’iperadrenocorticismo del furetto è la elevata sensibilità di questa specie al fotoperiodo. I furetti usati come animali da compagnia sono esposti a cicli di luce artificiali, la vita in appartamento crea un fotoperiodo innaturale. Con la perdita dei normali ritmi circadiani ne consegue una riduzione, o comunque un’alterazione della produzione di melatonina, ormone ipofisario che è secreto soprattutto di notte e interviene nella regolazione di molti processi fisiologici tra cui quelli riproduttivi. La melatonina è legata in maniera inversa ad un altro ormone fotodipendente: la Prolattina. Bassi livelli di melatonina si hanno in conseguenza di un aumento del fotoperiodo e sono associati ad un aumento del rilascio delle gonadotropine, quando aumenta il fotoperiodo aumenta la prolattina. Oltre all’aumento delle ore di luce vivendo in casa a questi animali viene a mancare anche il ritmo naturale delle stagioni e quindi le fluttuazioni anomale di melatonina, attraverso l’azione sulle gonadotropine, influenzano anche le surrenali. Nell’iperadrenocorticismo del furetto l’ormone che più frequentemente risulta alterato è l’estradiolo, ma anche androstenedione, 17α-idrossiprogesterone e diedroepiandrosterone solfato frequentemente possono aumentare. Alcune volte può accadere invece che l’estradiolo risulta normale mentre sono aumentati solo gli altri, se si tratta di un adenocarcinoma a dare la malattia comunemente tutti gli ormoni possono risultare aumentati. I carcinomi tendono ad essere biologicamente più attivi.

Sintomatologia I sintomi dell’iperadrenocorticismo sono diversi e la loro comparsa non segue sempre lo stesso ordine. Uno dei primi segni a comparire è il prurito generalizzato, accompagnato da una alopecia bilaterale e simmetrica che può iniziare coinvolgendo solamente la coda (chiamata coda di ratto). Le regioni più interessate sono i lombi, i fianchi e gradualmente l’alopecia si estende anche sulla regione ventrale dell’addome, sul torace fino a coinvolgere parte della testa. Il proprietario inoltre si rende conto che l’animale sta continuando da diverso tempo a perdere peso. Nelle femmine la vulva si gonfia simulando il calore e può essere presente un scolo mucoso. Nei maschi può com-


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parire un atteggiamento aggressivo e dominante verso le femmine o gli altri maschi che è tipico del maschio intero. Nel Maschio inoltre la continua stimolazione ormonale induce sulla prostata un iperplasia che può raggiungere dimensioni tali da rendere difficoltosa la minzione. A volte il motivo della visita può essere la stranguria. Alcune volte la sintomatologia negli stadi iniziali può temporaneamente regredire per ripresentarsi in seguito. L’esame emocromocitometrico non mostra solitamente alterazioni. Con il progredire della malattia i furetti appariranno dimagriti, meno vivaci, meno disposti al gioco e in questi casi è frequente la comparsa di una anemia o addirittura pancitopenia. L’esame Biochimico solitamente non mostra alterazioni, se si dovesse riscontrare ipoglicemia questa sarà da collegarsi alla frequente comparsa di insulinomi nel tessuto pancreatico. Gli insulinomi sono un reperto frequente nei furetti e ciò è ancora più frequente nei soggetti affetti da iperadrenocorticismo.

Diagnosi L’anamnesi e la sintomatologia ci indirizzano subito verso una patologia su base endocrina mentre l’elevata frequenza di questa malattia tra i furetti ci orienta verso una ricerca più approfondita della funzione delle ghiandole surrenali. La conferma della diagnosi può essere raggiunta attraverso l’ecografia o le analisi del sangue. Il primo ausilio diagnostico da considerare è l’esame ecografico. L’ecografia ci da una conferma immediata del nostro sospetto, ci fornisce informazioni sulle dimensioni e sull’aspetto (ecografico) delle ghiandole surrenali. Inoltre con l’ecografia sapremo se una sola o entrambe le ghiandole sono interessate; se è una sola, quale delle due è quella interessata e ci permette di ispezionare anche gli altri organi addominali escludendo la presenza di metastasi. Anamnesi, sintomatologia ed conferma ecografica sono già sufficienti ad emettere una diagnosi. Altro metodo diagnostico è la valutazione nel sangue di tre ormoni: estradiolo, androstenedione e 17-idrossiprogesterone. Questi esami sono di sicuro aiuto nella comprensione della malattia ma non offrono lo stesso tipo di vantaggi che offre l’ecografia. Inoltre in alcuni (pochi) casi non è presente alcuna alterazione dei tre valori nonostante i segni palesi di malattia surrenale. Anche la Risonanza Magnetica è stata utilizzata per confermare i sospetti diagnostici, ma i costi elevati non la fanno considerare come prima scelta tra le possibili indagini collaterali. La Radiologia difficilmente riesce ad essere diagnostica dal momento che le surrenali si rendono evidenti solo se calcificate o qualora l’aumento di volume raggiunga dimensioni improbabili. Altro metodo diagnostico è la valutazione del rapporto cortisolo urinario/creatinina urinaria (UCCR) che in corso di iperadrenocorticismo del furetto risulta aumentato. Il principale vantaggio della valutazione del cortisolo urinario rispetto al cortisolo plasmatico è che il primo esprime il valore di cortisolo plasmatico libero in un periodo di tempo mol-

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to maggiore mentre valutando direttamente il cortisolo plasmatico i risultati offrono una minore attendibilità in quanto il cortisolo viene secreto con modalità pulsatile. Il vantaggio offerto da questo metodo è indubbiamente la comodità della raccolta del campione. Nel tentativo di raggiungere la diagnosi, inoltre, non va dimenticato che alcuni di questi furetti provengono da allevamenti in cui non è sempre garantita la presenza di un medico veterinario e la certezza che le chirurgie siano eseguite da medici veterinari è quantomeno dubbia. Per questo motivo nelle furette con segni di calore va tenuta in considerazione la possibilità che l’ingrossamento della vulva possa essere dovuto ad un intervento mal eseguito e quindi alla permanenza di un frammento ovarico in addome.

Terapia L’asportazione completa della ghiandola surrenale interessata risolve il problema in maniera definitiva. Nessuna delle altre terapie offre gli stessi vantaggi. L’adrenalectomia non deve essere considerata un’emergenza chirurgica. È importante migliorare le condizioni generali dell’animale prima di pensare di sottoporlo all’intervento. Iniziare nel furetto la terapia medica prima di intervenire chirurgicamente riduce notevolmente i tempi della convalescenza. Per chi si avvicina alla chirurgia degli “animali particolarmente piccoli” (le furette spesso non raggiungono il peso di un kilogrammo) è necessario capire che diventano fondamentali fattori che spesso non siamo abituati a considerare nella chirurgia del cane e del gatto. L’ipotermia, l’ipoglicemia intervengono con una rapidità che non possiamo prevedere e sono proprio queste le cause più comuni del fallimento dell’intervento. È fondamentale comprendere le basi della fisiologia e dell’etologia dell’animale che stiamo per operare. Senza queste basi come potremmo sapere quanto deve durare il periodo di digiuno preoperatorio? Quali sono le indicazioni del postoperatorio? Senza conoscere il normale comportamento dell’animale come saremo in grado di valutare l’efficacia della terapia analgesica che abbiamo scelto? La chirurgia degli animali esotici prevede inoltre l’utilizzo di strumenti per il riscaldamento intraoperatorio del paziente (tappetini riscaldanti), occhiali telescopici, strumenti per la prevenzione ed il controllo delle eventuali emorragie. Il mancato rispetto di queste regole è una negligenza non meno grave del mancato rispetto della sterilità. In sala chirurgica tutto deve essere già pronto, perché tutto deve essere fatto nel minor tempo possibile. L’apertura dell’addome deve essere sufficientemente lunga da poter esteriorizzare la milza; l’incisione viene eseguita iniziando 2 cm caudalmente alla appendice xifoidea dello sterno e terminata circa 3 cm dopo l’ombelico. La ghiandola surrenale sinistra è posta nello spazio retro-peritoneale, medialmente al lobo craniale del rene. Per rendere più semplice la visualizzazione della ghiandola la milza viene esteriorizzata e ribaltata lungo l’asse più lungo sull’addome del furetto. Uno strato di grasso avvolge la ghiandola e rende la visualizzazione dei vasi surrenalici più complicata.


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L’utilizzo di clip in titanio e/o radiobisturi o laser per la chiusura dei vasi rende l’intervento più semplice, rapido e minimizza i rischi di emorragia. La rimozione della surrenale destra è un intervento molto più complicato rispetto all’adrenalectomia sinistra. La surrenale destra è molto vicina, quasi aderente, alla vena cava e quando aumenta di volume tende a spostarsi sulla sinistra del vaso e ad avvicinarsi ulteriormente al vaso stesso, tanto che a volte il processo neoplastico per contiguità arriva a coinvolgere la parete del vaso. L’approccio alla ghiandola è parzialmente impedito dal lobo destro del fegato che copre la surrenale, recidendo parzialmente il legamento del lobo caudato del fegato si ottiene una migliore visualizzazione. Nel caso in cui entrambe le ghiandole siano aumentate di volume si procede rimuovendo interamente la ghiandola sinistra e parzialmente quella destra. Secondo alcuni autori la presenza di tessuto surrenale accessorio nella regione è sufficiente a giustificare la scelta di un’adrenalectomia bilaterale. Quando le dimensioni del tumore sono ridotte può essere utilizzata la criochirurgia. La sonda del criostato viene inserita nella ghiandola che viene sottoposta a 1, 2 o 3 cicli di congelamento. Dato il pericolo che il congelamento possa compromettere altri organi si consiglia di utilizzare questa tecnica solo quando si è raggiunta una certa esperienza. Nel caso in cui la parete della vena cava dovesse venire compromessa durante l’intervento, l’emorragia sarà imponente. Se la legatura del vaso (eseguita anteriormente alla vena renale) non può essere evitata esistono comunque buone probabilità che si instauri una circolazione collaterale e che il furetto si riprenda. Qualora fosse presente una iperplasia prostatica normalmente non è necessario intervenire sulla prostata perché una volta rimossa la surrenale il tessuto andrà incontro a regressione piuttosto rapidamente. L’integrazione con prednisolone che si esegue in seguito all’adrenalectomia del cane raramente è necessaria nel furetto, soprattutto se è stata eseguita una adrenalectomia monolaterale. Se il furetto si mostra particolarmente abbattuto e anoressico può essere somministrata una dose di 0,2-0,3 mg/kg di prednisolone. La terapia medica dell’iperadrenocorticismo deve essere considerata solamente se le condizioni di salute del furetto non sono tali da non poterlo sottoporre ad una anestesia oppure quando il proprietario non è disposto ad affrontare l’impegno economico dell’intervento.

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La leuprorelina acetato è un farmaco utilizzato in medicina umana per trattare tumori testicolari e carcinomi prostatici nell’uomo ed endometriosi, fibromi uterini, carcinomi della mammella nella donna e per il controllo della comparsa troppo precoce della pubertà. La Leuprorelina (Enantone 3.75®) è la migliore alternativa alla chirurgia. È un analogo del GnRH, svolge la sua azione inibendo la secrezione di FSH ed LH e di conseguenza inibisce la steroidogenesi di ovaie e testicoli. Nei furetti inibisce la secrezione di Estradiolo da parte delle ghiandole surrenali creando un feedback negativo a livello dell’ipofisi. I dosaggi per la leuprorelina variano a seconda del tipo di preparazione retard che viene scelta, la dose più utilizzata è 0,1 mg/kg i.m., ripetuta ogni trenta giorni. Un altro tipo di terapia prevede l’utilizzo della Leuprorelina nella preparazione da ripetersi ogni 4 mesi (Enantone 11.25®) iniettando 2 mg/kg per via sottocutanea. L’utilizzo del Mitotane non ha dato lo stesso tipo di risultati. I sintomi cominciano a regredire dopo la seconda settimana dall’inizio del trattamento. Ovviamente questo farmaco non cura le surrenali ma ci consente di migliorare le condizioni vita del furetto e di poter fare in modo che questi affronti la chirurgia in uno stato generale migliore.

Prevenzione Molti studi sono in corso per capire come poter prevenire l’iperadrenocorticismo del furetto. Le maggiori speranze sono rivolte all’applicazione della melatonina. Sembra inolte che sostituire la chirurgia con tecniche alternative come l’impianto sottocutaneo di antagonisti al GnRH o immunizzazione contro il GnRH possa prevenire la comparsa della malattia. Al momento gonadectomizzare i furetti dopo il raggiungimento della maturità sessuale e comunque il più tardi possibile, è il solo metodo per limitare la comparsa della malattia.

Indirizzo per la corrispondenza: Paolo Selleri Via Ambrogio Fusinieri, 50 - 00149 Roma


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Epidemiologia descrittiva di 101 cani presentati come affetti da patologie comportamentali confrontati con altri 104 considerati senza disturbi Corrado Sgarbi Med Vet, Torino

Cristina Tarizzo Med Vet, Torino

Riassunto In questo lavoro sono state analizzate e descritte le caratteristiche di 101 cani presentati alla visita specialistica per disturbi legati al comportamento. Alcuni dati quali il sesso, provenienza, composizione del nucleo familiare, convivenza con altri animali, età di adozione sono stati confrontati con un altro gruppo formato da 104 cani che non presentavano, secondo i proprietari, comportamenti disturbati.

Introduzione Sempre più spesso giungono negli ambulatori dei liberi professionisti dei clienti che lamentano dei disturbi del comportamento dei loro cani. A volte il collega affronta l’argomento da solo ma sempre più di frequente si avvale della collaborazione di un veterinario che si occupa in modo specifico della medicina comportamentale. In questo lavoro sono state analizzate le caratteristiche soggettive ed ambientali di 101 cani che presentavano, a detta dei proprietari, problemi riferiti al comportamento. Tutti i soggetti in studio e del gruppo di confronto vivevano in ambiente cittadino di una grande città. Lo scopo del presente lavoro è stato quello di effettuare uno studio di epidemiologia descrittiva finalizzato all’analisi delle situazioni vissute come disturbi comportamentali al fine di individuare dei possibili fattori prevalenti o scatenanti da analizzare in successivi studi ad hoc di epidemiologia analitica.

Materiali e metodi I casi oggetto del presente lavoro sono giunti alla nostra consultazione negli ultimi anni, dal 01-01-2000 al 31-12-2002, e sono stati arruolati in modo consecutivo. Sono state considerate le caratteristiche legate al sesso, all’età di arrivo nella famiglia e l’età a cui sono giunti all’osservazione, alla presenza in casa di altri animali o di bambini, la provenienza dei soggetti ed il fatto di aver frequentato una scuola di addestramento o subito un tra-

sloco.Tutti i casi sono stati analizzati con una consultazione comportamentale strutturata con una scheda cartacea di valutazione/presentazione autosomministrata dal padrone e da un’indagine puntuale svolta come colloquio/osservazione da parte del consulente di medicina comportamentale. I 101 soggetti, in questo lavoro, non sono stati segmentati per patologia comportamentale né volutamente è stata approfondita l’anamnesi e la diagnosi del singolo caso. Il criterio di arruolamento dei soggetti è stata unicamente quella dell’arrivo alla consulenza specifica con una dichiarazione, da parte dei proprietari e del collega, di un comportamento che, a loro detta, non rientrava nella ‘normalità’. Alcuni dati sono stati messi a confronto con un gruppo di altri 104 cani, arruolati consecutivamente, che non erano descritti, dai relativi padroni, come soggetti con comportamenti alterati. I risultati, per quanto riguarda l’indagine di confronto, sono stati analizzati con il programma Epi Info 2000 per la significatività statistica (Mantel-Haenszel test).

Risultati Il primo dato analizzato è stato la stratificazione per sesso dei casi giunti alla nostra osservazione. Nel campione esaminato il 64,3% dei soggetti era di sesso maschile mentre nel gruppo di controllo questi soggetti rappresentavano il 58,6% (vedi tab.1; p = n.s.). Al momento della visita è stata riportata l’età e, come si può vedere nella tabella 2, erano presenti soggetti che si collocavano in tutte le fasce, dai cucciolini a soggetti più che maturi. L’età dei cuccioli all’entrata nella famiglia definitiva è stata espressa nella tabella 3. Quasi il 26% dei casi è stato adottato prima di raggiungere l’età di due mesi (10% nei casi controllo; differenza altamente significativa con p=0,003), il 53% tra i due ed i quattro mesi (68% nei casi controllo; p = n.s.) ed il 14,8% sopra i quattro mesi (il 18,3% nei casi controllo; p = n.s.). Si sono manifestate in equilibrio, nei casi giunti come patologici, le taglie; il 33% toy, il 33% media e il 34% grande.


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Segmentazione per sesso in blu i casi in studio

Tabella 1

Segmentazione per età

Tabella 2

Tabella 3

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Nelle tabelle 4 e 5 sono descritte le situazioni di convivenza o meno tra il cane presentato come patologico o il controllo ed altri animali. Il soggetto vive da solo(52% verso 44%), con un altro cane (17% verso 18%), con due o più altri cani (12% verso 5%), con dei gatti (17% verso 23%) o con altri animali diversi (2% verso 10%); non è stata riscontrata nessuna differenza statisticamente significativa (p = n.s.) ma alcune differenze tendono alla significatività che, probabilmente, potrebbe essere raggiunta aumentando la casistica. È stata analizzata la provenienza dei soggetti in studio e quella del campione di controllo, prima di essere accolti nelle famiglie definitive; quasi tutte le possibilità erano presenti, nati già nella casa (6% verso 3%), comprati/regalati da privati (32% verso 36%), da allevamenti o negozi (37% verso 34%) o adottati da canili/rifugi (25% verso 27%). Non è stata riscontrata alcuna differenza statisticamente significativa tra i gruppi rispetto alla provenienza. Le varie possibili composizioni dei nuclei familiari sono state valutate segmentando in quattro classi. Una sola persona (9% verso 10%), due persone (44% verso 29%),tre persone (29% verso 46%), più di tre persone (18% verso 15%). Statisticamente la differenza tra il gruppo in studio ed il gruppo di controllo si è dimostrata significativa (con p = 0,05) solo per la situazione della famiglia composta da una coppia. La presenza nell’ambiente di vita del cane di bambini sotto gli 11 anni non si è dimostrata significativa (p = n.s.). I bimbi erano presenti nel 13% dei casi in studio e nel 18% dei casi controllo. Il 37% dei soggetti giunti alla consulenza comportamentale avevano subito almeno un trasloco dopo l’arrivo nella famiglia definitiva. Nel 26% dei casi in studio il nucleo familiare si era modificato nella composizione dopo l’arrivo del cane sia con aggiunta che con perdita di elementi stessi. I soggetti che prima della visita avevano già frequentato una generica scuola di educazione/addestramento erano il 37% del totale. La durata media dei vari insegnamenti frequentati era di circa dieci/dodici lezioni uomo-cane.


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Tabella 4 Tabella 6

Tabella 5

Tabella 7

Discussione Questo lavoro di epidemiologia descrittiva è stato centrato sulle caratteristiche soggettive ed ambientali in cui i cani vivevano ed erano cresciuti e non sulla descrizione nosografia delle alterazioni comportamentali che affliggevano i soggetti stessi. Punto importante è che non è stata data rilevanza alle varie sintomatologie/patologie dell’etogramma. Si è voluto, di fatto, fotografare la situazione nella quale il comportamento del cane si era sviluppato ed era vissuto come patologico/alterato dal padrone stesso. Tutti i soggetti presi in esame si sono presentati in consulenza richiedendo esplicitamente una valutazione per problemi comportamentali, al di fuori della normale routine clinica. La richiesta dimostra quanto il problema fosse sentito come grave ed importante per i padroni, a prescindere dal tipo di comportamento o patologia specifica del cane. Ogni gruppo familiare è stato sottoposto alla valutazione clinica/anamnestica ed alla prima fase dell’indagine comportamentale comprendente un paio di ore di colloquio approfondito. Alcune situazioni si sono alfine rivelate più come comportamenti non graditi ai padroni, ma all’interno dell’etogramma normale del cane, che come patologie comportamentali vere e proprie. Proprio per valutare se questi cani vissuti come patologici dai proprietari potessero avere delle caratteristiche dissimili da altri soggetti confrontabili, ma vissuti come normali, si è pensato di iniziare la presente indagine.

Conclusioni Da questi dati possono essere tratte alcune considerazioni interessanti sul comportamento dei padroni: 1) I soggetti presentati come patologici appartengono a tutte le classi di età, al momento della prima visita comportamentale, da cui si può dedurre che per i padroni non esiste un limite temporale entro cui si debba affrontare il problema passato il quale o prima del quale non si possa più intervenire per modificare la situazione (Tab. 2). 2) La distribuzione omogenea per taglia corporea dimostra che non esistono differenze di mole che spingono più o meno pesantemente il proprietario a cercare l’aiuto del veterinario che si occupa di comportamento. Il cane ‘problema’ è vissuto come tale a prescindere dalla taglia e per il padrone vale la pena in ogni caso affrontare la consulenza specialistica. 3) La maggior parte dei soggetti non ha mai frequentato una scuola di addestramento/educazione ed è giunta alla visita comportamentale come prima risposta strutturata al problema. Questo dimostra che, anche se a fatica, il veterinario comincia ad occupare, nell’immaginario dei proprietari, il ruolo che gli compete come consulente del comportamento. Di contro circa un terzo dei soggetti continua a presentare agli occhi dei padroni, dopo aver


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frequentato la scuola, patologie comportamentali che, evidentemente, non si è riusciti a risolvere frequentando le predette scuole. 4) Circa la metà delle persone, pur vivendo con un cane reputato patologico, condivide l’abitazione con altri animali che considerano normali per quanto riguarda il comportamento. Questo dimostra, quindi, che non sempre la ‘gestione’ del soggetto è la responsabile del comportamento indesiderato. Altre considerazioni possono essere tratte dall’osservazione dei dati riferiti ai cani: 1) Molti più soggetti che presentano comportamenti disturbanti sono stati adottati dalla famiglia ad un’età inferiore ai due mesi rispetto ai soggetti considerati ‘normali’ (26% verso il 10,5%) differenza statisticamente altamente significativa: p = 0,003 (Tab. 2). Il distacco prematuro dalla cucciolata, sotto i due mesi, si dimostra un fattore di rischio importante ed è, come già sostenuto da diversi autori, una delle cause importanti dell’assenza degli autocontrolli da parte del soggetto. Presentarsi all’interno del ‘branco’ umano senza aver appreso completamente i comportamenti sociali corretti attraverso i suoi simili rende il cucciolo, e poi il cane adulto, molto più esposto a comportamenti disturbati/disturbanti. 2) Esiste una maggior prevalenza di sesso maschile nei soggetti in studio rispetto ai casi controllo. (64,3% verso il 58,6%) p = n.s. (Tab. 1). Il fatto che la differenza non sia significativa ci permette di ipotizzare che il sesso non sia un fattore discriminante per il manifestarsi di comportamenti genericamente alterati e che non necessariamente le femmine presentino meno frequentemente questo tipo di disturbi. 3) Discorso complesso è l’analisi del ‘fattore’ bambino all’interno del branco del cane. Il 12,3% dei soggetti presentati come patologici convive con un bimbo mentre la percentuale sale al 18,2% (p = n.s.) nei soggetti considerati normali. Da questi dati non ci è possibile stabilire se il bambino abbia una influenza positiva nello sviluppo comportamentale del cane o se semplicemente si comporti come variabile quasi indipendente del problema (quanti cani diventano ‘problema’ dopo essere stati gestiti come figlio mancato? quanti cani sono adottati ‘in sostituzione’ di un figlio?). Non è stato possibile sapere se e in quali percentuali il figlio sia giunto nella famiglia prima o dopo l’arrivo del cucciolo e non abbiamo

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dati sull’eventuale allontanamento di cani dopo l’arrivo di un bimbo. 4) Una notevole percentuale di cani oggetto dello studio (37%) ha subito un trasloco dell’abitazione, insieme alla famiglia, dopo l’arrivo nella stessa dovendo evidentemente riallineare i propri atteggiamenti ed abitudini alle variate necessità del luogo ed alle ineluttabili modificazioni delle consuetudini. Soprattutto per i cani anziani queste situazioni determinano un notevole stress adattativo che può sfociare in veri e propri stati patologici. 5) Questo lavoro, per quanto preliminare, considerate le innumerevoli variabili legate al tema dell’indagine, pone le basi per alcune considerazioni che meritano sicuramente di essere sviluppate ed approfondite in successivi elaborati che immancabilmente vedranno la luce in tempi futuri vista anche la giovane età di questa particolare disciplina. In particolare sarà interessante valutare nei futuri studi ad hoc di epidemiologia analitica come particolari tipologie di disturbi clinici possano essere collegati a specifici fattori di rischio. Potrà essere analizzato, ad esempio, quanto forte possa essere il legame fra un tipo specifico di patologia comportamentale in relazione ai fattori di rischio individuati con il presente lavoro (adozione prima dei due mesi e composizione del nucleo familiare).

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Trattamento chirurgico delle patologie delle ghiandole salivari Mark M. Smith DVM, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Blacksburg, Virginia, USA

Il mucocele è la patologia delle ghiandole salivari più comunemente riconosciuta nel cane. Si tratta di un accumulo di saliva nel tessuto sottocutaneo e della conseguente reazione tissutale alla saliva stessa. La lesione presenta un rivestimento non epiteliale e non secernente costituito primariamente da fibroblasti e capillari. L’incidenza del mucocele salivare, secondo quanto segnalato in letteratura, è inferiore a 20 cani su 4000. Anche se è stata descritta in cani di appena 6 mesi di età, la condizione si riscontra con maggiore frequenza in quelli fra due e quattro anni. Il mucocele salivare colpisce più frequentemente il pastore tedesco ed il barbone nano. Come causa del problema è stato ipotizzato il trauma, dato l’elevato livello di attività dei cani giovani e la documentazione del danneggiamento del complesso ghiandola-dotto salivare e la formazione del mucocele. L’incapacità di indurre traumaticamente la comparsa della lesione in cani sani suggerisce la possibilità di una predisposizione allo sviluppo della malattia dei soggetti che vengono colpiti. Quella sottolinguale è la più comune ghiandola salivare associata al mucocele. La sialografia ha dimostrato che l’origine della lesione nella maggior parte dei casi è situata nella porzione rostrale del complesso ghiandoladotto sottolinguale (cioè nella parte della ghiandola sovrapposta alla mandibola). Indipendentemente dalla localizzazione dell’origine, il mucocele di solito si forma in prossimità dell’area intermandibolare (mucocele cervicale). Altre localizzazioni associate alla formazione del mucocele a causa di un difetto del complesso ghiandola-dotto sottolinguale sono rappresentate dalla zona sotto la lingua, che comprende il pavimento della bocca (mucocele sottolinguale) e la faringe (mucocele faringeo). I segni clinici associati al mucocele salivare dipendono dalla sua localizzazione. La forma cervicale si presenta inizialmente come una massa dolente e acuta derivante da una risposta infiammatoria. La cessazione di quest’ultima esita in una marcata diminuzione delle dimensioni. Il calo della risposta infiammatoria consente la comparsa del quadro che si riscontra più comunemente al momento della presentazione alla visita, cioè di una massa non dolente e piena di liquido che si ingrossa lentamente o in modo intermittente. I segni clinici che possono essere associati al mucocele sottolinguale sono rappresentati da saliva striata di sangue secondariamente al trauma causato dall’assunzione del cibo, anomalie della prensione degli alimenti o riluttanza a mangiare. Le ma-

nifestazioni più comuni che accompagnano il mucocele della parete faringea sono difficoltà respiratoria e difficoltà di deglutizione secondarie a ostruzione parziale della faringe. I mucocele salivari zigomatici sono segnalati con scarsa frequenza nel cane. Di solito, il segno clinico di questa condizione è rappresentato da una massa periorbitale visibile. Le manifestazioni oftalmiche secondarie al mucocele dipendono dalla localizzazione e dalle dimensioni dello stesso (ad es., esoftalmo o enoftalmo). La diagnosi del mucocele salivare si basa su segni clinici, anamnesi e risultati della paracentesi. Quest’ultima rivela un fluido filamentoso, talvolta striato di sangue, con un basso numero di cellule. L’analisi dei livelli di mucina e di amilasi nel fluido non sono procedure diagnostiche affidabili. Un mucocele cervicale cronico può contenere noduli duri apprezzabili con la palpazione, che sono residui di tessuto infiammatorio che in precedenza rivestivano la lesione ed in seguito si sono distaccati. Col termine di sialoliti si indicano concrezioni di fosfato di calcio o carbonato di calcio che si possono formare nel mucocele cronico. L’esame clinico e l’anamnesi di solito evidenziano l’origine del mucocele. Le forme cervicali che si presentano sulla linea mediana in genere si spostano verso il lato di origine quando il paziente viene posto esattamente in decubito dorsale. Per stabilire il lato colpito, se l’accurata osservazione o la palpazione non hanno successo, è possibile utilizzare la sialografia. Quest’ultima risulta anche utile ai fini diagnostici per considerare i danni traumatici a carico di una delle ghiandole salivari, neoplasie salivari o masse o tragitti fistolosi di origine sconosciuta nella regione della testa e del collo oppure un corpo estraneo nelle stesse sedi. Gli svantaggi della sialografia sono rappresentati dalla necessità di ricorrere all’anestesia generale e dalla difficoltà associata alla localizzazione degli sbocchi dei dotti. Per il trattamento del mucocele cervicale sono stati utilizzati vari approcci. Sono stati riportati il drenaggio del mucocele, la sua sola rimozione e la sua cauterizzazione chimica. La base di questa terapia era la convinzione che un mucocele fosse un’autentica cisti con un rivestimento secernente. In realtà non si tratta di una cisti, ma di una struttura incapsulante reattiva; ciò ha suggerito la rimozione chirurgica del complesso ghiandola-dotto colpito. L’intima associazione anatomica delle ghiandole sottolinguali e mandibolari e dei loro dotti impone la re-


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sezione di entrambe le strutture. La rimozione chirurgica delle ghiandole salivari sottolinguali e mandibolari, associata al drenaggio del mucocele, è stata suggerita per il trattamento dei mucocele cervicali. Il mucocele faringeo e sottolinguale viene trattato mediante rimozione delle ghiandole salivari mandibolari e sottolinguali, sulla base della comune eziologia del difetto del complesso ghiandola-dotto. Un’altra tecnica per il trattamento di questi mucocele prevede la marsupializzazione. Tuttavia, per il mucocele faringeo si preferisce la resezione chirurgica, perché la terapia conservativa o le recidive possono essere potenzialmente complicate da

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una compromissione potenzialmente letale delle vie aeree superiori e dalla morbilità conseguente alla disfunzione della deglutizione (ad es., polmonite ab ingestis). La ghiandola salivare zigomatica può essere colpita da neoplasie, infiammazioni o mucocele. I segni clinici di quest’ultimo e della neoplasia sono simili. I tumori che originano dall’arcata zigomatica possono essere accompagnati da altre manifestazioni, come le modificazioni osteolitiche dell’arcata stessa e l’ingrossamento del linfonodo sottomandibolare. Sia in caso di neoplasia che di mucocele di origine zigomatica, è indicata la rimozione chirurgica della ghiandola.


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Trattamento delle fratture mandibolari e mascellari nel cane e nel gatto (1a e 2a parte) Mark M. Smith DVM, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Blacksburg, Virginia, USA

Le fratture mandibolari nel cane sono secondarie a incidenti stradali, cadute, calci, ferite da arma da fuoco e scontri con altri animali. Rappresentano il 3-6% della totalità delle fratture osservate nel cane, mentre nel gatto il 15% di tutte le fratture interessa primariamente la sinfisi mandibolare. La localizzazione più comune di queste lesioni nel cane è fra PM1 ed M2. Fratture mandibolari patologiche si possono avere secondariamente a periodontopatie, neoplasie e malattie metaboliche. L’obiettivo primario della riparazione delle soluzioni di continuo della mandibola nei piccoli animali è il ritorno alla normale funzionalità. Un malallineamento caudale di 2-3 mm può impedire la chiusura della porzione mesiale della bocca di un intero cm. Di conseguenza, è necessario mantenere l’allineamento in occlusione mentre si assicura un’adeguata stabilità per l’unione ossea. I principi di base della riparazione delle fratture mandibolari prevedono la ricostruzione anatomica ed il ripristino dell’occlusione, l’applicazione di un metodo di fissazione stabile per neutralizzare le forze negative sulla linea di frattura, la delicata manipolazione dei tessuti molli, l’adozione di misure atte ad evitare un trauma dentale iatrogeno, l’estrazione dei denti danneggiati entro la linea di frattura, la riduzione al minimo dell’eccessivo sollevamento dei tessuti molli e l’impiego di tecniche che ripristinano rapidamente il recupero funzionale. Per trattare le fratture della mandibola del cane i veterinari devono superare parecchie difficoltà specifiche di quest’osso, che deve sopportare forze differenti da quelle delle ossa deputate al sostegno del peso del corpo. Le fratture mandibolari guariscono anche in presenza di gap della linea di frattura e di una certa mobilità, a condizione che la vascolarizzazione venga protetta, la rivascolarizzazione sia favorita e si prevengano le infezioni. Il metodo di fissazione deve consentire un immediato recupero della funzione, essere leggero e non complicato, economico e facilmente disponibile e richiedere per la sua applicazione solo una quantità ragionevole di tempo, esperienza ed attrezzature specifiche. È possibile che i traumi a carico delle radici dei denti e delle strutture neurovascolari non esitino nella comparsa di segni clinici; tuttavia, si possono avere complicazioni endodontiche e periodontali quali riassorbimento dell’osso alveolare, interessamento della radice del dente, pulpite e caduta del dente. L’arteria alveolare inferiore e le sue branche costituiscono l’unico apporto ematico all’osso alveolare, al legamento periodontale ed ai denti. La sua importanza nella guarigione delle fratture mandibolari e delle strutture dentali dopo un evento traumatico e gli eventuali effetti clinici che ne conseguono sono sconosciuti. Analogamente, nel cane non è stata documentata l’insorgenza clinica di un neuroma doloroso dopo il danneggiamento del nervo alveolare inferiore durante la frattura. Nel corso del periodo preoperatorio è pos-

sibile applicare una museruola di contenimento temporaneo, in modo da garantire il sostegno alla frattura della mandibola. Nei casi in cui si adotta questa soluzione è necessario monitorare il paziente per assicurarsi che la museruola non interferisca con la respirazione e non causi un’eccitazione inutile e potenzialmente dannosa. Il contenimento mediante museruola è anche la più economica tecnica di stabilizzazione definitiva per le fratture mandibolari nel cane. Il fatto che venga impiegata comunemente indica che nella maggior parte dei casi ha successo per assicurare l’unione ossea. Dopo il trattamento, l’occlusione ottenuta può non essere ottimale, ma i pazienti tendono comunque a stare bene dal punto di vista clinico. Le complicazioni ed i problemi associati all’applicazione della museruola sono rappresentati da malocclusione, aspirazione di contenuto alimentare secondaria a vomito, ipertermia da diminuzione della funzione di ventilazione (effetto negativo sulla polipnea) e dermatite umida. Questo metodo di fissazione è poco costoso e non influisce negativamente sull’apporto vascolare del frammento di frattura o sulle radici dei denti e sulle strutture neurovascolari del canale mandibolare. Anche se spesso riesce a determinare una stabilizzazione del frammento di frattura sufficiente a promuovere la guarigione ossea secondaria, la riparazione mandibolare ottenuta con l’applicazione della museruola può essere associata ad una malocclusione permanente. Altre potenziali complicazioni che si possono verificare durante il periodo di trattamento sono rappresentate dalla mancata collaborazione del paziente e dal ritardato recupero funzionale riferibile alla restrizione della normale masticazione. I metodi di fissazione esterna basati sull’impiego di chiodi intraframmentari e barre laterali acriliche possono assicurare un’adeguata stabilizzazione della frattura mandibolare; tuttavia, nonostante le raccomandazioni relative alla localizzazione dei punti di inserimento dei chiodi ed all’anatomia della parte, è possibile un trauma iatrogeno delle strutture del canale mandibolare. L’allentamento e l’infezione sono i due problemi più frequentemente associati all’uso di chiodi da fissazione scheletrica esterna di grandi dimensioni e costituiscono primariamente una conseguenza della necrosi termica dell’osso e dei tessuti molli. Altre potenziali complicazioni associate all’impiego dei metodi di fissazione esterna sono le infezioni del tragitto dei chiodi, l’intolleranza del paziente all’applicazione della configurazione e la distruzione della barra del fissatore contro i mobili di casa. Anche i metodi di fissazione interna come l’inserimento di chiodi endomidollari e di placche e viti possono anche essere associati a trauma iatrogeno delle radici dei denti e delle strutture neurovascolari. La distruzione dell’apporto vascolare del frammento di frattura durante l’applicazione degli impianti può complicare la guarigione. Le con-


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troindicazioni all’uso delle placche sono il costo dell’apparecchiatura, il considerevole impiego di tempo necessario per apprendere i principi della tecnica e l’attraversamento o l’interferenza con l’apporto ematico alle radici dei denti mandibolari, con conseguente endodontopatia. I metodi che utilizzano la fissazione interdentale (IF) sono una componente importante della stabilizzazione temporanea o primaria delle fratture mandibolari nell’uomo. Segnalazioni cliniche hanno raccomandato l’impiego di questa tecnica per la stabilizzazione delle fratture mandibolari nel cane. I suoi vantaggi per la stabilizzazione delle fratture mandibolari sono dati dal fatto che consente di evitare il trauma iatrogeno delle radici dei denti e delle strutture neurovascolari del canale mandibolare, ridurre al minimo la distruzione della vascolarizzazione del frammento di frattura, ripristinare l’occlusione e permettere un ritorno precoce alla funzione normale. Riassumendo, per la riparazione delle fratture mandibolari si possono utilizzare parecchi metodi di fissazione che risultano di rapida esecuzione ed assicurano una stabilizzazione sufficiente per la guarigione. Le tecniche che presentano queste caratteristiche possono essere utilizzate per il trattamento d’emergenza delle fratture mandibolari.

Fissazione interdentale Il metodo di fissazione interdentale per la stabilizzazione delle fratture mandibolari nell’uomo si basa sull’impiego di ansa di Ivy, ansa di Stout, ansa di Stout modificata, stecche acriliche e barra ad arco di Erich. La capacità dei vari metodi di IF di assicurare la stabilizzazione della frattura mandibolare ed al tempo stesso evitare le complicazioni iatrogene intrinseche negli altri metodi di fissazione più convenzionali rende questa tecnica particolarmente desiderabile. Il basso costo dei materiali, la relativa facilità di applicazione e la frequenza delle fratture mandibolari nei cani contribuiscono ai loro potenziali impieghi in medicina veterinaria. Anche se non aderiscono bene al metallo, i composti acrilici si conformano alla forma a corona e formano delle interdigitazioni con le caratteristiche macroscopiche dell’architettura (rinforzi della barra ad arco) e delle deformazioni (torsioni dei fili) degli elementi metallici. Le proprietà di aderenza allo smalto vengono propagate mediante formazione di microporosità all’interno dei core prismatici o intorno alle periferie dei bastoncelli dello smalto utilizzando un gel mordenzante ad acido fosforico sulla superficie dello smalto. È stato riferito che la profondità della microporosità varia da 20 a 50 µ. È stato dimostrato che i materiali acrilici dentali penetrano in queste microporosità formando delle proiezioni digitiformi, che esitano nella formazione di un robusto legame fra il materiale acrilico stesso e lo smalto. È stata sviluppata una tecnica che utilizza un filo metallico ortopedico in acciaio inossidabile da 24G e il poli(metil)metacrilato. Il filo viene fatto passare intorno ai denti in modo da formare un’ansa di Stout, i denti vengono preparati con un mordenzante acido ed il composto acrilico dentale viene legato ai denti per ottenere una fissazione interdentale. Il cane viene generalmente posizionato in decubito ventrale e con la bocca tenuta aperta da uno speculum o da un altro strumento. Questa tecnica si applica preferibilmente alle fratture nell’area premolare e molare. Se la frattura è esposta, si effettua

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la revisione e la cura delle ferite della mucosa. Il filo ortopedico da 24G viene tagliato ad una lunghezza tale da incorporare almeno due denti su ciascun lato della frattura. Quindi, viene applicato intrecciandolo e serrandolo intorno ai denti, attorcigliandolo come se si stesse effettuando un cerchiaggio. Una volta applicato il filo, i denti vengono puliti con un ablatore ultrasonico, e poi trattati con un mordenzante acido con un gel al 40% di acido fosforico ed infine risciacquati ed asciugati. Il trattamento con il mordenzante si effettua sulle superfici boccali e linguali dei denti compresi fra il primo ed il terzo premolare e sulla sola superficie linguale del quarto premolare e dei molari, tenendo conto del morso a forbice delle arcate mascellare e mandibolare. Il composto acrilico dentale viene miscelato in rapporto di 2:1. In un contenitore da miscelazione si pongono 3 cm3 (in volume) di polvere di monomero, alla quale si aggiungono 1,5 cm3 di polimero liquido. La miscela viene mescolata per un breve periodo di tempo e poi trasferita in una siringa da 3 cc raccordata ad un ago. Lo stantuffo viene inserito parzialmente, la siringa viene capovolta e l’ago viene rimosso una volta che le bolle d’aria abbiano raggiunto la parte più alta. Quindi si inserisce completamente lo stantuffo nella siringa, spingendo l’aria fuori dalla stessa. Il composto acrilico viene lasciato “maturare” fino a che non raggiunge lo stadio pastoso di polimerizzazione. Ciò si può accertare valutando la consistenza del materiale su un pezzo di carta o fra le dita. L’acrilico viene quindi applicato alle superfici boccale e linguale dei denti che sono stati mordenzati. Mentre si indurisce (e può ancora essere modellato) è possibile effettuare un’ulteriore riduzione della frattura. A questo stadio si può eseguire un’irrigazione con acqua di rubinetto o soluzione fisiologica fredda per diminuire il calore generato dalla polimerizzazione esotermica dell’acrilico. Una volta che questo sia maturato è possibile modificarne la forma con frese e lime dentali. Dopo che l’acrilico originale sia stato ripulito dai detriti ed asciugato, è possibile aggiungerne un’ulteriore quota. Se il materiale così applicato si rompe prima della guarigione della frattura, è possibile applicare un’ulteriore quantità di acrilico direttamente su quello legato ai denti. Recenti studi hanno confrontato la robustezza dei vari tipi di fissazione interdentale mediante filo metallico (da solo o associato ad una barra ad arco), materiale acrilico (da solo e associato a fili metallici), e materiale acrilico con fili metallici e barra ad arco. I risultati hanno indicato che quando l’esame è stato effettuato in riferimento alla curvatura la fissazione interdentale acrilica rinforzata con metallo rappresentava il più robusto metodo di stabilizzazione. Lo strumento interdentale più resistente fra quelli testati era rappresentato dal materiale acrilico con filo metallico e barra ad arco. Analogamente alla tecnica descritta, fili e barra ad arco possono essere applicati utilizzando filo metallico da 24G e una barra ad arco ortodontica. Quest’ultima viene applicata alla faccia linguale dell’arcata mandibolare utilizzando anse individuali di filo da 24G fatte passare intorno al colletto di ciascun dente e sotto il rinforzo della barra ad arco adiacente al dente. Il filo viene ritorto sulla faccia linguale dell’arcata mandibolare, secondo le modalità utilizzate per la realizzazione di un cerchiaggio, fissando la barra ai singoli denti. Il materiale acrilico viene applicato nella stessa maniera descritta in precedenza. Riassumendo, l’ordine di robustezza, dalla minore alla maggiore, è risultato essere filo metallico < filo metallico e barra ad arco < acrilico < acrilico e filo metallico < acrilico con filo metallico e barra ad arco.


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Gestione delle complicanze conseguenti ad estrazione dentale Mark M. Smith DVM, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Blacksburg, Virginia, USA

Introduzione L’estrazione dei denti è una procedura di routine effettuata comunemente nei piccoli animali. Tuttavia, si possono verificare delle complicazioni rappresentate da frammentazione delle radici, frattura iatrogena della mandibola, traumi oculari ed infezioni.

Frammentazione delle radici Diagnosi: La frammentazione delle radici si può verificare secondariamente ad un trauma coronale o maxillofacciale. Tuttavia, l’eziologia più comune di questa condizione è il danno iatrogeno durante l’estrazione di un dente. La diagnosi viene formulata in seguito alla valutazione degli esami radiografici del cranio o dei denti in pazienti che abbiano subito un trauma. Le radiografie possono anche contribuire alla diagnosi della frammentazione radicolare durante l’estrazione dei denti, tuttavia in questa occasione risultano evidenti altri indicatori. Spesso, il clinico percepisce un “crack” udibile. All’ispezione del dente estratto, risulta evidente un difetto dell’apice della radice, la cui estremità residua presenta un margine frastagliato. Normalmente, l’apice radicolare ha un aspetto arrotondato. Utilizzando un aspiratore o un tampone di cotone per visualizzare il frammento di radice rimasto in situ all’interno dell’alveolo, questo si presenza di colore marrone chiaro con un canale radicolare situato in posizione centrale. Gli alveoli senza frammenti di radice vengono colmati dall’emorragia come calamai. Quelli in cui i frammenti di radice sono presenti tendono a mostrare un’emorragia di minore entità proprio a causa della presenza della radice stessa. Prevenzione: Il modo migliore per prevenire questa complicazione è effettuare con pazienza la procedura di estrazione. Non si devono utilizzare le pinze fino a che il dente non è abbastanza mobile da poter essere rimosso utilizzando la sola pressione digitale. Una forza eccessiva con la leva periodontale o l’impiego prematuro delle pinze da estrazione provoca la frammentazione della radice. Trattamento: Per rimuovere le radici frammentate è necessario continuare l’intervento di estrazione in modo da asportare il frammento rimasto. Per facilitare il sollevamento del frammento radicolare è possibile utilizzare delle leve periodontali con una superficie operativa stretta o speciali leve apposite. Se si dispone di un manipolo ad alta velocità, è possibile rimuovere un’ulteriore quota di osso alveolare con una fresa tondeggiante o piriforme per delineare il frammento di radice facilitandone il sollevamento. Anche se non viene con-

sigliata, un’altra opzione terapeutica consiste nell’utilizzare lo stesso strumento per obliterare il frammento radicolare. Poiché quest’ultimo è più duro dell’osso alveolare circostante, per determinare quando sia stato obliterato completamente, è necessario basarsi sulla percezione tattile. Le complicazioni associate a questa tecnica sono rappresentate da rimozione incompleta del frammento di radice, ricollocamento dello stesso nel canale mandibolare o nella cavità nasale ed emorragie da traumi delle arterie infraorbitale o alveolare mandibolare. È necessario effettuare una radiografia della sede dell’estrazione per confermare la rimozione dei frammenti di radice. L’unica situazione in cui è possibile evitare di rimuovere i frammenti di radice è quando esistono validi motivi per temere che insistendo sulla rimozione del frammento si infligga un danno al paziente. I frammenti di radici che non vengono rimossi hanno meno probabilità di venire associati ad infezioni croniche se la vascolarizzazione apicale risulta intatta ed il frammento non è colpito da alcuna malattia. Se uno o più residui dentali non vengono rimossi, bisogna informare il proprietario del fatto che l’estrazione è stata complicata ed ha imposto la ritenzione del frammento e che è quindi necessario attuare uno scrupoloso monitoraggio per rilevare l’eventuale comparsa di segni clinici associati all’infezione. Un tragitto fistoloso o una tumefazione secondaria ad ascessualizzazione sono le manifestazioni cliniche più probabili riferibili alla ritenzione dei frammenti di radice. Indipendentemente dal fatto che siano secondarie ad un trauma coronale o maxillofacciale oppure a complicazioni di un intervento di estrazione, i residui radicali devono essere rimossi utilizzando tecniche simili secondo le modalità descritte in precedenza. Tuttavia, può essere necessaria una specifica procedura di accesso chirurgico, simile a quella utilizzata per l’estrazione dei denti. Troppo spesso dopo un trauma si suggerisce al proprietario di “aspettare e vedere” per decidere quale trattamento effettuare per la ritenzione di frammenti di radice. È consigliabile un trattamento precoce, poiché è prevedibile che l’esposizione della polpa radicale sia molto dolorosa. La pulpite, secondaria alla contaminazione della polpa da parte della flora batterica orale, è inevitabile e l’ascessualizzazione periapicale costituisce una possibile sequela. Se il paziente deve essere sottoposto ad un’anestesia generale per il trattamento di una frattura orale o la riparazione di una lesione dei tessuti molli, si deve approfittare dell’occasione per effettuare contemporaneamente la rimozione delle radici ritenute. L’intervento può anche essere programmato nell’ambito di una seduta specialistica di pulizia dei denti da effettuare in un momento appropriato dopo aver stabilizzato le condizioni del paziente. Riassumendo, il piano terapeutico di “aspettare e vedere” deve essere attuato soltanto su richiesta del proprietario e non suggerito dal veterinario.


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Frattura iatrogena della mandibola Diagnosi: La frattura iatrogena della mandibola si può avere durante l’esecuzione di interventi esodontici su qualsiasi dente dell’arcata dentale mandibolare, tuttavia nella maggior parte dei casi è associata al primo molare mandibolare o al canino mandibolare. La frattura associata all’estrazione del primo molare mandibolare di solito si verifica quando si utilizzano semplici tecniche esodontiche nei casi in cui è evidente una grave periodontopatia con profonde tasche periodontali. I segni clinici della periodontopatia possono fuorviare il clinico portandolo a credere che il dente sia mobile e facilmente estraibile. Anche quando la periodontite distruttiva è grave, il dente di solito non è mobile perché la superficie della radice è molto ampia e può continuare a mantenere un sostanziale attacco periodontale. La periodontite distruttiva può anche esitare in una lisi ossea periodontale così grave che la parte dentale della mandibola risulta assottigliata e predisposta alle fratture che si verificano spontaneamente o nel corso di manovre esodontiche relativamente routinarie. Infine, i pazienti anziani che necessitano di un’estrazione di un primo molare mandibolare possono essere colpiti da una osteopenia correlata all’età che può anche contribuire all’incidenza della frattura. Analoghe alterazioni periodontali o da invecchiamento contribuiscono alla frattura iatrogena della parte rostrale della mandibola durante l’estrazione del canino mandibolare. Prevenzione: La ripresa di immagini radiografiche intraorali o standard prima dell’intervento evidenzia una lisi ossea secondaria alla periodontopatia. Le informazioni raccolte attraverso la valutazione radiografica dei denti da estrarre aiutano il clinico a informare il proprietario delle potenziali complicazioni durante l’estrazione del dente. Per prevenire la frattura iatrogena si raccomanda di esercitare una forza controllata e di prestare particolare attenzione alla lussazione boccale o linguale delle radici dei denti. Se il clinico teme che la frattura si verifichi durante il normale consumo dei pasti dopo l’estrazione, è possibile introdurre negli alveoli, prima di chiudere la ferita operatoria, del materiale osseo omologo. Le radiografie preoperatorie ed il consulto con il proprietario permettono di spiegare più facilmente la complicazione rappresentata dalla frattura mandibolare iatrogena. Quando quest’ultima viene percepita come una complicazione, e non come un “errore”, risulta più facile ottenere la collaborazione del proprietario ed il permesso di trattare la lesione. Come nel caso di altre fratture, le opzioni terapeutiche per la frattura mandibolare iatrogena sono limitate a tecniche di riparazione o salvataggio. Le prime possono essere associate ad unione ritardata o non unione in base a età geriatrica del paziente, osso osteopenico, periodontite distruttiva. In effetti, l’unione fibrosa non costituisce un esito inusuale. Di conseguenza, il clinico deve confrontare le probabilità che il successo clinico sia dovuto ad una riparazione avvenuta grazie all’unione ossea con quelle che accompagnano una procedura di resezione e di salvataggio. È stato dimostrato che i cani sottoposti a mandibulectomia rostrale o emimandibulectomia rostrale per il trattamento di una neoplasia presentano un buon esito clinico per quanto riguarda la prensione e la masticazione del cibo. Questi interventi chirurgici di resezione possono essere appropriati per il trattamento della frattura mandibolare iatrogena perché ci si aspetta un esito positivo, non sono eccessivamente costosi, hanno una bassa

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incidenza di complicazioni ed offrono una terapia immediata e definitiva per le complicazioni stesse. In alternativa, si possono applicare alla mandibola priva di denti delle stecche intraorali per assicurare la stabilità ed infine l’unione ossea.

Trauma oculare Diagnosi: Il trauma iatrogeno alle strutture oculari si può verificare durante l’estrazione del quarto premolare mascellare oppure del primo o del secondo molare. La causa di questo trauma è correlata alla sottigliezza dell’osso alveolare ed alla vicinanza del pavimento ventrale dell’orbita. Queste strutture sono adiacenti ai denti mascellari caudali e possono essere perforate da uno strumento appuntito come una leva periodontale, soprattutto nei pazienti con periodontopatia distruttiva. La perforazione del globo da parte di una leva periodontale può esitare in una panoftalmite. Se il trattamento antimicrobico ed antinfiammatorio fallisce, la sfortunata conseguenza è l’enucleazione. Prevenzione: Questa complicazione si può prevenire operando con forza controllata e servendosi dell’impugnatura palmare della leva periodontale, tenendo le dita vicino all’estremità o alla punta dello strumento. Così facendo, si limita l’eventuale penetrazione accidentale dello strumento al tratto compreso, appunto, fra le dita e la punta.

Infezione Diagnosi: L’infezione della sede di intervento dopo l’estrazione di un dente è una complicazione inusuale. L’osteite localizzata è correlata al trauma dell’estrazione, alla distruzione dell’apporto ematico ed alla contaminazione batterica dell’osso esposto. Trattamento: Il lavaggio del sito di estrazione con clorexidina allo 0,12% seguito da chiusura primaria della ferita secondo le modalità precedentemente descritte riduce al minimo l’incidenza dell’infezione. Un sito di estrazione che non appaia in guarigione entro 7 o più giorni dall’intervento è da ritenere anormale, anche se il problema non è necessariamente riferibile ad un’infezione. Si deve prendere in considerazione la possibilità di effettuare il prelievo di una biopsia dall’area che non tende alla guarigione per escludere la possibilità di una neoplasia come un carcinoma squamocellulare. L’osteomielite localizzata può essere secondaria ad una grave periodontite. Il dente ed il periodonzio colpiti sono il focolaio di infezione, mentre la mascella o la mandibola mostrano i segni clinici dell’osteomielite. L’estrazione del dente da sola non è sufficiente a trattare questo problema. Le ulteriori procedure necessarie sono rappresentate dal sollevamento di un lembo periodontale e dalla rimozione dell’osso necrotico con pinze ossivore o una fresa tonda montata su manipolo ad alta velocità. L’osso può essere inviato agli esami colturali batteriologici, ma i risultati sono polimicrobici e difficili da interpretare. L’approfondita revisione chirurgica dell’osso necrotico, seguita dalla somministrazione di un antimicrobico ad ampio spettro rappresenta di solito un trattamento sufficiente.


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Tecniche ricostruttive in chirurgia orale e maxillofacciale: lembi locali e regionali Mark M. Smith DVM, Dipl ACVS, Dipl AVDC, Blacksburg, Virginia, USA

Il carcinoma squamocellulare (SCC) della testa e del collo è al quarto posto in ordine di frequenza fra le neoplasie del gatto. Ne sono comunemente colpiti la cavità orale, il padiglione auricolare e le narici. Il carcinoma squamocellulare felino è biologicamente simile a quello della testa e del collo dell’uomo: entrambi sono localmente invasivi e, nella fase avanzata del decorso della malattia, danno origine a metastasi ai linfonodi regionali ed ai polmoni. Come in medicina umana, il trattamento delle forme di malattia limitate a piccoli carcinomi squamocellulari primari (di stadio I o II) è rappresentato dalla chirurgia o dalla radioterapia. Sfortunatamente, i felini con carcinoma squamocellulare vengono spesso portati alla visita dai loro proprietari quando presentano grandi tumori primari in stadio avanzato (III o IV), non suscettibili di un intervento di resezione chirurgica locale o di radioterapia come singola modalità terapeutica. In medicina veterinaria, il tipo di trattamento chirurgico dipende dalla localizzazione della neoplasia, dall’abilità dell’operatore e dalle preferenze del cliente. È possibile che i proprietari dei felini colpiti non desiderino o non siano disposti a collaborare alle indicazioni di terapia aggiuntiva, facendo spesso sì che l’intervento chirurgico nei carcinomi squamocellulari di stadio III e IV venga effettuato con fini terapeutici. Soddisfare questo scopo richiede un’aggressiva resezione in blocco per ottimizzare i margini indenni da tumore. Il concetto di escissione locale completa di tutto il tumore visibile seguita da o contemporaneamente a chemioterapia o radioterapia per il trattamento di presunte micrometastasi è stato ampiamente accettato in terapia oncologica umana e sta iniziando ad essere applicato in medicina veterinaria. Questo piano terapeutico multimodale considera la chirurgia come una componente integrante, specialmente nel caso delle grandi neoplasie aggressive. Lo scopo dell’intervento chirurgico nei tumori della testa e del collo nel cane e nel gatto nella maggior parte dei casi è rappresentato dalla resezione curativa o palliativa. In medicina veterinaria viene spesso richiesta una procedura operatoria che offra le massime possibilità di guarigione, ripristino o mantenimento della funzione e si accompagni a risultati esteticamente accettabili. I lembi assiali regionali possono servire da compromesso fra quelli locali e quelli liberi, offrendo un tessuto durevole e indenne da tumore per la ricostruzione delle ferite. La disponibilità di lembi cutanei cervicali o frontali con vascolarizzazione cutanea diretta per la ricostruzione della testa e del collo può consentire l’esecuzione di interventi di resezione chirurgica radicale evitando i disturbi funzionali ed assicurando al tempo stesso un risultato esteticamente valido.

Lembo auricolare caudale (parte laterale del collo) Il lembo laterale del collo si è dimostrato un’utile tecnica chirurgica ricostruttiva dopo la resezione delle neoplasie della testa e del collo nell’uomo. Il complesso muscolocutaneo possiede una versatilità che lo rende adatto a molteplici lesioni della testa e del collo, consentendo di utilizzare margini generosi, con una massa tissutale minore in confronto ad altri lembi regionali, associata a lunghezza adattabile e vascolarizzazione affidabile. Il muscolo pellicciaio (platisma) del cane e del gatto è intimamente associato ai tessuti sottocutanei. Nella sua regione cervicale laterale si osserva decorrere l’apporto vascolare cutaneo derivante da molteplici vasi, come le branche cutanee dell’arteria e della vena auricolari caudali. Come nell’uomo, sulla base delle osservazioni effettuate la vascolarizzazione diretta al lembo laterale del collo nel cane e nel gatto ha una localizzazione costante, con una base craniale ed un orientamento orizzontale. Il lembo è versatile, secondo quanto è stato stabilito da studi chirurgici in cui sono state effettuate manipolazioni intraoperatorie prima del riposizionamento ortotopico e dell’applicazione clinica in due gatti. Secondo quanto rilevato nei casi in cui l’intervento è stato applicato in ambito clinico, non sembrano esserci risultati deleteri riferibili alla sottigliezza del lembo o agli effetti della gravità. I risultati degli studi condotti su cadavere e sulla vascolarizzazione nel cane e nel gatto evidenziano una branca cutanea dell’arteria e della vena auricolari caudali che contribuiscono a vascolarizzare la parte craniale della cute cervicale e del muscolo platisma, mentre l’angiografia rivela un orientamento dorsale e caudale dei vasi che decorrono parallelamente alla regione cervicale centrale. La branca cutanea dell’arteria auricolare caudale osservata durante l’intervento chirurgico è intimamente associata al muscolo platisma e si divide in prossimità della sua origine localizzata nell’area fra la parte laterale dell’ala dell’atlante ed il tratto verticale del condotto uditivo. Le linee guida per la localizzazione del lembo sono state basate su risultati di studi su cadavere e sulla vascolarizzazione. Il lembo è centrato sulla faccia laterale dell’ala dell’atlante. Inoltre, è posizionato al centro del collo entro linee ventrali e dorsali che decorrono parallelamente alla base del lembo misurato ed hanno la medesima ampiezza centrata sulla spina della scapola. La lunghezza del lembo può variare e non si estende necessariamente alla spina della scapola. Il muscolo platisma è intimamente associato al sottocute del lembo.


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In studi chirurgici, la lunghezza media nel gatto (7,7 ± 2,2 cm) e nel cane (15,4 ± 2,1 cm) della parte sopravvissuta dei lembi che incorporavano l’apporto vascolare proveniente dall’arteria e dalla vena auricolari caudali indica che il lembo laterale del collo può essere più utile per i difetti caudali della testa e del collo che per quelli più rostrali, che si verificano dopo la resezione di neoplasie che interessano le narici, l’area premascellare o la sinfisi mandibolare. La tecnica chirurgica ricostruttiva descritta in questa sede può consentire la dissezione programmata del collo preservando l’arteria auricolare caudale a seconda delle dimensioni del campo operatorio. Questo approccio fornisce l’accesso per la biopsia per escissione dei linfonodi mandibolari e/o cervicali finalizzata a contribuire a determinare lo stadio tumorale ed aumentare l’estirpazione chirurgica delle forme metastatiche. Le vie di metastatizzazione che possono essere prese in considerazione durante la dissezione sono quelle perineurale, vascolare e microvascolare, linfatica e transcapsulare. La dissezione estesa a partire dalle sede primaria può migliorare l’incidenza dei margini liberi rispetto alla resezione chirurgica delle vie di metastasi diretta. Ciò può risultare particolarmente importante per le neoplasie del pavimento della bocca e della regione caudale della testa e del collo. Sia nelle indagini chirurgiche che nei pazienti osservati in ambito clinico, l’area cervicale craniale risultava facilmente osservabile in associazione con il sollevamento del lembo laterale del collo. L’osservazione diretta dei linfonodi regionali permette di valutare la diffusione transcapsulare macroscopica del tumore, che può richiedere l’adozione di margini più ampi per i linfonodi adesi.

Lembo temporale superficiale (fronte) La cute della regione maxillofacciale del cane e del gatto è relativamente immobile, il che fa sì che spesso le ferite cutanee non siano suscettibili di riparazione primaria o di trattamento per seconda intenzione senza che ne derivino alterazioni funzionali ed estetiche. I pazienti umani con difetti maxillofacciali sono stati successivamente trattati chirur-

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gicamente utilizzando “lembi” già a partire dal ’700 a. C. Il “lembo frontale” scotennante, con la base a livello dell’arcata zigomatica è simile a quello descritto in questa sede. Le linee guida per la localizzazione del lembo sono state basate sui risultati di studi su cadavere ed indagini vascolari condotte in cani e gatti. I punti di repere per la base del lembo frontale erano la parte caudale dell’arcata zigomatica caudalmente e la rima orbitale laterale rostralmente. Le dimensioni del lembo sono state basate sulla possibilità di chiusura primaria della ferita del sito donatore e sulla lunghezza richiesta per trasferire il lembo all’area maxillofacciale, comprendendo il tartufo come limite rostrale. La larghezza del lembo era equivalente a quella dell’arcata zigomatica. Poiché con un rapporto lunghezza:larghezza di 4:1 si a una necrosi dell’estremità distale dei lembi, raccomandiamo di realizzare lembi frontali in cui tale rapporto risulti di 3:1; in questo modo si ottiene una quantità adeguata di tessuto per la rotazione rostrale sino al tartufo. Sulla base della nostra ricerca il lembo frontale basato sull’arteria superficiale temporale possedeva una durata di sopravvivenza superiore in confronto ai lembi che dipendevano unicamente dal plesso subdermico. Il lembo frontale può trovare applicazione per la ricostruzione maxillofacciale di ferite traumatiche o di lesioni derivanti da interventi chirurgici di escissione o dalla radioterapia. Caso clinico – Un border terrier di un anno è stato sottoposto ad intervento chirurgico per la ricostruzione di un difetto maxillofacciale traumatico. È stata eseguita una premaxillectomia, rimuovendo gli incisivi, ma mantenendo la papilla incisiva palatina in modo da offrire una superficie mucosa per la ricostruzione delle narici. È stato realizzato un lembo frontale di 4,0 x 12,0 cm (rapporto lunghezza: ampiezza di 3:1) basato sull’arteria e sulla vena temporali superficiali di sinistra. Iniziando dalla regione frontale e bisecando quella nasale è stata praticata un’incisione a ponte. Il lembo è stato ruotato rostralmente e la sua estremità distale è stata suturata alla mucosa palatina nella regione delle narici. A livello del sito donatore e della periferia del lembo è stata eseguita una chiusura primaria con una sutura continua semplice.


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Aspetti ecografici delle ovaie della cagna durante il periodo peri-ovulatorio Giliola Spattini Med Vet, Reggio Emilia

Marco Rossi Med Vet, Parma Fabio De Rensis Med Vet, MPh, PhD, Dipartimento di Salute Animale, Università di Parma

Introduzione Per anni, l’aspetto ecografico delle ovaie del cane è stato un motivo di controversia tra i diversi autori. Alla fine degli anni ottanta, i lavori di Barr et al., (1988) e Wrigley et al., (1989) riportano che le ovaie sono organi addominali raramente identificabili ecograficamente. Tuttavia, con il diffondersi di apparecchiature ecografiche ad alta risoluzione, è stato anche possibile descrivere lo sviluppo dei follicoli ovarici. England, (1989) applicando chirurgicamente delle sfere metalliche alle ovaie di dieci femmine prepuberi di Labrador e servendosi delle ombre acustiche create dalle sfere come punti di riferimento anatomici, ha descritto l’aspetto ecografico dello sviluppo ovarico dal primo giorno del proestro al trentesimo giorno seguente l’inizio dell’estro; non è stato però in grado di visualizzare l’ovulazione “in sé” in quanto le strutture follicolari non collassarono, come avviene in altre specie domestiche, al momento dell’ovulazione. Negli anni seguenti diversi lavori sono stati pubblicati sull’argomento, tuttavia sussistono pareri contrastanti riguardanti l’aspetto ecografico dell’ovulazione canina. Inoltre, poche sono le informazioni riguardanti l’esame ecografico dello sviluppo follicolare nella cagna nel periodo ovulatorio. Essendo l’ovulazione un momento importante per il medico veterinario per decidere quando effettuare l’inseminazione, lo scopo del presente lavoro è stato quello di descrivere i cambiamenti ecografici dell’ovaio durante il ciclo estrale della cagna con particolare attenzione al processo di ovulazione.

Materiali e metodi Per questo studio sono state utilizzate dodici femmine di Greyhound adulte (dai quattro ai sette anni di età), con precedente attività riproduttiva regolare (due estri/anno nelle stagioni primaverile ed autunnale), con i quattro cicli estrali precedenti l’esperimento che si sono presentati ad intervalli regolari, oscillando tra i 4 ed i 7 mesi. Il primo giorno del proestro è stato considerato il primo giorno in cui sono state rilevate delle perdite vulvari siero-ematiche (Kooistra et al., 1999); il primo giorno dell’estro come il primo giorno in cui la cagna ha accettato per la prima volta il maschio e l’ultimo giorno dell’estro come il giorno in cui la cagna non ha più

accettato il maschio. In ciascun animale sono stati prelevati due volte al giorno (ore 8:00 e 18:00) dalla vena brachiocefalica anteriore 5 ml di sangue, a partire dal primo giorno del proestro fino al sesto giorno dell’estro. I livelli ematici di progesterone sono stati determinati mediante metodica EIA, quelli di LH mediante RIA. La determinazione del momento dell’ovulazione è stata effettuata mediante la valutazione dei livelli ematici di progesterone ed LH. L’esame ecografico è stato eseguito due volte al giorno (ore 9:00 e 19:00) iniziando il primo giorno del proestro e continuando fino al nono giorno dopo l’inizio dell’estro. Occasionalmente, nel caso in cui fosse stata rilevata ecograficamente la presenza di strutture cistiche o per seguire lo sviluppo dei corpi lutei, l’esame dell’ovaio è proseguito giornalmente per altri 20 giorni. L’indagine ecografica è stata effettuata utilizzando un apparecchio Challenge 7000 (Esaote) equipaggiato con una sonda settoriale da 7,5 MHz o un apparecchio Aloka 500 (Aloka) equipaggiato con una sonda lineare da 7,5 MHz. L’esame ecografico è stato condotto con l’animale in decubito laterale destro con il capo e gli arti rivolti verso l’operatore per esaminare l’ovaio sinistro e con l’animale in decubito laterale sinistro per esaminare l’ovaio destro. Il pelo è stato accuratamente rasato su entrambi i fianchi caudalmente all’ultima costola, distalmente ai muscoli sottolombari, cranialmente all’attaccatura della coscia, dorsalmente alla linea alba. Ecograficamente l’ovaio è localizzato in un’area delimitata anteriormente dal rene, ventralmente dai grossi vasi addominali (aorta e vena cava caudale), dorsalmente dai muscoli sottolombari e caudalmente dall’origine aortica dell’arteria circonflessa profonda. Quando possibile, seguire il decorso dell’arteria ovarica dall’origine aortica fino all’organo, si dimostra un ottimo riferimento anatomico. L’arteria ovarica origina bilateralmente appena caudalmente all’arteria renale ed è facilmente identificabile durante il periodo estrale; può essere difficile da evidenziare nelle fasi anaestrali. Poiché è stato rilevato che le anse intestinali ripiene di gas possono interferire con la propagazione delle onde sonore rendendo difficile l’acquisizione di immagini diagnostiche dell’ovaio, in questo studio gli animali sono stati esaminati ad almeno 6 ore di distanza dall’ultimo pasto. Ecograficamente un follicolo ovarico è stato definito come un’area anecogena rotondeggiante priva di parete propria all’interno del parenchima ovarico. Un follicolo ovulatorio è sta-


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to definito come un follicolo di dimensioni superiori a 6 mm con una parete ispessita e forma variabile. I follicoli sono stati suddivisi in 3 classi basandosi sul diametro dei tre follicoli più sviluppati dell’ovaio, rilevati durante ciascun esame ecografico: alla classe 1 appartengono i follicoli di diametro minore di 4 mm, alla classe 2 follicoli con diametro dai 4 ai 6 mm, alla classe 3 i follicoli di diametro maggiore di 6 mm. Dopo l’ovulazione, sono state osservate delle strutture simili a follicoli, a volte non distinguibili dai follicoli preovulatori, a volte distinguibili in quanto presentavano un’aumentata ecogenicità del materiale intracavitario; queste strutture sono state definite “follicoli post-ovulatori” o “corpi lutei in formazione”. I corpi lutei maturi sono stati definiti come una struttura rotondeggiante avente pareti da iper ad isoecogene rispetto al parenchima ovarico. Una cisti ovarica è stata definita come un’area rotondeggiante anecogena che continua a crescere dopo l’ovulazione e persiste per tempi prolungati dopo che gli altri follicoli non sono più visibili. Alla fine dello studio tutti gli animali sono stati adottati da proprietari che si sono impegnati a riportare eventuali anomalie nei cicli estrali successivi.

Risultati La durata della fase proestrale è stata di 7,1±3,6 giorni. Durante i primi giorni del proestro l’ovaio è stato identificato con difficoltà in quanto di piccole dimensioni e circondato da tessuto adiposo che lo rende isoecogeno rispetto ai tessuti circostanti. Le dimensioni medie delle ovaie sono state 15,8 mm in lunghezza e 10,3 mm in larghezza. A partire dal terzo-quarto giorno del proestro, si sono cominciati ad osservare alcuni follicoli di circa 2-4 mm di diametro in tutte le 24 ovaie. L’ovaio è divenuto irregolare ed ipoecogeno rispetto ai tessuti circostanti. In questa fase i follicoli sono stati facilmente identificati come aree anecogene rotondeggianti prive di una parete ecograficamente distinguibile dal parenchima ovarico. Due-tre giorni prima dell’estro 13 ovaie presentavano follicoli di classe 1 e le rimanenti 11 follicoli di classe 2. Il primo giorno dell’estro 18 ovaie presentavano follicoli di classe 2 e 6 ovaie follicoli di classe 3. La fase estrale del ciclo è durata 11,6±3,4 giorni. In 10 cagne l’ovulazione, determinata dal picco plasmatico di LH e dai valori ematici di progesterone, è avvenuta tra il 2° ed il 3° giorno dell’estro, in una cagna tra il 3° ed il 4° giorno ed in un’altra tra il 4° ed il 5° giorno. Le dimensioni medie delle ovaie misurate il secondo giorno dell’estro sono state 18,2 mm in lunghezza e 12,1 mm in larghezza. Al momento dell’ovulazione le dimensioni dei follicoli sono risultate molto variabili, sia fra le ovaie di una cagna, che all’interno di una stessa ovaia. Solo 3 ovaie presentavano dei follicoli ovulatori, cioè follicoli di diametro maggiore di 6 mm, con pareti ispessite e forma variabile. In questo studio i follicoli hanno ovulato tra i 4 ed i 10 mm, con una maggiore incidenza intorno ai 6-7 mm. In coincidenza con l’ovulazione determinata mediante valutazione ormonale, l’esame ecografico ha visualizzato in 11 ovaie di 7 cagne diverse una rapida diminuzione del numero e delle dimensioni dei follicoli preovulatori. In 6 di queste 11 ovaie, un versamento periovarico è stato identificato a seguito del collasso follicolare; questo

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versamento peri-ovarico è scomparso nell’arco di circa 12 ore. In 4 delle 11 ovaie che hanno presentato collasso follicolare, nessuna struttura distinguibile dal parenchima ovarico è stata apprezzata per il resto del ciclo ovarico. Nelle rimanenti 7 ovaie, le cavità follicolari si sono riempite velocemente di materiale anecogeno e 5 ovaie hanno presentato strutture identiche ai follicoli preovulatori dopo 18-24 ore. In alcuni follicoli delle altre 2 ovaie, foci ecogeni sono stati visualizzati all’interno della cavità anecogena. Lo stesso riscontro è stato individuato in 2 ovaie dove non si era riscontrata ecograficamente la diminuzione del numero o delle dimensioni dei follicoli. In 4 ovaie su 24 in coincidenza con il periodo dell’ovulazione (giorno 2-3 dell’estro) è stato possibile osservare all’interno di alcuni follicoli una struttura iperecogena di 1-2 mm adesa alla parete follicolare. Le rimanenti 7 delle 24 ovaie non hanno presentato cambiamenti ecografici riscontrabili fino a 6 giorni dopo l’inizio dell’estro (circa 3-4 giorni dopo l’ovulazione). Sei giorni dopo l’inizio dell’estro quattordici delle 24 ovaie presentavano un corpo luteo cioè una struttura con pareti da iper ad isoecogene rispetto al parenchima ovarico ed avente una cavità centrale irregolare ed ipoecogena. Quattro ovaie non presentavano strutture differenziabili dal parenchima ovarico. Delle rimanenti 6 ovaie, 4 presentavano follicoli postovulatori di classe 3 e 2 follicoli postovulatori di classe 2. Nove giorni dopo l’inizio dell’estro, dei corpi lutei sono stati identificati in 20 ovaie e 4 ovaie avevano ridotte dimensioni con strutture ovariche non evidenziabili. In 5 cagne dopo l’ovulazione è stata riscontrata una struttura rotondeggiante di contenuto anecogeno che si è accresciuta per alcuni giorni all’interno del parenchima ovarico, raggiungendo a volte dimensioni di oltre 16 mm di diametro. Tali strutture sono regredite spontaneamente nell’arco di 15-20 giorni dall’estro, non sembrano aver influenzato l’attività riproduttiva e sono scomparse autonomamente entro i trenta giorni successivi all’ovulazione. Nessuna delle cagne che ha presentato tali strutture in una od in entrambe le ovaie ha avuto variazioni o anomalie nel ciclo estrale successivo.

Discussione È stato riportato (England, 1989; Wallace et al., 1992) che la posizione dell’ovaio varia durante il ciclo estrale e questo sembra essere dovuto all’effetto degli estrogeni e del progesterone sui legamenti che sospendono l’ovaio nella cavità addominale. Tale problematica, anche se presente, non ha inciso sull’indagine ecografica dell’ovaio in questo studio. I risultati ottenuti dimostrano che nella cagna è possibile monitorare ecograficamente lo sviluppo follicolare durante il periodo peri-ovulatorio, ma che le dimensioni dei follicoli tra le due ovaie di uno stesso soggetto e all’interno dello stesso ovaio sono molto variabili. Wallace et al., (1992), eseguendo l’esame ecografico ad intervalli di 24 ore ha descritto in 3 su 10 cagne, una diminuzione consistente delle dimensioni e del numero dei follicoli coincidente con l’ovulazione. Nel nostro studio eseguendo l’esame ecografico ad intervalli di 12 ore la riduzione delle dimensioni dei follicoli è stata individuata in 7 cagne su 12. Hase et al., (2000), riporta che nella cagna il follicolo ovula e perde il contenuto


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liquido, tuttavia, in poche ore, la cavità follicolare si riempie di un versamento siero-emorragico raggiungendo dimensioni simili a quelle dei follicoli preovulatori. Sulla base di queste osservazioni possiamo concludere che anche nella cagna, come in altre specie, (per esempio quella suina), l’ovulazione è caratterizzata da una rapida diminuzione delle dimensioni dei follicoli. Tuttavia, poiché i corpi lutei in formazione sono caratterizzati da una cavità interna anecogena che nell’arco di poche ore si viene a formare e che quindi li fa confondere facilmente con dei follicoli preovulatori, per visualizzare il processo dell’ovulazione è necessario ripetere l’esame ecografico ad intervalli non superiori alle 6-8 ore. La presenza di un “follicolo” che continua a crescere dopo l’ovulazione e che rimane per lungo tempo è stato considerato un fattore para-fisiologico nella cagna (Wallace et al., 1992; Spattini et al., 2003). In questo studio 5 ovaie di 4 cagne diverse hanno presentato tali strutture, le quali sono state seguite ecograficamente per 30 giorni dopo l’ovulazione. Tali “cisti” sono regredite spontaneamente nell’arco di 1520 giorni e nessuna delle cagne affette, ha avuto problemi nei cicli ovarici successivi. Un corpo luteo in formazione si distingue da un follicolo preovulatorio per la presenza nel suo interno di materiale siero-emorragico che sostituisce il liquido cristallino pre-ovulatorio (Boyd et al., 1993; England et al, 1993; Jou et al, 1999). Considerando la diversa natura del liquido intracavitario, ci si aspetterebbe una maggiore ecogenicità dell’area centrale dei corpi lutei in formazione rispetto ai follicoli ovulatori. Questo parametro, già riportato da altri (Boyd et al, 1993; Hayer et al, 1993; Silva et al, 1996), è stato evidenziato solo in 4 delle 24 ovaie esaminate, entro le prime 24 ore. Quattordici ovaie presentavano un’aumetata ecogenicità dei corpi lutei in formazione 4 giorni dopo l’avvenuta ovulazione. Individuare un corpo luteo in formazione è un chiaro segno di avvenuta ovulazione, tuttavia può essere un rilevamento tardivo ai fini dell’eventuale inseminazione. Nei successivi due giorni anche le pareti del corpo luteo erano notevolmente inspessite rendendolo chiaramente visibile. Visualizzare ecograficamente dei corpi lutei maturi è semplice fino a quando l’area centrale ipoecogena ed irregolare rispetto alle pareti è individuabile. Quando il corpo luteo perde quest’area centrale, può essere confuso con il parenchima ovarico. Se presente, “un follicolo ovulatorio” è un buon indice di imminente ovulazione. L’inspessimento delle pareti del follicolo preovulatorio sono considerate l’espressione della luteinizzazione preovulatoria caratteristica di questa specie (England, 1993). Nel nostro studio tre ovaie hanno presentato follicoli ovulatori. In 4 ovaie, la presenza all’interno di un follicolo di una struttura iperecogena di 1-2 mm adesa alla parete follicolare, ha indicato che il follicolo è appena ovulato. Questa struttura è considerata essere un coagulo che si viene a formare nel punto di estrusione dell’ovocita (Spattini et al., 2003). Il riscontro di uno solo dei parametri sopra descritti indicanti l’avvenuta ovulazione è, a nostro parere, sufficiente per concludere che l’ovulazione è avvenuta. Uno o più riscontri sono stati visualizzati in una od in entrambe le ovaie in 9 cagne su 12. In

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3 cagne, cambiamenti ovarici evidenti sono apparsi solo 4 giorni dopo l’avvenuta ovulazione. Ipotizziamo di non aver assistito al collasso follicolare in quanto l’intervallo di 12 ore tra un esame ecografico e l’altro può essere eccessivo. Ripetuti esami ecografici sono necessari soprattutto per chi non è famigliare con i sottili cambiamenti peri-ovulatori e questo può limitare l’uso ambulatoriale di tale tecnica. Tuttavia, conoscere le variazioni fisiologiche di un ciclo estrale permette di determinare con accuratezza il momento migliore per eseguire l’inseminazione e/o determinare i motivi della mancata riproduzione. In questo contesto lo studio ecografico del periodo peri-ovulatorio nella cagna può rivestire un importante ruolo clinico.

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Indirizzo per la corrispondenza: Giliola Spattini, via Fuori Ponte 4, 42014 Castellarano RE Tel 0536 859701 e-mail:giliolavet@yahoo.it


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Diagnosi di diarrea cronica nei gatti Jörg M. Steiner Med Vet, Dr Med Vet, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ECVIM-CA, College Station, Texas (USA)

Introduzione La diarrea è uno dei sintomi clinici più frequentemente rilevati nei gatti. Esistono differenti approcci per il trattamento della diarrea cronica. Le differenze possono dipendere dal tipo di metodica diagnostica adottata, qualora disponibile, dalle specifiche conoscenze pregresse da parte del medico che tratta il caso o da un particolare problema che si manifesta in una data regione geografica o ancora da non convergenti punti di vista dei medici. Infine, il trattamento risente del grado d’urgenza e della necessità di procedere in base alle esigenze contingenti. Per esempio, una repentina perdita di peso rilevata nel paziente richiede un approccio diagnostico più aggressivo rispetto a quello da attuarsi in caso di assenza di calo ponderale.

Approccio iniziale Come per ogni problema clinico, è importante una meticolosa anamnesi. Quest’ultima dovrebbe comprendere domande relative alla più recente storia clinica del paziente in esame, così come a quella passata, all’ambiente ed al comportamento più o meno corretto, specialmente per quanto si riferisce all’alimentazione ed alla anamnesi clinica di eventuali altri animali domestici. Oltre ad un’accurata anamnesi, un completo esame fisico è in grado di fornire un corretto quadro iniziale. Bisognerebbe dedicare particolare attenzione alle condizioni fisiche, allo stato d’idratazione, all’esame della cavità orale ed alla palpazione dell’addome. Se il quadro anamnesico e l’esame fisico non evidenziano specifici aspetti, indicativi della causa della diarrea, un corretto approccio iniziale dovrebbe comprendere un’attento esame delle feci per la evidenziazione o meno di parassitosi ed un eventuale trattamento con antielmintico ad ampio spettro, indipendentemente dagli esiti dell’esame delle feci. Una massiva parassitatosi gastrointestinale nei gatti non è di facile evidenziazione e, per molti motivi, tenendo anche conto del basso costo per accertare la presenza di un’infestazione endoparassita in un paziente, oltre che l’economicità e la semplicità del trattamento, l’esame delle feci per evidenziare l’infestazione endoparassita dovrebbe essere considerata routinaria in ogni gatto affetto da diarrea cronica. Il passo più importante per un’appropriata diagnosi è costituito dalla differenziazione tra disturbo gastrointestinale primario e disturbo gastrointestinale secondario, che può essere realizzato attraverso un esame emocromocitometrico completo, un profilo biochimico, un’analisi delle urine e, nei gatti con più di 6-7 anni d’età, una vlutazione della concentrazione del T4 totale nel siero. Altre quantità di siero do-

vrebbero essere comunque prelevate e congelate in vista di possibili future analisi. Una completa conta ematica può agevolare l’identificazione di disturbi infiammatori, infettivi o endocrini e nel contempo può rivelare anemia o un leucogramma da processo infiammatorio in corso. Il profilo biochimico, concomitante al responso più o meno grave di un’analisi delle urine, è utile per escludere malattie renali croniche. I gatti affetti da ipertiroidismo evidenziano spesso anemia ed aumentata attività degli enzimi epatici sierici. I risultati del profilo biochimico possono anche aiutare ad escludere i disturbi epatici. Se emergesse qualche dubbio in merito alla presenza di una affezione epatica, occorrerebbe analizzare le concentrazioni degli acidi biliari, pre e post i pasti. L’affezioni a carico del pancreas esocrino posso anche essere all’origine di una diarrea cronica. I gatti affetti da pancreatite cronica presentano spesso sintomi clinici non specifici e la diarrea cronica può risultare l’unico sintomo clinico segnalato. Se emerge qualche sospetto di pancreatite cronica, occorrerebbe prendere in considerazione l’immunoreattività sierica alla lipase pancreatica (fPLI).1 I gatti affetti da insufficienza pancreatica esocrina (EPI) evidenziano spesso feci morbide o diarrea quale sintomo clinico più importante.2 L’EPI può essere facilmente diagnosticata misurando la concentrazione fTLI nel siero.2 Questo tipo di analisi è praticato solo presso lo specifico Laboratorio dell’Università A&M del Texas (www.cvm.tamu.edu/gilab).

Valutazione avanzata Una volta che i disturbi secondari fossero esclusi, occorrerebbe indagare sul tipo di diarrea. In generale, può essere individuata la diarrea che trova origine o nell’intestino tenue o in quello crasso. I pazienti affetti da diarrea, la cui origine sia l’intestino tenue, evidenziano un aumento nel volume delle feci ed una normale, o soltanto lievemente accresciuta, frequenza di defecazione. Il sangue, se presente, è digerito e si evidenzia in forma di melena. Frequentemente i pazienti affetti da diarrea, la cui origine sia invece l’intestino crasso, devono esercitare grossi sforzi per defecare. Inoltre, spesso essi mostrano sangue fresco ed un aumentata presenza di muco a livello di feci. In più, non si evidenziano frequentemente cali ponderali nei pazienti con diarrea all’intestino crasso, mentre quelli affetti da diarrea all’intestino tenue possono o meno evidenziare perdita di peso. Tuttavia, questa differenziazione non sempre ha dei confini definiti e la maggior parte dei gatti con sintomatologia clinica di diarrea all’intestino crasso è colpita da disturbo più consistente all’intestino tenue. Differentemente da quanto avviene per gli esseri umani, le coliti isolate sono tutt’altro che frequenti nei gatti.


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È stato recentemente dimostrato che il Tritrichomonas foetus, un protozoo ritenuto responsabile dell’infezione a carico dell’apparato riproduttivo nei grossi animali, costituisce un agente patogeno per l’intestino del gatto, in grado di provocare diarrea cronica dell’intestino crasso. In genere, i gatti colpiti sono giovani e vivono in grosse colonie. Il ricorso alla metodica della coltura, utilizzata per diagnosticare infezioni da Tritrichomonas foetus a carico dell’apparato riproduttore negli animali da pascol, è stato recentemente riportato anche per i gatti.3 Molti felini affetti da diarrea cronica evidenziano un profilo ematico e biochimico assolutamente normali o rivelano soltanto piccoli non-specifici cambiamenti, come moderato innalzamento delle attività degli enzimi epatici. Questi pazienti dovrebbero essere trattati in quanto affetti da disturbo gastrointestinale primario. Sono molto importanti sul piano diagnostico e terapeutico le concentrazioni nel siero di cobalamina e di folati. La concentrazione di folati nel siero può essere diminuita quando si manifestano disturbi a carico dell’intestino tenue prossimale, mentre la concentrazione sierica di cobalamina può essere ridotta in caso di disturbi a carico dell’intestino teneue distale. Nei pazienti con frequenti disturbi all’intestino tenue possono essere ridotte la concentrazioni sieriche di folati e di cobalamina. Sia i folati che la cobalamina sono vitamine idrosolubili, presenti in abbondanza in quasi tutte le diete disponibili in commercio per i felini. Tuttavia, è necessario che nella dieta il folato, poliglutammato di folato, sia in monoglutammato di folato, ad opera di specifico enzima sito nle a livello di orletto a spazzola del digiuno. Il monoglutammato di folato è assorbito per mezzo di specifici carrier a livello di intestino tenue. Pertanto, forti e prolungati disturbi a carico dell’intestino tenue prossimale possono causare l’esaurimento delle scorte di folati nell’organismo ed un abbassamento della concentrazione di folati nel siero. L’assunzione della cobalamina per via alimentare è legata alla presenza di proteine nella dieta. Nello stomaco, le proteine alimentari vengono digerite in parte dalla pepsina e dall’HCl e la cobalamina viene rilasciata. Tuttavia, la cobalamina si lega immediatamente alla R-proteina. Quest’ultima, a sua volta, viene digerita dalle proteasi pancreatiche nell’intestino tenue. La cobalamina libera si lega ad un fattore intrinseco, rilasciato principalmente nel succo pancreatico. Tale combinazione di cobalamina e di fattore intrinseco viene quindi assorbita nell’ileo mediante specifici carrier. Quindi, i forti e prolungati disturbi a carico dell’intestino tenue prossimale insieme con l’insufficienza pancreatica esocrina causeranno l’esaurimento delle scorte di cobalamina e la riduzione della concentrazione di cobalamina nel siero. Secondo una recente ricerca, il 61% di 80 gatti con evidenti sintomi clinici di affezione gastrointestinale cronica ha mostrato una diminuita concentrazione di cobalamina nel siero e quasi tutti i gatti affetti da EPI evidenziano insufficiente cobalamina.4 La cobalamina nel siero è importante non solo a fini diagnostici, ma anche a fini terapeutici. Spesso i gatti che evidenziano una forte carenza di cobalamina non reagiscono alla terapia prescritta per il conseguente disturbo gastrointestinale fino a quando non sarà fornita un’integrazione di cobalamina. Per tutti i pazienti che non sono affetti da diarrea secondaria cronica o parassitosi si presentano due possibilità: un approfondimento diagnostico, con esecuzione di ulteriori test, o

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un approccio terapeutico per tentativi. In definitiva, la scelta dipende dalla gravità del caso e dagli obiettivi del proprietario. Se il paziente non evidenzia alcun sintomo clinico di tipo sistemico e se la sua specifica situazione non peggiora, un tentativo sul piano alimentare è giustificato in correlazione con la gravità del caso: differenti diete potrebbero essere introdotte al fine di individuarne una ideale per un determinato paziente. Molti gatti rifiutano un improvviso cambiamento d’alimentazione. Pertanto, la nuova dieta dovrebbe essere introdotta gradualmente in un periodo di 1-2 settimane. Se lo stato di salute del paziente non si stabilizza, se si deteriora rapidamente o se il proprietario desidera fare tutto il possibile indipendentemente dal costo o dalla prognosi, occorrerebbe procedere rapidamente ad ulteriori esami diagnostici. Alcuni medici preferiscono procedere ad un esame ecografico addominale, principalmente per la sua non invasività. L’ultrasonografia addominale può rivelarsi utile per individuare lesioni neoplastiche o di origine funginea, parziali ostruzioni da corpi estranei o un’intussuscezione o può essere utilizzata per visualizzare i linfonodi mesenterici. Altri medici preferiscono procedere ad una gastroduodenoscopia, principalmente perché per tradizione si è ritenuto che, nella maggior parte dei casi, i limiti diagnostici per questa procedura sono più alti rispetto all’ecografia addominale. Tuttavia, essa è anche più invasiva e non consente la visualizzazione di altri organi addominali. In più, i risultati dell’analisi istopatologica di biopsie intestinali sono molto meno definitivi di quanto ritenuto da gran parte dei medici veterinari. Il campione per la biopsia deve essere d’eccellente qualità, in maniera da ottenere il massimo delle informazioni possibili. Una recente ricerca ha messo a confronto i risultati dell’analisi istopatologica di campioni di biopsia prelevati in un gruppo di cani e gatti da diversi qualificati medici specialisti in patologia medica. Tale ricerca ha rilevato l’alto grado di variazione dei risultati cui sono pervenuti i vari medici specialisti coinvolti.5 Diversi esami diagnostici possono rendersi necessari, in casi particolarmente difficili, per diagnosticare un disturbo gastrointestinale primario. Per esempio, la coltura batterica di materiale fecale per individuare Salmonella spp., Clostridium spp. e Yersinia spp. può rivelarsi utile in un gruppo di pazienti particolari, specialmente in quelli compromessi dal punto di vista immunologico da altri disturbi contemporaneamente presenti nell’organismo o da trattamenti chemioterapici o in pazienti con diarrea ematica. Una coltura batterica non differenziata di materiale fecale non ha alcun valore diagnostico.

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Patologie dell’intestino tenue nei cani Jörg M. Steiner Dr Med Vet, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ECVIM-CA, College Station, Texas (USA)

Introduzione I disturbi a carico dell’intestino tenue possono essere acuti o cronici. Quelli acuti sono generalmente più connessi ad agenti patogeni veicolati per via alimentare, attraverso l’ingestione di cibo che provoca reazioni di tipo infettivo (enterite da Parvovirus o da altri agenti patogeni enterici) o meccanico, attribuibile a corpi estranei, a intussuscezioni o a torsioni. L’affezione a carico dell’intestino tenue di tipo cronico può essere di origine infettiva, infiammatoria, meccanica o neoplastica.

Disturbi all’intestino tenue di tipo acuto I cani affetti da disturbi all’intestino tenue di tipo acuto evidenziano di solito diarrea e/o vomito e, in relazione alla gravità delle condizioni, vari sintomi clinici referiti ai diversi sistemiorganici. L’aspetto più importante di un controllo efficace del disturbo intestinale di tipo acuto è costituito da una terapia di sostegno, dato che la maggior parte dei disturbi all’intestino tenue di tipo acuto è auto-limitante. Tuttavia, è importante individuare rapidamente le forme gravi di disturbi all’intestino tenue che richiedano una veloce ed efficace terapia.

Disturbi all’intestino tenue di tipo cronico I cani affetti da disturbi all’intestino tenue di tipo cronico evidenziano di solito diarrea cronica e possono o meno mostrare altri sintomi clinici, quali: vomito, perdita di peso, flatulenza o borborigmi. La causa più frequente dei disturbi all’intestino tenue di tipo cronico nei cani è la Malattia Infiammatotia Intestinale (Idiophatic Inflammatory bowel Disease IBD). Parimenti diffusa nei cani è l’abnorme proliferazione della flora batterica intestinale (Small Intestinal Bacterial Overgrowth - SIBO). Altri diffusi disturbi all’intestino tenue sono: le neoplasie intestinali, le affezioni di natura infettiva, le infezioni croniche da organismi patogeni, le infezioni micotiche, protozoarie, elmintiche o le ostruzioni parziali. Di seguito, elementi di dettaglio riferiti alle sole IBD e SIBO.

IBD L’IBD identifica nell’uomo una sindrome con diarrea cronica conseguente ad ileite o colite ulcerativa. Anche se sia l’ileite che la colite ulcerativa sono disturbi idiopatici, le stesse sono definite da specifici criteri. Per i cani non esiste al momento una definizione dell’IBD universalmente accettata. L’autore definisce l’IBD come una condizione infiammatoria dell’intestino, indipendentemente dal tipo di cellula predominante o della sottostante eziologia. In alcuni casi di IBD la causa può essere ovvia. Per esempio, i parassiti intestinali pos-

sono essere causa di infiammazione eosinofilica ed alcune infezioni batteriche possono causare infiammazioni neutrofile. Tuttavia, la maggioranza dei casi di IBD rimane idiopatica. Alcuni ricercatori prendono in esame solo i casi di infiammazione idiopatica dell’intestino per definire le condizioni che caratterizzano l’IBD, mentre altri fanno una distinzione fra l’IBD idiopatica e l’IBD dovuta a cause specifiche. La diarrea cronica è il più frequente sintomo rilevato nei cani affetti da IBD. Altro sintomo abituale è il calo ponderale del soggetto. Il vomito si manifesta quando è coinvolto lo stomaco,ma può presentarsi anche in casi in cui è interessato il solo tratto intestinale. La diagnosi di IBD è normalmente fatta sulla base dell’analisi istopatologica di campioni intestinali bioptici, generalmente raccolti in corso di gastroduodenoscopia. L’istopatologia è ritenuta il miglior sistema per diagnosticare l’IBD. Tuttavia, essa ha dei limiti. Esiste infatti un alto livello di variabilità nel numero di cellule infiammatorie osservate nella biopsia dei campioni di cani normali e non sono stati ancora adottati criteri obbiettivamente riconosciuti nella diagnosi dell’IBD. In ogni caso, l’istopatologia può rivelarsi utile nell’analisi clinica dei cani con sospetta IBD. Tuttavia, è della massima importanza analizzare in maniera critica la qualità dei campioni biopsici. Inoltre, è necessario correlare attentamente la diagnosi istopatologica alla luce di tutte le altre informazioni disponibili sul paziente. Se la diagnosi istopatologica non fosse indicata per lo specifico paziente, bisognerebbe ricercare un secondo parere. Esiste un numero sempre maggiore di mezzi non-invasivi per analizzare funzioni e patologia del tratto gastrointestinale. I folati sierici possono essere diminuiti nei disturbi latenti o conclamati all’intestino tenue. La cobalamina sierica può essere diminuita nei disturbi all’intestino tenue prossimale o distale, nell’insufficienza pancreatica esocrina o nella proliferazione batterica nell’intestino tenue. Si può ricorrere ad una concentrazione dell’inibitore α1-proteinase fecale per valutare la perdita di proteine per via gastrointestinale. Le proteine C-reattive del siero possono essere utilizzate come elemento rivelatore dell’infiammazione intestinale. Il test della permeabilità gastrointestinale e della funzione mucosale costituisce un utile mezzo per verificare l’integrità dell’intestino tenue e la capacità di assorbimento della mucosa. Anche l’analisi dei livelli delle citochinine sieriche e tessutali può rivelarsi utile per definire la specifica tipologia dell’IBD nei cani e nei gatti. Il trattamento dell’IBD è piuttosto empirico e comporta il ricorso a prove dietetiche, ad antibiotici, nel caso in cui si sospetti una eziologia batterica, e ad agenti anti-infiammatori e immunosoppressori. Si rende necessaria l’integrazione con cobalamina nei molti casi in cui i pazienti affetti da IBD rivelano anche carenza di cobalamina, come evidenziato da una forte diminuzione nella concentrazione di cobalamina sierica.


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SIBO La SIBO può essere definita come un’alterazione qualitativa e quantitativa della microflora presente nell’intestino tenue, tale da indurre sintomi clinici di diarrea con un’origine a carico dell’intestino tenue. In condizioni normali, quest’ultimo ospita un limitato numero di batteri, in genere appartenenti alle specie aerobiche. La gran massa degli autori è dell’opinione che mediamente i cani hanno concentrazioni inferiori a 104 - 105 batteri per ml di succo duodenale.1 Tuttavia, altri autori riportano percentuali molto più alte della flora batterica nel succo duodenale.2 La SIBO non rappresenta una malattia di primaria importanza per la maggior parte, se non per tutti, i pazienti affetti da questo tipo di disturbo. Esistono diversi meccanismi protettivi idonei a scongiurare la SIBO: gli acidi gastrici, la mobilità intestinale e l’attività antibatterica dei succhi pancreatici. Qualsiasi affezione che incida su uno o più meccanismi difensivi può essere all’origine della SIBO. Per esempio, la SIBO è frequentemente riscontrata nei cani affetti da insufficienza pancreatica esocrina. Tuttavia, in molti cani con proliferazione abnorme di batteri a livello di intestino tenue, non è rilevabile l’insorgenza di processi che inducano patologie primarie. I batteri presenti nel lume dell’intestino tenue sono attivi dal punto di vista metabolico. Questo fatto produce vari effetti nell’organismo che li ospita. I batteri sono in competizione per acquisire elementi nutritivi, come la cobalamina. Inoltre, i batteri producono diverse sostanze, quali l’acido folico, le proteasi e le glicosidasi batteriche, gli acidi grassi a catena corta, gli acidi biliari non coniugati, l’etanolo, le enterotossine, le endotossine ed i polimeri polisaccaridi peptidoglicani. Tali sostanze possono rivelarsi tossiche per gli enterociti o sono in grado di danneggiare l’orletto a spazzola. Inoltre, queste sostanze possono essere assorbite dall’intestino tenue e possono causare tossicità epatica o anche effetti di tipo sistemico. La SIBO, con un interessamento dell’intestino tenue, provoca nei cani diarrea cronica, che si rivela spesso intermittente. In alcuni casi si può evidenziare un calo ponderale del paziente. È possibile che altri sintomi clinici siano dovuti all’insorgenza di un sottostante malessere primario, quali una parziale ostruzione, una insufficienza pancreatica esocrina o altri. Nella maggioranza dei casi, risultano nei limiti normali l’esame emocromocitometrico e quello biochimico, anche se possono essere rilevate una lieve aumentata attività degli enzimi epatici. Radiografie addominali e ecografie potranno evidenziare l’insorgenza di un sottostante disturbo, ma in ogni caso non potranno far emergere altri specifici risultati. La pratica diagnostica più efficace è la coltura di succo duodenale. Bisogna però tener presente che la raccolta di tale succo risulta alquanto complicata e che la sua coltura, una volta che il succo sia stato prelevato, è laboriosa e costosa, senza considerare i lunghi tempi di attuazione e la necessità di rivolgersi a laboratori con pregresse esperienze nel particolare settore. Pertanto, la coltura di succo duodenale è di solito limitata alle istituzioni accademiche. Sono stati presi in esame diversi test diagnostici non-invasivi su cani affetti da SIBO. La concentrazione di folati nel siero, in detti cani, può essere aumentata, dato che l’acido folico è sintetizzato dai batteri enterici e

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può essere assorbito. La concentrazione di cobalamina nel siero può essere diminuita nei cani affetti da SIBO, poiché molte specie di batteri utilizzano cobalamina ed entrano in competizione con l’organismo in corso di integrazioni per via alimentare. A differenza di quanto avviene in presenza di aumentata concentrazione di folati sierici, una diminuita concentrazione di cobalamina nel siero non comporta diagnosi specifica di SIBO. Una combinazione di diminuita cobalamina e di aumentata concentrazione di folati sierici è fortemente indicativa di SIBO. Questi due parametri costituiscono al momento, nell’ambito di una struttura privata, il più pratico sistema diagnostico per la SIBO. La concentrazione di acido folico sierico non coniugato può anche essere aumentata nei cani affetti da SIBO. L’aumentato carico batterico a livello di intestino tenue può portare all’aumento di acidi biliari non coniugati. Tali acidi vengono riassorbiti e possono essere quantificati. Sfortunatamente, le concentrazioni di acidi biliari non coniugati nel siero variano in misura notevole nei cani normali. Altri test, come quello sulla concentrazione di idrogeno e quello sulla 13C-colilglicia sono stati presi in esame per la diagnosi della SIBO, ma si ritengono necessarie altre ricerche prima che tali test possano essere utilizzati nelle diagnosi routinarie di SIBO. L’obiettivo terapeutico nei cani affetti da SIBO è costituito dalla identificazione ed il trattamento della causa che la innesca. Per esempio, si renderebbe necessaria l’analisi del TLI nel siero ed il cane, dopo la diagnosi, dovrebbe essere curato per EPI. Tuttavia, di solito, i cani con EPI e SIBO secondaria non necessitano di specifica terapia per la SIBO qualora sia stata fornita agli stessi una integrazione enzimatica. Se la causa principale non fosse identificata, bisognerebbe applicare per il cane una terapia antimicrobica. Si ricorre abitualmente alla terapia con ossitetraciclina (10-20 mg/kg da BID a TID per 4-6 settimane). Sfortunatamente, l’ossitetraciclina è diventata spesso non facilmente reperibile. La tilosina (10-15 mg/kg BID per 4-6 settimane) costituisce il nuovo antibiotico di scelta.3 Diversi antibiotici, quali il metronidazolo, possono essere parimenti utilizzati. Alcuni cani reagiscono rapidamente alla terapia e non presentano casi di recidiva. Tuttavia, altri cani non reagiscono alla sola terapia antibiotica. Se non viene evidenziato alcun evidente miglioramento dopo 2 settimane di idonea terapia antibiotica, si rende necessaria un’ulteriore approfondimento per individuare eventuali condizioni sottostanti. In alcuni di questi pazienti può essere identificata una specifica causa sottostante alla SIBO, che di conseguenza dovrà essere trattata a parte. Tuttavia, in alcuni cani non è possibile identificare una causa specifica e si rende necessaria una terapia antibiotica di lunga durata, in alcuni casi, addirittura per tutta la vita. Inoltre, in una recente ricerca, l’integrazione di fruttoligosaccaridi nella dieta ha evidenziato un effetto benefico nei cani affetti da SIBO.

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Pancreatiti nei cani e nei gatti Jörg M. Steiner Dr Med Vet, PhD, Dipl. ACVIM, Dipl. ECVIM-CA, College Station, Texas (USA)

Introduzione L’incidenza dei disturbi pancreatici esocrini è alquanto elevata sia nei cani che nei gatti, dato che circa il 50% di tutti i pazienti canini e felini con disturbi pancreatici esocrini soffrono di pancreatite. Nei cani circa i 2/3 degli animali con pancreatite sono affetti da forme acute, mentre i 2/3 dei gatti evidenziano forme croniche. In base all’attuale sistema di classificazione delle pancreatiti nell’uomo, la pancreatite acuta è una condizione infiammatoria del pancreas, che è completamente reversibile, mentre la pancreatire cronica è caratterizzata da cambiamenti istopatologici irreversibili. Entrambe le forme possono essere lievi o gravi. Le forme blande di pancreatite sono associate con l’assenza o la limitata presenza di necrosi pancreatica e di effetti sistemici e spesso consentono il ristabilimento del paziente. Invece, le forme gravi di pancreatite sono associate con: diffusa necrosi pancreatica, coinvolgimento di molti altri organi e spesso prognosi infausta.

Patogenesi Diverse malattie e vari fattori di rischio risultano associati con la pancreatite.1 Sono stati riportati casi di pancreatite traumatica (dovuta ad incidenti stradali sia per i cani che i gatti o a cadute dall’alto per i gatti). La pancreatite può essere causata anche da un trauma chirurgico. È stato evidenziato che la pancreatite felina è dovuta ad agenti infettivi, con prevalente coinvolgimento del Toxoplasma gondii e, in rari casi, dell’Amphimerus pseudofelineus. Sono stati descritti due casi di pancreatite felina dopo l’uso locale di fenthion, un inibitore organofosfato della colinesterasi.1 Molti altre sostanze farmaceutiche sono stati coinvolte nell’accertamento delle cause delle pancreatiti negli esseri umani e nei cani, ma nessun caso è stato riportato nei gatti. La colangite e la colangio-epatite possono coesistere nei pazienti affetti da pancreatite, ma non emerge alcuna evidenza che le stesse rivestano un ruolo di causa-effetto. In fine, più del 90% di tutti i casi di pancreatite canina o felina è di natura idiopatica.

Quadro clinico I sintomi clinici nei cani e nei gatti affetti da pancreatite sono legati alla gravità della malattia. I casi lievi possono rimanere subclinici, mentre nei casi gravi si possono evidenziare anoressia, vomito, debolezza, dolori addominali e disidratazione.2 I gatti, anche se affetti da pancreatite grave, presentano meno sintomi clinici specifici rispetto ai cani. Particolarmente

degna di nota è la bassa incidenza di vomito e di dolori addominali, entrambi sintomi clinici piuttosto comuni nei pazienti umani e canini affetti da pancreatite.

Diagnosi La conta ematica completa ed il profilo chimico del siero segnalano spesso variazioni minime e non specifiche.1 Differenze più sensibili possono essere rilevate nei pazienti affetti da gravi forme di pancreatite. Le attività dell’amilasi e della lipasi nel siero non assumono rilevanza clinica nel gatto ed evidenziano limitata valenza clinica nel cane. La rilevanza di questi due parametri nel cane raggiunge valori limitati a circa il 50%, anche se venissero applicati criteri più selettivi.3 Pertanto, le attività dell’amilasi e della lipasi sieriche dovrebbero essere utilizzate soltanto per la diagnosi della pancreatite canina, almeno finché non siano disponibili risultati più definitivi. In taluni casi, le variazioni osservate radiograficamente comprendono un diminuito contrasto a livello di addome, nella parte più craniale, ed uno spostamento degli organi addominali, ma dette variazioni sono piuttosto soggettive. L’esame all’addome tramite ecografia si rivela utile per diagnosticare le pancreatiti nei cani e nei gatti. La sensibilità dell’ecografia addominale supera il 68% nei cani e raggiunge il 35% nei gatti.2,4 Le variazioni rilevate comprendono: ipertrofia pancreatica, cambiamenti nell’ecogenicità del pancreas (ipoecogenicità nei casi di necrosi pancreatica ed iperecogenicità nei casi di fibrosi pancreatica) e di grasso peripancreatico (iperecogenicità), edema peri-pancreatico e, meno spesso, un effetto “massa” nell’area del pancreas. L’immunoreattività simil-tripsina è riferita specificamente alla funzione pancreatica esocrina. Tuttavia, la sensibilità della concentrazione TLI del siero alla pancreatite nei cani e nei gatti è soltanto di circa il 30-60%,comunque inferiore a quella della concentrazione PLI nel siero. Recentemente, sono state sviluppate e convalidate prove di misurazione dell’immunoreattività alla lipasi pancreatica nei cani e nei gatti (cPLI e fPLI, rispettivamente). Le concentrazioni di cPLI e fPLI sono entrambe altamente sensibili e specifiche rispettivamente per le pancreatiti canine e feline. Al momento, queste prove sono disponibili soltanto presso lo specifico Laboratorio dell’Università A&M del Texas (www.cvm.tamu.edu/gilab). Tradizionalmente, la biopsia pancreatica è stata ritenuta il mezzo più efficace per diagnosticare la pancreatite. In molti casi, la presenza della pancreatite è facilmente diagnosticata a causa delle accresciute dimensioni del pancreas. Tuttavia, può essere difficile provare l’assenza di pancreatite e, anche dopo aver effettuato diverse biopsie, un’infiammazione pancreatica


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può essere facilmente non rilevata. Bisognerebbe anche notare che, mentre una biopsia pancreatica non comporta per se stessa molte complicazioni, parecchi pazienti affetti da pancreatite sono soggetti a limitati rischi anestetici.

Terapia Trattamento di sostegno - Ogni volta che sia possibile, bisognerebbe rimuovere la causa scate-nante. È da evitare l’assunzione di medicinali non necessari, specialmente di quelli suscettibili di causare pancreatiti nei cani, nei gatti o in altre specie animali. La terapia fluida d’attacco è la base principale per una terapia di sostegno. Occorre verificare l’esistenza di eventuali squilibri nei fluidi, negli elettroliti e tra acidi e basi e, se possibile, provvedere alla loro correzione. Alimentazione - La raccomandazione che viene fatta tradizionalmente, per ogni paziente affetto da pancreatite, riguarda il divieto, per un periodo di quattro giorni, di assumere qualsiasi sostanza per via orale. Questa raccomandazione è giustificata nei pazienti che presentano vomito, ma non emergono particolari motivi per giustificare una tale strategia per i pazienti che non vomitano. La questione si complica ulteriormente nei gatti, per il fatto che spesso i gatti con pancreatite sono affetti anche da lipidosi epatica.5 Le vie d’alimentazione preferite sono rappresentate da una sonda gastro-enterica, in grado di raggiugere il digiuno, o dall’alimentazione parenterale completa. Tuttavia, in molti casi queste strategie non possono essere adottate ed una sonda gastrica o nasogastrica costituiscono alternative valide, qualora il paziente non vomiti. Tuttavia, per il cane o il gatto che non vomita e nel caso in cui il gatto non sia stato anoressico prima della presentazione alla visita e non emergano elementi per evidenziare l’esistenza di una concomitante lipidosi epatica, il paziente dovrebbe essere mantenuto con NPO per 3-4 giorni. In seguito, l’acqua viene reintrodotta progressivamente, seguita da una dieta con piccole quantità di carboidrati e bassi tenori di grassi. Analgesia - Frequentemente, vengono riportati dolori addominali nei cani, ma non nei gatti con pancreatite. Tuttavia, è prevedibile la comparsa di fitte addominali e sostanze analgesiche sono indicate per cani o gatti affetti da pancreatite. Possono essere usati per via parenterale mepe-ridina, tartrato di butorfanolo o morfina. Le soluzioni alternative sono costituite da un impacco di fentanile o da una somministrazione intraddominale di lidocaina. Plasma - Alcune ricerche sui cani hanno consentito di constatare che, quando viene esaurita l’α2-macroglobulina, una delle proteine-spazzino con attivazione della proteasi sierica, la morte sopraggiunge rapidamente. Il plasma fresco congelato (Fresh Frozen Plasma –FFP-) ed il sangue intero contengono non soltanto le α2-macroglobuline, ma anche l’albumina, che apporta molti benefici effetti ai pazienti colpiti da gravi forme di pancreatite. Nel corso di studi clinici su pazienti umani affetti da pancreatite acuta, non è stato verificato alcun beneficio nella somministrazione del plasma. Tuttavia, l’autore ritiene che l’FFP si riveli utile nei cani con gravi forme di pancreatiti. Terapia antibiotica - Differentemente da quanto si verifica negli esseri umani, vengono riportate di rado complicazioni di natura infettiva nei cani e nei gatti affetti da pancreatite. Per-

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tanto, il ricorso agli antibiotici dovrebbe essere limitato a quei casi in cui può essere individuata o fortemente sospettata una complicazione di tipo infettivo. Agenti anti-infiammatori - Non sono disponibili dati sull’uso di agenti anti-infiammatori nei cani e nei gatti affetti da pancreatiti gravi, ma nessun beneficio è stato rilevato nei pazienti umani. I corticosteroidi possono rivelarsi necessari per il trattamento di cani e gatti affetti da IBD e da concomitanti lievi pancreatiti croniche e non sembrano essere dannosi per detti pazienti. Altre strategie terapeutiche - Molte altre strategie terapeutiche, quali la somministrazione di inibitori alla tripsina (per esempio, il trasilolo), gli inibitori del fattore che attivale piastrine (Platelet activating factor inhibitors -PAFANT-), la dopamina, gli antacidi, gli agenti anti-secretori (per esempio, gli anticolinergici, la calcitonina, il glucagone e la somatostatina), o il selenio ed il lavaggio peritoneale, sono state tutte studiate su pazienti umani affetti da pancreatite. Ad eccezione dei PAFANT e del selenio, nessuna di dette strategie ha evidenziato benefici effetti, per quanto si riferisce a questo aspetto. L’efficacia del selenio, che, in base ad una ricerca non verificata, sarebbe anche in grado di far diminuire la mortalità nei cani con pancreatite, dovrà essere confermata prima di consigliarne l’uso. Lieve pancreatite cronica - Bisognerebbe anche notare che molti pazienti sono affetti da forme lievi di pancreatite cronica. Talvolta, detti pazienti sono affetti da concomitanti patologie, in particolare e più frequentemente, l’IBD. Molto poco si sa in merito alla terapia indicata per questi animali e ci si limita spesso alla valutazione ed al trattamento della situazione concomitante, oltre che all’attenta monitorizzazione della pancreatite. Dovrebbero essere sempre analizzate le concentrazioni di calcio e di trigliceridi nel siero dei pazienti, al fine di identificare ogni fattore di rischio suscettibile di trattamento terapeutico. Inoltre, per questi pazienti è raccomandato il ricorso a diete caratterizzate da bassi tenori di grassi. Proprio come gli esseri umani affetti da pancreatite cronica, essi rischiano di sviluppare, in ogni momento, forme di aggravamento della pancreatite o insufficienza pancreatica esocrina, secondarie.

Prognosi La prognosi per i cani ed i gatti affetti da pancreatite è direttamente dipendente dalla gravità della malattia, dall’estensione della necrosi pancreatica, dall’insorgenza di complicazioni sistemiche e pancreatiche, dalle condizioni generali e dalla presenza di concomitanti malattie.

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Sindromi paraneoplastiche Erik Teske DVM PhD Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

Le sindromi paraneoplastiche sono dovute alla comparsa di segni clinici che, benché causati da certi tumori, non risultano correlati alle dimensioni o alla localizzazione della neoplasia primaria o delle sue metastasi. Queste manifestazioni possono essere il primo indice della presenza di un tumore e facilitarne la diagnosi (ad es., l’ipercalcemia può portare alla diagnosi di linfoma maligno), oppure venire utilizzate come indicatori per valutare l’efficacia del trattamento. Talvolta, la sindrome paraneoplastica è ancora più pericolosa del tumore stesso per la sopravvivenza del paziente, come nel caso dell’ipoglicemia causata da un insulinoma. Alcuni buoni esempi di sindromi paraneoplastiche sono quelli causati dai prodotti ormonali dei tumori endocrini, come il morbo di Cushing dovuto ai tumori dell’ipofisi o del surrene, l’ipertiroidismo da tumori tiroidei e l’ipoglicemia da un tumore a cellule beta del pancreas. Tuttavia, queste condizioni non verranno incluse nella breve relazione che segue.

IPERCALCEMIA Quella di origine neoplastica è la forma più comune di ipercalcemia. Possono essere coinvolti differenti meccanismi: 1) Ipercalcemia umorale da neoplasia maligna. Il tumore produce fattori umorali che esercitano un effetto su ossa, reni e tratto gastroenterico. Un esempio importante di questo tipo è il peptide PTH-correlato (PTH-rP). Questo peptide risulta simile al PTH, ne condivide parecchie caratteristiche, ma ne differisce immunologicamente. Il PTH-rP è presente in basse concentrazioni in diversi tessuti normali, specialmente epiteliali, ma viene prodotto in grandi quantità da alcuni linfomi maligni e dai carcinomi dei sacchi anali. In quest’ultima neoplasia si osserva una correlazione lineare fra PTH-rP ed ipercalcemia. Nei linfomi maligni del cane questa correlazione è meno evidente, suggerendo l’esistenza di un secondo fattore ormonale. Nel cane, l’ipercalcemia si osserva specialmente nei casi di linfoma a cellule T. Nei Paesi Bassi, il boxer è predisposto all’ipercalcemia associata al linfoma. Secondo le segnalazioni pubblicate in letteratura, quasi il 30% dei linfomi maligni del cane causa ipercalcemia, mentre nel gatto la frequenza è molto minore. 2) Metastasi di tumori solidi all’osso. La distruzione dell’osso ad opera di metastasi può causare ipercalcemia, specialmente nel caso dell’estensione all’osso dei carcinomi mammari. Nel cane e nel gatto, tuttavia, questo tipo di ipercalcemia è meno frequente.

3) Neoplasie maligne ematologiche, escluso il linfoma maligno. In questi casi, l’ipercalcemia è causata da fattori che attivano gli osteoclasti, come la IL-1, il TNF e le linfochine, prodotte dalle cellule tumorali. Uno dei tipi più comuni di neoplasia ematologica che produce tali fattori di attivazione degli osteoclasti è il tumore plasmocellulare.

IPERISTAMINEMIA I tumori delle mast cell sono frequentemente causa di sindromi paraneoplastiche nel cane. La maggior parte dei segni clinici è correlata al rilascio delle sostanze dei granuli delle mast cell come l’istamina, l’eparina e gli enzimi proteolitici. L’istamina si lega ai recettori H1 ed H2 presenti in parecchi tessuti dell’organismo. Il legame con i recettori H2 della mucosa gastrica esita in un aumento della produzione di acido gastrico e in un incremento della vascolarizzazione della mucosa con edema della stessa, con conseguente ulcerazione, sanguinamento e dolore gastrico. In altri tessuti, il rilascio spontaneo dei costituenti dei granuli delle mast cell può esitare in edema, eritema, sanguinamento e prurito. L’imponente rilascio di istamina dopo (crio)chirurgia può causare effetti cardiopolmonari potenzialmente letali attraverso ipotensione, aritmie (sia recettori H1 che H2) e broncospasmo (legame con i recettori H1). Inoltre il rilascio di eparina associato alla presenza di un tumore può esitare in un prolungamento del tempo di sanguinamento.

CACHESSIA NEOPLASTICA La neoplasia può influenzare il metabolismo dei carboidrati, delle proteine e dei grassi, portando ad una sindrome nota come cachessia neoplastica. L’anoressia può aggravare il problema. La cachessia neoplastica riduce la qualità della vita, la risposta al trattamento ed il tempo di sopravvivenza. Recentemente, è stato dimostrato che il metabolismo dei carboidrati nei pazienti con neoplasia è modificato, portando ad un’assunzione netta di energia da parte del tumore e ad una perdita netta di energia da parte del paziente. Il glucosio è la fonte più importante di energia per gli elementi tumorali. Nei tessuti normali, una molecola di questo zucchero viene ossidata attraverso il ciclo di Krebs in CO2 ed acqua, portando alla produzione di 32 molecole di ATP. Tuttavia, il tumore effettua la glicosilazione del glucosio a lattato per via anaerobica, con un guadagno energetico netto di sole due


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molecole di ATP. Per soddisfare la grande necessità di energia della neoplasia, l’organismo converte nuovamente il lattato in glucosio attraverso il ciclo di Cori. Questo processo costa 4 molecole di ATP e 2 molecole di GTP per ogni molecola di glucosio sintetizzata. Il risultato finale è un bilancio energetico negativo per l’organismo, ma positivo per il tumore. Inoltre, nei pazienti neoplastici è stata riscontrata una relativa resistenza all’insulina. Ciò può essere spiegato come un difetto dei recettori insulinici o un’anomalia nella trasmissione del segnale dopo il legame dell’insulina con il suo recettore. Il risultato è un’intolleranza al glucosio che è presente prima che si evidenzino altri segni clinici della cachessia neoplastica. Studi condotti in cani con linfoma maligno hanno dimostrato che la resistenza all’insulina è più probabilmente un difetto postrecettoriale. Inoltre, un test di tolleranza al glucosio in questi cani ha determinato un significativo incremento dei livelli plasmatici di lattato e di insulina sia prima che durante la prova. L’anomalia non è tornata alla normalità quando questi animali sono stati trattati mediante chemioterapia ed hanno raggiunto una remissione clinica completa. Una conclusione che si può trarre da questi studi è che i pazienti con neoplasia non devono essere trattati con infusioni di Ringer lattato, dal momento che ciò aumenta i livelli plasmatici del lattato stesso, accentuando ulteriormente il bilancio energetico negativo. I livelli plasmatici di lattati possono essere incrementati anche dall’infusione di glucosio. Inoltre, le diete ricche di carboidrati possono promuovere la cachessia neoplastica. Nella cachessia neoplastica la degradazione delle proteine supera la loro sintesi, portando ad un bilancio azotato negativo. La perdita proteica può influire sulla guarigione delle ferite, sul sistema immunitario e sulle funzioni gastroenteriche. Inoltre, i livelli plasmatici di aminoacidi utilizzati per la gluconeogenesi (arginina, glutamina, glicina, cistina e valina) sono risultati diminuiti nei cani con neoplasia. Ciò impone l’uso di una dieta con proteine di elevato valore biologico, ma che al tempo stesso consenta di evitare gli eccessi proteici, perché il tumore potrebbe utilizzarli come fonte energetica. I cani con neoplasie presentano livelli plasmatici di lipoproteine ad alta densità significativamente più bassi. Al contrario, acidi grassi liberi, trigliceridi totali e lipoproteine a bassissima densità sono aumentati in modo significativo. Tutto ciò è compatibile con una diminuzione della lipogenesi ed un aumento della lipolisi, che si osserva nei pazienti umani con cachessia neoplastica. L’insulinoresistenza può aggravare questa situazione. Le restrizioni della dieta possono influire sui segni clinici causati dall’anormale metabolismo dei grassi. Le cellule tumorali possono utilizzare carboidrati e proteine come fonti energetiche, ma nella maggior parte dei casi non sono in grado di impiegare i grassi. Di conseguenza, le diete ad elevato tenore di grassi sono potenzialmente utili nei pazienti con cachessia neoplastica. Inoltre, è stato dimostrato che alcuni trigliceridi ed acidi grassi diminuiscono sperimentalmente la cachessia neoplastica e sono persino dotati di caratteristiche antitumorali. Ad esempio, le diete ricche di olio di pesce, che possiede un elevato contenuto di acidi grassi poliinsaturi omega-3, aumentano il peso corporeo ed esercitano effetti antitumorali. Al contrario, gli acidi grassi omega-6 incrementano l’oncogenesi.

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ANEMIA Esistono parecchie cause di anemia nei pazienti con neoplasia. 1) Anemia da disordini cronici. Questo tipo di anemia è causata da un accorciamento della durata della vita degli eritrociti ed è caratterizzata da una lieve anemia non rigenerativa normocitica e normocromica. La durata media della vita degli eritrociti è ridotta da 120 a 60-90 giorni. La causa esatta di questa anemia non è nota. Il danneggiamento degli eritrociti da parte delle strutture vascolari anomale, dell’infiammazione o degli immunocomplessi può determinare un incremento della fagocitosi nel sistema reticoloendoteliale. Anche un anomalo metabolismo del ferro può contribuire a questa anemia. 2) Anemia da mielottisi. L’infiltrazione midollare da parte degli elementi tumorali può sopprimere le normali cellule del midollo osseo. Questa condizione viene detta mielottisi e si osserva di solito soltanto in uno stadio finale della malattia neoplastica. 3) Anemia emolitica immunomediata. L’anemia emolitica immunomediata nel cane e nel gatto è di solito associata ai tumori emopoietici. 4) Anemia emolitica microangiopatica. Questo tipo di anemia è solitamente associato a tumori microvascolari. Si può avere la frammentazione degli eritrociti. Sia le anomalie degli eritrociti, che esitano nell’anemia, che la frammentazione delle piastrine sono la conseguenza del danneggiamento intravascolare da parte di filamenti di fibrina formatisi durante il decorso della DIC o da strutture vascolari anomale con depositi di fibrina o, ancora, dalla proliferazione dell’intima nei vasi polmonari dopo un embolismo tumorale. Nel cane, l’emangiosarcoma è il tumore più frequentemente associato a questo tipo di anemia.

POLICITEMIA La policitemia è una rara sindrome paraneoplastica del cane e del gatto. Di solito, è dovuta a tumori primari o secondari del rene. Possibili meccanismi sono la produzione ectopica di eritropoietina da parte del tumore o l’aumento della produzione di eritropoietina da parte del rene stesso, per effetto dell’ipossia renale causata dalla compressione tumorale. I segni clinici sono determinati dall’iperviscosità e dalla dilatazione e diminuzione della perfusione dei piccoli vasi sanguigni, con conseguente ipossia tissutale, sanguinamento e trombosi.

PANCITOPENIA L’intossicazione da estrogeni può esitare in una pancitopenia da depressione midollare. Oltre che per cause iatrogene, gli estrogeni capaci di causare la depressione midollare possono essere prodotti dai tumori delle cellule del Sertoli del testicolo e da quelli delle cellule della granulosa dell’ovaio. La pancitopenia indotta da estrogeni si osserva soltanto nel cane e nel furetto.


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TROMBOCITOPENIA La trombocitopenia è una delle più comuni anomalie emostatiche nei pazienti con neoplasie, dal momento che viene segnalata quasi nel 40% dei cani con neoplasia. Le possibili cause della comparsa di questa condizione sono: 1) Un accorciamento della durata media della vita delle piastrine dovuto al legame con l’endotelio anomalo dei vasi sanguigni del tumore o conseguente all’accelerazione della rimozione dal circolo causata dalla microaggregazione stimolata dal tumore o dal rivestimento delle piastrine da parte di proteine tumorali. 2) Una trombocitopenia immunomediata, causata da produzione di anticorpi antipiastrinici da parte del tumore, reattività crociata fra antigeni tumorali ed antigeni piastrinici e legame di complessi antigene-anticorpo alle piastrine. Un conteggio piastrinico inferiore a 75.000/µl può determinare la comparsa di segni clinici.

DISORDINI DELLA COAGULAZIONE Le neoplasie maligne in stadio finale esitano spesso in manifestazioni cliniche caratterizzate da disordini della coagulazione. Oltre alla trombocitopenia, l’anomalia più frequente è la coagulazione intravasale disseminata (DIC) che è molto probabilmente dovuta ad un complesso di fattori. Le cellule tumorali possono produrre sostanze capaci di attivare la coagulazione. L’emangiosarcoma, ad esempio, può immettere in circolo la tromboplastina tissutale. Inoltre, il tumore può causare un aumento dell’aggregazione piastrinica. Il fattore di necrosi tumorale (TNF) prodotto dai macrofagi attivati dall’infiammazione può modificare l’endotelio dei vasi sanguigni portando ad un aumento della tendenza alla coagulazione intravascolare. La deplezione dei fattori della coagulazione indotta dalla DIC e le proprietà inibitrici dei prodotti di degradazione del fibrinogeno possono causare una diatesi emorragica. La DIC è spesso associata ad emangiosarcoma, carcinomi tiroidei e carcinomi della ghiandola mammaria, specialmente anaplastici.

IPERVISCOSITÀ La viscosità plasmatica può essere aumentata sia dalle componenti cellulari che da quelle solubili. Si osserva spesso nei pazienti con policitemia ed in quelli con un aumento della concentrazione sierica di proteine, come si ha nel mieloma multiplo ed in altre malattie con paraproteinemia. I pazienti con iperviscosità plasmatica dovuta ad un aumento della concentrazione di proteine, specialmente se determinato da IgM ed IgA, presentano un incremento della tendenza

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all’emorragia. Ciò è causato da un’anomalia della funzione piastrinica dovuta al legame delle proteine con la membrana delle piastrine stesse. Inoltre, le paraproteine possono legare i fattori della coagulazione ed inibirne la funzione. Inoltre, la sindrome di iperviscosità influisce sul sistema cardiovascolare, sul rene e sul sistema nervoso centrale. L’incremento della concentrazione plasmatica di proteine esita in un aumento dell’osmolalità plasmatica. che causa ipervolemia. Ciò innalza la pressione di perfusione e, quindi, il “belastingsvolume” cardiaco. Poiché l’iperviscosità diminuisce anche la perfusione miocardica, si sviluppa un’ipossia miocardica che conduce rapidamente all’insufficienza cardiaca. Nei pazienti con sindrome di iperviscosità si può osservare una grave depressione del SNC, che si manifesta con demenza, atassia e coma. Questa condizione è causata dall’ipossia cerebrale indotta dalla diminuzione della perfusione cerebrovascolare. La proteinuria di Bence-Jones predispone all’insufficienza renale attraverso il danneggiamento dei tubuli del rene, secondariamente alla degradazione metabolica dei monomeri a catena leggera delle cellule tubulari renali. Un’ulteriore causa di insufficienza renale è l’ipossia dell’organo conseguente ad iperviscosità sierica. La sindrome da iperviscosità è anche associata ad anomalie oculari. Sia l’incremento del volume vascolare che le tendenze emorragiche possono portare ad alterazioni oculari, quali distensione e tortuosità dei vasi retinici, cisti della pars plana, edema della papilla ed emorragie e distacchi della retina. Queste alterazioni possono portare alla comparsa improvvisa di cecità.

OSTEOARTROPATIA IPERTROFICA L’osteoartropatia ipertrofica è caratterizzata da una tumefazione periostale molto dolorosa, non edematosa e calda delle ossa degli arti. Le alterazioni radiografiche sono caratteristiche: si osserva una neoformazione di osso periostale sia sotto forma di noduli irregolari perpendicolari alla corticale che di depositi paralleli più lisci, che originano distalmente a livello dei metacarpi o dei metatarsi e si diffondono in direzione prossimale. Spesso la condizione è associata a processi patologici localizzati nella cavità toracica, specialmente nelle porzioni periferiche dei polmoni. Tuttavia, l’osteoartropatia ipertrofica si può osservare anche in associazione con processi localizzati in addome, specialmente a livello di reni, vescica e cavità pelvica. La causa esatta dell’osteoartropatia è ancora sconosciuta. È stato ipotizzato che sostanze vasoattive umorali o la stimolazione neurologica possano causare un aumento della perfusione ematica delle estremità, portando alla proliferazione del periostio e del tessuto connettivo. La rimozione del tumore di solito determina una rapida scomparsa della sindrome paraneoplastica.


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Principi di chemioterapia Erik Teske DVM, PhD, Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

Nel considerare l’applicazione della chemioterapia agli animali con neoplasia sono importanti i seguenti fattori: (i) impostazione del trattamento, (ii) tipo di paziente, (iii) tipo di tumore e (iv) punto di vista del proprietario. Ognuno di questi fattori esercita un’influenza decisiva sulla scelta di utilizzare o meno la chemioterapia.

1. Impostazione del trattamento Col termine di impostazione del trattamento si intende in questa sede il fatto di decidere se somministrare farmaci citostatici da soli o in associazione con altre modalità terapeutiche. In quest’ultimo caso si parla di chemioterapia adiuvante, il cui potenziale valore si fonda sull’efficacia delle forme combinate di trattamento. In medicina veterinaria, la chemioterapia adiuvante viene utilizzata nella maggior parte dei casi in associazione con il trattamento chirurgico delle neoplasie nei casi in cui si prevede che si siano sviluppate micrometastasi al momento del trattamento della lesione primaria, come ad es. l’osteosarcoma nel cane. In generale, il periodo di terapia è limitato. L’impostazione del trattamento riguarda anche lo scopo e le potenzialità del trattamento stesso. La chemioterapia può essere finalizzata a determinare la morte di tutti gli elementi neoplastici, nel qual caso si parla di chemioterapia risolutiva, oppure a ridurre la massa tumorale ed i segni clinici correlati, ed allora viene definita come palliativa. La chemioterapia risolutiva viene raramente tentata in oncologia veterinaria, in considerazione dell’elevata intensità di trattamento che spesso richiede e della relativa tossicità. Tuttavia, in alcuni linfomi del cane e del gatto ed in quasi tutti i condilomi del cane è possibile ottenere una guarigione, che è invece rara in altri tumori solidi. D’altra parte, la chemioterapia è spesso in grado di determinare un’attenuazione dei segni clinici di una neoplasia, anche per parecchi anni. Queste manifestazioni sono rappresentate dai problemi di natura fisica determinati dalla massa tumorale o dalla sua crescita infiltrativa o metastatica, oppure dovuti agli effetti paraneoplastici (ad es., ipercalcemia nei linfomi o ipoglicemia negli insulinomi). Tuttavia, è necessario rendersi conto che, anche quando risulta efficace, la chemioterapia può richiedere un certo tempo prima di portare ad una riduzione della morbilità correlata al tumore.

2. Tipo di paziente È necessario tenere in considerazione varie caratteristiche del paziente e diversi aspetti che possono essere correla-

ti alla terapia. Rientrano in questa categoria l’impiego del cane, ad es. per la riproduzione, la guardia o le corse, e la speranza di vita con e senza malattia neoplastica. La speranza di vita è correlata all’età (anche se questa non costituisce una controindicazione di per sé), al rendimento clinico, alla funzione degli organi critici ed allo stadio clinico. Anche la presenza di un’altra malattia non correlata può esercitare una certa influenza. Il rendimento clinico degli animali da compagnia cerca di descrivere la capacità dell’animale stesso di svolgere le proprie attività normali e di mantenere il proprio stato metabolico naturale. La funzione degli organi critici può essere stata compromessa dalla neoplasia sino ad un livello tanto basso da risultare inaccettabile, in particolare se si prevede che la chemioterapia stessa eserciti un certo effetto di compromissione. Molti tipi di tumori ematologici possono danneggiare la funzione midollare che, d’altra parte, è molto sensibile alla citotossicità di numerosi tipi di agenti chemioterapici. Inoltre, la funzione renale ed epatica possono essere importanti per l’escrezione degli agenti chemioterapici e, quindi, per determinarne le concentrazioni plasmatiche e tissutali, l’emivita e il rischio di tossicità. Per poter esercitare un effetto citostatico, la ciclofosfamide necessita di un’attivazione metabolica nel fegato. Alcuni composti del platino possono danneggiare il rene; la doxorubicina può essere sia nefro- che cardiotossica. Prima di iniziare la terapia, è indispensabile un’analisi critica delle funzioni organiche mediante valutazione clinica e di laboratorio. La determinazione dello stadio clinico (TNM: Tumore, linfoNodi, Metastasi) fornisce informazioni relative non solo alla massa tumorale (spesso inversamente correlata all’efficacia della chemioterapia), ma anche all’estensione ai linfonodi regionali ed a sedi distanti. Ciò può contribuire a definire la necessità di un trattamento (sulla base dell’aggressività tumorale), ma può anche evidenziare la presenza di fattori limitanti (grave disfunzione organica, forse irreversibile). Durante la terapia, è necessario ripetere ad intervalli regolari la valutazione del rendimento clinico e della funzione organica.

3. Tipo di tumore Oltre allo stadio clinico del paziente nel momento in cui viene presentato per il trattamento, per decidere di attuare o meno la chemioterapia è della massima importanza il tipo di tumore. Il tipo di tumore (ed il grado di malignità) può servire a valutare il comportamento biologico. Questo comprende la modalità di crescita, espansiva oppure infiltrante e la capacità di dare origine a metastasi.


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I tumori che spesso crescono in modo infiltrante sono, fra gli altri, i mastocitomi e molti sarcomi. Per alcune neoplasie solide, la probabilità di una diffusione (micro)metastatica al momento della prima manifestazione è quasi assoluta, anche se i segni di micrometastasi sono assenti. Questa affermazione vale, ad esempio, per i cani con osteosarcoma dello scheletro appendicolare e per i gatti con carcinoma mammario. Anche molti tumori ematologici assumono la forma di malattie sistemiche al momento della loro prima manifestazione. La valutazione del comportamento biologico, quindi, indica la potenziale efficacia del trattamento chirurgico per garantire il controllo locale del tumore, ma può anche prevedere la diffusione sistemica. Entrambi i fattori possono definire la necessità di una terapia aggiuntiva. Inoltre, esiste una correlazione fra tipo di tumore e sensibilità alle specifiche forme di chemioterapia. Nonostante i considerevoli progressi compiuti negli ultimi decenni, la conoscenza su questa correlazione è incompleta per parecchi tipi di neoplasie animali. Per maggiori dettagli si rimanda il lettore ai trattati di oncologia. Nella Tabella 1 vengono forniti alcuni esempi, basati sui dati della letteratura e sull’esperienza personale; tali esempi potranno cambiare man mano che nuovi farmaci si dimostreranno efficaci. La sensibilità di uno specifico tipo di tumore consente di prevedere la percentuale di tumori sensibili agli specifici farmaci, utilizzati da soli o in associazione fra loro.

Tabella 1 Sensibilità dei differenti tipi di tumori alla chemioterapia a) Tumori che sono spesso sensibili ai farmaci citotossici, in cui si ottengono frequentemente delle remissioni e la vita risulta prolungata: - Linfoma maligno (cane/gatto) - Tumore venereo trasmissibile (Cane) b) Tumori che sono talvolta sensibili ai farmaci citotossici, dove si verificano delle remissioni e la vita può essere prolungata: - Carcinoma mammario (Gatto) - Carcinoma tiroideo (Cane) - Carcinoma ovarico (Cane) - Mieloma (Cane) - Osteosarcoma (Cane) - Emangiosarcoma (Cane) - Micosi fungoide (Cane) c) Tumori in cui, benché si verifichi una risposta alla chemioterapia, non si è certi che la vita sia prolungata: - Melanoma (Cane) - Carcinoma mammario (Cane) - Carcinoma squamocellulare (Cane/Gatto) - Mastocitoma (Cane/Gatto) d) Tumori in cui si osserva raramente una risposta alla chemioterapia e la vita non è prolungata: - Fibrosarcoma (Cane) - Istiocitoma maligno (Cane) - Mesotelioma (Cane)

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4. Il punto di vista del proprietario Una buona comunicazione fra l’oncologo ed il proprietario è alla base di qualsiasi approccio terapeutico bilanciato. È necessario fornire chiare informazioni sulle prospettive e i limiti della chemioterapia, in modo da consentire al proprietario di farsi delle aspettative fondate. Inoltre, deve essere chiarito quali sono le possibilità del proprietario di affrontare una chemioterapia. Tali disponibilità dipendono sia dalle risorse economiche che dal tempo, nonché dalla forza emotiva. È preferibile che il proprietario sia consapevole della forza delle sue motivazioni prima di avviare il trattamento, in particolare nel caso di protocolli terapeutici più estesi. A parte gli aspetti veterinari della chemioterapia, anche i potenziali rischi dei farmaci citostatici per il clinico, il tecnico o il proprietario possono svolgere un ruolo importante nel decidere se trattare o meno un animale con la chemioterapia. La prima segnalazione dei rischi dei farmaci citostatici è stata pubblicata nel 1979. Sostanze mutagene sono state riscontrate nell’urina di infermiere che lavoravano presso un reparto oncologico e somministravano farmaci citostatici. Pochi anni più tardi altri studi hanno riferito un danno epatico e un aumento della percentuale di aborti in queste infermiere. Tali aborti erano evidentemente correlati alla manipolazione dei citostatici nel primo trimestre della gravidanza. In altre pubblicazioni sono state segnalate lesioni cutanee da contatto diretto con i farmaci citostatici o aerosol con citostatici. Nel frattempo sono stati pubblicati i primi studi epidemiologici, in cui è stato evidenziato un aumento del rischio di leucemia in pazienti trattati con chemioterapia per altri tumori. Inoltre, nei linfociti di infermiere che lavoravano presso un reparto oncologico sono state dimostrate aberrazioni cromosomiche. Queste ultime non erano presenti nelle infermiere che si proteggevano dal contatto diretto con i farmaci citostatici, in contrasto con quelle che erano meno prudenti e non lavoravano con guanti, maschere e cappe a flusso laminare. Inoltre, sono state riscontrate tracce di ciclofosfamide nell’urina non solo dei pazienti, ma anche delle infermiere dei reparti oncologici. Questo riscontro è notevole, perché il farmaco viene metabolizzato nel fegato lasciando soltanto quantità molto piccole dell’agente d’origine per l’escrezione attraverso l’urina. In alcune di queste indagini si possono trovare delle imperfezioni strutturali. Ciononostante, si può concludere che i risultati degli studi combinati di laboratorio, dei test di provocazione, delle osservazioni cliniche e delle esperienze dei gruppi professionali che manipolano questi farmaci citostatici puntano tutti nella stessa direzione. La manipolazione di questi agenti è potenzialmente pericolosa, a meno che non si adottino speciali misure di sicurezza.

Direttive per la manipolazione dei farmaci citostatici 1) Abbigliamento - Utilizzare guanti in lattice (da preferire al PVC) sia al momento della preparazione che della somministrazione. È meglio utilizzare un doppio paio di guanti. L’al-


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cool rende questi guanti permeabili alle sostanze, per cui è necessario fare attenzione quando si utilizza questo prodotto per la disinfezione della cute dell’animale. - Usare una maschera. - Indossare speciali abiti protettivi. 2) Localizzazione - Utilizzare una camera a flusso laminare verticale per la preparazione dei farmaci citostatici. - Non mangiare, bere o fumare nella stessa stanza in cui vengono preparati o somministrati i farmaci citostatici. 3) Preparazione dei farmaci - Aprire le fiale tenendole per il collo con una garza sterile. - Fare attenzione ai farmaci citostatici che devono essere disciolti. Esiste il rischio di determinare una pressione eccessiva nella fiala e di conseguenza la formazione di aerosol quando si sfila l’ago. Iniettare il solvente con attenzione ed eliminare la pressione in eccesso con la stessa siringa che lo conteneva. - Togliere l’aria dalla siringa tenendo una garza sterile sulla punta dell’ago e spingere lo stantuffo fino a che tutta l’aria è uscita. 4) Eliminazione dei citostatici - Aghi, siringhe, fiale devono essere posti in speciali contenitori per rifiuti a rischio.

- Anche le maschere, i guanti e gli abiti protettivi monouso devono essere depositati in questi speciali contenitori. - L’urina, le feci ed il vomito dei pazienti possono contenere dei farmaci citostatici e devono essere considerati come potenzialmente pericolosi. 5) Gravidanza - Le donne in gravidanza o quelle che prevedono di avere dei bambini non devono trovarsi in un’area in cui vengano preparati o somministrati farmaci citostatici 6) Istruzioni per i proprietari - I proprietari devono indossare guanti in lattice per somministrare le compresse di citostatici ai loro animali. - Dopo la somministrazione dei chemioterapici, la saliva degli animali contiene elevati livelli di farmaco. Di conseguenza, il proprietario non si deve lasciar leccare dall’animale per alcuni giorni. - Urine, feci e vomito del paziente possono contenere farmaci citostatici e devono essere eliminati attentamente indossando guanti in lattice. - Preferibilmente, l’animale va tenuto in aree dove non ci siano bambini che giocano. - Gli animali sono potenzialmente pericolosi per un periodo di 7-10 giorni dopo la somministrazione del farmaco citostatico.


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La citologia delle masse endoaddominali attraverso l’analisi interattiva di casi clinici Erik Teske DVM, PhD, Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

Introduzione L’esame clinico, la radiologia ed il profilo biochimico sono tutte metodiche utilizzate per la diagnosi dei disordini epatici. Benché possano risultare adatti per localizzare il processo patologico o per valutare la gravità del disordine, per scegliere la terapia ed emettere una prognosi spesso è necessaria una diagnosi più specifica. Per parecchi decenni, a questo scopo è stata utilizzata l’istologia, esaminando campioni bioptici ottenuti per via chirurgica o mediante prelievo percutaneo facendo uso di aghi relativamente spessi (ad es., come quello di tipo Menghini). Gli svantaggi di questo tipo di esame sono rappresentati dalle complicazioni associate all’impiego di aghi di grosso calibro ed al periodo relativamente lungo che occorre per la preparazione dei tessuti inclusi in paraffina per l’esame istologico. Le complicazioni segnalate come conseguenza dell’uso degli aghi di tipo Menghini sono rappresentate da emorragie, peritonite e morte. Nel cane è stata riferita una mortalità dell’0,9-3,5% per il prelievo delle biopsie epatiche percutanee effettuate alla cieca e dell’1,4% per quelle ottenute mediante laparoscopia. In confronto al prelievo mediante intervento chirurgico o con ago di grosso caibro, il prelievo di campioni epatici mediante aspirazione con ago sottile presenta molti vantaggi. Si tratta di un metodo con invasività minima, di facile esecuzione, che non richiede anestesia e comporta un numero piuttosto scarso di complicazioni. I risultati sono disponibili entro un tempo variabile da mezz’ora ad un’ora dopo il prelievo della biopsia. Inoltre, l’esame citologico degli strisci per impronta ottenuti dalle biopsie con ago di grosso calibro può essere utilizzato come integrazione dell’esame istologico della medesima biopsia. Prima di effettuare il prelievo di una biopsia mediante aspirazione con ago sottile dal fegato, è necessario misurare il tempo di coagulazione ed i livelli plasmatici di fibrinogeno nell’animale. Presso la clinica dell’autore, la biopsia mediante aspirazione con ago sottile del fegato viene effettuata anche nei pazienti con una lieve anomalia del tempo di coagulazione, se necessario. Presso le strutture private, è consigliabile ricorrere a questa metodica unicamente nei pazienti in cui la coagulazione risulta normale. Si possono ottenere buoni campioni bioptici impiegando una siringa monouso da 10 ml con un ago da 22G. Quest’ultimo viene introdotto dal lato destro dell’animale in stazione attraverso l’undicesimo spazio intercostale, a livello della giunzione costocondrale. Lesioni più localizzate possono essere aspirate sotto guida fluoroscopica o ecografica. Gli strisci possono essere colorati con una tecnica di tipo Romanowsky (ad es., May-Grünwald Giemsa). Le diagnosi che possono venire formulate sulla base dell’esame citologico sono elencate nella Tabella 1.

Tabella 1 Diagnosi citologiche che si possono formulare mediante prelievo di biopsie per aspirazione con ago sottile dal fegato Tessuto epatico normale Epatopatia da steroidi Lipidosi Avvelenamento da rame Emopoiesi extramidollare Colestasi Epatite reattiva aspecifica Epatite primaria Neoplasia (primitiva o secondaria)

Citologia normale del fegato Per stabilire dei valori di riferimento dei differenti parametri citologici e per rilevare l’influenza dell’età su questi parametri abbiamo esaminato i tessuti epatici di 28 cani sani. Sono stati confrontati tre gruppi di animali, costituiti da soggetti di 1-2 anni di età, 5-6 anni e 10-14 anni. I risultati di questo studio sono riassunti più oltre. Il tessuto epatico normale è caratterizzato dalla presenza di molti epatociti di grandi dimensioni e talvolta da alcune cellule epiteliali derivate dai dotti biliari. Gli epatociti possono essere tondeggianti, ovali o anche poligonali e presentare una notevole quantità di citoplasma granulare basofilo. Queste cellule spesso formano dei piccoli monostrati di 6-10 elementi. Il piccolo nucleo tondeggiante può presentare un nucleolo molto prominente, localizzato in posizione centrale. Non è insolito il riscontro di forme binucleate. Talvolta si osservano caratteristiche strutture intranucleari cristalline. Le cellule epiteliali derivate dai dotti biliari spesso formano dei grandi monostrati di elementi cuboidali. Occasionalmente si riscontrano negli strisci di tessuto epatico normale. Le altre popolazioni cellulari osservate con maggiore frequenza sono rappresentate da linfociti, neutrofili, lipociti, e, in misura minore, mast cell. Negli aspirati del fegato normale, le cellule di Kupffer (macrofagi) si vedono raramente. È stata osservata una significativa influenza dell’età sui parametri relativi a dimensioni delle cellule, numero di nuclei per cellula, frequenza di neutrofili e rapporto nucleocitoplasmatico. Le dimensioni delle cellule aumentano al crescere dell’età e, poiché quelle del nucleo non cambiano, il rapporto nucleocitoplasmatico diminuisce in relazione all’invecchiamento. È stato anche riscontrato un numero più elevato di nuclei per cellula all’aumentare dell’età. Il numero di neutrofili per vetrino era più elevato soprattutto nei cani giovani.


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Quadri citologici nelle epatopatie Nella epatopatia da steroidi, derivante dall’iperadrenocorticismo o dalla somministrazione di corticosteroidi a scopo terapeutico, si ha un accumulo di glicogeno nel citoplasma degli epatociti. Ciò può portare ad una vacuolizzazione schiumosa e torbida del citoplasma (“ballonizzazione”, ma va fatto rilevare che in medicina umana questo termine viene utilizzato principalmente per il rigonfiamento del nucleo). Gli epatociti possono anche essere completamente rigonfi. Nella lipidosi epatica, un disordine che si riscontra principalmente nel gatto, il nucleo dell’epatocita viene dislocato da grandi vacuoli nettamente circoscritti nel citoplasma. Oltre a questa forma macrovescicolare, ne esiste anche una microvescicolare, in cui nel citoplasma sono presenti molteplici vacuoli di piccole dimensioni. Nella lipidosi risulta di solito visibile uno sfondo adiposo, a meno che questo non sia stato disciolto dai bagni di alcool della colorazione. La intossicazione da rame, un’anomalia ereditaria del Bedlington terrier, può essere facilmente dimostrata con una speciale colorazione. Grazie alla colorazione con acido rubeanico, il rame risulta visibile sotto forma di un fine precipitato granulare di colore nero nel citoplasma degli epatociti. L’emopoiesi extramidollare si riconosce per la presenza dei precursori delle serie eritroide, granulocitaria e megacariocitaria fra gli epatociti. Questi precursori sono caratterizzati dalla morfologia normale che presentano nel midollo osseo. La colestasi si riscontra di solito in associazione con altre anomalie. Il pigmento biliare di colore blu-verdastro scuro è presente sotto forma di granuli intracitoplasmatici. Il numero di questi ultimi può essere così elevato da oscurare completamente il nucleo dell’epatocita. In alcuni casi si osserva un accumulo di pigmento biliare nei canalicoli fra gli epatociti. Questa condizione viene descritta come trombi biliari. L’epatite aspecifica (epatite reattiva) è un’infiammazione del fegato derivante da processi esterni all’organo. La biopsia mediante aspirazione con ago sottile rivela un’associazione di alterazioni citologiche. Di solito, è presente un numero elevato di elementi infiammatori (specialmente mast cell), insieme a colestasi, degenerazione cellulare e rigenerazione (epatociti iperplastici). Gli epatociti iperplastici sono caratterizzati dall’occorrenza di molteplici nuclei per cellula, un nucleolo molto evidente ed un nucleo più piccolo. Si possono distinguere due forme di epatite primaria: una purulenta acuta ed una cronica attiva. L’epatite settica acuta è caratterizzata principalmente dall’occorrenza di un numero elevato di granulociti polimorfonucleati, dall’aumento numerico dei nucleoli e dalla presenza di pigmento biliare citoplasmatico. Nell’epatite cronica attiva la cellula infiammatoria predominante è il linfocita. L’entità dell’accumulo di bile è inferiore e di solito non è presente necrosi. Nei casi di cirrosi aggiuntiva, si può trovare un numero elevato di elementi epiteliali cubici. Nel processi metastatici nel fegato si possono riscontrare differenti tipi cellulari. Con la biopsia mediante aspirazione con ago sottile è possibile diagnosticare i tumori a cellule rotonde (come il linfoma maligno, il mastocitoma ed il melanoma), i carcinomi e, talvolta, i sarcomi. Di solito, risulta difficile determinare l’origine del tumore primario. Spesso è molto difficoltoso differenziare un carcinoma me-

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tastatico da uno primario dei dotti biliari. Il riscontro di un numero elevato di linfoblasti all’interno dei campioni epatici conforta la diagnosi di linfoma maligno. Di solito il numero dei linfoblasti corrisponde al 50% circa della totalità degli elementi nucleati presenti nella biopsia, ma in qualche caso è pari solo al 5%. Ciò può essere causato da una parziale remissione del tumore indotta da una precedente terapia con prednisolone o da una distribuzione non uniforme dei linfoblasti all’interno del fegato, che possono sfuggire al prelievo di biopsie mediante aspirazione con ago sottile. La diagnosi può essere ulteriormente complicata dal fatto che nei pazienti con epatite cronica è talvolta possibile rilevare un piccolo numero di linfoblasti fra le plasmacellule ed i linfociti. Nel mastocitoma è possibile osservare la presenza di mast cell in numero eccessivo o sotto forma di foglietti oppure con gradi variabili di granulazioni. Bisogna stare attenti a non sovradiagnosticare i mastocitomi epatici. Le mast cell sono presenti in quasi tutti i processi patologici caratterizzati da un aumento del numero di cellule, nell’epatite aspecifica reattiva e nella colangiolite distruttiva. Tuttavia, queste mast cell sono principalmente ben differenziate e si presentano sotto forma di cellule individuali e non in gruppi. Di conseguenza, negli aspirati epatici dei cani sani si osservano mast cell individuali sparse. Negli strisci di carcinomi epatocellulari allestiti con campioni bioptici prelevati mediante aspirazione con ago sottile, le cellule possono presentare una notevole variazione delle caratteristiche morfologiche, a seconda del loro grado di differenziazione. Si possono rilevare epatociti ben differenziati, scarsamente distinguibili da quelli normali, e grappoli di elementi epiteliali maligni non differenziati. In generale, le cellule epatiche nel carcinoma epatocellulare sono caratterizzate da un elevato rapporto nucleocitoplasmatico, da un diametro maggiore delle cellule, da un aumento numerico dei nucleoli per nucleo, da piccole quantità di vacuoli citoplasmatici e da un numero limitato di linfociti frammisti ad epatociti. Ulteriori caratteristiche sono il sovraffollamento delle cellule epatiche, l’elevato grado di necrosi cellulare e la presenza abbondante di cellule con quadri cromatinici irregolari e, frequentemente, condensati.

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Aggiornamenti sul linfoma Erik Teske DVM, PhD, Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

Eziologia I linfomi costituiscono un gruppo ben distinto di neoplasie del sistema immunitario ed è stato ipotizzato che le aberrazioni di tale sistema siano la causa delle neoplasie maligne. In effetti, nei cani con linfoma maligno è stata dimostrata una compromissione della reattività immunitaria umorale e cellulare. È necessario compiere ulteriori studi per stabilire se tale depressione immunitaria sia causata dalla malignità oppure se lo sviluppo del linfoma maligno sia preceduto da un deficit immunitario, come viene suggerito secondo il concetto della sorveglianza immunitaria. Il riscontro del fatto che l’immunocompetenza umorale e cellulomediata sia la stessa nelle razze ad alto rischio (boxer, terrier) ed in quelle a basso rischio suggerisce che quest’ultima ipotesi non sia importante nella patogenesi del linfoma maligno del cane. Anche le malattie immunomediate sono state associate a vari tipi di neoplasia nel cane. In cani con trombocitopenia immunomediata, in confronto alla popolazione canina generale, indipendentemente dall’età e dal sesso e dal fatto che gli animali fossero sterilizzati o interi, è stato osservato un significativo incremento dell’odds ratio (OR = 5,6) per l’occorrenza del linfoma. Nell’uomo, il ruolo dei pesticidi nell’eziologia delle neoplasie è oggetto di attenzioni sempre maggiori. In un recente studio sul linfoma maligno del cane mediante casi clinici e soggetti di controllo, è stata rilevata un’associazione limitata, ma significativamente positiva (OR = 1,3), con l’impiego da parte del proprietario di diserbanti a base di acido 2,4diclorofenossiacetico. Altri pesticidi come il carbaril ed il malathion non sono stati associati ad un incremento del rischio del linfoma maligno del cane. Il ruolo dei virus nell’eziologia del linfoma maligno canino è ancora controverso. Sono state implicate le infezioni da retrovirus, specialmente dopo il riscontro di particelle retrovirali nel tessuto tumorale, benché altri autori non siano stati in grado di confermare questo dato. L’attività della transcriptasi inversa è stata confermata nel 64-79% dei surnatanti colturali dei linfomi canini, ma non è stato possibile isolare alcun virus da questi materiali. Sinora sono stati pubblicati scarsi dati sull’analisi citogenetica del tessuto linfoide normale o neoplastico del cane. L’elevato numero di cromosomi di questa specie animale (78 contro i 46 dell’uomo) e le notevoli analogie morfologiche fra essi (con 76 cromosomi telocentrici e due cromosomi sessuali metacentrici), ne ostacola l’identificazione. Tuttavia, in una recente segnalazione sono state identificate specifiche aberrazioni cromosomiche non random in 61 cani con linfoma ad insorgenza spontanea. Tali aberrazioni erano

principalmente numeriche piuttosto che strutturali ed avevano significato prognostico per la durata della prima remissione ed il tempo di sopravvivenza. I cani con una trisomia del cromosoma 13 come aberrazione cromosomica primaria presentavano una prognosi migliore degli altri.

Epidemiologia Il tasso di incidenza annuale del linfoma maligno nel cane è stato stimato pari a 13-33 per 100.000 cani o anche superiore. Benché sia stata descritta una predominanza nelle femmine, la maggior parte degli studi non ha rivelato una predilezione sessuale. I linfomi colpiscono i cani di ogni età, ma principalmente gli adulti non più giovani e non ancora anziani. L’età media dei cani con linfoma maligno, secondo quanto segnalato in letteratura, è compresa fra 6,3 e 7,7 anni. Negli USA sono stati calcolati i tassi di incidenza specifici per età ed è stato riscontrato un aumento da 1,5 su 100.000 per i cani con meno di un anno di vita a più di 80 su 100.000 per quelli con 10 anni di età. Il tasso di incidenza del linfoma maligno del cane non è però lo stesso per tutte le razze. È stato descritto un aumento del rischio relativo per bovaro delle Fiandre, boxer, Scottish terrier, basset hound, airdale terrier e bulldog, mentre le razze con un rischio relativo minore sono rappresentate da Yorkshire terrier, bassotto e cane di Pomerania. Questa predisposizione razziale suggerisce che il linfoma maligno abbia una base genetica o sia in una certa misura correlato ad una caratteristica ereditaria. Questa ipotesi è anche confortata dall’occorrenza di un’aggregazione familiare del linfoma maligno in bull mastiff, rottweiler ed otterhound, benché l’aggregazione di una malattia in una famiglia possa anche indicare l’influenza di fattori ambientali o infettivi.

Caratteristiche cliniche I segni clinici associati al linfoma maligno del cane sono variabili e dipendono, fra l’altro, dalla localizzazione del tumore. Nella forma multicentrica il riscontro più costante è una linfoadenopatia indolente generalizzata, spesso accompagnata da epatosplenomegalia e coinvolgimento midollare. Si possono avere molte manifestazioni aspecifiche, come depressione, emaciazione, anoressia, vomito, diarrea, ascite, dispnea, polidipsia e febbre. L’esame radiografico del torace può rivelare un ingrossamento dei linfonodi sternali e tracheobronchiali, l’allargamento del mediastino craniale e la presenza di anomale radiopacità polmonari (no-


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dulari, focali-alveolari e interstiziali). L’epatosplenomegalia e la linfoadenopatia mesenterica sono le più comuni anomali riscontrate nelle radiografie dell’addome. La forma mediastinica è caratterizzata dall’aumento di dimensioni dei linfonodi mediastinici craniali e/o del timo ed i segni clinici sono rappresentati da dispnea, tosse, intolleranza all’esercizio e rigurgito. I cani colpiti da una forma extranodale presentano una varietà di segni clinici che dipende dallo specifico organo coinvolto. I soggetti affetti dalla forma alimentare del linfoma maligno solitamente presentano segni gastroenterici aspecifici che comprendono vomito, diarrea, feci emorragiche e perdita di peso. Possono essere coinvolti anche i linfonodi mesenterici, il fegato e la milza. Questa è la più comune forma extranodale del linfoma maligno, che corrisponde al 2-7% dei cani colpiti dalla malattia. L’aumento dell’impiego delle biopsie endoscopiche ha consentito di formulare la diagnosi con frequenza sempre maggiore rispetto al passato. Il linfoma cutaneo del cane è solitamente generalizzato o multifocale. I tumori si presentano sotto forma di noduli, placche, ulcere, eritrodermia e dermatite esfoliativa. È frequente il prurito. Il coinvolgimento della mucosa orale può assumere la forma di noduli e placche eritematose. Il tumore può insorgere come malattia cutanea primaria, oppure come conseguenza di una disseminazione da altre sedi anatomiche. Istologicamente, i linfomi cutanei possono essere suddivisi fra tipi epidermotropici (solitamente con origine dalle cellule T) e tipi non epidermotropici (solitamente con origine dalle cellule B). La maggior parte dei linfomi cutanei primari del cane è costituita da linfomi epidermotropici. La micosi fungoide è una delle forme epidermotropiche riconosciuta nel cane. La sindrome di Sézary e la reticulosi pagetoide (malattia di Woringer-Kolopp) sono state descritte come varianti della micosi fungoide del cane. Il linfoma neurale è un’altra forma extranodale della malattia. Si riscontrano linfomi a carico del sistema nervoso sia centrale che periferico, anche se quest’ultimo è colpito meno comunemente. In uno studio su 8 casi di linfoma del SNC tutti i cani presentavano un’attività convulsiva e mostravano segni clinici compatibili con un coinvolgimento multifocale del sistema nervoso centrale. Sono state anche descritte paralisi e paresi da compressione del midollo spinale da parte di linfomi epidurali. Questi ultimi mostrano una predilezione per la regione toracolombare. Il linfoma oculare è caratterizzato da ispessimento dell’iride, ipopion, ifema, sinechie posteriori e glaucoma. I segni a carico del segmento posteriore possono essere rappresentati da tumori della coroide, emorragie del vitreo, distacco retinico ed infiltrazione del nervo ottico.

Stadiazione e classificazione L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sviluppato un sistema di stadiazione clinica dei linfomi maligni del cane. Con questo metodo è possibile descrivere l’entità della malattia. La maggior parte di queste neoplasie viene portata alla visita in stadio avanzato, cioè in stadio III, IV o V. La correttezza del sistema di stadiazione per alcuni linfomi extranodali (stadio V della malattia secondo il sistema OMS) è stata messa in discussione.

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Sia nel linfoma del gatto che in quello del cane sono stati utilizzati parecchi sistemi di classificazione istologica per distinguere i tumori in base al tipo di architettura (diffusa o nodulare/follicolare) ed al tipo cellulare (che riflette lo stato di maturazione e le caratteristiche immunitarie). La maggior parte di questi schemi (classificazione di Kiel, Working Formulation) classifica il linfoma in 2-3 gradi di malignità. I tumori con basso grado di malignità presentano una progressione più lenta della malattia, mentre quelli di grado intermedio ed elevato sono risultati associati a prognosi meno favorevoli in assenza di chemioterapia, ma mostrano più spesso una risposta ai chemioterapici migliore di quella dei linfomi di basso grado. Inoltre, i linfomi possono essere classificati in funzione del loro immunofenotipo. Nei cani con linfoma a cellule B la prognosi è migliore che in quelli con linfoma a cellule T.

Trattamento I tempi di sopravvivenza descritti nei cani non trattati sono difficili da interpretare, perché l’intervallo trascorso fra il momento della diagnosi e l’insorgenza della malattia è variabile ed incerto e perché l’influsso della decisione del proprietario sull’eutanasia contribuisce a diminuire la precisione. Ciò può spiegare la notevole variabilità dei tempi di sopravvivenza medi riportati in letteratura, variabili da 10 a 99 giorni. Dal momento che il linfoma maligno del cane è praticamente una malattia sistemica, il ruolo della chirurgia terapeutica è limitato. L’intervento può forse essere preso in considerazione nello stadio I o II, ma non sono stati pubblicati dati relativi all’efficacia di questo trattamento. Nel linfoma sistemico è stata suggerita la splenectomia come metodo per ottenere una rapida citoriduzione del tumore e per alleviare i segni dell’imponente splenomegalia come la rottura della milza. Tuttavia, è stato anche riferito che la splenectomia influisce negativamente sul tempo di sopravvivenza. Il trattamento con un corticosteroide come singolo agente è stato utilizzato spesso perché è poco costoso e relativamente privo di tossicità. Sono stati ottenuti tassi di remissione completa del 17-43% e tempi di remissione media di solo 1-2 mesi. Benché segnalazioni isolate abbiano suggerito un benefico effetto degli antiestrogeni nella leucemia linfocitaria e nel linfoma refrattario nell’uomo, il valore di questi agenti nel trattamento del linfoma maligno nel cane è stato messo in dubbio. I recettori degli estrogeni e del progesterone sono quasi non rilevabili nel citosol dei linfomi canini. In uno studio pilota condotto su 5 cani con linfoma maligno non è stato possibile dimostrare alcun benefico effetto del trattamento con antiestrogeni, benché i siti di legame specifici per questi farmaci fossero presenti in gran numero. È stata messa a punto un’ampia varietà di protocolli chemioterapici che utilizzano parecchi farmaci, sia da soli che in associazione. In generale, i risultati della chemioterapia combinata sono migliori di quelli dei trattamenti che prevedono un impiego di un singolo agente. Ciò nonostante, è stato descritto un tasso di risposta dell’82% per una monoterapia con L-asparaginasi e valori del 75-87% per la monoterapia con doxorubicina. I periodi di remissione mediana erano


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ancora leggermente migliori per la doxorubicina da sola in confronto alla chemioterapia combinata con vincristina, ciclofosfamide e prednisone. I tassi di risposta più elevati (8896%), i periodi di assenza di malattia di maggior durata (215-330 giorni) e i tempi di sopravvivenza mediana più prolungati (325-357 giorni) sono stati ottenuti con protocolli combinati basati sulla somministrazione sequenziale di Lasparaginasi, vincristina, ciclofosfamide e doxorubicina o metotressato, in associazione con dosi calanti di prednisone. Il 10-20% circa dei cani trattati secondo questo protocollo combinato è stato classificato fra i sopravvissuti a lungo termine o persino fra quelli guariti. Nella maggior parte dei cani in cui si utilizza la chemioterapia, si ha infine una recidiva. A seconda del protocollo di induzione e di quello di mantenimento utilizzati, la reinduzione con il medesimo protocollo può essere efficace oppure no. Tuttavia, nella maggior parte dei casi i tassi di remissione e la durata delle remissioni risultano inferiori dopo il secondo trattamento rispetto al primo ciclo. Quando il primo trattamento non comprendeva la doxorubicina o la L-asparaginasi, si deve prendere in considerazione l’uso di questi agenti nel secondo. Tuttavia, ci si deve aspettare una resistenza a più farmaci indotta dalla terapia iniziale. È stato riscontrato che questo fenomeno può essere parzialmente dovuto alla sovraespressione di una proteina della membrana plasmatica, la P-glicoproteina, che agisce come una pompa di efflusso di farmaco. Per la terapia di reinduzione sono stati utilizzati parecchi agenti, con differente successo. In 34 cani refrattari ad una precedente chemioterapia con doxorubicina è stato utilizzato il mitoxantrone (6 mg/m2 IV ogni 3 settimane) ottenendo un tasso di remissione completa del 36% con una durata mediana della risposta di 126 giorni. Non è stata rilevata alcuna risposta dopo somministrazione di actinomicina-D (0,7 mg/m2 IV, ogni 3 settimane) in 25 cani refrattari alle altre chemioterapie. Un’associazione chemioterapica di doxorubicina (30 mg/m2 IV) e dacarbazina

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(200 mg/m2 IV, durante 5 giorni) ha determinato una remissione completa in 5 cani su 15. Il monitoraggio della terapia consiste nella valutazione della risposta alla stessa (risposta completa: assenza di residui di malattia misurabile; risposta parziale: riduzione della malattia misurabile superiore al 50%). Inoltre, in occasione di ogni visita è necessario annotare il rendimento clinico dell’animale. Poiché gli agenti chemioterapici interferiscono con la divisione cellulare (e talvolta con l’attività metabolica), i tessuti normali caratterizzati da un elevato tasso di divisione cellulare possono essere danneggiati. Di conseguenza, si possono avere manifestazioni tossiche gastroenteriche (vomito/diarrea) e soppressione midollare (ad es., utilizzando vincristina, ciclofosfamide, doxorubicina). Inoltre, alcuni farmaci possono causare un danno renale o una miocardiopatia (ad es., la doxorubicina) o deficit neurologici (ad es., la vincristina). L’anoressia e l’emesi possono anche essere dovuti ad effetti esercitati al di fuori del tratto gastroenterico, ad es., a livello dell’encefalo. Se si utilizzano più di una volta degli agenti immunogeni (come ad es., la L-asparaginasi), si può avere anafilassi. L’esame clinico dell’animale sotto terapia deve comprendere l’esecuzione regolare dell’esame emocromocitometrico completo e del profilo biochimico per cercare di prevenire le complicazioni dovute a questi effetti collaterali. Bisogna fare attenzione durante l’iniezione di farmaci come la vincristina e la doxorubicina, che possono causare un’estesa distruzione tissutale se non vengono somministrati con una tecnica rigorosamente endovenosa. Il trattamento combinato con vincristina ed L-asparaginasi determina un aumento del rischio di depressione midollare. Secondo il nostro punto di vista, la chemioterapia dei tumori va effettuata presso cliniche specializzate. Bisogna disporre di una camera apposita per la preparazione delle soluzioni da iniettare. La manipolazione di routine degli agenti chemioterapici prevede l’uso di guanti e maschere e di cannule per infusione endovenosa in condizioni di sicurezza.


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Emangiosarcoma nel cane Erik Teske DVM, PhD, Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

L’emangiosarcoma è una neoplasia maligna altamente metastatica che origina dalle cellule endoteliali vascolari. Si riscontra più comunemente nel cane che in qualsiasi altra specie animale e la sua prevalenza può essere compresa fra 0,3 e 2,0%. È stato riferito che i cani maschi ed i pastori tedeschi sono maggiormente esposti al rischio di emangiosarcoma. Le comuni localizzazioni di origine sono rappresentate da milza, atrio destro, tessuto sottocutaneo e fegato. I cani con emangiosarcoma sono di solito in età matura o anziani, con valori medi di 9-10 anni. L’La neoplasia è molto meno comune nel gatto e spesso è localizzata a livello di fegato, milza o linfonodi mesenterici. In un’ampia casistica di anomalie spleniche rilevate in 500 cani, quasi la metà delle lesioni della milza (48,2%) è risultata di natura maligna. L’emangiosarcoma costituiva fino al 51% di queste neoplasie spleniche. Va quindi considerato come un importante tumore maligno. L’emangiosarcoma è anche il più comune tumore cardiaco. A questo livello, il numero degli emangiosarcomi è quasi 10 volte quello del tumore cardiaco al secondo posto in ordine di frequenza, quello del corpo aortico. È possibile determinare lo stadio dell’emangiosarcoma limitato alla cute basandosi sulla localizzazione istologica. Gli emangiosarcomi del derma (stadio I) sono piccoli, localizzati soprattutto nella regione ventroaddominale o prepuziale, ed associati a tempi di sopravvivenza più prolungati (sopravvivenza mediana 780 giorni) rispetto ai tumori ipodermici (stadio II) ed a quelli localizzati nella muscolatura profonda (stadio III). Questi ultimi presentano dimensioni maggiori, non mostrano una predilezione anatomica e generalmente sono caratterizzati da una sopravvivenza più corta (sopravvivenza mediana di 172 e 307 giorni, rispettivamente). La maggior parte degli emangiosarcomi cutanei, tuttavia, è costituita da tumori superficiali (73%). Sembra esistere una certa influenza della lunghezza del pelo e del colore della cute. I cani con mantello corto e cute lievemente pigmentata mostrano più spesso l’emangiosarcoma di tipo dermico e meno frequentemente quello di tipo sottocutaneo; inoltre, la cute glabra ventrale è meno colpita. È stata quindi suggerita un’associazione fra la radiazione solare e l’occorrenza dell’emangiosarcoma di tipo dermico. Si ritiene che il quadro metastatico dell’emangiosarcoma segua la via ematogena. Le sedi comuni di metastasi sono il fegato ed i polmoni, anche se nell’emangiosarcoma splenico si riscontrano frequentemente anche delle estensioni del processo neoplastico al cuore ed ai linfonodi addominali. La diagnosi dell’emangiosarcoma viene solitamente formulata sulla base della valutazione istologica di un campione bioptico prelevato chirurgicamente o del tumore primario. L’esame citologico delle biopsie ottenute mediante

aspirazione con ago sottile non può essere considerato abbastanza specifico. Nell’ambito dell’indagine diagnostica di un emangiosarcoma è necessario effettuare l’esame radiografico dei polmoni e del cuore e l’ecografia addominale. Tuttavia, occorre sempre tenere presente la possibilità di esiti falsi negativi. In uno studio condotto su 77 cani con emangiosarcomi, mediante radiografie toraciche è stata formulata una diagnosi falsamente negativa di emangiosarcoma polmonare nel 21,7% dei casi e di emangiosarcoma cardiaco nel 53,1%. Le lesioni metastatiche polmonari si possono presentare sotto forma di noduli isolati o con un quadro miliare diffuso. Il versamento pericardico è la più comune anomalia radiografica dell’emangiosarcoma cardiaco. Ai fini della valutazione del cuore per l’identificazione di un emangiosarcoma, l’ecografia è considerata più accurata della radiografia. Questa metodica va anche preferita quando si valuta la diffusione metastatica nella cavità addominale. Il quadro ecografico delle lesioni nel fegato o nella milza può variare dal riscontro di aree anecogene ad altre ipoecogene o iperecogene. Si possono osservare anche iperplasia nodulare ed ematomi. Nei cani con emangiosarcoma si deve sempre sospettare la presenza di anomalie emostatiche, soprattutto a carico della milza. Le anomalie sono rappresentate da coagulazione intravasale disseminata ed emolisi microangiopatica. La prima si definisce come l’associazione di trombocitopenia, deplezione del fibrinogeno, prodotti di degradazione del fibrinogeno e prolungamento di uno o più dei tempi della coagulazione. L’emolisi microangiopatica è caratterizzata da frammentazioni degli eritrociti e presenza di schistociti senza coagulazione intravasale disseminata. Queste anomalie dell’emostasi costituiscono un problema grave quando si prende in considerazione la possibilità di ricorrere ad un intervento chirurgico per fini terapeutici. La presenza di eritrociti nucleati nel sangue periferico è stata messa in relazione con l’emangiosarcoma del cane, tuttavia è stata osservata solo in una minoranza di casi. Anche se la resezione chirurgica dell’emangiosarcoma è stato il caposaldo nel trattamento nel cane, i tempi di sopravvivenza sono risultati brevi. Il loro valore mediano, secondo quanto riferito in letteratura, dopo il solo intervento chirurgico nei cani con emangiosarcoma splenico è compreso fra 19 e 65 giorni. La determinazione dello stadio clinico può avere un certo valore prognostico. In uno studio, cani con emangiosarcoma splenico ed emoperitoneo presentavano una sopravvivenza mediana di 17 giorni; invece, quella dei cani con emangiosarcoma splenectomizzati prima dello sviluppo dell’emoperitoneo era di 121 giorni. Tuttavia, altri due studi non sono stati in grado di confermare questa os-


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servazione. L’emangiosarcoma del derma può essere trattato efficacemente con la sola chirurgia, ma quello localizzato all’interno dei tessuti ipodermici comporta una prognosi molto più sfavorevole e, oltre all’escissione chirurgica su ampia base, si deve prendere in considerazione anche la chemioterapia adiuvante. L’esperienza chirurgica relativa all’emangiosarcoma in altre sedi è molto limitata e non sono disponibili dati attendibili relativi alla prognosi. Data la natura altamente metastatica dell’emangiosarcoma e gli scarsi tempi di sopravvivenza con la sola chirurgia, sono stati valutati vari protocolli di chemioterapia adiuvante e chemioimmunoterapia. Un vaccino batterico misto dopo splenectomia con o senza somministrazione endovenosa ad intervalli settimanali di vincristina, metotressato e ciclofosfamide giornaliera per via orale in aggiunta a questa immunoterapia ha determinato, rispettivamente, una sopravvivenza mediana di 96-117 giorni. Altri hanno riferito i benefici effetti della MTP-PE incapsulata nei liposomi, che stimola in modo aspecifico l’attività antitumorale dei macrofagi, come immunoterapia adiuvante ad una chemioterapia combinata con doxorubicina e ciclofosfamide. Altri due studi hanno descritto l’impiego della chemioterapia come trattamento adiuvante della chirurgia in cani con emangiosarcoma splenico. Sorenmo et al. hanno segnalato una sopravvivenza mediana di 180 giorni in 6 cani trattati con doxorubicina (30 mg/m2 ogni 3 settimane) e ciclofosfamide (50 -75 mg/m2 durante 3 giorni, ogni 3 settimane). Risultati analoghi (sopravvivenza mediana di 145 giorni per 6 cani) sono stati ottenuti con un protocollo chemioterapico che comprendeva doxorubicina (30 mg/m2), vincristina (0,75 mg/m2) e ciclofosfamide (100-150 mg/m2). Le manifestazioni tossiche osservate clinicamente sono state rappresentate da gastroenterite emorragica, febbre, sepsi ed anoressia. Sono state rilevate anche neutropenia (73%) e cardiotossicità da doxorubicina (20%). Alcuni episodi di cardiotossicità sono stati osservati a dosi inferiori a quella cumulativa cardiotossica suggerita per la doxorubicina di 240 mg/m2. Futuri protocolli chemioterapici basati sull’impiego di doxorubicina incapsulata nei liposomi potrebbero diminuire queste tossicità. Il valore del-

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le nuove strategie terapeutiche complete con composti antiangiogeni è ancora da stabilire.

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Citologia delle vie respiratorie Erik Teske DVM PhD Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

Nella diagnosi delle affezioni respiratorie, il clinico ha una limitata scelta di strumenti diagnostici. L’anamnesi e l’esame clinico possono fornire alcune utili informazioni, ma è raro che risultino conclusive. La maggior parte dei dati del profilo biochimico non è di alcuna utilità in queste patologie. I test di laboratorio possono rivelare alterazioni caratteristiche dell’infiammazione, ma ciò non consente di distinguere fra una flogosi primaria e secondaria. Inoltre, l’eosinofilia periferica non accompagna sempre le pneumopatie allergiche e, quando è presente, può invece essere dovuta ad un’infestazione parassitaria. Persino le tecniche radiografiche possono soltanto visualizzare e localizzare le anomalie, ma non sono in grado di evidenziare i fattori eziologici. Di conseguenza, sono necessarie tecniche diagnostiche aggiuntive. Dal momento che le biopsie istologiche sono difficili da ottenere nelle affezioni del tratto respiratorio, la più importante metodica diagnostica in medicina veterinaria è di solito rappresentata dalla valutazione citologica, con o senza tecniche colturali. I campioni citologici si possono ottenere dal tratto respiratorio mediante lavaggio tracheale, spazzolatura bronchiale, lavaggio broncoalveolare o biopsia, sia bronchiale che mediante aspirazione percutanea. La tecnica utilizzata dipende dalla localizzazione della malattia, dal rendimento del paziente e dalle attrezzature di cui dispone il clinico. Il lavaggio tracheale può essere effettuato mediante tecnica transtracheale oppure servendosi di un tubo orotracheale. Tuttavia, quando l’animale è già anestetizzato, è preferibile eseguire un’accurata tracheoscopia e broncoscopia, associata alla raccolta di materiale per l’esame citologico. A nostro parere, la tecnica transtracheale va riservata ai pazienti in cattive condizioni, in cui l’anestesia comporta un rischio troppo alto. La spazzolatura bronchiale è indicata per il prelievo di campioni dai bronchi principali. Se la lesione è localizzata più profondamente nel tratto respiratorio, si deve eseguire il lavaggio broncoalveolare. Le lesioni all’esterno dell’albero bronchiale, nel parenchima polmonare, rappresentano delle indicazioni per il prelievo di biopsie mediante aspirazione per via percutanea. Il campionamento bioptico per aspirazione sotto guida ecografica può essere utilizzato per eseguire i prelievi da gravi lesioni localizzate. Tuttavia, nelle pneumopatie parenchimatose diffuse o disseminate, la tecnica diagnostica d’elezione è rappresentata dalla biopsia mediante aspirazione percutanea alla cieca utilizzando un ago di Menghini modificato (della lunghezza di 10 cm e del diametro di 18-21 G). Le normali componenti cellulari incontrate nei campioni citologici prelevati dal tratto respiratorio possono variare

con l’origine del materiale esaminato. Nella trachea e nei bronchi principali si osservano con maggiore frequenza grandi cellule epiteliali ciliate colonnari. Questi elementi di solito si presentano singolarmente, ma possono anche essere disposti in file o persino in gruppi con un aspetto ad alveare. Il nucleo è localizzato all’estremità basale della cellula. All’ampia estremità opposta della cellula si trova una grande barra terminale spessa da cui emergono le lunghe e sottili ciglia eosinofiliche. Occasionalmente, sono presenti alcune cellule mucosecernenti o “caliciformi”. Il muco all’interno del citoplasma di queste cellule può distorcere la forma colonnare e causare l’appiattimento del nucleo. Le cellule caliciformi non presentano né la barra terminale né le ciglia. Le cellule epiteliali squamose si trovano di solito soltanto in piccolo numero nei campioni derivanti dalle vie aeree superiori, dalle cavità boccale e nasale, dalla faringe e dalla laringe. Se i campioni provenienti dalle vie aeree più profonde evidenziano la presenza di cellule squamose, si deve sospettare una contaminazione da parte di elementi provenienti dalla bocca o dalla regione faringolaringea. Anche la presenza dei grandissimi batteri Simonsiella spp. che originano nella bocca confermano questa contaminazione. Nelle vie aeree di minor calibro le cellule epiteliali diventano più cubiche ed il numero degli elementi caliciformi diminuisce. I macrofagi si possono trovare in tutti i campioni, ma si osservano più spesso in quelli derivanti dai bronchioli più piccoli e dagli alveoli. Occasionalmente si trovano anche, in numero variabile, granulociti e linfociti, pure in assenza di un’infiammazione sintomatica. Il contenuto cellulare dei campioni ottenuti da animali con affezioni polmonari dipende dalla causa e dalla durata della malattia. Un aumento numerico degli elementi caliciformi può essere dovuto a qualsiasi condizione irritante cronica del polmone ed allo stesso tempo gli elementi epiteliali ciliati, ben differenziati, colonnari o cubici possono essere rimpiazzati da cellule basali più indifferenziate. Benché normalmente si trovino solo piccole quantità di muco, nell’infiammazione/irritazione quest’ultimo viene prodotto in quantità maggiori e, quindi, risulta più abbondante. Questo muco si può riconoscere sotto forma di lamine amorfe di color rosa o blu. Talvolta, si possono osservare dei cilindri di muco che si presentano con l’aspetto di spirali, le cosiddette spirali di Curschmann. La presenza di molti neutrofili indica un’infiammazione ed impone un’approfondita ricerca per l’identificazione di un fattore eziologico. Si devono prelevare dei campioni da destinare alle colture batteriche, o micotiche nei casi indicati. La presenza di un gran numero di eosinofili costituisce un’indicazione di malattia immunomediata. È necessario escludere l’esistenza di parassiti. Il signi-


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ficato del riscontro di eosinofili nel lavaggio tracheale o bronchiale del gatto verrà discusso a fondo più oltre. Alcuni ricercatori ritengono che sia possibile osservare un numero elevato di eosinofili nel fluido di lavaggio broncoalveolare di gatti sani. Noi crediamo però che questo riscontro sia anormale. Talvolta, il lavaggio tracheale o broncoalveolare può dimostrare la presenza di un’infezione o un’infestazione parassitaria, micotica, protozoaria o batterica. Le cellule riscontrate nelle patologie polmonari neoplastiche differiscono in funzione della loro origine. I tumori polmonari possono essere primitivi o metastatici. I primi sono di solito di origine epiteliale e quelli che si riscontrano più frequentemente sono gli adenocarcinomi. Tuttavia, in genere sono difficili da distinguere dai carcinomi metastatici. Fornire una descrizione dettagliata di tutte le caratteristiche citologi-

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che di tutti i differenti tipi di tumori che si possono riscontrare nel polmone esula dagli scopi di questo lavoro.

Bibliografia Rebar AH, DeNicola DB. The cytologic examination of the respiratory tract. Sem Vet Med & Surg (Small Animals) 3:109-121, 1988. Roudebush P. Diagnostics for respiratory diseases. In: Kirk RW (ed), Current Veterinary Therapy VIII, WB Saunders Co, Philadelphia, 1983, pp 225-230. Teske E, Stokhof AA, van den Ingh TSGAM, et al. Transthoracic needle aspiration biopsy of the lung in dogs with pulmonic diseases. J Am Anim Hosp Assoc 27:289-294, 1991. Venker-van Haagen AJ. Bronchoscopy of the normal and abnormal canine. J Am Anim Hosp Assoc 15:397-410, 1979. Zinkl JG. Cytology of respiratory tract disease. Sem Vet Med & Surg (Small Animals) 1:302-317, 1986.


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Citologia delle lesioni cutanee nel cane e nel gatto Erik Teske DVM PhD Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

I tumori cutanei sono di solito riconoscibili come tali. Talvolta, il sottocute viene incluso nel processo patologico oppure un’infiammazione o un tumore provenienti dai tessuti sottostanti si infiltrano nella cute. La diagnosi differenziale diviene quindi più ampia e più difficile. Di solito, l’esame citologico consente ancora di giungere alla diagnosi, a condizione che sia presente un numero sufficiente di elementi cellulari caratteristici.

trovano anche cellule tumorali di forma fusata. Inoltre, i granuli di pigmento di questi tumori hanno dimensioni variabili e forma irregolare e assumono la colorazione in funzione dello spessore dello strato di pigmento, dal blu-grigiastro al nero verdastro. Le cellule epiteliali ghiandolari, ad es., provenienti da adenomi sottocutanei, possono anche presentare un citoplasma granulare. Questi elementi, tuttavia, formano grappoli ed i granuli di pigmento sono più fini e di colore blu-chiaro.

TUMORI A CELLULE ROTONDE Melanomi Nell’esaminare i preparati allestiti a partire da un tumore cutaneo, ci si deve sempre chiedere se oltre ad ogni eventuale singolo elemento tumorale siano presenti anche delle cellule neoplastiche caratterizzate da una correlazione reciproca di tipo tissutale (grappoli). Parecchi tumori cutanei sono caratterizzati citologicamente da una popolazione uniforme di cellule tumorali rotonde con scarse o assenti connessioni fra di loro. La biopsia mediante aspirazione con ago sottile di questi tumori è di solito ricca di elementi, perché, a differenza di quelli mesenchimali, rilasciano facilmente le cellule durante l’aspirazione. A questo gruppo delle cosiddette “neoplasie a cellule isolate” appartengono il mastocitoma, i linfomi, gli istiocitomi, i melanomi ed il tumore venereo trasmissibile (TVT).

Mastocitoma I mastocitomi sono di solito immediatamente riconoscibili per la presenza di molti granuli citoplasmatici di color porpora. Il nucleo della cellula è spesso difficile da vedere perché appare scarsamente colorato e coperto dai granuli che assorbono una gran quantità di colore. Diagnosi differenziale: esistono dei mastocitomi che contengono pochissimi granuli. Questi possono essere facilmente confusi con cellule epiteliali. La presenza di molti eosinofili può confortare in una certa misura il sospetto diagnostico di mastocitoma. I processi infiammatori possono determinare dei problemi di diagnosi differenziale perché possono anch’essi contenere mast cell ed eosinofili. In un’infiammazione, tuttavia, il numero degli altri elementi infiammatori è considerevolmente più elevato di quello delle mast cell. Anche i melanomi possono essere confusi con i mastocitomi. Le cellule del melanoma possono, come le mast cell, essere tondeggianti od ovali e contenere dei granuli di pigmento. Tuttavia, nella maggior parte dei melanomi si

I melanomi sono tumori costituiti da cellule che producono melanina. Appartengono al gruppo dei “tumori a cellule rotonde senza interconnessioni cellulari” perché soddisfano in larga misura le caratteristiche citologiche di queste neoplasie. Oltre che dalle cellule tondeggianti-ovali, tuttavia, sono di solito caratterizzati da alcuni elementi di forma fusata che, talvolta, dominano il quadro. Si possono anche riscontrare cellule di forma molto bizzarra ed elementi giganti. La quantità di pigmento nelle cellule del melanoma può variare in modo marcato. Il nucleo di queste cellule è talvolta appena visibile perché coperto da granuli di melanina. Tali granuli sono di colore variabile fra blu e nero verdastro e di forma irregolare e di dimensioni variabili. Se è visibile, anche il nucleo mostra delle caratteristiche di malignità ben definite. I melanomi che contengono meno pigmento sono quelli più maligni. Questi melanomi amelanotici sono in quanto tali difficili da diagnosticare, ma un accurato esame del preparato rivela comunque spesso la presenza di poche cellule contenenti melanina. Il riscontro di elementi giganti multinucleati e/o di vacuoli nel nucleo cellulare sono motivo di pensare ad un melanoma se il tumore è difficile da differenziare. Le cellule pigmentate patologiche dei melanomi sono facili da differenziare da normali cellule epiteliali pigmentate. I melanociti e gli elementi squamosi pigmentati presentano granuli molto uniformi, di forma bastoncellare, il nucleo può essere degenerato oppure scomparso, ma certamente non mostra alcun segno di malignità La differenza fra i melanomi e le mast cell è stata discussa nella sezione relativa ai mastocitomi. I melanociti vanno anche differenziati dai macrofagi, che hanno fagocitato melanina (melanofagi) o contengono emosiderina. All’interno dei melanofagi di solito si trovano dei conglomerati grossolani di melanina e vacuoli. Si riscontrano specialmente nei melanomi, ma anche nelle infiammazioni dei linfonodi ed in alcuni disordini della cute.


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Negli ematomi di vecchia data si trovano gli emosiderofagi. Si tratta di macrofagi caratterizzati da vacuoli al cui interno è immagazzinato il pigmento contenente ferro. Come nel caso del pigmento delle cellule del melanoma, il colore di questa emosiderina varia da blu a nero verdastro. La presenza di cellule che contengono cristalli di bilirubina e mostrano un’eritrofagocitosi contribuisce alla differenziazione.

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sono contenere un numero notevolmente elevato di plasmacellule e macrofagi oltre agli elementi tumorali. Diagnosi differenziale: oltre agli istiocitomi, bisogna prendere in considerazione in modo particolare i tumori basocellulari (vedi oltre).

TUMORI EPITELIALI Linfoma maligno I linfomi maligni possono essere tumori primari o secondari della cute. Quelli primari, spesso epiteliotropi, sono di solito caratterizzati dalla presenza di un gran numero di cellule tumorali linfoidi T. Questi elementi possono sembrare più differenziati, con alcune incisure nucleari ed un citoplasma pallido. Questo quadro differisce da quello dei tumori linfoidi B, che sono più frequentemente caratterizzati dalla presenza di grandi cellule blastiche, con citoplasma di colore blu scuro e nuclei tondeggianti con nucleoli prominenti.

Istiocitomi Gli istiocitomi sono di solito benigni. Si verificano primariamente nei cani giovani e possono scomparire spontaneamente. Sono caratterizzati citologicamente da una popolazione di elementi di forma abbastanza variabile. I piccoli istiociti sono simili ai linfociti, ma presentano una cromatina nucleare più fine ed una maggior quantità di citoplasma. Gli istiociti più grandi sono simili a cellule epiteliali, ma non mostrano alcuna organizzazione tissutale. Il citoplasma è di colore blu chiaro; alcune cellule sono trasparenti. I nuclei sono principalmente tondeggianti, ma possono presentare delle incisure. Contengono alcuni piccoli nucleoli non molto evidenti. Diagnosi differenziale: le biopsie mediante aspirazione con ago sottile degli istiocitomi contengono di solito poche cellule tumorali, a differenza di quelle di altri “tumori isolati a cellule rotonde”. Poiché gli istiocitomi spesso si ulcerano e vanno incontro ad infiammazione secondaria, può essere difficile riconoscere le cellule tumorali, che sono simili a linfociti ed elementi epitelioidi, distinguendole da quelle infiammatorie. Gli istiocitomi possono anche somigliare leggermente al tumore venereo trasmissibile (vedi oltre).

Tumore venereo trasmissibile (TVT) Questi tumori trasmissibili del cane si riscontrano nell’area genitale, ma anche a livello della testa. Si osservano raramente nelle zone settentrionali dell’Europa. Le cellule sono simili ad istiociti, ma il tumore si esfolia più facilmente e, quindi, i preparati sono più ricchi di elementi cellulari. Inoltre, il citoplasma è delineato in modo più netto e spesso contiene dei vacuoli facilmente visibili. Il nucleo tondeggiante o ovale è eccentrico, raramente con delle incisure, e può presentare grandi nucleoli ben evidenti. Le dimensioni della cellula e del nucleo ed il rapporto nucleocitoplasmatico (N/C)) variano molto più che negli istiocitomi. Di solito si osservano molte figure mitotiche. I tumori venerei trasmissibili pos-

Nei preparati citologici allestiti a partire da tumori e lesioni della cute e tumefazioni sottocutanee si possono riscontrare differenti tipi di elementi epiteliali. Questi possono essere rappresentati da cellule squamose, ma anche di origine ghiandolare. Le biopsie mediante aspirazione con ago sottile delle lesioni della cute e della mucosa contengono cellule squamose in tutti gli stadi di sviluppo, oltre ad elementi infiammatori. Un preparato ricco di cellule può contenere molte forme epiteliali appartenenti a gruppi diversi, ma ciò che è caratteristico delle cellule epiteliali normali è la loro tendenza a presentarsi in gruppi o grappoli che spesso sono costituiti da un singolo strato di cellule (i cosiddetti “monostrati”). A seconda della profondità della lesione, si osserveranno elementi epiteliali più o meno immaturi. Queste cellule basali e parabasali sono tondeggianti, di colore blu intenso, piccole in confronto alle cellule epiteliali mature e caratterizzate da un rapporto N/C più elevato. Le cellule squamose mature, che di solito sono molto più numerose, si presentano in differenti stadi di cheratinizzazione. Gli elementi più grandi hanno spesso già perso il nucleo (fiocchi di cheratina o forfora) o contengono ancora un nucleo raggrinzito e picnotico. Il rapporto N/C è molto basso e le cellule sono rettangolari e spesso ripiegate in due. Man mano che diventano più cheratinizzate, la colorazione del citoplasma vira dal blu scuro al blu cielo. Le cellule possono anche contenere vacuoli come segni di cheratinizzazione. Gli elementi epiteliali maturi, ma non ancora cheratinizzati, sono leggermente basofili, tondeggianti o ovali e presentano un nucleo localizzato in posizione centrale con una struttura cromatinica ben definita che somiglia ad una fine rete. Proprio come la presenza delle cellule epiteliali normali, la disposizione degli elementi a grappoli è caratteristica dei tumori epiteliali. Anche se nei preparati allestiti a partire dalle biopsie ottenute mediante aspirazione con ago sottile dai tumori epiteliali si possono osservare molte cellule tumorali libere, di solito è possibile trovare parecchi grappoli ben definiti. Se il tumore epiteliale è di origine ghiandolare, tali grappoli presentano anche una struttura acinosa (disposizione in un gruppo o in un cerchio intorno ad un dotto solitamente invisibile). In alcuni preparati sono presenti principalmente dei grappoli o monostrati di cellule epiteliali normali, ma una ricerca accurata rivela anche gli elementi con caratteristiche ben definite di malignità.

Tumori basocellulari Quelli basocellulari sono tumori epiteliali poco frequenti che originano dalla strato delle cellule basali dell’epidermide. La neoplasia si esfolia facilmente. Le cellule basali sono simili ad istiociti, ma risultano più uniformi e danno origine a grappoli in cui si dispongono in caratteristiche strie e file.


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Carcinomi squamocellulari I preparati allestiti a partire da carcinomi squamocellulari sono di solito ricchi di cellule e contengono elementi tumorali liberi nonché grappoli. Le caratteristiche della malignità possono essere molto pronunciate o non molto evidenti. I carcinomi squamocellulari vanno facilmente incontro ad ulcerazione, dopodiché contengono molti elementi infiammatori. Poiché negli aspirati derivanti dai carcinomi squamocellulari di solito si osservano cellule squamose sia neoplastiche che normali, non neoplastiche, in tutti gli stadi di sviluppo, i criteri di malignità dei carcinomi squamocellulari ben differenziati possono essere meno evidenti e la diagnosi di questi tumori è talvolta difficile. Una delle caratteristiche tipiche del carcinoma squamocellulare è la discrepanza fra la maturazione del nucleo ed il citoplasma. Le cellule tumorali possono contenere una gran quantità di citoplasma vacuolizzato e, allo stesso tempo, un nucleo completamente integro, non picnotico, dotato di una struttura dettagliata che talvolta mostra anche dei segni di malignità. In alcuni casi i vacuoli sono confluiti in un solo grande vacuolo che determina la comparsa di uno spazio trasparente ben evidente intorno al nucleo, per cui la cellula somiglia ad un bersaglio. Questo è un forte indice di malignità. Inoltre, il riscontro, l’una accanto all’altra in un singolo grappolo, di cellule mature ed altre immature, o di cellule dalla basofilia marcatamente differente, è altamente sospetto.

Adenomi ed adenocarcinomi Varie strutture ghiandolari all’interno ed al di sotto della cute possono dare origine a tumori benigni (adenomi) o maligni (adenocarcinomi). La ghiandola endocrina o esocrina di origine di molti adenomi o adenocarcinomi è difficile da determinare, ma un ristretto numero di tumori presenta delle caratteristiche che ne rivelano la provenienza. Una caratteristica diagnostica generale di un tumore epiteliale ghiandolare è naturalmente l’occorrenza delle cellule tumorali in grappoli, come per tutti i tumori epiteliali. In modo più specifico, nei grappoli cellulari di origine ghiandolare è ancora possibile riconoscere una struttura acinosa. Tuttavia, nei carcinomi altamente maligni questa va perduta. Gli adenomi presentano scarse differenze citologiche dal tessuto ghiandolare normale. Gli elementi tondeggianti o cuboidali mostrano scarse variazioni delle dimensioni della cellula e del nucleo e del rapporto N/C. L’aspetto macroscopico della formazione tumorale in associazione con il riscontro citologico di grappoli di cellule epiteliali uniformi che possono avere una densità cellulare leggermente elevata ed una disposizione leggermente caotica è compatibile con la diagnosi di adenoma. Gli adenocarcinomi possono ancora mostrare una certa formazione acinosa qua e là, ma anche soddisfare numerosi criteri di malignità. In generale, per poter formulare una diagnosi di neoplasia “maligna” è necessario rilevare almeno 4 di tali criteri. Negli adenocarcinomi ben differenziati, ciò può essere difficile.

Adenoma/carcinoma delle ghiandole perianali I tumori delle ghiandole perianali si riscontrano di solito nei cani maschi e raramente nelle femmine. Si osservano nelle immediate vicinanze dell’ano, occasionalmente sulla

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coda, sul prepuzio, a livello del fianco e sul dorso. In genere sono di natura benigna, ma possono diventare maligni. Il tumore è talvolta chiamato adenoma epatoide perché gli elementi tumorali somigliano a quelli del parenchima epatico. Le cellule si presentano principalmente in grappoli ed hanno una forma ovale, con un nucleo eccentrico che contiene uno o due nucleoli evidenti. Il citoplasma può presentare una fine granulazione blu. Gli adenomi perianali spesso si ulcerano e possono poi venire infiltrati da elementi infiammatori. Talvolta, si osservano dei segni di malignità. Gli adenomi delle ghiandole perianali non vanno confusi con i carcinomi squamocellulari o il carcinoma dei sacchi anali.

Tumori mammari I tumori mammari non sono sempre riconoscibili come tali senza un esame citologico o istologico. La citologia di queste neoplasie, tuttavia, è estremamente difficile e non verrà descritta in questa sede.

LESIONI CUTANEE Le lesioni cutanee sono generalmente adatte all’esame citologico se la loro causa non è evidente ed il processo non tende alla guarigione. Le lesioni cutanee croniche possono essere causate da processi situati al di sotto della cute oppure da altri al suo interno. Di conseguenza, vanno presi in considerazione quasi tutti i tumori ed i processi infiammatori. La citologia già descritta è quindi del tutto applicabile anche alle lesioni cutanee. Occorre sottolineare che queste alterazioni possono andare incontro a fenomeni di infezione ed infiammazione secondarie. La conferma della presenza di un’infiammazione settica non fornisce quindi molte informazioni nei casi di lesioni cutanee e certamente non lo fa quando viene rilevata attraverso uno striscio per impronta, a meno che non venga identificato un agente infettivo molto specifico. I microrganismi che possono svolgere un ruolo nei processi infiammatori verranno discussi in altra sede. L’infiammazione e la necrosi possono rendere molto difficile determinare la causa primaria di un processo. Di conseguenza, si consiglia di non basarsi su uno striscio per impronta, ma di effettuare anche il prelievo di una biopsia mediante aspirazione con ago sottile da una porzione periferica, non ancora infiammata, della tumefazione. Se la citologia di una lesione cutanea non porta ad una diagnosi, è necessario consultare un dermatologo e/o effettuare un esame istologico.

Acantolisi Quando le cellule dell’epidermide perdono la loro coesione a causa di una degenerazione dei ponti intercellulari, si formano fenditure, vescicole e bolle intraepidermiche. Le cellule epidermiche isolate vengono dette acantociti. Si tratta di elementi caratterizzati da un citoplasma basofilo e da bordi tondeggianti ben definiti. Parecchie cellule presentano un alone perinucleare. Il nucleo è abbastanza ingrossato e mostra un quadro cromatinico grossolano ed irregolare. Spesso si può vedere un nucleolo chiaro. Nella maggior parte dei casi l’acantolisi è associata al complesso del pemfigo. Le cellule acantolitiche sono di solito circondate da neutrofili e/o eosinofili. Non sono presenti batteri.


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Citologia linfonodale Erik Teske DVM PhD Dip ECVIM-CA, Utrecht, Olanda

Benché l’aspirazione dei linfonodi normali venga eseguita solo raramente, per poter riconoscere le anomalie è necessaria una buona familiarità con l’aspetto citologico normale. Anche una lieve stimolazione antigenica avviene nel linfonodo normale e in principio si possono trovare tutti gli stadi dei linfociti B e T. Tuttavia, la maggior parte (85-95%) delle cellule è rappresentata da piccoli linfociti B e T. Questi elementi sono caratterizzati da scarso citoplasma, nuclei tondeggianti senza nucleoli e, spesso, da una struttura cromatinica leggermente addensata. Le dimensioni di queste cellule (circa 10 µ) sono comprese fra quelle degli eritrociti e i granulociti polimorfonucleati. Il citoplasma dei linfociti è piuttosto fragile e si può trovare in frammenti sciolti per tutto lo striscio, i cosiddetti corpi linfoghiandolari. Con la colorazione di MayGrünwalg-Giemsa appaiono di colore blu chiaro. I corpi linfoghiandolari sono caratteristici del tessuto linfoide e la loro presenza può essere utile per differenziare gli elementi linfoidi da quelli da un carcinoma indifferenziato a cellule piccole. Un linfonodo normale contiene anche altri stadi di sviluppo delle serie linfoidi, ma mai in misura superiore al 510% del numero totale delle cellule. Altri elementi non linfoidi riscontrabili in un linfonodo normale sono rappresentate da neutrofili polimorfonucleati e granulociti eosinofili, macrofagi, istiociti, mast cell, eritrociti e monociti. Queste cellule sono presenti solo sporadicamente.

Tessuto non linfoide La causa più frequente della diagnosi errata di un ingrossamento del linfonodo mandibolare è l’errata identificazione come tale, mediante palpazione, di una ghiandola salivare mandibolare. Le cellule di queste ghiandole sono molto più grandi di quelle linfoidi, contengono più citoplasma e formano strutture acinose (a forma di ghiandola). Linfociti e corpi linfoghiandolari sono assenti. Negli animali obesi è possibile avere l’impressione errata che il linfonodo sia ingrossato perché è circondato da uno spesso strato di grasso. Le biopsie effettuate mediante aspirazione rivelano principalmente strutture adipose. Occorre tuttavia rendersi conto che il tessuto adiposo viene per lo più disciolto dalla fissazione in alcool, che è impiegata dalla maggior parte dei metodi di colorazione.

Iperplasia reattiva La causa più frequente di una linfoadenopatia generalizzata è l’iperplasia reattiva, attraverso la quale il linfonodo reagisce ad uno stimolo antigenico. Questa può essere la conseguenza di un’infezione virale o batterica o di un’infestazione parassitaria, oppure una reazione ad antigeni tumorali, corpi estranei, disturbi cutanei o prodotti di scarto derivanti da processi infiammatori localizzati in altra sede. L’iperplasia reattiva è caratterizzata citologicamente da un aumento del numero di elementi blastici di grandi dimensioni, come gli immunoblasti ed i centroblasti, rispetto al numero dei linfociti normali, piccoli. Si osservano anche più mitosi, ed il numero di cellule linfoplasmocitarie (stadio intermedio fra immunoblasti e plasmacellule) e plasmacellule risulta aumentato. Talvolta, nel citoplasma delle plasmacellule, si osservano i “corpi di Russel”. Sono presenti anche dei vacuoli colmi di immunoglobuline. A seconda della causa della stimolazione, si può anche riscontrare un aumento numerico di altri tipi di cellule, quali macrofagi, granulociti polimorfonucleati e, soprattutto nei disordini cutanei, granulociti eosinofili e mast cell.

Linfoadenite La presenza di molti elementi infiammatori nel linfonodo viene indicata col termine di linfoadenite. A seconda del tipo di cellule infiammatorie, si distinguono una linfoadenite purulenta ed una granulomatosa. La linfoadenite purulenta è caratterizzata dal riscontro di molti granulociti polimorfonucleati, solitamente associati ad una lieve popolazione linfoide reattiva ed a scarsi macrofagi. La differenza rispetto ad un’iperplasia reattiva è talvolta difficile da confermare, ma può anche risultare molto chiara, come nella linfoadenite batterica. In quest’ultimo caso, si riscontrano molti granulociti polimorfonucleati, necrosi e talvolta batteri. Le cellule linfoidi possono anche essere completamente assenti. Un aumento dei granulociti eosinofili si osserva principalmente nella dermatite allergica e nelle infestazioni parassitarie come la leishmaniosi. Se sono presenti, i batteri si trovano nei granulociti, mentre i parassiti si riscontrano principalmente nei macrofagi. Anche la linfoadenite granulomatosa è solitamente caratterizzata da un lieve quadro linfoide reattivo e, in aggiunta, da un aumento di macrofagi, cellule epitelioidi e cellule


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giganti multinucleate. Gli elementi epitelioidi sono cellule reticolari con un nucleo ovale allungato, che spesso presenta delle incisure, ed un’estremità e che mostra un quadro cromatinico leggermente granulare. Le cellule epitelioidi spesso perdono citoplasma nella preparazione. Talvolta questi elementi si presentano sotto forma di grappoli e possono quindi somigliare a metastasi granulomatose. La linfoadenite granulomatosa si osserva nella toxoplasmosi, nelle infezioni da miceti e lieviti ed in certe infezioni batteriche (ad es., da Mycobacterium spp.). Una linfoadenopatia dermopatica è una linfoadenite granulomatosa che si verifica in presenza di disordini cutanei in cui il prurito, la desquamazione ed il danneggiamento della cute sono molto accentuati. Il quadro cellulare è caratterizzato dalla presenza di molti granuli di melanina di colore bruno nerastro e da scarsi granulociti eosinofili. Si osservano anche cellule unite da interdigitazioni. Si tratta di istiociti allungati con un nucleo reticolare ed una caratteristica presenza di incisure nel nucleo.

Caratteristiche citologiche delle linfoadenopatie maligne I linfonodi filtrano la linfa drenata da un particolare distretto dell’organismo ed eliminano i materiali estranei che essa contiene. Anche gli elementi tumorali raggiungono il linfonodo regionale attraverso questa via. Nel linfonodo, il sistema immunitario è in grado di riconoscere gli specifici antigeni espressi dagli elementi tumorali e poi di eliminare queste cellule. Talvolta, le cellule neoplastiche sfuggono a questa “sorveglianza immunitaria” e si moltiplicano nel linfonodo. Da qui, possono avere origine metastasi ad altre parti dell’organismo. Oltre che attraverso la metastatizzazione, il linfonodo può diventare tumorale per l’insorgenza di processi neoplastici a carico di cellule del sistema emopoietico che sono normalmente presenti al suo interno. In questo capitolo verrà prestata ulteriore attenzione a queste due categorie di neoplasie maligne a carico del linfonodo.

Metastasi maligne Non vale la pena di effettuare una presentazione completa delle metastasi maligne del linfonodo, perché inizialmente tutti i tumori maligni sono in grado di dare origine a metastasi attraverso il sistema linfatico. Alcuni tipi di tumori metastatizzano più precocemente di altri ai linfonodi regionali. I sarcomi generalmente si diffondono prima per via ematogena che per via linfogena. Carcinomi, melanomi e mastocitomi danno spesso origine a metastasi linfonodali, sebbene ciò dipenda anche dal sottotipo istologico. L’aspetto citologico delle metastasi nel linfonodo dipende molto dal tipo istologico del tumore primario. In un carcinoma anaplastico si osservano principalmente cellule separate di un tipo che non appartiene al linfonodo e che possono variare notevolmente di dimensioni. Principalmente, ci si trova di fronte a varie cellule che risultano molte volte più grandi di quelle linfoidi e sono facilmente riconoscibili a basso ingrandimento. Possono essere presenti molti criteri di

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malignità, come il rapporto N/C variabile, i nuclei di grandi dimensioni, l’elevato indice mitotico, la presenza di nucleoli multipli e talvolta patologici. Nei carcinomi più differenziati come gli adenocarcinomi, si osservano grappoli di cellule e talvolta anche strutture acinose. Gli aggregati o i sincizi di macrofagi e cellule epitelioidi possono somigliare a grappoli di elementi carcinomatosi metastatizzati e non vanno confusi con essi. Un altro tipo di carcinoma che di solito può essere facilmente classificato è quello squamocellulare. In questo tumore, si osservano piccoli grappoli di piccole cellule carcinomatose con un citoplasma piuttosto scarso di colore blu intenso oltre ad elementi caratterizzati da una gran quantità di citoplasma in differenti stadi di cheratinizzazione. Quest’ultima è riconoscibile nei preparati allestiti con la tecnica di May-Grünwald-Giemsa sotto forma di un’uniforme colorazione blu cielo del citoplasma, che talvolta contiene alcune piccole “goccioline”. Una caratteristica differenza dalle normali cellule epiteliali cheratinizzate è data dal fatto che durante la cheratinizzazione il nucleo degli elementi carcinomatosi non degenera, ma resta presente. In un linfonodo normale o che sta iniziando a presentare delle modificazioni si trovano sempre alcune mast cell. Secondo quanto riportato in letteratura, tuttavia, il loro numero non è mai superiore al 3%. La presenza di un numero più elevato di mast cell è indicativa di un mastocitoma metastatizzato o anche di una leucemia da mast cell. Queste cellule possono contenere molti granuli di colore blu porpora, talvolta così numerosi da oscurare il nucleo. Tuttavia, la cellula può anche presentare una granulazione sparsa o del tutto assente. In quest’ultimo caso, le mast cell sono difficili da riconoscere come tali. Un altro tumore che talvolta dà origine a metastasi al linfonodo è il melanoma maligno. Queste cellule tumorali sono più grandi di quelle linfoidi, hanno una forma variabile da tondeggiante a fusata e presentano un nucleo leggermente ovale. Nel melanoma maligno si osservano frequentemente nuclei di forma bizzarra e multipli. Il nucleolo non è sempre visibile. La cellula è di solito caratterizzata dalla comparsa di granuli di colore nero o bruno nerastro nel citoplasma. Tuttavia, esistono anche i melanomi amelanotici. Queste neoplasie non contengono o quasi granuli di melanina e sono quindi difficili da identificare. I melanofagi possono essere confusi con i melanociti, ma in realtà sono cellule fagocitarie che hanno assunto il pigmento e sono presenti nel linfonodo in gran numero, specialmente in caso di disordini cutanei associati a prurito e danneggiamento della cute. Di solito questi elementi sono riconoscibili come tali perché il citoplasma è leggermente vacuolizzato e contiene altro materiale fagocitato oltre alla melanina. Inoltre, non presentano caratteristiche di malignità.

Neoplasie maligne linfoidi L’aspetto citologico del linfoma maligno può variare da un paziente all’altro. si può presumere che una cellula linfoide in ciascuno stadio del proprio sviluppo possa diventare maligna, sia per effetto di un blocco di un’ulteriore differenziazione che per la proliferazione autonoma di un certo tipo


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cellulare. I tipi di cellule che si riscontrano nel linfoma maligno non differiscono quindi nell’aspetto dagli elementi linfoidi normali. La distinzione citologica si fonda sulla presenza di una popolazione cellulare monotona, mentre in un linfonodo non linfomatoso risultano visibili tutti i differenti stadi di sviluppo della serie linfoide. Per i linfomi non Hodgkin dell’uomo sono stati sviluppati vari schemi di classificazione. Quella di Kiel (Lennert, 1974) si basa interamente sullo schema di trasformazione dei linfociti normali e risulta molto adatta agli scopi citologici (Tab. 1). Nella letteratura, questa classificazione di Kiel è stata applicata con successo ai linfomi maligni del cane. In condizioni pratiche, di solito è sufficiente diagnosticare questa neoplasia e, ai fini prognostici, distinguere fra forme di grado elevato o basso. Se la popolazione cellulare ottenuta mediante aspirazione è costituita principalmente dai caratteristici blasti, la diagnosi di linfoma maligno non è difficile da formulare. Tuttavia, esistono anche forme di linfoma in cui gli elementi tumorali sono difficili da differenziare dai linfociti maturi, specialmente per i citologi meno esperti. Questo può essere il caso, ad esempio, dei linfomi linfocitari e centrocitari. I problemi si possono anche avere quando il linfoma contiene più di un tipo cellulare, come nelle forme immunocitarie o centroblastiche/centrocitarie. In molti di questi casi, risulta decisiva la combinazione citologica del riscontro di un linfonodo ingrossato associato ad un aspetto cellulare non reattivo, specialmente se la popolazione cellulare è monomorfica.

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Tabella 1 Classificazione semplificata dei linfomi a seconda del tipo cellulare, sulla base della classificazione di Kiel, secondo Lennert, 1974 Forme con basso grado di malignità Linfocitarie Immunocitarie Plasmocitarie Centrocitarie Centroblastiche/centrocitarie Forme con elevato grado di malignità Centroblastiche centroblastiche pure centrocitiche anaplastiche centroblastiche polimorfiche Linfoblastiche Immunoblastiche Altre istiocitarie a cellule “multilobate”

Nei casi dubbi, quando sono presenti poche altre plasmacellule o altri elementi infiammatori, si deve richiedere l’aiuto di un operatore più esperto o si deve confermare la diagnosi attraverso una biopsia chirurgica finalizzata all’esame istologico.


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La prima visita Roberto Tovini Med Vet, Milano

Walter Crotti, Med Vet, Civitanova Marche (MC)

L’argomento di cui parleremo è quello che a nostro parere rappresenta uno dei momenti topici della nostra professione. In quella che definiamo prima visita, noi andiamo a porre le basi di quello che sarà per molti anni di vita dell’animale che abbiamo davanti un rapporto con il proprietario, e più in generale con la famiglia della quale quell’animale entra a far parte: il veterinario infatti deve rivestire il ruolo principale per promuovere, proteggere e curare quella interazione tra il proprietario ed il proprio animale da compagnia, che viene definito “il legame” (“the bond”). I clienti che hanno “il legame” saranno per noi i migliori, i più affezionati, quelli disposti a richiedere per il loro animale le cure ottimali, quelli che richiedono precise informazioni su diagnosi e possibilità terapeutiche, ma anche su alimentazione, problemi comportamentali, educazione, longevità e qualità della vita, i propri diritti e doveri nei confronti del proprio animale. Il nostro ruolo è quello di aiutarli ad impostare un “possesso responsabile”. Sarà la qualità di questo rapporto il nostro valore aggiunto, “il legame” quel quid che ci darà il “titolo” di veterinario curante, a noi piace di più la definizione di “family doctor”. Ricordiamoci che se il cucciolo sarà il nostro paziente, il proprietario sarà il nostro cliente, che giudicherà la prestazione complessiva e che deciderà se, in definitiva, ritornare da noi ed acquistare il nostro servizio, o se non fermarsi e “provare” in altra struttura, e che i nostri atteggiamenti, oltre che la nostra buona pratica professionale saranno da lui giudicati in breve tempo. Guardiamo il nostro paziente, ma non dimentichiamoci di accoglier il cliente con un sorriso, una stretta di mano. Un tono caldo ed amichevole, cortesia e tatto, qualche parola per sciogliere il ghiaccio e magari vincere l’imbarazzo rendono il primo incontro più facile e confidenziale. Questa relazione non vi darà nessuna informazione tecnica su come debba essere eseguita una visita, in questa sessione non ci occupiamo di questo, ma cercherà di fornire una serie di input su come a nostro modo di vedere va impostato quel rapporto cui accennavo prima. Innanzitutto il mood: pazienza, cordialità, insieme a chiarezza e precisione metodologica semplificheranno il lavoro, e questo vale anche per le strutture nelle quali operano più colleghi: appare evidente che questa visita deve avere un traccia esecutiva standardizzata, su cui poi

andranno aggiunti elementi soggettivi in funzione della persona con la quale ognuno di noi andrà a relazionarsi. E quindi importante che, senza prescindere da un’alta qualità della prestazione medica, il cliente sia bene impressionato anche dalla nostra cordialità, da un ambiente consono, da una presenza curata. Il momento migliore nella giornata è quando il proprio stato d’animo è sereno e tranquillo, che non è lo stesso per ognuno di noi, peraltro personalmente (forse proprio perché non sono un ortopedico) eviterei di farla dopo 6 ore di chirurgia ortopedica! È importante ricordare che dobbiamo trasmettere ed infondere tranquillità, calore e creare un clima di empatia. Dedicare tempo a questa fase, tempo che non viene nell’immediato remunerato, pone le basi per un rapporto di fiducia solido, che permette anche di dare importanti consigli riguardo, ad esempio, a taglia e razza di un cane in relazione alla sua destinazione, componenti nucleo famigliare, età, ambiente… Non dimentichiamoci di predisporre qualcosa per intrattenere gli accompagnatori non interessati alla visita: una mamma non ci ascolta se i bimbi la chiamano continuamente; fogli, pennarelli e qualche gioco possono aiutarci a salvare mobili, ricettari e attrezzature …ma questo ci porta a parlare della sala d’attesa, altro argomento importante nella nostra disciplina, di cui però non ci occuperemo oggi. Altro elemento importante è, se possibile, fissare un appuntamento in un momento nel quale si possa evitare di essere interrotti dal telefono, o dai colleghi, e quindi sia possibile dedicare il tempo necessario al cliente: la prima visita di solito non è breve. Il primo momento è quello della creazione della scheda anagrafica, con i dati del proprietario e dell’animale, meglio se su supporto informatico, fase che può essere sfruttata per cominciare a dare qualche informazione ad esempio sulle caratteristiche della razza, insistendo sulle caratteristiche positive, senza però dimenticare, ad esempio se stiamo approcciando un rottweiler, di dare una prima carrellata ad esempio sulla visita ortopedica che dovremo eseguire verso i tre mesi. Non appena avremo appreso il nome del nostro paziente è importante che si cominci a riferirsi a lui chiamandolo per nome. L’esperienza insegna quanto sia gradevole per un proprietario che il veterinario gli faccia capire che non sta parlando ad uno qualsiasi dei suoi pazienti, ma proprio al suo animale.


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Stesso discorso ovviamente per il proprietario, non certo in modo facilone o chiamandolo per nome, ma intercalare con un “vede, sig. Rossi” dà l’impressione che vi importi di lui: il cliente se ne accorge, molto spesso non fa commenti, ma annota mentalmente… Sarà utile porci come riferimento per il proprietario anche per quanto riguarda un corretta informazione sui reali rischi di zoonosi: è questo uno dei campi di nostra specifica competenza dei quali dobbiamo ad ogni costo riappropriarci. Una visita accurata ci permette di offrire il nostro servizio al cliente, programmando le vaccinazioni, l’eventuale sterilizzazione, consigliando opportuni accertamenti radiografici per monitorare il corretto accrescimento, visite di controllo, valutazioni comportamentali, e quanto altro. L’importante è avere una comunicazione efficace, essere certi di essere stati chiari e ben compresi, spiegando correttamente, con parole semplici ed efficaci quale sarà la nostra linea di condotta e perché. Tutto questo servirà a motivare il cliente ed a coinvolgerlo nelle decisioni responsabilizzandolo, e renderà comprensibile anche il costo della prestazione.

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Il cliente dovrà percepire che il veterinario, i suoi collaboratori, l’intera struttura sono al suo servizio, per offrire non solo una prestazione professionale di alto livello, ma anche comprensione e risposte alle sue domande. Un cliente soddisfatto di una visita ben condotta non avrà problemi a pagare la prestazione al suo giusto prezzo. E d’altra parte difficile per il cliente pagare una prestazione della quale non abbia percepito il valore. Prestampati personalizzati, libretti contenenti informazioni fisiologiche, sulla fertilità, sull’educazione di base fanno piacere al cliente e possono essere molto utili se correttamente compilati, intesi solo come un corredo ad un’efficiente informazione fornita verbalmente.

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Tovini Amb. Vet. Dr. Tovini V. Petrarca 29 Colonio Monzese (MI)


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Le patologie fisarie nel cane in accrescimento: inquadramento clinico Aldo Vezzoni Med Vet, SMPA, Dipl ECVS, Cremona

INTRODUZIONE

RACHITISMO

Le fisi d’accrescimento sono delle strutture anatomiche particolarmente delicate in quanto svolgono una funzione molto attiva per la crescita longitudinale delle ossa lunghe; per questa funzione nelle fisi si svolge un’elevata attività cellulare e metabolica durante la crescita che può andare incontro a disturbi di natura diversa, condizionati dalla nutrizione, da fatti traumatici, da infezioni e da altri fattori ancora sconosciuti. Le conseguenze dei disturbi di crescita a livello delle fisi d’accrescimento possono determinare delle gravi alterazioni scheletriche, con deviazioni a carico degli arti colpiti o con incongruenze dei capi articolari che esitano in degenerazione articolare artrosica. I segmenti scheletrici maggiormente interessati sono il radio e l’ulna, il femore e la tibia; le fisi distali di radio ed ulna, in particolare, sono quelle che determinano con maggior frequenza deviazioni angolari ed incongruenza del gomito. L’indagine radiografica permette di inquadrare dal punto di vista eziologico i vari disturbi delle fisi per gli aspetti tipici determinati dalle varie condizioni patologiche; la diagnosi precoce di questi disturbi fisari e la pronta instaurazione dei trattamenti opportuni può prevenire le conseguenze negative sull’allineamento dell’arto colpito e sulla congruenza dell’articolazione interessata. La struttura anatomica delle fisi d’accrescimento è costituita da diversi strati nei quali si verifica la riproduzione delle cellule cartilaginee, la loro trasformazione ed il processo d’osteogenesi; si distinguono pertanto una zona di crescita, verso l’epifisi dell’osso, costituita dagli strati germinale e proliferativo cartilaginei, una zona di trasformazione della cartilagine costituita dagli strati a palizzata, d’ipertrofia cellulare, di calcificazione della matrice intercellulare e di differenziazione delle cellule cartilaginee, ed una zona di calcificazione costituita dalla strato di intensa proliferazione vascolare, proveniente dai vasi metafisari che invadono e riassorbono la cartilagine calcificata e portano gli osteoblasti, e dallo strato di osteogenesi, dove si forma dapprima un tessuto osteoide non mineralizzato trasformato poi in tessuto osseo spongioso lamellare. Radiologicamente la zona di crescita è visibile come una linea più densa rispetto alla densità ossea dell’epifisi, la zona di trasformazione è visibile come una linea di radio-trasparenza e la zona di calcificazione come un’area di maggior radio-densità che sfuma gradualmente verso la metafisi.

Questa malattia, per quanto rara, può talvolta presentarsi anche ai nostri giorni. L’ultima descrizione in letteratura è di pochi anni fa (R.Malik: Rickets in a litter of racing Greyhounds, JSAP March 1997) e la diagnosi deriva dall’aspetto radiografico tipico delle fisi di accrescimento, confermata possibilmente dal basso dosaggio della vitamina D (25idrossicolecalciferolo) nel sangue. Il rachitismo consiste nella carenza di vitamina D dovuta a gravi carenze alimentari ed ambientali (mancanza di luce naturale), o al suo mancato assorbimento intestinale (somministrazione ripetuta di olio minerale). Colpisce tutte la fisi, e in maggior misura quelle più attive come quelle distali di radio ed ulna, con un riscontro clinico dal 1° al 5° mese di vita, senza prevalenza di sesso, in razze grandi e giganti. Clinicamente il cucciolo presenta un ingrossamento marcato e dolente delle epifisi. L’aspetto radiografico tipico (Fig. 1) è costituito da un’ampia zona fisaria radio-trasparente e da una linea metafisaria ra-


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dio-opaca poco estesa; l’ampia zona radio-trasparente evidenzia la zona di trasformazione cartilaginea che non è in grado di evolvere velocemente nella zona di calcificazione. Con una pronta correzione della dieta e delle condizioni ambientali le fisi possono riprendere la loro normale attività, senza conseguenze sull’allineamento degli arti che invece si verifica in caso di mancato o ritardato trattamento.

IPERPARATIROISMO NUTRIZIONALE SECONDARIO Questa condizione, per quanto non comune, è di più frequente riscontro del rachitismo e trova la sua causa in uno squilibrio dietetico derivante da un eccesso di proteine d’origine animale e da un marcato squilibrio dietetico calcio-fosforo, con conseguente aumento di secrezione di paratormone, ipocalcemia ed iperosfatemia (rapporto Ca:P da 1:20 a 1:50). Si può riscontrare tra il 2° e lo 8° mese di vita, in cani di razze grandi e giganti, con prevalenza nei maschi, con riluttanza al movimento e dolore alla deambulazione ed alla palpazione. Si verifica una scarsa calcificazione delle ossa lunghe, con assottigliamento delle corticali ed aumento di densità della parte metafisaria delle fisi d’accrescimento. All’esame radiografico (Fig. 2), pertanto, si evidenziano corticali sottili (ossa di carta), presenza di fratture patologiche a legno verde, aumento di densità delle metafisi dove viene richiamato il calcio disponibile. La pronta correzione dietetica consente la guarigione di questa condizione patologica ed il ripristino della normale crescita ossea.

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RITENZIONE DEL CORE CARTILAGINEO Questa condizione non frequente, tipica dei cani di razza gigante, come Alano, cane di San Bernardo, Mastino Spagnolo ecc., si può verificare dal 4° allo 8° mese di vita in soggetti che presentano una curva di crescita particolarmente elevata, dovuta a fattori genetici e/o alimentari, per un eccesso nutritivo calorico da sovralimentazione e da supplementazione. Si verifica a livello delle fisi distali dell’ulna, che sono quelle più attive metabolicamente, dove provoca un ritardo della trasformazione ossea del nucleo cartilagineo centrale, e pertanto un ritardo di crescita dell’ulna rispetto al radio. All’esame radiografico (Fig. 3) si evidenzia una zona conica di minor radiodensità che si estende dalla fisi nella metafisi, assumendo l’aspetto di un candelabro. Questa condizione patologica, se trattata precocemente con l’instaurazione di un regime dietetico bilanciato ed ipocalorico, può risolversi senza conseguenze sull’allineamento dell’arto, mentre invece può provocare la deviazione in valgo e in procurvato dell’avambraccio e della mano quando non trattata in tempo. In caso di deviazione dell’arto ormai instaurata, se il cane è ancora in crescita, è indicato eseguire l’ostectomia di un segmento ulnare, per eliminare l’effetto “tirante” laterale sul carpo determinato dall’ulna in ritardo di crescita, e/o la graffatura della fisi distale del radio per fermarne la crescita; nel cane adulto, se la deviazione della mano risulta invalidante e provoca artrosi del carpo per l’appoggio alterato della mano, è indicato eseguire un’osteotomia correttiva di radio ed ulna.


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OSTEODISTROFIA IPERTROFICA Questa condizione patologica dell’accrescimento, la cui eziologia è ancora sconosciuta, è piuttosto rara e si può verificare dal 2° allo 8° mese di vita in cani di razze grandi e giganti. Viene chiamata anche osteopatia metafisaria e scorbuto, ma la carenza di Vitamina C, che provoca nel bambino affetto un quadro radiografico simile, non è stata riscontrata nei cani colpiti da questa patologia. Tra le possibili eziologie è stata presa in considerazione la sovralimentazione, che però, per l’incidenza sporadica della malattia, non sembra poter esserne l’unico fattore causale; per quanto non sia stato possibile isolare un agente infettivo, è stata anche considerata l’ipotesi infettiva (Escherichia coli, virus del cimurro), che potrebbe spiegare la natura sporadica della patologia e le lesioni provocate. Si presenta clinicamente con un ingrossamento dolente delle fisi d’accrescimento che nella fase acuta impedisce al cane di muoversi e si accompagna a febbre elevata. La patogenesi di questa condizione consiste in un’alterazione della vascolarizzazione metafisaria che porta ad un arresto del processo d’ossificazione nella zona fisaria di calcificazione, a zone di necrosi ossea della spongioso primaria, a formazione di microfratture, infiammazione e produzione ossea periostale. All’esame radiografico (Fig. 4) si evidenzia un tipico sdoppiamento della linea fisaria, per la formazione di una linea metafisaria radio-trasparente parallela a quella della fisi preceduta da una linea di maggior densità denominata, nell’uomo, lattice scorbutico; nella fase sub-acuta e cronica della malattia si evidenziano delle formazioni ossee periostali, talvolta imponenti, che poi regrediscono con il risolversi della patologia. Le formazioni ossee periostali possono provocare delle linee di ossificazione (linee di Harris) che poste a ponte delle fisi ne arrestano le crescita provocando delle deviazioni assiali. Non esistendo un trattamento specifico, è indicato instaurare un trattamento sinto-

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matico per alleviare il dolore, la febbre e l’infiammazione, per aiutare l’alimentazione e rendere confortevole il giaciglio con materassini imbottiti, fino alla risoluzione della patologia. Eventuali deviazioni assiali conseguenti potranno essere trattate con interventi chirurgici di allineamento.

OSTEOMIELITE EMATOGENA Nel cane in accrescimento possono raramente verificarsi delle osteomieliti ematogene che si localizzano tra la zona di trasformazione e quella di calcificazione delle fisi, dove l’attività vascolare è più intensa. Sono di natura monofocale, spesso non prontamente diagnosticate e si riscontrano dal 2° allo 8° mese di vita in cani di tutte le razze, con una prevalenza maggiore nei Boxer, Bernesi e molossoidi; si presentano con una zoppia dell’arto interessato e dolore intenso alla palpazione profonda della fisi interessata. La localizzazione più frequente è però quella vertebrale dove provoca un focolaio di discospondilite, con cifosi, dolore vertebrale e riluttanza al movimento. L’eziologia infettiva è sostenuta da poussè batteriche (stafilococchi, streptococchi, brucelle) che per via ematica si localizzano in una fisi di accrescimento o a livello discale dove determinano un focolaio settico di osteomielite, con distruzione di tessuto osseo e sclerosi ossea circostante. L’esame radiografico evidenzia una perdita focale di densità ossea a livello della parte metafisaria della fisi d’accrescimento interessata (Fig. 5) o a livello del disco intervertebrale colpito (Fig. 6). Il trattamento antibiotico, che richiede somministrazioni prolungate particolarmente nelle discospondiliti, è generalmente risolutivo e se effettuato in tempo non comporta l’arresto della crescita fisaria a livello delle fisi delle ossa lunghe; a livello vertebrale la guarigione del focolaio esita in una fusione dei corpi vertebrali contigui.


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CHIUSURA PREMATURA La chiusura prematura delle fisi di accrescimento può essere la conseguenza di un disturbo metabolico, infettivo e infiammatorio, come nelle condizioni sopra descritte, ma anche di un fatto traumatico. Un trauma, anche indiretto, come la frattura di una diafisi, può provocare una compressione della fisi (Salter V), la morte delle cellule dello strato germinale e quindi l’arresto della crescita e la chiusura prematura della fisi interessata. Le fisi in cui più frequentemente si verifica la chiusura prematura sono la fisi distale dell’ulna (Fig. 7), quella distale del radio e quella prossimale del radio. Quando la chiusura prematura si verifica in piena fase di crescita, ne consegue sempre una certa deviazione dell’arto, la cui entità è proporzionale al tempo residuo di crescita. La chiusura prematura della fisi distale dell’ulna comporta una deviazione laterale, in valgo, del carpo ed in procurvato (Fig. 8); la chiusura prematura della fisi distale del radio comporta una deviazione mediale, in varo, del carpo, mentre la chiusura prematura della fisi prossimale del radio comporta una grave incongruenza articolare da radio corto. Il trattamento di queste deviazioni è in funzione del periodo di crescita residua e dell’entità della deviazione, come descritto sopra a proposito della ritenzione del core cartilagineo. In caso di incongruenza articolare del gomito da arresto di crescita della fisi prossimale del radio è indicato eseguire l’ostectomia dell’ulna per ripristinare la congruenza dei capi articolari.

Indirizzo per la corrispondenza: Aldo Vezzoni Clinica Veterinaria, via Massarotti 60/A, 26100 Cremona Tel 0372 23451, avezzoni@scivac.it

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Monitoraggio delle funzioni vitali in pronto soccorso Fabio Viganò Med Vet, SMPA, Milano

INTRODUZIONE Il monitoraggio del paziente acuto in pronto soccorso deve essere effettuato attraverso la rilevazione continua di alcuni parametri vitali: - temperature corporee (rettale ed interdigitale, la cui differenza deve essere di 3-4 gradi centigradi) - frequenza cardiaca con il polso e le sue caratteristiche - frequenza respiratoria e suo modello - tempo di riempimento capillare e colore delle mucose Ogni struttura veterinaria che intenda svolgere attività di pronto soccorso 24 ore dovrebbe essere dotata di alcuni apparecchi in grado di monitorare la funzionalità cardiorespiratoria quali: • pulsiossimetro, • apparecchio per la rilevazione della pressione arteriosa con metodo indiretto • doppler vascolare • dispositivo per misurare la pressione venosa centrale In pronto soccorso e terapia intensiva, è necessario scrivere i dati ottenuti durante il monitoraggio in apposite cartelle, al fine di non dimenticarli o confonderli; infatti la caratteristica peculiare del monitoraggio è l’analisi dei valori rilevati nel corso del tempo. Questo per due motivi: il primo l’osservazione e lo studio delle funzioni vitali del paziente ed il secondo la necessità di valutare l’efficacia della terapia. Molti autori infatti affermano che ciò che non è scritto non è fatto! Di seguito verranno illustrate le indicazioni e l’impiego dei principali apparecchi utilizzati per monitorare i pazienti acuti.

Ossimetria sfigmica (pulsiossimetro) La rilevazione della percentuale di saturazione dell’emoglobina (SaO2), in pronto soccorso è considerato il quinto parametro vitale. Questo perché un deficit di ossigeno è responsabile di una riduzione della DO2 (disponibilità di ossigeno) e quindi di una riduzione della possibilità di sopravvivere del paziente critico. L’ossimetria pulsatile misura la percentuale di ossigeno legata all’emoglobina nel sangue arterioso periferico, una sua riduzione è indice di ipossia. La pulsioossimetria può essere utilizzata quando si vuole conoscere lo stato di ossigenazione del paziente in assenza di un emogasanalizzatore o quando si vuole valutare l’ossigenazione nel sangue arterioso in continuo (ad es. in pronto soccorso od in anestesia generale). Essendo la SaO2 correlata alla pressione parziale dell’ossigeno nel sangue arterioso, è possibile, conoscendone la sua entità, estrapolare in maniera approssimativa ma

clinicamente significativa la PaO2 (vedi tabella). Osservando la tabella ci accorgiamo che i valori normali sono quelli superiori al 95%, perciò quando lo strumento misura dei valori inferiori, dobbiamo cercare di migliorare l’ossigenazione del paziente somministrando ossigeno o migliorando le sue capacità ventilatorie quando necessario. Per tale motivo l’autore definisce tale strumento desaturimetro e non saturimetro! In pronto soccorso quando le funzioni vitali sono compromesse dobbiamo tendere ad avere pazienti con una SaO2 ≥ del 95% e quando possibile pari al 100%. Uno dei problemi che possono insorgere interpretando i valori misurati dal pulsiossimetro risiede nel fatto che a piccole variazioni della saturazione corrispondono grandi variazioni della pressione parziale dell’ossigeno. Questo fenomeno è dovuto alla particolare forma della curva di dissociazione dell’emoglobina che nella sua parte centrale è molto ripida. L’emoglobina è in grado di legarsi all’ossigeno molto facilmente ma pur trasportandone la maggiore quantità presente nel sangue, non è in grado di rendere disponibile tutto l’ossigeno da essa veicolato, perciò si deve cercare di “caricarla” sempre completamente. La pulsiossimetria valuta perciò la capacità dei polmoni di ossigenare il sangue ed in ultima analisi la capacità dell’organismo di fissare l’ossigeno inalato all’emoglobina. Il pulsiossimetro è dotato di un cavo elettrico al quale è collegata una sonda da applicare al paziente per via transcutanea o transmucosale. La sonda è provvista di due diodi (sorgenti di luce), le quali emettono due fasci di radiazioni luminose che vengono alterate dall’HbO (emoglobina ossigenata) e dall’Hb (emoglobina non ossigenata). Per effettuare una lettura corretta è necessario posizionare la sonda in un sito ben vascolarizzato come la lingua, il labbro, il padiglione auricolare o le mucose esplorabili (rima vulvare, mucosa rettale), dove i pigmenti cutanei, gli strati cornei, la presenza di materiale organico (ad es. feci o catarro) od i coloranti applicati sul punto di lettura non compromettano le rilevazioni dello strumento, inficiando i risultati. La presenza di metaemoglobina o di carbossiemoglobina non è riconosciuta dallo strumento che può rilevarla come HbO, e sovrastimare o alterare il livello di

Ossigenazione

SaO2 %

PaO2 mmHg

Normale Ipossiemia Ipossiemia lieve Ipossimeia moderata Ipossimeia grave

> 95 < 95 90-95 75-90 < 75

97 < 80 60-80 40-60 < 40


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SaO2 letto. In assenza di polso lo strumento non è in grado di rilevare alcuna differenza tra l’HbO e l’Hb, in queste condizioni lo strumento indica una SaO2 pari a zero, che significa assenza di lettura. Il pulsiossimetro rilevando la pulsatilità arteriosa è anche in grado di quantificare l’onda sfigmica, rappresentando il momento di massima e di minima dilatazione della parete vasale. Riconoscendo la presenza-assenza del polso lo strumento è in grado di fornirne anche la frequenza.

Pressione Arteriosa Sistemica, metodo indiretto La determinazione della BP (pressione arteriosa sistemica) è un parametro vitale che dovrebbe essere rilevato in tutti i pazienti acuti durante la prima visita, per tutto l’iter terapeutico ed ogni qualvolta si manifestino i sintomi di un’instabilità emodinamica. La BP è influenzata dalla gittata cardiaca e dalle resistenze vascolari periferiche, la BP può aumentare a seguito di incrementi della gittata cardiaca o delle resistenze vascolari periferiche (SVR). La stretta relazione esistente tra BP ed SVR, fa sì che per valori pressori normali od al di sopra della norma non corrispondano necessariamente una buona perfusione in quanto le SVR possono aumentare a seguito di una vasocostrizione arteriolare periferica compromettendo la perfusione tissutale. Un dato molto più indicativo della SAP per ciò che concerne la perfusione è la MAP (pressione arteriosa media), essa si misura con la seguente formula:MAP = DAP + (SAP – DAP)/3. MAP: pressione arteriosa media, DAP: pressione arteriosa diastolica, SAP: pressione arteriosa sistolica. La BP può ridursi notevolmente a seguito di: • ipovolemie conseguenti ad emorragie o gravi disidratazioni • SIRS (sindrome della risposta infiammatoria sistemica) e MODS (sindrome della insufficienza d’organo multipla) • Shock (ipovolemico, settico e distributivo) • insufficienze cardiache congestizie • lesioni neurologiche I valori normali della pressione arteriosa possono essere influenzati dalla specie, dalla razza e dal metodo utilizzato. Quando la SAP è inferiore ad 80 mmHg o la MAP è inferiore a 60, la perfusione cerebrale e coronaria sono compromesse. Il metodo indiretto, seppur meno accurato rispetto alla metodica diretta è il più diffuso ed il più semplice da realizzare. Prevede l’utilizzo di un manicotto pneumatico da applicare alle estremità degli arti. La cuffia del manicotto deve avere le seguenti dimensioni: larga circa il 40% e lunga circa l’80% della circonferenza dell’arto. Insufflando aria all’interno di esso si esercita una pressione lungo tutta la circonferenza dell’arto ostacolando il flusso ematico arterioso. Il manicotto non deve essere né troppo stretto né troppo lasso. Si può applicare a livello del metatarso o del metacarpo. Una delle cause più comune di errore nella rilevazione della pressione arteriosa consiste nella inadeguatezza del manicotto utilizzato. Una volta interrotto il circolo distalmente al manicotto si inizia a svuotare la cuffia dell’aria, fino a percepire con la sonda doppler il caratteristico suono del passaggio di sangue attraverso l’arteria; gli apparecchi oscillometrici invece rilevano la pressione esercitata sul

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manicotto dall’arteria ad ogni atto pulsatorio. La pressione indicata dallo sfigmomanometro collegato al manicotto indica la pressione sistolica. La pressione diastolica corrisponde ad una variazione di entità nel suono emesso dal doppler mentre col metodo oscillometrico corrisponde alla scomparsa del polso.

Pressione venosa centrale La CVP (pressione venosa centrale) misura la pressione del sangue venoso all’interno della vena cava craniale o caudale, a seconda del vaso scelto per introdurre il catetere: la giugulare nel primo caso e la vena safena nel secondo. La CVP è influenzata dal volume intravascolare, dalla gittata cardiaca, dalla elasticità venosa, dalla pressione intratoracica e dal cuore destro. Una sua riduzione è responsabile di una riduzione della gittata cardiaca. La CVP, anche se leggermente più elevata, è paragonabile alla pressione esistente all’interno dell’atrio destro, essa misura la competenza del cuore destro e la capacità del paziente nel governare i fluidi somministrati. La sua attuazione non è complessa e necessita di un comune catetere endovenoso nei gatti e nei cani di taglia piccola (1820 gauge), nei pazienti di taglia media e grande necessita di un catetere giugulare. L’estremità del catetere deve raggiungere l’ingresso del torace e portarsi in prossimità dell’atrio destro. Nel caso si opti per la vena safena l’estremità del catetere deve raggiungere la cavità addominale. Il catetere endovenoso viene collegato ad una linea di infusione la quale è connessa con un dispositivo provvisto di una valvola a tre vie sulla quale viene inserita una colonna graduata in centimetri per poter misurare l’entità della CVP od un trasduttore elettronico in grado di disegnare l’onda sfigmica e ad una linea di infusione collegata ad una soluzione cristalloide. Quando si è collegato il paziente alla linea di infusione, è necessario effettuare lo zero (dove deve essere posizionata la base della colonna graduata od il trasduttore). Nei pazienti in decubito laterale lo zero corrisponde alla punta dello sterno, nei pazienti in decubito sternale corrisponde all’estremità craniale dell’articolazione scapolo omerale. I valori normali sono compresi in un intervallo che va da –1 a +5. Quando si rilevano valori di bassa entità il paziente può trovarsi in condizioni emodinamiche normali o essere ipovolemico, mentre se si registrano valori elevati il paziente può aver subito: un’eccessiva somministrazione di fluidi, od un incremento della pressione intratoracica (ad es. pneumotorace, una distensione di visceri addominali). Quando i valori sono maggiori di 8-10 cmH2O o quando si riverificano rapidi incrementi della CVP, il paziente può sviluppare un edema polmonare. Valori iniziali di 10-14 cmH2O possono essere sintomatici di insufficienza cardiaca o renale.

Bibliografia Viganò F. (2004), Medicina d’urgenza e terapia intensiva del cane e del gatto, Masson EV,81-90.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabio Viganò, Clinica Veterinaria San Giorgio Via Roma, 54 - 20010 San Giorgio su Legnano (MI) Tel. 0331-411555 - Fax 0331-418525 email: fabio.vigano@evet.191.it


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Radiologia interventistica (in particolare biopsie eco e TC guidate) Massimo Vignoli Med Vet, Spec Rad Vet, Sasso Marconi (BO)

INTRODUZIONE: l’impiego della diagnostica per immagini, fluoroscopia, ecografia e tomografia computerizzata (TC), come metodiche di guida all’esecuzione di manovre invasive ha rappresentato uno dei maggiori progressi in campo medico negli ultimi 10-15 anni, permettendo di abbreviare iter diagnostici, altrimenti lunghi ed onerosi, e di evitare trattamenti più impegnativi, quali interventi chirurgici. L’ecografia ha ormai raggiunto un grande sviluppo e le biopsie con aghi fini o trancianti o l’introduzione di sostanze nelle lesioni vengono routinariamente eseguite in molte strutture veterinarie. Negli ultimi anni, inoltre, sta diventando popolare anche l’utilizzo della TC per il prelievo di campioni cellulari o di tessuto. TECNICA: oltre agli esami di routine per biopsie con ago tranciante è opportuno valutare il profilo coagulativo, come tempo di tromboplastina, tempo di protrombina e conteggio delle piastrine. Il valore dell’ematocrito deve essere rilevato meno di 48 ore prima della biopsia. In letteratura è riportato che l’ematocrito basso, così come la piastrinopenia (< 80000/microl) determinano una maggiore percentuale di complizaioni sia nel cane che nel gatto. Quindi si procede con l’introduzione di un catetere venoso, sedazione o anestesia generale, e disinfezione della parte da biopsare previa rasatura della cute. La selezione dell’ago sarà diversa a seconda della sede da biopsare o da trattare. In base alla punta gli aghi da biopsia vengono divisi in a) non trancianti, utili per le agoaspirazioni, esempio ago spinale o ago tipo Chiba, e b) trancianti, che agiscono mediante un meccanismo di taglio esempio ago di Turner, Menghini, Tru-cut, automatici o no. Un’altra distinzione codificata è quella tra aghi di piccolo calibro, con diametro esterno inferiore ad un millimetro (20 G), ed aghi di grosso calibro, con diametro esterno superiore ad un millimetro. La scelta delle dimensioni viene effettuata in base al singolo caso clinico, ad esempio se aspiriamo una formazione cistica è sufficiente un ago non tranciante di 0.7-0.6 mm (22-23 G), mentre dovrà essere più grande, 1.2-1.0 mm (18-20 G) per aspirare un ascesso che contiene materiale più denso. In generale si tende ad utilizzare aghi 0.8-0.7 mm (21-22 G) per agoaspirazioni fini; questo consente di evitare l’aspirazione di sangue e di ottenere un maggior numero di campioni diagnostici per la citologia. Per le biopsie con aghi trancianti sono consigliati aghi più grossi possibili per aumentare l’accuratezza diagnostica, e comunque compresi tra 2.0-1.2 mm (14-18 G) per i tessuti molli e 4.0-3.0 mm (8-12 G) per le ossa. In ecografia vi sono tre metodi di biopsia:

1) Tecnica indiretta; si calcola la profondità e l’angolo per l’inserzione dell’ago, quindi la sonda ecografia viene rimossa dalla cute e si inserisce l’ago alla cieca. Questa tecnica si utilizza per toracentesi, paracentesi, o per l’aspirazione o biopsia di grosse masse. 2) Tecnica a mano libera; si effettua tenendo la sonda in una mano e inserendo l’ago da biopsia con l’altra. In questo modo la punta dell’ago può essere visualizzata di continuo. Sarebbe opportuno utilizzare gel sterile ed una copertura sterile per la sonda ecografica. 3) Tecnica con guida per l’ago; si collega una guida alla sonda ecografia. Prima è necessario pulire la sonda, poi viene applicato il gel sulla testa della sonda ecografia e viene rivestita con una copertura sterile, infine si applica alla sonda la guida sterile. Una volta stabilito la zona di interesse, si inserisce l’ago. Con questa tecnica si ha il vantaggio che è molto facile seguire l’ago durante l’operazione, per contro la distanza obbligatoria tra l’ago e la sonda, talvolta determina delle difficoltà nel raggiungere il sito stabilito. Quando si effettuta una biopsia con ago tranciante di misura inferiore a 18 G (diametro > 1.2 mm) si incide la cute con una lama da bisturi n° 11, onde evitare l’inclinazione dell’ago durante l’inserimento a causa delle resistenze. Se si utilizza un dispositivo automatico, quando si misura la distanza tra la cute e la lesione, va considerato anche che la punta dell’ago uscirà di altri 15-23 mm a seconda del tipo di pistola da biopsia utilizzata. Ciò per evitare di oltrepassare la lesione e biopsare un’altra struttura o addirittura entrare in un vaso importante. Una volta entrato nella lesione e prelevato il campione bioptico, si asporta con un ago ipodermico sterile la “carota” di tessuto, ponendola in una soluzione di formalina, o se interessa anche la citologia si può prima rotolare su un vetrino. Quando si effettua un’agoaspirazione fine, una volta che ci si trova all’interno della lesione, si collega l’ago bioptico ad una siringa da 12 ml o ad una prolunga e poi alla siringa (in caso di drenaggio di una cavità). La rotazione dell’ago durante l’aspirazione aumenta la possibilità di ottenere materiale cellulare durante l’aspirazione. Una volta aspirato il materiale cellulare, si termina l’aspirazione e si scollega l’ago dalla siringa; vengono aspirati circa uno due millilitri di aria e quindi dopo aver ricollegato l’ago alla siringa si spara il materiale su un vetrino. Una variante della tecnica con ago fine è l’agoinfissione. Questa tecnica prevede l’infissione di un ago fine in un organo e senza aspirare si procede avanti e indietro per alcune volte, si estrae e con una siringa si spara


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il materiale cellulare su un vetrino. In questo modo la suzione di sangue è inferiore ed il materiale cellulare meno diluito dal sangue stesso. Questa tecnica viene utilizzata solitamente in parenchimi friabili, tipo fegato e milza, mentre l’agoaspirazione si effettuata in parenchimi più consistenti come linfonodi o reni. In generale nelle biopsie è opportuno evitare di passare in più cavità e possibilmente andrebbero cambiati gli aghi per effettuare diverse biopsie, per evitare la diffusione di germi o cellule neoplastiche. Tra queste complicazioni la diffusione di cellule neoplastiche in caso di agoaspirazione fine di carcinomi è stata riportata in letteratura, ed anche nella nostra esperienza vi sono alcuni casi di metastatizzazione lungo il decorso dell’ago bioptico. Dopo tutte le biopsie è opportuno effettuare un’ecografia di controllo per valutare eventuali complicazioni. Grazie alla TC è oggi possibile ottenere dei campioni diagnostici con elevatissima accuratezza. Il soggetto viene preparato (rasato e disinfettato) sulla base delle immagini radiografiche prima di essere posto sul lettino della TC. Quindi viene posizionato nella posizione più comoda per il successivo intervento bioptico. Viene effettuata una normale tomografia computerizzata prima e dopo somministrazione di mezzo di contrasto. Una volta localizzato il punto in cui si vuole effettuare la biopsia, si ripete di questo una scansione, e si misura la distanza tra la cute e la lesione e l’angolo per l’inserzione dell’ago; la luce laser ci indicherà il punto esatto d’ingresso. Se si effettua una biopsia con ago tranciante è necessario incidere la cute con una lama da bisturi n° 11. Sono state descritte due tecniche bioptiche: 1) Tecnica a mano libera; una volta incisa la cute si inserisce un ago graduato per una distanza minima rispetto a quella misurata nella scansione. Si ripete la scansione per valutare se l’ago è stato inserito correttamente. Se il posizionamento è corretto si penetra con l’ago per gli altri centimetri restanti e quindi si esegue la biopsia. In caso si effettui un’agoaspirazione fine è necessario collegare l’ago bioptico ad una siringa per la suzione del materiale cellulare o liquido. La precisa localizzazione della punta dell’ago nelle biopsie percutanee TC guidate è considerato l’elemento chiave per il successo della procedura. Per assicurarsi l’accuratezza, bisogna saper differenziare la vera punta dell’ago da quella falsa o simulata, che si viene a determinare quando la scansione TC comprende solo il corpo dell’ago angolato. 2) Tecnica con apparato stereotattico; è un sistema utilizzato prevalentemente per le biopsie cerebrali in medicina veterinaria. In medicina umana si utilizza talvolta anche per le biopsie del torace. I costi di queste apparecchiature ne impediscono al momento la diffusione. In generale è fondamentale non muovere l’animale durante tutto lo studio TC e la biopsia, per non perdere il punto di riferimento ed essere obbligati a ripetere di nuovo l’esame. Oltre alla possibilità di prelevare materiale per indagini citologiche od istopatologiche, l’ecografia e la TC consentono anche interventi terapeutici tramite la somministrazione locale di sostanze antibiotiche o alcool, oppure attraver-

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so il trattamento guidato di neoplasie con laser chirurgico o radiofrequenze. Inoltre la TC consente anche il trattamento di vertebroplastica senza che sia necessario un intervento chirurgico. CONCLUSIONI: Le biopsie eco e TC guidate sono metodologie diagnostiche accurate e sicure. Le complicazioni sono in genere date da sanguinamento e pneumotorace. Queste vengono divise in minori (che non richiedono nessun intervento) o maggiori (che richiedono un intervento). Le complicazioni minori, diminuzione dell’ematocrito (> 10%) senza segni clinici sono calcolate nella misura del 21.9% in uno studio con guida ecografica, mentre le complicazioni maggiori, che richiedono fluidoterapia o trasfusione di sangue, vengono segnalati in gran parte degli studi, nella misura del 1.5-6%. Le complicazioni sono più alte percentualmente in cani con patologie non neoplastiche. Nell’uomo il pneumotorace è la complicazione più frequente per le biopsie polmonari TCguidate, con un range che va dall’8 al 61%. Nella nostra esperienza il 14% dei soggetti sottoposti ad agoaspirazione fine del polmone o del mediastino hanno presentato un lieve pneumotorace, senza necessità di trattamento. Nel caso di biopsia con ago tranciante la percentuale di pneumotorace è moderatamente più alta, ma anche in questo caso non è mai stato necessario intervenire con il drenaggio del torace. In confronto all’ecografia, la TC permette una migliore valutazione dell’estensione della lesione ed in caso di biopsia polmonare non vi sono difficoltà operative per la presenza di aria attorno alla lesione. La TC consente anche una migliore valutazione nella ricerca delle metastasi. L’ecografia, al contrario, non utilizza radiazioni ionizzanti (per il paziente), è meno costosa, e non richiede richiede sempre l’anestesia per ago aspirazione. Inoltre vi è controllo in tempo reale. In conclusione, la biopsia TC-guidata è utile per sedi difficili da raggiungere con altre tecniche, come ad esempio in caso di lesioni polmonari circondate da gas o per biopsie scheletriche. Visti i bassi costi, l’ecografia trova la sua massima indicazione per le biopsie dell’addome.

Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5.

Vignoli M, Citi S, Rossi F, Terragni R, Corlazzoli D, Marchetti V., (2003), Studio preliminare sulla biopsia TC-guidata del polmone nel cane, Atti X° Congresso SICV, Bologna, 393-397. Vignoli M, Ohlerth S, Rossi F, Pozzi L, Terragni R, Corlazzoli D, KaserHotz B. CT-guided fine-needle aspiration and tissue-core biopsy of bone lesions in small animals, (2004), Vet Radiol & Ultrasound, in stampa. Tidwell AS, Johnson KL. Computed Tomography- Guided Percutaneous Biopsy: Criteria for Accurate Needle Tip Identification, (1994), Vet Radiol & Ultrasound, 35(6):440-444. Nyland TG, Mattoon JS et al, (2002), in Nyland/Mattoon, Small Animal Diagnostic Ultrasound, Saunders, Philadelphia, 30-48. Buscarini L, Di Stasi M, (1993), in Società Italiana di Ultrasonologia in Medicina e Biologia, Trattato Italiano di Ecografia, Paletto, Milano, 3° Vol, 924-939.

Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Vignoli Sasso Marconi (BO), via dell’Orologio 38, 40037 Tel e fax: 051-6751232 - e-mail: maxvignoli@libero.it.


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Indagine sulla realtà delle tariffe della professione veterinaria in Italia Marco Viotti Med Vet, Torino

In un momento di particolare crisi economica europea ed italiana che ha investito tutti i settori lavorativi, abbiamo raccolto un diffuso lamento fra i colleghi che si occupano di piccoli animali circa la diminuzione del proprio reddito. Le cause di questo fenomeno sono molteplici e complesse, ma, grossolanamente da ricondursi all’elevato numero di medici veterinari operanti sul territorio (22500 fonte FNOVI) come conseguenza di un abnorme numero di facoltà sul territorio italiano (14), un aumento dei costi gestionali delle nostre strutture, la necessità di acquisire tecnologia sempre più raffinata, ma costosa, il diminuito potere di acquisto dell’utenza in generale ed infine l’inadeguatezza delle tariffe praticate. In attesa del Tariffario Nazionale, incuriositi su quest’ultima voce abbiamo voluto, come gruppo di studio di Practice Management, saggiare la realtà delle tariffe praticate sul campo attraverso un’esplorazione statistica. Dal momento che non è mai stato compiuto uno studio simile ci siamo approcciati con molta umiltà a questo settore totalmente inesplorato che ci proponiamo di approfondire ulteriormente in seguito. Per eseguire quest’esplorazione ci siamo avvalsi della collaborazione di un economista che ha elaborato i dati forniti, nel fare ciò, però si sono dovuti risolvere alcuni problemi: 1- individuare una base di prestazioni che fossero indicatori della nostra professione, tenendo conto dell’enorme disomogeneità di strutture presenti nonché della realtà geografica in cui si opera; 2- utilizzare delle metodiche statistiche che potessero elaborare i dati richiesti la cui rappresentatività doveva essere significativa; 3- raccogliere i dati in maniera assolutamente spontanea, evitando pertanto le telefonate ad amici e conoscenti. Per quel che riguarda il primo punto, dopo esserci consultati con più colleghi abbiamo individuato 12 prestazioni: visita clinica, vaccino cane, vaccino gatto, vaccino rabbia, vaccino FeLV, orchiectomia cane e gatto, sterilizzazione cagna e gatta, radiografia, ecografia e test rapido FIV-FeLV. Il dato visita non poteva essere, per forza di cose, complesso, pertanto intendiamo la visita clinica semplice al di fuori di terapie, medicazioni e quant’altro. Per quel che concerne le vaccinazioni sono state suddivise per animale e tipologia in quanto si supponeva una variabilità del dato a prescindere dal costo vivo del prodotto inoculato. Ed i fatti ci hanno dato ragione. Le chirurgie invece sono poco commentabili al di fuori del dato numerico perché i fattori che dovrebbero concorrere alla determinazione del prezzo di vendita di tali prestazioni sono troppi e troppo diversi, tuttavia si è cercato di

identificare delle prestazioni che potessero essere eseguite anche da un chirurgo senza aiuto, vedi l’orchiectomia del gatto maschio, oppure che necessitassero di un aiuto come la sterilizzazione della cagna femmina, e che, soprattutto, fossero alla portata di ogni struttura ambulatoriale e non necessitassero di attrezzature specialistiche. La diagnostica per immagini è stata inserita per saggiare la numerosità di risposte e quindi la prevalenza statistica di queste prestazioni, che di base non sono, ma che dovrebbero essere patrimonio di ogni struttura ambulatoriale, perlomeno la radiologia. L’ecografia vive una realtà a sé perché vi sono numerosi colleghi che pur proponendo tale metodica nella propria struttura si avvalgono di un ecografista esterno. Infine si è voluta saggiare la disponibilità ad eseguire un test rapido ambulatoriale su sangue per una malattia diffusa su tutto il territorio nazionale. Per quel che riguarda il secondo problema, non entro nel merito squisitamente tecnico dell’elaborazione statistica ma vorrei ricordare che abbiamo diviso i dati in 3 macroaree: nord-centro e sud e isole secondo i parametri ISTAT dopodiché sono state calcolate le medie per macroarea e per territorio nazionale per ogni singola prestazione. Infine, per quel che riguarda il terzo punto ci siamo avvalsi di appelli comparsi su SCIVAC-forum (2500 iscritti) e su Professione veterinaria che arriva a più di 11000 veterinari, richiedendone l’invio tramite posta elettronica o tramite fax in un tempo prestabilito di 30 giorni. Sono arrivati 186 dati con una prevalenza del nord Italia del 50% che corrisponde alla percentuale di distribuzione delle strutture per macroaree. Vogliamo infine ricordare che, secondo dati appena pubblicati (dossier IRISME), la spesa complessiva sostenuta per le spese sanitarie per gli animali da compagnia ammonta a 230 milioni di euro (una media impresa ne fattura 800) mentre i proprietari spendono per gli alimenti 1128 milioni di euro e 442 per il non food. I nostri pazienti sono stimati in 7.400.000 gatti e 6.900.000 cani per un totale di 14.300.000 animali da compagnia, esotici esclusi. Noi veterinari siamo 22.500 di cui 14.000 dediti alla cura degli animali da compagnia. Le strutture invece sono circa 6000 distribuite su tutto il territorio nazionale con una prevalenza del 50% al nord. CONCLUSIONE: con tali tariffe non può esserci crescita professionale perché non abbiamo denaro da reinvestire in tecnologia e risorse umane, tutt’al più possiamo sopravvivere ma non crescere.


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Qualcuno conosce la MOM? Nuove acquisizioni patogenetiche, clinico-diagnostiche e terapeutiche nella Malattia Ossea Metabolica dei rettili e degli anfibi Giuseppe Visigalli Med Vet, Milano

MOM: malattia o segno clinico? Eziopatogenesi: La denominazione più corretta di questa malattia dovrebbe essere quindi: osteodistrofia fibrosa. Di questa si riconoscono tre principali quadri eziopatogenetici: Iperparatiroidismo primario (PHP) Si tratta di un’evenienza molto rara Eziopatogenesi NSHP (iperparatiroidismo nutrizionale) • La carenza di calcio nella dieta, l’eccesso di fosforo od entrambi gli errori alimentari contribuiscono in modo decisivo all’insorgenza della malattia • Altro fattore eziopatogenetico fondamentale in cattività è l’insufficiente od assente esposizione dell’animale all’irradiazione solare diretta od alla luce artificiale contenente il 5-7% di raggi UVB (lunghezza d’onda compresa tra i 290 nm ed i 320 nm) L’osteodistrofia fibrosa stessa può aggravare inoltre un quadro renale preesistente (circolo vizioso) Eziopatogenesi dell’RSHP (iperparatiroidismo secondario renale) Eziopatogenesi: Raggi UVB B) Lampade fluorescenti (tubi neon) ad esclusiva emissione luminosa UVB (dal 2% al 7%) + UVA + spettro visibile C) Lampade ad emissione UVB e riscaldanti (es: Powersun Zoo Med®) I tubi e le lampadine fluorescenti UVB devono essere regolarmente sostituiti ogni 6-7 mesi (in relazione alla qualità ed all’uso) • Alcuni tubi e dispositivi devono essere preferibilmente schermati alla vista dell’operatore o del proprietario

UVB Sole o lampade? La vitamina D • La Vit. D3 (calcitriolo) nei rettili viene sintetizzata a partire dalla conversione, in sede cutanea, del 7 deidrocolesterolo in colecalciferolo con l’intervento dei raggi UVB

• Il colecalciferolo viene quindi convertito a livello epatico in 25-idrossicolecalciferolo (calcidiolo), quindi quest’ultimo viene idrossilato una seconda volta in sede renale dando origine al 1-25 diidrossicolecalciferolo (calcitriolo). Quest’ultimo rappresenta la forma metabolicamente attiva della Vitamina D Metabolismo Vitamina D • La Vit.D3 è 10-20 volte più tossica della Vit.D2 o ergosterolo (di origine vegetale). Nei mammiferi ad esempio i livelli tossici di calcitriolo sono 2-4 volte più alti dei valori fisiologici • Nei rettili (a differenza di quanto ritenuto finora) l’assorbimento gastroenterico della Vitamina D3 (calcitriolo) è apparentemente marginale. La sua somministrazione orale pertanto sembra essere inutile ed oltre un certo limite addirittura dannosa! Calcio e Fosforo • Dobbiamo sempre considerarli insieme poiché in rapporto funzionale quali-quantitativo tra loro • È fondamentale distinguere tra i livelli ottimali di calcio e fosforo nella dieta (3-4:1) ed i loro corrispettivi valori ottimali nel sangue (2:1) Ogni aberrazione quali-quantitativa di uno dei due elementi porta invariabilmente ad uno scompenso metabolico dell’altro • Inoltre esistono altre complesse relazioni tra questi elementi minerali ed altri e con sostanze chelanti assunte con la dieta (ossalati, ecc.) Calcio alimentare • I diversi composti naturali o farmacologici del calcio hanno un assorbimento differente; i principali sono: calcio glubionato, calcio lattato, calcio carbonato, calcio citrato ed il calcio acetato • Ancora differente è l’assorbimento gastroenterico per il fosfato tricalcico Calcio e Fosforo • Non si conoscono attualmente i precisi fabbisogni nutrizionali calcio-fosforici nei rettili (risultati anedottici) • L’errore commesso attualmente dalla maggioranza dei proprietari di giovani rettili (sauri in particolare) è la ipersupplementazione di composti del calcio.


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• Necessitiamo di studi farmacocinetici specifici per le singole specie Calcio plasmatico Il Calcio plasmatico è in realtà costituito da tre frazioni: • Calcio legato alle proteine plasmatiche (= 40-50% del totale plasmatico) per il 90% legato all’albumina e per il 10% alle globuline • Calcio biodisponibile o ionizzato (40-45% del totale plasmatico) • Calcio plasmatico salificato con citrato o fosfato (o Ca non ionizzato) Fosforo plasmatico Si riconoscono le seguenti forme plasmatiche: • Il 10% è legato alle proteine • Il 35% è complessato con il sodio • Il 55% è ionizzato Calcio e Fosforo I valori ematici di Ca e P vanno quindi interpretati con cautela. Dobbiamo distinguere: - Calcemia rilevata in mg/dl - Calcemia corretta in mg/dl = Calcemia rilevata (mg/dl) – albuminemia (in g/dl) + 3,5 - Calcio ionizzato (Ca++) - Fosfatemia standard in mg/dl - Fosforo ionizzato - SP = Coefficiente di solubilità = Calcemia rilevata x Fosfatemia rilevata • Ipercalcemia fisiologica nelle femmine in ovulazione (fino a 24 mg/dl) • Variazioni circadiane della calcemia nelle iguane ed in altri rettili femmine durante la formazione del guscio delle uova (l’ora del prelievo potrebbe essere importante!!) SP (solubility product) Coefficiente di Solubilità SP = (Ca ematico rilevato mg/dl) X (P ematico rilevato in mg/dl) SP (solubility product) Coefficiente di Solubilità SP normale tra 1 e 9 mmol/lt (55-77 mg/dl) Interpretazione: Se SP > 77 = esiste una reale possibilità di calcificazioni metastatiche Se SP < 55 = iniziano i sintomi dell’ipocalcemia e della MOM renale Se l’iperfosfatemia continua ad aumentare l’SP risale fino a poter superare la soglia di 77 mg/dl (19,25 mmol/l) Insufficienza renale grave

• Inoltre promuove l’escrezione renale dei fosfati Calcitonina • È ipocalcemizzante ed è prodotta dai corpi ultimobranchiali • Il suo impiego terapeutico (50 UI/kg IM una volta o due ad intervallo di 15 giorni o 1,5 IU/kg SC tid) va valutato con estrema attenzione (monitorare la calcemia) ed accompagnato da idonea fluidoterapia. Forme cliniche nei Sauri • Forma classica o dell’animale giovane in crescita • Forma dell’animale adulto o ipocalcemica • Forma dell’animale anziano (soprattutto femmine) con grave compromissione renale primaria o secondaria Forma clinica classica dell’animale in crescita: SINTOMATOLOGIA Il segno clinico più precoce è rappresentato dall’incapacità dell’animale a sostenere in stazione il peso del corpo. L’appoggio inizialmente avviene sulla regione pelvica e sulla base della coda, poi anche sull’addome. Successivamente, in assenza di diagnosi e terapia appropriata, viene appoggiata anche la regione sternale. Sintomatologia prevalente (quasi interamente riferibile ad osteodistrofia nutrizionale): • Tumefazione mandibolare mono o bilaterale solitamente asimmetrica e di consistenza molle o semirigida (osteodistrofia) • Enognatismo (per dominanza contrattile dei muscoli masticatori) • Prolasso linguale con incapacità di deglutizione (es: nei camaleonti per coinvolgimento delle ossa ioidee) Forma classica o dell’animale giovane in crescita Sintomatologia prevalente: • Cifosi, Scoliosi e Lordosi per demineralizzazione del rachide e contrattura dei muscoli dorsali; possibili paresi e paralisi • Esoftalmo per coinvolgimento delle ossa craniche • Tumefazione delle regioni della coscia • Zoppia per coinvolgimento rapido dello scheletro appendicolare e delle radici motorie spinali • Fratture spontanee (radiologicamente corticali sottili)

Coefficiente di Solubilità

Forma clinica dell’animale adulto o ipocalcemica • Tremori muscolari (dita, arti, collo, tronco) • Convulsioni • Tetania • Paralisi flaccida • Grave depressione del sensorio • Stato comatoso

PTH • La sua azione ipercalcemizzante a volte si rivela pericolosa (in soggetti con MOM renale!) poiché favorisce il riassorbimento osseo del calcio con potenziale calcificazione dei tessuti molli.

Forma clinica dell’animale adulto o ipocalcemica • Tale sintomatologia è particolarmente manifesta nelle iguane adulte femmine nel corso della follicologenesi • Distocia preovulatoria (POOS) o postovulatoria (POEG)


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Diagnosi RSHP Ematochimica: - Iperfosfatemia (due-quattro volte più elevato della norma) - Normo od Ipocalcemia - CPK solitamente elevata (>300 UI/L) - Acido urico normale o leggermente elevato (solo tardivamente si eleva 2-3 o più volte oltre la norma); anche per effetto della simultanea disidratazione. L’aumento moderato e lento dell’acido urico può essere spiegato dalla frequente anoressia cronica (ridotta produzione di scorie uricemiche) Diagnosi RSHP • SV elevato (> 70 mg/dl o > 9 mmol/L) ne consegue un grave rischio di calcificazione metastatica dei tessuti molli (anche all’aorta e ad altri grossi vasi) e di ipertensione sistemica! • Molto utile per una corretta definizione diagnostica e soprattutto prognostica è la biopsia renale - Chelanti del P a base di: Ca glubionato, Ca acetato, Ca carbonato. Evitare quelli a base di alluminio idrossido per pericolo d’intossicazione causa la mancata escrezione renale dello stesso - Eliminare vegetali contenenti elevati livelli di P e ridurre fortemente la frutta

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Diagnosi MOM ipocalcemica (NSHP) • Anamnesi: errata alimentazione ed errato management • Sintomatologia clinica: • Ematochimica: Gli elementi di valutazione (Ca, P, PT, Uricemia, ecc.) sono gli stessi impiegati nella forma renale (RSHP) la calcemia è tuttavia più spesso al di sotto dei valori fisiologici Terapia NSHP TERAPIA CALCICA: • Ca borogluconato: 50-100 mg/kg EV-IO • Ca glicero-fosfato: 5 mg/kg q1-7 giorni IM-SC • Ca glubionato: 230 mg/kg PO q12h FLUIDOTERAPIA (SOLUZ. IPOTONICHE) TERAPIA DI SUPPORTO: • Vit.complesso B • Vit C = 20 mg/ kg die

Indirizzo per la corrispondenza: Giuseppe Visigalli, Dr. Med. Vet. Clinica Veterinaria Liana Blu v. Crispi 18 20039 Varedo MI - ITALY tel-fax.: + 39 0362 54 40 20 tel.cell.: 347 247 12 85 e-mail: herpbepp@tiscali.it


COMUNICAZIONI LIBERE

Le comunicazioni sono elencate in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.


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POLIMIOSITE DI PROBABILE ORIGINE PARANEOPLASTICA IN UN LABRADOR Gianluca Abbiati Med Vet Libero professionista, Samarate (VA) Introduzione: Le polimiositi rappresentano l’esito dell’infiltrazione infiammatoria dei muscoli striati e la debolezza che ne deriva è direttamente proporzionale al grado di infiammazione. Le miopatie infiammatorie si dividono in due gruppi: le miopatie infiammatorie idiopatiche e quelle secondarie, associate ad altre patologie. Appartengono a questo secondo gruppo le miositi paraneoplastiche. Queste sono state descritte in associazione al timoma, alla leucemia mieloide e a carcinomi. Ai fini di una diagnosi precisa e quindi di una terapia efficace è indispensabile un completo iter diagnostico. Segnalamento e anamnesi: Un cane Labrador maschio di 6 anni è pervenuto alla visita presentando ipostenia e ipotrofia muscolare generalizzate. I sintomi erano insorti in modo subacuto 5 mesi prima. Gli esami eseguiti inizialmente segnalavano una positività alla toxoplasmosi ed un marcato aumento della CK. Il paziente era stato da allora trattato con diverse terapie antibiotiche e cortisoniche con risposte incostanti. I sintomi erano ulteriormente peggiorati da 15-20 giorni. Esame clinico e neurologico: La visita clinica evidenziava uno scadente stato generale, piccole aree alopeciche sul tronco e lesioni nodulari della lingua e un’evidente ipotrofia muscolare. L’esame neurologico evidenziava marcata ipostenia e difficoltà nella prensione dell’alimento, algia alla palpazione dei muscoli. I riflessi miotattici erano lievemente diminuiti mentre il riflesso flessore era evidentemente ipoattivo. Localizzazione della lesione e diagnosi differenziale: I risultati dell’esame neurologico permettevano di localizzare la lesione a livello di sistema nervoso periferico generalizzato. Considerato il quadro biochimico iniziale veniva formulato il sospetto di polimiosite (infettiva, idiopatica, paraneoplastica) ed il paziente veniva ricoverato per ulteriori accertamenti. Iter diagnostico: L’esame biochimico confermava un aumento della CK seppur meno grave rispetto all’esordio della malattia. Si decideva di sottoporre il paziente ad esame elettromiografico ed eventuale biopsia neuromuscolare. L’EMG evidenziava rari potenziali di denervazione diffusi soprattutto ai muscoli appendicolari prossimali e studi di conduzione con potenziali di ampiezza diminuita e velocità di conduzione nei limiti della norma, suggestivi di una miopatia in fase ormai cronica. È stato effettuato uno studio RX del torace che evidenziava un parenchima polmonare con un diffuso pattern misto peribronchiale ed alveolare irregolare a chiazze. Si è infine eseguita la biopsia neuromuscolare sia dei muscoli scheletrici che della lingua che ha confermato in entrambi i campioni il sospetto di polimiosite di natura non infettiva. L’ANA test, e gli esami sierologici per ehrlichia, rickettsia, neospora e toxoplasmosi sono risultati negativi. Terapia e decorso clinico: Raggiunta la diagnosi di polimiosite (idiopatica, paraneoplastica) si è iniziato il trattamento con corticosteroidi che ha provocato però un grave episodio di ematemesi. Il dosaggio degli steroidi è stato quindi diminuito aggiungendo azatioprina. Dopo un apparente miglioramento le condizioni cliniche del cane sono peggiorate (grave ipostenia, disfagia, dilatazioni gastriche ricorrenti) impedendo un approfondimento diagnostico del quadro polmonare e facendo optare i proprietari per l’eutanasia. L’esame istologico eseguito sul polmone ha permesso di attribuire il quadro radiografico ad un carcinoma anaplastico. Risulta alquanto verosimile l’ipotesi dell’origine paraneoplastica della polimiosite descritta.


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AMARTOMA FIBROANNESSIALE (DISPLASIA FOCALE DEGLI ANNESSI) NEL CANE: STUDIO EPIDEMIOLOGICO Francesca Abramo1 DVM, Guido Pisani2 DVM, Davide Lorenzi1, Alessandro Poli1 DVM, Luisa Cornegliani3 DVM, Antonella Vercelli3 DVM 1 Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa 2 Libero professionista, Molicciara (SP) 3 Libero professionista, Torino Introduzione: L’amartoma fibroannessiale (AFA) o displasia focale degli annessi appartiene, assieme all’amartoma epidermico, follicolare, sebaceo ed apocrino, al gruppo degli amartomi cutanei. Clinicamente si manifesta come una lesione nodulare unica o multifocale, con tendenza all’ulcerazione. Istologicamente appare come un nodulo dermico ben delimitato e non capsulato, contenente diverse unità follicolari displasiche come ghiandole sebacee orfane, follicoli distorti e cheratosici, ghiandole apocrine isolate e spessi fasci di collagene alla periferia. La diagnosi viene emessa sulla base dei rilievi è solitamente istologica. Materiali e metodi: Tra gennaio 2000 e marzo 2003 sono state esaminate 21.016 biopsie cutanee pervenute al Registro Tumori della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa e ad un Laboratorio di analisi privato di Torino. In 365 cani, di cui erano noti età, sesso, razza, sede anatomica e dimensioni della lesione, è stato diagnosticato l’amartoma fibroannessiale. La predisposizione di razza allo sviluppo dell’AFA è stata calcolata, mediante il Test del Chi quadrato, comparando il numero di casi di cani con AFA con il numero di soggetti di quella razza che contribuivano alla popolazione del registro. Su 50 casi di AFA selezionati a random sono stati valutati i seguenti parametri istologici: tipo di flogosi, presenza di dilatazioni cistiche, rottura delle unità follicolo-sebacee, ulcerazione cutanea e tipo prevalente di struttura annessiale coinvolta. Risultati: I casi di AFA rappresentano l’1,7% di tutte le biopsie cutanee esaminate. L’età media di presentazione della lesione è di circa 8 anni (con casi segnalati in soggetti di 2 e 16 anni) e il rapporto femmine/maschi è di 1:1,6. Il 68% delle lesioni nodulari era localizzato a livello degli arti, il 6,3% alla testa e la restante percentuale sul tronco. Negli arti il 43% delle lesioni era presente sulle dita e il 17% nella regione carpo/tars. Le razze con predisposizione allo sviluppo di AFA sono risultate il Danese, il Basset Hound, il bracco tedesco e il pastore maremmano. La rottura delle unità follicolo-sebacee era sempre associata ad una reazione dermica flogistica di tipo piogranulomatoso e, nel 50% dei casi, ad ulcerazione della cute sovrastante. Un infiltrato cronico linfoplasmacellulare era invece frequentemente rilevato in prossimità di unità follicolo-sebacee integre. Dilatazioni cistiche a partire da strutture follicolari, sebacee o apocrine sono state osservate nel 60% delle biopsie e solo nella metà dei casi queste erano associate a rottura. Le alterazioni più frequentemente riscontrate nei noduli cutanei sono state la fibrosi dermica e la proliferazione dei lobuli sebacei (99%), la displasia/distorsione della componente follicolare (68%), la proliferazione/dilatazione cistica delle ghiandole apocrine (16%). Discussione: I dati riportati costituiscono la prima indagine epidemiologica sull’amartoma fibroannessiale condotta su una ampia popolazione canina. Le estremità distali degli arti risultano una sede frequente di localizzazione dell’AFA. Poiché nella diagnosi differenziale dell’AFA devono essere prese in considerazione le neoplasie cutanee maligne, l’individuazione di razze predisposte può essere di ausilio nell’emissione della prognosi e nell’approccio chirurgico da seguire.

Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Abramo Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria Viale delle Piagge, 2 - 56100 Pisa Tel. 050-575970 - Fax 050-540644 E-mail: abramo@vet.unipi.it


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VALUTAZIONE MORFOMETRICA DEL PROCESSO DI CICATRIZZAZIONE IN FERITE APERTE NEL CANE Francesca Abramo1 DVM, Roberto Leotta2 DVM, Julien Ropars1 DVM, Chiara Noli3 DVM Dipl ECVD, Silvia Auxilia4 DVM Dipl ECVD, Peter Mantis5 DVM, David Lloyd5 FRCVS 1 Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa 2 Dipartimento di Produzioni Animali, Università di Pisa 3 Libero professionista, Borgo San Dalmazzo (CN) 4 Libero professionista, London (UK) 5 Department of Clinical Sciences, The Royal Veterinary College, University of London (UK) Introduzione: Il processo di rigenerazione epiteliale è un evento fondamentale nella guarigione delle ferite. Una valutazione morfometrica della percentuale di riepitelizzazione può essere considerata un valido metodo di studio della cicatrizzazione. Recentemente l’introduzione di nuovi prodotti che tendono a favorire la cicatrizzazione ha migliorato notevolmente la gestione delle ferite nell’uomo e negli animali. Nonostante questo, sono ancora limitati gli studi sperimentali che documentano l’efficacia o meno in campo medico veterinario di prodotti innovativi. Scopo del lavoro: Monitoraggio della cicatrizzazione di ferite aperte nel cane mediante misurazione morfometrica della riepitelizzazione e valutazione dell’efficacia di una molecola ALIAmidica per uso topico (Adelmidrol, DCI) nel trattamento delle ferite. Materiali e metodi: La sperimentazione, regolarmente approvata dalla Commissione Etica del Royal Veterinary College di Londra e dal UK Home Office, è stata effettuata su 10 cani beagle. Bilateralmente, sulla regione toraco-lombare accuratamente tosata, sono state praticate, in anestesia generale, 6 ferite aperte per ogni lato mediante punch da 5 mm. Sulle ferite di una delle due linee paramediane è stato applicato con frequenza bi-giornaliera un gel contenente Adelmidrol, su quelle della fila controlaterale solo il veicolo. Le ferite di entrambe le linee sono state lasciate guarire per seconda intenzione. Dopo 1, 2, 4, 8 e 14 giorni dall’inizio dell’esperimento, sono state effettuate biopsie con punch da 8 mm, che comprendevano le piaghe in cicatrizzazione. I campioni di cute così prelevati sono stati fissati in formalina e routinariamente processati per esame istologico e valutazione morfometrica. Poiché la formazione di essudato e croste al di sopra delle piaghe non consentiva l’esatta collocazione del punch da 8 mm al di sopra della ferita originale, è stato messo a punto un protocollo di valutazione morfometrica che tenesse conto di eventuali errori di campionamento. La reale estensione della piaga ed il grado di riepitelizzazione, tenuto conto del posizionamento asimmetrico del punch, sono stati calcolati mediante estrapolazione trigonometrica. Il grado di riepitelizzazione è stato misurato come percentuale della lunghezza totale della superficie della piaga ricoperta da nuovo epitelio. I dati ottenuti sono stati sottoposti a trasformazione logaritmica, analizzati statisticamente con disegno split plot e le differenze valutate mediante test di Tukey HSD. Risultati: Segni di riepitelizzazione dai margini della ferita sono stati rilevati solo a partire dal giorno 4. La percentuale di riepitelizzazione a 4 e 14 giorni è stata del 12,1% e 36,7% nei trattati e 7,7% e 31,2% nei controlli. Nonostante le differenze non siano risultate statisticamente significative, l’indagine ha consentito di evidenziare una tendenza ad una miglior riepitelizzazione nei trattati rispetto ai controlli. Discussione: Il nuovo protocollo per lo studio morfometrico della riepitelizzazione su ferite aperte nel cane ha consentito di ovviare a difetti di campionamento delle biopsie dovuti a presenza di essudato e croste. Tale validazione conferisce al metodo impiegato interessanti potenzialità per futuri studi nel campo della cicatrizzazione. Nelle ferite trattate con l’ALIAmide Adelmidrol, la percentuale di riepitelizzazione tende ad essere superiore rispetto ai controlli. Il ruolo dei mastociti nelle fasi cicatriziali - riepitelizzazione compresa - e la capacità mastocita-modulante delle ALIAmidi rappresentano il razionale del trend di efficacia osservato. Tali risultati preliminari incoraggiano nuove indagini sull’efficacia dell’Adelmidrol nel trattamento delle ferite aperte. Si ringrazia Innovet Italia s.r.l per aver sostenuto lo studio.

Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Abramo Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria Viale delle Piagge, 2 - 56100 Pisa Tel. 050-575970 - Fax 050-540644 E-mail: abramo@vet.unipi.it


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INDAGINE SIEROLOGICA SULLA LEISHMANIOSI FELINA IN PROVINCIA DI IMPERIA M. Antonelli1 Med Vet, R. Maltini1 Med Vet, M. Mangiola1 Med Vet, M. Bellando1 Med Vet, W. Mignone2 Med Vet, M. Dellepiane2 Med Vet, M. Fresu2 Med Vet, A. Trisciuoglio3, E. Ferroglio3 Med Vet 1 Libero professionista, Imperia 2 Istituto Zooprofilattico del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, Sez. IM 3 Dipartimento di Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia, Torino Introduzione: La Leishmaniosi è una malattia protozoaria che colpisce diverse specie di mammiferi, anche se, nel bacino del Mediterraneo, il cane rappresenta il suo principale serbatoio. Sebbene casi di Leishmaniosi siano stati segnalati nel gatto sin dal 1911 (Laruelle-Magallon C. 1996), solo recentemente questa specie è stata oggetto di estese indagini epidemiologiche (Michael S.A., 1982). La Leishmaniosi nel gatto si manifesta prevalentemente con sintomi cutanei, peraltro comuni anche ad altre patologie, mentre solo raramente viene riportata una sintomatologia viscerale (Poli A., 2002). La scarsa patognomicità delle lesioni può aver, soprattutto in passato, portato ad una sottostima della diffusione della leishmaniosi nel gatto. Per l’effettuazione della diagnosi ci si avvale soprattutto dell’evidenziazione diretta del parassita grazie alla citologia ed all’istologia; mentre metodiche come l’elettroforesi proteica e l’IFAT sono meno utilizzate rispetto a quanto avviene nel cane. L’impiego dell’IFAT è limitato soprattutto dall’assenza, contrariamente a quanto avviene nel cane, di una standardizzazione del metodo, per cui anche il cut-off è estremamente variabile tra i vari autori (Bez M., 1992). Negli studi epidemiologici finora effettuati si sono utilizzati diversi test sierologici ottenendo risultati di prevalenza che variano dallo 0,6% al 68% (Pennini M.G., 2000). L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di confrontare i risultati ottenuti con l’IFAT alle diluizioni impiegate dall’IZS di Imperia e quelli ottenuti con il Western Blotting (WB), inoltre si è voluta valutare, impiegando quest’ultima metodica, la prevalenza dell’infezione nella popolazione felina in zona endemica (provincia d’Imperia) e indagare la possibilità di una relazione tra l’infezione da FIV e/o FeLV e la Leishmaniosi. Materiali e metodi: I test utilizzati sono stati: l’IFAT alle diluizioni di 1/10, 1/20 e 1/40, e il Western Blotting, una metodica più sensibile e specifica della prima. Per valutare la positività a FIV e FeLV sono stati utilizzati dei test di immunomigrazione. Risultati: Di 194 sieri testati con il WB 5 sono risultati positivi, con una prevalenza del 2,58%, mentre su 151 sieri testati con l’IFAT si sono ottenuti 115 positivi di cui 40 con titolo 1/10, 49 con titolo 1/20 e 26 con titolo 1/40; confrontando i risultati ottenuti con i due test si è visto che non vi è, alle diluizioni impiegate, concordanza tra IFAT e WB. Probabilmente questo è imputabile alle basse diluizioni impiegate che danno risposte aspecifiche. Per quanto riguarda la correlazione tra infezione da FIV e da FeLV e la positività alla Leishmaniosi valutata con il WB, si è visto come non vi sia correlazione per la FIV, mentre vi è stata una buona correlazione tra positività per Leishmania e per FeLV (p=0,07). Conclusioni: Confrontando i risultati ottenuti con IFAT e WB si è vista la mancanza di una correlazione tra i due test imputabile probabilmente alle basse diluizioni impiegate. La sieroprevalenza osservata con il WB (2,58%) si situa tra i valori medi osservati dagli altri autori che hanno condotto analisi simili in altre aree del bacino del Mediterraneo ed è decisamente inferiore a quanto riscontrato nella stessa area nel cane (Poggi M., 2002). Mentre non sembra esservi alcuna correlazione tra sieropositività per Leishmaniosi e per FIV, è stata riscontrata una correlazione tra FeLV e Leishmaniosi.

Indirizzo per la corrispondenza: Centro Veterinario Imperiese, Clinica Veterinaria Via Armelio, 10 - 18100 Imperia Fax 0183-275647 E-mail: massimilia.antonelli@tiscali.it


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STUDIO PRELIMINARE SULL’UTILIZZO DEGLI ACIDI GRASSI ω3 IN PAZIENTI TERMINALI AFFETTI DA CANCRO Michele Barletta Med Vet, Giuliano Pappini Dott in Chimica, Paolo Buracco Prof straordinario Clinica Chirurgica Veterinaria Dipl ECVS Dip. Patologia Animale sez. Clinica Chirurgica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino Introduzione: Negli ultimi anni, in medicina veterinaria, è emerso un grande interesse nei confronti della gestione nutrizionale del paziente oncologico. Diversi studi hanno infatti confermato l’importanza non solo della quantità del cibo somministrato a tali animali, ma anche della sua qualità. La cachessia tumorale è una sindrome paraneoplastica conseguente ad alterazioni metaboliche complesse a carico di carboidrati, proteine e lipidi, con scadimento delle condizioni organiche del paziente nonostante un normale apporto di cibo. Gli acidi grassi ω3 (ac. eicosapentenoico o EPA e docosaesenoico o DHA) sono composti in grado di regolare la motilità e la capacità d’invasione e di adesione delle cellule tumorali, diminuendone l’indice metastatico. Alterano inoltre la composizione dei fosfolipidi di membrana ed entrano in competizione con l’acido arachidonico per la sintesi dei mediatori dell’infiammazione, con produzione di composti a minore attività biologica. Oltre a ridurre il processo infiammatorio spesso associato al tumore, diminuiscono anche l’acidosi lattea conseguente sia alla produzione di citochine infiammatorie sia al metabolismo anaerobio delle cellule neoplastiche. Scopo: Lo scopo di questo studio preliminare è dimostrare l’efficacia di EPA e DHA in pazienti oncologici terminali gravi attraverso l’esame clinico e il monitoraggio ematologico/ematochimico. Il fine ultimo consiste nel formulare un nuovo prodotto composto, principalmente, da EPA e DHA e arricchito con altre sostanze quali ac. linoleico coniugato, zinco e glutamina con comprovata attività antineoplastica. Materiali e metodi: Nel periodo 1/11/02-31/12/03, a 9 pazienti affetti da diversi tipi di tumore, si sono somministrati 0,5-1 g di prodotto/kg/die p.v. contenente 5 mg di ac. α-linolenico, 180 mg di EPA, 40 mg di ac. docosapentenoico, 120 mg di DHA, 15 mg di ac. linoleico e 2 mg di vit. E per grammo. Ogni paziente è stato sottoposto a EOG, EOP (localizzazione e dimensioni della lesione) e biopsia ad ago sottile e/o incisionale per confermare il sospetto diagnostico. Sono stati esclusi dallo studio gli animali trattati con chemioterapici e quelli destinati alla chirurgia. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a esami di laboratorio completi (emocromocitometrico, ematochimico e prove di coagulazione) prima e durante lo studio (ogni mese) per monitorare le loro condizioni cliniche e valutare gli effetti collaterali degli acidi grassi ω3 sopra menzionati nei trattamenti protratti (come ad es. l’aumento dei tempi di coagulazione). Risultati: I tumori rilevati nei pazienti esaminati (range 6-15 anni, media 11,2 e mediana 12) sono stati: 2 adenocarcinomi mammari con metastasi polmonari, 2 melanomi orali, 1 carcinoma mammario infiammatorio, 1 osteosarcoma e 1 carcinoma squamoso del seno frontale, 1 carcinoma indifferenziato sottocutaneo della regione xifoidea e 1 carcinoma squamoso tonsillare con metastasi linfatiche al collo. I risultati ottenuti dal rilevamento di temperatura corporea, peso, stato di nutrizione ed esami di laboratorio non hanno messo in evidenza alcun segno compatibile con cachessia tumorale. L’EOG ha evidenziato un miglioramento delle condizioni cliniche dei pazienti (tranne in un caso) e solo negli ultimi giorni prima dell’eutanasia (un caso è deceduto in modo naturale) la sintomatologia si è aggravata (un caso è stato soppresso per cause non correlate al tumore). La sopravvivenza totale è variata da 13 a 139 giorni (media 66,87 e mediana 57). Conclusioni: Il miglioramento delle condizioni cliniche, la mancanza di segni riferibili a cachessia e di effetti collaterali legati alla somministrazione di ac. grassi ω3 indicano che questi composti possono giocare un ruolo adiuvante nel trattamento dei pazienti oncologici, come già descritto in medicina umana.

Indirizzo per la corrispondenza: Dip. Patologia Animale sez. Clinica Chirurgica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO) Tel. 011/6709157(8); 011/6709058; 340/3913845 Fax 011/6709165; 011/6709057 E-mail: michele.mappano@libero.it


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UN CASO DI XANTOMA IN CAVITÀ ADDOMINALE IN UN CANE Luca Battaglia1 DVM, Valentina Zappulli2 DVM 1 Libero professionista, Cavriago (RE) 2 Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria Università di Padova, Facoltà di Medicina Veterinaria Introduzione: Gli xantomi, nel cane e nel gatto, sono macroscopicamente definiti come piccole placche di colore bianco o giallo, situate, generalmente a livello cutaneo e, in particolare palpebrale, costituite da accumuli di pigmento lipidico nel citoplasma di macrofagi estremamente vacuolizzati. Qui descriviamo un inusuale caso di xantoma di grandi dimensioni, in cavità addominale in un cane. Caso clinico: Un cane Dobermann femmina sterilizzata di anni 9, viene portato alla visita clinica per un problema di incontinenza e dolore addominale. La sintomatologia clinica si era presentata contemporaneamente con decorso acuto. L’appetito era conservato. L’esame obiettivo generale non evidenziava alterazioni particolari, l’addome si presentava palpabile, dolente ed era possibile apprezzare una neoformazione di grandi dimensioni. La diagnostica per immagini (studio radiologico ed ecografico) confermava la presenza di una voluminosa massa addominale di forma sferica che si estendeva posteriormente al fegato e comprimeva la vescica non consentendo il suo corretto riempimento. Le radiografie toraciche non evidenziavano aspetti patologici. Le indagini ematologiche non erano d’aiuto per una migliore definizione diagnostica. Sono stati effettuati numerosi prelievi ecoguidati utilizzando la tecnica di ago infissione ed ago aspirazione per esame citologico. L’esame al microscopio dei diversi preparati ha evidenziato la presenza di “un tappeto” di macrofagi, estremamente vacuolizzati, contenenti materiale otticamente giallo ocra. Si è successivamente proceduto ad una laparotomia esplorativa che ha permesso l’escissione in toto della massa addominale e la completa remissione della sintomatologia. Il successivo esame istologico ha definito la neoformazione come xantoma. Il follow up ad otto mesi è buono, non sono evidenziabili, clinicamente ed ecograficamente, recidive. Discussione: Nel cane e nel gatto sono rarissime le descrizioni di xantomi in sede extracutanea e quasi sempre vengono associate a diabete mellito o a disordini del metabolismo lipidico (ipotiroidismo, dislipoproteinemie). Altre cause eziologiche citate riguardano patologie epatiche, renali, pancreatiche e post-traumatiche. Nel caso sopradescritto mancano i riferimenti anamnestici e sierologici descritti in letteratura. Nello specifico la funzionalità tiroidea, la determinazione del glucosio, colesterolo e dei trigliceridi effettuata pre e post chirurgia non hanno evidenziato particolari anomalie. Non è stata, inoltre, riferita una particolare storia clinica con l’eccezione dell’intervento di ovarioisterectomia effettuato diversi anni addietro. Nel caso specifico la xantomatosi è da definirsi idiopatica. L’aspetto microscopico della lesione è conforme alla descrizione istologica di xantoma (xantomatosi e xantelasma vengono spesso definiti con una certa non chiarezza come sinonimi): si repertano cellule non atipiche ad aspetto istiocitario, con citoplasma estremamente vacuolizzato. I vacuoli, di piccole e medie dimensioni, appaiono otticamente vuoti. Numerosissimi sono i macrofagi nel cui citoplasma sono presenti vacuoli di colore arancione. La terapia degli xantomi localizzati sia in sede cutanea che extracutanea è essenzialmente chirurgica. Nel caso sopradescritto l’escissione completa della neoformazione ha permesso una completa remissione dei sintomi. Il follow-up a 8 mesi non evidenzia recidive.

Indirizzo per la corrispondenza: Luca Battaglia Ambulatorio Veterinario Miller Via della Costituzione 10, 42025 Cavriago (RE) Tel. 0522371044 - Fax 0522576183 E-mail: lbattaglia@clinicamiller.it, luc.battaglia@libero.it


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DERMATITE NECROTIZZANTE CON PANNICOLITE E VASCULITE INDOTTA DA PSEUDOMONAS AERUGINOSA IN UN GATTO Massimo Beccati Med Vet Libero professionista, Capriate S.G. (BG) Introduzione: Contaminazioni microbiche post-operatorie possono essere condotte da batteri nosocomiali capaci di indurre gravi dermo-fasciti necrotizzanti. Il ruolo patogenetico non è sempre del tutto chiaro anche se il sospetto maggiore si fonda su di una possibile vasculite in risposta ad una contaminazione batterica oppure su di un sinergismo patologico tra farmaci somministrati, contaminazioni microbiche, tossine batteriche. Materiali e metodi: Una gatta di otto mesi veniva portata nella nostra struttura per un normale intervento di ovariectomia e dimessa il giorno stesso con la prescrizione di amoxicillina/ac.clavulanico al dosaggio di 20/mg/kg/bid. A distanza di due giorni si ricontrollava il paziente poiché a detta del proprietario la ferita chirurgica aveva assunto una colorazione violacea. Al controllo la ferita si presentava di colore violaceo-nerastro con aspetti necrotici macroscopicamente visibili; inoltre il paziente si presentava ipertermico motivo per il quale si ricoverava la gatta. Nei giorni successivi era possibile assistere all’evoluzione della lesione la quale peggiorava sia per estensione (piatto coscia di entrambi gli arti fino ai garretti) che per profondità (piani profondi di sutura addominale). I sospetti diagnostici erano: reazione al farmaco topico, contaminazione della ferita con conseguente infezione secondaria, reazione ai punti di sutura, eritema multiforme, necrolisi epidermica tossica, vasculite. Venivano eseguiti esami del sangue completi, campionatura citologica con ago fine, coltura batterica, biopsie cutanee e sottocutanee. Gli esami ematici risultavano nella norma compresi test sierologici per FIV e FeLV; dall’esame citologico si era potuto osservare un’imponente quantità di cellule neutrofiliche degenerate (tossiche), alcune in preda a fagocitosi di materiale dalla forma bastoncellare. Le successive colture batteriche davano risultato positivo per Pseudomonas aeruginosa. L’esame dermoistopatologico dava un esito di dermatite-pannicolite necrotizzante per quanto riguarda le biopsie eseguite in prossimità della sutura chirurgica addominale mentre dalle biopsie eseguite nel piatto coscia si evinceva un quadro di vasculite. Il follow up terapeutico continuava con la somministrazione sempre di amoxicillina con aggiunta di metronidazolo a dosaggi di 15 mg/kg/bid E.V., e la pulizia della parte lesa con soluzione fisiologica. Dopo 14 giorni la lesione assumeva un aspetto macroscopico rigenerativo riepitelizzante. A distanza di 30 giorni la cute era tornata nella norma. Discussione e conclusioni: La contaminazione nosocomiale da batteri difficili è un’evenienza possibile in tutti gli ambienti medici, tuttavia la sola presenza in ambito cutaneo di batteri del genere Pseudomonas non mette in luce completamente un quadro patogenetico acuto come descritto sia nel nostro caso che in un lavoro di Rosenkrantz. Il sospetto di una concentrazione batterica nosocomiale ci ha indotto ad eseguire delle colture microbiche prelevando campioni dall’ambiente chirurgico, ottenendo una positività per Pseudomonas a. nelle gabbie di degenza. La sola contaminazione tuttavia, non spiega l’estensione della lesione ed il reperto istologico riferibile a vasculite, come peraltro una possibile drug eruption focale sulla ferita operatoria lascia ampi dubbi. Una possibile ipotesi potrebbe essere cercata in una vasculite indotta da batteri o tossine batteriche venute a contatto della ferita. Bibliografia essenziale Rosenkrantz WS. Pseudomonas aeruginosa necrotizing dermatitis, vasculitis and panniculitis in the cat. In 14th proceedings of AAVD/ACVD meeting, 1998.

Indirizzo per la corrispondenza: Tel. 02-90962787 - 388-3563468 E-mail: ADDAVET@TISCALINET.IT


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TC SPIRALE MULTISTRATO: CONSIDERAZIONI TECNICHE D’ACQUISIZIONE E RICOSTRUZIONE DELL’IMMAGINE, PROTOCOLLI E PRIME APPLICAZIONI CLINICO-CHIRURGICHE IN VETERINARIA Giovanna Bertolini Med Vet, Gianluca Ledda Med Vet, Clara Tullio Med Vet Clinica Veterinaria Privata San Marco L’elevato dettaglio dell’immagine e la rapidità della scansione, sono caratteristiche peculiari della tc multistrato, che rendono questa nuova metodica di diagnostica per immagini, particolarmente adatta alle diverse applicazioni clinico-chirurgiche in medicina dei piccoli animali. La tomografia è stata introdotta negli anni settanta in medicina umana e da allora ha subito continue modificazioni tecnologiche, tutte volte ad avere immagini di sempre più alta qualità nel minor tempo possibile e con il minor danno biologico per il paziente. Solo nel primo decennio si è assistito alla nascita di quattro diverse generazioni di macchine, ma è con l’avvento della TC spirale, alla fine degli anni ’80, che si è avuta una vera e propria rivoluzione nella modalità di acquisizione delle immagini; da allora sono state prodotte macchine sempre più rapide, in grado di ottenere immagini di elevata qualità, di grandi volumi corporei, in tempi sempre più brevi. Questo, in aggiunta alla straordinaria flessibilità degli algoritmi di ricostruzione bi e tridimensionale, fanno della TC spirale multistrato, una tecnologia insostituibile in molte procedure diagnostiche. In medicina veterinaria, l’introduzione della TC nella clinica è evento relativamente recente; le esperienze con TC multislice sono piuttosto limitate e non sono mai state descritte esperienze cliniche con una TC 16 strati. Tutte le applicazioni che vengono presentate sono state ottenute con GE Lighspeed 16 e rielaborate con la Workstation GE ADW 4.1. Presentiamo qui i primi mesi d’esperienza clinica con protocolli d’acquisizione mirati a particolari distretti, come le acquisizioni dinamiche per lo studio separato tra fase arteriosa e venosa dell’addome (fegato, pancreas etc.) o dell’encefalo (perfusione cerebrale), l’MPR (2D Multi-planar reformat) e l’MPVR (Multi-planar Volume Reconstruction) nello studio delle patologie dei seni paranasali e delle ossa della base del cranio e nella pianificazione delle riduzioni chirurgiche di fratture. Di particolare interesse si sono rivelati il MIP (Maximum Intesity Projection) con applicazione allo studio angiografico post-contrasto e le tecniche VR (Volume Rendering) tridimensionali, per la ricostruzione fedele dei volumi, indispensabili nella patologia ortopedica e traumatologica. Infine, vengono presentati casi di navigazione virtuale endoluminale, in diversi distretti corporei: colon, esofago, albero tracheo-bronchiale (con correlazioni all’endoscopia tradizionale), ma anche comparto vascolare (endoaortica, endocavale) o canale spinale, quest’ultima con altissima sensibilità nei confronti delle patologie discali, anche senza somministrazione di mezzo di contrasto. Le potenzialità di tale tecnologia sono davvero numerose, ma sono state qui prese in considerazione solo quelle che, grazie ad algoritmi di acquisizione e ricostruzione peculiari di questa macchina, permettono un concreto ausilio diagnostico in patologie di difficile identificazione nonché l’esplorazione di campi medici ancora poco conosciuti in medicina veterinaria.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049/8561098 - Fax 02700518888 E-mail: bertolini@sanmarcovet.it


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I TUMORI GASTROINTESTINALI STROMALI (GIST) NEL CANE E NEL GATTO Giuliano Bettini Med Vet Prof Ass, Maria Morini Med Vet Servizio di Anatomia Patologica, Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bologna Introduzione: I tumori gastrointestinali stromali (GIST) sono attualmente considerati dalla patologia umana le più comuni neoplasie mesenchimali del tratto gastrointestinale (GI). Si tratta di neoplasie derivate dalla trasformazione neoplastica delle cellule interstiziali di Cajal (ICC), cellule “pacemaker” che generano lente e ritmiche contrazioni ondulatorie nella muscolatura gastrointestinale4, e che possono manifestarsi come piccole neoformazioni nodulari intramurali o sottosierose a decorso benigno, oppure come voluminose masse coinvolgenti tutto lo spessore della parete ed a comportamento maligno7. La diagnosi di GIST può essere difficile alla sola osservazione istologica, data l’ampia sovrapposizione morfologica con altre neoplasie mesenchimali (leiomioma, leiomiosarcoma, fibrosarcoma), e la conferma diagnostica definitiva può essere fornita solamente da una reazione immunoistochimica positiva alla presenza della proteina KIT (CD117)7,8. In patologia animale, recenti studi hanno dimostrato che anche nel cane una parte dei tumori mesenchimali GI, generalmente classificati come tumori derivati dal muscolo liscio, esprimono il CD117 ed hanno morfologia tale da suggerire una loro riclassificazione in GIST1,2,5. Scopo di questo lavoro è segnalare alcuni GIST nel cane e nel gatto, e di descriverne le caratteristiche istologiche ed immunoistochimiche. Materiali e metodi: Preparati istologici di routine di neoplasie GI asportate chirurgicamente sono stati suddivisi in neoplasie epiteliali, mesenchimali ed a cellule rotonde. Dalle neoplasie mesenchimali così selezionate sono state allestite ulteriori sezioni, su cui sono state effettuate colorazioni immunoistochimiche (CD117, vimentina, desmina, actina, S-100). Risultati: Sono state raccolte 105 neoplasie GI di cane (48% epiteliali, 35% a cellule rotonde, 17% mesenchimali) e 95 nel gatto (55% a cellule rotonde, 40% epiteliali, 5% mesenchimali). Nel cane 5 casi (intestino) sono risultati coerenti con la diagnosi di GIST ed uno nel gatto (stomaco). Il quadro istologico era caratterizzato dalla prevalenza di cellule fusiformi, fittamente stipate e disposte in fasci ad andamento irregolare alternati ad aree in cui le cellule erano invece di forma poligonale con discreto pleomorfismo nucleare. Le prove immunoistochimiche hanno evidenziato in tutti i casi positività citoplasmatica al CD117 ed alla vimentina ed una positività debole ed incostante all’actina. Discussione e conclusioni: In patologia umana i GIST sono definiti come neoplasie mesenchimali GI composte da cellule fusiformi, epitelioidi o pleomorfe, positive al marcatore immunoistochimico CD1177. Il CD117 è una proteina recettoriale di membrana codificata dal proto-oncogene c-kit facente parte della famiglia delle tirosina chinasi, in grado di attivare la proliferazione cellulare ed implicata nell’indirizzare cellule mesenchimali totipotenti verso una differenziazione in ICC mature, che secondo l’ipotesi considerata più attendibile sono le cellule dalla cui trasformazione neoplastica derivano i GIST7,8. In patologia veterinaria l’acronimo GIST, già usato impropriamente nel cane per indicare i tumori mesenchimali in genere6, solo recentemente è stato utilizzato nella sua accezione corretta1,2,5. Sulla base dei nostri studi i GIST si propongono pertanto, fra le neoplasie GI del cane e del gatto, come categoria diagnostica indipendente, per la cui diagnosi risulta indispensabile la positività immunoistochimica al CD117. Anche nel cane, come nell’uomo, è stata inoltre osservata un’analoga mutazione genomica3, che apre interessanti prospettive sul possibile utilizzo in medicina veterinaria di un farmaco inibitore delle tirosina-chinasi (imatinib mesylato), che in oncologia umana ha dimostrato ottimi risultati nel bloccare la crescita tumorale. Bibliografia 1. Bettini G, Morini M and Marcato PS (2003). Gastrointestinal spindle cell tumours of the dog: histologic and immunohistochemical study. Journal of Comparative Pathology, 129: 283-293. 2. Frost D, Lasota J and Miettinen M (2003). Gastrointestinal stromal tumors and leiomyomas in the dog: a histopathologic, immunohistochemical, and molecular genetic study of 50 cases. Veterinary Pathology, 40: 42-54. 3. Hirota S, Isozaki K, Moriyama Y, Hashimoto K, Nishida T et al. (1998). Gain-of-function mutation of c-kit in human gastrointestinal stromal tumors. Science, 279: 577-580. 4. Komuro T (1999). Comparative morphology of interstitial cells of Cajal: ultrastructural characterisation. Microscopy Research and Technique, 47: 267-285. 5. Kumagai K, Uchida K, Miyamoto T, Ushigusa T, Shinohara S et al. (2003). Three cases of canine gastrointestinal stromal tumors with multiple differentiations and c-kit-Expression. Journal of Veterinary Medical Science, 65: 1119-1122. 6. LaRock RG and Ginn PE (1997). Immunohistochemical staining characteristics of canine gastrointestinal stromal tumors. Veterinary Pathology, 34: 303311. 7. Miettinen M and Lasota J (2001). Gastrointestinal stromal tumors - clinical, histological, immunohistochemical and molecular genetic features and differential diagnosis. Virchows Archives, 438: 1-12. 8. Sandberg AA and Bridge JA (2002). Updates on the cytogenetics and molecular genetics of bone and soft tissue tumors: gastrointestinal stromal tumors. Cancer Genetics and Cytogenetics, 135: 1-22.

Indirizzo per la corrispondenza: Giuliano Bettini Servizio di Anatomia Patologica, Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale Via Tolara di Sopra 50, 40064, Ozzano Emilia, Bologna Tel. +39 051 2097969; Fax +39 051 2097967 E-mail: bettini@vet.unibo.it


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DUE CASI DI LINFOMA IN DUE FURETTI Pierfrancesco Bo Med Vet Libero professionista, Bologna Scopo del lavoro: Descrivere due casi di linfoma in due furetti. Il primo caso si riferisce ad un linfoma multicentrico, il secondo ad un linfoma intestinale. Descrizione dei casi e metodi impiegati: 1° caso: si tratta di un furetto albino di 2 anni maschio sterilizzato e deghiandolato, di nome “Artù”. L’anamnesi segnala dolorabilità addominale e vomito ricorrente concomitante ad episodi di letargia. La palpazione addominale evidenzia una masserella di circa 2 cm localizzata a metà dell’addome. L’animale si presenta disidratato e letargico. Vengono quindi eseguite ecoaddome, laparatomia esplorativa, esame anatomopatologico ed istologico. 2° caso: riguarda un furetto “Marshall” di nome “Birba”. Il soggetto, di 4 mesi, si presenta fortemente abbattuto, ipotermico (t° 36,9) con aumento della frequenza respiratoria, PO2 95, disidratato. L’anamnesi segnala letargia progressiva da alcuni giorni ed anoressia con assenza di defecazione dal giorno prima. La palpazione addominale evidenzia una lunga massa addominale di consistenza pastosa. Vengono eseguite radiografie, esame istologico ed anatomopatologico. Risultati ottenuti: 1° caso: l’ecoaddome segnala sovradistensione gastrica con pattern alimentare ed il linfonodo digiunale aumentato di volume con parenchima ipoecogeno. Viene quindi eseguita una laparatomia esplorativa, che evidenzia il linfonodo mesenterico di circa 2 cm di diametro ed una milza congesta con aderenze alla grande curvatura dello stomaco. Si procede ad asportazione del linfonodo, ma dopo alcuni giorni il soggetto muore. L’esame anatomopatologico non segnala altri linfonodi reattivi ed il risultato dell’istologico è di un linfonodo a struttura completamente sovvertita da una distesa di cellule linfocitarie maligne di grossa taglia con voluminoso nucleolo. 2° caso: l’esame radiografico evidenzia una zona radiopaca occupante la quasi totalità del torace. L’esame anatomopatologico, effettuato presso l’istituto zooprofilattico di Bologna, mostra una lesione di tipo neoplastico diffusa a tutto il polmone destro che si presentava aumentato di volume e consistenza con struttura profondamente alterata, milza di consistenza aumentata con piccoli emangiomi sulla superficie, fegato steatosico, reni pallidi, ovaie con follicoli emorragici. L’esito dell’istologico eseguito presso l’istituto zooprofilattico di Milano, colorato con ematossina eosina, è di un tumore a cellule rotonde che coinvolge milza, fegato, stomaco e polmone compatibile con linfoma linfocitico-linfoblastico. Conclusioni: I linfomi costituiscono la forma neoplastica più frequente del sistema emopoietico dei furetti con un’alta incidenza in quelli di genia americana. Gli animali di 5 anni, seguiti da quelli di 3 e da quelli di età inferiore ad 1 anno, sono statisticamente più colpiti da questa patologia che, secondo alcuni autori, riconosce una causa virale. Nei giovani è più frequente il linfoma mediastinico, di solito senza linfoadenopatia periferica, mentre, nei più anziani, i quadri sono variabili e spesso vi è linfoadenopatia generalizzata. Alcuni autori parlano anche di una forma iperacuta con stato febbrile e morte in 24-48 h. Esistono vari protocolli chemioterapici associati o meno a radioterapia ed all’uso della chirurgia, ma i successi sono altamente variabili.

Indirizzo per la corrispondenza: Pierfrancesco Bo Via Marino Dalmonte 7 - 40134 Bologna Tel. 051 6153393 E-mail: fraecol@ libero.it


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PERITONITE INFETTIVA FELINA: VALUTAZIONI CLINICO-PATOLOGICHE E DIAGNOSTICHE SU ALCUNI CASI CLINICI ATIPICI Stefano Bo1 Med Vet, Saverio Paltrinieri2 1 Libero professionista, Torino 2 Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica, Università di Milano Premessa: La Peritonite Infettiva Felina (FIP o PIF) è una malattia immuno-mediata del gatto, ad esito fatale nella maggior parte dei casi clinicamente manifesti, espressione di una serie di infezioni sostenute da virus denominati coronavirus felini (FCoV) Clinicamente un gatto che sviluppa la FIP può presentare iniziale depressione del sensorio, letargia, anoressia. In seguito spesso sviluppa una febbre modicamente elevata e che non risponde alla terapia antibiotica e gradualmente dimagrisce. Se si sviluppa la forma essudativa della FIP, il paziente presenta un addome ingrossato e, spesso, problemi respiratori dovuti all’accumulo di liquidi in addome che spingono sul diaframma o anche per la presenza di liquidi direttamente in torace. La forma secca ha manifestazioni più vaghe, e può presentarsi con segni diversi (convulsioni, vomito, depressione, uveite) in funzione dell’organo prevalentemente colpito o anche solo con letargia e perdita di peso. In entrambe le forme, alle manifestazioni cliniche correlate alle lesioni d’organo si associano alcune alterazioni clinico-patologiche che possono risultare discriminanti per la conferma diagnostica della FIP: anemia non rigenerativa, leucocitosi con linfopenia e neutrofilia, iperproteinemia (con iper-γ-globulinemia e/o aumento anche delle α2-globuline). Altri aspetti diagnostici importanti sono l’aumento della α1-glicoproteina acida, il riscontro di flogosi piogranulomatosa in citologici prelevati da eventuali masse addominali e, nelle forme effusive, l’analisi dei versamenti che presentano un quadro citologico di flogosi cronica mista, proteine elevate e ricche di gamma-globuline e che possono essere utilizzati per ricercare immmunocitologicamente il FCoV. La sierologia e le tecniche molecolari (PCR e sue modificazioni), importantissime nel controllo della diffusione della malatia negli allevamenti, non hanno invece alcun valore diagnostico. Il gold standard per la diagnosi rimane l’esame istopatologico di biopsie tissutali. In caso di FIP vi sono all’esame microscopico delle alterazioni caratteristiche osservabili da un patologo. L’orientamento perivascolare dei piogranulomi è il quadro principalmente utilizzato. Scopo del lavoro: Scopo del lavoro è stato di ottenere dati su casi di FIP in cui ad un esame retrospettivo le manifestazioni cliniche, la localizzazione delle lesioni e/o gli esami eseguiti erano atipici. Materiali e metodi: Sono stati raccolti 20 casi di cui è stato possibile valutare le manifestazioni cliniche, la localizzazione delle lesioni, gli esami di laboratorio e l’esame istologico. La diagnosi di peritonite infettiva felina è stata basata sui risultati degli esami istologici. La conferma della presenza dei FCoV nei campioni bioptici od autoptici esaminati è stata effettuata tramite immunoistochimica su sezioni di tessuto fissate con formalina al 10% e dello spessore di 5 µ deparaffinate. Dopo blocco delle perossidasi endogene su tali sezioni venivano applicati l’anticorpo primario anti-FCoV (gentilmente fornito dal Prof. N.C. Pedersen, Università di Davis), l’anticorpo biotinilato ed il complesso avidina-biotina perossidasi. Dopo aggiunta del cromogeno (diaminobenzidina o carbazolo) le sezioni venivano controcolorate con ematossilina. Risultati: Dei 20 casi esaminati, 6 presentavano lesioni intestinali di tipo proliferativo con quadri misti di ispessimento della parete, necrosi e similocclusioni. 3 presentavano segni neurologici compatibili con encefalomielite, ma ad andamento cronico, con durata che in un caso ha raggiunto anche l’anno; 3 con patologie pleuriche atipiche e 2 con alterazioni a carico dei reni, 1 con sola pericardite, 1 con epatopatia ed uno con splenomegalia. Nei due casi in cui era presente versamento pleurico, questo era monolaterale e con caratteristiche chimico-fisiche non suggestive di FIP. Due dei casi con versamento si sono risolti per tempi lunghi prima di esitare in forme letali di FIP. Tutti i 6 casi con enterite presentavano una massa intramurale solitaria con interessamento di tratti di intestino variabile tra i 3 ed 12 cm. Tra questi soggetti non c’era prevalenza di sesso e l’età era compresa tra 1 e 3 anni. Tranne che in un caso le alterazioni clinicopatologiche (esami ematochimici, elettroforesi delle sieroproteine e dell’eventuale versamento, esami citologici) non sono risultate del tutto suggestive della patologia in atto che è stata confermata solo in corso di esame istologico e mediante immunoistochimica. Conclusioni: Nonostante nella gran parte dei casi di FIP i sintomi e le alterazioni clinico-patologiche siano nell’insieme diagnostiche come in tutte le forme patologiche è possibile incontrare casi atipici come quelli qui descritti. In questi casi si conferma l’importanza di identificare il virus mediante tecniche immunoistochimiche. Tra le forme atipiche è importante segnalare l’aumento delle forme primariamente intestinali spesso confuse con tumori o con quadri di enterite intramurale necrotizzante.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Stefano Bo Via Provana 3 - 10123 Torino Professore a contratto in Clinica delle malattie infettive Facoltà di Medicina Veterinaria Torino E-mail: stefano.elleviti@libero.it


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CAPSULORRAFIA TERMICA COME OPZIONE TERAPEUTICA NELL’INSTABILITÀ DI SPALLA Filippo Maria Martini1 Med Vet, Silvia Boiocchi2 Med Vet Dipartimento di Salute Animale, Sezione di Clinica Chirurgica e Medicina d’urgenza, Università degli Studi di Parma; 2 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria, Università degli Studi di Milano

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Introduzione: Nell’ultimo decennio in Medicina Umana sono state proposte nuove tecniche per il trattamento dell’instabilità di spalla e tra queste vi è la capsulorrafia termica a radiofrequenza. Il meccanismo che consente di ottenere l’irrobustimento della capsula articolare è da ricercarsi nella denaturazione delle fibre collagene della capsula stessa, che si verifica a temperature comprese tra i 65 ed i 75° C. Gli iniziali effetti negativi dell’energia termica, come la perdita delle proprietà meccaniche e la necrosi cellulare, sono seguiti da una rapida rigenerazione che perdura per 12-14 settimane, fino a che la zona trattata è completamente sostituita da nuove cellule. Si ottiene così un graduale miglioramento delle proprietà meccaniche dei tessuti trattati, che entro le 12 settimane raggiungono la normalità. L’utilizzo della capsulorrafia termica in Medicina Umana è riservato alle instabilità di spalla mono o multidirezionali e come adiuvante alle tecniche protesiche tradizionali. Materiali e metodi: Da novembre 2001 a dicembre 2002 abbiamo osservato 10 cani con zoppie anteriori monolaterali. Dopo accurato esame ortopedico, abbiamo effettuato indagini radiografiche, dirette e con contrasto ed un esame artroscopico. Tutti i soggetti sono stati trattati mediante capsulorrafia termica utilizzando apparecchiature bipolari (VAPR Mitek) in 7 cani e monopolari (VULCAN Smith & Nephew) nei rimanenti 3. La capsulorrafia termica è stata associata alla tenotomia del bicipite in 3 casi. La terapia post-operatoria ha previsto un bendaggio di Velpeau modificato per 3 settimane, la riduzione dell’attività fisica ed il trattamento con FANS. Risultati: I 10 cani appartenevano tutti a razze diverse (Pointer, Segugio italiano, Boxer, Bulldog, Labrador, Pastore tedesco, Drahthar, Kurzhaar, Setter inglese, Breton) età media 2.7 anni e peso medio di 22,4 kg. Maschi e femmine erano equamente rappresentati. 7 cani presentavano zoppia cronica, 3 zoppia acuta di grado variabile dal I al III. Alla visita clinica in 8 soggetti abbiamo evidenziato algia all’iperestensione della spalla e test del bicipite positivo. In anestesia generale abbiamo diagnosticato 5 instabilità mediali, 4 bidirezionali di II e III grado e 1 multidirezionale di IV grado. Dall’esame radiografico abbiamo osservato artrosi in 5 cani e frattura da avulsione del tubercolo sovraglenoideo in un caso. L’esame artroscopico ha evidenziato la rottura parziale del legamento gleno-omerale mediale in 6 casi e lassità dello stesso legamento con ballooning capsulare in 2, un’avulsione parziale del legamento gleno-omerale laterale, una rottura parziale del tendine di inserzione del muscolo sottoscapolare e 2 casi di rottura parziale del tendine del bicipite. In 9 dei 10 cani da noi trattati abbiamo ottenuto la risoluzione dei segni clinici e la scomparsa dell’algia alla manipolazione dell’articolazione, in media 50 giorni dopo il trattamento, con follow-up medio di 5,5 mesi. Discussione: La mini-invasività, la sicurezza e la possibilità di ricorrere comunque a tecniche chirurgiche tradizionali in caso di fallimento rendono la capsulorrafia termica un’ottima opzione terapeutica in casi di instabilità di spalla di II e III grado. La reale efficacia nelle instabilità di IV grado è da valutarsi con ulteriori indagini; il nostro singolo caso apre interessanti prospettive. Un più lungo follow up, una più ampia casistica ed un controllo della effettiva stabilità dell’articolazione in anestesia generale (valutata in un solo soggetto nel nostro studio) sono imprescindibili per una completa valutazione della tecnica proposta.

Indirizzo per la corrispondenza: Silvia Boiocchi Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano Via Ponzio 7, 20133 Milano E-mail: silvia.boiocchi@libero.it


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RILIEVI ISTOPATOLOGICI IN 66 CASI DI GENGIVOSTOMATITE CRONICA DEL GATTO (FCGS) D. Bonello°, C. Capelletto*, M. Castagnaro*, B. Peirone° ° Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Torino, Italia * Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Padova, Italia Introduzione: La gengivostomatite cronica (FCGS) è una delle patologie del cavo orale del gatto di più frequente riscontro, il cui meccanismo patogenetico è tuttora poco conosciuto. Lo scopo di questo studio è di descrivere i rilievi istopatologici tipici della FCGS del gatto, sia della mucosa del cavo orale, sia, quando presenti, dell’osso alveolare mascellare e/o mandibolare. Materiali e metodi: Il materiale utilizzato per questo studio, è rappresentato da 195 prelievi bioptici eseguiti a livello delle lesioni più significative localizzate nella cavità orale di un ugual numero di gatti ammalati, di età, razza, e sesso diversi. Risultati e discussione: Dei 195 gatti affetti da patologia orale presi in esame, la diagnosi di FCGS è stata fatta in 66 gatti, che sono stati inclusi nello studio. Nessuno dei gatti era FIV o FeLV positivo. L’età dei soggetti varia da 6 mesi a 15 anni. L’età media, pari a 7,5 anni, conferma il dato ottenuto dalla ricerca bibliografica. Non c’è invece alcuna predisposizione verso la malattia legata al sesso o alla razza dell’animale. In tutti i campioni osservati era presente il classico, diffuso, intenso infiltrato (LPI). Le plasmacellule frequentemente esibivano corpi di Russell nel loro citoplasma. In alcuni casi LPI era l’unica risposta infiammatoria presente. Tuttavia, in presenza di lesioni ulcerative, in associazione a LPI si reperivano anche un infiltrato neutrofilico da focale a diffuso, esocitosi ed una marcata spongiosi epiteliale. In molti campioni sono stati anche osservati numerosi eosinofili sparsi e mastociti in grande numero. La presenza o assenza dei granulociti eosinofili e dei mastociti a livello delle sezioni istologiche rappresentative di FCGS è stata presa in considerazione per valutare il significato diagnostico di queste cellule infiammatorie. Si è inoltre cercata un’eventuale correlazione tra la loro presenza e la FCGS, rispetto alle altre infiammazioni orali. Dai risultati ottenuti è scaturito che non esiste alcun rapporto statisticamente significativo tra il rilevamento di granulociti eosinofili e dei mastociti e la FCGS del gatto. In letteratura non sono stati trovati lavori di alcun tipo riguardanti la presenza di questi elementi cellulari a livello istologico; tuttavia viene spesso ribadita l’importanza patogenetica della risposta infiammatoria ed immunitaria nella progressione della malattia. I rilievi istopatologici descritti indicano comunque che la FCGS è sempre associata ad una intensa, persistente stimolazione immunitaria. In associazione, è frequente osservare ulcerazione dei tessuti con conseguente infiltrazione diffusa di neutrofili (lesione cronica attiva). La frequente presenza di eosinofili suggerisce invece la concomitanza di un fenomeno di ipersensibilità o di una reazione iperergica. L’interessamento dell’osso alveolare, caratterizzato da un infiltrato infiammatorio misto e da alterazioni litiche della struttura ossea, era presente nel 22% dei casi. Con il presente studio si è voluta ricercare una correlazione tra l’interessamento osseo e la FCGS, sia come elemento diagnostico, sia per poter formulare una prognosi di malattia, avvalendosi dell’esame istopatologico delle biopsie eseguite nel sito d’infiammazione e comprensive di porzioni di osso alveolare. In seguito all’elaborazione statistica dei risultati ottenuti con questo studio, è stata trovata una connessione significativa tra la presenza di interessamento osseo e la FCGS, rispetto alle altre forme infiammatorie della cavità orale, in cui tale reperto è stato osservato con un’incidenza assai inferiore. Infatti l’interessamento osseo appare distribuito in misura statisticamente significativa (χ2 = 5,8; P = 0.02) nella FCGS, a differenza delle altre patologie prese in considerazione. Per tutti i dati rilevati nel corso di questo studio, sarà necessario approfondire il valore prognostico, al fine di poterli utilizzare nel corso dell’impostazione del piano di trattamento delle diverse forme patologiche.

Indirizzo per la corrispondenza: Dea Bonello Centro Veterinario Torinese Lungo Dora Colletta 147 - Torino


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TECNICA COMPLEMENTARE PER LA RIDUZIONE A CIELO CHIUSO DELLA LUSSAZIONE COXOFEMORALE MEDIANTE L’APPLICAZIONE DI FISSATORI ESTERNI Leandro Borino Med Vet Libero professionista, Bari Scopo del lavoro: Portare a conoscenza i colleghi di una possibile strada alternativa alla Chirurgia a cielo aperto in caso di lussazione su base non patologica laddove la sola tecnica della riduzione incruenta si riveli inefficace verificandosi la recidiva della lussazione stessa. Questo primo tentativo personale è stato dettato dal desiderio di salvaguardare al massimo le possibilità di future performance di un soggetto di dodici mesi investito da un’auto nel suo primo giorno di caccia e per due volte inutilmente sottoposto alla immobilizzazione attraverso bendaggio. Materiali e metodi: Viene utilizzata la Scopia intensificata per il posizionamento di quattro chiodi di Kirschner, due nell’osso coxale, due nel femore, i quali, una volta ridotta la lussazione femorale, vengono opportunamente ripiegati e uniti tra loro attraverso resina autopolimerizzante. Completata la fissazione esterna tra coxale e femore viene effettuato il bendaggio semirigido con l’arto in flessione. Risultati: Il soggetto al suo risveglio non mostra particolari problemi e dopo circa 120 minuti inizia a deambulare su tre zampe. Nei giorni successivi oltre alla consueta terapia post chirurgica viene sottoposto a osservazione clinica e radioscopica. In tale periodo non viene mostrata alcuna anomalia nella curva termica e buone permangono le grandi funzioni organiche. La rimozione dei chiodi e della fasciatura di bendaggio semirigido viene effettuata al ventunesimo giorno come da prassi. Il soggetto viene quindi affidato al proprietario per la riabilitazione. Al ventiquattresimo giorno il soggetto accenna l’appoggio dell’arto che via via migliora costantemente per giungere a deambulazione normale in quarantaduesima giornata. Conclusioni: Questa prima osservazione può essere un suggerimento al problema lussazione coxo-femorale su base non patologica, soprattutto nei soggetti giovani ove la completa restituito ad integrum della fisiologia del movimento sia auspicabile per il tipo di attività (cani da lavoro etc). Una simile tecnica risulta più semplice e meno invasiva di quella a cielo aperto per il minor insulto sia per i tessuti muscolari sia soprattutto per quelli articolari tutti, molli e duri. Indispensabile la tempestività ma anche la “complementarietà” di una simile tecnica al bendaggio semirigido per ovvi motivi di sicurezza e di gestione per l’animale dei carichi di peso.

Indirizzo per la corrispondenza: Viale La bianca n 35 - 70010 Adelfia (BA) Tel. 080 4595441 - Fax 080 4595441


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ROTAZIONE METATARSALE ASSOCIATA A MALFORMAZIONE DELL’OSSO CENTRALE DEL TARSO: STUDIO RADIOGRAFICO RETROSPETTIVO SU 29 CANI Massimo Petazzoni1 Med Vet, Carlo Maria Mortellaro2 Med Vet, Francesca Briotti1 Med Vet Alessandro Piras3 Med Vet, Bruno Peirone4 Med Vet 1 Libero professionista, Milano 2 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, sezione di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano 3 Libero Professionista, Newry-GB 4 Dipartimento di Patologia Animale Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Torino Introduzione: La rotazione metatarsale (RM), segnalata solo sporadicamente in letteratura, rappresenta una condizione ortopedica di non infrequente riscontro in cani di taglia grossa e gigante sia in accrescimento sia adulti appartenenti a numerose razze. Consiste in una malformazione scheletrica caratterizzata da alterazioni morfologico-strutturali che interessano la seconda linea delle ossa tarsiche con conseguente rotazione esterna dei metatarsi (fino a 90°). La maggior parte dei soggetti affetti presenta una malformazione dell’osso centrale del tarso associata o meno alla presenza del primo dito. Scopo del lavoro: Studio retrospettivo di 29 casi clinici di RM allo scopo di classificare radiograficamente la malformazione. Materiali e metodi: È stata eseguita una valutazione retrospettiva delle cartelle cliniche di 29 pazienti affetti da RM da settembre 2000 ad settembre 2003. Tutti i pazienti venivano riferiti alla visita clinica per diagnosi preventiva o definitiva di displasia (anca, gomito), zoppia anteriore e/o posteriore o per anomalie di deambulazione. In tutti i soggetti veniva emessa una diagnosi presuntiva di RM sulla scorta dei segni clinici quali anomalie posturali o della deambulazione e soprattutto a seguito della palpazione profonda del tarso. Il sospetto diagnostico veniva costantemente confermato da uno studio radiografico di entrambi i garretti comprendente almeno la proiezione sagittale. Risultati: Ventuno Bovari del Bernese, uno Spinone italiano, un Dogue de Bordeaux, un Rottweiler, un San Bernardo, un Alano, un Barbone nano, un Beauceron e un incrocio sono stati inclusi nel presente studio. Ventiquattro soggetti su 29 (82%) venivano sottoposti ad accertamenti diagnostici interessanti segmenti ossei o articolari diversi dal tarso: lesioni traumatiche, rx ufficiali di diagnosi precoce o definitiva di displasia. Cinque cani, su 29 (18%) venivano sottoposti a visita per malallineamento del treno posteriore secondario a RM. I maschi rappresentavano il 58% del totale (17/29); l’età media era di 33 mesi (2 - 132). Ventotto soggetti su 29 sono stati radiografati bilateralmente e di questi, 27 risultavano affetti bilateralmente (96%). 13 su 28 (46%) erano colpiti in modo simmetrico (stesse alterazioni ad entrambi i garretti). Le alterazioni riscontrate risultavano essere numerose: differenti gradi di torsione esterna del tarso con conseguente rotazione esterna dei metatarsi, presenza di malformazioni di varia entità a carico dell’osso centrale del tarso (OCT) che poteva risultare o meno accompagnato medialmente dalla presenza di uno o due nuclei di ossificazione accessori, uno medio-prossimale (NAP) ed uno medio-distale (NAD). I due nuclei potevano risultare associati all’osso centrale del tarso nei seguenti modi: OCT + NAP + NAD; OCT + NAP; OCT + NAD; solo OCT. A loro volta queste tre strutture potevano risultare, nel cane adulto, fuse fra di loro (OCT+NAD+NAP) a disegnare una T ruotata di 90° con il lato breve della T rivolto medialmente o potevano essere fuse OCT+NAP o OCT+NAD a formare una L con angolo retto aperto distalmente o prossimalmente. Inoltre in 26 casi su 29 (89%) veniva riscontrata la presenza del primo dito. Conclusioni: Numerose razze possono essere affette dalla rotazione metatarsale. La razza maggiormente colpita pare essere il Bovaro del Bernese anche se questo dato può essere fortemente influenzato dalla casistica della clinica in cui è stato eseguito lo studio. La visita ortopedica consente di emettere un sospetto diagnostico che può essere confermato radiograficamente con la sola proiezione sagittale del garretto. Numerosissime risultano le anomalie a carico di forma, dimensioni, posizione e numero delle strutture anatomiche che accompagnano la rotazione metatarsale.


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UN CASO DI OSTEOPATIA CRANIOMANDIBOLARE IN UN CUCCIOLO DI WEST HIGHLAND WHITE TERRIER Franco Brusa1 Med Vet, Paolo Squarzoni2 Med Vet 1 Libero professionista, Massa Lombarda (RA) 2 Libero professionista, Molinella (BO) Materiali: Un cucciolo di cane razza West Highland White Terrier, maschio, dell’età di circa 100 giorni, veniva portato alla visita odontoiatrica per un fortissimo dolore all’apertura della bocca e alla prensione del cibo, associato a notevole difficoltà alla masticazione e conseguente anoressia. L’animale veniva visitato e sotto il profilo clinico mostrava un moderato stato di dimagrimento e prostrazione, associato ad un marcato ispessimento della porzione rostrale delle mandibole, apprezzabile sia visivamente che alla delicata palpazione della parte. Non si notavano altre apparenti anomalie od asimmetrie scheletriche, parimenti per i parametri clinici fondamentali. Metodi: Il paziente veniva sedato con medetomidina i.m. e sottoposto prima ad un’ispezione clinica craniofacciale che non rivelava ulteriori problemi, con particolare attenzione alla cinetica dell’articolazione temporo-mandibolare, che risultava nella norma; i tessuti molli buccali non mostravano segni di infiammazione od ulcerazioni, né tantomeno venivano rinvenute neoformazioni o corpi estranei; venivano quindi eseguite radiografie in proiezioni ortogonali ed oblique, che mettevano in evidenza un notevole ispessimento osseo dei rami mandibolari, sia in senso latero-laterale che in senso dorso-ventrale. Si notava anche una marcata proliferazione periostale, ben evidente soprattutto a livello del margine inferiore di entrambi i corpi mandibolari. Non si evidenziavano comunque anomalie dentali, con particolare riferimento alle gemme dei denti permanenti, in via di formazione. Sulla base dei dati anamnestici, clinici, radiologici, veniva formulata diagnosi di “osteopatia craniomandibolare”, e veniva prescritta una terapia con carprofen 2 mg/kg sid e amoxicillina-acido clavulanico 15 mg/kg bid per le prime due settimane; inoltre la dieta scelta presentava caratteristiche semisolide (crocchette bagnate con acqua o brodo alcuni minuti prima della somministrazione). Risultati: Dopo questo primo periodo di terapia l’animale mostrava un netto miglioramento per lo meno sotto il profilo sintomatologico, con notevole diminuzione del dolore ed una quasi normale possibilità di alimentarsi e masticare. Nelle settimane successive il proprietario descriveva alcuni episodi di riacutizzazione del fattore algico, senza però mai raggiungere i livelli iniziali, che venivano normalizzati con ulteriore somministrazione di carprofen per cicli di circa 8 giorni, senza peraltro ripetere l’uso dell’antibiotico. Conclusioni: Dopo 11 settimane venivano eseguite radiografie di controllo che mettevano in evidenza una progressiva normalizzazione della patologia, già di per sé autolimitante. Il paziente risultava inoltre in migliori condizioni relativamente allo stato di nutrizione ed alla vivacità.

Indirizzo per la corrispondenza: Franco Brusa Via F. Sangiorgi, 7/b - 40026 IMOLA (BO) domicilio P.zza Andrea Costa, 18 - MASSA LOMBARDA (RA) ambulatorio Tel. e Fax 0545-970232 E-mail: franco.brusa.vet@virgilio.it


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L’ECCENTROCITOSI NEL CANE: 56 CASI Marco Caldin1,2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Carlo Patron2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet 1 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” 2 Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco” 3 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa Gli agenti ossidanti possono agire a livello eritrocitario a carico dell’emoglobina [Hb] (sia sul gruppo eme che sulla globina) e della membrana cellulare comportando la comparsa in circolo di metaemoglobinemia, corpi di Heinz ed eccentrociti. In particolare, l’azione a livello di membrana modifica l’aspetto del globulo rosso in modo che presenti il tipico pallore, non in sede centrale ma in sede periferica, eccentrica e che così conformato, sia più rigido, meno deformabile e possa essere prematuramente rimosso dal sistema dei fagociti mononucleati, con conseguente anemia. In Letteratura l’eccentrocitosi è stata raramente segnalata nel cane; le cause riportate sono l’alimentazione con cipolle e/o aglio, trattamenti con acetaminofene, vitamina K e acetilfenilidrazina. Nel periodo compreso tra il 1-5-2001 e il 27-11-2003, su un totale di 5.086 esami emocromocitometrici, è stata osservata eccentrocitosi in 78 esami che appartenevano a 56 cani. Per ciascun campione è stata eseguita una lettura strumentale con contaglobuli laser ADVIA 120® Bayer e una valutazione citomorfologica dello striscio ematico. Fin dal primo controllo, 38 soggetti presentavano emogrammi caratterizzati da anemia, da lieve a moderata, che in 3 casi sono evoluti in forme gravi. 15 presentavano eccentrocitosi ma non anemia. In altri 3 l’anemia si è manifestata conseguentemente. Solo 2 cani presentavano contemporaneamente eccentrociti e corpi di Heinz. I risultati ottenuti offrono una panoramica di possibili patologie associabili ad un danno ossidativo. In alcuni casi l’eccentrocitosi riconosceva cause già note in Letteratura [alimentazione con cipolle (9), trattamento con vit. K (2), trattamento con farmaci soprattutto FANS (4)]. In altri casi sono state osservate nuove associazioni quali dilatazione/torsione gastrica (3) e relativo trattamento, sarcoma polmonare (1) e splenico (1), melanoma maligno (1), linfoma T (5), diabete mellito in chetoacidosi (7) e non (1), piometra (3), infusione di propofol (1), trombocitopenia immunomediata (1), insuff. renale (1) e infezioni urinarie (1), trasfusioni associate a precedenti chirurgie (2) e non (1), c.d. rinite del Levriero (1), enterite infettiva (1). In 3 casi il rilievo è stato incidentale. È del tutto nuova e di grande interesse l’associazione tra eccentrocitosi e avvelenamento da rodenticidi (7), in soggetti non trattati con vit. K, dove lo stato emorragico tipico della coagulopatia potrebbe essere aggravato da fenomeni emolitici. Molti dei quadri patologici associati all’eccentrocitosi rilevati nei nostri pazienti, nella specie felina sono segnalati come causa di corpi di Heinz. Questo potrebbe indicare che, a differenza del gatto in cui la suscettibilità agli agenti ossidanti è prevalentemente a carico dell’Hb, nel cane tale sensibilità si potrebbe realizzare a livello di membrana cellulare. I cani presi in considerazione erano per la maggior parte anemici o lo sono diventati nei giorni successivi. Per i soggetti non anemici spesso era disponibile un singolo emogramma e quindi non è possibile sapere quale sia stato il loro decorso clinico. La razza Whippet (3 casi), poco diffusa, gode di una certa rappresentatività nella nostra casistica a testimonianza, forse, di una sua maggior sensibilità agli agenti ossidanti. In conclusione l’eccentrocitosi, è da considerarsi un fenomeno poco frequente ma non raro e, se presente, si può associare ad anemia emolitica. Spesso è riconoscibile un evento causale che può essere rimosso o trattato (es. diete inadatte) portando alla risoluzione del quadro patologico. Infine, risulta particolarmente interessante l’associazione tra avvelenamento da rodenticidi ed eccentrocitosi che, implicando una componente emolitica, potrebbe ridisegnare la patogenesi dell’anemia in corso di tale patologia.

Indirizzo per la corrispondenza: Erika Carli Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888 E-mail: erikarli@libero.it


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VISUALIZZAZIONE ARTROSCOPICA DEL COMPARTO CAUDALE DEL GINOCCHIO E MENISCAL RELEASE ASSISTITO ARTROSCOPICAMENTE IN CORSO DI OSTEOTOMIA DI LIVELLAMENTO DEL PIATTO TIBIALE Barbara Carobbi1 Med Vet, Gian Luca Rovesti2 Med Vet Dipl ECVS 1 Borsista, Ambulatorio “M.E. Miller”, Cavriago (RE) 2 Ambulatorio “M.E. Miller”, Cavriago (RE) Introduzione: In pazienti affetti da rottura del legamento crociato anteriore (LCA), l’artroscopia del ginocchio si è rivelata un’ottima tecnica per l’esplorazione delle strutture articolari. L’artroscopia del ginocchio effettuata mediante l’uso dei portali craniolaterale (CrL) e craniomediale (CrM) consente la visualizzazione di tutto il comparto craniale, del LCA e di quello posteriore. Spesso, però, l’esplorazione del menisco mediale, e in particolare del suo corno caudale, è indaginosa a causa del ridotto spazio articolare. Obiettivo: Lo scopo di questo lavoro è quello di verificare l’utilità di un portale alternativo a quelli CrL e CrM, per ottenere una migliore visualizzazione del comparto caudale in generale e del corno caudale del menisco mediale in particolare, in corso di osteotomia di livellamento del piatto tibiale (TPLO). È inoltre quello di verificare se, con lo stesso accesso, sia possibile eseguire un meniscal release assistito artroscopicamente. Materiali e metodi: Sono stati presi in considerazione i pazienti che presentavano rottura del LCA e nei quali, dopo studio radiologico, si è deciso di effettuare un intervento di TPLO. Di questi sono stati selezionati quelli che non presentavano lesioni meniscali tali da richiedere la parziale asportazione del menisco. I casi che hanno soddisfatto i criteri di inclusione sono stati cinque. In tutti i pazienti è stato effettuato un esame artroscopico prima della TPLO, nella stessa seduta anestesiologica, allo scopo di verificare le condizioni del LCA, dei menischi laterale e mediale, e per effettuare un’eventuale toelettatura dell’articolazione. Con l’uso dei portali CrL e CrM sono stati esplorati il comparto CrL e quello CrM, ed è stato visualizzato il menisco laterale e almeno la porzione anteriore del mediale. Con lo stesso portale sono stati visualizzati il legamento crociato anteriore ed il posteriore. Successivamente, è stata effettuata la via di accesso chirurgica standard per l’intervento di TPLO e, mediante l’uso di un portale caudomediale (CdM), è stato valutato lo stato del menisco mediale, e specificamente del suo corno posteriore. Utilizzando lo stesso portale, è stato possibile individuare con precisione la sede in cui effettuare il meniscal release, e verificare il corretto posizionamento della lama da bisturi n. 11 utilizzata per effettuare il release stesso. Dopo l’incisione, è stato inoltre possibile verificare che il menisco fosse stato inciso correttamente, fino al bordo mediano. Risultati: In tutti i pazienti sottoposti ad artroscopia con l’uso di un portale CdM il corno caudale del menisco mediale è stato visualizzato nella sua interezza, ed è quindi stato possibile verificare la presenza di eventuali lesioni, anche minime. Il meniscal release artroscopicamente assistito ha permesso di visualizzare tutte le fasi della procedura e di verificarne il risultato. Nel caso in cui l’incisione meniscale effettuata con la lama n. 11 non fosse completa, è stata completata mediante l’uso di bisturi artroscopici sotto visualizzazione artroscopica. Conclusioni: L’uso di un portale CdM ha permesso una migliore visualizzazione di tutto il comparto caudale dell’articolazione del ginocchio rispetto ai portali CrL e CrM, ed ha consentito inoltre di effettuare il meniscal release sotto visione artroscopica diretta.

Indirizzo per la corrispondenza: Barbara Carobbi Via della Costituzione 10, 42025 Cavriago, Reggio Emilia E-mail: barbaracarobbi@msn.com.


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DIAGNOSI E TRATTAMENTO ARTROSCOPICO DI UN CASO DI INSTABILITÀ MEDIALE DI SPALLA ASSOCIATA A ROTTURA TOTALE DEL LEGAMENTO COLLATERALE MEDIALE E PARZIALE DEL TENDINE BICIPITE IN UN MAREMMANO Emanuela Ciliberto1 Med Vet PhD, Massimo Olivieri1,2 Med Vet, Fulvio Cappellari1 Med Vet, Bruno Peirone1 Med Vet PhD 1 Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino 2 Libero professionista, Samarate (VA) Introduzione: Benché in campo umano l’instabilità di spalla sia conosciuta da molti anni, nel cane questa patologia è stata documentata solo di recente. Di conseguenza, mentre nell’uomo esistono diverse tecniche per il trattamento dell’instabilità di spalla, nel cane la letteratura a disposizione è scarsa. In questo lavoro gli autori presentano un caso di rottura completa del legamento collaterale mediale (LCM) della spalla, con conseguente grave instabilità mediale, e rottura subtotale del tendine bicipite in un Maremmano. L’utilizzo in questo caso della tecnica di shrinkage capsulare ha permesso di ottenere un recupero totale dell’attività funzionale del soggetto. Materiali e metodi: Tra le artroscopie effettuate tra il 2000 e il 2003, è stato selezionato un caso relativo ad un cane Maremmano maschio di 2 anni di età, di 45 kg di peso, affetto da 2 mesi da grave zoppia di spalla di origine traumatica, associata ad instabilità mediale. Il soggetto è stato sottoposto all’iter diagnostico standard per le patologie articolari, inclusa un’artroscopia diagnostica, divenuta poi operativa. Dopo l’artroscopia veniva effettuato un bendaggio di Valpeau per 3 settimane e controlli clinici successivi. Nel periodo postoperatorio veniva istituita una terapia antibiotica e antinfiammatoria di routine e il proprietario veniva istruito sugli esercizi da far effettuare al proprio cane. Il cane veniva sottoposto ad un controllo finale dopo 8 mesi dall’intervento. Risultati: Alla visita ortopedica si evidenziava zoppia di IV grado anteriore, associata a grave ipotrofia dei muscoli sopraspinato e infraspinato, marcato dolore alla flesso-estensione della spalla e test del bicipite positivo. La valutazione della stabilità articolare in anestesia evidenziava una grave instabilità mediale, il liquido sinoviale risultava infiammatorio mentre l’esame radiografico nelle proiezioni standard non forniva informazioni. Infine l’esame artroscopico evidenziava una rottura totale del LCM associata a rottura di circa il 70% del tendine del muscolo bicipite brachiale. Era presente una marcata sinovite ipertrofica attiva. Dopo aver rimosso le porzioni di LCM rotte, veniva effettuato uno shrinkage (capsulorrafia termica) della porzione di capsula sottostante alla parte di LCM danneggiata mediante vaporizzatore. È un sistema che utilizza una corrente elettrica monopolare che consente da un lato la rimozione delle porzioni di legamenti o tendini danneggiati, dall’altro la coartazione delle fibre della capsula articolare. La lesione del bicipite è stata invece trattata mediante tenotomia inserzionale. Alla rimozione del bendaggio di Valpeau era presente una marcata ipotrofia dei muscoli della spalla. Nei controlli successivi si assisteva ad un lento ma progressivo recupero della funzionalità dell’arto. A 3 mesi dall’intervento il recupero era totale, in assenza di dolore alla manipolazione della spalla. A 5 mesi, dopo un progressivo aumento dell’entità del lavoro, il cane veniva lasciato costantemente all’aperto in un ampio giardino senza alcun problema segnalato nei mesi successivi. Discussione: Benché i dati riportati nella letteratura dei piccoli animali relativamente alla tecnica dello shrinkage capsulare siano scarsi, le informazioni preliminari sembrano limitare questa tecnica alle rotture non totali, intravedendo inoltre nei soggetti di grossa mole una potenziale controindicazione. Nel nostro caso, pur in presenza di una rottura totale dell’LCM e subtotale del tendine del bicipite in un soggetto di grossa mole, questi non sono stati dei fattori limitanti il recupero totale dell’attività da parte del cane. Gli autori stanno eseguendo uno studio di tutti i soggetti trattati con questa tecnica per cercare di raccogliere dei dati riguardanti una popolazione più ampia.

Indirizzo per la corrispondenza: Emanuela Ciliberto, Dipartimento di Patologia Animale Via Leonardo da Vinci, 44 - 10095 Grugliasco (TO) Tel. +39.011.6709061 - Fax +39.011.6709057 E-mail: emanuela.ciliberto@unito.it


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DUE CASI DI ALOPECIA ASSOCIATA A NEOPLASIA DELLE CELLULE DEL SERTOLI SECERNENTE ESTROGENI E AD UN QUADRO ORMONALE COMPLESSO Anna Corato Med Vet PhD, Gianluca Bragantini Med Vet Liberi professionisti, Verona Questo articolo descrive due casi di alopecia associata alla presenza di un sertolioma secernente estrogeni1 in un barboncino nano di sei anni e in un bolognese di otto. In entrambi i casi l’alopecia risultava l’unico elemento patologico rilevabile alla visita e i testicoli si trovavano nella borsa scrotale e non presentavano alcun tipo di alterazione all’indagine visiva, manuale ed ecografica. Tramite approfondite analisi del profilo biochimico e ormonale nel primo caso si è rilevato un livello eccessivo2 di estrogeni (estradiolo 34,0 pg/ml) associato alla presenza di un’euthyroid sick syndrome (TSH 0,05 ng/ml, fT4 0,2 pmol/l) e ad un aumento dei livelli di cortisolo pre e post ACTH (cortisolo basale 10 mcg/dl, post ACTH 21,5 mcg/dl). La presenza di un eritema prepuziale lineare, un’alterazione cutanea tipicamente associata alle neoplasie estrogeno secernenti3 e l’assenza di alterazioni dei parametri biochimici di base tipicamente determinati dal morbo di Cushing ha indotto a sospettare la presenza di una neoplasia testicolare clinicamente inapparente e procedere alla castrazione del soggetto. Alla castrazione è seguita l’analisi istopatologica dei testicoli che ha rilevato la presenza di un tumore delle cellule del Sertoli. L’alopecia si è risolta completamente dopo circa cinque mesi dalla castrazione i livelli ormonali sono rientrati nella norma. Nel secondo caso, alla prima visita, il cane presentava da circa cinque mesi alopecia e una stomatite necrotizzante che non aveva risposto a diverse terapie antibiotiche ed immunosoppressive (prednisone seguito da azatioprina) raccomandate dal veterinario precedente. Le analisi rivelavano una grave anemia non rigenerativa, un’alterazione degli enzimi epatici e un iperestrogenismo (estradiolo 24,5 pg/ml) associato ad un ipotiroidismo vero che non era risultato visibile nei primi mesi della comparsa dell’alopecia. Tre diverse misurazioni eseguite nello stesso laboratorio, la prima al momento della comparsa dell’alopecia, la seconda eseguita dopo cinque mesi dalla comparsa dell’alopecia e la terza eseguita dopo un mese dalla sospensione della terapia farmacologica a base di azatioprina hanno dato risultati completamente diversi (prima misurazione TSH 0,03 ng/ml, fT4 17 pmol/l, seconda misurazione TSH 0,4 ng/ml fT4 3,8 pmol/l, terza misurazione TSH 1,3 ng/ml, fT4 3,5 pmol/l). Data la presenza di un elevato livello di estrogeni si è proceduto alla castrazione del soggetto seguita dall’analisi istopatologica dei testicoli che ha rilevato la presenza di un sertolioma. L’alopecia e la stomatite si sono risolte completamente dopo circa quattro mesi dalla castrazione con l’aggiunta di una terapia a base di ormoni tiroidei e il quadro biochimico, ematologico e ormonale è rientrato nella norma. In conclusione le dermatosi di origine ormonale possono essere causate da molteplici patologie che talvolta inducono alterazioni biochimiche ed ormonali sovrapponibili o che possono talvolta coesistere dando luogo a casi complessi di difficile risoluzione4,5. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5.

Scott, D.W., Miller, W.H., Griffin, C.E., Small Animal Dermatology, 5th ed. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1995. Feldman, E.C., Nelson, R.W., Canine and Feline Endocrinology and Reproduction. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1996. Griffin, C.: Linear preputial erythema. Proc. Am. Acad. Vet. Dermatol. Am. Coll. Vet. Dermatol. 2:35, 1986. Ettinger, S.J., Feldman, E.C., Textbook of Veterinary Internal Medicine, W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1995. Gulikers, K.P., Panciera, D.L., Influence of Various Medications on Canine Thyroid Function. Compendium, Vol.24, No.7 July 2002.

Indirizzo per la corrispondenza: Anna Corato, Ambulatorio San Giuseppe Viale Spolverini 25 /A, 37131, Verona Tel. 045533754 E-mailannacor@hotmail.com


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UTILIZZO DELLA PCR PER LA RICERCA DI LEISHMANIA SPP E MYCOBACTERIUM SPP NELLA SINDROME DEL PIOGRANULOMA/GRANULOMA STERILE CUTANEO DEL CANE (SPGS) Luisa Cornegliani1 Med Vet, Dolors Fondevila2 Med Vet Dipl ECVP Antonella Vercelli1 Med Vet Dipl Ces, Alessandra Fondati2 Med Vet Dipl ECVD 1 Libero professionista, Torino 2 Facoltà di Medicina Veterinaria, Università Autonoma di Barcellona (S) Introduzione: La sindrome piogranuloma/granuloma sterile cutaneo del cane è una malattia dermatologica poco comune e di eziopatogenesi sconosciuta. È stato ipotizzato che la SPGS possa essere collegata ad una risposta immunologica nei confronti di antigeni endogeni e/o esogeni persistenti. La conferma della diagnosi si ha con l’esame istopatologico e per l’impossibilità di evidenziare un agente eziologico. La leishmaniosi canina (LC) può avere caratteristiche istologiche simili alla SPGS. Nell’uomo, invece, alcune malattie granulomatose sterili nodulari, come la sarcoidosi, sono state associate ad infezioni da Mycobacterium spp. Per questi motivi, si è voluto ricercare Leishmania spp. e/o Mycobacterium spp. con la metodica PCR nei campioni istologici diagnosticati come piogranulomi/granulomi sterili. Materiali e metodi: Si è condotto uno studio retrospettivo su 46 campioni istologici cutanei paraffinati con precedente diagnosi di SPGS, dove non era stato possibile evidenziare corpi estranei od organismi con l’osservazione alla luce polarizzata ed alla colorazione standard con ematossilina-eosina. Su questi istologici sono state eseguite colorazioni speciali quali PAS, Ziehl-Neelsen e Gram per escludere patogeni quali funghi, batteri acido-resistenti e gram positivi. La PCR è stata applicata a tutti i 46 campioni per la ricerca di Leishmania spp e Mycobaterium spp. Risultati: La PCR è risultata positiva per la ricerca di Leishmania in 21 dei 46 campioni. Al contrario la PCR per la ricerca di Mycobacterium spp è stata negativa in tutti i campioni esaminati. Conclusioni: Nelle aree endemiche per la LC la presenza di infezione da Leishmania spp dovrebbe essere esclusa in tutti i referti istologicamente compatibili con SPGS. A questo scopo l’utilizzo della PCR è risultato molto utile e facilmente applicabile anche sui campioni istologici paraffinati. L’identificazione di Mycobacterium spp è risultata negativa nel gruppo selezionato, ma questo può essere dovuto al numero limitato dei medesimi ed alla raccolta effettuata in area non endemica per Micobatteriosi nel cane. Ringraziamenti: Il presente lavoro è stato realizzato grazie al contributo economico fornito dalla borsa di studio SIDEV. Bibliografia Ferrer L et al: Atypical nodular leishamiasis in two dogs. Vet Rec 126 (27): 90, 1990. Torres SM: Sterile nodular dermatitis in dogs. Vet Clin North Am Small Anim Prac 29 (6): 1311-23, 1999.

Indirizzo per la corrispondenza: Luisa Cornegliani, Med Vet Via Mario Borsa 63/163 - 20151 Milano Tel./Fax +39-02-3536233 - Cell. +39-338-8536035 E-mail: gigiami@tin.it


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LA SPETTROSCOPIA DI RISONANZA MAGNETICA PROTONICA (1H-NMR) PER L’ANALISI DEL LIQUIDO SINOVIALE DEL CANE: INDAGINE PRELIMINARE Antonio Crovace1 Prof Med Vet, Luca Lacitignola1 Med Vet, Alda Miolo2 1 Dipartimento delle Emergenze e dei Trapianti d’Organi (D.E.T.O.), Sezione di Chirurgia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bari 2 Ce.D.I.S. (Centro di Documentazione e Informazione Scientifica) Innovet Srl Introduzione: La spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (1H-NMR) rappresenta uno dei più sofisticati mezzi d’indagine; da tempo è impiegata nell’uomo per individuare e quantificare simultaneamente nei liquidi biologici (es. urine, plasma, liquor) un grande numero di metaboliti, considerati indicatori attendibili di diversi stati patologici e del loro pattern evolutivo. Specificatamente in Ortopedia Veterinaria, l’1H-NMR è stata finora utilizzata nel cavallo, dove si è rivelata utile sia per stabilire il profilo metabolico normale del liquido sinoviale, sia per analizzarne le variazioni in corso di specifiche artropatie (es. artrosi, artrite settica). Scopo: Dati questi presupposti, scopo della presente indagine preliminare è quello di verificare l’applicabilità della spettroscopia 1H-NMR ad alta risoluzione all’analisi del liquido sinoviale del cane. Materiali e metodi: I campioni di liquido sinoviale sono stati: 1) prelevati per artrocentesi dal ginocchio (recesso anteriore inferiore dell’articolazione femoro-tibio-rotulea) di 10 cani di taglia grande/gigante, di età compresa tra i 12 mesi e i 6 anni e con diagnosi di gonartrosi; 2) centrifugati a 14.000 rpm per 15’; 3) conservati a -80° C. Successivamente, i campioni da sottoporre ad indagine spettroscopica sono stati ottenuti miscelando 420 µl di liquido sinoviale con 280 µl di una soluzione di una sostanza standard di riferimento (TSP, 3-trimetilsilyl 3,3,2,2-tetradeuteropropionato di sodio) in acqua deuterata (0,1 mg TSP/1 ml D20) e quindi inseriti negli appositi tubi NMR di 5 mm di diametro. Gli spettri sono stati eseguiti sullo spettrometro Bruker Avance DRX 500, provvisto di un criomagnete operante a 11 Tesla, in dotazione presso il consorzio CARSO (Cancer Research Consortium) di Valenzano (BA). Nella modalità lock gli spettri sono stati registrati agganciando la scala di frequenza alla frequenza di risonanza del deuterio. Per i campioni in questione sono stati accumulati 256 transienti, utilizzando per ciascuno un impulso di 4,0 sec corrispondente ad un flip angle di 45°, un tempo di acquisizione di 2,3 sec ed un successivo tempo di rilassamento di 2 sec. La zona spettrale indagata in tutti gli spettri è stata quella compresa fra 0 e 8 ppm. Risultati: La tecnica spettroscopica 1H-NMR ha permesso di rilevare contemporaneamente diversi metaboliti nel liquido sinoviale del cane, che, in assenza di tale metodica, avrebbero richiesto indagini separate su campioni differenziati. In particolare, accanto ai normali prodotti del metabolismo cellulare (es. piruvato, citrato), sono state individuate sostanze legate sia alla degradazione della matrice cartilaginea (es. acetato) che alla presenza di uno stato infiammatorio ed ossidativo endoarticolare (es. lattato, creatinina). Conclusioni: Sulla scorta dei risultati ottenuti, si può asserire che, anche nel cane, come già nell’uomo e nel cavallo, l’analisi spettroscopica 1H-NMR fornisce un metodo di identificazione diretta e simultanea di svariati metaboliti presenti nel campione in esame, senza che per ognuno di essi debba essere effettuata una specifica ricerca. In tal senso, tale metodica potrebbe configurarsi come valido aiuto non solo per una puntuale e tempestiva diagnosi differenziale delle varie artropatie nel cane, ma anche per la valutazione dell’eventuale efficacia di specifici trattamenti farmacologici. Bibliografia Crovace A, Fanizzi FP, Di Bello A, Francioso E, Straziota V, 2001, Analisi del liquido sinoviale di cavallo mediante spettroscopia di risonanza magnetica protonica, Atti VIII Congresso Nazionale SICV, 20-23 giugno, Olbia, pp. 98-103. Lacitignola L, Fanizzi PF, Di Bello A, Francioso E, Crovace A, 2002, La spettroscopia di risonanza magnetica protonica (HNMR) nella valutazione comparativa del liquido sinoviale del nodello in cavalli sani e con osteoartrosi, Atti IX Congresso Nazionale SICV, 20-22 giugno, Legnaro (PD), pp. 119-124.

Indirizzo per la corrispondenza: Antonio Crovace, D.E.T.O. - Sezione di Chirurgia Veterinaria Strada provinciale per Casamassima Km 3, 70010 Valenzano (Bari) Tel. 080 4679817 - Fax 080 4679890 E-mail: a.crovace@veterinaria.uniba.it


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OSTEOSARCOMA DI BASSO GRADO NEI SENI PARANASALI IN UN GATTO Gianfranco Danzi1 Med Vet, Fabio Del Piero2 DVM Dipl ACVP Prof Libero professionista, Roma; 2Departments of Pathobiology, Department of Clinical Studies NBC, PADLS School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania Philadelphia- Kennett Square, USA 1

Introduzione: Vengono descritti la presentazione clinica, la morfologia e gli aspetti terapeutici e prognostici di un caso di osteosarcoma di basso grado etmoidale di una gatta. Segnalamento, segni clinici, patologia, terapia: Un gatto europeo femmina di 13 anni venne sottoposto alla nostra attenzione per un disturbo respiratorio cronico caratterizzato da dispnea, rinorrea sierosa monolaterale destra, respirazione dicrota ed anoressia. In anestesia generale furono eseguite delle proiezioni radiografiche craniali “a bocca aperta” laterolaterali e ventrodorsali, ed un’esplorazione manuale delle strutture retrofaringee e nasali e della bocca. La proiezione “a bocca aperta”, permise l’identificazione di un’area patologica radiodensa ed omogenea situata nelle strutture emipalatali profonde a destra. L’area appariva ben demarcata, senza deformazioni della teca ossea facciale e palatale, ma con alterazioni rarefacenti dell’architettura ossea dei seni ethmo-sfenoidali di destra. L’ispezione visiva delle strutture retrofarigee e delle coane nasali, del lume nasale non rivelò alcuna alterazione, ma la progressione dello strumento ottico era limitata a destra da un rigonfiamento delle strutture tale da impedire il passaggio dell’aria attraverso la narice di destra. Venne effettuato un prelievo incisionale del tessuto patologico che permise una diagnosi presuntiva di osteosarcoma. Il soggetto quindi fu sottoposto ad etmoidectomia esterna per via rinotomica praticando una incisione dorsale della cute sulla linea mediana a ridosso delle ossa nasali e frontali a tutto spessore comprendente il periostio, l’osteotomia sulla sutura frontonasale per l’esposizione delle strutture etmoidali venne limitata al solo lato destro trattandosi di lesione monolaterale. All’esplorazione diretta fu identificata una lesione solida, ben delimitata, ovalare, a ridosso delle ossa tecali inglobante i turbinati che, estendendosi in senso cranio-caudale, ostruiva il lume respiratorio. La massa venne rimossa dalla sua sede intraossea. La cavità venne accuratamente curettata e dilavata, il periostio suturato con punti singoli di materiale riassorbibile ed infine fu apposta una sutura intradermica senza punti esterni. La biopsia escissionale rivelò un osteosarcoma di basso grado ben demarcato composto da cellule fusate e rotonde e poligonali simil osteoblastiche con produzione di abbondante collageno e sostanza osteoide. Sospesa la terapia medica post-operatoria, si presentò una sinusite recidivante di entità variabile e venne ripresa la terapia scalare con prednisolone per via orale. Il controllo radiografico a 3 mesi evidenziò una notevole perdita dell’architettura ossea dei seni, a 10 mesi notammo un notevole rimodellamento degli stessi con aumento di densità ossea senza aree neoplastiche. A più di un anno dall’intervento il paziente non presenta segni clinici e di ricrescita neoplastica. Discussione e conclusioni: Gli osteosarcomi sono neoplasie rare nei gatti e la maggior parte sono di origine scheletrica. L’osteosarcoma di basso grado rappresenta l’1% di tutti gli osteosarcomi nell’uomo ed ha prognosi favorevole. Nei gatti e nei cani, a nostra conoscenza, non è stato mai descritto precedentemente. La diagnosi differenziale viene fatta con la displasia fibrosa, che è molto circoscritta e con osteosarcomi di grado maggiore. Nel nostro caso la lesione appare originare dagli endoturbinati. L’etmoidectomia esterna (rinotomia), rappresenta un pratico accesso chirurgico nel gatto con ottimo risultato estetico. La bibliografia è disponibile presso gli autori.

Indirizzo per la corrispondenza: Dr. Gianfranco Danzi Via Machiavelli 7 - 00185 Roma E-mail: gia.da@tiscali.it


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SARCOMA INDIFFERENZIATO ORONASALE IN UN CANE AIREDALE TERRIER Gianfranco Danzi1 Med Vet, Fabio Del Piero2 DVM Dipl ACVP Prof Libero professionista, Roma; 2Departments of Pathobiology, Department of Clinical Studies NBC, PADLS School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania Philadelphia- Kennett Square, USA 1

Introduzione: Qui descriviamo la presentazione clinica, la morfologia e gli aspetti terapeutici e prognostici di un sarcoma indifferenziato invadente la cavità nasale e il palato di una cagna Airedale terrier. Segnalamento, segni clinici, patologia, terapia: Un Airedale terrier femmina di 7 anni venne presentata alla nostra attenzione perché affetta da una massa palatale irregolare ulcerata, 3 cm, sinistra a ridosso del 4 pm e 1°-2° molare. Per rimuovere la massa effettuammo una maxillectomia distale con courettage profondo delle strutture adiacenti alla lesione che appariva originare dalle cavità nasali dove aveva una forma polipoide. La massa venne rimossa attraverso un accesso endorale, mentre parte dell’osso mascellare e dell’osso palatale ed i denti dell’arco mascellare sinistro furono rimossi in quanto coinvolti dal processo neoplastico. Elevato un lembo vestibolare molto ampio venne quindi suturato al lembo palatale. L’esame istologico rivelò la presenza di un sarcoma a cellule fusate indifferenziato. A 5 mesi dall’intervento chirurgico non venne identificata alcuna anomalia tramite esame radiografico, ma al settimo mese la paziente venne riportata alla nostra attenzione per la presenza di una massa palatale con tendenza all’ulcerazione. Su richiesta dei proprietari la paziente venne sottoposta ad eutanasia e l’intera massa viene rimossa effettuando un esame necroscopico della parte. La massa era composta da cellule fusiformi mesenchimali, oocasionalmente stellate, talvolta binucleate e multinucleate, con alcuni megalociti, formanti dei fasci lineari talvolta di aspetto neuroide con infrequenti vortici e palizzate. Le figure mitotiche non erano fequenti. Lo stroma era frequentemente lasso, con sparsi vasi neoformati. Alcune aree erano moderatamente o gravemente infiammate oppure caratterizzate da ampie aree di necrosi. Chiare caratteristiche di malignità non erano presenti in tutte le numerose sezioni effettuate. Le cellule neoplastiche presentavano reattività intracitoplasmica per la vimentina V9 e non esprimevano i seguenti epitopi: S100, melan A, cromogranina A, citocheratina LU5, enolasi specifica neuronale, desmina, actina muscolare liscia. Sulla base di questi dati morfologici ed immunoistochimici fu emessa la diagnosi di sarcoma indifferenziato. Discussione e conclusione: I sarcomi indiffrerenziati sono neoplasie mesenchimali maligne localmente invasive con comportamento paragonabile a quello di altre neoplasie maligne mesenchimali quali il fibrosarcoma, le neoplasie maligne del rivestimento dei nervi periferici, l’emangiopericitoma, il leiomiosarcoma. Pensiamo che in questo caso la neoplasia abbia iniziato la sua crescita partendo a livello degli endoturbinati per poi invadere e manifestarsi clinicamente a livello orale. Tecnicamente la rimozione chirurgica risulta fattibile, ma la rimozione completa della neoplasia può risultare difficile data la complessità e delicatetzza dell’area anatomica coinvolta. Non ci risulta che una neoplasia di questo tipo sia stata descritta nelle aree coinvolte in questo paziente. La bibliografia è disponibile presso gli autori.

Indirizzo per la corrispondenza: 382, W. Street Road, Kennett Square, Pennsylvania, 19348-1692, USA E-mail: fdp@vet.upenn.edu


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STUDIO ECOGRAFICO BIDIMENSIONALE E DOPPLER SPETTRALE DEL FLUSSO ARTERIOSO INTRANODALE IN CORSO DI LINFOADENOMEGALIA PERIFERICA: ESPERIENZA IN SEDICI CANI Daniele Della Santa1 Med Vet, Simonetta Citi1 Med Vet, Marco Ringressi1 Med Vet, Alessandra Gavazza1 Med Vet, Veronica Marchetti1 Med Vet, Aida Di Genova2 Med Vet 1 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa 2 Libero professionista, Pisa Introduzione: In medicina umana la valutazione ecografica della morfologia linfonodale e lo studio doppler della vascolarizzazione intranodale costituiscono un’utile integrazione alla valutazione clinica e laboratoristica della linfoadenomegalia. Obiettivo: Lo scopo del presente studio è valutare l’utilità dell’esame ecografico B-mode e doppler nello studio dei linfonodi superficiali in corso di linfoadenomegalia nel cane. Materiali e metodi: Sono stati inclusi nello studio cani con megalia di uno o più linfonodi superficiali. Questi sono stati sottoposti ad esame ecografico bidimensionale e duplex-doppler. I parametri ecografici valutati sono: il profilo, il rapporto tra asse maggiore e minore, la presenza di aree di disomogeneità, il rapporto quantitativo tra corticale e midollare. È stato quindi registrato il tracciato spettrale del flusso arterioso intranodale a livello ilare e calcolato l’indice di resistività. I linfonodi studiati sono stati suddivisi in due gruppi sulla base della natura (infiammatoria o neoplastica) della linfoadenomegalia (determinata sulla base dei risultati dell’esame citologico o istologico). I valori dell’indice di resistività nei due gruppi sono stati quindi confrontati tra loro allo scopo di determinare la significatività statistica dell’eventuale differenza riscontrata. Risultati: Sedici linfonodi superficiali appartenenti ad altrettanti cani sono stati inclusi nello studio. L’esame cito/istologico identificava: iperplasia reattiva da leishmania (4/16), linfoadenite (6/16), linfoma (3/16) e neoplasia metastatica (3/16). Il profilo è risultato regolare in 11/16 linfonodi. In 5/11 l’adenopatia era infiammatoria, in 6/11 neoplastica; i 5 linfonodi con profilo irregolare presentavano un quadro infiammatorio. 8/16 linfonodi avevano un rapporto asse maggiore/asse minore superiore a 1,9. In 6/8 la linfoadenomegalia era di natura infiammatoria, in 2/8 neoplastica. Dei rimanenti 8 linfonodi con rapporto asse maggiore/asse minore inferiore a 1,9, 4/8 presentavano un quadro neoplastico e 4/8 infiammatorio. Aree disomogenee sono state riscontrate in 7/16 linfonodi; di questi 4/7 con linfoadenomegalia di origine neoplastica e 3/7 infiammatoria. 7/9 linfonodi con immagine ecografica omogenea presentavano un’adenopatia infiammatoria e 2/9 neoplastica. In 2/16 linfonodi non è stato possibile determinare adeguatamente il rapporto cortico/midollare. In 3/14 linfonodi (tutti neoplastici) è stato rilevato un aumento della sola corticale con conseguente aumento del rapporto cortico-midollare. In 9/14 linfonodi è stato rilevato un aumento della midollare accompagnato da una corticale molto sottile. Di questi, 8/9 presentavano un quadro infiammatorio e 1/9 neoplastico. In 1/14 linfonodi (affetto da patologia infiammatoria) è stato evidenziato un aumento della componente midollare con una corticale di spessore normale. In un linfonodo affetto da linfoma la midollare non è stata evidenziata. I linfonodi neoplastici hanno presentato un indice di resistività medio di 0,802 (range: 637-0,905); viceversa il valore medio riscontrato nei linfonodi affetti da una patologia infiammatoria è risultato di 0,607 (range: 0,478-0,696). Tale differenza è risultata statisticamente significativa (p < 0,01). Discussione: I rilievi ecografici con maggior valore predittivo indirizzano tutti verso un’eziologia infiammatoria: irregolarità del profilo (valore predittivo positivo pari al 100%), rapporto asse maggiore/asse minore maggiore di 1,9 (75%), ecostruttura omogenea (78%), aumento della componente midollare con corticale molto sottile (89%). L’indice di resistività è un parametro che sembra avere un valore diagnostico significativo.

Indirizzo per la corrispondenza: Daniele Della Santa Dipartimento di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa Via Livornese, 56010 San Piero a Grado (PI) Tel. 340-3126931; 050-31351 - Fax 050-3135182; 0566-58058 E-mail: ddellasanta@lycos.com


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INDUZIONE DELL’OVULAZIONE IN ELAPHE GUTTATA MEDIANTE CONDIZIONAMENTO AMBIENTALE. OSSERVAZIONI PRELIMINARI Francesco Di Ianni1 DVM, Enrico Bigliardi1 DVM, Alberto di Donato2 DVM Giorgio Morini1 DVM, Enrico Parmigiani1 DVM MS 1 Sezione di Clinica Ostetrica e Riproduzione Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria 2 Istituto Zooprofilattico di Parma Scopo del lavoro: L’allevamento dei rettili in cattività ha raggiunto negli ultimi anni un livello considerevole. L’Elaphe guttata, originaria degli USA, è uno degli ophidi maggiormente allevati in Europa. Scopo del presente lavoro è stato quello di valutare la possibilità di indurre un ciclo estrale fertile in relazione alle variazioni del fotoperiodo, della temperatura, dell’apporto alimentare e della presenza del maschio. Il ciclo riproduttivo è di tipo monoestrale stagionale. È utile poter modulare le nascite degli animali che si riproducono stagionalmente per essere più competitivi sul mercato. È quindi indispensabile conoscere quali varianti ambientali influenzino in modo indicativo l’ovulazione senza compromettere l’efficienza riproduttiva. Metodi impiegati: Il campione era rappresentato da dodici coppie di Elaphe guttata nate in cattività e in età riproduttiva. La selezione dei soggetti si è basata in funzione della fertilità, dello sviluppo corporeo e dello stato di salute generale. Gli animali sono stati deparassitati con frequenza annuale e l’alimentazione era costituita da topi vivi, topi e pulcini congelati provenienti da un allevamento S.P.F. Sono stati adottati cinque diversi condizionamenti ambientali che prevedevano: 1) Condizionamento standard tipo 1: 5 ore di luce e una temperatura di 18° C dal 1° ottobre al 1° febbraio, 7 ore di luce e 18° C fino al primo di marzo, 9 ore di luce e 22° C fino al primo di aprile, 14 ore di luce e 25° C fino al primo luglio, 14 ore di luce e 30° C fino al primo settembre, 14 ore di luce e 22° C fino al 30 settembre. I pasti in numero di 13 sono iniziati il giorno 10 marzo e sono finiti il giorno 10 maggio. Introduzione del maschio durante la muta preovulatoria. 2) Condizionamento tipo 2: un anticipo di 45 giorni rispetto al Condizionamento standard tipo 1 del fotoperiodo positivo (incremento del fotoperiodo dal 15 dicembre). 3) Condizionamento tipo 3: un condizionamento anticipato di 45 giorni rispetto al Condizionamento standard tipo 1 dell’incremento della temperatura (iniziato il 15 febbraio). 4) Condizionamento tipo 4: condizioni uguali al Condizionamento standard tipo 1 ma con presenza continua del maschio. 5) Condizionamento tipo 5: Condizioni uguali al Condizionamento standard tipo 1 con somministrazione del primo pasto con temperature inferiori a 22°. Quattro coppie, denominate come gruppo A, sono state stabulate in una stanza con condizionamento standard tipo 1, 4 coppie, gruppo B, sono state sottoposte ad un “condizionamento di tipo 2” per un anno; 4 coppie, gruppo C, sono state sottoposte ad un “condizionamento tipo 3”. L’anno successivo tutti i gruppi sono rimasti a riposo con “condizionamento standard tipo 1”. Il terzo anno sono stati applicati i condizionamenti tipo 4 al gruppo B e tipo 5 al gruppo C. Il maschio è stato introdotto durante la muta preovulatoria. Gli animali sono stati ricoverati in contenitori di plastica con dimensioni 60x40x30 cm, dotati di tappetini riscaldanti elettrici termostatati per il controllo della temperatura e lampade al neon poste in corrispondenza dei lati trasparenti. In ogni box era presente una ciotola per l’acqua, un nascondiglio ed una lettiera di segatura depolverizzata. Risultati ottenuti: Gli accoppiamenti nel gruppo A sono avvenuti dopo 15 giorni dall’introduzione del maschio e le deposizioni dopo 60 giorni (valori medi). La schiusa è avvenuta dopo due mesi. Nel gruppo B le deposizioni sono avvenute con un anticipo medio di 30 giorni rispetto al gruppo di controllo. Nel gruppo C le deposizioni sono state anticipate in media di 34 giorni rispetto al controllo. La presenza continua del maschio non ha prodotto modificazioni significative. La somministrazione del cibo con temperature inferiori ai 22° C ha causato rigurgito ed è stata pertanto sospesa e il gruppo eliminato dallo studio. Conclusioni: I risultati mostrano che la deposizione delle uova negli Ophidi Elaphe guttata è condizionata prevalentemente dalla temperatura e in secondo luogo dall’esposizione alla luce. La presenza continua del maschio sembra non esercitare nessun influsso sull’anticipo della deposizione.

Indirizzo per la corrispondenza: Università degli studi di Parma, Sezione di Clinica Ostetrica e Riproduzione Animale Via del Taglio, 8 - 43100 Parma Tel. 0521- 902739 - Fax 0521-902662 E-mail: Enrico.bigliardi@unipr.it


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ALLESTIMENTO E APPLICAZIONE DI UNA PCR-RFLP NELLA DIAGNOSI DELL’INFEZIONE DA EHRLICHIA CANIS NEL CANE Barbara Di Martino1 Med Vet, Cristina E. Di Francesco1 Med Vet, Ottavio Palucci1 Med Vet, Claudio D’Antonio2 Med Vet, Rina Di Girolamo2 Med Vet, Fulvio Marsilio1 Med Vet 1 Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate Università degli Studi di Teramo 2 Libero professionista, Alba Adriatica - Teramo L’ehrlichiosi è una malattia trasmessa da zecche che colpisce i mammiferi domestici e l’uomo causata da patogeni intracellulari obbligati appartenenti alla fam. Anaplasmataceae. Ehrlichia canis agente eziologico dell’Ehrlichiosi monocitica canina (CME) ed Ehrlichia platys responsabile della Trombocitopenia ciclica infettiva (TCI), sono considerate le specie più patogene e prevalenti per il cane. Tuttavia l’utilizzo sempre più frequente delle tecniche molecolari ha permesso di ottenere informazioni più precise sulla recettività naturale del cane anche ad infezioni sostenute da altre specie quali E. chaffeensis, Anaplasma phagocitophila comb. nov. (E. equi, E. phagocitophila e HGE), E. ewingii ed E. risticii, giustificando pertanto, la preoccupazione circa il ruolo del cane quale potenziale reservoir di zoonosi. Le metodiche diagnostiche impiegate per il riconoscimento delle infezioni ehrlichiali sono l’immunofluorescenza indiretta (IFI) utilizzata per la ricerca degli anticorpi e la Polymerase Chain Reaction (PCR) basata sull’amplificazione di frammenti genomici inclusi nel gene 16S rRNA ed in grado di evidenziare sequenze di DNA. Tuttavia, a causa della stretta correlazione fenotipica e genotipica esistente tra le diverse specie di ehrlichia, entrambe le tecniche presentano dei limiti relativi alla corretta esecuzione della diagnosi eziologica e differenziale. Lo scopo del presente lavoro è stato l’allestimento di una tecnica di PCR-RFLP specifica per il gene della citrato sintetasi (gltA) di E. canis ed in grado di differenziare l’infezione di questa ehrlichia da quelle sostenute da E. platys, E. chaffeensis, E. risticii e Anaplasma phagocitophila comb. nov. Per la messa a punto della PCR è stato utilizzato il ceppo Oklahoma di E. canis coltivato su linea cellulare DH82, entrambi forniti dal dr. W. Nicholson (Center for Disease Control and Prevention, Atlanta, USA). L’estrazione del DNA è stata eseguita con un kit del commercio (Dneasy Tissue kit, Qiagen). La sequenza bersaglio per la reazione di amplificazione di E. canis ha una lunghezza di 510 bp ed è inclusa nel gene gltA. La miscela di reazione è stata allestita in 50 µl di volume totale contenente DNA nella quantità di 3 µl, Buffer 10X, 200 µM di dNTPs, 1,25 U di enzima HotMaster Taq DNA Polymerase (Eppendorf) e 100 pmol di ciascun primer Ecf ed Ecr. Il prodotto di amplificazione è stato ottenuto con 35 cicli di denaturazione a 94° C per 45”, annealing a 58° C per 45” ed estensione a 72° C per 45”. Per l’identificazione definitiva di E. canis eseguita mediante RFLP, è stato utilizzato l’enzima HINDIII (Biolabs, New England), il quale riconoscendo la sequenza A↓AGCTT, è in grado di tagliare il prodotto di amplificazione specifico per E. canis in due frammenti rispettivamente di 310 e 200 bp. La metodica allestita è stata quindi applicata su n° 85 campioni di buffy coats provenienti da cani la cui sintomatologia era riferibile ad infezione da E. canis. Inoltre, i campioni di siero di tutti i cani sono stati sottoposti ad indagine sierologica nei confronti di E. canis mediante IFI. Relativamente alla PCR è stata ottenuta l’amplificazione in due soggetti (2,35%) di un frammento di 510 bp, la cui successiva analisi di restrizione ha permesso di identificarlo come appartenente alla specie E. canis. L’indagine sierologica ha evidenziato la presenza di anticorpi a titolo variabile in n° 11 cani (12,94%) ed in particolare, nei due soggetti risultati positivi alla PCR-RFLP il titolo è stato di 1:10.000. In conclusione, considerando la bassa prevalenza dell’infezione riscontrata nel campione esaminato e clinicamente sospetto, è auspicabile che nei cani con segni clinici riferibili ad ehrlichiosi vengano eseguite indagini finalizzate ad identificare non solo E. canis ma anche eventuali altre specie ehrlichiali e/o rickettsiali.

Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo Piazza Moro, 45, 64100 Teramo Tel./Fax +39.0861412868 E-mail: bdimartino@unite.it


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ESEMPI DI TERAPIA OMEOPATICA NELLA CURA DI CANI AFFETTI DA DISPLASIA DELL’ANCA Mauro Dodesini Med Vet Libero professionista, Bergamo Scopo del lavoro: Dimostrare che non esise un aproccio esclusivamente chirurgico alla patologia, ma anche una terpia medica. Metodo impiegato: Dopo avere diagnosticato la displasia dell’anca con un esame radiografico viene impostata una terapia esclusivamente omeopatica individuale: la scelta del Rimedio è in funzione dei sintomi del paziente. In particolare viene rivalutato l’esame semiologico: a) anamnesi con raccolta di patologie pregresse, b) un attento esame ispettivo aiuta a distinguere gli atteggiamenti fisiologici da quelli patologici e/o antalgici, c) la presenza o meno di una limitazione motoria, d) la verifica dell’esistenza di patologie della colonna vertebrale, e) il trofismo delle masse muscolari. Determinante nella scelta del rimedio è l’esame funzionale dell’animale in stazione, movimento e decubito raccogliendo le modalità di insorgenza e di manifestazione considerando anche le modalità di miglioramento e di peggioramento. Nel cane in crescita la presenza o meno di lassità legamentosa (diagnosticata sia manualmente che con l’osservazione dell’andatura), di eventuali malformazioni ossee o problemi di sviluppo cartilagineo. Risultati ottenuti: Distinguo due età: a) Cane in crescita: possiamo verificare la presenza di malformazioni ossee, ma prevale numericamente l’incidenza della lassità legamentosa. In entrambi i casi la terapia omeopatica individuale, quando corretta, permette un recupero funzionale del soggetto. Durante la relazione verranno proiettate radiografie e video di cani che, a sviluppo ultimato, hanno risolto il problema della lassità legamentosa, mentre la malformazione ossea ovviamente permane ma senza pregiudicare la funzionalità dell’articolazione dell’anca. b) Cane adulto: verranno proiettate radiografie e video di cani di grossa taglia di età matura affetti da displasia dell’anca di diverso grado che manifestavano evidenti limitazioni della mobilità articolare e che hanno recuperato in un tempo relativamente breve sia la funzionalità d’uso dell’articolazione, che il trofismo muscolare. Conclusioni: Scelto il Rimedio Omeopatico corretto posso assicurare un’altissima percentuale di recupero funzionale dei pazienti siano essi cuccioli di grossa taglia in crescita che soggetti adulti o anziani anche di grossa taglia. Il limite di queste terapie è noto: il Rimedio è per il paziente che manifesta esattamente quel tipo di sintomi, non può essere somministrato indistintamente a tutti i soggetti affetti da questa patologia. Al tempo stesso il metodo è strettamente scientifico: il Rimedio Omeopatico è ripetibile a tutti quei soggetti che manifesteranno proprio “quel particolare” corredo sintomatologico.


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ALTERAZIONI MACROSCOPICHE DELLA MILZA E RILIEVI ISTOPATOLOGICI: 53 CASI Pierluigi Fant1 Med Vet, Marco Caldin1,2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Clara Tullio2 Med Vet 1 Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco” 2 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” La patologia splenica ha un ruolo importante nella pratica veterinaria in quanto causa primaria o manifestazione secondaria dell’alterazione dello stato di salute del paziente. La milza può essere valutata mediante procedure fisiche (palpazione trans-cutanea o visualizzazione in sede celiotomica) o strumentali (esame radiografico, ecografico e tomografico). Devono essere valutate la topografia, le dimensioni, la forma ed entro certi limiti la struttura tissutale della milza. Alla constatazione di un’anomalia macroscopica talvolta segue la splenectomia. Tra i riscontri patologici macroscopici più frequenti viene annoverata la splenomegalia, ossia l’aumento di volume in modo uniforme o focale dell’organo. Il contributo dell’esame istologico è fondamentale nel riconoscere la natura dello stato patologico: la splenomegalia uniforme può essere secondaria ad una congestione passiva (somministrazione di barbiturici, torsione, trombosi) o attiva (infezione sistemica acuta), ad un’aumentata eritrofagocitosi associata ad ematopoiesi extra-midollare oppure ad infiltrazione neoplastica diffusa. La splenomegalia nodulare viene riscontrata in caso d’iperplasia linfoide nodulare, ematomi ed in alcune condizioni neoplastiche. Nel periodo compreso tra Giugno 2001 e Novembre 2003 sono stati esaminati i dati epidemiologici, clinici ed isto-patologici di 53 cani di cui 20 sottoposti a splenectomia, 6 a campionamento bioptico splenico e 27 ad esame necroscopico. L’analisi epidemiologica rivela una netta maggioranza di soggetti adulti, con distribuzione pressoché equa in funzione del sesso ed un’ampia diversificazione di razza, con frequenza superiore di soggetti di razza pastore tedesco e meticcio. Il campionamento istopatologico è stato eseguito a causa di alterazioni macroscopiche in 47 casi: splenomegalia uniforme in 17 casi, nodulare in 30. In 6 casi non si rilevavano alterazioni macroscopiche e l’esame istopatologico della milza veniva richiesto in sede autoptica nell’ambito di una valutazione complessiva. L’esame istologico rivelava l’esistenza di una patologia non tumorale in 35 casi (congestione-emorragia, ematopoiesi extra-midollare, iperplasia linfoide, necrosi e flogosi) ed in 18 casi la presenza di una patologia tumorale, più della metà dei quali con interessamento simultaneo di altri organi tra i quali spicca per frequenza il fegato. Il confronto tra i dati macroscopici ed istopatologici rivela che la splenomegalia nodulare è associata ad una patologia tumorale nel 50% dei casi (15 su 30, di cui 4 emangiosarcomi, 3 emangiomi, 3 sarcomi, 2 carcinomi metastatici, una neoplasia megacariocitaria, un’istiocitosi maligna ed un tumore poco differenziato a cellule rotonde). La splenomegalia uniforme è associata ad una patologia tumorale nel 17% dei casi (3 su 17 di cui un linfoma, una leucemia linfoide ed un mastocitoma). In nessuno dei casi in cui macroscopicamente la milza appariva normale sono state osservate lesioni tumorali (in uno si notava un’ematopoiesi extra-midollare). Dal punto visto epidemiologico si può constatare che i casi di emangiosarcoma sono stati riscontrati unicamente in soggetti di razza Boxer e Pastore tedesco. Inoltre il solo caso accertato di istiocitosi maligna splenica è stato osservato in un Rottweiler (razza predisposta per questa forma tumorale), mentre un secondo Rottweiler, affetto dalla medesima patologia, presentava localizzazioni polmonare, linfonodale-mediastinica ed epatica ma non splenica, con il semplice reperimento una ematopoiesi extramidollare. Citiamo infine un caso insolito di linfoma a localizzazione splenica e vescicale (quest’ultima considerata come probabile sito tumorale primario). Le lesioni nodulari della milza, in base ai dati da noi raccolti, riconoscono più frequentemente un’eziologia neoplastica rispetto alle forme di splenomegalia uniforme.

Indirizzo per la corrispondenza: Laboratorio San Marco Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888 E-mail: plf@sanmarcovet.it


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VANTAGGI, CONTROINDICAZIONI E IMPATTO SUL PROPRIETARIO DELLA VIDEOREGISTRAZIONE NELLA VISITA COMPORTAMENTALE Franco Fassola Medico Veterinario, Asti

In questa ricerca si è presa in considerazione una situazione ben definita, rappresentata dalla visita comportamentale condotta in ambito ambulatoriale. Questa premessa è importante, in quanto la telecamera necessaria alla videoregistrazione dovrebbe diventare un elemento del setting dove si muovono il medico veterinario comportamentalista, il proprietario dell’animale e l’animale stesso. L’ambiente dovrebbe essere sotto il completo controllo del veterinario che lo ha costruito secondo le sue esigenze, per cui le variabili impreviste, che disturbano la relazione che si va creando con il proprietario del cane dovrebbero essere ridotte al minimo. Quanto detto non è valido se la visita è a domicilio, in quanto l’ambiente non è più controllato. Quando ho incominciato a filmare le visite conmportamentali mi sono posto il problema che, il sapere di essere filmati potesse essere un elemento di disagio per il proprietario, in realtà a fronte di un numero di 70 casi clinici filmati ho avuto un solo rifiuto e due richieste di spiegazioni più approfondite riguardo al motivo per cui filmo. In un altro caso le perplessità del proprietario si riferivano alla presenza della giovane figlia, per cui ho deciso di non filmare. Nelle prime registrazioni le persone erano prese di spalle in modo che non fossero riconosciute, questo mi sembrava una maggiore garanzia e un modo per avere più facilmente l’assenso dei proprietari, in realtà questi filmati mi sono stati di poco aiuto, per i motivi che saranno facilmente comprensibili quando parlerò dell’utilità della videoregistrazione. Ho anche pensato a una liberatoria che mi autorizzasse a filmare, ma, ho notato che questo non era una preoccupazione dei clienti, i quali mi hanno sempre dato l’autorizzazione verbalmente fidandosi della mia parola e ritenendo superfluo un atto formale. Del resto non ho mai diffuso i filmati delle visite, se non previa autorizzazione dei diretti interessati. A mio avviso l’uso del filmato nella visita comportamentale offre indubbi vantaggi: 1. Consente un ascolto più attento, in quanto libera dalla schiavitù di scrivere, per ricordare in futuro, quanto il proprietario racconta. 2. Permette di avere una registrazione, lunga e confrontabile (perché l’ambiente, rimane invariato nelle visite successive) del comportamento dell’animale, non dico che si tratti di un’osservazione etologica, ma è pur sempre un’osservazione che porta delle informazioni. 3. Consente di rivedere la visita e di rilevare particolari o affermazioni che possono essere sfuggiti. 4. Mette a disposizione un documento che supervisionabile da un collega. La supervisione può anche essere richiesta a una figura diversa da un collega comportamentalista, per esempio uno psicologo o uno psichiatra. I contro: 1. Il tempo che si deve preventivare per spiegare la presenza di una cinepresa e la sua utilità. 2. Il rischio di affidarsi troppo alla registrazione per la raccolta dei dati, con la conseguenza di perdere un po’ la concentrazione. 3. Fornire maggior attenzione al funzionamento del mezzo tecnico a scapito del buon esito del colloquio. 4. Il disagio del proprietario di fronte a una cinepresa.


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ESPERIENZE PERSONALI SULL’UTILIZZO DELLA PPN NEL CANE IN TERAPIA INTENSIVA Pierfrancesca Ferrieri Med Vet, Gianmarco Gerboni Med Vet, Roberto A. Santilli Dipl ECVIM-CA Liberi professionisti, Samarate (VA) La nutrizione parenterale rappresenta la somministrazione endovenosa di tutte le sostanze nutrienti essenziali come carboidrati, lipidi, proteine, elettroliti, vitamine e oligoelementi e viene, di norma, impiegata in sostituzione della nutrizione enterale ossia, quando l’apparato gastroenterico non può essere temporaneamente utilizzato. Nel presente studio sono stati esaminati, dal 2000 al 2003, 15 soggetti di razza, sesso, età e peso diversi, con differenti patologie sottostanti; in particolare: 1 caso di peritonite; 2 casi di corpo estraneo intestinale complicato da pancreatite e peritonite; 1 caso di setticemia; 5 casi di pancreatite necrotico-emorragica; 1 caso di pancreatite necrotico emorragica complicata da diabete mellito; 1 caso nello stesso soggetto di recidiva di pancreatite necrotico emorragica; 1 caso di flemmone pancreatico; 1 caso di miastenia gravis con megaesofago e broncoplomonite ab ingestis; 1 caso di insufficienza renale acuta (necrosi tubulare) con carcinoma metastatico a livello di linfonodi iliaci mediali; 1 caso di chilotorace. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a visita clinica, esami di laboratorio, esame radiografico e la maggior parte ad esame ecotomografico e sono stati ricoverati da 7 a 15 giorni. Nella maggior parte dei soggetti la PPN è stata impiegata attraverso una via venosa periferica, mentre in 4 di questi attraverso una via venosa centrale. Il calcolo del fabbisogno calorico giornaliero si è basato sulla Richiesta Energetica Basale (RER) ed è dato dalla seguente formula: 30 Kcal x peso in kg. I componenti della nutrizione sono stati: soluzione di amminoacidi all’8,5%, soluzione di lipidi al 20%, soluzione di glucosio al 10%, cristalloidi come Ringer lattato, potassio cloruro, calcio gluconato, vitamine del complesso B, eparina sodica; una volta alla settimana è stata somministrata vitamina K per via sottocutanea. A seconda della patologia è stata modificata la percentuale di calorie lipidiche e proteiche e come fonte energetica principale sono stati utilizzati i lipidi, i quali hanno come vantaggio una ridotta osmolarità. Tutte le PPN utilizzate hanno presentato un’osmolarità minore di 600 mOsm/L. La PPN è stata preparata per tutti i casi in sala operatoria, sterilmente. La durata della nutrizione parenterale variava da un minimo di 3 giorni ad un massimo di 14 giorni. Il monitoraggio dei pazienti prevedeva la valutazione dei seguenti parametri: peso, disidratazione, temperatura corporea, frequenza cardiaca e respiratoria, glicemia, glicosuria, creatinina, fosforo, ematocrito, proteine totali, albumina ed esame emocromocitometrico. Risultati: tutti i soggetti hanno avuto inizialmente un incremento ponderale; nei soggetti con gravi perdite concomitanti è stato aggiunto un supporto di cristalloidi; in nessun caso si è verificata iperglicemia né glicosuria; la funzionalità renale si è dimostrata normale in tutti i soggetti, escluso il cane con insufficienza renale acuta; in un caso si è manifestata ipofosfatemia. Complicanze: tre soggetti hanno manifestato flebite, due vasculite, in un caso si è manifestata un’infezione da catetere, un caso ha sviluppato un quadro di polmonite e in un caso è stata riscontrata la presenza di un trombo nel catetere giugulare; in un solo soggetto è stata effettuata l’eutanasia. Secondo queste esperienze la PPN è un ottimo supporto nutrizionale. È preferibile un accesso venoso centrale, in quanto fornisce meno complicazioni meccaniche ed è meglio tollerato dai pazienti. Tuttavia occorre una struttura adeguata, personale addestrato sia alla preparazione della nutrizione parenterale sia alla valutazione dei pazienti per prevenire e risolvere eventuali complicazioni e dei proprietari disponibili sia dal punto di vista economico che affettivo.

Indirizzo per la corrispondenza: Pierfrancesca Ferrieri Loc. Musica N° 4, Comignago (NO) Tel. 0322-50359 - 0331-228155 - Fax 0331-220255


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IPOFIBRINOGENEMIA NEL CANE: NUOVI RILIEVI IN RELAZIONE ALLA EZIOPATOGENESI (144 CASI) Marco Caldin1,2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Francesca Fiorio1 Med Vet 1 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” 2 Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie “San Marco” Il fibrinogeno è una proteina di sintesi epatica indispensabile alla funzione emostatica ed allo svolgimento dei processi infiammatori (proteina della fase acuta). Il fibrinogeno può essere misurato con metodiche quantitative (cinetiche ed immunologiche) e semiquantitative (precipitazione termica), quest’ultime meno adatte ad una corretta valutazione delle ipofibrinogenemie per la scarsa accuratezza che le contraddistingue. In letteratura veterinaria vi sono poche informazioni per quanto riguarda l’ipofibrinogenemia ed i suoi meccanismi eziopatogenetici. L’obiettivo del presente lavoro è quello di stabilire, valutando un numero rappresentativo di ipofibrinogenemie, se esistono meccanismi e cause non ancora descritti. A tal fine sono stati utilizzati come criteri di inclusione un’adeguata raccolta anamnestica, l’esame fisico ed estese indagini ematologiche e biochimiche indispensabili alla comprensione fisiopatologica del fenomeno. Nel periodo compreso tra Luglio 2001 e Ottobre 2003 sono stati analizzati 3426 profili coagulativi, comprendenti tempo di protrombina, tromboplastina parziale attivata, fattori di degradazione della fibrina/fibrinogeno (FDPs), d-dimeri, antitrombina III e fibrinogeno. L’ipofibrinogenemia è stata riscontrata in 144 casi, con una prevalenza del 4,2%. Quarantasette (47) casi sono stati esclusi dallo studio per la mancanza di uno o più dei criteri di inclusione descritti in precedenza. L’analisi dei dati raccolti ha consentito di evidenziare tre meccanismi patogenetici di ipofibrinogenemia. La mancata produzione è stata riscontrata nel 46% dei casi ed era causata nel 33% da insufficienza epatica e nel 13% da malassorbimento ed insufficienza del pancreas esocrino. Il consumo è stato riscontrato nel 46% dei casi e, cosa interessante, solo il 26% era causato da una coagulazione intravascolare disseminata (DIC), mentre l’altro 20% era causato da un disturbo coagulativo classificabile come “iperfibrinogenolisi primaria”, mai descritto in medicina veterinaria. Per iperfibrinogenolisi primaria s’intende un’inappropriata e spropositata attivazione della via fibrinolitica, che può scaturire da una DIC o da una eccessiva liberazione degli attivatori tissutali del plasminogeno. Tale diagnosi è stata fondata, analogamente a quanto descritto in medicina umana, sul rilievo di aumento dei livelli di FDPs e di mancati incrementi paralleli di d-dimeri in soggetti con ipofibrinogenemia. Ancora analogamente a quanto descritto in medicina umana, l’ipofibrinogenemia si è verificata in associazione a versamenti cavitari (sequestro) nell’8% dei casi esaminati. Lo studio retrospettivo dei dati raccolti ha consentito di evidenziare cause (iperfibrinogenolisi primaria) e meccanismi (sequestro) mai prima descritti in medicina veterinaria, che consentono la stesura di un nuovo e più completo algoritmo diagnostico dell’ipofibrinogenemia.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561098 - Fax 02-700518888 E-mail: francesca@sanmarcovet.it


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IMPIEGO DELL’ECOGRAFIA TENO-MUSCOLARE COME MEZZO DIAGNOSTICO NELL’ORTOPEDIA DEI PICCOLI ANIMALI: PRINCIPI GENERALI E CASI CLINICI Massimo Olivieri1 Med Vet, Valentina Galardi2 Med Vet, Paola Pasini2 Med Vet Libero professionista Samarate (VA), Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino 2 Libero professionista Samarate (VA)

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Introduzione: L’ecografia tenomuscolare rappresenta un mezzo diagnostico di grande attualità nei piccoli animali. Grazie all’impiego degli ultrasuoni è possibile infatti indagare strutture peri-articolari quali tendini e legamenti e, se necessario, valutare anche le caratteristiche ecografiche di muscoli eventualmente coinvolti da eventi traumatici. In questo lavoro gli autori presentano, con l’ausilio di qualche caso clinico significativo, la loro esperienza sull’impiego dell’ecografia su lesioni muscolo-tendinee. Materiali e metodi: Nell’ambito delle ecografie tenomuscolari effettuate dagli autori, sono stati selezionati 4 casi clinici che mettono in risalto l’utilità di questo mezzo diagnostico nell’ortopedia dei piccoli animali. Per questo studio è stato utilizzato un apparecchio ecografico con sonda lineare da 7,5 MHZ. I pazienti riferiti presentavano zoppia acuta o cronica, con sospetto di lesione a carico di strutture teno-muscolari. In preparazione all’ecografia, veniva tosata bilateralmente la regione da indagare, per permettere di ottenere delle immagini ecografiche comparative. Caso n°1: bracco tedesco, maschio, 4,5 anni, con problema di plantigradia del posteriore destro insorta acutamente dopo aver subito un trauma a caccia. Caso n°2: meticcio, femmina, 12 anni, con plantigradia del posteriore destro e sinistro insorta circa 3 mesi prima, con assenza di anamnesi. Caso n°3: setter inglese da caccia, maschio, 20 mesi, con zoppia acuta coinvolgente la spalla destra, lieve dolore ai movimenti di flesso-estensione e test del bicipite dubbio. Caso n°4: Dog De Bordeaux, femmina, 2 anni con zoppia acuta coinvolgente la spalla sinistra, con tumefazione del diametro di circa 2 cm prossimalmente e lateralmente rispetto al trochitere, in presenza di modica dolorabilità articolare. Risultati - discussione: Nei casi 1 e 2 l’esame ecografico ha permesso di evidenziare un coinvolgimento del muscolo Gastrocnemio con lacerazione parziale inserzionale a carico di entrambi i ventri muscolari. La parte più distale del muscolo e il tendine di Achille risultavano invece completamente integre. Pur avendo un quadro clinico simile, le lesioni delle fibre muscolari riscontrate ecograficamente avevano caratteristiche differenti, proporzionali alla cronicità della lesione. A seconda delle condizioni più o meno gravi riscontrate, del tipo di vita svolta dall’animale e dalle aspettative del proprietario, è stata consigliata una terapia conservativa (caso n. 2) o chirurgica (caso n. 1), consentendo un recupero soddisfacente per i rispettivi proprietari. Nel caso n° 3 lo studio ecografico della spalla ha potuto evidenziare una lesione del tendine del muscolo Bicipite, con coinvolgimento dello stesso nel punto di passaggio col ventre muscolare. Infine il caso n° 4 riguarda un esempio di patologia a carico del tendine del muscolo Sopraspinato riconosciuto, nell’esperienza degli autori, come causa di zoppia di spalla relativamente frequente. In questo caso le alterazioni strutturali più importanti sono state riscontrate nel suo punto d’inserzione sul trochitere: a questo livello si evidenziava una lacerazione inserzionale di circa 1/4 del tendine del muscolo sopraspinato, coinvolgente in modo incompleto le corrispettive fibre. Sia il caso n° 3 che 4 sono stati trattati con successo mediante fisioterapia. L’impiego dell’indagine ecografica nei piccoli animali risulta di grande aiuto in tutti i problemi ortopedici in cui si sospetti che vi sia un coinvolgimento di strutture tendinee, legamentose e muscolari, al fine di poter emettere una diagnosi precisa sulla sede della lesione e sull’entità del danno. La sensibilità di questo esame risulta inoltre essere di grande aiuto nella scelta terapeutica migliore, sia essa conservativa o chirurgica, da attuare in questi casi.

Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Olivieri, Clinica Veterinaria Malpensa Via Marconi 55 Samarate - Va Tel. 0331 228155 - Fax 0331 220255 E-mail: maxolivieri@libero.it


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UTILITÀ DELL’ESAME ECOGRAFICO IN CORSO DI IPERADRENOCORTICISMO Roberto A. Santilli Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), GianMarco Gerboni Med Vet Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate (VA) Scopo del lavoro è descrivere in modo retrospettivo i rilievi ecografici in 260 cani che presentavano segni clinici ed esami ematologici riferibili a sindrome da ipercorticosurrenalismo. Sono proposti i dati raccolti dagli autori nell’utilizzo dell’esame ecografico come approccio diagnostico al morbo di Cushing e come mezzo utile a discriminare tra le sue possibili forme. L’utrasonografia ha permesso di visualizzare l’anatomia, di misurare il diametro ventro-dorsale delle ghiandole surrenali nei pazienti esaminati e di rilevare le alterazioni ecografiche correlate allo stato di iperadrenocorticismo. La misurazione di entrambe le ghiandole nei 260 pazienti ha differenziato 66 casi di iperadrenocorticismo corticosurrenalico (ATH) e 194 casi di iperadrenocorticismo ipofisario (PDH), confermati con test sierologici e risposta positiva alle terapie chirurgiche o farmacologiche. Si sono indagate le principali alterazioni ecografiche che la sindrome provoca a carico del parenchima epatico e la presenza di potenziali complicanze nelle strutture vascolari e negli organi addominali. Quando presenti, si sono approfondite le patologie associate e ricercati i loro eventuali riscontri ecografici. In base ai rilievi ultrasonografici si sono suddivisi i soggetti in due gruppi; il primo di 194 cani affetti da iperplasia surrenalica bilaterale (diametro ventro-dorsale > 8,5 mm) indicativo di iperadrenocorticismo ipofiso-dipendente (PDH) ed il secondo costituito da 66 soggetti con iperplasia monolaterale o da massa con ipoplasia controlaterale suggestiva di iperadrenocorticismo surrenalico (ATH). I soggetti con PDH sono rappresentati da 94 maschi, 38 femmine e 62 sterilizzati, con età media di 10,28 ± 2,61 anni e peso corporeo medio di 15,68 ± 11,9 kg. La misura media del diametro ventro-dorsale della surrenale destra è risultata di 9,13 ± 2,63 mm e la media della surrenale sinistra 9,0 ± 2,74 mm. La distribuzione delle misure della surrenale destra è risultata per lo 0% dei soggetti < 3mm; 5,74% tra 3 - 6,5 mm; 47,12% tra 6,5 - 8,5mm; 47,12% > 8,5mm. La distribuzione delle misure della surrenale sinistra è risultata per lo 0% dei soggetti < 3 mm; 6,89% tra 3 - 6,5 mm; 41,37% tra 6,5 - 8,5 mm; 51,72% > 8,5 mm. L’85,8% dei soggetti è risultato affetto da iperplasia semplice bilaterale, il 5,1% da iperplasia nodulare bilaterale, il 5% da iperplasia nodulare destra, il 2,8% da iperplasia nodulare sinistra e l’1,8% aveva surrenali normali. I soggetti con ATH sono rappresentati da 12 maschi, 23 femmine e 31 sterilizzati, con età media di 11,56 ± 2,38 anni e peso corporeo medio di 16,09 ± 10,87 kg. La misura media del diametro ventro-dorsale della surrenale destra è risultata di 12,89 ± 11,74 mm e la media della surrenale sinistra 14,0 ± 11,63 mm. La distribuzione delle misure della surrenale destra è risultata per il 5,26% dei soggetti < 3 mm; 43,86% tra 3 - 6,5 mm; 1,75% tra 6,5 - 8,5 mm; 49,12% > 8,5 mm. Il 43,35% dei soggetti è risultato affetto da massa surrenalica destra per il 69% associata a ipoplasia della ghiandola controlaterale ed il 52,63% da massa surrenalica sinistra per il 73% associata a ipoplasia controlaterale. Le masse a carico della ghiandola destra sono risultate calcifiche nel 30,4%, disomogenee nel 17,4% e nodulari nell’8,7%. Quelle a carico della ghiandola sinistra calcifiche nel 50%, disomogenee nel 6,7% e nodulari nel 6,7%. L’approccio diagnostico proposto dagli autori sfrutta la sensibilità delle informazioni raccolte con l’ultrasonografia per discriminare PDH e ATH e semplificare la scelta dei test sierologici.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Malpensa Viale Marconi, 27 - 21017 - Samarate (VA) Tel. (39) 0331 228155 - Fax (39) 0331 220255 E-mail gerbonig@tin.it


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IL GATTO ANIMALE SOCIALE O ANIMALE RELAZIONALE? Sabrina Giussani Med Vet Comportamentalista ENVF - Busto Arsizio (VA) Introduzione: Lo studioso J.H. Fabre, grazie ai Ricordi entomologici scritti nella seconda metà del 1800, dà origine alla tradizione culturale, presente ancora oggi, che considera il gatto domestico come un animale che si affeziona alla casa e vi ritorna in seguito ad un trasloco abbandonando gli esseri umani con i quali conviveva. La quasi totalità degli Autori che si interessa allo studio del comportamento del gatto selvatico (Felis sylvestris) o domestico (Felis catus), è concorde sulla definizione di animale non sociale per quanto riguarda gli individui di questa specie. J.M. Giffroy, invece, estende il concetto di associazione preferenziale al gatto domestico: alcuni animali possono creare relazioni con conspecifici o con individui appartenenti ad altre specie, come per esempio l’essere umano o il cane. Grazie alla nascita della Sociobiologia, E.O. Wilson interpreta il comportamento sociale in chiave adattativa e ne analizza il rapporto costi/benefici. J. Alcock afferma che le società complesse, come ad esempio la nostra, non necessariamente sono meglio adattate rispetto a quelle in cui “gli individui conducono vita per lo più solitaria. … L’approccio basato sull’analisi dei costi e benefici suggerisce che molte circostanze favoriscono lo sviluppo di comportamenti solitari quali modi di vivere più adattativi”. Quali sono i costi e i benefici del comportamento sociale? La vita in gruppo porta numerosi benefici ai singoli individui come per esempio “la riduzione della pressione esercitata dai predatori” grazie ad un aumento della vigilanza e della maggiore capacità di allontanare il nemico (per esempio i buoi muschiati). L’effetto diluizione abbassa il rischio dell’individuo di essere oggetto di predazione (per esempio i babbuini). I gruppi sociali sono maggiormente efficienti nel procacciare il cibo, soprattutto se le prede sono di grandi dimensioni (per esempio le leonesse), nella difesa del territorio e nella cura e nella difesa dei piccoli. Un ulteriore vantaggio può essere rappresentato dalla trasmissione di “cultura” come ad esempio i rituali nel cane. Allo stesso tempo esistono degli svantaggi come per esempio la competizione per il cibo e per il compagno o la compagna. Inoltre aumenta notevolmente il rischio di diffusione di malattie o parassiti. È possibile supporre che nel gatto selvatico o nel gatto domestico il comportamento solitario in alcune situazioni ambientali costituisca una risposta più adattativa. Esistono differenti gradi di socialità: le interazioni tra il gatto maschio e femmina durante l’accoppiamento e successivamente la relazione tra la madre e i piccoli sono interazioni sociali fondamentali. Inoltre, gli individui della maggior parte delle specie sono in grado di modificare i repertori comportamentali a seconda delle variazioni dell’ambiente. Il comportamento del gatto: Le osservazioni effettuate negli ultimi dieci anni in relazione al comportamento del gatto domestico hanno messo in evidenza che, a seconda delle condizioni di vita, il gatto è in grado di creare differenti strutture sociali: i gruppi, le bande e il matriarcato. I gruppi sono formati da due individui che creano un’associazione preferenziale, inizialmente per fini opportunistici legati alla riproduzione, e in seguito formano una famiglia che rimane unita fino al momento del distacco. Le bande, invece, sono costituite da gruppi di giovani maschi interi solitamente in ambito urbano. Nei matriarcati, presenti soprattutto nelle città in presenza di abbondanti risorse alimentari, la creazione di relazioni sociali è ancora più importante: i piccoli vengono, infatti, allevati in nursery e le femmine del gruppo difendono la tana dai predatori. La convivenza con gli esseri umani spinge la gatta a creare una o più relazioni sociali con i membri della famiglia, anche se la relazione preferenziale spesso è diretta nei confronti di un solo individuo. La maggior parte delle relazioni sociali instaurate non si modifica anche se il gatto ha la possibilità di accedere all’ambiente esterno: alcuni comportamenti come la ricerca del contatto fisico, la condivisione del luogo di riposo e lo svolgimento di attività collaborative permangono inalterati. Bibliografia Alcock J. (2001), “Etologia un approccio evolutivo”, Seconda edizione italiana condotta sulla sesta edizione americana, Zanichelli, Bologna. Giffroy J. M. (2000), “L’éthogramme du cheval et l’éthogramme du chat”, Scuola di Specializzazione in Patologia del Comportamento del cane e del gatto, Tolosa. Bradshaw J.W.S. (1996), “Il comportamento del gatto”, Edagricole, Bologna. Natoli E. (1989), “L’organizzazione sociale dei gatti randagi urbani”, le Scienze, agosto 1989, pp 66-72. Camperio Ciani (2004), Lezioni di sociobiologia, Master in etologia applicata e benessere animale, Bologna. Mannucci A. (2004), Comunicazione personale.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani Via Don Albertario 5, 21052 Busto Arsizio (VA) 333, 1861226 sgiuss@tin.it


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INCONTINENZA URINARIA NEL CANE: TERAPIA CON AGOPUNTURA PER IL TRATTAMENTO DELL’INCOMPETENZA DELLO SFINTERE URETRALE Debora Groppetti Med Vet, Chiara Foresti Med Vet Alessandro Pecile Med Vet PhD, Fausto Cremonesi Med Vet Prof Pat Riprod Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Sezione di Clinica Ostetrica Veterinaria - Università degli Studi di Milano Introduzione: L’incontinenza urinaria (IU) viene definita come la perdita involontaria di urina, che si manifesta in maniera costante o intermittente tra normali episodi di minzione. Si riconoscono numerose cause di IU, congenite ed acquisite, tra cui l’incompetenza dello sfintere uretrale (USMI). L’USMI, descritto come una ‘debolezza dello sfintere uretrale’, è la più frequente causa di IU nei cani adulti, soprattutto in soggetti sterilizzati. L’eziologia rimane ancora poco conosciuta. È una patologia legata a numerosi fattori predisponenti quali razza, sesso, sterilizzazione, posizione del collo della vescica, tono uretrale, lunghezza dell’uretra, obesità. Non esiste al momento una terapia, farmacologica o chirurgica, in grado di risolvere l’IU dovuta ad USMI, valida per tutti i cani. Scopo del lavoro: Valutare l’efficacia della terapia con Agopuntura (AP) nel trattamento dell’IU dovuta ad USMI. Materiali e metodi: 7 cani (6 femmine ed 1 maschio), incontinenti da un periodo variabile da pochi giorni a circa 1 anno dalla sterilizzazione, sono stati trattati con AP. Per ciascun soggetto è stata effettuata una diagnosi occidentale di USMI in seguito all’esclusione delle altre possibili cause di IU tramite segnalamento, anamnesi, EOG, EOP dell’apparato uro-genitale, esame neurologico, esame delle urine, indagine radiografica. Analogamente, per giungere ad una diagnosi cinese e per la scelta degli agopunti, i dati raccolti mediante ispezione, auscultazione/olfattazione, anamnesi, palpazione sono stati analizzati mediante l’applicazione delle regole diagnostiche agopunturali: le otto regole diagnostiche, gli organi, i fattori patogeni, i 6 livelli energetici, le sindromi. Per tutti i soggetti è stato stabilito un protocollo terapeutico standard, impiegando una rosa di punti specifici per l’IU; ulteriori agopunti sono stati scelti in base alla risposta riscontrata, seguendo le leggi energetiche della medicina tradizionale cinese, impostando così un protocollo terapeutico personalizzato. La durata della terapia con AP è stata variabile in funzione della risposta individuale e la valutazione della risposta al trattamento si è svolta monitorando quotidianamente l’evoluzione della sintomatologia, durante il periodo di trattamento e nei mesi successivi. Risultati e discussione: Il trattamento con AP si è dimostrato capace di migliorare la sintomatologia in tutti i soggetti del nostro studio, seppure con modalità e tempi diversi. In 2 soggetti abbiamo ottenuto la remissione clinica completa e permanente, negli altri casi siamo giunti ad un miglioramento tramite terapia agopunturale protratta per lungo tempo, ripetuta ad intervalli variabili. L’unico soggetto obeso, pur rispondendo alla terapia in tempi brevi, ha presentato continue ricadute ed è stato necessario ripetere, mediamente ogni 10 giorni, il trattamento con AP. Da sottolineare che la remissione completa e permanente della sintomatologia (attualmente 18 mesi), ottenuta con il più limitato numero di sedute (n°5) e nel minor tempo (1 mese dall’inizio della terapia con AP), è stata riscontrata in una cagna non sottoposta in precedenza a trattamenti farmacologici o chirurgici. Conclusioni: La terapia agopunturale si è dimostrata un’interessante alternativa alle terapie farmacologiche o chirurgiche per l’IU. L’AP è una tecnica dolce, non invasiva che può essere utilizzata ripetutamente, anche tutta la vita e in qualunque soggetto, evitando eventuali effetti collaterali di terapie tradizionali.

Indirizzo per la corrispondenza: Debora Groppetti Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Sezione di Clinica Ostetrica Veterinaria, Università degli Studi di Milano Via Celoria 10, 20133 Milano Tel. 02 50318151 - Fax 02 50318148 E-mail: debora.groppetti@unimi.it


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FATTORI PROGNOSTICI NEL MASTOCITOMA CUTANEO FELINO Elvio Lepri Med Vet PhD, Monica Sforna Med Vet PhD, Giovanni Ricci Med Vet PhD, Luca Mechelli Med Vet Dipartimento di Scienze Biopatologiche Veterinarie Sezione di Patologia e Igiene Veterinaria - Università di Perugia Introduzione: Il mastocitoma cutaneo (MC) nel gatto è un tumore relativamente frequente, generalmente considerato benigno; esso può tuttavia recidivare nel 36% dei casi e dare metastasi a distanza nel 22%. Il 30-60% dei tumori si presenta in forma multinodulare. I lavori consultati in letteratura scientifica non sono univoci nell’identificare fattori prognostici validi. Scopo del lavoro è valutare il valore prognostico di alcuni caratteri macro- e microscopici dei MC felini. Materiali e metodi: Sono stati considerati 49 MC felini. Di ciascun tumore è stato considerato il tipo cellulare, il modello di crescita, l’indice mitotico (IM), il grado di differenziazione secondo Patnaik (1984), la presenza di infiltrati eosinofilici e linfocitari e la necrosi. La prognosi è stata considerata sfavorevole in presenza di recidive locali, generalizzazione multicentrica cutanea o metastatizzazione profonda. Risultati: I MC felini sono risultati così distribuiti: 33 MC mastocitici compatti, 5 MC mastocitici diffusi, 4 MC misti e 7 MC istiocitici. Essi si sono presentati in 29 casi come lesioni singole, in 12 localmente multinodulari, ed in 8 casi con forme disseminate caratterizzate da numerosissime lesioni. La sede più frequente è risultata la testa, in particolare padiglione auricolare base delle orecchie; numerosi sono risultati anche i tumori delle estremità degli arti (dita-cuscinetti digitali). La prognosi è risultata sfavorevole in 22/49 casi. In 9 casi si sono osservate recidive locali ed in 4 casi generalizzazione sistemica con coinvolgimento viscerale; in 9 casi i gatti sono stati sacrificati per le gravi condizioni generali associate al tumore. Le lesioni singole sono risultate biologicamente benigne in 20/29 casi, le forme multinodulari hanno dato recidive in 4/12 casi e generalizzazione sistemica in 1/12 casi; le forme disseminate sono risultate associate a coinvolgimento viscerale con prognosi infausta in 8/8 casi. I MC istiocitici e misti sono risultati associati a prognosi favorevole in 10/11 casi. Per i MC mastocitici la prognosi variava in dipendenza del modello di crescita: più frequentemente prognosi sfavorevole si è avuta per i MC diffusi (4/5) piuttosto che per i MC compatti (17/33). I tumori con IM alto (> 5 mitosi/10 hpf) hanno dato recidive o metastasi più frequentemente (9/11 casi) di quelli con basso IM (12/27). L’infiltrato linfocitario, quando associato ad estesa necrosi tissutale, ha rappresentato un fattore prognostico sfavorevole. L’incostante infiltrazione eosinofilica è risultata priva di significato prognostico. Lo schema di Patnaik non si è rivelato predittivo nel comportamento biologico dei MC felini. Dalla revisione dei preparati istologici sono emersi alcuni aspetti del MC del gatto che possono avere importanza diagnostica, quali la frequente presenza di cellule bi- o multinucleate in tumori ben differenziati, e l’eritrofagocitosi, ritenuta peculiare dei mastocitomi viscerali del gatto. Conclusioni: Il numero delle lesioni rappresenterebbe un fattore prognostico: forme disseminate sono frequentemente associate a contemporaneo coinvolgimento viscerale e comportano una prognosi infausta; tumori localmente multipli possono anche regredire spontaneamente, ma la prognosi va considerata riservata. Per i tumori singoli la prognosi dipende dai caratteri istologici del tumore stesso: il tipo cellulare è un valido indicatore prognostico, dato che i MC istiocitici hanno prognosi generalmente favorevole; l’indice mitotico risulta il parametro istologico più affidabile per predire il comportamento biologico del MC mastocitico felino ed il modello di crescita diffuso può essere correlato a recidive locali.

Indirizzo per la corrispondenza: Elvio Lepri Dipartimento di Scienze Biopatologiche Veterinarie Sezione di Patologia e Igiene Veterinaria - Università di Perugia Via S. Costanzo, 4. 06126 Perugia Tel. 075 5857769 - Fax 075 5857738 E-mail: elvio.lepri@tin.it


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DINAMICA DELL’OSSIGENO IN ACQUARIO IN RELAZIONE ALL’ALIMENTAZIONE Maurizio Manera Med Vet Dott Ric Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo Introduzione: L’ossigeno svolge all’interno del sistema acquario il ruolo di agente ossidante per antonomasia. Tuttavia l’acqua possiede una bassa capacitanza per l’ossigeno e bassa è la mobilità di quest’ultimo nella prima. L’ossigeno risulta quindi essere il principale elemento limitante l’ecosistema acquario. Al fine di indagare la dinamica dell’ossigeno in acquario, con particolare riguardo alle relazioni intercorrenti con la somministrazione di cibo, con utili risvolti pratici nell’allestimento e nella gestione del sistema acquario, si è proceduto a pianificare un idoneo protocollo sperimentale. Materiali e metodi: La sperimentazione è stata condotta in un acquario di cristallo da 50 l (l x p x h, 60 x 25 x 40 cm), con filtro interno (spugna sintetica e cannolicchi ceramici) e pompa di circolazione centrifuga (150 l/h) ospitante 11 pesci rossi (Carassius auratus, L) (valori medi ± errore standard: lunghezza standard, 8.31 ± 0.40 cm; peso, 16.52 ± 1.21 g) ad una densità di 3.63 g pesce/l di acqua (acqua a 19° C). Ai pesci, mantenuti a digiuno per 48 h, al fine di stabilizzarne il metabolismo (consumo di ossigeno), è stato somministrato, per un totale di 5 repliche, del mangime estruso granulare (proteina greggia, 47.61%; grassi greggi, 6.94%; fibra greggia, 0.55%; ceneri 10.79%; umidità, 5.2%). A t0 (prima della somministrazione del cibo) ed a t60, t120, t180, t240, t270, t300 (minuti dalla somministrazione), si è proceduto al prelievo dell’acqua di acquario ed alla misurazione dell’ossigeno disciolto mediante metodica spettrofotometrica. I dati numerici ottenuti sono stati elaborati statisticamente per valutare la correlazione tra la concentrazione di ossigeno ed il trascorrere del tempo. Risultati: La concentrazione di ossigeno misurata a t0 è stata mediamente di 4.72 mg/l, contro una concentrazione teorica alla saturazione a 19° C, di 9.33 mg/l. Tale gap corrisponde al consumo di ossigeno degli organismi aerobi d’acquario e propende per un acquario decisamente sovraffollato. I successivi valori medi (t60, 3.94; t120, 3.40; t180, 3.34; t240, 2.63; t270, 1.74; t300, 1.74) sono risultati negativamente e linearmente correlati con il trascorrere del tempo (coefficiente di correlazione di Pearson, 0.97; O2= -0.01t + 4.69; r2= 0.94; p< 0.01). Tale dinamica rende conto dell’incremento del metabolismo legato all’inizio dei processi digestivi ittici, influenzato dalla quantità/qualità del cibo somministrato. Nonostante l’ottima correlazione lineare negativa, all’interpolazione curvilinea dei dati sono emerse due “discontinuità”, tra t120 e t180 e tra t270 e t300, a tendenza asintotica per un valore, rispettivamente, di circa 3.30 mg/l e 1.7 mg/l. Quest’ultima è imputabile al raggiungimento del plateau nel rapporto differenziale intercorrente tra ossigeno consumato, nell’unità di tempo, dagli organismi aerobi e ossigeno atmosferico che si discioglie, nell’unità di tempo, in acqua d’acquario. La prima dipende, invece, dall’incipiente escrezione branchiale di azoto ammoniacale, con conseguente incremento della nitrificazione batterica (ossigeno dipendente) nel filtro biologico. I pesci in digestione hanno ridotto del 30% la concentrazione di ossigeno rispetto al digiuno (da 4.72 mg/l a 3.34 mg/l); i batteri, per contro, sono stati in grado di ridurlo del 50% rispetto alle condizioni di partenza (da 3.34 mg/l a 1.74 mg/l). Conclusioni: I dati ottenuti confermano l’importanza del monitoraggio dell’ossigeno disciolto in acquario nonché la necessità, per il medico veterinario, di conoscere il metabolismo degli organismi aerobi ospitati in acquario come imprescindibile requisito per una proficua conoscenza della dinamica di questo fondamentale fattore limitante.

Indirizzo per la corrispondenza: Dott. Maurizio Manera Dipartimento di Scienze degli Alimenti. Facoltà di Medicina Veterinaria Piazza Aldo Moro, 45 - 64100 Teramo E-mail: maurizio.manera2@tin.it


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ASPETTI CLINICI, CITOLOGICI, ISTOLOGICI ED IMMUNOPATOLOGICI DI UN MELANOMA CONGIUNTIVALE IN UN CANE Veronica Marchetti1 DVM PhD SPCAA, Giovanni Barsotti1 DVM PhD SPCAA, Francesca Millanta2 DVM 1 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa 2 Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa Scopo del lavoro: Descrizione di un caso di melanoma congiuntivale primario in un cane nei suoi aspetti clinici, citologici, istologici ed immunopatologici. Descrizione del caso: Un cane di razza Drathaar, maschio intero, di anni 12, è stato presentato alla nostra attenzione per la comparsa da circa 1 mese di una neoformazione in accrescimento rapido progressivo all’occhio sinistro. Il paziente si presentava in buone condizioni cliniche generali. Alla visita oftalmologica si evidenziavano due masse distinte: l’una, pigmentata, che coinvolgeva la congiuntiva palpebrale della membrana nittitante, l’altra, non pigmentata, interessante la congiuntiva bulbare inferiore in prossimità del canto temporale. Il globo appariva enoftalmico e la cornea presentava edema localizzato nei quadranti inferiori con perdita della sua convessità in corrispondenza della massa mediale. Non si evidenziavano lesioni alle altre strutture dell’occhio, né all’occhio controlaterale. L’esame citologico eseguito per agoinfissione rivelava in entrambe le neoformazioni, la presenza di una popolazione di cellule tissutali, alcune di aspetto fusato, altre di aspetto più rotondeggiante, con marcati caratteri di malignità citologica; in un limitato numero di cellule era possibile evidenziare alcune fini granulazioni citoplasmatiche blu-nerastre. Il quadro citologico era suggestivo di neoplasia maligna e sospetto di melanoma. Le radiografie del torace nelle proiezioni standard e l’ecografia addominale non rilevavano alterazioni; il linfonodo sottomandibolare corrispondente, appena apprezzabile alla palpazione, appariva normale all’esame citologico eseguito per agoinfissione; l’esame emocromocitometrico, il profilo biochimico e l’analisi delle urine risultavano nella norma. Si procedeva ad un’enucleazione con tecnica transpalpebrale con escissione completa dei margini palpebrali, della congiuntiva e del globo. Il referto dell’esame istopatologico rilevava che le due neoformazioni erano in realtà connesse a livello di fornice congiuntivale inferiore; era evidente un ispessimento marcato della congiuntiva per la presenza di una lesione scarsamente delimitata, con epitelio sovrastante focalmente ulcerato, caratterizzata da proliferazione di nidi e piccoli fasci di cellule di aspetto epitelioide e fusato, delimitata da esile trama connettivale. Le cellule neoplastiche mostravano spiccati segni di atipia cellulare, 6-8 mitosi/10 hpf e, focalmente, contenevano pigmento melanico intracitoplasmatico. Era presente un denso infiltrato linfoplasmacellulare. Il quadro istologico era riferibile a melanoma congiuntivale misto. La neoplasia non infiltrava cornea, iride e sclera. L’immunoistochimica rilevava una positività delle cellule neoplastiche alla vimentina, all’S100 e al MART-1. Il follow up a 6 mesi era negativo per metastasi e non erano apprezzabili né clinicamente né ecograficamente masse neoformate orbitali. Conclusioni: Le neoplasie congiuntivali nel cane sono piuttosto rare e scarsamente documentate; la particolarità del caso descritto consiste nella completezza dello studio clinico, citologico, istologico ed immunopatologico. L’identificazione della neoplasia maligna attraverso l’esame citologico, tipizzata poi dall’esame istopatologico ed immunoistochimico, ha permesso di escludere dal diagnostico differenziale forme flogistiche e neoplasie benigne ed ha indirizzato verso l’esecuzione di un completo bilancio estensivo ed un approccio chirurgico aggressivo. È fondamentale una diagnosi precoce poiché questa neoplasia, come nell’uomo e similmente al melanoma che interessa le mucose, mostra un comportamento biologico molto aggressivo, con metastasi a distanza e recidive locali (circa il 55% dei casi). Indirizzo per la corrispondenza:

Veronica Marchetti Dipartimento di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa Via Livornese, 56010 San Piero a Grado (PI) Tel. 335/6457302; 050-31351 - Fax 050-3135182 E-mail: v.marchetti@vet.unipi.it


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INDAGINE SULLA PREVALENZA DEI PATOGENI PIÙ COMUNEMENTE ASSOCIATI ALLE INFEZIONI RESPIRATORIE DEL GATTO Fulvio Marsilio1 Med Vet, Barbara Di Martino1 Med Vet, Cristina E. Di Francesco1 Med Vet, Ilaria Meridiani1 Med Vet, Alessia Gloria1 Med Vet, Luigi Grosso2 Med Vet, Andrea Virgulti2 Med Vet 1 Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo 2 Libero professionista, Ascoli Piceno Feline calicivirus (FCV), Feline herpesvirus type 1 (FHV-1) e Chlamydophila felis (Ch. felis) sono riconosciuti come le cause più comuni di Upper Respiratory Tract Disease (URTD) nel gatto anche se in Italia non sono state condotte indagini atte ad accertare la loro reale prevalenza. Inoltre, risulterebbero sempre più frequenti le segnalazioni relative all’isolamento di Bordetella bronchiseptica in gatti con sintomatologia respiratoria. La diagnosi di certezza di queste infezioni prevede l’invio del materiale da esaminare al laboratorio al fine di procedere all’isolamento ed all’identificazione dell’agente eziologico. Recentemente, tuttavia, sono state allestite metodiche basate sull’uso della PCR che, rispetto alle tecniche tradizionali, offrono vantaggi quali rapidità di esecuzione, elevata sensibilità e specificità e possibilità di identificare patogeni di difficile coltivazione. Nella presente nota vengono riportati i risultati di uno studio eseguito su una popolazione di gatti con sintomi riferibili a URTD al fine di valutare la prevalenza degli agenti patogeni più comunemente associati alle infezioni respiratorie del gatto, utilizzando come test diagnostici una duplex-PCR-RFLP per FHV-1 e Ch. felis, una one step nested RT-PCR per la diagnosi dell’infezione da FCV ed una PCR specifica per B. bronchiseptica. Nel periodo compreso tra ottobre 2002 e aprile 2003 sono stati prelevati n° 54 campioni mucosali costituiti ciascuno da un tampone faringeo (TF) ed un tampone congiuntivale (TC). In alcuni gatti non è stato possibile eseguire entrambi i tamponi ed in particolare in tre animali non è stato eseguito TC e in otto TF. Tutti i campioni mucosali sono stati sottoposti ad estrazione degli acidi nucleici mediante un kit del commercio (QIAamp UltraSens Virus, Qiagen). L’identificazione di FHV-1 e Ch. felis è stata eseguita secondo una metodica già in uso presso il nostro laboratorio. Per quanto riguarda FCV, la one step nested RT-PCR ha previsto dapprima un’amplificazione di una sequenza di 967 bp inclusa nel gene ORF2 e successivamente, al fine di aumentare la sensibilità della tecnica, un’ulteriore amplificazione dell’amplicone mediante una coppia di primers interni. La sequenza bersaglio per B. bronchiseptica è rappresentata da una regione di 284 bp del gene fim3. I risultati delle prove eseguite nelle diverse PCR hanno mostrato una circolazione dei quattro patogeni nella popolazione da noi indagata. Infatti, sono risultati positivi n° 45 gatti (83,33%) e più in particolare n° 34 (62,96%) a FCV, n° 31 a FHV-1 (57,40%), n° 17 (31,48%) a B. bronchispetica e n° 7 (12,96%) a Ch. felis. Considerando la positività relativa al tipo di tampone, si osserva come, ad eccezione di Ch. felis la cui identificazione è avvenuta solo a partire da TC, per FCV, B. bronchiseptica e FHV-1 è risultato necessario ricorrere al prelievo sia di TC che di TF per addivenire al loro riconoscimento. Le infezioni miste sono state riscontrate nel 51,85% degli animali esaminati. In particolare: otto animali (14,81%) sono risultati positivi a FCV e FHV-1; un gatto (1,85%) ha mostrato positività nei confronti di FHV-1 e B. bronchispetica e un altro verso FHV-1 e Ch. felis; quattro soggetti sono risultati infetti da FCV e B. bronchispetica ed altri quattro hanno mostrato positività verso FHV-1, FCV e Ch. felis; otto gatti (14,81%) sono risultati positivi nei confronti di FHV-1, Ch. felis e B. bronchispetica; infine, solo due soggetti (3,7%) sono risultati infetti da tutti e quattro i patogeni. I dati che scaturiscono da questo studio permettono di evidenziare come FCV e FHV-1 rappresentino gli agenti patogeni più comunemente associati a URTD. Inoltre, rispetto a studi precedenti, è stato osservato un incremento di positività verso B. bronchiseptica.

Indirizzo per la corrispondenza: Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo Piazza Aldo Moro, 45, 64100 Teramo Tel/Fax +39.0861412868 E-mail: marsilio@unite.it


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IMMAGINI TOMOGRAFICHE NEL FOLLOW UP DI INTERVENTI DI DARTROPLASTICA DI SLOCUM Mario Modenato DVM, Simonetta Citi DVM Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa Introduzione: La DARtroplastica di Slocum è una tecnica per il trattamento della displasia dell’anca che trova indicazione in quei pazienti che non sono più trattabili con la Triplice Osteotomia Pelvica (TPO), o nei quali non sia possibile un’artroprotesi totale (THR). In questi soggetti, la DARtroplastica consente di ottenere una nuova copertura dorsale all’acetabolo che limita lo stiramento capsulare e restituisce al paziente la possibilità di un pieno carico funzionale. Il controllo dell’evoluzione dell’innesto verso l’osteointegrazione viene effettuato attraverso esami radiografici che comprendono la proiezione ventro-dorsale ad arti estesi e la DAR, per valutare l’aspetto del cavo acetabolare nella porzione sottoposta al maggior carico funzionale ed alla maggiore possibilità di danneggiamento durante il movimento. Questa proiezione però, per la sovrapposizione di parte dell’ala iliaca e della tuberosità ischiatica, fornisce immagini non precise, almeno per quanto riguarda la valutazione dell’osteointegrazione dell’innesto. Scopo del lavoro: Le finalità del lavoro sono state quelle di confrontare i rilievi clinici e radiografici convenzionali con quelli tomografici per meglio valutare i risultati a breve-medio termine degli interventi eseguiti. Si è voluto verificare il grado di osteointegrazione così come appare sulla proiezione DAR e sulla TC, per valutare l’accuratezza e l’affidabilità dell’indagine radiografica convenzionale nella stima dell’evoluzione della neoformazione ossea costituente il ciglio acetabolare sussidiario. Metodo: Dopo gli interventi di DARtroplastica acetabolare, con soggetti ancora in anestesia generale, sono stati eseguiti controlli radiografici con proiezione ventro-dorsale ad arti estesi e DAR, seguiti da un controllo con TC. Per l’acquisizione delle immagini TC i pazienti sono stati posti in decubito dorsale, con arti posteriori semiflessi e moderatamente abdotti. I controlli radiografici e tomografici sono stati ripetuti a 60 giorni dall’intervento con analoghe modalità Risultati: In tutti i casi esaminati, nell’immediato postoperatorio la TC ha permesso di confermare il corretto posizionamento dell’autoinnesto, fornendo immagini suggestive ma con informazioni non dissimili da quelle fornite dalla proiezione DAR. Al controllo a 60 giorni, in tutti i casi i soggetti si sono presentati con una deambulazione normale, senza segni di dolorabilità spontanea, con netto miglioramento del movimento, della resistenza allo sforzo e dell’agilità. La proiezione DAR ha mostrato il progredire della formazione del ponte osseo dorsale all’acetabolo, con presenza di aree di radiodensità disomogenea a carico di tutto il segmento innestato. Al controllo TC l’innesto appariva con una buona conformazione, simile a quella descritta da Slocum ed attesa come risultato, con presenza di un gap di ampiezza variabile da 1 a 3 mm fra il ciglio acetabolare dorsale e l’innesto. Conclusioni: Tutti i casi trattati hanno mostrato quindi una buona ripresa funzionale post-operatoria, con scarse o nulle complicanze. La valutazione radiografica mediante proiezione standard ventro-dorsale e DAR non ha però consentito di stimare adeguatamente la quantità di tessuto osseo neoformato e/o il grado di osteointegrazione dell’innesto. Questo può costituire un limite nella valutazione prognostica del risultato dell’intervento. La valutazione attraverso TC ha però confermato la buona formazione del neotetto acetabolare, secondo le indicazioni e le aspettative descritte da Slocum, confermando quindi, al di là della valutazione clinica e radiografica, la validità della tecnica e la sua capacità di restituire i pazienti ad una buona funzione articolare in tempi relativamente rapidi.

Indirizzo per la corrispondenza: Mario Modenato Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa Via Livornese lato monte - 56010, San Piero a Grado, Pisa Tel. 050.31351, 335.8302197 - Fax 050.3135182 E-mail: modenato@vet.unipi.it


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MISURAZIONE DELLO STRESS OSSIDATIVO NEL CANE ATLETA P. P. Mussa*, C. Abba**, L. Prola*** *Professore Ordinario - Dipartimento di Produzioni animali, epidemiologia ed ecologia Facoltà di Medicina Veterinaria - Università di Torino - Via Leonardo da Vinci 44 10195 Grugliasco (TO) **Medico Veterinario - PhD - Via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO) ***Medico Veterinario - Dottorando di ricerca - Via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO) Premessa: La lotta allo stress ossidativo è oggetto di crescente interesse anche in medicina veterinaria. Gli studi più recenti hanno dimostrato che un incremento di questo tipo di stress è possibile nelle condizioni di accentuati ed intensi processi metabolici, tipici di svariate condizioni fisiologiche (come ad esempio il lavoro muscolare) 1,2,3. C’è spesso confusione riguardo al significato dei termini “ossidante”, “stress ossidativo”, “danno ossidativo” ed “antiossidante”. Un ossidante è una qualsiasi sostanza presente nell’organismo capace di ossidare molecole come lipidi, proteine, nucleotidi e vitamine. Lo stress ossidativo è una situazione di squilibrio tra la produzione di radicali liberi ed i meccanismi antiossidanti con conseguente danno ossidativo. Di conseguenza si può avere questa condizione sia per un aumento della produzione di sostanze ossidanti sia per una diminuzione dell’attività antiossidante dell’organismo1. Un antiossidante è una molecola, esogena o endogena, in grado di neutralizzare i radicali liberi una volta formatisi e prevenire la loro formazione. I meccanismi di difesa messi in atto dagli organismi aerobi per difendersi dai radicali liberi sono molteplici e sono interconnessi gli uni con gli altri in modo da formare un sistema antiossidante integrato. Questi agiscono a vari livelli, ad esempio nelle membrane cellulari, nel citoplasma o nel sangue e possono essere prodotti dall’organismo stesso oppure introdotti con la dieta. I primi sono in genere enzimi che intervengono nelle reazioni di detossificazione, mentre quelli esogeni sono delle molecole di basso peso molecolare che hanno la capacità di cedere o acquistare elettroni interrompendo le reazioni a catena che portano alla formazione di radicali liberi e quindi al danno cellulare. Dal punto di vista alimentare, per incrementare le difese dell’organismo, si può solamente intervenire su questi ultimi 4. Si è comunque visto che in realtà le cosiddette terapie antiossidanti non sono altro, nella maggior parte dei casi, che trattamenti mono-antiossidanti, in sintonia con l’ipotesi ampiamente accettata dalla comunità scientifica che queste sostanze, qualsiasi sia la loro natura, formino un pool dinamico ed integrato, in cui il deficit di uno o più componenti può essere compensato dall’incremento di una o più molecole dello stesso pool, in modo da mantenere l’omeostasi ossido-riduttiva contro il danno ossidativo5. I marker dello stress ossidativo sono soprattutto prodotti finali di degradazione delle reazioni dei ROS con lipidi, proteine, carboidrati, DNA ed altre molecole. Questi prodotti hanno un’emivita più lunga dei radicali liberi e quindi sono più facili da misurare; per questo motivo questi marker sono utilizzati nella valutazione dello stato ossidativo5,6. Col presente lavoro si è cercato di valutare l’evoluzione dello stato ossidativo in cani da lavoro sottoposti a sforzo. Materiali e metodi: Cinque cani adulti da caccia, seguiti da un veterinario esperto di medicina sportiva ed oggetto di monitoraggio sanitario nell’ottica di ottimizzarne le prestazioni e salvaguardarne la salute, sono stati sottoposti a due serie di indagini: prima prova su treadmill (tempi e velocità: 5’ a 2,8 km/h; 4,7’ a 5 km/h; 7’ a 8 km/h; 3’ a 10,5 km/h; pendenza: 0; temperatura: 22 °C; umidità: 55%), seconda prova, lavoro di campo (terreno pianeggiante con pochi ostacoli; tempi: 60’; temperatura: 24 °C; umidità relativa 60%). Il grado di stress ossidativo è stato misurato utilizzando la metodica del TBARS; sono stati eseguiti prelievi di sangue dalla vena cefalica di ogni soggetto prima dello sforzo, immediatamente dopo, dopo 1 ora e dopo 6 ore. Sono stati inoltre presi in considerazione altri parametri per misurare l’entità del lavoro svolto e precisamente: - il rilievo della temperatura corporea prima e dopo lo sforzo con un termometro digitale; - la misurazione della lattacidemia e della glicemia prima dello sforzo, subito dopo ed a distanza di 1 ora; - il rilievo della frequenza cardiaca tramite cardiofrequenzimetro. Sui dati ottenuti è stato eseguito un confronto delle medie campionarie tramite T-test di Student per dati appaiati utilizzando il programma SPSS 10.0 per Windows. Risultati: Il rilievo della temperatura ha messo in evidenza un aumento medio di 1,2 °C . Le misurazioni della lattacidemia sono risultate statisticamente significativo solo nel confronto fra valori rilevati subito dopo sforzo e dopo 1 ora. La misurazione della glicemia non ha evidenziato differenze significative tra i prelievi effettuati prima e dopo lo sforzo. La registrazione della frequenza cardiaca ha evidenziato un diverso andamento a seconda del tipo di lavoro: su treadmill, all’aumento della velocità e dei relativi tempi di esposizione, si è registrato un aumento della frequenza cardiaca (da 120 a 240 pulsazioni/minuto), molto variabile da soggetto a soggetto, ma tendenzialmente stabile ad una determinata velocità. Durante il lavoro di campo si sono registrati picchi di aumento omogenei e frequenti (fino a 240 pulsazioni/minuto), seguiti da corrispettivi abbassamenti a valori di molto inferiori (120-140 pulsazioni/minuto). Il test del TBARS non ha permesso di evidenziare differenze statisticamente significative tra le varie coppie di valori presi in considerazione, pur in presenza di un aumento dei valori registrati dopo il lavoro. Conclusioni: Contrariamente ad alcuni dati di letteratura, nelle condizioni lavorative da noi indagate e con i soggetti utilizzati, non si è evidenziato uno stress ossidativo misurabile con le metodiche adottate. La mancanza di differenze significative tra i valori della glicemia prima e dopo le prove potrebbe essere imputabile a due fattori: da una parte la modica intensità dell’esercizio, che non ha causato un forte aumento della richiesta di glucosio da parte dell’organismo, dall’altra la relativa condizione di allenamento dei soggetti che ha consentito il mantenimento dell’euglicemia. Anche i valori di temperatura corporea rilevati confermano quanto precedentemente affermato.


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Il test del TBARS ha fornito risposte differenti rispetto a quelle che ci si poteva aspettare valutando la bibliografia2,3,7: infatti i soggetti da noi testati, pur avendo compiuto uno sforzo fisico, non sono andati incontro a fenomeni di eccessiva perossidazione lipidica sebbene in entrambe la prove (Treadmill e Campo) si noti un lieve aumento (non statisticamente significativo) di questi parametri. Le spiegazioni possono essere molteplici: in primo luogo la tipologia di lavoro, di media intensità e durata, che probabilmente non è stato in grado di modificare significativamente l’equilibrio ossidativo; in secondo luogo la condizione di allenamento dei soggetti, che può aver aumentato la capacità di adattamento dell’organismo alle condizioni di stress ossidativo; in terzo luogo il substrato genetico, selezionato da generazioni per compiere un lavoro lungo ed impegnativo. Probabilmente le condizioni lavorative cui sono stati sottoposti non sono state sufficienti a produrre in tali animali stress ossidativi di un certo rilievo. Si può infine ancora ipotizzare che l’alimentazione equilibrata di cui potevano usufruire tali soggetti abbia giocato un ruolo non secondario nel proteggerli dallo stress ossidativo, mediante la messa a disposizione di sostanze antiossidanti di origine alimentare. Questo depone a favore del fatto che, nel corso dell’esercizio fisico, non vi sia stata produzione di radicali liberi in eccesso. Nonostante l’indagine sperimentale condotta sia da ritenere preliminare e necessiti di ulteriori ricerche, si può affermare che, nel cane da caccia mediamente allenato e ben alimentato, dopo un esercizio di media entità e durata non si assiste ad un aumento significativo dello stress ossidativo. Bibliografia 1. Ji L., Leichtweis S., (1997), Exercise and oxidative stress: sources of free radicals and their impact on anti-oxidants systems, Age, (n° 20), 91-106. 2. Hinchcliff K.W., Piercy R.J., Baskin C.R., DiSilvestro R.A., Reinhart G.A., Hayek M.G., Chew B.P., (2000), Oxidant Stress, Oxidant Damage, and Antioxidants: Review and Studies in Alaskan Sled Dogs, Recent advances in canine and feline nutrition, Orange Frazer Press, Wilmington, Ohio, USA, 517529. 3. Hinchcliff K., Reinhart G., DiSilvestro R., (2000), Oxidant stress in sled dogs subjected to repetitive endurance exercise, Am J Vet Res, (n°61), 512. 4. Piercy R.J., Hinchcliff K., DiSilvestro R., (2000), Effect of dietary supplements containing antioxidants on attenuation of muscle damage in exercising sled dogs, Am J Vet Res, (n°61), 1438-1445. 5. Passi S., Stancato A., Cocchi M., (2001), Monitoraggio dello stress ossidativo nell’invecchiamento e nelle patologie ad esso correlate, Progress in Nutrition, (anno 3, n°1), 35-58. 6. De Zwart L.L., Meerman J.H.N., Commandeur J.N.M., Vermeulen N.P.E., (1999), Biomarkers of free radical damage applications in experimental animals and in humans, Free Radical Biology & Medicine, (vol. 26, n°1-2), 202-226. 7. Hill R.C., Armstrong D., Browne R.W., Lewis D.D., Scott K.C., Sundstrom D., Harper E.J. (1999), Some evidence for possible oxidative stress in trained greyhounds after a short sprint race, The FASEB Journal, (vol. 14, n°4), 671.

Indirizzo per la corrispondenza: P. P. Mussa Via Leonardo da Vinci 44 - 10195 Grugliasco (TO) Tel. 011/6709210 - Fax 011/6709240 E-mail: pierpaolo.mussa@unito.it


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ANESTESIA VENOSA RETROGRADA: TRE CASI CLINICI CON LIDOCAINA E MEDETOMIDINA Lorenzo Novello1 Med Vet, Barbara Carobbi2 Med Vet Marco Scandone Med Chir Spec in Anestesia, Rianimazione, Terapia Antalgica e Terapia Iperbarica 1 Libero professionista, Padova 2 Libero professionista, Lucca 3 Servizio di Anestesia, Ospedale civile di Voghera (Pavia) 3

Anestesia delle estremità: l’anestesia venosa retrograda (AVR) o “tecnica di Bier” fu scoperta nel 1908 da August Bier e modificata da Holmes nel 1963. Essa rappresenta una valida alternativa per l’anestesia delle estremità distali non solo in sala operatoria ma anche in emergenza, risultando per esempio, in caso di fratture, una tecnica efficace e sicura per la riduzione, il bendaggio e l’esecuzione di procedure diagnostiche (radiogrammi, ecc.). Se in medicina viene utilizzata con successo sia nell’adulto che nel bambino, sia in elezione che in emergenza, al contrario in medicina veterinaria non gode di ampia popolarità e pochissimi sono gli articoli o i report clinici su tale tecnica nel cane e nel gatto. Anestesia Venosa Retrograda (AVR): consiste nell’applicare prossimalmente un impedimento alla circolazione e nell’iniettare distalmente un anestetico locale in una vena. L’anestesia si instaura rapidamente e permane fino alla rimozione dell’impedimento al circolo, dopo di che scompare rapidamente senza lasciare alcuna sequela: risulta quindi indicata quando si desideri una verifica funzionale precoce oppure una remissione completa del blocco alle dimissioni. La tecnica prevede l’esanguinazione dell’estremità coinvolta e l’applicazione di un tourniquet pneumatico per tutta la durata della procedura. L’AVR è semplice, ripetibile, facile da effettuare e sicura a patto che chi la esegue ne conosca perfettamente i principi: in tal caso è veloce da eseguire, garantisce analgesia e un campo esangue, durata ed estensione vengono stabiliti dall’operatore indipendentemente dall’anestetico locale utilizzato. Al termine il recupero è altrettanto rapido ed altrettanto indipendente dall’anestetico scelto. Esistono controindicazioni assolute all’AVR, ad esempio i blocchi cardiaci non in terapia, allergie od ipersensibilità agli anestetici locali, ecc. Il posizionamento del tourniquet richiede accorgimenti specifici per evitare possibili complicanze. L’uso di farmaci adiuvanti, in aggiunta all’anestetico locale, per incrementare l’efficacia del blocco è riportato in bibliografia: oppioidi e tramadolo non migliorano il blocco e presentano effetti collaterali indesiderati, alcuni bloccanti neuromuscolari migliorano il blocco senza presentare effetti collaterali, tra i FANS il solo ketorolac sembra migliorare notevolmente il blocco, la clonidina (un alfa2 agonista) migliora la tolleranza al tourniquet e sembra migliorare il blocco senza presentare i tipici effetti collaterali quali bradicardia e/o ipotensione. In medicina veterinaria è riportato l’uso della sola lidocaina e non ci sono riferimenti all’utilizzo di farmaci adiuvanti. Casi clinici: a tre cani, 2 maschi e 1 femmina, di età compresa tra 6 e 10 anni, da sottoporre a chirurgia escissionale a carico di una estremità distale, è stata somministrata un’AVR. Dopo aver indotto l’anestesia generale, esanguinato l’estremità da sottoporre ad intervento e posizionato un manicotto a pressione, si è iniettata attraverso un catetere endovenoso 24G posizionato distalmente una soluzione di lidocaina (Lidocaina 20 mg/ml, Pierrel) 1% in fisiologica 0,9% alla dose di 4 mg/kg e medetomidina (Domitor, Pfizer) alla dose di 0,002 mg/kg. Al termine della chirurgia, dopo un intervallo compreso tra 35 e 55 minuti, il manicotto è stato sgonfiato. Né dopo l’iniezione della soluzione né dopo il rilascio del tourniquet si sono rilevate alterazioni del tracciato ECG o variazioni significative della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sistemica. Conclusioni: nei nostri tre casi l’aggiunta di medetomidina alla dose di 0,002 mg/kg alla lidocaina per l’AVR non ha prodotto nessuna alterazione di ritmo, frequenza cardiaca e pressione arteriosa riferibile ad un effetto sistemico del farmaco.

Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Novello Via Tornara 1/2 - Cavriago (Reggio Emilia) Tel. +39 348 6128085 - Fax 02 700426213 E-mail: lorenzonovello@yahoo.com


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TERAPIA OMEOPATICA E PROBLEMI COMPORTAMENTALI NEL CANE E NEL GATTO: UNA VIA POSSIBILE Maria Serafina Nuovo, Med Vet Libero Professionista, Torino Scopo del lavoro: Scopo del presente lavoro è di mostrare quanto lo studio del comportamento animale sia una traccia fondamentale nel processo di comprensione delle problematiche di relazione di cani e gatti. Tali problematiche possono essere affrontate e risolte con l’utilizzo della terapia omeopatica, eventualmente associata a norme comportamentali che andranno valutate caso per caso. Materiali e metodi: Vengono presentati alcuni casi caratterizzati da disturbi del comportamento nel cane (ansia da separazione/fobie) e nel gatto (disturbi eliminatori/stereotipie) e viene illustrato l’iter diagnostico seguito dal veterinario omeopata unicista (che utilizza cioè il rimedio unico nella sua pratica clinica). Risultati ottenuti: La positività dei dati ottenuti è chiaramente legata ad una corretta applicazione della metodologia omeopatica, la quale prevede anche un attento studio del comportamento delle specie prese in considerazione. In tutti i casi presentati è evidente il netto miglioramento del disturbo principale o la sua scomparsa, accompagnato da un maggior benessere del soggetto, manifestato con una ripresa delle relazioni sociali e un rinnovato interesse verso l’attività ludica e di esplorazione dell’ambiente. Conclusioni: L’analisi di questi casi dimostra come possa essere utile ed interessante una integrazione tra metodi terapeutici differenti e come le radici per una buona prescrizione affondino nel fertile terreno dello studio della medicina, che è una sola.

Indirizzo per la corrispondenza: Dott.ssa M. Nuovo Via Casalborgone, 32 - 10132 Torino Tel. 011 8195513 E-mail: marnuovo@tin.it


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ESPERIENZE PERSONALI SUL TRATTAMENTO ARTROSCOPICO DELL’OCD DI SPALLA IN 150 CASI: RECENTI ACQUISIZIONI Massimo Olivieri1 Med Vet, Emanuela Ciliberto2 Med Vet PhD, Bruno Peirone2 Med Vet PhD Aldo Vezzoni3 Med Vet Dipl ECVS 1 Libero professionista, Samarate (VA) e Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino 2 Dipartimento di Patologia animale, Università di Torino 3 Libero professionista, Cremona Introduzione: L’osteocondrite dissecante della testa omerale (OCD) è una causa frequente di zoppia di spalla nei cani in accrescimento di media-grossa mole. La chirurgia artroscopica di questa patologia prevede di rimuovere il flap e di curettare i margini della lesione. Il tipo di trattamento del letto subcondrale dipende invece dalla sua valutazione ingrandita intraoperatoria. La gestione del periodo post-operatorio varia infine in base all’estensione e alla localizzazione della lesione articolare. Con questo approccio gli autori hanno ottenuto una percentuale di recupero funzionale totale elevata (94%). Attualmente sono in corso studi retrospettivi per valutare la causa della persistenza della zoppia in alcuni soggetti del presente studio. Materiali e metodi: Nel presente lavoro sono stati inclusi 150 cani con zoppia di spalla e lesione osteocondrale operati in artroscopia tra il Gennaio 1996 e il Gennaio 2002. I criteri di esclusione sono stati la presenza di altre lesioni nella stessa articolazione o in altre sedi dello stesso arto. Durante la procedura operativa il flap veniva rimosso sotto visione. Il letto subcondrale non veniva curettato se la sua valutazione ingrandita e la corrispettiva palpazione metteva in evidenza una buona fibrocartilagine in rigenerazione. Viceversa, in presenza di scarsa rigenerazione venivano effettuati piccoli fori nel subcondrale fino ad ottenimento di sanguinamento, mentre in presenza di sclerosi si conseguiva lo stesso risultato previo curettage superficiale di tutto il letto della lesione. Infine, nei casi in cui il flap non veniva rinvenuto nella sede originaria, si effettuava una accurata ispezione dell’intera articolazione per cercare il lembo migrato e, se rinvenuto, veniva al tempo stesso rimosso. Nei soggetti con flap a localizzazione caudo-centrale nell’ultimo anno è stata applicata una fasciatura a carpo flesso per le prime 3-4 settimane dopo l’intervento associata a fisioterapia. Risultati: L’esame artroscopico ha permesso di evidenziare una lesione osteocondrale in 150 casi: 97 avevano una posizione caudo-centrale mentre 53 caudo-mediale o mediale. In 19 di questi casi il flap era migrato mentre in altri 11 esso non veniva trovato anche dopo accurata ispezione articolare. In tutti i casi in cui il flap era ancora in sede o dislocato, era evidente una buona rigenerazione di fibrocartilagine nel letto subcondrale. Riguardo gli 11 casi con flap apparentemente riassorbito, in 5 soggetti è stata necessaria una riattivazione o un curettage del letto subcondrale. Infine, in 2 casi non è stato possibile rimuovere il flap in artroscopia, ma è stata necessaria un’artrotomia. In 141 cani la zoppia è regredita in un periodo variabile dai 14 ai 50 giorni. I soggetti con lesioni caudo-mediali o mediali hanno avuto un periodo di recupero più veloce rispetto a quelli con lesioni caudo-centrali. 9 soggetti hanno avuto persistenza della zoppia: tutti avevano una lesione con localizzazione caudo-centrale, e nessuno di questi aveva avuto una fasciatura a carpo flesso. Discussione: L’esame artroscopico della spalla in corso di OCD permette la rimozione del flap, il curettage dei margini della lesione oltre ad una valutazione completa dell’articolazione. Nel caso in cui il flap sia migrato e/o riassorbito è possibile verificare se è presente ed eventualmente la sua esatta posizione. La valutazione ingrandita del letto subcondrale può inoltre dare importanti informazioni sull’utilità di un suo eventuale trattamento, evitando curettage potenzialmente non indicati. Infine, nell’esperienza degli autori, l’impiego di una fasciatura di non carico nelle grosse lesioni caudo-centrali nelle prime 3-4 settimane può ridurre l’incidenza di zoppie permanenti talvolta associate a questo tipo di lesioni.

Indirizzo per corrispondenza: Massimo Olivieri Clinica Veterinaria Malpensa Via Marconi 55 Samarate - Va Tel. 0331 228155 - Fax 0331 220255 E-mail: maxolivieri@libero.it


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TRE CASI DI DEMODICOSI GENERALIZZATA IN FOX TERRIER ADULTI SOSTENUTA DA DEMODEX INJAI Laura Ordeix Med Vet Dipl ECVD, Fabia Scarampella Med Vet Dipl ECVD Liberi professionisti, Milano La demodicosi generalizzata è una malattia cutanea del cane potenzialmente molto grave1. Anche se l’agente eziologico principale è Demodex canis, tuttavia sono state riportate infestazioni sostenute da acari del genere Demodex con caratteristiche morfologiche differenti (forma corta)2. Recentemente è stata descritta una specie di Demodex di forma allungata in 5 soggetti negli Stati Uniti e in Australia3,4. Questo acaro è caratterizzato da un corpo e da un opistosoma più lunghi. Nel maschio di questa nuova specie, battezzata Demodex injai, è presente l’organo opistosomale che è invece assente nel maschio di Demodex canis5. I segni clinici associati all’infestazione di Demodex injai sono simili a quelli osservati nelle forme sostenute da D. canis, in particolare la seborrea oleosa è stata riportata in tre dei soggetti colpiti, mentre questo rappresentava l’unico segno clinico in uno di essi3,4. Queste forme di demodicosi hanno risposto alla terapia orale con milbemicina ossima e con spugnature di amitraz3,4. In questa comunicazione vengono riportati tre casi di demodicosi generalizzata sostenuta da Demodex injai in cani adulti di razza Fox terrier. Un maschio castrato di 10 anni di età (cane 1), un maschio intero di 12 anni (cane 2) e una femmina castrata di 6 anni (cane 3) tutti di razza Fox Terrier vennero sottoposti a visita clinica perché presentavano eritema e prurito lieve dorsale con vari gradi di untuosità della cute e del mantello. I segni erano presenti nei pazienti da periodi variabili tra cinque mesi (cane 3) ed un anno (cane 1 e 2). Alla visita clinica dermatologica venne osservata la presenza di dermatite eritematosa e seborrea oleosa dorsale marcata in tutti e tre i soggetti esaminati. All’esame microscopico del pelo in tutti e tre i cani vennero osservati alcuni acari del genere Demodex di forma allungata. L’esame istologico delle lesioni venne eseguito in due dei soggetti esaminati (cane 1 e 3). Venne osservata una perifollicolite piogranulomatosa (cane 1 e 3), adenite sebacea (cane 3), iperplasia delle ghiandole sebacee (cane 1 e 3), mucinosi modesta (cane 1) e presenza di acari nei follicoli piliferi (cane 1). Questa è la prima segnalazione in Europa di infestazione da Demodex injai di cui siano a conoscenza le autrici. Di particolare interesse in questi casi è la presenza di seborrea oleosa, l’assenza di alopecia nei cani colpiti e la presenza di iperplasia delle ghiandole sebacee quale riscontro istopatologico costante. Bibliografia Scott DW, Miller WM, Griffin CE. Small Animal Dermatology, 6th edition. Philadelphia, WB Saunders Co; 2001: 423-516. Chesney CJ. Short form of Demodex species mite in the dog: occurrence and measurements. J. Small Anim Pract 1999; 40, 58-61. Hillier A, Desch CE. Large-bodied Demodex mite infestation in 4 dogs. J. Am Vet Med Assoc 2002; 5, 623-627. Mueller RS, Bettenay SV. An unusual presentation of canine demodicosis caused by a long-bodied Demodex mite in a Lakeland Terrier. Aust Vet Practit 1999; 29, 128-130. 5. Desch C, Hillier A. Demodex injai: A new species of hair follicle mite (Acari: Demodecidae) from the domestic dog (Canidae). J. Med. Entomol 2003; 40(2): 146-149.

1. 2. 3. 4.

Indirizzo per la corrispondenza: Laura Ordeix Studio dermatologico veterinario Via Sismondi 62, 20133 Milano E-mail: laura.ordeix@dermvet.fastwebnet.it


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EPIDEMIA DI HERPESVIRUS IN UN GRUPPO DI TESTUGGINI DEL GENERE TESTUDO IN ITALIA: UN CASE REPORT Francesco C. Origgi1 Med Vet PhD, Debora Rigoni2 AS Unità di virologia umana, dipartimento di immunologia e malattie infettive, DIBIT-HSR, Milano 2 Agente Scelto, Corpo Forestale dello Stato, S. Sepolcro (AR)

1

Introduzione: In questo articolo descriviamo l’approccio diagnostico e clinico e la terapia adottata durante un’epidemia di herpesvirus verificatasi in un gruppo di testuggini in Italia. Nell’estate del 2001 in un allevamento amatoriale di 60 testuggini che comprendeva le tre specie Testudo hermanni, T. marginata e T. graeca, fu introdotta una T. hermanni sub-adulta, che venne posta a contatto con 10 T. hermanni e 2 T. graeca residenti. Durante l’autunno dello stesso anno, immediatamente prima del letargo si verificò un’epidemia di stomatite-rinite tra le testuggini entrate a contatto con la nuova T. hermanni. Dieci T. hermanni (di cui 9 residenti insieme alla T. hermanni introdotta più recentemente nell’allevamento) morirono con i segni clinici classici delle infezioni da herpesvirus. 1-6, 9 Nell’estate del 2002, dalle 30 uova deposte dalle femmine residenti, nacquero 20 T. hermanni e 3 T. graeca. Tutti i neonati furono posti in una nuova recinzione insieme all’unica T. hermanni sopravvissuta all’epidemia del 2001. Due mesi più tardi, 14 delle 20 T. hermanni neonate cominciarono a morire subito dopo la comparsa di un copioso scolo nasale. Nello stesso periodo le 2 T. graeca che erano sopravvissute all’epidemia del 2001 furono alloggiate in un’area recintata con 6 T. marginata e 10 T. hermanni. Tutte le testuggini della collezione andarono successivamente in letargo. Durante un controllo di routine, il proprietario si accorse di un anomalo calo di peso in diverse testuggini che dopo essere state svegliate, presentarono il corollario di segni clinici tipici dell’infezione da herpesvirosi. Approccio diagnostico: Le testuggini dell’allevamento furono successivamente presentate al veterinario curante. Le testuggini mostravano i segni clinici tipici da infezione da herpesvirus.1-6, 9 Il veterinario sottopose gli animali ad analisi di laboratorio volte a confermare il sospetto diagnostico di infezione da herpesvirus. Campioni di sangue vennero prelevati da 40 soggetti e testati tramite ELISA7 e sieroneutralizzazione. Inoltre, venne prelevato del tessuto dal sistema nervoso centrale di uno dei neonati superstiti del 2002, che era morto durante il trasporto dal veterinario, per essere sottoposto ad un test di diagnostica molecolare tramite polymerase chain reaction (PCR).8 Un totale di 25 T. hermanni, 5 T. graeca e 10 T. marginata vennero sottoposte ad indagine sierologica per evidenziare l’esposizione ad herpesvirus. Di queste 9 T. hermanni, 2 T. graeca e 5 T. marginata risultarono positive. La PCR evidenziò la presenza di DNA genomico herpetico. Terapia: Dopo che le analisi di laboratorio confermarono la natura erpetica dell’infezione delle testuggini, il seguente protocollo terapeutico venne adottato per tutti i soggetti a rischio dell’allevamento (25 testuggini). La terapia venne mantenuta per tre settimane come sotto specificato: Reidratazione: 2% in peso al giorno [50% NaCl (0.9%), 25% Ringer lattato, e 25% glucosio (5%)] Terapia antibiotica: ceftazadime (Glazidim®, Glaxo-Smith-Kline, Verona) 20 mg/kg IM una volta ogni tre giorni. Terapia anti-virale: acyclovir (Zovirax®, Wellcome, UK) 80 mg/kg PO, una volta al giorno. Follow Up: Tutte le testuggini che vennero sottoposte alla terapia sopravvissero, con la sola eccezione di uno dei neonati del 2002 (T. hermanni) che morì 3 giorni dopo l’inizio della terapia. Lo scolo nasale regredì progressivamente e dopo 10 giorni dall’inizio della terapia le narici delle testuggini avevano assunto l’aspetto normale. Le placche diftero-necrotiche scomparvero dopo 5-6 giorni di trattamento. Le testuggini più giovani migliorarono più lentamente. Dopo 10 giorni le testuggini adulte apparivano clinicamente normali, mentre quelle più giovani richiesero un totale di 15 giorni per un completo recupero clinico. Bibliografia 1. Harper, P.A.W., D.C. Hammond, and W.P.Heuschele. 1982. A herpesvirus-like agent associated with a pharyngeal abscess in a desert tortoise. J. Wildl. Dis. 18:491-94. 2. Helstab, A. and G. Bestetti. 1989. Herpesviridae causing glossitis and meningoencephalitis in land tortoises (Testudo hermanni). Herpetopathologia 1:5-9. 3. Jacobson, E.R., S. Clubb, and J.G. Gaskin, and C.H. Gardiner. 1985. Hespesvirus-like infection in Argentine tortoises. J. Am. Vet. Med. Assoc. 187:12271229. 4. Kabish, D., and J.W. Frost. 1994. Isolation of herpesvirus from Testudo hermanni and Agrionomys horsfieldii. Verh. Ber. Erkrg. Zootiere 36: 241-45. 5. Marschang, R.E., M. Gravendyck, and E.F. Kaleta. 1997. Investigation into virus isolation and the treatment of viral stomatitis in T. hermanni and T. graeca. J. Vet. Med. Ser. B, 44: 385-94. 6. Muro, J., A. Ramis, J. Pastor, L. Velarde, J. Tarres, and S. Lavin. 1998. Chronic rhinitis associated with herpesviral infection in captive spur-thighed tortoise from Spain. J. Wildl. Dis. 34(3): 487-95. 7. Origgi, F. and E. R. Jacobson. 1999. Development of an ELISA and an Immunoperoxidase based test for herpesvirus exposure detection in tortoises. Proc. 6th Assoc. Rept. Amphib. Vet. Conf.: 65-7. 8. Origgi, F., E. R. Jacobson, C. H. Romero, P. A. Klein. 2000. Diagnostic tools for herpesvirus detection in Chelonians. Proc. 7th Assoc. Rept. Amphib. Vet. Conf.: 127-9. 9. Une, Y., K.Uemura, Y. Nakano, J. Kamiie, T. Ishiabashi, and Y. Nomura, 1999. Hespesvirus infection in tortoises (Malacochersus tornieri and Testudo horsfieldi). Vet. Pathol. 36: 624-27.


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L’IMPIEGO DELL’OMEOPATIA UNICISTA COME RISORSA TERAPEUTICA NELLA GESTIONE CLINICA DI ALCUNI CASI “DIFFICILI” IN PATOLOGIE DEI PICCOLI ANIMALI Roberto Orsi Med Vet Specialista in Malattie dei Piccoli Animali, Pescia (Pistoia) Scopo del lavoro: Portare come contributo anedottico all’efficacia dell’impiego dell’Omeopatia in Veterinaria alcuni esempi di casi clinici di piccoli animali diagnosticati come affetti da patologie gravi, in terapia con farmaci tradizionali con esito insoddisfacente, e trattati con l’Omeopatia Unicista con risultati positivi. Metodo impiegato: I casi clinici riportati sono stati riferiti dai colleghi curanti e/o su richiesta dei proprietari. Inizialmente sono state controllate e verificate come corrette la loro diagnosi, prognosi e terapia tradizionale. Per ciascuno di essi si è provveduto ad eseguire una visita omeopatica secondo la metodica dell’Omeopatia Unicista con tecnica repertoriale (avvalendosi dell’ausilio del repertorio informatico Synthesys-RADAR). A seguito di ciò si è somministrato un rimedio unitario, scelto in scala e potenza, ripetuto nel tempo e cambiato secondo i parametri ricavati dall’insegnamento hahnemanniano-kentiano. Nei followup si è cercato di controllare, laddove necessario, con mezzi diagnostici e test di laboratorio l’evoluzione della patologia organica in atto. Risultati: Caso n°1: cane Labrador con Leishmaniosi e crisi convulsive da Toxoplasmosi. Caso n°2: cane Maremmano-Abruzzese con Cardiomiopatia Dilatativa e sindrome di Cushing. Caso n°3: cane Carlino con epilessia. Caso n°4: gatto con megacolon da stenosi canale pelvico post-traumatica. In questi casi le prognosi erano da gravi a riservate. Tutti i proprietari si dichiaravano insoddisfatti dei risultati raggiunti e/o degli effetti collaterali delle terapie effettuate. Nel caso n°1 si è avuta una remissione totale della sintomatologia con normalizzazione dei test sierologici della Leishmaniosi. Nel caso n°2 i sintomi della patologia cardiaca sono scomparsi e quelli della sindrome di Cushing, insorta in seguito, ridotti ad un minimo compatibile con una eccellente qualità di vita. Nel caso n°3 le crisi convulsive sono scomparse tanto da poter ridurre gradualmente ad un minimo (novembre 2003) il dosaggio pluriennale di barbiturico e KBr, eliminando i pesanti e sgradevoli effetti collaterali di tali farmaci, con l’intenzione di toglierli del tutto. Nel caso n°4 la stipsi ostinata è migliorata considerevolmente, richiedendo soltanto l’impiego saltuario di lattulosio. Conclusioni: Secondo l’autore i risultati ottenuti nei suddetti casi clinici suggeriscono l’efficacia terapeutica del metodo omeopatico unicista ed indicano la necessità di ulteriori studi e conferme cliniche per una valutazione complessiva della sua validità.

Indirizzo per la corrispondenza: Roberto Orsi Piazza Mercato, 2 51017 Pescia (PT) Tel. 0572 476975 E-mail: orsir@tin.it


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APPROCCIO COMPORTAMENTALE AL PAZIENTE ONCOLOGICO IN MEDICINA VETERINARIA Maria Cristina Osella1 Med Vet PhD, Paolo Buracco2 Med Vet PO, Paola Badino Biol PhD2, Rosangela Odore Med Vet PhD2, Luciana Bergamasco3 Med Vet PhD 1 Libero Professionista, Chivasso (TO), 2Dipartimento di Patologia Animale, Settore Farmacologia e Tossicologia e 3 Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria, Settore di Fisiologia ed Etologia, Università degli Studi di Torino Introduzione: In medicina umana la tendenza attuale è un intervento globale sul paziente colpito da cancro, spaziando da interventi psicoterapeutici, psicosociali, comportamentali a quelli formativo/educativi. Tale orientamento si è concretizzato in una branca dell’oncologia nota come psico-oncologia. Considerando la crescita culturale della medicina veterinaria gli autori hanno considerato le possibilità applicative di alcuni concetti della psico-oncologia negli animali d’affezione. Scopo del presente lavoro è quello di suggerire alcune linee guida al medico veterinario al fine di migliorare il benessere degli animali colpiti da patologie oncologiche e di agire correttamente nel rispetto della loro qualità di vita. Materiali e metodi: In base all’ampia letteratura relativa all’approccio comportamentale del paziente oncologico in medicina umana, sono stati individuati i principali fattori da prendere in considerazione nell’animale da affezione. In modo particolare sono state valutate le modificazioni comportamentali dell’animale nelle varie fasi evolutive della patologia e le interazioni uomoanimale al fine di assicurare una migliore qualità di vita dell’animale. Quindi un veterinario con una specifica formazione in clinica comportamentale ha affiancato l’equipe clinica e chirurgica oncologica. Si presentano a titolo esemplificativo l’esperienza di approccio globale condotta su due casi oncologici, e nel dettaglio un cane ed un gatto. Risultati: I risultati preliminari indicano che le necessità fisiologiche e psicologiche degli animali d’affezione sono realmente importanti sia nelle conseguenze determinate dall’evoluzione della patologia oncologica sia per le modificazioni che intervengono a seguito del trattamento stesso, così come sull’impatto di specifici sintomi quali vomito e/o diarrea nella gestione del soggetto nell’ambito famigliare. La terapia può essere di per sé traumatica per l’animale, ma anche l’ospedalizzazione, a breve (day hospital) o a lungo termine, può essere vissuta negativamente da cani e gatti. Così si è riscontrata la presenza di sintomi relativi a stress emozionale, ma anche forme ansiose e depressive; le principali alterazioni comportamentali sono riferibili ad iperattaccamento secondario, risposte aggressive relative a dolore e paura, disturbi eliminatori, sindromi ossessivo/compulsive. L’intervento è stato svolto in ambito strettamente veterinario, con suggerimenti in ambito gestionale e direttamente sull’animale (modificazioni ambientali, comportamentali) nonché con il supporto di terapia farmacologia (farmaci psicotropi, feromoni). Conclusioni: Il crescente ruolo dell’animale da compagnia nell’ambito del “sistema famiglia” impone al veterinario un’accurata gestione non solo della diagnosi e terapia della patologia neoplastica ma anche del benessere dell’animale durante la fase terminale, il ricorso a terapie palliative o all’eutanasia ed un aiuto concreto nell’eventuale elaborazione del lutto da parte dei proprietari. Un aspetto critico è rappresentato dal fatto che talvolta l’oncologo non è preparato ad affrontare nel modo più corretto i diversi stati emotivi dei proprietari e, in tal senso, la psico-oncologia e l’apporto di personale specializzato può certamente fornire un aiuto determinante. L’approccio multidisciplinare appare ancora utopico nella nostra realtà operativa, tranne che nelle strutture in cui si opera come centri di referenza per i colleghi. In tal caso, la presenza di un veterinario con una specifica preparazione sui temi della medicina comportamentale può essere un valido supporto allo staff clinico e chirurgico.

Indirizzo per la corrispondenza: Maria Cristina Osella Via Basso 2, 10034 Chivasso, Italia Tel. 335-6559731 E-mail: osellamc@libero.it


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VALUTAZIONE COMPORTAMENTALE DEL CANE IN UN PROGETTO DI PET FACILITATED THERAPY Maria Cristina Osella1 Med Vet, PhD; Marzio Panichi2, Med Vet, PA; Luciana Bergamasco3 Med Vet, PhD 1 Libero professionista, Chivasso (TO) 2 Dipartimento di Patologia Animale, Medicina legale veterinaria,legislazione veterinaria, protezione animale e deontologia e 3 Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria, Settore di Fisiologia ed Etologia, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Medicina Veterinaria Introduzione: In qualsiasi programma terapeutico di Pet Facilitated Therapy (Terapia assistita mediante l’utilizzo di animali d’affezione) il primo passo è la scelta oculata degli animali, procedendo ad una valutazione comportamentale oltre che sanitaria dei singoli soggetti, in rapporto alle particolari esigenze delle persone coinvolte (tipo e grado variabile di disabilità psico e/o fisica). L’animale che diviene co-terapeuta, lavorando in stretta sintonia con il suo partner umano, dovrebbe inoltre essere costantemente monitorato, onde evitare lo sviluppo di eto-anomalie ed al fine di garantire il pieno rispetto delle sue esigenze fisiologiche ed etologiche, nonché per ottimizzare il rapporto uomo-animale. Scopo del presente lavoro è stato l’applicazione in campo dei principi sopraesposti in un gruppo di 6 cani utilizzati in un progetto di Pet Facilitated Therapy. Materiali e metodi: Dopo gli incontri preliminari per la definizione del progetto e della sua realizzazione si è passati alla definizione di un protocollo operativo, prevedendo riunioni periodiche con discussione e valutazione critica dell’attività svolta ed impostazione del lavoro successivo. Prima della data di inizio della parte pratica i cani sono stati sottoposti ad esame fisico e alle analisi di laboratorio ritenute utili per certificare il loro stato di sanità (esame del sangue, esame delle feci, esame del pelo); la visita clinica e l’esecuzione delle analisi sono state ripetute mensilmente. Inoltre, i cani sono stati sottoposti ad una valutazione comportamentale preliminare al fine di stabilirne l’idoneità di ciascun soggetto rispetto al tipo di “lavoro” richiesto nelle singole sessioni di AAA (Animal Assisted Activities) e AAT (Animal Assisted Therapy). Le sessioni di lavoro dell’animale sono state concordate precedentemente con gli altri membri dello staff, in considerazione dei singoli obiettivi. Ciascuna sessione è stata strutturata con delle fasi di interazione attiva con il paziente e fasi di riposo per l’animale, a seconda del tipo di lavoro cui il cane viene sottoposto e al grado di impegno fisico e/o mentale richiestogli. Il monitoraggio comportamentale è stato effettuato nello svolgimento dei 24 incontri settimanali previsti dal progetto, che ha incluso 8 utenti con disabilità psico-fisica molto grave (4 utenti per le AAT e 4 utenti per le ATT). I controlli comportamentali sono avvenuti mediante valutazione etologica globale e l’esecuzione di specifici test. Risultati: I cani inclusi nel presente progetto, già sottoposti a specifico addestramento relativo all’utilizzo, sono risultati equilibrati e socievoli, oltre che privi di alterazioni emozionali e cognitive alla valutazione comportamentale e ai test attitudinali. Durante le sessioni con gli utenti i cani non hanno presentato alcun sintomo di stress, né fisiologico né comportamentale; hanno anzi mostrato di gradire le sessioni di lavoro con i pazienti, manifestando piena disponibilità e collaborazione nei confronti dei loro conduttori hanno risposto positivamente alle varie sollecitazioni ambientali, sia intese come spazio fisico che come ambiente sociale in senso lato. Conclusioni: Poiché gli animali rappresentano il cardine della Pet Facilitated Therapy risulta comprensibile il coinvolgimento di varie figure professionali nonché delle associazioni di volontariato e degli enti protezionistici, ma il veterinario riveste un ruolo fondamentale come supervisore dei progetti, a livello sanitario e di tutela dell’animale stesso. Nel particolare contesto, alla preparazione di base deve accompagnarsi una specifica competenza sui temi del benessere animale e dell’etologia applicata, i cui principi sono validamente utilizzati nelle relazioni che si instaurano durante le diverse fasi operative.

Indirizzo per la corrispondenza: Maria Cristina Osella Via Basso 2, 10034 Chivasso (TO) Tel. 335-6559731 E-mail: osellamc@libero.it


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PIASTRINOPENIA NEL CANE E NEL GATTO. ESPERIENZE PERSONALI SU 92 CASI RACCOLTI NELL’ANNO 2002 Marco Caldin1,2 Med Vet, Carlo Patron2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet 1 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” 2 Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie “San Marco” La piastrinopenia (TP) è una riduzione del numero piastrinico rispetto all’intervallo di riferimento per la specie animale in oggetto. La conta piastrinica può diminuire o per una effettiva riduzione delle piastrine circolanti o per la presenza di aggregati piastrinici che non vengono riconosciuti come tali durante la fase analitica strumentale. Tale evenienza può essere facilmente superata mediante l’esame microscopico dello striscio di sangue periferico che identifica eventuali aggregati e stima se la presenza di questi sia compatibile con una adeguata quantità di piastrine. In questo modo le TP possono essere distinte in “false” (o strumentali) e “vere”. Scopo del presente lavoro è di valutare la prevalenza della TP strumentale e della TP “vera”, classificando quest’ultima in base al meccanisco patogenetico che l’ha determinata. Lo studio ha preso in considerazione 2315 esami emocromocitometrici [CBC] (1866 di cane e 449 di gatto) eseguiti nell’anno 2002 con contaglobuli laser ADVIA 120 Bayer e valutazione citomorfologica dello striscio ematico. Il 12.7% dei CBC canini è risultato piastrinopenico (236/1866), mentre nei gatti la percentuale è del 24.5% (110 piastrinopenici su 449). Una volta eseguita la stima piastrinica sullo striscio periferico, sono stati riconosciuti 192 CBC con TP “vera” (165 canini e 27 felini). Le TP “vere” sono risultate essere l’8.8% dei CBC di cane e il 6% dei CBC di gatto, confermando l’elevata frequenza di TP “false” nella specie felina, legata alla spiccata e peculiare reattività piastrinica in quest’ultima. I 192 CBC appartenevano ad 86 cani e a 17 gatti (data la ripetizione dell’esame). I criteri d’inclusione di questi pazienti sono costituiti da: CBC, profilo biochimico, elettroforesi sierica, profilo coagulativo, e nei gatti anche la ricerca dell’antigene FeLV e degli anticorpi per FIV. Non è stato possibile realizzare l’esame delle urine in alcuni pazienti, in quanto la raccolta per cistocentesi, unica metodica per noi accettabile, poteva risultare potenzialmente pericolosa a causa di possibili sanguinamenti. 3 cani e 8 gatti piastrinopenici sono stati esclusi dallo studio per la mancanza dei criteri d’inclusione. Per classificare i casi di TP sono stati considerati i seguenti meccanismi patogenetici: (1) diminuita produzione, (2) alterata distribuzione (sequestro), (3) aumentata distruzione e (4) aumentato consumo. In 24/83 cani (28.9%) la patogenesi riconosciuta è stata la diminuita produzione, in 21/83 (25.3%) è risultata da sequestro, in 7/83 (8.4%) è risultata da distruzione e in 22/83 (26.5%) da consumo. In 14 cani (16.9%) non è stato possibile raggiungere una diagnosi definitiva. In alcuni pazienti la causa della TP poteva essere multipla e la somma delle percentuali di conseguenza supera il 100%. In 7/9 gatti (77.8%) il meccanismo patogenetico della TP risiedeva nella alterata produzione; in 2/9 (22.2%) non si è giunti a una diagnosi definitiva. In conclusione, il reperimento nel gatto di una TP strumentale è associato solo in un ridotto numero di casi ad una reale diminuzione di piastrine, mentre nel cane la prevalenza sembra essere meno importante. Considerate le sole TP “vere”, la prevalenza di tale segno sembra essere similare nelle 2 specie in oggetto. Nel cane la diminuita produzione, il sequestro e il consumo sono le tre cause patogenetiche dominanti e presentano prevalenza simile, mentre la distruzione è percentualmente un meccanismo meno rilevante. Nel gatto la totalità delle TP dello studio, nelle quali è stato chiarito il meccanismo patogenetico, è legato a una minore produzione (insufficienza midollare). Tale differenza giustifica il differente approccio alla TP nella specie felina, che necessita, nella quasi totalità dei casi, di una valutazione midollare mediante agoaspirazione.

Indirizzo per la corrispondenza: Laboratorio d’Analisi Veterinarie “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888 E-mail: ambpat@virgilio.it


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LESIONI ISOLATE (“PRIMARIE”) A CARICO DEL MENISCO LATERALE NEL BOXER: DIAGNOSI E TRATTAMENTO ARTROSCOPICO Massimo Olivieri1 Med Vet, Massimo Pavanelli2 Med Vet, Pasquale D’Urso2 Med Vet Libero professionista Samarate, Varese e Dipartimento di Patologia Animale - Università di Torino 2 Libero professionista, Samarate (VA)

1

Introduzione: Le lesioni isolate o “primarie” a carico del menisco, cioè non associate a patologia del legamento crociato anteriore (LCA), sono sempre state considerate rare nei piccoli animali. Di recente, invece, grazie alla maggiore diffusione di tecniche diagnostiche non invasive o mini-invasive, questi casi risultano evidenziati con maggiore frequenza. Nell’esperienza degli autori, grazie soprattutto all’artroscopia, è possibile, soprattutto nei casi di zoppia acuta in soggetti adulti, evidenziare precocemente dei casi in cui la lesione meniscale rappresenta la causa primaria di zoppia. Nel presente lavoro viene riportata una lesione isolata del menisco laterale in 4 boxer adulti sottoposti ad artroscopia diagnostica per zoppia acuta a carico del ginocchio. Materiali e metodi: I soggetti inclusi nel presente lavoro sono 4 cani di razza boxer, 3 maschi ed 1 femmina, di età compresa tra i 3 e i 5 anni, riferiti alla visita ortopedica per dolore a carico dell’articolazione del ginocchio. In tutti i soggetti c’era una storia di insorgenza acuta della zoppia associata ad attività intensa. Alla visita si riscontravano in tutti i casi algia ai movimenti di flesso estensione del ginocchio e modica tumefazione articolare. Il test del cassetto e quello di compressione tibiale avevano dato esito negativo; infine le valutazioni dei legamenti collaterali e del tendine dell’EDPL erano nella norma. Lo studio radiografico dell’articolazione nelle due proiezioni, evidenziava in tutti i cani segni di sofferenza articolare quali aumentata radiodensità dello spazio infrapatellare e spostamento caudale della radiotrasparenza corrispondente alla fascia dei mm. poplitei. L’esame artroscopico del ginocchio ha permesso di escludere in tutti i soggetti lesioni a carico dell’LCA e del menisco mediale, come pure delle altre strutture osservabili. Più in particolare l’LCA, ingrandito, mostrava una struttura compatta, in assenza di fibrillazione e con vascolarizzazione capillare ben evidente lungo il decorso delle sue fibre: questa normalmente scompare in fasi molto precoci di sofferenza dell’LCA. I cani esaminati presentavano tutti lesioni a carico del menisco laterale: in tre casi disinserzione caudale del legamento menisco femorale ed in un caso una lesione trasversale completa a livello del corno posteriore. Tutti i casi sono stati trattati mediante meniscectomia parziale del corno posteriore. Risultati: Il recupero funzionale dei soggetti è stato molto veloce, con carico parziale dopo 7-10 giorni dall’artroscopia e carico completo con assenza di zoppia in un periodo variabile dai 20 ai 30 giorni. I controlli eseguiti a 3, 6 e 9 mesi hanno evidenziato assenza di zoppia e totale stabilità del ginocchio. All’esame radiografico eseguito dopo 6 mesi in tutti i soggetti si osservavano segni iniziali di artrosi. Conclusioni: le lesioni isolate a carico dei menischi sono state per anni considerate tipiche dell’uomo e di scarsa rilevanza clinica nei piccoli animali, non solo per quanto riguarda il menisco mediale, più frequentemente coinvolto, ma anche e soprattutto per il laterale. Nel presente lavoro sono invece segnalate 4 lesioni isolate del menisco laterale riscontrate nella stessa razza. Ciò fa considerare la possibilità che ci possa essere un fattore predisponente nel boxer. Va d’altronde rilevato che, nell’esperienza degli autori, sono state rinvenute lesioni meniscali isolate, sia del laterale che del mediale, anche in altre razze. La possibilità di una meniscopatia isolata deve quindi essere a tutt’oggi inserita nel diagnostico differenziale delle cause di zoppia di ginocchio di origine traumatica, soprattutto in soggetti adulti e in assenza di segni clinici che depongano per una rottura parziale o totale dell’LCA.

Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Olivieri, Clinica Veterinaria Malpensa Via Marconi 55, Samarate (VA) Tel. 0331 228155 - Fax 0331 220255 E-mail: maxolivieri@libero.it


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RINVENIMENTO DI CELLULE ENDOMETRIALI IN STRISCI COLPOCITOLOGICI NELLA CAGNA: INTERPRETAZIONE CLINICA Alessandro Pecile Med Vet PhD, Debora Groppetti Med Vet Cristina Barbero Med Vet, Fausto Cremonesi Med Vet Prof Pat Ripr Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Sezione di Clinica Ostetrica Veterinaria - Università degli Studi di Milano Introduzione: L’esame colpocitologico nella cagna costituisce da tempo uno strumento diagnostico importante per la valutazione dello stato estrale in relazione all’individuazione del momento opportuno per l’accoppiamento, così come è utile per la valutazione di numerosi stati patologici vaginali, uterini, ovarici (es. metrorragie, neoplasie, flogosi, cisti ovariche). Le modificazioni che si verificano nell’epitelio esfoliativo vaginale sono il risultato delle variazioni cicliche degli ormoni ovarici. I principali tipi cellulari descritti dal punto di vista morfologico, sono rappresentati da cellule parabasali, cellule intermedie e superficiali. Possono essere inoltre osservate altre tipologie cellulari, comunque ascrivibili ad animali sani: cellule metaestrali, cellule vacuolizzate, cellule superficiali con corpi citoplasmatici, cellule epiteliali contenenti melanina, cellule epiteliali della fossetta clitoridea, eritrociti, leucociti, spermatozoi. Scopo del lavoro: Nel presente lavoro viene riportata la presenza in strisci colpocitologici di aggregati cellulari di origine endometriale in casi di colporrea ricorrente presentati alla nostra attenzione in cagne ovario- isterectomizzate. Materiali e metodi: 10 soggetti sono stati sottoposti ad esame colpocitologico per manifestazioni estrali dopo sterilizzazione, comparsa in tempi variabili da un mese a diversi anni dall’intervento. Per ciascun soggetto è stato eseguito un esame colpocitologico ed i campioni, in triplice colorazione (Schorr modificato, Hemacolor Merck e Papanicolaou), sono stati esaminati al microscopio da 100 a 1000 ingrandimenti per l’identificazione dei differenti tipi cellulari. Risultati e discussione: In tutti i soggetti sono state evidenziate cellule endometriali nello striscio colpocitologico. 9 cagne presentavano alla visita clinica manifestazioni comportamentali estrali, attrazione da parte dei maschi e colporrea. La rimanente cagna evidenziava alla visita ecografica una sospetta raccolta nel moncone uterino. 2 soggetti mostravano anche incontinenza urinaria. In 6 cagne si osservavano quadri colpocitologici caratterizzati da eosinofilia estrogeno-indotta di intensità variabile, mentre nelle restanti quattro non era evidente alcuna attività ormonale ovarica. Le cellule endometriali riscontrate a livello vaginale si presentavano comunemente in gruppi (da 1 a 3 “nidi cellulari” per vetrino), spesso orientate con l’asse maggiore perpendicolare al vetrino, nucleo di forma rotonda od ovale con fini granulazioni e grossolani aggregati di cromatina. Non erano visibili ciglia. Spesso è stato possibile apprezzare il lume delle strutture ghiandolari endometriali. La morfologia delle cellule endometriali varia durante le fasi del ciclo ovarico, tuttavia un unico tipo cellulare endometriale è stato osservato nei nostri campioni esaminati. Nelle due cagne in cui è stato eseguito nuovamente l’intervento chirurgico a livello di moncone vaginale, si è avuta remissione completa della sintomatologia. Gli altri soggetti sottoposti a trattamenti farmacologici ormonali hanno mostrato solo temporanea remissione della colporrea. Conclusioni: In letteratura viene segnalata, seppur in casi sporadici, la presenza di cellule endometriali in cagne in fase estrale. Nel presente lavoro viene invece riportato il loro riscontro in soggetti ovario-isterectomizzati caratterizzati tutti, tranne uno, da colporrea e sintomatologia estrale, confermata in base all’esame colpocitologico solo in sei soggetti. In conclusione il riscontro di cellule endometriali nell’esame colpocitologico della cagna dopo ovario-isterectomia, associato a colporrea, costituisce reperto indicativo di processi disfunzionali di residui di mucosa uterina non sempre associati a presenza di ovarian remnant syndrome.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Pecile Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Sezione di Clinica Ostetrica e Ginecologica Veterinaria Università degli Studi di Milano Via Celoria 10, 20133 Milano Tel. 02 50318150 - Fax 02 50318148 E-mail: alessandro.pecile@unimi.it


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MONITORAGGIO HOLTER IN CORSO DI FIBRILLAZIONE ATRIALE PRIMARIA NEL CANE Roberto A. Santilli Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), Manuela Perego Med Vet Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate (VA) La fibrillazione atriale (FA) rappresenta la tachiaritmia sopraventricolare di più frequente riscontro nel cane con un’incidenza pari al 0,040,18%. Alcune razze giganti quali i Levrieri Irlandesi ed i Terranova, il sesso maschile ed i soggetti con peso medio di 40,5 kg risultano particolarmente predisposti. La FA risulta solitamente secondaria a cardiopatie organiche di natura acquisita (cardiomiopatia dilatativa ed insufficienza mitralica nelle razze di grossa taglia) o congenita. Come nell’uomo anche nel cane esiste una forma detta isolata o primaria che si presenta classicamente in assenza di dilatazioni camerali cardiache. La presenza di questa aritmia con penetranze ventricolari sostenute può indurre tachicardiopatia ventricolare con progressiva perdita della funzione contrattile e riduzione della portata cardiaca. Questi eventi inducono uno sbilanciamento simpatico-vagale con insorgenza d’insufficienza cardiaca congestizia o peggioramento di quella già esistente. Nelle forme secondarie solo il 25% dei cani sopravvive 3-6 mesi e solo il 7% un anno. La prognosi della FA primaria viene considerata relativamente benigna con aspettative di vita media intorno ai 2 anni dall’esordio. Lo scopo del lavoro è stato quello di valutare le caratteristiche del monitoraggio elettrocardiografico prolungato secondo il metodo Holter nei soggetti con FA primaria e confrontarlo a quello di soggetti con cardiopatie acquisite complicate da FA. 12 cani con FA all’elettrocardiogramma basale sono stati inclusi nello studio e divisi in 3 gruppi: 1) 5 cani con cardiopatie acquisite in stato congestizio complicate da FA; 2) 5 cani con FA primaria allo stadio iniziale in assenza d’insufficienza cardiaca congestizia; 3) 2 cani con FA primaria in avanzato stato congestizio e tachicardiopatia ventricolare reversibile con trattamento farmacologico. La distribuzione delle razze, sesso, peso ed i range di frequenza cardiaca sono indicati nella tabella 1. Tutti i cani del primo e del terzo gruppo al momento del monitoraggio Holter erano in terapia con furosemide, ACE-inibitore e digossina. Dall’analisi dei monitoraggi è emerso che le FA secondarie presentano una frequenza cardiaca media e minima più alte, un numero cospicuo di battiti ectopici ventricolari prematuri, spesso organizzati in periodi di bigeminismo, coppie e lembi di tachicardia ventricolare non sostenuta. I cani del terzo gruppo nonostante la presenza d’insufficienza cardiaca e le FA primarie in stadio iniziale presentano monitoraggi simili con bassa penetranza ventricolare a riposo e assenza di aritmie ventricolari. In questi ultimi due gruppi minimi sforzi inducono marcati aumenti della frequenza ventricolare che perdurano a lungo dopo la fine dell’esercizio. L’analisi della variabilità della frequenza cardiaca ha permesso di studiare lo stato del sistema nervoso autonomo nei vari gruppi con segni d’ipertono simpatico nel primo (Indice triangolare 23,2 + 8,34; media R-R 465 + 53,98; deviazione standard R-R 135 + 35,78; alto indice LF/HF) e segni di ipertono vagale nel secondo (Indice triangolare 44,6 + 7,4; media R-R 533 + 27,16; deviazione standard R-R 321 + 174,34; basso indice LF/HF) e terzo gruppo (Indice triangolare 47,5 + 12,02; media R-R 583 + 96,16; deviazione standard R-R 369,50 + 72,83; basso indice LF/HF). Dai risultati preliminari ottenuti in questo studio la metodica Holter si è dimostrata un valido sussidio diagnostico nell’esame dei diversi tipi di fibrillazione atriale, permettendo di differenziare le forme primarie dalle secondarie, anche se le ultime si presentano in stato congestizio con tachicardiopatia ventricolare secondaria.

Tabella 1 - Segnalamento, patologia cardiaca e range di frequenza cardiaca (FC) in 12 cani con fibrillazione atriale. Razza Gruppo 1 Dogue de Bordeaux Bracco Tedesco Dobermann P. Tedesco P. Tedesco

Gruppo 2 Terranova Terranova Terranova Terranova Terranova

Gruppo 3 Dogue de Bordeaux Alano Tedesco

Sesso

Età

Peso

Patologia

FC media

FC min

FC max

m m m m m Media Dev.St Mediana

4,6 12 9 8 9 8,52 2,66 9

63 20 47 35 37 40,4 15,90 37

Cardiomiopatia Dilatativa Malattia mitralica cronica Cardiomiopatia Dilatativa Malattia mitralica cronica Malattia mitralica cronica Media Dev.St Mediana

132 138 154 121 112 131,4 16,12 132

70 99 103 84 74 86 14,68 84

200 182 214 181 213 198 16,05 200

m fs fs m fs Media Dev.St Mediana

9 10 3 6 7 7 2,74 7

55 60 42,6 53 58 53,72 6,77 55

FA I° FA I° FA I° FA I° FA I° Media Dev.St Mediana

122 121 111 113 101 113,6 8,53 113

32 77 65 68 22 52,8 24,22 65

195 205 325 193 191 221,8 57,94 195

f m Media Dev.St Mediana

5 4 4,5 0,71 4,5

55 82 68,5 19,09 68,5

Tachicardiopatia Tachicardiopatia Media Dev.St Mediana

117 83 100 24,04 100

21 21 21 0,00 21

194 177 185,5 12,02 185,5

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Malpensa - Viale Marconi, 27 - 21017 Samarate (VA) Tel. (39) 0331 228155 - Fax (39) 0331 220255 - E-mail: rasantil@tin.it


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ASSOCIAZIONE DI CARPROFENE E TRAMADOLO PER IL CONTROLLO DELL’ALGIA POST OPERATORIA NEL CANE Alberto Perini1 Med Vet PhD, Massimo Olivieri2 Med Vet, Pasquale Italo D’Urso1 Med Vet 1 Libero professionista, Samarate (VA) 2 Libero professionista, Samarate (VA), Dipartimento di Patologia Animale - Università di Torino Introduzione: Oltre che verso nuove sostanze, la ricerca per la soppressione del dolore si è spinta a studiare più approfonditamente i meccanismi che determinano la percezione e la trasmissione dello stimolo algico, evidenziando così alcuni punti chiave sui quali poter agire per ottenere un effetto più efficace. Uno dei risultati più stimolanti riguarda la possibilità di associazione di farmaci di categorie diverse al fine di bloccare in punti diversi lo stimolo dolorifico. A tal proposito si è ipotizzato di impiegare il carprofene, farmaco antinfiammatorio non steroideo ed il tramadolo (nome commerciale “Contramal”), che presenta un meccanismo di azione multiplo che associa un agonismo, forse solo parziale, sui recettori mu degli oppioidi, ad una attività sui sistemi di neuromediazione monoaminergica, più specificatamente inibitrice la ricaptazione di noradrenalina ed elevatrice la concentrazione di serotonina a livello centrale. Come termine di paragone della associazione sopra esposta, verrà impiegata la buprenorfina, oppioide mu agonista parziale. Materiali e metodi: Per questo studio sono stati considerati 18 pazienti di specie canina di diverse razze, sottoposti ad artroscopia con lesioni articolari sovrapponibili; tali pazienti sono stati suddivisi casualmente in gruppi in relazione al tipo di farmaco analgesico impiegato; la somministrazione del farmaco analgesico avveniva immediatamente dopo l’induzione dell’anestesia. Al termine dell’intervento gli effetti sedativi ed analgesici venivano valutati ogni 30 min per 150 min dalla somministrazione del farmaco, secondo sistemi a punteggio: per l’analgesia si sono basati su quantificazione su scala grafica (visual analogic scale; punteggio da 0 a 100) del dolore osservato in base a variazioni di parametri fisiologici ed al forzato movimento dell’arto operato, da parte di tre medici veterinari, ignari del trattamento farmacologico effettuato. Il punteggio per ogni intervallo di tempo era costituito dalla media dei tre punteggi ottenuti. L’effetto sedativo è stato calcolato sul punteggio totale, variabile da un massimo di 34 punti per lo stato di anestesia generale ad un minimo di 0 punti per lo stato vigile. I risultati sono stati confrontati mediante analisi della varianza ad una ed a due code ed mediante test di students (p<0,05). Risultati: Tutti i pazienti considerati in questo lavoro hanno dimostrato un buon livello di analgesia postoperatoria (dolore medio per gruppo tramadolo 23,13; gruppo buprenorfina 11,76; gruppo carprofene/tramadolo 7,8) ad eccezione di un alano ed un boxer nel gruppo del tramadolo che hanno evidenziato un dolore medio-grave durante gli ultimi rilievi. Il gruppo della buprenorfina e del carprofene/tramadolo hanno evidenziato una analgesia media statisticamente significativa migliore rispetto al gruppo tramadolo. L’artroscopia più dolorosa è risultata essere quella di spalla (dolore medio spalla 20,24; dolore medio gomito 5,6; dolore medio ginocchio 7,16). Nel nostro studio non si è evidenziata differenza di effetto sedativo in relazione al tipo di analgesico impiegato. Conclusioni: L’associazione di carprofene e tramadolo, agendo su meccanismi diversi, assicura una analgesia migliore che un agente singolo come il tramadolo, ed è sovrapponibile all’effetto antalgico di un oppioide ben conosciuto per efficacia come la buprenorfina. Anche nelle artroscopie più dolorose (spalla) il gruppo carprofene/tramadolo ha dimostrato la migliore capacità di contrastare l’effetto algico dell’intervento.

Indirizzo per la corrispondenza: Alberto Perini Clinica Veterinaria Malpensa Via Marconi 27, 21017 Samarate (VA) Tel. 0331-228155 - Fax 0331-220255 E-mail: aperini65@hotmail.com


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CONTRATTURA DEL MUSCOLO FLESSORE ULNARE DEL CARPO NEL CANE. STUDIO RETROSPETTIVO SU 15 CASI Massimo Petazzoni1 Med Vet, Carlo Maria Mortellaro2 Med Vet 1 Libero professionista, Milano 2 Istituto di chirurgia e radiologia veterinaria, Facoltà di medicina veterinaria, Università degli studi di Milano Scopo del lavoro: Studio retrospettivo di 15 casi clinici di contrattura del muscolo flessore ulnare del carpo nel cucciolo allo scopo di identificare eventuali correlazioni fra l’età di insorgenza della malattia, il suo decorso clinico ed il grado di gravità della stessa. Gli autori propongono inoltre una gradazione della gravità della malattia in base alla sintomatologia. Materiali e metodi: È stata eseguita una valutazione retrospettiva delle cartelle cliniche di 15 pazienti affetti da SIC. Tutti i cuccioli venivano riferiti alla visita clinica per una zoppia anteriore mono (1/15) o bilaterale (14/15). In tutti i pazienti veniva emessa la diagnosi di contrattura del muscolo flessore ulnare del carpo. La diagnosi si basava sui segni clinici della malattia (carico del peso corporeo sulla superficie palmarolaterale delle dita, differenti gradi di deviazione in varo dell’articolazione del carpo e/o deviazione in procurvato della stessa giuntura). In base alla gravità dei segni clinici veniva effettuata una gradazione della contrattura come segue: grado 1 - il paziente carica il peso corporeo dell’arto valutato sulla superficie palmarolaterale delle dita della mano senza alcuna deviazione del carpo in varo o in procurato, grado 2 - deviazione in varo del carpo associata ad eventuale leggera deviazione in procurvato dell’articolazione, grado 3 - evidente iperflessione del carpo associata a gradi differenti di deviazione in varo del carpo. Risultati: Dodici razze sono state oggetto del presente studio: Shar-pei, Dalmata, Dobermann, Dogo Argentino, Dogue de Bordeaux, American staffordshire terrier, Golden retriever, Pitbull, Rottweiler, Boxer, Bulldog e un incrocio. I maschi rappresentavano la maggioranza (10/15, 66.6%); l’età media al momento della visita clinica era di 9,5 settimane (6 - 12). Tredici cuccioli risultavano affetti bilateralmente (86,6%) mentre solo due erano colpiti dalla malattia ad un solo arto (13.4%). Sei (40%) manifestavano una leggera contrattura, 2 su 15 (13,3%) una contrattura di 2° e 7 soggetti (46.6%) manifestavano una contrattura di 3°. Tredici cuccioli su 15 (86,6%) ottenevano la remissione della sintomatologia spontaneamente successivamente ad un periodo di riposo di 2-8 settimane e in due casi la guarigione avveniva dopo l’applicazione di un bendaggio morbido. La gravità della malattia ed il suo decorso risultavano essere correlati negativamente all’età dei cuccioli, mentre il decorso clinico risultava essere positivamente correlato alla gravità della sintomatologia. La terapia conservativa risultava efficace in tutti i soggetti. Al follow-up minimo di 6 mesi nessun soggetto presentava segni di recidiva o di conseguenze della malattia. Conclusioni: Numerose razze possono essere colpite dalla SIC. La sola visita clinica consente di emettere una diagnosi definitiva nella maggior parte dei casi. L’attività motoria peggiora progressivamente la sintomatologia clinica, pertanto la terapia deve prevedere un periodo di riposo forzato. La patologia, che è sempre autolimitante, ha normalmente una prognosi favorevole ed un decorso breve. La drammaticità della presentazione clinica non deve in alcun modo indurre ad intervenire chirurgicamente perché il recupero funzionale e la guarigione, anche nei casi più gravi, non tarderà ad arrivare spontaneamente.

RAZZA

SESSO

ETÀ *

LATO

DECORSO *

GRADO

TERAPIA

SHAR-PEI SHAR-PEI DALMATA DOBERMANN DOGO ARGENTINO DOGUE DE BORD. DOGUE DE BORD. AM STAFF TERRIER AM STAFF TERRIER GOLDEN RETRIEVER PITBULL ROTTWEILER BOXER INC BOXER AMSTAFF BULLDOG

M F F M M F M M F M M M F M M

8 9 9 12 9 12 12 7 7 12 6 12 8 8 12

Bil Bil Bil Destro Bil Bil Bil Bil Bil Sinistr. Bil Bil Bil Bil Bil

2 6 2 2 2 2 3 8 8 2 8 2 8 6 6

1 3 3 1 1 1 2 3 3 1 3 1 2 3 3

RIPOSO RIPOSO RJ RIPOSO RIPOSO RIPOSO RIPOSO RIPOSO RIPOSO RIPOSO RIPOSO RIPOSO RJ RIPOSO RIPOSO

RJ= Robert Jones, Bil = Bilaterale. *: in settimane.


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LA GLICOPROTEINA-P COME MARKER DI MULTIDRUG RESISTANCE NEL MASTOCITOMA CUTANEO CANINO Claudio Petterino Med Vet, PhD, Spec in Tossicologia, Enrica Rossetti Med Vet, Michele Drigo Med Vet, Massimo Castagnaro Med Vet, PhD, Dipl ECVP Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria, Facolà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Padova, AGRIPOLIS, Legnaro, Padova Scopo del lavoro: Il mastocitoma cutaneo canino rappresenta una delle neoplasie che frequentemente richiedono un trattamento chemioterapico oltre che chirurgico. Uno dei fenomeni più importanti nel corso di terapia antineoplastica è l’insorgere della resistenza conseguente all’espressione del gene MDR 1, codificante la glicoproteina P (Pgp). Lo scopo di questo lavoro è lo studio del pattern di espressione della Pgp nel mastocitoma cutaneo canino e la correlazione dei valori ottenuti con il grado istologico. Le indicazioni acquisite potrebbero rappresentare un possibile impiego della Pgp come marker prognostico e terapeutico. Materiali e metodi: Lo studio è stato condotto su 42 mastocitomi cutanei conservati in formalina, inclusi in paraffina tagliati in sezioni di 4 µm, colorati con la metodica standard Ematossilina/Eosina e con blu di Toluidina. Le lesioni sono state classificate secondo i criteri diagnostici proposti dalla WHO e differenziate nei gradi istologici secondo i seguenti criteri: cellularità, anisocitosi e/o anisocariosi, cellule giganti, pleomorfismo, granulazioni citoplasmatiche, caratteristiche nucleari, indice mitotico. I 42 casi risultano così suddivisi: 24 casi di mastocitoma di I grado, 9 di II grado, 9 di III grado. Sezioni di 3 µm sono state sottoposte allo studio immunoistochimico per valutare l’espressione della Pgp attraverso l’impiego di un anticorpo monoclonale (C494), di un sistema di amplificazione (EnVision+TM) e del cromogeno 3,3-diaminobenzide tetraidrocloride (DAB). La positività alla reazione immunoistochimica è stata valutata contando il numero di cellule positive a 400X ottenendo poi le seguenti categorie: 0 = negativo; 1 = <10% di cellule positive; 2 = 10-50% di cellule positive; 3 = >50% di cellule positive. La correlazione tra grado istologico e percentuale di positività alla Pgp è stata valutata impiegando il test non parametrico di Spearman. Per verificare l’esistenza di differenze statisticamente significative tra gruppi di grado istologico diverso e percentuale di espressione della Pgp è stato utilizzato il test non parametrico di Mann-Whitney. Risultati: Con la metodica immunoistochimica impiegata si sono ottenuti i seguenti risultati: 15/24 casi di mastocitoma di I grado, 8/9 di II grado, 9/9 di III grado sono risultati positivi. Nei campioni esaminati la Pgp appare prevalentemente localizzata all’interno del citoplasma dei mastociti neoplastici secondo un pattern omogeneo, occasionalmente membranario con un range di positività variabile da moderata ad intensa. La correlazione tra grado istologico di espressione della Pgp è risultata essere statisticamente significativa (Rho=0.58; P<0.001). Esistono inoltre, relativamente alla percentuale di espressione della Pgp, differenze statisticamente significative esclusivamente tra gruppi di grado istologico I e III (U=17.50; P<0.01) e II e III (U=7.0; P=0.002). Conclusioni: I risultati ottenuti indicano che il mastocitoma cutaneo canino presenta una variabilità nell’espressione della Pgp che è correlata al grado istologico della neoplasia stessa. Tuttavia, anche mastocitomi ben differenziati possono esprimere la Pgp in percentuale significativa. Studi ulteriori sulla correlazione tra l’espressione della Pgp e la risposta al protocollo chimioterapico potranno determinare l’efficacia di tale proteina come marker di multidrug resistance (MDR).

Indirizzo per la corrispondenza: Claudio Petterino Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria Facolà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Padova, AGRIPOLIS Viale dell’Università 16, 35020 Legnaro, Padova Fax 049 8272602 E-mail: claudio.petterino@unid.it


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NUOVO PROTOCOLLO ANESTESIOLOGICO PER CANI DA SOTTOPORRE AD ESAME TC DI BREVISSIMA DURATA: DATI PRELIMINARI Tomaso Piaia Med Vet, Giovanna Bertolini Med Vet, Matteo Boso Med Vet, Marco Caldin Med Vet, Tommaso Furlanello Med Vet Emmanuelle Coquin (Infermiere professionale, dip ASV) Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Introduzione: La tomografia computerizzata (TC) spirale multislice di ultima generazione (General Electric Light Speed 16) ha tempi di scansione estremamente ridotti (range 15-35 secondi), anche per volumi corporei importanti. Tuttavia, per le scansioni del torace o dell’addome, è necessaria l’induzione di un’apnea controllata, al fine di ottimizzare le immagini. In letteratura non sono disponibili esperienze anestesiologiche da utilizzare per questa tecnica diagnostica avanzata e si è pertanto cercato di stabilire un iter anestesiologico idoneo. Abbiamo utilizzato come agente anestetico ad azione ultra rapida il remifentanil (emivita di 6 min.), µ-agonista della classe del fentanil con potente attività analgesica, che viene metabolizzato da esterasi plasmatiche e tissutali (spt. muscolari ed intestinali) producendo un metabolita (GR90291) con potenza di 1/4000 inferiore al prodotto di partenza, dotato di irrilevante effetto additivo. I vantaggi del remifentanil possono essere così riassunti: assenza di premedicazione, diminuzione della MAC, modestissimo accumulo ed estrema maneggevolezza. Queste caratteristiche permettono il suo utilizzo in pazienti critici. Materiali e metodi: Tra i pazienti finora analizzati con la TC prima descritta, 11 hanno rispettato tutti i criteri di inclusione stabiliti: segnalamento, anamnesi, esame fisico, emogramma, profilo biochimico, elettroforesi, profilo coagulativo ed esame urine e monitoraggio continuo documentabile intraprocedurale (HR, SBP/MAP, ETCO2). Sono stati presi in considerazione 11 cani (5 pazienti ASA 2, 3 ASA 3, 3 ASA 4) di sesso, età (8+/-5 anni) e peso (27+/-12 kg) variabile. Il protocollo anestesiologico comprende l’utilizzo combinato di remifentanil, midazolam e propofol. La sedazione inizia con remifentanil a 0,033 mcg/kg/minuto per 2 minuti, seguito da 0,066 mcg/kg/minuto per 2 minuti e da 0,099 mcg/kg/minuto per ulteriori 2 minuti. Si somministra del midazolam a 0,1 mg/kg seguito da propofol a 1-3 mg/kg. L’anestesia viene mantenuta da remifentanil a 0,033-0,066 mcg/kg/minuto e da propofol a 0,1-0,2 mg/kg/minuto. L’apnea si ottiene attraverso una iperventilazione manuale sino ad ottenere una CO2 compresa tra 2,9 e 3,5% seguita da un bolo di remifentanil di 2-4 mcg/kg che induce un’apnea media di 3-8 minuti. Sono state valutate le variazioni emodinamiche, la durata dell’anestesia e i tempi di estubazione. Risultati: Nessun paziente ha dimostrato uno stress emodinamico all’intubazione. Dopo l’induzione dell’anestesia sia la frequenza che la pressione diminuiscono in modo progressivo, tale diminuzione si accentua anche a seguito dell’apnea indotta dal bolo di remifentanil. La durata media dell’anestesia è stata di 38+/-29 minuti, il tempo di estubazione medio è stato di 5+/-4 minuti. La tabella allegata presenta i parametri emodinamici considerati, in funzione delle varie fasi dell’anestesia Conclusioni: Grazie alle caratteristiche farmacodinamiche dei farmaci utilizzati, questo protocollo si è dimostrato idoneo a indurre anestesie di breve durata e rapido risveglio anche in animali critici.

HR (battiti minuto) Pressione sistolica (mm/Hg) Pressione diastolica (mm/Hg) MAP (mm/Hg)

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561098 - Fax 02-700518888 E-mail: tp@sanmarcovet.it

Prima induzione

Induzione

Post bolo

Estubazione

103+/-34 136+/-34 76+/-24 96+/-12

89+/-33 118+/-18 58+/-14 81+/-15

77+/-22 108+/-14 53+/-12 74+/-13

92+/-21 123+/-13 74+/-13 83+/-15


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FISIOTERAPIA E AGOPUNTURA NEL CANE E NEL GATTO Roberta Pozzi Med Vet Libero professionista, Senago (MI) Lo scopo del presente lavoro è dimostrare come la Medicina Tradizionale Cinese, ed in particolare l’agopuntura, possa essere di valido ausilio nelle terapie riabilitative. Materiali, metodi e risultati: Nella mia pratica quotidiana nelle terapie riabilitative ricorro spesso all’utilizzo della Medicina Tradizionale Cinese come ausilio terapeutico. In particolar modo utilizzo l’agopuntura, elettroagopuntura, moxibustione e shiatzu. La MTC si può proporre come terapia di prima scelta o abbinata alle terapie fisioterapiche convenzionali (massoterapia, fisioterapia in palestra, idromassoterapia…). In questa sede verranno esposti dei casi clinici dove l’utilizzo della medicina tradizionale cinese ha permesso da sola o in associazione alle classiche terapie fisioterapiche la ripresa funzionale dell’apparato muscolo scheletrico. Conclusioni: In base alla mia esperienza l’utilizzo dell’agopuntura in campo riabilitativo ha permesso di ottenere dei risultati ottimi sia associata alle normali tecniche riabilitative, sia da sola soprattutto dove non ci fossero delle altre valide alternative. I principali meccanismi d’azione dell’agopuntura nelle patologie muscolo scheletriche sono le seguenti: - effetto vasomodulatore e trofico - effetto antalgico - effetto decontratturante - effetto sedativo Inoltre gli effetti dell’agopuntura possono in alcuni casi aiutare ad indurre il processo di riparazione dei nervi lesionati e il ripristino delle loro funzioni permettendo così di recuperare anche alcune forme di paralisi.

Indirizzo per la corrispondenza: Dott.ssa Roberta Pozzi Via N. Sauro 15- Senago - Milano Tel. 02-99489706, 335-7439150 E-mail: robvet@tin.it


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ORBITOTOMIA LATERALE IN UN CASO D’ADENOMA DELLA GHIANDOLA ZIGOMATICA Mirko Radice Med Vet, Luca Mertel Med Vet Liberi professionisti, Milano I tumori delle ghiandole salivari rappresentano una patologia poco frequente nei piccoli animali, i casi riportati in bibliografia interessano, infatti, soggetti d’età superiore ai 10 anni con forme d’origine epiteliale e maligna. Non sono state identificate predisposizioni particolari di razza o sesso. La principale forma neoplastica interessante le ghiandole salivari è indubbiamente rappresentata dall’adenocarcinoma, diverse varianti istologiche di tale neoplasia sono state descritte, le manifestazioni benigne sono da considerarsi sicuramente rare. Il soggetto in esame, uno schnautzer femmina di 14 anni è stato portato alla visita per una tumefazione della zona zigomatica, con evidente esoftalmo. L’esame radiografico metteva in evidenza una massa occupante spazio, nella regione zigomatica, si procedeva ad effettuare un ago aspirato che dava com’esito un adenoma della zigomatica. Si è dunque deciso di effettuare un’orbitotomia laterale per l’escissione della ghiandola. Tale tecnica prevede la resezione dell’arco zigomatico e la successiva sintesi dello stesso, dopo asportazione della massa sottostante. L’esame istologico successivamente eseguito ha confermato la precedente diagnosi citologica. I follow up a sei e dodici mesi non hanno evidenziato ulteriori problematiche riguardanti l’intervento eseguito. Bibliografia Stephen J. Withrow. Cancer of the salivary glands. Primary neoplasms of the salivary glands in animals as compared to similar tumors in man. Vet Pathol 1965; 2:201. Salivary tumors in the dog and cat: A literature and case rewiew. JAAHA 1988;24;561. Kern T. Orbital neoplasia in 23 dog. JAVMA 186 (5):489-491.

Indirizzo per la corrispondenza: Mirko Radice Via A. Volta n° 7 - Paderno Dugnano 20030 (Mi) Cell. 338/3074414 E-mail: mirko.radice@tiscalinet.it


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UN CASO DI RICHETTZIOSI - ERLICHIOSI Barbara Rigamonti Med Vet Libero professionista, Genova La prima visita omeopatica 30 luglio 03. Ricorrenti disturbi gastrici sino all’età di 10 anni. Episodi di diarrea, varie intolleranze alimentari. È sempre stato molto pauroso, paura delle galline, della tv, di tutto ciò che non conosce, delle persone estranee, dei temporali, dei botti, di tutti i rumori, paura per strada. Ad aprile 2002 inizia ad avere anoressia, disturbi neurologici e motori. Viene posta diagnosi di Erlichia granulocitica e Richettzia richettzii. A settembre recrudescenza che persiste per mesi nonostante la terapia antibiotica. A questo punto, poiché i periodi di remissione sono troppo brevi e la qualità di vita del cane è inadeguata, i proprietari ed il curante decidono di tentare un approccio omeopatico. L’obiettivo: mantenere il paziente in vita alleviandone i sintomi con una metodica diversa dal protocollo tradizionale; migliorare la sua qualità di vita rispetto al precedente periodo di trattamento; gestire la patologia senza effetti collaterali. Il metodo: la gestione del caso si svolge secondo il metodo omeopatico classico, selezionando un rimedio di prima scelta in base a tutti i dati forniti dall’anamnesi; in alcuni momenti dell’iter clinico prescrivo altre sostanze scelte su base sintomatica. Il rimedio di prima scelta viene individuato con la tecnica detta di repertorizzazione (informatica). La repertorizzazione: Escludo tutti i sintomi patognomonici di malattia. Considero le principali caratteristiche mentali ed i sintomi generali e locali intensi e persistenti nel tempo. Mind, mildness Mind, fear, noise from Vertigo, fall, tendency to Rectum, diarrhea, indiscrection in eating, after the slightest Stomach vomiting, forenoon Generals, hemorrhage Abdomen, liver and legion of liver, complaints of Il rimedio di prima scelta: China regia. Follow up dopo 5 mesi dalla prima prescrizione: miglioramento dei sintomi locali, generali e mentali. Il paziente non ha più assunto farmaci chemioterapici.

Indirizzo per la corrispondenza: Barbara Rigamonti Via Gobetti 1/1, 16145 Genova Fax 0103777867 (manuale) E-mail: omeovet@bonfi.it


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APPLICAZIONE DI UN NUOVO MEZZO DI CONTRASTO ECOGRAFICO A MICROBOLLE PER LO STUDIO DI SOSPETTE LESIONI NEOPLASTICHE Federica Rossi1 Med Vet SRV Dipl ECVDI, M. Vignoli2 Met Ved SRV, R. Terragni3 Med Vet SPCAA-Gastroenterologia, G. Sarli4 Med Vet 1,2,3 Libero professionista, Sasso Marconi (BO) 4 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Università degli Studi di Bologna Scopo del lavoro: Valutazione del possibile utilizzo di un nuovo mezzo di contrasto, l’esafluoruro di zolfo in forma di microbolle in associazione alla tecnologia ecografica CnTI per lo studio della perfusione delle lesioni focali sospette neoplastiche della cavità addominale e del torace. Questa tecnica viene valutata per la possibilità di: 1. visualizzare un numero maggiore di lesioni rispetto all’esame ecografico standard, 2. caratterizzare la perfusione della lesione per poter differenziare i diversi tipi istologici, 3. riconoscere la porzione di lesioni più adatta ad essere prelevata mediante biopsia. Metodi impiegati: Quaranta animali (trenta cani e dieci gatti) di diverse razze ed età con lesioni sospette neoplastiche riconosciute all’esame ecografico standard sono stati esaminati mediante apparecchiatura ecografica che consente di utilizzare la tecnologia della seconda armonica con basso indice meccanico (Esaote Megas Esatune, metodica CnTI). Il mezzo di contrasto ecografico (Sonovue®, Bracco) è stato iniettato in bolo attraverso un catetere posizionato a livello della vena cefalica dell’avambraccio al dosaggio di 0,5-1 ml. La distribuzione del mezzo di contrasto è stata visualizzata in tempo reale e le immagini acquisite mediante sistema digitale ed analogico. La lesione è stata studiata per: 1. distribuzione del mezzo di contrasto rispetto al parenchima circostante (ipo-, iso- od iperperfusione), 2. pattern (omogeneo o disomogeneo), 3. presenza di vasi afferenti alla lesione. In tutti i casi un campione di tessuto prelevato mediante biopsia è stato inviato per esame citologico e istopatologico. Risultati ottenuti: Le lesioni studiate erano localizzate nel: fegato (n=15), milza (n=4), intestino tenue (n=4), ghiandola surrenale (n=3), linfonodi (n=3), vescica (n=3), reni (n=2), polmone (n=2), stomaco (n=1), pancreas (n=1), peritoneo (n=1), atrio destro (n=1). Le lesioni di tipo carcinomatoso hanno assunto il mezzo di contrasto in modo eterogeneo con zone a maggiore e più precoce perfusione rispetto al tessuto circostante e vasi periferici afferenti. L’emangiosarcoma era caratterizzato in tutti gli organi da noduli omogenei ben delimitati estremamente ipoperfusi. Le lesioni focali di tipo benigno del fegato, milza, vescica e linfonodi hanno mostrato ad eccezione di un caso una perfusione omogenea simile al tessuto circostante senza visualizzazione di vasi periferici afferenti. In un cane con un nodulo iperplastico epatico di grandi dimensioni contenente aree di emorragia e necrosi il mdc si è distribuito in modo disomogeneo con numerose aree ipoperfuse. I linfosarcomi dell’apparato gastroenterico sia nel cane che nel gatto erano molto omogenei e scarsamente perfusi, mentre in un cane con adenocarcinoma del digiuno si evidenziava un pattern di tipo disomogeneo con aree ad elevata perfusione. Conclusioni: Il mezzo di contrasto utilizzato associato alla tecnologia CnTI permette di studiare la perfusione delle lesioni. La caratterizzazione della lesione è più facile con lesioni focali di un parenchima perché è possibile un confronto con il tessuto circostante. I risultati ottenuti in questo primo gruppo di animali indicano che lo studio della perfusione della lesione dà informazioni utili alla differenziazione tra le lesioni benigne e maligne e che alcuni tipi istologici di tumore hanno caratteristici pattern. In questo studio difficoltà di interpretazione si sono incontrate in caso di lesioni benigne di grandi dimensioni comprendenti vaste aree di necrosi ed emorragia. L’uso del mezzo di contrasto prima della biopsia ha consentito di evitare il prelievo da zone necrotiche di tessuto.

Indirizzo per la corrispondenza: Ambulatorio Veterinario dell’Orologio Via dell’Orologio, 38 - 40037 Sasso Marconi (BO) Tel. e Fax 051 6751232 E-mail: chiccarossi@yahoo.it


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ABLAZIONE TRANSCATETERE DI VIE ACCESSORIE MULTIPLE IN CANE CON TACHICARDIOPATIA SECONDARIA A TACHICARDIA ATRIOVENTENTRICOLARE ORTODROMICA RECIPROCANTE Roberto A. Santilli1 Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), GianMario Spadacini2 Med Vet, Franca Santoro3 Med Vet, Alberto Perini4 Med Vet 1,4 Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate, Varese 2 Ospedale Mater Domini, Castellanza, Varese, 3 Clinica Veterinaria Strada ovest, Treviso Un cane Labrador, maschio di 2 anni veniva riferito con anamnesi di un episodio di tachicardia sopraventricolare incessante e cardiomiopatia a tipo ipocinetico-dilatativo con insufficienza cardiaca biventricolare. All’esame ecocardiografico, eseguito durante l’episodio, il soggetto presentava grave dilatazione tetracamerale con marcata ipocinesia settoparietale ed importante deficit contrattile. (DVSD 68 mm, DVSS 54 mm, FA 21%, EPSS 12,8 mm, EDVI 212 ml/m2, ESVI 106 ml/m2, AS/AO 2,53). L’esame elettrocardiografico evidenziava una tachicardia a QRS stretti con intervalli RR regolari, frequenza di scarica di 300 bpm, rapporto atrioventricolare 1:1 e onda P retrocondotta nella branca prossimale dell’onda T con intervallo RP minore del 50% dell’intervallo RR e rapporto RP/PR minore di 1. Formulando l’ipotesi di tachicardia ortodromica atrioventricolare reciprocante, si decideva di trattare il cane con chinidina 6 mg/kg tid per os, furosemide 2 mg/kg bid per os ed enalapril 0,5 mg/kg bid per os. Il giorno seguente le condizioni cliniche miglioravano significativamente ed il soggetto presentava un elettrocardiogramma con ritmo sinusale (140 bpm) e pre-eccitazione ventricolare (PR 60 ms con onda delta). A tre settimane dall’ultimo episodio di tachicardia incessante, all’esame ecocardiografico non si evidenziava più il quadro ipocinetico-dilatativo ed i parametri ecocardiografici rientravano nei limiti della normalità (DVSD 55 mm, DVSS 33 mm, FA 40%, EPSS 8 mm, EDVI 118 ml/m2, ESVI 25,5 ml/m2, AS/AO 1,78). Vista la completa risoluzione della cardiomiopatia, si sospendevano i diuretici e gli ace-inibitori, mantenendo la chinidina a 6 mg/kg tid per os. Nei mesi successivi l’esame Holter documentava ripetuti accessi di tachicardia non sostenuta sintomatici, senza recidiva di tachicardiopatia. A questo punto il cane veniva indirizzato al nostro centro, con richiesta di ablazione transcatetere della via atrioventricolare anomala responsabile della tachicardia. All’arrivo il cane si presentava in buone condizioni cliniche, in ritmo sinusale, con pre-eccitazione ventricolare ed ecocardiografia nella norma. Lo studio elettrofisiologico è stato effettuato con un Poligrafo 12 canali PC-EMS versione 4,32 dA (Mennen). Per questa procedura il cane è stato sedato con midazolan 0,2 mg/kg, l’anestesia è stata indotta con 4 mg/kg di propofol e mantenuta con isofluorano. Il soggetto è stato posto in decubito dorsale per l’isolamento degli accessi venosi utilizzando la metodica di Seldinger. Con la guida dell’intensificatore di brillanza, sono stati introdotti 2 cateteri quadripolari, uno attraverso la vena giugulare, nel seno coronarico, un altro attraverso la vena femorale destra a livello dell’annulus tricuspidale per registrare l’elettrocardiogramma del fascio di His. Un terzo catetere per ablazione (Boston Scientific) è stato introdotto, attraverso la vena femorale sinistra, alternativamente a livello di atrio destro, ventricolo destro e annulus tricuspidale. Lo studio elettrofisiologico ha documentato numerosi episodi di tachicardia atrioventricolare reciprocante e la presenza di 3 diversi fasci di Kent destri (postero-laterale, posteriore e medio-settale), successivamente ablati con una potenza di 65 W, temperatura di 65° per una durata media di 60 secondi. Alla fine dello studio è stata evidenziata la presenza di un’ulteriore via accessoria sinistra con periodo refrattario, sia anterogrado sia retrogrado, maggiore di 300 ms ed incapace di mantenere la tachicardia atrioventricolare ortodromica. Al termine della procedura all’elettrocardiogramma è stato registrato un normale intervallo PR di 90 ms con assenza dell’onda delta in tutte le derivate. Il cane è stato monitorato per le 24 ore successive e poi dimesso con 1 mg/kg tid di verapamil per os. A distanza di 3 mesi il paziente non ha più presentato episodi di tachicardia incessante e di tachicardiopatia, è stato quindi sospeso il verapamil e a 8 mesi dalla procedura di ablazione non si sono verificate recidive. L’ablazione transcatetere con radiofrequenza è una tecnica innovativa nella cura di molti disturbi del ritmo cardiaco. La scoperta di aritmie ipercinetiche sostenute, in soggetti con cardiopatie ipocinetico-dilatative, dovrebbe sempre spingere ad effettuare studi elettrofisiologici che permetterebbero di risolvere, attraverso le tecniche di ablazione, molte forme di cardiomiopatia tachicardia-indotta.


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VALUTAZIONE DELLA RISPOSTA CLINICA E DELL’ANDAMENTO DELLE GAMMAGLOBULINE IN GATTI CON PODODERMATITE PLASMACELLULARE TRATTATI CON DOXICICLINA: DATI PRELIMINARI Fabia Scarampella Med Vet Dipl ECVD, L. Ordeix Med Vet Dipl ECVD Liberi professionisti, Milano Introduzione: L’eziopatogenesi della pododermatite plasmacellulare felina è al momento sconosciuta anche se molti elementi quali la presenza costante di infiltrato linfoplasmacellulare nei cuscinetti plantari e l’ipergammaglobulinemia sierica suggeriscono un meccanismo immuno-mediato. I trattamenti suggeriti sino ad oggi comprendono l’asportazione chirurgica dei cuscinetti interessati, varie terapie immunosoppressive e più recentemente la doxiciclina. Lo scopo di questo studio è di valutare l’andamento clinico e le variazioni delle γ globuline in gatti affetti da pododermatite plasmacellulare nel corso del trattamento con doxiciclina. Materiali e metodi: Otto casi di pododermatite plasmacellulare felina diagnosticati clinicamente e istologicamente sono stati inclusi in uno studio multicentrico svolto in Italia. Per essere inclusi i soggetti non dovevano essere stati trattati con antibiotici, antinfiammatori non steroidei o antistaminici nei 15 giorni precedenti l’inclusione. Trattamenti con cortisonici a breve azione dovevano essere stati sospesi da un mese mentre i soggetti che avevano ricevuto cortisonici deposito o sali d’oro per via iniettiva potevano essere inclusi soltanto dopo 2 mesi dall’ultima somministrazione. Sette gatti erano di sesso maschile (4 castrati) e uno di sesso femminile (castrata), con un’età variabile tra 3 e 5 anni. I soggetti che presentavano ulcerazione dei cuscinetti interessati venivano esclusi dallo studio. Il farmaco doxiciclina compresse da 20 mg (Ronaxan) è stato somministrato in ragione di 10 mg/kg al giorno per 40 giorni. I soggetti sono stati valutati clinicamente e sottoposti a prelievo di sangue il giorno di inclusione (giorno 0) e i giorni 30 e 60 dello studio. L’esame emocromocitometrico, sierologico per FIV, FeLV, e la valutazione quantitativa delle proteine totali e l’elettroforesi delle proteine sieriche sono stati effettuati il giorno di inclusione mentre soltanto le proteine totali e il protidogramma venivano rivalutati il giorno 30 e 60. Risultati: In tutti i soggetti le lesioni interessavano più cuscinetti, in particolare in 7 gatti esclusivamente i cuscinetti metarcarpali e/o metatarsali mentre in un soggetto erano coinvolti anche 2 cuscinetti digitali. I segni clinici osservati comprendevano tumefazione e perdita di consistenza (8/8), eritema (4/8) ed esfoliazione (5/8). Le alterazioni ematologiche rilevate il giorno 0 includevano trombocitopenia (5/8), leucocitosi (3/8) e linfopenia (2/8). Tutti i gatti presentavano una ipergammaglobulinemia policlonale, 2 soggetti su 7 erano FIV positivi mentre 7 soggetti su 7 erano FeLV negativi. Una remissione completa delle lesioni è stata osservata il giorno 30 in un soggetto. Il giorno 60 le lesioni erano scomparse in altri 2 gatti, tre presentavano un miglioramento clinico superiore al 50%, uno non era migliorato e uno non si è presentato al controllo. Al giorno 60 l’ipergammaglobulinemia era ancora presente in 5 degli 8 gatti testati. Conclusioni: I risultati preliminari di questo studio confermano l’efficacia della doxiciclina nel trattamento della pododermatite plasmacellulare felina. La trombocitopenia osservata in un’alta percentuale dei soggetti è un dato riportato per la prima volta in questa condizione e potrebbe avere un significato eziopatogenetico. Il numero limitato di animali sino ad ora inclusi non permette al momento una valutazione statistica dei dati clinici, sierologici ed ematochimici sino ad ora ottenuti.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabia Scarampella Via Sismondi 62, Milano Fax 02 7490750 E-mail: fabia.scarampella@dermvet.fastwebnet.it


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L’ARRICCHIMENTO AMBIENTALE PER IL GATTO IN APPARTAMENTO: UN ESEMPIO Elena Severi Med Vet Specialista “Clinica e Patologia Animali d’Affezione” Libero professionista, Forlimpopoli (FC) Negli ultimi anni i gatti hanno assunto un posto di grande rilievo quali animali d’affezione, anche se l’incremento numerico in qualità di “pet” non è stato seguito da un altrettanto approfondimento delle loro esigenze etologiche da parte dei proprietari. Il gatto viene generalmente considerato un animale d’affezione di facile gestione e spesso viene scelto perché si ritiene che possa adattarsi facilmente alla vita d’appartamento, che possa essere lasciato solo anche per lunghi periodi nell’arco della giornata o di interi fine settimana, in quanto specie “solitaria” e che non necessiti dell’accesso all’esterno. Quest’ultima convinzione è spesso rafforzata dagli appartenenti alle associazioni animaliste che, nel dare in affido gattini (o gatti adulti) da rifugi o da colonie feline, a volte li cedono solo a condizione che il nuovo proprietario li faccia vivere esclusivamente in casa, nel timore degli eventuali rischi per la salute e per l’incolumità fisica derivanti dall’accesso all’esterno. La tipologia media dei moderni appartamenti, spesso a ridottissima metratura (bilocali, miniappartamenti), riduce la possibilità del gatto di avere un ambiente sufficientemente spazioso, in relazione alle sue esigenze di movimento e di strutturazione del territorio in diversi campi di attività; la situazione viene ulteriormente peggiorata quando lo stesso territorio deve essere condiviso da più soggetti. Occorre anche ricordare che il gatto è un predatore, pertanto in ambiente esterno trascorre buona parte del suo tempo in attività di caccia, talvolta tramite appostamenti di lunga durata. Anche nei momenti di apparente riposo è comunque attento agli stimoli ambientali (rumori, passaggio di altri animali, ecc.), anche perché da predatore può trasformarsi repentinamente in preda. Il gatto ha la caratteristica di mantenere da adulto una buona predisposizione al gioco individuale e sociale, pertanto è frequente notare individui trastullarsi con oggetti di varia natura o con altri soggetti con i quali sono stati allevati ed hanno vissuto in modo pacifico. Partendo da questi presupposti etologici, l’autrice elenca in modo sintetico le condizioni che possono costituire un valido arricchimento ambientale per il gatto di appartamento, esaminando brevemente il modo in cui struttura il suo territorio, come ne sfrutta la tridimensionalità e come necessiti di un ambiente stabile e “prevedibile”. L’autrice mostra quali siano gli elementi utili all’arricchimento ambientale, prendendo come esempio un appartamento in cui due proprietari hanno messo in atto molte soluzioni di arricchimento ambientale per i loro due gatti. Vengono illustrati gli oggetti utilizzati come giocattoli, i giochi d’acqua, lo sfruttamento razionale dello spazio nelle terrazze, l’aumento della possibilità dei gatti di vedere l’esterno. Si accenna anche brevemente a come questa tipologia di appartamento ha permesso di gestire e di curare la patologia comportamentale di uno dei due gatti, affetto da uno stato fobico. Si mettono a confronto anche alcuni casi in cui la situazione ambientale non può garantire al gatto un ambiente “appagante” e richiede pertanto la messa in atto di soluzioni alternative. Il lavoro ha l’obiettivo di presentare al medico veterinario alcuni spunti di intervento da proporre ai nuovi proprietari di gatti; può inoltre essere un punto di partenza per valutare, nei casi in cui un cliente chieda consigli prima dell’adozione di un gatto, se l’ambiente in cui andrà a vivere avrà le risorse sufficienti per soddisfare le sue esigenze etologiche. Bibliografia 1. 2. 3. 4.

Dehasse J.: “L’educazione del gatto”, Perdisa 2001. Landsberg G., Hunthausen W., Ackerman L.: “Handbook of behaviour problems of the dog and cat”. Leyhausen P.: “Il comportamento dei gatti”, Adelphi, 1994. Overall K.: “La clinica comportamentale del cane e del gatto”, Edizioni Medico Scientifiche, 2001.


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PROTEZIONE DELLA CORREZIONE CHIRURGICA DI UNA PALATOSCHISI CON L’AUSILIO DI UNA PLACCA IN RESINA Paolo Squarzoni Med Vet Libero professionista, Molinella (BO) Introduzione: Nei carnivori domestici la correzione chirurgica dei difetti palatali deve essere eseguita il più precocemente possibile, in quanto le schisi della porzione ossea del palato secondario causano difficoltà nella suzione del latte (a volte in maniera non particolarmente manifesta) e, spesso, i cuccioli muoiono per malnutrizione o per polmonite ab ingestis prima che il proprietario rilevi il problema; le schisi del palato molle solo sporadicamente causano segni clinici evidenti e di rado vengono diagnosticate precocemente, tranne nei casi, per altro frequenti, che si accompagnano ai difetti del palato duro. Quando viene affrontata la correzione chirurgica di una palatoschisi, la possibile deiscenza della sutura, a cui consegue l’insuccesso dell’intervento, può dipendere da diversi fattori: eccessiva tensione dei lembi utilizzati, tecnica chirurgica inadatta e precoce distruzione del materiale di sutura per l’effetto della continua azione della lingua; mentre i primi due, essendo pianificati dall’operatore, hanno un esito prevedibile, il terzo risulta inevitabile. Per limitare i danni alla sutura provocati dal movimento della lingua, si è pensato di proteggerla con una barriera meccanica costituita da una placca in resina acrilica ancorata ai denti. Materiali e metodi: Veniva portato alla visita un cane Labrador retriever, di sei mesi, di sesso maschile, nel quale era stato riscontrato un grave difetto che interessava il palato molle e quello duro. L’anamnesi riferiva che tale anomalia era stata accertata alla nascita, ma che era stato consigliato al proprietario di attendere qualche mese prima di correggere il difetto. Il soggetto era stato alimentato artificialmente durante i primi mesi di vita e, nei mesi successivi era stato controllato dai proprietari durante l’assunzione dei liquidi. Dopo gli accertamenti necessari, il paziente veniva posto in anestesia generale per calcolare la planimetria dei tessuti che si prevedeva di coinvolgere nella ricostruzione e chirurgica e, contestualmente, si provvedeva a rilevare un’impronta dell’arcata dentaria, dalla quale l’odontotecnico incaricato provvedeva a ricavare un calco, utilizzato per sviluppare la placca di protezione. Va ricordato che il tempo che trascorre tra la rilevazione dell’impronta e l’applicazione della placca di protezione deve essere necessariamente breve, perché il rapido sviluppo cranio facciale, nei soggetti in accrescimento, può rendere inadeguato il manufatto. Dopo la correzione chirurgica (eseguita con tecnica mucoperiostale a cardine di Howard) veniva applicata la placca, cementandola mesialmente ai canini per mezzo di bande preformate saldate alla placca stessa e fissandola distalmente con filo metallico, fatto passare attraverso un piccolo foro praticato sulla placca e lo spazio interprossimale di IV premolare e I molare inferiore. Risultati: Al momento della rimozione della placca di protezione il materiale di sutura era ancora in sede ed intatto, la modesta infiammazione dei tessuti presente al di sotto della placca si è risolta spontaneamente in capo a 2-3 giorni, senza che fosse necessario alcun trattamento. Conclusioni: Con questo metodo, si ottiene un’efficace protezione della sutura, grazie ad una tecnica di facile esecuzione. Per contro, oltre a quella utilizzata nel corso dell’intervento chirurgico, sono necessarie due anestesie supplementari (una per rilevare l’impronta ed una per rimuovere la placca di protezione); inoltre, è necessario mettere in bilancio il costo della placca realizzata a cura del laboratorio odontotecnico; questi ultimi aspetti negativi passano comunque in secondo piano a fronte della maggiore garanzia di successo.

Indirizzo per la corrispondenza: Paolo Squarzoni Via Unità n° 12 - 40062 Molinella (BO) Tel. 051/882751 - 333/5959544; Fax 051/6900385 E-mail: vetpaolo@tin.it


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LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI IN MEDICINA VETERINARIA: RUOLO DEL MEDICO VETERINARIO Damiano Stefanello Med Vet PhD*, Stefano Romussi Med Vet PhD Prof*, Valentina Fiorbianco Med Vet* *Sezione di Clinica Chirurgica Veterinaria, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria, Milano In medicina veterinaria la sola abilità clinica e la preparazione teorico-scientifica del veterinario potrebbero non essere sufficienti per proporre nel modo corretto le procedure diagnostiche e terapeutiche necessarie, poiché inevitabilmente alla parola cancro pronunciata dal clinico, si proiettano nel proprietario concetti quale: dolore, sofferenza, morte imminente che di fatto lo spaventano e lo angosciano. Le tecniche di comunicazione assumono dunque un ruolo fondamentale. Nell’ambito del processo di comunicazione ci occuperemo inizialmente del ricevente per le sue peculiarità caratterizzate dalle modificazioni del rapporto tra uomo-cane/gatto che hanno creato un interlocutore, che si avvicina alla figura del proprietario-genitore, come ben dimostrato dal termine anglosassone “Perpetual Children” accanto ad “Animali da compagnia”. Il clinico, quindi, non deve essere solo un tecnico che informa (trasferimento delle informazioni in modo unidirezionale) ma un tecnico che comunica (scambio di informazioni in modo bidirezionale) stabilendo un’interazione con l’interlocutore attraverso i noti canali della comunicazione verbale e non verbale. La comunicazione della diagnosi di un tumore da parte del veterinario in un paziente canino e felino, deve tenere conto del legame esistente tra paziente e proprietario-genitore il quale potrà interagire con noi solo se avrà superato le cosiddette fasi del dolore: shock o rifiuto, reazione, elaborazione e orientamento, accettazione. Il rapporto di comunicazione dovrebbe avvenire in ambiente tranquillo, accogliente, senza distrazioni in modo che l’interazione clinico-proprietario non sia di dominio pubblico. Inoltre l’interposizione di barriere fisiche quali scrivanie, tavoli, sono vissuti dal proprietario come segni di distacco che non promuovono la comunicazione bidirezionale. I tempi della comunicazione sono altrettanto importanti dato che brevi colloqui riducono la possibilità dell’interlocutore di porre domande e di esprimere i propri sentimenti, inibendo in modo anticipato la comunicazione bidirezionale. Di estremo interesse clinico risulta la valutazione oggettiva di colloqui veterinario-proprietario effettuati rigorosamente con le modalità descritte presso il Consultorio oncologico del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie. Il metodo introdotto per la valutazione della comunicazione è stata l’analisi del processo di accettazione o rifiuto di protocolli antiblastici ed in particolare chemioterapici da parte dei proprietari di 65 pazienti oncologici. I proprietari hanno accettato la terapia nel 57% dei casi ed è più probabile che accettino quando sono al primo consulto, quindi quando non ancora informati sulla malattia, accompagnati, suggerendo un miglior chiarimento delle informazioni, e inviati dal veterinario curante. Il sesso, l’età, il titolo di studio e la composizione del nucleo familiare non sono fattori condizionanti. I principali motivi addotti come condizionanti la scelta sono stati: qualità di vita (probabilità di accettazione del 61%), prognosi, per la quale i proprietari accettano con una probabilità del 81% benchè i pazienti appartengano prevalentemente alle classi prognostiche tra 1 e 12 mesi, ed effetti collaterali, che invece sono importanti per i proprietari che rifiutano (71%) benchè non siano ricordati dagli stessi al termine del consulto. I proprietari accettano con uguale probabilità per pazienti sia con prognosi tra 1-6 mesi sia > 12 mesi, indicando come determinanti le condizioni del paziente al momento del consulto e la possibilità di scegliere tra varie opzioni terapeutiche; inoltre è più probabile che accettino protocolli combinati rispetto alla sola chemioterapia, confermando la scarsa importanza dei costi e dell’impegno richiesto. Il tempo non è determinante, anche se i consulti fatti a persone che hanno rifiutato hanno avuto una durata superiore, malgrado il coinvolgimento sempre positivo e la mancata correlazione con categorie psicologiche particolari.


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ESEMPI DI CASI CLINICI DI LEISHMANIOSI TRATTATI CON L’OMEOPATIA Maria Cristina Stocchino Med Vet Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica “Dott. Rita Zanchi”, Cortona (Ar) Scopo del presente lavoro è dimostrare l’utilità della terapia omeopatica nel trattamento di alcuni cani risultati positivi ad una diagnosi sierologica (immunofluorescenza indiretta) di leishmaniosi. Vengono presentati otto casi clinici, per ognuno dei quali viene descritta la visita clinica e l’interrogatorio omeopatico indispensabile per arrivare alla diagnosi di rimedio unico. Ogni caso clinico è corredato di diagnosi i.fi. iniziale, t.e.f. iniziale e i.f.i e t.e.f. recenti, e della “griglia di rimedi” che presentano in comune i sintomi presi in considerazione per la scelta del farmaco omeopatico, ottenuti con l’ausilio di un programma informatico. Cinque dei cani trattati sono risultati negativi ai controlli sierologici per leishmaniosi (i.f.i), in seguito alla somministrazione del rimedio omeopatico; una di questi è risultata nuovamente positiva al 3 controllo dopo due negativi (distanza di circa 6 mesi l’uno dall’altro). Due di questi sono attualmente positivi ma hanno migliorato la qualità della vita in maniera decisiva e vengono sottoposti a periodici controlli e trattamenti omeopatici. Uno è deceduto alla seconda somministrazione del rimedio. In conclusione si può affermare che tutti i cani sottoposti a terapia omeopatica hanno tratto giovamento dalla stessa, anche se in alcuni si evidenzia un recupero “tardivo” della normalità del tracciato elettroforetico.

Indirizzo per la corrispondenza: Via Forlanini 6, I - 07100 Sassari Tel. 079298692 E-mail: dopistovet@tiscali.it


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DIAGNOSI DI DISTURBI MIELO E LINFOPROLIFERATIVI NEL CANE MEDIANTE L’USO DELLA CITOMETRIA A FLUSSO Marco Caldin1,2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet 1 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” 2 Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco” 3 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa La citometria a flusso (FCa - Flow cytometry assay) è una metodica che permette di raccogliere parametri fisici e chimici di particelle contenute in una sospensione. Tramite l’uso di una luce laser e di rilevatori ottici, il sistema raccoglie la fluorescenza emessa da un fluorocromo (sostanza organica in grado di emettere una fluorescenza se opportunamente eccitata) legato ad un anticorpo monoclonale specifico per i recettori di superficie delle cellule (CD). Il segnale raccolto viene quindi convertito in un segnale elettronico e trasmesso al computer che elabora i dati. L’impiego della FCa per la fenotipizzazione dei disturbi mielo-linfoproliferativi risulta attualmente una metodica non ancora diffusamente impiegata in medicina veterinaria, anche se la disponibilità commerciale di anticorpi validati per uso veterinario ne facilita l’applicazione nella diagnosi, nella classificazione e nella valutazione prognostica delle leucemie. Nel passato la diagnosi si basava esclusivamente su una valutazione cito-morfologica e istologica delle alterazioni quali e quantitative del sangue e del midollo osseo: tale approccio spesso risultava insufficiente per una precisa classificazione fenotipica, sia per i limiti legati alla soggettività individuale, in termini di esperienza e abilità dell’operatore, sia per la reale difficoltà di discriminare l’origine di taluni elementi cellulari neoplastici. Oggi invece l’uso sinergico della microscopia e della FCa fornisce una diagnosi più completa e attendibile; infatti, l’impiego della FCa permette l’analisi di un gran numero di cellule (103/sec) garantendo un’elevata accuratezza del risultato; d’altra parte l’impiego simultaneo di più marcatori contribuisce ad incrementare la sensibilità e la specificità dell’esame. Il seguente pannello anticorpale formato da CD3, CD4, CD5, CD8, CD14, CD21, CD34, CD41, CD45, CD61 e CD79 ha permesso di identificare l’origine fenotipica in 60 leucemie, in un periodo compreso tra Dicembre 2002 e Novembre 2003, in 60 cani, di cui 37 maschi e 23 femmine, appartenenti a razze diverse e di età compresa tra 10 mesi e 15 anni. La FCa è stata eseguita con il citofluorimetro Epics XL-MCL (Beckman Coulter®) su sangue periferico e/o su aspirato midollare addizionato di K3 EDTA. L’iter diagnostico ha previsto la valutazione citologica delle alterazioni quali-quantitative su striscio periferico e nel preparato midollare (solo per 40 soggetti), seguito dall’immunofenotipo sui medesimi campioni. Impiegando la classificazione internazionale WHO-OMS del 2002 sono state diagnosticate: 8 leucemie indifferenziate acute (AUL/AML-M0), 3 leucemie mieloidi con minima maturazione (AML-M1), 2 leucemie mieloidi con maturazione (AML-M2), 4 leucemie mielomonocitiche (AMLM4), 1 leucemia monocitica (AML-M5b), 1 leucemia megacariocitica (AML-M7), 5 leucemie linfoblastiche (ALL) di cui 2 di origine T (T-ALL) e 3 di origine B (B-ALL), 15 leucemie linfocitiche croniche (CLL) di cui 14 T (T-CLL) e 1 B (B-CLL), 20 linfomi leucemici rispettivamente 13 con fenotipo B e 7 con fenotipo T e infine un mieloma multiplo. La FCa è stata senza dubbio un’indispensabile supporto alla citologia in corso di disturbi mielo-linfoproliferativi, integrando e completando la valutazione morfologica. Si ringraziano i Medici Veterinari che hanno inviato la casistica.

Indirizzo per la corrispondenza: Laboratorio San Marco Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561098 - Fax: 02-700518888 E-mail: st@sanmarcovet.it


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LEUCEMIA LINFOCITICA CRONICA A GRANDI GRANULI (CLL-LGL) NEL CANE: 12 CASI Marco Caldin1,2 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet, Carlo Patron2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet 1 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” 2 Laboratorio d’Analisi Veterinarie Private “San Marco” 3 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa I grandi linfociti granulati (LGL) rappresentano circa il 10% dei linfociti circolanti e si distinguono morfologicamente per un abbondante citoplasma, ricco di granuli azzurrofili. Esistono due sottopopolazioni di LGL, distinguibili fenotipicamente per una diversa espressione antigenica recettoriale (CD): linfociti T citotossici (CD3+, CD8+, CD16+ e CD57+) oppure Natural Killer (NK) [CD3-, CD8-, CD16+, CD56+ e CD57-]. Disturbi linfoproliferativi cronici a carico degli LGL, possono esitare in leucemie linfocitiche croniche nella variante a grandi granuli, CLL-LGL, o in leucemie NK-LGL. Nel presente studio sono stati esaminati il segnalamento, l’anamnesi, l’esame fisico, l’esame emocromocitometrico e l’immunofenotipo ematologico di 12 cani affetti da LCC-LGL, diagnosticate nel periodo compreso tra Dicembre 2002 e Novembre 2003. Il segnalamento rivela un’ampia variabilità in termini di razza, una predominanza del sesso femminile e una netta prevalenza di soggetti adulti/anziani (età compresa tra 8 e 15 anni). All’anamnesi e all’esame fisico si riportavano segni aspecifici quali: abbattimento, anoressia/disoressia, dispnea, diarrea, vomito, splenomegalia e linfoadenomegalia. In due casi la malattia è stata diagnosticata fortuitamente, sulla base del rilievo di una linfocitosi periferica (> 26.0 × 109/L), in pazienti altrimenti asintomatici. L’esame emocromocitometrico (lettura strumentale con contaglobuli laser ADVIA 120 Bayer©) e la valutazione citomorfologica dello striscio ematico eseguito a fresco, hanno evidenziato un’anemia normocitica normocromica lieve in 5 casi, moderata in 2 casi e l’assenza di anemia nei rimanenti. Il leucogramma presentava leucocitosi con ampia variabilità di espressione (min. 20.0, max. 464.3 × 109/L), secondaria principalmente a linfocitosi (min. 14.4, max. 445.7 × 109/L) e neutrofilia. La stima piastrinica risultava inadeguata in 2 soggetti, adeguata in 8 e aumentata in 2. Tutti linfociti allo striscio apparivano maturi, di medio-grandi dimensioni con abbondante citoplasma ricco di granuli azurofili, in assenza di alterazioni nucleari. L’analisi citofluorimetrica è stata eseguita con il citofluorimetro Epics XL-MCL (Beckman Coulter©), su sangue periferico addizionato di K3 EDTA, con il seguente pannello anticorpale: CD3+ (linfociti T), CD4+ (T helper), CD8+ (T citotossici), CD21+ (linfociti B) e CD34+ (blasti). L’immunofenotipo, dimostrando una netta positività al CD3 e al CD8 e negatività per il CD4, CD21 e CD34 ha permesso di formulare la diagnosi LCC-LGL nei 12 casi in esame. Tali risultati dischiudono interessanti aspetti di patologia comparata con la medicina umana. Nell’uomo i disturbi linfoproliferativi a carico degli LGL si presentano in due varianti CLL-LGL e NK-LGL: la prima dal decorso più indolente rispetto alla seconda, dove spesso si segnalano quadri clinici conclamati; entrambe colpiscono con maggior frequenza i maschi, prediligono i soggetti adulti/anziani e talvolta s’associano a quadri di pancitopenia periferica, indotta da un deficit maturativo midollare, secondaria all’infiltrazione linfocitaria, e da meccanismi autoimmuni. La nostra casistica ha evidenziato, fino ad ora, l’esistenza della sola variante CLL-LGL, dal decorso clinico sovrapponibile a quello umano, ad eccezione di due aspetti: nel cane sono colpite più frequentemente le femmine e non si osservano quadri di pancitopenia periferica. In particolar modo la neutropenia registrata in corso di CLL nell’uomo risulta fortemente in contraddizione con la neutrofilia evidenziata nel cane: questo dato suggerisce che l’infiltrazione LGL nel midollo non induce una soppressione della mielopoiesi. Si ringraziano i Medici Veterinari, che hanno inviato la casistica.

Indirizzo per la corrispondenza: Laboratorio d’Analisi Private “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888 E-mail: st@sanmarcovet.it


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DILATAZIONE DI STENOSI ESOFAGEE MEDIANTE CATETERE A PALLONCINO Rossella Terragni Med Vet SPCAA-Gastroenterologia, Massimo Vignoli Med Vet SRV, Federica Rossi Med Vet SRV Dipl ECVDI, Massimiliano Tassoni Med Vet, Paola Laganga Med Vet Liberi Professionisti, Sasso Marconi (BO) Introduzione: Le cause più importanti di stenosi esofagee nell’uomo sono i tumori dell’esofago. Nel cane e nel gatto prevalgono le stenosi conseguenti ad esofagiti ed in particolare da reflusso di succhi gastrici durante l’anestesia. Altre cause sono l’ernia iatale, il reflusso gastro-esofageo grave, i corpi estranei, l’ingestione di caustici. Obiettivi: Valutare se con la metodica di dilatazione per mezzo di catetere esofageo a palloncino sia possibile ottenere dilatazioni a lungo termine o definitive e confrontarla alle altre metodiche conservative. Materiali e metodi: Tre cani di razza Pastore Tedesco sono stati riferiti alla nostra struttura per stenosi esofagea benigna ed anamnesi di rigurgito post-prandiale. I cani sono stati sottoposti a varie dilatazioni esofagee con diverse metodiche, quali papillotomo collegato ad elettrocauterio o Bougienage e tutti hanno presentato una recidiva della stenosi dopo circa 20 giorni dai vari interventi. È stata eseguita in tutti i casi l’esofagografia opaca con mezzo iodato in 2 casi e baritato in un caso. I cani sono stati sottoposti ad esofagoscopia per mezzo di un videoendoscopio di 9,8 mm di diametro ed un canale operativo di 2,8 mm. Visualizzata la zona di stenosi, si è proceduto ad inserire nel canale operativo il catetere a palloncino ed una volta impegnato il sito della stenosi è stato insufflato con aria mediante una siringa con manometro. La prima dilatazione è sempre stata effettuata con un palloncino di diametro massimo di 10 mm, seguita nella stessa seduta con un palloncino con diametro massimo di 20 mm. Dopo la dilatazione tutti i cani sono stati sottoposti a terapia medica con amoxicillina 20 mg/kg/bid per 5 giorni, sucralfato 40 mg/kg/tid per 2 giorni ed esomeprazolo magnesio triidrato 40 mg/die a vita. Risultati: L’esofagografia opaca ha messo in evidenza una stenosi esofagea nel tratto esofageo cervicale in un caso ed una stenosi precardiale negli altri due casi. L’endoscopia ha evidenziato stenosi esofagee da 2 a 5 mm. In tutti e 3 i cani si è ottenuta una dilatazione di 20 mm circa. I soggetti sono stati seguiti endoscopicamente e dilatati di nuovo dopo 45 giorni dal primo intervento. A distanza di 4 mesi continuano ad alimentarsi con cibo grossolanamente triturato. Discussione: La dilatazione esofagea è l’approccio più comune alle stenosi esofagee benigne, meno invasivo rispetto alla chirurgia tradizionale. Le due metodiche conservative sono la dilatazione mediante palloncino ed il Bougienage esofageo. L’uso del catetere a palloncino, rispetto al Bougienage esofageo, consente di introdurre il catetere nel canale bioptico e di esercitare una forza radiale sulla parete dell’esofago piuttosto che longitudinale. Molti pazienti richiedono procedure multiple prima di ottenere un risultato soddisfacente; questo spesso implica che non si ottenga una situazione “normale” ma un animale che è in grado di nutrirsi in maniera adeguata. Il numero e la frequenza delle procedure è estremamente variabile e viene deciso in base alla gravità del caso. Nella nostra esperienza, seppur di pochi casi, la dilatazione con catetere a palloncino ha presentato risultati migliori e più duraturi nel tempo rispetto alle altre tecniche.

Indirizzo dell’aurore presentatore: Ambulatorio Veterinario dell’Orologio, Via dell’Orologio 38 - 40037 Sasso Marconi (BO) Tel. e Fax 051-6751232 E-mail: terragni.rossella@libero.it


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IL TRATTAMENTO DELLA ROTTURA DEL LEGAMENTO CROCIATO CRANIALE DEL CANE MEDIANTE AGOPUNTURA Maurizio Tomassini DVM Libero professionista, Desio (Mi) Scopo del lavoro: Dimostrare il beneficio ottenuto utilizzando l’Agopuntura in caso di rottura del legamento crociato craniale del cane. La rottura del legamento crociato craniale nel cane è una patologia abbastanza frequente. L’articolazione del ginocchio è una struttura complessa formata da: Ossa, Tendini, Strutture fibro-cartilaginee. Si elencano i vari test necessari ad una diagnosi clinica. La terapia convenzionale è essenzialmente chirurgica. I maggiori Autori ritengono che cani di peso inferiore a 20 kg possono avere un recupero funzionale con un confinamento rigoroso per 4-8 settimane anche in assenza di intervento. Secondo la Medicina Tradizionale Cinese la rottura del legamento crociato craniale è una Sindrome Bi da freddo. Si sono selezionati pazienti che non potevano essere sottoposti ad anestesia a meno di rischi notevoli o i cui proprietari non accettavano in maniera assoluta l’intervento chirurgico. Metodi: I punti usati sono stati sempre i medesimi e non sono mai stati cambiati, non si sono trattate eventuali patologie concomitanti, tutto ciò per avere risultati costanti e ripetibili. I punti impiegati sono: BL 60 - KI 3 - GB 34 - SP 9 - Occhi del ginocchio (punto fuori meridiano). È stata impiegata anche la moxa non prima di 15 giorni dall’inizio dell’evento patologico. Le sedute si sono effettuate a distanza di tre giorni per tre settimane. Si sono trattati 15 soggetti di peso compreso tra 2,5 e 35 kg. Risultati: In quasi tutti i casi si è avuta una completa ripresa funzionale in tre settimane; in due casi (terapia non ottimale) la ripresa si è avuta rispettivamente in quattro e cinque settimane. Il caso più interessante è quello di un boxer con la rottura bilaterale del legamento crociato craniale non diagnosticata, patologia che durava da tre mesi. Il cane presentava un’andatura ancheggiante e non riusciva a restare in stazione per più di qualche secondo. Il proprietario per problemi economici non effettuava l’intervento ed optava per la terapia agopunturale. Le sedute sono state effettuate a distanza di 7 giorni l’una dall’altra per la distanza notevole dell’abitazione dalla Clinica. La ripresa completa avveniva dopo cinque settimane. A tutt’oggi il cane conduce una vita normale. Conclusioni: Si è quindi visto che la terapia Agopunturale è di beneficio in questa patologia in pazienti che non possono o i cui proprietari non vogliono che siano sottoposti ad intervento chirurgico in quanto si ottiene un recupero funzionale precoce, infatti già dopo la prima seduta si ha un inizio di appoggio, inoltre non vi è necessità di un rigoroso confinamento. Bibliografia Piermattei-Flo. Ortopedia e trattamento delle fratture dei piccoli animali, Masson, 1999. Bojrab-Ellison-Slocum. Tecnica chirurgica UTET 2001. Maciocia. I fondamenti della Medicina Tradizionale Cinese, Ed. Ambrosiana, 1996. Maciocia. La clinica in Medicina tradizionale Cinese, Ed. Ambrosiana, 1995. Schoen. Veterinary Acupuncutre, Mosby 2001.


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COMPARAZIONE TRA L’ESTRAZIONE DI DNA DA SANGUE E DA PIUMA PER IL SESSAGGIO DELLE SPECIE AVIARIE MEDIANTE PCR Alessandra Tosini Med Vet, Isabella Taboni Biotec Biodiversity, Brescia Introduzione: La mancanza di dimorfismo sessuale in oltre 50% delle specie aviarie, rende talvolta estremamente difficoltosa la determinazione del sesso, soprattutto se tale valutazione deve essere fatta considerando il soggetto ancora allo stadio di pulcino. Tale determinazione, attuabile talvolta solo con l’ausilio di tecniche endoscopiche, riveste una notevole importanza anche per studi comportamentali ed ecologici soprattutto nelle specie selvatiche ed esotiche. Il continuo sviluppo di tecniche di biologia molecolare ed il crescente interesse delle applicazioni in campo veterinario hanno portato, anche in questo settore, allo sviluppo di un test basato sull’analisi del DNA. A tale scopo è stato utilizzato un approccio di analisi diretto del DNA in cui è possibile distinguere il sesso sulla base della variabilità del gene CHD (chromobox-helicase-DNA-binding) presente sia sul cromosoma Z (CHD-Z), sia sul cromosoma W (CHD-W). Sullo stesso è stato individuato un introne la cui lunghezza differisce tra i geni CHD-W e CHD-Z; sfruttando questa caratteristica sono stati utilizzati dei primer (P2: 5’-ACTTTTCCAATATGGATGAAGA-3’ ed NP: 5’-GAGAAACTGTGTCAAAACAG-3’) disegnati sulle regioni conservate fianchegganti la zona target. Poiché gli uccelli di sesso maschile presentano due cromosomi sessuali identici (ZZ) mentre le femmine sono eterogametiche (ZW), il prodotto della PCR, visualizzato su gel, evidenzia due bande nei soggetti di sesso femminile ed una banda in quelli di sesso maschile. Ciò premesso, lo scopo del presente lavoro è comparare l’estrazione di DNA da piuma con quella da sangue, al fine di validare un metodo di prelievo la cui praticità e minima invasività, ne permetta l’applicazione anche su soggetti di piccole dimensioni e/o difficili da maneggiare. Materiali e metodi: A n. 50 animali, appartenenti a diverse specie aviarie, sono stati prelevati 1 ml di sangue e piume da diverse parti del corpo. Per lo studio preliminare sono state utilizzate specie di allevamento per la facilità nel reperimento dei campione e per la manifesta espressione dei caratteri sessuali secondari, necessaria per confermare il risultato ottenuto in PCR. L’estrazione di DNA da sangue è stata condotta mediante l’utilizzo di un kit commerciale (Wizard Promega) secondo il protocollo previsto dal manuale, mentre per l’estrazione di DNA da piuma è stata introdotta una fase preliminare di lisi in buffer apposito (TE - SDS 10% - proteinasi K 20 mg/ml) a 37° C per 1 ora. 5 µl di DNA estratto sono stati poi addizionati alla mix di reazione contenente 1,5 mM di MgCl2, 20 picomoli di ciascun primer, 1,5 U di Taq polimerasi, 0,2 mM dNTPs e buffer di reazione. Alla fase di denaturazione a 94° C per 90 sec sono seguiti 30 cicli di 94° per 30 sec, 48° C per 45 sec, 72° C per 45 sec con un’estensione finale di 60 sec a 48° e 5 min a 72°. I prodotti di PCR sono stati visualizzati su gel di agarosio al 3%. Risultati: In questa fase preliminare del lavoro abbiamo potuto verificare che, come riportato in letteratura, il gene CHD permette con una singola PCR la distinzione tra i due sessi. La presenza del CHD su entrambi i cromosomi consente inoltre di verificare la riuscita della reazione stessa. In merito all’impiego della piuma quale materiale di partenza per l’estrazione del DNA, le prove da noi condotte hanno evidenziato come i risultati di PCR siano sovrapponibili a quanto ottenuto da sangue. Conclusioni: Benché ulteriori approfondimenti siano necessari per l’applicazione di questo metodo anche a specie aviarie di maggiore interesse, quanto emerso in corso del presente studio identifica nella piuma un campione ottimale, di facile reperibilità e di minima invasività da utilizzare per le prove di sessaggio mediante PCR.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandra Tosini Biodiversity srl Via Corfù 71 - 25124 Brescia Tel. 030/221095 - Fax 030/2450064 E-mail: veterinaria@biodiv.it


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MASSE SOTTOCUTANEE E CUTANEE NEL GATTO: NEOPLASTICHE O NON NEOPLASTICHE? (175 CASI) Debora Trenti1 Med Vet, Pierluigi Fant2 Med Vet, Tommaso Furlanello1,2 Med Vet, Marco Caldin1,2 Med Vet 1 Clinica Veterinaria Privata “San Marco” 2 Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie “San Marco” Introduzione: Nella pratica clinica è relativamente frequente il reperimento nei pazienti felini di neoformazioni cutanee-sottocutanee, di varia morfologia e dimensioni. L’esame citopatologico viene eseguito comunemente, ma è all’esame istopatologico che ci si affida per ottenere una diagnosi il più possibile affidabile e “definitiva”. Anche per poter gestire in modo ottimale il campionamento o l’asportazione di una neoformazione cutanea-sottocutanea, sarebbe utile conoscere almeno in maniera probabilistica quali sono le patologie più comuni in questi pazienti. Materiali e metodi: Abbiamo valutato 175 campioni istopatologici di tessuti cutanei-sottocutanei, raccolti nell’anno 2002 e provenienti da gatti di ambo i sessi, di varie razze e di età compresa tra 8 mesi e 20 anni. Le neoformazioni campionate erano 157 noduli e 18 masse irregolari. Risultati e discussione: La diagnosi istopatologica ha dato i seguenti risultati: 21 lesioni infiammatorie (12% sul totale delle neoformazioni) di cui 13 (61,9% di questa categoria) flogosi croniche-granulomatose, 7 pannicoliti-steatiti-necrosi (33,3%), 1 pseudomicetoma (4,8%). Le lesioni neoplastiche erano 151 (86,3% della totalità delle lesioni) di cui 41 epiteliali, 97 mesenchimali, 1 melanoma maligno e 12 a cellule rotonde. Tra le forme epiteliali 30 erano benigne (23 basaliomi, 5 adenomi non mammari, 1 tricoblastoma, 1 tricoepitelioma) e 11 maligne (7 carcinomi squamo-cellulari, 3 adenocarcinomi non mammari e 1 carcinoma basocellulare). Tra le forme mesenchimali 11 erano benigne (8 lipomi e 3 fibromi) e 86 maligne (55 identificabili come sarcomi “iniezione-indotti” e 31 fibrosarcomi). Tra i tumori a cellule rotonde si identificavano 10 mastocitomi e 2 tumori poco differenziati. In 3 casi le masse campionate corrispondevano a delle cisti follicolari. Dalla presente raccolta di dati emerge che la maggior parte delle neoformazioni cutanee-sottocutanee del gatto sono di natura neoplastica con maggior incidenza delle forme maligne (100, pari al 66,2%) rispetto alle forme benigne (51 pari al 33,8%). Non abbiamo riscontrato correlazioni con l’aspetto macroscopico e di conseguenza il clinico deve mantenere un atteggiamento cauto nel formulare giudizi prognostici prima di aver correttamente campionato la massa in oggetto. Appare preoccupante l’elevata incidenza dei sarcomi “iniezione-indotti”, che rappresentavano ben il 31,4% di tutte le neoformazioni campionate, corrispondente al 36,4% delle lesioni neoplastiche (pari al 55% delle forme maligne). La pericolosità di questa neoplasia è tale che l’approccio deve essere rigoroso e pianificato anche in fase diagnostica. Anche se i fibrosarcomi dispongono di una struttura nodulare, è noto che la neoplasia ha invece tendenza a diffondersi nei tessuti circostanti. L’asportazione non deve quindi limitarsi all’exeresi della neoformazione, come invece risultava dai dati anamnestici disponibili nella maggior parte dei casi. L’incompleta asportazione è testimoniata dalla presenza di cellule neoplastiche ai margini di tutti i tessuti campionati. Si può concludere quindi che l’elevata incidenza di neoplasie maligne sottocutanee nel gatto impone al medico veterinario particolari procedure diagnostiche e preoperatorie prima di provvedere anche alla semplice rimozione di una massa.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Privata “San Marco” Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888 E-mail: deboratrenti@sanmarcovet.it


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CONTROLLO DELLA CURVA DI ACCRESCIMENTO: STUDIO PROSPETTICO SU 183 CANI DI RAZZA BOVARO DEL BERNESE Massimo Petazzoni1 Med Vet, Silvia Turetti1 Med Vet, Valentino Bontempo2 Med Vet, Rita Rizzi2 Med Vet, Carlo Maria Mortellaro3 Med Vet 1 Libero professionista, Milano 2 Dipartimento di Scienze e Tecnologie Veterinarie per la Sicurezza Alimentare - Università degli Studi di Milano 3 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Università degli Studi di Milano Scopo del lavoro: Valutare il ruolo svolto dall’alimentazione sullo sviluppo di patologie scheletriche dell’accrescimento e verificare la possibilità che un rallentamento della velocità di crescita ne riduca la prevalenza, senza compromettere il raggiungimento di peso ed altezza finali, previsti dagli standard. Metodi: 183 cani di razza Bovaro del Bernese, suddivisi in due gruppi: il primo composto da 133 soggetti, sottoposti a regime dietetico controllato, con un alimento specifico per la fase della crescita di cuccioli appartenenti a razze grandi e giganti; il secondo costituito da 50 cani, alimentati con diete diverse, commerciali o casalinghe, senza alcuna restrizione. La razione da somministrare ad ogni cane del primo gruppo all’inizio dello studio è stata determinata dal rapporto tra il fabbisogno energetico (secondo la formula: EM=[(30*kg)+70]*x) e la densità calorica dell’alimento. In seguito i cani sono stati pesati dal proprietario ogni 7/10 giorni e le dosi adattate secondo la curva di crescita e l’incremento ponderale giornaliero, ponendo come riferimento un aumento di 150 g/die. Nel corso dello studio i cani sono stati sottoposti ad esami radiografici per la diagnosi di patologie scheletriche e da ultimo sono stati rilevati altezza al garrese e BCS (Body Codition Score) di tutti i soggetti. Risultati: Nel gruppo dei 133 cani controllati, 66 sono stati radiografati, 25 con referto ufficiale, mentre dei 50 cani non controllati, 37 sono stati radiografati, 28 con referto ufficiale. Il controllo della curva di crescita è iniziato a circa 79 giorni, con un peso medio di 10,40 ± 3,45 kg per i cani in seguito risultati sani e 10,24 ± 4,76 kg per i cani malati. Questi ultimi hanno raggiunto il peso medio di 34,87 ± 5,57 kg in 267 giorni, mentre i primi hanno raggiunto 34,16 ± 7,15 kg in 283 giorni. La percentuale di displasia di anca e gomito nel primo gruppo è risultata del 26%, contro un 38% del secondo gruppo. Il 15% del gruppo controllato ha presentato displasia dell’anca, il 6% displasia del gomito e il 5% entrambe le forme, mentre nel gruppo non monitorato la displasia dell’anca ha raggiunto il 19%, quella del gomito il 16% ed il 3% dei cani ha manifestato entrambe le patologie. Nel gruppo controllato, i soggetti con displasia del gomito hanno presentato incrementi ponderali maggiori, fino a 176 g/die. Sono state elaborate le curve di crescita di tutti i cani di questo gruppo, divisi in base al sesso ed allo stato (sano/malato): in entrambi i sessi i cani displasici sono cresciuti ad un ritmo superiore. Nel confronto con i cani non controllati, i valori di peso ed altezza da adulti sono risultati simili, nonostante il rallentamento della curva di crescita. Conclusioni: La sovralimentazione svolge un ruolo importante nella manifestazione delle patologie scheletriche dell’accrescimento, accanto alla componente genetica. Le razze grandi e giganti sono più a rischio in quanto presentano potenziali accrescitivi molto elevati nei primi mesi, velocizzando la curva di crescita sotto la spinta di un eccessivo apporto energetico. I compartimenti articolari risultano così gravati da carichi ponderali difficilmente sostenibili. Anche l’eccesso assoluto di Calcio influenza negativamente lo sviluppo osteoarticolare. Un limite nell’assunzione di Energia determina una minore prevalenza di displasia, in quanto la razione viene adeguata sulla base dell’incremento ponderale del cucciolo, permettendo ad ossa ed articolazioni, ancora in via di sviluppo, di adattarsi gradualmente al crescente carico. La corretta gestione nutrizionale si basa, quindi, sui seguenti punti: 1) calcolare i fabbisogni; 2) analizzare il profilo nutritivo dell’alimento; 3) valutare il ritmo di sviluppo; 4) correggere il regime alimentare.

Indirizzo per la corrispondenza: Turetti Silvia Via Sant’Anna, 7 - 20045 Besana Brianza (MI) Tel. 339/2125299 - Fax 0362/801725 E-mail: turetti.silvia@libero.it


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STUDIO CITOLOGICO COMPARATIVO SU 135 CASI DI LINFOMA NEL CANE Vanessa Turinelli1 Med Vet, Tommaso Furlanello2 Med Vet, Marco Caldin2 Med Vet, George Lubas3 Med Vet PhD Dipl ECVIM, Corinne Fournel-Fleury1 Med Vet PhD Dipl ECVCP 1 Laboratoire de Cytologie-Hematologie-Immunopathologie, Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon, Francia 2 Clinica Veterinaria Privata San Marco e Laboratorio d’Analisi Private “San Marco”, Padova 3 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa Il linfoma del cane è una neoplasia di frequente riscontro nella pratica clinica ed è della massima importanza stabilire una prognosi in relazione alle possibili opzioni terapeutiche. Se si considera il linfoma come un’unica entità, la prognosi associata all’uso dei protocolli chemioterapici disponibili varia da settimane ad oltre 1 anno. Invece è stato dimostrato che una corretta caratterizzazione, sia morfologica che fenotipica, permette di riconoscere differenti entità patologiche, con peculiari risposte terapeutiche e con prognosi assai diverse1. Il presente lavoro riporta lo studio di tipizzazione di un numero adeguato di linfomi canini, effettuato in un Laboratorio dislocato in Italia e uno in Francia, al fine di compararne la prevalenza dei sottotipi osservati rispetto a quanto pubblicato in Letteratura. In un analogo periodo di 9 mesi sono stati diagnosticati un totale di 135 casi di linfoma, 70 in Francia e 65 in Italia. I preparati per l’osservazione microscopica, sono stati ottenuti da agoaspirati di linfonodi, di neoformazioni superficiali o profonde e da liquidi di versamento, centrifugati e strisciati su vetrino. I preparati sono stati colorati con colorazioni tipo Romanowsky e sottoposti ad una classificazione utilizzando i criteri morfologici proposti dalla classificazione citologica di Kiel attualizzata e adattati alla più recente classificazione WHO dei linfomi e delle leucemie canine. Per i linfomi osservati in Francia è stata eseguita anche l’immunofenotipizzazione, utilizzando gli anticorpi anti CD3 (pan T) e anti CD79a (pan B) e gli anticorpi anti CD4 e CD8 (sottotipi T). Per alcuni linfomi è stato calcolato anche l’indice di proliferazione utilizzando il Ki 67. In entrambi i paesi si è avuta una predominanza di linfomi di fenotipo B (56% in Italia e 82,5% in Francia) e di grado elevato di malignità (rispetto al totale: 52,3% in Italia e 72,8% in Francia); il sottotipo prevalente è risultato essere il centroblastico polimorfo (30,8% in Italia e 50,0% in Francia), per il quale la risposta alla chemioterapia e la durata di sopravvivenza sono tra le migliori (rispettivamente 12 mesi e 17 mesi)1. È stata rilevata inoltre una buona percentuale di linfomi plasmocitoidi (fenotipo B oppure T = 27,7% in Italia e 8,6% in Francia) per i quali è stato dimostrato che la durata di remissione post chemioterapia è di 2 mesi e il tempo di sopravvivenza è di soli 3 mesi1 e una bassa percentuale di linfomi B tipo Burkitt (6,1% in Italia e 4,3% in Francia) per i quali non c’è alcuna risposta alla chemioterapia1. Solo per tre linfomi (1 plasmocitoide ed 2 prolinfocitici), per i quali era disponibile esclusivamente la valutazione citomorfologica, non è stato possibile individuare il fenotipo. Il presente studio dimostra la possibilità di riconoscere differenti sottotipi di linfoma e ciò appare indispensabile, perché nella recente letteratura1 è riportato che il riconoscimento del solo fenotipo B o T non è sufficiente per emettere un giudizio prognostico corretto. Infine si deve notare che vi sono differenze significative tra l’incidenza dei sottotipi in Francia e in Italia e ancor più con casistiche raccolte in altri Paesi europei, come ad es. in Gran Bretagna2. Ciò implica che probabilmente vi sono importanti variabilità epidemiologiche nelle diverse aree geografiche, che possono avere importanti risvolti anche dal punto di vista clinico. In base ai dati ad oggi disponibili, non è più corretto considerare il linfoma canino come una singola entità clinica. Bibliografia 1. Ponce F et al., (2004). Prognostic significance of morphological subtypes in canine malignant lymphomas during chemotherapy. Vet J, in corso di stampa. 2. Dobson JM et al., (2001). Prognostic variabiles in canine multicentric lymphosarcoma. J Small Anim Pract. 42, 377-384.

Indirizzo per la corrispondenza: Vanessa Turinelli Laboratoire de Cytologie-Hematologie-Immunopathologie Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon, 1 avenue Borgelat, B.P. 83, 69280 Marcy L’Etoile, France Tel. 335 82 16 922/ 00 33 4 78 87 26 10 - Fax 00 33 4 78 87 27 76 E-mail: v.turinelli@vet-lyon.fr


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LA CHEMIO-SICUREZZA IN ONCOLOGIA VETERINARIA Fabio Valentini Med Vet MS Libero professionista, Roma La manipolazione dei farmaci antiblastici è un fenomeno sempre più diffuso nelle cliniche e negli ambulatori veterinari. Questa pratica però, nonostante l’esistenza di linee guida di protezione, viene realizzata in condizioni di insicurezza sia rispetto alla corretta preparazione (ricostituzione) del farmaco, sia rispetto all’incolumità dell’operatore responsabile. Gli effetti tossici, a breve, medio e lungo termine, sia sul paziente che sul somministratore, devono essere ben noti al fine di poterli prevenire. Sono previste norme sia di carattere comportamentale (divieto di accesso nella zona di preparazione a personale non autorizzato, esclusione dalla preparazione a donne in gravidanza e in allattamento, divieto di uso di cosmetici e generi alimentari nelle zone di lavoro e obbligo di indossare abiti idonei nelle aree di lavoro), sia relative all’utilizzo di presidi per la preparazione e per la somministrazione. Durante la preparazione, le fasi a rischio durante le quali si può verificare sia la formazione di vapori e/o di aerosol, sono soprattutto: l’apertura della fiala, la rimozione dell’ago dal flacone, il riempimento della siringa e della fleboclisi e l’espulsione dell’aria dalla siringa. I chemioterapici dovrebbero essere sempre preparati sotto cappa a flusso laminare verticale; qualora ciò non sia possibile, bisogna predisporre di un campo di lavoro ampio, di facile pulizia, coprirlo con carta bibula (impermeabile sotto, assorbente sopra) e, possibilmente, collocato vicino ad un lavandino. Durante la somministrazione, la contaminazione con il farmaco può avvenire durante l’espulsione dell’aria dalla siringa prima dell’inoculo e le perdite a livello di deflussori, valvole e raccordi. Occorre quindi usare siringhe con tappi di sicurezza (luer lock) e aghi con filtri idrofobici che evitano la fuoriuscita di aerosol, usare correttamente i dispositivi di protezione individuale (DPI), segnalare l’area come area a rischio, pulire l’area con panni assorbenti, detergenti ed acqua. I DPI sono costituiti da: camice monouso idrorepellente di tipo chirurgico; guanti monouso in lattice pesante da sostituire in caso di contaminazione, taglio, lacerazioni e sempre ogni 30 minuti; mascherina monouso, se si lavora sotto cappa, altrimenti mascherina con filtro ad alta efficienza; cuffia monouso; occhiali con protezioni laterali e sovrascarpe monouso. Tutto il materiale utilizzato in sede chemioterapica va smaltito in contenitori speciali. Particolare attenzione deve essere anche posta nei confronti degli escreti dei pazienti trattati con antiblastici poiché possono contenere alte concentrazioni di tali farmaci e rappresentare, quindi, un’ulteriore fonte di esposizione. In ultimo, non per importanza, vanno ricordate le procedure di pronto intervento in caso di stravaso dei suddetti farmaci e i loro effetti a breve, medio e lungo termine sugli organismi biologici. La bibliografia è disponibile presso l’autore.

Indirizzo per la corrispondenza: Fabio Valentini Via Benaco 07, 00199 Roma Tel. 339/1464685 E-mail: f.valentini@email.it


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UTILIZZO DELLA SCINTIGRAFIA NELLA DIAGNOSI DI IPERTIROIDISMO IN UN GATTO Andrea Volpe1 Med Vet, Luca Tosti Croce2 Med Vet, Marco Colaceci1 Med Vet, Antonello Boldreghini1 Med Vet 1 Liberi professionisti, Roma 2 Azienda USL Rm A, Roma Introduzione: La scintigrafia tiroidea rappresenta un importante mezzo diagnostico per lo studio funzionale ed anatomico della ghiandola tiroide. Essa, infatti, è in grado di fornire informazioni precise sia riguardo lo stato funzionale che la localizzazione anatomica di entrambi i lobi tiroidei, di evidenziare tessuto tiroideo ectopico iperfunzionante o eventuali metastasi in corso di adenocarcinomi tiroidei. Tali informazioni si rivelano estremamente utili sia per la diagnosi che per la gestione dei casi d’ipertiroidismo. Caso clinico: Un gatto comune europeo, maschio castrato, di 12 anni è stato sottoposto alla nostra attenzione in seguito ad un dimagramento progressivo verificatosi nel corso di alcune settimane. All’esame fisico il soggetto presentava, come unica alterazione, un nodulo palpabile a livello della regione cervicale ventrale. Il gatto è stato sottoposto, in sedazione, ai seguenti esami: emocromo, profilo biochimico, elettroforesi proteica, esame delle urine, TT4, fT4 radiografia total body ed esame ecotomografico addominale. Le principali alterazioni riscontrate erano: moderato aumento dell’ALT, fT4 moderatamente aumentato (28,5 pmol/l - range: 8,4 - 23,2 pmol/l) e lieve iperplasia dei linfonodi digiunali. In base a tali riscontri il gatto è stato sottoposto a terapia orale con metimazolo al dosaggio iniziale di 2,5 mg b.i.d. che, in seguito, è stato ridotto a 1,25 mg b.i.d. a causa di un’intolleranza al farmaco da parte dell’animale. Dopo due settimane il fT4 si è attestato al di sotto del range di riferimento, cosa che ci ha indotto a non aumentare il dosaggio del metimazolo. Ad un mese di distanza il gatto ha presentato un ulteriore dimagramento accompagnato da un moderato aumento dell’appetito e da episodi intermittenti di diarrea. Un nuovo dosaggio del fT4 ne testimoniava il ritorno a valori superiori alla normalità. Non essendo possibile aumentare il dosaggio del farmaco e per giungere ad una diagnosi più accurata si è deciso di eseguire una scintigrafia tiroidea. L’esame ha evidenziato la presenza di un nodulo monolaterale avido di tecnezio nella regione cervicale ventrale, il cui rapporto nei confronti della ghiandola salivare ipsilaterale era maggiore di uno. Tale risultato oltre a confermare in modo inequivocabile la diagnosi d’ipertiroidismo ci ha permesso anche di ricorrere alla terapia chirurgica. Conclusioni: La scintigrafia tiroidea si è rivelata nel nostro caso un mezzo estremamente utile per formulare una diagnosi precisa in un soggetto che mostrava TT4 nella norma e moderati aumenti del fT4 e nel quale non era possibile giungere ad una stabilizzazione farmacologica a causa di una sua intolleranza al medicinale. Tale metodica ci ha permesso inoltre di poter accertare l’iperfunzionalità di un solo lobo tiroideo, la cui asportazione chirurgica ha consentito una guarigione definitiva del soggetto. Bibliografia disponibile su richiesta.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Volpe Via L. Traversi n. 11, 00154 Roma Tel. 06/5740693 - Fax: 06/2302197 E-mail: an.volpe@tiscali.it


Finito di stampare nel mese di maggio 2004 dalla Press Point di Abbiategrasso (MI)


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