59a edizione Scivac Rimini - parte1

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59° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA

PALACONGRESSI DELLA RIVIERA DI RIMINI

30 MAGGIO - 1 GIUGNO 2008

SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA SOCIETÀ FEDERATA ANMVI

ESTRATTI RELAZIONI • WORKSHOP SPECIALISTICI COMUNICAZIONI BREVI • POSTER



SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA SOCIETÀ FEDERATA ANMVI

59° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA

PALACONGRESSI DELLA RIVIERA DI RIMINI

30 MAGGIO - 1 GIUGNO 2008

ESTRATTI RELAZIONI WORKSHOP SPECIALISTICI COMUNICAZIONI BREVI POSTER

Traduzione dei testi inglesi: Dr. Maurizio Garetto e Dott.ssa Tiziana Binelli

organizzato da

certificata ISO 9001:2000


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U I D A

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U T I L I Z Z O

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li atti del Congresso Internazionale Multisala SCIVAC 2008, oltre che di tutti i Congressi Multisala SCIVAC dal 1998 al 2007, sono presentati in formato PDF. Oltre a consentire la fedele riproduzione digitale della versione cartacea, questo formato offre la possibilità di inserire ipertesti in modo da rendere i documenti ricercabili e navigabili. La consultazione del CD richiede Acrobat Reader 3.0 o superiore installato sul computer. Nel CD è contenuto il file di installazione del programma per gli utenti che ne fossero sprovvisti (aprire la cartella ACROBAT e quindi quella MAC o WIN in base al proprio sistema operativo. Cliccare sul file di installazione e seguire le istruzioni fornite). Per iniziare la consultazione aprire il file menu.pdf. Si può accedere agli abstracts a partire dai segnalibri (a sinistra della finestra di Acrobat Reader). Le frecce gialle consentono di visualizzare in sequenza i lavori di ciascun autore. È possibile eseguire una ricerca per parole chiave (TROVA) e stampare ogni sezione degli atti.

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E Q U I S I T I

Macintosh PowerPC 160 MHz MacOS 8.1 64 Mb RAM CD-ROM 8x monitor 800x600 migliaia di colori

M I N I M I

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S I S T E M A

PC Pentium 150 MHZ WIN 95/98 32 Mb Ram CD-ROM 8x monitor 800x600 migliaia di colori

Ideazione e realizzazione Enrico Febbo, Med Vet

© SCIVAC 2008. Tutti i diritti riservati.

La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor

LABORATORIO PER MEDICI VETERINARI

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CONSIGLIO DIRETTIVO SCIVAC DEA BONELLO MASSIMO BARONI FEDERICA ROSSI GUIDO PISANI MARCO BERNARDINI ALBERTO CROTTI BRUNO PEIRONE

Presidente Presidente Senior Vice Presidente Tesoriere Consigliere Consigliere Consigliere

COMMISSIONE SCIENTIFICA MASSIMO BARONI DAVIDE DE LORENZI GIORGIO ROMANELLI

COMITATO SCIENTIFICO WALTER BERTAZZOLO ANDREA BOARI DAVID CHIAVEGATO ALBERTO CROTTI LUDOVICA DRAGONE MANUELA FARABOLINI SANDRA FONDATI LUCA FORMAGGINI TOMMASO FURLANELLO SABRINA GIUSSANI MARGHERITA GRACIS MASSIMO GUALTIERI ADRIANO LACHIN MARIA TERESA MANDARA ALESSANDRO MELILLO MARIA SERAFINA NUOVO FEDERICA ROSSI FABIA SCARAMPELLA ALDO VEZZONI ERIC ZINI

Citologia Medicina felina Cardiologia Oftalmologia Fisioterapia Riproduzione Dermatologia Chirurgia Medicina Interna Medicina Comportamentale Odontostomatologia Gastroenterologia Anestesia Neurologia Animali Esotici Medicina non Convenzionale Diagnostica per Immagini Dermatologia Ortopedia Nefrologia

COORDINATORE SCIENTIFICO CONGRESSUALE FULVIO STANGA, Med Vet, Cremona

SEGRETERIA CONGRESSUALE MONICA VILLA Tel: +39 0372 403504 - E-mail: commscientifica@scivac.it

SEGRETERIA MARKETING FRANCESCA MANFREDI Tel: +39 0372 403538 - E-mail: marketing@evsrl.it

SEGRETERIA ISCRIZIONI PAOLA GAMBAROTTI Tel: +39 0372 403508 - Fax: +39 0372 403512 - E-mail: info@scivac.it

ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE EV - Eventi Veterinari Via Trecchi 20 - 26100 CREMONA (I)


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CURRICULA VITAE DEI RELATORI CAROLINE BACK Bvet Med, MRCVS, Stoccolma (S) Nel 1983 si è laureata in Medicina Veterinaria pressoil Royal Veterinary College di Londra e da allora ha sempre lavorato in clinica, nel campo della ricerca e dell’industria nel Regno Unito, in Kenia e in Svezia. È stata titolare di un ufficio di consulenza e gestione aziendale veterinaria, la Nordic Connection Consulting e ha tenuto numerosi incontri e conferenze sulla gestione del business veterinario in tutta Europa, Stati Uniti e Australia, sia nelle cliniche veterinarie che nei maggiori congressi di medicina veterinaria. Caroline ha anche pubblicato numerosi articoli sulla gestione del business veterinario, incluso diversi libri: Managing a Veterinary Practice, 2nd Edn (2006) Elsevier Ltd; Healthcare for the well pet (Saunders, 1997) (with Tom Catanzaro); e l’imminente “Communication, Compliance and Leadership: making healthcare work in veterinary practice” (Elsevier Ltd.) che uscirà a primavera 2007. Dopo un periodo passato ancora in clinica come veterinario internista, Caroline è stata Direttrice di due dei più grandi ospedali svedesi per animali da compagnia a Stoccolma con uno staff di circa 120 persone e con un fatturato annuo che supera i 7 milioni di Euro. Attualmente ricopre l’incarico di Nordic Vet Affair Manager in Hill’s Pet Nutrition con la responsabilità di sviluppare l’insegnamento e la gestione del business veterinario in Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. MASSIMO BARONI Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme, Pistoia Laureato in Medicina Veterinaria con Lode nel 1987 presso l’Università di Pisa. Dal 1992 al 1995 ha compiuto un Non Conforming Residency Programme in Neurologia presso l’Istituto di Neurologia, Università di Berna. Nel 1995 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Neurologia a Liegi (Belgio). Dal 1995 al 1999 ha lavorato a Genova, svolgendo attività di referenza in campo neurologico ed ortopedico. Attualmente svolge la propria attività specialistica presso la Clinica Veterinaria “Val di Nievole”, Monsummano Terme, Pistoia. È stato membro dell’Education Commitee del College Europeo di Neurologia (ECVN) dal 1996 al 1999 ed è attualmente Presidente della Società Europea ESVN e del College Europeo di Neurologia Veterinaria (ECVN). È coordinatore dell’Itinerario di Neurologia SCIVAC. È inoltre componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVET) ed è Senior President SCIVAC. È autore di pubblicazioni e capitoli di libri riguardanti l’ortopedia e la neurologia e presenta regolarmente relazioni ad incontri a carattere nazionale ed internazionale, in Italia ed all’estero. Attuali aree di interesse: Neurodiagnostica per immagini, neurochirurgia intracranica. JEANNE BARSANTI DVM, MS, Dipl ACVIM, USA La Dr.ssa Barsanti si è laureata presso la New York State College of Veterinary Medicine, Cornell University nel 1974. Ha portato a termine un periodo di internato, un Master’s Degree in Small Animal Medicine ed un periodo di residenza in medicina interna presso la Auburn University, Auburn, Alabama. Dal 1977, la Dr.ssa Barsanti ha fatto parte del corpo docente del Department of Small Animal Medicine e Surgery della University of Georgia. Nel 1999 è stata nominata Head of the Department, una posizione che ha retto per 5 anni. Attualmente ha il ruolo di Josiah Meigs Distinguished Teaching Professor, Emerita. Ha conseguito il Diploma of Specialty of Internal Medicine, American College of Veterinary Internal Medicine, ed ha fatto parte del Board of Regents dell’ACVIM per 11 anni. La Dr.ssa Barsanti è stata autrice di 111 pubblicazioni di ricerca su riviste referee ed ha presentato 32

abstract, lavori derivati da oltre 1.000.000$ in finanziamenti per la ricerca. È stata membro di un prolifico team di ricerca costituito dai Dottori Scott Brown, Del Finco e Clarence Rawlings. Il suo principale settore di interesse è rappresentato dalla nefrologia ed urologia. È stata coautrice di un trattato (Urologic Surgery of the Dog and Cat. Lea & Febiger) ed è stata editor della sezione relativa ai problemi urinari per cinque edizioni di Current Veterinary Therapy di Bonagura e Kirk. È stata autrice di 95 capitoli di libri. CLAUDE BEATÀ DVM, Dipl ECVBM-Ca, Toulon (F) Il Dr. Beatà (DVM) è un veterinario specializzando in medicina comportamentale. Oltre a esercitare la professione nel settore dei problemi comportamentali, che lo impegna molto, tiene regolarmente delle lezioni per studenti e veterinari ed interviene come relatore a numerosi congressi internazionali. Il Dr. Beatà è un membro di primo piano di molte organizzazioni del settore come “Zoopsy” del quale è cofondatore ed al momento attuale presidente, dell’European College of Veterinary Behavior Medicine, della European Society of Veterinary Clinical Ethology e del Gecaf (gruppo di studio sul comportamento). MARCO BERNARDINI Med Vet, Dipl ECVN, Padova Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna nel 1988. Dal 1994 al 1995 residency in Neurologia Veterinaria presso l’Università di Berna (Svizzera). Diplomato all’European College of Veterinary Neurology (ECVN) nel 1995. Dal 1997 al 2001 Profesor Asociado di Neurologia Veterinaria e Responsabile del Servizio di Neurologia del Hospital Clínico Veterinario dell’Università Autonoma di Barcellona (Spagna). Dal 2002 al 2003 Oberassistent in Neurologia Veterinaria presso l’Università di Berna. Attualmente è Professore Associato nel Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università di Padova e lavora a Bologna presso l’Ospedale Veterinario “I Portoni Rossi” come libero professionista referente di casi neurologici. Relatore a corsi e congressi in Italia e all’estero, è autore e coautore di articoli e libri di neurologia veterinaria. WALTER BERTAZZOLO Med Vet, Dipl ECVCP, Pavia Laureato nel 1995 presso l’Università degli Studi di Milano, Istituto di Patologia Generale (Prof. C. Genchi) con una tesi sulla biologia molecolare di Borrelia burgdorferi con votazione 110/110 lode. Ha effettuato un periodo di training continuo presso il Dipartimento di Patologia dell’Università di Milano sotto la guida del Prof. Mario Caniatti, DVM, DECVP, del Prof. Saverio Paltrinieri, DVM, DECVCP e del Dr. Stefano Comazzi, DVM, DECVCP. Autore di una ventina di pubblicazioni su riviste indexate internazionali inerenti la patologia clinica e l’oncologia. Nell’ottobre 2005 ha ottenuto il riconoscimento come membro defacto dello European College of Veterinary Clinical Pathology. Si occupa a tempo pieno di patologia clinica veterinaria. DAVID BETTIO Med Vet, Parma Laureato a Parma nell’anno ’97-’98 con una tesi in dermatologia, ha seguito varie periodi di formazione in ematologia e diagnostica per immagini. Diplomato alla Scuola di Medicina Omeopatica di Verona nel 1999, ora ne è parte del Consiglio Direttivo e Docente effettivo di medicina Omeopatica Veterinaria. È autore di vari articoli pubblicati su riviste italiane di casi clinici trattati con l’omeopatia unicista.


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Membro della FIAMO e dell’UMNCV, esercita la professione sugli animali da compagnia nel suo ambulatorio, occupandosi di medicina interna e anestesiologia. ANDREA BOARI Med Vet, Teramo Laurea con lode in Medicina Veterinaria all’Università degliStudi di Bologna nel1983. Premio di Studio “Prof. Albino Messieri” (A.A. 1982-83). Funzionario Tecnico presso il Dipartimento Clinico Veterinario della stessa Università (dal 1986 al 1998). Professore a contratto dal 1995 al 1998 in Semiologia Medica Veterinaria presso l’Università degli Studi di Teramo. Borsa di Studio “Prof. Umberto Gasparini”: visiting researcher per l’intero 1993 presso il Department of Veterinary Clinical Sciences della Purdue University (USA) dove ha svolto sia attività di ricerca che clinica internistica. Professore Associato (1998-2000). Coordinatore Sezione di Medicina Interna (1998-2002). Professore Straordinario (2000-presente) in Clinica Medica Veterinaria, Semiologia Medica Veterinaria e Semeiotica e Diagnostica di Laboratorio presso l’Università degliStudi di Teramo. Maggio 2002 - luglio 2002: “Visiting Researcher” presso il Department of Small Animal Medicine and Surgery della Texas A&M University(USA). Dal 1° novembre 2002 è Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie presso la stessa Università e Vice Preside della Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo. Responsabile progetti di ricerca universitari (ex-60%) del 1999-2000-2001-2002. Ha pubblicato più di 100 lavori su riviste nazionali e internazionali ed è stato relatore a numerosi Congressi nazionali ed internazionali. È stato eletto quale membro del Comitato Scientifico della Società Italiana delle Scienze Veterinarie in merito al Settore Scientifico Disciplinare di Clinica Medica Veterinaria. ANDREA BRANCALION Med Vet, Treviso Laureato in Medicina Veterinaria a Bologna nel 1981. Docente della Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica di Cortona. Direttore dell’Accademia Trevigiana di Omeopatia Veterinaria. È stato docente esterno della Scuola di Specializzazione in Diritto e Legislazione Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma per gli argomenti di Omeopatia, dal 2001 al 2005. È stato membro della Segreteria Scientifica del Congresso della Federazione Italiana delle Associazioni dei Medici Omeopati (F.I.A.M.O.) fino al 2003 ed attualmente presenzia nel Comitato Scientifico de “Il Medico Omeopata”, rivista ufficiale della Federazione stessa. È referente culturale per la veterinaria di RADAR™ e WinCHIP™, attualmente i più completi e diffusi pacchetti software di repertorizzazione e cartella clinica omeopatica. È stato inserito della ristretta cerchia di testers che nel mondo sono stati scelti per collaudare e mettere a punto EH™, l’enciclopedia omeopatica in versione software che oggi raccoglie oltre 800 testi di Materie Mediche. È membro dalla sua fondazione della Società Italiana di Medicina Veterinaria Non Convenzionale, affiliata a SCIVAC. Ha fondato con altri Colleghi l’Unione dei Medici Non Convenzionali Veterinari (U.M.N.C.V.) ed è rappresentante della Scuola di Cortona nella stessa. Dalla sua fondazione è l’unico Veterinario europeo Professore Associato della Universidad Candegabe de Homeopatia di Buenos Aires, Distance Learning University in www.universidadcandegabe.org. Attualmente svolge la Libera Professione anche presso l’Ospedale Veterinario “S. Francesco” di Castagnole (TV) nella Sezione Omeopatica da lui istituita e diretta. È autore di oltre 30 pubblicazioni ed è stato relatore a congressi e seminari scientifici nazionali ed internazionali. Ha curato l’edizione italiana del “Compendio dei Principi di Omeopatia” di W. M. Boericke, con aggiunta di note personali (Ed. Scuola di Cortona). È coautore della “Materia Medica Essenziale” della Scuola di Cortona (Ed. h.m.s., Como). È autore della “Scala LM e Prognosi nella Pratica dell’Omeopatia” (Ed. h.m.s., Como), che rappresenta un condensato di dottrina e pratica omeopatica unicista.

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ANTONELLO BUFALARI Med Vet, PhD, Perugia Laureato in Medicina Veterinaria (1989). Professore Associato dal 2006 presso l’Università di Perugia, con incarichi di insegnamento in Anestesiologia e Clinica Chirurgica. Visiting Fellowship e Post-doctoral Associate presso la Cornell University, per 2 anni. Titolo di PhD presso Faculty of Veterinary Medicine, Helsinki. Co-investigator di una ricerca sperimentale su analgesici presso la Cornell. Dal 1991 è membro SISVet e SCIVAC, dal 1993 è membro AVA, dal 1994 è membro SICV. Dal 2003, docente ai corsi SCIVACdi anestesiologia e dal 2004 è membro del consiglio direttivo SIARMUV. Autore/co-autore di 100 pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali. Relatore a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali. Co-autore di un capitolo su Veterinary Clinics of North America. Autore del manuale: “Concetti di base per l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”. CLAUDIO BUSSADORI Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Med Chir, Milano Direttore sanitario della Clinica Veterinaria G. Sasso a Milano, dove si occupa dicardiologia, medicina interna ed ecografia e Direttore del residency program dell’ECVIM-CA European college of Internal Medicine in cardiologia. Dal 2002 Research fellow del centro di cardiologia pediatrica & Cardiopatie Congenite dell’Adulto Centro per lo Studio e la Terapia delle Malattie Cardiovascolari dell’Istituto policlinico di San Donato Milanese. Dal 2005 Dottorando di Ricerca in Fisiopatologia Cardiovascolare presso l’Istituto di Medicina Cardiovascolare dell’Ospedale Maggiore IRCCS della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Milano. Docente a seminari di cardiologia interventistica presso la Scuola di Specialità in Cardiologia della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università degli Studi di Milano. Professore a contratto in Cardiologia presso le Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma e di Torino. Ha tenuto corsi di Cardiologia, ed Ecocardiografia presso Università e istituzioni private in varie nazioni Europee. È stato presidente dell’ESVC (European Society of Veterinary Cardiology) dal 1997al 1999 attualmente e membro onorario permanente del board È stato vice presidente Dell’E.C.V.I.M. dal 1993 al 1999 Autore di 165 publicazioni (dal 1984 al 2004), includendo: articoli originali su riviste Veterinarie e Mediche, atti di congressi e libri. I campi di interesse attuali riguardano l’ecocardiografia, la diagnosi e il trattamento interventistico delle cardiopatie congenite nell’uomo e negli animali. MARIO CANIATTI Med Vet, Dipl ECVP, Milano Mario Caniatti si è laureato nel 1985 presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano dove ha conseguito il Dottorato di Ricerca (Patologia comparata degli animali domestici) e dove oggi svolge la sua attività di insegnamento e ricerca presso la Sezione di Anatomia Patologica del Dipartimento di Patologia. In passato ha compiuto periodi di ricerca e studio presso le scuole di veterinaria di Davis (California) e Barcellona. La sua attività lavorativa è imperniata sull’insegnamento degli aspetti microscopici cito-istologici in patologia veterinaria e sul “Servizio di Citologia Diagnostica” del Dipartimento. La sua attività di ricerca è focalizzata sulle neoplasie cutanee e linfoproliferative, nonché sulle patologie croniche del cavo nasale. È autore o coautore di varie pubblicazioni tra cui una trentina su riviste internazionali. Dal 1998 è membro del College europeo dei patologi veterinari (ECVP). FRANCESCA CAZZOLA Med Vet, Torino Laureata in Medicina Veterinaria nel 2003 presso l’Università degli studi di Torino e abilitata alla professione nello stesso anno. Nel 2004 ha lavorato presso il Centro di riabilitazione “Villa Beria” (Mathi, Torino). A novembre dello stesso anno ha iniziato a lavorare presso l’ospedale veterinario ANUBI di Moncalieri (Torino) do-


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ve esercita tuttora la professione. I suoi principali campi d’interesse sono rappresentati da fisiatria e fisioterapia, traumatologia ed ortopedia. Nel 2005 ha svolto uno stage di 4 mesi presso il reparto di fisiatria dell’ospedale Mauriziano (Torino). Nel 2006 ha partecipato al corso di base di fisioterapia (SCIVAC). Da ottobre dello stesso anno ad oggi interviene attivamente a tutte le giornate di aggiornamento organizzate dal gruppo di studio. Nel 2007 ha partecipato al corso avanzato di fisioterapia (SCIVAC). Nel gennaio dello stesso anno ha frequentato il corso di idroterapia presso la Westcoast Products Ltd a Diss, Norfolk, Inghilterra. Dal 2004 è iscritta alla SIOVET e prende parte regolarmente agli incontri. È intervenuta, in qualità di relatrice, al Master di Medicina Comportamentale presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Grugliasco (Torino) con una relazione sulla fisioterapia nel cane. Nel 2007 ha svolto una relazione sulla riabilitazione dei pazienti displasici nell’ambito dell’incontro sulla displasia dell’anca presso l’ospedale veterinario ANUBI. A marzo del 2008 ha partecipato come assistente al corso base di fisioterapia (SCIVAC). CHIARA CHIAFFREDO Med Vet, Roletto (TO) Chiara Chiaffredo nata a Torino nel 1976 e laureata a Torino nel 2001, da alcuni anni mi occupo di Fisioterapia veterinaria, ho frequentato il corso base ed il corso avanzato di fisioterapia organizzati dalla SCIVAC e i numerosi corsi di aggiornamento in questo settore. Da alcuni anni partecipo a corsi ed incontri di fisioterapia umana per mantenermi aggiornata e per confrontarmi con i colleghi fisioterapisti. Ho frequentato un centro di fisioterapia umana per alcuni anni per poter apprendere le tecniche più usate in medicina umana nell’ambito della fisioterapia e della riabilitazione. Ho partecipato ad incontri di fisioterapia veterinaria in qualità di relatore. Attualmente lavoro in provincia di Torino (a Roletto), nel mio centro di fisioterapia per animali, il CVF. Regolarmente mi reco a Reggio Emilia presso il Dogfitness per mantenermi aggiornata in materia. TOMMASO COLLARILE Med Vet, Roma Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia nel marzo 2000 con tesi di laurea sull’infezione da Polyomavirus negli psittacidi. Dopo la laurea svolge diversi periodi di tirocinio all’estero tutti dedicati alla medicina degli animali esotici ed in particolare alla medicina aviare. Nel 2001 svolge un tirocinio pratico presso la Clinica del Loro Parque di Tenerife, Isole Canarie. Nel 2002 svolge un tirocinio pratico presso l’Istituto di Medicina Aviare e Medicina degli Animali Esotici presso l’Università di Utrecht, Olanda. Nel maggio 2002 partecipa al “Corso Avanzato di Endoscopia Aviare” presso l’Università di Utrecht. Presso l’Università di Utrecht collabora ad alcuni progetti di ricerca. Nel 2003 svolge un tirocinio pratico presso il rifugio dei pappagalli “NOP” (Foundation Dutch Parrot Refuge). Nel 2003 e nel 2004 è collaboratore esterno della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Padova per il corso integrato professionalizzante di Medicina degli animali selvatici e non convenzionali. Dal 2003 lavora come libero professionista e si occupa esclusivamente di medicina aviare e degli animali esotici, partecipa a congressi e convegni nazionali ed internazionali, svolge periodi di aggiornamento presso cliniche universitarie e private all’estero. Nel 2005 presso l’Università della Georgia partecipa al corso avanzato di endoscopia e chirurgia endoscopica degli uccelli e dei rettili. Nel 2005e nel 2006 è consulente presso la Asl per la medicina dei volatili da compagnia ed animali non convenzionali. È relatore presso la SIVAE nell’ambito dei percorsi didattici. È relatore in vari incontri organizzati dagli ordini dei medici veterinari. Nel 2007 è professore a contratto presso l’università di Padova in “Medicina di Laboratorio degli animali non convenzionali”. È socio fondatore del Centro Veterinario Specialistico a Roma.

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PAUL COPPENS DVM, Dipl ECVAA, Vienna (A) Nato in Belgio, il Dr. Paul Coppens si è laureato in medicina veterinaria all’Università di Liegi, in Belgio, nel 1984. Ha portato a termine la sua formazione in anestesiologia clinica con la Prof. Diane Blais, della University of Montréal, Canada, dove ha lavorato come clinico in anestesiologia fino al 1989. È stato anche “maître assistant” in anestesia-rianimazione alla “Ecole National Vétérinaire” d’Alfort, in Francia ed Assistant Professor alla Faculty of Veterinary Medicine della University of Utrecht, nei Paesi Bassi. Nel 1996, ha realizzato un’unità di “anestesia veterinaria ambulante” che offre servizi di anestesiologia alle strutture private e consulenze all’industria farmaceutica ed all’Università di Liegi, in Belgio. Dopo questi dieci anni trascorsi nel settore dell’anestesia sul campo, nell’ottobre del 2005 è entrato a far parte del Dipartimento di Anestesia e Cure Perioperatorie della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Vienna, in Austria. DANIELE SEBASTIAN CORLAZZOLI Med Vet, Roma Si laurea nel 1991 a Milano con lode, discutendo una tesi sulla discospondilite nel cane, relatore il Prof Mortellaro. Dopo un periodo di studio in Francia, Inghilterra e negli Stati Uniti, lavora nell’area milanese occupandosi esclusivamente di neurologia e chirurgica dei piccoli animali. Dal 1995 si trasferisce a Roma dove collabora inizialmente con il Centro Veterinario Gregorio VII, quindi con lo Zoospedale Flaminio. Dal 2001 ha aperto un centro di referenza in neurologia, ortopedia e diagnostica per immagini a Roma. LUISA CORNEGLIANI Med Vet, Dipl ECVD Milano Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel settore dei piccoli animali dove si occupa di dermatologia dal 1995. Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture private ed universitarie. È diplomata al College Europeo di Dermatologia Veterinaria. È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore di testi di dermatologia veterinaria e coautore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara. LORENZO CROSTA Med Vet, Como Nato a Milano nel 1961, si è laureato a pieni voti in Medicina Veterinaria a Milano. Fino al 1999 ha svolto attività libero professionale in Italia, come veterinario di animali esotici, concentrandosi soprattutto sulla medicina aviare. Dal 2000 al 2005 ha ricoperto l’incarico di Direttore Veterinario presso il Loro Parque di Tenerife, che comprende la più varia collezione di pappagalli del mondo (quasi 4.000 soggetti, rappresentanti oltre 350 specie e sottospecie). È stato rappresentante italiano dell’Association of Avian Veterinarians, della quale è già stato 2 volte Chairman europeo e membro del Board of Directors. È Associate Editor del Journal of Avian Medicine and Surgery. È socio fondatore della SIVAE (Società Italiana Veterinari per Animali Esotici), della quale è anche Presidente. È socio dell’American Association of Zoo Veterinarians (AAZV), e della European Associationof Zoo and Wildlife Veterinarians (EAZWV). È stato relatore invitato a diversi congressi internazionali in Europa, USA, Brasile, Messico, Australia e Cuba, ed ha scritto o presentato più di 70 fra articoli scientifici e relazioni a vari congressi. Al momento è il veterinario ufficiale dei programmi di recupero di due dei pappagalli più minacciati al mondo: l’Ara di Spix a l’Ara di Lear, programma a cui lavora per conto del Governo Brasiliano. La sua attività principale è di consulenza presso allevamenti e giardini zoologici in Italia ed Europa.




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ALBERTO CROTTI Med Vet, Genova Laureato presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Pisa nell’anno 1982 con 108/110. Membro della S.O.V.I. (Società di Oftalmologia Veterinaria Italiana) dalla sua costituzione, componente del Consiglio direttivo dal 1993, ricopre attualmente la carica di Past-president della società. Presidente dell’A.Li.Ve.L.P. (Associazione Ligure Veterinari Liberi Professionisti) dal 1992 al 1997. Ha ricoperto la carica di Presidente della Delegazione Regionale Scivac dal 1999 al 2001. Dal 2007 è membro del consiglio direttivo Scivac. Dal 1992 al 1994 ha frequentato il corso specialistico in oftalmologia dell’ESAVS (European Society for Advanced Veterinary Studies). Nel 1995 ha partecipato ad un internship in oftalmologia presso il Royal Veterinary College di Londra. Nel 2004 ha frequentato il corso intensivo di chirurgia oftalmologica ESAVS presso l’Ecole NazionaleVeterinarie di Tolosa. Dal 1995 è stato istruttore del corso di base Scivac in oftalmologia e dal 1999 è divenuto relatore presso lo stesso corso. Dal 2006 è coordinatore dell’Itinerario didattico in Oftalmologia della Scuola di Formazione post universitaria SCIVAC e direttore del I° corso del triennio di studi. Ha partecipato in qualità di relatore a congressi ed incontri su temi di oftalmologia. È coautore del testo “Oftalmologia” ed. Poletto. È membro permanente del Gruppo di Studio della SCIVAC sulla Leishmaniosi canina. È titolare dal 1984 di uno studio associato in Genova dove si occupa prevalentemente di oftalmologia degli animali da affezione. GUALTIERO WALTER CROTTI Med Vet, Dipl Master in Cardiologia, Civitanova Marche (MC) Laureato a Milano nel 1990, abilitato nello stesso anno. Fino al 1993 ha svolto attività libero professionale su animali di affezione in diverse strutture di Milano e provincia come collaboratore e come turnista di Pronto Soccorso. Trasferitosi a Civitanova Marche, nel 1993, svolge attualmente attività nella propria struttura e consulenza esterna. Si occupa di cardiologia, medicina interna, diagnostica per immagini e medicina di urgenza. Ha conseguito nel 2005 il diploma Master in Cardiologia del cane e del gatto presso l’Università di Torino, con tesi riguardante il cuore di atleta. Dal 2003 collaboratore del Gruppo di Studio di Practice Management. Coautore di relazioni a congresso SCIVAC del 2004 e di pubblicazioni riguardanti il Practice Management. PAUL CUDDON BVSc, Dipl ACVIM (Neurology), Colorato, USA Il Dr. Cuddon si è laureato con lode (first class honors) presso la University of Sydney nel 1979. Dopo un periodo di residenza in medicina interna dei piccoli animali presso la Universiy of Guelph (Canada), ha completato una seconda residenza in neurologia e neurochirurgia alla University of California at Davis. Ciò lo ha portato ad ottenere nel 1989 il board certification in neurology da parte dell’ACVIM. Il Dr. Cuddon era Assistant Professor presso la University of Wisconsin, Madison (1986-1994) e Associate Professor alla Colorado State University (1994-2001), prima di dedicarsi alla libera professione al VCA Alameda East Veterinary Hospital. Il Dr. Cuddon ha svolto un’ampia attività didattica in occasione di conferenze regionali e nazionali ed è stato relatore invitato a conferenze internazionali in Argentina, Italia e Canada. È considerato dai suoi colleghi come il principale esperto di elettrodiagnostica veterinaria nella specialità di neurologia. È autore di oltre 40 ricerche ed articoli di riviste cliniche, nonché di un manuale di elettrodiagnosi in Neurologia Veterinaria. NUNZIO D’ANNA Med Vet, Roma Si è laureato in medicina veterinaria a Torino nel 1992. Ha effettuato un externship tra il 1993 e il 1994 presso l’Animal Medical Center di New York con particolare interesse verso la chirurgia d’emergenza e l’oftalmologia.

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Autore di alcune pubblicazioni in campo oculistico e relatore in diversi incontri a livello nazionale e internazionale. Dal 1995 lavora a Roma con il dr. Guandalini con la pratica limitata all’oftalmologia clinica. Dal 2001 è tesoriere della SOVI. ELENA DALL’AGLIO Med Vet, Milano Nata a Milano il 30/11/1970, laureata in Medicina Veterinaria il 17/07/1996. Collabora con il Dr. Claudio Bussadori dal 1998, coadiuvandolo nella realizzazione del materiale scientifico impiegato per la didattica. Dal 2005 direttore dei workshop internazionali di ecocardiografia tenuti presso la Clinica Veterinaria Gran Sasso. Webmaster del sito www.ecocardiografia veterinaria.it. Relatore all’ultimo corso di ecocardiografia SCIVAC. Svolge attività come consulente per la specialità di Cardiologia presso diverse strutture della Lombardia. SUSAN DAWSON BVMS, PhD, MRCVS, Glasgow (UK) Susan Dawson si laurea presso l’Università di Glasgow nel 1983 e trascorre i sei anni successivi praticando la libera professione. In seguito si trasferisce a Liverpool dove studia i calicilovirus felini, conseguendo nel 1991 il PhD. Sino ad allora Susan ha continuato a lavorare a Liverpool investendo la maggior parte del suo tempo nello studio delle malattie infettive. Attualmente è Intervet Senior Lecturer in Small Animal Studies. Susan ha lavorato come dermatologo nella clinica dei piccoli animali e continua ad insegnare in questo settore. Il suo maggiore interesse si rivolge attualmente allo studio della Bordetella bronchiseptica e ai calicivirus felini. DENNIS B. DE NICOLA DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA Chief Veterinary Educator, IDEXX Laboratories Il Dr. De Nicola ha conseguito la laurea in medicina veterinaria (DVM) nel 1978 ed il PhD nel 1981, entrambi presso la Purdue University. Per più di 20 anni presso quella università ha svolto il ruolo di educatore primario in Patologia Clinica e Chirurgica. Ha anche diretto il Clinical Pathology Laboratory ed il primary cytology and surgical pathology service nel Veterinary Teaching Hospital, oltre a svolgere per 15 anni un servizio di patologia privata. È stato relatore invitato a più di 150 simposi di aggiornamento nazionali ed internazionali. Inoltre è autore e coautore di più di 150 pubblicazioni, capitoli di libri, monografie e libri su vari aspetti della patologia clinica veterinaria. Più recentemente, è stato autore e coeditor di Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, (Mosby, 2008). ALBERTA DE STEFANI - LLABRES DVM, PhD, Dipl ECVN, MRCVS, Cambridgeshire, UK Lureata presso l’Università degli studi di Padova nel Febbraio 2001. Ha lavorato per alcuni mesi in una clinica privata prima di iniziare un Dottorato presso l’Università degli studi di Padova, che si è concluso con la discussine della tesi nel 2006. Nel 2002 ha iniziato un anno di internato presso The Animal Health Trust, UK. Nel 2003 ha cominciato un programma approvato di residency in Neurologia/Neurochirurgia presso la stessa struttura. Nel 2007 si è diplomata all’Europen College of Veterinary Neurology. Correntemente lavora come Senior Clinical Neurologist presso The Animal Health Trust, UK. Le maggiori aree di interesse sono la fisiopatologia, diagnosi e trattamneto dell’epilessia ed il trattamento chirurgico delle patologie spinali. MARCO DI MARCELLO Med Vet, Brescia Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano il 1 marzo 1999, è abilitato alla professione nel Dicembre dello stesso anno. Dal dicembre 1999 al dicembre 2003 ha svolto attività clinica pres-


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so gli ambulatori dell’Istituto di Clinica Medica Veterinaria della stessa Università, occupandosi in particolare di cardiologia, ecografia ed ecocardiografia del cane e del gatto. Nel dicembre 2003 consegue la qualifica di Dottore di Ricerca in Diagnostica per Immagini, e nell’anno accademico 2003-2004 ha assunto il ruolo di professore a contratto per l’insegnamento di cardiologia del cane e del gatto nell’ambito della scuola di specialità in Patologia degli Animali da Affezione. Attualmente svolge attività libero professionale presso il Centro Medico veterinario “Cellatica” (BS) e svolge collaborazione di ricerca con la Sezione di Clinica Medica del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università degli Studi di Milano, con la Fondazione Salvatore Maugeri (Ospedale “Richiedei” - Gussago BS), con il Centro di ricerche “E. Menni” (CREM) presso la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero (BS) e con la Clinica Veterinaria Gran Sasso (MI). MAURO DODESINI Med Vet, Bergamo Laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano 1991 Torino, Corso organizzato da Aivpa e Centrale di Lettura della Displasia dell’Anca nel Cane per abilitazione a Medico Veterinario Fiduciario Aivpa 2000. Diploma Corso Triennale di Omeopatia presso l’Associazione Omeopatica Bresciana 20001. Diploma Corso Triennale di Omeopatia presso la Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica. 2004 Master Triennale in Omeopatia presso Centro di Omeopatia di Milano tenuto dal Dott. Roberto Petrucci, Docente del Centro di Omeopatia di Milano. Ha tenuto seminari presso il Centro di Omeopatia di Milano sulla terapia della Spondilosi Vertebrale e della Displasia dell’anca del cane. Autore di diversi articoli e relatore in congressi nazionali veterinari sulla terapia della displasia dell’anca nel cane, sulla terapia della spondilosi vertebrale, della lesione del legamento crociato, dell’incontinenza urinaria. 23-24-25\05\03 Ferrara, Centrale di Lettura della Displasia dell’anca del Cane: Aggiornamento Ricerca Radiografica Malattie Scheletriche congenite e\o ereditarie nel Cane. Nell’elenco dei Docenti e Autore di una relazione. Università di L’Aquila, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Corso di Perfezionamento di Medicina Omeopatica, primo Corso organizzato in Italia in una sede accademica ufficiale, 08\01\2005 Lezione di Clinica Veterinaria Omeopatica. 2006 Congresso Fiamo, relatore su “terapia omeopatica nella lesione del legamento crociato del cane: studio retrospettivo di 26 casi”. LUDOVICA DRAGONE Med Vet, Reggio Emilia Laureata in Medicina Veterinaria nell’anno accademico 2001-2002 presso l’Università di Parma, con tesi su “La fisioterapia riabilitative nel cane”, relatore Dr.ssa Luisa De Risio. Nel 2003 e 2004 ha trascorso periodi di studio negli Stati Uniti, presso la University of Tennessee College of Veterinary Medicine sotto la guida del Prof. Darryl Millis ed in North Carolina sotto la guida del Prof. Denis Marcellin. Per approfondire la conoscenza della riabilitazione negli animali da compagnia ha completato l’iter di studio negli Stati Uniti ottenendo, nel 2005, l’attestato di Certified Canine Rehabilitation Practitioner (CCRP), presso l’Università del Tennessee. È autrice di articoli su riviste del settore, correlatrice di tesi presso l’Università di Bologna, Padova, Parma e Teramo e relatrice a corsi, seminari e congressi su argomenti riguardanti la riabilitazione. Ha partecipato a seminari e congressi nazionali ed internazionali sul tema della fisioterapia riabilitativa negli animali da compagnia. Dal 2003 è socia SCIVAC e SINVet. Dal 2007 è responsabile del gruppo di studio SCIVAC sulla fisioterapia riabilitativa. Attualmente svolge la propria attività presso l’Ambulatorio Veterinario Dog Fitness di Reggio Emilia occupandosi di riabilitazione.

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CRISTIAN FALZONE Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme (PT) Si laurea presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Perugia nel 2001. Dal 2001 al 2002 si dedica alla clinica dei piccoli animali svolgendo attività di libero professionista prima in una clinica veterinaria a Perugia e quindi ad Arezzo. Dal 2003 svolge un “Non Conforming Residency Program” (direct supervised training) in neurologia con il Dr. Massimo Baroni (dipl. ECVN) presso la Clinica Veterinaria Valdinievole a Monsummano Terme (PT). FRANCO FASSOLA Med Vet Comportamentalista, Asti Si laurea nel 1989 a Torino. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Segretario-tesoriere SISCA dal ’99. Ha seguito corsi di base ed avanzati di medicina comportamentale in Italia e in Francia. Ha partecipato al corso per la formazione del diploma “Vetérinaire Comportementaliste des ENV Francaises”. Direttore Scientifico della rivista di medicina comportamentale Sisca Observer. Ha pubblicato articoli di patologia comportamentale su riviste veterinarie e di divulgazione. Autore di un libro sull’educazione del cane, “Educare o Ri-educare il cane”; ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “La medicina comportamentale del cane e del gatto”. È stato membro dello staff del Progetto Ex-combattenti dell’ENPA. Fa parte del COMITATO SCIENTIFICO del Master di secondo Livello dell’Univ. di Torino. È membro dell’Ass. dei comportamentalisti francesi Zoopsy e dell’ESVCE. GIUSEPPE FEBBRAIO Med Vet, Bari Laureato nel 1992, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca nel 1999, presso l’università di Bari. Nel 2006 ha conseguito il Diploma di Master internazionale di II livello in Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva all’Università di Teramo. Consulente nutrizionale, ha partecipato a numerosi congressi nazionali, seminari. Svolge attività di libero professionista nella propria clinica (Centro Veterinario Einaudi) a Bari, dove si occupa principalmente di gastroenterologia, endoscopia, laparascopia, e patologie delle vie urinarie. ALESSANDRA FONDATI Med Vet, PhD, Dipl ECVD, Roma Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Pisa nel 1981. Si è occupata di dermatologia veterinaria come libero professionista dal 1984 al 1997, prima a Firenze quindi a Roma. Nel 1998 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (ECVD) e dal 1998 al 2003 ha lavorato come Professore Associato di Dermatologia presso l’Università Autonoma di Barcellona (Spagna). Nel 2003 ha completato un PhD sulla patogenesi del complesso del granuloma eosinofilico felino presso l’Università Autonoma di Barcellona. Attualmente si occupa di dermatologia veterinaria, come libero professionista, a Roma. LUCA FORMAGGINI Med Vet, Dormelletto (NO) Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dopo vari periodi di tirocinio in Italia e all’estero, dal 1996 lavora presso la Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” di cui è socio fondatore. È relatore in diversi corsi SCIVAC di chirurgia, ortopedia e medicina/chirurgia d’urgenza; ha tenuto relazioni a diversi congressi e seminari a livello nazionale e internazionale; è autore e co-autore di vari testi scientifici pubblicati in Italia e su riviste internazionali. Membro SCIVAC, BSAVA, VECCS, ESVOT e EVECCS, è Resident in training per accedere all’esame dello European College of Veterinary Surgery (ECVS).


Performance e tenacia contro pulci e zecche DALLA RICERCA VETERINARIA, PER IL MEDICO VETERINARIO

• EFFICACE: contro le pulci e le zecche sviluppato esclusivamente • DEDICATO: per uso veterinario uccide le pulci prima che depongano • RAPIDO: le uova; uccide le zecche prima che inizino il pasto di sangue ALL’ACQUA: efficace anche dopo • RESISTENTE shampoo e immersioni in acqua ben tollerato anche dai cuccioli • SICURO: a partire dalle 8 settimane di vita Prac-tic contiene Piriprolo



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Dal 2008 è Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi di interesse sono rivolti a tutti gli aspetti della traumatologia (pronto soccorso, chirurgia e terapia intensiva) e alla chirurgia mini-invasiva laparoscopica e toracoscopica. I suoi hobbies comprendono la corsa, la pesca e lo snowboard. Da osservatore ama il basket e il calcio. DEREK B. FOX DVM, PhD, DACVS, Missouri, USA Il Dr. Fox ha conseguito la laurea in medicina veterinaria presso la Michigan State University nel 1998, ha portato a termine un periodo di internato in medicina e chirurgia nei piccoli animali presso la University of Missouri nel 1999 ed ha terminato un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali presso lo stesso istituto nel 2003. Nello stesso anno ha conseguito il titolo di Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons e nel 2004 ha ottenuto un PhD dalla University of Missouri nel campo della Pathobiology, con particolare riguardo all’ingegnerizzazione del tessuto cartilagineo. Nel 2004 è anche diventato Assistant Professor of Small Animal Orthopedic and Associate Director of the Comparative Orthopedic Laboratory presso la University of Missouri. Attualmente, la sua ricerca clinica riguarda le deformazioni angolari degli arti del cane. PAOLO FRANCI DVM, CVA, Padova Laureato nel 1996 presso l’Università degli Studi di Pisa. Si è occupato di anestesia, terapia intensiva e medicina d’urgenza fin dai primi anni di professione. Ha lavorato presso la Clinica Veterinaria Europa di Firenze nei primi anni di professione Nel 2002 è stato anestesista-rianimatore freelance in varie strutture del Nord Italia prima di iniziare una standard residency in anestesia presso l’Animal Health Trust Newmarket UK(2003-2006). Nel 2006 ha lavorato presso Davies Veterinary Specialist Manor Farm Business Park - Bedfordshire UK, per poi essere responsabile dell’anestesia e terapia intensiva presso l’Ospedale I Portoni Rossi Zola Predosa - BO. Dopo aver vinto un concorso per ricercatore universitario, dal Settembre del 2007 insegna anestesia presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova. Ha presentato lavori originali a congressi nazionali ed internazionali ed è relatore invitato a molti congressi e corsi. GUALTIERO GANDINI Med Vet, Dipl ECVN, Bologna Il Prof. Gualtiero Gandini si è laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bologna nel dicembre 1990. Dal Luglio 1995 al marzo 2005 ha ricoperto il ruolo di ricercatore presso il Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università degli Studi di Bologna. Dal Marzo 2005 è professore associato presso la suddetta struttura. Nel 1996 ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Medicina Interna Veterinaria. Dal 2000 è membro dell’Executive Committee della European Society of Veterinary Neurology (ESVN) - European College of Veterinary Neurology (ECVN) prima nelle vesti di “member at large” (2000-2004), poi di Segretario (2004-2006) e attualmente di Vicepresidente. Nel marzo 2003 ha acquisito il titolo di “Diplomate of the European College of Veterinary Neurology (DECVN)” dopo aver seguito un “non-conforming residency programme” in neurologia veterinaria sotto la guida del Prof. André Jaggy. È iscritto alla Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVet) dal 1998 e nel triennio Novembre 2004-Novembre 2007 è stato membro del Consiglio Direttivo con le funzioni di segretario. È direttore e coordinatore del Percorso di Neurologia e Neurochirurgia del cane e del gatto (2004-2007) frutto della convenzione tra la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna e la società Performat. È autore e coautore di circa 65 pubblicazioni scientifiche, di cui 22 su riviste internazionali peer-reviewed.

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BERNHARD GERBER Dr Med vet, Dipl ACVIM & EECVIM-CA, Berna (CH) Laurea presso l’Università di Berna nel 1987. 1987-1989 Libera professione. 1989-1991 Tesi di laurea in medicina veterinaria presso l’Università di Berna. 1991-1995 Libera professione. 1995-1999 Internato e residenza presso il Department of Internal Medicine, Clinic of Companion Animals, University of Bern e presso il Veterinary Teaching Hospital della Louisiana State University. Dal 1999 è Assistant Professor presso la Clinic for Small Animal Internal Medicine, Vetsuisse Faculty University of Zuerich. Diplomato ACVIM ed EECVIM-CA. GIOVANNI GHIBAUDO Med Vet, Samarate (VA) Laureato presso l’Università di Milano nel 1994, dal 1996 si occupa di dermatologia veterinaria e citopatologia. Lavora come referente per la dermatologia presso strutture veterinarie a Samarate (Va) presso la Clinica Veterinaria Malpensa dove è socio e diverse strutture veterinarie in Lombardia, Emiglia Romagna e Marche. Ha svolto il corso di Dermatologia dell’ESAVS (European School for Advanced Veterinary Studies) 1996-98. Full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology). È stato istruttore al Corso base di Dermatologia della SCIVAC (Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia) (20012003); relatore e istruttore al corso PERFORMAT all’Università di Medicina Veterinaria di Torino nel 2005, 2008. È stato relatore al Congresso Nazionale della SCIVAC nel 1999, 2002, 2004, 2007, e dell’AIVPA (Associazione Italiana Veterinari dei Piccoli Animali) nel 2004, 2007, 2008. Organizzatore, fondatore e relatore del Corso di diagnostica e di terapia dermatologica ICF (2003 -2008). Traduttore del libro “Dermatologia del cane e del gatto” di Medleau e Hnilica 2° Ed. 2007. Autore di oltre 40 articoli su riviste veterinarie nazionali ed estere. I suoi settori d’interesse sono la citologia cutanea, le otiti e la dermatite allergica nel cane e nel gatto. STEFANIA GIANNI Med Vet, Milano Laureata nel Luglio 1991 a pieni voti all’Università di Milano. Dal 1992 lavora presso la Clinica S Siro piccoli animali di Milano occupandosi di chirurgia d’urgenza ed ortopedia e dal 1997 con attività specialistica in neurologia clinica e neurochirurgia. Dal 1996 al 1998 ha effettuato un periodo di tirocinio presso il dott. Massimo Baroni a Genova e successivamente numerosi corsi e periodi di aggiornamento in neurologia clinica e neurochirurgia in particolare presso l’Università di Berna e quella di Madison. Dal Novembre 2004 presso lavora anche presso la Clinica Veterinaria Tibaldi di Milano come responsabile del settore neurologico. Collabora con diverse strutture veterinarie dell’area lombarda come referente per la neurologia e la neurochirurgia. Relatrice a diversi corsi, congressi e seminari nazionali. Dal 1997 membro della SINVet e dell’ESVN. Dal Novembre 2004 membro del consiglio direttivo SINVET. CRISTINA GIORDANO Med Vet, Torino Laureata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino nel 1993 con una tesi sul melanoma intraoculare del gatto. Il suo interesse professionale è dedicato unicamente all’oftalmologia veterinaria ed in questo settore ha svolto numerosi periodi di externship presso università e cliniche private negli Stati Uniti. Nel 2000 ha frequentato il Basic Science Corse dell’ACVO presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Raleigh in North Carolina, nel 2004 il corso di microchirurgia oculare dell’ESAVS a Tolosa. Ha partecipato a corsi e congressi nazionale ed internazionali sull’oftalmologia veterinaria dove è stata relatrice, autrice e co-autrice di varie pubblicazioni. Lavora a Torino dove svolge esclusivamente attività di consulenza nel campo dell’oculistica veterinaria.


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SABRINA GIUSSANI Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA) Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Dal 1998 si occupa di Medicina Comportamentale. È consigliere SISCA (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2002. Ha partecipato a seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale sia in Italia sia in Francia. Si è diplomata Medico Veterinario Comportamentalista presso l’Ecole Nationale Française nel novembre 2002. È stato relatore a giornate regionali, seminari, corsi di base e avanzati in Italia. Ha pubblicato articoli inerenti la Medicina Comportamentale su riviste del settore scientifico ed è autore, insieme al Dott. Colangeli, del libro “Medicina comportamentale del cane e del gatto” edito da Poletto nel 2004. Consegue nel dicembre 2004 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova in “Etologia applicata al benessere animale”. È professore a contratto nel 2005 nel Master inerente alla Medicina Comportamentale organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Torino. È socio di Zoopsy e di ESVCE. OSCAR GRAZIOLI Med Vet, Reggio Emilia Oscar Grazioli, conseguita la maturità classica, si è laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli studi di Parma nel 1978. I suoi principali campi di interesse sono l’anestesiologia, la medicina interna e la patologia degli animali esotici, con particolare riferimento ai rettili. Autore di diverse pubblicazioni scientifiche è stato relatore a numerosi congressi e seminari. Dal 1992 è ordinary member della Association of Veterinary Anaesthetists (AVA) inglese. Nel triennio 1996-1998 è stato coordinatore del gruppo SCIVAC di Anestesia, Rianimazione, Medicina d’emergenza e terapia del dolore di cui è tuttora collaboratore. Oscar Grazioli è anche giornalista pubblicista e recentemente scrittore, avendo esordito nel campo letterario con un libro intitolato “Quello che gli animali non dicono”, che ha ottenuto unanime consenso di pubblico e di critica. Vive e lavora a Reggio Emilia. CRAIG GREENE DVM, MS, Dipl ACVIM, Georgia, USA Il Dr. Craig Greene è Guest Professor presso il Department of Small Animal Medicine della University of Georgia. Nel 1973 ha conseguito la laurea in Medicina Veterinaria (DVM) presso la University of California ed ha portato a termine un periodo di internato alla Cornell University. Si è trasferito per un periodo di residenza alla Auburn University ed ha ottenuto il titolo di MS nel 1976. A partire da quell’anno ha fatto parte del corpo docente della University of Georgia, dove attualmente è Chaired Professor del Department of Small Animal Medicine. È anche board certificate dell’American College of Veterinary Internal Medicine nelle specialità di Medicina Interna e Neurologia. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di ricerca nei settori di medicina interna, neurologia, coagulazione del sangue e malattie infettive. Ha ricevuto parecchi premi dalla University of Georgia, come il Creative Research Award ed il Norden Distinguished Teaching Award ed il Josiah Meigs Teaching Award. Il suo trattato, Infectious Diseases of Dog and Cat, pubblicato da W.B. Saunders Co. nel 1984 e nel 1990, è stato ripubblicato come nuova edizione nel 1998. MASSIMO GUALTIERI Med Vet, PhD, SCMPA, Milano Massimo Gualtieri si è laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1983. Nel 1987 consegue il diploma della Scuola di Specializzazione in Clinica delle Malattie dei Piccoli Animali. Nel 1992 ottiene il titolo di Dottore di Ricerca e sempre nello stesso anno la nomina a Ricercatore presso l’Istituto di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria dell’Università di Milano. Dal 1995 è docente presso la Scuola di Spe-

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cializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione della Facoltà di Milano. Dal 1996 è docente del Corso di Medicina Operatoria del corso di Chirurgia Endoscopica. Dal 1992 è docente al “Centro de Cirurgia de Minima Invasion” presso la Facoltà di Caceres (Spagna) per il “Corso Internazionale Teorico-Pratico di Endoscopia nei Piccoli Animali” e dal 1996 è Direttore Scientifico e fondatore della rivista internazionale The European Journal of Comparative Gastroenterology. Nel 1997 frequenta il Veterinary Teaching Hospital (Surgery Unit) presso la Colorado State University (USA), dove viene nominato Supervisor della Endoscopy Unit. Dal 2000 è Past President della European Society of Compartative Gastroenterology (ESCG) della quale è inoltre membro fondatore (1993). Massimo Gualtieri è autore e coautore di più di 80 pubblicazioni su riviste italiane ed estere comprese le comunicazioni congressuali, CD-Rom e videocassette. LUCA GUARDABASSI Med Vet, Dipl ECVPH, Copenhagen, (DK) Professore associato di Microbiologia Clinica - Department of Veterinary Pathobiology, Faculty of Life Sciences, University of Copenhagen, Danimarca. Nato a Firenze nel 1966. Laureato in medicina veterinaria nel 1994 alla Facoltà di Pisa. Diplomate of the European College of Veterinary Public Health (ECVPH). Esperto di batteriologia ed antibioticoresistenza. Autore di oltre 50 pubblicazioni in riviste scientifiche e conferenze internazionali. Ha scritto recentemente un libro, pubblicato da Blackwell, sull’uso prudente e razionale degli antimicrobici negli animali domestici. JOHNNY D. HOSKINS DVM, Dipl ACVIM, Louisiana (USA) Il Dr. Hoskins si è laureato in Medicina Veterinaria (DVM) nel 1968 alla Oklahoma State University. Ha effettuato un periodo di internato sui piccoli animali ed ha conseguito il PhD in Veterinary Pathology presso la Iowa State University. È Diplomate of the American College of Veterinary Internal Medicine, con specialità in Small Animal Internal Medicine e Small Animal Pediatrics. È Professor Emeritus presso la Lousiana State University School of Veterinary Medicine. Attualmente offre ai veterinari pratici un servizio di consulenza sulla medicina interna dei piccoli animali attraverso la DocuTech Services, Inc. È autore di numerosi articoli scientifici e dei trattati clinici Veterinary Pediatrics: Dogs and Cats from Birth to Six Months e Geriatrics & Gerontology of the Dog and Cat. Tiene una rubrica mensile su DVM Newsmagazine su argomenti selezionati di pediatria e geriatria nei piccoli animali. È ben noto e riconosciuto come docente a livello nazionale ed internazionale su molti argomenti clinici correlati alla professione nel settore della medicina interna dei piccoli animali. CLÉMENTINE JEAN-PHILIPPE DVM, PhD, France Si laurea in Medicina veterinaria presso l’Uuniversità di Alfort nel 1995 dove è stata Scientific assistant nel dipartimento di nutrizione animale con il professor Wolter. Nel 1999 termina il PhD in Nutrizione al National Agronomic Institute di Parigi (Adattamento comportamentale e metabolico alla dieta con elevato apporto proteico). Dal 1995 al 1997 frequenta e porta a termine il Master in scienze mediche e fisiologiche a Parigi. Dal 2000 al 2007 lavora presso la Nestlé Purina PTC: Ricerca e sviluppo nella nutrizione ad Amiens in Francia. Attualmente collabora con Nestlé Purina PetCare Europe nel ruolo di European Veterinary Communication Manager. MELISSA KELLY PhD, Missouri (USA) La Dr. Melissa Kelly si laurea in Scienze della Nutrizione presso l’Università di Greensboro, North Carolina (USA). Durante il corso di laurea, la Dr. Kelly ha lavorato come Nutrizionista Clinico, acquisendo la sua prima esperienza pratica nel campo della “corretta nutrizione e del benessere”. Terminata la



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tesi, accetta un incarico presso la Nestlè Purina PetCare Research nel Global Technical Communications Team. È responsabile dello sviluppo e dell’implementazione dei programmi di comunicazione globale che aiutano la comunità scientifica e veterinaria nella comprensione della scienza e della tecnologia di Purina Nestlè. La Dr. Kelly impegna la maggior parte del suo tempo nello sviluppo e nella gestione della comunicazione scientifica per Nestlè Purina PetCare Europe, sviluppando comunicazioni ai consumatori e ai veterinari, associandole al lancio di nuovi prodotti e alle nuove scoperte scientifiche, così come si impegna in corsi di formazione interni in aree relative alla nutrizione dei Pet. Fornisce anche relazioni scientifiche ai Congressi Veterinari sulla nutrizione degli animali da compagnia. I principali argomenti di interesse della Dr. Kelly includono la nutrizione, la gestione del peso, le proteine, i probiotici e l’invecchiamento. JOLLE KIRPENSTEIJN DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Utrecht (NL) Jolle Kirpensteijn si è laureato alla Utrecht University Faculty of Veterinary Medicine, in Olanda, nel 1988 ed ha portato a termine un periodo di internato in medicina dei piccoli animali e chirurgia alla University of Georgia negli Stati Uniti d’America nel 1989. Dopo il suo internato, ha completato un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali e conseguito un Master presso la Kansas State University, USA. La residenza è stata seguita da un fellowship in oncologia chirurgica presso la Colorado State University Comparative Oncology Unit, USA. Nel 1993, Jolle è tornato in Europa per accettare un Associate-professorship in oncologia chirurgica e chirurgia dei tessuti molli presso la University of Utrecht. Nel febbraio del 2005 è stato nominato Professore di Chirurgia presso la University of Copenhagen. È Diplomate of the American and European College of Veterinary Surgeons ed è stato membro attivo del board of Regents di questo College. Dall’ottobre 2006 è membro dell’executive board della World Small Animal Veterinary Association, attualmente come vicepresidente. I suoi principali interessi clinici e di ricerca sono l’oncologia chirurgica e la chirurgia ricostruttiva e traumatologica. Nel 1999 ha conseguito il PhD sull’osteosarcoma ed attualmente svolge un ruolo attivo nella ricerca sulla patogenesi di questa neoplasia nel cane e nel gatto, sulla chirurgia endoscopica e sulla traumatologia. Ha pubblicato più di 50 articoli su riviste referee e tenuto più di 200 lezioni in tutto il mondo ed ha ricevuto il prestigioso BSAVA Simon Award nel 2007. ADRIANO LACHIN Med Vet, Venezia Si laurea presso l’Università degli Studi di Parma nel 1996. Nel 1997 ha intrapreso un periodo di tirocinio della durata di tre anni nel reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale “Villa Salus” di Mestre (Ve) frequentando attivamente la sala operatoria, successivamente, con le medesime modalità, ha frequentato per due anni il reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale di Dolo (Ve). Relatore ed istruttore al Corso base di Anestesia SCIVAC e al Congresso Internazionale Multisala SCIVAC di Rimini dal 2004 al 2007, nonché relatore a numerosi seminari e corsi di livello base ed avanzato sull’argomento. Ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “Medicina d’urgenza e terapia intensiva del cane e del gatto” (Masson-2004); nel 2005 ha curato l’edizione Italiana dell’opera in lingua tedesca (J. Henke e W. Erhardt) di “Terapia del dolore negli animali da compagnia” (Masson 2006), nel 2007 ha curato la 2a edizione italiana (Elsevier-Masson-2008) sulla 4a americana del “Handbook of Veterinary Anesthesia” (W.W.Muir, J.A.E.Hubbel). Presidente dal 2008 della SIARMUV (Società Italiana di Anestesia, Rianimazione e Medicina d’Urgenza Veterinaria) e della società europea di anestesia veterinaria (Association of Veterinary Anaesthesist). Da diversi anni collabora con la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli studi di Perugia mediante attività di consulenza scientifico-didattica. Nel 2006 ha frequentato per diversi mesi la divisione di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Padova

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presso il reparto di Chirurgia Pediatrica. Attualmente svolge l’attività libero professionale nel suo ambulatorio in provincia di Venezia e in due Cliniche Veterinarie a Padova e a Vicenza, dove si occupa esclusivamente di Anestesia. FEDERICO LEONE Med Vet, Senigallia (Ancona) Nato a Roma, vive e lavora a Senigallia presso la Clinica Veterinaria Adriatica. Si occupa di dermatologia da più di dieci anni con particolare interesse alla parassitologia cutanea e all’otologia. UGO LOTTI Med Vet, Monsummano Terme (PT) Si è laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università di Pisa nel 1981. Dopo il servizio militare, si è dedicato ad una “mixed practice” fino al 1988, occupandosi principalmente di medicina equina e dei piccoli animali. Nel 1989 si è specializzato in medicina dei piccoli animali presso l’Università di Pisa. Dal 1990 si occupa esclusivamente di medicina dei piccoli animali. Dal 1994 la sua area di interesse principale è la Medicina Interna del cane e del gatto. Autore di pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali. Relatore presso numerosi corsi, seminari e congressi nazionali organizzati dalla SCIVAC. Autore di alcune presentazioni presso congressi internazionali (ESVIM - European Society of Veterinary Internal Medicine) di Medicina Interna. Dal 1995 al 2001 ha fatto parte del Consiglio Direttivo della SCIVAC, di cui è stato segretario. Dal 2001 al 2004 è stato membro della Commissione scientifica della SCIVAC. Dal 2002 al 2005 è stato direttore del corso di Metodologia Clinica in Medicina Interna della SCIVAC. Dal 2004 al 2007 è stato presidente della SIMIV (Società Italiana di Medicina Interna Veterinaria). Attualmente svolge la propria attività presso la clinica veterinaria “Valdinievole” a Monsummano Terme in Toscana, dove si occupa principalmente di medicina interna, gastroenterologia ed endoscopia. KRISTIN MACDONALD DVM, PhD, Dipl ACVIM (Cardiology), Davis USA La Dr.ssa Kristin MacDonald ha conseguito la laurea in medicina veterinaria nel 1998 presso la Auburn University e poi ha portato a termine un periodo di internato in medicina e chirurgia dei piccoli animali presso la Michigan State University nel 1999. Ha completato un periodo di residenza in cardiologia veterinaria presso la University of California, Davis, nel 2000 ed ha ottenuto un PhD presso la UC Davis Comparative Pathology graduate group nel settembre 2005. La sua ricerca di dottorato ha riguardato la miocardiopatia ipertrofica dei gatti Maine Coon e gli effetti degli ACE-inibitori. La Dr.ssa MacDonald è board certified veterinary cardiologist del College of Veterinary Internal Medicine e dal 2003ha lavorato presso l’Animal Care Center di Sonoma, in Rohnert Park, California. La Dr.ssa MacDonald ha insegnato alla Facoltà della UC Davis per un anno ed ora è adjunct clinical professor presso la stessa Università. Ha pubblicato capitoli in Veterinary Clinics of North America, Kirk’s Current Veterinary Therapy e The Textbook of Veterinary Internal Medicine, è stata editor della sezione di cardiologia per Handbook of Small Animal Practice nonché autrice di parecchi articoli per il Journal of Veterinary Internal Medicine, American Journal of Veterinary Research, e Veterinary Radiology and Ultrasound. Attualmente sta lavorando con diversi colleghi su un trattato completo di cardiologia felina. GIAN LUIGI MANARA Med Vet, Torino Gian Luigi Manara si laurea a bologna discutendo un atesi in patologia chirurgica dal titolo “Urolitiasi nel cane”. Dopo un periodo di soggiorno all’estero presso l’Animal Medical Center di New York rientra a Trento dove svolge attività libero professionale occupandosi prevalentemente di casi ortopedici. Autore di numerosi articoli inerenti l’ortopedia negli animali da


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compagnia, ricopre la carica di presidente della Società Italiana di Traumatologia ed Ortopedia Veterinaria dal 2005. Docente ed istruttore a corsi pratici di fissazione esterna,chirurgia del ginocchio e dell’anca è mambro di numerose Società Culturali quali AIVPA, SITOV, SCIVAC, ESVOT, WWHA. STANLEY L. MARKS BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Internal Medicine Oncology), Dipl ACVN, California, USA Laureato nel 1986 all’Università di Pretoria nel Sud Africa. Nel 1987 ha completato un internship in medicina e chirurgia dei piccoli animali all’Università del Missouri (Columbia). Successivamente ha compiuto un residency in medicina interna all’Università della Florida e un residency all’Università della California (Davis). Ha conseguito il PhD in nutrizione presso l’Università della California, dove attualmente svolge il ruolo di Professore Associato in Medicina nel Dipartimento di Medicina ed Epidemiologia. È diplomato ACVIM (medicina interna e oncologia) ed ACVN. I suoi ambiti di ricerca comprendono la gastroenterologia dei piccoli animali, in particolare la modulazione dietetica della funzionalità della barriera mocosale e le gastroenteriti batteriche ANDREA MARTINOLI Med Vet, Milano Dal 1983 al 1990 trascorre un periodo di internato presso l’Istituto di Clinica Chirurgica Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. Durante tale periodo partecipa a numerosi progetti di ricerca, alla stesura di numerosi articoli e tesi di laurea tra le quali in particolare “Osservazioni generali sull’applicazione della Fisioterapia nella riabilitazione al movimento del cane e nel gatto”. Si Laurea nel 1990 presso il medesimo Istituto. Dal 1991 è Direttore Sanitario di una struttura Veterinaria nell’ambito della quale si occupa prevalentemente del settore chirurgico ed ortopedico. Dal 1992 al 1995 riveste il ruolo di Direttore Sanitario dell’Ambulatorio Veterinario del “Centro di Recupero Fauna Selvatica” del Parco Lombardo della Valle del Ticino. Dal 1993 si occupa attivamente della gestione di animali d’affezione affetti da disabilità motorie. Dal 1995 si occupa della gestione sanitaria del Centro Cinofilo, Addestramento, Pensione ed Allevamento, nell’ambito del quale nel 1998 viene attivato un centro che si occupa esclusivamente di fisioterapia e riabilitazione dei piccoli animali. Nel 1997 partecipa in qualità di relatore al Congresso S.I.N.Vet con una relazione riguardante l’uso dei carrelli ortopedici. Nell’anno 2004-2005 frequenta la prima edizione della Scuola Italiana di Fisioterapia Veterinaria per Piccoli Animali presso il Centro Allevamento e Addestramento della Guardia di Finanza di Castiglione del Lago (PG). Nel 2007 ha partecipato in qualità di relatore al Congresso annuale Scivac e ad incontri del Gruppo di Studio di Fisioterapia Veterinaria presentando alcune relazioni riguardanti la fisioterapia e l’uso dei carrelli ortopedici nei piccoli animali. Collabora tuttora con numerose strutture veterinarie offrendo la propria consulenza in campo chirurgico, ortopedico e fisioterapico. GUIDO MASSIMELLO Med Vet, Torino Laureato presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Torino, ha conseguito i diplomi di specializzazione in “Fisiopatologia della rirpoduzione degli animali domestci” presso l’Università di Pisa, “Sanità animale, igiene degli allevamenti e delle produzioni animali” e “Patologia e clinica degli animali d’affezione” presso l’Università di Pisa. Ha frequentato il Master di II livello in “Clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto” presso l’Università di Torino. È stato professore a contratto. Ha tenuto conferenze presso le Università di Torino, Pisa, Milano, ed in molte altre sedi. Ha scritto diverse pubblicazioni. È allevatore di Cani da Montagna dei Pirenei ed è giudice internazionale E.N.C.I./F.C.I. È dirigente presso la A.S.L. Torino 2.

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JOHN MATTOON DVM, Dipl ACVR, Washington, USA Il dr. Mattoon ha frequentato la Oregon State e la Washington State University laureandosi nel 1984 in medicina Veterinaria. Dopo 2 anni di pratica in una clinica privata ha fatto il residency in radiologia presso l’università della California a Davis diplomandosi all’American College of Veterinary Radiology nel 1989. Ha lavorato privatamente come specialista radiologo e presso le Facoltà di UC Davis, Oregon State University, Atlantic Veterinary College e all’Ohio State University. Attualmente è professore associato di radiologia alla Washington State University. Il dr. Mattoon è forse maggiormente conosciuto per il suo interesse nella diagnostica ultrasuoni e come co autore e autore dello Small Animal Diagnostic Ultrasound. ALESSANDRO MELILLO Med Vet, Roma Nato a Roma il 12 gennaio 1970, si è laureato a Pisa nel 1997 con una tesi sull’anestesia dei Mammiferi esotici e selvatici in collaborazione con il Giardino Zoologico di Pistoia. Fin dall’inizio una prepotente passione per gli animali cosiddetti non convenzionali lo portava a lavorare quasi esclusivamente con conigli, roditori, pappagalli, rettili e furetti. È socio di diverse associazioni di appassionati di furetti e di veterinari specialisti in animali non convenzionali e ha sempre partecipato attivamente alla vita associativa della SIVAE (Società Italiana Veterinari per Animali Esotici) di cui è socio fondatore, anche in qualità di relatore a diversi corsi e congressi nazionali e internazionali. Ha scritto articoli per diverse riviste, fra cui Veterinary Clinics of North America, Journal of Exotic Pet Medicine, il nostro Exotic Files e diverse riviste divulgative. Dal 2000 lavora presso la Clinica Veterinaria Omniavet, in Roma, di cui è socio fondatore e responsabile del settore Animali Esotici e Non Convenzionali. ISABELLA MEROLA Med Vet, Milano Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Napoli. Dal 2004 si occupa di Medicina Comportamentale. È socio SISCA (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2004. Ha partecipato a seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale in Italia. Consegue nel 2008 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova e Bologna in “Etologia applicata al benessere animale”. CARLO MARIA MORTELLARO Med Vet, Milano Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano nel 1974, è stato professore di Anestesiologia Veterinaria presso la stessa Università dal 1976 al 1979. Dal 1980 al 1992 ha ricoperto il ruolo di Professore Associato di Patologia Chirurgica Veterinaria e Podologia, e nel 1993 è stato nominato Professore Ordinario di Patologia Chirurgica Veterinaria, ruolo che tuttora ricopre. I suoi principali interessi scientifici sono rappresentati dalle patologie di orecchio, naso gola e cavo orale nel cane e nel gatto, endoscopia delle vie aeree superiori ed infine patologie della regione anale e circumanale. Da un estremo all’altro del corpo senza transitare nel mezzo. In questi ultimi anni un interesse particolare è stato rivolto alle patologie osteoarticolari distrofico-displastiche (nota la sua avversione per le forme “carenziali”) e soprattutto alle patologie degenerative. Past president dell’IVENTA (International Veterinary Ear Nose and Throat Association) e della SIOVET (Società Italiana di Ortopedia Veterinaria) e presidente IOVA (Innovet Osteoarthritis Veterinary Association) è membro di numerose Società Scientifiche. È autore-coautore di 180 pubblicazioni, coautore del testo “Le lesioni digitali del bovino” in collaborazione con Renato Cheli e Flaminio Addis e “Clinical Atlas of Ear, Nose and Throat Diseases in Small Animals”. È stato relatore in numerosi congressi e seminari di aggiornamento post-universitario in Italia ed all’Estero. Hobbies: giardinaggio (Camelie, Agrumi, Bouganvillae, Lantane), orticoltura, orologi Breitling.




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CHIARA NOLI Med Vet, Dipl ECVD, Cuneo, I Laureata all’Università di Milano nel 1990, è specialista in Malattie dei Piccoli Animali dal 1995. Ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria presso l’Università di Utrecht, Paesi Bassi, e nel 1996 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD). Dal 1996 lavora in Italia eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche e letture dermatopatologiche. È stata Presidente della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria (SIDEV), membro del Consiglio Direttivo della Società Internazionale di Dermatopatologia Veterinaria (ISVD) ed è attualmente Presidente della ESVD (Società Europea di Dermatologia Veterinaria). La Dr.ssa Noli è relatrice in congressi italiani ed internazionali, autrice di numerosi articoli su riviste italiane e straniere e di sei capitoli di libri. Con la Dr.ssa Fabia Scarampella è co-autrice del volume “Dermatologia del Cane e del Gatto”, Poletto Editore, 2002, tradotto anche in tedesco. MARIA SERAFINA NUOVO Med Vet, Torino Ha frequentato e concluso il corso base del CISDO (Centro Italiano Studi e Documentazione Omeopatica Boiron-) negli anni 1982-1985. Si laurea in Medicina Veterinaria a Torino nel 1985 con punti 108/110 con una tesi sperimentale sull’impiego dell’Omeopatia nella clinica degli animali d’affezione (prima tesi in Italia). Allieva del Dr. Franco Del Francia dal 1986 al 1989 (Corso Aivo -Roma-), è stata poi membro del Consiglio Direttivo dell’AIVO (Associazione Italiana di Veterinaria Omeopatica) dal 1989 al 1991 e docente presso la Scuola Superiore Internazionale di Veterinaria di Cortona (Arezzo) negli anni 1990 e 1991. È docente dal 1994 a tutt’oggi nella Scuola Medica Omeopatica Hahnemanniana di Torino, affiliata alla FIAMO (Federazione Italiana delle Associazioni e dei Medici Omeopatici). Ha fatto parte del corpo docenti del primo corso di perfezionamento in Medicine Energetiche istituito nell’anno 2000/2001 presso l’ASSL di Tolmezzo (Udine) e patrocinato dall’Università di Medicina Veterinaria di Udine. Membro, fin dalla sua costituzione, del Gruppo di studio di medicina non convenzionale nato in seno alla SCIVAC, successivamente convertito in SIMVeNCo (Società di Medicina Veterinaria Non Convenzionale). Ha conseguito nel gennaio 2007 il diploma del Master di II° livello in clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto istituito dalla Facoltà di Veterinaria di Torino. È stata eletta presidente della SIMVeNCo per il triennio 2008/2010. GAETANO OLIVA Med Vet, Napoli Il prof. Oliva Gaetano è nato a Salerno l’11/08/1960. Si è laureato in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Napoli, il 31/07/1984. La sua formazione scientifica si è affinata presso la Sezione di Clinica Medica Veterinaria (già Istituto di Clinica Medica Veterinaria) della suddetta Facoltà, presso la quale tuttora opera in qualità di professore ordinario di Terapia Medica Veterinaria. Da alcuni anni, tiene, per supplenza, anche l’insegnamento di Diagnostica di Laboratorio Medica Veterinaria. Nel periodo Novembre 1990 - Febbraio 1991, ha avuto modo di svolgere un periodo di studio presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Utrecht, Olanda. Autore di 100 pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, frutto anche di Alessandra Fondati. LAURA ORDEIX Med Vet, Dipl ECVD, Barcelona (E) Laura Ordeix si è laureata nel 1996 in Medicina Veterinaria all’Universitat Autonoma de Barcelona. Ha seguito dal 1996 al 1997 il programma di Internship presso l’ospedale veterinario della stessa università. Dopo un periodo di lavoro come veterinario nel medesimo ospedale, ha iniziato nel 1998 un Residency di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Universitat Autono-

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ma de Barcelona. Ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (ECVD) nel 2002. È autrice di articoli pubblicati su riviste internazionali e nazionali ed dal 2006 è responsabile scientifico del Itinerario didattico di dermatologia della Scuola di Formazione Veterinaria post-Universitaria. Attualmente lavora eseguendo consulenze dermatologiche come libero professionista e come consulente per un laboratorio di analisi in dermatologia veterinaria a Barcellona. PATRICK PAGEAT Dr Vet, MSc, PhD, Apt (F) Patrick Pageat si è laureato in medicina veterinaria (DVM) nel 1984 presso la Scuola Nazionale Veterinaria di Lione ed ha ottenuto il PhD dalla Facoltà di Parigi-VI nel 1991 (con uno studio sul comportamento predatorio della vespa Philanthus triangulum). Ha conseguito un diploma in comportamento veterinario presso Scuole Veterinarie Francesi, nonché dall’ECBVM. Per diversi anni è stato professore associato delle Scuole Veterinarie Francesi. Dopo 7 anni di professione esercitata presso una propria clinica, ha fondato la Pherosynthese, che è un laboratorio privato di ricerca e sviluppo specializzato nella comunicazione chimica e ben inserito sul mercato dell’Animal Welfare. Il suo lavoro apporta grandi benefici al benessere animale grazie alla sintesi dei feromoni che il laboratorio ha introdotto nel mondo degli allevatori e dei proprietari privati degli animali da compagnia in Francia e all’estero, nonché attraverso alcuni grandi laboratori. È stato eletto Presidente del GECAF per due periodi (gruppo di studio specializzato sul comportamento degli animali da compagnia all’interno della CNVSPA), Vice-Presidente della European Society for Veterinary Clinical Ethology Member of AVSAB. Ha tenuto lezioni in congressi nazionali ed internazionali sul comportamento animale e sulla psichiatria umana e sulla psicofarmacologia. È autore di lavori in francese ed in inglese pubblicati su riviste referee. Ha pubblicato molti contributi a vari libri su argomenti correlati al comportamento. È autore di “Pathologie du comportement du chien” Ed. Point Vétérinaire 1996. È autore di «L’homme et le chien» editore Odile Jacob (pubblicato nel 1999). Di prossima traduzione in inglese. Disponibile in spagnolo ed italiano. Coautore di un’enciclopedia del cane per l’editore Rustica. Pubblicazione nel 2004. BRUNO PEIRONE Med Vet, PhD, Università di Torino Professore Associato presso il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino ed è titolare dei corsi di “Patologia Chirurgica”, “Metodologie Chirurgiche” e “Clinica Ortopedica e Traumatologica”. I suoi campi di ricerca sono: tecniche di chirurgia ricostruttiva ossea mini-invasiva, chirurgia protesica dell’anca, chirurgia del ginocchio, deformità scheletriche. Membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Scienze Veterinarie” dell’Università di Torino. Past-Presidente della SIOVET (Società Italiana Ortopedia Veterinaria) dal 2007 e membro del Consiglio Direttivo SCIVAC dal 2008. Chair dell’Educational Committee della AO VET International dal 2006. Membro del SACcVet dell AO International dal 2007. Co-Direttore del percorso di Ortopedia in collaborazione con Scivac Ha partecipato a numerosi corsi di aggiornamento sulle tecniche di chirurgia ossea ricostruttiva e sulle tecniche ortopediche per il trattamento delle patologie articolari. Ha partecipato, in qualità di relatore, a diversi corsi di aggiornamento e congressi scientifici internazionali e nazionali. È autore di circa 90 lavori a stampa, apparsi su riviste nazionali e Internazionali, ha curato la traduzione italiana di alcuni libri di argomento ortopedico. IGOR PELIZZONE Med Vet, Reggio Emilia Il Dr. Igor Pelizzone, conseguita la maturità scientifica, si laurea a Parma nell’anno 2000. Nello stesso anno effettua un tirocinio pratico presso la clinica di fauna selvatica dell’ècole nationale vetèrinaire di Tolosa (Francia). Dal 2000 al 2002


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frequenta la clinica veterinaria Città di Pavia dove si occupa di animali non convenzionali. Dal 2002 al 2005 frequenta l’Ambulatorio Veterinario Belvedere di Reggio Emilia dove si occupa, assieme al Dr. Oscar Grazioli, di animali non convenzionali. È socio fondatore dell’allevamento di rettili Herptop di Noceto (Parma). Dal 2003 al 2005 è chiamato all’Università di Parma per alcune lezioni slu management dei rettli. Dal 2004 scrive articoli su rettili, furetti, lagomorfi e roditori. Nel 2004 è relatore per l’APVAC di Parma sull’argomento “anestesia bilanciata dei rettili” assieme al Dr. Oscar Grazioli. Vive a Parma e lavora presso l’Ambulatorio Veterinario Belvedere di Reggio Emilia. MASSIMO PETAZZONI Med Vet, Milano Massimo Petazzoni si è laureato a Milano nel 1997. È responsabile del reparto di Ortopedia della Clinica Veterinaria Milano Sud di cui è Direttore Sanitario. È membro di AOVet International, ESVOT, SCIVAC, IEWG, VIN e AVORE. È relatore ai corsi SCIVAC: “Vie d’accesso”, “Estremità distali”, “Fissazione esterna”. Dal 1998 al 2006 è stato consulente Hill’s per le patologie scheletriche dell’accrescimento. Ha presentato 120 relazioni a corsi, congressi e seminari su argomenti di Ortopedia. È autore di 9 pubblicazioni scientifiche. È coautore del Testo Atlante BOA (Breed-Oriented Orthopaedic Approach) ed autore dell’Atlante di Goniometria Clinica e Radiografica dell’arto pelvico del cane. Fra il 2005 ed il 2008 ha sviluppato la linea veterinaria del fissatore interno a stabilità angolare Fixin. Da Novembre 2007 è segretario della Società Italiana di Ortopedia Veterinaria (SIOVET). FRANCESCA PISSERI Med Vet, Pisa Veterinario omeopata dal 1991. Svolge attività libero-professionale occupandosi prevalentemente di omeopatia e di fitoterapia applicate agli animali da affezione (cane e gatto), equini e ruminanti. Dal 1995 è docente di omeopatia veterinaria tenendo corsi, lezioni e conferenze presso diversi enti pubblici e privati, quali Società scientifiche, Università, Associazioni di categoria. Attualmente dirige la Sezione Veterinaria della Scuola CIMI-Koinè. Si occupa di ricerca in collaborazione coi Dipartimenti di Clinica Veterinaria, di Produzioni Animali e di Patologia Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa. MARZIA POSSENTI Med Vet, Cassano D’adda (MI) Si Laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia il 7/3/1996 con una tesi suimarcatori di benessere negli animali. Nel 1996 vince la borsa di studio S. S. Vet. per un progetto di ricerca sulle “Variazioni stagionali dei livelli ematici degli ormoni tiroidei e sessuali in daini (Dama dama) allevati in semi-libertà”. Dal settembre 1996 esercita la libera professione, prima collaborando con diverse strutture ed in seguito in una struttura propria, occupandosi revalentemente di medicina del comportamento, di animali esotici e di patologie del comportamento in cane, gatto ed animali esotici. Da 11 anni effettua consulenze di medicina del comportamento di cane, gatto e nuovi animali da compagnia, da 7 anni anche per altre strutture veterinarie del centro-nord Italia. Da un anno organizza classi di cuccioli e da 3 altre iniziative volte al miglioramento del rapporto uomo-animale. Socia SISCA (società italiana scienze del comportamento applicate) e SIVAE (società italiana veterinari per animali esotici) dal 1996, ha partecipato a numerosi corsi e seminari di aggiornamento. Da gennaio 2005 fornisce consulenze via internet sul comportamento del coniglio per diverse associazioni. Ha pubblicato su Sisca observer l’articolo “il comportamento del coniglio: similitudini e differenze fra coniglio selvatico e domestico” e, sul numero monografico di “Veterinaria” per i dieci anni della SISCA, un articolo sul comportamento del furetto. Ha tenuto diverse relazioni sulla medicina del comportamento di cane, gatto ed animali esotici. È stata relatrice a tutti i moduli del primo itinerario

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formativo SISCA sulla medicina del comportamento e al modulo sulla medicina e chirurgia del coniglio SIVAE. Dal novembre 2005 è coordinatrice del gruppo di studio del nord est della SISCA e collabora attivamente al restyling del sito della società. ALEXANDER REITER Med Vet, Dipl TzT, Dipl AVDC, Dipl EVDC, Pennsylvania, USA Dopo la laurea presso la University of Veterinary Medicine Vienna/Austria nel 1996, il Dr. Alex Reiter ha trascorso 1,5 anni ad esercitare la libera professione a Phoenix/Arizona/USA, prima di iniziare un periodo di residenza di due anni in odontoiatria e chirurgia orale presso la University of Pennsylvania in Philadelphia School of Veterinary Medicine. Dopo un ciclo di studi di tre anni ed il completamento di una tesi sul riassorbimento dei denti del gatto, è entrato a far parte della Standing Faculty della University of Pennsylvania School of Veterinary Medicine come Assistant Professor of Dentistry and Oral Surgery nel 2003. Il Dr. Reiter è membro dell’American Veterinary Dental College (AVDC) e della European Veterinary Dental College (EVDC). È Head of the Dentistry ad Oral Surgery Service della University of Pennsylvania School of Veterinary Medicine. I suoi interessi nel campo della ricerca sono rappresentati dagli aspetti comparativi del riassorbimento dei denti nei carnivori domestici e nell’uomo, dalla chirurgia periodontale, dalla chirurgia orale e maxillofacciale (traumatologica ed oncologica), dalla ricostruzione palatina e facciale, dalle manifestazioni orali di malattia sistemica e dalle manifestazioni sistemiche delle malattie orali. BARBARA RIGAMONTI Med Vet, VetMFHom, Genova Barbara Rigamonti, medico veterinario libero professionista dal 1986, vivo e lavoro a Genova. Diplomata in omeopatia presso la Scuola di Cortona nel 1986, e presso la Scuola Dulcamara di Genova nel 1991, dallo stesso anno collaboro alla didattica della Scuola Dulcamara, sede accreditata della Facoltà di Omeopatia del Regno Unito; presso questa Scuola dal 1995 sono direttore della didattica veterinaria. Ho insegnato anche alla Scuola di Cortona, alla Scuola di Omeopatia di Verona ed alla Scuola Lycopodium di Firenze. Ho tenuto seminari presso l’Università dell’Havana durante un intervento di cooperazione medica internazionale, e presso un master in omeopatia veterinaria all’Università statale spagnola, nelle Facoltà di Saragozza e di San Sebastian. Dal 2006 sono membro della Facoltà di Omeopatia del Regno Unito. Dal 2007 collaboro con la Scuola di Specializzazione in benessere animale della Facoltà di Medicina veterinaria di Milano. Sono stata presidente della Federazione italiana delle associazioni e dei Medici omeopatici; ho fatto parte della SIMVENCO dalla sua fondazione, e ne sono stata Presidente dal 2004 al 2007. STEFANO ROMUSSI Med Vet, Milano Stefano Romussi si laurea in medicina veterinaria presso la facoltà di Milano nel 1990 con pieni voti assoluti e lode. Dottore di ricerca nel 1995 e ricercatore l’anno successivo si occupa da subito di chirurgia dei tessuti molli e di endoscopia degli apparati respiratorio ed urogenitale. Professore associato in chirurgia veterinaria docente di Chirurgia dei piccoli animali presso la facoltà milanese dal 2000 ed ora di Semeiotica Chirurgica Veterinaria. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di aggiornamento permanente. ROBERTO A. SANTILLI Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Malpensa (VA) Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1990. Si è diplomato all’European College of Veterinary Internal Medicine - Companion Animals (Specialty of Cardiology) nel 1999. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) come referente per la cardiologia. È sta-


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to professore a contratto in cardiologia per l’anno 1997-1998 presso la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione dell’Università degli Studi di Milano e per l’anno 2003-2004 e 2005-2007 presso l’Università degli Studi di Torino per il Master di II° livello in Malattie cardiovascolari. Negli anni 2004-2006 ha seguito il Master in elettrofisiologia ed elettrostimolazione presso la facoltà di medicina dell’Università dell’Insubria. Al momento sta svolgendo il dottorato di ricerca sulla diagnosi e la terapia delle tachicardie sopraventricolari nel cane presso la facoltà di medicina veterinaria di Torino. È stato presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria per il periodo 2001-2004. È autore di numerose pubblicazioni di cardiologia su riviste nazionali ed internazionali. Il suo principale settore di ricerca sono la diagnosi e la terapia delle aritmie nel cane. FABIA SCARAMPELLA Med Vet, Dipl ECVD, Milano Laureata all’Università di Milano nel 1982, ha lavorato come libero professionista nel settore dei piccoli animali dal 1983 sino al 1996. Nel 2000 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD) e nel 2007 il Diploma del Master in Evidence Based Medicine e Metodologia della Ricerca Sanitaria. È full-member dell’ESVD (Società Europea di Dermatologia Veterinaria) e dell’AAVD (Società Americana di Dermatologia Veterinaria), dal 2007 è Presidente della SIDEV (Società Italiana di Dermatologia Veterinaria), Dal 2000 al 2004 ha curato la pubblicazione dei “Quaderni di Dermatologia”, rivista ufficiale della SIDEV e dal 2005 fa parte del comitato scientifico della rivista “Veterinaria”. Dal 2003 al 2005 è stata Direttore del Corso di Dermatologia della SCIVAC. Attualmente è coordinatore scientifico dell’Itinerario di Dermatologia della Scuola di Formazione Veterinaria post Universitaria. È autrice di articoli pubblicati su riviste italiane e straniere e co-autrice del libro “Manuale pratico di Dermatologia Veterinaria” (Poletto Editore, Gaggiano, 2002). Lavora come libero professionista occupandosi esclusivamente di dermatologia e allergologia veterinaria a Milano e Reggio Emilia e collabora con il Centro Cochrane Italiano presso l’Istituto Mario Negri, Milano. PAOLA SCARPA Med Vet, PhD, SCMPA, Milano Si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano (110/110), dove ha conseguito il Dottorato di Ricerca. Nel 1995 si diploma presso la Scuola di Spezializzazione in malattie dei Piccoli Animali. Dal 1998 al 2000 è Professore a contratto presso la Facoltà di Padova. Nel 2001 diventa Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie di Milano. Attualmente è Professore Associato presso lo stesso Dipartimento ed è incaricata dell’insegnamento di Diagnostica di Laboratorio. La sua attività è testimoniata da numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali nel campo della medicina interna e della diagnostica di laboratorio. È socia ESVNU, SINUV, SCIVAC, SISVet. Attualmente riveste la carica di Presidente della SINUV. PAOLO SELLERI Med Vet, Roma Si laurea in medicina veterinaria a Perugia nel 1998. Nel 2006 termina un dottorato di ricerca presso la facoltà di Padova con una tesi dal titolo “Aspetti clinici dell’insufficienza renale nei rettili”. Si dedica dai primi momenti della sua carriera allo studio di medicina e chirurgia degli animali esotici. Ha frequentato numerose cliniche private e universitarie in diversi paesi stranieri. Ha collaborato con facoltà nord americane a progetti di ricerca e di scambio di studenti. Dal 2002 è professore a contratto presso l’università di Padova per i corsi di “Patologia clinica e terapia degli animali selvatici e non convenzionali I e II”. È autore di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. È stato relatore a corsi e congressi italiani ed internazionali. Collabora con diverse facoltà italiane a lezioni e programmi sulla medicina degli animali

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esotici. È stato fondatore di RAVE (Reptiles and Amphibian Veterinarians of Europe). È membro del comitato internazionale dell’ARAV (Association of Reptilian and Amphibian Veterinarians). Lavora a Roma presso il centro veterinario specialistico dove, con Tommaso Collarile, si occupa esclusivamente di animali esotici. FRANCESCO STAFFIERI Med Vet, Bari Francesco Staffieri si è laureato nel 2002 presso la facoltà di medicina Veterinaria dell’università di Bari. Attualmente Sta svolgendo un PhD dal titolo “Biotechnology applied to organ transplantation and Integrated Therapies in Oncology” presso il Dipartimento dell’Emergenza e dei Trapianti di Organi (D.E.T.O.), Sezione di chirurgia della Facolta di Medicina di Bari. È autore di pubblicazioni scientifiche e membro di numerose associazioni professionali. ENRICO STEFANELLI Med Vet, Roma Laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna nel 1994, inizia l’attività professionale occupandosi quasi esclusivamente di odontostomatologia ed anestesiologia. Nel 1995 trascorre un periodo di tirocinio pratico negli Stati Uniti presso la Colorado State University e si reca successivamente all’estero più volte per brevi corsi di specializzazione. Dal 1996 è referente per l’odontostomatologia e l’anestesiologia di numerose strutture veterinarie private in Italia. Relatore invitato in Congressi e Seminari Nazionali, è stato Istruttore per SCIVAC nei corsi di formazione post laurea per l’Odontostomatologia negli anni 2000 e 2002; per l’Anestesiologia negli anni 2001 e 2002; per la Chirurgia Generale negli anni 2000 e 2001. È stato, inoltre, relatore e istruttore per ISVRA nei corsi di Anestesia di base, Anestesia Avanzato e Anestesia Locoregionale dal 2002 al 2007. Nel 2006 consegue il Master internazionale universitario, II livello, in Gastroenterologia ed endoscopia digestiva degli animali d’affezione presso l’Università di Teramo. È stato socio fondatore e vice presidente della prima Società Italiana Veterinaria di Anestesia Locoregionale e Terapia del Dolore. Dal 2006 è responsabile dell’attività formativa postlaurea in anestesia di DormireSognare. Attualmente svolge la propria professione dividendosi tra la gestione del reparto di Anestesia e Odontostomatologia della Clinica Veterinaria Gregorio VII di Roma e l’attività didattica nell’ambito della Educazione Continua in Medicina. LUIGI VENCO Med Vet, SCMPA, Dipl EVPC, Pavia Consegue la laurea in Medicina veterinaria e di seguito il Diploma di specializzazione in Clinica dei piccoli animali presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Milano. Frequenta il Corso di cardiologia presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Torino. Soggiorna per periodi di studio e ricerca ed insegnamento all’estero presso le Università di Athens (GA), Philadelphia (PEN), Fort Collins (CO), Davis (CA) negli USA e Gifu (Giappone). È autore e coautore di più di venti articoli inerenti la filariosi cardiopolmonare e la cardiologia su International peer reviewed Journal (recensiti da PubMed), Editore ed autore della Monografia sulla Filariosi cardiopolmonare pubblicata da SCIVAC ed autore di capitoli in Dirofilariasis in Humans and Animal (Università di Salamanca) e D. immitis annd D. repens in dog and cat and human infections (Università di Napoli). Dal 2006 è diplomato dell’European Veterinary Parasitology College. Lavora a Pavia presso l’Ospedale veterinario Città di Pavia dove svolge attività prevalente di referenza inerente le malattie parassitarie e la cardiologia, collabora nel settore della ricerca parassitologica con le sezioni di parassitologia delle Università degli Studi di Salamanca e Milano, ed è consulente nel settore della cardiochirurgia dell’Ospedale veterinario “I Portoni Rossi” (Bologna).


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ALDO VEZZONI Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS, Cremona Laureato a Milano nel 1975, si è specializzato in Clinica delle Malattie dei Piccoli Animali e, nel 1993, ha conseguito il Diploma di specializzazione del College europeo di Chirurgia Veterinaria (ECVS). Presidente dell’ESVOT dal 2006, è Presidente dell’FSA dal 1996 e Chairman della relativa Commissione di lettura per la displasia dell’anca e del gomito, È Presidente della SIOVET e Membro della Commissione Tecnica Centrale dell’ENCI. Dal 1976, opera come libero professionista a Cremona, svolgendo dal 1998 attività di riferimento dei Colleghi nell’ambito della diagnostica e della chirurgia ortopedica dei piccoli animali. È stato Socio Fondatore e Presidente della SCIVAC, socio Fondatore e Consigliere dell’ANMVI, socio fondatore e tesoriere della FECAVA. Dal 1996 al 2006 ha rivestito le cariche di segretario FNOVI e di Presidente dell’Ordine dei Veterinari di Cremona. EZIO VINCENTI Med Chir, Spec Anest e Rian, Padova Nato a Padova nel 1950, nella stessa città si laurea in Medicina e Chirurgia con lode nel 1975, discutendo una tesi sperimentale di interesse neurochimico. Nel 1978 si specializza in Anestesiologia e Rianimazione. Fino al 1993 rimane all’Istituto di Anestesiologia e Rianimazione dell’Università di Padova, avendo nel frattempo maturato esperienze scientifiche e lavorative a Stoccarda, Londra e Los Angeles. Nel 1994 è primario all’Istituto per l’Infanzia Burlo Garofolo di Trieste. Dopo essere stato Direttore a Camposampiero e Cittadella, approda all’Ospedale di Dolo (Venezia) in cui è Direttore dell’UO di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica. È autore di oltre 450 pubblicazioni scientifiche e di 43 libri, l’ultimo dei quali è intitolato “Manuale e Atlante della curarizzazione” per i tipi della Lippicott Williams & Wilkins. Ha tenuto più di 500 relazioni scientifiche congressuali. È docente universitario dall’anno accademico 1978-79. Si occupa di anestesia e analgesia ostetrica, di anestesia pediatrica, di anestesia totalmente endovenosa, dell’uso delle prostaglandine in Terapia Intensiva, di tracheotomie chirurgiche e percutanee, di blocchi centrali e di anestesia loco-regionale periferica, nonché di trattamento del dolore cronico ginecologico. Svolge intensa attività di consulenza medico-legale e peritale. È socio fondatore di varie società scientifiche nazionali e internazionali, fra cui del World SIVA. MARCO VIOTTI Med Vet, Torino Laureato a Torino nel 1994 a pieni voti con una tesi sperimentale presso il dipartimento di morfofisiologia veterinaria sull’embriogenesi del tubo cardiaco, approfondisce lo studio della dermatologia e dell’oculistica nell’anno successivo presso il dipartimento di clinica medica come laureato frequentatore. Esercita la professione sui piccoli animali da 13 anni nella propria struttura, a Torino, insieme ad una socia e altri 4 collaboratori occupandosi esclusivamente di medicina interna e practice management. Frequenta dal 1994 i principali congressi nazionali inerenti la medicina interna, i corsi di chemioerapia ed ecografia presso palazzo Trecchi a Cremona, nonché i principali seminari di practice management con relatori stranieri in Italia. Dal 2003 è fondatore e co-coordinatore del gruppo di studio scivac di Practice management insieme ad altri 2 colleghi, frequenta nel 2005 il corso avanzato di practice management organizzato da hill’s con relatori stranieri Autore di 3 relazioni originali a tema all’interno del gruppo stesso e di 2 articoli inerenti il practice management pubblicati sulla rivista “Zootecnia”, è chiamato come relatore per il practice management ai congressi nazionali scivac 2004, 2005 e 2006 con lavori originali su argomenti architettonici ed economici; relatore all’in-

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terno di un seminario di practice management per l’Università di Pisa nel novembre 2006, organizzatore e relatore insieme ad altro collega di un corso di practice management per l’Ordine dei Veterinari di Genova e relatore in dicembre 2006 presso l’Ordine dei Veterinari di Venezia sempre per il practice management. GIUSEPPE VISIGALLI Med Vet, Milano Il dr. Giuseppe Visigalli si è laureato in Medicina Veterinaria a Mi nel 1989. Da sempre si occupa con passione di animali esotici, ma anche selvatici e da zoo. Socio dal 1994 della ARAV e della AAV, è stato tra i soci fondatori della SIVAE, nella quale da marzo 2008 ricopre la carica di Presidente. Ha partecipato come relatore a numerosi seminari, corsi e congressi nazionali ed internazionali. È autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali. Attualmente è direttore sanitario di una clinica veterinaria che si occupa quasi esclusivamente di “exotic pets”. Tra le sue passioni professionali l’oftalmologia, l’anestesiologia comparate e la microchirurgia; tra quelle extraprofessionali il comporre poesie, la buona tavola e l’amore per la paziente moglie, nonché collega, Danila e per i figli Giulio e Diego. ANDREA ZATELLI Med Vet, Reggio Emilia Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma nel 1990. Dal 1991 al 1998 trascorre periodi di aggiornamento in Europa e negli Stati Uniti finalizzandoli all’esclusivo approfondimento di argomenti di medicina interna e diagnostica per immagini del cane e del gatto. È socio SCIVAC dal 1991, relatore SCIVAC dal 1998 e consulente scientifico della stessa società dal 2001. Relatore a congressi nazionali ed internazionali ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la nefrologia, l’ecografia addominale e la terapia intensiva/medicina d’urgenza. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali inerenti la nefrologia, l’ecografia addominale e l’ecografia interventistica. Dal 2006 è coordinatore della Società Italiana di Nefrologia Veterinaria (SINUV) e dal 2005 Chairman del board del Gruppo di Studio sulla Leishmaniosi Canina (GSLC). Nel 2005 ha ricevuto l’IRIS (International Renal Interest Society) AWARD “in recognition of outstanding fundamental and clinical research performed by an individual in the field of nephrology”. Attualmente svolge la libera professione a Reggio Emilia dove dal 2002 è Direttore Sanitario di una referral practice. I suoi principali settori di interesse sono lo studio qualitativo della proteinuria nel paziente nefropatico, i biomarkers di nefropatia e le tecniche innovative nel settore dell’ecografia interventistica e dell’ecocontrastografia. STEFANO ZIGIOTTO Med Vet, Milano Nel Febbraio 1997 si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Universit di Milano. Sino dal ’99 pratica la libera Professione presso una struttura privata a Cologno Monzese (MI). Nel 1999 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualit di informatore. Nel 2001 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualit di responsabile e coordinatore degli informatori nonch gestione dei grossisti del canale vendita / pet corner. Dal 2004 ad oggi Consulente per Hills Pet Nutrition in qualità Vet Business Advisor con incarichi di gestione delle attività in Università, attività congressuali, training tecnico attività e consulenze di Practice Management. Svolge incontri di Practice Management presso cliniche private Facoltà di Medicina Veterinaria e ordine dei medici Veterinari. Iscritto al gruppo studio Scivac di Practice Management.




ESTRATTI DELLE RELAZIONI

Questo volume di atti congressuali riporta fedelmente quanto fornito dagli autori che si assumono la responsabilità dei contenuti dei propri scritti. Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.


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Ten ways to increase your practice profits Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, Svezia

Profit is a sign of health in a business and is usually used to pay your salary, as owner, and to reinvest in the business to grow and develop it. Very simply put, profit is what you have left after you have paid all the costs in your practice. The relationship between profit, income and costs is shown in the equation below: Profit = income – costs Clearly, to increase your profit you need either to increase your income or reduce your costs – or both. There are a number of ways that this can be achieved relatively simply. Let’s first clarify some terms: Income is generated from the sales of veterinary professional services and products. The more services and products you sell, the more income you will generate. Costs are both fixed and variable. Fixed costs are things like your staff’ salaries, equipment (leasing hire or loan repayment)and costs associated with the clinic building (heating, lighting, electricity, water, maintenance); variable costs are generally associated with the delivery of the services you sell (medicines, lab costs, bandage material, etc). Variable costs vary because they depend on the number and type of services you sell: the costs associated with providing routine vaccinations, for example, will be less than those associated with advanced surgical care. To be able to influence your income level and your costs you need to be able to measure them. This is best done as part of your budget planning. A budget is a numerical description of the health of your practice. A budget plan is a written description of how you want the finances in your practice to look over a period of time – usually a year. It is actually an educated guess of how you think your financial year will look based on how the practice has performed in the past, and any changes you wish to put into action in the future such as starting to use new equipment you have invested in, providing new services, or hiring a new staff member. By making a plan you start to take control of your finances instead of just leaving them to chance. When making a budget plan it is important to include your staff in the planning process, and also in sharing the outcomes over the year because the better they understand the finances in your practice the better they can contribute to helping you achieving your financial goals. Your budget plan should include: • How much income you need to generate (to break even with your current costs) • How much income you want to generate (to pay costs and generate the profit you want) • Your predicted costs • How you plan to generate your income − Number of client visits/month (also per week and per day) needed

− Average transaction fee per client contact (ie. the amount of money on average each client visit will generate) needed. This is also affected by: - Your fee level - Your levels of compliance - Services sold per client visit - Products sold per client visit • How you plan to manage your costs, eg reduce costs by − Effective use of equipment − Stock control and turnover − Review leasing arrangements for equipment − Review loans To be effective, your budget then needs to be updated and reviewed regularly (once a week for the practice owner, once a month for other staff) to keep it under control and make any necessary adjustments to keep it on track and achieve your goal for the year. Apart from not making and following a financial plan, one of the biggest mistakes many veterinarians make is to not charge properly for their services. Undercharging or discounting services has the effect of reducing income into the practice which in turn reduces (or eliminates) profits which may mean you cannot get even a living salary out of your practice after you have paid all the other costs. Discounting does NOT attract the sort of clients you want to have – it simply devalues your services and reduces your income. It also creates more work for you, because for every Euro you earn you have to work harder to get it. Many vets believe clients are attracted by low prices. Of course, if this is the only way they can differentiate between the service level in your clinic and someone else’s this may be true. However, this is not how providing quality care and quality service develops. In addition, undercharging because you believe this will make your clients happy, simply teaches them that veterinary services are not worth much and will encourage them to shop around for even lower prices. Undercharging is basically giving your clients money out of your own pocket and this ultimately is professional suicide. Setting fair professional fees and charging properly can make a huge difference to the income generated into your practice. Of course, it is important that your staff also charge properly too.

Summary Many veterinary practices are not well managed financially which results in low or negligible profits and an unhealthy business. Careful planning, coupled with monitoring and management of results gives control over the business and enables you to improve practice profits. C. Jevring-Bäck, Feb 2008


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Dieci modi per migliorare il tuo profitto Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, Svezia

Il profitto è un segno di salute dell’attività di impresa e di solito viene utilizzato per pagare il vostro stipendio e il vostro reddito come proprietario, e per reinvestire nell’impresa stessa per farla crescere e sviluppare. Molto semplicemente, il profitto è ciò che vi rimane dopo aver pagato tutti i costi della vostra struttura. La relazione fra profitto, entrate e costi è illustrata dalla seguente equazione: Profitto = entrate – costi Chiaramente, per aumentare il vostro profitto, dovete incrementare le entrate o ridurre i costi – o entrambi. Esistono molti modi in cui si può ottenere questo risultato in maniera relativamente semplice. Chiariamo prima alcuni termini: Le Entrate sono generate dalle vendite di servizi professionali veterinari e prodotti. Quanti più prodotti e servizi vendete, tanto maggiori saranno le entrate generate. I Costi sono distinti in fissi e variabili. I primi sono dati da voci come gli stipendi dello staff, le spese di acquisto delle apparecchiature (rimborsi di leasing o prestiti) e quelle associate all’edificio che ospita la clinica (riscaldamento, illuminazione, elettricità, acqua, manutenzione); i costi variabili sono generalmente legati alla fornitura dei servizi che vendete (farmaci, spese di laboratorio, materiali di bendaggio, ecc..). I costi variabili sono tali perché dipendono dal numero e dal tipo di servizi che vendete: quelli associati all’esecuzione di vaccinazioni di routine, ad esempio, saranno inferiori a quelli abbinati agli interventi chirurgici avanzati. Per riuscire ad influenzare il livello di entrate ed i costi, bisogna essere in grado di misurarli. Il modo migliore per farlo costituisce una parte della vostra pianificazione del budget. Il budget è una descrizione numerica dello stato di salute della vostra struttura. Un piano di budget è una descrizione scritta del modo in cui desiderate che sia la situazione finanziaria della vostra struttura nell’arco di un dato periodo di tempo – di solito un anno. In realtà, si tratta di una supposizione fondata del modo in cui pensate che si presenterà il vostro anno finanziario, sulla base della resa data in passato dalla struttura e di tutte le eventuali modifiche che volete mettere in atto in futuro, come iniziare ad utilizzare una nuova apparecchiatura nella quale avete investito, fornire nuovi servizi o assumere un nuovo membro dello staff. Facendo una pianificazione, iniziate a prendere il controllo delle vostre finanze invece di limitarvi a lasciare loro un’opportunità di crescita. Quando si pianifica un budget è importante coinvolgere in questo processo anche il vostro staff,

nonché condividere con loro i risultati ottenuti nell’arco dell’anno, perché tanto più conosceranno la situazione economica della vostra struttura, tanto meglio potranno contribuire ad aiutarvi a raggiungere i vostri scopi economici. Il vostro piano di budget deve comprendere: • Quante entrate dovete generare (per arrivare al punto di pareggio con i costi correnti) • Quante entrate volete generare (per pagare i costi e generare il profitto che volete) • I costi che prevedete • Come pianificare per generare le vostre entrate − Il numero di visite dei clienti al mese (anche alla settimana ed all’anno) necessari per ottenere il risultato voluto − Il valore medio dell’onorario per ogni contatto con il cliente (cioè la quantità di denaro che genererà in media ogni visita) necessario per arrivare ai risultati desiderati. Ciò è anche influenzato da: - il livello del vostro onorario - i vostri livelli di osservanza - i servizi venduti per visita al cliente - i prodotti venduti per visita al cliente • Come pianificare la gestione dei vostri costi, ad es. riducendoli mediante − Uso efficace delle apparecchiature − Controllo delle scorte di magazzino e del turn-over − Revisione degli accordi di leasing per le apparecchiature − Revisione dei prestiti Per essere efficace, il vostro budget avrà quindi bisogno di essere aggiornato e riconsiderato regolarmente (una volta alla settimana da parte del proprietario della struttura, una volta al mese per il resto dello staff) per tenerlo sotto controllo ed effettuare ogni eventuale correzione per rimanere in pista ed arrivare a raggiungere gli scopi previsti per l’anno. Oltre che non stilare e seguire un piano finanziario, uno dei più grandi errori che molti veterinari commettono è quello di non farsi pagare in modo appropriato i propri servizi. Sottovalutare o scontare le prestazioni ha l’effetto di ridurre le entrate della struttura, il che a sua volta riduce (o elimina) i profitti: ciò può significare che non riuscirete a trarre dalla vostra struttura il guadagno per vivere dopo aver sottratto tutti gli altri costi. Lo sconto NON attrae i clienti del tipo che volete avere – semplicemente, svaluta i vostri servizi e riduce le vostre entrate. Inoltre, genera più lavoro per voi, perché dovrete lavorare di più per ottenere ogni singolo euro che guadagnate.


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Molti veterinari credono che i clienti siano attratti dai prezzi bassi. Naturalmente, se questo è l’unico modo con cui essi possono differenziare il livello dei servizi della loro clinica da quello di qualcun altro, ciò potrebbe essere vero. Tuttavia, non è così che si sviluppa l’offerta di cure di qualità e servizi di qualità. Inoltre, ridurre i prezzi perché credete che ciò renderà felici i vostri clienti significa semplicemente insegnare loro che i servizi veterinari non valgono molto ed incoraggiarli ad andare in giro a cercare prezzi ancora più bassi. La sottovalutazione significa fondamentalmente dare ai vostri clienti del denaro togliendolo dalle vostre tasche e, in ultima analisi, ciò costituisce un suicidio professionale. Stabilire onorari professionalmente adeguati e farsi pagare in modo appropriato può fare una differenza enorme per le entrate generate dalla vostra

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struttura. Naturalmente, è importante che anche il vostro staff si faccia pagare nello stesso modo.

Riassunto Molte strutture veterinarie non sono ben gestite dal punto di vista economico, il che esita in profitti bassi o trascurabili ed in un’attività di impresa non sana. Una pianificazione accurata, abbinata al monitoraggio ed alla gestione dei risultati permette di controllare l’attività di impresa e vi consente di migliorare i suoi profitti. C. Jevring-Bäck, Feb 2008


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Top tips for great client communication (parts 1 and 2) Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma, Svezia

Communication is the sharing or exchange of information, ideas, or feelings. It is a complex learned skill that uses all the senses (sight, hearing, touch, smell and taste). COMMUNICATION is something that everyone does every day on many different levels and yet communication problems are the greatest cause of stress, job dissatisfaction, and disappointed clients in veterinary practice. Good communication is critically important because it is the foundation of a healthy business.

WHAT ARE THE SKILLS OF EFFECTIVE COMMUNICATION? Listening skills Listening is a core competence. People who cannot listen cannot relate: poor listening undermines the ability to communicate with others. Despite the fact that we spend around 45% of communication time listening, compared with 30% speaking, 16% reading and 9% writing, few people have received formal training in how to listen attentively. Attentive listening involves more than just sitting and doing nothing. Attentive listening is a complex psychological procedure involving interpreting and understanding the significance of both verbal and non-verbal messages and turning this into meaning in the mind. It is an active process and conveys respect. Attentive listening is critical for the effective exchange of information in a conversation. It is estimated that we use less than 25% of our listening powers in a typical exchange and ignore, forget, distort or misunderstand a staggering 75%. This is borne out by studies which show that medical doctors interviewing patients frequently interrupt them – often as early as 18 seconds in their opening statements – which results in frustration and information withholding (‘..because the doctor hasn’t time for me’) from the patient’s side. In veterinary practice, not listening attentively creates irritation (e.g. from not listening to the nurse who suggests a valuable time-saving technique), loses business (not hearing the client who mentions that Bonzo has intermittent diarrhoea, a condition which might respond to dietary or medical management), and may even be dangerous (not hearing the client who says that Fluffy is drinking more, which may mean diagnostic blood tests for renal disease are advisable before giving the anaesthetic for the dental you’re recommending).

Barriers to attentive listening Attentive listening is not easy. It requires commitment, energy and focus. There are also many barriers to listening not least of which is our own internal monologue which includes our own personal views, thoughts, and our agenda. What we hear and understand is largely based on personal experience and background. We have many preconceived notions and ideas so that we often hear what our mind thinks a person has said, not what they actually have said. We may have perceptions about the communicator and are more accepting of someone we like rather than someone who has different or conflicting views. In addition, we often choose to ignore or forget information that does not concur with our own beliefs. It is difficult to talk to somebody who is apparently not responding and may create feelings of confusion, discomfort and even anger on the part of the speaker that stops further communication. By using encouraging body language (such as nodding your head), eye contact, facial and auditory signals (‘Yes, I see’; ‘Mmmm, that’s interesting’) coupled with repeating or paraphrasing what the person has said (‘If I understand you correctly, you think that Tibbles...’; ‘Jim, from what you’ve just said, the problem with the current Xray system is...’) you indicate that you are listening, and that you follow and are interested in what the speaker is saying. On the telephone where people can’t see you nodding and agreeing with them, make agreeing noises (‘Yes’, ‘Ah-ha’, ‘I see...’ and so on) to show your interest. Clients also have barriers in their communication which are particularly relevant during the clinical consultation. For example, they may have: • Ideas and beliefs about the cause or effect of the illness their animal is displaying, and about health and what influences or contributes to it (eg. some cat owners believe it is healthier for their pet to eat a vegetarian diet) • Concerns and worries about what the symptoms might mean (‘Is this cancer?’) • Expectations about how the veterinarian will help them, and the outcomes that will be achieved from the visit (‘The vets on that TV programme could fix this problem’) • Effects on life: the effect that the animal’s illness has on their own life now and in the future • Feelings and emotions coupled to the breakdown of the relationship with the animal


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Voice and words

Use of written material and visual aids

In a face-to-face meeting less than 20% of the exchange depends on the words being spoken; most information for the receiver comes from non-verbal signals such as tone of voice, facial expression, eye contact, and body language. A cold, brusque voice is alienating, and a shrill, loud voice can be both irritating and wearing. The ideal voice is warm, friendly and fairly low-pitched. Voice is especially important on the telephone where the caller cannot see the person and makes a judgement from voice alone. Less than 15% of the impression made on the telephone comes from the words spoken. Smiling as you talk and using gestures positively influences voice quality, pitch, and speed of speech. As receiver you are using only your listening sense, so good listening skills become critical. Choice of words is also important. Jargon is off-putting and generally not understood by clients. Interestingly, many studies have shown that medical doctors not only use language that patients often do not understand, they actually appear to use it to control their patient’s involvement in the interview. Often clients are embarrassed to ask for explanations of terms they don’t understand, which means they can be very dependent on the nurse (or receptionist) to explain to them afterwards ‘What the doctor said’.

Visual aids are a very important part of communication between human beings because man is primarily a visual creature. Studies of patients visiting human medical doctors have shown that patients retain less than 10% of everything discussed in the consulting room immediately afterwards. Assuming our clients have the same retentive powers, there is clearly more we can do to get information across, and using written materials, models, and pictures can improve understanding and retention considerably.

Body language Body language is an integral part of face-to-face communication. It is generally an involuntary and therefore truthful indicator of what the speaker is actually thinking, whatever words he or she may be choosing to use. Communication research has shown that non-verbal messages tend to override verbal messages when the two are inconsistent or contradictory. Many individual components are involved in non-verbal communication, including posture, movement, proximity, direction of gaze, eye contact, gestures, facial expression, touch and physical appearance. Particularly important is eye contact.

Touch Although there are many complex social taboos surrounding touch and physical contact, touch is still a very important part of communication. A welcoming handshake or a comforting arm around the shoulders of a grieving client can say far more than words alone.

Smell The importance of smell is also underestimated particularly as part of the ‘first impressions’ a client gains of the practice. What impression does a client gain of a practice where the receptionist wears an overpowering scent, or the veterinarian smells unwashed, or the waiting area reeks of tom cat urine? After all, what are your reactions to the client who has powerful halitosis, or smells of drink, or owns a poodle soaked in scent?

CONCLUSION Communication is a complex process that uses all the five senses. It is something we learn from birth and yet need to constantly refine and improve to be able to run an effective business.

Adapted from: Effective communication: the vital link, Chapter 6 in Managing a Veterinary Practice, 2nd edition (2007), Caroline Jevring-Bäck with Erik Bäck, Elsevier, Oxford.


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I migliori suggerimenti per una grande comunicazione (parte 1 e 2) Caroline Jevring-Bäck BVetMed, MRCVS, Stoccolma (S)

La comunicazione è la condivisione o scambio di informazioni, idee o sentimenti. Si tratta di una capacità complessa ed appresa, che utilizza tutti i sensi (vista, udito, tatto, olfatto e gusto). La COMUNICAZIONE è un’attività che ognuno pratica ogni giorno a vari livelli differenti e ciò nonostante i problemi di comunicazione sono la prima causa di stress, insoddisfazione del lavoro e delusione dei clienti nelle strutture veterinarie. Una buona comunicazione ha un’importanza critica, perché è il fondamento della salute dell’attività di impresa.

miare tempo) o perdita di entrate (non ascoltare il cliente che dice che Bonzo ha una diarrea intermittente, una condizione che potrebbe rispondere ad un trattamento dietetico o medico) e può perfino essere pericoloso (non ascoltare il cliente che dice che Fluffy sta bevendo di più, il che può significare che prima di somministrare un anestetico per l’intervento di profilassi dentale che state suggerendo sarebbe bene effettuare un test ematochimico per escludere una nefropatia).

QUALI SONO LE CAPACITÀ DELLA COMUNICAZIONE EFFICACE?

Ascoltare con attenzione non è facile. Richiede impegno, energia e capacità di focalizzazione. Ci sono poi molte altre barriere che si oppongono all’ascolto, non ultimo il nostro stesso monologo interno che include i nostri punti di vista personali, i nostri pensieri e la nostra agenda. Quello che sentiamo e comprendiamo è in larga misura basato sulla nostra esperienza personale e sul nostro background. Abbiamo molte nozioni ed idee preconcette, per cui spesso udiamo quello che la nostra mente pensa che la persona abbia detto, e non quello che ha detto davvero. Possiamo avere delle percezioni circa il comunicatore e siamo maggiormente disposti ad accettare qualcuno che ci piace piuttosto che qualcuno che ha dei punti di vista diversi o conflittuali. Inoltre, spesso scegliamo di ignorare o dimenticare delle informazioni che non concordano con le nostre convinzioni. È difficile parlare a qualcuno che apparentemente non sta rispondendo e ciò può generare un senso di confusione, disagio e persino collera da parte di colui che parla, che interrompe ogni ulteriore comunicazione. Utilizzando un linguaggio del corpo incoraggiante (come annuire con la testa), il contatto oculare, i segnali facciali e uditivi (“si, vedo”; “Mmmm, questo è interessante”) unitamente al fatto di ripetere o parafrasare ciò che una persona ha detto (“se ho capito correttamente quello che intende, lei pensa che Tibbles…”: “Jim, in base a quello che hai detto, il problema con il nostro attuale sistema radiografico è …”) indicate che state ascoltando, seguite e siete interessati a ciò che l’oratore sta dicendo. Al telefono, dove le persone non possono vedervi annuire ed essere d’accordo con loro, emettete dei suoni che esprimano questi sentimenti (“Si”, “Ah-ha”, “Vedo…” e così via) per evidenziare il vostro interesse. I clienti trovano anche altre barriere alla comunicazione, che sono particolarmente rilevanti durante una visita clinica. Ad esempio, possono avere:

Capacità di ascolto L’ascolto è una competenza fondamentale. Le persone che non sanno ascoltare non sono capaci di stabilire delle relazioni: il cattivo ascolto mina la capacità di comunicare con gli altri. Nonostante il fatto che trascorriamo il 45% del tempo dedicato alla comunicazione ad ascoltare, in confronto al 30% dedicato a parlare, il 16% a leggere ed il 9% a scrivere, poche persone hanno ricevuto una preparazione formale per sapere come ascoltare con attenzione. L’ascolto con attenzione è qualcosa di più che limitarsi a stare seduti e non fare niente. L’ascolto con attenzione è una procedura psicologica complessa che coinvolge l’interpretazione e la comprensione del significato dei messaggi sia verbali che non verbali e la loro conversione a livello mentale in un particolare significato. Si tratta di un processo attivo che merita rispetto. L’ascolto con attenzione è di importanza critica per l’efficace scambio di informazioni in una conversazione. È stato stimato che in una tipica situazione di questo genere utilizziamo meno del 25% della nostra potenzialità di ascolto ed ignoriamo, dimentichiamo, distorciamo o comprendiamo in modo errato uno sconcertante 75%. Questo dato deriva da studi che hanno dimostrato che i medici umani che sono a colloquio con i propri pazienti, li interrompono frequentemente – già 18 secondi dopo che hanno iniziato a parlare – il che è causa di frustrazione e blocco dell’informazione (“… perché il dottore non ha tempo per me”). In medicina veterinaria, il fatto di non ascoltare attentamente è motivo di irritazione (ad es., se a non essere ascoltata è l’infermiera che suggerisce un’utile tecnica che consentirebbe di rispar-

Barriere che si oppongono all’ascolto con attenzione


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• Idee o convinzioni circa la causa o l’effetto della malattia che l’animale sta manifestando e circa la salute e ciò che la influenza o contribuisce a determinarla (ad es., alcuni proprietari di gatti sono convinti che per il loro animale sia più sana una dieta vegetariana) • Preoccupazioni ed angosce su ciò che i vari segni clinici possono significare (“Questo è un cancro?”) • Aspettative sul modo in cui il veterinario può aiutarli e sugli esiti che otterranno dalla visita (“I veterinari di quel programma TV saprebbero risolvere questo problema”) • Effetti sulla vita: l’effetto che la malattia dell’animale ha sulla loro vita ora ed in futuro • Sentimenti ed emozioni abbinati all’interruzione della relazione con l’animale.

Voce e parole In un incontro faccia a faccia, meno del 20% dello scambio dipende dalle parole che vengono dette. La maggior parte delle informazioni per il ricevente deriva da segnali non verbali come il tono di voce, l’espressione facciale, il contatto visivo ed il linguaggio del corpo. Una voce fredda e brusca tende ad allontanare, mentre un tono profondo e vibrante può essere irritante o fastidioso. La voce ideale è calda, amichevole, e con un tono abbastanza basso. La voce è importante soprattutto al telefono, dove chi chiama non può vedere l’interlocutore e deve basare il proprio giudizio esclusivamente sulla voce. Meno del 15% delle impressioni che si hanno al telefono deriva dalle parole dette. Sorridere mentre si parla ed utilizzare gesti che esprimano sentimenti positivi influisce sulla qualità e sul tono della voce e sulla velocità dell’eloquio. Come riceventi, state utilizzando soltanto il vostro senso dell’udito, così le buone capacità di ascolto diventano critiche. Anche la scelta delle parole è importante. Il gergo professionale determina un calo dell’attenzione ed in generale non viene compreso dai clienti. È interessante notare che molti studi hanno dimostrato che i medici umani non si limitano ad utilizzare un linguaggio che i pazienti spesso non comprendono, ma in realtà sembrano utilizzarlo per controllare il coinvolgimento dei loro pazienti nel colloquio. Spesso i clienti sono imbarazzati a chiedere la spiegazione di termini che non capiscono, il che significa che possono dipendere notevolmente dagli infermieri (o dagli addetti alla reception) che devono spiegare poi loro “Quello che ha detto il dottore”.

Il linguaggio corporeo Il linguaggio corporeo è parte integrante della comunicazione faccia a faccia. Generalmente è un indicatore involontario, e di conseguenza veritiero, di quello che colui che parla sta pensando davvero, indipendentemente dalle parole che sta scegliendo di utilizzare. La ricerca sulla comunicazione ha dimostrato che messaggi non verbali vengono a predominare su quelli verbali quando le due forme risultano incom-

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patibili o in contraddizione. Nella comunicazione non verbale sono coinvolte molte componenti individuali, come la postura, il movimento, la prossimità, la direzione dello sguardo, il contatto oculare, la gestualità, l’espressione facciale, il tocco e l’aspetto fisico. Risulta particolarmente importante il contatto oculare.

Uso di materiali scritti e di mezzi visivi I mezzi visivi sono una parte molto importante della comunicazione fra esseri umani, perché l’uomo è principalmente una creatura visiva. Gli studi condotti in ambito umano hanno dimostrato che i pazienti conservano meno del 10% di qualunque cosa venga discussa nella sala da visita immediatamente dopo aver lasciato il medico. Presumendo che i nostri clienti abbiano le stesse capacità di ritenzione, chiaramente possiamo fare di più per far arrivare il nostro messaggio ed utilizzando materiali scritti, modelli ed immagini possiamo migliorarne considerevolmente la comprensione e la ritenzione.

Tatto Il tatto ed il contatto fisico, pur essendo circondati da molti complessi tabù sociali, costituiscono ancora una parte molto importante della comunicazione. Una calorosa stretta di mano o un braccio confortante intorno alle spalle di un cliente addolorato possono dire molto di più delle semplici parole.

Olfatto Anche l’importanza dell’olfatto viene sottostimata, in particolare nell’ambito della “prima impressione” al momento dell’ingresso del cliente nella struttura. Quale idea si farà il cliente di una clinica in cui l’addetto alla reception indossa un profumo eccessivamente intenso, o il veterinario ha odore di non lavato, o la sala di attesa puzza di urina di gatto maschio?. Dopo tutto, quali sono le vostre reazioni davanti ad un cliente con una terribile alitosi, o che sa di alcool, o ha un cane barbone immerso nel profumo?

CONCLUSIONI La comunicazione è un processo complesso, che utilizza tutti i cinque sensi. È qualcosa che apprendiamo dalla nascita e ciò nonostante dobbiamo costantemente rifinire e migliorare per essere in grado di svolgere efficacemente la nostra attività.

Adattato da: Effective communication: the vital link, Chapter 6 in Managing a Veterinary Practice, 2nd edition (2007), Caroline Jevring-Bäck with Erik Bäck, Elsevier, Oxford


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Canine prostatic disease Jeanne Barsanti DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Georgia, USA

Hyperplasia Pathophysiology: Increase in epithelial cell number is more marked than the increase in epithelial cell size. Vascularity of the prostate is increased. Intraparenchymal fluid cysts develop. Hyperplasia requires the presence of the testes. Intraprostatic dihydrotestosterone is the hormonal mediator. Clinical Findings: Most affected dogs are asymptomatic. Hemorrhagic urethral discharge, hematuria, and/or difficult defecation are the most common signs. The prostate gland is non-painful and symmetrically enlarged. Urine is normal or contains blood. Semen is normal or hemorrhagic. On ultrasonography, the prostate may be diffusely hyperechoic with parenchymal cavities. The prostatic capsule is smooth. Any cavitary areas are typically well defined and smoothly marginated. In one study, 4 of 12 dogs with asymptomatic intraprostatic cysts detected by ultrasound had an asymptomatic UTI and all of these dogs had positive cultures of the same organism from prostatic cyst fluid. Thus, a culture of urine is indicated in all dogs with intraprostatic cysts. Treatment: Treatment of prostatic hyperplasia is only required if abnormal signs are present. The most effective treatment is castration, which will result in a 75% decrease in prostate size over 8-9 weeks. Medical therapies include estrogen, anitandrogens, and progestins. Products containing extracts of the saw palmetto plant, Serenoa repens, are widely advertised for prostatic hyperplasia in men. We were unable to document any beneficial or harmful effects of one such product in dogs with prostatic hyperplasia.

Prostatic Infection Pathophysiology: Infections occur predominantly in intact male dogs, but if infection is present prior to neutering, infection may persist. E. coli is the usual bacteria involved. Clinical Findings: With acute prostatitis and abscessation, anorexia, lethargy, and fever are usually noted. Most often there are no signs directly referable to the prostate gland with chronic prostatitis. The dog may be presented for recurrent episodes of cystitis. With a large abscess or abscesses, the dog may be presented with tenesmus or dysuria. Evidence of septic shock was noted in 10% of cases. On palpation, the prostate gland is usually abnormal with

abscessation: enlarged, asymmetric and variable in consistency. Hematuria, pyuria and bacteriuria are common in prostatic infections. A urine culture on a sample collected by cystocentesis or catheterization should be performed. In acute prostatitis and abscessation, a neutrophilic leukocytosis with or without a left shift often exists. In chronic prostatitis, the WBC is usually normal. Blood chemistry is normal with chronic prostatitis but bilirubin, alkaline phosphatase, and bile acids may be increased with acute infections and abscessation. Hypoglycemia was noted in 40% of abscess cases. Such findings are suggestive of gram negative septicemia. Assessment of prostatic fluid is essential to diagnose chronic prostatitis. Prostatic fluid is preferably collected by ejaculation or by ultrasound guided aspiration of intraprostatic cysts. Survey radiographs may be normal or show a loss of detail at the margins of the prostate gland in acute prostatitis. The prostate gland is usually radiographically normal with chronic prostatitis, but a few cases may have granular parenchymal mineralization. Prostatic enlargement that can be asymmetric or irregular in outline may be evident with abscessation. The sublumbar lymph nodes may be enlarged. With acute and chronic prostatitis, the prostate gland may have focally to diffusely increased echogenicity on ultrasonography. In chronic prostatitis, multifocal mineralization may also be seen, although mineralization is more common with neoplasia. With abscessation, the prostate gland is usually asymmetric and hyperechoic with parenchymal hypoechoic cavities with distal enhancement. Treatment of Acute Prostatitis: An antibiotic, based on urine culture and sensitivity, is administered for 28 days. Since acute infections may become chronic, reexamination is performed 7 days after completion of antibiotic therapy. Treatment of Chronic Prostatitis: Chronic bacterial prostatitis is very difficult to treat effectively because of the blood-prostatic fluid barrier. The appropriate choice of an antimicrobial agent depends on the both the antimicrobial sensitivity of the infecting organism and the ability of the antimicrobial to penetrate prostatic acini. Antimicrobials, which have been shown to have prostatic penetrance in dogs include chloramphenicol, clindamycin, difloxacin, enrofloxacin, erythromycin, orbifloxacin, and trimethoprim. Once a drug is chosen, it should be continued for at least 6 weeks. Castration is beneficial. Urine and/or prostatic fluid are recultured 7 days and 1 month after discontinuing antibi-


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otics to ensure the infection has been eliminated (not merely suppressed). Treatment of Abscessation: Surgical drainage is the treatment of choice. Castration is recommended. Dogs with abscessation must receive antibiotic therapy. If the dog is systemically ill, intravenous antimicrobials are used initially. The antibiotic choice is based on results of cytology (gram negative or positive rods or cocci), culture and sensitivity, and the presence or absence of bacteremia. After improvement of clinical signs, the dog is managed as a case of chronic bacterial prostatitis. Continued prostatic infection and recurrent urinary tract infections are common despite surgical treatment. Urinalysis and urine culture are evaluated monthly for several months after initial therapy is discontinued and then every 3 months for at least a year. The prostate gland should be re-palpated and re-examined by ultrasound at monthly intervals until abscess resolution is confirmed.

Neoplasia Pathophysiology: The most common neoplasm is carcinoma which occurs in both intact and neutered male dogs. Prostatic carcinoma tends to metastasize through the external and internal iliac lymph nodes to vertebral bodies as well as to the lungs. Cysts, abscesses, and areas of hemorrhage can be found with neoplasia. Clinical Findings: Dogs with carcinoma have a mean age of 9-10 years. In most cases, the prostate will be enlarged and asymmetric with increased firmness. It is often non-movable. In determining whether the prostate is enlarged or not, the examiner must consider the dog’s reproductive status. Hematuria is common. Atypical cells are occasionally found in urine sediment. Approximately 50% of affected

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dogs have an increase in serum alkaline phosphatase. Asymmetrical, irregular prostatomegaly may be evident on survey abdominal radiography. Occasionally prostatic carcinomas are associated with multifocal or granular poorly-defined mineral densities. The lumbar vertebral bodies and the pelvic bones should be examined for areas of lysis or proliferative changes. Metastasis may also occur to other vertebral bodies, long bones, scapula, ribs, and digits. Thoracic radiographs are indicated. Ultrasonography usually shows focal or multifocal hyperechoic parenchyma with asymmetry and irregular prostatic outline. Echogenicity tends to be very heterogeneous. There may be multifocal irregularly distributed areas of mineralization. If metastasis is not evident by radiography, a presumptive diagnosis of neoplasia should always be confirmed by aspiration or biopsy under ultrasound guidance. Treatment: Most dogs with prostatic carcinoma are euthanized within two months of diagnosis because of progressive disease. However, one case survived 19 months without therapy. Therefore the decision in regard to euthanasia should be based on the animal’s quality of life. Castration is not beneficial; however, lack of decrease in prostatic size after castration may help differentiate neoplasia from other prostatic diseases. Piroxicam at 0.3 mg/kg/day may improve quality of life in dogs with mild to moderate signs. Combining cisplatin with piroxicam to improve survival time has been reported. More Detailed Information

Barsanti JA: Genitourinary Tract Infections. In Infectious Diseases of the Dog and Cat, 3rd Edition, edited by CE Greene, Saunders/Elsivier Co., St. Louis, MO, pp 935-961, 2006. Barsanti JA: Management of Prostatic Diseases. BSAVA Manual of Nephrology/Urology, edited by J. Elliott, BSAVA, London, England, in press 2006.


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Patologie prostatiche nel cane Jeanne Barsanti DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Professor, Georgia, USA

Iperplasia Fisiopatologia: L’aumento del numero delle cellule epiteliali è più marcato dell’incremento delle loro dimensioni. La vascolarizzazione della prostata è aumentata. Si sviluppano cisti fluide intraparenchimali. L’iperplasia richiede la presenza dei testicoli. Il mediatore ormonale è il diidrotestoterone intraprostatico. Riscontri clinici: La maggior parte dei cani colpiti è asintomatica. I segni clinici più comuni sono rappresentati da scolo uretrale emorragico, ematuria e/o defecazione difficoltosa. La prostata è non dolente e simmetricamente ingrossata. L’urina è normale o contiene sangue. Lo sperma è normale o emorragico. All’esame ecografico, la ghiandola può apparire diffusamente iperecogena, con cavità parenchimali. La capsula prostatica è liscia. Qualsiasi area cavitaria risulta tipicamente ben definita e con margini lisci. In uno studio, quattro cani su dodici con cisti intraprostatiche asintomatiche individuate mediante ecografia erano affetti da una UTI asintomatica e in tutti questi animali si è avuto un riscontro positivo agli esami colturali per lo stesso microrganismo dal fluido delle cisti prostatiche. Quindi, in tutti i cani con cisti intraprostatiche è indicata l’urocoltura.

Trattamento Il trattamento dell’iperplasia prostatica è necessario soltanto se sono presenti segni anormali. La terapia più efficace è la castrazione, che esita in una diminuzione del 75% delle dimensioni della ghiandola nell’arco di 8-9 settimane. La terapia medica consiste nella somministrazione di estrogeni, antiandrogeni e progestinici. Nell’uomo, per il trattamento dell’iperplasia prostatica sono ampiamente pubblicizzati i prodotti che contengono estratti di una pianta, la Serenoa repens (saw palmetto). Non siamo in grado di documentare alcun effetto benefico o dannoso di un prodotto di questo tipo nei cani con la stessa malattia.

Infezione prostatica Fisiopatologia: Le infezioni si verificano principalmente nei cani maschi interi, ma se sono presenti prima della castrazione possono persistere anche dopo. Il batterio solitamente coinvolto è E. coli.

Riscontri clinici: Nella prostatite acuta e nell’ascessualizzazione, di solito si notano anoressia, letargia e febbre. Nella maggior parte dei casi di prostatite cronica non vi sono segni direttamente riferibili alla ghiandola. Il cane può essere portato alla visita a causa di ricorrenti episodi di cistite. In presenza di un ascesso di grandi dimensioni o di ascessi multipli, l’animale può presentare tenesmo o disuria. Nel 10% dei casi sono stati notati segni di shock settico. Alla palpazione, in caso di ascessualizzazione la ghiandola risulta solitamente anormale: ingrossata, asimmetrica e di consistenza variabile. Nelle infezioni prostatiche sono comuni ematuria, piuria e batteriuria. È necessario effettuare un’urocoltura utilizzando un campione prelevato mediante cistocentesi o cateterizzazione. Nella prostatite acuta o nell’ascessualizzazione spesso è presente una leucocitosi neutrofila con o senza spostamento a sinistra. Nella prostatite cronica, i leucociti di solito sono normali. Il profilo biochimico è normale nella prostatite cronica, mentre nelle infezioni acute e nelle ascessualizzazioni si possono riscontrare aumenti di bilirubina, fosfatasi alcalina ed acidi biliari. Nel 40% dei casi con ascessi è stata notata un’ipoglicemia. Questi riscontri sono indicativi di una setticemia da batteri Gram-negativi. Per la diagnosi di prostatite cronica è essenziale la valutazione del fluido prostatico. Quest’ultimo va probabilmente prelevato mediante eiaculazione oppure per aspirazione sotto guida ecografica da cisti intraprostatiche. Le radiografie in bianco possono essere normali oppure mostrare una perdita di dettaglio a livello dei margini della ghiandola nella prostatite acuta. La prostata di solito è radiograficamente normale nell’infiammazione cronica, ma in pochi casi si può osservare una mineralizzazione granulare del parenchima. Nell’ascessualizzazione può essere evidente un ingrossamento prostatico, che può avere profilo asimmetrico o irregolare. Si può avere un aumento di dimensioni dei linfonodi sottolombari. All’ecografia, nella prostatite acuta e cronica la ghiandola può presentare aumenti focali o diffusi dell’ecogenicità. Nella prostatite cronica, si può anche osservare una mineralizzazione multifocale, che però è più comune in caso di neoplasia. Nell’ascessualizzazione, la prostata di solito è asimmetrica ed iperecogena, con cavità ipoecogene parenchimali con accentuazione distale. Trattamento della prostatite acuta: Si somministra per 28 giorni un antibiotico scelto in base ai risultati dell’uro-


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coltura e degli antibiogrammi. Dal momento che le infezioni acute possono diventare croniche, il soggetto viene riesaminato sette giorni dopo aver portato a termine la terapia antibiotica. Trattamento della prostatite cronica: La prostatite batterica cronica è molto difficile da trattare efficacemente, a causa della barriera esistente fra sangue e fluido prostatico. La scelta appropriata di un agente antimicrobico dipende sia dagli esiti degli antibiogrammi del microrganismo infettante che dalla capacità del principio attivo scelto di penetrare negli acini prostatici. Gli antimicrobici che si sono dimostrati dotati di penetrazione prostatica nel cane sono il cloramfenicolo, la clindamicina, il difloxacin, l’enrofloxacin, l’eritromicina, l’orbifloxacin ed il trimethoprim. Una volta scelto il farmaco, bisogna continuare a somministrarlo per almeno sei settimane. La castrazione risulta utile. La coltura dell’urina e/o del fluido prostatico viene ripetuta a distanza di sette giorni e di un mese dalla sospensione degli antibiotici, per assicurarsi che l’infezione sia stata eliminata (e non solo soppressa). Trattamento dell’ascessualizzazione: Il trattamento d’elezione è il drenaggio chirurgico. Si raccomanda la castrazione. I cani con ascessualizzazione devono essere sottoposti ad una terapia antibiotica. Se l’animale presenta una malattia sistemica, all’inizio si impiegano agenti antimicrobici per via endovenosa. La scelta dell’antibiotico è basata sui risultati degli esami citologici (forme bastoncellari o cocciche, Gram-negative o Gram-positive), sugli esami colturali e sugli antibiogrammi, e sulla presenza o assenza di batteriemia. Dopo il miglioramento dei segni clinici, il cane viene trattato come un caso di prostatite batterica cronica. L’infezione prostatica protratta e le infezioni ricorrenti del tratto urinario sono comuni nonostante il trattamento chirurgico. L’analisi dell’urina e l’urocoltura vengono ripetute con cadenza mensile per parecchi mesi dopo la sospensione della terapia iniziale e poi ogni tre mesi per almeno un anno. La prostata deve essere riesaminata mediante palpazione ed ecografia ad intervalli mensili fino a che non si ha la conferma della risoluzione dell’ascesso.

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Riscontri clinici: I cani con carcinoma hanno un’età media di 9-10 anni. Nella maggior parte dei casi, la prostata risulta ingrossata ed asimmetrica, con un aumento della durezza. Spesso non è mobile. Per determinare se la ghiandola è ingrossata o meno, l’esaminatore deve considerare lo status riproduttivo del cane. È comune l’ematuria. Nel sedimento urinario occasionalmente si riscontrano cellule atipiche. Il 50% circa dei cani colpiti mostra un incremento dei livelli sierici di fosfatasi alcalina. Nelle radiografie dell’addome senza mezzo di contrasto può essere evidente una prostatomegalia aspecifica ed irregolare. Occasionalmente, i carcinomi prostatici sono associati a radiopacità minerali multifocali o granulari scarsamente definite. I corpi vertebrali lombari e le ossa del bacino vanno esaminati alla ricerca di aree di lisi o alterazioni proliferative. Si possono avere metastasi anche a carico di altri corpi vertebrali, ossa lunghe, scapole, costole e dita. È indicato l’esame radiografico del torace. L’ecografia di solito mostra un parenchima iperecogeno focale o multifocale con asimmetria ed irregolarità del profilo prostatico. L’ecogenicità tende ad essere molto eterogenea. Possono essere presenti aree multifocali irregolarmente distribuite di mineralizzazione. In mancanza di segni radiografici di metastasi, un sospetto diagnostico di neoplasia deve sempre essere confermato mediante aspirazione o biopsia sotto guida ecografica. Trattamento: La maggior parte dei cani con carcinoma prostatico viene soppressa eutanasicamente entro due mesi dalla diagnosi a causa della progressione della malattia. Tuttavia, un caso è sopravvissuto 19 mesi senza terapia. Di conseguenza, la decisione relativa alla soppressione deve essere presa basandosi sulla qualità della vita dell’animale. La castrazione non è utile; tuttavia, la mancanza di diminuzione delle dimensioni della prostata dopo l’intervento può contribuire a differenziare la neoplasia da altre malattie prostatiche. Il piroxicam, alla dose di 0,3 mg/kg/die può migliorare la qualità della vita dei cani con segni clinici lievi o moderati. È stato riferito un miglioramento del tempo di sopravvivenza grazie alla combinazione di cis-platino e piroxicam.

Neoplasia Per maggiori informazioni Fisiopatologia: La neoplasia più comune è il carcinoma, che si verifica sia nei cani maschi interi che in quelli sterilizzati. Il carcinoma prostatico tende a dare origine a metastasi attraverso i linfonodi iliaci esterni ed interni fino ai corpi vertebrali ed ai polmoni. Insieme alla neoplasia si possono riscontrare cisti, ascessi ed aree di emorragia.

Barsanti JA: Genitourinary Tract Infections. In Infectious Diseases of the Dog and Cat, 3rd Edition, edited by CE Greene, Saunders/Elsivier Co., St. Louis, MO, pp 935-961, 2006. Barsanti JA: Management of Prostatic Diseases. BSAVA Manual of Nephrology/Urology, edited by J. Elliott, BSAVA, London, England, in press 2006.


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Canine urolithiasis Jeanne Barsanti DVM, MS, DACVIM (Specialty of Internal Medicine), Josiah Meigs Distinguished Teaching Professor Emerita The University of Georgia, Athens, GA

Uroliths form because the amount of the crystal involved exceeds its solubility in urine. Characteristics of urine that affect solubility include concentration of the crystal, urine pH, presence of crystallization inhibitors and promoters, and the proteinaceous matrix. The major questions related to urolithiasis are what type of urolith is present and where uroliths are located.

Clinical Signs Most nephroliths produce no clinical signs. Occasionally nephroliths cause hematuria or vague malaise. If bilateral, nephroliths can result in chronic renal failure. Most ureteroliths are also asymptomatic. Possible signs are abdominal pain, vomiting, or hematuria. If a ureterolith causes prolonged partial obstruction, hydroureter and hydronephrosis result. Some cystoliths are asymptomatic. Other cystoliths produce dysuria and/or hematuria. Urethral calculi are the predominant cause of urethral obstruction with the most prominent sign being dysuria.

Diagnosis Uroliths are diagnosed by palpation or by radiography/ ultrasonography. The type of urolith is determined by quantitative stone analysis. An educated guess as to the type of urolith can be made by considering signalment, history of previous stone formation, urinalysis (especially urine pH), urine culture, serum calcium concentration, and radiodensity.

Therapy If calculi are confined to the bladder and are smaller than the diameter of the urethra, they can be removed by urohydropulsion. Undersaturation of urine with the mineral components of the urolith will prompt dissolution. Because uroliths must be bathed in urine for dissolution, dissolution is most successful for cystoliths, requiring approximately 2-4 months. Nephroliths may be dissolved if renal function is adequate in the affected kidney as determined by excretory urography. A longer time is required to dissolve nephroliths (mean for struvite nephroliths is 6 months). Animals that are being treated to dissolve calculi must be reevaluated during therapy with CBC, biochemical profile, urinalysis, urine culture,

and radiography. The evaluations are performed at 4 week intervals. Therapy and these evaluations are continued at least 4 weeks beyond the last radiographic evidence of uroliths. Uroliths tend to recur. A general recommendation to prevent recurrence is to increase water intake.

Struvite (Magnesium Ammonium Phosphate) Uroliths Pathophysiology: Struvite crystals are found in urinalyses from normal dogs because dogs excrete magnesium, ammonium, and phosphate. The most common etiology of urolith formation is urinary tract infection with bacteria that produce urease (staphylococci, Proteus spp) causing urine alkalinization. Female dogs have a higher incidence than males. Struvite uroliths can affect any age animal. Sterile struvite uroliths occur occasionally. The stone should be cultured when urine is sterile. Dissolution of Infection Induced Struvite Uroliths: Dissolution requires control of infection with an appropriate antimicrobial and reduction of urine concentrations of ammonium, magnesium, and phosphate usually by diet. Canine s/d (Hills Co., Topeka, KS) is formulated for struvite urolith dissolution. Prevention of Recurrence of Infection Associated Struvite Uroliths: It is most important to monitor for infection. A urinalysis and urine culture should be performed one week after discontinuing antibiotics and every month thereafter for 3 months. The owner should monitor urine pH several times a week on urine collected in the morning prior to feeding. If the owner notes urine pH > 7.0 for more than 3 days in a row, the owner should return the pet for urinalysis and urine culture.

Calcium Oxalate Uroliths Pathophysiology: Hypercalciuria is thought to be the important factor in formation. Most affected dogs are normocalcemic. However, hypercalciuria may be secondary to hypercalcemia. Medical Therapy: Calcium oxalate uroliths cannot be dissolved. Calcium oxalate cystoliths may be able to be removed by urohydropulsion or cystoscopy. Prevention of Recurrence: If the dog is hypercalcemic, it is most important to diagnose and treat the cause.


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Acidifying diets should not be used. Diets designed for prevention of calcium oxalate stones, diets designed for renal failure, or high fiber diets can be fed. Hydrochlorothiazide (2-4 mg/kg every 12 hours) has been shown to reduce calciuria in dogs, probably by increasing calcium reabsorption. Thiazide diuretics should never be used in animals which are hypercalcemic and serum calcium should be monitored weekly for the first few weeks. Citrates chelate with calcium to form soluble salts. Citrates also alkalinize urine. Potassium citrate is usually used. A urine pH of 7.0 suggests that adequate urine citrate concentrations have been achieved. Salt should not be used to stimulate thirst, since salt increases urine calcium excretion. Once a preventative regimen is established, the dog should be reevaluated every 3-6 months with a urinalysis and survey abdominal radiographs to detect calculi while they are small and removable by urohydropulsion

Urate Uroliths Pathophysiology: 90% of urate calculi are ammonium urate. Dalmatians (and probably bulldogs) are genetically predisposed to urate uroliths. Urate uroliths are most commonly detected in males and are most frequent between 3-6 years. The ability of the liver of Dalmatians to oxidize uric acid to allantoin is intermediate between other breeds and humans. This leads to a urine uric acid concentration that is approximately 10 times the concentration in other breeds and results in urate crystals in urine of normal Dalmatians. Only a small percentage of Dalmatians develop calculi, indicating that other factors are important. The major cause of urate uroliths in other breeds is portovascular shunt or, more rarely, hepatic dysfunction. Dissolution of Urate Uroliths Unassociated with Portovascular Shunts: Allopurinol, alkalinizing the urine, modifying the diet, and increasing water intake are used. Allopurinol decreases the formation of urate by inhibiting xanthine oxidase which normally converts xanthine to uric acid. The dosage is 30 mg/kg/day divided into 2 or 3 doses. Urine alkalinization is usually accomplished with sodium bicarbonate or by diet. The dosage of sodium bicarbonate should maintain a urine pH of 7.0-7.5. The goal of dietary modifi-

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cation is to reduce uric acid intake which is primarily contained in purine containing glandular organs (e.g. kidney, liver), to promote urine alkalinization, and to promote diuresis. Diets designed for renal failure can be used. Treatment of Urate Uroliths Associated with Portovascular Shunts: Surgical correction of the shunt should be performed. Prevention of Recurrence: Urine alkalinization is recommended. Canine u/d can be fed. Dilated cardiomyopathy has been reported in Dalmatians eating u/d for longer than 6 months (an average of 33 months). Alternatively, allopurinol can be used at 10-20mg/kg/day divided into two doses. Appropriate therapy can be determined by monitoring 24 hour urine urate excretion with a goal of 275-325 mg of urate excreted in 24 hours. If 24 hour collections cannot be performed, urine urate/urine creatinine ratios can be used. A reduction in urine urate/urine creatinine ratio from 0.5-0.8 pre-treatment to 0.25 to 0.3 post-treatment is recommended. Recurrence was reported in 30% of dogs despite preventative measures. Dogs with urate urolithiasis should be examined every 3 months with a urinalysis and radiographs and/or ultrasound to detect uroliths when small and removable by urohydropulsion.

Cystine Uroliths Pathophysiology: Affected dogs have a renal reabsorptive defect for cystine. Predisposed sex/breeds are male dachshunds and English bulldogs. Dissolution: Diet (canine u/d) and administration of thiola are used. The dosage of N-(2-mercaptopropionyl)-glycine (MPG; thiola) is 15 mg/kg per os every 12 hours. One reported side effect is nonpruritic vesicular skin lesions. Dosage reduction can lead to resolution of skin lesions. Another is Coomb’s positive regenerative anemia. Prevention: MPG is used in sufficient quantity to keep the urine cystine concentration below 200 mg/L. If urine cystine cannot be measured, MPG is given at 30 mg/kg/day. Sodium bicarbonate or potassium citrate can be used to alkalinize the urine. Urine pH should be maintained at about 7.5. Alternatively, a low protein diet that promotes alkaline urine (renal failure diet) can be fed.


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Urolitiasi nel cane Jeanne Barsanti DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Professor, Georgia, USA

Gli uroliti si formano perché la quantità di cristalli coinvolti supera la loro solubilità nell’urina. Le caratteristiche urinarie che influiscono sulla solubilità sono rappresentate da concentrazione dei cristalli, pH urinario, presenza di inibitori e promotori della cristallizzazione e matrice proteinacea. In caso di urolitiasi, le principali domande da porsi riguardano il tipo di urolita presente e la sua localizzazione.

Segni clinici La maggior parte degli uroliti renali non determina alcun segno clinico. Occasionalmente, i nefroliti causano ematuria o vago malessere. Se sono bilaterali, possono esitare in un’insufficienza renale cronica. Anche la maggior parte degli ureteroliti è asintomatica. I possibili segni clinici sono rappresentati da dolore addominale, vomito o ematuria. Se un ureterolita causa un’ostruzione parziale prolungata, si hanno idrouretere o idronefrosi. Alcuni cistoliti sono asintomatici. Altri determinano disuria e/o ematuria. I calcoli uretrali sono la causa predominante di ostruzione dell’uretra, il cui segno più accentuato è la disuria.

Diagnosi Gli uroliti vengono diagnosticati mediante palpazione o esame radiografico/ecografico. Il tipo viene determinato attraverso l’analisi quantitativa del calcolo. È possibile ipotizzare su basi razionali il tipo di urolita presente, tenendo in considerazione i dati relativi a segnalamento, anamnesi di precedente formazione di calcoli, analisi dell’urina (soprattutto pH urinario), urocoltura, concentrazioni sieriche di calcio e radiopacità.

Terapia Se i calcoli sono limitati alla vescica e sono più piccoli del diametro dell’uretra, possono venire rimossi mediante uroidropulsione. L’insaturazione dell’urina da parte delle componenti minerali dell’urolita ne favorisce la dissoluzione. Poiché i calcoli devono essere immersi nell’urina perché questo avvenga, la dissoluzione ha successo soprattutto nel caso dei cistoliti e richiede approssimativamente due-quattro mesi. I nefroliti possono venire disciolti se la funzione rena-

le è adeguata nel rene colpito, così come determinato mediante urografia escretoria. La dissoluzione dei nefroliti richiede un tempo più prolungato (valore medio per i calcoli di struvite pari a 6 mesi). Durante la terapia, gli animali che vengono trattati per ottenere la dissoluzione dei calcoli devono essere rivalutati mediante esame emocromocitometrico completo, profilo biochimico, analisi dell’urina, urocoltura e radiografia. Gli esami si effettuano ad intervalli di quattro settimane. La terapia e queste valutazioni devono continuare per almeno quattro settimane dopo l’ultimo riscontro radiografico di uroliti. Gli uroliti tendono a recidivare. Una raccomandazione generale per prevenire questo problema è quella di aumentare l’assunzione di acqua.

Uroliti di struvite (Magnesio Ammonio Fosfato) Fisiopatologia: I cristalli di struvite si trovano eseguendo l’analisi dell’urina prelevata da cani normali, perché questi animali eliminano magnesio, ammonio e fosfato. L’eziologia più comune della formazione degli uroliti è l’infezione del tratto urinario da parte di batteri ureasi-produttori (stafilococchi, Proteus spp.) che determina un’alcalinizzazione dell’urina. Nelle cagne l’incidenza è più elevata che nei maschi. I calcoli di struvite possono colpire animali di qualsiasi età. Occasionalmente si riscontrano uroliti di struvite sterili. Quando l’urina è sterile, si deve effettuare la coltura del calcolo. Dissoluzione degli uroliti da struvite indotti da infezione: La dissoluzione richiede il controllo dell’infezione con un appropriato agente antimicrobico e la riduzione delle concentrazioni urinarie di ammonio, magnesio e fosfato, ottenuta solitamente agendo sulla dieta. La Canine s/d (Hill’s Co., Topeka, KS) è formulata per ottenere la dissoluzione degli uroliti di struvite. Prevenzione delle recidive degli uroliti di struvite associati ad infezione: È della massima importanza monitorare l’infezione. Bisogna effettuare un’analisi dell’urina ed un’urocoltura una settimana dopo la sospensione degli antibiotici e poi ogni mese per tre mesi. Il proprietario deve monitorare il pH urinario più volte alla settimana su campioni di urina prelevati al mattino prima dell’assunzione del cibo. Se nota un valore > 7,0 per più di tre giorni di seguito, deve riportare l’animale per un’analisi dell’urina ed un’urocoltura.


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Uroliti di ossalato di calcio Fisiopatologia: Si ritiene che il fattore importante per la formazione di questi calcoli sia l’ipercalciuria. I cani maggiormente colpiti sono normocalcemici. Tuttavia, l’ipercalciuria può essere secondaria ad ipercalcemia. Terapia medica: Gli uroliti di ossalato di calcio non possono essere disciolti. I cistoliti di questo tipo possono venire rimossi mediante uroidropulsione o cistoscopia. Prevenzione delle recidive: Se il cane è ipercalcemico, è della massima importanza diagnosticare e trattare la causa. Non si devono utilizzare diete acidificanti. Si possono utilizzare le diete studiate per la prevenzione dei calcoli di ossalato di calcio, quelle messe a punto per l’insufficienza renale o quelle con un elevato tenore di fibra. È stato dimostrato che l’idroclorotiazide (2-4 mg/kg ogni 12 ore) riduce la calciuria nel cane, probabilmente aumentando il riassorbimento del calcio. I diuretici tiazidici non devono mai essere utilizzati in animali ipercalcemici e bisogna monitorare la calcemia con cadenza settimanale per le prime settimane. I citrati chelano il calcio per formare sali solubili. Inoltre, alcalinizzano l’urina. Di solito si utilizza il citrato di potassio. Il pH urinario di 7,0 suggerisce che siano state ottenute adeguate concentrazioni urinarie di citrato. Non si deve utilizzare il sale per stimolare la sete, perché questo aumenta l’escrezione di calcio attraverso l’urina. Una volta stabilito un regime di prevenzione, il cane deve essere rivalutato ogni 3-6 mesi mediante analisi dell’urina e radiografia dell’addome senza mezzo di contrasto, per individuare i calcoli quando sono ancora piccoli e suscettibili di rimozione mediante uroidropulsione.

Uroliti di urati Fisiopatologia: Il 90% dei calcoli di urati è costituito da urato di ammonio. I dalmata (e probabilmente i bulldog) sono generalmente predisposti alla formazione di questo tipo di uroliti. Nella maggior parte dei casi questi vengono identificati in soggetti maschi e sono più frequenti fra tre e sei anni. La capacità del fegato dei dalmata di ossidare l’acido urico in allantoina è intermedia fra altre razze e l’uomo. Ciò porta ad una concentrazione urinaria di acido urico pari a circa 10 volte quella riscontrata in altre razze ed esita nella presenza di cristalli di urati nell’urina di dalmata normali. Solo una piccola percentuale dei cani di questa razza sviluppa i calcoli, il che indica che sono importanti anche altri fattori. La causa principale degli uroliti da urati in altre razze è lo shunt portovascolare o, più raramente, la disfunzione epatica. Dissoluzione degli uroliti da urati non associati a shunt portovascolari: Si utilizzano l’allopurinolo, l’alcalinizzazione dell’urina, la modificazione della dieta e l’aumento dell’assunzione di acqua. L’allopurinolo riduce la formazione di urati inibendo la xantina-ossidasi, che normalmente converte la xantina in acido urico. Il dosaggio è di 30

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mg/kg/die suddivisi in tre somministrazioni. L’alcalinizzazione dell’urina di solito si ottiene con bicarbonato di sodio oppure agendo sulla dieta. Il dosaggio del bicarbonato di sodio deve mantenere il pH urinario di 7,0 – 7,5. Lo scopo della modificazione della dieta è quello di ridurre l’assunzione di acido urico, che è presente principalmente negli organi ghiandolari contenenti purina (ad es., rene, fegato) per promuovere l’alcalinizzazione urinaria e quindi la diuresi. Si possono utilizzare le diete messe a punto per l’insufficienza renale. Trattamento degli uroliti da urati associati a shunt portovascolari: Si deve effettuare la correzione chirurgica degli shunt. Prevenzione delle recidive: Si raccomanda l’alcalinizzazione dell’urina. Si può impiegare la dieta canine u/d. Nei dalmata che venivano alimentati con questa dieta per più di 6 mesi (in media 33 mesi) è stata segnalata una miocardiopatia dilatativa. In alternativa, si può usare l’allopurinolo alla dose di 10-20 mg/kg/die suddivisi in due somministrazioni. La terapia appropriata può venire determinata con il monitoraggio dell’escrezione urinaria di urati nell’arco delle 24 ore, cercando di ottenere un valore di questo parametro pari a 275-325 mg. Se non è possibile eseguire la raccolta delle urine delle 24 ore, si può impiegare il rapporto fra i livelli urinari di urati e creatinina. Si raccomanda una riduzione di tale rapporto da 0,5-0,8 pretrattamento a 0,25-0,3 post-trattamento. Nel 30% dei cani sono state segnalate delle recidive, nonostante l’attuazione di misure preventive. I cani con urolitiasi da urati devono essere esaminati ogni tre mesi mediante analisi dell’urina e radiografie e/o ecografie, per individuare gli uroliti quando sono ancora piccoli e suscettibili di rimozione mediante uroidropulsione.

Uroliti di cistina Fisiopatologia: I cani colpiti presentano un difetto di riassorbimento renale della cistina. Il sesso e le razze predisposti sono i maschi di razza bassotto ed english bulldog. Dissoluzione: Si utilizzano la dieta (canine u/d) e la somministrazione di N-(2-mercaptopriopionil)-glicina (MPG). Il dosaggio di quest’ultima è di 15 mg/kg per os ogni 12 ore. Un effetto collaterale segnalato in letteratura è rappresentato da lesioni cutanee vescicolari non pruriginose. La riduzione del dosaggio può portare alla risoluzione di tali lesioni. Un altro è l’anemia rigenerativa Coomb’s positiva. Prevenzione: La MPG viene utilizzata in quantità sufficiente a mantenere la concentrazione urinaria di cistina al di sotto di 200 mg/l. Se non è possibile effettuare la misurazione della cistina urinaria, la MPG viene impiegata alla dose di 30 mg/kg/die. Per alcalinizzare l’urina si possono usare il bicarbonato di sodio o il citrato di potassio. Il pH urinario va mantenuto pari a circa 7,5. In alternativa, gli animali possono essere alimentati con una dieta a basso tenore proteico che promuova la formazione di urina alcalina (dieta da insufficienza renale).


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Urinary incontinence Jeanne Barsanti DVM, MS, DACVIM (Specialty of Internal Medicine), Josiah Meigs Distinguished Teaching Professor Emerita The University of Georgia, Athens, GA

Physiology of Micturition Normal micturition requires storage and emptying phases. During the storage phase, the bladder slowly fills via the ureters as the kidneys produce urine. The detrusor muscle of the bladder adjusts to filling by stretching with little increase in intravesicular pressure. The sympathetic system facilitates detrusor relaxation via beta receptors. Both an internal (smooth muscle) and external (striated muscle) sphincter maintain continence during bladder filling by exerting a resting pressure which can increase with sudden increases in intra-abdominal pressure (e.g. coughing). The smooth muscle of the internal sphincter is located in both the bladder neck and urethra and is innervated by the sympathetic system via alpha receptors. The striated muscle of the external sphincter is located in the urethra and is innervated by the pudendal nerve. The emptying phase begins when stretch receptors in the bladder wall detect bladder fullness. Impulses are relayed via the pelvic nerves to the sacral segments of the spinal cord and up the spinal cord to the brain stem. A reflex occurs at this level back down the spinal cord to the sacral parasympathetic nucleus. Impulses are sent via the pelvic nerve to the detrusor muscle. In the detrusor muscle, excitation spreads via tight junctions between muscle fibers. Contraction pulls the bladder neck open. Simultaneously, the pudendal motor neurons and alpha adrenergic sympathetic activity are inhibited, resulting in decreased urethral pressure. Urine is evacuated. When the bladder is empty, the afferent discharge from the pelvic nerve stops, the pelvic motor neurons cease their discharge, and sympathetic and pudendal motor activity again increase bladder neck and urethral pressure. Voluntary control of this reflex pathway is via the cerebral cortex to the brain stem. The cerebellum has an inhibitory effect on the brain stem micturition center.

Diagnostic Plan A thorough history includes the age of onset of the problem, reproductive status, relationship between the onset of incontinence and neutering, chronologic course of the incontinence, associated urinary tract problems such as dysuria or polyuria, neurologic abnormalities, whether normal micturition occurs, when incontinence occurs in relation to micturition and drug usage or dietary changes. On physical examination, is the bladder large or small? In a male dog the prostate gland should be palpated. Anal tone

and the integrity of the perineal reflex should be evaluated. Any abnormal neurologic signs should be pursued by a neurologic examination. Micturition should be observed and residual volume determined if the ability of the bladder to empty is in question. The empty bladder should be palpated for calculi, soft tissue masses, and wall thickness. If the bladder does not empty, the urethra should be carefully palpated externally and per rectum in males and per rectum in females. After the history and physical examination, incontinence is subdivided into that associated with other neurologic problems or not. This lecture will focus on cases of incontinence with normal neurologic examinations. This type of incontinence is best approached diagnostically by subdividing cases into 2 categories based on ability or inability to empty the bladder. Inability to empty: Partial or complete urethral obstruction is most likely. After palpation of the urethra, a urinary catheter should be passed and any obstruction characterized as to location and consistency. Survey and contrast radiographs are usually necessary to further characterize obstruction. Ability to pass a urinary catheter to the bladder does not preclude the presence of a partial obstruction. Retrograde urethrography is necessary to document such obstructions. After an anatomic obstruction has been excluded, two general etiologies remain: (1) detrusor dysfunction (most common) and (2) failure of the urethral musculature to relax during detrusor contraction (dyssynergia). Detrusor dysfunction occurs most commonly due to loss of tight junctions from bladder over distention. Bladder over distention may result from urethral obstruction, neurologic dysfunction (e.g. intervertebral disk disease, dysautonomia), and with prolonged recumbency. In some animals, the cause of detrusor dysfunction cannot be determined. Dyssynergia is difficult to confirm. There are two possible causes: urethral spasm due to inflammation and neurologic. The condition has mainly been noted in male dogs. Lumbosacral stenosis has been found in some affected dogs and should be ruled out by spinal radiographs, EMG, and myelogram, epidurogram or CT of the lumbosacral area. Normal ability to empty: There are two major categories: (1) the urethral sphincter is not competent or is being bypassed (most common) or (2) the bladder is contracting involuntarily at low volumes. The urethral sphincter is bypassed with a patent urachus or an ectopic ureter. A patent urachus is recognizable on physical examination. Excretory urography, vaginourethrog-


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raphy and/or cystoscopy can be used for diagnosis of ectopic ureters. The kidneys and ureters should be examined for associated problems such as hydroureter, pyelonephritis, and abnormal kidney size or shape. A urinalysis and urine culture should be performed prior to surgical correction of an ectopic ureter. Some dogs with ectopic ureters also have decreased resting urethral pressure that can lead to continued incontinence despite surgical correction. A urethral pressure profile can be used to detect this. If a urethral pressure profile is unavailable, determining whether the bladder is easy or difficult to manually express is used. A urethral sphincter of decreased competence is the cause of “spay� incontinence; however this also occurs in neutered males, in juvenile bitches, and in a few intact bitches, especially of the Doberman breed. Diagnosis is usually based on history and physical examination. Historical findings include a neutered, medium to large breed, overweight female dog that leaks urine while sleeping or lying down or when hyperactive, but otherwise urinates normally. The physical examination is usually normal. The urinalysis is usually normal, although some dogs develop a secondary urinary tract infection. Specific gravity should be assessed as an indicator of polyuria. The cause of the decrease in resting urethral pressure is not understood. Reproductive hormone receptors are present in the urethral musculature and do increase resting urethral tone. There is an association with age of neutering. Some cases have been associated with an anatomically short urethra (intrapelvic bladder position on urethrocystography). However, intrapelvic bladder location can also be present in normally continent dogs. Rather than one cause, the condition is likely multifactorial,. A mass in the area of the bladder neck may cause incompetence of the internal urethral sphincter. Diagnosis is suspected by an associated history of dysuria or hematuria, a palpable abnormality (not always detectable), or abnormalities in the urine sediment (hematuria, pyuria, or abnormal cells). Cystoscopy, cystography or retrogade urethrography are necessary to confirm the mass. Unrestrainable detrusor contractions at low bladder volumes (urge incontinence) result in incontinence that appears similarly to urethral incompetence, but is often accompanied by pollakiuria. Causes include severe chronic cystitis, bladder wall neoplasia, and prior cystectomy with markedly reduced bladder volume. Diagnosis is based on palpating an

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abnormal bladder, abnormalities on urine analysis, or an abnormal cystogram.

Therapy Inability to Empty the Bladder: A distended bladder must be kept empty. Aseptic, atraumatic, urinary catheterization is the usual mechanism. Once the bladder is emptied, the catheter is removed when the cause of the distention has been rectified. For recurrent bladder distention, the catheter may be left in place or passed intermittently. The advantages of an indwelling catheter are time and potentially less urethral trauma; however, a major disadvantage is the likelihood of urinary tract infection. Use of a closed system will delay development of infection. Antibiotic use may also delay development of infection, but may result in infections with antibiotic-resistant bacteria. Parasympathetic stimulants such as bethanechol are not usually effective. Using a drug to relax the urethra, such as phenoxybenzamine, may help to allow bladder expression and in cases of dyssynergia. One recommended dosage is 0.25 mg/kg orally q12hrs. Side effects include hypotension, tachycardia, and gastrointestinal irritation. Normal Ability to Empty the Bladder: Surgical therapy is required for patent urachus and ectopic ureters. Urethral incompetence is usually treated with alpha adrenergic drugs such as phenylpropanolamine (1.5 mg/kg every 8 to 12 hours) or ephedrine (25 to 50 mg every 12 hours). Potential side effects include hypertension, urine retention, and cardiac arrhythmias. Alternative therapy is estrogen administration in neutered females and testosterone in neutered males. In female dogs, diethylstilbestrol (DES) is given orally at 0.5 to 1 mg per day for 3 to 5 days and then as needed. One severe potential side effect of estrogens is aplastic anemia. Estrogens should always be used with caution and at the lowest effective dose for the shortest period of time. In most dogs, a few days of therapy will result in resolution of signs for months, so that constant therapy is not required. With neutered male dogs, 2.2 mg/kg of injectable testosterone proprionate may be effective. If the duration of action is too short, testosterone cypionate (depotestosterone) can be used. If the dog was neutered because of a testosterone related problem such as a prostatic disease, the disease may recur with testosterone administration.


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Incontinenza urinaria nel cane Jeanne Barsanti DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Professor, Georgia, USA

Fisiologia della minzione La minzione normale prevede un fase di accumulo o stoccaggio ed una di svuotamento. Durante la fase di stoccaggio, la vescica viene riempita lentamente attraverso gli ureteri, man mano che i reni producono urina. Il muscolo detrusore della vescica si adatta allo riempimento stirandosi in risposta al lieve aumento della pressione intravescicale. Il sistema simpatico facilita il rilasciamento del detrusore attraverso i recettori beta. Sia lo sfintere interno (muscolatura liscia) che quello esterno (muscolatura striata) mantengono la continenza durante la fase di riempimento vescicale esercitando una pressione a riposo che può essere aumentata in risposta ad un improvviso incremento della pressione intraddominale (ad es, in caso di tosse). La muscolatura liscia dello sfintere interno è localizzata sia nel collo vescicale che nell’uretra ed è innervata dal sistema simpatico mediante alfa-recettori. La muscolatura striata dello sfintere esterno è situata nell’uretra e viene innervata dal nervo pudendo. La fase di svuotamento inizia quando i recettori vescicali sensibili alla distensione rilevano la pienezza dell’organo. Attraverso i nervi pelvici vengono inviati degli impulsi fino ai segmenti sacrali del midollo spinale e poi, lungo quest’ultimo, fino al tronco encefalico. A questo livello si ha un riflesso che ridiscende lungo il midollo spinale fino al nucleo parasimpatico sacrale. Gli impulsi vengono inviati attraverso il nervo pelvico fino al muscolo detrusore. Qui l’eccitazione si diffonde attraverso le tight junction fra le fibre muscolari. La contrazione determina l’apertura del collo vescicale. Simultaneamente, i neuroni motori pudendi e l’attività simpatica alfa-adrenergica vengono inibiti, con conseguente diminuzione della pressione uretrale. L’urina viene espulsa. Quando la vescica è vuota, la scarica afferente dal nervo pelvico si arresta, i motoneuroni pelvici cessano di inviare impulsi e l’attività motoria simpatica e pudenda aumenta nuovamente la pressione del collo vescicale e dell’uretra. Il controllo volontario di questa via riflessa avviene attraverso la corteccia cerebrale fino al tronco encefalico. Il cervelletto svolge un ruolo inibitore sul centro della minzione del tronco encefalico.

Piano diagnostico È necessaria un’approfondita anamnesi che permetta di chiarire l’età di insorgenza del problema, lo status riproduttivo, la relazione fra la comparsa dell’incontinenza e la sterilizzazione, il decorso cronologico della condizione, i problemi associati del tratto urinario, come la disuria o la poliuria,

le anomalie neurologiche, la presenza o meno di una minzione normale, il momento in cui si verifica l’incontinenza rispetto alla minzione, l’uso di farmaci o le modificazioni della dieta. All’esame clinico, la vescica si presenta piccola o grande? In un cane maschio, bisogna esaminare la prostata mediante palpazione. Occorre valutare il tono anale e l’integrità del riflesso perineale. Ogni segno neurologico anormale deve essere sottoposto ad un giudizio neurologico. Si deve osservare la minzione e determinare il volume residuo nei casi in cui la capacità della vescica di svuotarsi è dubbia. Quando è vuoto, l’organo deve essere palpato alla ricerca di calcoli, masse di tessuti molli e spessore della parete. Se la vescica non si svuota, bisogna accuratamente palpare l’uretra; questa operazione può venire effettuata sia esternamente che per via rettale nei maschi, mentre nelle femmine si può utilizzare soltanto la via rettale. Sulla base dell’indagine anamnestica e della valutazione clinica, l’incontinenza viene distinta in due forme, una associata ad altri problemi neurologici e l’altra no. La presente relazione sarà focalizzata sui casi di incontinenza con esame neurologico normale. Il migliore approccio diagnostico a questo tipo di incontinenza consiste nel suddividere i casi in due categorie, in base alla capacità o meno di svuotare la vescica. Incapacità di svuotare la vescica: La diagnosi più probabile è l’ostruzione parziale o completa dell’uretra. Dopo la palpazione uretrale, si deve inserire un catetere urinario, rilevando in questo modo la localizzazione e la consistenza di ogni eventuale ostruzione. Di solito, per caratterizzare ulteriormente il problema sono necessarie le radiografie con e senza mezzo di contrasto. La capacità di spingere un catetere urinario fino in vescica non esclude la presenza di un’ostruzione parziale. Per documentare tali ostruzioni è necessaria l’uretrografia retrograda. Dopo aver escluso un’ostruzione anatomica, restano due eziologie generali: (1) la disfunzione del detrusore (più comune) e (2) l’incapacità della muscolatura uretrale di rilasciarsi durante la contrazione del detrusore stesso (dissinergia). La disfunzione del detrusore nella maggior parte dei casi è dovuta alla perdita delle tight junction dalla vescica sovradistesa. La sovradistensione vescicale può derivare da distensione uretrale, disfunzione neurologica (ad es., discopatia intervertebrale, disautonomia) e decubito prolungato. In alcuni animali, la causa della disfunzione del detrusore non può essere determinata. La dissinergia è difficile da confermare. Esistono due possibili cause: lo spasmo uretrale dovuto ad infiammazione e quello neurologico. La condizione è stata notata principal-


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mente nei cani maschi. In alcuni cani colpiti è stata riscontrata la stenosi lombosacrale, che deve essere esclusa mediante radiografie spinali, EMG e mielografia, epidurografia o TC nell’area lombosacrale. Normale capacità di svuotamento della vescica: Esistono due categorie principali: (1) lo sfintere uretrale non è competente o viene aggirato (evenienza più comune) oppure (2) la vescica si contrae involontariamente in presenza di volumi bassi. Lo sfintere uretrale viene aggirato da un uraco pervio o un uretere ectopico. Un uraco pervio è riconoscibile all’esame clinico. Per la diagnosi degli ureteri ectopici si ricorre ad urografia escretoria, vaginouretrografia e/o cistoscopia. I reni e gli ureteri vanno esaminati alla ricerca di problemi associati quali idrouretere, pielonefrite ed anomalie di forma o dimensioni dei reni. Prima di effettuare la correzione chirurgica dell’uretere ectopico bisogna eseguire l’analisi dell’urina e l’urocoltura. Alcuni cani con ureteri ectopici presentano anche una diminuzione della pressione uretrale a riposo che può portare al perdurare dell’incontinenza nonostante la correzione chirurgica. Per individuare questi soggetti si può utilizzare il profilo della pressione uretrale. Se questo non è disponibile, di solito si provvede a stabilire se la vescica risulta facile o difficile da svuotare manualmente mediante compressione. La diminuita competenza dello sfintere uretrale è la causa dell’incontinenza “da ovariectomia”, tuttavia, questa evenienza si riscontra anche nei maschi castrati, nelle cagne giovani ed in un ridotto numero di cagne integre, specialmente di razza Dobermann. La diagnosi viene solitamente formulata in base all’anamnesi ed all’esame clinico. I riscontri anamnestici sono rappresentati da sterilizzazione chirurgica, razza di media o grossa taglia, cagna sovrappeso che perde urina mentre dorme o si corica o quando è iperattiva, ma per il resto urina normalmente. L’esame clinico di solito è normale. Anche l’analisi dell’urina di norma non presenta alterazioni, benché alcuni cani sviluppino un’infezione secondaria del tratto urinario. Si deve effettuare la determinazione del peso specifico come indicatore di poliuria. La causa della malattia nella pressione uretrale a riposo non è conosciuta. Nella muscolatura uretrale sono presenti dei recettori per gli ormoni riproduttivi che determinano un incremento del tono uretrale a riposo. Esiste un’associazione con l’età della sterilizzazione. Alcuni casi sono stati abbinati ad un’uretra anatomicamente corta (posizione intrapelvica della vescica all’uretrocistografia). Tuttavia, la localizzazione vescicale intrapelvica può essere presente anche in cani con continenza normale. Più che riconoscere una sola causa, la condizione è probabilmente multifattoriale. Una massa nell’area del collo vescicale può causare l’incontinenza dello sfintere uretrale interno. La diagnosi viene sostenuta dal riscontro anamnestico associato di disuria o ematuria, dalla presenza di un’anomalia palpabile (non sempre individuabile) o da alterazioni del sedimento urinario (ematuria, piuria o elementi cellulari anomali). Per confermare l’esistenza della massa, sono necessarie la cistoscopia, la cistografia o l’uretrografia retrograda. Contrazioni incontenibili del detrusore in presenza di volumi vescicali bassi (incontinenza da urgenza) esitano in

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un’incontinenza che si presenta in modo simile all’incompetenza uretrale, ma spesso è accompagnata da pollachiuria. Le cause sono rappresentate da grave cistite cronica, neoplasia della parete vescicale e precedente cistectomia con marcata riduzione del volume dell’organo. La diagnosi si basa sul riscontro alla palpazione di vescica anormale, alterazioni dell’analisi dell’urina o cistogramma anomalo.

Terapia Incapacità di svuotare la vescica: una vescica distesa deve essere tenuta vuota. Di solito il meccanismo utilizzato è la cateterizzazione asettica, atraumatica. Una volta svuotata la vescica, il catetere viene rimosso dopo aver risolto la causa della distensione. Se quest’ultima è ricorrente, il catetere può essere lasciato in sede o introdotto in modo intermittente. I vantaggi di una cateterizzazione permanente sono dati dal risparmio di tempo e dalla potenziale riduzione del trauma uretrale; tuttavia, uno dei principali svantaggi è la probabilità di infezione del tratto urinario. L’impiego di un sistema chiuso ritarda lo sviluppo di questo processo infettivo. Anche l’uso degli antibiotici può rinviare la comparsa dell’infezione, ma può anche determinare delle infezioni da batteri antibioticoresistenti. Gli stimolatori parasimpatici come il betanecolo di solito non sono efficaci. Utilizzare un farmaco per determinare il rilascio dell’uretra, come la fenossibenzamina, può contribuire a permettere lo svuotamento della vescica mediante compressione manuale e nei casi di dissinergia. Il dosaggio raccomandato è di 0,25 mg/kg per os ogni 12 ore. Gli effetti collaterali sono rappresentati da ipotensione, tachicardia ed irritazione gastroenterica. Normale capacità di svuotare la vescica: Per l’uraco pervio e l’ectopia degli ureteri è richiesta la terapia chirurgica. L’incompetenza uretrale di solito viene trattata con farmaci alfa-adrenergici come la fenilpropanolamina (1,5 mg ogni 8-12 ore) o l’efedrina (25-50 mg ogni 12 ore). I potenziali effetti collaterali sono rappresentati da ipertensione, ritenzione di urina ed aritmie cardiache. La terapia alternativa è la somministrazione di estrogeni nelle femmine sterilizzate e di testosterone nei maschi castrati. Nelle cagne, si utilizza il dietilstilbestrolo (DES) per os alla dose di 0,5-1 mg/die per 3-5 giorni e poi secondo necessità. Un grave effetto collaterale potenzialmente legato agli estrogeni è l’anemia aplastica. Gli estrogeni devono sempre essere utilizzati con cautela ed alla dose minima efficace per il più breve periodo di tempo. Nella maggior parte dei cani, pochi giorni di terapia esitano nella risoluzione dei segni clinici per mesi, per cui non è necessaria una somministrazione costante. Nei cani maschi castrati, può essere efficace la somministrazione di 2,2 mg/kg di testosterone propionato iniettabile. Se la durata d’azione è troppo breve, si può usare il testosterone cipionato (testosterone deposito). Se il cane era stato castrato a causa di problemi correlati al testosterone, come una malattia prostatica, questa può recidivare in seguito alla somministrazione dell’ormone.


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Nouvelles études et applications cliniques avec Zylkene Claude Beata Dr Med, Comportementaliste diplômé des Ecoles Nationales Vétérinaires Françaises, Diplomate of European College of Veterinary Behaviour Medicine, Francia

L’alphacasozepine a fait l’objet de nombreuses études fondamentales et appliquées, pour connaître sa structure (Lecouvey et al., 1997a; Lecouvey et al., 1997b), comprendre son mode d’action, vérifier son innocuité et, bien sûr, tester son efficacité. Cette dernière partie a été faite chez les animaux de laboratoire (Schroeder et al., 2003; Guesdon et al., 2006; Violle et al., 2006) mais aussi chez l’être humain (Messaoudi et al., 2005) avant de faire l’objet d’essais chez nos animaux domestiques. Ces essais menés chez le chien (Beata et al., 2007b) et chez le chat (Beata et al., 2007a) ont été publiés et apportent des données sûres récoltées dans des essais contrôlés. De nouvelles études ont vu le jour permettant d’affirmer l’efficacité de l’alpha-casozepine dans certaines indications. Parallèlement à cela, l’existence depuis deux ans de retours cliniques permet, sans pouvoir parler de preuves sur ces points, d’ouvrir des pistes intéressantes pour de nouvelles utilisations du zylkene.

1 - NOUVELLE ÉTUDE EN COURS (CHIENS ÂGÉS) Il est toujours délicat de parler d’une étude en cours mais les premiers éléments de dépouillement d’une nouvelle enquête aux 2/3 de l’essai (39 cas sur 54) nous rendent confiants sur l’efficacité de l’alpha-casozépine dans certains troubles du comportement apparaissant chez le chien âgé. Pour éviter toute perte de chances, la molécule a été testée vis-à-vis d’une molécule de référence pour les troubles du chien âgé. Les résultats obtenus jusqu’à aujourd’ hui sont similaires mais cela ne pourra être significatif qu’à la fin de l’étude. Nous nous bornerons donc à décrire quelques cas présents dans cette étude et comment ils ont évalué de façon très favorable avec l’aide du produit. Ainsi ce chien de presque 14 ans, devenu malpropre avec de nombreuses mictions et défécations à l’intérieur de la maison. A côté de cela, de nombreux autres symptômes étaient apparus: agressivité par irritation (le chien s’est retourné sur une prise par le collier, ce qu’il n’avait jamais fait), pertes d’apprentissage (n’obeit quasiment plus à aucun ordre), périodes d’hébétude, inquiétude marquée à la séparation. Tous ces signes donnent un score de 44 dans la grille de cotation utilisée dans l’essai. Après deux mois de traitement avec l’alphacasozépine, l’animal a retrouvé une attitude plus calme, peut de nouveau

Figura 1 - Représentation graphique de l’évolution du score ACRO utilisé dans cet essai.

rester seul, ne souille quasiment plus la maison et ceci est objectivé par un score de 23 soit presque 50% de réduction. Nous pouvons aussi déjà dégager quelques éléments qui demanderont à être confirmés par les études ultérieures - les troubles émotionnels et cognitifs du vieux chien semblent être de meilleures indications pour l’alphacasozépine que les troubles de l’humeur (dépression d’involution). - Cette notion paraît tout à fait explicable par le mode d’action suspecté de l’alphacasozepine qui agit comme une benzodiazépine. Si ce type de molécules présente une forta activité anxiolytique, en revanche elle n’a pas d’action spécifiquement anti-dépréssive. Elle ne relance pas les neurotransmetteurs. Si ces notions viennent se confirmer, il sera alors très intéressant pour le praticien de posséder à côté de molécules ciblées sur les troubles de l’humeur ou sur le tonus général du vieil animal, une nouvelle arme dans l’arsenal thérapeutique aux promesses clairement définies: diminuer l’anxiété et relancer les performances cognitives. Remarquons que cette relance est souvent signalée par une reprise des jeux, ce qui est spontanément décrit par les propriétaires.


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2 - NOUVELLES INDICATIONS 2-1 Stress des transports De nombreux vétérinaires rapportent l’utilisation avec succès d’alpha-casozépine (Zylkène*) chez des animaux présentant des manifestations indésirables pendant le transport (sialorrhée, vomissements, halètements, gémissements, agitation…). L’efficacité semble liée au fait que ces symptômes soient en relation directe avec le stress que ressent l’animal avant (anticipation) ou pendant le transport. Pour les déplacements prévisibles, une prise de produit la veille et une autre 2 heures avant le départ sont recommandées à la dose de 15 à 20 mg/kg.

2-2 Phobies des feux d’artifice Les symptômes sont semblables dans les phobies aux bruits forts (pétards, feux d’artifices) avec soit une prédominance de manifestations dopaminergiques et donc digestives (sialorrhée, vomissements, diarrhée) soit une prédominance de signes noradrénergiques (halètements, mictions, frissons, tremblements …). Dans le premier cas, les symptômes comportementaux seront marqués par de l’inhibition et du retrait alors que dans le second cas ce sont les manifestations productives comme les tentatives de fuite et les aboiements qui prendront le dessus. Là encore, quand le calendrier ou les prévisions météorologiques le permettent, il est préférable de commencer la veille de l’événement. En cas d’imprévu, une dose unique à 20 mg administrée le plus rapidement possible dès le début de l’exposition peut aider l’animal à présenter des symptômes modérés. Dans ces deux premiers cas, une thérapie de contre-conditionnement ou une thérapie de contrôle des flux de communication viendra améliorer définitivement la situation.

2-3 Animaux âgés L’essai en cours viendra sans doute confirmer une sensation clinique partagée par de nombreux confrères: l’alpha-casozépine est très intéressante dans les troubles anxieux et cognitifs des animaux âgés. En France, beaucoup ont eu la tentation de l’utiliser chez les seniors en raison de son absence de toxicité. Le côté naturel de la molécule associé à la facilité d’administration en font notamment une prescription de choix chez les vieux chats. La reprise de jeux chez un animal qui paraissait devenu indifférent de manière définitive est sans doute le symptôme le plus frappant accompagné d’une reprise des contacts et d’une régularisation de la relation d’attachement. Cette reprise d’activité harmonieuse permet la mise en place de thérapies simples permettant au vieil animal d’être récompensé et donc stimulé de manière très positive.

2-4 Adaptation L’adoption, la confrontation à de nouveaux apprentissages (club, agility, chasse,…) bref, tout ce qui demande au chien

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de s’adapter est une indication de choix pour cette molécule. Ceci est vrai à tout age mais les résultats paraissent encore plus spectaculaires chez les chiots. Il est alors recommandé de donner le produit tout au long de la période d’adaptation en n’hésitant pas à prolonger tant que l’animal n’a pas atteint un équilibre satisfaisant.

2-5 Troubles convulsifs Enfin, plusieurs vétérinaires comportementalistes, mais aussi généralistes, utilisent l’alpha-casozépine comme complément dans le traitement standard de l’épilepsie. Si les résultats ne sont pas constants, cela leur permet souvent de diminuer de façon significative la dose et donc les effets secondaires des barbituriques. A l’appui de cette utilisation, il faut se souvenir que les premiers essais en laboratoire avaient montré une activité anti-convulsivante du produit administré par voir intra-péritonéale chez la souris.

CONCLUSION L’alpha-casozépine (Zylkene*) est un produit aux indications multiples. Les nouveaux essais cliniques et les retours des utilisateurs ouvrent régulièrement de nouveaux champs d’application.

Biblographie Beata, Beaumont, G., Coll, Cordel, Marion, Massal, Marlois and Tauzin, 2007a. Effect of alpha-casozepine (Zylkene) on anxiety in cats. Journal of Veterinary Behavior: Clinical Applications and Research. 2, 40-6. Beata, Beaumont, G., DIaz, C., Marion, M., Massal, N., Marlois, N. and Muller, G., 2007b. Effects of alpha-casozepine (Zylkene®) vs selegiline chlorhydrate (Selgian®, Anipryl®) on anxious disorders in dogs. Journal of Veterinary Behavior: Clinical Applications and Research. 5, 175-83. Guesdon, B., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Fromentin, G., Tome, D. and Even, P. C., 2006. A tryptic hydrolysate from bovine milk alphaS1casein improves sleep in rats subjected to chronic mild stress. Peptides. 6, 1476-82. Lecouvey, M., Frochot, C., Miclo, L., Orlewski, P., Driou, A., Linden, G., Gaillard, J.-L., Marraud, M., Cung, M. and Vanderesse, R., 1997a. Two-dimensional H-NMR and CD structural analysis in a micellar medium of a bovine alpha-s1 casein fragment having benzodiazepinelike properties. Eur. J. Biochem. 872-8. Lecouvey, M., Frochot, C., Miclo, L., Orlewski, P., Marraud, M., Gaillard, J.L., Cung, M. and Vanderesse, R., 1997b. Conformational studies of a benzodiazepine-like peptide in SDS micelles by circular dichroim, H nMR and molecular dynamic simulation. Letters in Peptide Science. 359-64. Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Demagny, B. and Bourdon, L., 2005. Effects of a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha(S1)casein on hemodynamic responses in healthy human volunteers facing successive mental and physical stress situations. Eur J Nutr. 2, 128-32. Schroeder, H., Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Nejdi, A., Demagny, B. and Desor, D., 2003. Effects of ING-911, a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha-S1casein on anxiety of Wistar male rats measured in the conditioned defensive burying (CDB) paradigm and the elevated plus maze test. Behavioural Parmacology. S1, 31. Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Nejdi, A., Demagny, B. and Schroeder, H., 2006. Ethological comparison of the effects of a bovine alpha(s1)-casein tryptic hydrolysate and diazepam on the behaviour of rats in two models of anxiety. Pharmacol Biochem Behav. 3, 517-23.


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Nuovi studi e applicazioni cliniche di Zylkene Claude Beata Dr Med Comportementalista, Dipl ENVF, Dipl ECVBM, Francia

L’alpha-casozepina è stato oggetto di numerosi studi fondamentali e applicati per conoscerne la struttura (Lecouvey et al., 1997a; Lecouvey et al., 1997b), il modo d’azione, per verificare la sua innocuità e, ovviamente, per testare la sua efficacia. Questo ultimo aspetto è stato studiato negli animali da laboratorio (Schroeder et al., 2003; Guesdon et al., 2006; Violle et al., 2006) ma anche negli esseri umani (Messaoudi et al., 2005) prima di essere testato sugli animali domestici. I test condotti sui cani (Beata et al., 2007b) e sui gatti (Beata et al., 2007a) sono stati pubblicati e forniscono dati sicuri raccolti in test controllati. Sono stati condotti nuovi studi che hanno consentito di confermare l’efficacia dell’alfa-casozepina per alcune indicazioni. Parallelamente l’esistenza da due anni di dati clinici consente, senza poter parlare ancora di prove, di aprire vie interessanti per nuovi impieghi di zylkene.

1 - NUOVI STUDI IN CORSO (CANI ANZIANI) È sempre delicato parlare di uno studio in corso ma i primi elementi emersi da una nuova indagine a 2/3 del test (39 casi su 54) ci rendono fiduciosi sull’efficacia dell’alfa-casozepina nel caso di alcuni disturbi comportamentali che si manifestano nel cane anziano. Per non lasciare nulla di intentato, la molecola è stata confrontata con una molecola di riferimento per i disturbi del cane anziano. I risultati ottenuti fino ad oggi sono similari ma potranno essere giudicati significativi solo alla fine dello studio. Ci limiteremo quindi a descrivere qualche caso presente in questo studio e di come siano stati valutati positivamente con l’aiuto di questo prodotto. Ad esempio un cane di quasi 14 anni che aveva iniziato a urinare e defecare in casa. Oltre a questo erano apparsi numerosi altri sintomi: aggressività per irritabilità (il cane aveva reagito per essere stato preso per il collare, cosa che non aveva mai fatto), perdita di ciò che aveva appreso (non obbediva più a nessun comando), periodi di inebetimento, inquietudine marcata al momento della separazione. Tutti questi segni danno uno score di 44 nella griglia del punteggio utilizzato nel test. Dopo due mesi di trattamento con alfa-casozepina, l’animale ha ritrovato un atteggiamento più tranquillo, può di nuovo rimanere da solo, non sporca quasi più in casa e il tutto è confermato da uno score di 23, che testimonia un recupero di quasi il 50%.

Figura 1 - Rappresentazione grafica dell’evoluzione dello score ACRO impiegato in questo test.

Possiamo già fornire qualche elemento che dovrà comunque essere confermato da ulteriori studi - L’alfa-casozepina sembra essere più indicata per i disturbi emotivi e cognitivi del cane anziano rispetto ai disturbi dell’umore (depressione da involuzione). - Ciò potrebbe essere spiegato dal presunto modo d’azione dell’alfa-casozepina che agisce come una benzodiazepina. Se questo tipo di molecole presenta da un lato una forte attività ansiolitica, dall’altro non ha un’azione specificatamente antidepressiva. Non riattiva i neurotrasmettitori. Se ciò verrà confermato, sarà allora molto interessante per il veterinario avere oltre alle molecole specifiche per i disturbi dell’umore o per il tono generale dell’animale anziano, una nuova arma nell’arsenale terapeutico che promette di ridurre l’ansia e di rilanciare le prestazioni cognitive. Sottolineiamo che questa ripresa è spesso segnalata dal fatto che l’animale riprende a giocare, ciò che viene spontaneamente descritto dai padroni.


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2 – NUOVE INDICAZIONI 2-1 Stress da trasporto Molti veterinari segnalano l’impiego con successo dell’alfa-casozepina (Zylkene*) per gli animali che presentano manifestazioni indesiderabili durante il trasporto (scialorrea, vomito, ansito, gemiti, agitazione…). L’efficacia sembra legata al fatto che questi sintomi sono in relazione diretta con lo stress che l’animale avverte prima (in anticipo) o durante il trasporto. Per gli spostamenti programmati, si raccomanda di somministrare il prodotto alla vigilia e 2 ore prima della partenza in dosi da 15 a 20 mg/kg.

2-2 Fobia da fuochi d’artificio Nelle fobie da rumori forti (petardi, fuochi d’artificio) i sintomi sono simili con una predominanza sia di manifestazioni dopaminergiche e quindi digestive (sciallorea, vomito, diarrea) che di segni noradrenergici (ansiti, minzioni, brividi, tremori …). Nel primo caso, i sintomi comportamentali saranno caratterizzati dall’inibizione e dalla tendenza a nascondersi mentre nel secondo caso si verificheranno manifestazioni produttive come tentativi di fuga e guaiti. In caso di eventi programmati o di previsioni meteo avverse, è consigliabile iniziare la somministrazione alla vigilia dell’evento stesso. In caso di imprevisto, una dose unica da 20 mg somministrata il più rapidamente possibile all’inizio dell’esposizione può attenuare i sintomi. In questi primi due casi, una terapia di controcondizionamento o una terapia di controllo dei flussi di comunicazione potrà migliorare decisamente la situazione.

2-3 Animali anziani Il test in corso confermerà senza ombra di dubbio una sensazione clinica condivisa da numerosi colleghi: l’alfa-casozepina è molto utile nel trattamento d ei disturbi ansiosi e cognitivi degli animali anziani. In Francia in molti hanno pensato di impiegarla per gli animali anziani proprio per l’assenza totale di tossicità. Il lato naturale della molecola associata alla facilità di somministrazione ne fanno una prescrizione consigliata in particolare per i gatti anziani. La ripresa del gioco in un animale che sembrava essere diventato completamente indifferente è senza dubbio il sintomo più sorprendente unitamente alla ripresa dei contatti e alla regolarizzazione della relazione di attaccamento. La ripresa dell’attività normale consente di attuare terapie semplici che permettono all’animale anziano di essere ricompensato e quindi stimolato in modo molto positivo.

2-4 Adattamento L’adattamento, il raffronto rispetto a nuovi insegnamenti (club, agility, caccia…), in breve tutto ciò che richiede un adattamento da parte dell’animale rappresenta una indicazione per scegliere questa molecola. Questo vale per tutte

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le età ma i risultati sembrano ancora più straordinari nel caso dei cuccioli. Si raccomanda di somministrare il prodotto durante tutto il periodo dell’adattamento continuando fino a quando l’animale non avrà raggiunto un equilibrio soddisfacente.

2-5 Disturbi convulsivi Infine diversi veterinari comportamentalisti ma anche generici utilizzano l’alfa-casozepina come complemento nel trattamento standard dell’epilessia. Se i risultati non sono costanti, possono diminuire la dose in modo significativo e quindi ridurre gli effetti secondari dei barbiturici. A sostegno di questo utilizzo, bisogna ricordarsi che i primi test in laboratorio avevano mostrato una attività anticonvulsiva del prodotto somministrato per via intraperitoneale nei ratti.

CONCLUSIONI L’alfa-casozepina (Zylkene*) è un prodotto che ha più indicazioni. I nuovi test clinici e i risultati degli utilizzatori aprono la via a nuovi campi di applicazione.

Bibliografia Beata, Beaumont, G., Coll, Cordel, Marion, Massal, Marlois and Tauzin, 2007a. Effect of alpha-casozepine (Zylkene) on anxiety in cats. Journal of Veterinary Behavior: Clinical Applications and Research. 2, 40-6. Beata, Beaumont, G., DIaz, C., Marion, M., Massal, N., Marlois, N. and Muller, G., 2007b. Effects of alpha-casozepine (Zylkene®) vs selegiline chlorhydrate (Selgian®, Anipryl®) on anxious disorders in dogs. Journal of Veterinary Behavior: Clinical Applications and Research. 5, 175-83. Guesdon, B., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Fromentin, G., Tome, D. and Even, P. C., 2006. A tryptic hydrolysate from bovine milk alphaS1-casein improves sleep in rats subjected to chronic mild stress. Peptides. 6, 1476-82. Lecouvey, M., Frochot, C., Miclo, L., Orlewski, P., Driou, A., Linden, G., Gaillard, J.-L., Marraud, M., Cung, M. and Vanderesse, R., 1997a. Two-dimensional H-NMR and CD structural analysis in a micellar medium of a bovine alpha-s1 casein fragment having benzodiazepine-like properties. Eur. J. Biochem. 872-8. Lecouvey, M., Frochot, C., Miclo, L., Orlewski, P., Marraud, M., Gaillard, J.-L., Cung, M. and Vanderesse, R., 1997b. Conformational studies of a benzodiazepine-like peptide in SDS micelles by circular dichroim, H nMR and molecular dynamic simulation. Letters in Peptide Science. 359-64. Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Demagny, B. and Bourdon, L., 2005. Effects of a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha(S1)casein on hemodynamic responses in healthy human volunteers facing successive mental and physical stress situations. Eur J Nutr. 2, 128-32. Schroeder, H., Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Nejdi, A., Demagny, B. and Desor, D., 2003. Effects of ING-911, a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha-S1casein on anxiety of Wistar male rats measured in the conditioned defensive burying (CDB) paradigm and the elevated plus maze test. Behavioural Parmacology. S1, 31. Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Nejdi, A., Demagny, B. and Schroeder, H., 2006. Ethological comparison of the effects of a bovine alpha(s1)-casein tryptic hydrolysate and diazepam on the behaviour of rats in two models of anxiety. Pharmacol Biochem Behav. 3, 517-23.


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Patologie neurologiche dell’arto anteriore Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Padova

L’arto anteriore (AA) è innervato da numerosi nervi, formati da fibre provenienti dall’intumescenza cervicale, costituita dagli ultimi tre segmenti midollari cervicali (C6, C7 e C8) e dai primi due toracici (T1 e T2). Da tali segmenti emergono radici nervose motorie e sensitive, che intrecciandosi formano il plesso brachiale, dal quale nascono il nervo soprascapolare, il nervo muscolocutaneo, il nervo radiale, il nervo mediano e il nervo ulnare. Va ricordata, inoltre, la presenza a questo livello del nervo toracico laterale, responsabile dell’innervazione ipsilaterale dei muscoli pellicciai del tronco, e fibre del sistema nervoso simpatico destinate all’occhio e ai suoi annessi1-3. Patologie in grado di colpire dette fibre nervose provocheranno una sintomatologia tipica da lesione del motoneurone inferiore, tipicamente caratterizzata da una diminuzione (paresi), fino all’assenza (paralisi o plegia), dell’attività dello stesso, di tipo flaccido. Quando è coinvolto un solo AA si parla di monoparesi o monoplegia. Per i rari casi in cui sono coinvolti contemporaneamente entrambi gli AA, non esiste un suffisso da aggiungere ai termini paresi o paralisi, essendo “para-” da usare solo per gli arti posteriori. Altri segni tipici di una patologia a questo livello sono: ipo-ariflessia e atrofia neurogena del muscolo. Il cosiddetto “segno della radice nervosa”, che consiste in episodi più o meno prolungati di sollevamento in completa flessione di un AA, è segno di compressione o irritazione acuta di una radice nervosa destinata all’innervazione dell’arto stesso. Anche lesioni del sistema del motoneurone superiore destinate all’AA possono essere responsabili di paresi o paralisi. Tuttavia, la localizzazione neurologica di queste fibre è tale, che una lesione che le interessi coinvolge quasi sempre anche altre vie nervose, causando un quadro neurologico ben più esteso, che non sarà trattato in questa sede. In questa sede verranno quindi discusse le entità patologiche in grado di coinvolgere le radici nervose, il plesso brachiale e i nervi periferici. Verranno inoltre considerate patologie del midollo spinale che in determinati casi, per decorso e localizzazioni peculiari, possono causare interessamenti del solo arto anteriore. NEOPLASIE - Il plesso brachiale e i nervi derivanti da esso sono le strutture nervose periferiche più coinvolte dai tumori della guaina mielinica (peripheral nerve sheath tumors – PNST). Questo termine tutto sommato piuttosto generico è giustificato dal fatto che le cellule che compongono queste neoplasie sono solitamente molto indifferenziate e hanno caratteristiche di malignità tanto spiccate che ormai è invalso l’uso di definirli “malignant peripheral nerve sheath

tumors” (MPNST)4-6. Sono di solito segnalati in soggetti di più di 4 o 5 anni di vita, più frequentemente in cani che in gatti. Il quadro sintomatologico dipende dalla loro esatta localizzazione iniziale lungo il nervo e dalla loro caratteristica patogenetica di crescere sia prossimalmente che distalmente lungo il nervo stesso. Più il sito di origine è distale e più si manifesteranno segni solo relativi al gruppo muscolare innervato dal nervo coinvolto. Più il sito di origine è prossimale, e più la neoplasia coinvolgerà velocemente il plesso brachiale amplificando la sintomatologia clinica. I deficit sono tanto più imponenti quanto maggiore è la distribuzione e l’importanza del nervo colpito dalla neoplasia. In generale, il coinvolgimento della metà caudale del plesso e dei nervi da esso originantesi porta ad una sintomatologia più grave di quella dovuta all’interessamento della componente craniale. Nell’arto anteriore si può arrivare alla formazione di una massa di notevoli dimensioni nella regione ascellare, la cui palpazione può non essere difficile e spesso provoca intenso dolore. Anche la postura dell’animale è frequentemente alterata: l’arto è mantenuto abdotto, sia per i deficit propriocettivi che per il dolore e lo spazio occupato dalla neoplasia. Il quadro clinico più tipico è quello di una zoppia iniziale con paresi cronica e progressiva. Non raramente la sintomatologia iniziale viene attribuita a un problema ortopedico e il trattamento con antinfiammatori dello stesso può far perdere tempo prezioso ai fini diagnostici. Infatti, ciò che rende infausta una prognosi già di per sé riservata, è la risalita della massa tumorale lungo la radice o le radici spinali all’interno del canale vertebrale, dove il tumore dapprime comprime e poi invade il midollo spinale. La comparsa di sintomi clinici che coinvolgono l’arto posteriore ipsilaterale e successivamente l’arto anteriore controlaterale hanno grande ed infausto significato prognostico. La diagnosi poteva essere non facile fino all’avvento della risonanza magnetica (RM). Le radiografie in bianco possono evidenziare lisi ossea a carico di una o due vertebre e l’allargamento di un foramen intervertebrale. Raramente la massa presenta calcificazioni. L’immagine che si ottiene dopo iniezione di mezzo di contrasto (mielografia) è classicamente intradurale-extramidollare, ma non raramente i PNST si possono sviluppare in un tratto di nervo non sufficentemente prossimale da coinvolgere l’emergenza, ma abbastanza da coinvolgere il nervo nel suo tratto intracanalare; in questi casi si ottiene un’immagine extradurale, per cui la diagnosi differenziale viene ulteriormente complicata. La diagnosi di tumore del plesso brachiale può conseguirsi egregiamente tramite tomografia computerizzata (TC), ma è la RM che fornisce le maggiori informazioni. L’elettrodia-


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gnostica può fornire utili informazioni sulla reale distribuzione della patologia, specialmente nei casi in cui quadri clinici sono dubbi. Le metastasi sono rare. La terapia è chirurgica, poiché gli steroidi spesso non danno neppure un transitorio miglioramento. Se il tumore si sviluppa a carico di un nervo destinato ad un arto, l’amputazione è spesso necessaria e forse anche consigliabile in caso di diagnosi precoce per diminuire le possibilità di una recidiva. L’invasione del canale vertebrale implica la necessità di una (emi-)laminectomia: in questi casi l’esplorazione contemporanea dentro e fuori il canale vertebrale può essere difficile e richiedere due diverse operazioni con approcci differenti. Inoltre, la prognosi è ancora più riservata per la possibile penetrazione della neoplasia nel midollo spinale precedentemente alla chirurgia. La prognosi è comunque infausta nella maggior parte dei casi. Altri tumori extraneurali che causano compressioni del plesso o di nervi (linfomi, sarcomi) possono avere una sintomatologia simile. La prognosi per il problema in situ può essere migliore per la mancata tendenza di molte di queste masse a risalire i nervi, ma la loro origine multicentrica o la loro tendenza a metastatizzare li rende comunque insidiosi. Anche neoplasie extradurali o intradurali-extramidollari (meningiomi) che si sviluppano ventrolateralmente all’intumescenza cervicale all’interno del canale vertebrale possono inizialmente causare una sintomatologia sovrapponibile alla precedente. INFIAMMAZIONI - La neurite del plesso brachiale7 è segnalata con estrema rarità nel cane (un caso anche nel gatto) e presenta una probabile origine autoimmune. Vaccinazioni o allergie alimentari potrebbero essere relazionate con la comparsa di segni clinici. La malattia consiste in una neurite che coinvolge bilateralmente il plesso brachiale e risparmiando di solito il resto del SNP. L’esordio è acuto ed è caratterizzato da paresi flaccida e iporiflessia ristretta al treno anteriore, cui segue in pochi giorni lo sviluppo di un’atrofia neurogena. Lo studio EMGrafico evidenza potenziali di fibrillazione. La risposta alla terapia cortisonica è variabile. Diete ipoallergeniche sono consigliabili quando si sospetta un’allergia alimentare. La prognosi è tanto più riservata quanto maggiore è la taglia dell’animale. TRAUMI1-3 - La lesione del nervo Radiale (C7-T1) è una delle lesioni neurologiche più frequentemente diagnosticate nell’arto toracico, talvolta erroneamente perché confusa con la lesione del plesso brachiale. Frequentemente la lesione è secondaria alla frattura dell’omero e può coinvolgere il nervo prossimalmente o distalmente il distacco delle branche destinate all’innervazione del muscolo tricipite. Nel primo caso non c’è possibilità di estensione del gomito, del carpo e delle dita, l’arto viene trascinato e si formano lesioni cutanee della parte dorsale delle dita. Nel secondo caso il gomito può essere esteso. La lesione parziale del nervo può soluzionarsi in alcuni mesi, mentre quella totale, più probabile se la sensibilità manca fin dall’inizio e non ricompare in poco tempo, ha una prognosi infausta e può originare quadri di autotraumatismo. Più frequente è l’avulsione del plesso brachiale (C6-T2), legata spesso a iperabduzione o trazione

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nella regione ascellare, più raramente a fratture delle prime coste o della scapola. Il risultato è uno “strappamento” delle radici che originano dall’intumescenza cervicale. I gatti possono lesionarsi nel tentativo di divincolare un arto rimasto incastrato. Raramente, il danno può essere bilaterale. Le avulsioni si classificano cone craniali, caudali e totali. Le craniali interessano le radici C6-C7. I sintomi sono modesti: atrofia dei muscoli Sopraspinato e Infraspinato (innervati dal nervo Soprascapolare) e diminuzione dell’anvanzamento del braccio durante l’andatura. A volte anche la flessione del gomito può essere compromessa, segno di coinvolgimento del nervo Musculocutaneo. L’andatura non è comunque significativamente alterata. L’avulsione caudale coinvolge le radici C8, T1 e T2. I sintomi sono più evidenti, l’appoggio non è possibile per la lesione delle fibre che costituiscono il nervo Radiale. A volte l’arto è trascinato, a volte una certa flessione è ancora possibile. Distalmente al gomito, non c’è sensibilità plantareposteriore. Il coinvolgimento delle fibre simpatiche può causare sindrome di Horner ipsilaterale. L’avulsione implica anche un danno, generalmente transitorio, del midollo spinale, con conseguente coinvolgimento delle fibre ascendenti e discendenti relative all’arto pelvico ipsilaterale. Se l’avulsione è bilaterale, è facile localizzarla erroneamente nei segmenti C6-T2. L’avulsione totale comporta una sintomatologia grave, somma delle due precedenti, e una prognosi assai riservata. Infine, lesioni intramidollari acute (mielopatie ischemiche) o ernie discali molto lateralizzate e/o di modesta entità, che coinvolgono l’intumescenza cervicotoracica, possono essere responsabili fin dall’inizio o nel proseguo del quadro sintomatologico di monoparesi dell’AA.

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Indirizzo per la corrispondenza: Marco Bernardini Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi di Padova Viale dell’Università, 16 – 35020 Legnaro (PD) Tel. 049.8272609 - Fax 049.8272954 E-mail: marco.bernardini@unipd.it


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Malattie dei muscoli della masticazione Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Padova

La miopatia dei muscoli masticatori (MMM)1-4, conosciuta in passato anche come miosite eosinofilica, miosite atrofica e miosite masticatoria, tendenzialmente interessa cani di media o grande taglia, generalmente giovani adulti. Colpisce selettivamente i muscoli Temporale, Massetere e Pterigoideo, quasi sempre bilateralmente. Si tratta di una malattia autoimmune dovuta alla formazione di anticorpi contro le fibre 2M dei muscoli temporali, a livello dei quali c’è la deposizione di immunocomplessi. L’interessamento selettivo per i muscoli masticatori dipende dalla presenza di molecole di miosina con caratteristiche uniche, probabilmente legate alla peculiarità dell’origine embriologica di detti muscoli. Tali anticorpi sono rilevabili nel siero e sono utilizzabili per la diagnosi. La risposta anticorpale potrebbe essere scatenata da agenti infettivi che condividono strutture antigeniche uguali o simili a quelle delle fibre muscolari. L’improvviso inizio dei sintomi è accompagnato da dolore localizzato ai muscoli temporali, che possono aumentare di volume, causando a volte esoftalmo per l’apertura posteriore dell’orbita. Sono stati riportati anche deficit visivi da compressione del nervo ottico. Lo stato algico spinge l’animale a rifiutare il cibo e a sottrarsi all’apertura forzata della bocca, spesso tenuta semiaperta. Fenomeni reattivi a carico dei linfonodi regionali e ipertermia generalizzata possono completare il quadro clinico. La cronicizzazione del processo è caratterizzata da progressiva atrofia muscolare, così massiva da modificare seriamente il profilo della testa. A volte la fase acuta passa inosservata e il proprietario si accorge del problema dell’animale solo nella fase cronica, notando l’evidenza di alcune strutture ossee (protuberanza occipitale e processi zigomatici) quando gli accarezza la testa. La sostituzione del tessuto muscolare con tessuto fibroso può portare progressivamente a trisma con impedimento all’apertura della bocca. Anche in anestesia generale, nonostante l’eliminazione dell’eventuale dolore e di ogni forma di contrazione del residuo tessuto muscolare, l’angolo di apertura della bocca non cambia sostanzialmente e l’intubazione può essere impossibile. Essendo l’orbita aperta posteriormente, un certo enoftalmo può essere evidente in caso di massiva atrofia muscolare. La conseguente procidenza della terza palpebra può essere il primo problema notato dal proprietario. L’alimentazione diventa sempre più difficile e si può arrivare a stadi in cui è possibile solo la parziale fuoriuscita della lingua, spesso comunque sufficiente per assumere alimenti liquidi e acqua. Stadi più avanzati rendono impossibile qualsiasi forma di alimentazione spontanea e possono costringere a decidere per l’eutanasia dell’animale. Questa fase cronica potrebbe in realtà essere un’entità nosologica a

sé stante, da mettere quindi in diagnosi differenziale con la MMM, definita come miopatia atrofica dei masticatori, miosite atrofica o miodegenerazione cranica. La patogenesi è oscura: almeno in alcuni casi, potrebbe essere il risultato finale di una atrofia neurogena secondaria ad una neurite idiopatica del n. Trigemino. I muscoli della masticazione possono, in casi decisamente rari, essere coinvolti in processi patologici che interessino diffusamente l’apparato muscolare e quindi i sintomi masticatori potrebbero essere i primi a comparire. Altre diagnosi differenziali della MMM, quindi, possono essere le miositi autoimmuni, la miotonia e le forme infiammatorie su base infettiva, tra le quali merita un posto di rilievo la leishmaniosi5. La diagnosi di MMM durante la fase acuta, solitamente della durata di 2-3 settimane, non presenta soverchie difficoltà, anche se l’emogramma e la biochimica ematica sono spesso negativi o presentano segni aspecifici di infiammazione. Se alterati, si possono riscontrare eosinofilia, ipergammaglobulinemia, aumento della CPK. Anche test più specifici quali ANA test, rheuma test o LE test sono spesso negativi. L’EMG rivela potenziali di fibrillazione e può permettere una differenziazione dalle rarissime forme miotoniche, caratterizzate da potenziali miotonici. L’esame di elezione rimane comunque la ricerca degli anticorpi contro le fibre 2M, che risultano altamente diagnostici in caso di MMM, a meno che non siano già state iniziate terapie con dosi medio-alte di corticosteroidi. La biopsia muscolare permette di evidenziare quadri di infiammazione (infiltrazioni di linfociti, plasmacellule, istiociti, eosinofili, ecc) o, meno frequentemente, di degenerazione o necrosi muscolare, frammisti a quadri di rigenerazione muscolare. In caso di conferma diagnostica, una terapia immunosoppressiva deve essere iniziata il prima possibile, partendo da 2-4 mg/kg ogni 24 ore e scalando lentamente per 4-6 mesi. È molto importante fornire all’animale un’adeguata gastroprotezione per prevenire la comparsa di effetti secondari della terapia corticosteroidea, poiché la sua sospensione aumenta il rischio di recidive, che sono sempre più difficili da trattare. Altre terapie con farmaci immunosoppressivi mancano di un’adeguata sperimentazione, anche se in linea teorica potrebbero trovare la loro applicazione anche in caso di MMM. È stato suggerito l’uso di azatioprina alla dose di 0,6 mg/kg/q1-3 gg. Considerazioni diverse devono essere fatte per la fase cronica della malattia, caratterizzata dalla marcata atrofia muscolare. La diagnosi differenziale deve prendere in considerazione le atrofie neurogeniche, e quindi le patologie che possono interessare contemporaneamente e bilateralmente il


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n. Trigemino. Sebbene, eccezionalmente, siano state descritte forme tumorali e traumatiche che coinvolgessero bilateralmente tale nervo, di fatto l’unica diagnosi differenziale da porre è la paralisi idiopatica del nervo trigemino6 (neurite del trigemino - paralisi della mandibola). Tale malattia, legata verosimilmente ad un meccanismo immunomediato, coinvolge la componente motoria della branca mandibolare. La sensibilità è generalmente mantenuta in tutte le aree di competenza del n. trigemino, anche se vengono riportati casi di alterazioni sensitive. Nei casi conclamati, la presentazione è acuta e l’animale si trova improvvisamente inabile a chiudere volontariamente la bocca. La chiusura passiva avviene senza alcuna difficoltà, ma appena lasciata libera, la mandibola si abbassa nuovamente. Tale prova permette di escludere lussazioni temporomandibolari o altri ostacoli meccanici alla chiusura. La prensione del cibo risulta impossibile e si assiste a colio continuo di saliva. Il meccanismo della deglutizione può sembrare alterato e mimare un problema di molteplici nervi cranici; in realtà la deglutizione in sé non presenta deficit, ma i meccanismi che comportano l’ingestione del cibo necessitano della chiusura della bocca. Conseguentemente, gli animali colpiti passano molto tempo cercando di bere ed è questo ad attirare spesso l’attenzione dei proprietari. Infatti, essendo i movimenti della lingua normali, l’animale apparentemente è in grado di bere e sembra solo assetato. In realtà, il livello di acqua nella ciotola rimane pressoché invariato e, anzi, sembra quasi aumentare perché si mescola alla saliva prodotta in abbondanza, ma non deglutita. Il decorso clinico generalmente evidenzia la ricomparsa di movimenti volontari durante la terza settimana e recupero spesso totale nelle settimane successive, anche se permane una certa atrofia dei muscoli masticatori. Può essere istituita una terapia con prednisone a dosi antinfiammatorie o immunosoppressive, ma la sua influenza sul decorso della malattia è questionabile. Molto importante è invece aiutare l’animale ad alimentarsi e a bere, depositando in bocca piccole quantità di cibo, chiudendo rapidamente la mandibola e stimolando la deglutizione tramite palpazione esterna della gola o strofinando il tartufo. Complicazioni quali la broncopolmonite ab ingestis sono rare e solo raramente si deve ricorrere all’alimentazione tramite sondini rinoesofagei. Le recidive sono possibili, ma molto infrequenti.

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Altre patologie muscolari che si possono riscontrare durante l’esame del cavo orale sono quelle a carico della lingua. Si tratta di solito di quadri di ipotrofia della metà destra o sinistra della lingua e/o alterazioni nei movimenti, secondari ad una paresi o una paralisi del nervo ipoglosso (NC XII)7. Nelle forme acute, quando non è ancora apprezzabile l’ipotrofia muscolare, si noterà essenzialmente una deviazione della lingua dalla parte opposta alla lesione per mancanza dell’azione antagonista esercitata dai muscoli del lato della lesione. Con il passare del tempo si noterà una progressiva ipomiotrofia ipsilaterale alla lesione. Infine, la progressiva sostituzione di tessuto muscolare con tessuto connettivo sarà responsabile di una deviazione verso lo stesso lato della lesione.

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Indirizzo per la corrispondenza: Marco Bernardini Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi di Padova Viale dell’Università, 16 – 35020 Legnaro (PD) Tel. 049.8272609 - Fax 049.8272954 E-mail: marco.bernardini@unipd.it


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Metodologia Omeopatica Hahnemaniana nelle patologie croniche progressive. Analisi del metodo in un caso di Mielopatia Degenerativa di un cane David Bettio Med Vet Omeopata LFHom, Parma

Alcune patologie degenerative a carico del sistema nervoso non possono essere trattate in modo efficace in Medicina Veterinaria, poiché non esistono ancora terapie specifiche a rallentare il progressivo avanzamento dello stato patologico dell’animale colpito. L’omeopatia può in taluni casi essere non solo un palliativo, ma una scelta terapeutica efficace. Winkly è un Boxer maschio di 3 anni. Giunge con un deficit neurologico propriocettivo del treno posteriore. La deambulazione è fortemente incoordinata tra zampe anteriori e posteriori. Le zampe posteriori reggono a fatica il cane che si accascia senza alcun segno di dolore dopo pochi passi. Dalla visita neurologica e dagli esami effettuati, non emergono dati confortanti per una diagnosi. Non ci sono segni che facciano sospettare una compressione midollare, neppure referti ematochimici suggeriscono una patologia specifica. Il quadro neurologico presenta una atassia posteriore, dismetria lieve anteriore e atrofia dei muscoli degli arti posteriori e dei muscoli para-spinali toraco-lombari. Vengono effettuate le analisi diagnostico-differenziali che mettono in evidenza diverse problematiche. Dal punto di vista neurologico Winkly non presenta alcun segno di patologia neurologica a carattere compressivo, infettivo-infiammatorio, neoplastico. La RM, l’elettromiografia e la mielografia con contrasto risultano negative, mentre la biopsia muscolare mostra una atrofia neurogena cronica attiva. Non viene effettuato nessun trattamento terapeutico, tranne delle fisioterapia. Dopo alcuni mesi Winkly non ha nessun miglioramento neurologico. Le analisi propongo per una ipotesi di Mielopatia Degenerativa. Inoltre la situazione è aggravata dalla positività a Neospora e Toxoplasma. La Mielopatia Degenerativa è una malattia del midollo spinale a carattere progressivo, ingravescente, è caratterizzata da un esordio insidioso e da un decorso cronico progressivo che porta all’incapacità a deambulare il soggetto. A tutt’oggi l’eziologia della malattia è sconosciuta. Il decorso della malattia, dal momento in cui vengono riconosciuti i sintomi, viene quantificato in un periodo compreso tra i 6 e i 36 mesi. La diagnosi eziologica della MD è una diagnosi neuropatologia post-mortem. Visita omeopatica: Winkly è irruento, vivace, giocoso e festoso, a volte rissoso con gli altri cani, ma molto generoso nei confronti dei proprietari, ubbidiente ma testardo. Mangia di tutto e in modo vorace e a volte passa una giornata intera senza toccare cibo. Beve parecchio. È tendenzialmente molto eccitabile, basta stimolarlo a giocare che subito cerca di cor-

rere e aderire e accettare il gioco. Solitamente la sua struttura fisica lo rende un cane elastico ed atletico, ma Winlky è impossibilitato dalla sua malattia e fare ciò che desidera. Trascina gli arti posteriori e stenta a mettersi in piedi in modo autonomo. Non appena inizia a camminare presenta una andatura incerta e incrociata delle zampe e ricade sul posteriore senza forza. Solo quando è motivato (cibo o gioco) si alza ma si sostiene per pochi metri. È un soggetto essenzialmente caloroso. Winkly appare un cane equilibrato dal punto di vista comportamentale, ma fortemente condizionato dalla sua patologia che sembra non avergli intaccato la gioia di vivere, ma che sicuramente limita le sue possibilità. Come succede in alcuni casi, non ci sono molti sintomi peculiari, strani e bizzarri che caratterizzano il cane in modo omeopatico, come indicato nel §153: Nella ricerca del rimedio omeopatico, specifico, ossia in questo confronto tra la totalità dei segni della malattia naturale e le serie dei sintomi dei rimedi a nostra disposizione, allo scopo di trovare la giusta potenza morbosa artificiale, per guarire il male secondo la legge dei simili, si devono tenere presenti in modo particolare e quasi esclusivo, i sintomi più salienti, quelli particolari, quelli non comuni, quelli caratteristici della malattia. Infatti il rimedio cercato, per essere il più adeguato alla guarigione, deve appunto avere, nella serie dei suoi sintomi, sintomi che siano assai simili a quelli caratteristici della malattia che si cura. I sintomi generali e indeterminati, come inappetenza, mal di capo, debolezza, sonno inquieto, malessere ecc., per avere carattere generale e non essere meglio specificati, meritano minor attenzione, poiché essi si riscontrano quasi in ogni malattia e in ogni rimedio. Non mi rimane che attenermi ai sintomi obbiettivi. I sintomi obbiettivi che scelgo per la repertorizzazione, rispondono essenzialmente ad una domanda, che nel caso di Winlky ritengo fondamentale: che cosa in questo momento è invalidante nella vita di questo essere vivente? Quali sono i veri sintomi del paziente? 1. SINTOMI GENERALI – ATROFIA 2. SINTOMI GENERALI - ATROFIA muscolare 3. ESTREMITÀ – EMACIAZIONE 4. SINTOMI GENERALI - ATASSIA LOCOMOTORIA 5. ESTREMITÀ - DEBOLEZZA - Inferiori; arti 6. ESTREMITÀ – INCOORDINAZIONE 7. ESTREMITÀ - INCOORDINAZIONE - Inferiori, arti 8. SINTOMI GENERALI - CALORE - sensazione di


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Prescrivere in questi casi non è facile perché si ha una grossa responsabilità. Ciò che dobbiamo curare è una perturbazione dell’energia vitale che si manifesta in segni e sintomi. Il quadro mentale non è il baricentro di Winkly, il suo problema è neurologico e la prescrizione dovrà necessariamente tenere in considerazione dei rimedi che hanno in se una manifestazione puntiforme a livello neurologico. Dovremmo quindi trovare la ‘risonanza’, la ‘similitudine’ tra individuo e rimedio. Questo viene indicato da Hahanemann nel § 70: Per quanto fino a qui esposto dobbiamo ammettere: 1) che tutto quello che il medico può trovare di veramente malato e da guarire nelle malattie consiste solo nello stato dei disturbi del malato e nelle alterazioni del suo stato percepibili con i sensi, in altre parole consiste solo nella totalità di quei sintomi, con i quali la malattie esprime la richiesta di un rimedio appropriato. Mentre, dall’altra parte, ogni causa interna e condizione inventata ed oscura, oppure altra causa morbosa e immaginaria materiale non è che un sogno vano; 2) che questa sensazione della sensibilità generale, che chiamiamo malattia, può essere riportata allo stato di salute solo con altra alterazione della sensibilità generale della forza vitale col mezzo di rimedi, la cui unica forza curativa può di conseguenza solamente consistere nell’alterazione dello stato fisiologico generale ossia nella produzione specifica di sintomi morbosi. Tali fatti si riconoscono nel modo più chiaro e più evidente negli esperimenti, con rimedi, nell’organismo sano; […] 4) che, pure per tutte le esperienze fatte, con medicine, che hanno tendenza a produrre nell’uomo sano sintomi morbosi artificiali contrari a qualche sintomo della malattia da curare, si può avere soltanto un sollievo passeggero, mai guarigione di disturbi più vecchi, sebbene piuttosto sempre conseguenze di peggioramento. In altre parole il trattamento allopatico puramente palliativo in mali importanti, di vecchia data,è senz’altro contrario allo scopo; […] Prescrizione: PLUMBUM METALLICUM 30 CH - 5 gocce mattina e sera dinamizzate nell’acqua di bevanda. Dopo tredici giorni di terapia con Plumbum 30 CH si forma una neoformazione suppurante a livello del garretto destro. Il linfonodo popliteo dell’arto destro è reattivo. Winkly è sereno come sempre, mangia con appetito e inizia a reggersi in piedi per periodi più lunghi. Un mese dopo l’inizio della crisi esonerativa la neoformazione si è riassorbita e rimane solo una reazione fibrosa che non suppura ne da dolore. In concomitanza con la remissione del sintomo esonerativi, Winkly ha avuto un peggioramento della sintomatologia neurologica. PLUMBUM METALLICUM 200 CH 5 gocce al giorno dinamizzate nell’acqua di bevanda. A questo punto mi viene riportato che Winlky non ha avuto più nessun miglioramento, rispetto alle fasi iniziali corrispondenti alla somministrazione di Plumbum 30 CH. Fa fatica a muore le gambe e si regge in piedi solo per pochi minuti. I proprietari notano che la postura del dorso è migliorata e la cifosi è del tutto scomparsa. Ma rimane una forte debolezza agli arti posteriori. I muscoli del treno posteriori sono ancora atrofici. Le gambe, a livello dei garretti si toccano una contro l’altra. Alterna dei momenti in cui cammina e

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altri nei quali non riesce a farlo. Sembra ritornato come all’inizio della terapia omeopatica. Quando si alza da solo per camminare, perde urina. In questo ultimo periodo Winkly si eccita molto sessualmente. A questo punto la reazione al primo rimedio è stata molto efficace ma ha esaurito la sua azione. La prescrizione sarà mirata sulla predisposizione miasmatica neurologica, che è il punto centrale della perturbazione energetica di Winkly. 1. MASCHILI, GENITALI - SESSUALE, desiderio aumentato - facilmente eccitato 2. ESTREMITÀ - DEBOLEZZA - Inferiori; arti - stando in piedi 3. ESTREMITÀ - SBATTUTE tra loro - ginocchia 4. ESTREMITÀ - SBATTUTE tra loro - ginocchia - cammina; mentre 5. ESTREMITÀ - DEBOLEZZA - Inferiori; arti 6. ESTREMITÀ - EMACIAZIONE - Inferiori, arti 7. ESTREMITÀ - INCROCIANO, quando cammina; le gambe si 8. ESTREMITÀ - MOVIMENTI - perdita di controllo dei 9. SINTOMI GENERALI - NEUROLOGICHE, malattie Prescrizione: LATHYRUS SATIVUS 30 CH - 5 gocce mattina e sera dinamizzate in acqua di bevanda. Alla visita di controllo dopo un mese di terapia, trovo che Winlky sta facendo grandi progressi, adesso ha voglia di lavorare. Ho contattato la fisioterapista e dopo aver guardato il comportamento di Winkly e, dopo alcuni massaggi, ha provato a mettere il cane sul tapis-roulant, rendendosi che era pronto per lavorare. A soli tre mesi dall’inizio della somministrazione di Lathyrus s., Winkly lavora molto e giorno dopo giorno posso rilevare gli effetti della terapia, piccoli passi, ma significativi. Riesce a percorrere ogni mattina e ogni sera 1 km a piedi senza problemi. Quando è stanco del lavoro, cammina in modo poco coordinato, ma migliora sempre di più la forza di resistenza sulle zampe posteriori. Il titolo anticorpale di Neospora è diminuito a 1:512. Andamento dell’energia vitale, come nelle indicazioni di Hahnemann nel §70 dell’Organon, evidenziano una inversione della progressione della malattia degenerativa. 1. Boericke W., Pocket Manual of Homeopathic Materia Medica, Encyclopaedia Homeopathica 2. Clarke J.H., Dictionary of Practical Materia Medica, Encyclopaedia Homeopathica. 3. Clemmons RM (1192), Degenerative Mielopathy – Vet Clin N am – Small Animal Pract 22:965-971. 4. Hahnemann S. Organon dell’Arte del Guarire, Edizione VI, Ed Red, Como, 1985. 5. Johnston PE, Barrie JA, Mc Culloch MC et al. (2000) Central nervous system pathology in 25 dogs with chronic degenerative radiculomielopathy. Vet Rec 146:629-633. 6. Kent J.T., Lezioni di Filosofia Omeopatica, Edizioni Red, Como, 1986. 7. Morrison G., Manuale Guida ai sintomi chiave e di conferma. Galeazzi Ed, 1998.

Indirizzo per la corrispondenza: David Bettio Scuola di Medicina Omeopatica di Verona (www.omeopatia.org), Cell. 339-3497871, Ambulatorio: 0521-697211 Email: david.bettio@omeopatia.org


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Aspetti diagnostici e terapeutici della pancreatite del gatto Andrea Boari Med Vet, Teramo,

Marco Pierantozzi Med Vet, Teramo

Fino ad alcuni anni fa, si riteneva che i disordini del pancreas esocrino avessero una incidenza estremamente bassa nel gatto. Studi recenti hanno dimostrato che i gatti sono colpiti da affezioni del pancreas esocrino similmente a quanto avviene nel cane, ma che spesso sfuggono ad una diagnosi clinica. Nella specie felina la pancreatite rappresenta il disordine più frequente del pancreas esocrino. Si riconoscono forme acute e croniche che costituiscono rispettivamente 1/3 e 2/3 di tutti i casi, al contrario del cane dove i 2/3 dei casi di pancreatite rientrano nelle forme acute. La pancreatite acuta si riferisce ad una condizione infiammatoria di breve durata completamente reversibile una volta eliminata la causa scatenante. La pancreatite cronica, è costituita invece da una flogosi di lunga durata del tessuto pancreatico associato ad alterazioni istopatologiche irreversibili (fibrosi ed atrofia). Sebbene la definizione di acuto e di cronico si basi su dati istopatologici piuttosto che su segni clinici, la pancreatite acuta si presenta comunemente in forma grave mentre la pancreatite cronica è di solito lieve o subclinica. Al momento nel gatto, non è possibile differenziare ante-mortem le forme acute da quelle croniche sulla base dei dati clinici, clinico patologici e di diagnostica per immagine. Più del 90% dei casi di pancreatite felina sono idiopatici. Tuttavia, alla condizione sono state associate molteplici malattie e fattori di rischio. In letteratura sono stati segnalati alcuni casi di pancreatite traumatica causati da incidenti stradali o dalla caduta da grandi altezze. Nella patogenesi della malattia sono stati implicati inoltre diversi agenti infettivi tra cui il Toxoplasma gondii, scarse le correlazioni con i virus della panleucopenia, della peritonite infettiva e l’Herpesvirus di tipo I. Sono stati segnalati casi di pancreatite felina da applicazione topica di esteri fosforici (fenthion). Contrariamente al cane in cui la pancreatite è stata associata a obesità e pasto ricco di grassi, nel gatto è stata osservata una associazione con lo stato di nutrizione scadente. Di estrema importanza clinica è il fatto che la pancreatite felina sia associata ad altre condizioni patologiche come la malattia infiammatoria intestinale (IBD) e affezioni del tratto biliare. Per questo da alcuni autori è stato coniato il termine “tradite” ed è stata avanzata l’ipotesi che la flogosi pancreatica ed epatobiliare sia in realtà la conseguenza della IBD. Tutte le cause sembrano seguire una analoga via patofisiologica attraverso l’attivazione della tripsina, l’autodigestione del

pancreas, la liberazione di citochine infiammatorie, l’attivazione di una risposta infiammatoria, la comparsa di complicazioni sistemiche come la risposta infiammatoria sistemica (SIRS), l’edema polmonare, la coagulazione intravasale disseminata, la disfunzione d’organo multipla ed infine la morte. La pancreatite felina è molto difficile da diagnosticare per la mancanza di segni clinici specifici e la disponibilità limitata di test affidabili. I segni clinici più frequentemente riportati sono l’anoressia, la letargia e la disidratazione. Il vomito, ritenuto forse il segno più frequente e costante nel cane, si presenta meno comunemente nel gatto; il dolore addominale è spesso presente ma è difficile da rilevare nella specie felina. A causa della aspecificità dei segni clinici, la pancreatite dovrebbe essere considerata in diagnosi differenziale in ogni gatto che presenti anoressia, letargia o vomito di origine non nota. Le indagini ematobiochimiche sono di solito di scarso aiuto nella diagnosi, ma possono fornire utili informazioni sul bilancio idroelettrolitico e su eventuali malattie concorrenti. Trascurabili e poco significative le alterazioni ematologiche (anemia non rigenerativa e leucocitosi). Le alterazioni al profilo biochimico sono di solito non specifiche e comprendono iperbilirubinemia, ipercolesterolemia, iperglicemia, un aumento degli enzimi epatici (ATL,AST,ALP), della BUN e creatinina ed ipoalbuminemia. Le più comuni alterazioni elettrolitiche sono l’ipokaliemia e l’ipocalcemia. L’ipocalcemia è il risultato di diversi meccanismi che includono gli squilibri elettrolitici, la saponificazione del grasso peripancreatico, una resistenza al paratormone e l’ipoalbuminemia. La presenza di ipocalcemia è legata ad una prognosi sfavorevole. Molti laboratori ancora comprendono nei loro profili, la lipasi e l’amilasi sieriche. Entrambi questi enzimi, fra l’altro non di esclusiva provenienza pancreatica, si sono dimostrati nel cane e nel gatto, incapaci di distinguere soggetti sani da quelli affetti da pancreatite e pertanto non sono in grado di fornire informazioni utili alla diagnosi di pancreatite. Test ritenuti specifici della funzionalità intestinale (cobalamina e folati) e pancreatica (fTLI e fPLI) possono risultare molto utili nella diagnosi della pancreatite felina e soprattutto nella valutazione di malattie concomitanti (IBD) (Simpson et al. 2001). L’immunoreattività tripsinosimile sierica (fTLI) è considerato uno specifico indicatore della funzionalità pancreatica ed è infatti considerato il test d’elezione per la diagnosi di insufficienza pancreatica esocrina (IPE). Tuttavia la


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relativa bassa incidenza dell’IPE nel gatto, ha consentito una sua maggior utilizzazione nella diagnosi della pancreatite acuta felina dove si assisterebbe all’aumento della sua concentrazione sierica. Il test si presenta altamente specifico ma scarsamente sensibile (sensibilità 30-60%) nella diagnosi di pancreatite acuta. La sensibilità si riduce drasticamente nelle forme croniche (8%). Pur rimanendo il test di scelta per l’insufficienza pancreatica esocrina, la presenza di un valore normale non ci permette di escludere la pancreatite. Falsi positivi sono invece stati segnalati in corso di IBD, linfosarcoma e digiuno prolungato. Recentemente è stato sviluppato e validato nel laboratorio della Texas A&M University un test RIA specifico per l’immunoreattività della lipasi pancreatica felina (fPLI) (Steiner et al., 2004). Il test mostra una elevata sensibilità e specificità (80% di sensibilità in corso di grave pancreatite, e 80% di specificità). Pur in assenza di un test “ideale” per la diagnosi di pancreatite, l’elevate sensibilità e specificità del fPLI, ne fanno attualmente il test più affidabile. In un recente studio condotto su gatti con pancreatite spontanea, il fPLI si è dimostrato infatti più sensibile e più specifico del fTLI e dell’ecografia addominale (Forman et al., 2004). La pancreatite felina è difficile da valutare attraverso la diagnostica per immagini. Non esistono segni radiografici patognomonici della pancreatite, ma solo riscontri compatibili con una peritonite localizzata e l’eventuale compromissione di altri organi. L’ecografia addominale è la tecnica di diagnostica per immagini d’elezione per la pancreatite nel gatto, dal momento che fornisce informazioni più specifiche sulle dimensioni, la forma e l’omogeneità del pancreas rispetto alle radiografie addominali in bianco. Consente inoltre di monitorare l’evoluzione ed eventuali complicanze (pseudocisti pancreatiche, ascessi). L’esame si presenta altamente specifico quando vengono applicati rigorosi criteri (specificità >85%) ma scarsamente sensibile (sensibilità <35%). È un esame fortemente operatore-dipendente. L’unico metodo attualmente in grado di fornire una diagnosi definitiva rimane l’istopatologia su campioni multipli bioptici. Questo approccio ha però due limiti: il rischio anestesiologico elevato dei pazienti con le forme acute e la necessità di effettuare, data la natura a volte focale della patologia, numerose biopsie (Ferreri et al., 2003). Per concludere nella diagnosi della pancreatite felina è essenziale utilizzare una combinazione di anamnesi, esame fisico, dati laboratoristici, diagnostica per immagini insieme con la valutazione dell’fPLI. Il trattamento delle pancreatiti dipende dalla gravità del processo morboso. Sia la pancreatite acuta che quella cronica possono essere subcliniche, lievi, moderate o gravi. Le forme gravi di pancreatite acuta necrotizzante sono quelle che presentano maggiori problemi terapeutici e la sopravvivenza dei gatti colpiti dipende anche da una diagnosi precoce e da un aggressivo e immediato supporto terapeutico. Se la causa scatenante viene identificata è opportuno rimuoverla al più presto. Nonostante non sia possibile distinguere da un punto di vista clinico le forme acute da quelle croniche, è tuttavia possibile indicare gli indicatori clinici più importanti delle forme più gravi quali ipoalbuminemia e ipocalcemia nel profilo biochimico; grave disidratazione, tachicardia/bradicardia, tachipnea e/o febbre che sono segni della SIRS. La terapia di supporto continua ad essere il punto di forza nel trattamento della pancreatite. È importante ripristinare il

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volume circolante con una fluidoterapia aggressiva, correggere gli eventuali squilibri acido-base ed idro-elettrolitici, controllare il vomito (clorpromazina o 5-HT3 antagonisti), fornire un sollievo per il dolore (meperidina o butorfanolo), mettere il pancreas a riposo per un breve periodo di tempo e trattare ogni complicazione che potrebbe insorgere. Le complicazioni che mettono in pericolo la vita del gatto in corso di pancreatite acuta sono l’ipocalcemia, la coagulazione intravasale disseminata, il tromboembolismo, le aritmie cardiache, la sepsi, la necrosi tubulare acuta, l’edema polmonare ed il versamento pleurico. La raccomandazione “nulla per os” per 2-4 giorni in corso di pancreatite è giustificata esclusivamente nei casi in cui sia presente grave vomito, altrimenti i gatti dovrebbero essere comunque alimentati (sondini nasali, esofagei, gastrici, digiunali, nutrizione parenterale parziale). Il gatto infatti, quale carnivoro obbligato, sviluppa rapidamente mobilizzazione dei grassi e lipidosi epatica durante il digiuno prolungato. Considerando come istamina e bradichinine inducono aumento della permeabilità microvascolare che può condurre ad una forma emorragica necrotica di pancreatite potrebbe essere giustificabile e privo di effetti collaterali, il trattamento con H1 antagonisti (mepiramina o difenidramina) e con H2 antagonisti (cimetidina o ranitidina o famotidina o nizatidina). A differenza del cane, l’uso di antibiotici ad ampio spettro (cefotaxime o ampicillina + metronidazolo) può essere indicato in corso di pancreatite felina per il rischio di traslocazione e colonizzazione batterica del pancreas. La prognosi dei gatti con pancreatite acuta dipende dalla gravità della patologia e dalla presenza di complicazioni sistemiche. Fra queste occupa un ruolo importante la comparsa di lipidosi epatica che può essere prevenuta tramite un adeguato supporto nutrizionale. Nei gatti affetti da forme croniche, si ritiene che l’infiammazione persistente solitamente subclinica esiti in una progressiva perdita di tessuto pancreatico funzionale. Quando il danno supera l’85%-90% di tutto il tessuto pancreatico (esocrino ed endocrino) possono insorgere l’IPE e/o il diabete mellito. Infine in caso vi sia il sospetto che la causa scatenante la pancreatite sia una IBD, la terapia dovrebbe essere rivolta alla risoluzione della flogosi cronica intestinale (modificazione della dieta, integrazione con folati e cobalamina, antibiotici, probiotici, agenti immunosoppressivi).

Bibliografia Ferreri JA, Hardam E, Kimmel SE et al., (2003), Clinical differentiation of acute necrotizing from chronic nonsuppurative pancreatitis in cats: 63 cases (1996-2001), J Am Vet Med Assoc 223: 469-474. Steiner JM, Wilson BG, Williams DA, (2004), Development and analytical validation of a radioimmunoassay for the measurement of feline pancreatic lipase immunoreactivity in serum, Can J Vet Res 68:309-314. Simpson KW, Fyfe J, Cornetta A et al., (2001), Subnormal concentrations of serum cobalamin (vitamin B12) in cats with gastrointestinal disease. J Vet Intern Med, 15:26-32. Forman MA, Marks SL, De Cock HEV et al., (2004), Evaluation of serum feline pancreatic lipase immunoreactivity and helical computed tomography versus conventional testing for the diagnosis of feline pancreatitis, J Vet Intern Med, 18:807-815.

Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Boari, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo, Viale F. Crispi 212, 64100 Teramo 0861 266972 – fax 0861 266971 – e-mail aboari@unite.it


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Evoluzione nella Escuela Medica Hahnemanniana Argentina e riscontri nella clinica veterinaria Andrea Brancalion Med Vet, Treviso

Introduzione Il nemico più subdolo del Clinico Omeopata è la propria soggettività, fonte di pregiudizi nei confronti del paziente, mentre invece sarebbe opportuno osservare regole di obbiettività per poter attuare la migliore prescrizione. Molti anni di esperienza dei Maestri argentini hanno permesso di mettere a punto un percorso, che potremmo definire un protocollo, utile allo scopo, se non di eliminare completamente, di diminuire al massimo quei pregiudizi, ostacoli alla buona pratica, derivati dal grado di preparazione, di conoscenza, di filosofia di vita, di esperienza e, perché no, anche dal temperamento del medico stesso. Con l’aiuto di un caso clinico, sono messi in evidenza i punti focali di ciò che è conosciuto come Approssimazione al Metodo Pratico e Preciso dell’Omeopatia Pura1, dove “approssimazione” sta a significare la possibilità e la necessità di perfezionare ulteriormente il metodo stesso. Esso rappresenta l’ultima e più importante evoluzione della Scuola Argentina e la sua validità anche nella clinica veterinaria sottolinea il suo carattere di universalità, una qualità che sempre deve accompagnare la buona pratica omeopatica.

Materiali e metodi Si prende in esame il caso di un cane, Pointer femmina di 8 anni di nome Lola, portato a consulto per una zoppia al posteriore destro, presente da quasi un anno, che l’ha reso prima inabile alla caccia e poi anche ad una normale attività motoria. Inizialmente è stato trattato da un Collega con antidolorifici, successivamente con antinfiammatori senza alcun risultato di rilievo; è stato allora riferito al nostro Ospedale, il 17 dicembre 2005. Anamnesi, visita ortopedica, diagnostica per immagini e citologia portano alla verifica di una neoplasia mesenchimale maligna di cm 2,33 x 3,71 lungo il percorso del nervo sciatico destro, la cui tipizzazione (schwannoma maligno, neurofibrosarcoma, ecc.) potrebbe essere confermata solo dall’esame istologico, non eseguito. Dopo questa prima fase clinica, su precisa richiesta della proprietaria, si procede alla visita omeopatica secondo il protocollo per la cui parte generale, già descritta più volte, si rimanda alla bibliografia2 ed al PDF scaricabile in http://www.universidadcandegabe.org/trabajoscientificos/a_brancalion/il_metodo_argentino.pdf

Di seguito, invece, sarà riportata la parte relativa alla sua applicazione pratica.

Il protocollo del Metodo Argentino dell’Omeopatia Pura Interrogatorio sistematico - Come spesso fanno i cani da caccia fuori dal loro normale ambiente, Lola si presenta con fare dimesso, roteando la coda, unica parte del corpo mobile; tutto il resto è immobile, nella rassegnazione di chi deve sottostare alla visita o, forse, per l’abitudine all’obbedienza cieca nei confronti dell’uomo, in cambio delle giornate gioiose della caccia. L’approccio omeopatico ai cani da caccia mi è sembrato sempre più difficoltoso, non a causa dell’animale, ma a causa del proprietario spesso, anche se non sempre, centrato molto più sull’attività venatoria che sull’osservazione del suo cane al di fuori di essa. Per questo a volte pongo delle domande anche un po’ provocatorie, proprio per cercare di “scompensare” il proprietario nel tentativo di ottenere un racconto più obbiettivo. Domanda alla proprietaria (D): “Signora, il problema del suo cane ormai lo conosciamo, non ci resta quindi che indagare sugli altri aspetti che lo riguardano. Cosa mi dice di Lola? Cos’è la prima cosa che le viene in mente?” Risposta (R): “È un cane vivace, intelligente, grintoso, fa la guardia ed abbaia di notte…” Riflessione: mi aspettavo che mi parlasse della caccia, di come puntava la selvaggina, di quanto correva, ecc. D: “Beh… un cane da caccia che fa la guardia… Farà poi come tutti i cani che abbaiano quando passa qualcuno, quasi per rompere la noia, no?” R: “Me lo sono chiesto anch’io, ma il fatto che lo faccia solo di notte, quando noi dormiamo insomma, e non di giorno, mi fa pensare che questo cane ha qualcosa in più ed una certa logica.” D: “Può aggiungere qualcosa al riguardo? R: “Prendiamo la caccia ad esempio, a caccia batte tutti, nel senso che guida il branco ed arriva sempre per prima. Comanda lei, ovviamente, non l’ho mai vista azzuffarsi per imporre la sua supremazia, lei è sempre davanti, semplicemente. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che ha un naso migliore degli altri cani, ma ho la sensazione che l’aspetto del leader naturale sia più giusto.” D: “Si dice che l’obbedienza non vada molto d’accordo con l’intelligenza…”


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R: “Guardi, Lola per me è intelligente e molto obbediente, poi quello che si dice non mi interessa: è la prima ad arrivare alla preda ed è la prima ad arrivare da me quando chiamo i cani. Adesso che mi ci fa pensare: più che obbediente, potrei dire diligente, quello che si deve fare si fa. Ecco, credo proprio che sia questa Lola.” D: “Qualcosa ancora che la rende particolare o diversa?” R: “Mi colpisce la voglia enorme che ha ancora di giocare, in questo batte tutti gli altri cani ben più giovani di lei… Poi devo dire che è una forte mangiatrice, nonostante mantenga il suo peso forma, sempre… e adesso proprio non riesco a rassegnarmi a vederla ancora piena di volontà, ma così impossibilitata.” D: “È cambiato qualcosa nel suo atteggiamento ora che non sta bene?” R: “Mah... Una cosa sicuramente: vede? Lo vede anche lei, si attacca e non mi molla più, quasi avesse paura di perdere il suo posto; l’ho visto fare anche in altri cani nelle stesse situazioni… Un’altra cosa che non aveva mai fatto prima, l’altro giorno, aveva preso per la gola uno dei cani che di solito lavorano con lei, senza motivo: non era ora di mangiare, né di bere, né di altro.” Tracciato del quadro della malattia – Secondo lo schema del protocollo, possiamo inquadrare i sintomi come segue: • Caratterologici - grande perseveranza [OBSTINATE], sicuro dei propri mezzi [POSITIVENESS], pieno di vita [VIVACIOUS], competitivo [AMBITION increased – competitive], desiderio di giocare [PLAYING – desire to play] • Modalizzati - forte senso del dovere [DUTY, too much sense of], desiderio di essere tenuto stretto [HELD, desire to be], conseguenze per la posizione perduta [AILMENTS FROM, position, loss of], dolore sciatico agg. dal movimento [PAIN, Lower Limbs, sciatica, motion, agg.]; • Ausiliari - soggetto magro, nonostante il cibo abbondante [LEAN people], linfadenite [INFLAMMATION, Glands of], neoplasia [CANCEROUS affections]. Repertorizzazione intelligente – Si considerano solo i 3 sintomi modalizzati più gerarchici. In questo caso: DUTY, too much sense of; HELD, desire to be; PAIN, Lower Limbs, sciatica, motion, agg. I Rimedi suggeriti dallo schema metodologico sono: Ars., Calc., Coff., Gels., Kali-c., Lach., Nuxm., Nux-v., Plb., Sep.3 Connessione con la Materia Medica e Reinterrogatorio indicizzato – Viene confermato il rimedio Nux-v.4 Diagnosi di Livello Dinamico e Prognosi Dinamica – Viene attribuito il Livello 1 data la coerenza della Costituzione Morbosa del paziente e la buona manifestazione sintomatologica5. Prescrizione giudiziosa – Nux-v. LM1 in gocce, una dose al giorno in plus secondo Hahnemann6 dal 17 dicembre 2005.

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delle sue dimensioni iniziali. Nell’occasione viene fatta una nuova prescrizione: Nux-v. LM2, una dose a giorni alterni. Dopo circa un mese il cane si allena e mostra di aver ripreso in pieno le sue facoltà motorie, correndo senza risentimenti anche per 2 ore. La vita del paziente è ora considerata normale ed anche il suo comportamento non ha più mostrato segni di squilibrio. Nuova prescrizione: Nux-v. LM3 ogni terzo giorno. I contatti telefonici con la proprietaria sono regolarmente avvenuti e nulla è stato segnalato fino al 9 luglio 2006, giorno in cui Lola è stata portata d’urgenza in Ospedale in grave stato con addome acuto a causa di una peritonite settica, conseguenza di una piometra con rottura dell’utero. Il ritardo del ricovero è stato fatale. Un’ecografia postmortem ha confermato le stesse dimensioni della neoplasia riferite nel precedente febbraio.

Conclusioni La validità del metodo argentino dell’Omeopatia Pura si può sintetizzare nella sua potenzialità di individuare la Costituzione Morbosa del paziente7, cioè l’elemento fondamentale per l’applicazione del principio basilare dell’Omeopatia, la Legge di Similitudine. È interessante notare che, lasciandoci trasportare dalla soggettività o da un’analisi superficiale, non verrebbe mai in mente di usare Nux-v. in un caso di neoplasia maligna, tant’è vero che tale rimedio non compare nelle rubriche del Repertorio relative a tale problema, mentre copre straordinariamente tutti gli altri sintomi della Totalità del soggetto, e soprattutto i sintomi caratterologici. Questi sintomi, pur non essendo validi per la repertorizzazione, perché troppo generici e non individualizzanti, sono tuttavia i più importanti per il paziente, poiché rappresentano il limite alla propria realizzazione, come definito nel §9 dell’Organon di Hahnemann, e rimangono il parametro principale di scelta assieme ai sintomi modalizzati.

Bibliografia 1.

2.

3. 4. 5. 6.

Risultati Subito dalle prime somministrazioni, la proprietaria riferisce che Lola ha ripreso ad essere più attiva ed a muoversi meglio. Tale miglioramento è progredito regolarmente fino al successivo controllo ecografico il 23 febbraio 2006: il tumore risulta ridotto a un diametro di cm 1,57, cioè circa la metà

7.

Candegabe ME, Carrara HC, (1997), Approssimazione al Metodo Pratico e Preciso dell’Omeopatia Pura, Centro Internazionale della Grafica, Venezia. Brancalion A, (2006), La Méthode Argentine de l’Homéopathie Pure de Candegabe-Carrara en Médécine Vétérinarie, 61° Congres de L.M.H.I., Lucerne (CH). RADAR™ Homoeopathic Software, Vers. 8.0, Archibel SA, Belgique EH™ Homoeopathic Software, Vers. 2.1, Archibel SA, Belgique. Brancalion A, (2004), Scala LM e Prognosi nella Pratica dell’Omeopatia, H.M.S, Como. Dudgeon RE, (2001), By Samuel Hahnemann Organon of Medicine, Jain Publishers, New Delhi. Stocchino MC, Brancalion A, (2007), Un Modo Speciale di Agire, Sentire e Reagire, Il Medico Omeopata, 36: 36-38.

Indirizzo per la corrispondenza Andrea Brancalion Via L. Sartorio, 3 – 31100 Treviso E-mail: andreabra@iol.it


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Il corretto approccio all’anestesia nel parto cesareo: le complicazioni e gli errori più comuni, come evitarli e come risolverli Antonello Bufalari Med Vet, PhD, Perugia

Chiara Maggio e Tania Bordoni, Dottorande di ricerca, Università degli Studi di Perugia

Gli obiettivi da raggiungere nella conduzione anestetica del parto cesareo sono: • Ipnosi, analgesia e miorilassamento della madre che consentano una facile e tranquilla induzione dell’anestesia generale, un’adeguata fase di mantenimento e una veloce ripresa di coscienza e controllo dei movimenti per favorire una pronta cura dei cuccioli; • pronto risveglio dei cuccioli che devono essere in grado di assumere rapidamente il colostro. Per soddisfare questi obiettivi è necessario sapere che durante la gravidanza si instaurano nella gestante importanti cambiamenti fisiologici che coinvolgono l’apparato cardiocircolatorio, respiratorio, gastroenterico, nonché il sistema endocrino e metabolico1. Queste modificazioni alterano sensibilmente le caratteristiche farmacologiche degli anestetici e degli analgesici rispetto a quanto avviene nei soggetti non gravidi. Le alterazioni che ne conseguono si traducono essenzialmente in variazioni a carico dell’assorbimento, della distribuzione, del metabolismo e dell’eliminazione dei farmaci, nonché delle possibili interazioni con i rispettivi bersagli molecolari, e in una conseguente modificazione degli effetti farmacologici. L’assorbimento dei farmaci può variare in ragione di molteplici fattori che fanno capo a modificazioni del circolo, della componente idrica e lipidica dell’organismo e a riduzione delle proteine plasmatiche. L’apparato cardiocircolatorio, ad esempio, subisce delle importanti variazioni correlate ai cambiamenti ormonali, agli effetti meccanici dell’utero gravido e alle richieste metaboliche del feto; queste si traducono in un progressivo aumento di frequenza, inotropismo e gittata cardiaca (tra il 20-50%) e in una corrispettiva diminuzione delle resistenze vascolari periferiche, tali da permettere di mantenere inalterata la pressione sistemica, nonostante il considerevole aumento del lavoro cardiaco2,3. L’attivazione del sistema renina-angiotensina determina ritenzione di acqua e ridotta eliminazione di sodio, con aumento del volume plasmatico circolante (fino al 40%); i liquidi trattenuti si distribuiscono nei tessuti materni, nell’amnios, nella placenta e nel feto, con conseguente aumento del volume di distribuzione dei farmaci idrosolubili e ridotta concentrazione degli stessi a livello del sito effettore2,3. Allo stesso modo, l’aumento del grasso corporeo comporta un incremento del volume di distribuzione dei farmaci liposolubili e una loro minore disponibilità nel plasma2,3. La

riduzione delle albumine seriche può indurre una maggiore quantità di farmaco biodisponibile, e una sua più ampia capacità di distribuzione2,3. Per quello che concerne la funzionalità renale, la gestante ha un flusso plasmatico renale e una filtrazione glomerulare considerevolmente aumentati in dipendenza dell’aumento della gittata cardiaca; la clearance dei farmaci risulta pertanto più elevata, con conseguente aumentata eliminazione delle molecole solubili e dei loro metaboliti2,3. Anche il metabolismo e l’eliminazione degli analgesici possono subire delle modificazioni. L’attività degli enzimi epatici può, infatti, risultare modificata, comportando una variazione nell’ambito della quota metabolizzata del farmaco 2,3. Anche la capacità di diffusione transplacentare deve essere opportunamente considerata nella scelta degli anestetici da impiegare, al fine di minimizzarne la possibile diffusione nei tessuti fetali. La barriera placentare può essere considerata alla stessa stregua di quella emato-encefalica, pertanto appare ovvio che un analgesico capace di trasferirsi nel SNC può passare altrettanto facilmente la placenta. In particolare, la barriera placentare è permeabile alle molecole lipofile e a quelle con peso molecolare inferiore a 500 Dalton, non consentendo invece, se non in misura ridotta, il passaggio di composti polari. In conseguenza di tale transito, una certa quota di farmaco somministrato alla madre potrà risultare disponibile e attiva per il feto. Inoltre, essendo la placenta un organo enzimaticamente attivo, i farmaci che l’attraversano possono essere detossificati ma anche trasformati in forme ancora attive o dotate di differente attività, con effetti potenzialmente tossici sul feto. Nelle fasi finali della gestazione, ovvero in prossimità del parto, sfortunatamente la placenta “invecchia” e il suo spessore diminuisce facilitando un’ulteriore diffusione di farmaci al feto. È noto che, in corso di gravidanza, si verifica un aumento di sensibilità agli anestetici legata alla presenza di progesterone ed endorfine che hanno un ruolo sedativo tale da rendere più eclatante l’effetto degli anestetici. Inoltre, la diminuzione della capacità funzionale residua, unita all’aumento del volume minuto (prodotto del volume tidalico per la frequenza respiratoria), rende più veloce il raggiungimento dell’equilibrio fra l’anestetico gassoso inspirato e quello alveolare. Ne deriva, pertanto, una più rapida induzione mediante gli anestetici inalatori e la possibilità di impiegare dosi inferiori di questi ultimi per il mantenimento dell’anestesia generale (riduzione della MAC fino al 40%)2,3.


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Infine, l’aumento della pressione intra-addominale, il rilassamento dello sfintere gastro-esofageo e il rallentato svuotamento gastrico possono aumentare il rischio di rigurgito intraoperatorio e determinare polmonite ab ingestis. Per questo motivo è consigliabile posizionare l’animale sul letto operatorio con la testa più in alto rispetto al bacino (posizione di Fowler o Trendelemburg inverso) e inserire sempre un tracheotubo nel paziente.4 Queste premesse sono necessarie per potere effettuare la scelta più corretta dei farmaci da impiegare nella scelta del protocollo anestesiologico. Di seguito sono riportati in modo schematico alcuni anestetici e le loro possibili indicazioni in corso di parto cesareo nel cane: 1. Atropina: se non ci sono indicazioni particolari, non dovrebbe essere impiegata. Infatti, gli effetti tachicardici secondari causano un aumento considerevole del lavoro cardiaco in un paziente che ha già un sovraccarico cardiocircolatorio marcato; inoltre, la tendenza all’ipossiemia della madre per la ridotta riserva respiratoria e per le difficoltà meccaniche respiratorie dovute alla pressione sul diaframma da parte dell’utero, possono favorire l’insorgenza di aritmie; 2. Acepromazina: si preferisce non impiegarla in virtù della lunga latenza d’azione, dell’effetto sedativo prolungato (madre e neonato), degli effetti cardiocircolatori importanti (vasodilatazione in primis) e dell’assenza di un antagonista specifico; 3. Medetomidina: utilizzare con cautela e comunque a bassi dosaggi (< 5 μg/kg). A dosi maggiori le rapide modificazioni cardiocircolatorie che si instaurano (bradiaritmie, vasocostrizione, inotropismo negativo etc.) possono essere importanti e non facili da gestire. A bassi dosaggi questi effetti sono particolarmente ridotti o nulli e la medetomidina risulta un farmaco efficace per indurre miorilassamento e sedazione. Il vantaggio risiede comunque nella presenza dell’antagonista specifico, l’atipamezolo, che può essere impiegato nel neonato con efficacia e rapidità per via sottolinguale; 4. Oppiacei: sono fondamentali per la gestione del dolore perie post-operatorio e possono essere usati anche in associazione ad anestetici locali per via epidurale. Al momento l’analgesia epidurale risulta uno dei mezzi più indicati per la gestione dell’analgesia nel paziente cesareo. L’impiego sistemico di meperidina, fentanil, sufentanil, buprenorfina e butorfanolo è comunque ancora ampiamente utilizzato; l’antagonizzazione degli effetti degli oppiacei con naloxone è un altro importante vantaggio; 5. Ketamina: è un anestetico da evitare nel protocollo del parto cesareo in quanto, pur avendo delle importanti e peculiari proprietà analgesiche, induce tachicardia, effetti eccitatori, rigidità muscolare e soprattutto depressione del SNC nei neonati, poiché è scarsamente metabolizzato dal fegato del cucciolo5. Infine, non esiste un antagonista specifico; 6. Tiopentale sodico: da evitare in assoluto a causa di aritmie e fenomeni di accumulo che possono instaurarsi nella madre e per la grave depressione del SNC e del sistema respiratorio nel nascituro5,6; 7. Propofol: risulta il farmaco di prima scelta per l’induzione dell’anestesia generale in corso di parto cesareo in quanto ha un effetto immediato, non si accumula, ed è eliminato rapidamente dalla madre, pertanto anche nel cucciolo la quota di propofol che permane è molto bassa6;

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8. Alogenati: tra gli agenti inalatori da evitare va menzionato l’alotano, a causa dell’elevata metabolizzazione e degli effetti di depressione del SNC nei cuccioli. Da preferire l’isofluorano e il sevoflurano5. Quest’ultimo, a differenza dell’isofluorano, risulta molto utile anche per l’induzione dell’anestesia generale essendo un alogenato non irritante e inodore; 9. Analgesia epidurale: dovrebbe essere effettuata di routine nel parto cesareo in quanto riduce drasticamente la quota di anestetici generali, non deprime i sistemi cardiocircolatorio e respiratorio della madre e del neonato alla nascita, favorisce un risveglio ottimale per la madre in quanto privo di dolore post-operatorio7. I farmaci utilizzati sono oppiacei e/o anestetici locali. Tra questi ultimi da preferire la bupivacaina (meglio ancora la levobupivacaina che è l’isomero levogiro della bupivacaina) rispetto alla lidocaina, per via della più lunga durata d’azione (6-8 ore) e per il blocco solo parziale a carico delle fibre nervose motorie. Attraverso questa procedura la madre ha maggiore libertà di movimento e può accudire al meglio i cuccioli senza il rischio di danneggiarli. Per concludere possiamo affermare che gli obiettivi che ci siamo posti all’inizio dell’anestesia passano attraverso la conoscenza delle modificazioni cardiovascolari, respiratorie e neuroendocrine che si attuano nel corso della gestazione. Inoltre, la corretta gestione della fattrice, fin dalle fasi preoperatorie, deve prevedere la sua delicata manipolazione per ridurre lo stress, la preossigenazione (naselli, maschera ecc.) e la correzione delle anomalie elettrolitiche (acido-base, calcemia, glicemia ecc.) che, unite alla scelta del protocollo anestetico/analgesico più idoneo, diventano fattori indispensabili per condurre adeguatamente a termine il parto cesareo. Non bisogna dimenticare poi che il trattamento analgesico, introdotto fin dall’inizio delle procedure anestetiche, deve continuare anche nel periodo postoperatorio mediante l’impiego di anestetici locali e/o farmaci analgesici.

Bibliografia 1.

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Indirizzo per la corrispondenza: Antonello Bufalari, Dip. di Patologia diagnostica e Clinica veterinaria, sez. di Chirurgia e Radiodiagnostica, Facoltà di Medicina veterinaria, Università di Perugia, v. S.Costanzo 4, 0755857728, abufalari@unipg.it.


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Impieghi dello Spironolattone nell’Insufficienza Cardiaca del cane Claudio M. Bussadori MD PhD, DVM Dipl ECVIM (Cardiology), Milano

I Diuretici sono farmaci di importanza fondamentale nella risoluzione e nella prevenzione dei sintomi riferibili all’ Insufficienza Cardiaca Congestizia, poiché con la riduzione del volume ematico circolante diminuisce la pressione diastolica ventricolare e quella del letto capillare, contrastando così i meccanismi fisiopatologici responsabili della formazione dell’edema polmonare. Durante l’ICC si instaurano dei meccanismi fisiopatologici compensatori alcuni tra questi: la vasocostrizione che determina l’aumento delle resistenze arteriolari, e il post carico diminuendo quindi la gittata cardiaca; la diminuizione della capacità venosa che aumenta il precarico e determina congestione ed edema; l’aumento della secrezione di ADH e di Aldosterone che incrementano la ritenzione idrica, la natriemia e l’escrezione di potassio e predispongono alla comparsa di edemi e di aritmie; la liberazione di radicali liberi che determinano morte cellulare e fibrosi miocardica. L’Aldosterone è un mineralcorticoide prodotto dalla corteccia delle ghiandole surrenali ed è rilasciato nel circolo ematico. È anche sintetizzato a livello locale dall’endotelio vascolare e dal miocardio indipendentemente dalla sintesi surrenalica. Ha come funzioni la regolazione dell’omeostasi del sodio, il volume del fluido extracellulare e la pressione sanguigna. Si lega ai recettori dei mineralcorticoidi presenti nei vasi, cuore e reni. La sintesi e la regolazione dell’Aldosterone sono controllate in condizioni normali dall’ACTH che stimola il rilascio giornaliero di aldosterone, dall’Angiotensina II, dalla kaliemia e natremia e da alcuni fattori a livello tessutale quali l’Ossido Nitrico, il Peptide Natriuretico atriale, Endotelina I e Radicali liberi. L’aumento dell’aldosterone plasmatico, che avviene durante l’ICC è associato ad una risposta infiammatoria e determina stress ossidativo e che porta a rimodellamento vascolare e fibrosi. Infatti quando in eccesso l’Aldosterone stimola, nella parete vasale, la produzione di radicali liberi e di ossido nitrico inattivato, questo effetto infiammatorio locale determina fibrosi perivascolare difetto di rilassamento dell’endotelio1 e vasocostrizione. Inoltre determina iperplasia, ipertrofia e apoptosi delle cellule muscolari liscie dei vasi. Il suo aumento è inoltre associato alla formazione di superossidi, secrezione di endotelina, ipertrofia dei fibroblasti e aumentata produzione di collagene che ha come risultato finale la fibrosi miocardica2,3. Nell’uomo, uno studio complementare allo studio RALES ha dimostrato che l’aumento dei markers del collagene cardiaco è associato all’aumento del rischio di mortalità5. Da uno studio di FALK T. et al. 20064, è emerso che tanto maggio-

re è il grado di fibrosi miocardica nell’ICC e tanto minore è l’aspettativa di vita. Diversi studi dimostrano che nel cane con ICC (IM, CMD) la concentrazione plasmatica di Aldosterone è doppia o tripla rispetto a quella di soggetti sani. L’Aldosterone causa lo sbilanciamento del SN simpatico e parasimpatico, è infatti dimostrato che l’ Aldosterone potenzia gli effetti della noradrenalina stimolando continuamente il Sistema Nervoso Simpatico aumentando il rischio di aritmie e sincopi, inoltre riduce la sensibilità dei barocettori dell’arco aortico e del seno carotideo e la loro capacità di reagire ai cambiamenti di pressione sanguigna6. Nell’uomo è attualmente ritenuto uno dei maggiori responsabili nella progressione dell’ ICC. L’Aldosterone stimola la produzione di una proteina, la permeasi che aumenta il riassorbimento del sodio e diminuisce la secrezione del potassio I recettori dell’Aldosterone sono presenti in diversi tessuti ghiandole salivari, colon, vari tratti del nefrone ultimo tratto del TCD e del dotto collettore. Questi recettori sono costituiti da una proteina solubile, situata a livello citoplasmatico, che presenta 2 possibili forme allosteriche. L’Antagonista competitivo dell’Aldosterone è lo Spironolattone che si lega al recettore e gli impedisce di assumere la sua configurazione attiva. L’effetto renale natriuretico dello Spironolattone riduce il volume extracellulare, il precarico e la pressione atriale sinistra. L’effetto diuretico si instaura molto lentamente e non è dose-dipendente e soprattutto non aumenta incrementando la dose. La dose orale è di 12 mg/Kg PO q12h sia come monoterapia che in associazione con altri diuretici (ad es. Furosemide). È utilizzabile anche nel combattere il fenomeno della diuretico resistenza causato dall’Aldosterone. La sua migliore applicabilità clinica si ritrova però nel trattamento dell’ICC. In uno studio comparativo post-mortem su campioni di miocardio prelevati in cani con ICC (IM) vs cani senza ICC le analisi istopatologiche hanno mostrano nei cani con ICC la significativa presenza di fibrosi miocardica4. Suzuki G. et al., hanno svolto uno studio placebo-controllo su 14 cani nei quali è stata eseguita una microembolizzazione coronarica sperimentale7. 7 di questi cani sono stati trattati con un antagonista dell’Aldosterone (Eplerenone 10mg/kg BID), gli altri 7 sono stati trattati con un placebo. Questo studio ha riportato dopo 3 mesi di sperimentazione nel gruppo di cani trattati una significativa riduzione del 37% della fibrosi cardiaca e una stabilità dei parametri di


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FE, LVEDV, LVESV. Nel Gruppo di controllo invece i parametri di FE, LVEDV, LVESV appaiono significativamente modificati indicando il peggioramento dell’ipertrofia del VS e della disfunzione miocardica. Questo dimostra che un’antagonista dell’Aldosterone può quindi ridurre la fibrosi e l’ipertrofia miocardica in cani con ICC. In umana lo studio RALES8(Studio randomizzato in doppio cieco) condotto su 1.663 pazienti con ICC trattati con ACE-I e furosemide, l’associazione di Spironolattone alla terapia standard ha determinato la riduzione del rischio di mortalità del 30%. I risultati positivi sono stati talmente evidenti che lo studio è stato concluso un anno prima di quanto previsto. Gli studi CEVA ne hanno confermato l’efficacia sul rimodellamento ventricolare anche nel cane attraverso lo studio clinico GCP, multicentrico condotto in Francia, Germania, Italia, Belgio, placebo-controllo randomizzato in doppio cieco atto a validare l’efficacia di PRILACTONE® (2mg/kg/die) nel cane con ICC attraverso uno studio a breve e a lungo termine, su cani con lieve o moderata ICC o cani con moderatagrave ICC. Alla visita al giorno 10 più di un cane su 2 presentava netto miglioramento delle condizioni cliniche generali (PRILACTONE®-ACE I). I risultati sono stati confermati dal monitoraggio per oltre 3 anni dai quali è emerso che per gli studi nel medio-lungo periodo l’uso di PRILACTONE® per oltre 15 mesi riduce il rischio di mortalità del 65%. I soggetti

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sottoposti a terapia con PRILACTONE® presentano un rischio di morte 3 volte inferiore rispetto ai soggetti in terapia standard. Studi sulla sopravvivenza a lungo termine (3 anni) mostrano la riduzione del 59% del rischio di mortalità nei cani in terapia con PRILACTONE® rispetto alla terapia standard. Tali risultati ne giustificano l’impiego come trattamento precoce dell’ICC.

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Bendaggi morbidi e bendaggi funzionali Francesca Cazzola Med Vet, Moncalieri (TO)

BENDAGGI MORBIDI Il bendaggio ha da sempre un ruolo di grande importanza nel campo della medicina veterinaria, sia per la sua funzione contenitiva che per quella compressiva. I bendaggi si classificano a seconda del segmento osseo interessato e della funzione che devono svolgere.

Bendaggio Robert Jones modificato Questo tipo di bendaggio si utilizza per l’immobilizzazione temporanea di primo soccorso, per l’immobilizzazione primaria o per quella secondaria ad intervento chirurgico, come copertura di una lesione estesa dei tessuti molli o per la riduzione di un edema passivo o attivo dell’arto. Il materiale utilizzato rappresenta un parametro molto importante per la corretta esecuzione del bendaggio, associato ad una buona manualità ed esperienza. Il bendaggio inizia con l’applicazione del cotone in direzione disto-prossimale fino alla regione ascellare, lasciando esposte le estremità del terzo e quarto dito. Le spire di cotone devono sovrapporsi del 50%. Maggiore sarà la quantità di cotone utilizzato, minore sarà il rischio di lesioni cutanee. Dopo l’applicazione del cotone, per esercitare una pressione costante, si utilizza una benda elastica coesiva o una benda orlata adottando la stessa direzione e gli stessi limiti detti precedentemente. La tensione esercitata dalla benda elastica dovrebbe dare un aspetto uniforme al bendaggio e ridurne in parte le dimensioni dandogli un aspetto compatto sia visivamente che al tatto. La compressione ottenuta sarà direttamente proporzionale alla quantità di bende utilizzate e alla forza impressa dall’operatore. Per dare una migliore protezione si completa il bendaggio con una benda coesiva. È necessario che vengano rispettati gli angoli articolari fisiologici per evitare che il bendaggio scivoli, sia fastidioso per l’animale o di scarso aiuto per la patologia in atto. A seconda del raggio osseo o dell’articolazione interessata sarà possibile decidere quanto estenderlo distalmente e prossimamente.

Bendaggio di Valpeau Utile per l’immobilizzazione post-operatoria dell’articolazione scapolo-omerale, per le fratture scapolari e per mantenere la riduzione a cielo chiuso delle lussazioni di spalla. Il fine di questo bendaggio è di limitare drasticamente i movimenti a carico dell’articolazione scapolo omerale. Per ottenere questo risultato è necessario incorporare completamente tutto l’arto nel bendaggio.

Si inizia avvolgendo la benda elastica attorno all’estremità distale dell’arto in senso latero-mediale. Mantenendo gomito e carpo in posizione di flessione, il bendaggio prosegue sul versante laterale dell’arto e della spalla, si estende fino all’ascella controlaterale per poi tornare al punto di partenza. Per dare una maggiore rigidità e robustezza, si può fare uso di più strati benda elastica seguendo il medesimo schema. Se l’arto viene tenuto in questa posizione per più di 10 giorni, si possono creare condizioni di immobilità articolare conseguenti alla posizione di iperflessione forzata a cui vengono sottoposte le articolazioni.

Bendaggio di non carico Indicato in caso di lussazioni laterali di spalla e interventi chirurgici a carico dei muscoli sovraspinato e bicipite brachiale, questo tipo di bendaggio viene applicato per scoraggiare il carico del peso sull’arto. Si utilizzano dei cerotti o uno strato di copertura di cotone su cui si applica una benda elastica coesiva; il carpo deve essere mantenuto in flessione e i cerotti o gli strati di cotone e bende devono essere applicati a partire dal terzo distale del radio e ulna fino alla regione metacarpale. L’animale solitamente tollera l’applicazione di questo bendaggio, anche se determina un’andatura claudicante con sovraccarico dell’arto controlaterale. Può portare a rigidità articolare se tenuto in sede per un periodo superiore a 2 settimane. Inoltre è difficile monitorarne la compressione, dal momento che le estremità distali delle dita sono spesso incluse nel bendaggio. In fisioterapia, dopo aver valutato correttamente la patologia in atto, può essere utilizzato come ausilio durante un esercizio funzionale per stimolare l’appoggio dell’arto controlaterale.

Considerazioni generali Tutti i bendaggi devono essere mantenuti integri, asciutti e puliti e devono essere sostituiti il più spesso possibile per evitare lesioni cutanee. È quindi molto importante spiegare la corretta gestione del bendaggio al proprietario ed effettuare controlli clinici ravvicinati.

BENDAGGI FUNZIONALI Come ‘bendaggio funzionale’ si intende un tutore in grado di sostenere o stabilizzare le componenti di un’articolazione o di rinforzare o scaricare strutture muscolo-tendinee.


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Deve essere applicato valutando correttamente gli obiettivi che si vogliono ottenere, le strutture che vengono coinvolte nel bendaggio e la corretta diagnosi della lesione. Altri parametri da tener presente sono la buona conoscenza della meccanica articolare e muscolo tendinea, la tipologia del paziente e il suo stile di vita. I bendaggi funzionali già conosciuti in medicina veterinaria sono il bendaggio di Robinson e il bendaggio di Slocum per l’atro posteriore e alle pastoie.

Bendaggio di Robinson È un bendaggio con sottrazione dell’arto al carico che permette di mantenere l’arto immobilizzato pur permettendo dei movimenti di flessione ed estensione. Può essere utilizzato per ridurre il carico nel periodo post-operatorio dopo una frattura di femore, per cercare di evitare la contrattura del quadricipite. Si esegue applicando una prima striscia di cerotto attorno all’addome e una seconda sulla parte centrale di metatarsi, avendo cura di proteggere i tessuti molli con un’adeguata imbottitura di cotone e benda. Il cerotto posizionato sui metatarsi viene poi unito facendo aderire i due lati adesivi, ripiegato a metà e fissato cranialmente alla zona metatarsale in modo da ottenere due strisce di cerotto. Una striscia viene fatta passare lateralmente e l’altra medialmente al ginocchio ed entrambe vengono poi collegate al cerotto precedentemente posizionato sull’addome, a un’altezza tale da impedire l’appoggio dell’arto. Le due strisce di cerotto sono mantenute in sede da un cerotto che le collega e passa caudalmente all’articolazione del ginocchio. Questo tipo di bendaggio si può anche modificare utilizzando una scarpetta protettiva, di gomma o neoprene, e dei tubicini di lattice che vengono ancorati alla parte volare della scarpetta, fissati sulla zona prossimale e craniale dei metatarsi, fatti passare lateralmente e medialmente all’articolazione tibiotarsica, fissati in posizione leggermente distale al cavo popliteo, nuovamente separati e portati uno lateralmente e l’altro medialmente al ginocchio, infine fissati cranialmente al cerotto posizionato sull’addome. Questo bendaggio può dare complicanze e non è semplice da eseguire in modo corretto. Spesso cede a livello addominale determinando il carico dell’arto o non viene ben gestito dai proprietari. Sarà perciò necessario valutarne la reale necessità e monitorare il paziente ancora più attentamente.

Bendaggio a otto di Slocum per la lesione del nervo sciatico Il fine di questo bendaggio è di mantenere la dorsoflessione delle dita e del garretto, evitando lesioni di cute, tendini e legamenti causate del deficit propriocettivo conseguente alla lesione del nervo sciatico. Il bendaggio a otto inizia dalla parte distale della gamba, incrocia dorsalmente facendo perno su un cuscinetto posto precedentemente sui metatarsi e termina volarmente ai cuscinetti del terzo e quarto dito provocandone l’estensione. Lo stesso bendaggio può essere applicato solo a livello delle dita: lo schema ad otto in questo caso si esegue cominciando dal versante plantare e

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distale dei metatarsei, incrociando dorsalmente a livello dell’articolazione metatarso-falangea e terminando volarmente ai cuscinetti del terzo e quarto dito per determinarne l’estensione. Per dare una maggiore stabilità le dita in entrambe i casi vengono comprese nel bendaggio.

Pastoie Utilizzate per proteggere un arto lesionato da ulteriori traumi limitandone lo stress rotazionale. Si impiega per le fratture di omero e femore e per fratture scapolari e pelviche perché limita l’eccessiva abduzione o adduzione degli arti. Si applica uno strato protettivo su entrambi i tarsi e i carpi, si avvolge del cerotto sulla zona metatarsale o metacarpale di una zampa in modo che resti un capo di cerotto libero da poter collegare al cerotto posto sull’altra zampa mantenendo la distanza fisiologica tra i due arti Spesso questa metodica non viene tollerata bene dall’animale a causa dell’eccessiva limitazione dei movimenti. Se si ritiene necessario utilizzare le pastoie è necessario quindi che l’animale sia confinato e faccia un esercizio controllato.

Considerazioni generali I bendaggi descritti precedentemente sono di aiuto soltanto per alcuni distretti anatomici mentre, in medicina umana, il bendaggio funzionale viene utilizzato per tutte le articolazioni e per molte lesioni muscolari. L’obiettivo che dovremmo raggiungere anche in medicina veterinaria è di ampliare la gamma di bendaggi, sfruttando al meglio le conoscenze e gli studi già fatti sull’uomo e applicandoli agli animali domestici. Utilizzando bende e cerotti specifici è possibile facilitare la guarigione di un tendine o di un legamento o ridurre l’instabilità di un’articolazione, rispettando le strutture e i tessuti circostanti e premettendo un movimento articolare corretto. A questo proposito è importante ricordare che la completa immobilizzazione articolare determina ristagno del liquido sinoviale, stiramento della capsula e conseguente dolore. È quindi possibile migliorare la qualità di vita dell’animale con un metodo poco invasivo e tollerabile dal soggetto. Gli obiettivi che si pone questa metodica di bendaggio sono di imporre uno ‘stop’ meccanico all’articolazione calibrato sul dolore del paziente, creare un’amplificazione esterocettiva, migliorare la propriocezione ed eliminare il dolore e gli atteggiamenti antalgici. Il fulcro di questo metodo è incentrato sul corretto impiego di staffe di cerotto che possono, ad esempio, simulare la funzione di un legamento lesionato o proteggere un muscolo danneggiato da movimenti che potrebbero creare un danno ulteriore.

Bibliografia M.J. Boyrab, G.W. Eleison, B. Slocum Tecnica chirurgica - chirurgia ortopedica -traumatologica: rachide, scheletro appendicolare cap. 65 pp 1235 - 1257. Donald L. Piermattei, Gretchen L: Flo – Ortopedia e trattamento delle fratture dei piccoli animali cap 2 pp 50 - 66. Loris Stella – Bendaggio funzionale, moderne applicazioni. Slatter - Trattato di chirurgia dei piccoli animali.


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Il tutore rigido su misura: come e quando costruirlo Chiara Chiaffredo Med Vet, Roletto (TO)

IL RELATORE NON HA INVIATO GLI ATTI RELATIVI A QUESTA PRESENTAZIONE

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Patologie degli uccelli con coinvolgimento oculare Tommaso Collarile Med Vet, Libero Professionista; Centro Veterinario Specialistico, Roma

Nunzio D’Anna Med Vet, PhD, Libero Professionista; Centro Veterinario Specialistico, Roma

Gli uccelli posseggono globi molto grandi in rapporto alle dimensioni del cranio ed un segmento posteriore, molto più ampio rispetto a quello anteriore, se comparato con i mammiferi o con i rettili. Esistono 3 diverse forme di globo negli uccelli, legate alla presenza di cartilagine nella sclera posteriore e agli ossicini sclerali (da 10 a 18): la forma piatta (asse antero-posteriore corto, regione intermedia piatta o concava, cornea convessa e segmento posteriore emisferico); la forma globosa (con la porzione intermedia concava); la forma tubulare (con la porzione intermedia concava ed allungata anteroposteriormente). La forma piatta è quella più comune, quella globosa è tipica di molte specie diurne che necessitano di una visione a distanza ad alta risoluzione (rapaci diurni, insettivori, corvi) e quella tubulare che è caratteristica dei gufi. I muscoli extraoculari retti ed obliqui sono scarsamente sviluppati ed i movimenti della testa compensano la scarsa mobilità del globo. L’iride contiene una muscolatura striata sia a livello del muscolo sfintere che del muscolo dilatatore, oltre alla muscolatura liscia e al mioepitelio. La muscolatura iridea, prevalentemente striata, è responsabile del controllo volontario della pupilla oltre che della mancata, o comunque incompleta midriasi farmacologica ad opera di midriatici quali atropina o tropicamide, i quali agiscono sulle giunzioni neuromuscolari della muscolatura liscia iridea. Negli uccelli, il riflesso pupillare alla luce può essere stimolato, ma la sua interpretazione è alquanto difficile a seguito della loro capacità volontaria di costrizione e dilatazione pupillare. Poiché negli uccelli la decussazione dei nervi ottici è del 100%, il riflesso pupillare consensuale non è presente; recentemente, questa teoria è stata messa in discussione per le inattese risposte positive (costrizione pupillare) degli occhi di polli sperimentalmente denervati monolateralmente a livello del nervo ottico, in seguito alla stimolazione luminosa degli occhi controlaterali. La midriasi, negli uccelli, può essere ottenuta con l’uso di agenti paralizzanti neuromuscolari somministrati tramite iniezione intracamerale o per via topica. La pressione intraoculare (IOP) negli uccelli è spesso difficile da determinare a causa delle ridotte dimensioni corneali ed oculari in molte specie; inoltre, l’elevata rigidità corneale e sclerale degli occhi degli uccelli rende meno attendibili le misurazioni ottenute. Il pecten, struttura a forma di pettine altamente pigmentata e vascolarizzata.

La visione a colori, negli uccelli, è ben sviluppata, ed alcuni di essi possono vedere la luce ultravioletta, utile, secondo alcuni autori, per il riconoscimento del sesso tra di loro. Le congiuntiviti rappresentano le patologie oculari più frequenti negli uccelli da compagnia, ma sono infrequenti nei rapaci, nei quali i traumi sono generalmente all’origine delle infiammazioni congiuntivali. Poiché le congiuntiviti negli uccelli sono spesso secondarie a malattie sistemiche, è importante effettuare una raccolta anamnestica completa oltre ad un accurato esame fisico generale. Irritanti ambientali, quali lettiere molto sporche e cariche di ammoniaca possono essere causa di cheratocongiuntiviti irritative nel pollame, soprattutto in autunno ed inverno, quando la ventilazione è minore. Le infezioni batteriche sono considerate la causa principale di congiuntiviti negli uccelli. Sinusiti di origine batterica sono spesso alla base di congiuntiviti, cheratiti, blefariti, uveiti ed infiammazioni perioculari. Nei pappagalli, cheratocongiuntiviti associate a clamidiosi sono state descritte, sia in forma localizzata che associata a forme generalizzate. Sinusiti di origine batterica sono spesso alla base di congiuntiviti, cheratiti, blefariti, uveiti ed infiammazioni perioculari. In generale, le congiuntiviti e cheratiti batteriche sono frequenti negli uccelli, spesso associate ad infezioni delle vie respiratorie alte. Chlamydophila psittaci (già Chlamydia psittaci) è in grado di infettare uccelli per lunghi periodi senza indurre segni clinici apparenti; può essere causa di zoonosi e per questo da tenere in considerazione tra le diagnosi differenziali delle congiuntiviti negli uccelli. Le congiuntiviti associate a tale agente, generalmente, sono accompagnate da altri segni clinici non oculari. Le ulcere corneali negli uccelli sono associate a trauma, infezione, corpi estranei e cheratocongiuntivite secca. Le uveiti negli uccelli sono principalmente associate a: traumi, infezioni, infiammazioni immunomediate/idiopatiche e neoplasie. In relazione ai traumi, l’ifema è stato il segno oculare maggiormente osservato in un un gruppo di 931 rapaci esaminati. Gli esiti delle uveiti croniche sono sovrapponibili a quelli dei mammiferi, sebbene, in caso di glaucoma, il buftalmo sia


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raro negli uccelli, poiché gli ossicini sclerali limitano l’aumento di volume del globo. Gli uccelli affetti da cataratta hanno spesso difficoltà nell’alimentarsi; questo è un problema grave nei soggetti selvatici quali i rapaci, nei quali le opacità lenticolari sono riportate frequentemente, spesso associate ad infiammazione intraoculare. Traumi oculari o degli annessi, si verificano sia tra gli uccelli selvatici che in quelli tenuti in cattività, a seguito di litigi tra compagni di gabbia, soprattutto se sovraffollata. I traumi palpebrali possono esitare in cicatrici e secondaria irritazione cronica corneale.

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Anaesthesia of the ophthalmic patient, what’s important? Paul Coppens DMV, Dipl ECVAA, Vienna (A)

Unlike human ophthalmology, most of the ophthalmic surgeries require general anaesthesia. General anaesthesia in veterinary medicine remains at high risk compared to human anaesthesia. Mortality risk related to anaesthesia in horses (colic horses excluded) is 0,9%1. Healthy dogs and cats run a mortality risk of 0,054% and 0,112% respectively2. Actual anaesthetic mortality in humans is reported to be as low as 0,05 for 100003. To limit the risk but taking into account the veterinary economical condition, some requirements are compulsory when performing general anaesthesia in veterinary medicine. The veterinarian must be able 1/ to ensure airway permeability, 2/ to deliver oxygen, 3/ to perform Intermittent Positive Pressure Ventilation (IPPV), 4/ to administer IV drugs, and 5/ to undertake CardioPulmonary Resuscitation. This requires at least the following equipment: oxygen cylinder, pressure regulator, flowmeter and a breathing system allowing also to ventilate. Other useful equipment in anaesthesia for ophthalmic procedure: a vaporizer to perform inhalational anaesthesia, a ventilator when using neuromuscular blocking agent. To improve surgical comfort, the head must remain as free as possible from anaesthetic accessories. Therefore the use of long coaxial tubing included in Bain system or adapted to a circle system permits to leave the balloon and valve far away from the patient’s head without increasing dead space. The opthalmologic patient may require anaesthesia for ophtalmologic or non-ophaltmologic procedures. In this later case, vision problem could be present and to limit the stress of the patient is an important goal of the anaesthesia management. On the other hand, to avoid situation that could worsen the ophtalmologic situation must be kept in mind like avoiding situations where intraocular pressure could increase (coughing, hypoventilation, …). When considering anaesthesia for ophtalmologic intervention, the anaesthetic plan to adopt depends on the aim of the ophthalmologic procedure: 1/ If anaesthesia needs to be performed for diagnosis procedure like electroretinogram, the following points are to be considered: • Painless procedure • Avoid a too strong depression on the central nervous system that could affect ERG • Deep tranquillization or light anaesthesia are enough to produce the immobility necessary to perform ERG. In the anaesthetic strategy, propofol is a good choice because it provides a wide range of effects from sedation to general

anaesthesia, without excitation phase. It can be dosed upon request to get the compulsory stillness and adequate eye position (light anesthesia) for the required examination. • A deep sedation allowing ERG could also be thought of. Medetomidine could provide it but should only be used for patients with normal cardiovascular function. Rotation of the ocular globe can happen and then makes the examination more difficult. If tranquillization is not enough, propofol could be added. 2/ When anaesthesia is required for extraocular ophalmic surgery, no specific precaution is necessary. But management to get a quiet recovery without any patient’s behaviour able to jeopardize surgery’s results is mandatory. Some general considerations are reviewed: surgery induces pain/nociception. Pain increases morbidity and mortality. When surgery is performed, anaesthesia goals are to provide: unconsciousness, myorelaxation and analgesia. The active analgesia in the anaesthesia procedure is one of the major improvements of the last two decades. Preemptive analgesia could be performed by giving analgesic drugs prior the programmed trauma that is surgery. This will prevent the hypersensitization of the central nervous system. Balanced anaesthesia consists in the use of different drugs/techniques to reach the different goals of the anaesthesia. In veterinary anaesthesia, the analgesia adjuvant is mainly provided by alpha 2 agonists, opioids or locoregional techniques. The control of the nociceptive effetcs by using analgesia adjuvant is essential to produce a stress-free anaesthesia that reduces the amount of complications during and after the operation and improves the rehabilitation after the surgery. It will also reduce the “general anaesthetic” requirements and the dose-dependent side effects and contribute to the postoperative pain control. Pain control must be continued during and after the recovery as long as necessary. Loco-regional technique could be very useful. Those techniques for the different species are well described by Roman Skarda7. 3/ For ocular and intraoculor surgery, the eye must be in central position, increase in intraocular pressure must be avoided. Very quiet recovery is mandatory. Any excitation could lead to intraocular pressure’s increase and jeopardize surgery. Ocular and intraocular surgery could be very painful. Correct intraand post-operative pain control must be planned. Intraocular pressure (IOP) is affected by several factors: - Cardiorespiratory parameters: Sudden rise in arterial blood pressure causes a transient rise of IOP. Change in central venous pressure are more prone to induce similar changes in IOP. Increasing PaCO2 (hypoventila-


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tion) and decreasing PaCO2 (hyperventilation) will cause respectively an increase and a fall in IOP. Despite the fact that hypoxia may increase IOP and hyperoxia decrase IOP, the changes seen during anaesthesia have little effect on the IOP.8 - Anaesthetic regimes: Medetomidine does not influence the IOP in normal dogs9,10. Acepromazine/butorphanol before midazolam/ketamine is satisfactory for ophthalmic surgery in dogs whereas acepromazine/meperedine is not11. Acepromazine/hydromorphone does not affect significantly IOP but induce miosis12. Propofol has no clinically significant effects on IOP13, as well as sevoflurane and desflurane14. In humans, they found no difference in IOP between isoflurane anaesthesia and total intravenous anaesthesia with propofol/alfentanil and conclude that both anaesthetic techniques are appropriate when increases in IOP have to be avoided15. Despite ketamine is known as not decreasing IOP and potentially increasing it8, several publications reported its use for extra and intraocular surgery in children16, 17, 18. At sedation low dose, ketamine does not influence IOP in humans19. In dogs, neuromuscular blocking agents, atracurium and rocuronium do not affect or they cause a decrease in IOP of no clinical relevance20, 21. At adequate anaesthesia’s depth, ocular globe falls over to ventro-medial position except when using dissociation anaesthetics. But these are maybe not the optimal choice for intraocular surgery because of the possible intraocular pressure’s increase and possible nystagmus when anaesthesia is light. It can nevertheless be possible to fix the ocular globe for surgery. By deepening anaesthesia, ocular globe can fall back to central position implying a controlled but not riskfree overdose associated with cardiovascular and respiratory depression. Using neuromuscular blocking agents is the best solution to position the eye centrally without jeopardizing anaesthesia’s depth. On the other hand, neuromuscular blocking agents guarantee a perfect stillness, compulsory for this kind of delicate surgery. Before neuromuscular blocking agent’s administration, it will be necessary to: - make sure analgesia and anaesthesia’s levels are sufficient - check availability and running of IPPV. - check if antagonist is available - preferably check if monitoring is available (peripheral nervous stimulator = train of four) - start IPPV. Neuromuscular blocking technique is far from being riskless and requires specific knowledge and practical training in clinical pharmacology, monitoring and ventilation management. Therefore their use must be restricted to qualified persons. • As for any ophthalmic surgery, adequate nociception control management by the use of systemic alpha 2 agonist or opioids, and/or topical and loco-regional anaesthesia techniques, is mandatory to perform stress-free anaesthesia • A quiet, progressive stress-free recovery is necessary for the patient’s postoperative comfort and for a successful surgery. This implies continuous pain control. Besides analgesia, an active sedation could be set in if need be. • When acquired ophthalmolgical pathology, like cataract, is associated to systemic disease, like diabetes, or in presence of any systemic disease, the anaesthesia strategy must be adapted.

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Anestesia nel paziente oftalmologico. Cosa è importante? Paul Coppens DMV, Dipl ECVAA, Vienna (A)

A differenza di quanto avviene nell’uomo, negli animali la maggior parte degli interventi di chirurgia oftalmica richiede l’anestesia generale. In medicina veterinaria, l’anestesia generale rimane ad alto rischio in confronto a quanto accade nell’uomo. Il rischio di mortalità correlato all’anestesia nel cavallo (coliche equine escluse) è dello 0,9%.1 I cani ed i gatti sani vanno incontro ad un rischio di mortalità pari, rispettivamente, allo 0,054% ed allo 0,112%.2 L’effettiva mortalità da anestesia nell’uomo, secondo quanto segnalato in letteratura, è di appena 0,05 casi su 10.000.3 Per limitare il rischio, ma tenere conto delle condizioni economiche in cui si opera in ambito veterinario, quando si esegue l’anestesia generale negli animali sono indispensabili alcune apparecchiature. Il veterinario deve essere in grado di 1) garantire la pervietà delle vie aeree, 2) apportare ossigeno, 3) attuare la ventilazione a pressione positiva intermittente (IPPV), 4) somministrare farmaci per via endovenosa e 5) attuare la rianimazione cardiopolmonare. Ciò richiede come minimo le seguenti apparecchiature: bombola di ossigeno, regolatore di pressione, flussimetro e sistema di respirazione che consenta anche la ventilazione. Altri utili strumenti in anestesia per le procedure oftalmiche sono un vaporizzatore per effettuare l’anestesia inalatoria ed un ventilatore quando si utilizza un agente di blocco neuromuscolare. Per migliorare il comfort chirurgico, la testa deve rimanere il più possibile libera dagli accessori delle apparecchiature da anestesia. Di conseguenza, l’uso di lunghi tubi coassiali inclusi nel sistema di Bain o adattati ad un sistema di circuito permette di lasciare il palloncino e la valvola lontano dalla testa del paziente senza aumentare lo spazio morto. Nel paziente con affezioni oculari, l’anestesia può essere richiesta sia per interventi oftalmologici che non oftalmologici. In quest’ultimo caso, possono essere presenti dei problemi della visione e limitare lo stress del paziente è una meta importante dell’anestesia. D’altro canto, per non incorrere in situazioni che potrebbero aggravare il quadro oftalmologico è necessario tenere presente come evitare quelle che potrebbero determinare un aumento della pressione intraoculare (tosse, ipoventilazione…). Quando si considera l’anestesia per gli interventi oftalmologici, il piano anestetico da adottare dipende dallo scopo dell’intervento che si vuole eseguire: 1) se è necessario ricorrere all’anestesia per una procedura diagnostica come l’elettroretinografia, bisogna tenere in considerazione i seguenti punti: • La procedura non deve essere dolorosa

• Bisogna evitare una depressione troppo profonda del sistema nervoso centrale, che potrebbe influenzare l’ERG. La sedazione profonda o la leggera anestesia sono sufficienti a determinare l’immobilità necessaria all’esecuzione dell’indagine elettroretinografica. Nella strategia anestetica, il propofolo rappresenta una buona scelta perché offre un’ampia gamma di effetti che vanno dalla sedazione all’anestesia generale, senza fase di eccitazione. Può essere dosato su richiesta in modo da ottenere una tranquillità obbligata ed un adeguato posizionamento dell’occhio (anestesia lieve) per l’esame richiesto. • Si può anche pensare ad una sedazione profonda che permetta l’ERG. La medetomidina potrebbe determinarla, ma deve essere utilizzata soltanto per i pazienti con funzione cardiovascolare normale. Si può avere la rotazione del globo oculare, che rende più difficile l’esame. Se la sedazione non è sufficiente, si può aggiungere il propofolo. 2) Quando è necessaria l’anestesia per un intervento di chirurgia oftalmica extraoculare, non occorre adottare alcuna specifica precauzione. Tuttavia, è indispensabile garantire un risveglio tranquillo, senza alcun comportamento del paziente che possa mettere in pericolo i risultati dell’intervento. Bisogna tenere conto di alcune considerazioni generali: la chirurgia induce dolore/nocicezione. Il dolore aumenta la morbilità e la mortalità. Quando si esegue un intervento chirurgico, gli scopi dell’anestesia sono di garantire incoscienza, miorilassamento ed analgesia. L’analgesia attiva nella procedura di anestesia è uno dei principali progressi dell’ultimo ventennio. L’analgesia preventiva può essere attuata somministrando farmaci analgesici prima di quel trauma programmato che è l’intervento chirurgico. Ciò impedisce l’ipersensibilizzazione del sistema nervoso centrale. L’anestesia bilanciata consiste nell’uso di differenti farmaci/tecniche per raggiungere i diversi scopi dell’anestesia. In anestesia veterinaria, l’analgesia adiuvante si ottiene principalmente con gli alfa2-agonisti, gli oppiacei o le tecniche locoregionali. Il controllo degli effetti nocicettivi utilizzando l’anestesia adiuvante è essenziale per produrre un’anestesia senza stress che riduca l’entità delle complicazioni durante e dopo l’intervento e migliori la riabilitazione postoperatoria. Inoltre, riduce i fabbisogni “anestetici generali” e gli effetti collaterali dose-dipendenti e contribuisce al controllo del dolore postoperatorio. Il controllo del dolore deve continuare durante e dopo il risveglio finché è necessario. La tecnica locoregionale può essere molto utile. Le metodiche per le differenti specie animali sono ben descritte da


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Roman Skarda.7 3) Per la chirurgia oculare ed intraoculare, l’occhio deve essere in posizione centrale e bisogna evitare l’aumento della pressione intraoculare. È indispensabile un risveglio molto tranquillo. Qualsiasi eccitazione potrebbe portare ad un incremento della pressione intraoculare e mettere in pericolo la chirurgia. Gli interventi oculari ed intraoculari possono essere molto dolorosi. Bisogna pianificare il corretto controllo intra- e postoperatorio del dolore. La pressione intraoculare (IOP) è influenzata da diversi fattori: - Parametri cardiorespiratori: L’aumento improvviso della pressione arteriosa causa un innalzamento transitorio della IOP. Le variazioni della pressione venosa centrale sono più predisposte ad indurre alterazioni simili in quella intraoculare. L’incremento della PaCO2 (ipoventilazione) e la sua diminuzione (iperventilazione) causano, rispettivamente, un incremento ed una caduta della IOP. Nonostante il fatto che l’ipossia possa aumentare la pressione intraoculare e l’iperossia la diminuisca, le variazioni che si osservano durante l’anestesia hanno scarsi effetti sulla IOP.8 - Protocolli anestetici: La medetomidina non influenza la IOP nei cani normali.9, 10 L’acepromazina/butorfanolo prima della somministrazione di midazolam/ketamina è soddisfacente per la chirurgia oftalmica nel cane, mentre l’acepromazina/meperidina no.11 L’acepromazina/idromorfone non influisce significativamente sulla IOP, ma induce miosi.12 Il propofolo non ha effetti clinicamente significativi sulla IOP,13 così come il sevofluorano ed il desfluorano14. Nell’uomo, non è stata riscontrata alcuna differenza nella IOP fra l’anestesia con isofluorano e quella totale per via endovenosa con propofolo/alfentanil e si è giunti alla conclusione che entrambe le tecniche anestetiche siano appropriate quando è necessario evitare aumenti della IOP.15 Benché sia noto che questa non viene diminuita dalla ketamina, che anzi potenzialmente la aumenta,8 parecchie pubblicazioni hanno riferito l’impiego di questo anestetico per la chirurgia extra- ed intraoculare nei bambini.16, 17, 18 Al basso dosaggio da sedazione, la ketamina non influisce sulla IOP nell’uomo.19 Nel cane, gli agenti di blocco neuromuscolare atracurium e rocuronium non hanno alcun effetto oppure causano un calo della IOP di nessuna rilevanza clinica.20, 21 Ad un’anestesia di profondità adeguata, il globo oculare cade sulla posizione ventromediale, tranne quando si utilizzano anestetici dissociativi. Tuttavia, questi forse non sono la scelta ottimale per la chirurgia intraoculare, a causa del possibile incremento della IOP e del possibile nistagmo quando l’anestesia è lieve. Tuttavia, si può fissare il globo oculare per eseguire l’intervento. Portando l’anestesia su piani più profondi, l’occhio può cadere tornando alla posizione centrale, il che implica un sovradosaggio controllato, ma non privo di rischi, associato a depressione cardiovascolare e respiratoria. Utilizzare gli agenti di blocco neuromuscolare è la migliore soluzione per posizionare l’occhio centralmente senza compromettere la profondità dell’anestesia. D’altro canto, questi farmaci assicurano una perfetta immobilità, indispensabile per questo genere di delicata chirurgia. Prima della somministrazione degli agenti di blocco neuro-

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muscolare, è necessario: - assicurarsi che i livelli di anestesia ed analgesia siano sufficienti. - controllare la disponibilità e l’esecuzione dell’IPPV. - verificare che sia disponibile un antagonista. - preferibilmente, accertarsi che sia disponibile il monitoraggio (stimolatore nervoso periferico = treno di quattro) - iniziare l’IPPV. La tecnica di blocco neuromuscolare è ben lontana dall’essere priva di rischi e necessita di specifiche conoscenze e di una formazione pratica nell’ambito della farmacologia clinica, del monitoraggio e della gestione della ventilazione. Di conseguenza, il suo impiego deve essere riservato a personale qualificato. • Come per qualsiasi intervento di chirurgia oftalmica, per eseguire l’anestesia senza stress è necessario l’adeguato controllo della nocicezione mediante uso di alfa2-agonisti sistemici o oppiacei e/o tecniche di anestesia topica e locoregionale. • Per il comfort postoperatorio del paziente e per il successo dell’intervento è necessario un risveglio tranquillo, progressivo e senza stress. Ciò implica il controllo continuo del dolore. Oltre all’analgesia, se necessario si può mettere in atto una sedazione attiva. • Nei casi in cui una patologia oftalmica acquisita, come la cataratta, è associata ad una malattia sistemica, come il diabete, oppure in presenza di una qualsiasi malattia sistemica, la strategia dell’anestesia deve essere adattata di conseguenza.

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Anaesthetic approach of the exotic patient with specific emphasis on ophthalmologic procedures Paul Coppens DMV, Diplomate ECVAA

Unlike human ophthalmology, most of the ophthalmic surgeries require general anaesthesia in veterinary medicine. This is especially true for exotic animals. General anaesthesia in veterinary medicine remains at high risk compared to human anaesthesia. If actual anaesthetic mortality in humans is reported to be as low as 0,05 for 100003, healthy dogs and cats run a mortality risk of 0,054% and 0,112% respectively2. Anaesthetic risk in exotic species could even be more. For example the rabbit encouters a risk of 1,39% (0,73% when healthy but 7,37% when sick4. Guinea pig, hamster and chinchilla encounter respectively a risk of 3,8, 3,7 and 3,3%4. For the majority of the exotic animals, the anaesthetic related mortality risk is unknown. To limit the risk but taking into account the veterinary economical condition, some requirements are compulsory when performing general anaesthesia in veterinary medicine5. The veterinarian must be able 1/ to ensure airway permeability, 2/ to deliver oxygen, 3/ to perform Intermittent Positive Pressure Ventilation (IPPV), 4/ to administer IV drugs whenever it is possible, and 5/ to undertake CardioPulmonary Resuscitation. This requires at least the following equipment: oxygen cylinder, pressure regulator, flowmeter and a breathing system allowing also to ventilate. Because, for exotic animals, very little is known about the metabolisation and elimination of most of the anaesthetic agents, the use of inhalation anaesthetic agents offers the advantage to be mostly eliminated unchanged by the respiratory system. In order to administer the inhalational agents, specific equipment is needed: a vaporizer must be included in the gas (oxygen, eventualy plus nitrous oxide and air) delivery system. To improve surgical comfort, the head must remain as free as possible from anaesthetic accessories. Therefore the use of long coaxial tubing included in Bain system or adapted to a circle system permits to leave the balloon and valve far away from the patient’s head without increasing dead space. Moreover in small exotic animal, when anaesthesia is usually provided via a face mask, this could interfere with the ophtalmologic procedure. Whenever possible, intubation will be preferred. Adequate equipment will be requested. Adapted endotracheal tube to the species is requested. IV catheter of adapted size can be used as endotracheal tube. For example IV catheter of size 14G can be used for Guinea pig. The use of rigid endoscope could be helpful to perform difficult intubation in those species. In birds, an alternative to endotracheal intubation is possible. Due to the specific respiratory system6, caudal thoracic or abdominal air sac can

be cannulated using endotracheal tube or dedicated cannula to ensure ventilation and delivery of anaesthetic agents7,8,9. When considering anaesthesia for ophtalmologic procedures, the same considerations as in small animals are to be taken into account : 1. Eye examination. This procedure may request physical restraint, sedation or even general anaesthesia 2. If anaesthesia needs to be performed for diagnosis procedure like electroretinogram, the following points are to be considered: • Painless procedure • Avoid a too strong depression on the central nervous system that could affect ERG • Deep tranquillization or light anaesthesia are enough to produce the immobility necessary to perform ERG. 3. When anaesthesia is required for extraocular ophalmic surgery, no specific precaution is necessary. But management to get a quiet recovery without any patient’s behaviour able to jeopardize surgery’s results is mandatory. 4. For ocular and intraoculor surgery, the eye must be in central position, increase in intraocular pressure must be avoided. Very quiet recovery is mandatory. Any excitation could lead to intraocular pressure’s increase and jeopardize surgery. Ocular and intraocular surgery could be very painful. Correct intra- and post-operative pain control must be planned. The anaesthetic plan to adopt depends on the aim of the ophthalmologic procedure and on the goals of the anaesthesia. Therefore we must first define what is general anaesthesia. This matter has long been the topic of many publications in specialized magazines. To define anaesthesia is not easy and there is no worldwide recognized definition. However, this thinking over is very important in order to be able to define the wanted goals and decide what are the means to use to reach them. In 1957, Woodbridge described four components to general anaesthesia : loss of consciousness, analgesia, muscular relaxation and abolishment of autonomous reflexes generated by surgery10. This description gives us the bases of a common concept in human anaesthesia but still relatively new in veterinary medicine : the “ balanced anaesthesia ”. It is the joint use of different products and/or technics in order to undergo a general anaesthesia allowing to minimalize the compulsory dose of each of them depending of the aimed goals (unconsciousness, analgesia, myorelaxation) and thus to reduce their side effects. The Woodbridge definition is the classical definition general anaesthesia


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Isoflurane is the most popular one. Sevoflurane is an alternative (12) and presents some advantages, especially faster recovery, for example in green iguanas (13), bald eagles (14) and racing pigeons (15). In human medicine and in small animal anaesthesia, sevoflurane is associated with smoother and more rapid recovery (16). Halogenated drugs provide unconsciousness and muscular relaxaton but are not, per se, analgetics. In case of surgery or painful diagnostic procedures, the anaesthetic strategy must incorporate an analgetic adjuvant. Recent publications in exotics and willdlife medicine deal with analgesia (17,18,19,20,21). Different pharmaceutical drugs classes as opioids, alpha2 agonists, local anaesthetics, dissociative agents, NSAIDs, N2O have analgetic properties. All those drugs are working at different levels of the pain or nociception genesis. Multimodal analgesia becomes more and more used in domestic animals. Of course the analgetic plan must be in accord with the exotics species specificities and the pharmacological command and knowledge of the specific species. More recently, Prys-Roberts settles his reflection in the animal’s responses (man included) to a noxious stimulus2. A noxious stimulus will carry on, first of all, a sensory somatic response : the conscious perception of the stimulus, that is to say pain, then a motor somatic response : movement. Then will appear a set of responses related to the autonomous nervous system ; such as respiratory response, hemodynamic response with modification of blood pressure and/of cardiac frequency, sudomotive response (for man and horse) and finally hormonal response. These different effects will disappear one by one in the same order as they appeared related to the anaesthesia depth. Prys-Roberts defines anaesthesia as a state, resulting from unconsciousness induced by one or more drugs, where the patient does not perceive nor remember noxious stimuli. With this approach, analgesia, muscular relaxation and abolishment of autonomous reflexes are no more components but complements of anaesthesia. Whichever definition chosen for anaesthesia, it is important to handle the problem of the sought goal and thus of the needed means also. During an anaesthesia for a not painful diagnostic examination, goals and means are not the same as the ones for an anaesthesia carried on for a surgery. When considering a general anaesthesia, we must answer the following important question : must a painful procedure be done? If yes, a specific control of pain will be sought for. In practice, when building up the general anaesthesia protocol, it is essential to keep well in mind the sought goals, for example during an anaesthesia for a surgery: - unconsciousness - analgesia - immobility/motionlessness and muscular relaxation allowing surgery. Unconsciousness could be provided by inhalational or injectable anaesthetic agents. As already mentionned, very little is known in pharmocodynamic and pharmococinetic compared to domestic animals. This is one of the main reasons why inhalational anaesthetics remain the drugs of choice in exotic animals.

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Dennis F. Kohn, Sally K. Wixson, William J. White, G. John Benson Academic, San Diego, California, USA. 1997, pp 337-378.

Other suggested readings Veterinary Clinics of North America: Exotic Animal Practice. Volume 10, Issue 2, Pages 275-712 (May 2007). Emergency and Critical Care. Edited by M. Lichtenberger. Veterinary Clinics of North America: Exotic Animal Practice. Volume 5, Issue 2, Pages 223-440 (May 2002). Ophthalmology _ Edited by N.J. Millichamp. Sedgwick CJ. Anesthesia for small to medium sized exotic mammals, birds and reptiles. In Manual of Small Animal Anesthesia. Second edition. Edited by Paddelford RR. Saunders, Philadelphia, Pennsylvania, USA. 1999, pp 318-355. Kreeger TJ, Arnemo JM. Handbook of Wildlife Chemical Immobilization. Third edition. 2007 http://www.wildlifecaptureforum.com/announcement2.aspx. Zoo Animal & Wildlife Immobilization and Anesthesia Ed by West G, Heard D, Caulkett N. Blackwell Publishiing, Ames, Iowa, USA. 2007.


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Approccio anestesiologico all’animale esotico con particolare riferimento al paziente oftalmologico Paul Coppens DMV, Dipl ECVAA, Vienna (A)

A differenza di quanto avviene in medicina umana, in ambito veterinario la maggior parte degli interventi di chirurgia oftalmica richiede l’anestesia generale. Ciò vale in particolare per gli animali esotici. In medicina veterinaria, l’anestesia generale rimane una procedura ad alto rischio in confronto a quella dell’uomo. Mentre per quest’ultimo la mortalità effettiva da anestesia, secondo quanto segnalato in letteratura, è di appena 0,05 casi su 10.000,3 i cani ed i gatti sani vengono esposti ad un rischio di mortalità, rispettivamente, dello 0,054% e dello 0,112%.2 Nelle specie esotiche, questo valore potrebbe essere ancora più elevato. Ad esempio, nel coniglio arriva all’1,39% (0,73% per gli animali sani, ma 7,37% per quelli malati).4 La cavia, l’hamster ed il cincillà sono esposti, rispettivamente, ad un rischio del 3,8%, 3,7% e 3,3%.4 Per la maggior parte degli animali esotici, il rischio di mortalità da anestesia è sconosciuto. Per limitare il rischio, ma tenere conto delle condizioni economiche in cui si opera in ambito veterinario, quando si esegue l’anestesia generale negli animali sono indispensabili alcune apparecchiature.5 Il veterinario deve essere in grado di 1) garantire la pervietà delle vie aeree, 2) apportare ossigeno, 3) attuare la ventilazione a pressione positiva intermittente (IPPV), 4) somministrare farmaci per via endovenosa e 5) attuare la rianimazione cardiopolmonare. Ciò richiede come minimo le seguenti apparecchiature: bombola di ossigeno, regolatore di pressione, flussimetro e sistema di respirazione che consenta anche la ventilazione. Dato che le informazioni relative alla metabolizzazione ed eliminazione della maggior parte degli anestetici negli animali esotici sono molto scarse, si utilizzano gli agenti da inalazione perché hanno il vantaggio di essere eliminati principalmente in forma immutata dal sistema respiratorio. Al fine di somministrare gli agenti inalatori, sono necessarie apparecchiature specifiche: nel sistema di erogazione del gas deve essere incluso un vaporizzatore (ossigeno, eventualmente più protossido di azoto ed aria). Per migliorare il comfort chirurgico, la testa deve rimanere il più possibile libera dagli accessori delle apparecchiature da anestesia. Di conseguenza, l’uso di lunghi tubi coassiali inclusi nel sistema di Bain o adattati ad un sistema di circuito permette di lasciare il palloncino e la valvola lontano dalla testa del paziente senza aumentare lo spazio morto. Inoltre, negli animali esotici di piccola taglia, nei quali l’anestesia viene di solito effettuata attraverso una maschera facciale, ciò potrebbe interferire con la procedura oftalmica. Ogni volta che sia possibile, è pre-

feribile ricorrere all’intubazione. Bisogna disporre di un’apparecchiatura adeguata. È necessario avere tubi orotracheali adatti alle specie da trattare. Allo scopo è possibile servirsi di un catetere endovenoso di dimensioni adeguate. Ad esempio, per la cavia se ne può usare uno da 14G. L’impiego di un endoscopio rigido può servire ad effettuare le intubazioni difficili in queste specie animali. Negli uccelli, è possibile un’alternativa all’intubazione orotracheale. Date le caratteristiche specifiche dell’apparato respiratorio,6 è possibile incannulare il sacco aereo toracico caudale o quello addominale utilizzando un tubo orotracheale oppure una cannula dedicataper garantire la ventilazione e l’apporto degli agenti anestetici.7,8,9 Ai fini dell’anestesia per le procedure oftalmologiche, è necessario tenere conto di alcune considerazioni, come nei piccoli animali: 1) Esame dell’occhio. Questa procedura può richiedere il contenimento fisico, la sedazione o persino l’anestesia generale 2) se è necessario ricorrere all’anestesia per una procedura diagnostica come l’elettroretinografia, bisogna tenere in considerazione i seguenti punti: La procedura non deve essere dolorosa Bisogna evitare una depressione troppo profonda del sistema nervoso centrale, che potrebbe influenzare l’ERG. La sedazione profonda o la leggera anestesia sono sufficienti a determinare l’immobilità necessaria all’esecuzione dell’indagine elettroretinografica. 3) Quando è necessaria l’anestesia per un intervento di chirurgia oftalmica extraoculare, non occorre adottare alcuna specifica precauzione. Tuttavia, è indispensabile garantire un risveglio tranquillo, senza alcun comportamento del paziente che possa mettere in pericolo i risultati dell’intervento. 4) Per la chirurgia oculare ed intraoculare, l’occhio deve essere in posizione centrale e bisogna evitare l’aumento della pressione intraoculare. È indispensabile un risveglio molto tranquillo. Qualsiasi eccitazione potrebbe portare ad un incremento della pressione intraoculare e mettere in pericolo la chirurgia. Gli interventi oculari ed intraoculari possono essere molto dolorosi. Bisogna pianificare il corretto controllo intra- e postoperatorio del dolore. Il piano dell’anestesia da adottare dipende dallo scopo della procedura oftalmologica e dai fini dell’anestesia. Di conseguenza, bisogna definire in primo luogo cos’è l’anestesia generale. Questo argomento è stato a lungo oggetto di molte pubblicazioni nelle riviste specializzate.


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Stimolo nocivo somatico

autonomo ormonale

sensoriale motorio

sudoriparo emodinamico

respiratorio

Fornire una definizione per l’anestesia non è facile e non ne esiste alcuna che sia riconosciuta a livello mondiale. Tuttavia, la chiarezza di termini è molto importante per riuscire a individuare gli scopi che si vogliono raggiungere e decidere quali sono i mezzi da impiegare per farlo. Nel 1957, Woodbridge ha descritto quattro componenti dell’anestesia generale: perdita di coscienza, analgesia, rilassamento muscolare ed abolizione dei riflessi autonomi generali dall’intervento chirurgico.10 Questa descrizione fornisce le basi di un concetto comune in anestesia umana, ma ancora relativamente nuovo in quella veterinaria: l’anestesia bilanciata. Si tratta dell’impiego articolato di differenti prodotti e/o tecniche al fine di ottenere un’anestesia generale che consenta di ridurre al minimo il dosaggio indispensabile di ognuno dei principi attivi utilizzati a seconda dello scopo che si vuole raggiungere (perdita di coscienza, analgesia, miorilassamento) e quindi diminuirne gli effetti collaterali. Quella di Woodbridge è la definizione classica dell’anestesia generale. Più recentemente, Prys-Roberts si è occupato delle risposte degli animali (uomo incluso) ad uno stimolo nocivo.2 Tale stimolo porta con sé, prima di tutto, una risposta somatica sensoriale (la percezione conscia dello stimolo, vale a dire il dolore) e poi una risposta somatica motoria (il movimento). Successivamente comparirà una serie di reazioni correlata al sistema nervoso autonomo, come la risposta respiratoria, quella emodinamica con la modificazione della pressione sanguigna e/o della frequenza cardiaca, quella della sudorazione (per l’uomo ed il cavallo) ed infine quella ormonale. Questi differenti effetti scompaiono uno dopo l’altro nello stesso ordine con cui sono apparsi in relazione alla profondità dell’anestesia. Prys–Roberts definisce quest’ultima come uno stato, derivante da una perdita di coscienza indotto da uno o più farmaci, in cui il paziente non percepisce né ricorda gli stimoli nocivi. Con questo tipo di approccio, l’analgesia, il rilassamento muscolare e l’abolizione dei riflessi autonomi non sono più componenti ma complementi dell’anestesia. Indipendentemente dalla definizione adottata, è importante affrontare il problema dello scopo per cui viene

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praticata l’anestesia e, quindi, anche dei mezzi necessari. Gli scopi ed i mezzi di un’anestesia dovuta ad un esame diagnostico non doloroso non sono gli stessi che caratterizzano quella praticata per un intervento chirurgico. Ai fini dell’anestesia generale, bisogna dare una risposta ad alcune importanti domande: si deve effettuare una procedura dolorosa? Se sì, si dovrà ricercare uno specifico controllo del dolore. In pratica, quando si delinea il protocollo dell’anestesia generale, è essenziale tenere ben presente gli scopi che ci si prefigge, ad esempio nei casi in cui il fine è un intervento chirurgico: - perdita di coscienza - analgesia - immobilità/mancanza di movimento e rilasciamento muscolare che consentano l’intervento L’incoscienza deve essere assicurata mediante agenti anestetici inalatori o iniettabili. Come già ricordato, si sa ben poco sulla farmacodinamica e la farmacocinetica comparata degli animali domestici. Questa è una delle principali ragioni per cui gli anestetici inalatori restano i farmaci d’elezione negli animali esotici. L’isofluorano è quello più popolare. Il sevofluorano rappresenta un’alternativa (12) ed offre alcuni vantaggi, in particolare il risveglio più rapido nelle iguane verdi,(13) nelle aquile calve(14) e nei piccioni da gara.(15) In medicina umana ed in anestesia dei piccoli animali, il sevofluorano è associato ad un risveglio più dolce e più rapido.(16) I farmaci alogenati assicurano l’incoscienza ed il rilasciamento muscolare, ma non sono di per sé analgesici. In caso di interventi chirurgici o procedure diagnostiche dolorose, la strategia anestetica deve comprendere un adiuvante analgesico. Le recenti pubblicazioni sulla medicina degli animali esotici e selvatici hanno preso in considerazione il controllo del dolore.(17,18,19,20,21) Differenti classi di farmaci come gli oppiacei, gli alfa-2 agonisti, gli anestetici locali, gli agenti dissociativi, i FANS, l’N2O sono dotati di proprietà analgesiche. Tutti questi agenti operano a livelli differenti della genesi del dolore o della nocicezione. L’analgesia multimodale viene sempre più utilizzata negli animali domestici. Naturalmente, il piano dell’analgesia deve essere accordo con le specie-specificità degli animali esotici ed il controllo farmacologico e la conoscenza delle singole specie.

Bibliografia Johnston GM, Eastment JK, Wood JLN, Taylor PM, The confidential enquiry into perioperative equine fatalities (CEPEF): mortality results of Phases 1 and 2. Vet Anaesth Analg, 2002, 29, 159-170. Brodbelt D, Brearley J, Young L, Wood J, Pfeiffer D. Anaesthetic-related mortality risks in small animals in the UK. AVA spring meeting, Rimini, Italy 20-23 April 2005, 67. Arbous MD, Grobbee, DE van Kleef JW, de Lange JJ, Spoormans HHAJM, Touw P, Werner FM, Meursing AEE. Mortality associated with anaesthesia: a qualitative analysis to identify risk factors. Anaesthesia, 2001, 56, 1141-1153. Brodbelt D. et al. AVA spring meeting, Liverpool, UK 2006. Coppens P, Mathieu E. Guide pratique pour anesthésier chiens et chats, Pfizer, 1998, p 9-10. http://people.eku.edu/ritchisong/birdrespiration.html Nilson PC, Teramitsu I, White SA. Caudal thoracic air sac cannulation in zebra finches for isoflurane anesthesia. Journal of Neuroscience Methods. 2005, 143, 107–115.


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Good DA, Heatley JJ, Tully TNJr, Smith JA. Vet Med Today: Anesthesia Case of the Month. JAVMA, 2001, 219, 1529-31. Brown C, Pilny AA. Air sac cannula placement in birds. Lab Animal 2006, 35, 23-24. Woodbridge PD. Changing concepts concerning depth of anesthesia. Anesthesiology 1957, 18, 536-550. Prys-Roberts. Anaesthesia: a practical or impractical construct? Br J Anaesth 1987, 59, 1341-1345. Ludders JW. Inhalation anesthesia for birds. In Recent Advances in Veterinary Anesthesia and Analgesia: Companion Animals, Gleed R.D. and Ludders J.W. (Eds.). International Veterinary Information Service, Ithaca NY (www.ivis.org) 2001. http://www.ivis.org/advances/ Anesthesia_Gleed/ludders2/ chapter.asp?LA=1. Hernandez-Divers SM, Schumacher J, Stahl S, Hernandez-Divers SJ. Comparison of isoflurane and sevoflurane anesthesia after premedication with butorphanol in the green iguana (Iguana iguana). J Zoo Wildl Med. 2005, 36, 169-75. Joyner PH, Jones MP, Ward D, Gompf RE, Zagaya N, Sleeman JM. Induction and recovery characteristics and cardiopulmonary effects of sevoflurane and isoflurane in bald eagles. Am J Vet Res. 2008, 69, 13-22. Korbel R. Comparative investigations on inhalation anesthesia with isoflurane and sevoflurane in racing pigeons(Columba livia Gmel., 1789, var. domestica) and presentation of a reference anesthesia protocol for birds. Tierarztl Prax Ausg K Klientiere Heimtiere.1998, 26, 211-23. Robinson BJ, Uhrich TD, Ebert TJ. A review of recovery from sevoflurane anaesthesia: comparisons with isoflurane and propofol including meta-analysis. Acta Anaesthesiol Scand. 1999, 43, 185-90. Machin KL. Wildlife analgesia. In Zoo Animal & Wildlife Immobilization and Anesthesia Ed by West G, Heard D, Caulkett N. Blackwell Publishiing, Ames, Iowa, USA. 2007, pp 43-59. Lichtenberger M, Ko J. Anesthesia and Analgesia for Small Mammals and Birds. Vet Clin Exot Anim 2007, 10, 293–315. Abou-Madi N. Anesthesia and analgesia of small mammals. In Recent Advances in Veterinary Anesthesia and Analgesia: Companion Animals, Gleed R.D. and Ludders J.W. (Eds.). International Veteri-

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Letture consigliate Veterinary Clinics of North America: Exotic Animal Practice. Volume 10, Issue 2, Pages 275-712 (May 2007). Emergency and Critical Care. Edited by M. Lichtenberger. Veterinary Clinics of North America: Exotic Animal Practice. Volume 5, Issue 2, Pages 223-440 (May 2002). Ophthalmology? Edited by N.J. Millichamp. Sedgwick CJ. Anesthesia for small to medium sized exotic mammals, birds and reptiles. In Manual of Small Animal Anesthesia. Second edition. Edited by Paddelford RR. Saunders, Philadelphia, Pennsylvania, USA. 1999, pp 318-355. Kreeger TJ, Arnemo JM. Handbook of Wildlife Chemical Immobilization. Third edition. 2007 http://www.wildlifecaptureforum.com/announcement2.aspx. Zoo Animal & Wildlife Immobilization and Anesthesia Ed by West G, Heard D, Caulkett N. Blackwell Publishiing, Ames, Iowa, USA. 2007.


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Chirurgia tradizionale e mini-invasiva dell’apparato riproduttore aviare Lorenzo Crosta Med Vet, Missaglia (LC)

PREMESSA I pazienti aviari sono piccoli e delicati, pertanto i rischi associati all’anestesia e alla chirurgia sono maggiori. Nonostante gli uccelli sopportino meglio dei mammiferi le perdite di sangue, si parla comunque di volumi molto modesti: il mancato controllo di un’emorragia può portare facilmente a morte un piccolo uccello. Inoltre, il rapido metabolismo degli uccelli, e l’elevato rapporto fra superficie corporea e massa corporea, li predispone a ipocalcemia e ipotermia durante la chirurgia e questo rischio aumenta con l’aumentare della durata della chirurgia. Questi fattori rendono indispensabile che il chirurgo conosca bene la procedura e che abbia accesso agli strumenti specifici, che servono per quell’intervento. Quindi, le chiavi per il successo nella chirurgia degli uccelli sono: • preparazione, • precisione, • strumentazione, • minimo tempo di anestesia. I vasi degli uccelli hanno una parete più sottile di quelli dei mammiferi e scorro più superficialmente. Ciò implica una minore protezione da parte dei tessuti circostanti. Poiché, rispetto ai mammiferi, c’è meno tessuto perivascolare, i vasi hanno la tendenza a muoversi e a retrarsi con molta facilità, portandosi fuori dalla vista del chirurgo. Anche dopo essere stati chiusi o coagulati, i vasi degli uccelli possono rilassarsi e riprendere a sanguinare, è quindi necessario che il chirurgo aviare ricontrolli regolarmente che i vasi chiusi o coagulati non sanguinino. L’impiego di fonti di ingrandimento, come loupes, occhiali, binocoli chirurgici e microscopi operatori, aiutano molto l’identificazione anche dei piccoli vasi e l’esecuzione della chirurgia in genere. La causa più comune di problemi peri-operatori negli uccelli, è l’inadeguata valutazione pre-chirurgica del paziente, ciò spesso limita o rende impossibile che il paziente si riprenda dopo l’anestesia e la chirurgia. Ovviamente, ciò non è possibile per alcune procedure d’emergenza “salva-vita”, ma in molti casi, come del resto avviene per i mammiferi, è meglio posticipare la chirurgia, per valutare bene le condizioni del paziente.

alcuni casi è bene strappare le penne, in altri si preferisce tagliarle alla base.

Preparazione del Campo Operatorio Anche nel caso della chirurgia aviare è necessario applicare le normali regole di preparazione di un campo asettico. Le normali soluzioni disinfettanti che s’impiegano per abbattere la carica batterica nel campo dei mammiferi vanno bene, ma bisogna ricordarsi che la cute degli uccelli è piuttosto delicata, pertanto alcune sostanze non sono consigliate perché giudicate troppo aggressive. Per esempio, lo iodio-povidone puro, seguito da lavaggio con alcol non va bene, mentre il primo, diluito fino all’1% è adeguato. Al momento comunque, si consiglia di usare disinfettanti più “morbidi”, come clorexidina allo 0.05%.

STRUMENTAZIONE Gli strumenti per la chirurgia aviare devono essere adeguati alla taglia ridotta dei pazienti. In questa prospettiva si consigliano: • Strumenti normali, ma piccoli e delicati; • Strumenti per chirurgia oftalmica; • Strumenti per microchirurgia. Inoltre, un piccolo endoscopio rigido dovrebbe sempre essere presente per visualizzare zone inaccessibili all’occhio. Si possono impiegare strumenti divaricatori chirurgici, ma questi devono essere leggeri, delicati e non traumatici, quindi in genere si opta per piccoli blefarostati, o per divaricatori statici a più punti, tipo “lone-star”. Molto spesso la legatura di vasi posti in posizioni profonde e in luoghi angusti, come il celoma di un piccolo uccello, è quasi impossibile. In tali casi si consiglia l’impiego di clips metalliche tipo “hemo-clip”.

PREPARAZIONE DEL PAZIENTE

RADIOCHIRURGIA

Pterotomia (tricotomia)

La radiochirurgia utilizza onde radio ad alta frequenza per generare onde d’energia che, creando delle vibrazioni all’interno delle cellule, ne innalzano la temperatura. L’acqua intracellulare si vaporizza e la cellula si rompe, mentre l’e-

Per effettuare una chirurgia, è bene che le piume vengano asportate per un raggio di 2-3 cm dal campo operatorio. In


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lettrodo attivo resta freddo. La frequenza delle onde può variare, permettendo al chirurgo di scegliere fra il taglio dei tessuti e la coagulazione dei vasi. Quest’ultima avviene quando la corrente è sufficiente per disidratare le cellule e coagulare in loro contenuto organico. L’impiego di un radio-bisturi è quasi indispensabile in molte chirurgie dei tessuti molli, la precisione e la semplicità d’uso ne fanno uno strumento molto versatile che permette di tagliare, coagulare ed effettuare biopsie, limitando la perdita di sangue, che come abbiamo visto, è un punto cruciale in questi piccoli pazienti.

MATERIALI DI SUTURA Gli scopi della riparazione di una ferita chirurgica sono: • minimizzare il danno arrecato all’organo, • favorire la sua guarigione, • limitare gli effetti della perdita di tessuto. Per cui la tecnica ed il materiale impiegato nella sutura sono fondamentale. In chirurgia aviare s’impiegano normalmente fili montati, di calibro da 3-0 a 6-0, ma nei pazienti più piccoli e durante la microchirurgia si possono usare

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anche fili più sottili, fino a 10-0 In genere si preferisce usare materiali assorbibili monofilamento e montati.

INTERVENTI SELEZIONATI Ritenzione d’uovo Tradizionale Mini-invasiva Ovocentesi Salpingoisterectomia Tradizionale Mini-invasiva giovanile

Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta Consulenze Aviari e per Animali Esotici e da Zoo Clinica Veterinaria Valcurone - Via Kennedy, 10 - 23873 Missaglia (LC) Tel. +39-039-92.79.338 - Cell. + 39-348-8751171 - E mail: lorenzo_birdvet@yahoo.com


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Chirurgia dell’apparato digerente negli uccelli Lorenzo Crosta Med Vet, Missaglia (LC)

PREMESSA

Risoluzione di fistole del gozzo

Fermo restando tutto quello che s’è detto nella parte generale sulla chirurgia dell’apparato riproduttore, negli uccelli si possono impiegare tecniche chirurgiche a carico dell’apparato digerente. Alcune porzioni del sistema digestivo aviare sono inaccessibili al chirurgo, altre sono molto difficili da riparare (basti pensare ad una enterotomia in un paziente da 40-50 grammi), salvo avere a disposizione materiali e strumenti molto specifici. Pertanto, le chirurgie più comuni, a carico di questo apparato sono limitate all’ingluvie, allo stomaco ghiandolare e, più raramente muscolare, ad alla cloaca.

Le fistole del gozzo si realizzano in seguito a ustioni dell’organo o, più raramente, a infezioni localizzate. Dopo avere atteso alcuni giorni, fino a quando non sia ben definito il margine del processo necrotico, si asportano separatamente cute e parete dell’ingluvie. Anche qui la chiusura avviene come descritto prima, con l’attenzione a scollare bene la parete dell’organo dalla cute, per facilitare le due suture separate.

INTERVENTI SELEZIONATI Ingluviotomia Questo intervento si realizza principalmente con le seguenti finalità: estrazione di corpi estranei, pulizia del gozzo impaccato e introduzione dell’endoscopio per by-passare testa e collo. L’approccio è molto semplice ed avviene con il paziente in decubito dorsale. Preparato chirurgicamente il terzo distale del collo, nella sua faccia ventrale, si pratica una semplice incisione della cute e si scolla il sottile sottocute con una piccola forbice o con una piccola mosquito. Si fissa quindi la parete del gozzo con un punto lungo, che si mantiene con un pinza mosquito e si procede all’apertura della parete dell’ingluvie. Effettuate le manovre necessarie, si richiude il gozzo con filo monofilamento riassorbibile montato, di piccolo calibro (4-0 a 6-0). La sutura sarà introflettente. Segue la sutura cutanea come di consueto.

Biopsia del gozzo La biopsia del gozzo è una procedura molto comune, anche perché, al momento, è la tecnica più accreditata per la diagnosi di PDD. L’accesso alla parete dell’ingluvie avviene come sopra, ma la cosa importante è esteriorizzare il gozzo nel punto più distale possibile: in tal modo si può prelevare un campione, di circa 1/3 di cm2, che contenga un vaso. La chiusura avviene come descritto prima.

Celiotomia laterale sinistra È la via più tradizionale per accedere alle gonadi, al rene sinistro, ovidotto e naturalmente, al proventricolo e ventricolo. Il paziente è in decubito laterale destro, con le ali estese dorsalmente e la zampa sinistra estesa dorso-caudalmente. Dapprima s’incide la plica della grassella, per permettere un’ulteriore abduzione dell’arto, poi si procede ad incidere la cute, con la pinza bipolare del radio bisturi, dalla 6° costa fino al pube. A questo punto l’arteria e la vena femorali superficiali mediali possono essere visualizzate lungo la parete addominale, medialmente all’articolazione coxo-femorale. Questi vasi vanno cauterizzati. S’incide quindi la parete addominale, estendendo il taglio dal pube all’8° costa circa. Le ultime due o tre coste vanno sezionate, ma prima di asportarle si deve procedere alla cauterizzazione dei vasi intercostali. Si può finalmente inserire un divaricatore per meglio visualizzare gli organi intracelomatici. La sutura avviene senza tentare di riposizionare le coste asportate.

Proventricolotomia La proventricolotomia è la tecnica più usata per accedere al lume del proventricolo e del ventriglio. Una volta identificato il ventriglio, si procede alla dissezione dei legamenti sospensori e al posizionamento di due suture che lo mantengano contro la breccia operatoria. Identificata la porzione triangolare del fegato che nasconde l’istmo fra proventricolo e ventriglio, la si solleva gentilmente e si può procedere all’incisione. Finite le manovre necessarie, si sutura l’istmo con filo monofilamento assorbibile (4-0 a 8-0), si riposizionano fegato e ventriglio e si procede alla completa chiusura del celoma.


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Cloacopessi La fissazione della cloaca serve per la risoluzione, temporanea o permanente, del prolasso di cloaca, retto, ovidotto o, più raramente del fallo. Sutura peri anale: questa tecnica, che si può realizzare anche con una semplice sutura a borsa di tabacco, è chiaramente temporanea. In genere si pongono due punti semplici vicino ai margini laterali dell’ano, in modo da stringerne l’apertura. Cloacopessi secondo Coles: la tecnica serve per la risoluzione temporanea del prolasso cloacale. Servono fili monofilamento non assorbibili, con due aghi. Un ago viene fatto passare dall’esterno dell’ano, oltre il muscolo sfintere (diciamo alle ore 2), fin dentro la cloaca, e guidato fino ad uscire dalla parete addominale ventrale. L’altro ago viene fatto entrare alle ore 4 ed uscire vicino al predente. Con l’altro filo, si ripete l’operazione, ma entrando

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alle ore 8 e 10. Tirando i fili, la cloaca viene fatta rientrare in posizione normale. Cloacopessi definitiva: questa tecnica, che serve per i prolassi cronici, prevede una celotomia ventrale, sulla linea alba. Una volta entrati nel celoma e dopo avere, con l’aiuto di un tampone in cotone, identificata la parete cloacale, la si ripulisce dal grasso pericloacale. La parete cloacale di ambo i lati viene quindi fissata all’ultima costa ipsilaterale. L’addome si chiude come di consueto.. Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta Consulenze Aviari e per Animali Esotici e da Zoo Clinica Veterinaria Valcurone Via Kennedy, 10 - 23873 Missaglia (LC) Tel. +39-039-92.79.338 - Cell. + 39-348-8751171 E mail: lorenzo_birdvet@yahoo.com


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I glaucomi felini Alberto Crotti Med Vet, Genova

Con il termine Glaucomi si intende un gruppo di malattie neuro degenerative caratterizzate da sintomi clinici polimorfi e determinate da aumento della pressione intraoculare in grado di scatenare una catena di eventi a livello del nervo ottico e della retina che si traducono in un danno alla integrità e alla funzione delle strutture oculari che persiste anche se la pressione ritorna entro ai limiti della norma. All’interno dell’occhio l’equilibrio tra la produzione ed il drenaggio dell’umor acqueo è responsabile del mantenimento della pressione intraoculare nei valori normali di 22.2+/5.2 mm/hg1 con la presenza di variazioni legate al ritmo circadiano2. L’umor acqueo viene prodotto a livello dei corpi ciliari in massima parte attraverso meccanismi di secrezione o trasporto attivo ed in parte minore attraverso diffusione passiva e ultrafiltrazione. L’acqueo muove dalla camera posteriore alla anteriore passando tra lente ed iride attraverso il foro pupillare. Nella camera anteriore esso viene drenato a livello dell’angolo irido corneale dove tra la base dell’iride e la cornea sono presenti i legamenti pettinati. Esso penetra attraverso gli spazi del Fontana delimitati da questi legamenti e si insinua nella rete trabecolare che rappresenta una zona di resistenza al flusso dell’acqueo. Attraversando la rete trabecolare l’umor acqueo raggiunge infine il sistema venoso tramite vie di deflusso definite convenzionali e non convenzionali. Nel gatto le vie non convenzionali sarebbero responsabili solamente di circa il 3% di tale deflusso. Anche se all’apparenza le strutture anatomiche deputate alla filtrazione dell’umor acqueo nel cane e nel gatto risultano essere grossolanamente simili, esistono sottili differenze tra le due specie. La camera anteriore nel gatto è notevolmente più profonda rispetto a quella del cane. Le fibre del legamento pettinato appaiono più sottili, più lunghe e meno numerose. La rete trabecolare è più ricca in fibre e il legamento cribriforme corneo-sclerale (trabecolo corneo-sclerale) possiede pori di maggiore diametro. Il plesso venoso della sclera è maggiormente sviluppato e le vene trabecolari sono più numerose. Queste differenze potrebbero spiegare la minore incidenza del glaucoma felino rispetto alla specie canina. La diagnosi del glaucoma deve essere effettuata in base all’esame clinico e alla misurazione della pressione intraoculare. Risulta importante anche la osservazione dell’angolo irido corneale attraverso l’esame gonioscopico. Da un punto di vista della classificazione i criteri seguiti possono prendere in considerazione la patologia scatenante il glaucoma che in tal caso può essere considerato primario3 nel caso non siano presenti patologie preesistenti o seconda-

rio nel caso in cui siano intervenute malattie intraoculari responsabili della crisi glaucomatosa. La forma primaria può essere congenita4 o se si prende in considerazione lo stato dell’angolo irido corneale:ad angolo aperto, ristretto/chiuso, con presenza di displasia dei legamenti pettinati5. La classificazione in acuto o cronico prende invece spunto dal tempo di insorgenza della malattia. Nella specie felina la maggior parte dei glaucomi sono di origine secondaria e data la insorgenza subdola di tipo cronico. Gli individui di sesso maschile sarebbero più frequentemente colpiti rispetto a quelli di sesso femminile. Esiste una certa prevalenza di incidenza nei gatti domestici rispetto a quelli di razza pura. La ipertensione oculare risulta particolarmente critica inizialmente a livello del disco ottico attraverso meccanismi in parte conosciuti ed in parte ancora oggetto di studio ed approfondimento. In seguito sotto lo stimolo ipertensivo anche la retina va incontro a fenomeni di tipo degenerativo. Il glaucoma secondario è da ricondursi principalmente a patologiche neoplastiche, infiammatorie/infettive, traumatiche e malattie sistemiche6. In caso di neoplasia intraoculare la causa dell’ aumento della pressione è legata al meccanismo di compressione ed/od invasione dello stroma irideo, dell’angolo irido corneale e dell’apparato trabecolare da parte del tessuto e/o della cellularità neoplastica. La più comune neoplasia primaria è il melanoma diffuso dell’iride. Il linfosarcoma rappresenta la forma più frequente tra le neoplasie secondarie. Per quanto riguarda i fenomeni infettivi/infiammatori si può affermare che qualunque malattia sistemica in grado di determinare uveite nel gatto può essere potenzialmente anche causa di glaucoma. L’ irido ciclite determina rottura della barriera emato acquea con aumento delle proteine e della cellularità dell’acqueo, si può formare ipopion ed ifema e in conseguenza di ciò si ha aumento della viscosità dell’acqueo e la diminuzione del coefficente di filtrazione. Può esservi deposito di fibrina a livello della superficie iridea, del foro pupillare e dell’angolo irido corneale con formazione di membrane fibro-vascolari preiridee. Si possono creare sinechie anteriori o posteriori con seclusione pupillare e grave impedimento alla circolazione dell’acqueo. Si può avere iride bombè e conseguente chiusura dell’angolo irido corneale. La miosi che si accompagna all’uveite crea ulteriore ostacolo alla circolazione dell’acqueo. All’evento infiammatorio può conseguire la lussazione della lente per fenomeno degenerativo a carico delle fibre zonulari. Lo spostamento del cristallino può determinare o blocco pupillare con conseguente ostacolo al deflusso del-


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l’umor acqueo attraverso il foro pupillare, oppure più frequentemente il movimento della lente verso la camera anteriore crea alterato deflusso a livello dell’angolo irido corneale. In conseguenza della lussazione della lente può esservi prolasso del vitreo a livello pupillare con conseguente blocco pupillare7. Il glaucoma secondario a traumatismo vede come elemento predisponente l’emorragia in partenza dall’uvea anteriore con ifema e alterato drenaggio da parte dell’angolo irido corneale e le conseguenze del fenomeno infiammatorio secondario al trauma stesso. Se il trauma è causato da ferita perforante si può assistere a rottura della capsula della lente con insorgenza di uveite facoclastica. Una particolare forma di glaucoma felino è quello legato ad alterata direzione dell’acqueo assimilabile al glaucoma maligno dell’uomo. In questo caso l’acqueo tende a dirigersi verso il vitreo imbibendolo e causando uno spostamento anterogrado della lente e dell’iride con chiusura dell’angolo di filtrazione irido corneale8. Nel gatto la sintomatologia del glaucoma è simile a quella del cane anche se molto spesso i segni clinici decorrono in modo più sottile e meno eclatante soprattutto nella fase iniziale. Il gatto non di rado viene riferito tardivamente con cecità e buftalmo associato agli altri sintomi clinici tipici della malattia. Oltre ai sintomi sopracitati può essere presente epifora, pupilla dilatata e fissa o poco responsiva allo stimolo luminoso, cambiamenti di colore dell’iride e nelle forme avanzate escavazione del disco ottico non facilmente evidenziabile causa la scarsa mielinizzazione della papilla che appare più scura e degenerazione retinica manifestata da iperreflettenza del fondo tappetale ed attenuazione della componente vascolare. Appare meno frequente la presenza di dolore con blefarospasmo, la iperemia congiuntivale, l’iniezione sclerale e l’edema corneale che di solito non è marcato9, 10, 11. La terapia del glaucoma felino spesso risulta essere estremamente frustrante dal momento che frequentemente il soggetto viene portato alla visita con sintomatologia avanzata. La cura può essere medica (specifica ed aspecifica) e chirurgica. La terapia medica specifica si avvale dell’utilizzo di farmaci che agiscono sul vitreo disidratandolo (mannitolo e glicerolo), riducono la produzione di umor acqueo (inibitori dell’anidrasi carbonica topici)12, facilitano il deflusso dell’umor acqueo (betabloccanti)13. La terapia aspecifica prevede l’utilizzo di antinfiammatori, prodotti lubrificanti la cornea ed antibiotici. Le possibilità terapeutiche chirurgiche del glaucoma felino sono simili a quelle del glaucoma canino e si utilizzano quando la terapia medica non consente il controllo della pressione intraoculare. Se la funzione visiva risulta mantenuta si può agire sulle vie di drenaggio dell’umor acqueo attraverso la ciclodialisi, la iridencleisi, le protesi sottocongiuntivali o con la ciclocrioterapia e la ciclofotocoagulazione. Nel caso di assenza

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della visione si può provocare la distruzione dell’epitelio del corpo ciliare e quindi ridurre la produzione dell’umor acqueo attraverso la ablazione farmacologia dei corpi ciliari. La eviscerazione con inserimento a scopo estetico di una protesi endobulbare è una ulteriore possibilità terapeutica. È corretto però considerare che tutti questi interventi espongono il soggetto operato al rischio della possibile insorgenza di fibrosarcoma, una patologia non frequente ma ben documentata in letteratura. Riferendosi a quanto sopra descritto nella specie felina la enucleazione risulta molto spesso la terapia chirurgica più corretta al fine della risoluzione del glaucoma non controllato da terapia medica in assenza della funzione visiva.

Bibliografia 1.

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Indirizzo per la corrispondenza: Lorenzo Crosta Consulenze Aviari e per Animali Esotici e da Zoo Clinica Veterinaria Valcurone Via Kennedy, 10 - 23873 Missaglia (LC) Tel. +39-039-92.79.338 - Cell. + 39-348-8751171 E mail: lorenzo_birdvet@yahoo.com


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Intelligenza vs emozioni? No! Intelligenza emotiva! Gualtiero Crotti Med Vet, Diploma Master Cardiologia, Civitanova Marche (Mc)

Nei rapporti interpersonali con il cliente, con i collaboratori e nella vita di tutti i giorni noi applichiamo un approccio che mescola valutazioni razionali con quelle emotive. Lo facciamo in maniera non sistematica, incostante e spesso in modo involontario. Utilizziamo le nostre sensazioni, per valutare il presente, ma anche per definire future azioni e per valutare passati avvenimenti,secondo un metro di giudizio personale e non rigidamente obbiettivo. Stati d’animo, situazioni contingenti ed ambientali, variabili non legate al solo ambiente di lavoro,ci portano a non riuscire a standardizzare le nostre decisioni ed il nostro operato. Correnti di pensiero, tempo fa, raccomandavano di separare razionalità ed emozione, anzi le contrapponevano. Spingevano a utilizzare la sola l’intelligenza,senza che questa venisse indebolita dall’emozione. Questa posizione è stata superata da alcuni autori, che semplicemente osservando cosa avviene nella vita comune di relazione,hanno codificato il termine di intelligenza emotiva (I.E.). Questa risulta essere una equilibrata fusione tra motivazione, empatia ed autocontrollo, che può permettere di sviluppare una grande capacità di adattamento atta a convogliare la propria componente emotiva, rendendola un formidabile strumento per esplorare i lati positivi delle situazioni. Come si può in una delicata relazione di aiuto,come quella che intercorre tra il medico veterinario ed il proprietario, limitarsi ad applicare lo stretto e freddo approccio razionale? L’intelligenza emotiva viene formata dall’interazione di fattori, denominate “competenze”. Le competenze sono definibili come conoscenze e capacità che portano alla possibilità di gestire situazioni specifiche con ripercussioni positive nei rapporti interpersonali e nei rapporti lavorativi. Quindi affinando la conoscenza delle “competenze”, si possono ottenere migliori rapporti interpersonali e proficue relazioni non solo sul lavoro ma anche nella comune vita di relazione. Le competenze individuate da d. goleman, uno degli autori che hanno lavorato sull’argomento, sono: la competenza personale la competenza sociale ognuna di queste competenze è caratterizzata da abilità specifiche. La competenza personale determina il modo con cui controlliamo noi stessi e le nostre reazioni. Comporta il conoscere ed interpretare i propri stati interiori e le reazioni che ne derivano, esplicitate con azioni, discorsi, prese di posizione.

I nostri stati interiori sono determinanti per definire le nostre preferenze, per la capacità di estrinsecare le nostre risorse e per mettere quindi in atto le azioni piu corrette ed adeguate. Inoltre anche la nostra capacità di intuire e di interpretare le esigenza altrui è strettamente legata a lucidità e prontezza che possono essere alterate dal nostro stato interiore. Nell’ambito della competenza personale le abilità specifiche sono: la consapevolezza di sé. Questa abilità implica consapevolezza emotiva, cioè il riconoscere le proprie emozioni. In generale è innegabile che di fornite ad alcune emozioni, possano emergere risposte specifiche. Avere la consapevolezza che tali emozioni ci portano ad agire ed a pensare in modo conseguente ci da una guida emotiva infallibile. Per avere questa consapevolezza di se,serve un esercizio di autovalutazione. Il professionista dovrebbe esercitarsi per conoscere le proprie risorse ed i propri limiti. L’autovalutazione, portando al riconoscimento delle proprie debolezze, puo favorire la riflessione sulle stesse, la serena presa di coscienza ed un intervento per un miglioramento. Aiuta anche ad allontanare la frustrazione di critiche prese come un affronto personale. Una buona dote di senso dell’umorismo aiuta in questa analisi. La forza che ci muove ad accettare sfide difficili e nel farci uscire necessaria è anche la fiducia in se stessi, cioè la percezione del proprio valore e capacità. la padronanza di sé. Questa abilita consiste nellla capacità di controllare reazioni ed impulsi, anche in presenza di sentimenti contrastanti. Indispensabile è l’autocontrollo, inteso come capacità di dominare emozioni d impulsi distruttivi. Vuol dire sapere rimanere concentrati nei momenti difficili, gestire stress ed impulsi negativi, rimanere lucidi per incanalare le proprie emozioni e sfruttarne l’energia al meglio. La mancanza di autocontrollo spesso rovina prestazioni fino ad quel momento condotte in modo efficace. Senza autocontrollo emerge solo l’emotività incontrollata, non è possibile una mediazione. La padronanza di sé comporta una omogeneità di comportamento, la tendenza a costruire un clima di collaborazione basato su chiarezza, trasparenza,rispetto delle regole ed affidabilità. È piu agevole ammettere e correggere gli errori, opporsi alle scorrettezze ed alla mancanza di etica.


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Chi ha padronanza di sé risulta avere coscienziosità, nell’assumersi responsabilità, nel perseguire gli obbiettivi e nel rispetto degli impegni presi, allontanando i freni legati all’indifferenza ed al dubbio, che spengono la determinazione al perseguimento dell’obbiettivo. La padronanza di se da sicurezza interiore, rende possibile l’ assumere un atteggiamento di apertura alle novità. Questa è la base per la crescita professionale e per l’innovazione. La padronanza di sé è anche il punto di partenza per accettare i cambiamenti necessari, promuoverli ed organizzarli, attraverso l’adattabilità alle nuove richieste dei clienti. Essere adattabili vuol dire essere flessibili nel modificare la propria offerta di servizi. La motivazione. La motivazione è data dalla somma dei fattori che guidano e sostengono fino al raggiungimento dell’obbiettivo. L’aspetto economico e ‘ determinante ma non sufficiente per mantenere la motivazione, servono altri fattori stimolanti. È indispensabile la possibilità della realizzazione personale, nell’ambito del gruppo, per ottenere soddisfazioni personali. L’impegno e lo spirito di iniziativa sono altresì’ importanti anche come strumenti per una affermazione, nel contesto di una stimolante, corretta e positiva competizione. Non c’è motivazione senza un intelligente ottimismo. Essere intelligentemente ed equilibratamente ottimisti significa non cadere nello sconforto della paura del fallimento, non considerare gli insuccessi come incapacità personale. L’ottimismo aiuta a non attribuire esagerata importanza ad eventi negativi, per non distogliere l’attenzione dagli obbiettivi da perseguire. Per quanto riguarda la seconda competenze, la competenza sociale, essa rappresenta la capacità di gestire le relazioni interpersonali. È determinata da due abilità: l’empatia. Rappresenta l’impegno a comprendere a fondo le esigenze ed il sentire altrui tenendo ben chiare le proprie posizioni. È imprescindibile avere la voglia di “comprendere”, essendo veramente e sinceramente interessati alle esigenze altrui. Se c’è tale caratteristica ne consegue una genuina disponibilità allo “stare al servizio” e una propensione all’aiuto. In tale abilità sociale si comprende anche la capacità di valorizzare l’operato altrui, nell’ambito del rapporto con il cliente o con i colleghi di lavoro. Anche la promozione della diversità in ambito interpersonale e sociale è frutto dell’empatia. La diversità viene in questo caso vista come un’ opportunità. Implica la capacità di identificare le caratteristiche positive del proprio interlocutore, senza la paura del confronto. Un manager che sa riconoscere le prerogative dei singoli collaboratori, oppure un professionista che sa personalizzare l’offerta del servizio al cliente ha la capacità di ottenere il meglio con soddisfazione reciproca. Nell’empatia rientra anche la consapevolezza politica, intesa come la capacità di conoscere il territorio, gli aspetti sociali e le realtà culturali, oltre che le potenzialità e le tendenze.

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Le abilità sociali I sentimenti positivi sono meglio graditi, più immediati nelle loro trasmissione, più produttivi ed influenzano il proprio interlocutore predisponendolo ad un rapporto piu sereno. a capacità di trasmettere positività è innegabilmente una virtù preziosa. Ne risulta facilità di collaborazione, lealtà, ottimismo e volontà nel perseguire l’obbiettivo. Rilevante importanza riveste la capacità di trascinare, di influenzare positivamente. L’influenza può aiutare nell’ottenere consenso. Ci sono persone abili nel persuadere grazie ad una buona capacità di comunicazione. Sicuramente è nota a tutti la capacità di persuasione di abili comunicatori. Altre componenti delle abilita sociali sono la leadership, capacità di trasmettere il proprio entusiasmo e di porsi alla guida di un gruppo, creando cooperazione, la capacità di gestione dei conflitti, di catalizzazione e guida dei cambiamenti. In conclusione bisogna specificare.che l’intelligenza emotiva può essere potenziata ed allenata. Sicuramente si sviluppa in maniera naturale con il tempo come conseguenza di trascorsi ed esperienze personali, e come un naturale processo di maturazione. È comunque necessario avere la predisposizione ad effetture una serena analisi degli avvenimenti e ad una autovalutazione personale. Non è peraltro indispensabile possedere proprio tutte le competenze citate, sicuramente non tutti gli individui sono dotati naturalmente di tali competenze ed abilità o hanno la possibilità di esercitarsi per acquisirle o migliorarle. Comunque anche un parte di queste capacità, se bene applicata, porterebbe notevoli risultati nell’evidenziare gli aspetti “migliori” delle proprie caratteristiche personali. Sicuramente affinare le abilità sopite da consuetudini, abitudini, pigrizia mentale ed assuefazione può aiutare a utilizzare in maniera intelligente le nostre emozioni. Accontentarsi, non rivalutare i propri errori e rimanere comodamente racchiusi nella propria “zona di comfort” non fa progredire. Gli psicologi del lavoro hanno dimostrato che nel portare a termine un compito non in modo normale, ma in modo eccellente, le doti personali e caratteriali inerenti all’intelligenza emotiva sono percentualmente più importanti rispetto all’applicazione delle sole intelligenza (Q.I.) e capacita professionali (expertise).

Bibliografia Goleman D., (2000), Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un nuovo rapporto con il lavoro, Rizzoli, Milano. Weisinger H.,(2004), Intelligenza emotiva al lavoro. Una guida per mettere a frutto il proprio quoziente emotivo, Bompiani, Milano. www.managerzen.it - www.corem.unisi.it

Indirizzo per la corrispondenza: Gualtiero Crotti - waltercrotti@libero.it


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Acute generalized flaccid tetraparesis to tetraplegia Paul A. Cuddon BVSC, DACVIM (Neurology), Associate Professor, Colorado State University

COONHOUND PARALYSIS: Coonhound paralysis is an acute canine polyradiculoneuritis, which often is associated with raccoon saliva (bite or scratch). However, this disease is seen in many countries without raccoons. It is most likely a delayed immune mediated disease. Acute onset of neurologic signs begins 7-14 days post raccoon contact or other antecedent event. Neurologic signs consist of an initial stiff-stilted gait in all limbs with rapid progression to LMN tetraparesis / plegia. In addition, dogs will often show dysphonia or aphonia +/facial paresis. Some dogs will demonstrate hyperesthesia. Initial progression of signs will continue for 4-5 days, with a duration of dysfunction lasting anywhere from 2-3 weeks to 4 months Major differentials would include botulism, tick paralysis, fulminant myasthenia gravis, black widow spider envenomation, West Nile virus paralytic syndrome?????, and generalized or multifocal myelopathy. Diagnosis is based on typical clinical signs of an acute LMN syndrome followed by electrophysiology, which will reveal generalized spontaneous activity, the severity of which depends on the time after onset of signs. There is also markedly decreased amplitude to absent compound muscle action potentials. Motor nerve root studies will indicate delayed latencies. Sensory function usually is normal. Lumbar spinal fluid analysis will reveal an increase in protein (albuminocytologic dissociation). Dogs that have an encounter with a raccoon have positive antibodies against raccoon saliva. Treatment usually entails conservative supportive care. Artificial ventilation may be necessary if respiratory paralysis develops. High dose IV immune globulin therapy (1 g/kg/day for 2 consecutive days OR 0.4 g/kg/day for 4-5 consecutive days) can be utilized although this therapy is extremely expensive. Corticosteroids DO NOT improve signs nor shorten the duration of disease. Therefore, steroids are contraindicated.

teinase, effects the n-m junction. It binds to a specific protein receptor on the prejunctional nerve terminal, where it is internalized into a vesicle. It interferes with Ach release at the n-m junction, post-ganglionic parasympathetic synapses, & all ganglionic synapses. Ach release failure is due to toxin disruption of specific “docking proteins” (syntaxin). Dogs are very resistant to botulism. Horses and esp. foals are more commonly affected. The first sign is a shuffling gait with subsequent generalized loss of muscle tone, hyporeflexia & eventual flaccid paralysis & respiratory failure. There is involvement of facial, cervical, mandibular, pharyngeal, laryngeal, and intraocular muscles, with associated clinical signs being dysphagia, salivation, mydriasis, and dysphonia. Megaesophagus also commonly occurs along with urinary retention and dribbling Diagnosis is DIFFICULT since only very small amounts of toxin needed to cause clinical signs. The organism or toxin can be detected in recently ingested food or vomitus. Electrophysiology can be helpful with diagnosis, with CMAP amplitude decreases and decremental/incremental responses seen with supramaximal repetitive stimulation. Mouse inoculation is still the most utilized definitive test for botulism. CSF analysis is normal, unlike in coonhound paralysis. The mainstay of treatment is intensive supportive care. There is no specific antidote for the bound toxin. Antibiotics may be needed for possible secondary pneumonia but DO NOT USE AMINOGLYCOSIDES, TETRACYCLINES, OR PROCAINE PENICILLIN due to these antibiotics producing a decrease in Ach release. 4 amino-pyridine has been used with some positive effect on clinical signs since it increases intracellular Ca2+, which in turn increases muscle strength. The trivalent antitoxin that is commercially available for humans (human A,D,E trivalent) is useless in dogs. There is, however, a canine polyvalent antitoxin and antitype C1 antitoxin available. Both of these should be given once within the first 5 days.

BOTULISM: This is caused by Clostridium botulinum neurotoxin - Type C (dogs) and Type B, C, and D (horses and cattle). The most common mode of exposure is the ingestion of preformed toxin (decaying carcasses or decaying food - silage). After toxin ingestion, there is a latency of 1-2 days before development of clinical signs. The other mode of exposure is toxicoinfectious botulism (Type B), where there is spore ingestion or wound contamination with spores with subsequent toxin production in the GIT or wound. The botulinum toxin, a zinc-dependent metallopro-

TICK PARALYSIS: Tick paralysis is caused by neurotoxins associated with feeding female ticks of primarily Dermacentor andersonii or variabilis (USA) and Ixodes holocyclus (Australia). Amblyomma spp. also can produce tick paralysis in the US. Only 1 female tick is required to produce neurological signs but the tick needs to be attached and feeding for 6-9 days before signs develop. The tick toxin of all species interferes with Ach release at the n-m junction, although the Ixodes toxin is much more virulent with significant non-neurologic signs (hypertension, tachyarrhythmias,


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mydriatic pupils, pulmonary edema). Typical signs consist of progressive LMN paraparesis leading to tetraparesis over 1-2 days. Cranial nerve involvement is RARE with all ticks except Ixodes. Limbs are hypotonic and hyporeflexic and there often is a decreased bark +/- respiratory compromise. Very rarely tick paralysis may result in respiratory paralysis and death (usually Ixodes toxin). Definitive diagnosis is based on finding the offending tick on a dog with classical clinical signs. DO A THOROUGH SEARCH and, if at all suspicious, treat with Frontline, Advantix or other topical tick preparation. Electrophysiology is rarely done, but the abnormalities are similar to botulism. Removal of the entire tick, if it can be found, leads to improvement within a day with Dermacentor. Performing a tick bath is also an effective treatment to cause the tick to dislodge. Prompt recognition usually results in a complete recovery. This may not be the case with Ixodes toxin. Removal of the tick does not immediately reverse clinical signs. Therefore, you must neutralize circulating Ixodes neurotoxin with hyperimmune serum (0.5-1 mg/kg IV). FULMINANT MYASTHENIA GRAVIS: The etiology of myasthenia is the production of autoantibodies against skeletal muscle AchRs. Acute fulminating MG presents as a rapid onset of severe appendicular and bulbar muscle weakness often precipitated by relative increases in anti-AchR antibody titers (tend to have higher serum titers). Relative insufficiency of Ach may be precipitated by pneumonia, UTI, or other concurrent illness. There is a rapid progression of profound muscle weakness in an animal with a recent sudden onset of megaesophagus and regurgitation. Almost invariably, these animals have

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aspiration pneumonia associated with the severe, constant regurgitation. There is a rapid, progressive worsening of pulmonary function. Despite the severity of this disease, there is often very little evidence of hyporeflexia. However, dogs can demonstrate a decreased gag, absent palpebral reflex, and urinary bladder distension. Fulminant myasthenia gravis is associated with a high mortality rate due to respiratory failure. Definitive diagnosis is based on positive serum anti-Ach receptor antibodies, although results will be delayed. Although electrophysiology can be very helpful with diagnosis (decremental response with supramaximal repetitive stimulation), the associated anesthesia may precipitate progression of signs. Edrophonium response testing (0.1-0.2 mg/kg IV) would be an alternative diagnostic aid, although this may only obtain a subtle response for only a few seconds. It would be also important to perform thoracic radiographs to check for thymoma. Initial treatment would consist of parenteral anticholinesterases (NB IV pyridostigmine is 1/30th the dose of the oral formulation). Constant rate infusion pyridostigmine also can be an option in initial treatment. Avoid immunosuppressive corticosteroid therapy initially, especially with aspiration pneumonia. It would also be important to not give oral treatment if there is regurgitation. Definitely do not give metoclopramide. Consider a PEG tube, gastrostomy tube or parenteral nutrition for feeding and maintaining caloric intake. Once the myasthenic crisis is stabilized, the dog should be started on oral therapy with pyridostigmine (initial dose of 1 mg/kg BID to TID) in combination with prednisone at an antiinflammatory dose of 1/2 mg/kg BID. Mycophenolate (Cellcept) can also be effective at a dose of 20 mg/kg BID, although this is expensive.


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Diagnosi di neuropatia e miopatia; valutazione funzionale e strutturale Paul A. Cuddon DVM, Bvsc Dipl Acvim(Neurology), Colorado, Usa

PARALISI DEL COONHOUND: La paralisi del coonhound è una poliradicoloneurite acuta del cane che risulta spesso associata alla saliva del procione (morso o graffio). Tuttavia, la condizione si osserva in molti Paesi in cui non vi sono procioni. Molto probabilmente si tratta di una forma di malattia immunomediata ritardata. L’insorgenza acuta dei segni neurologici inizia 7-1 giorni dopo il contatto con il procione o con un altro evento antecedente. Le manifestazioni neurologiche sono costituite da un’andatura iniziale rigida ed innaturale a livello di tutti gli arti, con rapida progressione da tetraparesi/plegia da motoneurone inferiore (MNI). Inoltre, i cani mostrano spesso disfonia o afonia ± paresi facciale. Alcuni mostrano iperestesia. L’iniziale progressione dei segni clinici continua per 4-5 giorni, con una durata di disfunzione variabile da 2-3 settimane a quattro mesi. Le principali diagnosi differenziali da prendere in considerazione sono rappresentate da botulismo, paralisi da zecche, myasthenia gravis fulminante, avvelenamento da vedova nera, sindrome paralitica da West Nile virus??? e mielopatia generalizzata o multifocale. La diagnosi si basa sul riscontro dei tipici segni clinici di una sindrome acuta da MNI seguito dalle indagini elettrofisiologiche, che rivelano attività spontanea generalizzata, la cui gravità dipende dal tempo trascorso dall’insorgenza dei segni clinici. È anche presente una marcata diminuzione dell’ampiezza o l’assenza dei potenziali d’azione muscolari. Gli studi condotti sulla radice dei nervi motori indicano latenze ritardate. La funzione sensoriale di solito è normale. L’analisi del liquor prelevato a livello lombare evidenzia un aumento del contenuto di proteine (dissociazione albuminocitologica). I cani che hanno un incontro con un procione diventano positivi per gli anticorpi contro la saliva di questo animale. Il trattamento di solito consiste in una terapia di sostegno conservativa. Può essere necessaria la respirazione artificiale se si sviluppa una paralisi respiratoria. Si possono utilizzare alte dosi di terapia con immunoglobuline IV (1 g/kg/die per due giorni consecutivi OPPURE 0,4 g/kg/die per 4-5 giorni consecutivi) anche se si tratta di un trattamento estremamente costoso. I corticosteroidi NON migliorano i segni clinici né abbreviano la durata della malattia. Di conseguenza, sono controindicati. BOTULISMO: È causato dalla neurotossina di Clostridium botulinum – tipo C (cane) e tipo B, C e D (cavallo e bovino). La più comune modalità di esposizione è l’inge-

stione di tossina preformata (carcasse in decomposizione o alimenti – insilati in decomposizione). Dopo l’ingestione della tossina, si ha una latenza di 1-2 giorni prima dello sviluppo dei segni clinici. L’altra modalità di esposizione è la tossinfezione botulinica (tipo B) in cui si ha l’ingestione di spore o la contaminazione di una ferita da parte di spore, con successiva produzione di tossina nel tratto gastroenterico o nella ferita. La tossina botulinica, una metalloproteinasi zinco-dipendente, agisce sulla giunzione neuromuscolare. Si lega ad uno specifico recettore proteico sulla terminazione nervosa pregiunzionale, dove viene interiorizzata in una vescicola. Interferisce con il rilascio di Ach a livello della giunzione neuromuscolare, delle sinapsi parasimpatiche postgangliari e di tutte le sinapsi gangliari. Il mancato rilascio dell’Ach è dovuto alla distruzione da parte della tossina delle specifiche “proteine di attracco” (sintaxina). I cani sono molto resistenti al botulismo. I cavalli, e soprattutto i puledri, sono colpiti più comunemente. Il primo segno è un’andatura strascicata, con una successiva perdita generalizzata del tono muscolare, iporiflessia ed infine paralisi flaccida ed insufficienza respiratoria. Si ha il coinvolgimento dei muscoli facciali, cervicali, mandibolari, faringei, laringei ed intraoculari, con la comparsa di segni clinici associati quali disfagia, salivazione, midriasi e disfonia. Anche il megaesofago si riscontra comunemente, insieme alla ritenzione urinaria ed allo stillicidio di urina. La diagnosi è DIFFICILE, dal momento che quantità molto piccole di tossina sono sufficienti a causare la comparsa di segni clinici. È possibile identificare il microrganismo o la tossina negli alimenti ingeriti da poco o nel vomito. L’elettrofisiologia può essere utile a fini diagnostici, con diminuzione dell’ampiezza di CMAP e decremento/incremento delle risposte osservate nella stimolazione ripetitiva sopramassimale. L’inoculazione nel topo è ancora il test definitivo maggiormente utilizzato per il botulismo. A differenza di quanto avviene nella paralisi del coonhound, l’analisi del liquor è normale. Il caposaldo del trattamento è la terapia di sostegno intensiva. Non esiste alcun antidoto specifico per la tossina legata. Può essere necessario somministrare antibiotici per un’eventuale polmonite secondaria, ma NON SI DEVONO UTILIZZARE AMINOGLICOSIDI, TETRACICLINE O PENICILLINA PROCAINA perché determinano una diminuzione del rilascio di Ach. La 4 amino-piridina è stata usata con qualche effetto positivo sui segni clinici perché aumenta il Ca2+ intracellulare, che a sua volta incrementa la forza muscolare. L’antitossina trivalente disponibile in commercio


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per l’uomo (trivalente A, D, E umana) è inutile nel cane. Tuttavia, esiste un’antitossina polivalente canina ed una antitossina anti-tipo C1. Entrambe vanno somministrate una volta entro i primi cinque giorni. PARALISI DA ZECCHE: La paralisi da zecche è causata dalle neurotossine associate al pasto delle zecche femmina, principalmente delle specie Dermacentor andersoni o variabilis (USA) e Ixodes holocyclus (Australia). Anche Amblyomma spp. può determinare la paralisi da zecche negli Stati Uniti. Una sola zecca femmina è sufficiente per determinare la comparsa di segni neurologici, ma il parassita deve rimanere attaccato ed alimentarsi per 6-9 giorni prima che si sviluppino i segni clinici. La tossina delle zecche di tutte le specie interferisce con il rilascio di Ach a livello della giunzione neuromuscolare, benché quella di Ixodes sia molto più virulenta e con segni non neurologici significativi (ipertensione, tachiaritmie, midriasi pupillare, edema polmonare). I segni clinici tipici sono rappresentati da una progressiva paraparesi da MNI che porta a tetraparesi nell’arco di 1-2 giorni. Il coinvolgimento dei nervi cranici è RARO per tutte le zecche eccetto Ixodes. Gli arti sono ipotonici ed iporeflessici e spesso si riscontra una diminuzione del latrato ± una compromissione respiratoria. Molto raramente, la paralisi da zecche può esitare in una paralisi respiratoria e morte (di solito in caso di tossina da Ixodes). La diagnosi definitiva si basa sul riscontro della zecca responsabile su un cane che presenta i segni clinici classici. Bisogna ESEGUIRE UNA RICERCA APPROFONDITA e, in caso di sospetto, trattare con Frontline, Advantix o altre preparazioni topiche antizecche. L’esame elettrofisiologico viene eseguito raramente, ma le anomalie riscontrate sono simili a quelle da botulismo. La rimozione dell’intera zecca, se si riesce a trovarla, determina il miglioramento entro un giorno in caso di Dermacentor. Anche l’attuazione di un bagno antizecche è un trattamento efficace per determinare il distacco del parassita. Il pronto riconoscimento di solito esita in una guarigione completa. Può darsi che ciò non accada nel caso della tossina da Ixodes. La rimozione della zecca non determina l’immediata regressione dei segni clinici. Di conseguenza, si deve neutralizzare la neurotossina circolante da Ixodes con siero iperimmune (0,5-1 mg/kg IV). MYASTHENIA GRAVIS FULMINANTE: L’eziologia della miastenia è la produzione di autoanticorpi contro l’AchR del muscolo scheletrico. La MG fulminante acuta si

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presenta con un’insorgenza rapida di grave debolezza della muscolatura appendicolare e bulbare, spesso scatenata da un incremento relativo dei titoli anticorpali anti-AchR (tendenza ad avere titoli sierici più elevati). L’insufficienza relativa di Ach può essere scatenata da polmonite, infezione del tratto urinario o altre malattie concomitanti. Si ha una rapida progressione di una debolezza muscolare profonda in un animale con una recente insorgenza improvvisa di megaesofago e rigurgito. Quasi invariabilmente, questi soggetti presentano una polmonite ab ingestis associata a grave rigurgito costante. Si riscontra un peggioramento rapido e progressivo della funzione polmonare. Nonostante la gravità di questa malattia, spesso si hanno ben pochi segni di iporiflessia. Tuttavia, i cani possono dimostrare una riduzione del riflesso faringeo, l’assenza di quello palpebrale e la distensione della vescica urinaria. La myasthenia gravis fulminante è associata ad un elevato tasso di mortalità dovuto ad insufficienza respiratoria. La diagnosi definitiva si basa sulla positività dei titoli sierici degli anticorpi anti-Ach recettore, benché gli esiti si ottengano con ritardo. L’elettrofisiologia può essere molto utile ai fini diagnostici (risposta in decremento dopo stimolazione ripetitiva sopramassimale), ma l’anestesia che richiede può scatenare una progressione dei segni clinici. Il test di risposta all’edrofonio (0,1-0,2 mg/kg IV) sarebbe un mezzo diagnostico alternativo, anche se si può ottenere soltanto una risposta poco appariscente e della durata di appena qualche secondo. Sarebbe anche importante eseguire l’esame radiografico del torace alla ricerca di un timoma. Il trattamento iniziale consisterebbe nella somministrazione paraenterale di anticolinesterasi (NB: la piridostigmina IV è 1/30 della dose della formulazione orale). Anche la piridostigmina per infusione a velocità costante può essere un’opzione per il trattamento iniziale. In principio si deve evitare la terapia immunosoppressiva con corticosteroidi, soprattutto in caso di polmonite ab ingestis. Sarebbe anche importante non attuare trattamenti per via orale in caso di rigurgito. Non si deve assolutamente somministrare metoclopramide. Prendere in considerazione la possibilità di inserire una sonda PEG oppure da gastrostomia, o di ricorrere alla nutrizione paraenterale per l’alimentazione ed il mantenimento dell’assunzione calorica. Una volta stabilizzata la crisi miastenica, si deve iniziare a trattare il cane con piridostigmina (dose iniziale di 1 mg/kg BID o TID) in combinazione con prednisone a dose antinfiammatoria di 1/2 mg/kg BID. Anche il micofenolato (Cellcept) può essere efficace alla dose di 20 mg/kg BID, ma è costoso.


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Chronic neuropathy Paul A. Cuddon BVSC, DACVIM (Neurology), Associate Professor, Colorado State University

Clinical signs associated with chronic neuropathy consist of tetraparesis with hypotonia to atonia, hyporeflexia to areflexia, denervation atrophy, +/- ataxia (CP deficits), and +/sensory impairment. Bladder control & panniculus are often intact and pain sensation is often spared. Once a polyneuropathy is suspected, I work through my diagnostic plan in tiers of increasing complexity to try to determine the etiology of the peripheral nerve disease. Despite full evaluation, as many as 50% of dogs remain undiagnosed or return with a diagnosis of chronic axonal degeneration. The initial tier of diagnostic tests consists of primarily bloodwork to assess metabolic and endocrine function as well as to look for infectious disease. The initial testing would comprise a CBC and biochemistry panel, free T4 and endogenous TSH, a low dose dexamethasone suppression test or ACTH stimulation test with endogenous ACTH, ANA, FeLV and FIV titers (cats), Neospora caninum titer (dogs) +/- Toxoplasma titer (cats and dogs), +/AchE level. The second tier of diagnostic evaluation is primarily associated with evaluation for possible neoplasia. Testing will include radiography of thorax and abdomen, abdominal ultrasound and CSF analysis. If all of the above diagnostic tests are negative or normal, further evaluation of the type of generalized nerve disease should be evaluated via electrophysiology. The two main categories of peripheral nerve pathology are demyelination and axonal disease. However, many dogs have a combination of the above changes. Electrophysiology also reveals the relative distribution of the neuropathy both in location along the length of the nerves and degree of severity. Electrophysiology testing would consist of EMG, motor and sensory nerve conduction velocities, CMAP and SNAP amplitudes, supramaximal repetitive stimulation, dorsal and ventral nerve root studies. Normal muscle is electrically silent on electromyography. EMG will assist in assessing the presence of denervation and therefore axonopathy and the degree of severity of the changes. Purely demyelinating neuropathies will produce very little in the way of EMG abnormalities. EMG also helps determines whether observed muscle atrophy is due to denervation or disuse. Electrophysiology also helps differentiates between peripheral nerve, muscle and n-m junction diseases. Based on the electrodiagnostic evaluation, the next important step in nerve and muscle evaluation is fascicular nerve biopsy (commonly of the distal tibial or common peroneal nerve) and muscle biopsy (often distal appendicular muscles).

SPECIFIC CHRONIC PERIPHERAL NEUROPATHIES IN THE DOG AND CAT NEOSPORA ASSOCIATED POLYRADICULONEURITIS: This polyradiculoneuritis, caused by Neospora caninum, usually in young 2-4 month old dogs, with concurrent polymyositis. Transmission is commonly by transplacental spread. Clinical signs will consist of firm, severely atrophic pelvic limb muscles, an initial rapid progressive LMN paraparesis progressing to rigid paraplegia (pelvic limb fixed extension) due to muscle contracture and fibrosis. Diagnosis is based on finding an increased serum CK & eosinophilia, positive serum & CSF titers to N. caninum, pleocytosis with eosinophils on lumbar CSF analysis, and spontaneous activity on EMG of especially the pelvic limb muscles. Treatment consists of clindamycin 5.5-11 mg/kg PO BID. Prognosis is guarded if diagnosed early and poor if muscle contracture and fibrosis has already occurred. DIABETIC NEUROPATHY: The clinical signs associated with this symmetrical polyneuropathy are most commonly seen in cats although dogs also can develop this polyneuropathy (dogs often have electrodiagnostic changes with diabetes but are subclinical). The classical signs are a plantigrade and palmigrade stance, a progressive paraparesis with hyporeflexia, distal pelvic and thoracic limb muscle atrophy, difficulty jumping, and probable sensory changes leading to paraesthesias. Affected animals will also show classical signs of diabetes. Generally, diagnosis is based on a hyperglycemia on serum biochemistry panel, high serum fructosamine, and glycosuria. Diabetic neuropathy commonly develops in cats that have persistently high glucose levels or widely fluctuating serum glucose levels. Electrophysiologic abnormalities classically reveal a primary demyelination and lesser axonal degeneration along the entire length of the sensory and motor peripheral nerves and nerve roots. Peripheral nerve biopsies show the classic change of ballooning and separation of the myelin sheath. Proper treatment and control of the underlying metabolic dysfunction will result in improvement and possible reversal of the neuropathy although it may take several weeks to months to return to normal. Treatment therefore would consist of possible oral hypoglycemic agents (e.g. glipizide 2.55 mg BID), acarbose which slows glucose absorption, or subcutaneous injections of PZI insulin. Proper dietary control with low CHO (> 10%) alone can significantly improve diabetic neuropathy.


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HYPOTHYROIDISM: Uncontrolled hypothyroidism can eventually lead to progressive symmetrical weakness with muscle atrophy & decreased reflexes in all limbs. In addition, dogs with hypothyroidism can develop unilateral cranial nerve dysfunction consisting most commonly of facial nerve paresis. Other reported cranial neuropathies include laryngeal paralysis, megaesophagus, and peripheral vestibular disease. Overt signs of hypothyroidism may or may not be present. Diagnosis of hypothyroid neuropathy will be based on a positive diagnosis of hypothyroidism (low serum total and free T4 and an elevated endogenous TSH level), along with confirmation of neuropathy via electrophysiology and muscle & nerve biopsy. Treatment of the hypothyroidism (L-thyroxine 22 ug/kg BID PO) can lead to improvement in the generalized neuropathy (may take 6 months), although the cranial neuropathies tend not to respond. INSULINOMA ASSOCIATED NEUROPATHY: This is primarily seen in middle-aged to older large breed dogs 20 to a functional tumor of the pancreas. Clinical signs usually consist of muscle tremors with LMN paraparesis or tetraparesis (axonal necrosis / demyelination) usually in conjunction with encephalopathy (seizures, mentation and behavior change). Diagnosis consists of finding a fasting serum glucose of <60 mg/dl, along with an amended insulin-to-glucose ratio >30. Abdominal ultrasound may detect a pancreatic mass, although this is not always the case. The treatment of choice is surgical removal of the tumor, although some can be very difficult to impossible to detect. If the mass is inoperable, treatment with prednisone (0.5 mg/kg PO BID) +/-diazoxide (3-5 mg/kg PO TID) often relieves many of the clinical signs. PARANEOPLASTIC NEUROPATHY: This is commonly associated with (adeno) carcinomas (bronchogenic, mammary, & thyroid), melanoma, osteosarcoma, mast cell tumors, and lymphosarcoma. These animals present with classic LMN signs to spinal &/or cranial nerves. Some cases with any of the above cancers may be initially subclinical for the associated neuropathy. Others with a generalized neuropathy may have no initial signs associated with the initiating neoplasia. Diagnosis revolves around demonstration of a primary tumor plus electrodiagnostic evidence of axonal degeneration (EMG changes) and demyelination (slow NCV). Muscle and nerve biopsy may also be helpful. Treatment consists of removal or treatment of the primary tumor

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in combination with immunosuppression with corticosteroids. LYMPHOSARCOMA & FeLV INFECTION: Lymphosarcoma in cats (with or without associated FeLV infection) is capable of producing multiple mononeuropathies (mononeuropathy multiplex) or a syndrome similar to distal axonopathy due to extensive proliferation in and around peripheral and spinal nerves. FeLV infection without lymphosarcoma also can produce classic acute or chronic relapsing polyneuropathies (axonopathy and demyelination). Lymphosarcoma in this situation usually is associated with FeLV infection, where metastatic spread to the nervous system is common. Despite systemic or intrathecal chemotherapy, the prognosis is poor (esp. in FeLV infected cats) due to the very rapid spread of the tumor. Palliative radiation therapy would be feasible if there is extradural lymphoma since this tumor is highly radiosensitive. Another treatment option for CNS lymphoma is cytosine arabinoside. CHRONIC INFLAMMATORY POLYNEUROPATHIES: These immune based neuropathies can present with either a chronic progressive or chronic relapsing course. These chronic inflammatory neuropathies probably have a similar etiology and pathogenesis to coonhound paralysis, although obviously there will be a much more gradual onset and clinical course. Unlike CHP, asymmetry of signs may occur. In addition to the generalized neuropathy, this neuropathy can result in facial paresis & dysphonia/aphonia. Treatment will consist of immunosuppression with prednisone (1-1.5 mg/kg PO BID), azathioprine (2 mg/kg PO daily), and/or cyclophosphamide (50 mg/m2 PO SID 3-4 days/week). CHRONIC PROGRESSIVE PERIPHERAL AXONOPATHY: This is a non-inflammatory, nonimmune progressive axonopathy, which tends to be a ruleout diagnosis based on normal bloodwork, normal endocrine testing, normal thoracic and abdominal radiographs and U/S. On electrophysiology, this syndrome demonstrates denervation (spontaneous activity on EMG) and decreased CMAP amplitudes. Muscle biopsy reveals varying degrees of denervation (type I and type II myofiber atrophy) and nerve biopsy demonstrates axonal degeneration with no inflammatory infiltrates. This neuropathy is relentlessly progressive and immunosuppression does not improve clinical signs. An experimental drug, Prosaposin, appears to hold the most promise.


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Neuropatie croniche Paul A. Cuddon DVM, Bvsc Dipl Acvim(Neurology), Colorado, Usa

I segni clinici associati alla neuropatia cronica consistono in tetraparesi con ipotonia o atonia, iporiflessia o areflessia, atrofia da denervazione ± atassia (deficit CP) e ± compromissione sensoriale. Il controllo della vescica ed il pannicolo sono spesso integri e la sensibilità dolorifica è spesso risparmiata. Una volta formulato il sospetto di polineuropatia, si segue un piano diagnostico articolato in livelli di complessità progressivamente crescente per cercare di determinare l’eziologia delle affezioni del nervo periferico. Nonostante una valutazione completa, fino al 50% dei cani resta senza diagnosi o viene riportato alla visita con una diagnosi di degenerazione assonale cronica. Il primo livello dei test diagnostici è rappresentato principalmente da esami ematochimici finalizzati a valutare le funzioni metaboliche ed endocrine, nonché ad individuare eventuali malattie infettive. Inizialmente si effettuano l’esame emocromocitometrico completo e il profilo biochimico, la determinazione dei livelli di T4 libera e di TSH endogena, il test di soppressione con desametazone a basse dosi o il test di stimolazione con ACTH endogeno, l’ANA-test e la determinazione dei titoli di FeLV e FIV (gatto), Neospora caninum (cane) ± Toxoplasma (cane e gatto) ± livelli di AchE. Il secondo stadio della valutazione diagnostica è principalmente associato alla ricerca di possibili neoplasie. I test sono rappresentati da esame radiografico di torace ed addome, ecografia addominale ed analisi del liquor. Se tutti i test diagnostici sopracitati sono negativi o normali, è necessario valutare ulteriormente il tipo di neuropatia generalizzata mediante elettrofisiologia. Le due principali categorie delle alterazioni patologiche del nervo periferico sono la demielinizzazione e la malattia assonale. Tuttavia, molti cani presentano una combinazione di queste due anomalie. L’elettrofisiologia rivela anche la distribuzione relativa della neuropatia sia per quanto riguarda la sua localizzazione lungo il decorso del nervo che la sua gravità. I test elettrofisiologici sono rappresentati da EMG, velocità di conduzione dei nervi motori o sensoriali, ampiezze CMAP e SNAP, stimolazione ripetitiva sopramassimale, studi delle radici dei nervi dorsali e ventrali. Il muscolo normale è elettricamente silente all’esame elettromiografico. L’EMG contribuisce a valutare la presenza della denervazione e di conseguenza dell’assonopatia e l’entità della gravità delle alterazioni. Le neuropatie puramente demielinizzanti producono una quantità molto scarsa di anomalie EMG. L’esame elettromiografico contribuisce anche a determinare se l’atrofia muscolare osservata è dovuta a denervazione o non uso. L’elettrofisiologia consente inoltre di differenziare le alterazioni di nervi periferici, muscoli e giunzione neuromuscolare. Sulla base della

valutazione elettrodiagnostica, il successivo importante passo nella valutazione di nervi e muscoli è la biopsia nervosa fascicolare (comunemente a livello del nervo tibiale distale o di quello peroneo comune) e la biopsia muscolare (spesso a livello dei muscoli appendicolari distali).

NEUROPATIE PERIFERICHE CRONICHE SPECIFICHE NEL CANE E NEL GATTO POLIRADICOLONEURITE DA NEOSPORA: Questa poliradicoloneurite, causata da Neospora caninum, di solito colpisce i cani giovani di 2-4 mesi, con concomitante polimiosite. La trasmissione avviene comunemente mediante diffusione transplacentare. I segni clinici sono rappresentati da riscontro di muscoli degli arti pelvici duri e gravemente atrofici con rapida e progressiva paraparesi iniziale da MNI che progredisce fino alla paraplegia rigida (arto pelvico fissato in estensione) a causa della contrattura e fibrosi dei muscoli. La diagnosi si basa sul riscontro di un aumento dei livelli sierici di CK, eosinofilia, positività dei titoli del siero e del liquor per N. caninum, pleocitosi con eosinofili all’analisi del liquor prelevato a livello della zona lombare ed attività spontanea all’EMG, in particolare nei muscoli pelvici. Il trattamento consiste nella somministrazione di clindamicina alla dose di 5,5-11 mg/kg PO BID. La prognosi è riservata se la malattia viene diagnosticata precocemente e sfavorevole se si sono già verificate le contratture muscolari e la fibrosi. NEUROPATIA DIABETICA: I segni clinici associati a questa polineuropatia simmetrica nella maggior parte dei casi si osservano nel gatto, benché la malattia possa colpire anche i cani (che presentano spesso alterazioni elettrodiagnostiche in caso di diabete, però subcliniche). I segni clinici sono rappresentati da stazione da plantigrado e palmigrado, progressiva paraparesi con iporiflessia, atrofia dei muscoli degli arti pelvici e toracici, difficoltà a saltare e probabili modificazioni sensoriali che conducono alla parestesia. Gli animali colpiti mostrano anche i segni classici del diabete. Generalmente, la diagnosi è basata sul riscontro di iperglicemia al profilo biochimico, elevati livelli di fruttosamina e glicosuria. La neuropatia diabetica si sviluppa comunemente nei gatti con livelli di glucosio persistentemente elevati o glicemia ampiamente fluttuante. Le anomalie elettrofisiologiche rivelano classicamente una demielinizzazione primaria ed una minore degenerazione assonale lungo l’intero decorso dei nervi periferici sensoriali e motori ed in corrispondenza delle radici nervose. Le biopsie


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del nervo periferico mostrano le classiche alterazioni di ballonizzazione e distacco della guaina mielinica. La corretta attuazione del trattamento e del controllo della funzione metabolica sottostante esita nel miglioramento e nella possibile regressione della neuropatia, benché possano occorrere parecchie settimane o mesi per il ritorno alla normalità. Il trattamento è di conseguenza costituito dalla possibile somministrazione di ipoglicemizzanti orali (ad es., glipizide, 2,5-5 mg BID), acarbosio con lento assorbimento del glucosio o iniezione sottocutanea di insulina PZI. Il corretto controllo della dieta con bassi livelli di carboidrati (CHO > 10%) da solo può significativamente migliorare la neuropatia diabetica. IPOTIROIDISMO: L’ipotiroidismo non controllato può condurre alla fine a progressiva debolezza simmetrica con atrofia muscolare e diminuzione dei riflessi in tutti gli arti. Inoltre, i cani con ipotiroidismo possono sviluppare una disfunzione monolaterale dei nervi cranici costituita nella maggior parte dei casi dalla paresi del nervo facciale. Altre neuropatie craniche descritte sono rappresentate da paralisi laringea, megaesofago e vestibulopatia periferica. Possono o meno essere presenti segni palesi di ipotiroidismo. La diagnosi della neuropatia ipotiroidea è basata sul riscontro positivo dell’ipotiroidismo (bassi livelli sierici di T4 totale e libera ed innalzamento delle concentrazioni di TSH endogeno), unitamente alla conferma della neuropatia mediante elettrofisiologia e biopsia muscolare e nervosa. Il trattamento dell’ipotiroidismo (L-tiroxina, 22 μg/kg BID PO) può portare al miglioramento della neuropatia generalizzata (che può richiedere sei mesi) benché le neuropatie craniche tendano a non rispondere. NEUROPATIA ASSOCIATA AD INSULINOMA: Questa condizione si osserva principalmente nei cani di media età o più anziani appartenenti alle razze di grossa taglia, secondariamente ad un tumore funzionale del pancreas. I segni clinici di solito sono rappresentati da tremori muscolari con paraparesi o tetraparesi da MNI (necrosi/ demielinizzazione degli assoni), in genere in associazione con encefalopatia (crisi convulsive, alterazioni del sensorio o del comportamento). La diagnosi è costituita dal riscontro di livelli sierici di glucosio a digiuno < 60 mg/dl, unitamente ad un rapporto corretto insulina:glucosio > 30. L’esame ecografico dell’addome può evidenziare una massa pancreatica, ma non sempre. Il trattamento d’elezione è la rimozione chirurgica del tumore, anche se alcuni possono essere molto difficili o impossibili da individuare. Se la massa è inoperabile, il trattamento con prednisone (0,5 mg/kg PO BID) ± diazossido (3-5 mg/kg PO TID) consente spesso di alleviare molti dei segni clinici. NEUROPATIA PARANEOPLASTICA: Si tratta di una condizione comunemente associata ad (adeno)carcinomi (broncogeno, mammario e tiroideo), melanomi, osteosarcomi, mastocitomi e linfosarcomi. Questi animali vengono portati alla visita con i classici segni da MNI a carico dei nervi spinali e/o cranici. Alcuni casi colpiti da una qualsiasi delle forme neoplastiche sopracitate possono inizialmente essere subclinici per quanto riguarda la neuropatia associata. Altri, con una neuropatia generalizzata possono non presentare manifestazioni iniziali riferibili alla neoplasia in fase di

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avvio. La diagnosi ruota intorno alla dimostrazione di un tumore primario abbinata alla prova elettrodiagnostica di una degenerazione assonale (alterazioni EMG) e di una demielinizzazione (velocità di conduzione nervosa lenta). Anche il prelievo di biopsie muscolari e nervose può essere utile. Il trattamento è costituito dalla rimozione o dalla terapia del tumore primario in associazione con immunosoppressione mediante corticosteroidi. LINFOSARCOMA ED INFEZIONE DA FeLV: Il linfosarcoma nel gatto (associato o meno ad infezione da FeLV) è in grado di produrre molteplici mononeuropatie (mononeuropatie multiple) oppure una sindrome simile all’assonopatia distale dovuta all’estesa proliferazione all’interno ed intorno ai nervi periferici e spinali. Anche l’infezione da FeLV senza linfosarcoma può provocare delle classiche polineuropatie acute o croniche recidivanti (assonopatia e demielinizzazione). Il linfosarcoma in questa situazione di solito è associato ad infezione da FeLV, in cui è comune la diffusione metastatica al sistema nervoso. Nonostante la chemioterapia sistemica o intratecale, la prognosi è sfavorevole (soprattutto nei gatti con infezione da FeLV) a causa della rapidissima diffusione del tumore. In presenza di un linfoma extradurale sarebbe fattibile la radioterapia palliativa, dal momento che si tratta di un tumore altamente radiosensibile. Un’altra opzione terapeutica per il linfoma del SNC è la citosina arabinoside. POLINEUROPATIE INFIAMMATORIE CRONICHE: Si tratta di neuropatie su base immunitaria che si possono presentare con un decorso cronico progressivo oppure cronico recidivante. Queste neuropatie infiammatorie croniche probabilmente riconoscono un’eziologia ed una patogenesi simile alla paralisi del coonhound, benché ovviamente si riscontrino un’insorgenza ed un decorso clinico molto più graduali. A differenza della CHP, si può avere l’asimmetria dei segni clinici. Oltre alla neuropatia generalizzata, questa condizione può esitare in paresi del facciale e disfonia/afonia. Il trattamento consiste nell’immunosoppressione con prednisone (11,5 mg/kg PO BID), azatioprina (2 mg/kg PO die) e/o ciclofosfamide (50 mg/m2 PO SID 3-4 giorni/settimana).

ASSONOPATIA PERIFERICA PROGRESSIVA CRONICA Si tratta di un’assonopatia progressiva non infiammatoria e non immunitaria che tende ad essere una delle possibili diagnosi differenziali in caso di esito normale degli esami ematochimici, dei test endocrini e delle radiografie ed ecografie del torace e dell’addome. Dal punto di vista elettrofisiologico, questa sindrome presenta denervazione (attività spontanea all’EMG) e diminuzione delle ampiezze di CMAP. La biopsia muscolare rivela vari gradi di denervazione (atrofia delle miofibre di tipo I e II), mentre quella nervosa mostra una degenerazione assonale senza infiltrati infiammatori. Questa neuropatia è inesorabilmente progressiva e l’immunosoppressione non migliora i segni clinici. Il trattamento più promettente sembra essere costituito da un farmaco sperimentale, il Prosaposin.


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Myopathy I and II Paul A. Cuddon BVSC, DACVIM (Neurology), Associate Professor, Colorado State University

The clinical signs of myopathy are numerous and often nonspecific. Typical signs would include weakness and muscle atrophy, stiffness/short-strided gait, muscle tremors and cramping, occasional muscle hypertrophy, lameness, and exercise induced weakness. Reflexes are often normal or only mildly decreased. Muscle pain may be the main presenting sign. Sensory function is normal. Diagnostic aids in muscle disease include routine bloodwork, including the muscle enzymes CK and AST (a rise in serum CK is the most useful biochemical indicator of muscle degeneration), plasma electrolytes, plasma lactate and pyruvate (pre & post-exercise), plasma, urine, and muscle carnitine levels, and urine organic and plasma amino acid profiles. For carnitine quantitation, you will need plasma (heparinized) - 3 ml, urine - 10 ml, and frozen muscle. Carnitine analysis will diagnose primary or secondary carnitine dysfunction. Abnormalities are most commonly associated with lipid accumulation within myofibers. Lactate and pyruvate are produced when glucose is metabolized by muscle to produce energy. Lactic academia is associated with enzyme defects in the metabolic pathways for pyruvate and lactate. When measuring lactate and pyruvate, a ratio of lactate to pyruvate is calculated. Normal values are as follows: Resting Lactate/Pyruvate ratio = 17.0 +/- 8.2; immediately after exercise = 20.5 +/- 5.9; and 30 minutes post exercise = 20.6 +/- 5.2. To evaluate structural changes within myofibers, a muscle biopsy will be essential. Select a muscle that is affected (via EMG) but is not end stage for biopsy. A proximal muscle is usually best for myopathy, whereas a distal muscle is usually best for neuropathy. The external intercostal muscle is best for AchR quantitation for myasthenia gravis. HEREDITARY MYOTONIA CONGENITA: This autosomal recessive trait is characterized clinically by active contraction of a muscle that persists after the cessation of voluntary effort or stimulation. The underlying defect is thought to originate in an abnormal muscle membrane that discharges trains of repetitive action potentials in response to depolarization. It has been reported in the Chow, Miniature Schnauzer, and in cats. Biochemically, there is a diminished sarcolemmal chloride conductance. In the Schnauzer, the genetic basis has been found to involve a missense mutation in both alleles of the gene encoding skeletal muscle voltagedependent chloride channel ClC-1. Methionine replaces threonine residue in D5 transmembrane segment of Cl channel near ion pore. This results in abnormal channel function. Clinical signs consist of stiffness on rising and walking, especially after rest, which is noted when pups first ambu-

late. There is also reduced flexion of the thoracic limbs, with the pelvic limbs commonly demonstrating a bunny hopping gait. Muscle tone is normal, but the muscles are hypertrophied. A myotonic dimple is invariably present. Dogs show a normal serum CK levels, but commonly have a hypocholesterolemia. There is very slow progression of signs. Complications, such as patellar luxation, may develop, but dogs can survive for many years. Diagnosis of hereditary myotonia initially is suspected when a myotonic dimple is produced with percussion of a skeletal muscle. Electromyography produces an unequivocal diagnosis. High frequency discharges are produced with a waxing and waning of discharge amplitude and frequency. Drugs which stabilize cell membranes have been used to treat myotonia (procainamide, mexiletine, quinidine, and phenytoin). These drugs are antagonists to voltage-gated sodium channels. Procainamide (extended release) is given at a dose of 40-50 mg/kg PO BID-TID, which is reported to give the best results. Mexiletine (8.3 mg/kg TID) has a similar efficacy. MUSCULAR DYSTROPHY: This myopathy has an X linked mode of inheritance similar to human Duchene muscular dystrophy. There is an absence of the protein dystrophin in striated muscle due to an abnormality in the dystrophin gene, which is on the X-chromosome. Dystrophin links the myofiber cytoskeleton to the extracellular matrix. Muscular dystrophy is seen in Golden Retrievers, Irish terriers, Rottweilers, Samoyeds, Labradors, and in cats. There is a high mutation rate since the dystrophin gene is exceptionally large and different breeds have a different mutation within this same gene to produce a phenotypically similar syndrome. Golden Retrievers have a mutation in intron 6, Rottweilers have a mutation in exon 58, Labradors have a mutation in intron 20, and GSHPs have a large deletion in the gene. Dogs and cats with muscular dystrophy have muscle hypertrophy or atrophy. There is a progressive restriction of gait starting at 6 to 8 weeks of age, with weakness, a stiff, stilted shuffling gait and a plantigrade stance. There is excess salivation (glossal hypertrophy or dysphagia), limb abduction, a bunny-hopping gait, exercise intolerance, and a weak bark. Some dogs remain ambulatory into middle age, however, there is a fulminant neonatal form. Some develop cardiomyopathy. Initial diagnostic suspicion is based on seeing characteristic signs in a young male Golden Retriever, Rottweiler, or Samoyed pup. These dogs have dramatic increases in CK (10,000 ++ U/L) and dramatic EMG changes. Muscle biop-


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sy shows hyaline fibers, phagocytosis, large/prominent nuclei, regenerating fibers, absence of dystrophin staining, decreased staining for α-sarcoglycan and increased staining for utrophin. There is no treatment for this myopathy, with the only course of action being supportive care with feeding gruel mixtures. Possible future treatments would include myoblast transplantation and gene therapy. The long term prognosis is poor. CENTRONUCLEAR MYOPATHY IN LABRADOR RETRIEVERS: Inheritance is autosomal recessive, with the genetic defect being an abnormality on canine chromosome 2 (CFA02). Clinical signs become evident between 3 and 6 months. Muscle biopsies indicate some variation in fiber size with a slight increase in endomysial and perimysial connective tissue. Fiber typing shows a predominance of type I and deficiency of type II fibers. Other observations suggest the possibility of neuropathic changes in biopsied muscle. Clinical signs consist of neck weakness, followed by exercise induced weakness. Both are aggravated by cold or excitement and recover after periods of res. Muscle atrophy occurs especially in the masticatory muscles and male dogs can develop priapism. Serum CK levels are not elevated but a creatinuria may be present. No further signs develop after 6 months, although dogs remain stunted with severe generalized loss of skeletal muscle bulk. Diagnosis is based on breed, age of onset, clinical and electrophysiological signs and, if necessary, muscle biopsy (biceps or triceps muscle). There is no successful treatment, but dogs have lived up to 6 years. • • • • • • •

OTHER INHERITED MYOPATHIES Muscular dystrophy with merosin (laminin a2) def. Muscular dystrophy with absence of sarcoglycans PDH def. – Clumber and Sussex Spaniels Exercise induced collapse - Labrador Retrievers Hypertonic myopathy - Cavalier King Charles Spaniels Glycogenoses Nemaline rod myopathy

CANINE LIPID STORAGE MYOPATHIES: These myopathies are characterized by abnormal amounts of lipid accumulation in muscle with the lipid accumulation being the predominant pathologic alteration. Most are associated with a derangement of carnitine metabolism (either 1o or 2o), with mitochondrial abnormalities or with disorders of fatty acid oxidation involving β-oxidation. Clinical signs consist of acute or chronic poorly localizable muscle pain, muscle atrophy, weakness, stiffness, and lameness, exercise intolerance, muscle tremors, +/-cardiomyopathy. Lipid myopathy is seen in any aged dog with no sex predilection, although the majority of dogs are adults. Diagnosis initially entails electrophysiologic evaluation, followed by evaluation of lactate (pre and post-exercise) and pyruvate levels in plasma and urine, as well as carnitine quantitation (total, free, and esterified) in muscle, plasma, and urine. Quantitative urine organic acid analysis differentiates pathologic causes of lactic academia. The mainstay of diagnosis is muscle biopsy, in which there is an accumula-

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tion of lipid droplets within myofibers in fresh-frozen muscle biopsies (oil red-O stain). If there are low levels of muscle carnitine (primary), treat with oral L-carnitine at 50 mg/kg BID (response is not as good in animals where the decrease in muscle carnitine is secondary to significant lactic and pyruvic aciduria), Coenzyme Q10 at 1 mg/kg PO daily, Riboflavin (50-100 mg PO daily), Vitamin C (50 mg/kg PO daily), and dietary manipulation - low fat, high CHO, high protein diet with supplementation with medium-chain triglycerides. IDIOPATHIC POLYMYOSITIS: This myopathy can have an association with SLE or other immune based polyarthritis unassociated with SLE. There also can be a relationship between myositis and cancer, or an immune, paraneoplastic syndrome associated with thymoma. Whatever the initiating cause, the muscle damage probably is immune mediated. In polymyositis, there is a primarily T cell mediated reaction, initiated by an oligoclonal expansion of autoaggressive T cells with an increased expression of CD25 & HLA-DR. In human polymyositis, the invading T cells are mainly CD3+CD8+ and LFA-1+. The myofibers and endothelial cells surrounded by T cells have an increased staining for ICAM-1. The suspected primary targets for these T cells are MHC-class I-positive myofibers. There is a breed associated polymyositis seen in young Newfoundlands from 6 months to 5 years of age. It is suspected to be an immune or autoimmune mechanism. At this time, there is no evidence of a familial relationship. Clinical signs of polymyositis include exercise intolerance/weakness, generalized appendicular muscle atrophy as well as atrophy of the masticatory muscles, dysphagia, ptyalism, regurgitation/megaesophagus, laryngeal dysfunction, resulting in respiratory stridor, and decreased jaw opening. Muscle pain is an INFREQUENT FINDING. Diagnosis is based again on clinical signs, electrophysiology, and muscle biopsy. Serum CK levels do not have to be elevated. The treatment of choice for polymyositis is immunosuppression with corticosteroids at a dose of 1-1.5 mg/kg BID. Second line therapy would be azathioprine at an initial dose of 2 mg/kg SID. Prednisone and azathioprine are frequently used in combination. Third line drugs, if necessary, would include mycophenolate, methotrexate, cyclophosphamide, or cyclosporine. If drug immunosuppression fails, other potential therapy modalities would comprise IV immunoglobulin therapy, total body irradiation, or plasmapheresis. PROTOZOAL MYOSITIS: Protozoal myositis is caused by either Toxoplasma gondii or Neospora caninum. Neospora caninum is now thought to be the major cause of a radiculoneuritis and polymyositis occurring in young pups between 2 and 4 months of age. Infection in most instances is thought to extend from the dam via the placenta. Clinical signs in young pups consist of a progressive, rigid paraplegia with the pelvic limbs being difficult or impossible to flex even under anesthesia (thoracic limbs normal). Pelvic limb reflexes cannot be elicited, although pain sensation often is retained. Muscles are often firm on palpation and may be


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atrophied. In some dogs, signs are predominantly those of polymyositis, with generalized weakness that worsens on exercise. On bloodwork, there is often a raised serum CK level +/- eosinophilia. Serum titers to N. caninum are invariably positive, whereas titers to T. gondii are usually negative. EMG studies reveal generalized spontaneous activity. CSF analysis commonly shows a mixed pleocytosis with eosinophils. Muscle biopsy reveals a necrotizing polymyositis, although protozoal cysts are very difficult to find. Neospora also produces a polyradiculoneuritis in infected dogs. IMMUNE MYOSITIS OF MASTICATORY MUSCLES: This is an autoimmune disorder directed against the Type 2M myofibers peculiar to the dorsal group of masticatory muscles innervated by the mandibular nerve. There are circulating antibodies to Type 2M masticatory muscle fiber proteins which do not cross react with limb muscle fibers. There is a necrotizing myositis, with regenerative changes and infiltrates of primarily mononuclear cells. In the more chronic forms, connective tissue is markedly increased in volume. There are two forms of masticatory myositis – an acute, often painful, masticatory myositis and a more chronic, progressive atrophy of the masticatory muscles without pain. In the acute form, there is swelling of the masticatory muscles, sometimes sufficient to produce exophthalmos and pain on opening the mouth. The masticatory muscles may feel edematous. There may be enlarged tonsils and submaxillary lymph nodes as well as possible pyrexia. The dog may show a degree of malaise. There is often a neutrophilia and in some instances an eosinophilia. Other possible findings would be a mild anemia and raised globulin levels. The chronic form may follow an acute episode or develop insidiously. Major features are atrophy of the masticatory muscles and limitation of jaw opening. Atrophy is usually, though not invariably, bilateral. Masticatory myositis is suspected on clinical grounds and confirmed by biopsy. Eosinophils are NOT a distinctive feature. On electromyography, there is an increase in insertion and spontaneous activity, although in severely fibrotic muscles, there is no spontaneous EMG activity. In the acute disease, CK is usually increased, although this may not be the case in chronic disease. The definitive diagnosis is a positive serum anti-type 2M myofiber antibody assay. Muscle biopsy of the masticatory muscles can also be beneficial. Treatment consists of immunosuppression with prednisolone at a dose of 1 to 2 mg/kg P.O. bid for an initial 4 weeks (even though acute signs may have resolved), then reduce to 1/2 mg/kg P.O. bid for 1 month then decrease dosage further over the next several months. Steroids are indicated to suppress inflammation, reduce connective tissue formation and suppress the immune response. Other immunosuppressive drugs (azathioprine) can be used. The disease often recurs, so repeated or continuous therapy may be necessary in some dogs. It is unlikely that atrophy in chronic cases will improve much even with aggressive therapy, and may lead to an inability to open the jaw. FELINE HYPOKALEMIC POLYMYOPATHY: Decreased total body potassium produces initial muscle cell membrane hyperpolarization. With continued K+ decrease, the membrane becomes more permeable to Na+, leading to

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hypopolarization and myopathic weakness. A K+ losing nephropathy has been postulated as the cause for the total body K+ depletion. Chronic dietary deficiency in potassium may also contribute in some cats. Cat with hypokalemic myopathy develop a sudden onset of generalized weakness, pronounced cervical ventroflexion and a reluctance to walk (stiff). Affected cats also show significant muscle pain. Cats commonly demonstrate decreased serum K+ (2.0 - 3.3 mEq/L), increased CK (up to 10,000 IU/L), increased serum creatinine and/or BUN, and metabolic acidosis. These cats usually have negative FeLV titers. Generalized EMG abnormalities are usually detected although muscle biopsies are often normal on light microscopy. Measurement of fractional excretion of urinary potassium reveals a significantly increased renal potassium loss. Treatment consists of oral K+ supplementation, with resultant significant improvement in muscle strength within 2-3 days. There will be a gradual complete resolution. Permanent daily potassium supplementation is recommended. Oral potassium supplementation is usually with Tumil-K (potassium gluconate) at a dose of 5-10 mEq/cat/day divided BID in severe cases and 2-4 mEq/cat/day in mild cases. Prognosis is guarded to favorable (related to degree of renal disease). HYPOPTHYROIDISM: There is a mild clinical (to subclinical) myopathy in mature dogs proposed to be related to a disturbance in CHO metabolism secondary to hypothyroidism. Clinical signs consist of weakness, stiffness, myalgia, and muscle atrophy. There is preferential type II myofiber atrophy, nemaline rods, and glycogen accumulation on muscle biopsies. Treating the underlying hypothyroidism will usually lead to a resolution of this mild myopathy. CUSHING’S MYOPATHY: Cushing’s disease can produce a degenerative myopathy secondary to the excess in corticoids in the body. Clinical signs can be dramatic with a stiff gait, muscle atrophy, pelvic limb rigidity, and pseudomyotonia (dimpling & EMG changes). On muscle biopsy, histopathologic changes consist of Type II myofiber atrophy, subsarcolemmal masses, focal necrosis, excess intramyofiber lipid, fiber size variation, & fiber splitting. The proposed pathogenesis of Cushing’s myopathy is related to increased protein catabolism and inhibited synthesis of myofibrillar proteins. Increases in circulating ACTH are also myopathic. With treatment, either with Lysodren or Trilostane, the muscle weakness reverses (often taking months). However, the muscle rigidity may remain. HYPERTHROIDISM ASSOCIATED MYOPATHY: 12% - 17% of hyperthyroid cats develop muscle weakness, 30% develop muscle tremors and 1% - 3% develop ventral neck flexion. These cats also have decreased ability to jump and fatigability associated with exercise. The prognosis for weakness resolution however is good with treatment with either radioactive iodine, surgical removal, or with Tapazole. Note that Tapazole may induce muscle weakness and antiAChR antibodies at 2-4 months after treatment initiation. This drug also has been associated with fine muscle tremors.


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Miopatie I e II Paul A. Cuddon DVM, Bvsc Dipl Acvim(Neurology), Colorado, Usa

I segni clinici della miopatia sono numerosi e spesso aspecifici. Le manifestazioni tipiche comprendono debolezza ed atrofia muscolare, andatura rigida e con passo corto, tremori muscolari e crampi, occasionalmente ipertrofia muscolare, zoppia e debolezza indotta dall’esercizio. I riflessi sono spesso normali o solo lievemente diminuiti. Il dolore muscolare può essere il principale segno clinico al momento della presentazione alla visita. La funzionalità sensoriale è normale. I mezzi diagnostici nelle miopatie sono rappresentati dalle indagini ematochimiche di routine, come la determinazione dei livelli degli enzimi muscolari CK ed AST (un aumento delle concentrazioni sieriche di CK è il più utile indicatore biochimico di una degenerazione muscolare), degli elettroliti plasmatici, dei livelli plasmatici di lattato e piruvato (pre & post-esercizio), delle concentrazioni di carnitina in plasma, urina e muscolo e dei profili aminoacidici organici e plasmatici. Per la quantificazione della carnitina, è necessario disporre di un campione di plasma eparinizzato (3 ml), urina (10 ml) e muscolo congelato. L’analisi della carnitina permette di diagnosticare le disfunzioni primarie o secondarie della carnitina stessa. Le anomalie nella maggior parte dei casi sono associate ad accumulo di lipidi all’interno delle miofibre. Lattati e piruvati vengono prodotti quando il glucosio viene metabolizzato dal muscolo per produrre energia. L’acidemia lattica è associata a livelli enzimatici nelle vie metaboliche del piruvato e del lattato. Quando si misurano lattati e piruvati, è necessario calcolare il rapporto dei primi rispetto ai secondi. I valori normali del rapporto lattato/piruvato sono i seguenti: a riposo = 17,0 ± 8,2; immediatamente dopo l’esercizio = 20,5 ± 5,9; 30 minuti dopo l’esercizio = 20,6 ± 5,2. Per valutare le modificazioni strutturali che avvengono all’interno delle miofibre, è essenziale una biopsia muscolare. Allo scopo, bisogna scegliere (mediante EMG) un muscolo che sia colpito ma non nello stadio terminale. Di solito per la miopatia è preferibile impiegare un muscolo prossimale, mentre per le neuropatie in genere sono meglio quelli distali. Il muscolo intercostale esterno è il più adatto per la quantificazione dell’AchR in caso di myasthenia gravis. MIOTONIA EREDITARIA CONGENITA: si tratta di una malattia trasmessa da un carattere autosomico recessivo, caratterizzata clinicamente dalla contrazione attiva di un muscolo che persiste dopo la cessazione dello sforzo volontario o della stimolazione. Si ritiene che il difetto che sta alla base del problema abbia origine da un’anomalia della membrana muscolare che scarica treni di potenziali d’azione ripe-

tuti in risposta alla depolarizzazione. La condizione è stata segnalata in chow-chow, schnauzer nano e gatto. Dal punto di vista biochimico, si ha una diminuzione della conduttanza del cloro a livello del sarcolemmma. Nello schnauzer, è stato riscontrato che la base genetica coinvolge una mutazione senza senso di entrambi gli alleli del gene che codifica nella muscolatura scheletrica il canale del cloro voltaggio-dipendente ClC-1. La metionina sostituisce il residuo di treonina nel segmento transmembranario D5 del canale del cloro vicino al poro ionico. Ciò esita in un’anormale funzionalità del canale stesso. I segni clinici sono rappresentati da una rigidità che si manifesta quando l’animale si alza e cammina, soprattutto dopo il riposo, e viene notata quanto i cuccioli iniziano per la prima volta a camminare. Si ha anche una riduzione della flessione degli arti toracici, mentre quelli pelvici mostrano comunemente un’andatura a salti da coniglio. Il tono muscolare è normale, ma i muscoli sono ipertrofici. È invariabilmente presente la formazione di una fossetta miotonica. I cani mostrano livelli sierici di CK normali, ma sono comunemente affetti da ipercolesterolemia. È presente una progressione molto lenta dei segni clinici. Si possono sviluppare delle complicazioni, come la lussazione rotulea, ma gli animali colpiti possono sopravvivere per molti anni. La diagnosi di miotonia ereditaria viene inizialmente sospettata quando si osserva la formazione di una fossetta miotonica in seguito alla percussione di un muscolo scheletrico. L’elettromiografia consente di giungere ad una diagnosi inequivocabile. Vengono prodotte scariche ad alta frequenza con ampiezza e frequenza altalenanti. Per trattare la miotonia sono stati utilizzati i farmaci che stabilizzano le membrane cellulari (procainamide, mexiletina, chinidina e fenitoina). Questi agenti sono antagonisti dei canali del sodio regolati dal voltaggio. La procainamide (a rilascio prolungato) viene somministrata alla dose di 40-50 mg/kg PO BID-TID), che, secondo quanto segnalato in letteratura, consente di ottenere i migliori risultati. La mexiletina (8,3 mg/kg TID) ha un’efficacia simile. DISTROFIA MUSCOLARE: questa miopatia viene trasmessa ereditariamente con modalità X-linked, analogamente a quanto avviene nell’uomo per la distrofia muscolare di Duchene. Nella muscolatura striata risulta assente una proteina, la distrofina, a causa di un’anomalia del gene che la codifica, che si trova sul cromosoma X. La distrofina lega il citoscheletro delle miofibre alla matrice extracellulare. La distrofia muscolare si osserva in golden retriever, Irish terrier, rottweiler, samoiedo, Labrador e gatti. È presente un’elevata frequenza di mutazione, dal momento che il gene del-


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la distrofina è eccezionalmente grande e razze diverse presentano una mutazione differente all’interno di questo stesso gene in modo da determinare una sindrome fenotipicamente simile. Il golden retriever presenta una mutazione nell’introne 6, i rottweiler nell’esone 58, i Labrador nell’introne 20 ed i pastori tedeschi mostrano una grande delezione del gene. I cani ed i gatti con distrofia muscolare hanno un’ipertrofia o atrofia del muscolo. Si osserva una progressiva restrizione dell’andatura a partire dall’età di 6-8 settimane, con debolezza, deambulazione rigida, innaturale e strascicata, con stazione da plantigrado. Si riscontrano poi eccesso di salivazione (ipertrofia della lingua o disfagia), abduzione degli arti, andatura a salti da coniglio, intolleranza all’esercizio e debolezza del latrato. Alcuni cani restano in grado di camminare anche nella media età, tuttavia esiste una forma neonatale fulminante. Alcuni soggetti sviluppano una miocardiopatia. Il sospetto diagnostico iniziale viene basato sull’osservazione dei segni clinici caratteristici in un giovane cucciolo di golden retriever, rottweiler o samoiedo maschio. Questi cani mostrano un incremento impressionante dei livelli di CK (10.000 ++ U/l) ed imponenti modificazioni dell’EMG. La biopsia muscolare evidenzia fibre ialine, fagocitosi, nuclei grandi/prominenti, fibre in via di rigenerazione, assenza di colorazione per la distrofina, diminuzione della colorazione per l’α-sarcoglicano ed incremento della colorazione per l’utrofina. Non esiste alcuna terapia per questa miopatia, per cui l’unico intervento attuabile è rappresentato dagli interventi di sostegno alimentando gli animali con miscele semiliquide. In futuro, i possibili trattamenti saranno rappresentati dal trapianto di mioblasti e dalla terapia genica. La prognosi a lungo termine è sfavorevole. MIOPATIA CENTRONUCLEARE NEL LABRADOR RETRIEVER: La trasmissione ereditaria è di tipo autosomico recessivo, con un difetto genetico rappresentato da un’anomalia del cromosoma 2 del cane (CFA02). I segni clinici si rendono evidenti fra tre e sei mesi. Le biopsie muscolari indicano una certa variazione delle dimensioni delle fibre con un lieve incremento del tessuto connettivo di endomisio e perimisio. La tipizzazione delle fibre mostra un predominio di quelle di tipo I ed una carenza di quelle di tipo II. Altre osservazioni suggeriscono la possibilità di modificazioni neuropatiche in campioni di muscolo sottoposti a biopsia. I segni clinici sono rappresentati da debolezza del collo, seguita da debolezza indotta dall’esercizio. Entrambe queste forme sono aggravate dal freddo o dall’eccitazione e seguite da un recupero dopo periodi di riposo. L’atrofia muscolare si verifica in particolare nei muscoli masticatori ed i cani maschi possono sviluppare un priapismo. I livelli sierici di CK non sono elevati, ma può essere presente una creatinuria. Dopo i sei mesi non si sviluppano altri segni clinici, benché i cani continuino a presentare uno scarso accrescimento con grave perdita generalizzata della massa muscolare scheletrica. La diagnosi si basa su razza, età di insorgenza, segni clinici e quadri elettrofisiologici e, se necessario, biopsia muscolare (bicipite o tricipite). Non esiste alcun trattamento efficace, ma alcuni cani sono sopravvissuti fino a sei anni.

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ALTRE MIOPATIE EREDITARIE: • Distrofia muscolare con carenza di merosina (laminina α2) • Distrofia muscolare con assenza di sarcoglicani • Carenza di PDH – Clumber e Sussex spaniel • Collasso indotto da esercizio – Labrador retriever • Miopatia ipertrofica – Cavalier King Charles spaniel • Glicogenosi • Miopatia Nemaline rod MIOPATIE DA ACCUMULO DI LIPIDI NEL CANE: Queste miopatie sono caratterizzate dalla presenza di accumuli di lipidi in quantità anormali nel muscolo, dove tale accumulo costituisce l’alterazione patologica predominante. La maggior parte dei casi viene associata ad un’alterazione del metabolismo della carnitina (sia di tipo primario che secondario), con anomalie mitocondriali o disordini dell’ossidazione degli acidi grassi con coinvolgimento della β-ossidazione. I segni clinici sono rappresentati da dolore muscolare acuto o cronico scarsamente localizzabile, atrofia muscolare, debolezza, rigidità e zoppia, intolleranza all’esercizio, tremori muscolari ± miocardiopatia. La miopatia da lipidi si osserva in cani di qualsiasi età senza alcuna predilezione di sesso, benché la maggior parte dei soggetti colpiti sia rappresentata da adulti. La diagnosi inizialmente prevede la valutazione elettrofisiologica, seguita dalla determinazione dei livelli di lattati (pre- e post-esercizio) e piruvati nel plasma e nell’urina, nonché dalla quantificazione della carnitina (totale, libera ed esterificata) in muscolo, plasma ed urina. L’analisi quantitativa degli acidi organici permette di differenziare le cause patologiche dell’acidemia lattica. Il caposaldo della diagnosi è la biopsia muscolare, in cui si riscontra un accumulo di gocce lipidiche all’interno delle miofibre nei campioni bioptici di muscolo freddo, congelato (colorazione con olio rosso O). Se sono presenti bassi livelli di carnitina muscolare (primaria), il soggetto va trattato con L-carnitina per os alla dose di 50 mg/kg/bid (la risposta non è così buona negli animali in cui l’alterazione a carico della carnitina muscolare è secondaria ad una significativa aciduria lattica e piruvica), Coenzima Q10 alla dose di 1 mg/kg/die PO, riboflavina (50100 mg/die PO), vitamina C (50 mg/kg/die PO) e modificazione della dieta – bassi livelli di grassi, elevato tenore di carboidrati, dieta ricca di proteine con integrazione con trigliceridi a catena media. POLIMIOSITE IDIOPATICA: Questa miopatia può avere un’associazione con il LES o con altre poliartriti su base immunitaria non abbinate ad esso. Può anche esistere una relazione fra la miosite e la neoplasia, oppure una sindrome paraneoplastica immunologica associata a timoma. Indipendentemente dalla causa scatenante, il danno muscolare probabilmente risulta mediato dal sistema immunitario. Nella polimiosite, si ha una relazione mediata principalmente dalle cellule T, che viene iniziata da un’espansione oligoclonale degli elementi T autoaggressivi con un incremento dell’espressione di CD25 ed HDL-DR. Nella polimiosite dell’uomo, le cellule T responsabili dell’invasione sono principalmente CD3+ CD8+ e LFA-1+. Le mio-


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fibre e gli elementi endoteliali circondati dalle cellule T hanno una aumentata colorazione per ICAM-1. I presunti bersagli primari di queste cellule sono le miofibre MAHCclasse 1-positive. Esiste una polimiosite razza-associata osservata nei giovani Terranova di età compresa fra 6 mesi a 5 anni. Si sospetta che si tratti di un meccanismo immune o autoimmune. Attualmente, non ci sono prove di una relazione familiare. I segni clinici della polimiosite sono rappresentati da intolleranza all’esercizio/debolezza, atrofia muscolare appendicolare generalizzata ed atrofia dei muscoli masticatori, disfagia, ptialismo, rigurgito/megaesofago, disfunzione laringea, conseguente stridore respiratorio e diminuzione dell’apertura delle fauci. Il dolore muscolare è un RISCONTRO INFREQUENTE. La diagnosi si basa su segni clinici, elettrofisiologia e biopsia muscolare. I livelli sierici di CK non devono essere elevati. Il trattamento d’elezione della polimiosite è l’immunosoppressione con corticosteroidi alla dose di 1-1,5 mg/kg BID. La seconda linea di terapia è rappresentata dall’azatioprina ad una dose iniziale di 2 mg/kg SID. Prednisone ed azatioprina vengono frequentemente utilizzati in combinazione. Il farmaco di terza linea, se necessario, dovrebbe essere rappresentato da microfenolato, metotressato, ciclofosfamide o ciclosporina. Se l’immunosoppressione farmacologica fallisce, altre potenziali modalità terapeutiche possono prevedere la somministrazione di immunoglobuline IV, l’irradiazione di tutto il corpo o la plasmaferesi. MIOSITE PROTOZOARIA: La miosite protozoaria è causata da Toxoplasma gondii o Neospora caninum. Quest’ultimo è oggi ritenuto la principale causa di radicoloneurite e polimiosite che colpisce i giovani cuccioli di età compresa fra due e quattro mesi. Nella maggior parte dei casi, si ritiene che l’infestazione venga trasmessa dalla madre attraverso la placenta. I segni clinici nei cuccioli giovani sono rappresentati da una progressiva paraplegia rigida con gli arti pelvici difficili o impossibili da flettere anche sotto anestesia (mentre gli arti toracici sono normali). I riflessi degli arti pelvici non possono venire suscitati, anche se la sensibilità dolorifica è spesso conservata. I muscoli sono frequentemente duri alla palpazione e possono essere atrofici. In alcuni cani, i segni clinici sono principalmente quelli della polimiosite, con debolezza generalizzata che si aggrava con l’esercizio. Agli esami ematochimici si riscontra spesso un innalzamento dei livelli sierici di CK ± eosinofilia. I titoli sierici anti-N. caninum sono invariabilmente positivi, mentre quelli anti-T. gondii di solito sono negativi. Gli studi elettromiografici rivelano un’attività spontanea generalizzata. L’analisi del liquor evidenzia comunemente una pleocitosi di tipo misto con eosinofili. La biopsia muscolare mostra una polimiosite necrotizzante, benché le cisti protozoarie siano molto difficili da trovare. Neospora determina anche una poliradicoloneurite nei cani infestati. MIOSITE IMMUNITARIA DEI MUSCOLI MASTICATORI: Si tratta di un disordine autoimmune diretto contro le miofibre di tipo 2M, peculiari del gruppo dorsale dei muscoli masticatori innervati dal nervo mandibolare. In circo-

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lo si trovano anticorpi diretti contro le proteine delle fibre muscolari masticatorie dei tipo 2M che non danno origine a reazioni crociate con le fibre muscolari degli arti. Si ha una miosite necrotizzante, con modificazioni rigenerative ed infiltrati costituiti principalmente da elementi mononucleari. Nelle forme più croniche, il tessuto connettivo è marcatamente aumentato di volume. Esistono due forme di miosite masticatoria – una acuta, spesso dolorosa, ed una più cronica, con atrofia progressiva delle strutture colpite e senza dolore. Nella forma acuta, si riscontra una tumefazione dei muscoli masticatori, talvolta sufficiente a causare esoftalmo e dolore all’apertura della bocca. I muscoli masticatori possono venire percepiti come edematosi. Si può avere un ingrossamento delle tonsille e dei linfonodi sottomascellari, nonché possibile piressia. Il cane può mostrare un certo grado di malessere. Spesso si riscontra una neutrofilia ed in alcuni casi un’eosinofilia. Altri possibili rilievi sono rappresentati da lieve anemia ed aumento dei livelli di globuline. La forma cronica può seguire un episodio acuto oppure svilupparsi in modo insidioso. Le principali caratteristiche sono l’atrofia dei muscoli masticatori e la limitazione dell’apertura delle fauci. L’atrofia è di solito, anche se non invariabilmente, bilaterale. La miosite masticatoria viene sospettata su base clinica e confermata dalla biopsia. Gli eosinofili NON sono una caratteristica distintiva. All’elettromiografia, si rileva un incremento dell’attività di inserzione e spontanea, benché nei muscoli gravemente fibrosici non vi sia alcuna attività EMG spontanea. Nella malattia acuta, la CK è solitamente aumentata, mentre nei casi cronici può non essere così. La diagnosi definitiva è data dalla positività del riscontro a livello sierico di anticorpi anti-miofibre di tipo 2M. Può essere utile anche la biopsia muscolare dei muscoli masticatori. Il trattamento consiste nell’immunosoppressione con prednisolone alla dose di 1-2 mg/kg PO bid per un periodo iniziale di 4 settimane (anche se i segni acuti possono essersi risolti), da ridurre poi a _ mg/kg PO bid per un mese e poi diminuendo ulteriormente il dosaggio nell’arco dei mesi successivi. Gli steroidi sono indicati per spegnere l’infiammazione, ridurre la formazione di tessuto connettivo e sopprimere la risposta immunitaria. Si possono usare anche altri farmaci immunosoppressori (azatioprina). La malattia spesso recidiva, per cui in alcuni cani può essere necessaria una terapia ripetuta o continua. È improbabile che l’atrofia nei casi cronici migliori molto, anche con una terapia aggressiva, e si può arrivare all’incapacità di aprire le fauci. POLIMIOPATIA IPOKALEMICA DEL GATTO: La diminuzione dei livelli totali di potassio nell’organismo determina una iniziale iperpolarizzazione della membrana delle cellule muscolari. Se la diminuzione dei livelli di K+ continua, la membrana diviene più permeabile ad Na+, portando alla ipopolarizzazione ed a debolezza miopatica. Una nefropatia K+-disperdente è stata ipotizzata come possibile causa della deplezione totale di questo ione nell’organismo. Anche la carenza cronica di potassio nella dieta può contribuire in alcuni gatti. I felini con miopatia ipokalemica sviluppano una debolezza generalizzata ad insorgenza improvvisa, con pronunciata ventroflessione cervicale e riluttanza a camminare (rigidità). I gatti colpiti mostrano anche un significativo


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dolore muscolare. Questi animali presentano comunemente un calo dei livelli sierici di K+ (2,0-3,3 mEq/l), un aumento di CK (fino a 10.000 IU/l), un incremento della creatinina sierica e/o dell’azotemia ed un’acidosi metabolica. Questi gatti di solito risultano negativi alla titolazione per la diagnosi dell’infezione da FeLV. Anomalie EMG generalizzate vengono solitamente rilevate anche se le biopsie muscolari sono spesso normali al microscopio ottico. La misurazione della frazione di escrezione del potassio urinario rivela un significativo incremento della perdita di questo elemento per via renale. Il trattamento consiste nella misurazione del K+ per via orale, con conseguente significativo miglioramento della forza muscolare entro 2-3 giorni. Si riscontra una risoluzione graduale e completa. Si raccomanda un’integrazione permanente e quotidiana con potassio. Questa viene solitamente effettuata per via orale con potassio gluconato alla dose di 5-10 mEq/gatto/giorno suddivisi BID nei casi gravi e 2-4 mEq/gatto/giorno in quelli lievi. La prognosi varia da riservata a favorevole (in funzione dell’entità della malattia renale). IPOTIROIDISMO: Esiste una lieve miopatia clinica (o subclinica) nei cani adulti per la quale è stata ipotizzata una relazione con un disturbo del metabolismo dei carboidrati secondario ad ipotiroidismo. I segni clinici sono rappresentati da debolezza, rigidità, mialgia ed atrofia muscolare. Si riscontra un’atrofia preferenziale delle miofibre di tipo II, nemaline rod ed accumulo di glicogeno nelle biopsie muscolari. Il trattamento dell’ipotiroidismo sottostante di solito esita nella risoluzione di questa lieve miopatia.

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MIOPATIA DI CUSHING: Il morbo di Cushing può determinare una miopatia degenerativa secondaria all’eccesso di corticoidi nell’organismo. I segni clinici possono essere notevoli, con andatura rigida, atrofia muscolare, rigidità degli arti pelvici e pseudomiotonia (formazione di fossette miotoniche ed alterazioni EMG). Alla biopsia muscolare, le alterazioni istopatologiche sono rappresentate da atrofia delle miofibre di tipo II, masse nel sarcolemma, necrosi focale, eccesso di lipidi all’interno delle miofibre, variazione delle dimensioni delle fibre e divisione longitudinale delle fibre. La patogenesi ipotizzata per la miopatia di Cushing fa riferimento ad un incremento del catabolismo proteico ed all’inibizione della sintesi delle proteine miofibrillari. Anche gli incrementi dei livelli circolanti di ACTH hanno un’azione miopatica. Con il trattamento, con mitotano o trilostano, la debolezza muscolare regredisce, spesso nell’arco di mesi. Tuttavia, la rigidità può rimanere. MIOPATIA ASSOCIATA AD IPERTIROIDISMO: Il 12-17% dei gatti ipertiroidei sviluppa debolezza muscolare, il 30% sviluppa tremori muscolari e l’1-3% sviluppa ventroflessione del collo. Questi gatti mostrano anche una diminuzione della capacità di saltare ed un’affaticabilità associata all’esercizio. La prognosi per la risoluzione della debolezza tuttavia è buona con il trattamento, sia mediante iodio radioattivo che rimozione chirurgica o tapazolo. Si noti che quest’ultimo può indurre debolezza muscolare e la formazione di anticorpi anti-AchR a distanza di 2-4 mesi dall’inizio della terapia. Il farmaco è stato associato anche a fini tremori muscolari.


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La Malattia Infettiva Respiratoria Felina: nuove sfide, nuove evidenze Susan Dawson BVMS, PhD, MRCVS, Liverpool, UK

La malattia del tratto respiratorio superiore (URTD) o influenza felina è tuttora un problema comune nei gatti, specialmente in giovani gattini e nei gatti che vivono in gruppo come ad esempio nelle pensioni o nei ricoveri. Anche se la malattia può essere associata ad una mortalità relativamente bassa, può causare un’elevata morbilità. Il grado di malattia può creare problemi per i ricoveri che, durante un’epidemia devono interrompere l’introduzione nelle case dei gatti, ed anche per gli allevamenti dove è evidentemente più difficile la vendita dei gattini che hanno sviluppato la malattia respiratoria. La maggior parte dei casi di URTD felina è dovuta ad uno dei virus respiratori: l’herpesvirus felino (FHV) o il calicivirus felino (FCV). I batteri possono anch’essi giocare un ruolo come invasori secondari a seguito di un iniziale danno virale. Inoltre, è ormai riconosciuto che il batterio Bordetella bronchiseptica può comportarsi come patogeno primario del tratto respiratorio del gatto. Chlamydophila felis (in precedenza Chlamydia psittaci) può causare la malattia respiratoria nei gatti, ma più spesso è coinvolta in forme in cui il sintomo predominante è una persistente congiuntivite. Inizialmente si pensava che i due virus fossero coinvolti in uguale misura nei casi di malattia del tratto respiratorio superiore, rappresentando insieme la causa eziologica di circa l’80% dei casi. Di recente, invece, sembra che il calicivirus felino sia isolato più frequentemente rispetto all’herpesvirus felino. Il genoma RNA del FCV, risulta estremamente variabile e ciò permettere una rapida mutazione ed evoluzione del virus. Pertanto, per esistono numerosi ceppi differenti di FCV con antigenicità e patogenicità variabile. Questo spiega l’esistenza di diversi sintomi clinici associati al FCV, piuttosto che una sindrome standard, e in termini di vaccinazione ciò può fornire problemi nella copertura nei confronti di tutti i ceppi.

SINTOMI CLINICI I sintomi clinici sono simili per i diversi agenti eziologici, anche se alcuni sintomi sono più comuni ad un patogeno rispetto ad un altro. Herpesvirus felino – grave malattia respiratoria in gatti senza l’immunità • Piressia • Starnuti • Scolo oculare e nasale

• Congiuntiviti • Ipersalivazione Calicivirus felino - spesso la malattia è più lieve di quella osservata con l’herpesvirus felino. Alcune infezioni possono essere sub-cliniche. • Piressia • Ulcerazione - orale specialmente sulla lingua • Scolo oculare e nasale • Starnuti • Congiuntiviti • Gengiviti/stomatiti • Zoppie • • • • • • •

Bordetella Bronchiseptica Piressia Starnuti Scolo nasale Tosse Linfoadenopatia sottomandibolare Rantoli all’auscultazione Broncopolmonite

Molto recentemente per il calicivirus felino è stata riportata una forma più grave di malattia con una mortalità di circa il 50%. Questa sindrome, la malattia sistemica virulenta felina, è stata riportata per la prima volta negli Stati Uniti, ma recentemente è stata osservata in altri paesi. I sintomi clinici sono diversi, ed includono ittero, edema specialmente della testa e degli arti inferiori con ulcerazione della cute che appaiono sulle aree dell’edema, emorragia dal naso e nelle feci, ulcerazioni della bocca e piressia. In contrasto alla malattia del tratto respiratorio superiore acuta associata a calicivirus felino, questa sindrome virulenta colpisce più comunemente i gatti adulti rispetto ai gattini. Anche se molti dei casi riportati dal campo si sono verificati in gatti vaccinati, alcune prove sperimentali hanno dimostrato che la vaccinazione conferisce protezione contro la malattia. I ceppi di FCV isolati dai casi di questa sindrome fino ad ora studiati, sembrano essere tutti diversi.

DIAGNOSI Una diagnosi di influenza felina può essere eseguita in base ai sintomi clinici, ma è spesso difficile identificare l’agente eziologico sulla base dei soli sintomi clinici. Per l’iso-


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lamento dei virus possono essere prelevati dei tamponi orofaringei per identificare l’herpesvirus felino ed il calicivirus felino. Dovrebbe essere usato un tampone di cotone asciutto che poi dovrebbe essere posto in un mezzo di trasporto per virus prima di essere spedito entro ventiquattro ore ad un laboratorio idoneo. Per la coltura batterica deve essere prelevato un ulteriore tampone e deve essere collocato in un mezzo di trasporto per batteriologia - per B. bronchiseptica noi raccomandiamo il carbone Amies. Bordetella dovrebbe essere coltivata su un mezzo Agar selettivo (ad esempio carbone cefalessina) che previene l’eccessiva crescita da parte di altri batteri presenti nell’orofaringe del gatto. Chlamydophila può essere identificata da tamponi congiuntivali mediante coltura, ELISA o PCR. Test della PCR (reazione a catena della polimerasi) sono stati sviluppati per i patogeni respiratori felini e questo permette l’identificazione di tutti i potenziali patogeni da un solo campione. Mentre la PCR può essere il test più sensibile per alcuni degli agenti patogeni, per il FCV può essere meno sensibile a causa della variazione genomica tra i ceppi. Tutti i risultati positivi dovrebbero essere interpretati alla luce della conoscenza dei portatori clinicamente guariti.

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di tempo, ed esistono gatti che si liberano del virus in modo definitivo. Anche se la maggioranza di gatti elimina ancora il calicivirus un mese dopo l’infezione, solo in alcuni gatti lo stato di portatore dura tutta la vita. In uno studio condotto nei gatti nel Regno Unito è risultato che l’8% di gatti tenuti come animali da compagnia, il 19% di gatti portati in visita al veterinario ed il 25% di gatti che frequentano mostre feline, erano eliminatori di FCV. È stato dimostrato recentemente che solo alcuni gatti sono portatori prolungati dello stesso virus, ma altri possono apparire portatori perenni a causa di re-infezioni ripetute. Questo spiega la più alta percentuale di prevalenza del FCV in gatti che vivono in gruppo. Si pensa che vi sia anche una prolungata eliminazione di Bordetella bronchiseptica a seguito di un’infezione acuta: in uno studio sperimentale i gatti eliminavano il batterio per 19 settimane dopo l’infezione, momento in cui è stato interrotto il campionamento. In uno studio di 700 gatti con o senza malattia respiratoria, eseguito nel Regno Unito, l’11% è stato trovato eliminare Bordetella bronchiseptica.

Prevenzione e Controllo Trattamento Attualmente nessun antivirale specifico è disponibile per l’uso di routine nei gatti. Gli antivirali sono stati utilizzati per il trattamento delle infezioni oculari da herpesvirus, anche se questi non sono autorizzati per l’uso nel gatto; sono relativamente costosi e richiedono applicazioni giornaliere multiple. I gatti con malattia del tratto respiratorio superiore richiedono una buona cura infermieristica ed una copertura antibiotica per controllare le infezioni secondarie. Dove è presente Bordetella bronchiseptica gli antibatterici di scelta sono le tetracicline, come la doxiciclina. Per Chlamydophila felis le tetracicline e la doxiciclina sono di nuovo gli antibatterici di scelta ed il trattamento deve essere sistemico piuttosto che solo ad uso topico dal momento che Chlamydophila si diffonde in modo sistemico.

Epidemiologia I virus si trasmettono più spesso per contatto diretto, ma possono anche diffondersi mediante gli starnuti di macrogocce o fomite. La fonte di virus può essere un gatto infetto in modo acuto o un ambiente contaminato (vi è un tempo di sopravvivenza breve nell’ambiente – fino a 2-3 giorni per l’herpesvirus e 7-10 giorni per il calicivirus) o un gatto portatore clinicamente guarito. Sia l’herpesvirus che il calicivirus producono lo stato di portatore, sebbene ci siano delle differenze. L’herpesvirus produce un’infezione latente con l’eliminazione intermittente di virus spesso dopo un periodo di stress. Lo stato di portatore per l’herpesvirus dura tutta la vita e si pensa che tutti i gatti che si infettano diventano portatori. Nel caso dei calicivirus, i gatti portatori eliminano il virus più o meno continuamente ma questo avviene per un periodo variabile

Sono disponibili vaccini contro l’herpesvirus felino ed il calicivirus felino e dovrebbero essere usati per controllare la malattia. Comunque, la vaccinazione non elimina o previene lo stato di portatore e così i virus possono ancora essere presenti anche nei gatti vaccinati. Pertanto, nel controllare l’infezione in un gruppo di gatti, devono essere messe in atto le procedure di gestione, per prevenire la diffusione dei virus, tanto quanto la vaccinazione. Dal momento che la maggior parte della trasmissione di virus avviene per contatto diretto i gatti dovrebbero essere limitati dall’avere contatti con altri gatti e devono essere prese delle precauzioni per prevenire la diffusione attraverso un fomite. Per i vaccini contro FCV vi è la sfida di produrre un vaccino che protegga contro tutti i ceppi. Nei vaccini vengono utilizzati diversi ceppi e sebbene siano stati scelti perché sono largamente cross-reattivi, è probabile per tutti i vaccini che ci siano ancora dei ceppi in circolazione che non risultano protetti dalla vaccinazione. Un recente studio indipendente (Università di Liverpool, 2008) ha dimostrato la persistente efficacia del ceppo di calicivirus felino F9, che è risultato tuttora ampiamente crossreattivo ed in grado di neutralizzare un’elevata percentuale (88%) delle varianti di calicivirus isolate in campo, simile a quella degli anni precedenti. Il momento della prima vaccinazione dipende dalla durata degli anticorpi di origine materna (MDA). Nella maggior parte dei gattini gli MDA verso FHV e FCV raggiungono livelli sufficientemente bassi entro le 12 settimane di età per permettere una vaccinazione di successo, comunque in un piccolo numero di gattini la vaccinazione potrebbe essere bloccata a questa età. Pertanto, la prima vaccinazione di richiamo annuale ad un anno di età è molto importante. In alcuni gattini, gli MDA possono essere persi precocemente e siccome i due virus sono molto diffusi i gattini possono contrarre l’infezione durante questo vuoto immunitario. In queste situazioni una vaccinazione più precoce a 6 settimane di


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etĂ potrebbe essere di beneficio.

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Indirizzo per la corrispondenza: Susan Dawson Companion Animal Infectious Diseases University of Liverpool, Leahurst,Chester High Road, Neston, Cheshire CH64 7TE, UK E-mail: S.Dawson@liverpool.ac.uk

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Blood Film Cytology - Red blood cell morphologic changes: Clue to the cause of anemia and diagnostic direction to possible organ dysfunction Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Technological advances in both reference laboratory and in-house hematology analyzers have been tremendous over the last 15 years. Changes have included greater ease of use, greater precision and accuracy and increased amount of data and information collected. We now provide detailed objective morphologic characterization of red blood cell morphology with the use of the Mean Cell Volume (MCV), Mean Cell Hemoglobin Concentration (MCHC), and Red cell Distribution Width (RDW). Each of these parameters provide objective information related to red cell morphology; however, the key limitation to these values is that they represent only the mean or average of all the red blood cells present and there has to be a dramatic increase in numbers of abnormal cells or a dramatic decrease in number of normal cells before the “mean” values are outside of the determined reference interval. Blood film morphologic evaluation provides a more sensitive means of detecting abnormalities in size and hemoglobin concentration as well as providing information related to abnormalities in cell shape (poikilocytosis) or the presence or absence of inclusions (iron accumulation, Howell-Jolly bodies, infectious agents, etc.) within or on the surface of the red blood cells. These latter changes are not identifiable even with the most advanced of hematology analyzers available in reference and academic laboratories. The blood film remains an essential component of the Complete Blood Count (CBC) even with the most advanced in-house and reference laboratory instrumentations. Changes in red blood cell morphology provide insight into the cause of a possible anemia, the presence of a potential underlying metabolic process, the possibility of underlying specific organ dysfunction (liver, kidney, spleen, etc.) as well as the identification of a potential underlying infectious agent. In addition, examination of the red blood cells morphologically helps validate data generated by the hematology analyzers. Decreased density of red blood cells in the

monolayer of a blood film immediately supports the observation of anemia with the data generated. Also, the finding of clumped erythrocytes as might be seen with immunemediated disease directed against red blood cells (agglutination) signals to the technician or veterinarian that the data relative to enumeration of numbers of red blood cells could be an underestimation by the instruments The time that it takes to do a rather thorough evaluation for red blood cell morphology is typically much less than one minute even when the most severe of abnormalities are present. If an individual has good experience of what normal red blood cell morphology is for the different animal species, the recognition of “abnormal” is both rapid and simple. Some of the more common or significant red blood cell morphologic changes are itemized below: Polychromasia - Polychromatophils are immature nonnucleated erythrocytes that for most species are only present in relatively low numbers during health. These immature cells are slightly larger than mature well hemoglobinized erythrocytes and with a good Romanovsky stain, they stain pale blue compared to the normal orange red of a mature erythrocyte. This distinctive staining of the polychromatophil is due in part to the fact that the cell does not have its complete complement of hemoglobin but also due to the presence of residual RNA in the cytoplasm, which is essential for hemoglobin production. The normal mature erythrocyte should have no significant RNA; these cells are primarily bags of hemoglobin with a finite amount of cellular enzymatic capability. No protein production takes place in the mature erythrocyte because there is no significant RNA. Polychromatophils are primarily found in the bone marrow hematopoietic tissue. They represent the last stage of erythrocyte maturation following the loss of the nucleus, which typically takes place in the marrow hematopoietic tissue itself. In the healthy animal, the numbers of polychro-

Parameter

Name

Indication

RBC HBG HCT MCV MCHC RDW

Red blood cell count Hemoglobin Hematocrit Mean corpuscular volume Mean corpuscular hemoglobin concentration Red cell distribution width

Red cell mass Red cell mass Red cell mass Mean cell size Mean hemoglobin content Objective measure of anisocytosis


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matophils in circulation is directly related to the lifespan and turnover rate of erythrocytes in circulation. When there is an increased demand for erythrocytes in the circulation, polychromatophils may be found in the peripheral blood film; greater than normal amounts of polychromasia signify increased rate of production of erythrocytes at the bone marrow level. Morphologic recognition of polychromasia is the primary way to validate a reticulocyte count; the more advanced in-house hematology analyzers provide reticulocyte counts with every dog and cat CBC. Spherocytosis - Spherocytes appear as smaller than normal erythrocytes that have no central zone of pallor and appear more intensely staining than the normal erythrocyte. As their name implies, these cells are spherical. The loss of the normal biconcave shape of a normal mature erythrocyte results in these changes. The more intense staining of the cytoplasm is because the cell does not lie as flat on the blood film since the cell is spherical and this results in the microscopic evaluation of a “thicker” cell; more hemoglobin is found in the center of the cell compared to the normal biconcave and “thinner” normal mature erythrocyte. These cells are formed because of a loss of cytoplasmic membrane without significant loss of cytoplasmic content. They are commonly seen with immune-mediated hemolytic anemia and if there are many spherocytes noted (greater than 4-6 per 100x oil magnification field of view) with no other significant poikilocytosis this is strongly supportive of an underlying immune mediated extravascular event. If only very few spherocytes are identified, the finding is relatively nonspecific. Agglutination - Three dimensional clumping of erythrocytes when confirmed with a saline agglutination test are supportive of an immune-mediated process directed against the red blood cells. They support the presence of surfacerelated antibodies that result in tightly bound cross-linking of erythrocytes. It must be differentiated from loosely attached organized linear arrays of erythrocytes (Rouleaux). Acanthocytosis - Acanthocytes are a specific type of poikilocytosis characterized by the presence of 2-10, blunt, finger-like projections from the surface of the erythrocytes. They support “lipid-loading” of these cells and investigation into causes of changes in cholesterol:phospholipid ratios in the plasma (liver disease, underlying metabolic disturbances) and possible splenic disease is warranted when identified. Leptocytosis (target cells) - Target cells or leptocytes are red blood cells with excess cell membrane to cytoplasmic

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content ratio commonly associated with “lipid-loading” by similar mechanisms as seen with acanthocytosis. Hypochromasia - Hypochromatophils are red blood cells with decreased cytoplasmic content of hemoglobin. They present as pale thin cells typically smaller appearing than normal red blood cells. In veterinary medicine the primary cause for this finding is the presence of a chronic blood loss situation with developing or developed iron deficiency. Investigation into chronic blood loss is warranted when identified. Schistocytosis - Schistocytes are irregular fragments of red blood cells due to mechanical injury to the cells. Oftentimes, this is associated with a “microangiopathy” with abnormalities such as fibrin accumulation in small blood vessels / capillaries. However, conditions where increased turbulent flow of blood through large vessels (caval syndrome with Heartworm disease) or within the heart (endocarditis) can result in similar findings. The presence of schistocytes can prove to be a helpful parameter to include in the clinical investigation of Disseminated Intravascular Coagulopathy. Metarubricytosis - Metarubricytes are nucleated red blood cells. When found in low numbers relative to high numbers of polychromatophils, they are often accepted as being an “appropriate” component of a strongly regenerative response by the bone marrow. However, since there is typically a physical and physiological restriction for nucleated red blood cells from being released from the normal marrow, when found without associated polychromasia, investigation into bone marrow stromal damage (infiltrative bone marrow disease, endotoxemia / septicemia, hypoxia, heavy metal toxicity [acute lead toxicity] is warranted. Heinz bodies - Heinz bodies represent small, projections on the surface of the red blood cells. These are small collections of denatured / oxidized hemoglobin due to oxidant injury. Conditions such as acute onion toxicity in the dog and Acetaminophen toxicity in the cat is warranted but other oxidant stresses including underlying metabolic disturbances are possible causes also. Miscellaneous inclusioins - Whenever an identified structure within or on a red blood cell, further characterization is required. Often, this will involve sending a well made blood film to a reference laboratory for evaluation and confirmation and hopeful identification is warranted.

Selected References Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004. Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen ED, Rebar A and Weiser G. Veterinry Hematology and Clinical Chemistry.


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Citologia dello striscio ematico Alterazioni della morfologia eritrocitaria: le “chiavi” per l’interpretazione dell’anemia e di possibili disfunzioni d’organo Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Nel corso degli ultimi quindici anni, i progressi tecnologici compiuti dagli apparecchi per analisi ematologiche da utilizzare sia presso i laboratori di riferimento che a livello ambulatoriale sono stati enormi. Le modificazioni sono state rappresentate da maggior facilità di impiego, precisione ed accuratezza più elevate ed incremento della quantità di dati ed informazioni che è possibile raccogliere. Noi oggi possiamo disporre di una dettagliata caratterizzazione obiettiva della morfologia degli eritrociti utilizzando il volume globulare medio (MCV, Mean Cell Volume), la concentrazione emoglobinica globulare media (MCHC, Mean Cell Hemoglobin Concentration) e l’ampiezza di distribuzione eritrocitaria (RDW, Red cell Distribution Width). Ognuno di questi parametri fornisce informazioni obiettive correlate alla morfologia degli eritrociti; tuttavia, la principale limitazione di questi indici è che rappresentano soltanto la media di tutti gli eritrociti presenti e ci deve essere un imponente incremento del numero di cellule anormali o un drastico calo di quelle normali prima che i valori “medi” escano dall’intervallo di riferimento predeterminato. La valutazione morfologica dello striscio ematico rappresenta un mezzo più sensibile per individuare le anomalie di dimensioni e di concentrazione emoglobinica, nonché per ottenere informazioni correlate ad alterazioni della forma delle cellule (poichilocitosi) oppure della presenza o assenza di corpi inclusi (accumulo di ferro, corpi di Howell-Jolly, agenti infettivi, ecc…) all’interno o sulla superficie degli eritrociti. Queste ultime modificazioni non sono identificabili anche con gli analizzatori ematologici più avanzati disponibili presso i laboratori di riferimento e quelli accademici.

Lo striscio ematico resta una componente essenziale dell’esame emocromocitometrico completo anche quando si dispone dei più avanzati strumenti di analisi in uso a livello ambulatoriale e presso i laboratori di riferimento. Le modificazioni della morfologia degli eritrociti consentono di valutare la causa di una possibile anemia, la presenza di un potenziale processo metabolico primario, la possibilità di una sottostante disfunzione organica specifica (fegato, reni, milza, ecc..) nonché l’identificazione di un potenziale agente infettivo all’origine del problema. Inoltre, l’esame della morfologia eritrocitaria contribuisce a validare i dati generati dagli analizzatori ematologici. La diminuita densità degli eritrociti nel monostrato di uno striscio di sangue depone immediatamente a favore del riscontro di un’anemia con i dati generati. Inoltre, il reperto di eritrociti ammassati, come si può osservare nelle malattie immunomediate dirette contro i globuli rossi (agglutinazione) indica al tecnico o al veterinario che i dati relativi al conteggio degli eritrociti potrebbero essere sottostimati dagli strumenti. Il tempo che richiede l’esecuzione di una valutazione piuttosto approfondita della morfologia degli eritrociti è tipicamente molto inferiore ad un minuto, anche quando sono presenti le anomalie più gravi. Se un operatore ha una buona esperienza della morfologia eritrocitaria normale nelle differenti specie animali, il riconoscimento delle “anormalità” è rapido e semplice. Verranno ora illustrate alcuna delle più comuni o significative alterazioni morfologiche dei globuli rossi: Policromasia – i policromatofili sono eritrociti immaturi non nucleati che nella maggior parte delle specie animali sono presenti soltanto in numero relativamente basso in condizioni di buona salute. Queste cellule immature

Parametro

Nome

Indicazione

RBC HBG HCT MCV MCHC RDW

Conteggio degli eritrociti Emoglobina Ematocrito Volume globulare medio Concentrazione emoglobinica globulare media Ampiezza di distribuzione degli eritrociti

Massa eritrocitaria Massa eritrocitaria Massa eritrocitaria Dimensione media delle cellule Contenuto emoglobinico medio Misura obiettiva dell’anisocitosi


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sono leggermente più grandi degli eritrociti maturi ben dotati di emoglobina e con una buona colorazione di tipo Romanovsky assumono un tono blu chiaro in confronto al normale arancio rosso di un eritrocita maturo. Questa colorazione caratteristica dei policromatofili è dovuta in parte al fatto che le cellule non hanno la dotazione completa di emoglobina, ma anche alla presenza di residui di RNA nel citoplasma, che è essenziale per la produzione dell’emoglobina stessa. Il normale eritrocita maturo non deve presentare una quota significativa di RNA; queste cellule sono principalmente delle sacche di emoglobina con una quantità finita di capacità enzimatica cellulare. Nell’eritrocita maturo non avviene alcuna produzione di proteine, perché non c’è una quota significativa di RNA. I policromatofili si riscontrano principalmente nel tessuto emopoietico del midollo osseo. Rappresentano l’ultimo stadio della maturazione degli eritrociti dopo la perdita del nucleo, che avviene di norma nel tessuto emopoietico midollare stesso. Nell’animale sano, il numero di queste cellule in circolo è direttamente correlato alla durata della vita ed alla rapidità del turn-over degli eritrociti circolanti. Quando questi ultimi aumentano, nello striscio di sangue periferico si possono riscontrare i policromatofili: la presenza di una policromasia superiore alla norma indica un incremento della velocità di produzione degli eritrociti a livello midollare. Il riconoscimento morfologico della policromasia è il metodo principale per validare un conteggio dei reticolociti; i più avanzati analizzatori ematologici ambulatoriali forniscono il conteggio dei reticolociti per ogni esame emocromocitometrico completo del cane e del gatto. Sferocitosi – Gli sferociti si presentano sotto forma di eritrociti più piccoli del normale, privi di una zona centrale di pallore, e colorati più intensamente. Come implica il loro nome, queste cellule sono sferiche. La perdita dell’abituale forma biconcava di un eritrocita maturo normale esita in queste modificazioni. La più intensa colorazione del citoplasma è dovuta al fatto che la cellula, essendo sferica, non si dispone appiattita sullo striscio ematico, il che esita nel riscontro microscopico di una cellula “più spessa”, al cui centro si trova una quantità di emoglobina maggiore rispetto a quella dei normali eritrociti maturi biconcavi e “più sottili”. Queste cellule si formano a causa della scomparsa della membrana citoplasmatica senza significativa perdita di contenuto citoplasmatico. Si osservano comunemente nell’anemia emolitica immunomediata e il loro riscontro in numero elevato (più di 4-6 per 100x campo microscopico in immersione ad olio) senza una poichilocitosi significativa è fortemente indicativo di un sottostante evento immunomediato extravascolare. Se

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vengono identificati soltanto pochissimi sferociti, il reperto è relativamente aspecifico. Agglutinazione – Tre ammassi dimensionali di eritrociti confermati con un test di agglutinazione con soluzione fisiologica sono indicativi di un processo immunomediato diretto contro i globuli rossi. Questi riscontri depongono a favore della presenza di anticorpi di superficie, che esitano nella formazione di stretti legami crociati fra eritrociti. La situazione va differenziata dalla disposizione lineare di globuli rossi organizzati e lassamente adesi (rouleaux). Acantocitosi – L’acantocitosi è un tipo specifico di poichilocitosi caratterizzato dalla presenza di 2-10 proiezioni smusse digitiformi dalla superficie degli eritrociti. Questo quadro depone a favore di un “carico di lipidi” di queste cellule e la sua identificazione richiede un’indagine per chiarire le cause e le modificazioni dei rapporti fra colesterolo e fosfolipidi nel plasma (epatopatia, sottostanti disturbi metabolici) e di una eventuale malattia splenica. Leptocitosi (cellule bersaglio) – Le cellule bersaglio o leptociti sono eritrociti con un eccesso di rapporto fra membrana cellulare e contenuto citoplasmatico comunemente associato al “carico di lipidi” con meccanismi simili a quelli osservati nel caso dell’acantocitosi. Ipocromasia – Gli ipocromatofili sono eritrociti con un minor contenuto intracitoplasmatico di emoglobina. Si presentano sotto forma di cellule pallide e sottili, tipicamente più piccole degli eritrociti normali. In medicina veterinaria, la causa primaria di questo riscontro è la presenza di una situazione di perdita ematica cronica con carenza di ferro in via di sviluppo o già instaurata. La loro identificazione impone la ricerca di una perdita ematica cronica. Schistocitosi – Gli schistociti sono frammenti irregolari di eritrociti dovuti al danneggiamento meccanico delle cellule. Spesso, questo quadro è associato a “microangiopatia” con anomalie come l’accumulo di fibrina nei vasi sanguigni di piccolo calibro e/o nei capillari. Tuttavia, anche le condizioni in cui si ha un aumento del flusso turbolento di sangue attraverso grandi vasi (sindrome della vena cava nella filariosi cardiopolmonare) o all’interno del cuore (endocardite) possono esitare nella comparsa di riscontri simili. La presenza di schistociti può risultare un utile parametro da includere nell’indagine clinica in caso di coagulopatia intravasale disseminata. Metarubricitosi – I metarubriciti sono eritrociti nucleati. Quando si riscontrano in numero limitato rispetto ad un’elevata quantità di policromatofili, vengono spesso accettati come una componente “appropriata” di una forte risposta rigenerativa da parte del midollo osseo. Tuttavia, dal momento che esiste tipicamente una restrizione fisica e fisiologica al rilascio di eritrociti nucleati da parte del midollo normale, il loro riscontro senza una policromasia associata impone la ricerca di un danno


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stromale del midollo osseo (malattia midollare infiltrante, endotossiemia/setticemia, ipossia, avvelenamento da metalli pesanti [tossicità acuta da piombo]). Corpi di Heinz – I corpi di Heinz sono rappresentati da piccole proiezioni sulla superficie degli eritrociti. Sono piccole raccolte di emoglobina denaturata/ossidata dovute ad un danno da ossidanti. Il loro riscontro richiede la ricerca di condizioni come l’avvelenamento acuto da cipolle nel cane e da acetaminofene nel gatto, ma anche altri stress ossidativi, compresi i disturbi metabolici sottostanti, sono possibili cause. Inclusioni varie – Ogni volta che viene identificata una struttura all’interno o sulla superficie di un eritrocita,

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è necessario caratterizzarla ulteriormente. Spesso, ciò comporta l’invio di uno striscio ematico ben realizzato ad un laboratorio di riferimento per la valutazione e la conferma, nella speranza di un’identificazione.

Letture consigliate Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004. Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen ED, Rebar A and Weiser G. Veterinry Hematology and Clinical Chemistry. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Blood Film Cytology - White blood cell identification and morphologic changes: Blood films and cytologic preparations of inflammatory disease complement one another Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

With the advent of the newer generations of hematology analyzers economically available for the veterinarian, a new era in CBC analysis has evolved. Many of the newer instruments provide more accurate and precise total leukocyte counts than we have had in the past and with the more advanced reference laboratory and in-house hematology analyzers, a complete 5-part leukocyte differential is possible. This 5-part differential is essential for us to properly interpret the different leukograms we see daily in veterinary practice and these interpretations direct the veterinarian to a better understanding of any inflammatory process present in an animal. Serial leukogram evaluations also play critical roles in characterizing the progression or regression of an inflammatory process in an animal. Even with the best of possible analyzers, blood film evaluation is still a critical part of the CBC and many morphologic changes seen on the blood film that are not identified with the analyzers also play a critical role in our characterization of the progression or regression of various inflammatory conditions in our patients. In less than a 1-2 minute microscopic evaluation of a blood film at low magnification, a technician or veterinarian should be able to rapidly validate the leukocyte differential provided by the hematology analyzer and to recognize any significant morphologic abnormalities present. Before being able to recognize the abnormalities in morphology, the microscopist must first be able to easily recognize the common leukocytes – neutrophils, lymphocytes, monocytes, eosinophils and basophils. Some of the more important morphologic abnormalities commonly seen with different inflammatory and non-inflammatory processes are listed below. IMMATURE NEUTROPHIL FORMS: Typically when one speaks of immature neutrophil forms, one considers only band and metamyelocyte and earlier stages of the maturation process for neutrophils. Recognition of increased numbers of immature neutrophil forms in circulation indicates the presence of an inflammatory process even when total neutrophil numbers are normal. Specific rules for identification of “band” neutrophil forms exist but they are often not sufficient to assure the proper information from getting to the veterinarian. There is a gradual process of maturation between the band and the segmented neutrophil forms; transition from band to seg is not abrupt. Neutrophil forms

with partial segmentation that lie somewhere between “band” and “seg” are often found on the peripheral blood film and this finding may be essential in recognizing the presence of a mild inflammatory process. A band is typically identified if the narrowest point of indentation in the nucleus is greater than one-third the widest portion of the nucleus. If the nucleus is folded on itself or twisted, this evaluation cannot be made and the technician is instructed to report the cell as the more mature form of the neutrophil, namely, a segmented neutrophil. With these rules, one can see the potential for missing a “left shift” in the neutrophil series. A veterinarian must develop confidence in the reporting of “hyposegmented” neutrophils from a trained technician. TOXIC CHANGES IN NEUTROPHILS: Neutrophil toxicity is also an indication of the presence of an inflammatory process. Typically, toxicity is seen when there is a left shift present, but there will be times when only toxicity, no left shift and potentially no change in numbers of neutrophils, is noted. Morphologic changes are associated with rapid cell development and the “skipping” of certain steps of normal maturation. With the more severe toxic changes, conditions including endotoxemia and septicemia are likely, therefore, the name “toxic” change. One of the earliest forms of “toxic” change is the mild increased blue staining of neutrophil cytoplasm. Due to retention of RNA in the cytoplasm as a result of the shortened development time, the cytoplasm now stains bluer. As the cells are more and more “immature” related to cytoplasm maturation, the cytoplasm is more and more blue. A reported toxicity of 2-3+ is generally, moderately blue. In addition to the blue staining of the cytoplasm, there is a potential of a foamy appearance or potential vacuolization of the cytoplasm. As with the cytoplasmic blue staining, the more severe toxicity has a greater foamy and vacuolated appearance. In some species (primarily dog and cow), the


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presence of lamellar aggregates of rough ER - RNA results in the formation of small (less than 1 to slightly greater than 1 micrometer in diameter), pale blue, irregularly shaped inclusions in the cytoplasm that are detectable at the light microscopic level. These inclusions are called Döhle bodies. When present in the dog associated with a more blue and potentially foamy or vacuolated cytoplasm, they are considered to be a sign of toxicity also. In the cat and the horse, they have no diagnostic significance. Typically, one will interpret the toxic changes relative to severity of the inflammatory process. The more severe the toxic change, the more severe the inflammatory process. Typically, the leukocyte numbers and distribution (possible left shift) are reflective of the severity of the inflammatory process also. The finding of severe toxicity in the face of a neutropenia with a prominent left shift is supportive of severe overwhelming inflammation and a guarded to grave prognosis would be given. The finding of slight toxicity (“noted” or “1+”) should not be ignored if a qualified technician is making the observation. These changes are supportive of more mild inflammation and typically are reflected in a more mild or non-existing leukocyte number change. In addition to the cytoplasmic changes, the potential of finding large or giant neutrophil forms is also considered a sign of toxicity and is a result of skipping one or several division periods during the development process. If this happens, the end result is a neutrophil form that is larger than normal. In many cases this is difficult to perceive since most if not all of the neutrophil forms will be similarly sized and unless the microscopist it observant and compares the neutrophil forms to other leukocytes, it will be missed.

tive” morphologic features. Reports of “atypical” lymphocytes with few small pink cytoplasmic granules with lymphocyte counts as high as 15,000 - 20,000 / microliter have been documented with chronic systemic infection, particularly chronic canine Ehrlichiosis. “Atypical” lymphocytes do not mean neoplasia. Review by a veterinary clinical pathologist or individual with more experience is recommended.

REACTIVE LYMPHOCYTES: “Reactive lymphocytes noted” is a common comment on most CBCs. Its significance is directly related to systemic antigenic stimulation, but specific causes for this antigenic stimulation is not identifiable. Lymphocyte reactivity is typically associated with increased blue staining of lymphocyte cytoplasm and the potential of increased amounts of cytoplasm. In rare occasions, plasmacytoid lymphocytes and well differentiated plasma cells may be seen in the peripheral blood also. These cells will have moderate amounts of deeply blue cytoplasm and potentially poorly distinct to distinct perinuclear clear zones in the cytoplasm. Nuclei of these cells tend to be round with uniform and dense chromatin patterns. One of the important features related to reactive lymphocytes is their accurate identification. Many people will at first confuse less mature metarubricytes (nucleated erythrocytes) with reactive lymphocytes. Differentiation from “atypical” lymphocytes may also be problematic. In general, atypical lymphocytes will have increased amounts of cytoplasm without any significant increased in cytoplasm blue staining or only minimal increased blue staining affinity for the cytoplasm. In some cases, there may be one or several, small, pink cytoplasmic granules much less than one micrometer in diameter. When “atypical” lymphocytes are seen, investigation into potential underlying lymphoproliferative disease is warranted. These cells may merely be representative of systemic antigenic stimulation as is the more common “reac-

ABNORMAL / LEUKEMIC CELLS: When leukocytes that cannot be identified easily, the potential for an underlying neoplastic process should be considered and submission of a sample for review would be warranted. If very immature cells are found in circulation, special staining procedures may be needed for accurate identification.

MONOCYTES: No major morphologic abnormalities are observed with monocytes. The potential of seeing monocytes differentiated to macrophages in circulation exists, but this is very uncommon. Identification of these macrophages is best accomplished by detailed evaluation at the feathered edge of the blood film. Phagocytosed erythrocytes in immune-mediate hemolytic anemia, various infectious etiologic agents, and abnormal (leukemic) cells have been reported. EOSINOPHILS: Eosinophils are relatively easy leukocytes to identify in the peripheral blood and when increased in numbers, investigation into underlying parasitic, hypersensitivity and other specific causes of eosinophilic inflammation is warranted. The potential of degranulation of eosinophils exists, but is uncommon in the peripheral blood. Degranulated eosinophils appear as polymorphonuclear leukocytes with multiple, clear, distinct cytoplasmic vacuoles. Usually, one or several remnant granules are found making the identification of these cells relatively simple. Eosinophils of Greyhounds may be confusing. Their granules typically do not stain well or they may appear degranulated.

Selected References Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004. Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry.


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Citologia dello striscio ematico - Identificazione ed alterazioni morfologiche dei leucociti: come la valutazione dello striscio ematico e dei preparati citologici si completano a vicenda Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Con l’avvento degli analizzatori ematologici di ultima generazione, disponibili a costi economicamente accettabili per i veterinari, si è aperta una nuova era nell’analisi dell’esame emocromocitometrico completo. Molti degli strumenti più recenti forniscono conteggi dei leucociti totali più accurati e precisi di quelli di cui si poteva disporre in passato e con i più avanzati analizzatori ematologici dei laboratori di riferimento ed ambulatoriali è possibile ottenere una formula leucocitaria completa con cinque voci. Tale formula è essenziale per consentirci di interpretare correttamente i vari quadri di leucogramma che osserviamo quotidianamente nell’esercizio della professione veterinaria e tali interpretazioni guidano il clinico verso una migliore comprensione di qualsiasi processo infiammatorio presentato da un animale. Inoltre, le valutazioni seriali del leucogramma svolgono un ruolo di importanza critica per caratterizzare la progressione o la regressione di un processo infiammatorio in un animale. Anche con il migliore degli analizzatori possibili, la valutazione di uno striscio ematico è ancora una parte di importanza critica dell’esame emocromocitometrico completo e molte alterazioni morfologiche osservate nello striscio e che non vengono identificate da queste apparecchiature svolgono un ruolo critico nella nostra caratterizzazione della progressione o regressione di varie condizioni infiammatorie nei nostri pazienti. In meno di 1-2 minuti di valutazione al microscopio di uno striscio ematico a basso ingrandimento, un tecnico o un veterinario dovrebbe riuscire a validare rapidamente la formula leucocitaria fornita dall’analizzatore ematologico e riconoscere ogni eventuale anomalia morfologica significativa presente. Prima di essere in grado di identificare le anomalie della morfologia, un operatore dovrebbe riuscire a individuare facilmente i comuni leucociti – neutrofili, linfociti, monociti, eosinofili e basofili. Più oltre sono elencate alcune delle più importanti anomalie morfologiche comunemente osservate nei differenti processi infiammatori e non infiammatori.

FORME IMMATURE DI NEUTROFILI Tipicamente, quando si parla di forme immature di neutrofili, si considerano soltanto quelli non segmentati ed i metamielociti ed i primi stadi del processo di maturazione dei neutrofili. Il riconoscimento di un aumento del numero

di forme neutrofile immature in circolo indica la presenza di un processo infiammatorio anche quando il numero totale dei neutrofili è normale. Esistono delle regole specifiche per l’identificazione dei neutrofili non segmentati, ma spesso queste non sono sufficienti ad assicurare la corretta informazione da dare al veterinario. Esiste un graduale processo di maturazione che porta dai neutrofili non segmentati a quelli segmentati; la transizione da una forma all’altra non avviene bruscamente. Le forme neutrofile con segmentazione parziale che si situano in un punto imprecisato fra “non segmentati” e “segmentati” si riscontrano spesso negli strisci di sangue periferici e questo reperto può essere essenziale per riconoscere la presenza di un lieve processo infiammatorio. Un neutrofilo non segmentato viene tipicamente identificato se il punto più stretto fra le incisure del nucleo è più grande di un terzo della porzione più larga del nucleo stesso. Se questo è ripiegato su se stesso o ritorto, questa valutazione non può essere formulata e si deve richiedere al tecnico di indicare la cellula come la forma più matura del neutrofilo, in particolare quella segmentata. Con queste regole, esiste il rischio di farsi sfuggire uno “spostamento a sinistra” nella serie neutrofila. Un veterinario deve sviluppare una certa confidenza con il referto di neutrofili “iposegmentati” da parte di un tecnico adeguatamente preparato.

ALTERAZIONI TOSSICHE DEI NEUTROFILI Anche la tossicità dei neutrofili è un’indicazione della presenza di un processo infiammatorio. Tipicamente, questa caratteristica si osserva quando è presente uno spostamento a sinistra, ma vi saranno delle occasioni in cui si noterà soltanto la tossicità senza alcuno spostamento a sinistra ed essenzialmente senza alcuna variazione del numero dei neutrofili. Le alterazioni morfologiche sono associate a rapido sviluppo cellulare ed al “salto” di certe fasi


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della normale maturazione. Le alterazioni più gravi si verificano probabilmente in presenza di condizioni come l’endotossiemia e la setticemia, da cui il nome di modificazioni “tossiche”. Una delle prime forme delle alterazioni di questo tipo è il lieve incremento della colorazione blu del citoplasma neutrofilo. A causa dell’accorciamento del tempo di sviluppo si ha una ritenzione dell’RNA nel citoplasma, che assume ora una colorazione più blu. Dato che le cellule sono sempre più “immature” rispetto alla maturazione citoplasmatica, il citoplasma diventa sempre più blu. Una tossicità indicata come 2-3+ ha generalmente una colorazione moderatamente blu. Oltre alla modificazione tintoriale citata, si può riscontrare un aspetto schiumoso o una vacuolizzazione del citoplasma. Come nella colorazione blu, la tossicità più grave comporta un aspetto maggiormente schiumoso e vacuolizzato. In alcune specie animali (principalmente cane e bovino), la presenza di aggregati lamellari di Reticolo Endoplasmatico Ruvido-RNA esita nella formazione di inclusioni di colore blu chiaro piccole (di diametro compreso fra meno di 1 e poco più di 1 μm) e di forma irregolare nel citoplasma che possono essere individuate a livello di microscopia ottica. Queste inclusioni prendono il nome di corpi di Döhle. Quando sono presenti nel cane in associazione con un citoplasma più blu e potenzialmente schiumoso o vacuolizzato, vengono anch’esse considerate un segno di tossicità. Nel gatto e nel cavallo, non hanno alcun significato diagnostico. Tipicamente, le alterazioni tossiche vengono interpretate in relazione alla gravità del processo infiammatorio. Tanto più tali alterazioni sono gravi, tanto più grave è la flogosi. Di norma, anche il numero e la distribuzione dei leucociti (possibile spostamento a sinistra) riflettono la gravità dell’infiammazione. Il riscontro di una grave tossicità a fronte di una neutropenia con un prominente spostamento a sinistra è indicativo di grave flogosi che travolge le difese dell’organismo e comporta una prognosi variabile da riservata a grave. Il riscontro di una tossicità lieve (indicata come “1+”) non va ignorato se l’osservazione viene formulata da un tecnico qualificato. Queste alterazioni sono indicative di un’infiammazione più lieve e si riflettono tipicamente in una modificazione numerica dei leucociti più lieve o assente. Oltre alle alterazioni citoplasmatiche, anche il possibile riscontro di forme di neutrofili grandi o giganti viene considerato un segno di tossicità ed una conseguenza del “salto” di uno o più periodi di divisione durante il processo di sviluppo. Se ciò avviene, l’esito finale è una forma neutrofila che risulta più grande del normale. In molti casi, questo quadro è difficile da percepire, dal momento che la maggior parte se non la totalità delle forme neutrofile avrà dimensioni simili e, a meno che l’operatore non sia osservatore e confronti le forme neutrofile con altri leucociti, passeranno inosservate. LINFOCITI REATTIVI: “Riscontro di linfociti reattivi” è un commento comune nella maggior parte dei referti degli esami emocromocitometrici completi. Il suo significato è direttamente correlato alla stimolazione antigenica sistemica, ma le cause specifiche di questa stimo-

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lazione non sono identificabili. La reattività linfocitaria è tipicamente associata ad un aumento della colorazione blu del citoplasma dei linfociti ed al potenziale incremento della quantità del citoplasma stesso. Nel sangue periferico si possono osservare anche, in rare occasioni, linfociti plasmocitoidi e plasmacellule ben differenziate. Queste cellule presentano moderate quantità di citoplasma di intensa colorazione blu e possibili zone chiare perinucleari, variabili da maldistinte a distinte. I nuclei di queste cellule tendono ad essere tondeggianti, con quadri cromatinici uniformi e densi. Una delle importanti caratteristiche correlate ai linfociti reattivi è la loro accurata identificazione. Molti inizialmente confondono i metarubriciti meno maturi (eritrociti nucleati) con i linfociti reattivi. Anche la differenziazione dai linfociti “atipici” può costituire un problema. In generale, i linfociti atipici presentano un aumento della quantità di citoplasma senza alcun significativo incremento della colorazione blu dello stesso o solo con un aumento minimo di tale affinità tintoriale. In alcuni casi, possono essere presenti uno o più piccoli granuli citoplasmatici rosa, di diametro molto inferiore ad un micron. Quando non si osservano linfociti “atipici”, è necessario ricercare una potenziale malattia linfoproliferativa sottostante. Queste cellule possono rappresentare semplicemente una stimolazione antigenica sistemica, come le più comuni caratteristiche morfologiche “reattive”. Il riscontro di linfociti “atipici” con pochi piccoli granuli citoplasmatici rosa e conteggi linfocitari che arrivano sino a 15.000-20.000/μl è stato documentato in caso di infezione sistemica cronica, in particolare nell’erlichiosi cronica del cane. Il riscontro di linfociti “atipici” non indica una neoplasia. Si raccomanda di rivolgersi ad un patologo clinico veterinario o comunque a qualcuno con più esperienza. MONOCITI: nei monociti non si osservano anomalie morfologiche imponenti. La possibilità di vedere dei monociti differenziati in macrofagi in circolo esiste, ma è molto poco comune. L’identificazione di questi macrofagi viene effettuata preferibilmente mediante valutazione dettagliata a livello del margine sfrangiato dello striscio ematico. Sono stati segnalati eritrociti fagocitati nell’anemia emolitica immunomediata, vari agenti eziologici infettivi e cellule anormali (leucemiche). EOSINOFILI: gli eosinofili sono leucociti relativamente facili da identificare nel sangue periferico e, quando aumentano di numero, indicano la necessità di ricercare parassitosi sottostanti, ipersensibilità ed altre cause specifiche di infiammazione eosinofilica. Esiste la possibilità che vadano incontro a degranulazione, che però è poco comune nel sangue periferico. Gli eosinofili degranulati si presentano come leucociti polimorfonucleati con molteplici vacuoli citoplasmatici chiari e ben distinti. Di solito, si riscontrano uno o più granuli residui che rendono relativamente semplice l’identificazione di queste cellule. Gli eosinofili dei levrieri possono essere motivo di confusione. I loro granuli di norma non si colorano bene oppure possono apparire degranulati.


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Letture consigliate CELLULE NORMALI/LEUCEMICHE: quando si riscontrano dei leucociti che non possono essere identificati con facilità, si deve prendere in considerazione l’eventualità di un processo neoplastico sottostante, inviando il campione ad un esame specialistico. Se si trovano in circolo elementi fortemente immaturi, per un’identificazione accurata può essere necessario il ricorso a speciali procedure di colorazione.

Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004. Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry. Wiley.


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Basic to the advanced diagnostic cytology: Inflammatory disease Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

The identification of primary inflammatory disease is relatively simple in that the majority of the inflammatory cells observed with the exception of members of the monocyte/macrophage family are commonly encountered in peripheral blood and are relatively easy to identify. After a process is identified as being inflammatory, the types of inflammatory cells present give direction into the possible underlying cause of the process. Different cellular distribution patterns are often seen associated with selective causes and morphologic changes within some of the inflammatory cell types themselves also provide insight into the cause of the process. It should always be remembered that identification of an inflammatory process does not preclude the potential for an underlying neoplastic process and clinical signs, signalment and history must all be used to properly interpret a cytologic specimen. Several of the different inflammatory patterns that are commonly encountered in veterinary medicine are included below.

NEUTROPHILIC INFLAMMATION This category is among the most common type of inflammation we see in veterinary medicine. The cytologic appearance is one of a predominance of the acute inflammatory cell, the neutrophil. Often times we associate this with a bacterial etiology which is a common cause but by no means are bacterial agents the only possible cause for neutrophilic inflammatory disease. One should consider a general category of strongly irritating agents when seeing a primarily neutrophilic response. This also includes causes like chemicals such as seen in the case when the intravenous anesthetic accidentally gets perivascular during the administration process. Severe tissue necrosis in the early stages can also present with a primarily neutrophilic inflammatory process. Beyond just the mere numbers of neutrophils predominating in this type of process, the morphology of the neutrophils may provide clues as to the etiology of the lesion. Although acute tissue necrosis can cause moderately severe neutrophil degeneration, more commonly this cytologic finding is associated with a bacterial etiology as a direct result of either endotoxins or exotoxins from the bacteria. These degenerative changes range from very mild alterations consisting of nuclear swelling and hyalinization of the chromatin patterns to severe alterations consisting of karyolysis and karyorrhexis. These latter two findings indicate sudden death of the neutrophils. Often seen in association with all of the degen-

erative changes is pyknosis of neutrophil nuclei. If only pyknosis is observed, one should be concerned about over interpreting the specimen. This may merely be evidence of slow neutrophil death associated with aged cells in the inflammatory process. Another aging change, which should not be confused with degeneration, is hypersegmentation. This is a common finding in many of the fluids routinely collected or various inflammatory exudates. Most people associate this with a simple aging process of the neutrophil. The absolute numbers of acute inflammatory cells seen in a process needed to categorize the process as “neutrophilic” is relatively arbitrary. There should be a predominance of these cells and many people feel there should be greater than 70% of the total cellularity consisting of neutrophils before this classification can be made. The remainder of the cells seen consist generally of a mixture of monocytes, macrophages and lymphocytes in various stages of reactivity. Low numbers of mast cells, epithelioid cells and other mixed inflammatory cells may also be present even in an acute, septic inflammatory process with severe neutrophilic degeneration.

EOSINOPHILIC INFLAMMATION A special subcategory of active inflammation is eosinophilic inflammation. By its name one can expect to see large numbers of eosinophils in the process. This cell type is helpful in identifying that there is a hypersensitivity component to the inflammatory process; however, it is not generally helpful in identifying a specific etiology. Parasitic agents commonly present with this type of a response but allergic responses to various non-infectious allergens are possible as well. In addition, eosinophilic infiltrates may be seen with mast cell tumor and other neoplastic conditions including T-cell malignant lymphoma and various carcinomas.

MIXED (CHRONIC-ACTIVE) INFLAMMATION As one could expect from the title of this category, this is a mixed inflammatory process that is often a mixture of neutrophils and macrophages with much lower numbers of other inflammatory cell types. Causes for these mixed processes include things such as foreign bodies be it plant material


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or keratin from a ruptured follicular cyst or epidermal inclusion or sebaceous cyst. Potential infectious agents such as many of the systemic fungi and low grade irritant bacteria such as members from the Actinomyceaceae family can also present with a mixed inflammatory disease. As mentioned above, neutrophils and macrophages typically predominate but reactive and normal appearing lymphocytes are commonly seen also. The macrophage population originates from the circulating monocytes but may be morphologically challenging to the novice cytologist. Macrophages represent a population of mono- or multinucleated cells with a wide range of morphologic appearances. They are generally round to slightly polyhedral cells and they range in size from 20 micrometers to over several hundred micrometers in diameter. Nuclei are often oval and eccentrically placed in the cells. Nuclear chromatin patterns are often open to lacy and there is moderate to abundant amounts of pale basophilic cytoplasm. Cytoplasmic vacuolization and/or evidenced of phagocytosed cells, cellular debris or particulate matter must be present to classify these cells as macrophages. If similarly sized cells (on the small end of the size range) with similar nuclei are observed without cytoplasmic vacuolization or phagocytosed material, these cells are identified as epithelioid cells. This latter population of cells is in the monocyte/macrophages family but plays more of a secretory role possibly helping control the inflammatory process through the release of various mediators of inflammation. These cells originally received the name epithelioid cells since their morphology is so similar to epithelial cells. As with the classification of neutrophilic inflammatory processes the decision to classify an inflammatory process mixed or chronic-active is based upon a relatively arbitrary number of mononuclear and polymorphonuclear inflammatory cells. If the number of neutrophils is between 50% and 70% of the total cellularity, most individuals will classify the process as mixed or chronic-active. As stated previously, think more about what each cell population is needed for rather than the specific subtyping of the inflammatory process itself. The macrophages represent either a need for removal of various debris or are required to handle a specific etiology such as a fungal agent. The macrophages are often termed the “garbage can cell” since it is their job to remove all the tissue debris and necrotic material from many inflammatory foci. If there is a prominent population of reactive lymphocytes in the inflammatory process then there most likely is a significant degree of at least localized antigenic stimulation. It is not specific for an infectious agent since other conditions including neoplastic disease also stimulate a localized immune response.

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MACROPHAGIC INFLAMMATION This category of inflammatory disease presents with a predominance of monocytes / macrophages. Generally one classifies a response as macrophagic if greater than 50% of the inflammatory cells seen fall in the category of mononuclear inflammatory cells. Stimuli for this type of inflammation consist of low-grade irritants like inert foreign material and several specific fungal etiologies such as Histoplasma capsulatum. In addition, certain bacteria (Mycobacterium sp) also present primarily with a macrophagic inflammatory response. Although many people think of the macrophage as a “chronic” inflammatory cell, significant macrophagic inflammation can occur “acutely” if the correct process such as tissue necrosis or etiologic agent such as Mycobacteria bacteria is present. A special subcategory of macrophagic inflammation exists, namely granulomatous inflammation. These responses present with a prominent population of epithelioid cells and potentially multinucleated giant cells.

LYMPHOCYTIC INFLAMMATION Pure or primary lymphocytic inflammation is uncommon; however, conditions such as plasmacytic gingivitis or pododermatitis as well as lymphoplasmacytic enteritis and rhinitis do occur. The response is relatively non-specific merely indicating localized chronic antigenic stimulation. A specific etiology is only rarely identified. The inflammatory response typically consists of a mixture of normal small lymphocytes, reactive lymphocytes, plasmacytoid lymphocytes and well-differentiated plasma cells. This heterogeneous mixture of lymphoid cellular elements in most cases helps the differentiation of lymphocytic inflammation and malignant lymphoma. Low to moderate numbers of this heterogeneous mixture of lymphocytes may be seen with any other type of inflammatory response (neutrophilic, eosinophilic, macrophagic or mixed inflammation) if there is some source of local antigenic stimulation.

Selected References Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Malattie infiammatorie: dalle basi alla citologia avanzata Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

L’identificazione della malattia infiammatoria primaria è relativamente semplice, dato che la maggior parte degli elementi flogistici osservati, con l’eccezione di quelli della famiglia dei monociti/macrofagi, si riscontra comunemente nel sangue periferico ed è relativamente facile da individuare. Dopo aver identificato il processo come infiammatorio, il tipo di elementi flogistici presenti indirizza verso la possibile causa sottostante. Spesso si osservano differenti quadri di distribuzione cellulare associati a determinate cause ed alterazioni morfologiche all’interno di alcuni dei tipi cellulari infiammatori stessi, che forniscono indicazioni sulla causa del processo. Bisogna sempre ricordare che l’identificazione di un’infiammazione non esclude l’eventualità di un processo neoplastico sottostante e bisogna sempre utilizzare segni clinici, segnalamento ed anamnesi per interpretare correttamente un campione citologico. Verranno illustrati alcuni dei differenti quadri infiammatori comunemente riscontrati in medicina veterinaria.

INFIAMMAZIONE NEUTROFILA Questa categoria rientra fra i tipi più comuni di infiammazione osservati in ambito veterinario. L’aspetto citologico è quello di un predominio della cellula infiammatoria acuta: il neutrofilo. Spesso, noi associamo questo riscontro ad un’eziologia batterica, che è una causa comune, ma ciò non significa che questi microrganismi siano l’unica eziologia possibile della flogosi neutrofila. È necessario prendere in considerazione una categoria generale di agenti fortemente irritanti quando si osserva una risposta principalmente neutrofila. Questa comprende anche cause come i composti chimici, quali quelli che si osservano in caso di accidentale iniezione perivascolare di anestetici endovenosi durante il processo di somministrazione. Anche la grave necrosi tissutale degli stadi iniziali può presentarsi con un processo infiammatorio principalmente neutrofilo. Oltre al mero numero di neutrofili che predominano in questo tipo di processo, la morfologia di questi casi può fornire indicazioni sull’eziologia della lesione. Benché la necrosi tissutale acuta possa causare una degenerazione neutrofila moderatamente grave, più comunemente questo riscontro citologico è associato ad un’eziologia batterica, come conseguenza diretta delle endotossine o esotossine prodotte dai microrganismi. Queste alterazioni degenerative variano da modificazioni molto lievi costituite da rigonfiamento nucleare e ialinizzazione del quadro cromatinico fino a gravi anomalie come la cariolisi e la carioressi. Questi ulti-

mi due riscontri indicano la morte improvvisa dei neutrofili. In associazione con tutte le alterazioni degenerative si osserva spesso la picnosi dei nuclei neutrofili. Se questa è presente da sola, è necessario preoccuparsi di sovrainterpretare il campione. Il reperto può semplicemente essere la prova di una lenta morte neutrofila associata all’invecchiamento delle cellule nel processo infiammatorio. Un’altra modificazione da invecchiamento, che non va confusa con la degenerazione, è l’ipersegmentazione. Questo è un riscontro comune in molti dei fluidi prelevati di routine o in vari essudati infiammatori. La maggior parte degli operatori associa questo quadro ad un semplice processo di invecchiamento del neutrofilo. Il numero assoluto delle cellule infiammatorie acute che occorre osservare per classificare un processo come “neutrofilo” è relativamente arbitrario. Deve essere presente un predominio di queste cellule e molti ritengono che si debba arrivare a valori superiori al 70% della cellularità totale costituita da neutrofili prima di poter formulare questa classificazione. Il resto delle cellule osservate è costituito generalmente da un miscela di monociti, macrofagi e linfociti in vari stadi di reattività. Possono anche essere presenti bassi numeri di mast cell, cellule epitelioidi e altri elementi infiammatori misti, perfino in un processo infiammatorio settico acuto con grave degenerazione neutrofila.

INFIAMMAZIONE EOSINOFILICA Una speciale sottocategoria dell’infiammazione attiva è quella eosinofilica. Dato il suo nome, ci si aspetta di vedere un gran numero di eosinofili. Questo tipo cellulare è utile per identificare la presenza di una componente da ipersensibilità nel processo infiammatorio; tuttavia, non è generalmente indicato per individuare un’eziologia specifica. Gli agenti parassitari presentano comunemente questo tipo di risposta, ma possono farlo anche le reazioni allergiche a vari allergeni non infettivi. Inoltre, si possono osservare degli infiltrati eosinofilici in presenza di mastocitomi e di altre condizioni neoplastiche come il linfoma maligno a cellule T e vari carcinomi.

INFIAMMAZIONE MISTA (CRONICA-ATTIVA) Come ci si potrebbe aspettare dal nome di questa categoria, si tratta di un processo infiammatorio di tipo misto, che spesso presenta una miscela di neutrofili e macrofagi, con un


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numero molto inferiore di altri tipi di cellule infiammatorie. Le cause di questi processi misti sono rappresentate da agenti come i corpi estranei, che si tratti di materiale di origine vegetale o cheratina derivante dalla rottura di una cisti follicolare o un’inclusione epidermica o una cisti sebacea. Anche i potenziali agenti infettanti, come molti dei miceti sistemici ed i batteri che provocano irritazioni di basso grado, come i membri della famiglia Actinomicetaceae, possono presentarsi con un quadro infiammatorio di tipo misto. Come già ricordato, di norma predominano neutrofili e macrofagi, ma si osservano anche comunemente linfociti reattivi e di aspetto normale. La popolazione dei macrofagi origina dai linfociti circolanti, ma può essere difficile da interpretare da un punto di vista morfologico da parte di un citologo alle prime armi. I macrofagi rappresentano una popolazione di cellule mono- o multinucleate con un’ampia gamma di aspetti morfologici. Sono generalmente tondeggianti o leggermente poliedrici ed hanno dimensioni variabili da 20 micron ad oltre parecchie centinaia di micron di diametro. I nuclei sono spesso ovali e posizionati in sede eccentrica all’interno della cellula. I quadri della cromatina nucleare sono spesso aperti o merlettati e si riscontra una quantità moderata o abbondante di pallido citoplasma basofilo. Per classificare queste cellule come macrofagi devono essere presenti una vacuolizzazione citoplasmatica e/o segni di cellule fagocitate, detriti cellulari o sostanza particolata. Se si osservano cellule di dimensioni simili (o al limite inferiore della gamma dimensionale) con nuclei analoghi, ma senza vacuolizzazione citoplasmatica o materiale fagocitato, questi elementi vengono identificati come cellule epitelioidi. Quest’ultima popolazione cellulare rientra nella famiglia dei monociti/macrofagi, ma svolge maggiormente un ruolo secretorio, arrivando a contribuire a controllare il processo infiammatorio, attraverso il rilascio di vari mediatori della flogosi. Queste cellule, in origine, hanno ricevuto il nome di epitelioidi perché la loro morfologia è molto simile a quella delle cellule epiteliali. Come nel caso della classificazione del processo infiammatorio neutrofilo, la decisione di distinguere una flogosi mista o cronica attiva si basa su un numero relativamente arbitrario di elementi infiammatori mononucleati e polimorfonucleati. Se il numero dei neutrofili è compreso fra il 50 ed il 70% della cellularità totale, la maggior parte degli operatori classifica il processo come di tipo misto o cronico attivo. Come già ricordato, bisogna pensare più alla popolazione cellulare necessaria che al sottotipo specifico del processo infiammatorio stesso. I macrofagi rappresentano una necessità per la rimozione dei vari detriti, oppure vengono richiesti per contrastare uno specifico agente eziologico, come un micete. Questi elementi vengono spesso indicati con il termine di “cellule secchio della spazzatura” dal momento che il loro compito è quello di rimuovere tutti i detriti cellulari ed i materiali necrotici da molti focolai infiammatori. Se nel processo infiammatorio si osserva una popolazione prominente di linfociti reattivi, con tutta probabilità è presente un grado significativo di stimolazione antigenica, come minimo localizzata. Non è specifica per un agente infettivo, dato che anche altre condizioni, come le

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affezioni neoplastiche, stimolano una risposta immunitaria localizzata.

INFIAMMAZIONE MACROFAGICA Questa categoria di flogosi si presenta con un predominio di monociti/macrofagi. Generalmente, si classifica una risposta come macrofagica se più del 50% degli elementi infiammatori osservati rientra nella categoria delle cellule mononucleate. Gli stimoli per questo tipo di infiammazione sono rappresentati da agenti irritanti di basso grado come i corpi estranei inerti e parecchie specifiche eziologie micotiche come Histoplasma capsulatum. Inoltre, anche certi batteri (Mycobacterium spp.) si presentano principalmente con una risposta infiammatoria macrofagica. Benché molti pensino che il macrofago sia una cellula da infiammazione “cronica”, una quota significativa della flogosi macrofagica si può verificare “in forma acuta” se è presente un processo di tipo adeguato, come una necrosi tissutale, o un agente eziologico come un Mycobacterium. Esiste una speciale sottocategoria dell’infiammazione macrofagica, detta flogosi granulomatosa. Queste risposte si presentano con una popolazione preminente di cellule epitelioidi e potenzialmente di elementi giganti multinucleati.

INFIAMMAZIONE LINFOCITARIA L’infiammazione linfocitaria pura o primaria è poco comune; tuttavia, si verificano condizioni come la gengivite o la pododermatite linfoplasmocitaria nonché come l’enterite e la rinite linfoplasmocitaria. La risposta è relativamente aspecifica ed indica puramente una stimolazione antigenica cronica localizzata. Solo raramente viene identificata un’eziologia specifica. La risposta infiammatoria è costituita tipicamente da una miscela di piccoli linfociti normali, linfociti reattivi, linfociti plasmocitoidi e plasmacellule ben differenziate. Questa miscela eterogenea di elementi cellulari linfoidi nella maggior parte dei casi contribuisce alla differenziazione dall’infiammazione linfocitaria e del linfoma maligno. Un numero basso o moderato di questa miscela eterogenea di linfociti si può osservare con qualsiasi altro tipo di risposta infiammatoria (neutrofila, eosinofilica, macrofagica o mista) in presenza di una qualche fonte di stimolazione antigenica locale.

Letture consigliate Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Basic to the advanced diagnostic cytology: Neoplastic disease Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

A group of general, nuclear and cytoplasmic cytologic features identified microscopically can generally aid in the characterization of malignant neoplastic conditions. The general and nuclear criteria are considered to be stronger than other criteria. There are no true minimum numbers of criteria that must be present to accurately identify a malignant process. There are some malignant processes with minimal numbers of morphologic criteria and some benign processes that could exhibit multiple criteria. The veterinarian must utilize the cytologic findings in combination with clinical presentation to make an accurate assessment. The various cytologic criteria of malignancy, which are of assistance to the veterinarian, are identified below.

GENERAL CRITERIA OF MALIGNANCY Cellularity: In general, samples with high cellularity and no significant inflammatory component, particularly body cavity effusions, prove to be malignant. Possibly because of decreased organization and cellular adhesions, malignant cells more freely exfoliate whether naturally as in a body effusion or artifactually as in a fine needle aspirate. This general criterion is only appropriate for epithelial and mesenchymal tissues; discrete cell populations such as lymphoid tissue often yield high numbers of cells with routine cytologic collections. Pleomorphism: Most normal tissues have uniform populations of cells regarding cell size and shape. In malignant neoplastic conditions, this uniformity is often lost and in the more anaplastic pleomorphism may be so severe that accurate identification of tissue type may be impossible. Location: The identification of even well differentiated epithelial tissue within lymphoid tissue (regional metastasis), is diagnostic of malignant neoplasia. Cytologic evaluation of local lymph nodes in a suspect neoplastic condition is always highly recommended. This criterion can be applied to other tissue types also. For example, the identification of well differentiated squamous epithelial cells with very few other cytologic criteria of malignancy in a deep aspirate from a lytic mandibular bone lesion would be highly diagnostic for squamous cell carcinoma.

NUCLEAR CRITERIA OF MALIGNANCY Nuclear Size: In most normal, hyperplastic and benign neoplastic tissues, nuclear size is relatively uniform. Within

malignant neoplastic tissues, anisokaryosis can be quite prominent. If nuclei of suspect malignant cells vary greater than 1.5 - 2 times the size of most other tissue cells of the same type, malignancy can be highly suspected. Nuclear Shape: Nuclear shape is generally preserved within non-malignant tissues. If round nuclei are found within the normal tissue population, the majority of the benign cell population will have rounded nuclei also. In a malignant neoplastic cell population, there may be a mixture of round to ovoid and possibly slightly or deeply indented or clefted nuclei. On occasion, bizarre shaped nuclei may be found. Nuclear/Cytoplasmic Ratios: A uniform nuclear/cytoplasmic ratio is found within benign tissues. Variations in this ratio between cells of a monotonous population of noninflammatory cells are highly supportive of malignancy in most tissue types. Nucleoli: Many normal, hyperplastic and benign neoplastic tissues have cells with single and occasionally multiple nucleoli and in most cases, these nucleoli are small, round and uniform in size within that particular tissue cell population. Many malignant neoplastic cell populations have multiple, prominent nucleoli with possible variable sizes and shapes between cells and within the nucleus of the same cell. When marked variation in nucleoli is identified, this is generally a strong criterion of malignancy. Nuclear Chromatin Patterns: Uniformity in nuclear chromatin patterns is the rule for benign cells. These patterns may vary from finely stippled, to coarse or granular in nature. In malignant neoplastic tissue cells, abnormal amounts of nuclear chromatin (aneuploidy) will be evident by the finding of larger numbers of cells with increased nuclear density and the density of nuclear chromatin staining will be more variable than the few cells preparing for division in benign tissue. In many cases, abnormal clumping of nuclear chromatin will be found in malignant cell populations. This is a strong criterion of malignancy. Nuclear Molding: With normal or benign proliferative tissue, there is organization with orderly proliferation due to contact inhibition of proliferation resulting in no distortion of adjacent cells. Loss of contact inhibition and abnormal proliferation of malignant neoplastic tissue is often seen. Cytologically, this can be demonstrated by the finding of nuclear molding where neoplastic cells in a closely packed cluster compress and distort the adjacent cells and their nuclei. In many cases, the nucleus being deformed is indented by the compression process.


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Mitotic Figures: Many neoplastic conditions have high mitotic rates and this may in fact be valuable in grading a neoplastic process; however, the finding of a high mitotic index is not a good criterion of malignancy; this merely supports a high rate of cellular division. However, the finding of abnormal mitotic figures is a strong feature of malignant neoplastic tissue. Multiple Nuclei: The finding of multiple nuclei within a single cell is not supportive of malignancy in few cell populations; however, the finding of marked variation in nuclear size and the presence of micronuclei within a multinucleated cell are very supportive of malignancy and may be evidence of abnormal division.

CYTOPLASMIC CRITERIA OF MALIGNANCY Cytoplasmic Basophilia: Immature and highly activated cells often have relatively deeply blue cytoplasm due to the increased relative amounts of cytoplasmic RNA compared to more differentiated cells or cell populations not involved with significant protein synthesis. In many malignant neoplastic cell populations, there is abnormal maturation of the cytoplasm and in many cases dysynchronous maturation between cytoplasm and nucleus resulting in immature appearing cytoplasm with high amounts of RNA giving the cytoplasm a deep blue staining pattern. Since normal cells can have deeply blue cytoplasm, this feature is not a relatively strong criterion of malignancy. Cytoplasmic Vacuolization: Many cells of different tissue types may have cytoplasmic vacuoles for a variety of reasons; therefore, this is a poor morphologic criteria of malignancy. However, with some malignant glandular tumors, single, large, clear cytoplasmic vacuoles causing compression of the nucleus peripherally may be found; the cells with these types of vacuoles are classified as signet ring cells. If present in high numbers, the finding of signet ring cells may be additional cytomorphologic support for malignancy. Cannibalism: Phagocytosis of cells of the same tissue type, cannibalism, is a process generally restricted to macrophages and possibly neutrophils regarding non-malignant cell populations. With some malignant cell populations, cannibalism could be quite extensive and can be used as a criterion of malignancy.

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TISSUE TYPE IDENTIFICATION After identification of a malignant neoplastic process, the next step in characterization is identifying the primary tissue of origin and morphologic features can help with this process. The primary features of epithelial tissue origin include the presence of generally round cells with round nuclei. These cells will have cell-cell connections and should present in cohesive groups of varying sizes. The primary features of mesenchymal tissue origin include the finding of individualized elongate, stellate, polygonal or spindle shaped cells with slightly oval nuclei. Extracellular proteinaceous material may be present. Discrete round cell neoplasms are typically characterized as individualized round mononuclear cells with round to slightly indented nuclei. This neoplasm group includes lymphoid tumors (lymphoma, plasma cell tumor, etc.), histiocytic tumors, mast cell tumor and TVT. Many of these round cell tumors will have distinctive cytomorphologic features such as cytoplasmic granules that aid in their identification. The potential of mixed neoplastic and inflammatory processes exist and these will present with the most difficulty for accurate assessment. When there is a significant inflammatory process, the potential for marked and often dysplastic hyperplasia of normal tissue elements (epithelial hyperplasia, fibroplasia / granulation tissue, etc.). Morphologic changes within these markedly hyperplastic cells may mimic many of the cytomorphologic features of malignancy; therefore, when an inflammatory and non-inflammatory process is identified, caution is strongly recommended to prevent over interpretation of the specimen. Histologic confirmation of any suspected malignant process should be considered when this type of process is encountered.

Selected References Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Malattie neoplastiche: dalle basi alla citologia avanzata Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

L’identificazione microscopica di un gruppo di caratteristiche citologiche generali, sia nucleari che citoplasmatiche, di norma può contribuire alla caratterizzazione delle condizioni neoplastiche maligne. I criteri generali e nucleari sono considerati più validi degli altri. Non esiste alcun autentico numero minimo di criteri che debbano essere presenti per poter identificare accuratamente un processo maligno. Esistono alcuni processi maligni con pochissimi criteri morfologici, mentre ve ne sono altri, benigni, che possono mostrarne molteplici. Il veterinario deve utilizzare i riscontri citologici in associazione con la presentazione clinica per giungere a formulare una diagnosi accurata. Verranno illustrati i vari criteri di malignità che possono risultare utili in queste occasioni.

CRITERI GENERALI DI MALIGNITÀ Cellularità: in generale, i campioni con un’elevata cellularità e senza alcuna componente infiammatoria significativa, in particolare versamenti nelle cavità corporee, si dimostrano maligni. Eventualmente, a causa della diminuita organizzazione ed adesione cellulare le cellule maligne possono esfoliare più liberamente sia per cause naturali, passando in un versamento corporeo, che in seguito ad un artefatto, come nell’aspirazione con ago sottile. Questo criterio generale è appropriato soltanto per i tessuti epiteliali e mesenchimali; le popolazioni a cellule isolate come il tessuto linfoide spesso forniscono un numero elevato di cellule nei campioni citologici di routine. Pleomorfismo: la maggior parte dei tessuti normali presenta popolazioni di cellule omogenee per forma e dimensioni. Nelle condizioni neoplastiche maligne, questa uniformità va spesso perduta ed è il pleomorfismo più anaplastico che può essere così grave da rendere impossibile l’accurata identificazione del tipo di tessuto. Localizzazione: L’identificazione di un tessuto epiteliale ancora ben differenziato all’interno del tessuto linfoide (metastasi regionale) ha valore diagnostico per la neoplasia maligna. In una sospetta condizione neoplastica è sempre altamente raccomandata la valutazione citologica dei linfonodi locali. Questo criterio si può applicare ad altri tipi tissutali. Ad esempio, l’identificazione di cellule epiteliali squamose ben differenziate con pochissimi altri criteri citologici di malignità in un aspirato profondo ottenuto da una lesione litica dell’osso mandibolare potrebbe risultare altamente diagnostica per il carcinoma squamocellulare.

CRITERI NUCLEARI DI MALIGNITÀ Dimensioni del nucleo: Nella maggior parte dei tessuti neoplastici normali, iperplastici e benigni, le dimensioni nucleari sono relativamente uniformi. Nei tessuti neoplastici maligni, l’anisocariosi può essere molto accentuata. Se i nuclei di cellule con presunta malignità variano di più di 1,5-2 volte della maggior parte degli altri elementi tissutali dello stesso tipo, si può sospettare fortemente un processo maligno. Forma del nucleo: La forma del nucleo è generalmente conservata nei tessuti non maligni. Se si riscontrano nuclei tondeggianti all’interno della popolazione tissutale normale, anche la maggior parte degli elementi benigni presenterà la stessa caratteristica. In una popolazione cellulare neoplastica maligna si può invece riscontrare una mescolanza di nuclei tondeggianti o ovali ed eventualmente leggermente o profondamente indentati o fessurati. Occasionalmente, si possono trovare nuclei di forma bizzarra. Rapporto nucleo/citoplasmatico: Nei tessuti benigni, si riscontra un rapporto nucleo citoplasmatico uniforme. Nella maggior parte dei tipi tissutali, variazioni di questo valore fra le cellule di una popolazione monotona di elementi non infiammatori sono altamente indicative della malignità. Nucleoli: Molti tessuti normali, iperplastici e neoplastici benigni presentano cellule con nucleoli singoli ed occasionalmente multipli e nella maggior parte dei casi questi nucleoli sono piccoli, tondeggianti e di dimensioni uniformi all’interno di quella particolare linea di cellule tissutali. Molte popolazioni neoplastiche maligne presentano nucleoli multipli e prominenti, con possibili variazioni di dimensioni e di forma da una cellula all’altra ed all’interno del nucleo della stessa cellula. Quando si identifica una marcata variazione dei nucleoli, questo è generalmente un forte criterio di malignità. Quadri di cromatina nucleare: L’uniformità dei quadri della cromatina nucleare è la regola delle cellule benigne. Questi quadri possono variare da finemente puntinati a grossolani o granulari. Nelle cellule tissutali neoplastiche maligne, la presenza di quantità anormali di cromatina nucleare (aneuploidia) si manifesterà con un aumento numerico degli elementi con un’aumentata densità nucleare e la colorazione cromatinica sarà più variabile rispetto a quella che si riscontra nel caso di poche cellule che si preparano per la divisione nel tessuto benigno. In molti casi, nelle popolazioni cellulari maligne si troveranno ammassi anormali di cromatina nucleare. Questo è un forte criterio di malignità.


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Modellamento nucleare: Nel tessuto proliferativo normale o benigno si riscontra un’organizzazione caratterizzata da una proliferazione ordinata, dovuta all’inibizione da contatto della proliferazione stessa, che esita nella mancanza di distorsione delle cellule adiacenti. Spesso si osserva la perdita di questa inibizione accompagnata da una proliferazione anormale del tessuto neoplastico maligno. Citologicamente, questo fenomeno può essere dimostrato dal riscontro del modellamento nucleare, dove le cellule neoplastiche in un grappolo strettamente addossate le une alle altre comprimono e distorcono quelle adiacenti ed i loro nuclei. In molti casi, il nucleo che viene deformato è indentato dal processo di compressione. Figure mitotiche: Molte condizioni neoplastiche presentano elevate percentuali mitotiche e questo può in realtà essere utile per graduare un processo tumorale; tuttavia, il riscontro di un elevato indice mitotico non è un buon criterio di malignità; non fa altro che sostenere un elevato tasso di divisione cellulare. Tuttavia, la presenza di figure mitotiche anormali è una valida caratteristica di un tessuto neoplastico maligno. Nuclei multipli: L’identificazione di nuclei multipli all’interno di una singola cellula non depone a favore della malignità in una popolazione costituita da pochi elementi; invece, l’esistenza di una marcata variazione delle dimensioni nucleari e la presenza di micronuclei all’interno di una cellula multinucleata sono fortemente indicativi di malignità e possono costituire una prova di divisione anormale.

CRITERI CITOPLASMATICI DI MALIGNITÀ Basofilia del citoplasma: Le cellule immature ed altamente attivate spesso presentano un citoplasma dalla colorazione blu relativamente intensa, dovuta all’aumento della quantità relativa di RNA citoplasmatico in confronto a elementi più differenziati o popolazioni cellulari non coinvolte da una significativa sintesi proteica. In molte popolazioni cellulari neoplastiche maligne, si riscontra una maturazione anormale del citoplasma ed in molti casi una maturazione non sincrona di citoplasma e nucleo, che fa sì che il primo abbia un aspetto immaturo, con elevate quantità di RNA che gli conferiscono un quadro tintoriale blu intenso. Dal momento che le cellule normali possono presentare un citoplasma intensamente blu, questa caratteristica non è un criterio relativamente forte di malignità. Vacuolizzazione citoplasmatica: Molte cellule di differenti tipi tissutali possono presentare vacuoli citoplasmatici per una varietà di ragioni; di conseguenza, questo è uno scarso criterio morfologico di malignità. Tuttavia, nel caso di alcuni tumori ghiandolari maligni, si possono riscontrare grandi vacuoli citoplasmatici singoli e chiari, che provocano la compressione del nucleo che viene spinto a livello periferico. Le cellule con questo tipo di vacuoli vengono definite “ad anello con castone”. Se presenti in numero elevato, il loro riscontro può essere un ulteriore sostegno citomorfologico della malignità.

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Cannibalismo: La fagocitosi di elementi dello stesso tipo tissutale, cioè il cannibalismo, è un processo generalmente limitato ai macrofagi ed eventualmente ai neutrofili, che riguarda le popolazioni cellulari non maligne. Nel caso di alcune di quelle maligne, il cannibalismo potrebbe essere molto esteso e potrebbe venire utilizzato come criterio di malignità.

IDENTIFICAZIONE DEL TIPO CELLULARE Dopo aver identificato un processo neoplastico maligno, il passo successivo nella caratterizzazione consiste nell’individuare il tessuto primario di origine; nell’ambito di questo processo possono risultare utili gli aspetti morfologici. Le caratteristiche primarie del tessuto di origine epiteliale sono date dalla presenza di cellule generalmente rotonde con nuclei tondeggianti. Questi elementi mostrano delle connessioni da cellula a cellula e dovrebbero comparire in gruppi coesi di dimensioni variabili. Le caratteristiche primarie dell’origine del tessuto mesenchimale sono rappresentate dal riscontro di cellule individualmente allungate, stellate, poligonali o fusiformi con nuclei leggermente ovali. Si può osservare un materiale proteico esterno. Le neoplasie a cellule rotonde isolate sono tipicamente caratterizzate da singoli elementi mononucleari di forma circolare, con nuclei tondeggianti o leggermente indentati. Questo gruppo comprende i tumori linfoidi (linfoma, plasmocitoma, ecc..) e quelli istiocitari (mastocitoma e tumore venereo trasmissibile [TVT]). Molte di queste neoplasie a cellule rotonde presentano caratteristiche citomorfologiche distintive, quali granuli citoplasmatici, che contribuiscono alla loro identificazione. È possibile che si verifichino processi di tipo misto, neoplastico ed infiammatorio: sono quelli più difficili da valutare accuratamente. Quando è presente un processo infiammatorio significativo, si può avere una marcata e spesso displasica iperplasia degli elementi del tessuto normale (iperplasia epiteliale, fibroplasia/ tessuto di granulazione, ecc..). Le modificazioni morfologiche di queste cellule marcatamente iperplastiche possono simulare molte delle caratteristiche citomorfologiche della malignità; di conseguenza, quando si identifica un processo infiammatorio e non infiammatorio, si raccomanda di operare con molta cautela per evitare di interpretare erroneamente il campione. Quando si incontra questo tipo di processo, si deve prendere in considerazione il ricorso alla conferma istologica di qualsiasi presunto processo maligno.

Letture consigliate Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Thoracic and Abdominal Fluid Evaluation: Immediate essential information on critical and non-critical patients Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Thoracic and abdominal fluid accumulation in animals can be associated with a chronic gradual or acute critical presentation. Characterization of the fluid becomes an essential component of the patient work-up to both help identify the mechanism of formation of the fluid and to guide therapeutic intervention. There are several commonly used categories for fluid characterization including transudate, modified transudate and exudate and there are general guidelines for these characterizations and the differential for the mechanism of these fluid formations are somewhat different and therefore provide some direction in limiting the clinical differential but there is significant overlapping of characteristics and similar mechanisms can result in different types of fluid formation, so this categorization has limited value. The categorization is primarily related to gross, chemical (primarily total protein content) and quantitative cytologic features; however, the microscopic characterization of the fluid regarding the types of cells present are an essential component to help identify the underlying cause of the fluid formation itself. Even if no protein content or quantitative cytologic assessment is performed, the microscopic evaluation of the types of cells present is something that can provide immediate information about the fluid and is the most important component of the fluid assessment. The different categories of fluid formation including what is considered normal for the dog and cat are characterized below. Normal Findings: Pleural and peritoneal fluid collection is difficult in the normal dog and cat because of the limited volume present and the trapping of this fluid between thoracic and abdominal viscera. Protein content is typically much less than 30 g/L and the total cell count is generally less than 500x106/L. Cells present in normal pleural, pericardial, and peritoneal fluids include low numbers of mesothelial cells and occasionally seen inflammatory cells. Mesothelial cells are present in small clusters or as individuals. If knocked loose from the cavity lining during the collection process, mesothelial cells resemble squamous cells with a low N/C ratio and abundant faintly basophilic cytoplasm. Mesothelial cells that have naturally exfoliated into the fluid are rounded up and are quite basophilic (“dark” mesothelial cells). They measure between 25 and 35µ in diameter. Nuclei are centrally located, round, and uniformly granular. Cytoplasm is abundant. The most striking characteristic of these cells is the presence of an eosinophilic peripheral brush border or “skirt” if they have exfoliated recently.

The inflammatory cells present in normal fluids have the morphology of normal peripheral blood leukocytes. The predominant leukocyte seen varies with the species. In dogs and horses, neutrophils are prevalent. In cats and cattle, lymphocytes predominate. Transudate: Transudates are defined as excessive accumulations of fluid having normal characteristics. Transudates therefore have low total protein (less than 30 g/L) and low nucleated cell counts (less than 500 nucleated cells x106/L) for the dog and cat. These fluids are commonly the result of venous stasis and less frequently from hypoalbuminemia and lymphatic obstruction (congestive heart failure, liver failure, the nephrotic syndrome, and in some cases of neoplasia. It is emphasized that pleural and peritoneal effusions due solely to hypoalbuminemia will only occur when serum albumin levels fall below 10 g/L. Transudative fluids are quite clear at the time of collection. While most transudates are nonspecific cytologically, those which are caused by neoplasms may contain malignant cells which allow specific diagnosis. To maximize the likelihood of finding such abnormal cells, concentrated cellular preparations should be evaluated. Modified transudates: The accumulation of transudative fluid in one of the body cavities causes increased pressure which is irritating to the mesothelial cells resulting in proliferation and sloughing into the effusion. With time these cells die and release chemoattractants drawing phagocytes into the effusion. The result is a mild increase in both total protein (30-50 g/L) and nucleated cell count (slightly more than 500x106/L). When this occurs, the fluid is known as a modified transudate. Thus, modified transudates are nothing more than transudates which have been present long enough to illicit a mild inflammatory reaction. Eventually, characteristics of the fluid may change enough so that the fluid is classified as an exudate. The microscopic evaluation of the fluid generally provides critical information for correct interpretation. Exudates: Exudates are defined as fluid accumulations which are abnormally high in total solids and/or nucleated cell count. Total proteins range between 30 and 70 g/L and total cell counts may be as high as 100,000x106/L. The vast majority of exudates are caused by inflammation; however, the common denominator of exudate formation is vascular damage. Consequently, both hemorrhage and chylous effusions are classified as exudates on the basis of physical characteristics and pathogenesis.


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Inflammatory exudates are classified like classic cytologic sample characterization. Because of local irritation, some degree of reactive mesothelial cell hyperplasia is present. Most inflammatory effusions are cytologically nonspecific in terms of etiologic diagnosis. Again, classic cytologic characterization of a sample is used to help either identify an underlying infectious agent or direct the veterinarian to additional diagnostic procedures. Several fluid formations that do not typically follow this classification system and should be considered separately are discussed below. Feline infectious peritonitis (FIP): FIP is unique among most exudates in that the fluid which accumulates is of low cellularity. Total protein content is typically extremely high, which is a reflection of a similar elevation in serum protein (polyclonal gammopathy). The cellular response is most commonly neutrophilic in character; nondegenerate neutrophils predominate. Low to sometimes significant numbers of normal small lymphocytes and macrophages may be seen also. Bile pleuritis/peritonitis: Because bile is a very irritative substance, its presence very quickly elicits an inflammatory response. The cellular response is mixed with many neutrophils associated with the acute irritant but with a significant influx of macropahges present for removal of the foreign material and degenerating cells. Bile is seen as greenish to black granular material scattered in the slide background and in the cytoplasm of reactive mesothelial cells and macrophages. Reactively mesothelial hyperplasia is a common finding with these effusions. Parasitic effusions: As expected, parasitic infections are often characterized by eosinophilic exudates. In dogs the most common such effusion is the pleural effusion associated with heartworm disease. It should be emphasized that not all cases of parasitic effusion are characterized by eosinophilic exudates; in many cases the exudate is non-specific. A small number of non-parasitic infections can result in eosinophilic peritoneal or pleural effusions also. For example, we have seen such responses in association with systemic microcytosis in dogs, eosinophilic pneumonitis in cats and a variety of neoplastic conditions including lymphoproliferative disease and various carcinomas in a variety of species. Chylous effusions: Chylous effusions are the result of leakage of lymph into the body cavity and may involve either the pleural or peritoneal space. These fluids are often described as opaque milky fluids; however, it should be

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emphasized that depending on the lipid content and longevity of the fluid, they may be clear and colorless. Consistent characteristics include the finding of a high protein concentration (35-45 g/L) but relatively low cellularity. Cytologically, they are associated with significant numbers of normal appearing small lymphocytes but since the lipid is relatively irritating rather significant numbers (and potentially predominating numbers) of mature nondegenerate neutrophils as well as significant numbers of hyperplastic mesothelial cells can be present It is important to note that in the cat, cardiac disease results in pleural effusions which are indistinguishable from chylothorax. The mechanisms behind these effusions have not been clarified; however, it is well established that heart failure causes venous and lymphatic stasis with increases pressure. In the cat it appears that these circumstances predispose to lymphatic leakage and result in a secondary chylous effusion. Hemorrhagic effusions: True hemorrhagic exudates can occur in any of the major body cavities. Grossly, these effusions are red to serosanguinous depending upon the age of the exudate and the extent of the hemorrhage. Physical evaluation reveals a protein level reflective of but somewhat less than that of peripheral blood. Both nucleated cell counts and red blood cell counts are elevated. These fluids contain predominantly red blood cells with lesser numbers of nucleated cells. The most significant indicator of true hemorrhage is the presence of activated macrophages containing phagocytosed red cells or hemosiderin. True hemorrhagic exudates are devoid of platelets but they are commonly observed in contaminated samples. Neoplastic effusions: A variety of primary and secondary neoplastic processes involving the thoracic and peritoneal cavities can be seen in the dog and cat and clearly the microscopic identification of these neoplastic cells become diagnostic. The character of the fluid related to protein content and total cell count is dramatically variable.

Selected References Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Valutazione dei versamenti addominali ed toracici: informazioni essenziali immediate in pazienti critici e non Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

L’accumulo di fluidi a livello toracico ed addominale negli animali può essere associato ad un quadro cronico e graduale oppure acuto e critico. La caratterizzazione del liquido diviene una componente essenziale della valutazione diagnostica del paziente, sia perché contribuisce ad identificare il meccanismo di formazione del versamento che per guidare l’intervento terapeutico. Esistono e vengono comunemente utilizzate parecchie categorie di classificazione dei fluidi, distinguendo trasudati, trasudati modificati ed essudati; queste suddivisioni vengono effettuate sulla base di linee guida generali che tengono conto del fatto che i meccanismi di formazione dei fluidi sono abbastanza differenti e, di conseguenza, forniscono una certa indicazione per ridurre le possibili diagnosi differenziali dal punto di vista clinico; tuttavia, esiste una significativa sovrapposizione delle caratteristiche e meccanismi simili possono esitare in differenti tipi di formazione dei fluidi, per cui questa classificazione ha valore limitato. La distinzione in categorie è principalmente correlata ai riscontri macroscopici e chimici (principalmente, il contenuto di proteine totali) ed alla citologia quantitativa; tuttavia, la caratterizzazione microscopica del fluido per quanto riguarda il tipo di cellule presenti è una componente essenziale che risulta utile per identificare la causa sottostante della formazione stessa del fluido. Anche se non si esegue alcuna valutazione del contenuto proteico o della citologia quantitativa, l’esame al microscopio dei tipi di cellule presenti è qualcosa che può fornire informazioni immediate sul fluido ed è la componente più importante della valutazione di questi liquidi. Verranno elencate le differenti categorie di formazione dei fluidi, unitamente ai reperti considerati normali nel cane e nel gatto. Riscontri normali: il prelievo del liquido pleurico e peritoneale nei cani e nei gatti normali è difficile a causa dello scarso volume presente e dell’intrappolamento del fluido fra i visceri toracici ed addominali. Il contenuto proteico è di norma molto inferiore a 30 g/l ed il conteggio cellulare totale è generalmente al di sotto di 550 x 106/l. Il quadro citologico riscontrabile nei fluidi pleurici, pericardici e peritoneali normali è rappresentato da un basso numero di cellule mesoteliali e, occasionalmente, da elementi infiammatori. Le cellule mesoteliali sono presenti in piccoli grappoli oppure singolarmente. Quando vengono distaccati dal rivestimento cavitario durante il procedimento di raccolta, questi elementi somigliano alle cellule squamose con un basso rapporto nucleo/citoplasmatico ed un abbondante citoplasma debolmente basofilo. Le cellule mesoteliali che sono passate nel fluido per esfoliazione naturale sono tondeggianti e

fortemente basofile (cellule mesoteliali “scure”). Misurano da 25 a 35 μ di diametro. I nuclei sono localizzati in posizione centrale, tondeggianti ed uniformemente granulari. Il citoplasma è abbondante. La caratteristica maggiormente distintiva di queste cellule è la presenza di un orletto a spazzola eosinofilo o “gonna” se sono state esfoliate di recente. Gli elementi infiammatori che si riscontrano nei fluidi normali hanno la morfologia ordinaria dei leucociti del sangue periferico. Il leucocita predominante osservato varia in funzione della specie animale. Nel cane e nel cavallo prevalgono i neutrofili. Nel gatto e nel bovino, i linfociti. Trasudato: I trasudati si definiscono come accumuli eccessivi di fluidi con caratteristiche normali. Di conseguenza, sia nel cane che nel gatto presentano un basso valore di proteine totali (inferiore a 30 g/l) e di cellule nucleate (inferiore a 500 x 106/l). Questi fluidi sono dovuti comunemente ad una stasi venosa e, meno frequentemente, ad ipoalbuminemia ed ostruzione linfatica (insufficienza cardiaca congestizia, insufficienza epatica, sindrome nefrosica ed alcuni casi di neoplasia). Va sottolineato che i versamenti pleurici e peritoneali dovuti unicamente all’ipoalbuminemia si riscontrano soltanto quando i livelli di albumina sierica cadono al di sotto di 10 g/l. I trasudati sono molto limpidi al momento del prelievo. La maggior parte di essi presenta caratteristiche aspecifiche del punto di vista citologico, ma quelli che vengono causati da neoplasie possono contenere cellule maligne che consentono una diagnosi specifica. Per massimizzare la probabilità di trovare queste cellule anormali, si devono valutare preparati cellulari concentrati. Trasudati modificati: l’accumulo di fluidi trasudatizi in una delle cavità corporee provoca un aumento della pressione che irrita gli elementi mesoteliali, con conseguente proliferazione e distacco con passaggio nel liquido di versamento. Col tempo, queste cellule muoiono e rilasciano sostanze chemioattrattrici che attirano i fagociti nel versamento. Il risultato è un lieve aumento sia delle proteine totali (30-50 g/l) che delle cellule nucleate (leggermente superiori a 500 x 106/l). Quando ciò avviene, il fluido prende il nome di trasudato modificato. Quindi, i trasudati modificati non sono nient’altro che trasudati che sono presenti da abbastanza tempo da aver suscitato una lieve reazione infiammatoria. Infine, le caratteristiche del fluido possono cambiare così tanto che il liquido viene classificato come essudato. La sua valutazione microscopica generalmente fornisce informazioni di importanza critica per una corretta interpretazione.


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Essudati: gli essudati si definiscono come accumuli di liquidi che presentano livelli abnormemente elevati di solidi totali e/o cellule nucleate. Le proteine totali variano tra 30 e 70 g/l e le cellule totali possono arrivare fino a 100.000 x 106/l. La grande maggioranza degli essudati è causata da processi infiammatori; tuttavia, il denominatore comune della loro formazione è il danno vascolare. Di conseguenza, sia i versamenti emorragici che quelli chilosi sono classificati come essudati sulla base delle caratteristiche fisiche e della patogenesi. Gli essudati infiammatori sono distinti in base alla caratterizzazione del campione citologico classico. A causa dell’irritazione locale, è presente un certo grado di iperplasia reattiva delle cellule mesoteliali. La maggior parte dei versamenti infiammatori presenta caratteristiche citologiche aspecifiche ai fini della diagnosi eziologica. Anche in questo caso, si utilizza la classica caratterizzazione citologica di un campione per contribuire ad identificare un agente infettivo sottostante o orientare il veterinario verso ulteriori procedure diagnostiche. Verranno illustrate diverse formazioni di fluidi che non seguono tipicamente questo sistema di classificazione e devono essere considerati a parte. Peritonite infettiva felina (FIP): la FIP presenta caratteristiche esclusive fra la maggior parte degli essudati, dal momento che il liquido che si accumula ha una cellularità bassa. Il contenuto proteico totale di norma è estremamente elevato, il che riflette un analogo innalzamento delle proteine sieriche (gammopatia policlonale). La risposta cellulare nella maggior parte dei casi è caratterizzata dai neutrofili; fra questi, predominano quelli non degenerati. Si possono osservare anche numeri bassi o talvolta significativi di piccoli linfociti normali e macrofagi. Pleurite/peritonite biliare: Poiché la bile è una sostanza molto irritante, la sua presenza suscita molto rapidamente una risposta infiammatoria. Tale risposta cellulare è di tipo misto, con molti neutrofili associati all’agente irritante acuto, ma con un significativo afflusso di macrofagi che intervengono per rimuovere il materiale estraneo e le cellule in via di degenerazione. La bile si osserva sotto forma di un materiale verdastro o nero diffuso sullo sfondo del vetrino e nel citoplasma dei macrofagi e degli elementi mesoteliali reattivi. L’iperplasia mesoteliale reattiva è un riscontro comune in questi versamenti. Versamento parassitario: Come prevedibile, le infestazioni parassitarie sono spesso caratterizzate da essudati eosinofilici. Nel cane, il più comune versamento di questo tipo è quello pleurico associato alla filariosi cardiopolmonare. Va sottolineato che non tutti i casi di versamento parassitario sono contraddistinti da essudati eosinofilici; in molti casi, il quadro è aspecifico. Anche un piccolo numero di infezioni non parassitarie può esitare in versamenti peritoneali o pleurici eosinofilici. Ad esempio, abbiamo osservato risposte di questo tipo in associazione con la microcitosi sistemica nel cane, la polmonite eosinofilica nel gatto ed una varietà di condizioni neoplastiche come le malattie linfoproliferative e vari tipi di carcinoma in una gran varietà di specie animali.

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Versamenti chilosi: I versamenti chilosi sono la conseguenza della fuoriuscita della linfa nella cavità corporea e possono colpire sia lo spazio pleurico che quello peritoneale. Questi fluidi vengono spesso descritti come opachi e lattiginosi; tuttavia, va sottolineato che a seconda del loro contenuto lipidico e della durata del periodo di tempo da cui sono presenti, possono essere limpidi ed incolori. Le caratteristiche costanti sono rappresentate dal riscontro di elevate concentrazioni di proteine (35-45 g/l), ma con una cellularità relativamente bassa. Dal punto di vista citologico, si rileva un’associazione con un numero significativo di piccoli linfociti di aspetto normale, ma, dal momento che i lipidi sono relativamente irritanti, possono essere presenti in quantità abbastanza significative (e potenzialmente predominanti) anche dei neutrofili maturi non degenerati nonché, in misura significativa, delle cellule mesoteliali iperplastiche. È importante notare che nel gatto la cardiopatia esita in versamenti pleurici indistinguibili dal chilotorace. I meccanismi che stanno alla base di questi versamenti non sono stati riferiti; tuttavia, è ben accertato che l’insufficienza cardiaca provoca una stasi venosa e linfatica con aumento della pressione. Nel gatto, sembra che queste circostanze predispongano alla fuoriuscita della linfa ed esitino in un versamento chiloso secondario. Versamenti emorragici: Si possono avere autentici versamenti emorragici in ognuna delle principali cavità corporee. Macroscopicamente, questi versamenti si presentano di colore rosso o sieroematico a seconda dell’età dell’essudato e dell’entità dell’emorragia. La valutazione fisica rivela un livello di proteine che riflette quello del sangue periferico, pur essendo in qualche modo inferiore. Sia il conteggio delle cellule nucleate che quello degli eritrociti risultano aumentati. Questi fluidi contengono principalmente eritrociti con numeri minori di cellule nucleate. L’indicatore più significativo dell’emorragia vera è la presenza di macrofagi attivati che contengono eritrociti fagocitati o emosiderina. Gli autentici essudati emorragici sono privi di piastrine, che invece si osservano comunemente nei campioni contaminati. Versamenti neoplastici: Nel cane e nel gatto è possibile osservare una gran varietà di processi neoplastici primitivi e secondari che coinvolgono le cavità toracica e peritoneale; chiaramente, l’identificazione al microscopio di queste cellule tumorali ha valore diagnostico. Le caratteristiche del fluido per quanto riguarda il contenuto di proteine ed il conteggio cellulare totale presentano imponenti variazioni.

Letture consigliate Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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The Liver: Cytologic features of common metabolic, inflammatory and neoplastic conditions Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Liver disease is one of the most important and frequent syndromes encountered in both companion and food animal medicine. Through the use of diagnosis imaging and screen chemistry, abnormalities of the liver generally can be documented. Furthermore, predominantly cholestatic disorders usually can be differentiated from predominantly hepatocellular ones. However, diagnosis of specific hepatic disease entities almost always depends upon biopsy and morphologic pathology. Liver biopsy can be done in essentially three ways: 1) Fine needle aspiration, 2) Needle core biopsies, and 3) Wedge biopsies. Cytologic preparations can be made from collections with all methods. Cytologic features of normal liver and some of the more common abnormalities seen in the liver are discussed below. Normal Cytologic Findings: The predominating nucleated cell in most preparations is the hepatocytes, which is a large round to polygonal mononuclear and sometimes binucleated cell. These cells have eccentric round and relatively uniformly sized nuclei generally with a single prominent round nucleolus. Cytoplasm is abundant in amount, coarsely granular and moderately blue staining. Few small clear cytoplasmic vacuoles may be present and few cells with small amounts of coarse, green-black to brown-black pigment granules in the cytoplasm may be present. Hepatocellular Degeneration: Hepatocellular degeneration is a common hepatic abnormality and may occur either alone or in association with inflammation or other liver pathology. Cytologically this is identified with cytoplasmic vacuolization. Indistinct vacuolization (foamy cytoplasm) is consistent with water accumulation (hydropic change) or glycogen accumulation where the presence of distinct clear cytoplasmic vacuolization is consistent with lipid accumulation. If there is dramatic lipid accumulation as might be seen with hepatic lipidosis, affected hepatocytes may be difficult to the novice to be distinguished from adipocytes. Necrosis: Cytologically, necrotic hepatocytes have glassy homogeneous basophilic cytoplasm which has not lost its normal granularity. Cytoplasmic boundaries are indistinct. Nuclei are either absent, present as ghost-like remnants or pyknotic and/or karyorrhectic nuclei. Often, small rhomboidal yellow crystals (bile pigment crystals, probably hematoidin) are present in the background of the slide. Inflammation: Inflammatory liver lesions are classified according to standard cytologic convention as neutrophilic, mixed or macrophagic based upon the primary types of infiltrating cells. If the sample contains RBCs as well, care must be taken to establish that the inflammatory cells are not

merely a reflection of blood contamination (of particular concern in neutrophilic hepatitis). This can be done by establishing that the inflammatory cells are significantly more numerous than the peripheral leukocyte alone. Additionally, in a true hepatitis, the inflammatory cells are usually closely associated with the hepatocytes, not in the background of the slide. Cholestasis: Cholestasis is characterized cytologically in finding bile pigment either within the hepatocytes (intracellular cholestasis) or between hepatocytes within bile canaliculi (intercellular cholestasis). Bile pigment stains greenbrown to green-black with Romanovsky-stained preparations. Extramedullary Hematopoiesis: Extramedullary hemopoiesis must be differentiated from both inflammation and leukemia. It is most easily characterized when there are easily identifiable hematopoietic precursors including early forms of maturation for red blood cells, white blood cells and platelets (megakaryocytes). In most cases of leukemia, proliferation of all three cell lines is unusual, where with extramedullary hematopoiesis, all three cell lines are commonly present in varying amounts. Fibrosis: Fibrosis of the liver can only be suggested cytologically; histologic confirmation is required. Mast cells are commonly associated with fibrous connective tissue element proliferation and their presence in significant numbers in a liver cytology should promote suspicion for fibrosis. Neoplasia: Both primary and secondary neoplastic disease can be seen in the liver. Classic cytologic characterization is applied for classification and identification of these processes. In many of the secondary processes, the finding of an “abnormal� cell population and the finding of significant cytologic criteria of malignancy generally proves effective in recognizing these processes assuming that the sample was collected from the right location. Primary hepatocellular neoplastic disease often proves more problematic because cytomorphologic criteria of malignancy generally do not provide good differentiating features. Even well-differentiated hepatocellular carcinoma can present cytologically (and histologically) with cells that are morphologically very similar to normal hepatocytes. Histologic assessment of wedge biopsy material is often needed for differentiation between nodular hyperplasia, benign neoplasia and well-differentiated neoplasia of hepatocytes. There are some relatively unique presentations to some specific diseases of the liver and these are briefly discussed below.


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Bacterial Hepatitis: Bacterial hepatitis most commonly presents as neutrophilic hepatitis. In some cases, neutrophils are degenerated and contain bacteria, making diagnosis easy. More commonly, however, neutrophils are nondegenerate and organisms are not seen. In these cases, a second sample should be collected for culture to rule out a bacterial etiology. Viral Hepatitis: The most important viral hepatitis is infectious canine hepatitis (ICH). Although now uncommon due to the advent of effective vaccines, ICH remains an important differential diagnosis whenever acute liver disease is suspected. Fortunately, the disease is easily diagnosed because of its characteristic cytologic features. ICH is a typical adenoviral infection; as such it produces distinctive intranuclear inclusion bodies. These inclusions are large, azurophilic, and round. They may entirely fill the nucleus, or may be located centrally with peripheral clearing of nucleoplasm and margination of chromatin. ICH causes a necrotizing hepatitis; inclusion bodies are seen in free nuclei, nuclei of necrotic hepatocytes and nuclei of intact cells. Chronic-Active Hepatitis: Chronic active hepatitis is a steroid responsive entity of still unknown etiology in dogs in most cases. The disease is suspected to be an immune medicated hepatitis that occurs secondarily to previous infection. Cytologically, the lesion is that of mixed inflammatory hepatitis. The distinctive feature is the prominence in the reaction of lymphocytes, reactive lymphocytes and plasma cells. Cytologic findings are suggestive of the disease, but diagnosis should await histologic confirmation of the cellular infiltrate and the preferential distribution of the lesion in the portal zones of hepatic triads. Histoplasmosis: Hepatic histoplasmosis is a relatively common manifestation in the abdominal form of this disease if in an endemic region. Presenting signs include chronic wasting and diarrhea. The diagnosis can generally be confirmed by cytologic evaluation of rectal biopsies as well as liver aspirates. In many cases there will be accompanying peritoneal effusion. The effusion is characteristically an inflammatory modified transudate that is a reflection of obstruction of hepatic lymph flow. Organisms may often be found in peritoneal macrophages.

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The liver is generally markedly enlarged in these patients. Aspirates reveal a chronic hepatitis characterized by large numbers of macrophages. Macrophages often contain large numbers of 1 - 3 _ avoid yeasts with thick cells walls and single central nuclei. These organisms are diagnostic for histoplasmosis. Although some care must be exercised in distinguishing them from Leishmania donovani. Leishmania organisms are of a similar size and shape but contain a rodlike kinetoplast in addition to a nucleus. Cytauxzoonosis: Cytauxzoonosis is a protozoal disease of cats caused by Cytauxzoon felis. Though generally thought of as a cause of anemia this organism replicates by schizogony in fixed macrophages throughout the body and in particular, in liver and lung. Aspirates from the liver in this disease contain giant macrophages (up to 100_ or more) filled by small (1-2_) banana-shaped organisms with single central nuclei. Diabetes Mellitus: The cytologic features of diabetes mellitus are non-specific but are often so striking as to be worthy of comment. Furthermore, serum enzymatic alterations in diabetes mellitus may be profound, prompting some form of liver biopsy. The principal liver alteration in diabetes is diffuse fatty change. Liver cells become filled by fat which takes the form of large single unstained vacuoles. In some instances hepatocytes take on a characteristic signet ring appearance with the nucleus pushed totally to the periphery and the cytoplasm distended by unstained fat. Insulin therapy leads to a rapid (1-2 weeks) return to normal hepatocyte morphology.

Selected References Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Il fegato: quadri citologici delle più comuni alterazioni metaboliche, infiammatorie e neoplastiche Dennis B. De Nicola DVM, PhD, DACVP, Maine USA

L’epatopatia è una delle sindromi più importanti e frequenti riscontrate sia in medicina degli animali da compagnia che in quella degli animali da reddito. Grazie all’impiego delle tecniche di diagnostica per immagini ed al profilo biochimico, in genere è possibile documentare le anomalie del fegato. Inoltre, i disordini a carattere principalmente colestatico possono essere differenziati da quelli soprattutto epatocellulari. Tuttavia, la diagnosi delle specifiche entità patologiche del fegato dipende quasi sempre dai risultati delle biopsie e dagli esami di patologia morfologica. La biopsia epatica può essere effettuata essenzialmente in tre modi: 1) aspirazione con ago sottile, 2) biopsia a core mediante ago e 3) biopsie a cuneo. I preparati citologici possono essere allestiti da materiale prelevato con tutti questi metodi. Verranno ora illustrate le caratteristiche citologiche del fegato normale ed alcune delle anomalie comunemente osservate a carico di quest’organo. Riscontri citologici normali: La cellula nucleata predominante nella maggior parte dei preparati è l’epatocita, un elemento di grandi dimensioni, tondeggiante o poligonale, mononucleato e talvolta binucleato. Queste cellule hanno nuclei tondeggianti, eccentrici e di dimensioni relativamente uniformi, generalmente con un singolo nucleolo tondo e ben evidente. Il citoplasma è presente in quantità abbondante, grossolanamente granulare e con una moderata colorazione blu. Si possono osservare pochi piccoli vacuoli citoplasmatici trasparenti e un limitato numero di cellule che mostrano nel citoplasma scarse quantità di granuli di pigmento grossolani, di colore verde nero o bruno nero. Degenerazione epatocellulare: La degenerazione epatocellulare è una comune anomalia del fegato e si può riscontrare sia da sola che in associazione con infiammazioni o altre patologie a carico dello stesso organo. Dal punto di vista citologico, viene identificata con la vacuolizzazione del citoplasma. Una vacuolizzazione indistinta (citoplasma schiumoso) è compatibile con un accumulo di acqua (modificazione idropica) oppure di glicogeno, mentre la presenza di una vacuolizzazione citoplasmatica chiara e distinta può essere abbinata all’accumulo di lipidi. Se si rileva un imponente accumulo di lipidi, come si può osservare nella lipidosi epatica, può risultare difficile per un principiante distinguere gli epatociti colpiti dagli adipociti. Necrosi: Dal punto di vista citologico, gli epatociti necrotici presentano un citoplasma basofilo omogeneo e vitreo che non ha perso la propria normale granularità. I limiti citoplasmatici sono indistinti. I nuclei sono assenti, presenti sotto forma di residui simili ad ombre (“ghost”) oppure picno-

tici e/o carioressici. Spesso, sullo sfondo del vetrino si osservano piccoli cristalli gialli romboidali (cristalli di pigmento biliare, probabilmente ematoidina). Infiammazione: Le lesioni infiammatorie del fegato vengono classificate in funzione della convenzione citologica standard come neutrofile, miste o macrofagiche, in base al tipo principale di cellula infiltrante. Se il campione contiene anche degli eritrociti, bisogna stare attenti a stabilire che gli elementi infiammatori non riflettano puramente una contaminazione ematica (il che costituisce un problema in particolare nell’epatite neutrofila). Allo scopo, può risultare utile accertare che le cellule infiammatorie sono significativamente più numerose dei leucociti periferici. Inoltre, in un’autentica epatite, gli elementi flogistici sono in genere strettamente associati agli epatociti e non sullo sfondo del vetrino. Colestasi: La colestasi è caratterizzata citologicamente dal riscontro di pigmento biliare sia all’interno degli epatociti (colestasi intracellulare) che fra questi all’interno dei canalicoli biliari (colestasi intercellulare). Nei preparati realizzati con una colorazione di tipo Romanovsky il pigmento biliare assume delle sfumature verde-bruno o verde-nero. Emopoiesi extramidollare: L’emopoiesi extramidollare va differenziata sia dall’infiammazione che dalla leucemia. Risulta più facilmente caratterizzata quando sono presenti dei precursori emopoietici facilmente identificabili, come le forme iniziali di maturazione degli eritrociti, dei leucociti e delle piastrine (megacariociti). Nella maggior parte dei casi di leucemia la proliferazione di tutte e tre le linee cellulari è inusuale, mentre nell’emopoiesi extramidollare tutte e tre le linee cellulari sono comunemente presenti in quantità variabili. Fibrosi: Con l’esame citologico la fibrosi del fegato può essere solo ipotizzata; è necessaria la conferma istologica. Alla proliferazione degli elementi del tessuto connettivo fibroso sono comunemente associate le mast cell, la cui presenza in numero significativo in un quadro citologico epatico deve far nascere il sospetto di fibrosi. Neoplasia: Nel fegato si possono osservare neoplasie sia primitive che secondarie. Per classificare ed identificare questi processi si applica la caratterizzazione citologica classica. In molte forme secondarie, ai fini del loro riconoscimento risulta in genere efficace il riscontro di una popolazione cellulare “anormale” ed il rinvenimento di significativi criteri citologici di malignità, presumendo che il campione sia stato prelevato dalla sede giusta. Le malattie neoplastiche epatocellulari primitive spesso appaiono più problematiche, per-


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ché i criteri citomorfologici di malignità generalmente non offrono buone caratteristiche distintive. Anche il carcinoma epatocellulare ben differenziato si può presentare citologicamente (ed istologicamente) con cellule che appaiono morfologicamente molto simili agli epatociti normali. Per distinguere l’iperplasia nodulare dalla neoplasia benigna e dalla neoplasia ben differenziata degli epatociti è spesso necessaria la valutazione istologica del materiale ottenuto mediante biopsia a cuneo. Esistono alcuni quadri relativamente esclusivi di certe malattie specifiche del fegato, che verranno illustrati brevemente. Epatite batterica: Nella maggior parte dei casi l’epatite batterica si presenta come una forma neutrofila. Talvolta i neutrofili sono degenerati e contengono batteri, rendendo facile la diagnosi. Più comunemente, tuttavia, questa degenerazione è assente e non si osservano microrganismi. In questi casi si deve prelevare un secondo campione da destinare agli esami colturali per escludere o confermare l’eziologia batterica. Epatite virale: La più importante malattia di questo tipo è l’epatite infettiva del cane (ICH, infectious canine hepatitis). Benché oggi sia poco comune grazie all’avvento di vaccini efficaci, l’ICH resta un’importante diagnosi differenziale in tutti i casi in cui si sospetti un’epatopatia acuta. Fortunatamente, la malattia viene diagnosticata facilmente grazie ai suoi caratteristici quadri citologici. L’ICH è una caratteristica infezione da adenovirus; in quanto tale, determina la formazione di corpi inclusi intranucleari caratteristici. Queste inclusioni sono grandi, azzurrofile e rotonde. Possono riempire completamente il nucleo, oppure essere localizzate in posizione centrale con chiarificazione periferica del nucleoplasma e marginazione della cromatina. L’ICH provoca un’epatite necrotizzante; i corpi inclusi si osservano spesso all’interno di nuclei liberi, nuclei di epatociti necrotici e nuclei di cellule intatte. Epatite cronica-attiva: Nnella maggior parte dei casi l’epatite cronica-attiva è un’entità dall’eziologia ancora sconosciuta nel cane che risponde agli steroidi. Si sospetta che la malattia sia un’epatite immunomediata che si verifica secondariamente ad una precedente infezione. Dal punto di vista citologico, la lesione è contraddistinta da un’epatite infiammatoria di tipo misto. La caratteristica distintiva è la prominenza nella reazione di linfociti, linfociti reattivi e plasmacellule. I riscontri citologici sono indicativi della malattia, ma la diagnosi necessita della conferma istologica dell’infiltrato cellulare e della distribuzione preferenziale della lesione nelle zone portali delle triadi epatiche. Istoplasmosi: L’istoplasmosi epatica è una manifestazione relativamente comune della forma addominale di questa malattia se ci si trova in una regione endemica. I segni clinici al momento della presentazione alla visita sono rappre-

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sentati da consunzione cronica e diarrea. La diagnosi può generalmente essere confermata dalla valutazione citologica delle biopsie rettali nonché dagli aspirati epatici. In molti casi il quadro è accompagnato da un versamento peritoneale. Quest’ultimo è rappresentato caratteristicamente da un essudato infiammatorio modificato che riflette l’ostruzione del flusso della linfa epatica. Nei macrofagi peritoneali si possono spesso riscontrare i microrganismi. In questi pazienti il fegato presenta generalmente un marcato ingrossamento. Gli aspirati rivelano un’epatite cronica caratterizzata da molti macrofagi. Questi ultimi contengono spesso un numero elevato di lieviti ovoidali di 1-3 μ con parete cellulare spessa e singoli nuclei centrali. Questi microrganismi hanno valore diagnostico per l’istoplasmosi. Tuttavia, è necessaria una certa attenzione per distinguerli da Leishmania donovani. I microrganismi del genere Leishmania hanno forma e dimensioni simili, ma oltre al nucleo contengono un chinetoplasto simil-bastoncellare. Citauxzoonosi: La Citauxzoonosi è una malattia protozoaria del gatto sostenuta da Cytauxzoon felis. Benché sia generalmente considerato causa di anemia, questo microrganismo si replica mediante schizogonia nei macrofagi fissi di tutto il corpo ed in particolare nel fegato e nei polmoni. Gli aspirati ottenuti dal fegato in questa malattia contengono macrofagi giganti (fino a 100 μ o più) pieni di piccoli microrganismi (1-2 μ) a forma di banana con singoli nuclei centrali. Diabete mellito: Le caratteristiche citologiche del diabete mellito sono aspecifiche, ma spesso così evidenti da valere la pena di un commento. Inoltre, le alterazioni enzimatiche sieriche riscontrate in questa malattia possono essere profonde, suggerendo una qualche forma di biopsia epatica. La principale alterazione del fegato nel diabete è la diffusa modificazione adiposa. Le cellule epatiche vengono riempite da grasso che assume la forma di grandi vacuoli singoli e non colorati. In alcuni casi, gli epatociti acquisiscono un caratteristico aspetto ad anello con castone, con un singolo nucleo spinto totalmente alla periferia ed il citoplasma disteso da grasso non colorato. La terapia con insulina porta ad un rapido (1-2 settimane) ritorno alla normale morfologia degli epatociti.

Letture consigliate Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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The Lymphoid System: The window into local and systemic inflammatory and non-inflammatory disease Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

In general when one considers discussions about lymphoid tissue, the focus is on peripheral and central lymph nodes; however, other organs play a significant role in the whole lymphoid tissue. The spleen, bone marrow and gastrointestinal tract (mucosal associated lymphoid tissue) play significant roles and their description and interpretation relative to lymphoid tissue are similar to those of lymph node cytologic evaluation and should be included in the entire discussion below. Also, it should be reminded that the potential development of functional lymphoid nodules in locations other than the classic anatomic distribution of lymph nodes is possible and identification of such tissue with fine needle aspiration should not be a surprise when encountered. In general, characterization of the various lymphoid tissue samples cytologically, provides valuable information about local disease including both inflammatory and non-inflammatory disease. Normal Lymphoid Cytology: Before considering pathologic cytology of lymph nodes, it is necessary to define normal lymphoid tissue cytology. Aspirates from normal lymphoid tissue contain mixed cell populations in which small lymphocytes are the predominant cell (>80-90 percent of all cells). Different lymphoid tissues will present slightly differently based upon the “normal” degree of antigenic stimulation that particular lymphoid tissue is exposed to regularly. For example, the normal submandibular lymph node has a much greater normal antigenic exposure than the prescapular lymph node merely because of its location and the tissues is drains. In this case, the number of normal small lymphocytes will be relatively lower in the tissue exposed to the greater degree of antigenic stimulation and subsequently, other cells types may be in greater relative numbers. Small lymphocytes are round cells approximately 8 to 10 µm in diameter that contain round, densely stained nuclei with a scant rim of pale basophilic cytoplasm. Nucleoli are rarely visible. Intermediately sized lymphocytes (previously identified as “prolymphocytes”) constitute the second most prevalent cell type in normal nodes. These cells are larger (10 to 15 µ in diameter), have more vesicular nuclei and have more abundant basophilic cytoplasm. As with small lymphocytes, nucleoli are not seen. Large and immature appearing lymphocytes (lymphoblasts) are even less prevalent than intermediate sized lymphocytes, constituting 1 percent or less of all cells seen. These cells are large cells (up to 30 µ in diameter) with large pale vesicular nuclei in which single to multiple nucleoli are generally visualized. Cytoplasm is relatively scant and basophilic.

It should be emphasized that not all aspirated lymphoid cells can be classified. Aspiration and impression smear techniques are somewhat traumatic and a number of cells are ruptured. These ruptured cells are seen as naked nuclei, the origin of which cannot be determined. Consequently, only intact cells with clearly recognized cytoplasmic boundaries should be evaluated. In addition to the primary lymphocytic cells, other cell types may be seen in lymph node aspirates in small numbers. Plasma cells, mast cells and macrophages may all be seen in low numbers. Macrophages are often very active if present and they may contain cytoplasmic vacuoles filled with cellular debris or brown-black hemosiderin (iron) granules. Rarely seen mature nondegenerate neutrophils and few eosinophils and other miscellaneous cell types may be seen also. Benign Reactive Lymphoid Hyperplasia: Hyperplastic lymphoid tissue aspirates are similar morphologically to aspirates from normal lymphoid tissue in that all the aforementioned populations are seen. However there is a shift in the relative numbers of the different cell types. Small lymphocytes continue to predominate, but in general, the cell populations are “left-shifted”; increased numbers of intermediate sized lymphocytes and large and immature appearing lymphocytes are present. In addition, mitotic figures, which are rarely encountered in normal lymph node aspirates, may be observed with some frequency. Simple lymphoid tissue hyperplasia is rarely seen. A much more commonly observed phenomenon is reactive lymphoid tissue hyperplasia. Reactive hyperplasia implies antigenic stimulation of the involved node. Cytologically reactive hyperplasia exhibits all the features of simple hyperplasia. However, the striking feature is the presence of significant and potentially large numbers of plasma cells and plasmacytoid lymphocytes and large immature appearing lymphocytes. These latter cells represent precursors that differentiate into plasma cells. In some instances, plasma cells containing numerous vacuoles (filled with immunoglobulin) are observed. These cells are known as Mott cells; cells containing immunoglobulin crystals may also be observed; the immunoglobulin-filled vacuoles are known and Russell Bodies. Specific significance for the finding of these immunoglobulin inclusions is not known; they may be seen with both mild and marked antigenic stimulation as well as with both infectious and non-infectious antigenic stimulation. Lymphoid Tissue Inflammation: Inflammatory lesions of lymphoid tissue (lymphadenitis) may be classified similar


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to other inflammatory processes based on the predominating inflammatory cell population infiltrating the lymphoid tissue: neutrophilic lymphadenitis, eosinophilic lymphadenitis, macrophagic lymphadenitis, mixed cellular lymphadenitis, etc. Neutrophilic lymphadenitis aspirates contain large numbers of neutrophils and suggest severe irritation as with inflammation of other anatomic locations. Bacterial agents should always be suspected and in some cases may even be seen. Degeneration of neutrophils should provide a good morphologic clue that an underlying bacterial agent is the cause and if found even when no organisms are identified, complete microbiologic evaluation should be strongly considered. Mixed cellular lymphadenitis commonly exhibits increased numbers of both neutrophils and macrophages and is usually associated with less severe irritation than is acute inflammation (or a more prolonged time course). In the past this type of process has been classified as subacute lymphadenitis and it is usually accompanied by benign reactive hyperplasia of lymphoid elements. Chronic lymphadenitis is often characterized by a marked increase in lymphoid tissue macrophage numbers. Granulomatous lymphadenitis is a special form of this type of inflammatory response and is characterized by the presence of either inflammatory giant cells or epithelioid macrophages or both. In both chronic and granulomatous lymphadenitis, the inciting irritation is low grade and etiologic agents such as systemic mycotic agents or foreign bodies or possible other infectious agents such as systemic mycobacteriosis or leishmaniasis should be investigated. Eosinophilic lymphadenitis should always include possible parasitic agents in the differential; however, eosinophilic infiltrates of lymphoid tissue are commonly seen with a variety of other infectious and non-infectious agents. With peripheral lymph nodes draining areas of chronic dermatitis or dermatosis, eosinophilic infiltrates locally within the lymphoid tissue is a common finding regardless of the cause. Primary Lymphoid Neoplasia: In primary neoplastic disease (malignant lymphoma), the striking cytologic feature is the presence of a remarkably uniform population of discrete round cells. In most of the malignant lymphoma cases we encounter in dogs and cats, this population consists of a

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monotonous population or intermediate to large and immature appearing lymphocytes (oftentimes lymphoblasts), which makes accurate identification a relatively simple process even for the novice cytologist. In contrast, normal, hyperplastic, reactive and inflamed lymphoid tissue will typically have a predominance of normal appearing small lymphocytes as well as a dramatic heterogeneity within the lymphoid populations. Within the neoplastic lymphocytes, nuclear and cytologic criteria of malignancy may be present; however, these are not essential for making a diagnosis of malignant lymphoma. The dramatic shift in distribution of lymphocyte types is the primary cytologic support for malignancy; the presence of a monotonous population of extremely uniform appearing large and immature appearing lymphocytes is still malignant lymphoma. Secondary Lymphoid Neoplasia: Even with no obvious lymphadenomegaly in cases when a primary neoplastic process is identified in the region of a lymphoid tissue, investigation into possible metastatic disease is warranted. This information provides valuable prognostic information that needs to be relayed to the owners of our patients. Metastatic neoplastic disease is characterized cytologically by the presence of an aberrant cell population in lymph node aspirates; metastatic foci may consist of spindle-shaped cells (sarcoma), clusters or sheets of round or oval cells (carcinoma), or individual round or oval cells (discrete cell tumors such as mastocytoma). Reactive and hyperplastic changes may also be identified in the lymphoid elements aspirated from the more normal.

Selected References Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Il sistema linfatico: una finestra verso le malattie infiammatorie e non infiammatorie sia locali che sistemiche Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

In generale, quando si considerano le trattazioni sul tessuto linfoide, l’attenzione viene focalizzata sui linfonodi periferici e centrali. Ma anche la milza, il midollo osseo ed il tratto gastroenterico (tessuto linfoide associato alle mucose) svolgono un ruolo significativo e la loro descrizione ed interpretazione relativa al tessuto linfoide sono analoghi a quelli della citologia linfonodale e devono essere compresi nell’intera valutazione che segue. Inoltre, occorre ricordare che si possono sviluppare noduli linfoidi funzionali in sede diversa dalla classica distribuzione anatomica dei linfonodi e l’eventuale identificazione di questo tessuto nei campioni prelevati mediante aspirazione con ago sottile non deve essere una sorpresa. In generale, la caratterizzazione dei vari campioni di tessuto linfoide dal punto di vista citologico offre utili informazioni sulle malattie locali, comprese quelle infiammatorie e non infiammatorie. Citologia linfoide normale: Prima di prendere in considerazione la citologia patologica dei linfonodi è necessario definire quella del tessuto linfoide normale. Gli aspirati ottenuti da tale tessuto contengono una popolazione cellulare mista in cui l’elemento predominante è costituito dai piccoli linfociti (> 80-90% della totalità delle cellule). I tessuti linfoidi differenti si presentano in modo leggermente diverso in base al grado “normale” di stimolazione antigenica alla quale quel particolare tessuto linfoide viene esposto regolarmente. Ad esempio, in condizioni normali il linfonodo sottomandibolare ha un’esposizione antigenica molto più elevata di quello prescapolare, unicamente a causa della sua localizzazione e dei tessuti che drena. In questo caso, il numero di piccoli linfociti normali sarà relativamente più basso nel tessuto esposto al grado di stimolazione antigenica più elevato e, di conseguenza, altri tipi cellulari potranno essere numericamente più rappresentati. I piccoli linfociti sono cellule rotonde di circa 8-10 μ di diametro, che contengono nuclei tondeggianti e densamente colorati con uno scarso bordo di citoplasma basofilo pallido. I nucleoli sono raramente visibili. I linfociti di dimensioni intermedie (già identificati come “prolinfociti”) costituiscono il secondo tipo cellulare in ordine di prevalenza nei linfonodi normali. Queste cellule sono più grandi (10-15 μ di diametro), hanno nuclei più vescicolari e presentano una quantità più abbondante di citoplasma basofilo. Come nel caso dei piccoli linfociti, i nucleoli non sono visibili. I grandi linfociti di aspetto immaturo (linfoblasti) hanno una prevalenza ancora minore di quelli intermedi, costituendo l’1% o meno della totalità delle cellule osservate. Si tratta di elementi di grandi dimensioni (fino a 30 μ di

diametro) con grandi nuclei pallidi e vescicolari in cui generalmente si osservano nucleoli singoli o multipli. Il citoplasma è relativamente scarso e basofilo. Va sottolineato che non tutte le cellule linfoidi aspirate possono essere classificate. Le tecniche di aspirazione e di allestimento di strisci per impronta sono abbastanza traumatiche e numerose cellule vanno incontro a rottura. Questi elementi si osservano sotto forma di nuclei nudi, la cui origine non può essere determinata. Di conseguenza, è necessario valutare soltanto le cellule integre con confini citoplasmatici chiaramente riconoscibili. Oltre alle cellule linfocitarie primarie, negli aspirati linfonodali si possono osservare in numero limitato altri tipi cellulari. Plasmacellule, mast cell e macrofagi possono essere tutti presenti in basso numero. I macrofagi, se ci sono, sono spesso molto attivi e possono contenere vacuoli citoplasmatici pieni di detriti cellulari o granuli di emosiderina (ferro) di colore bruno-nero. Raramente si osservano neutrofili maturi non degenerati e si possono riscontrare anche pochi eosinofili ed altri tipi cellulari vari. Iperplasia linfoide reattiva benigna: Il tessuto linfoide iperplastico negli aspirati appare morfologicamente simile a quello ottenuto dal tessuto linfoide normale, dato che si osservano tutte le popolazioni sopracitate. Tuttavia, si ha uno spostamento del numero relativo dei differenti tipi cellulari. I piccoli linfociti continuano a predominare, ma in generale le varie popolazioni presentano uno “spostamento a sinistra”; si rilevano aumenti numerici dei linfociti di dimensioni intermedie e di quelli grandi ed immaturi. Inoltre, si possono osservare con una certa frequenza delle figure mitotiche, che si riscontrano raramente negli aspirati linfonodali normali. L’iperplasia semplice del tessuto linfoide è rara. Un fenomeno riscontrato molto più comunemente è l’iperplasia reattiva del tessuto linfoide. Questa implica una stimolazione antigenica del linfonodo coinvolto. L’iperplasia reattiva dal punto di vista citologico mostra tutte le caratteristiche di quella semplice. Tuttavia, il carattere distintivo è la presenza di numeri significativi e potenzialmente elevati di plasmacellule e linfociti plasmocitoidi, nonché di linfociti grandi e di aspetto immaturo. Queste ultime cellule rappresentano i precursori che si differenziano nelle plasmacellule. In alcuni casi, queste ultime contengono numerosi vacuoli (in alcuni casi, pieni di immunoglobuline). Queste cellule sono note come Mott cell; si possono anche osservare elementi contenenti cristalli di immunoglobuline; i vacuoli pieni di immu-


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noglobuline vengono detti corpi di Russel. Il significato specifico del riscontro di queste inclusioni immunoglobuliniche non è noto; si possono osservare sia in caso di stimolazione antigenica lieve e marcata che in presenza di stimolazioni antigeniche infettive e non infettive. Infiammazione del tessuto linfoide: Le lesioni infiammatorie del tessuto linfoide (linfoadenite) possono essere classificate in modo simile agli altri processi flogistici, sulla base della popolazione cellulare infiammatoria predominante che infiltra il tessuto linfoide: linfoadenite neutrofila, linfoadenite eosinofilica, linfoadenite macrofagica, linfoadenite a cellule miste, ecc… Gli aspirati di linfoadenite neutrofila contengono un numero elevato di neutrofili e suggeriscono una grave irritazione, come nel caso dell’infiammazione di altre sedi anatomiche. Si deve sempre sospettare un’eziologia batterica ed in alcuni casi si può persino riuscire a vedere i microrganismi. La degenerazione di neutrofili deve costituire una valida indicazione morfologica del fatto che la causa è rappresentata da un agente batterico sottostante e il suo riscontro, anche in assenza dell’identificazione di microrganismi, richiede di prendere fortemente in considerazione una valutazione microbiologica completa. La linfoadenite cellulare mista mostra comunemente un aumento numerico sia dei neutrofili che dei macrofagi e di solito è associata ad un’irritazione meno grave dell’infiammazione acuta (oppure ad una durata temporale più prolungata). In passato, questo tipo di processo è stato classificato come linfoadenite subacuta ed è solitamente accompagnata da iperplasia reattiva benigna degli elementi linfoidi. La linfoadenite cronica viene spesso caratterizzata da un marcato incremento del numero dei macrofagi nel tessuto linfoide. Quella granulomatosa è una forma particolare di questo tipo di risposta flogistica ed è caratterizzata dalla presenza di cellule giganti infiammatorie e/o di macrofagi epitelioidi. Sia nella linfoadenite cronica che in quella granulomatosa, l’irritazione scatenante è di grado ridotto e si devono studiare gli agenti eziologici come i miceti sistemici o i corpi estranei o, eventualmente, altri microrganismi infettanti come la micobatteriosi sistemica o la leishmaniosi. In caso di linfoadenite eosinofilica, l’elenco delle possibili diagnosi differenziali deve sempre comprendere gli agenti parassitari; tuttavia, infiltrati eosinofilici nel tessuto linfoide si osservano comunemente in presenza di una gran varietà di agenti infettivi e non infettivi. Nel caso di linfonodi periferici che drenano aree di dermatosi o dermatite cronica, il riscontro di infiltrati eosinofilici localmente all’interno del tessuto linfoide è comune, indipendentemente dalla causa.

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Neoplasia linfoide primaria: Nella neoplasia primaria (linfoma maligno) la caratteristica citologica principale è la presenza di una popolazione notevolmente uniforme di cellule rotonde isolate. Nella maggior parte dei casi di linfoma maligno che si riscontrano nel cane e nel gatto, gli elementi cellulari sono costituiti da una popolazione monotona o intermedia di linfociti grandi e di aspetto immaturo (spesso linfoblasti), il che rende l’identificazione accurata un processo relativamente semplice, anche per un citologo alle prime armi. Al contrario, il tessuto linfoide normale, iperplastico, reattivo ed infiammato mostra tipicamente un predominio di piccoli linfociti di aspetto normale nonché una notevole eterogeneità all’interno delle popolazioni linfoidi. Fra i linfociti neoplastici, possono essere presenti criteri nucleari e citologici di malignità; tuttavia, questi non sono essenziali per la formulazione della diagnosi di linfoma maligno. Il drastico spostamento nella distribuzione dei tipi linfocitari è il principale riscontro citologico al sostegno dell’ipotesi di una neoplasia maligna; anche la presenza di una popolazione monotona di aspetto estremamente uniforme di linfociti grandi ed immaturi è segno di linfoma maligno. Neoplasia linfoide secondaria: Anche in assenza di linfoadenomegalia evidente, nei casi in cui si identifica un processo neoplastico primario nella regione del tessuto linfoide è necessario ricercare la presenza di eventuali malattie metastatiche. Questa informazione fornisce utili dati di valore prognostico che devono essere riferiti ai proprietari dei nostri pazienti. Le metastasi neoplastiche sono caratterizzate citologicamente da una popolazione cellulare aberrante negli aspirati linfonodali; i focolai metastatici possono essere costituiti da cellule fusiformi (sarcoma), grappoli o foglietti di cellule tondeggianti o ovali (carcinoma) oppure cellule tondeggianti o ovali singole (tumori a cellule isolate come il mastocitoma). Alterazioni reattive e iperplastiche si possono anche identificare negli aspirati di elementi linfoidi più normali.

Letture consigliate Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Feline thoracic and abdominal effusion evaluation: Common presentations Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Thoracic and abdominal fluid accumulation in animals can be associated with a chronic gradual or acute critical presentation. Characterization of the fluid becomes an essential component of the patient work-up to both help identify the mechanism of formation of the fluid and to guide therapeutic intervention. There are several commonly used categories for fluid characterization including transudate, modified transudate and exudate and there are general guidelines for these characterizations and the differential for the mechanism of these fluid formations are somewhat different and therefore provide some direction in limiting the clinical differential but there is significant overlapping of characteristics and similar mechanisms can result in different types of fluid formation, so this categorization has limited value. The categorization is primarily related to gross, chemical (primarily total protein content) and quantitative cytologic features; however, the microscopic characterization of the fluid regarding the types of cells present are an essential component to help identify the underlying cause of the fluid formation itself. Even if no protein content or quantitative cytologic assessment is performed, the microscopic evaluation of the types of cells present is something that can provide immediate information about the fluid and is the most important component of the fluid assessment. The different categories of fluid formation including what is considered normal for the dog and cat are characterized below. Normal Findings: Pleural and peritoneal fluid collection is difficult in the normal dog and cat because of the limited volume present and the trapping of this fluid between thoracic and abdominal viscera. Protein content is typically much less than 30 g/L and the total cell count is generally less than 500x106/L. Cells present in normal pleural, pericardial, and peritoneal fluids include low numbers of mesothelial cells and occasionally seen inflammatory cells. Mesothelial cells are present in small clusters or as individuals. The inflammatory cells present in normal fluids have the morphology of normal peripheral blood leukocytes. The predominant leukocyte seen varies with the species. In dogs and horses, neutrophils are prevalent. In cats and cattle, lymphocytes predominate. Transudate: Transudates are defined as excessive accumulations of fluid having normal characteristics. Transudates therefore have low total protein (less than 30 g/L) and low nucleated cell counts (less than 500 nucleated cells x106/L) for the dog and cat. These fluids are commonly the result of venous stasis and less frequently from hypoalbuminemia and lymphatic obstruction (congestive heart fail-

ure, liver failure, the nephrotic syndrome, and in some cases of neoplasia. It is emphasized that pleural and peritoneal effusions due solely to hypoalbuminemia will only occur when serum albumin levels fall below 10 g/L. Modified transudates: The accumulation of transudative fluid in one of the body cavities causes increased pressure which is irritating to the mesothelial cells resulting in proliferation and sloughing into the effusion. With time these cells die and release chemoattractants drawing phagocytes into the effusion. The result is a mild increase in both total protein (30-50 g/L) and nucleated cell count (slightly more than 500x106/L). When this occurs, the fluid is known as a modified transudate. Exudates: Exudates are defined as fluid accumulations which are abnormally high in total solids and/or nucleated cell count. Total proteins range between 30 and 70 g/L and total cell counts may be as high as 100,000x106/L. The vast majority of exudates are caused by inflammation; however, the common denominator of exudate formation is vascular damage. Consequently, both hemorrhage and chylous effusions are classified as exudates on the basis of physical characteristics and pathogenesis. Inflammatory exudates are classified like classic cytologic sample characterization. Because of local irritation, some degree of reactive mesothelial cell hyperplasia is present. Several fluid formations that do not typically follow this classification system and should be considered separately are discussed below. In addition, there is an expanded discussion of a few of these effusions that are specific to the cat. Feline infectious peritonitis (FIP): FIP is unique among most exudates in that the fluid which accumulates is of low cellularity. The presence of any fluid accumulation is dependent upon multiple variables; both “wet” and “dry” form of FIP have been described extensively in our literature. When significant fluid is formed, total protein content is typically extremely high, which is a reflection of a similar elevation in serum protein. Electrophoresis of either the effusion fluid or serum typically reveals a dramatic polyclonal gammopathy. Grossly, the FIP effusion is often clear and straw-colored and it may be present in both the pleural and peritoneal cavities. Even when collected in EDTA, the fluid often has clots or strands of fibrin and the fluid has a high degree of viscosity similar to synovial fluid. The cellular response is most commonly neutrophilic in character; nondegenerate neutrophils predominate. A prominent pink granular proteinaceous background surrounding the various nucleated cells is also quite common and highly supportive


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of FIP or minimally a fluid with high protein content. Low to sometimes significant numbers of normal small lymphocytes and macrophages may be seen also. Lymphocytic Effusions: In most species, identification of a prominent lymphocytic component to any effusion demands an investigation into the possibility of a chylous component to the effusion. Chylous effusions are the result of leakage of lymph into the body cavity and may involve either the pleural or peritoneal space. These fluids are often described as opaque milky fluids; however, it should be emphasized that depending on the lipid content and longevity of the fluid, they may be clear and colorless. Many cats with prolonged anorexia will have this type of effusion even though it is chylous in character. Unless a microscopic evaluation of the effusion is performed and significant numbers of normal appearing small lymphocytes are observed, chylous effusion is typically not considered. In many chylous effusions, a high protein concentration (35-45 g/L) is observed, but there is a relatively low cellularity. Intermixed with the normal appearing small lymphocytes, variable numbers of mature nondegenerate neutrophils and activated macrophages will often be seen. The degree of neutrophilic infiltration is often directly related to the amount of lipid material present since this material proves to be a significant irritant resulting in the recruitment of neutrophils. Mesothelial cell hyperplasia and exfoliation into the effusion will occur if the fluid has any significant time duration. If a chylous effusion is questioned, triglyceride concentration measurement in the fluid should be considered. Triglyceride concentrations have proven to be one of the most objective measures of a true chylous component to these effusions. Triglyceride concentrations greater than 110 mg/dL (1.21 mmol/L) are highly supportive of a chylous effusion. The second most common cause for a lymphocytic effusion in the cat is feline cardiomyopathy. The mechanisms behind this type of effusion have not been completely clarified; however, it is well established that heart failure causes venous and lymphatic stasis that increases pressure. In the cat it appears that these circumstances predispose to lym-

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phatic leakage and result in a secondary chylous effusion. Many of the effusions associated with cardiomyopathy are true chylous effusions. However, there is a subcategory of feline cardiomyopathy cases that have significant lymphocytic effusions without other features of chylous effusions (triglyceride concentrations less than 110 mg/dL). A third cause for a lymphocytic effusion to be considered is malignant lymphoma. With most malignant lymphoma forms, the neoplastic cells are large and immature appearing lymphocytes, but there are low numbers of cases of small lymphocytic malignant lymphoma where the neoplastic cells resemble normal small lymphocytes. These could be misinterpreted as a simple chylous effusion. The advantage we have in veterinary medicine is that this is much less common a presentation, which limits our opportunity for a missed diagnosis. Regardless the cause for the lymphocytic effusion, diagnostic imaging becomes a critical component to the identification of the underlying cause. Even with many of the true chylous effusions, there is an associated space-occupying lesion in the anterior mediastinal region associated with lymphadenomegaly (lymphoid hyperplasia, inflammation or neoplasia) or the presence of an inflammatory focus or neoplastic process (malignant lymphoma, Thymoma, etc.) or there is imaging support for feline cardiomyopathy. Diagnostic imaging is important in routine feline thoracic effusion characterization.

Selected References Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and DeNicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and DeNicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Aspetti patogenetici e citologici del versamento nel gatto Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

L’accumulo di fluidi a livello toracico ed addominale negli animali può essere associato ad un quadro cronico e graduale oppure acuto e critico. La caratterizzazione del liquido diviene una componente essenziale della valutazione diagnostica del paziente, sia perché contribuisce ad identificare il meccanismo di formazione del versamento che per guidare l’intervento terapeutico. Esistono e vengono comunemente utilizzate parecchie categorie di classificazione dei fluidi, distinguendo trasudati, trasudati modificati ed essudati; queste suddivisioni vengono effettuate sulla base di linee guida generali che tengono conto del fatto che i meccanismi di formazione dei fluidi sono abbastanza differenti e, di conseguenza, forniscono una certa indicazione per ridurre le possibili diagnosi differenziali dal punto di vista clinico; tuttavia, esiste una significativa sovrapposizione delle caratteristiche e meccanismi simili possono esitare in differenti tipi di formazione dei fluidi, per cui questa classificazione ha valore limitato. La distinzione in categorie è principalmente correlata ai riscontri macroscopici e chimici (principalmente, il contenuto di proteine totali) ed alla citologia quantitativa; tuttavia, la caratterizzazione microscopica del fluido per quanto riguarda il tipo di cellule presenti è una componente essenziale che risulta utile per identificare la causa sottostante della formazione stessa del fluido. Anche se non si esegue alcuna valutazione del contenuto proteico o della citologia quantitativa, l’esame al microscopio dei tipi di cellule presenti è qualcosa che può fornire informazioni immediate sul fluido ed è la componente più importante della valutazione di questi liquidi. Verranno elencate le differenti categorie di formazione dei fluidi, unitamente ai reperti considerati normali nel cane e nel gatto. Riscontri normali: il prelievo del liquido pleurico e peritoneale nei cani e nei gatti normali è difficile a causa dello scarso volume presente e dell’intrappolamento del fluido fra i visceri toracici ed addominali. Il contenuto proteico è di norma molto inferiore a 30 g/l ed il conteggio cellulare totale è generalmente al di sotto di 550 x 106/l. Il quadro citologico riscontrabile nei fluidi pleurici, pericardici e peritoneali normali è rappresentato da un basso numero di cellule mesoteliali e, occasionalmente, da elementi infiammatori. Le cellule mesoteliali sono presenti in piccoli grappoli oppure singolarmente. Quelle infiammatorie che si riscontrano nei fluidi normali hanno la morfologia ordinaria dei leucociti del sangue periferico. Il leucocita predominante osservato varia in funzione della specie animale. Nel cane e nel cavallo prevalgono i neutrofili. Nel gatto e nel bovino, i linfociti. Trasudato: I trasudati si definiscono come accumuli eccessivi di fluidi con caratteristiche normali. Di conseguen-

za, sia nel cane che nel gatto presentano un basso valore di proteine totali (inferiore a 30 g/l) e di cellule nucleate (inferiore a 500 x 106/l). Questi fluidi sono dovuti comunemente ad una stasi venosa e, meno frequentemente, ad ipoalbuminemia ed ostruzione linfatica (insufficienza cardiaca congestizia, insufficienza epatica, sindrome nefrosica ed alcuni casi di neoplasia). Va sottolineato che i versamenti pleurici e peritoneali dovuti unicamente all’ipoalbuminemia si riscontrano soltanto quando i livelli di albumina sierica cadono al di sotto di 10 g/l. Trasudati modificati: l’accumulo di fluidi trasudatizi in una delle cavità corporee provoca un aumento della pressione che irrita gli elementi mesoteliali, con conseguente proliferazione e distacco con passaggio nel liquido di versamento. Col tempo, queste cellule muoiono e rilasciano sostanze chemioattrattrici che attirano i fagociti nel versamento. Il risultato è un lieve aumento sia delle proteine totali (30-50 g/l) che delle cellule nucleate (leggermente superiori a 500 x 106/l). Quando ciò avviene, il fluido prende il nome di trasudato modificato. Essudati: gli essudati si definiscono come accumuli di liquidi che presentano livelli abnormemente elevati di solidi totali e/o cellule nucleate. Le proteine totali variano tra 30 e 70 g/l e le cellule totali possono arrivare fino a 100.000 x 106/l. La grande maggioranza degli essudati è causata da processi infiammatori; tuttavia, il denominatore comune della loro formazione è il danno vascolare. Di conseguenza, sia i versamenti emorragici che quelli chilosi sono classificati come essudati sulla base delle caratteristiche fisiche e della patogenesi. Gli essudati infiammatori sono distinti in base alla caratterizzazione del campione citologico classico. A causa dell’irritazione locale, è presente un certo grado di iperplasia reattiva delle cellule mesoteliali. Più oltre vengono discusse parecchie formazioni di fluidi che non seguono tipicamente questo sistema di classificazione e che devono essere considerate a parte. Inoltre, vengono trattati a fondo alcuni di questi versamenti che risultano specifici per il gatto. Peritonite infettiva felina (FIP): la FIP presenta caratteristiche esclusive fra la maggior parte degli essudati, dal momento che il liquido che si accumula ha una cellularità bassa. Il riscontro di una qualsiasi raccolta di fluidi dipende da molteplici variabili; in letteratura veterinaria sono state descritte ampiamente sia la forma “umida” che quella “secca” della malattia. Quando si forma una quantità significativa di fluidi, il contenuto di proteine totali risulta di norma estremamente elevato, il che riflette un analogo innalzamento delle proteine sieriche. L’elettroforesi del liquido di ver-


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samento o del siero rivela di norma un’imponente gammopatia policlonale. Macroscopicamente, il versamento della FIP è spesso limpido e di colore paglierino e può essere presente sia nella cavità pleurica che in quella peritoneale. Anche quando il prelievo viene effettuato con EDTA, il fluido mostra spesso coaguli o filamenti di fibrina ed è caratterizzato da un elevato grado di viscosità, simile a quella del liquido sinoviale. La risposta cellulare nella maggior parte dei casi ha caratteristiche neutrofile; predominano i neutrofili non degenerati. Anche un prominente sfondo proteinaceo granulare di colore rosa che circonda le varie cellule nucleate è molto comune ed altamente indicativo di FIP o come minimo di un fluido con un elevato contenuto proteico. Si possono osservare anche numeri bassi o talvolta significativi di macrofagi e piccoli linfociti normali. Versamenti linfocitari: Nella maggior parte delle specie animali, l’identificazione di una componente linfocitaria prominente in qualsiasi versamento richiede di accertare la possibilità che sia coinvolta una componente chilosa. I versamenti chilosi sono la conseguenza della fuoriuscita della linfa nella cavità corporea e possono interessare sia lo spazio pleurico che quello peritoneale. Questi fluidi vengono spesso descritti come opachi e lattiginosi; tuttavia, va sottolineato che a seconda del loro contenuto lipidico e della loro longevità possono essere anche limpidi ed incolori. Molti gatti con anoressia prolungata presentano questo tipo di versamento, anche se con caratteri chilosi. A meno che non si esegua una valutazione microscopica del liquido e non si osservi un numero significativo di piccoli linfociti di aspetto normale, di norma l’ipotesi del versamento chiloso non viene presa in considerazione. In molti versamenti chilosi, si osserva un’elevata concentrazione di proteine (35-45 g/l), mentre la cellularità è relativamente bassa. Inframmezzato ai piccoli linfociti di aspetto normale, si riscontra un numero variabile di neutrofili non degenerati maturi e spesso si osservano macrofagi attivati. Il grado di infiltrazione neutrofila spesso è direttamente correlato alla quantità di materiale lipidico presente, dal momento che questo risulta essere un agente irritante significativo, che determina il reclutamento dei neutrofili. Se il fluido è presente da un periodo di tempo significativo, nel versamento si riscontrano iperplasia ed esfoliazione delle cellule mesoteliali. Se l’ipotesi di versamento chiloso è dubbia, si deve prendere in considerazione la misurazione delle concentrazioni di trigliceridi nel fluido. Queste si sono dimostrate una delle misure più obiettive di un’autentica componente chilosa nei versamenti. Livelli di trigliceridi superiori a 110 mg/dl (1,21 mmol/l) sono altamente indicativi di versamento chiloso.

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Al secondo posto in ordine di frequenza tra le cause di versamento linfocitario nel gatto si trova la miocardiopatia felina. Il meccanismo che sta alla base di questo tipo di versamento non è ancora stato completamente chiarito; tuttavia, è ben stabilito che l’insufficienza cardiaca causa una stasi venosa ed epatica che aumenta la pressione. Nel gatto, sembra che queste circostanze predispongano alla fuoriuscita della linfa dai vasi ed esitino in un versamento chiloso secondario. Molti dei versamenti associati alla miocardiopatia sono autentici versamenti chilosi. Tuttavia, esiste una sottocategoria di casi di miocardiopatia felina contraddistinti da significativi versamenti linfocitari senza altre caratteristiche dei versamenti chilosi (concentrazione di trigliceridi inferiori a 110 mg/dl). Una terza causa di versamento linfocitario da prendere in considerazione è il linfoma maligno. Nella maggior parte delle forme di questa neoplasia, gli elementi tumorali sono linfociti grandi e di aspetto immaturo, ma esiste un ridotto numero di casi di linfoma maligno a piccoli linfociti in cui le cellule neoplastiche somigliano a piccoli linfociti normali. Questi potrebbero essere erroneamente interpretati come un semplice versamento chiloso. Il vantaggio di cui godiamo in medicina veterinaria è che questo quadro è molto meno comune, il che limita le nostre probabilità di formulare una diagnosi errata. Indipendentemente dalla causa del versamento linfocitario, la diagnostica per immagini diviene una delle componenti critiche per l’identificazione dell’eziologia sottostante. Anche con molti degli autentici versamenti chilosi, nella regione mediastinica anteriore si riscontra una lesione occupante spazio associata a linfoadenomegalia (iperplasia linfoide, infiammazione o neoplasia) oppure la presenza di un focolaio infiammatorio o di un processo neoplastico (linfoma maligno, timoma ecc..); in alternativa, si possono osservare con le tecniche di diagnostica per immagini dei dati che depongono a favore della miocardiopatia felina. La diagnostica per immagini è importante nella caratterizzazione del versamento toracico felino di routine.

Letture consigliate Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat. Mosby, St. Louis, 2000. Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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A cat is not a dog: Some unique feline hematologic features Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

Most of the basic hematologic principals applied to other mammals are directly applicable to the cat; however, there are several significant specific differences that are important to remember. A few of these differences are outlined below. Leukogram Interpretation: The majority of the changes in quantitative leukocyte values are similar between species regarding basic interpretations of inflammatory disease and various physiologic leukocyte changes; however, there are differences. The primary difference is related to the lymphocytosis commonly seen in cats with excitement or epinephrine affect. This physiologic response is commonly seen in a veterinary practice. Due to excitement and release of epinephrine there is an associated increased heart rate and cardiac output that has the greatest impact on leukocyte numbers and distribution. This is an effect that impacts leukocyte numbers immediately and when the excitement is removed, leukocyte numbers and distribution return to baseline values very rapidly (within minutes following removal of the epinephrine affect). There is a physiologic leukocytosis the primarily impacts the peripheral blood distribution of leukocytes. Normally approximately 50% of the peripheral blood leukocytes are present in a marginal pool (rolling along the inside of vessel walls and peripherally in vessels in a laminar flow pattern) that is not sampled during blood collection from a large vein. Only the approximately 50% of the leukocytes present in the center of these vessels (circulating pool) are sampled. With increased cardiac output, there is a shift from the marginal pool into the circulating pool resulting in an increase in the total leukocyte count. In most animal species, this results in a mild mature neutrophilia. This neutrophilia is also seen in the cat; however, there is an additionally lymphocytosis that is relatively unique to the cat. Lymphocyte counts are often only mild to moderate, but lymphocyte counts slightly greater than 20x109/L A moderately Lymphocytosis is uncommonly seen in dogs with

excitement: puppies tend to have this potential leukogram change compared to adult dogs. The cause for the Lymphocytosis is still controversial; however, re-distribution of lymphocytes during the period of excitement seems a reasonable explanation for this transient effect. Toxic Neutrophil Morphology: Most of the morphologic features of neutrophil toxicity are shared among all mammalian species as well as with both avian and reptile samples. The primary and most significant morphologic finding of increased blue staining of the cytoplasm is the same for the cat as it is for the dog. This morphologic finding represents retention of RNA within the cytoplasm during the development process. In the normal neutrophil production process, cytoplasmic RNA slowly decreases and by the time the cell has completely matured, there are only minimal amounts of RNA present; these mature cells have their full complement of granules and enzymes and needs very minimal protein production capabilities for its normal function. If there is significant neutrophil demand in the peripheral tissues (neutrophilic inflammation), the production process in the marrow is shortened and there are some sacrifices in the production process. One of these sacrifices is the incomplete removal of cytoplasmic RNA. The more the RNA, the more deeply blue the cytoplasm and the more shortened the production process. This cytoplasmic blue staining is an excellent morphologic sign of toxicity and the greater the toxicity the greater the potential for an underlying bacterial inflammatory process as the inciting cause. In most animal species, the presence of Döhle bodies, small irregularly sized pale blue cytoplasmic inclusions, parallels the presence of cytoplasmic blue staining; Döhle bodies are considered a significant morphologic sign of neutrophil toxicity in most species. In the cat (and the horse), the presence of Döhle bodies is an incidental finding and should not be interpreted as an indication of neutrophil toxicity by itself. Blue

Example of an Epinephrine-induced leukogram change Parameter WBC Neutrophil Lymphocyte Monocyte Eosinophil

Before Excitement

Immediately After Excitement

Reference Interval

7.93 5.87 1.27 0.80 0.71

29.60 10.66 17.76 0.30 0.89

6 – 17 x109/L 3 – 12 x109/L 1 – 5 x109/L 0.15 – 1.35 x109/L 0.10 – 1.25 x109/L


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staining cytoplasm is a more accurate and valid morphologic clue to toxicity in the cat. Heinz Bodies: Different animal species have different susceptibility for Heinz Body formation. Heinz Bodies are small, rigid, coccoid bodies of oxidized and denatured hemoglobin typically present at the periphery of the erythrocyte. Feline hemoglobin, because of its high number of sulfhydryl groups compared to other species’ hemoglobin, is more susceptible to oxidant injury than most species. In fact, in the normal cat, depending on who you read, anywhere from 10-25% of erythrocytes in circulation will have small Heinz Bodies. These small Heinz Bodies are difficult to visualize and as with the large forms, staining with New Methylene Blue (NMB) will enhance the ability to visualize. With normal Romanovsky-stained slides, the Heinz Bodies stain similar to the normal orange-red hemoglobin of the erythrocytes, where as with NMB, the Heinz Body stains a dark blue that is easily distinguished from the non-oxidized hemoglobin. The presence of these small Heinz Bodies do not appear to impact red blood cell volume and these cells have a normal peripheral blood circulating time; however, if the larger forms are present, erythrocyte lifespan is shorted due to removal by the monocyte-macrophage system of the spleen and other tissues as the cells circulate through these tissues. Marked acute hemolytic crises can result from sudden severe oxidative insult as might be seen with acute Acetaminophen toxicosis. This results in sudden onset anemia with eventual strong bone marrow response and significant reticulocytosis. Several systemic illnesses in the cat are also associated with Heinz Body formation but these are typically not as severe a hemolytic disease; these systemic illnesses include hepatic lipidosis, malignant lymphoma, hyperthyroidism and Diabetes mellitus with or without ketoacidosis. Reticulocyte Response: Absolute reticulocyte counts are the most objective measure of bone marrow responsiveness and proper characterization of regenerative versus nonregenerative anemia in the cat just as it is in most other mammalian species. However, different species release reticulocytes from the bone marrow at different rates. An excellent example of this is seen with the horse where erythrocyte maturation in the marrow is the same as with other mammals; however, the bone marrow does not release reticulocytes into circulation but only rarely even with the most

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marked regenerative response. The horse is relatively unique related to this response but to a much less degree, the cat marrow does not release reticulocytes as readily as is seen with the dog; the dog is much more similar to humans in reticulocyte responsiveness. The end result is found in the fact that reticulocyte counts in the cat are typically not as dramatic as is seen in the dog with similar degrees and mechanisms of anemia. In addition to a difference in ease of release from the marrow, there is also a difference in reticulocyte maturation between the cat and dog once released into circulation. In the dog, the normal maturation time from an identifiable reticulocyte to a mature erythrocyte is only 24 hours; maturation for a feline reticulocyte from a young released reticulocyte from the bone marrow to a completely mature erythrocyte is days to a couple weeks. With this slower maturation process, there are two major different morphologically identifiable reticulocytes possibly seen in circulation. Aggregate reticulocytes are immature erythrocytes with moderate to large amounts of residual RNA that when stained with NMB are precipitated into moderately sized “aggregates” of blue staining material; therefore, their identification as aggregate reticulocytes. These cells mature relatively rapidly (within 1-2 days) to a cell with small amounts of residual RNA that lasts for 7-14 days. When these cells are stained with NMB, there are only few small coccal blue staining precipitated material; these reticulocytes are identified as punctuate reticulocytes. In most reference laboratories, only aggregate reticulocytes are reported thinking that these represent the most recent bone marrow response and therefore are more representative of the current situation. However, aggregate reticulocytes appear to be released in the marrow only with relatively significant anemia. In many cases with cats with hematocrits greater than 20%, only punctuate reticulocytes are released and unless these are identified, an incorrect interpretation of non-regenerative anemia will be made.

Selected References Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004. Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Il gatto non è un cane anche in citologia: alcune caratteristiche citologiche peculiari del gatto Dennis B. De Nicola DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA

La maggior parte dei principi ematologici di base degli agli altri mammiferi risulta direttamente applicabile anche al gatto; tuttavia, esistono parecchie significative differenze di specie che è importante ricordare. Alcune di esse saranno delineate più sotto. Interpretazione del leucogramma: la maggior parte delle variazioni dei valori quantitativi dei leucociti risulta simile fra le diverse specie, per quanto riguarda l’interpretazione di base delle malattie infiammatorie e le varie modificazioni leucocitarie fisiologiche; tuttavia, esistono delle differenze. Quella principale è correlata alla linfocitosi comunemente osservata nei gatti eccitati o sotto l’effetto dell’adrenalina. Questa risposta fisiologica si riscontra comunemente in ambito veterinario. A causa dell’eccitazione e del rilascio di adrenalina, si ha un incremento della frequenza e della gittata cardiache, che agiscono principalmente sul numero e sulla distribuzione dei leucociti. Questa variazione numerica si riscontra immediatamente e, quando l’eccitazione cessa, il numero e la distribuzione dei leucociti tornano molto rapidamente ai valori basali (entro pochi minuti dopo l’eliminazione dell’effetto adrenalinico). Esiste una leucocitosi fisiologica che colpisce principalmente la distribuzione dei leucociti nel sangue periferico. Normalmente, il 50% circa di questi elementi è presente in un pool marginale (adeso alla superficie interna delle pareti vasali ed a livello periferico dei vasi, in un flusso laminare) che non viene raccolto durante il prelievo del sangue effettuato da una grande vena. Solo il 55% circa dei leucociti presenti all’interno di questi vasi (pool circolante) viene campionato. Con l’aumentare della gittata cardiaca, si ha uno spostamento dal pool marginale in quello circolante, che esita in un incremento del conteggio totale dei leucociti. Nella maggior parte delle specie animali, ciò determina una lieve neutrofilia matura. Questa si osserva anche nel gatto; tuttavia, esiste una linfocitosi

aggiuntiva che costituisce una caratteristica relativamente esclusiva di questa specie. Il conteggio dei leucociti presenta spesso solo un aumento lieve o moderato, ma quello dei linfociti è leggermente superiore a 20 x 109/l. Una linfocitosi moderata si osserva con scarsa frequenza nei cani con eccitazione; i cuccioli tendono più degli adulti a presentare questa potenziale modificazione del leucogramma. La causa della linfocitosi è ancora controversa; tuttavia, la ridistribuzione dei linfociti durante il periodo di eccitazione sembra una spiegazione ragionevole di questo effetto transitorio. Morfologia dei neutrofili tossici: la maggior parte delle caratteristiche morfologiche della tossicità dei neutrofili è comune fra tutte le specie di mammiferi, nonché fra gli uccelli ed i rettili. Il principale è più significativo riscontro morfologico, rappresentato dall’incremento della colorazione blu del citoplasma, è identico sia nel gatto che nel cane. Questo reperto è dovuto alla ritenzione del RNA all’interno del citoplasma durante lo sviluppo. Nel normale processo di produzione dei neutrofili, l’RNA citoplasmatico diminuisce lentamente ed al momento in cui la cellula è completamente maturata è presente soltanto in quantità minime; questi elementi maturi dispongono della loro completa dotazione di granuli ed enzimi e necessitano di una produzione di proteine davvero minima per essere in grado di svolgere la loro funzione normale. In presenza di una significativa domanda di neutrofili nel sangue periferico (infiammazione neutrofila), il processo di produzione nel midollo viene abbreviato e, di conseguenza, alcuni passaggi devono essere sacrificati. Uno di questi è il completamento della rimozione dell’RNA citoplasmatico. Tanto maggiore è la quantità di quest’ultimo, tanto più intensa è la colorazione blu del citoplasma e tanto più breve è il processo di produzione. Questa colorazione citoplasmatica blu è un eccellente segno morfologico di tossicità e questa è tanto più elevata quanto più è probabile che

Esempio di una modificazione del leucogramma indotta dall’adrenalina Parametro

Prima dell’eccitazione

Immediatamente dopo l’eccitazione

Intervallo di riferimento

Leucociti Neutrofili Linfociti Monociti Eosinofili

7,93 5,97 1,27 0,80 0,71

29,60 10,66 17,76 0,30 0,89

6-17 x 109/l 3-12 x 109/l 1-5 x 109/l 0,15-1,35 0,10-1,25


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la causa scatenante sia rappresentata da un sottostante processo infiammatorio batterico. Nella maggior parte delle specie animali, la colorazione blu del citoplasma è abbinata alla presenza dei corpi di Döhle, piccole inclusioni citoplasmatiche di colore blu chiaro e di forma irregolare. Queste formazioni sono considerate un significativo segno morfologico della tossicità neutrofila nella maggior parte delle specie animali. Nel gatto (e nel cavallo) la loro presenza è un reperto incidentale e non deve essere interpretata come indicazione di tossicità neutrofila di per sé. Da questo punto di vista, nel gatto la colorazione blu del citoplasma è più accurata e più valida. Corpi di Heinz: Le differenti specie animali presentano varie sensibilità alla formazione di corpi di Heinz. Questi sono piccole e rigide formazioni coccoidi di emoglobina ossidata e denaturata, tipicamente presenti alla periferia dell’eritrocita. L’emoglobina felina, a causa dell’alto numero di gruppi sulfidrilici che possiede in confronto a quella di altre specie, è più suscettibile al danno da ossidanti di quella maggior parte degli animali. In effetti, nel gatto normale, a seconda degli autori consultati, è possibile trovare la segnalazione della presenza di piccoli corpi di Heinz in una percentuale di eritrociti circolanti pari ad un valore qualsiasi fra il 10% e il 25%. Questi piccoli corpi di Heinz sono difficili da visualizzare e, come nella forma grande, si colorano con il nuovo blu di metilene (NMB) che ne accentua la visualizzazione. Con le abituali tecniche di Romanovsky, i corpi di Heinz assumono una colorazione simile alla normale emoglobina degli eritrociti, di colore arancio-rosso, mentre con il NMB si colorano di blu scuro, che viene facilmente distinto dall’emoglobina non ossidata. La presenza di questi piccoli corpi di Heinz non sembra influire sul volume degli eritrociti, che mostrano un tempo normale di circolazione nel sangue periferico; invece, se sono presenti le forme più grandi la durata della vita degli eritrociti è abbreviata a causa della rimozione da parte del sistema monocitario-macrofagico della milza e di altri tessuti quando le cellule circolano attraverso di essi. Si possono avere marcate crisi emolitiche acute dovute all’improvviso e grave insulto ossidativo, come si può osservare nell’avvelenamento acuto da acetaminofene. Ciò esita nella comparsa improvvisa di anemia con eventuale forte risposta midollare e significativa reticolocitosi. Anche parecchie malattie sistemiche del gatto sono associate alla formazione di corpi di Heinz, ma di norma non determinano un quadro emolitico altrettanto grave; queste malattie comprendono la lipidosi epatica, il linfoma maligno, l’ipertiroidismo ed il diabete mellito con o senza chetoacidosi. Risposta reticolocitaria: nel gatto, come nella maggior parte delle altre specie di mammiferi, i conteggi assoluti dei reticolociti sono la misurazione più obiettiva della reattività midollare e consentono un’appropriata caratterizzazione dell’anemia rigenerativa rispetto a quella non rigenerativa. Tuttavia, specie differenti rilasciano reticolociti dal midollo osseo a velocità differenti. Un esempio eccellente di questo

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fenomeno si osserva nel cavallo, la cui maturazione eritrocitaria nel midollo è uguale a quella degli altri mammiferi; tuttavia, il midollo osseo non rilascia reticolociti in circolo, se non in casi molto rari, anche in presenza della risposta rigenerativa più marcata. Il cavallo presenta una situazione relativamente esclusiva per quanto riguarda questa risposta, ma, in misura molto minore, anche il midollo del gatto non rilascia reticolociti con la stessa facilità osservata per quello del cane; quest’ultimo è molto più simile all’uomo nella reattività reticolocitaria. Il risultato finale è che il conteggio dei reticolociti nel gatto di norma non è così drammatico come si osserva nei cani colpiti da un’anemia di analoga entità e causata dagli stessi meccanismi. Oltre alla diversa facilità del rilascio dal midollo, fra il cane ed il gatto si osserva anche una variazione nella maturazione dei reticolociti una volta rilasciati in circolo. Nel cane, il tempo di maturazione normale da un reticolocita identificabile ad un eritrocita maturo è di sole 24 ore; la maturazione per un reticolocita felino da un reticolocita giovane rilasciato dal midollo osseo fino ad un eritrocita completamente maturo va da alcuni giorni fino ad un paio di settimane. Data la maggiore lentezza di questo processo di maturazione, esistono due principali differenti reticolociti morfologicamente identificabili che si possono vedere in circolo. I reticolociti aggregati sono eritrociti immaturi con moderate o elevate quantità di RNA residuo che, in seguito alla colorazione con NMB, vengono precipitate in “aggregati” di dimensioni moderate di materiale che assume una tinta blu; da qui, la loro identificazione come reticolociti aggregati. Queste cellule maturano in modo relativamente rapido (entro 1-2 giorni) trasformandosi in un elemento con piccole quantità di RNA residuo che dura per 7-14 giorni. Quando queste cellule vengono colorate con NMB, si osservano solo poche piccole aree coccoidi di materiale precipitato che si colora di blu; questi elementi vengono identificati come reticolociti puntati. Nella maggior parte dei laboratori di riferimento, vengono segnalati soltanto i reticolociti aggregati, pensando che questi rappresentino la più recente risposta midollare e, di conseguenza, siano più rappresentativi della situazione in atto. Tuttavia, sembra che i reticolociti aggregati vengano rilasciati a livello midollare solo in presenza di un’anemia relativamente significativa. In molti casi di gatti con ematocrito superiore al 20%, si ha il rilascio soltanto dei reticolociti puntati e, a meno che questi non vengano identificati, si avrà un’interpretazione non corretta di un’anemia non rigenerativa.

Letture consigliate Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008. Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004. Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.


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Patologie della placca neuromuscolare: miastenia gravis e sindromi miasteniche Alberta De Stefani Med Vet, Dipl ECVN, Cambridgeshire (UK)

INTRODUZIONE La placca neuromuscolare (NM) rappresenta il punto di contatto tra il motoneurone e le fibre muscolari da questi innervate. A livello della placca NM si possono riconoscere 3 zone distinte: 1. la membrana presinaptica, 2. la fessura sinaptica e 3. la membrana postsinaptica. Spesso i diversi processi patologici colpiscono specificatamente una parte della placca NM. Il neurotrasmettitore utilizzato a livello della placca NM è l’acetilcolina. L’attività della placca NM quindi è strettamente legata non solo alla normale produzione e rilascio di questa molecola ma anche alla presenza di recettori specifici per l’acetilcolina sulla membrana postsinaptica (recettori nicotinici) e di un efficiente meccanismo per la sua degradazione (degradazione enzimatica). Il primo passo nella trasmissione NM è l’arrivo di un potenziale d’azione a livello del bottone terminale del motoneurone. Questo potenziale d’azione causa depolarizzazione e apertura di canali ionici per il Ca2+. L’entrata di Ca2+ nel bottone terminale promuove la fusione delle vesciche contenenti il nurotrasmettitore con la membrana presinaptica e quindi il rilascio, per esocitosi, dell’acetilcolina nella fessura sinaptica. L’acetilcolina quindi attraversa lo spazio intersinaptico e ragginge i suoi specifici recettori sulla membrana postsinaptica. I recettori dell’acetilcolina (canali per il Na+) sono proteine transmembrana formati da 5 subunità organizzate in modo tale da foermare una struttura circolare (canale). Quando l’acetilcolina si lega ad un recettore ne provoca un cambio morfologico che permette al Na+ di attravesare la membrana postsinaptica. L’aumento di Na+ a livello intracellulare provoca depolarizzazione della membrana postsinaptica o potenziale di placca. L’acetilcolina rilasciata nello spazio intersinaptico viene rapidamente metabolizzata, per idrolisi, dall’acetilcolin-esterasi. Se il potenziale di placca supera una determinata soglia allora la depolarizzazione si propaga lungo la fibra muscolare causando rilascio intracellulare di Ca2+ che a sua volta risulta in contazione muscolare. Le patologie che colpiscono la placca NM vengono quindi classificate in presinaptiche e postsinaptiche a seconda della fase della trasmissione NM che viene principalmente alterata. I processi patologici possono interferire: 1. a livello presinaptico tramite una alterata sintesi, trasporto, reuptake, e rilascio dell’acetilcolina nella fessura sinaptica (i.e. tossina botulinica miastenia grave congenita [raro] paralisi da zecche e veleno della vedova nera).

2. a livello di fessura sinaptica tramite alterazioni della concentrazione e tempo di permanenza dell’acetilcolina nello spazio intersinaptico (i.e. organofosfati e cabammati). 3. a livello postsinaptico alterando l’interazione tra l’acetilcolina e i suoi recettori (i.e. miastenia grave, _-bungarotoxin o tossina del sepente di mare Krait e il curaro). Indipendentemente dal meccanismo patologico che provoca il malfunzionamento dalla trasmissione neuromuscolare i segni clinici sono spesso molto simili. Il tipico quadro clinico comprende una progressiva e simmetrica debolezza muscolare che colpisce sia gli arti anteriori che gli arti posteriori. I riflessi tendinei sono spesso intatti soprattutto negli stadi iniziali della patologia. I muscoli piccoli e a contrazione rapida sono quelli più precocemente colpiti e frequentemente si può e riscontrare debolezza del riflesso palpebrale, alterazione della voce (disfonia) e ridotto riflesso di deglutizione. Lo stato del sensorio è generalmente inalterato così come la propriocezione. In alcuni casi, come le intossicazioni da organofosfati, si può assistere ad un quadro di stimolazione colinergica con eccessiva salivazione, bradicardia e miosi. Come è intuitivo pensare, il trattamento e la prognosi sono strettamente legati alla eziologiga ed alla gravità della disfunzione NM. È tuttavia importante ricordare che se la debolezza muscolare è tale da indurre decubito prolungato, terapie di supporto quali la fisoterapia, “nursing care” e un apporto nutrizionale adeguato rappresentano una parte fondamentale del trattamento con enormi ripercussioni sulla sopravvivenza del paziente.

MIASTENIA GRAVIS (MG) La miastenia gravis è una ben nota patologia che colpisce la pacca neuromuscolare. Due forme di MG sono state descritte: la forma congenita e la forma acquisita.

Miastenia gravis congenita La MG congenita puo essere ulteriormente suddivisa in un problema presinaptico (dovuto a un mancato/ridotto rilascio di acetilcolina) e in un problema postsinaptico (dovuta ad un ridotto numero di recettori per l’acetilcolina presenti sulla membrana postsinaptica). La tipica presentazione clinica è una progressiva debolezza muscolare indotta dall’esecizio fisico.


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La forma congenital di MG è stata riportata in diverse razze di cani tra cui lo Spriger Spaniel, Jack Russell terrier, smooth-haired Fox terrier, Samoyed, Miniature Dachshund e il Gammel Dansk Hounsehound. Quest’ultima razza è l’unica in cui si ha la forma presinaptica di MG. La MG congenital è rara nel gatto ed è stata riportata nel Siamese e nel gatto domestico. Nel gatto la forma è sempre postsinaptica. Il tipo di ereditarietà è stato identificato nel Jack Russell e smooth-haired Fox terrier e nel Gammel Dansk Hounsehound. In queste razze la patologia si trasmette con modalità autosomica recessiva. I segni clinici si presentano ad una età che varia tra le 6 e le 16 settimane di vita. A parte la progressiva debolezza muscolare indotta dall’esecizio fisico comune a tutte le razze, lo smooth-haired Fox terrier sviluppa anche megaesofago. La patologia è purtroppo, progressiva in qusi tutte le razze nonstante la terapia medica e porta negli stadi avvanzati a grave debolezza muscolare, disfagia e treraparesi/paralisi flaccida. Nel Gammel Dansk Hounsehound la MG congenita non è progressiva e nel Miniature Dachshund la patologia si risolve col raggiungimento della maturità. Nel gatto non ci sono disponibili sufficienti dati per stabilirne il decorso a lungo termine. La diagnosi si ottiene tramite il segnalamento, l’anamnesi e la risposta a farmaci anticolinesterasici (edrofonium, neostigmina o piridostigmina) inquanto gli anticorpi anti recettori per l’acetilcolina sono negativi. La prognosi è nella maggior parte dei casi risevata o grave. La prognosi puo essere ulteriormente aggravata da ricorrenti e spesso gravi episodi di polmonite ab ingestis.

Miastenia gravis acquisita La MG acquisita è una patologia autoimmune in cui si ha la formazione di anticorpi contro i recettori nicotinici per l’acetilcolina. Ne consegue un ridotto numero di recettori disponibili a livello di placca motrice e quindi una ridotta trasmissione neuromuscolare. Gli autoanticorpi così prodotti possono interferire con i recettori per l’acetilcolina in tre diversi modi: 1) gli autoanticorpi si possono legare direttamente al recettore bloccandolo (blocco the canale ionico per il Na) 2) gli autoanticorpi possono promuovere la degradazione dei recettori. Questo risulta in una ridotta concentrazione di recettori sulla membrana postsinaptica 3) gli autoanticorpi possono provocare l’attivazione del complemento con conseguente lisi della porzione muscolare della placca motrice. La MG acquisita è diagnosticata molto più frequentemente nel cane che non nel gatto. Diverse razze di gatti (Abyssinian e Somali) e cani (Akita, Terranova, terriers, German shorthaired pointers, Chihuahua, GSD e Golden Retriever) sembrano sviluppare questa patologia più frequentemente di altre. L’età al momento della diagnosi sembra avere una distribuzione di tipo bimodale. Per il gatto i due picchi sono tra i 2 e i 3 anni e tra i 9 e i 10 anni. Nel cane la MG acquisita è più frequentemente diagnosticata in soggetti di meno di 5 anni e poi in età più avanzata tra i 9 e i 13 anni. Nel cane le femmine sterilizzate sono maggiormente colpite.

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La MG acquisita può essere diagnosticata in associazione con altre patologie, in particolare: a. Ipotiroidismo b. Ipoadrenocorticismo c. Timoma d. Cisti del timo e. Linfoma cutaneo non epiteliotropico f. Carcinoma dei dotti biliari g. Adenocarcinoma delle ghiandole apocrine dei sacchi perianali h. Osteosarcoma i. Trattamento con methimazole nel gatto j. Altre patologie immunomediate come l’anemia emolitica e la trombocitopenia Nel processo diagnostico queste patologie devono essere sempre prese in seria considerazione poiché possono influenzare la prognosi in modo significatiovo. La MG acquisita si può presentare sotto tre forme cliniche distinte: ⇒ Focale ⇒ Generalizzata ⇒ Fulminante La MG focale spesso si presenta con debolezza di un gruppo limitato di muscoli per esempio l’esofago, e i muscoli laringei, faringei e facciali. Tipicamente non si ha debolezza dei muscoli degli arti. I segni clinici comprendono rigurgito dovuto al megaesofago, disfagia, disfonia, debolezza della mandibola e diminuito/assente riflesso palpebrale. È da tenere presente che il 25% dei cani che presentano megaesofago idiopatico hanno un titolo anticorpale anti recettori per l’acetilcolina positivo.La MG focale è più frequente nel cane (26%-43%) che nel gatto (15%). La MG generalizzata, come suggerisce il nome, è caratterizzata clinicamente da debolezza generalizzata che si aggrava con l’esercizio fisico. Altri segni clinici comprendono: zoppia, collasso, rigurgito, scialorrea, ventroflessione del collo e tremori muscolari. Il megaesofago è spesso diagnosticato nel cane (88%). Il megaesofago non è molto frequente nel gatto (20%). Il 3% dei cani colpiti da MG generalizzata presentano anche timoma, nel gatto la percentuale è molto più elevata e varia tra il 15 e il 26%. La forma fulminante di MG è stata riportata sia nel cane che nel gatto. La forma clinica è caratterizzata dagli stessi segni clinici presenti nella MG generalizzata che però si manifestano in forma molto grave e a progressione rapida. Una grave difficoltà respiratoria è molto spesso presente. Molti dei casi che sviluppano la forma fulminante hanno il timoma. A parte gli anticorpi anti acetilcolina due altri anticorpi sono stati identificati nella forma fulminante, anticorpi anti titin (una proteina muscolare) e anti ryanodine receptors (RyR, un canale per il rilascio del Ca+2 dei muscoli schelettrici). La prevalenza della forma fulminante di MG è stata riportata del 16 e 15% rispettivamente nel cane e nel gatto.

Diagnosi Come ci si può immaginare la biopsia muscolare non è un test sensibile o specifico per la MG. Ciò che si può trovare all’esame instopatologico sono rare fibre muscolari con


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forma angolare, fibre muscolari atrofiche e a volte piccoli aggregati di linfociti. Da ricordare che in alcuni casi la MG si può presentare contemporaneamente a un miosite. In questo caso la biopsia muscolare presenterà anomalie molto più specifiche e gravi. Usando tecniche di immunoistochimica (staphylococcal protein A-horseradish peroxidase) si possono identificare immunocomplessi depositati a livello di placca NM e a livello ultrastrutturale si possono apprezzare un ridotto numero di recettori per l’acetilcolina, aumento della distanza intesinaptica e una riduzione delle ondulazioni della membrana postsinaptica. La presentazione clinica è il primo passo verso la diagnosi. Gli esami del sangue e la diagnostica per immagini (x-ray, ecografia o CT) possono aiutare ad identificare patologie concomitanti (i.e. timoma) e/o la presenza di megaesofago e polmonite ab ingestis. I risultati dell’esame elettrodiagnostico possono dimostrare riduzione dei potenziali muscolari dopo ripetuta stimolazione del nervo o un aumento del jitter nel single fiber EMG (elettromiografia). Una risposta positiva al test farmacologico con farmaci anticolinesterasici ad azione breve (edrophonium o neostigmina) può supportare la diagnosi di patologia di palcca. Tuttavia la diagnosi definitiva si ottiene solo tramite l’identificazione degli anticorpi anti recettori per l’acetilcolina nel siero (radioimmunoassays). Questo test sierologico è positivo nel 98% dei casi di MG generalizzata (titoli > 0.6nmol/l nel cane e >0.3nmol/l nel gatto sono ritenuti positivi per MG).

Terapia La terapia si può dividere in: a. Terapia della causa scatenante, se presente/identificabile (i.e. tumore) b. Terapia di supporto. Questa può includere terapia antibiotica in presenza di polmonite ab ingestis, fluidoterapia, nutrizione via peg-tube, fisioterapia...etc c. Terapia immunosopressiva. (corticosteroidi, azathiprine, ciclosporine, micofenolato, plasmapheresis) d. Terapia specifica con farmaci anticolinesterasici (neostigmina [0.04mg/kg ogni 6 ore im], piridostigmina [0.53mg/kg ogni 8-12 ore po]) La terapia di supporto e la terapia specifica dovrebbero sempre essere instaurate. La necessità di usare farmaci immunosopressivi è stata messa in questione da uno studio in cui l’88% dei pazienti è migliorato solo con terapia anticolinesterasica. (Il restante 12% ha sviluppato sucessivamente diversi tipi di neoplasie.)

Prognosi In generale la prognosi in cani colpiti da MG acquisita è riservata o grave. Questo è soprattutto dovuto al fatto che questa specie tende a sviluppare molto spesso il megaesofago. La prognosi è infatti ritenuta buona per quei soggetti che non hanno megaesofago, debolezza faringea o polmonite ab ingestis o in cui la polmonite viente facilmente controllata farmacologicamente. La mortalità ad un anno dalla diagnosi è stata riportata tra il 40 ed il 60%. La causa della morte o

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eutanasia è nella vasta maggioranza dei casi legata a ricorrenti e/o gravi episodi di polmonite ab ingestis. La prognosi sembra essere un po’ più favorevole nei gatti, forse proprio dovuto al fatto che questa specie raramente spviluppa megaesofago. La remissione dei segni clinici è associata ad una riduzione del titolo anticorpale anti recettori per l’acetilcolina. È quindi utile ripetere il test sierologico ogni 6-8 settimane.

SINDROMI MIAESTENICHE Come citato nell’introduzione, un vasto numero di patologie possono influenzare il funzionamento della placca neuromuscolare (a livello pre, inter e post sinaptico). Quelle citate a seguire sono forse le più rappresentative e comuni patologie di placca, tuttavia non sono certamente le uniche.

Botulismo Il termine botulismo viene utilizzato per descrivere la patologia che si sviluppa in seguito all’ingestione della tossina botulinica. Nella maggior parte dei casi, il botulismo è dovuto all’ingestione della tossina contenuta in cibi avariati e non cotti e solo raramente è dovuto ad una infezione da Clostridium botulinum. Questa patologia è stata descritta nel cane tuttavia non sono stati riportati casi di infezione naturale nel gatto. Otto sierotipi diversi di tossina botulinica sono stati identificati. Il tipo che più comunemente colpisce il cane è C (molto raro il tipo D). Nell’uomo la maggior parte dei casi di botulismo sono associati alla tossina A, B, E ed F. La tossina botulinica è stata definita una delle più potenti tossine che si conoscano. Indipendentemente dal tipo la sua azione a livello di placca neuromuscolare è moto simile. La tossina botulinica è composta da due porzioni, la catena pesante (heavy chain, HC) e la catena leggera (light chain, LC). La HC permette alla tossina di ancorarsi alla membrana presinaptica e favorisce l’entrata della LC all’interno del bottone terminale del neurone. La LC ha la funzione di bloccare in modo irreversibile l’azione delle proteine SNARE. Queste sono un gruppo di proteine che permettono la fusione delle vescicole conteneti acetilcolina con la membrana presinaptica e quindi il rilascio del neurotrasmettitore nella fessura sinaptica. Come ci si può immaginare il risultato ultimo della tossina è di prevenire la conduzzione neuromuscolare tramite il blocco del rilascio dell’acetilcolina. La rapidità con cui si sviluppano i segni clinici e la loro gravità dipende dalla quantità di tossina ingerita. Spesso i primi segni clinici si manifestano 12 ore dopo l’ingestione (fino a 6 giorni). Gli animali colpiti da botulismo sviluppano una paresi simmetrica che inizia dagli arti posteriori e progredisce agli arti anteriori. La paresi presto diventa paralisi flaccida con frequente coinvolgimento dei nervi cranici (paralisi del facciale, ridotto riflesso di deglutizione, ridotto tono della mandibola e megaesofago) e ipo/ariflassia. Il sistema nervoso autonomo può in oltre essere colpito (alterazioni della frequenza cardiaca, midriasi, ritenzione urinaria etc). La sensibilità, così come lo stato del sensorio sono inalterati. La diagnosi di botulismo si basa principalmente sull’anamnesi e sul quadro clinico. La tossina può essere isolata


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dal sangue (siero) o dal contenuto gastrointestinale (ELISA, RIA, PCR). Gli esami di elettrodiagnostica possono rivelare una riduzione dei potenziali d’azione dopo stimolazione delle fibre nervose motorie. Potenziali di fibrillazione e onde acute positive vengono talvolta registrate 7-10 giorni dopo la comparsa dei segni clinici. La terapia è largamente di supporto e particolare attenzione deve essere posta ad eventuali coinvolgimeti del sistema nervoso autonomo. In casi gravi la ventilazione assistita è necessaria. Il siero polivalente anti tossina può essere utilizzato in casi molto gravi e in cui la sospetta esposizione alla tossina è avvenuta nei 5 giorni precedenti. Un test intradermico è sempre raccomandato prima dell’iniezione endovenosa del siero antibotulinico per svelare eventuali reazioni di tipo allergico. La prognosi è variabile.

Paralisi da zecche La paralisi da zecche è stata riportata in Nord America e Australia. È caratterizzata da paralisi flaccida, simmetrica, progressiva e ascendente. Gli arti posteriori sono tipicamente conivolti per primi. In alcuni casi i nervi cranici vengono colpiti. La sensibilità è di solito mantenuta così come la funzione degli sfinteri uretrali ed anali. In casi gravi si ha la paralisi dei muscoli respiratori. La neurotossina viene rilasciata dalla zecca con la saliva durante il pasto di sangue. Le specie di zecche che costituiscono un rischio per il cane e il gatto sono il Dermacentor (Nord America) e l’Ixodes (Australia). La paralisi in Australia è molto più grave di quella riscontrata in America. La neurotossina agisce a livello di placca neuromuscolare impedendo in modo reversibile il rilascio dell’acetilcolina. Questa neurotossina sembra anche interferire con la normale propagazione dell’impulso lungo la porzione terminale dell’assone del nervo motorio. La diagnosi si basa principalmente sull’anamnesi, segni clinici e identificazione di una o più zecche sull’animale. Rimuovere la zecca è il trattamento migliore. Nei casi gravi terapia di supporto è altrettanto importante. L’uso del siero anti tossina è di solito riservato ai casi molto gravi che non migliorano dopo la rimozione della zacca. Anche in questo caso il test intradermico è fondamentale in quanto spesso si assiste a reazioni di tipo anafilattico. La prevenzione delle infestazioni da zecche è ovviamente consigliata.

Antibiotici aminoglicosidici Gli aminoglicosidici sono un gruppo di antibiotici utilizzati principalmente per il trattamneto di infezioni da batteri aerobi, gram-negativi. Gli aminoglicosidici interferiscono con la sintesi proteica raggiungendo in questo modo la loro azione battericida. Tra gli effetti collaterali forse meglio noti e più comuni rispetto al blocco della trasmissione neuromuscolare ci sono, la loro ototossicità e nefrotossicità. Tuttavia il blocco della trasmissione NM è stata riportata sia in medicina veterinaria che in medicina umana. Il blocco della trasmissione NM sembra essere dovuto ad

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un azione di antagonismo verso il Ca2+ sul versante extracellulare della membrana pre e post sinaptica. A livello di membrana presinaptica questo causa un mancato flusso di Ca2+ all’interno del bottone terminale con conseguente mancato rilascio dell’acetilcolina e quindi macata trasmissione NM. Il blocco è reversibile e la terapia migliore è l’immediata sospensione dell’antibiotico. Sloluzioni di calcio e neostigmina sono state utilizzate in medicina umana in situazioni di emergenza per sbloccare la trasmissione NM. Altri antibiotici che possono interferire con la trasmissione NM sono la lincomicina, la polimixina e le tetracicline.

Ipocalcemia Il calcio in forma ionica ha un ruolo fondamental sia nella trasmissione NM (rilascio del neurotrasmettitore nella fesura sinaptica) sia nel mantenimanto dell’equlibrio delle membrane muscolari e nervose. L’ipocalcemia (Ca2+ <2.5mg/dl) può quindi rendere difficile la normale trasmissione NM e rende le fibre muscolari e nervose molto facili da eccitare (questo è dovuto ad una aumentata permeabilità delle membrane al Na+). I segni clinici sono principalmente legati alla ipereccitabilità delle membrane nervose e solo raramente si osserva una sintomatologia miastenico-simile. Si possono osservare l’insorgenza acuta di nervosismo, spasmi muscolari, crampi, fascicolazioni dei muscoli facciali, andatura rigida, prurito alla muso, atassia, crisi tetaniche, tetraparesi e crisi convulsive (fino allo status epilepticus). Le cause dell’ipocalcemia possono essere molto diverse e comprendono, l’ipoparatiroidismo, l’iperparatiroidismo nutrizionale, insufficinza renale (acuta o cronica), pancreatite acuta, eclampsia post-partum, avvelenamento da glicole etilenico etc. Una accurata anamnesi e test di approfondimento possono aiutare ad identificare la causa dell’ipocalcemia. Il trattamento prevede la somministrazione di Ca2+ per via orale o endovensa a seconda della presentazione clinica. In situazioni di emergenza calcio gluconato 10% può essere somministrato lentamente (nell’arco di 10-30 minuti) ev ad una dose di 1-1.5ml/kg.

Organofosfati e carbammati Gli oganofosfati (OP) e i cabamati sono sostanze comunemente utilizzate come pesticidi, antiparassitari, funghicidi ed erbicidi. L’intossicazione nei piccoli animali è di solito dovuta ad un uso inappropriato o al sovradosaggio di queste sostanze. Gli OP e i carbammati sono sostanze con azione anticolinesterasica e quindi causano un accumulo di acetilcolina nella fessura sinaptica a livello sia di sistema nervoso autonomo (tra neutoni per e post gangliari del simpatico e parasimpatico e tra neuroni post gangliari ed organo effettore del parasimpatico), sia di sistema nervoso periferico (giunzione neuromuscolare) sia di sistema nervoso centrale (circuiti eccitatori del CNS). Gli OP inibiscono l’acetilcolinesterasi in modo irreversibile, mentre i carbamati inibiscono l’acetilcolinesterasi in modo reversibile. L’accumulo di acetilcolina a livello sinaptico causa tre gruppi diversi di segni clinici:


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1. segni muscarinici, dovuti a stimolazione del sistema nervoso parasimpatico, comprendono: aumentata salivazione, lacrimazione, minzione e transito intestinale, oltre a bradicardia, e miosi. 2. segni nicotinici, dovuti a stimolazione dei muscoli schelettrici, comprendono: fascicolazioni e tremori muscolari, spasmi, andatura rigida, ed eventualmente debolezza e paralisi. 3. segni colinergici centrali, dovuti a stimolazione del CNS, comprendono: ansietà, iperattività, anoressia e crisi convulsive. Una sindrome neuropatica ritardata (giorni o settimane dopo l’esposizione) si può sviluppare in seguito all’esposizione ad OP. Questa sindrome prende il nome di “organophosphorus-induced delayed neurotoxicity (OPIDN)” e si osserva più comunemente nel gatto che nel cane. Una forma di miopatia da OP è inoltre stata descritta. In generale i segni clinici si sviluppano nell’arco di alcuni minuti o alcune ore dopo l’esposizione alla tossina. La gravità dei segni clinici è strettamente legata alla ‘dose’ di OP o carbamma-

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ti a cui un soggetto viene esposto. In forme gravi l’animale può morire in seguito ad asfissia secondaria a depressione respiratoria centrale, broncocostrizione e eccessive secrezioni bronchiali. La terapia consiste nella rimozione, quando possibile, della sostanza tossica (usando carbone attivo quando la tossina è stata ingerita o con dei bagni se si ritiene che il soggetto abbia contaminazione del mantello). L’atropina (0.20.4mg/kg lentamente ev) è utile per ridurre/elimare i segni muscarinici, tuttavia non ha effetto sui segni nicotinici. Pralidossima cloruro (2-PAM: 10-20mg/kg ev nel gatto e 40mg/kg ev nel cane. È preferibile somministrare questa sostanza molto lentamente nell’arco di circa 30 minuti e diluita al 10% e) può essere utilizzata per antagonizzare i segni nicotinici, tuttavia si deve avere la certezza che l’intossicazione è dovuta a OP. Pralidossima cloruro può aggravare i segni clinici in caso di intossicazione da carbamati. Difenilidramina (4mg/kg ev/im tre volte al giorno) può inoltre essere utilizzata per contrastare i segni nicotinici ed in alcuni casi muscarinici dovuti ad esposizione ad OP.


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Nuove tecniche nella diagnostica ecocardiografica Elena Dall’Aglio Med Vet, Peschiera Borromeo (MI)

Marco Di Marcello Med Vet, PhD, Cellatica (BS)

Con il termine “strain” viene indicato un parametro fisico, e più precisamente meccanico, che negli ultimi anni sta trovando numerosi campi applicativi anche in ambito biomedico.4, 5, 8, 9, 10, 12 Lo strain può essere definito come il grado di deformazione cui è soggetto un corpo valutato lungo uno dei suoi assi, e può essere calcolato tramite il rapporto: Strain = (L - L0) / L0 Dove L0 rappresenta la dimensione iniziale ed L la dimensione misurabile dopo che il corpo è stato sottoposto alla deformazione. Trattandosi di un rapporto tra due lunghezze, lo strain non possiede unità di misura e viene espresso sotto forma di percentuale. Strettamente correlato allo strain è lo strain rate, parametro che indica la velocità con la quale la deformazione del corpo ha luogo, e che è data dal grado della deformazione avvenuta nell’unità di tempo. L’unità di misura di questa grandezza è 1/sec, esprimibile anche come sec-1. In medicina, e nello specifico in cardiologia, strain e strain rate vengono utilizzati principalmente per analizzare la cinetica di segmenti miocardici. Allo scopo di standardizzare quanto possibile l’analisi, generalmente si preferisce

suddividere il miocardio ventricolare sinistro in segmenti seguendo le linee guida proposte dall’American Society of Echocardiography. Dal momento che l’analisi può essere effettuata in funzione delle diverse dimensioni spaziali, sono state identificate tre principali componenti dello strain miocardico: longitudinale, radiale e circonferenziale. Per quanto concettualmente i principi su cui si basa l’analisi di strain e strain rate siano sufficientemente intuitivi, di gran lunga più complessa è l’applicazione pratica di queste metodiche, in quanto si rende necessario, per via ecocardiografica, analizzare nel dettaglio la cinetica di un singolo segmento miocardico, fornendo poi il risultato dell’esame in maniera quanto più possibile chiara e concisa. In ordine cronologico, la prima tecnica utilizzata ai fini della determinazione di strain e strain rate è quella basata sull’impiego del Doppler tissutale (TDI) 1, 2. Dal momento che lo strain rate è proporzionale al gradiente di velocità, calcolato lungo lo stesso asse, esistente tra le due estremità di un segmento, misurando la velocità dei singoli punti e conoscendo la distanza che li separa è possibile calcolare lo strain rate secondo la formula: SR = (V2 - V1) / D

from Journal of the American Society of echocardiography vol 18 N° 12


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Dove V2 e V1 rappresentano le velocità dei punti in esame, e D la distanza che li separa. Partendo da questo parametro, lo strain può essere quindi calcolato tramite l’integrazione dello strain rate in funzione del tempo. La determinazione di questi parametri tramite tecnica “TDI-based” si basa ad oggi sull’utilizzo di particolari sistemi Color Doppler messi a punto per l’utilizzo specifico. È naturalmente necessario che le macchine in questione dispongano di elevati frame rate, ed inoltre l’applicazione di questa tecnica è necessariamente vincolata dalle necessità di allineamento tra fascio di scansione e zona da analizzare tipica di ogni sistema Doppler. Questo, però, rende estremamente difficile l’analisi di strutture poste trasversalmente al fascio ultrasonoro. Al fine di svincolare l’analisi strain da queste limitazioni, altri sistemi, non basati su tecnica Doppler, sono stati studiati e sono tuttora oggetto di affinamento. Le tecniche di “Speckle Tracking” si basano sull’identificazione, da parte del sistema, di alcuni caratteri ecografici univocamente distintivi di una precisa zona miocardica; una volta “agganciata” la zona in esame, la macchina è in grado di seguirne il movimento in funzione del tempo ed, analizzando il movimento relativo di almeno due aree di interesse, di restituire all’operatore l’analisi strain eseguita sul segmento compreso tra i due punti in esame3, 6, 7, 11. Una volta ottenuto questo parametro, è naturalmente possibile risalire allo strain rate. Anche in questo caso è necessario che la macchina disponga di un adeguato frame rate, ma il punto cardine del corretto funzionamento del sistema è sicuramente dato dalla raffinatezza dell’algoritmo di “cattura” della zona miocardica di interesse, questione particolarmente delicata anche in funzione della complessità della cinetica miocardica. Tecnicamente molto simile allo Speckle Tracking è infine la tecnica “2D based”, in cui vengono nuovamente determinate le caratteristiche di una zona miocardica partendo però da una localizzazione dei punti vincolata dall’intervento dell’operatore, che generalmente identifica con la massima precisione possibile il profilo endocardico partendo inoltre da punti ritenuti particolarmente significativi. Ad esempio, nell’analisi dello strain longitudinale, i punti di riferimento sono forniti dall’annulus mitralico e dall’apice cardiaco. L’algoritmo che implementa la metodica in esame si basa quindi su una tecnica di “Border

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Tracking”, tramite la quale la macchina analizza i movimenti del profilo endocardico in funzione del tempo a partire dai dati forniti dall’operatore. Disponendo di un sistema bastato su quest’ultima metodica, il presente lavoro è consistito nella standardizzazione della tecnica di esame, nella massima limitazione degli errori metodica ed operatore- dipendenti (al fine di limitare al massimo le variabili inter ed intraoperatore) e nella determinazione dei valori di strain e strain rate su gruppi di soggetti sani appartenenti a razze diverse (Boxer, Labrador, Beagle, Dobermann), nonché sul confronto con alcuni soggetti patologici. A tale scopo, sono state utilizzate apparecchiature ecocardiografiche della serie Mylab (Esaote), ed in particolare i modelli 30 e 50 di volta in volta equipaggiati con le sonde ritenute maggiormente adatte alla taglia ed alle caratteristiche ecografiche del soggetto in esame. Tutti i soggetti, clinicamente sani, sono stati sottoposti ad esame ecocardiografico completo effettuato secondo standard con paziente in decubito. Di ogni soggetto sono stati inoltre registrati dei cine loop relativi alle proiezioni parasternale sinistra apicale 4 camere e parasternale destra asse corto a livello di valvola mitrale, muscoli papillari ed apice cardiaco. Su questi loop è stata, successivamente, effettuata la determinazione delle curve di strain e strain rate tramite analisi offline con software dedicato (Mylabdesk, Esaote). Dopo standardizzazione della metodica ed adeguato training degli operatori, per ogni soggetto sono quindi stati ottenuti e registrati in tabella i valori di picco sistolico di velocità, strain, strain rate e relativi tempi dall’inizio della sistole (“time to peak”); questa analisi è stata effettuata su tutte le proiezioni disponibili per ogni soggetto. Dal confronto con i dati disponibili in letteratura per la medicina umana, sembra emergere che i soggetti di specie canina abbiano valori di strain rate simili a quelli riscontrabili in pediatria, mentre i valori di strain sono sovrapponibili a quelli rilevati negli uomini adulti; di ulteriore interesse è che soggetti sani appartenenti a diverse razze sembrano possedere valori di picco tendenzialmente differenti. In conclusione, i risultati preliminari di questo studio sembrano fornire dati di potenziale interesse per la medicina veterinaria, confermando gli andamenti precedentemente osservati in medicina umana facendo uso di tecniche simili. La determinazione dei valori di strain e strain rate in


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gruppi di animali sani appartenenti a diverse razze dovrebbe, nel tempo, contribuire all’utilizzo di questa metodica fornendo dei termini di paragone utili al fine di analizzare i comportamenti tipici di soggetti affetti da differenti cardiopatie. Di particolare interesse, a questo proposito, potrebbe essere un contributo all’identificazione precoce di patologie caratterizzate da fasi di latenza di riconoscimento particolarmente ostico (es. miocardiopatia dilatativa). Il lavoro svolto, al di là dei risultati preliminari precedentemente descritti, ha permesso di ribadire l’assoluta necessità, da parte dell’operatore, di effettuare un training adeguato in relazione alla considerevole sensibilità della tecnica ad errori operatore dipendenti.

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Indirizzo per la corrispondenza: Elena Dall’Aglio: Clinica Veterinaria Milano Sud Via della Liberazione n° 26, Peschiera Borromeo (MI) Tel. 0255305568, Fax 0255306288 email: elena.dallaglio@cvmilanosud.it Marco Di Marcello: Centro Veterinario Cellatica Via Trebeschi n° 2, Cellatica (BS) Tel. e Fax 030.2772760; email: marco.dimarcello@tiscali.it


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Un caso cronico e un acuto trattati con le alte dinamizzazioni secondo Geukens Mauro Dodesini Med Vet, Bergamo

Introduzione Obiettivo del lavoro è dimostrare la possibilità di somministrazione al paziente acuto e cronico di Rimedi Omeopatici ad alte o altissime potenze ripetute a distanza molto ravvicinata, anche di pochi minuti, con un completo ristabilimento delle condizioni di salute del paziente in tempi brevi rispetto alla gravità della patologia. Per spiegare a fondo questa metodologia con i dovuti riferimenti all’Organon proietterò parte della relazione del Medico italiano Dott. Roberto Petrucci Presidente del Centro di Omeopatia di Milano, referente per l’Italia del Medico belga Dott. Alfon Geukens promotore di questa metodologia, al Congresso della Liga Homeopatica mondiale nel 2005. Caso n°1: Paralisi flaccida degli arti anteriori. Paziente: Poldo è un cane meticcio del peso di Kg 16, di 11 anni e 10 mesi di età. Anamnesi Domenica 30\09\2007 ore 19,00 Dopo una giornata normale non riesce a rialzarsi. Se sollevato e poi rimesso a terra il polso sinistro cede senza riuscire a sollevarlo. Lunedì 01 Ottobre 2007 Paralisi flaccida di entrambi gli arti anteriori: non riesce più ad alzarsi. Opinione del Collega: probabili postumi di Ictus Cerebrale. Terapia antinfiammatoria: nessun risultato. Lunedì O8 Ottobre 2007 Mi viene portato per la prima volta in Ambulatorio Poldo che presenta la seguente sintomatologia: dolore al tocco della regione cervicale, riflesso pupillare ritardato alla luce diretta, appetito e sete nella norma, minzione volontaria, defecazione volontaria. Importante difficoltà di deambulazione: quando tenta di rialzarsi barcolla e cade, mentre quando viene messo in posizione quadrupedale non viene sostenuto dall’arto anteriore sinistro mentre piange quando gli tocco la spalla destra. Da sdraiato non mostra assenze e sofferenza: riesce a muovere la coda per esprimere la sua contentezza quando si avvicina il proprietario. Pungo con un ago sui due arti anteriori ma Poldo non retrae né emette un grido di dolore. Esame Radiografico: Gravi segni di sofferenza discale su tutto il rachide cervicale e su quello toracico.

Calcificazione del disco intervertebrale C4-C5. Importante artrosi di entrambe le teste femorali. Repertorizzo il caso usando i Repertori Radar 9.1 e Complete Zandvort e diagnostico un Rimedio che copra tutta la sintomatologia. Terapia Ore 11,00 somministro il Rimedio alla 10.000 K. Dopo quaranta secondi il cane che prima era tranquillissimo comincia a lamentarsi come se ricominciasse ad avvertire il dolore. Trascorsi cinque minuti dall’assunzione del Rimedio il cane guaisce quando viene preso in braccio per essere portato all’auto. A domicilio: Il Rimedio Omeopatico determinato dalla Repertorizzazione alla potenza 10.000 K: mezzo contagocce ogni ora fino alle ore 21,00: n°11 dosi nella prima giornata. Martedì 09 Ottobre 2007 Ore 11 relazione telefonica: Il cane viene sollevato e poi appoggiato a terra sulle quattro zampe ma non si sostiene ancora. Novità: recupero della sensibilità dolorifica: manifesta più spesso dolore. Confermata la paralisi flaccida. Durante la notte la P. lo sente lamentarsi e girarsi da solo nella cuccia: non succedeva dall’esordio del problema. Sono trascorse 36 ore dall’esordio della terapia. Terapia consigliata: Il Rimedio alla 10.000 K: tre somministrazioni al giorno fino alla giornata successiva. Mercoledì 10 ottobre 2007 Relazione telefonica: il proprietario è meravigliato: Stamattina richiamato dalla P. si rialza da solo e riprende a camminare recandosi alla ciotola per bere. Poi si pulisce da solo leccandosi le zampe anteriori. Sono trascorse meno di 48 ore dall’assunzione della prima dose del Rimedio. Visita in Ambulatorio in tarda mattinata: Sintomatologia: deficit motorio da lesione dei nervi radiale e ulnare: Iperflessione dell’arto anteriore destro mentre cammina con tendenza a cedere se aumenta la velocità di deambulazione quando si agita nel piazzale antistante l’Ambulatorio. Sdraiato sul tavolo delle visite presenta ancora: sensorio vigile e attento, irrequietezza degli arti posteriori, rallentata


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chiusura dell’arco diastaltico: pungo le zampe anteriori e i polpastrelli con un ago e lui retrae la zampa dopo parecchi secondi, pupille dilatate e abbastanza insensibili al fascio di luce diretto. TERAPIA Rimedio 10.000 K: tre somministrazioni al giorno fino a Venerdì 12 Ottobre quando ci risentiremo telefonicamente. Lunedì 15 Ottobre 2007 Giovedì 11 e Venerdì 12\10\97 era molto arzillo: voleva andare a fare una passeggiata. Sabato 13 e Domenica 14: meno vivace e manifesta dolori al collo. Tenta di scrollarsi ma non riesce. Debolezza nell’appoggio dell’arto anteriore sinistro. Sono giornate di tempo freddo umido. Non vuole più stare a dormire sul divano perché probabilmente ha paura di cadere. Si sdraia volentieri sul pavimento. I proprietari gli stanno preparando un cuscino. Non è più rannicchiato quando dorme (come quando stava bene), ma assume una posizione distesa (come quando stava male). Visita Clinica Manifesta dolore sollevandogli la testa, ma dopo la punzione con un ago ancora insensibilità agli arti anteriori. I proprietari hanno proseguito di loro iniziativa fino ad oggi con la somministrazione di Rimedio alla 10.000 K tre somministrazioni al giorno nonostante gli avessi detto di richiamarmi Venerdì quando pensavo di ridurla ad una volta al giorno. Rimedio alla 10.000 K: due somministrazioni al giorno per 3 giorni. Lunedì 22 Ottobre 2007: dopo 14 giorni di terapia il cane salta corre e gioca senza problemi. Insensibilità alla punzione con un ago degli arti anteriori: a) arto anteriore destro: recupero completo. b) arto anteriore sinistro: chiusura dell’arco diastaltico ancora ritardata. TERAPIA Venerdì 26 e Sabato 27\10\07: dopo avere dinamizzato il flacone: mezzo contagocce di Rimedio alla 50.000 K la mattina. Lunedì 29 Ottobre 2007 Ha recuperato completamente la voglia di vivere: va molto volentieri a fare passeggiate in montagna. Durante la passeggiata gioca e corre con i Proprietari. L’autonomia fisica senza alcun segno di affaticamento è di almeno 30 minuti, poi al rientro quando camminano sull’asfalto trascina leggermente la mano sinistra. Salta il muretto fuori dall’Ambulatorio senza problemi. L’appetito è robusto. Beve e urina parecchio. Durante la visita verifico: l’arto anteriore destro: chiusura normale dell’arco diastaltico, mentre l’arto anteriore sinistro: ipoanalgesia alla punzione. Lunedì 05 Novembre 2007 Guarigione assoluta e recupero completo anche della sensibilità dolorifica all’arto anteriore sinistro. Ieri ha percorso una camminata di 90 minuti senza fermarsi mai, fosse stato

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per lui sarebbe andato ancora a spasso. Oggi è un tantino stanco ma è un piacere verificare quest’esuberanza in un soggetto di dodici anni. La terapia viene sospesa perché non è più necessaria. 07 Aprile 2008 Sono trascorsi 5 mesi e Poldo ha 12 anni e 4 mesi di età. Il recupero è definitivamente completo: il suo stato di salute è ottimo: non ha mai più sofferto di deficit neurologici come di nessun altro problema. Sono andati in vacanza in montagna e non ha mai avuto problemi anche percorrendo lunghe passeggiate nella neve, in un campo vicino a casa rincorre i conigli selvatici. Oggi è “ disturbato “ da una cagnolina in calore del palazzo in cui abita. Non ha mai più assunto alcuna terapia. Fuori dall’Ambulatorio: corre e scavalca addirittura un muretto. Tutti i giorni escono a passeggio per almeno un’ora, ma se fosse per lui non rientrerebbe mai. Conclusioni Possiamo considerare questo un caso acuto anche se ha intrapreso la terapia a distanza di una settimana dal suo esordio. Il risultato è confortante e possiamo trarre un bilancio delle frequenza delle assunzioni del Rimedio alla 10.000 K: n°11 dosi nelle prime dodici ore, tre dosi al giorno per la settimana successiva giorni e due dosi al giorno per i sette giorni seguenti. Il completo raggiungimento dello stato di salute del soggetto viene definitivamente raggiunto con due dosi alla 50.000 K. Un’alta potenza è così somministrabile molto frequentemente ad un soggetto anche di quasi 12 anni di età senza compromettergli la salute e anzi facendolo guarire in tempi assolutamente brevi. I Filmati che verranno proiettati durante la relazione dimostreranno la assoluta veridicità di quanto affermi. Caso n°2 Mio è un gatto affetto da atopia, dermatite eosinofilica, importante allergia ad acari, pulci e betulla diagnostica da Colleghi esperti in Dermatologia. Dopo un paio d’anni di terapia convenzionale con la somministrazione di antibiotici, antistaminici, cortisonici, farmaci antiparassitari locali e per via generale, diete ipoallergeniche, viene intrapresa dopo attenta Repertorizzazione una terapia omeopatica inizialmente alla 1.000 K con frequenza di tre somministrazioni al giorno. Inizialmente interverrò aumentando la frequenza di somministrazione quando si aggrava la sintomatologia, e poi gradualmente aumenterò la potenza del Rimedio: 3.000 K, 6.000 K, 10.000 K, 20.000 K, 30.000 K, 50.000 K, 80.000 K e infine 100.000 K che con più somministrazioni al giorno risolverà definitivamente il caso. Il Follow-up è di quattro anni e la serie delle fotografie che verranno proiettate ne documenteranno a fondo l’evoluzione. Indirizzo per la corrispondenza: Mauro Dodesini Via Bellini n°51, Bergamo Telefono 035-250008. E-mail: mauro.dodesini@omeopatiapossibile.it


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Metodiche riabilitative per una gestione ottimale dell’arto anteriore Ludovica Dragone Med Vet, Reggio Emilia

Quando ideiamo un programma riabilitativo dobbiamo tenere presente una serie di fattori. Una terapia di successo non può infatti prescindere da una accurata visita clinica che renda possibile identificare il problema e porsi obbiettivi realisticamente raggiungibili. Dopo una visita per una valutazione iniziale dobbiamo avere ben chiara la diagnosi, conoscere le varie tecniche chirurgiche utilizzate e capire i tempi di guarigione dei tessuti, in modo da comprendere i limiti funzionali delle strutture coinvolte e poter operare correttamente. Il tipo di trattamento scelto varierà infatti non solo per le diverse patologie, ma anche per ogni stadio di riparazione tissutale davanti a cui ci troviamo. Solo così ci potremo porre degli obbiettivi appropriati. Grazie ad una buona gestione dell’arto anteriore saremo quindi in grado di raggiungere migliori risultati in tempi più brevi, sia che si tratti di una gestione postoperatoria o postraumatica, sia che si tratti di una gestione conservativa, per esempio in presenza di osteoartrosi. Vale la pena sottolineare, anche in questa sede, che qualunque metodica riabilitativa, se applicata in maniera non corretta, può peggiorare la situazione. Alla luce di questo è quindi chiaro come una buona diagnosi ed una buona padronanza delle più comuni metodiche fisioterapiche siano indispensabili per poter operare correttamente. Gli obiettivi che ci si pone sono di proteggere le articolazioni da ulteriori traumi, ridurre la formazione di edema, alleviare il dolore e ridurre l’infiammazione, mantenere o ripristinare una buona mobilità articolare ed un buon tono muscolare, stimolare le vie nervose, evitare il disuso dell’arto. Nell’immediato postoperatorio, con opportune metodiche, possiamo agire sul dolore, contribuendo a ridurre edema ed infiammazione. Non bisogna per forza ricorrere a metodiche complesse, basta un semplice impacco ghiacciato applicato correttamente per avere risultati utili. La crioterapia la potremo applicare già durante la fase di risveglio dall’anestesia. Gli impacchi utilizzati dovranno avere una forma facilmente adattabile al distretto anatomico trattato e non dovranno essere applicati per tempi superiori ai 15 minuti. Durante l’applicazione è bene controllare frequentemente la cute per evitare reazioni da contatto. Se si decide di eseguire anche alcuni esercizi la crioterapia andrà applicata solo alla fine della sessione di lavoro. Nell’immediato postoperatorio, oltre alla crioterapia, sarà utile eseguire esercizi di mobilizzazione articolare, massaggi ed elettrostimolazione. I massaggi associati a corretti movimenti di mobilizzazione articolare, consentendoci di limitare la formazione di ede-

ma, effusioni articolari e aderenze tissutali, ci permetteranno di avere un corretto range of motion articolare già entro pochi giorni dalla chirurgia e, migliorando il movimento articolare, stimoleremo un corretto utilizzo dell’arto. L’elettrostimolazione può essere utilizzata per mantenere un buon tono muscolare e per contrastare edema e dolore. Attraverso la scelta di opportuni programmi, modulando frequenze, intensità ed ampiezza d’onda, saremo in grado di ottenere i risultati desiderati. Anche l’applicazione di impacchi caldi può risultare utile nella gestione postoperatoria sia dei pazienti ortopedici, sia dei pazienti neurologici, provocando una maggior estensibilità dei tessuti, un generale rilassamento, un aumento del circolo sanguigno, una diminuzione del dolore, una riduzione degli spasmi muscolari e della rigidità articolare. Basterà aspettare che sia passata la fase acuta del processo infiammatorio e poi potremo scaldare la zona da trattare con impacchi applicati localmente per 15 – 20 minuti. Gli impacchi caldi hanno un potere di penetrazione limitato; a seconda della quantità di tessuto adiposo presente il calore potrà penetrare per 1 – 3 cm di profondità. Se si desidera raggiungere profondità maggiori si dovrà far ricorso a metodiche strumentali, quali gli ultrasuoni o la diatermia, metodiche molto utili anche per contrastare dolore ed infiammazione e stimolare la cicatrizzazione. Non appena l’infiammazione ed il dolore cominciano a risolversi si potranno inserire nel nostro protocollo riabilitativo alcuni esercizi. Gli esercizi terapeutici sono una delle tecniche riabilitative più utili e più usate a nostra disposizione, il cui scopo è quello di migliorare ed accelerare il recupero funzionale della parte lesa. Se scelti ed applicati adeguatamente infatti, ci consentono di migliorare l’attivo range of motion dell’articolazione e di ridurne il dolore durante il movimento, ci permettono di stimolare l’uso di un arto, ridurre la zoppia, migliorare il tono e la massa muscolare, migliorare la sensibilità e la coordinazione dei movimenti, scongiurare il rischio di ulteriori traumatismi, prevenire o ridurre la rigidità articolare, l’atrofia e le contratture muscolari e far si che la normale attività quotidiana richiesta sia ripresa il prima possibile. Durante l’esercizio attivo o passivo le vie nervose vengono stimolate ripetutamente, ciò provoca un graduale aumento della velocità di trasmissione degli impulsi nervosi, grazie ad una diminuzione della resistenza sinaptica. Di conseguenza gli esercizi attivi e passivi effettuati su arti paretici aumentano la conduzione degli impulsi nervosi e la forza muscolare.


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È importante fare attenzione a non esercitare più del dovuto l’animale, poiché un lavoro eccessivo potrebbe provocare una distruzione delle proteine muscolari e ritardare il ritorno dei muscoli alla normale attività. L’esercizio terapeutico può essere effettuato in svariate forme. Possiamo far compiere noi alla parte interessata un movimento passivo, qualora non sia possibile far eseguire movimenti in maniera attiva, e passare poi gradualmente, quando possibile, ad un esercizio attivo, dove sono i muscoli stessi a far compiere ai segmenti ossei dell’articolazione la propria escursione; infine si passa ad attività capaci di determinare una lieve sollecitazione della resistenza muscolare. L’esercizio passivo è simile alla manipolazione: prevede il movimento di un’articolazione per tutta la sua possibilità di escursione. L’escursione passiva si definisce anche con la sigla PROM, Passive Range Of Motion. I movimenti passivi sono eseguiti interamente grazie all’applicazione di forze esterne, senza che vi sia contrazione muscolare volontaria. L’esercizio passivo è indicato sia nei soggetti con deficit neurologici più o meno gravi, sia nei pazienti ortopedici, in quanto consente di ridurre le contratture muscolari ed articolari e limitare l’atrofia da disuso, ridurre la rigidità articolare, mantenere la mobilità tra i vari tessuti diminuendo la formazione di aderenze, favorire la circolazione ematica e linfatica, migliorare il trofismo tissutale e aumentare la produzione endogena di endorfine. Gli esercizi di PROM purtroppo non ci aiuteranno però molto nel contrastare l’atrofia muscolare e nell’aumentare la forza muscolare, ma prevenendo le alterazioni secondarie all’immobilizzazione otterremo una guarigione migliore, più rapida e con meno complicazioni. Se applichiamo pressioni che vanno oltre la fine del ROM (ma senza esagerare o provocheremo uno stress eccessivo alle strutture interessate), iniziamo a fare dello stretching. Lo stretching ed il PROM si possono eseguire congiuntamente, aiutandoci non solo a mantenere, ma anche a migliorare il movimento di escursione articolare. L’ideale è iniziare il trattamento di PROM il giorno stesso dell’intervento (magari seguito poi dall’applicazione di impacchi freddi), o comunque il prima possibile, in relazione al tipo di patologia in atto. Il “passo intermedio” tra gli esercizi passivi e gli esercizi attivi prevede l’esecuzione di esercizi attivi assistiti. I movimenti di ROM attivo assistito si possono eseguire mentre il cane cammina, per terra o su un treadmill, o mentre nuota, e prevedono che aiutiamo il cane nel compiere i movimenti del passo che altrimenti da solo non sarebbe in grado di compiere correttamente. Negli animali l’esercizio attivo controllato, volontario, è meno facile da ottenere che nell’uomo. L’escursione attiva (Active Range Of Motion, AROM) prevede essenzialmente che siano i muscoli a determinare il movimento dell’artico-

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lazione per tutta la sua escursione. Si può iniziare con tali esercizi quando l’animale è in grado di deambulare e di muovere l’arto traumatizzato. L’esercizio attivo controllato (esercizio aerobico a basso impatto) ha lo scopo di stimolare il metabolismo cartilagineo favorendo la diffusione dei metaboliti attraverso la cartilagine, migliorare il range of motion articolare, recuperare il tono, la forza e la resistenza muscolare, ridurre il peso corporeo, aumentare la produzione di oppioidi endogeni (con conseguente riduzione del dolore), stimolare le reazioni sensoriali, favorire l’integrità della struttura ossea e favorire il circolo ematico e linfatico. In determinate patologie, come ad esempio l’osteoartrite, un esercizio moderato consente di prevenire la progressione della malattia in quanto, aumentando il tono e la forza muscolari, le articolazioni sono maggiormente protette da sollecitazioni biomeccaniche anomale e risultano più stabili. I benefici di un esercizio terapeutico risiedono nel fatto che con l’attività fisica, come in parte già accennato, si contribuisce a ridurre il peso corporeo (l’obesità è un fattore predisponente allo sviluppo di determinate patologie), si stimola un adeguato range of motion, si riduce il dolore articolare attraverso l’uso di esercizi a basso impatto per rinvigorire i muscoli e si proteggono i muscoli stessi che in seguito al disuso perdono la capacità di allungarsi, si indeboliscono e si atrofizzano. Gli esercizi attivi per gli arti anteriori, a seconda delle indicazioni per ciascun paziente, prevedono svariate attività quali: stare in piedi, esercizi statici (seduto – in piedi), camminare, trottare, fare le scale, camminare su un treadmill, movimenti a carriola, correre, riportare degli oggetti o dei pesi lanciati, percorsi ad ostacoli posti a diverse altezze, utilizzo di tavolette propriocettive e physioroll. Il nuoto o il camminare in acqua (underwater treadmill) possono essere considerati forme particolari di esercizio attivo. Con il progredire del nostro programma di riabilitazione, tutto ciò sarà più facilmente tollerato e si potrà aumentare la quantità e la durata degli esercizi. Il programma di esercizio ideale è infatti quello che procura benefici senza provocare disagio all’animale inoltre, idealmente, un programma terapeutico dovrebbe essere frazionato nell’arco della giornata. La durata, l’intensità e la frequenza delle sessioni di esercizio attivo controllato devono essere attentamente modulate in base alle condizioni del paziente ed in relazione alla disponibilità del proprietario. Indirizzo per la corrispondenza: Ludovica Dragone Med Vet, Reggio Emilia Amb. Vet. Dog Fitness, Via Adua 24/a, Reggio Emilia Tel 0522 924310 - ludovica@dogfitness.it


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La consulenza pre - adozione del cucciolo e l’arrivo in famiglia Franco Fassola Med Vet Comportamentalista, Asti

PERCHÉ UNA CONSULENZA PRE-ADOZIONE? Non esiste il cane perfetto, cioè che soddisfi tutte le esigenze del futuro proprietario. La scelta di un cucciolo deve essere la sintesi tra i desideri, le aspettative, le motivazioni del proprietario, il contesto ambientale e relazionale dove sarà inserito, lo spazio fisico e emotivo che occuperà nella vita del suo padrone, il gusto estetico, ecc. Tutti questi aspetti devono essere valutati dal proprietario coadiuvato da un Medico Veterinario comportamentalista, per questo è importante la consulenza pre-adozione. Vediamo, nello specifico, quali sono i punti da prendere in considerazione prima dell’adozione del cane.

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famiglia di anziani (valutare se escono frequentemente, se sono sedentari, se hanno delle menomazioni fisiche). Tipo di vita del proprietario: vedi punto predente. Disponibilità di tutti i membri della famiglia a dedicarsi al cane: questo è un elemento importante, perché più sono le persone che si occupano del cane, maggiore sarà piano esperienziale. Possibilità finanziarie: il cane costa, non solo per l’alimentazione, ma anche per l’educazione. Il tipo di relazione fisica/affettiva che si ricerca: ci sono proprietari delicati, altri che voglio sempre lottare e competere con il cane (avere questa informazione può essere utile per consigliare una razza invece di un’altra). Considerazione la possibilità che possa essere adottato, in luogo del cane un soggetto di un’altra specie (gatto, coniglio,…..).

La motivazione La scelta: taglia - razza - sesso Le motivazioni che sono alla base della scelta possono essere primarie o secondarie: • Motivazioni primarie: 1) il cane è desiderato e scelto da tutta la famiglia; 2) il cane è scelto per volontà di un solo membro della famiglia; 3) il cane deve svolgere un lavoro; 4) non c’è una motivazione chiaramente espressa. • Motivazioni secondarie: 1) il cane deve fare compagnia a un altro già esistente, attenzione se il cane presente è anziano, l’introduzione di un cucciolo potrebbe essere vantaggiosa, ma anche motivo di stress per lui; 2) sostituire un animale deceduto, al riguardo c’è un discreta letteratura che valuta i pro e i contro; 3) adozione forzata, perché quel cane è destinato al canile, o peggio all’eutanasia, oppure perché arriva come regalo.

I problemi pratici La vita con un cane comporta molti problemi pratici, che di primo acchito non sono sempre presi in considerazione: • Il luogo di vita: vivere in appartamento è diverso dall’avere a disposizione una casa con giardino, se poi si pensa di confinare il cane in un recinto insorgono altri problemi gestionali - è possibile che il soggetto debba abituarsi a più abitazioni. • La composizione della famiglia: presenza solo adulti adulti, bambini, adolescenti e giovani (questo cambia il contesto e anche le abitudini delle persone e del cane) -

• La taglia: un luogo comune recita che i cani di piccola taglia hanno bisogno di meno spazio e di meno attività fisica rispetto a quelli di grossa taglia: è sbagliato. Come, non corrisponde al vero che i cani di taglia piccola non siano “veri” cani. Purtroppo, i cani piccoli vengono spesso sottratti al confronto con gli altri cani per paura che possano essere aggrediti, di conseguenza possono presentare deficit di socializzazione. Il cane di taglia grande può essere meno attivo e meno reattivo, richiede un proprietario che abbia forza per controllarlo all’esterno e uno spazio adeguato, inoltre i costi di alimentazione, le spese veterinarie, ecc.. Per contro il rispetto sociale che si ha con un cane di grossa taglia è difficilmente ottenibile con uno piccolo. • La scelta della razza non deve solo basarsi sull’aspetto fisico, ma anche sulle sue caratteristiche attitudinali per stabilire se è adatta in quel contesto e a quel gruppo famigliare. • Il sesso: 1) vantaggi del maschio: è più appariscente, con più pelo e una testa più grande - in teoria può essere usato come riproduttore (ci riferiamo a cani di razza); svantaggi: è più indipendente, meno affettuoso - fa le marcature sessuali e sociali, le uscite devono essere più lunghe rispetto a quelle delle femmine - può fuggire quando ci sono le femmine in calore - può essere più aggressivo e generare maggiori problemi gerarchici con il proprietario - può non andare d’accordo con i conspecifici;


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2) vantaggi della femmina: è più affettuosa - più casalinga - può riprodursi (anche se non è perfetta e non ha il pedigree) - le passeggiate possono anche essere più brevi, perché fa tutta la pipì in una sola volta; svantaggi: è più piccola e meno appariscente - ha il calore con perdite ematiche - può restare gravida. NON CI SONO DIFFERENZE PER QUANTO RIGUARDA LA CAPACITÀ DI APPRENDERE.

Tre punti importanti • L’allevatore: è lui che decide gli accoppiamenti, è il primo essere umano che ha contatto con il cane, che lo cura, che lo accudisce, che lo accompagna nelle prime esperienze. Offriamo la nostra disponibilità ad andare insieme al proprietario per aiutarlo nella valutazione. • La madre del cucciolo: è il primo cane con cui il cucciolo ha a che fare, gli insegna molte cose; per questo è importante vederla, valutare il suo comportamento con l’uomo, con gli altri cani e con i cuccioli. • Il cucciolo in sé: consigliare al proprietario di ossee il cucciolo, non come un bel peluche, ma come un essere vivente – suggerire al proprietario di fare più visite al cucciolo prima di acquistarlo.

Dove cercare il cucciolo, i pro e i contro • Negozio di animali: 1) è necessario procedere a una scelta oculata del negozio; 2) i cuccioli possono essere stati sballottati; 3) in molti casi i cuccioli sono tenuti sempre in gabbia; 4) le manipolazioni, da parte del personale, sono distratte; 5) spesso i cuccioli arrivano da un allevamento estero; stress da trasporto; 6) sono staccati dalla madre molto presto (a 30 - 40 gg); 7) è impossibile vedere i genitori e i fratelli. • Allevamento generalista: 1) spesso sono gestiti da persone che si improvvisano o che vendono cuccioli alla moda senza guardare al loro benessere; 2) sono presenti più razze, anche molto diverse - questo può essere un vantaggio o uno svantaggio, dipende dalla gestione; 3) non ci sono quasi mai i maschi riproduttori; 4) molti cuccioli sono di età diversa; 5) si fa uso massiccio della pubblicità per aumentare le vendite; 6) sono in grado di trovare quasi sempre i cuccioli richiesti, ma senza badare alla loro provenienza. • Allevamento specializzato su una sola razza: 1) solitamente sono allevamenti a gestione famigliare; 2) generalmente gli allevatori portano in esposizione i loro soggetti; è più facile conoscere le caratteristiche dei riproduttori; 3) il proprietario, solitamente, conosce bene le attitudini di razza, perché appassionato; 4) in genere c’è un’attenta gestione sanitaria dei soggetti; 5) spesso sono visibili entrambi i genitori. • Cucciolate famigliari: 1) in genere c’è un’attenta gestione sanitaria dei soggetti; 2) sviluppo comportamentale dei cuccioli generalmente corretto; 3) attenzione anche alla documentazione dei cuccioli; 4) sempre visibile la madre;

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5) la conduzione dell’allevamento varia da caso a caso, dipende dal proprietario del cane. • Cucciolate di amici: 1) ottima conoscenza del comportamento e delle condizioni fisiche di almeno un genitore; 2) in genere c’è un’attenta gestione sanitaria dei soggetti; 3) sviluppo comportamentale dei cuccioli generalmente corretto; 4) attenzione anche alla documentazione dei cuccioli; 5) è possibile una difficoltà nella scelta per una sorta di forzatura da parte del proprietario; 6) possibile imbarazzo nel rifiutare il cucciolo se non risponde alle caratteristiche richieste. • Canili pubblici o privati: l’adozione di un cane abbandonato in canile è una incognita perché non è possibile conoscere i genitori, la storia pregressa del cucciolo, che se resta tanto in canile ha poche interazioni sociali ambientali, lo sviluppo cognitivo può essere deficitario.

Cosa considerare nel luogo di adozione • Valutazione dell’ambiente: 1) il canile deve avere le dimensioni proporzionate al numero di cani ospitati e deve essere ordinato e pulito; 2) la valutazione dell’ambiente circostante è importante per rilevare la presenza di rumori, persone, auto, altri animali; 3) considerare la posizione del canile rispetto alla casa patronale per stabilire il tipo di contatto e la relazione tra cani e proprietari; chiedere se i cuccioli hanno anche accesso alla casa; 4) quante e come sono le persone che si occupano dei cani, osservare come interagiscono con loro e quale relazione hanno instaurato; 5) abitudine dei cuccioli alle manipolazioni dell’allevatore; 6) arricchimento ambientale del luogo dove soggiornano i cuccioli (fondo, possibilità di dislivelli, presenza di coperte, di giornali per sporcare, di giochi, di specchi, ecc.); 7) temperatura dell’ambiente; 8) umidità dell’ambiente. • Valutazione della madre: 1) presenza della madre nella cucciolata: costante - saltuaria - occasionale; 2) comportamento della madre verso gli estranei: madre che non socializza ne con i cani, ne con i soggetti di altre specie - madre fobica o ansiosa, - madre iperattiva o troppo tollerante, sono comportamenti che possono essere trasmessi ai cuccioli; 3) osservare come la mamma gestisce i cuccioli. • Valutazione del padre: 1) se si tratta di un cane da lavoro, informarsi sull’attività svolta e sui risultati ottenuti nel caso abbia partecipato a gare; 2) vedere se ha possibilità di avvicinarsi ai cuccioli e alla madre; 3) considerare come si comporta con gli estranei. • Valutazione sanitaria: suggerire al proprietario del cucciolo di informarsi dello stato sanitario dei genitori (vaccinazioni regolari, prevenzione della filaria, trattamento per parassiti interni ed esterni, visite veterinarie periodiche....) dei controlli eseguiti sui cuccioli, e dell’avvenuta iscrizione all’Anagrafe canina.

Quando andare a vedere i cuccioli • Quando tutti i componenti della famiglia hanno le idee chiare sull’adozione e sulla gestione di un cane, sulla razza da scegliere e sul sesso.


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• Quando si ha tempo. • Andare più volte per vedere i cagnolini in età diversa. • Far visita all’allevamento in momenti in cui le condizioni climatiche sono diverse. Deve partecipare tutta la famiglia alla visita.

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VALUTAZIONE DEL TEMPO DA DEDICARE AL CUCCIOLO: 1. qualcuno della famiglia sempre a casa; 2. il cucciolo resta da solo al mattino e al pomeriggio / solamente al mattino / solamente al pomeriggio; 3. organizzarsi per abituarlo, a restare solo, in modo progressivo, ricorrere all’aiuto di dog-sitter.

La scelta del cucciolo Il proprietario, ora ha il bagaglio di informazioni necessarie per andare a scegliere il suo cucciolo, vediamo cosa deve osservare: • Che sia in buona salute. • Che si offra al contatto con i visitatori, questo dimostra che ha avuto una buona socializzazione. • Che accetti di buon grado le manipolazioni e le costrizioni.

VALUTAZIONE DELLO SPAZIO DOVE PUÒ MUOVERSI IL CUCCIOLO: 1. giardino dove lo può restare libero, ma sotto il controllo del proprietario; 2. uscite al guinzaglio per le vie della città, al parco, libero nell’area cani - programmare almeno 4-5 uscite di 30 minuti al giorno; 3. uscite in campagna in un luogo sicuro; 4. uso di dog-sitter per uscite - valutare i costi.

ARRIVO IN FAMIGLIA DEL CUCCIOLO: cosa prendere in considerazione

ARRIVO IN FAMIGLIA DEL CUCCIOLO: cosa prendere in considerazione

In relazione allo schema riportato sopra valutiamo, per ogni singolo punto, le varie opzioni.

Gestione del cibo: 1. scelta del luogo dove somministrare il pasto e rituale da usare;


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2. numero dei pasti; 3. alimento casalingo/commerciale - secco/umido; 4. gestione del cucciolo che assiste al pasto dei proprietari. Gestione dello spazio: 1. spazio interno: a. disposizione delle cucce in casa e fuori casa; b. luogo dove il cane dorme: i. in casa: 1. camera dei proprietari nella sua cuccia; 2. camera dei proprietari, sul letto; 3. in una camera da solo; 4. non ha un posto preciso nella casa ii. fuori casa: 1. box; 2. cuccia vicino alla casa; 3. non ha un posto preciso dove dormire; 2. spazio esterno: a. cortile, suggerimenti per la collocazione della cuccia e per l’educazione del cane con esercizi cognitivi; b. educazione civica per le uscite in città (suggerimenti sull’uso della pettorina e del guinzaglio, uso delle palette per la rimozione delle deiezioni, uso dei mezzi pubblici, ecc.). Gestione della socializzazione: a. consigli su come iniziare la socializzazione con le persone;

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b. consigli su come iniziare la socializzazione con i cani di piccola e grossa taglia; c. consigli per mettere in contatto il cucciolo con altri animali. Abitazione a situazioni non comuni: a. l’abituazione al trasporto in macchina, l’uso del D.A.P. b. programmare di portare il cane in pulman, in treno, cominciando con visite alla stazione per abituarlo al rumore; c. programmare uscite in ambienti diversi da quelli vicino a casa: mercati, uffici pubblici, luoghi dove ci sono manifestazioni, ecc. Ricordare ai proprietari la possibilità di frequentare con il cane il Puppy party e la Classe per cucciolo, dove vengono introdotti a tutte queste esperienze in modo graduale e sotto il controllo di un Medico Veterinario Comportamentalista e di un Educatore cinofilo. Bibliografia disponibile su richiesta all’autore

Indirizzo per la corrispondenza: Franco Fassola Asti - C.so Torino 88 - Tel.: 340/2350989 E-mail: fassola@veterinario.it


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Obesità, sua incidenza in Europa, impatto clinico e strategie nutrizionali Giuseppe Febbraio Med Vet, Bari

L’obesità rappresenta oggi la patologia nutrizionale che colpisce più frequentemente gli animali da compagnia che vivono nei paesi industrializzati. Il tasso di incidenza dell’obesità nei cani presentati alla visita varia dal 24% al 44% a seconda dell’autore, la sede dello studio epidemiologico e la definizione dei criteri iniziali. Nel gatto, il tasso d’incidenza dell’obesità, che era molto basso negli anni 70 supera ora il 20% a prescindere dalla sede dello studio epidemiologico. L’abitudine sempre più frequente di considerare il gatto come un animale di casa, la limitata attività fisica quotidiana dei gatti tenuti tra le mura domestiche e la maggiore disponibilità di cibi molto appetibili sono tutti fattori che possono aver contribuito alla crescita molto consistente dell’obesità tra i gatti. Stime più recenti, provenienti dal mondo veterinario e da ricerche di mercato confermano il fatto che la percentuale di cani e gatti in sovrappeso ha assunto dimensioni rilevanti; tale percentuale diventa addirittura preoccupante in alcune aree geografiche soprattutto del Nord Europa dove le abitudini alimentari della popolazione umana tendono a diete ipercaloriche, con conseguenti ripercussioni sulla salute sia degli animali domestici che dei loro proprietari. I ricercatori hanno osservato che l’obesità è associata alla presenza di cibo appetibile in eccesso e situazioni in cui non è richiesta un’attività fisica gravosa. Queste condizioni stanno acquisendo una sempre maggiore incidenza nella popolazione umana globale ed è probabile che incidano anche sui cani e gatti da compagnia. Considerata la tendenza globale recente, è piuttosto probabile che l’obesità negli animali da compagnia derivi da uno scarso controllo dell’apporto alimentare in un ambiente caratterizzato dall’abbondanza di cibo e dalla carenza di movimento. L’obesità è definita come l’accumulo eccessivo di grasso nelle zone di deposito adiposo dell’organismo. Un valore del peso corporeo pari o superiore al 20% in più rispetto al normale è generalmente considerato indice di obesità e, nella specie umana, i problemi di salute cominciano a aggravarsi quando il peso raggiunge il 15% in più rispetto al peso ideale. La causa fondamentale di tutti i casi di obesità è uno squilibrio tra l’apporto e il consumo energetico che provoca un’eccedenza energetica persistente. L’energia in eccesso si accumula principalmente sotto forma di lipidi, determinando un incremento ponderale e un’alterazione della composizione corporea. Il problema dell’obesità sembra molto semplice in termini di bilancio energetico, ma esistono molte cause responsabili dello squilibrio, primo dei quali la errata con-

vinzione da parte dei proprietari che somministrare molto cibo ai propri animali sia la forma più efficace e diretta per dimostrare loro affetto e che, viceversa, l’introduzione di una dieta controllata sia vissuta dall’animale come una incomprensibile cattiveria. A questo si aggiunge la relativa incapacità dei veterinari di recepire i rischi correlati all’obesità animale e di comunicare ai proprietari in forma sufficientemente incisiva una corretta educazione alimentare e le misure dietetiche correlate. È opinione diffusa che gli animali obesi abbiano un aspetto meno sano e meno gradevole. Spesso l’obesità provoca la diminuzione delle capacità di reazione del soggetto e dell’attività fisica che normalmente svolge, ma può addirittura abbreviarne la durata della vita ed esporlo maggiormente al rischio o essere la causa di disturbi di salute. È ormai assodato che il sovrappeso e l’alimentazione in eccesso negli animali sono coinvolti non solo nell’insorgenza di malattie metaboliche (es., diabete mellito), ma anche nel peggioramento clinico di condizioni croniche (artrosi, malattie cardiovascolari) e anche nella patogenesi di malattie ortopediche dello sviluppo (displasia dell’anca, osteocondrosi). Ad esempio la maggiore incidenza di rotture del legamento crociato nei cani obesi non è solo imputabile al carico ponderale abnorme che le articolazioni devono sopportare, ma anche all’indebolimento della struttura stessa del legamento, composto in questi soggetti da fibrille di collagene di calibro inferiore alla norma. Anche la valutazione clinica è complessivamente più difficile nel paziente obeso rispetto al paziente in condizione corporea ideale. Le tecniche ostacolate dall’obesità includono la visita clinica, auscultazione toracica, palpazione e aspirazione dei linfonodi periferici, palpazione addominale, prelievo di sangue, cistocentesi e diagnostica per immagini (soprattutto l’ecografia). Anche il rischio anestetico è maggiore negli animali obesi e i problemi includono la stima della dose anestetica, l’inserimento del catetere e il tempo operatorio. Ricerche più recenti hanno suggerito un nuovo legame tra obesità e molte malattie. Sembra che il tessuto adiposo, una volta considerato fisiologicamente inerte, sia un attivo produttore di ormoni, come la Leptina, e numerose citochine. Si ritiene che le adipo citochine ( fattore di necrosi tumorale alfa, interleuchina 6,proteina C reattiva, ecc) abbiano un ruolo nella patogenesi di molti disordini associati all’obesità nell’uomo, ed è probabile che esistano molti parallelismi con i disordini degli animali da compagnia. Inoltre l’obesità è associata con aumentato stress ossidativo, che può anche contribuire alle patologie.


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Il concetto alla base del trattamento dell’obesità è semplice: il peso diminuisce quando la spesa energetica supera il consumo giornaliero di calorie. Può essere tuttavia difficile implementare programmi di successo per perdere peso nel caso del cane o del gatto di casa. L’elemento fondamentale consiste nel valutare dettagliatamente l’anamnesi alimentare e lo stile di vita per identificare innanzi tutto ogni specifico limite del proprietario e dell’animale che possa influenzare l’implementazione del programma per la perdita del peso e, in seguito, sviluppare soluzioni pratiche in grado di funzionare all’interno di tali limiti. L’obiettivo primario è sempre quello di ridurre il consumo giornaliero di calorie e aumentare il dispendio energetico quotidiano. Del tutto controindicato è limitare l’apporto calorico semplicemente limitando la quantità di cibo solitamente consumata. Questa scelta produce carenze nutrizionali ed è poco probabile che abbia successo. L’uso di una dieta appropriata per la perdita di peso è importante e vi sono diversi criteri da considerare. Sebbene sia la restrizione calorica che induce la perdita di peso, è importante evitare una eccessiva restrizione di nutrienti essenziali. Una dieta a bassa densità calorica con un aumentato rapporto nutrienti / calorie rappresenta un ottimo approccio. Altra considerazione non meno importante è quella di promuovere la perdita di massa grassa riducendo al minimo quella della massa magra, che può essere influenzata dalla composizione della dieta. La scelta della dieta deve tenere conto innanzitutto dell’obiettivo (il trattamento dell’obesità) e possibilmente della velocità, per la perdita di peso programmata. La restrizione dei grassi riduce ovviamente la densità calorica della dieta e di conseguenza aiuta a assumere meno calorie. Anche l’incorporazione della fibra è senza dubbio uno dei mezzi principali per ridurre la densità energetica delle diete, garantendo nello stesso tempo un volume soddisfacente e un contenuto energetico ridotto. Nel cane, la restrizione energetica ottenuta somministrando una dieta ad alto contenuto in fibra e basso contenuto in lipidi ha consentito una maggiore riduzione del grasso corporeo e delle concentrazioni di colesterolo sierico. La dieta deve avere un rapporto proteine /calorie appropriato, il cui valore energetico (determinato anche dal conte-

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nuto in fibra) sarà il più basso possibile, permettendo allo stesso tempo una razione e un volume di alimento accettabili per il proprietario e un effetto sufficientemente saziante per l’animale. La concentrazione proteica delle diete destinate al trattamento nutrizionale dell’obesità deve, per coprire i fabbisogni in aminoacidi essenziali o meno, essere superiore a quella delle razioni consigliate per il mantenimento. Considerato che l’apporto energetico è fortemente ridotto, occorre aumentare in proporzione inversa la concentrazione proteica per prevenire la riduzione dell’apporto proteico al di sotto dei fabbisogni fisiologici. Le diete ad alto contenuto proteico rendono possibile aumentare la perdita della massa grassa, minimizzando quella della massa magra. Questa viene ulteriormente tutelata da un aumentato rapporto Lisina (primo aminoacido limitante)/ calorie. La supplementazione di una appropriata quantità di aminoacidi in rapporto con la Lisina piuttosto che un semplice aumento della quantità totale delle proteine favorisce la sintesi proteica e la riduzione della mobilitazione della massa muscolare. Nelle diete a basso contenuto energetico possono essere importanti anche alcuni specifici ingredienti, soprattutto quelli che influenzano il metabolismo lipidico e, a parte questo, la composizione corporea. La L-carnitina favorisce appunto la conversione dei grassi in energia, migliora la ritenzione azotata e modifica la composizione corporea a favore della massa magra. La scelta del grado di razionamento energetico deve essere adattata in funzione di numerosi criteri e, soprattutto, il grado di soprappeso, il sesso dell’animale e la durata programmata della dieta. I numerosi studi clinici pubblicati indicano che mantenere una perdita dell’1-2% alla settimana rispetto al peso iniziale, costituisce un obiettivo ragionevole. Un punto di partenza è quindi quello di una restrizione calorica del 40% (20 -30% nel gatto), da adattare poi al singolo individuo. Dividere la razione giornaliera in 4 o più piccoli pasti dovrebbe aumentare la termogenesi postprandiale. È anche un buon metodo per ridurre la quantità di tempo in cui gli animali hanno fame, limitando così l’iperattività all’ora di pranzo. Rivalutare il paziente è importante per riadattare l’apporto energetico se la perdita di peso è inferiore all’1% o superiore al 2% alla settimana.


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Ridurre il rischio di resistenza nei confronti degli antimicrobici al momento di trattare le infezioni cutanee: il punto di vista del clinico Alessandra Fondati PhD, Dipl ECVD, Roma

Al momento di trattare le infezioni batteriche cutanee, gli obiettivi del medico veterinario dovrebbero essere i seguenti: i. Eliminare l’infezione batterica a. Trattare con farmaci antimicrobici adeguati (topici e/o sistemici) b. Identificare (controllare/eliminare) la/e causa/e sottostante/i per evitare recidive ii. Non favorire la selezione di batteri resistenti agli antibiotici In dermatologia veterinaria il problema si pone principalmente nel cane, al momento di trattare le piodermiti, malattie cutanee frequenti in questa specie e spesso ricorrenti se dovute a cause non facilmente controllabili (es. dermatite atopica). La terapia antimicrobica adeguata per trattare le infezioni batteriche cutanee viene selezionata in base al quadro clinico-patologico (infezioni batteriche superficiali/profonde; localizzate/generalizzate) e prevede l’uso di prodotti antibatterici topici (shampoo/soluzioni/creme/unguenti) e/o sistemici. Laddove sia possibile (es. sovracrescita batterica; piodermiti superficiali e profonde localizzate), per ridurre il rischio di favorire la selezione di batteri resistenti agli antibiotici sistemici, dovrebbe essere privilegiato l’impiego di: • soluzioni/shampoo contenenti prodotti antibatterici non antibiotici (es. clorexidina 1-2%) • creme/unguenti contenenti antibiotici Tuttavia, per trattare le piodermiti nel cane, spesso è necessario ricorrere ad una terapia antibiotica sistemica, che nella maggior parte dei casi viene scelta empiricamente basandosi sulla prevista sensibilità agli antibiotici degli stafilococchi coagulasi positivi, i batteri che più frequentemente causano infezioni cutanee nella specie canina. La terapia antibiotica sistemica empirica viene impiegata soprattutto per trattare le piodermiti superficiali (follicoliti) generalizzate. Nei testi di dermatologia veterinaria si suggerisce la somministrazione orale, per 3 settimane, di cefalosporine di prima generazione (cefalexina, cefadroxil), penicilline associate ad inibitori delle beta-lattamasi (amoxicillina-acido clavulanico) e/o sulfamidici potenziati. L’utilizzo dei fluorochinoloni dovrebbe rappresentare una seconda scelta ed essere quindi limitato ai casi in cui venga indicato dai risultati dei test di sensibilità. Sebbene ci sia variabilità nei dati riportati, la resistenza degli stafilococchi nei confronti degli antibiotici beta-lattamici e dei fluorochinoloni sembra in aumento, forse in parte come conseguenza dell’uso prolungato (da oltre 10 anni) di questi antibiotici.

Se al momento di trattare una piodermite nel cane si sospettano fenomeni di resistenza e/o presenza di batteri diversi dagli stafilococchi come causa dell’infezione, prima di iniziare la terapia antibiotica è necessario eseguire un test di sensibilità (di solito un antibiogramma con tecnica KirbyBauer). La scelta mirata dell’antibiotico aumenta le possibilità di efficacia della terapia e riduce il rischio di favorire fenomeni di resistenza. Conoscere la concentrazione minima inibente (MIC) dell’antibiotico nei confronti del patogeno isolato sarebbe d’aiuto ma nella pratica clinica la tecnica Kirby-Bauer è la più comunemente impiegata. Alcuni esempi pratici di casi in cui sarebbe consigliabile eseguire un esame batteriologico ed un antibiogramma prima di instaurare la terapia antibiotica sistemica sono i seguenti: • se non si osserva una risposta adeguata ad una terapia antibiotica sistemica corretta (per dose e durata) • se la piodermite, superficiale e/o profonda, è ricorrente ed è stata trattata con cicli ripetuti di antibiotici • se si sospetta che la piodermite sia dovuta a batteri diversi dagli stafilococchi (es. bacilli) • se il quadro clinico-patologico è suggestivo di piodermite profonda ma non si osservano batteri all’esame citologico L’esame batteriologico, che si suggerisce empiricamente di eseguire previa sospensione della terapia antibiotica per almeno una settimana, può essere effettuato a partire da: • contenuto di pustole intatte (preferibilmente, laddove possibile) • superficie di collaretti epidermici • contenuto di papule-placche-noduli • materiale che fuoriesce da tragitti fistolosi • campioni bioptici (empiricamente viene suggerita la rimozione dell’epidermide) Specialmente in caso di piodermiti profonde, è consigliabile comunque eseguire, assieme agli esami batteriologici, anche esami istopatologici di biopsie cutanee. Per quanto riguarda l’esame batteriologico e l’antibiogramma, al fine di ottenere informazioni utili, è necessario eseguire i prelievi ed inviare i campioni al laboratorio in modo corretto. I risultati ottenuti devono essere comunque interpretati alla luce del quadro clinico-patologico e non è infrequente, purtroppo, la mancanza di correlazione fra quadro clinico, cito-istologico e microbiologico. Il laboratorio dovrebbe provvedere a: • identificare la specie di stafilococco isolato, ivi compresi gli stafilococchi coagulasi negativi, che possono causare piodermite nel cane


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• includere nell’antibiogramma dischi contenenti oxacillina (la resistenza in vitro nei confronti di questo antibiotico è considerata indicativa della resistenza alla meticillina) oltre a dischi contenenti quegli antibiotici comunemente usati in dermatologia • indicare il diametro di inibizione della crescita batterica, ed i valori di riferimento standard per valutare resistenza/sensibilità, per ciascun antibiotico. Nel caso in cui vengano isolati stafilococchi resistenti alla meticillina esistono due tipi di conseguenze pratiche: • rischi per la salute-vita del paziente. Dato che la meticillino-resistenza implica resistenza in vivo nei confronti di tutti gli antibiotici beta-lattamici (penicilline e cefalosporine) e si accompagna spesso a resistenza nei confronti di ≥ 3 classi di antibiotici (multiresistenza), la terapia della piodermite è estremamente difficile. È possibile che dall’antibiogramma non emergano antibiotici utili che possano essere somministrati per via orale, per lungo tempo, e senza rischi per la salute del cane. In alcuni casi di piodermite canina causata da stafilococchi meticillino-resistenti multiresistenti è stata riportata l’efficacia dell’apramicina (un amminoglicoside registrato per l’uso nel suino) alla dose di 13 mg/Kg per via orale ogni 12 ore. Altri antibiotici citati come potenzialmente utili per trattare infezioni sostenute da stafilococchi meticillino-resistenti nel cane includono la rifampicina (associata ad un altro antibiotico, purché diverso dai fluorochinoloni) e la doxiciclina, quest’ultima alla dose di 10 mg/Kg per via orale ogni 12 ore. È sconsigliabile, per non favorire la selezione di batteri resistenti, a meno che non si tratti di una scelta estrema, l’uso della vancomicina, uno degli antibiotici impiegati per trattare le infezioni umane sostenute da Staphylococcus aureus meticillino-resistente. • potenziali rischi per gli umani in contatto col paziente, inclusi proprietari e veterinari. A questo proposito sarebbe consigliabile seguire alcune norme igieniche basiche, da spiegare anche ai proprietari (consultare www.bsava.com e/o la referenza bibliografica 7). In dermatologia, per ridurre il rischio di favorire la selezione di stafilococchi resistenti, sarebbe anche opportuno ridurre il più possibile l’uso prolungato di antibiotici a dosaggi subterapeutici, come avviene per la terapia di piodermiti “idiopatiche” o ricorrenti dovute a cause sottostanti difficilmente controllabili. Pur tuttavia, in uno studio effettuato in cani con piodermite superficiale/profonda trattati per un anno con cefalexina, due giorni/settimana, alla dose di 15 mg/Kg per via orale ogni 12 ore, la buona risposta clinica ottenuta non suggeriva l’insorgenza di fenomeni di resistenza. Nonostante ciò, il numero ridotto di casi inclusi nello studio e la mancanza di dati microbiologici non permettono di considerare l’uso prolungato di dosaggi subterapeutici di cefalexina scevro da rischi di resistenza e/o altri rischi. Per riassumere, per ridurre il rischio di favorire la selezione di batteri resistenti, i medici veterinari per animali da

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compagnia, vista l’assenza di linee guida nel nostro paese, dovrebbero usare gli antibiotici con “buon senso”. Dovrebbero cercare quindi di prescrivere antibiotici: • solo se è necessario, alla dose corretta e per un periodo possibilmente breve (senza però interrompere la terapia troppo precocemente) • possibilmente a stretto spettro e scelti in base ai risultati di test di sensibilità

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Indirizzo per la corrispondenza: Alessandra Fondati Centro Veterinario Prati Viale delle Milizie 1/a, 00192 Roma


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Gastropessi preventiva: a chi, quando, come..... Luca Formaggini Med Vet, Dormelletto (VA)

La gastropessi viene definita come fissazione permanente dello stomaco alla parete addominale destra tramite induzione chirurgica di aderenze. Molteplici sono le tecniche descritte in letteratura. Preceduta dalle manovre di stabilizzazione, la gastropessi rappresenta il trattamento d’elezione per la gestione definitiva del paziente che ha manifestato il primo episodio acuto di dilatazione/torsione gastrica (GDV). L’utilizzo della gastropessi come mezzo di prevenzione in un paziente altrimenti sano ma potenzialmente a rischio di GDV, non è stato ancora valutato da studi controllati; tuttavia, considerando che i trattamenti medici (anti-acidi, anti-meteorici, promotori della motilità gastrica) e i tentativi di manipolare i fattori di rischio (dietetici e comportamentali) hanno fornito scarsi risultati e che il tasso di mortalità in corso di GDV rimane ancorarelativamente alto (30-40%), la prevenzione chirurgica viene sempre più frequentemente richiesta dai proprietari/allevatori di razze a rischio e consigliata dai Medici Veterinari attenti a questa problematica.. Sono tre punti i punti fondamentali da considerare rispetto a questo argomento: 1. la selezione del paziente che potrebbe beneficiare della chirurgia preventiva 2. la tecnica da utilizzare 3. l’aspetto etico dell’intervento stesso.

Selezione del paziente: A CHI? E QUANDO? Per rispondere a questa domanda è molto importante essere al corrente e considerare attentamente l’epidemiologia e i fattori di rischio correlati all’insorgenza della GDV nei cani di razze grande e gigante in modo da fornire ai loro proprietari e agli allevatori un’adeguata informazione nel rispetto della scientificità. In particolare, se si analizzano attentamente i dati estrapolati dagli studi epidemiologici condotti dal gruppo di ricerca della Purdue University, risulta praticamente impossibile non porsi la domanda: “Dobbiamo noi veterinari raccomandare la gastropessi preventiva in quei soggetti a rischio per GDV così come identificati dagli studi epidemiologici?” Allo stato attuale della Letteratura mondiale in termini di prevenzione della GDV, la risposta dell’autore a questa domanda è “senza nessun dubbio si!” Altri pazienti che potrebbero beneficiare dell’intervento di gastropessi preventiva sono quelli affetti da torsione cronica; questi pazienti sono presentati con vomito cronico, perdita di peso, flatulenza e dilatazioni ricorrenti dopo i pasti. Diversi lavori inoltre, riportano

una correlazione tra splenectomia e GDV e tra IBD (Inflammatory Bowel Disease) e GDV. Non è possibile ancora dimostrare una relazione diretta causa-effetto, ma in assenza di ulteriori dati, pazienti sottoposti a splenectomia per torsione splenica e pazienti sintomatici per malattie infiammatorie intestinali potrebbero anch’essi trarre vantaggio dalla gastropessi preventiva. Nei soggetti a rischio “altrimenti sani” la gastropessi preventiva può essere eseguita in qualsiasi momento della loro vita, ad esempio associata ad altri interventi preventivi (sterilizzazione nella femmina). Per essere più precisi, considerando i periodi della vita a maggior rischio di GDV, la gastropessi va effettuata più precocemente nei soggetti di taglia gigante (rischio incrementale a partire da 1 anno di vita) rispetto ai soggetti di taglia medio-grande in cui il rischio maggiore è dai 7 anni in poi.

La tecnica da utilizzare: COME? La gastropessi preventiva rappresenta un concetto nuovo che deve essere posto in atto dai chirurghi senza alcuna esitazione; nella struttura dell’autore si sta raccomandando fortemente questa procedura ai clienti proprietari di cani che presentano diversi fattori di rischio e che hanno parenti che a loro volta hanno manifestato GDV. In questi casi (soggetti sani) viene proposta la chirurgia mini-invasiva (gastropessi video-assistita). I vantaggi sono ovvi e sono rappresentati da sicurezza e minor morbilità, che si riflettono in un breve periodo di convalescenza post-operatorio, minor incidenza di infezioni e minore dolore legato alla breccia celiotomica. In alternativa a questa tecnica, o in quei soggetti in cui altre malattie concomitanti (torsione


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splenica) sono oggetto di chirurgia, altre tecniche di gastropessi sono altrettanto valide e le preferenze personali del chirurgo hanno maggior peso.

L’aspetto etico Dal punto di vista etico si possono evidenziare argomenti di discussione nel momento in cui si considerano questi pazienti come riproduttori e come cani da esposizione. L’ereditabilità di alcune caratteristiche fisiche (torace profondo e stretto) considerate come fattori di rischio per lo sviluppo di GDV sono considerate colpevoli della trasmissione verticale della GDV cosiddetta “familiare”. In questi casi la pessi preventiva potrebbe mascherare l’espressione della malattia favorendone la diffusione.

Letture consigliate Glickman LT, Glickman NW, Schellemberg DB et al. Non-dietary risk factors for gastric dilatation-volvolus in large and giant breed dogs. JAVMA 217:10 1492-1499, 2000. Glickman LT, Glickman NW, Schellemberg DB et al. Incidence and breedrelated risk factors for gastric dilatation-volvulus in dogs. JAVMA 216:1 40-45, 2000. LT Glickman, NW Glickman, DB Schellenberg, K Simpson, and GC Lantz. Multiple risk factors for the gastric dilatation-volvulus in dogs: a practitioner/owner case-control study. JAAHA 33:3 197-204, 1997. Malathi Raghavan, Nita Glickman, George McCabe, Gary Lantz, and Lawrence T. Glickman Diet-Related Risk Factors for Gastric Dilatation-Volvulus in Dogs of High-Risk Breeds. JAAHA 40: 192-203, 2004. D Schellenberg, Q Yi, NW Glickman, and LT Glickman Influence of thoracic conformation and genetics on the risk of gastric dilatation-volvulus in Irish setters. JAAHA 34: 64-73, 1998. Glickman L, Emerik T, Glickman N, et al. Radiological assessment of the relationship between thoracic conformation and the risk of gastric dilatation volvulus in dogs. Vet Radiol & Ultrasound 37:3 174-180, 1996. Malathi Raghavan, Nita W. Glickman, and Lawrence T. Glickman The Effect of Ingredients in Dry Dog Foods on the Risk of Gastric Dilatation-Volvulus in Dogs. JAAHA 42: 28-36, 2006. Theyse LF, van de Brom WE, van Sluijs FJ. Small size food particles and age s risk factors for gastric dilatation volvulus in great Danes. Vet Rec 11;143(2) 48-50, 1998. RH Schaible, J Ziech, NW Glickman, D Schellenberg, Q Yi, and LT Glickman Predisposition to gastric dilatation-volvulus in relation to gene-

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Indirizzo per la corrispondenza: Luca Formaggini Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” C.so Cavour, 3 - 28040 Dormelletto (NO) Italia Tel +39 0322 243716 - Fax +39 0322 232756 E-mail lformaggini@cvlm.it


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Patella luxations in the dog Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Missouri, USA

Incidence Patella luxation is a common problem encountered in small animal practice. Though most of the patella luxations occur in small dogs, they also occur in large breeds of dogs and cats. Most patella luxations will be medial in dogs and cats. Lateral patella luxations mainly occur in large dogs. However, either direction of patella luxation can be found in dogs and cats. The techniques for surgical repair of patella luxation that will be discussed can be used for either dogs or cats. The techniques are modified, depending on whether the patella luxation is medial or lateral. As an example, for a medial patella luxation, the tibial tuberosity will be moved laterally, while, for lateral patella luxation, the tibial tuberosity will be moved medially to realign the pull of the quadriceps mechanism.

Etiopathogenesis The patella is a sesamoid bone that serves to reduce the friction and change the direction of the pull of the quadriceps muscle in its action on the proximal tibia to extend the stifle joint. Thus the major components of the quadriceps mechanism are actually affected during patellar luxations and include the four muscle bellies that comprise the quadriceps, their points of origination either on the femur or on the pelvis, the patella itself, the patello femoral ligaments, the patellar ligament and its insertion point on the tibial tuberosity. Displacement of the patella is only one of the abnormalities present in patella luxation. When discussing this problem with owners, it is easy to give the owner the impression that all that needs to be done to correct the problem is to move the patella back into place. In reality, numerous musculoskeletal abnormalities may be present. As the patella luxation becomes more severe, the number and severity of the deformities will increase. The deformities that may be present with medial patella luxation include coxa vara, distal femoral varus, external torsion of the distal femur, shallow trochlear groove with poorly developed or absent trochlear ridges, hypoplasia of the medial condyle of the femur with tipping of the stifle joint, medial rotation of the tibial plateau with respect to the distal femur, medial displacement of the tibial tuberosity, and valgus of the proximal tibia.

Classification Patella luxations have been categorized depending on the type and severity of the abnormalities that are present. Patel-

la luxations are classified as grade I-IV. Grade I patella luxations are usually intermittent luxations causing the leg to be carried when the patella is displaced. The dog is able to replace the patella by extending the knee. Displacement of the tibial tuberosity is minimal. Grade I luxations rarely cause a significant problem for the dog. With grade II patella luxation, the patella frequently luxates but can be reduced manually without much effort. The dog will be intermittently lame and will carry the leg when the patella is out of position. As the luxation becomes more chronic, the dog may walk on the leg when the patella is out of position. The tibial tuberosity is displaced medially and the tibial plateau is rotated up to 30 degrees. The trochlear groove may be significantly shallow. Grade III patella luxation is characterized by a patella that is permanently luxated but which can be manually replaced into the trochlear groove. Once finger pressure is released, the patella reluxates. The tibial tuberosity is displaced medially a significant amount and the tibial plateau is rotated between 30 and 60 degrees. The stifle joint is usually significantly tipped. The trochlear groove is usually very shallow. The medial joint capsule is contracted, while the lateral joint capsule is stretched out. Grade IV luxations are the most severe grade of patella luxation. The patella is always out of the trochlear groove and cannot be digitally replaced, even under anesthesia. The femur and tibia are usually bowed and the proximal tibia is rotated internally 60-90 degrees. The medial femoral condyle is hypoplastic and the joint is tipped severely. The trochlear groove is flat or convex. The limb is carried or the animal walks with a crouched, flexed and bowed-legged stance. The medial joint capsule is contracted, while the lateral joint capsule is stretched out.

Surgery for uncomplicated cases Correction of a patella luxation should be based on the specific abnormalities that are present. It is not always possible or necessary to correct all of the abnormalities that are present. Experience will allow the selection of the best procedures to correct the problems at hand. Accurate physical and radiographic examination will define most of the abnormalities present. However, some of the decisions on what procedures to be performed will be made at the operating table after inspection of the knee and the initial procedures are performed. One of the basic principles of correction of patella luxations is that a skeletal deformities, such as a tibial tuberosity deviation or a shallow trochlear groove, need to be corrected by bone reconstruction techniques. Failure to


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move the tibial tuberosity laterally is the most common error made in correcting patella luxations. Bilateral corrective procedures can be performed under the same anesthesia in smaller patients. Surgical correction of patella luxations should be performed in a step-by-step fashion after identifying the abnormalities that are present and amenable to correction. The following description of the surgical procedures available will be in the sequence that they are performed in the patient for medial patella luxations. The proper adjustments for lateral patella luxations will need to be made. If the patella is not stable after the standard procedures are performed, additional procedures can be added until the patella is stable. A lateral arthrotomy of the stifle is performed making sure to identify where the patella and patella ligament are located. Remember that for patella luxations the joint capsule and fascia lata are stretched out and thus the anatomical relationships of the soft and hard tissues may be distorted. While making the approach, make the incision through the fascia lata just lateral to the patella ligament and carefully separate the fascia lata from the underlying joint capsule before entering the joint. Once within the joint, it should be thoroughly explored for abnormalities such as cruciate injuries and cartilage damage. The depth of the trochlear groove, the displacement of the tibial tuberosity, and the contracture of the medial joint capsule should also be assessed. The depth of the trochlear groove should be at least onehalf the height of the patella (cranial-caudal thickness). If the trochlear groove is shallow or borderline shallow, it is the first abnormality to be corrected. There are two methods of deepening the trochlear groove: trochlear wedge recession arthroplasty and trochlear sulcoplasty. The trochlear sulcoplasty involves removing the cartilage and the bone in the trochlear groove to form a trough for the patella to ride in. The edges of the groove should be cut at right angles to the base. The trough should be deep enough so that the bottom of the patella does not ride on the bone. If the patella does ride on the bone, the cartilage of the patella will be damaged. With time, granulation tissue will start to fill in the trough. The pressure of the patella riding against the granulation tissue will limit the amount it will fill in the trough, thus making a groove that is the correct depth. With time, the granulation tissue should turn into fibrocartilage. Unfortunately, the transformation process of the granulation tissue is not complete and thus forms a surface that is not as good as the hyaline cartilage that lines normal joints. The trochlear wedge recession arthroplasty was developed to overcome this deficiency. The trochlear wedge arthroplasty uses a wedge-shaped piece of bone with the cartilage still attached to line the trochlear groove. The trochlear wedge recession arthroplasty is started by using a scalpel blade to outline the intended wedge to be removed. Once the wedge is outlined, an X-acto saw (#234 or 236) is used to cut the wedge. The cuts are started at the top of the trochlear ridges (or where they should be making sure that the cuts are wider apart than the width of the patella) and angles toward the midline of the trochlear groove. Care must be used to make sure that the cuts do not extend into the cruciate ligaments or up too proximal into the bone and that the

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cut is not too deep. The wedge of bone that is removed is wrapped in a saline or blood-soaked gauze sponge and saved to be replaced later. A second cut is made parallel to the first two cuts so that a “V-shaped” piece of bone is removed. The “V” is discarded. The wedge is placed back into the defect and tested for fit. If the wedge does not sit back into the defect without rocking back and forth, the bottom of the wedge is carefully removed with a rongeur until the wedge does sit in the defect without rocking. Once the wedge fits correctly, it is removed, wrapped in a saline-soaked sponge and then replaced immediately before closure of the joint. The wedge will be held in position by the pressure of the patella riding against it and the friction between the bone edges. The wedge will quickly heal back down and the articular cartilage will survive as hyaline cartilage. The major advantage to this procedure is that the lining of the groove is hyaline cartilage that is the normal cartilage present within the joint. Deepening the trochlear groove is generally performed on most grade II, and on all grade III and IV, patella luxations. Contraction of the medial joint capsule and retinaculum is assessed. If the patella will not stay in place once the patella is positioned in the trochlear groove without undue digital pressure or cannot be replaced, the medial retinaculum and/or joint capsule will need to be incised. This is referred to as a medial desmotomy or release. This will need to be performed for grade III and IV luxations in all cases and generally for grade II luxations. The release is performed with a scalpel blade and involves carefully cutting through the medial retinaculum, to begin with, without cutting through the joint capsule. The incision extends from the tibial plateau to just proximal to the insertion of the cranial belly of the sartorius muscle. The fibers of the retinaculum are allowed to retract back from the joint capsule. The patella is again replaced into the trochlear groove and the tendency for reluxation assessed. If the patella tends to luxate easily, the joint capsule can be incised along the same line if necessary. At the time of joint capsule closure, if the medial side of the joint has been incised, the medial arthrotomy is only covered with deeper subcutaneous tissue and skin. Medial displacement of the tibial tuberosity and tibial rotation compared to the femur are assessed together to see if one or both need to be corrected. Proper alignment of the tibial tuberosity is necessary to keep the patella in position. The tibial tuberosity should be centered with the trochlear groove so that, as the quadriceps muscle extends the knee, the pull of the quadriceps muscle is centered with the trochlear groove. If the origin and insertion of the quadriceps muscle and the trochlear groove are not aligned, the action of the muscle contraction will continually try to pull the patella out of place. Most dogs with grade II, and all dogs with grade III and IV, patella luxation will require tibial tuberosity transposition. An osteotome is used to cut the tibial tuberosity. Care is taken to remove enough of the tibial tuberosity so that it can be reattached. The distal most aspect of the tuberosity is not cut so that the tuberosity is hinged. An extension of the patella ligament runs over this area and helps hold the tuberosity in place. Once the tuberosity is cut, it is rotated laterally until the pull of the patella ligament is centered in the trochlear groove. With the tibial tuberosity


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held in this position, the knee is flexed and extended as the knee is internally and externally rotated to see if the patella will stay in place. Once the neutral position is located, the tibial tuberosity is reattached using two Kirschner wires. They are driven in a cranial-to-caudal direction with a slight proximal angle. Any rotational abnormalities will be corrected after the lateral side of the joint has been closed. The joint capsule on the lateral side of the joint is sutured using a simple interrupted suture pattern. Redundant joint capsule can be excised if excessive. If the patella still has a tendency to luxate, a derotational suture can be placed if the tibial tuberosity does not line up with the trochlear groove. The derotational suture is passed around the lateral fabella of the femur and through a hole that has been drilled in the area of the tibial tuberosity. The suture is passed through the hole from lateral to medial and back under the patella ligament. The suture is tightened to the point that the patella ligament is centered with the trochlear groove and tied. If the patella still has a tendency to luxate, an artificial collateral ligament is created with suture material. Different patterns are used, but a simple figure-eight pattern works well. The suture is passed around the lateral fabella of the femur and back towards the patella. The suture is passed through the patella tendon just proximal to the patella in a lateral-to-medial direction. The suture is next passed along the medial side of the patella in a proximal-to-distal direction. The last step involves passing the suture in a medial-to-lateral direction through the patella ligament just distal to the patella. The suture is tightened just to the point that the patella will not luxate medially. The fascia lata is imbricated as the last corrective measure performed. Excessive fascia lata can be trimmed if necessary. Care must be taken to make sure that a medial patella luxation is not turned into a lateral luxation. A Mayo mattress or Lembert suture pattern are used for the imbrication. Postoperatively, the leg is placed in a soft-padded bandage. The bandage is left on for 10-14 days and removed when the sutures are removed. Once the bandage is removed, the owners are encouraged to perform physical therapy on the leg by flexing and extending the knee 30-40 times twice a day. The dog can also be swum in the bathtub to encourage use of the leg.

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Surgery for complicated cases Patellar luxations in large breed dogs, lateral patellar luxations and Grade IV luxations can all prove to be particularly challenging cases. Recently, additional techniques have been explored to try to decrease the risk of post-operative reluxation which is about 8%. These techniques have been focused on addressing other anatomical malformations that can accompany this condition such as excessive distal femoral varus and contracture of the rectus femoris component of the quadriceps muscle group. Distal femoral varus is normal and has recently been shown to be about 7 degrees in large breed dogs. This is important to note not only to give the surgeon an appreciation of what excessive varus may measure as, but also to serve as a target value to perform corrections to, if needed. Two recent reports have documented the utility of performing a closing wedge osteotomy and internal fixation for the correction of excessive distal femoral varus for those cases where it is suspected to be a complicating element in patellar luxation. Another ancillary technique is the completion of a rectus femoris transposition. The rectus femoris is the only component of the quadriceps muscle group that does not originate on the proximal femur, but on the pelvis instead. Because of this, in some cases, the rectus femoris undergoes contraction, especially with chronically medially luxating patellas. It is believed that releasing the pull of the rectus femoris by transecting its tendon of origin, and then transposing the tendon to the lateral aspect of the proximal femur will eliminate a source of strong medial pull on the patella, and make its lateral movement and reduction more successful.

References Arthurs GI, Langley Hobbs SJ. Complications associated with corrective surgery for patellar luxation in 109 dogs. Vet Surg. 35: 559-566: 2006. Tomlinson JL, Fox D, Cook JL, Keller GG. Measurement of femoral angles in four dog breeds. Vet Surg 36:593-598: 2007. Swiderski JK, Palmer RH. Long Term outcome of distal femoral osteotomy for treatment of combined distal femoral varus and medial patellar luxation: 12 cases (1999-2004). J Am Vet Met Assoc. 231:1070-1075: 2007.


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Come ridurre il rischio d’insuccesso nella lussazione della rotula Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Missouri, USA

Incidenza La lussazione della rotula è di comune riscontro nella clinica dei piccoli animali. Benché la maggior parte dei casi si verifichi nei cani di piccola taglia, la condizione si riscontra anche in quelli di grossa taglia e nei gatti. Sia nella specie canina che nei felini, in genere le lussazioni della rotula sono di tipo mediale. Quelle laterali si verificano principalmente nei cani di grossa taglia. Tuttavia, sia nel cane che nel gatto la lussazione può avvenire in entrambe le direzioni. Le tecniche di riparazione chirurgica della lussazione rotulea che verranno illustrate possono essere impiegate in entrambe le specie animali. Le diverse metodiche vanno modificate, a seconda del fatto che la lussazione rotulea sia mediale o laterale. Ad esempio, per una lussazione mediale, la tuberosità tibiale verrà spostata lateralmente, mentre per la lussazione rotulea laterale la stessa tuberosità tibiale verrà spostata medialmente per riallineare la trazione esercitata dal meccanismo del quadricipite.

Eziopatogenesi La rotula è un osso sesamoideo che serve a ridurre la frizione ed a modificare la direzione della trazione esercitata dal muscolo quadricipite durante la sua azione sull’estremità prossimale della tibia per estendere l’articolazione del ginocchio. Quindi, nelle lussazioni rotulee vengono in realtà colpite le componenti principali del meccanismo del quadricipite, che comprendono quattro ventri muscolari che costituiscono il quadricipite stesso, i loro punti di origine sia a livello del femore che del bacino, la rotula stessa, i legamenti femororotulei, il legamento rotuleo ed il suo punto di inserzione sulla tuberosità tibiale. La dislocazione della rotula è soltanto una delle anomalie presenti nella lussazione. Quando si discute questo problema con i proprietari, è facile dare loro l’impressione che tutto ciò che si deve fare per correggere il problema è riportare a posto la rotula. In realtà, possono essere presenti numerose anomalie muscoloscheletriche. Man mano che la lussazione rotulea diviene più grave, il numero e la gravità delle deformazioni aumentano. Le deformità che possono essere presenti nella lussazione rotulea mediale sono rappresentate da coxa vara, varismo femorale distale, torsione esterna dell’estremità distale del femore, scarsa profondità del solco trocleare con cattivo sviluppo o assenza dei margini trocleari, ipo-

plasia del condilo mediale del femore con inclinazione dell’articolazione del ginocchio, rotazione mediale del plateau tibiale rispetto all’estremità distale del femore, dislocazione mediale della tuberosità tibiale e valgismo del tratto prossimale della tibia.

Classificazione Le lussazioni rotulee sono state classificate in funzione del tipo e della gravità delle anomalie presenti. Vengono distinte in base al grado da I a IV. Quelle di grado I sono di solito fenomeni intermittenti che fanno sì che l’arto possa essere tenuto sospeso quando la rotula è dislocata. Il cane è in grado di riposizionarla estendendo il ginocchio. La dislocazione della tuberosità tibiale è minima. È raro che le lussazioni di grado I causino un problema significativo all’animale. Nella lussazione rotulea di grado II, la rotule frequentemente è lussata ma può essere ridotta manualmente senza molto sforzo. Il cane presenterà una zoppia intermittente e terrà l’arto sollevato quando la rotula è fuori posto. Man mano che la lussazione diviene più cronica, il soggetto può camminare sull’arto quando la rotula è dislocata. La tuberosità tibiale viene spostata medialmente ed il plateau tibiale è ruotato fino a 30°. Il solco trocleare può essere significativamente poco profondo. La lussazione rotulea di grado III è caratterizzata da una lussazione permanente della rotula, che però può essere riposizionata manualmente nel solco trocleare. Quando la pressione esercitata con le dita viene eliminata, la rotula si rilussa. La tuberosità tibiale viene dislocata medialmente in misura significativa ed il plateau tibiale è ruotato fra 30 e 60 gradi. L’articolazione del ginocchio di solito è significativamente inclinata. Il solco trocleare in genere è molto poco profondo. La capsula articolare mediale è contratta, mentre quella laterale è stirata. Le lussazioni di grado IV sono quelle più gravi. La rotula è sempre fuori dal solco trocleare e non può essere riposizionata con le dita, neppure sotto anestesia. Il femore e la tibia di norma sono arcati e la parte prossimale della tibia è ruotata internamente di 60-90 gradi. Il condilo femorale è ipoplastico e l’articolazione è gravemente inclinata. Il solco trocleare è appiattito o convesso. L’arto viene tenuto sospeso oppure l’animale cammina assumendo una stazione rannicchiata, con arti flessi ed inarcati. La capsula articolare mediale è contratta, mentre quella laterale è stirata.


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Trattamento chirurgico dei casi non complicati

mo dalla rotula sovrastante limita la quantità che andrà a colmare la doccia, portando così alla formazione di un solco dalla profondità corretta. Con il tempo, il tessuto di granulazione deve evolvere in fibrocartilagine. Sfortunatamente, il processo di trasformazione del tessuto di granulazione non è completo e ciò porta alla formazione di una superficie che non è valida quanto la cartilagine ialina che riveste le articolazioni normali. Per superare questa carenza è stata sviluppata l’artroplastica con riposizionamento di un cuneo trocleare. Questa tecnica si basa sulla realizzazione di un frammento di osso a forma di cuneo con la cartilagine ancora attaccata alla linea del solco trocleare. L’artroplastica con riposizionamento di un cuneo trocleare viene iniziata utilizzando una lama da bisturi per delineare il cuneo che si intende asportare. Una volta che il cuneo è stato tracciato, si utilizza una sega di tipo X-acto (n° 234 o 236) per tagliarlo. I tagli devono iniziare alla sommità dei bordi trocleari (o comunque in una posizione tale da garnatire che risultino più ampi della larghezza della rotula) ed inclinati verso il solco. Bisogna stare attenti ad assicurarsi che non si estendano nei legamenti crociati né si spingano troppo prossimalmente nell’osso e che l’incisione non sia troppo profonda. Il cuneo di osso che viene rimosso viene avvolto in un tampone di garza imbevuto di soluzione fisiologica o di sangue e messo da parte per essere riposizionato più tardi. Si realizza poi un secondo taglio parallelo ai primi due, in modo da rimuovere un pezzo di osso “a forma di V”. La “V” viene scartata. Il cuneo viene ricollocato sul difetto valutando il grado di adattamento fra le due parti. Se il cuneo non si riposiziona nel difetto senza oscillare avanti ed indietro, bisogna asportarne delicatamente il fondo con una pinza ossivora fino a che non si adatta alla sede prestabilita senza oscillare. Quando il cuneo è correttamente adattato viene rimosso, avvolto in un tampone di soluzione fisiologica e poi immediatamente riposizionato prima di chiudere l’articolazione. Il cuneo verrà tenuto in posizione dalla pressione della rotula che si dispone a cavaliere sopra di esso e dalla frizione fra i margini ossei. La parte operata guarirà rapidamente tornando alla normalità e la cartilagine articolare sopravvivrà come cartilagine ialina. Il principale vantaggio di questa procedura è che il rivestimento del solco è costituito da cartilagine ialina, cioè dalla struttura cartilaginea normalmente presente all’interno dell’articolazione. Nella maggior parte delle lussazioni rotulee di grado II ed in tutte quelle di grado III e IV si esegue generalmente l’approfondimento del solco trocleare. Si valutano la contrazione della capsula articolare mediale e del retinaculum. Se dopo essere stata posta sul solco trocleare la rotula non rimane in posizione senza una pressione digitale eccessiva oppure non può essere riposizionata affatto, è necessario incidere il retinaculum mediale e/o la capsula articolare. Questo intervento viene definito come liberazione o desmotomia mediale. Deve essere eseguito in tutti i casi per lussazioni di grado III e IV e generalmente anche per quelle di grado II. La liberazione si esegue con una lama da bisturi e comporta per cominciare l’esecuzione di un accurato taglio attraverso il retinaculum mediale, senza scontinuare la capsula articolare. L’incisione si estende dal plateau tibiale sino ad un punto situato appena prossimalmente all’inserzione del ventre del muscolo sartorio. Le fibre del retinaculum vengono lasciate retrarre allontanandosi dalla capsula articolare. La rotula viene nuovamente riposizionata sul solco trocleare e se ne valuta la ten-

La correzione della lussazione della rotula deve essere basata sulle specifiche anomalie presenti. Non è sempre possibile o necessario correggere tutte le alterazioni riscontrate. L’esperienza permette di scegliere le procedure più adatte a correggere il problema. Un esame clinico e radiografico accurato definisce la maggior parte delle anomalie presenti. Tuttavia, alcune delle decisioni sulle procedure da attuare verranno prese al tavolo operatorio, dopo aver eseguito l’ispezione del ginocchio e portato a termine le procedure iniziali. Uno dei principi di base della correzione della lussazione rotulea è che una deformità scheletrica, come la deviazione della tuberosità tibiale o la scarsa profondità del solco trocleare, devono essere corrette con tecniche di ricostruzione ossea. Il mancato spostamento della tuberosità tibiale in direzione laterale è l’errore più comunemente effettuato nella correzione delle lussazioni rotulee. Nei pazienti più piccoli, le procedure correttive bilaterali possono essere eseguite durante la stessa anestesia. La correzione chirurgica delle lussazioni della rotula deve essere effettuata in modo graduale, dopo aver identificato le anomalie presenti e suscettibili di correzione. Nel testo che segue, le procedure chirurgiche disponibili verranno descritte nella sequenza in cui vengono attuate nel paziente per il trattamento delle lussazioni rotulee mediali. Sarà necessario effettuare le correzioni appropriate nel caso della lussazione rotulea laterale. Se la rotula non viene stabilizzata dagli interventi standard, si potranno aggiungere ulteriori procedure fino a che non si ottiene il risultato desiderato. Si esegue un’artrotomia laterale del ginocchio assicurandosi di identificare il punto in cui sono localizzati rotula e legamento rotuleo. Occorre ricordare che nelle lussazioni rotulee la capsula articolare e la fascia lata sono stirate e quindi le relazioni anatomiche fra tessuti molli e duri possono essere distorte. Mentre si esegue questo approccio, si deve praticare l’incisione attraverso la fascia lata, appena lateralmente al legamento rotuleo, e separare accuratamente la stessa dalla capsula articolare sottostante prima di penetrare nell’articolazione. Una volta qui, si deve eseguire un’esplorazione approfondita alla ricerca di anomalie come le lesioni del legamento crociato ed il danno della cartilagine. Bisogna anche valutare la profondità del solco trocleare, la dislocazione della tuberosità tibiale e la contrattura della capsula articolare mediale. La profondità del solco trocleare deve essere pari come minimo a metà dell’altezza della rotula (spessore craniocaudale). Se il solco trocleare ha una profondità scarsa o ai limiti della norma, questa è la prima anomalia ad essere rilevata. Esistono due metodi per approfondire il solco trocleare: l’artroplastica con riposizionamento di un cuneo trocleare e la sulcoplastica trocleare. Quest’ultima tecnica comporta la rimozione della cartilagine e dell’osso nel solco trocleare per formare una doccia su cui possa scorrere la rotula. I margini del solco devono essere tagliati ad angolo retto rispetto alla base. La doccia deve essere abbastanza profonda da evitare che la parte inferiore della rotula si disponga a cavallo dell’osso. Se ciò avvenisse, la cartilagine rotulea verrebbe danneggiata. Col tempo, la doccia inizia a venire riempita da un tessuto di granulazione. La pressione esercitata su quest’ulti-


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denza alla rilussazione. Se la rotula tende a lussare facilmente, se necessario si può incidere la capsula articolare lungo la stessa linea. Al momento della chiusura della capsula articolare, se il lato mediale dell’articolazione è stato inciso l’artrotomia mediale viene coperta soltanto con tessuto sottocutaneo più profondo e cute. La dislocazione mediale della tuberosità tibiale e la rotazione della tibia rispetto al femore vengono valutate insieme per vedere se l’una o entrambe necessitino di correzione. Per mantenere la rotula in posizione è necessario il corretto allineamento della tuberosità tibiale. Quest’ultima deve essere centrata rispetto al solco trocleare, in modo che la trazione esercitata dal muscolo quadricipite per determinare l’estensione del ginocchio risulti a sua volta centrata sul solco stesso. Se l’origine e l’inserzione del muscolo quadricipite e il solco trocleare non sono allineati, l’azione della contrazione muscolare cercherà continuamente di tirare la rotula fuori posto. La maggior parte dei cani con lussazione rotulea di grado II e tutti quelli di grado III e IV necessitano di una trasposizione della tuberosità tibiale. Quest’ultima viene tagliata con un osteotomo. Bisogna stare attenti che la porzione di osso rimossa sia sufficiente a consentirne il riattacco. La parte più distale della tuberosità non viene tagliata, in modo che la tuberosità stessa possa muoversi come su un cardine. Sopra quest’area decorre un’estensione del legamento rotuleo che contribuisce a tenere la parte in posizione. Una volta che è stata tagliata, la tuberosità viene fatta ruotare lateralmente fino a che la trazione del legamento rotuleo risulta centrata sul solco trocleare. Con la tuberosità tibiale tenuta in posizione, il ginocchio viene flesso ed esteso e contemporaneamente ruotato internamente ed esternamente per vedere se la rotula rimane in posizione. Una volta individuata la collocazione neutra, la tuberosità tibiale viene riattaccata con due fili di Kirschner. Questi vengono spinti in direzione craniocaudale con una lieve angolazione prossimale. Qualsiasi anomalia di rotazione verrà corretta dopo la chiusura della parte laterale dell’articolazione. La capsula articolare sulla faccia laterale dell’articolazione viene chiusa con una sutura semplice a punti staccati. Se risulta eccessiva, l’eventuale porzione ridondante può venire escissa. Se la rotula ha ancora una tendenza alla lussazione, nei casi in cui la tuberosità tibiale non si allinea con il solco trocleare si può applicare una sutura derotazionale. Questa sutura viene fatta passare intorno alla fabella laterale del femore ed attraverso un foro che sia stato praticato con il trapano nell’area della tuberosità tibiale. Il filo viene fatto passare attraverso il foro procedendo dalla parte laterale a quella mediale e poi riportato indietro sotto il legamento rotuleo. La sutura viene tirata sino al punto che il legamento rotuleo risulti centrato con il solco trocleare e poi annodata. Se la rotula ha ancora la tendenza a lussare, si realizza un legamento collaterale artificiale in materiale da sutura. Si impiegano schemi differenti, ma una semplice figura ad otto funziona bene. La sutura viene fatta passare intorno alla fabella laterale del femore e poi riportata verso la rotula. Il filo deve decorrere attraverso il tendine rotuleo appena prossimalmente alla rotula in direzione lateromediale. La sutura deve poi proseguire lungo il lato mediale della rotula in direzione prossimodistale. L’ultimo passaggio consiste nel far procedere il filo in direzione mediolaterale verso il legamento rotuleo, appena distalmente alla rotula. La sutura viene tirata fino al punto in cui

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la rotula non si possa lussare medialmente. Come ultima misura correttiva si esegue l’embricazione della fascia lata. Se necessario, la parte in eccesso di quest’ultima può essere rifilata. Bisogna stare attenti ad assicurarsi che una lussazione rotulea mediale non si trasformi in una laterale. Per l’embricatura si utilizza una sutura da materassaio di Mayo o di Lembert. Nel periodo postoperatorio, l’arto viene posto in un bendaggio morbido ed imbottito, che viene lasciato in sede per 10-14 giorni ed eliminato quando si tolgono le suture. Una volta che il bendaggio sia stato rimosso si esorta il proprietario ad effettuare la fisioterapia sull’arto flettendo ed estendendo il ginocchio per 30 o 40 volte due volte al giorno. Il cane può anche essere fatto nuotare in una vasca da bagno per spingerlo ad usare l’arto.

Chirurgia dei casi complicati Le lussazioni rotulee nei cani delle razze di grossa taglia, quelle laterali e quelle di grado IV possono risultare particolarmente impegnative. Recentemente, sono state studiate nuove tecniche per cercare di ridurre il rischio di rilussazione postoperatoria, che è circa dell’8%. Queste tecniche sono state focalizzate sul trattamento di altre malformazioni anatomiche che possono accompagnare questa condizione, come un eccessivo varismo del tratto distale del femore e la contrattura della componente del retto femorale del gruppo del muscolo quadricipite. Il varismo femorale distale costituisce un riscontro normale ed è stato recentemente dimostrato che è di circa 7 gradi nei cani delle razze di grossa taglia. È importante notare questo fatto non solo per offrire al chirurgo la possibilità di apprezzare quanto possa misurare il varismo in eccesso, ma anche per fungere da indicazione del valore da raggiungere nei casi in cui sia necessario eseguire una correzione. Due recenti segnalazioni hanno documentato l’utilità di ricorrere all’osteotomia a cuneo ed alla fissazione interna per la correzione del varismo femorale distale in eccesso per quei casi in cui si sospetta la presenza di un elemento complicante nella lussazione rotulea. Un’altra tecnica collaterale è il completamento della trasposizione del retto femorale. Quest’ultimo è l’unica componente del gruppo del muscolo quadricipite che non origina dalla parte prossimale del femore, ma piuttosto dalla pelvi. Per questo motivo, in alcuni casi, il retto femorale va incontro a contrazione, in particolare nelle rotule con lussazione mediale cronica. Si ritiene che il rilascio della trazione esercitata dal retto femorale con la resezione del suo tendine di origine e la successiva trasposizione dello stesso sulla faccia laterale del tratto prossimale del femore eliminino una fonte di forte trazione mediale sulla rotula e consentano di ottenere un maggior successo dell’intervento di spostamento laterale e riduzione.

Bibliografia Arthurs GI, Langley Hobbs SJ. Complications associated with corrective surgery for patellar luxation in 109 dogs. Vet Surg. 35: 559-566: 2006. Tomlinson JL, Fox D, Cook JL, Keller GG. Measurement of femoral angles in four dog breeds. Vet Surg 36:593-598: 2007. Swiderski JK, Palmer RH. Long Term outcome of distal femoral osteotomy for treatment of combined distal femoral varus and medial patellar luxation: 12 cases (1999-2004). J Am Vet Met Assoc. 231:1070-1075: 2007.


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Management of osteoarthritis in the dog and cat Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

Introduction Osteoarthritis (OA) is a debilitating, irreversible condition that affects multiple tissues comprising the joint environment including the synovium, articular cartilage and subchondral bone. Conservative estimates suggest that no less than 20% of the canine population suffers from OA whereas recent surveys have concluded that 1 in 6 humans suffer from this degenerative condition. Estimates of the incidence of feline OA have been somewhat age dependent with one figure suggesting that >90% of cats over 12 years of age are affected.

leukin – 1 (IL-1) and tumor necrosis factor (TNF) are released from the chondrocyte and synovial cells which result in the release of prostaglandins (PGE2). This milieu of cytokines can result in the phenotypic alteration of the chondrocyte to producing types I and III collagen instead of the normal type II, decreased production of proteoglycans and increased synthesis of degradative enzymes called matrix metalloproteinases (MMPs). The end result is significant alteration of the extracellular matrix which subsequently falters mechanically.

TREATMENT STRATEGIES Distinguishing arthropathies

Prevention

When presented with a patient with orthopaedic signs related to an arthropathy, the first step is to distinguish the etiology of the joint disorder. General arthropathies can be divided into suppurative and non-suppurative conditions based on the absence or presence (respectively) of a predominate number of neutrophils in the synovial fluid. Osteoarthritis, also called degenerative joint disease (DJD) exhibits a higher cell count than normal synovial fluid, with monocytic cells being the dominate cell type as apposed to suppurative arthopathies which will result in 50-90% of the cells in the synovial fluid to be neutrophils.

A successful therapeutic strategy to treat OA can be broken down into several essential components. The first of these intervening steps includes prevention. Preventative measures can start through client education prior to the purchase of a new puppy about orthopedic diseases that certain breeds have predispositions for, and how recognition of genetic screening systems and appropriate nutrition can help avoid such diseases. In addition, for non-breeding animals, certain surgical interventions in the dog such as juvenile pubic symphysiodesis, can be performed to help prevent the developmental musculoskeletal changes seen with canine hip dysplasia.

Pathophysiology Diagnosis The vast majority of canine OA is secondary in origin, as opposed to human patients which will suffer from both primary and secondary etiologies. It can be stated therefore, that canine OA is the product of either normal forces on abnormal anatomy or abnormal forces on normal anatomy. Articular cartilage is comprised of a viscoelastic extracellular matrix capable of tolerating certain degrees of use. However as the discrepancy of overuse and mechanical tolerance of the cartilage increases over expanding time, OA ensues. Interestingly, the causality for feline OA can only be documented in approximately 50% of the cases, thus implying that like humans, OA in cats may have a higher primary etiology. The key cellular element in articular cartilage is the chondrocyte. The chondrocyte is responsible for the production of the major extracellular matrix constituents as well as the degradative enzymes that allow matrix turnover. During OA, certain inflammatory cytokines, such as inter-

Any successful treatment strategy is largely dependent on a rapid and accurate diagnosis. Diagnostic modalities start with a thorough history followed by a complete orthopedic and neurologic examination. Essential tests should always include radiography, but may also necessitate other imaging modalities such as ultrasonography, magnetic resonance imaging or computed tomography. Additional examinations may include arthrocentesis, bloodwork, serum titers, PCR, or histopathology. It is important to remember that radiography is more often diagnostic than prognostic and has recently been documented to be a fairly insensitive early detector of osteoarthritis. However, good radiographic studies still exist as the main diagnostic modality in current small animal practice. The radiographic hallmarks of osteoarthritis include subchondral sclerosis, marginal osteophytosis, joint effusion and diminished joint space.


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Client Communication Conscientious client communication is essential throughout the process of diagnosing and treating OA. It is most important to educate the animal’s owners that OA is an incurable disease whose changes are not reversible. Short of the surgical replacement or removal of affected joints, we can at best, slow the progression of the disease and ease the discomfort experienced by the animal.

Treatment: Surgical vs. Non Surgical Treatment of OA can fall within two broad categories: non-surgical and surgical. In many cases, non-surgical treatment choices can be explored before surgical intervention occurs, however, this is largely dictated by the joint affected and the underlying etiology. For example, medical treatment should preclude total hip arthoplasty for the treatment of canine hip dysplasia, but current recommendations regarding cranial cruciate ligament disease include surgical intervention as quickly as feasible. Surgical options for the treatment of OA are largely focused on correcting underlying joint instabilities or re-establishing appropriate joint alignment and motion. Non-surgical treatments are usually administered with surgical modalities and may exist as the mainstay for the long term care of animals with DJD. Nonsurgical treatment options can further be divided into medical modalities (pharmaceuticals and nutraceuticals) and environmental modalities (activity and weight management). Above all else, weight management is the single most important lifestyle change to implement with other treatment for OA. Studies now demonstrate that avoiding juvenile obesity in dogs reduces the risk for geriatric multiple joint OA and that weight loss in adult dogs affected by OA reduces the severity of clinical signs. Simply put, effective weight loss can be achieved through increasing activity while decreasing caloric intake. During such, optimizing the comfort level of an animal that may experience pain due to the underlying OA is often necessary.

Treatment: NSAIDs Non-steroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) are the most common agents to prescribe for short and long term management of OA pain. They exist as analgesics in a variety of classes determined by which enzymatic pathways of the arachadnoic acid cascade they inhibit. Some NSAIDs are cyclooxygenase (COX) non-specific in the dog including aspirin, ketoprofen and etodolac. Others either preferentially or selectively inhibit cyclooxygenase-2 (COX-2) such as carprofen, deracoxib, firocoxib and meloxicam. Other NSAIDs such as tepoxalin are dual pathway inhibitors in that they interfere both cyclooxygenase and lipoxygenase (LOX) pathways. It has been held that COX-2 is inducible at sites of inflammation whereas COX-1 is constitutive and results in the production of normal and regulatory prostaglandins and should therefore be spared. However, recent data suggests that the distinction in roles of COX-1

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and COX-2 enzymes is not as well defined. Furthermore, inhibition of the LOX pathway may result in interference of chemotaxis of neutrophils to areas of gastric ulceration and therefore may hold anti-ulcerogenic properties. Recent concerns have been raised in humans with the use of COX-2 selective inhibitors because of the reported elevated risk of thromboembolic (TE) disease. This is thought to occur through the selective inhibition of prostacyclin (which vasodilates and inhibits platelet aggregation), a COX-2 mediated process, without a concordant inhibition of thromboxane, which facilitates platelet aggregation in response to COX-1. Whether or not this increased risk of TE disease will translate into small animals is unknown at this time. However, the natural TE disease process in dogs and people appears to be quite different. The use of any NSAID should be prudent with close attention paid to potential adverse effects in the forms of gastrointestinal upset, hepatotoxicity, renal effects and keratoconjunctivitis sicca. Each product should be evaluated individually for their respective risks. Use of most NSAIDs in cats is off label in the US and should be done with caution. Safe regimens do exist, but require an excellent patient-veterinarian-client relationship.

Treatment: Nutraceuticals Nutraceuticals have gained a great deal of popularity in the treatment of both human and canine OA in recent years. It is important to remember that at this time they are still considered nutritional supplements and as such are not regulated by the FDA. A brief review of the major ingredients of most currently used products follows. Glucosamine is a common ingredient of many multi-agent OA treatment compounds. It is a complex sugar and component of larger glycosaminoglycans molecules. Research has indicated that it possesses anti-MMP effects. Much research is still lacking with respect to its efficacy in treating OA. The most bioavailable form is the glucosamine hydrochloride (HCl) salt. Chondroitin sulfate also is a complex sugar and a glycosaminoglycans constituent of larger aggrecan macromolecules that comprise the extracellular matrix of hyaline cartilage. Like glucosamine, it is believed to have anti-degradative effects, but because of its molecular weight and charge, gastrointestinal absorption is attenuated. New lower molecular weight products are now being investigated. Polysulfated glycosaminoglycans is a mixture of highly sulfated glycosaminoglycans mostly comprised of chondroitin sulfate. Whereas in vitro studies have indicated anti-proteinase and anti-collagenase properties, appropriate clinical studies validating efficacy are still somewhat lacking. Viscosupplementation, or the intra-articular injection of hyaluronic acid (HA) containing products, shows in vitro activity against degradative enzymes and PGE2, while able to enhance the body’s production of endogenous HA. Interestingly, most forms of HA used clinically will no longer be within the joint 72 hours following intraaritcular injection, depending on the molecular weight. However, people receiving viscosupplementation reportedly can have benefits for months following treatment. Small animal clinical trials are still lacking.


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Treatment: Physical Therapy Exercise has been stated to be the most effective nonpharmacologic modality for reduction of joint pain and impairments. Because OA of a single joint can lead to multiple joint disease through inactivity, physical therapy is now recognized as an essential component to the appropriate management of patients with OA. Range of motion activities such as swimming helps to maintain the compliance of periarticular soft tissues and reduces the risk of additional joint injury as well as leads to increased nutritional support of the articular cartilage through promotion of intra-articular fluid flow. Promotion of muscle strength through non-concussive

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activities combats arthrogenous muscle atrophy which has been shown to lead to poorly coordinated neuromuscular reflexes, decreased joint stability and early onset fatigue. Regular aerobic activity also improves the cardiovascular health of human patients with OA, resulting in overall clinical improvement, and as such should have the same effects in our small animal patients. In conclusion, OA is a complex multifactorial disease that is best treated by a multi-agent therapeutic strategy including preventative measures, accurate and rapid diagnosis, environmental alterations, prudent use of pharmacologics, surgery when appropriate and conscientious client education.


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Approccio multimodale all’osteoartrosi nel cane e nel gatto Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

Introduzione L’osteoartrite (OA) è una condizione debilitante ed irreversibile che colpisce i molteplici tessuti che costituiscono l’ambiente articolare e sono rappresentati da sinovia, cartilagine articolare ed osso subcondrale. Le stime conservative suggeriscono che la OA colpisca non meno del 20% della popolazione canina, mentre recenti indagini sono giunte alla conclusione che un paziente umano su sei soffra di questa condizione degenerativa. Le stime dell’incidenza della OA nei felini sono risultate abbastanza dipendenti dall’età, con un dato che suggerisce il coinvolgimento di più del 90% dei gatti con oltre i 12 anni di vita.

Distinguere le artropatie Di fronte ad un paziente che mostra segni ortopedici correlati ad una artropatia, il primo passo consiste nel distinguere l’eziologia del disordine articolare. Le artropatie in generale possono essere distinte in condizioni suppurative e non suppurative in base alla presenza o assenza (rispettivamente) di un predominio numerico dei neutrofili nel fluido sinoviale. L’osteoartrite, anche detta artropatia degenerativa, è caratterizzata dal riscontro nel liquido sinoviale di un aumento del numero delle cellule determinato principalmente da elementi monocitari, mentre nelle artropatie suppurative il 50-90% di leucociti osservati è costituito da neutrofili.

Fisiopatologia La grande maggioranza dei casi di OA nel cane è di origine secondaria, a differenza di quanto accade nei pazienti umani che sono colpiti sia da eziologie primitive che secondarie. Si può quindi affermare che la OA nel cane è il prodotto di forze normali su strutture anatomiche anormali, oppure di forze anormali su strutture anatomiche normali. La cartilagine articolare è costituita da una matrice cellulare viscoelastica, capace di tollerare un certo grado di impiego. Tuttavia con il passare del tempo, man mano che la discrepanza tra il super uso e la tolleranza meccanica della cartilagine aumenta, insorge una osteoartrite. È interessante notare che la causa dell’osteoartrite felina può essere dimostrata soltanto nel 50% circa dei casi, il che implica che, come nell’uomo, anche nel gatto questa condizione possa riconosce-

re un’eziologia primaria più elevata. L’elemento cellulare chiave nella cartilagine articolare è rappresentato dal condrocita. Questo è responsabile della produzione della maggior parte dei costituenti della matrice extracellulare, nonché degli enzimi degradativi che consentono il turnover della matrice stessa. Durante l’osteoartrite, dal condrocita e dalle cellule sinoviali vengono rilasciate certe citochine infiammatorie come l’interleuchina 1 (IL-1) e il fattore di necrosi tumorale (TNF), esitando nella liberazione di prostaglandine (PGE2). Questo ambiente caratterizzato da citochine può esitare nell’alterazione fenotipica del condrocita, che viene spinto a elaborare collagene di tipo I e III invece del normale tipo II, diminuire la produzione di protoglicani ed aumentare la sintesi di enzimi degradativi detti metalloproteinasi della matrice (MMP). Il risultato finale è una significativa alterazione della matrice extracellulare, che in seguito può venire compromessa meccanicamente.

STRATEGIE DI TRATTAMENTO Prevenzione Una strategia terapeutica di successo per l’osteoartrite può essere suddivisa in diverse componenti essenziali. Il primo dei settori in cui è possibile intervenire è la prevenzione. Le misure profilattiche possono iniziare con l’educazione del cliente prima dell’acquisto di un cucciolo nuovo a proposito delle malattie ortopediche alle quali certe razze sono predisposte ed a come il riconoscimento dei sistemi di screening genetico e la nutrizione appropriata possono risultare utili per affrontarle. Inoltre, per gli animali non destinati alla riproduzione, è possibile eseguire certi interventi chirurgici nel cane, come la sinfisiodesi pubica giovanile, per contribuire a prevenire lo sviluppo di alterazioni muscoloscheletriche osservate nella displasia dell’anca.

Diagnosi Qualsiasi strategia terapeutica di successo dipende in larga misura da una diagnosi rapida ed accurata. Le modalità diagnostiche iniziano con un’anamnesi approfondita seguita da un esame ortopedico e neurologico completo. I test essenziali devono sempre comprendere la radiografia, ma può essere necessario anche ricorrere ad altre modalità di diagnostica per immagini, come l’ecografia, la risonanza


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magnetica e la tomografia computerizzata. Altre indagini possono essere rappresentate da artrocentesi, esami ematochimici, titolazione sierica, PCR o istopatologia. È importante ricordare che la radiografia ha più spesso valore diagnostico che prognostico ed è stato recentemente dimostrato che è abbastanza poco sensibile come metodo per individuare precocemente l’osteoartrite. Tuttavia, le buone indagini radiografiche costituiscono ancora la principale modalità diagnostica nella clinica dei piccoli animali di oggi. I segni distintivi dell’osteoartrite dal punto di vista radiografico sono rappresentati da sclerosi subcondrale, osteofitosi marginale, versamento articolare e diminuzione dello spazio articolare.

Comunicazione con un cliente La comunicazione con un cliente coscienzioso è essenziale per tutta la durata del processo di diagnosi e trattamento dell’osteoartrite. L’educazione del proprietario degli animali è della massima importanza, perché l’osteoartrite è una malattia incurabile con alterazioni irreversibili. Nella migliore delle ipotesi, possiamo rallentare la progressione della malattia ed alleviare il disagio sperimentato dall’animale prima di dover ricorrere al riposizionamento od alla rimozione chirurgica delle articolazioni colpite,.

Trattamento: chirurgico o non chirurgico Il trattamento dell’osteoartrite può rientrare in due ampie categorie: non chirurgico e chirurgico. In molti casi, è possibile provare a ricorrere alle scelte terapeutiche del primo tipo prima di attuare l’intervento; tuttavia, quest’ultimo viene spesso imposto dall’articolazione colpita e dall’eziologia sottostante. Ad esempio, la terapia medica dovrebbe precludere l’artroplastica totale dell’articolazione coxofemorale per il trattamento della displasia dell’anca del cane, mentre le attuali raccomandazioni relative alla malattia del legamento crociato craniale prevedono l’intervento chirurgico non appena attuabile. Le opzioni operatorie per il trattamento dell’osteoartrite sono in gran parte focalizzate sulla correzione delle instabilità articolari sottostanti o sul ripristino di un appropriato allineamento o movimento dell’articolazione. I trattamenti non chirurgici di solito vengono attuati in associazione con le modalità chirurgiche e possono costituire il caposaldo della terapia a lungo termine degli animali con artropatia degenerativa. Le opzioni terapeutiche non chirurgiche possono essere ulteriormente distinte in interventi medici (farmaceutici e nutraceutici) ed ambientali (attività e controllo del peso). Sopra a tutti, il controllo del peso è la singola più importante modificazione dello stile di vita da mettere in atto con altri trattamenti dell’osteoartrite. Gli studi condotti dimostrano oggi che evitare l’obesità giovanile nel cane riduce il rischio di molteplici osteoartriti in età geriatrica e che la perdita di peso nei cani adulti colpiti da osteoartrite diminuisce la gravità dei segni clinici. In termini semplici, un efficace controllo del peso si può ottenere sia aumentando l’attività che diminuendo l’apporto calorico. Durante questo tipo di intervento, è spesso necessario otti-

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mizzare il livello di comfort di un animale che può essere afflitto da dolore dovuto alla sottostante osteoartrite.

Trattamento: FANS I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) sono gli agenti più comuni da prescrivere per il trattamento a breve e lungo termine del dolore da osteoartrite. Si trovano come analgesici in una gran varietà di classi, determinate in base alle vie enzimatiche della cascata dell’acido arachidonico che inibiscono. Nel cane, alcuni FANS (acido acetilsalicilico, ketoprofen ed etodolac) sono ciclossigenasi (COX)-aspecifici. Altri, come il carprofen, il deracoxib, il firocoxib ed il meloxicam, inibiscono preferenzialmente o selettivamente la ciclossigenasi 2 (COX-2). Altri ancora, come la tepoxalina, sono inibitori di entrambe le vie, in quando interferiscono sia con quella della ciclossigenasi che con quella della lipossigenasi (LOX). È stato stabilito che la COX-2 è inducibile nelle sedi dell’infiammazione, mentre la COX-1 è essenziale ed esita nella produzione di prostaglandine normali e regolatrici e deve quindi essere risparmiata. Tuttavia, recenti dati suggeriscono che la distinzione dei ruoli degli enzimi COX-1 e COX2 non è altrettanto ben definita. Inoltre, l’inibizione della via della LOX può esitare nell’interferenza della chemiotassi dei neutrofili verso aree di ulcerazione gastrica e di conseguenza può essere dotata di proprietà antiulcerogene. Nell’uomo, sono state recentemente espresse delle preoccupazioni riguardo all’uso degli inibitori selettivi della COX-2 a causa della segnalazione di un elevato rischio di malattia tromboembolica (TE). Si ritiene che ciò avvenga attraverso l’inibizione selettiva della prostaciclina (che determina una vasodilatazione ed inibisce l’aggregazione piastrinica), un processo mediato dalla COX-2 senza una concordante inibizione del trombossano, che facilita l’aggregazione piastrinica in risposta alla COX-1. Al momento attuale si ignora se tale aumento del rischio di malattia TE esista anche nei piccoli animali oppure no. Tuttavia, il processo naturale della malattia TE nel cane e nell’uomo sembra essere molto differente. L’uso di qualsiasi FANS va attuato con prudenza prestando molta attenzione ai potenziali effetti indesiderati che si manifestano sotto forma di problemi gastroenterici, epatotossicità, alterazioni renali e cheratocongiuntivite secca. Ciascun prodotto deve essere valutato individualmente per stabilirne i rispettivi rischi. L’uso della maggior parte dei FANS nei gatti è improprio negli Stati Uniti e deve essere effettuato con cautela. Esistono dei protocolli sicuri, ma richiedono un’eccellente relazione fra paziente, veterinario e cliente.

Trattamento: nutraceutici Negli ultimi anni, i nutraceutici hanno riscosso una notevole popolarità nel trattamento dell’osteoartrite sia nell’uomo che nel cane. È importante ricordare che al momento attuale sono ancora considerati degli integratori nutrizionali e in quanto tali non regolati dalla FDA. Segue una breve rassegna sui principali ingredienti della maggior parte dei prodotti utilizzati attualmente. La glucosamina è un ingrediente comune di molti composti multiagente utilizzati per il trattamento


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dell’osteoartrite. Si tratta di uno zucchero complesso che costituisce una componente delle più grandi molecole di glicosaminoglicani. La ricerca ha indicato che possiede effetti anti-MMP. Mancano ancora molti studi sulla sua efficacia nel trattamento dell’osteoartrite. La forma più biodisponibile è quella di glucosamina cloridrato (HCl). Anche il condroitinsolfato è uno zucchero complesso ed un costituente dei glicosaminoglicani delle più grandi molecole di aggrecani che costituiscono la matrice extracellulare della cartilagine ialina. Come la glucosamina, si ritiene che sia dotato di effetti antidegradativi, ma a causa del suo peso molecolare e della carica, l’assorbimento gastroenterico è attenuato. Sono attualmente oggetto di studi nuovi prodotti dal peso molecolare più basso. I glicosaminoglicani polisolforati costituiscono una miscela di glicosaminoglicani altamente solfati rappresentati principalmente da condroitinsolfato. Mentre gli studi in vitro hanno indicato proprietà antiproteinasiche ed anticollagenasiche, mancano ancora indagini cliniche appropriate finalizzate a validarne l’efficacia. La viscosupplementazione, o l’iniezione intrarticolare di prodotti contenenti acido ialuronico (HA) ha mostrato in vitro un’attività nei confronti degli enzimi degradativi e della PGE2, abbinata alla capacità di accentuare la produzione di acido ialuronico endogeno da parte dell’organismo. È interessante notare che la maggior parte delle forme di acido ialuronico utilizzate clinicamente non è più presente all’interno dell’articolazione 72 ore dopo l’iniezione intrarticolare, a seconda del peso molecolare. Tuttavia, i pazienti umani trattati con viscosupplementazione, secondo quanto segnalato in letteratura, possono presentare dei benefici per mesi dopo il trattamento. Mancano ancora prove cliniche condotte nei piccoli animali.

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Trattamento: fisioterapia È stato affermato che l’esercizio è la modalità non farmacologica più efficace per ridurre il dolore e la compromissione articolari. Poiché l’osteoartrite di una singola articolazione può portare a molteplici artropatie dovute all’inattività, la fisioterapia viene oggi riconosciuta come una componente essenziale del trattamento appropriato dei pazienti con osteoartrite. Le attività che sollecitano l’escursione articolare, come il nuoto, contribuiscono a mantenere la compliance dei tessuti molli periarticolari ed a ridurre il rischio di lesioni articolari aggiuntive, nonché portare ad un aumento del supporto nutrizionale della cartilagine articolare attraverso la promozione del flusso dei fluidi intrarticolari. La promozione della forza muscolare attraverso le attività non concussive contrasta l’atrofia muscolare artrogena che si è dimostrata capace di portare ad un decadimento dei riflessi neuromuscolari coordinati, ad una diminuzione della stabilità articolare ed all’insorgenza precoce di affaticamento. La regolare attività aerobica agisce anche positivamente sulla salute cardiovascolare dei pazienti umani con osteoartrite, esitando in un miglioramento clinico complessivo e, come tale, dovrebbe avere gli stessi effetti nei piccoli animali che costituiscono i nostri pazienti. In conclusione, l’osteoartrite è una malattia multifattoriale complessa che deve essere preferibilmente trattata con una strategia terapeutica multiagente che comprenda misure preventive, diagnosi accurata e rapida, alterazioni ambientali, impiego oculato di farmaci, chirurgia nei casi appropriati ed educazione del cliente coscienzioso.


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Tissue engineering: the future of orthopedic surgery? Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

The need for novel solutions As orthopedic surgeons, we are constantly faced with the serious dilemma that a number of tissues we work with are irreparable and lack the capacity to heal. The most commonly affected of these tissues includes articular cartilage, meniscal fibrocartilage and some ligaments, especially those intraarticular. In light of these particular tissues being so frequently injured and unable to undergo a healing response spontaneously, many surgical techniques have been designed to protect them, augment a healing response, no matter how minimal, or to remove the affected tissue and occasionally replace them with prosthetic devices. These modalities then beg the question, “Could we do more.” Of much wider use in human medicine is the application of cadaveric allografts for orthopedic tissues. When certain tissues are completely lost to disease, allografts can serve as an intermediate step prior to total joint arthroplasty. Most commonly used are allograft replacements of anterior cruciate ligaments, osteochondral portions of joints, such as the medial femoral condyle or smaller sections that are used in a mosaic fashion for joint resurfacing. Meniscal allografts are also used if the entire meniscus is lost due to injury. Despite the ready access to cadaveric allografting in human medicine, there are many disadvantages associated with them with respect to appropriate tissue sizing, tissue rejection, lack of tissue integration, disease transmission, and gradual deterioration of the grafts. For all of the above reasons, treatment alternatives are being sought.

Definitions and Approaches An area of research focusing on a novel set of treatment options is the field of tissue engineering. Tissue engineering is the development of new tissue from very basic elements through a number of different techniques. Although it is somewhat specific for the tissue type in question, the basic elements that are typically utilized for the development of the desired tissue include a cell source, a scaffold or matrix upon which to seed the cells, and bioactive factors, either chemical such as growth factors, or mechanical or both. Different philosophies exist with respect to determining the optimal methodology in tissue engineering specific tissues. One style of tissue engineering utilizes well-differentiated cells within a matrix with minimal manipulation. The theory behind this methodology is to quickly redevelop the tissue in question from the cells that comprise the original tissue without having to utilize bioactive factors to direct the cells, which can

potentially save much time and money. For example, should this technique be employed for articular cartilage engineering, chondrocytes would be placed within a scaffold so that the extracellular matrix constituents they produce would be deposited through the matrix, and the construct could be surgically applied to the affected area. Difficulties with this approach can include finding a donor source of cells that is normal. Obviously, chondrocytes taken from the same joint in which the tissue loss was identified is problematic considering the joint-wide affects of osteoarthritis. Thus a separate donor source must be identified, which can increase patient morbidity. Also disadvantageous with this methodology is the fact that well-differentiated cells have a decreased capacity to produce matrix constituents. An alternative philosophy and approach to tissue engineering is to use a less differentiated cell source and to attempt to recapitulate the embryological steps that the original tissue experienced in its development. Thus, more manipulation of the cells with certain growth factors and mechanical stimulation is required. Popular cells for orthopedic tissue engineering following this philosophy include adult stem cells, also referred to as connective tissue progenitor cells. There are many sources of these cells including adipose tissue, synovial tissue, and bone marrow stem cells. Because these cells are pluripotential, they require signaling and stimulation to guide them to produce the extracellular matrix appropriate for the desired application. For cartilage engineering, this often involves the chondrogenic growth factors, including transforming growth factor and other members of the bone morphogenic protein superfamily and insulin-like growth factor (IGF). Beyond these two philosophies are two philosophies that exist with respect to timing of construct implantation. Whereas some strategies utilize application of cells and matrix to tissue defects before they’ve had a chance to produce matrix constituents, others will allow the development of the cells, their matrix production and the maturation of the tissue in vitro for longer periods prior to their surgical use. An example of the former are those techniques used for full thickness cartilage defects that employ the debridement of the defect, suturing a flap of periosteum over the area of cartilage loss and the subsequent injection of recently harvested cells and carrier under the periosteal flap. Contrary to this are those techniques which apply the cell source to a carrier that is exposed to regular infusion of stimulating growth factors in addition to exposure to mechanical stimulus to encourage the cells to produce a maximal amount of appropriate extracellular matrix prior to the surgical use of the construct.


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Stato dell’arte dell’ingegneria tissutale: il futuro della chirurgia? Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

La necessità di soluzioni nuove Come chirurghi ortopedici, ci troviamo costantemente di fronte al grande dilemma determinato dal fatto che numerosi tessuti con cui lavoriamo sono irreparabili e mancano della capacità di guarire. I più comunemente colpiti fra questi tessuti sono la cartilagine articolare, la fibrocartilagine meniscale ed alcuni legamenti, in particolare quelli intrarticolari. Alla luce del fatto che questi particolari tessuti sono frequentemente danneggiati e non sono in grado di andare incontro ad una risposta di riparazione spontanea, sono state studiate molte tecniche chirurgiche per proteggerli, aumentarne la risposta di guarigione, non importa quanto poco, oppure rimuovere il tessuto colpito ed occasionalmente sostituirlo con protesi. Tutto ciò porta ad una domanda: possiamo fare di più? In medicina umana, viene utilizzata su scala molto più ampia l’applicazione di innesti omologhi da cadavere per sostituire i tessuti ortopedici. Quando certi tessuti sono completamente perduti a causa di un evento patologico, gli innesti omologhi possono servire da fase intermedia prima della totale artroplastica. I trapianti omologhi più comunemente utilizzati sono quelli dei legamenti crociati anteriori delle porzioni osteocondrali delle articolazioni, come il condilo femorale mediale o le sezioni più piccole che vengono utilizzate con una tecnica a mosaico per la ricostruzione della superficie articolare. Gli innesti omologhi meniscali vengono anche utilizzati nei casi in cui l’intero menisco è andato perduto a causa di un evento patologico. Benché facilmente reperibili in medicina umana, gli innesti omologhi da cadavere sono associati a molti svantaggi per quanto riguarda le appropriate dimensioni dei tessuti, il rigetto, la mancanza di un’integrazione tissutale, la trasmissione di malattie ed il graduale deterioramento degli impianti. Per tutte le ragioni citate, si è alla ricerca di trattamenti alternativi.

Definizioni ed approcci Il campo dell’ingegneria tissutale costituisce un’area di ricerca focalizzata su una nuova serie di opzioni terapeutiche. L’ingegneria tissutale è lo sviluppo di un nuovo tessuto a partire da elementi di base attraverso numerose tecniche differenti. Benché sia abbastanza specifico per il tipo di tessuto in questione, gli elementi fondamentali che vengono tipicamente utilizzati per lo sviluppo del tessuto desiderato sono rappresentati da una fonte cellulare, un’impalcatura o

matrice sulla quale seminare le cellule e fattori bioattivi, costituiti sia da agenti chimici che da fattori di crescita e/o meccanici. Esistono differenti filosofie relative alla determinazione della metodologia ottimale per l’ingegneria tissutale di specifici tessuti. Una tecnica si basa sull’impiego di cellule ben differenziate all’interno di una matrice, con una manipolazione ridotta al minimo. La teoria che sta alla base di questa metodologia è quella di risviluppare rapidamente il tessuto in questione a partire dalle cellule che costituivano quello originale senza dover utilizzare fattori bioattivi per indirizzare le cellule stesse, il che consentirebbe potenzialmente di far risparmiare molto tempo e denaro. Ad esempio, qualora questa tecnica potesse essere impiegata per l’ingegnerizzazione della cartilagine articolare, i condrociti dovrebbero essere posti all’interno di una impalcatura in modo che i costituenti della matrice extracellulare che producono vengano depositati attraverso la matrice stessa ed il costrutto potrebbe essere applicato chirurgicamente all’area colpita. La difficoltà di questo tipo di approccio può essere quella di trovare un donatore di cellule che risulti normale. Ovviamente, il prelievo di condrociti dalla stessa articolazione in cui è stata identificata la perdita di tessuto è problematico, considerando gli effetti dell’osteoartrite diffusi in tutta l’articolazione. Di conseguenza, è necessario identificare un sito donatore separato, il che può aumentare la morbilità del paziente. Un altro svantaggio di questa metodologia è dato dal fatto che le cellule ben differenziate hanno una diminuita capacità di produrre le costituenti della matrice. Una diversa filosofia ed approccio all’ingegneria tissutale prevede l’impiego di una fonte di cellule meno differenziate ed il tentativo di ripercorrere le fasi embriologiche che il tessuto originale ha attraversato durante il suo sviluppo. Quindi, è necessaria una maggiore manipolazione delle cellule mediante certi fattori di crescita e stimolazione meccanica. Gli elementi più diffusi per l’ingegneria tissutale ortopedica secondo questa filosofia sono quelli staminali degli adulti, anche indicati come cellule progenitrici del tessuto connettivo. Esistono numerose fonti di queste cellule, rappresentate da tessuto adiposo, tessuto sinoviale e cellule staminali. Dal momento che si tratta di cellule pluripotenti, necessitano di segnali e stimoli adeguati per guidarli verso la produzione di una matrice extracellulare adatta all’applicazione che si intende effettuare. Per l’ingegnerizzazione della cartilagine, spesso è necessario utilizzare fattori di crescita condrogeni, come il fattore di crescita trasformante ed altri membri della superfamiglia delle proteine morfogeniche ossee e il fattore di crescita insulino-simile (IGF).


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Oltre a queste due filosofie principali, ne esistono altre due che tengono conto del momento dell’impianto del costrutto. Mentre alcune strategie utilizzano l’applicazione di cellule e della matrice ai difetti tissutali prima che queste abbiano avuto la possibilità di produrre le costituenti della matrice, altre consentono lo sviluppo delle cellule, la loro produzione di matrice e la maturazione del tessuto in vitro per periodi di tempo più prolungati prima del loro impiego chirurgico. Un esempio del primo caso è dato dalle tecniche utilizzate per i difetti cartilaginei a tutto spessore che preve-

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dono la revisione chirurgica della parte lesa, la sutura di un lembo di periostio al di sopra dell’area di cartilagine perduta e la successiva iniezione di cellule appena prelevate e carrier al di sotto del lembo periostale. All’opposto si trovano le tecniche che applicano la fonte cellulare ad un carrier che viene esposto ad una regolare infusione di un fattore di crescita stimolante oltre che a stimoli meccanici finalizzati a spingere le cellule a produrre una quota massima di una matrice extracellulare appropriata prima di utilizzare chirurgicamente il costrutto.


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Principles of external fixation for fracture repair Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

External skeletal fixation (ESF) is a system of bone stabilization in which pins or wires engage the affected bone in a percutaneous fashion, and are attached to larger connecting struts that exist outside of the body. ESF types include standard (or linear), circular or hybrid devices. Each has certain advantages which can be used strategically to optimize post-operative outcome, depending on the bone affected and the type of fracture.

closest to a joint, where fracture segments may be too small to accept multiple pins. The thinner wires used with the circular system can engage these juxtarticular segments more optimally. The rings are then attached to long rods which will serve as struts for the attachment of clamps for the use of standard transfixation pins elsewhere on the bone.

Biomechanics Nomenclature Linear fixators utilize pins to engage the segments of bone above and below the fracture. Whereas full transfixation pins enter percutaneously, and traverse both cortices to exit percutaneously on the side opposite to engage the connecting bar on both sides of the limb, half transfixation pins only penetrate one skin surface while still engaging both cortices. Pins can be smooth or threaded. Threaded pins may possess positive or negative profile threads. Pins are attached to connecting bars with a variety of clamps depending on which system is used. Connecting bars vary widely with respect to their composition and are typically made from carbon, titanium or steel. Acrylic connecting bars can also be fashioned and used with transfixation pins. The position and configuration of connecting bars and transfixation pins has led to a classification system of linear ESFs which can be used to communicate and design apparatuses. Advances in the strength of the materials comprising the connecting bars has led to a reduction in the necessary complexity of fixator frame design, and the use of fewer transfixation pins, thus resulting in better patient comfort, tolerance and frame longevity. Circular external fixation, or ring fixators, are so named because the connecting apparatus consists of a series of aluminum rings which either completely or incompletely, encircle the affected bone. Thin wires then engage the bone segments above and below the fracture in full fashion, thereby being attached to a ring element on both sides of the limb. In most cases, these wires will be tensioned to resist overt axial motion of the bone segments during weight bearing. Advantages of ring fixators include the small diameter of transfixing wires which are able to engage very small segments of bone, especially useful in the periarticular environment. Furthermore, most ring fixator designs allow some small degree of axial micromotion which has been shown to mechanically stimulate the fracture to heal more rapidly in some circumstances. Hybrid fixators are a combination of the aforementioned systems. This usually consists of the use of a ring or rings

When designing an external fixation frame, one must consider both the biomechanics and also the biological effects of applying that frame. With respect to the biomechanics of fracture fixation, regardless of whether it is internal fixation or external fixation, one must remember that fracture fixation is a race. It is a race between the mechanical failure of the fixation device and the healing of the bone. The mechanical failure of external fixators typically occurs at the level of the pin bone interface. Understanding this will allow the surgeon to focus on measures to preserve the health of transfixation pins to maximize the longevity of the fixator frame. To this end, critical technical rules must be observed with respect to pin placement. Positive profile pins should be used whenever possible and placed in bicortical fashion. Two to three pins should be placed in each bone segment. Pins in each segment should be placed both close to the fracture and far away from the fracture to span the entire length of the bone. When using positive-profile pins, predrilling is recommended. This is to minimize the risk of bone microfracture or superheating when placing the positiveprofile pin. With respect to connecting bars, it is important to remember that triangular configurations are the strongest. Therefore, for very large dogs, the use of both full and half pins that are connected with connecting bars oriented to one another in a triangular fashion will resist compression, bending and torsional forces most optimally.

Bone Healing One of the most important advantages with ESF is that it can be applied in a minimally invasive fashion. In this way, the surgeon may play a “gardener” versus a “carpenter” in providing stability and regaining appropriate fracture apposition and alignment without disrupting the fracture hematoma or devascularizing fragments. Many times, ESF can be placed in a complete ‘closed’ fashion, in which the bone is not exposed through an approach of any kind.


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Because this can sometimes be challenging without the use of intraoperative fluoroscopy, an alternative strategy is called the ‘open-but-do-not-touch’ technique, in which a small approach is made over the fracture to achieve appropriate alignment and apposition with a minimum of manipulation. It has been demonstrated that comminuted diaphyseal fractures treated with minimal disruption of the fragments heal through bridging endosteal formation and that the less invasive approaches can reduce healing time. It is important to remember that fracture fixation is a race between bone healing and implant failure. All ESF devices will loosen over time. The most frequent point of loosening occurs at the pin-bone interface. Thus concentrating efforts on optimizing pin longevity will promote the mechanical integrity of the fixation device most successfully, thus increasing the chances of achieving bone healing. Techniques to ensure good pin health include applying the aforementioned positive-profile pins after pre-drilling. Both microfracture, and thermal necrosis of the bone at the site of pin placement can lead to premature pin loosening. In addition, areas of large soft tissue coverage should be avoided for pin placement, because these overlying tissues will be irritated by the pins and result in more drainage which can preclude infection leading to osteomyelitis. An interesting concept with respect to encouraging bone healing with the use of external fixation is the process of destabilization. This principle describes the intentional weakening of a fixator frame over the course of fracture treatment. This allows the bone to see more of the biomechanical load over time and the fixator frame less, and thus should encourage the healing bone to generate more callus and organize that callus quickly. There are a number of ways to accomplish this, from the staged removal of certain parts

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of a frame, to the removal of an IM pin, to increasing the distance of a connecting bar from the bone along the pins, to actually removing pins. This obviously requires the completion of radiographs at frequent intervals post-operatively to assess the level of healing.

ESF application ESF can be applied to any long bone in the small animal patient, and also in some specific instances of spinal fractures. Techniques of application as well as type of fixation design will vary depending on the bone due largely to the amount of soft tissue surrounding the bone as well as the location of vital nerves and vessels that must be avoided with the pins. Because of their distance from the body, distal extremity bones such as radius/ulna and tibia/fibula fractures are amenable to circular fixators or type II linear fixators. Proximal extremity fractures of both front and hind limb possess zones adjacent to the body that are intolerable to the placement of full pins with medially positioned connecting bars or pins and therefore require the use of hybrid fixators, or type I linear fixators with intramedullary pin tie-ins. Care of an ESF post-operatively involves regular inspection of the frame and most-importantly pin sites to assess for evidence of infection or irritation. It is important to place a bandage around the ESF and especially to pack sponges between the frame and underlying soft tissues, to minimize their movement against the pins, which should greatly decrease the amount of potential pin irritation. Again, maximizing pin health biomechanically preserves the fixator more than anything else.


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Nuovi concetti nella fissazione ossea esterna Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

La fissazione scheletrica esterna (ESF) è un sistema di stabilizzazione delle fratture in cui chiodi o fili metallici vengono inseriti nell’osso colpito con una tecnica percutanea e poi uniti ad una struttura di connessione più grande situata all’esterno del corpo. Si riconoscono dispositivi ESF standard (o lineari), circolari o ibridi. Ognuno è certamente caratterizzato da vantaggi che possono essere utilizzati in modo strategico per ottimizzare l’esito postoperatorio, a seconda dell’osso colpito e del tipo di frattura.

Nomenclatura I fissatori lineari utilizzano chiodi che ingaggiano i segmenti di osso al di sopra ed al di sotto della frattura. Mentre i chiodi per impianti bilaterali vengono introdotti per via percutanea ed attraversano entrambe le corticali per fuoriuscire, sempre a livello percutaneo, sul lato opposto ed unirsi alla barra di connessione su entrambi i lati dell’arto, quelli per impianti monolaterali penetrano soltanto in una delle superfici cutanee, pur ingaggiando sempre entrambe le corticali. I chiodi possono essere lisci o filettati. Questi ultimi possono disporre di filetti a profilo positivo o negativo. I chiodi vengono uniti alle barre di connessione con una varietà di morsetti che dipendono dal sistema utilizzato. Le barre di connessione differiscono ampiamente per quanto riguarda la composizione e sono tipicamente costituite di carbonio, titanio o acciaio. Si possono anche realizzare delle barre di connessione in materiale acrilico, usate con i chiodi per impianti. La posizione e la configurazione di questi ultimi e delle barre di connessione hanno portato ad un sistema di classificazione dei fissatori esterni lineari che può essere utilizzato per comunicare e progettare i vari apparati. I progressi compiuti nel campo della robustezza dei materiali che costituiscono le barre di connessione hanno consentito di ridurre la complessità della configurazione del fissatore e di utilizzare un minor numero di chiodi, il che esita in un maggior comfort del paziente, più tolleranza e maggior durata della configurazione. La fissazione esterna circolare, o ad anello, è così chiamata perché l’apparato di connessione è costituito da una serie di anelli di alluminio che circondano completamente o incompletamente l’osso colpito. Sottili fili metallici vengono inseriti come chiodi per impianti bilaterali nei segmenti ossei, al di sotto ed al di sopra della frattura, e poi uniti ad un elemento ad anello su entrambi i lati dell’arto. Nella maggior parte dei casi, questi fili verranno posti sotto tensione per resistere all’evidente movimento assiale dei segmenti

ossei che si verifica quando l’arto viene posto sotto carico. I vantaggi dei fissatori ad anello sono dati dal piccolo diametro dei fili che fungono da chiodi, che sono in grado di ingaggiare segmenti ossei di dimensioni molto ridotte, il che risulta particolarmente utile nell’ambiente periarticolare. Inoltre, la maggior parte dei fissatori ad anello consente un certo grado limitato di micromovimento assiale, che si è dimostrato capace di stimolare meccanicamente la frattura portandola in alcune circostanze a guarire più rapidamente. I fissatori ibridi sono una combinazione dei sistemi sopracitati. Di solito sono costituiti dall’impiego di uno o più anelli nelle sedi più prossime ad un’articolazione, dove i segmenti fratturati possono essere troppo piccoli per accettare molteplici chiodi. I fili utilizzati con il sistema circolare, avendo un calibro minore, possono ingaggiare questi segmenti juxta-articolari in modo più ottimale. Gli anelli vengono poi fissati alle barre lunghe che servono da montanti sui quali attaccare i morsetti da utilizzare per i chiodi standard inseriti in qualsiasi altro punto dell’osso.

Aspetti biomeccanici Quando si progetta la configurazione di un fissatore esterno, è necessario tenere conto sia degli aspetti biomeccanici che degli effetti biologici della sua applicazione. Per quanto riguarda la biomeccanica della stabilizzazione delle fratture, indipendentemente dal fatto che sia di tipo interno o esterno, occorre ricordare che si tratta di una corsa. È una corsa fra il cedimento meccanico del dispositivo di fissazione e la guarigione dell’osso. Il cedimento meccanico dei fissatori esterni avviene tipicamente a livello dell’interfaccia fra chiodo ed osso. Conoscere questo fatto permette al chirurgo di focalizzare l’attenzione sulle misure finalizzate a preservare le corrette condizioni dei chiodi per impianti, in modo da prolungare al massimo la longevità del fissatore. A tal fine, è necessario osservare regole tecniche di importanza critica per quanto riguarda l’inserimento di questi elementi nell’osso. Ogni volta che sia possibile, è necessario utilizzare chiodi a profilo positivo da inserire in modo che ingaggino entrambe le corticali. In ciascun segmento osseo bisogna applicare due o tre chiodi. I chiodi in ciascun segmento devono essere posti sia vicino alla frattura che lontano da essa, per coprire l’intera lunghezza dell’osso. Quando si utilizzano chiodi a profilo positivo, si raccomanda di praticare preventivamente un foro con un trapano. Ciò serve a ridurre al minimo il rischio di microfrattura ossea o di surriscaldamento durante l’inserimento del chiodo a profilo positivo.


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Per quanto riguarda le barre di connessione, è importante ricordare che le configurazioni più robuste sono quelle triangolari. Di conseguenza, per i cani di taglia molto grande, l’uso di chiodi per impianti sia bilaterali che monolaterali connessi a barre orientate l’una rispetto all’altra in modo da formare un disegno triangolare consente di ottenere la migliore resistenza possibile alla compressione, all’arcatura ed alle forze di torsione.

Guarigione dell’osso Uno dei più importanti vantaggi dei fissatori esterni è che possono essere applicati con una tecnica dall’invasività minima. In questo modo, il chirurgo può comportarsi come un “giardiniere” piuttosto che come un “carpentiere”, riuscendo a conferire stabilità e recuperare l’appropriata apposizione della copertura e l’allineamento corretto senza distruggere l’ematoma di frattura o determinare la perdita della vascolarizzazione dei frammenti. Molto spesso, il fissatore può essere inserito in modo completamente “chiuso”, per cui l’osso non viene esposto attraverso un approccio di alcun genere. Poiché questa operazione talvolta può essere difficile senza l’impiego della fluoroscopia intraoperatoria, si può utilizzare una strategia alternativa che viene detta “aprire ma non toccare”, nella quale si realizza un piccolo accesso al di sopra della frattura per ottenere l’allineamento e l’apposizione appropriati con una manipolazione minima. È stato dimostrato che le fratture diafisarie comminute trattate in modo da evitare il più possibile la distruzione dei frammenti guariscono mediante formazione di un ponte endostale e che gli approcci meno invasivi possono ridurre la durata del periodo di guarigione. È importante ricordare che la fissazione della frattura è una corsa fra la guarigione dell’osso ed il cedimento degli impianti. Tutti i dispositivi ESF si allentano col tempo. Il più frequente punto di allentamento è localizzato a livello dell’interfaccia fra chiodo ed osso. Quindi, concentrare gli sforzi sull’ottimizzazione della longevità del chiodo promuove più efficacemente l’integrità meccanica del dispositivo di fissazione, aumentando le probabilità di giungere alla guarigione dell’osso. Le tecniche per assicurare una buona tenuta del chiodo sono rappresentate dall’applicazione dei già citati impianti a profilo positivo dopo realizzazione preventiva di un foro con il trapano. Sia la microfrattura che la necrosi termica dell’osso nella sede di inserimento del chiodo possono portare ad un prematuro allentamento dello stesso. Inoltre, per l’inserimento del chiodo è necessario evitare le aree caratterizzate da una grande copertura di tessuti molli, perché questi verrebbero irritati degli impianti ed esiterebbero in un maggiore drenaggio; in questo modo è possibile prevenire l’infezione che porta all’osteomielite.

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Un concetto interessante relativo alla promozione della guarigione dell’osso con l’impiego della fissazione esterna è il processo di destabilizzazione. Questo principio prevede l’indebolimento intenzionale della configurazione di un fissatore durante il decorso del trattamento della frattura. Ciò consente all’osso di veder aumentare il proprio carico biomeccanico nel tempo parallelamente alla riduzione della configurazione del fissatore e, quindi, dovrebbe favorire la guarigione ossea portando alla formazione di una maggior quantità di callo ed alla sua rapida organizzazione. Esistono molti modi per ottenere questo risultato, dalla rimozione per stadi di certe parti della configurazione alla asportazione di un chiodo endomidollare, all’aumento della distanza fra una barra di connessione e l’osso lungo i chiodi, sino all’effettiva eliminazione degli stessi. Ciò ovviamente richiede l’esecuzione di indagini radiografiche ad intervalli frequenti nel periodo postoperatorio per valutare il livello di guarigione.

Applicazione di un fissatore esterno Nei piccoli animali il fissatore esterno può essere utilizzato per qualsiasi osso lungo ed anche in alcuni casi specifici di fratture spinali. Le tecniche di applicazione nonché il tipo di configurazione adottata variano in funzione dell’osso e sono dovute in gran parte alla quantità di tessuti molli che circondano l’osso stesso nonché alla localizzazione delle strutture nervose e vascolari vitali, che bisogna evitare con i chiodi. A causa della loro distanza dal corpo, le fratture delle ossa delle estremità distali come il radio/ulna e la tibia/fibula possono venire trattate con fissatori circolari oppure lineari di tipo II. Le fratture prossimali delle estremità degli arti, sia anteriori che posteriori, sono contraddistinte da zone adiacenti al corpo che non tollerano l’applicazione di chiodi per impianti bilaterali con barre di connessione o chiodi posizionati in sede mediale e quindi richiedono l’impiego di fissatori ibridi, oppure lineari di tipo I con un chiodo endomidollare. La cura di un fissatore esterno nel periodo postoperatorio prevede l’ispezione regolare della configurazione e, cosa più importante, delle sedi di inserimento dei chiodi per valutare l’eventuale comparsa di segni di infezione o irritazione. È importante applicare un bendaggio intorno al fissatore e in particolare inserire dei tamponi come imbottitura fra la configurazione ed i tessuti molli sottostanti, in modo da ridurre al minimo il loro movimento contro i chiodi, il che dovrebbe notevolmente diminuire la potenziale irritazione provocata dagli impianti. Anche in questo caso, massimizzare dal punto di vista biomeccanico la guarigione a livello dei chiodi contribuisce più di qualsiasi altra cosa a preservare il fissatore.


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Understanding the canine meniscus: anatomy, function, disorders and treatment Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

Anatomy The knee menisci are paired C-shaped fibrocartilage wedges that are interpositioned between the femoral and tibial condyles. Knee menisci are predominantly comprised of collagen Type I and are rich with glycosaminoglycans. The extracellular matrix is maintained by the cellular constituents of the menisci, the meniscal fibrochondrocytes (MFCs). Meniscal fibrochondrocytes vary in their appearance and ability to respond to stimuli depending on their location within the menisci. Whereas those cells inhabiting particularly the femoral meniscal surface are more fibroblast-like, the cells deeper within the tissue are more similar to chondrocytes in appearance and function. The lateral meniscus tends to be larger than the medial meniscus with respect to its thickness and radius. Both medial and lateral menisci are attached to the tibial plateau with cranial and caudal meniscotibial ligaments. In addition the caudal pole of the lateral meniscus is attached to the femur with the lateral meniscofemoral ligament. The menisci are attached to one another by way of the intermeniscal ligament. The medial meniscus possesses an intimate association with the medial collateral ligament and joint capsule, and as such is less mobile than the lateral meniscus during periods of joint motion. The menisci receive their blood supply from branches of the medial and lateral genicular arteries by way of the perimeniscal capsular plexus. Vessels permeating the meniscal tissue from the plexus penetrate no more than 25% of the width of the tissue, also referred to as the ‘red zone’. This leaves the axial component devoid of vessels and can be referred to as the ‘white zone’. Therefore, the majority of the tissue is left to receive nutrition through diffusion of nutrients from the synovial fluid during periods of joint motion. The cranial and caudal poles of the menisci are also highly innervated with the majority of nerve fibers accompanying vessels thus likely serving in a vasomotor function. However, the presence of additional nerve fibers not associated with the vasculature has lead to theories regarding their roles in sensory feedback mechanisms of the knee. It is suspected that the concentrations of neural elements in the cranial and caudal horns act as mechanoreceptors to detect tension during periods of extreme knee extension and flexion.

Function Although once believed to serve no integral purpose, it is now known that the menisci are essential in maintaining the

normal integrity and function of the knee. They do so primarily through alleviating femoral-tibial incongruity, bearing and distributing load, assisting with joint lubrication and providing shock-absorption to the joint. The menisci are capable of performing these functions because of their unique structure-function relationship which is dependent upon their complex extracellular matrix. The majority of peripheral collagen fibers are oriented in a circumferential fashion which, combined with the action of the meniscotibial ligaments securing the meniscal poles to the tibia, allow the menisci to convert compressive forces transmitted axially from the femur into tensile forces, also known as ‘hoop strains’. Radially oriented collagen fibers or ‘tie fibers’ run perpendicular to the longitudinal bands thereby binding them together. The presence of glycosaminoglycans assists with imbibition of water, which when compressed will exude forth from the meniscal tissue in viscoelastic fashion, giving the tissue excellent absorptive resiliency when subjected to rapid loading. During periods of knee flexion and extension the menisci will actually move over the surface of the tibial plateau. As the knee flexes, both menisci move caudally, the lateral being able to experience greater excursion than the less mobile medial meniscus. Conversely, during extension, the menisci slide cranially, again with the lateral being able to move more. During periods of motion, it is now thought that the menisci aid in sensation of knee position in a proprioceptive function through the presence of type I and II nerve endings. This function is thought to aid in the maintenance of knee stability.

Disease Meniscal injuries are commonplace in several mammalian species. Whereas humans can experience primary meniscal tears, dogs typically will only suffer meniscal damage secondary to rupture of the cranial cruciate ligament. Secondary to the ruptured ligament, the knee can be subject to excessive and unrestrained internal torsional forces such that the femur can pivot on the tibial plateau on the medial condyle, thus subjecting the medial meniscus to a combination of compression and shearing forces. The lateral meniscus is also frequently damaged secondary to cranial cruciate ligament disease in dogs. A variety of different types of meniscal injuries can ensue. The most frequently experienced is the longitudinal tear in the caudal pole of the medial meniscus. The caudal poles of the menisci act as


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passive restraints to cranial tibial translation. Once the cranial cruciate ligament has been ruptured and the proximal tibia can slide forward with respect to the femur during weight bearing, the caudal poles can be pinched between the femur and tibia. Because the medial meniscus is less mobile, it is likely less able to displace caudally during weight bearing to avoid this crushing type of injury. Longitudinal injuries can result in the displacement of the torn aspect of the tissue which can become entrapped and interfere with the mechanical function of the knee. These are sometimes referred to as ‘bucket-handle’ tears. A number of diagnostic tools have been investigated for the evaluation of the meniscus in the human, however these are somewhat limited in the veterinary patient due to cost and availability. Novel diagnostic modalities that will likely see increased use in the small animal patient include ultrasound and magnetic resonance imaging. A minimally invasive surgical approach to meniscal evaluation currently being used by a number of veterinary surgeons is exploratory arthroscopy.

Treatment The majority of meniscal tears in both humans and dogs require surgical intervention. In the human, early diagnosis of meniscal injuries and sensitive determinants of injury location have allowed a wider variety of repair strategies. However these types of treatment are dictated by the anatomic location and the extent of the injury. Because of the relationship to healing potential, meniscal injuries are typically classified anatomically based on the location of occurrence with respect to the tissue’s blood supply. Relatively small tears in the vascular portion of the menisci, or red-red tears, can heal spontaneously. In people, tears longer than 10 mm in the vascular zone repaired with sutures or other fixation devices have a good prognosis for appropriate healing. However, injuries to the large avascular portion of the meniscus, or white-white tears, do not heal spontaneously and are not typically considered candidates for primary repair. The majority of meniscal tears in the small animal patient are definitely diagnosed secondarily while the knee is undergoing a procedure for the torn cruciate ligament. Most veterinary surgeons treat meniscal tears in the dog through subtotal meniscectomy. During this procedure, damaged meniscus is removed while grossly normal tissue is preserved in an attempt to maximize remaining function. For large white-

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white tears in the human, arthroscopic partial meniscectomy is also completed and has become the most common orthopedic procedure currently performed in the United States, with close to one million cases operated annually. Removal of meniscal tissue is not without consequence. Secondary osteoarthritis of the knee inevitably occurs and is directly related to the amount of remaining meniscal tissue. Although fibrovascular tissue can form in the meniscal defect resulting from surgical meniscectomy, the size, shape, composition, and material properties of this new tissue, in conjunction with the time frame of formation, typically result in loss of the essential meniscal function. Because of the vital function the menisci serve in the knee, and the risk of meniscal damage during cranial cruciate ligament disease, prophylactic surgical techniques have been suggested to try to prevent the medial meniscus from being damaged if it is still intact at the time the cruciate-deficient knee is undergoing stabilization. This technique is called the meniscal release and either involves transection of the medial caudal meniscotibial ligament or making a midbody transection to the level of the joint capsule. The theory behind this procedure is that it allows the medial meniscus to become more mobile, and thus would allow the caudal pole to displace itself out of the way of the femoral condyle during periods of excessive internal torsion or cranial tibial translation. However, as is seen with the lateral meniscus, meniscal mobility is not a guarantee for protection and despite the releasing technique, subsequent meniscal injury can still occur. It is important to note that transection of neither medial caudal meniscotibial ligament nor mid-body of the meniscus is an innocuous procedure. Both procedures obliterate the longitudinal collagen fibers and completely disrupt the function of the meniscus. A large research movement is afoot to determine alternative treatment options to meniscectomy for avascular meniscal injuries. Of the currently investigated alternatives, those that utilize tissue engineering strategies appear to have the most potential for success.

References Thieman KM, Tomlinson JL, Fox DB et al. Effect of menical release on rate of subsequent meniscal tears and owner-assessed outcome in dogs with cruciate disease treated with tibial plateau leveling osteotomy. Vet Surg. 2006, 35, 705-710. Pozzi A, Kowaleski MP, Apelt D et al. Effect of medial meniscal release on tibial translation after tibial plateau leveling osteotomy. Vet Surg. 2006, 35, 486-494.


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Le patologie del menisco nel cane Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

Anatomia

Funzione

I menischi del ginocchio sono due fibrocartilagini accoppiate, a forma di C e con sezione a cuneo, che si interpongono fra i condili femorali e tibiali. I menischi sono costituiti principalmente da collagene di tipo I e sono ricchi di glicosaminoglicani. La matrice extracellulare viene mantenuta dai costituenti cellulari dei menischi, i fibrocondrociti meniscali (MFC). Queste cellule variano per aspetto e capacità di rispondere agli stimoli a seconda della loro localizzazione all’interno dei menischi. Mentre quelle che vivono in particolare in corrispondenza della superficie meniscale femorale sono più simili a fibroblasti, quelle situate più profondamente all’interno dei tessuti somigliano di più ai condrociti sia per l’aspetto che per la funzione. Il menisco laterale tende ad essere più grande di quello mediale sia per spessore che per raggio. Sia il menisco laterale che quello mediale sono uniti al plateau tibiale da legamenti menisco-tibiali craniali e caudali. Inoltre, il polo caudale del menisco laterale è connesso al femore dal legamento meniscofemorale laterale. I menischi sono uniti gli uni agli altri dal legamento intermeniscale. Il menisco mediale è intimamente associato al legamento collaterale mediale ed alla capsula articolare, e come tale è meno mobile di quello laterale durante i periodi di movimento dell’articolazione. I menischi ricevono il proprio apporto ematico dai rami delle arterie genicolari mediali e laterali, attraverso il plesso capsulare perimeniscale. I vasi che permeano il tessuto meniscale a partire dal plesso penetrano per non più del 25% dello spessore del tessuto, che viene anche indicato come “zona rossa”. Ciò lascia la componente assiale priva di vasi, per cui può essere indicata come la “zona bianca”. Di conseguenza, la maggior parte del tessuto viene lasciata a ricevere la nutrizione per diffusione dei principi nutritivi dal fluido sinoviale durante i periodi di movimento articolare. I poli craniali e caudali dei menischi sono anche altamente innervati dalla maggior parte delle fibre nervose che accompagnano i vasi e quindi probabilmente svolgono una funzione vasomotoria. Tuttavia, la presenza di fibre nervose aggiuntive non associate alla vascolarizzazione ha portato a formulare teorie relative al loro ruolo nei meccanismi di feed-back sensoriale del ginocchio. Si sospetta che le concentrazioni degli elementi nervosi nelle corna craniali e caudali agiscano da meccanocettori per individuare la tensione durante i periodi di estrema estensione e flessione del ginocchio.

Benché una volta si ritenesse che non svolgessero alcuno scopo integrale, è oggi noto che i menischi sono essenziali per mantenere la normale integrità e funzionalità del ginocchio. Ottengono questo risultato principalmente alleviando l’incongruenza femorotibiale, sopportando e distribuendo i carichi, favorendo la lubrificazione articolare e svolgendo una funzione di ammortizzatore a livello del ginocchio. I menischi sono in grado di assolvere questo compito grazie alla loro esclusiva relazione fra struttura e funzione, che dipende dalla loro complessa matrice extracellulare. La maggior parte delle fibre collagene periferiche è orientata in senso circonferenziale, il che, unitamente all’azione dei legamenti meniscotibiali che assicurano i poli meniscali alla tibia, consente ai menischi di convertire le forze compressive trasmesse assialmente dal femore in forze di tensione, anche note come “stiramenti circolari”. Le fibre collagene orientate radialmente o “fibre di vincolo” decorrono perpendicolarmente alle bande longitudinali e quindi le legano insieme. La presenza di glicosaminoglicani contribuisce al processo tramite l’imbibizione di acqua, che quando viene compressa fuoriesce per essudazione dal tessuto meniscale, in modo viscoelastico, conferendo al tessuto stesso un’eccellente capacità elastica di assorbimento quando viene sottoposto ad un rapido carico. Durante i periodi di flessione ed estensione del ginocchio, i menischi in realtà si muovono sopra la superficie del plateau tibiale. Quando il ginocchio si flette, entrambi i menischi si spostano caudalmente, con quello laterale in grado di compiere un’escursione più ampia di quello mediale, meno mobile. Al contrario, durante l’estensione, i menischi scivolano cranialmente, anche in questo caso con quello laterale capace di muoversi di più. Durante i periodi di movimento, si ritiene ora che i menischi contribuiscano a percepire la sensazione della posizione del ginocchio svolgendo una funzione propriocettiva grazie alla presenza di terminazioni nervose di tipo I e II. Si pensa che questa funzione contribuisca al mantenimento della stabilità del ginocchio.

Malattie I traumi meniscali sono un evento comune in molte specie di mammiferi. Nell’uomo si possono riscontrare lacerazioni primarie del menisco, mentre nel cane il danno meniscale di norma si osserva solo come fenomeno secondario alla rottura del legamento crociato craniale. Secondariamente a tale rottura, il ginocchio può venire sottoposto a forze di torsione inter-


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na eccessive e non più trattenute, per cui il femore può ruotare sul plateau tibiale sul condilo mediale, sottoponendo così il menisco mediale ad una combinazione di forze di compressione e di taglio. Anche il menisco laterale viene frequentemente danneggiato secondariamente ad un processo patologico che colpisce il legamento crociato craniale del cane. È possibile riscontrare una gran varietà di differenti tipi di lesioni meniscali. Quella più frequente è la lacerazione longitudinale a livello del polo caudale del menisco mediale. I poli caudali dei menischi agiscono da mezzi di contenimento passivi che si oppongono alla traslazione tibiale craniale. Una volta che si sia verificata la rottura del legamento crociato craniale e che la parte prossimale della tibia possa scivolare in avanti rispetto al femore durante il carico, i poli caudali possono venire pizzicati fra il femore e la tibia. Poiché è meno mobile, il menisco mediale è probabilmente meno in grado di dislocarsi caudalmente durante il carico per evitare questa lesione da schiacciamento. Le lesioni longitudinali possono esitare nella dislocazione della parte lacerata del tessuto, che può venire intrappolata ed interferire con la funzione meccanica del ginocchio. Questi quadri vengono talvolta indicati col nome di lacerazioni “a manico di secchio”. Per la valutazione del menisco nell’uomo sono stati studiati numerosi metodi diagnostici, che però sono ancora abbastanza limitati in ambito veterinario a causa del costo e della scarsa diffusione. Le nuove modalità diagnostiche che vedranno probabilmente un aumento del loro impiego nella clinica dei piccoli animali sono l’ecografia e la risonanza magnetica. Numerosi chirurghi veterinari utilizzano attualmente l’artroscopia esplorativa, che costituisce un approccio operatorio dall’invasività minima per la valutazione del menisco.

Trattamento La maggior parte delle lacerazioni meniscali sia nell’uomo che nel cane richiede l’intervento chirurgico. Nell’uomo, la diagnosi precoce delle lesioni meniscali e la possibilità di disporre di criteri sensibili per determinare la localizzazione della lesione hanno consentito una più ampia varietà di strategie di riparazione. Tuttavia, questi tipi di trattamento sono condizionati dalla localizzazione anatomica e dall’entità del danno. A causa della relazione con la potenziale guarigione, le lesioni meniscali vengono tipicamente classificate su base anatomica facendo riferimento alla localizzazione rispetto all’apporto vascolare del tessuto. Le lacerazioni relativamente piccole nella porzione vascolare dei menischi, o lacerazioni rosso-rosso, possono guarire spontaneamente. Nell’uomo, lacerazioni più lunghe di 10 mm nella zona vascolare riparate con suture o altri dispositivi di fissazione hanno una buona prognosi per una guarigione appropriata. Invece, le lesioni a carico della grande porzione non vascolarizzata del menisco, o lacerazioni bianco-bianco, non guariscono spontaneamente e di norma non sono considerate candidate alla riparazione primaria. In genere nelle lacerazioni meniscali dei piccoli animali la diagnosi definitiva viene formulata secondariamente, mentre il ginocchio viene sottoposto ad un intervento per la lacerazione del legamento crociato. La maggior parte dei chirurghi

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veterinari tratta le lacerazioni meniscali del cane mediante meniscectomia subtotale. Durante questa procedura, il menisco danneggiato viene rimosso, mentre il tessuto macroscopicamente normale viene preservato nel tentativo di massimizzare il recupero funzionale. Per le grandi lacerazioni bianco-bianco nell’uomo, viene anche eseguita la meniscectomia parziale per via artroscopica, che è diventata la più comune procedura ortopedica eseguita negli Stati Uniti, con quasi un milione di casi operati all’anno. La rimozione del tessuto meniscale non è priva di conseguenze. Si verifica inevitabilmente un’osteoartrite secondaria del ginocchio che è direttamente correlata alla quantità di tessuto meniscale residuo. Benché in seguito alla meniscectomia chirurgica a livello del difetto meniscale si possa formare del tessuto fibrovascolare, le dimensioni, la forma, la composizione e le proprietà materiali di questo nuovo tessuto, in associazione con il periodo di tempo richiesto dalla sua formazione, esitano tipicamente nella perdita della forma meniscale essenziale. Poiché la funzione vitale dei menischi si svolge a livello del ginocchio, ed esiste il rischio di un danno meniscale durante un processo patologico a carico del legamento crociato craniale, sono state suggerite tecniche chirurgiche profilattiche finalizzate a cercare di prevenire il danneggiamento del menisco mediale eventualmente ancora integro nel momento in cui un ginocchio con lesioni del crociato viene sottoposto a stabilizzazione. Questa tecnica viene detta rilascio o liberazione meniscale e comprende sia la resezione del legamento meniscotibiale caudale mediale che la realizzazione di una scontinuazione a metà corpo sino a livello della capsula articolare. La teoria che sta alla base di questa procedura è che in questo modo si consente al menisco mediale di diventare più mobile e quindi si permette al polo caudale di spostarsi dal percorso del condilo femorale durante i periodi di eccessiva torsione interna o di traslazione tibiale craniale. Tuttavia, come si osserva nel menisco laterale, la mobilità meniscale non è una garanzia di protezione e, nonostante la tecnica di rilascio, si possono ancora avere successivi danni meniscali. È importante notare che né la scontinuazione del legamento meniscotibiale caudale mediale né quella a metà corpo del menisco sono procedure innocue. Entrambe determinano la perdita delle fibre collagene longitudinali e distruggono completamente la funzione del menisco. È in corso una notevole attività di ricerca per determinare opzioni terapeutiche alternative alla meniscectomia per le lesioni meniscali avascolari. Fra le alternative attualmente oggetto di studio, sembrano avere il maggior potenziale di successo quelle che utilizzano le strategie di ingegnerizzazione tissutale.

Bibliografia Thieman KM, Tomlinson JL, Fox DB et al. Effect of menical release on rate of subsequent meniscal tears and owner-assessed outcome in dogs with cruciate disease treated with tibial plateau leveling osteotomy. Vet Surg. 2006, 35, 705-710. Pozzi A, Kowaleski MP, Apelt D et al. Effect of medial meniscal release on tibial translation after tibial plateau leveling osteotomy. Vet Surg. 2006, 35, 486-494.


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TPLO principles, patient selection and preoperative planning Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

TPLO Principles In the veterinary surgical vocabulary, the TPLO procedure, or tibial plateau leveling osteotomy, refers to the alteration of the proximal tibial joint reference angle by the performance of a dome or radial osteotomy in the sagital plane for the purpose of stabilizing the cranial cruciate deficient joint. Other types of osteotomies such as opening, neutral, chevron, intrarcitular or closing wedges can accomplish the same task, however over the past 8 years, the most frequent technique has employed the use of the dome osteotomy. When examined in the sagital plane, the proximal canine tibia possesses a joint orientation line that intersects with the mechanical axis at approximately 26 degrees from perpendicular. This angle has been much studied and is referred to in the literature as the tibial slope, tibial plateau angle (TPA) or the complement of the mechanical proximal caudal tibial angle (mPTCdA). Recent research has demonstrated that this angle may be breed-dependent. The TPLO procedure is geared toward alleviating cranial tibial thrust, which is the dynamic instability of the canine cruciate-deficient stifle during weight-bearing. Cranial tibial thrust is the cranially-oriented tibial translation that results from femoral tibial compression from both weight bearing forces and contraction of the gastrocnemius, hamstring and quadriceps muscle groups in the cruciate deficient stifle. In the normal stifle, the cranical cruciate ligament would resist cranial tibial thrust. The purpose of the TPLO procedure is then to provide functional stifle stability during the stance phase of the gait cycle by eliminating cranial tibial thrust. The completion of a TPLO induces converts cranial tibial thrust into caudal tibial thrust, thus increasing strain on the caudal cruciate ligament and stabilizing the joint during weight bearing.

the current standard of care for most veterinary canine patients. However, other very successful techniques exist, including the aforementioned extracapsular suturing techniques, and the tibial tuberosity advancement procedure. Whereas most dogs with cranial cruciate ligament rupture would be a candidate for any of the surgeries mentioned here, some patient-specific criteria may dictate why the TPLO would be advantageous. Although a direct relationship has not been shown, speculation still surrounds the possible causal effect of tibial slope on cranial cruciate ligament rupture. Regardless, a percentage of cases is seen clinically that have tibial slopes that can be considered excessive (>30째). For those cases, completing another stifle stabilizing procedure may not fully eliminate the cranial tibial thrust. Although a recent study argues against this supposition, it should be noted that dogs with slopes greater than 30째 were not evaluated. Therefore, it is still commonly held that dogs with excessive slope may show the most improvement from a leveling osteotomy. An advantage of the TPLO procedure is that rotational corrections of tibial torsional deformities can be made at the time of the leveling procedure. Torsional deformities of the tibia have been suspected as being contributory to cranical cruciate ligament disease and patellar luxation. Thus presenting dogs with cranial cruciate ligament rupture and concomitant torsional deformity may be optimally treated with TPLO. Patients that are not condidates for the TPLO procedure would be any dog that is of a size that is not compatible with the surgeons osteotomy equipment. Another major criteria for exclusion would include those dogs with traumatically-induced cranial cruciate ligament rupture that has concurrent compromise of the caudal cruciate ligament since the strain on the caudal cruciate ligament increases following the TPLO procedure.

Preoperative Planning Patient Selection Historically, the TPLO procedure was limited to largebreed dogs only due to limitations in sizing of the appropriate saws and implants. With the popularity of the procedure, came the advent of differently-sized saw blades and sizespecific plates for post-correctional stabilization. The TPLO procedure has thus been now described for all sizes of dogs and even cats. Despite recent reports failing to show advantages in clinical outcome of dogs undergoing TPLO versus extracapsular suture techniques, the procedure has become

Orthogonal radiographs are required to plan for the corrective dome osteotomy employed in the TPLO procedure. Frontal plane radiographs are used to assess if torsional deformities of the tibia are present. If the tibia is normal and void of torsional deformity, the stifle should appear straight on the frontal plane radiographs, with the fabella bisected by the femoral cortices, and the center of the patella bisecting the mid-femur. The tibiotarsal joint should also be straight such that the medial cortex of the calcaneous should bisect the intermediate ridge of the distal tibia. Radiographic evi-


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dence of torsional rotation may be addressed at the time of surgery at the discretion of the surgeon. Sagital plane radiographs of the tibia are used to plan the actual osteotomy. First the mechanical axis of the tibia in the sagital plane is determined and is defined as the straight line running between the intercondylar eminences proximally to the center of a best-fit circle superimposed over the talus distally. The joint orientation line of the stifle is determined either by finding the tangential line to the medial tibial condyle, or by defining points at the cranial and caudal most aspects of the tibial slope, and drawing a straight line through them. The intersection of the proximal tibial joint orientation line and tibial sagital plane mechanical establishes the TPA which is measured from a line perpendicular to the mechacnial axis. Next the size of the saw blade to be used is determined. Standard sizes of saw blades that are commonly available are named for the radius that defines the arced blade: 30mm, 24mm, 18mm and 12mm. Transparent templates are useful for preoperatively sizing the blade on the films. Remember that the saw blades will cut an arc in the bone, and an arc is simply a fraction of a circle. The circle that constitutes the arced cut should be centered over the intercondylar eminences of the proximal tibia. Optimally, the size blade that is chosen will be able to be centered as described and cut an arc with the following criteria: 1) The cranioproximal portion of the osteotomy should exit the bone cranial to intermeniscal ligament 2) The caudodistal portion of the osteotomy should exit the bone roughly perpendicular to the caudal cortex of the tibia, or angled slightly proximally to it. 3) Be positioned in a proximal-distal relationship to allow just enough room proximally to apply the designated number of screws through the proximal portion of the chosen TPLO plate. 4) Not be so big as to compromise the tibial crest: the optimal cut should actually allow the remaining tibial crest to widen toward its base following the cut, not taper to become more narrow.

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This arc can be drawn on the pre-operative radiographs, or a copy of the radiographs. Many surgeons are now measuring the distance from the most prominent aspect of the tibial crest caudally in perpendicular fashion until the osteotomy is reached. This number is used intra-operatively to establish a reference mark for the cranial position of the saw. Once the saw blade size is chosen, then those two numbers (radius of the arced blade and the tibial slope) are used to determine how much rotation of the tibial slope is required to reduce the slope to ~5° in millimeters (X). This is determined by the trigonometric formula: X(mm) = (2π(saw blade diameter))(TPA-5°/360°) Therefore, if you measured the TPA to be 26°, and wanted to use the 24mm saw blade, and wanted the post-correctional TPA to be 5°, the calculation would be: X(mm) = (2π24mm)(21°/360°) X(mm) = 8.8mm This means that after completing the dome osteotomy intra-operatively, you would rotate the tibial plateau along the arced cut a total of 8.8mm to correct the TPA from the measured 26° to 5°.

Additional Reading Warzee CC, Dejardin LM, Arnoczky SP et al. Effect of tibial plateau leveling on cranial and caudal tibial thrusts in canine cranical cruciate – deficient stifles: an in vitro experimental study. Vet Surg 30: 278-286: 2001. Havig ME, Dyce J, Kowaleski MP et al. Relationship of tibial plateau slope to limb function in dogs treated with a lateral suture technique for stabilization of cranial cruciate ligament deficient stifles. Vet Surg: 245-251: 2007 Kowaleski MP, McCarthy RJ. Geometric analysis evaluating the effect of tibial plateau leveling osteotomy position on postoperative tibial plateu slope. Vet Comp Orthop Trauma 17:30-34: 2004.


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Attualità e perfezionamento della TPLO Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

Principi della TPLO Nel vocabolario chirurgico veterinario, l’intervento di TPLO, o osteotomia di livellamento del plateau tibiale, indica l’alterazione dell’angolo di riferimento dell’articolazione tibiale prossimale mediante l’esecuzione di una osteotomia a cupola o radiale eseguita lungo il piano sagittale allo scopo di stabilizzare l’articolazione colpita da un’anomalia del legamento crociato craniale. Per lo stesso scopo si possono effettuare altri tipi di osteotomie, come quelle cuneiformi ad angolo aperto, neutre, chevron, intrarticolari o ad angolo chiuso; tuttavia, nell’arco degli ultimi otto anni, la tecnica più frequentemente impiegata è stata l’osteotomia a cupola. Quando viene esaminata lungo il piano sagittale, la parte prossimale della tibia del cane presenta una linea di orientamento dell’articolazione che interseca l’asse meccanico a circa 26° dalla perpendicolare. Questo angolo è stato molto studiato e viene indicato in letteratura come inclinazione tibiale, angolo del plateau tibiale (TPA) o complemento dell’angolo tibiale caudale prossimale meccanico (mPTCdA). Una recente ricerca ha dimostrato che questo angolo può essere dipendente dalla razza. L’intervento di TPLO è mirato ad alleviare la spinta tibiale craniale, che è l’instabilità dinamica del ginocchio colpito da difetti del legamento crociato nel cane quando l’arto viene posto sotto carico. La spinta tibiale craniale è la traslazione tibiale orientata cranialmente che deriva dalla compressione tibiale femorale da parte delle forze di carico del peso e della contrazione dei gruppi muscolari del gastrocnemio, dei muscoli posteriori della coscia e del quadricipite nel ginocchio con lesioni del crociato. Nell’articolazione normale, il legamento crociato craniale si oppone alla spinta tibiale craniale. Lo scopo dell’intervento di TPLO è quindi quello di assicurare una stabilità funzionale del ginocchio durante la fase di appoggio del ciclo del passo eliminando la spinta tibiale craniale. Il completamento della TPLO induce la conversione della spinta tibiale craniale in spinta tibiale caudale, aumentando così la tensione esercitata sul legamento crociato caudale e stabilizzando l’articolazione quando l’arto viene posto sotto carico.

Selezione del paziente Storicamente, l’intervento di TPLO è stato limitato ai cani delle razze di grossa taglia soltanto a causa dei vincoli imposti dalle dimensioni di seghe ed impianti appropriati. Con la sempre maggiore diffusione dell’intervento, si è avuta la

comparsa di lame da sega di dimensioni differenti e di placche di taglia specifica per la stabilizzazione successiva alla correzione. L’intervento di TPLO è stato quindi ora descritto per cani di tutte le taglie e persino per il gatto. Benché le recenti segnalazioni non siano riuscite a dimostrare i vantaggi dell’esito clinico dei cani sottoposti a TPLO in confronto alle tecniche di sutura extracapsulare, questa procedura è diventata lo standard corrente per il trattamento della maggior parte dei casi in medicina veterinaria. Tuttavia, esistono altre tecniche di notevole successo, come quelle già citate di sutura extracapsulare, e la procedura di avanzamento della tuberostità tibiale. La maggior parte dei cani con rottura del legamento crociato craniale sarebbe candidata ad uno qualsiasi degli interventi chirurgici citati in questa sede, ma alcuni criteri specifici per il paziente possono imporre la TPLO a causa di determinati vantaggi che comporta. Benché non sia stata dimostrata una relazione diretta, si ipotizza ancora il possibile effetto causale dell’inclinazione della tibia sulla rottura del legamento crociato craniale. Indipendentemente da ciò, si osserva clinicamente una certa percentuale di soggetti con inclinazioni tibiali che possono essere considerate eccessive (> 30°). Per questi casi, l’esecuzione di un altro intervento di stabilizzazione del ginocchio potrebbe non riuscire ad eliminare completamente la spinta tibiale craniale. Benché un recente studio abbia fornito degli argomenti contro questa supposizione, va notato che non sono stati valutati cani con inclinazioni superiori a 30°. Di conseguenza, è ancora convinzione comune che negli animali di questa specie che presentano un’inclinazione eccessiva i maggiori miglioramenti si possano ottenere in seguito ad un’osteotomia livellante. Un vantaggio dell’intervento di TPLO è che al momento della procedura di livellamento è possibile effettuare le correzioni rotazionali delle deformità torsionali tibiali. Queste ultime sono state sospettate come fattori capaci di contribuire alla patologia del legamento crociato craniale ed alla lussazione rotulea. Quindi, nei cani che vengono portati alla visita con rottura del legamento crociato craniale e concomitante deformità torsionale, la TPLO può costituire il trattamento ottimale. I pazienti che non sono candidati all’intervento di TPLO sarebbero rappresentati da tutti i cani di taglia tale da non risultare compatibile con la dotazione osteotomica del chirurgo. Un altro dei principali criteri di esclusione sarebbe rappresentato da quei cani con rottura traumatica del legamento crociato craniale che presentano una concomitante compromissione di quello caudale, dal momento che in seguito all’intervento di TPLO la tensione esercitata su quest’ultimo aumenta.


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Pianificazione preoperatoria Per pianificare l’osteotomia correttiva a cupola impiegata nell’intervento di TPLO sono necessarie delle radiografie riprese in proiezione ortogonale. Le immagini radiografiche del piano frontale vengono utilizzate per valutare l’eventuale presenza di deformità torsionali della tibia. Se quest’ultima è normale e quindi non presenta deformazioni da torsione, il ginocchio deve apparire diritto nelle radiografie sul piano frontale, con la fabella bisecata dalle corticali femorali ed il centro della rotula bisecato dalla parte media del femore. Anche l’articolazione tibiotarsica deve essere diritta, dato che la corticale mediale del calcaneo deve bisecare il margine intermedio dell’estremità distale della tibia. I segni radiografici della rotazione torsionale possono essere richiamati all’attenzione del chirurgo al momento dell’intervento. Per pianificare l’osteotomia da realizzare effettivamente, si utilizzano le radiografie della tibia lungo il piano sagittale. In primo luogo si determina l’asse meccanico dell’osso nel piano sagittale, che si definisce come la linea diritta che corre fra le eminenze intercondiloidee prossimalmente ed il centro di un cerchio che si sovrappone meglio all’astragalo distalmente. La linea di orientamento dell’articolazione del ginocchio viene determinata attraverso il riscontro della linea tangenziale al condilo tibiale mediale, oppure definendo i punti corrispondenti alle sedi più craniali e caudali dell’inclinazione tibiale e unendoli con una linea diritta. L’intersezione fra la linea di orientamento dell’articolazione tibiale prossimale e il piano sagittale tibiale meccanico stabilisce il TPA, che viene misurato a partire da una linea tracciata perpendicolarmente all’asse meccanico. Il passo successivo consiste nel determinare le dimensioni della lama da sega da utilizzare. Le dimensioni standard di questi strumenti comunemente disponibili sono indicate in base al raggio che definisce l’arco della lama: 30 mm, 24 mm, 18 mm e 12 mm. Per confrontare nel periodo preoperatorio le dimensioni delle lame sulle pellicole radiografiche si utilizzano delle sagome trasparenti. Occorre ricordare che le lame da sega praticano un taglio nell’osso lungo un arco, che è semplicemente una frazione di cerchio. Il cerchio che costituisce il taglio arcuato deve essere incentrato al di sopra delle eminenze intercondilari della parte prossimale della tibia. In condizioni ottimali, la lama delle dimensioni prescelte deve poter essere centrata nel modo descritto e tagliare un arco che soddisfi i seguenti criteri: Far sì che la porzione cranioprossimale dell’osteotomia fuoriesca dall’osso cranialmente al legamento intermeniscale. Far sì che la porzione caudodistale dell’osteotomia fuoriesca dall’osso in modo approssimativamente perpendicolare alla corticale caudale della tibia, oppure risulti leggermente inclinata in senso prossimale rispetto ad essa

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Essere posizionata in relazione prossimodistale in modo da lasciare appena lo spazio sufficiente prossimalmente per applicare il numero previsto di viti attraverso la porzione prossimale della placca da TPLO prescelta Non essere così grande da compromettere la cresta tibiale: il taglio ottimale dovrebbe in realtà consentire, seguendolo, di allargare la cresta tibiale residua verso la sua base, non di restringerla fino a farla diventare più stretta. Questo arco può essere tracciato sulle immagini radiografiche preoperatorie, oppure su una copia delle radiografie. Molti chirurghi stanno ora misurando la distanza dalla parte più prominente della cresta tibiale procedendo caudalmente in senso perpendicolare fino a che non si raggiunge l’osteotomia. Questo numero viene utilizzato in sede intraoperatoria per stabilire un segno di riferimento per la posizione craniale della sega. Una volta scelte le dimensioni della lama della sega, si impiegano i due valori numerici (raggio della lama arcuata e inclinazione della tibia) per determinare di quanto sia necessario ruotare, in millimetri (X), l’inclinazione tibiale per ridurla a circa 5°. Ciò viene determinato mediante una formula trigonometrica: X (mm) = (2 π [diametro della lama della sega])(TPA5°/360°) Di conseguenza, se il valore misurato di TPA è pari a 26° e si vuole usare la lama della sega da 24 mm per arrivare dopo la correzione a 5°, il calcolo sarà: X(mm) = (2 π 24 mm) (21°/360°) X(mm) = 8,8 mm Ciò significa che dopo aver portato a termine l’osteotomia a cupola intraoperatoria, dovrete ruotare il plateau tibiale lungo il taglio arcuato per un totale di 8,8 mm al fine di correggere il TPA passando dal valore misurato di 26° a quello di 5°.

Letture consigliate Warzee CC, Dejardin LM, Arnoczky SP et al. Effect of tibial plateau leveling on cranial and caudal tibial thrusts in canine cranical cruciate – deficient stifles: an in vitro experimental study. Vet Surg 30: 278-286: 2001. Havig ME, Dyce J, Kowaleski MP et al. Relationship of tibial plateau slope to limb function in dogs treated with a lateral suture technique for stabilization of cranial cruciate ligament deficient stifles. Vet Surg: 245-251: 2007 Kowaleski MP, McCarthy RJ. Geometric analysis evaluating the effect of tibial plateau leveling osteotomy position on postoperative tibial plateu slope. Vet Comp Orthop Trauma 17:30-34: 2004.


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Fluoroscopic Guidance of Sacroiliac Luxation Repair: A Minimally Invasive Approach Derek B. Fox DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA

INTRODUCTION Sacroiliac (SI) luxations are common in the dog and cat. Vehicular trauma to the pelvic region can frequently result in cranial displacement of the ilium from the sacral body. Because of the ‘box’ configuration of the pelvis, unilateral SI luxations must be accompanied by other pelvic fractures. Bilateral SI luxations can occur with or without concurrent pelvic fractures. Because the SI joint is in the weight bearing axis of the axial skeleton, reduction and fixation is advisable and will result in quicker return of normal, pain free ambulation. Prior to any surgical intervention, the animal must be adequately stabilized and evaluated for other injuries that would preclude the safe surgical repair of the luxation. A full neurological examination is important to rule out concurrent traumatic myelopathies. Radiographs of the entire pelvis are required to determine the degree of SI displacement, determine the size of the sacrum and evaluate for concurrent pelvic trauma. Conventional surgical repair of SI luxations have been completed with the use of either positional or lag screws placed through open approaches either ventrally or dorsally. These approaches can be time consuming and cause increased patient morbidity compared to closed, minimally invasive techniques.

TECHNIQUE After the animal is fully anesthetized, an attempt can be made to reduce the SI luxation manually by pushing caudally on the wing of the ilium or pulling caudally on the ipsilateral pelvic limb. The more chronic the injury the more difficult manual reduction will be. The limb and ipsilateral hemipelvic region is clipped free of hair and surgically scrubbed using a hanging limb preparation technique. After placing the animal in lateral recumbency on a radiolucent table, the affected side is draped in appropriately. An intraoperative fluoroscopy machine (C-arm) is positioned to capture a lateral view of the pelvis. If additional reduction needs to be completed, the end of a Jacob’s chuck handle can be used to push caudally on the wing of the ilium. In addition, a small approach can be made to the ilial wing for the placement of small Kern bone holding forceps which can be pushed caudally. If the entire hemipelvis is intact, a small approach may also be made to the ischiatic tuberosity which can be subsequently pulled caudally and laterally with the use of Kern bone holding

forceps. Reduction is confirmed with the C-arm. A perfect lateral view of the pelvis is next achieved by manipulating the exposed pelvic limb. Lateral positioning is judged by the superimposition of ilial wings and transverse process of the lumbar spine. Once SI joint reduction is verified on a true lateral projection, a temporary Kirschner wire is percutaneously driven from lateral to medial through the ilial body and into the caudal aspect of the sacral body. This wire is temporary used to keep the SI in reduction and to assist in the alignment of the subsequent screw placement. A 1cm incision is made in the skin cranially to the K-wire. A tap sleeve of the appropriate size for the intended screw is positioned within the skin incision and tunneled through the gluteal muscles until it contacts the ilial body. Using the C-arm the tap sleeve is positioned so that the empty barrel of the sleeve is easily apparent over the ilial body and underlying sacral body. The appropriately sized drill bit loaded within a drill is placed into the sleeve and used to drill through the ilium and into the sacral body. The hole position is confirmed with the C-arm. If a positional screw is to be placed (recommended for younger dogs to maximize bone purchase) the depth of the hole is measured and compared to ventrodorsal radiographs of the pelvis to confirm at least 60% purchase of the sacral body with the screw. If a lag screw is to be placed, an appropriately oversized drill bit is used to overdrill the glide hole in the ilium using both the C-arm and manual palpation to locate the original hole previously drilled. If upon measurement, the screw hole is not deep enough to engage 60% of the sacral width, it is drilled further. The appropriate size and length screw is placed with a washer to distribute the force over the ilium. If a positional screw is being placed, compression across the SI joint must be applied manually prior to engaging the sacral body with the screw threads. The K-wire is removed and final position of screw and reduction of SI evaluated with the Carm. The small incision is closed with a simple interrupted suture and post-operative radiographs are completed in orthogonal views.

DISCUSSION In a case series of 13 dogs using this technique, percent reduction of the SI joint was 92.33%, with sacral purchase of 79%. Sixty-nine percent of the dogs were weight bearing the day following surgery using this minimally invasive


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approach and no screw loosening was documented. In a larger study of 46 dogs in which the SI luxations were treated in closed fashion, 100% of dogs had satisfactory healing and a good clinical outcome. Only one dog in 46 had an inappropriate screw placement which did not affect the clinical results. This is a technically challenging procedure, however once the learning curve has been breeched, is a minimally invasive technique than is very successful.

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Reference Tomlinson JL, Cook JL, Payne JT, Anderson CC, Johnson JC. Closed reduction and lag screw fixation of sacroiliac luxation and fractures. Vet Surg 1999; 28:188-193. Tonks CA, Tomlinson JL, Cook JL. Evaluation of closed reduction and lag screw fixation of sacroiliac fracture-luxations: 46 caes (19992006).


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Le più frequenti complicazioni in corso di anestesia locoregionale Paolo Franci DVM CertVA, Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie- Università degli Studi di Padova

Le complicazioni sono eventi inattesi che peggiorano il quadro clinico in atto. Proprio per il loro essere inattese e per il fatto che colgono il paziente in un periodo, come quello perioperatorio, già gravido di rischi, le complicazioni sono particolarmente temute e pur tuttavia non così infrequenti. Per sua natura, l’anestesia, è soggetta a innumerevoli variabili non controllabili, una corretta gestione anestesiologica dovrebbe essere guidata dalla capacità di minimizzare le complicazioni potenziali di ogni fase perioperatoria. Tanto più l’anestesista sarà cosciente e “padrone” di una tecnica anestesiologica e delle sue implicazioni per il paziente tanto più i problemi che ne deriveranno saranno limitati in intensità e tempo. In medicina esiste un notevole interesse per le tecniche locoregionali e una notevole quantità di letteratura, dalla quale è possibile evincere che tali tecniche, se basate su scelte coerenti con i dettami attualmente riconosciuti come validi e ben eseguite tecnicamente da personale esperto, presentano poche complicazioni a prescindere dalla taglia del paziente. Ovviamente questi studi si basano su migliaia di

casi, all’interno di un mondo medico che si presenta “culturalmente attrezzato” ad eseguirle. Benché le complicazioni potenziali, tra paziente umano ed animale, siano le medesime, in campo veterinario la situazione è molto più confusa: le pubblicazioni sono basate, con esclusione di un paio di studi, su pochi casi; molto spesso mancano degli studi clinici ben condotti che forniscano dati di base (per es. dosaggio dei farmaci in anestesia neurassiale); inoltre il mondo veterinario registra un ritardo culturale che spesso genera complicazioni perioperatorie altrimenti evitabili. Indirizzo per la corrispondenza: Paolo Franci DVM CertVA Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi di Padova Via dell’Università, 16 – Legnaro Tel. 0498272951 e-mail: paolo.franci@unipd.it (per ogni corrispondenza)


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Ipotiroidismo e neuropatie: alla ricerca delle evidenze scientifiche Gualtiero Gandini Med Vet, Dipl. ECVN, Bologna

L’ipotiroidismo nel cane è una condizione patologica che fino all’inizio degli anni novanta è stata molto probabilmente sottodiagnosticata. Da allora si sono compiuti notevoli progressi nella comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della malattia e, grazie anche alle limitazioni della maggior parte dei test diagnostici disponibili sul mercato, si è assistito ad una sorta di inversione paradossa con sovrastima della reale incidenza dell’ipotiroidismo, diagnosticato anche in soggetti che non ne erano affetti. Questa situazione è forse giustificata dal fatto che la tiroide è una ghiandola che produce ormoni che intervengono in numerose funzioni che coinvolgono diversi organi e apparati. Gli ormoni tiroidei stimolano il metabolismo cellulare e, di conseguenza, favoriscono il consumo di ossigeno da parte dei diversi tessuti, favoriscono il catabolismo di proteine e lipidi, stimolano l’eritropoiesi, migliorano la contrazione cardiaca e sono fondamentali per il normale sviluppo degli apparati scheletrico e nervoso. Proprio per il fatto che le funzioni della tiroide si ripercuotono sul funzionamento di molte strutture dell’organismo, l’ipotiroidismo può produrre una sintomatologia quanto mai varia, spesso mal definita, non specifica e caratterizzata da aspetti sistemici più o meno marcati, variamente associati a disfunzioni di diversi apparati1. Nel cane adulto, lo sviluppo di una condizione di ipotiroidismo acquisito è legata alla distruzione della ghiandola tiroide (ipotiroidismo primario) caratterizzato da due diversi quadri istopatologici: quello di una tiroidite linfocitaria autoimmune e quello della cosiddetta “degenerazione (o atrofia) idiopatica della tiroide” che, per molti autori, rappresenta verosimilmente l’aspetto istopatologico dello stadio terminale della tiroidite linfocitaria2,10. La presenza di una tiroidite linfocitaria spesso precede di diversi mesi la comparsa di una sintomatologia clinicamente apparente2. I sintomi con cui può esprimersi la condizione di ipotiroidismo sono compresi all’interno di un ampio “range” di possibili manifestazioni, diverse non solo per aspetti qualitativi, ma anche di severità. Classicamente, nel cane ipotiroideo sono riconosciuti segni “sistemici” e comportamentali, variamente associati a disfunzioni dell’apparato tegumentario, nervoso, cardiovascolare, riproduttivo, emopoietico. In associazione all’ipotiroidismo sono state riportate altre manifestazioni cliniche quali coagulopatie, disturbi gastroenterici, manifestazioni oculari e di infertilità nel maschio, per le quali non esiste però ancora evidenza di una acclarata relazione causale con la malattia1. Come verrà discusso in seguito, per le limitazioni dei test diagnostici, non è sempre facile confermare con certezza il

sospetto clinico di ipotiroidismo. È pertanto possibile che alcuni dei casi riportati nella letteratura meno recente, non fossero veri ipotiroidei. Negli ultimi 15 anni sono stati pubblicati solo due importanti studi retrospettivi sull’ipotiroidismo del cane, caratterizzati da criteri di inclusione molto severi3,4. Da questi lavori appare che l’età media dei cani affetti da ipotiroidismo è di sette anni e che, nonostante nello studio statunitense3 sia segnalata una predisposizione per i Labrador, i Dobermann Pinscher, e i maschi castrati, non sembra esservi una reale predisposizione significativa di razza o di condizione sessuale1,4. I segni sistemici associati alla condizione di ipotiroidismo riflettono un rallentamento del metabolismo basale dell’organismo e possono essere sintetizzati in letargia, minor reattività, sonnolenza, scarsa volontà di interazione, fiacchezza, incremento del peso corporeo, intolleranza al freddo e all’esercizio1. I segni dermatologici sono quelli più frequentemente riportati nei soggetti ipotiroidei1. A livello del mantello è possibile apprezzare alopecia e/o ipotricosi bilaterale e simmetrica, e ritardo nella ricrescita del pelo. La cute può presentarsi secca e forforosa o, al contrario, seborroica. Le alterazioni dermatologiche possono favorire la comparsa di infezioni batteriche ricorrenti e causare piodermiti. Altri segni riportati sono l’ipercheratosi, l’iperpigmentazione, l’otite ceruminosa, la scarsa tendenza alla guarigione delle ferite. Il mixedema è un sintomo a comparsa decisamente più rara1. I segni cardiovascolari indicano una diminuzione della funzione inotropa e cronotropa, ma solo raramente esitano in segni di insufficienza cardiaca. Nel Dobermann Pinscher è documentata la concomitante presenza di ipotiroidismo e miocardiopatia dilatativa. Da segnalare infine che l’ipotiroidismo è considerato un fattore di rischio per la possibile comparsa di aterosclerosi dei vasi1. Gli effetti dell’ipotiroidismo sul Sistema Nervoso sono documentati soprattutto come manifestazioni cliniche a carico del Sistema Nervoso Periferico (SNP), anche se non mancano segnalazioni inerenti ad effetti sul Sistema Nervoso Centrale (SNC). Per alcuni autori, la relativa scarsità di segnalazioni non riflette la reale incidenza delle manifestazioni neurologiche dell’ipotiroidismo. I meccanismi fisiopatogenetici che sottendono le alterazioni neurologiche sono scarsamente compresi, anche se alcune ipotesi per la spiegazione dei sintomi periferici chiamano in causa un difficoltoso trasporto assonale dovuto al rallentamento del metabolismo basale cellulare. In medicina umana è stata documenta-


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ta una assonopatia distale che sembra coinvolgere soprattutto gli assoni più lunghi. Le prime segnalazioni di deficit neurologici ben documentati in cani ipotiroidei risalgono alla seconda metà degli anni ottanta5,6, ma è con il lavoro di Jaggy e coll.7 che viene posto l’accento sui segni neurologici di una ragguardevole popolazione di soggetti ipotiroidei. Le manifestazioni cliniche riportate, ad esordio tipicamente insidioso e a decorso progressivo, sono quelle che caratterizzano le sindromi neuromuscolari: intolleranza all’esercizio, debolezza, paresi, diminuzione generalizzata dei riflessi spinali e atrofia muscolare. Accanto a queste manifestazioni cliniche, lo studio enfatizza anche la presenza di sintomi non generalizzati e quindi non immediatamente riconducibili ad una endocrinopatia. È questo il caso delle disfunzioni vestibolari, del megaesofago, delle paralisi laringee, delle zoppie, che sono state segnalate anche in diversi altri studi e imputate ad una condizione di ipotiroidismo1,3,7,8. In diversi casi, approfondimenti diagnostici in questi soggetti hanno rivelato la presenza di alterazioni subcliniche generalizzate, evidenziabili con l’elettrodiagnostica (elettromiografia e valutazione della velocità di conduzione nervosa) o con le biopsie del nervo periferico e del muscolo. La spiegazione di una mononeuropatia in presenza di un disturbo endocrino generalizzato chiama in causa la documentazione in medicina umana di una compressione della radice nervosa ad opera di depositi mucinosi all’interno e attorno alla radice stessa. Questo aspetto non è però mai stato dimostrato nel cane1. Sporadiche segnalazioni riguardano la presenza di una miopatia primaria generalizzata associata a ipotiroidismo1,9. I reperti bioptici riportano segni di atrofia delle fibre di tipo II e, nel caso più recentemente descritto, bastoncelli di nemalina all’interno delle miofibre di tipo I9. Le manifestazioni cliniche a carico del SNC, molto più sporadiche e di più difficile attribuzione, comprendono le manifestazioni comatose legate al mixedema acuto, le convulsioni, il disorientamento, i movimenti di maneggio e la recente segnalazione di sindromi vestibolari centrali1,8. All’origine di queste manifestazioni dovrebbero porsi fenomeni ischemici legati all’aterosclerosi dei vasi1. La diagnosi di ipotiroidismo non è sempre facile per la difficoltà ad attribuire con oggettività i segni clinici e i risultati dei test diagnostici all’ipotiroidismo o alla cosiddetta “Euthyroid sick syndrome”, nella quale valori inferiori alla norma di T4 totale vengono rinvenuti in soggetti eutiroidei ma con sintomatologia a volte compatibile con l’endocrinopatia in oggetto10. Nel protocollo diagnostico del paziente con sintomi neurologici, proprio perché l’ipotiroidismo è considerato una disfunzione “multisitemica”, attenzione particolare deve essere dedicata alla visita clinica, orientata alla ricerca di segni anche a carico di altri distretti. L’esame emocromocitometrico e il profilo biochimico possono mostrare i segni ritenuti “classici” di modica anemia non rigenerativa, ipercolesterolemia, iperlipidemia, innalzamento di SAP, ALT e

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CK, reperti purtroppo scarsamente indicativi. Anche indagini più sofisticate, quali i test elettrodiagnostici e le biopsie neuromuscolari, mostrano reperti generici e di relativa utilità diagnostica, consistenti rispettivamente in presenza di attività spontanea muscolare (potenziali di fibrillazione e onde acute positive), diminuzione della velocità di conduzione motoria e sensitiva e atrofia delle fibre muscolari di tipo II associata a vari quadri di sofferenza mielinica e degenerazione assonale1. Attualmente, quando non si ha la possibilità di effettuare il test di stimolazione con il TSH ricombinante umano, i rilievi più utili per la diagnosi di ipotiroidismo consistono nella determinazione congiunta dei livelli del T4 totale, del TSH canino e del T4 libero, quest’ultimo analizzato in equilibrio dialitico. La terapia dell’ipotiroidismo prevede la supplementazione orale di levo-tiroxina al dosaggio di 15-20µg/kg a distanza di dodici ore. È stato scritto che il recupero di una normale condizione neurologica richiede mediamente almeno due mesi di supplementazione7. Diversi autori sottolineano però che non in tutti i casi è possibile ottenere una restituito ad integrum della funzione. In particolare, i soggetti con megaesofago attribuito all’ipotiroidismo sembrano rispondere meno efficacemente alla terapia3-7.

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Indirizzo per la corrispondenza: Gualtiero Gandini Dipartimento Clinico Veterinario, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bologna.


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Feline lower urinary tract disease (FLUTD) B. Gerber Dr. med. Vet., Dipl. ACVIM + ECVIM-CA, Vetsuisse Faculty University of Zurich

INTRODUCTION Diseases of the lower urinary tract of cats are summarized under the term “Feline Lower Urinary Tract Disease” FLUTD. FLUTD describes the common clinical presentation of different diseases with a wide variety of causes. The signs of FLUTD are pollakiuriaa, stranguriab, periuriac and hematuria.1 Obstruction of the urethra occurs frequently in this disease complex. FLUTD is a common problem in veterinary medicine. Investigations in the USA revealed, that 8% of the cats presented to teaching hospitals suffered from FLUTD.2 Furthermore a survey in private practices showed that in 3% of the examined cats the diagnosis was FLUTD.3

CAUSES If the cause of FLUTD can not be identified the diseased is called idiopathic. Between 55% and 63% of the cats with FLUTD are considered to suffer from the idiopathic form.2, 4, 5 In a study at our hospital 58% of the cats with FLUTD suffered from the idiopathic form, 22% had urinary calculi, 10% urethral plugs and 8% urinary tract infections. In 3% of the cats no exact diagnosis was possible.6 Further less common causes of FLUTD are neoplasias (e.g. transitional cell carcinoma), acquired or congenital anatomic defects, and central nervous system diseases leading to micturation disturbances. In a recent study from Norway 33% of the cats with FLUTD were diagnosed with urinary tract infection7. This rate is considerably higher than reported in other studies (1-12%) and was suspected to be due to the fact that other studies originated from referral institutions while this one did not.2, 4-6, 8

DIAGNOSIS Because all forms of FLUTD have a very similar clinical presentation, laboratory tests and diagnostic imaging are required in each case to establish a diagnosis. Urinalysis is very important and urine should always be collected before any therapy is instituted. Therapy could potentially change the urinalysis results and lead to the wrong diagnosis. Ideally urine should be collected by cystocentesis, however there is some debate about the danger of cystocentesis in obstructed cats. Urinalysis should include measurement of the specific gravity, a dip-stick analysis, analysis of the urine sediment and a urine culture. In the interpretation of

results of the urinalysis it is important to remember that crystalluria is not a disease. Serum biochemical analysis can provide information about underlying diseases. For example hypercalcemia can lead to the formation of calcium-oxalate stones or cats with diabetes mellitus might be more prone to urinary tract infection.9 Furthermore it is important to identify and quantify hyperkalemia or postrenal azotemia in cats with urinary tract obstruction. Postrenal azotemia develops about 24 h after the obstruction of the urethra. Electrolyte disturbances specifically hyperkalemia can be life threatening and should be recognized and treated immediately. On radiographs radio dense stones can be seen, furthermore size and form of the bladder can be evaluated. It is important to make sure that the distal end of the urethra is on the radiograph. Ultrasound evaluation of the urinary tract provides information about the bladder wall and the content of the bladder. At the authors institution both, ultrasound and radiography are routinely performed in cats with FLUTD as both examinations provide different information. Hyperechogenic floating material is often seen in the ultrasound examination, however similar pictures can be seen in healthy cats. Diseases of the urethra can be seen by contrast urethrography. Urethroscopy and cystoscopy are not routinely performed in cats with FLUTD.

IDIOPATHIC FLUTD It is still not known what’s causing idiopathic FLUTD. A still unproven hypothesis was the involvement of infectious agents since injection of urine from affected cats into the urinary bladders of unaffected cats caused urethral obstruction.10 Caliciviruses isolated from a cat with urinary tract obstruction caused the same signs in other cats inoculated with this virus. However these experiments were not reproducible leaving the question open if viruses are truly involved in the development of FLUTD.11 Defects in the glycosaminoglycan layer and therefore higher permeability of the bladder epithelium, increased activity of the sympathetic nervous system and neurogenic inflammation seem to be features of the disease.1 Idiopathic FLUTD is suggested as model fort interstitial cystitis in people.12 Typical glomerulations (small petechial bleedings) in the submucosa of the bladder wall are part of the human disease and are required for the diagnosis. However cystoscopy is not routinely used for the diagnosis of FLUTD and the term interstitial cystitis is only applicable for cats in the few cases where cystoscopy was performed.


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Risk factors for idiopathic FLUTD Risk factors associated with idiopathic FLUTD in a recent study were male gender, overweight, pedigree cat and most importantly living with an other cat with which there was conflict.13 This implies that stress might be a trigger for the disease, which is supported by the finding that bladder permeability in cats with idiopathic FLUTD is highest under stress.14 Earlier, living indoor and eating dry food were also considered risk factors for idiopathic FLUTD.15 We found that 36% of the cats with idiopathic FLUTD were overweight, 73% lived indoor and 27% were fed dry food only.6 However it was suspected that not demographic or environmental factors but rather cat-related factors like for example acting fearful were associated with idiopathic FLUTD.16

Clinical picture of idiopathic FLUTD Cats suffering from idiopathic FLUTD show pain, hematuria, pollakiuria, stranguria, periuria or are not able to urinate at all. This picture is not different from other causes of FLUTD. In our patients expression of pain, hematuria, pollakiuria, or stranguria were seen in about 50% of the cases with idiopathic FLUTD while periuria was seen in only 35%. More than half of the cats (55%) were presented with urethral obstruction.6 Idiopathic FLUTD is more common in male cats than female cats and occurs rather in young to middle aged cats.17

Therapy Cats with urinary tract obstruction are emergency patients. The main goal of the therapy is to re-establish urine flow. Life threatening metabolic derangements like hyperkalemia or severe acidosis have to be corrected immediately. About 12% of cats with urethral obstruction were found to have severe hyperkalemia (>8mmol/l)(18). Possibilities for the therapy of hyperkalemia are: -infusion with NaCl 0.9%; -infusion with glucose 5%; -regular insulin (0.2 IU/kg IV) followed by a glucose bolus (2 g glucose per unite insulin) followed by infusion with glucose 5%; -calcium gluconate 10%, 0.5 – 1.5 ml/kg IV over 10 minutes; -sodium bicarbonate 0.2 – 0.5 mmol/kg with infusion. If urethral patency can’t be re-established, urine can be evacuated by cystocentesis. Possible side effects of decompressive cystocentesis are extravasation of urine into the peritoneal cavity and injury to a pre damaged bladder wall, therefore decompressive cystocentesis is not recommended as routine procedure. Once the urethra is patent we prefer to leave an indwelling catheter in place and connected it to a closed urine collecting system. After severe postrenal azotemia a substantial postobstructive diuresis might occur and should be addressed by adequate infusion. After the emergency procedure it is very important to perform a thorough work up to get a correct diagnosis. If other reasons are excluded idiopathic FLUTD can be suspected. Many cats with idiopathic FLUTD recover spontaneously. A specific therapy of idiopathic FLUTD has not

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been established so far. Different medications and treatments have been recommended, however they remained tentative and many relapses are seen. Controlled studies proofing the efficacy of treatments are lacking. Some therapeutic options for idiopathic FLUTD will be discussed below.

Pain medication In humans idiopathic cystitis is also classified as a chronic pain syndrome, indicating that pain is an important part of the disease. Pain seems to be a common feature of idiopathic FLUTD and should therefore be addressed at least in the acute phase.6

Antibiotics Antibiotic therapy is indicated if the cats were catheterized. By the way of a catheter infectious agents can get into the urinary tract and establish an infection. Specifically if an indwelling catheter is left in place for several days an infection is likely. Therapy should not be started with the catheter in place to avoid the growth of resistant bacteria.

Glycosaminoglycan Changes of the glycosaminoglycan layer of the bladder seem to be a feature of idiopathic FLUTD. Therefore it seems logic to replace glycosaminoglycans. In humans some success was described, however the success was not consistent. In veterinary medicine only one study about the application of glycosaminoglycans in cats with idiopathic FLUTD was published.19 In this study no difference was seen between cats treated with N-acetyl glucosamine for six month compared to cats treated with a placebo.

Amitriptyline Amitriptyline is a tricyclic antidepressant and is used in veterinary medicine for behavioral problems.20 Amitriptyline is thought to have antihistaminic, anticholinergic, antialpha-adrenergic, anti inflammatory, analgetic und mild sedative actions. Based on this broad spectrum of action amitriptyline seemed to be ideal for the treatment of all forms of FLUTD. In humans the medication provided some relief in patients with interstitial cystitis. In two veterinary studies amitriptyline was used for a short period of time in cats with idiopathic FLUTD.21, 22 In both studies no positive effect of the medication could be demonstrated. In an other unfortunately uncontrolled study amitriptyline lead to a reduction of clinical signs in 9 of 15 cats which were treated for one year.20 Unfortunately the palatability of the medication is not good and it is difficult for cat owners to treat their cat over a long period of time. Therefore other forms of application were tested. In one study the plasma concentration of amitriptyline was measured after transdermal application.23 In this trial all plasma levels were below the detection limit, however only a low dose of amitriptyline was used.

Reduction of stress Signs of idiopathic FLUTD may be exacerbated by stress14 and adaptation of the cats environment and might reduce stress.24 Pheromones are thought to reduce stress in


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cats. In a pilot study synthetic feline facial pheromones (Feliway®) were used for the treatment of idiopathic FLUTD.25 No significant difference was seen between treated and untreated cats. However a trend towards fewer days with clinical signs, towards less pronounced clinical signs and towards fewer episodes of clinical signs was seen.

Feeding The recurrence rate in cats receiving a diet in canned form was lower than in cats receiving the same diet in dry form.26 Furthermore improvement of clinical signs in cats with idiopathic FLUTD was attributed to the change on canned diet in one study.19 This implies that adding water in the diet might be beneficial for cats with idiopathic FLUTD.

Prognosis Prognosis in non obstructive FLUTD is not known. In obstructive FLUTD the prognosis is guarded27. Recurrent signs of lower urinary tract disease including obstruction were common in cats with urethral obstruction. About half of the cats had recurrent signs of lower urinary tract disease, about one third obstructed again and about one fifth was euthanatized because of their disease. Prognosis seemed to be independent on the primary cause of the obstruction. Recurrence of signs occurred irrespective of the primary cause of the obstruction. Furthermore frequency of reobstruction seemed to be the same as almost thirty years ago.

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Patologie delle basse vie urinarie nel gatto: un approccio basato sulla casistica clinica (Parte I e II) B. Gerber Dr. med. Vet., Dipl. ACVIM + ECVIM-CA, Vetsuisse Faculty University of Zurich

INTRODUZIONE Le varie malattie delle basse vie urinarie del gatto vengono riassunte sotto il nome di “Affezioni delle basse vie urinarie del gatto” o FLUTD (Feline Lower Urinary Tract Disease). Que4sta espressione denota la comune presentazione clinica di differenti malattie che riconoscono un’ampia varietà di cause. I segni clinici della FLUTD sono rappresentati da pollachiuriaa, stranguriab, periuriac ed ematuria.1 L’ostruzione dell’uretra si riscontra frequentemente in questo complesso patologico. La FLUTD è un problema comune in medicina veterinaria. Indagini condotte negli USA hanno rivelato che l’8% dei gatti presentati agli ospedali universitari ne era colpito.2 Inoltre, un’indagine condotta presso le strutture private ha evidenziato come nel 3% dei gatti esaminati la diagnosi fosse di FLUTD.3

CAUSE Se la causa della FLUTD non può essere identificata, la malattia viene definita idiopatica. Si ritiene che questo sia il caso di una percentuale di gatti con FLUTD compresa fra il 55% ed il 63%.2,4,5 In uno studio condotto presso il nostro ospedale, il 58% dei gatti con FLUTD era colpito dalla forma idiopatica, il 22% presentava calcoli urinari, il 10% tappi uretrali e l’8% infezioni delle vie urinarie. Nel 3% dei casi non è stato possibile formulare una diagnosi precisa.6 Ulteriori cause meno comuni di FLUTD sono le neoplasie (ad es., carcinoma delle cellule di transizione), i difetti anatomici congeniti o acquisiti e le malattie del sistema nervoso centrale che portano a disturbi della minzione. In un recente studio condotto in Norvegia, nel 33% dei gatti con FLUTD è stata diagnosticata un’infezione del tratto urinario.7 Questa percentuale è considerevolmente più elevata di quella riferita in altri lavori (1-12%) e si è sospettato che fosse dovuta al fatto che questi erano basati sui dati di istituti specialistici che trattavano casi riferiti, mentre questo no.2,4-6,8

tante l’analisi dell’urina, che deve sempre essere prelevata prima di instaurare qualsiasi terapia. Il trattamento sarebbe potenzialmente in grado di modificare i risultati dell’esame e portare ad una diagnosi sbagliata. L’ideale è prelevare l’urina mediante cistocentesi, tuttavia i rischi di questa operazione nei gatti ostruiti sono oggetto di una certa discussione. L’analisi dell’urina deve comprendere la misurazione del peso specifico, la valutazione mediante strisce reattive, l’esame del sedimento urinario e l’urocoltura. Nell’interpretazione dei risultati di queste indagini è importante ricordare che la cristalluria non è una malattia. Il profilo biochimico può fornire informazioni relative alle malattie sottostanti. Ad esempio, l’ipercalcemia può portare alla formazione di calcoli di ossalato di calcio oppure i gatti con diabete mellito possono essere predisposti alle infezioni del tratto urinario.9 Inoltre, è importante identificare e quantificare l’iperkalemia o l’iperazotemia postrenale nei felini con ostruzione del tratto urinario. L’iperazotemia postrenale si sviluppa circa 24 ore dopo l’ostruzione dell’uretra. I disturbi elettrolitici, ed in particolare l’iperkalemia, possono essere potenzialmente letali e vanno riconosciuti e trattati immediatamente. Nelle immagini radiografiche si possono visualizzare calcoli radiopachi, dopo di che si possono valutare le dimensioni e la forma della vescica. È importante accertarsi che l’estremità distale dell’uretra sia compresa nella radiografia. L’esame ecografico del tratto urinario fornisce informazioni sulla parete vescicale e sul contenuto dell’organo. Presso l’istituto dell’autore, nei gatti con FLUTD si eseguono di routine sia l’esame ecografico che quello radiografico, dal momento che forniscono informazioni differenti. Nell’esame ecografico si osserva spesso un materiale iperecogeno fluttuante, tuttavia quadri simili si possono riscontrare anche nei gatti sani. Le malattie dell’uretra possono venire visualizzate mediante uretrografia con mezzo di contrasto. L’uretroscopia e cistoscopia non sono invece indagini abituali nei gatti con FLUTD.

FLUTD IDIOPATICA DIAGNOSI Poiché tutte le forme di FLUTD hanno una presentazione clinica molto simile, per giungere alla formulazione di una diagnosi è sempre necessario ricorrere ai test di laboratorio ed alla diagnostica per immagini. È molto impor-

Non è ancora noto quale sia la causa della FLUTD idiopatica. Un’ipotesi, ancora da dimostrare, riguardava il coinvolgimento di agenti infettivi, dato che l’iniezione di urina di gatti colpiti nelle vesciche di altri non colpiti causava l’ostruzione uretrale.10 I calicivirus isolati da un gatto con ostruzio-


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ne del tratto urinario hanno determinato la comparsa degli stessi segni clinici in altri felini inoculati con questo virus. Tuttavia, questi esperimenti non erano riproducibili, lasciando aperta la questione se i virus fossero davvero coinvolti nello sviluppo della FLUTD.11 Sembra che fra le caratteristiche della malattia rientrino i difetti nello strato di glicosaminoglicani e di conseguenza la più elevata permeabilità dell’epitelio vescicale, l’aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico e l’infiammazione del sistema neurogeno.1 La FLUTD idiopatica è stata suggerita come modello per lo studio della cistite interstiziale nell’uomo.12 Le tipiche glomerulazioni (piccoli sanguinamenti petecchiali) nella sottomucosa della parete vescicale fanno parte del quadro patologico dell’uomo e sono considerate indispensabili per la diagnosi. Tuttavia, la cistoscopia non viene utilizzata di routine per la diagnosi della FLUTD ed il termine di cistite interstiziale è applicabile ai gatti soltanto nei rari casi in cui la cistoscopia è stata eseguita.

Fattori di rischio per la FLUTD idiopatica In un recente studio, i fattori di rischio associati alla FLUTD idiopatica erano il sesso maschile, il sovrappeso, il fatto di essere gatti di razza pura e, cosa più importante, il fatto di vivere con un altro gatto con il quale si era in conflitto.13 Ciò implica che lo stress possa essere un fattore scatenante della malattia, il che viene sostenuto dal riscontro del fatto che la permeabilità vescicale nei gatti con FLUTD idiopatica è massima sotto stress.14 In precedenza, anche il vivere in casa e il consumare alimenti secchi erano stati considerati fattori di rischio per la FLUTD idiopatica.15 Abbiamo rilevato che il 36% dei gatti con FLUTD idiopatica era sovrappeso, il 73% viveva in casa ed il 27% veniva alimentato soltanto con prodotti secchi.6 Tuttavia, si è sospettato che alla FLUTD idiopatica fossero associati dei fattori non tanto di tipo demografico o ambientale, quanto piuttosto correlati al gatto, come, ad esempio, il fatto di comportarsi in modo timoroso.16

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cipale della terapia è quello di ripristinare il flusso dell’urina. Le alterazioni metaboliche potenzialmente letali come l’iperkalemia o la grave acidosi devono essere corrette immediatamente. Il 12% circa dei gatti con ostruzione uretrale è risultato colpito da una grave iperkalemia (> 8 mmol/l).18 Le possibilità per la terapia dell’iperkalemia sono rappresentate da infusione di soluzione fisiologica (NaCl 0,9%), infusione di glucosio al 5%, somministrazione di insulina amorfa (0,2 UI/kg IV) seguita da un bolo di glucosio (2 g di glucosio per unità di insulina) e poi dall’infusione di glucosio al 5%, somministrazione di calcio gluconato al 10%, alla dose di 0,5-1,5 ml/kg IV nell’arco di 10 minuti e infusione di bicarbonato di sodio alla dose di 0,2-0,5 mmol/kg. Se non si riesce a ristabilire la pervietà dell’uretra, l’urina può essere evacuata mediante cistocentesi. I possibili effetti collaterali della cistocentesi decompressiva sono rappresentati dallo stravaso di urina nella cavità peritoneale e dal danneggiamento di una parete vescicale precedentemente lesionata, per cui questo tipo di intervento non viene consigliato come procedura di routine. Una volta che l’uretra è pervia, preferiamo lasciare in posizione un catetere permanente e raccordarlo ad un sistema chiuso di raccolta dell’urina. Dopo una grave iperazotemia postrenale, si può avere una sostanziale diuresi postostruttiva, che deve essere trattata con un’adeguata infusione. Dopo la procedura di emergenza è molto importante effettuare un’approfondita indagine diagnostica per giungere a formulare una diagnosi corretta. Se vengono escluse altre ragioni, si può sospettare una FLUTD idiopatica. In molti gatti, quest’ultima guarisce spontaneamente. Sino ad ora, non è stata stabilita alcuna terapia specifica per la FLUTD idiopatica. Sono stati raccomandati differenti farmaci e trattamenti, che però continuano a rimanere a livello di tentativi e si osservano molte recidive. Mancano studi controllati volti a provare l’efficacia delle terapie proposte. Verranno ora illustrate alcune opzioni terapeutiche per la FLUTD idiopatica.

Terapia del dolore Quadro clinico della FLUTD idiopatica I gatti colpiti dalla FLUTD idiopatica mostrano dolore, ematuria, pollachiuria, stranguria, periuria o assoluta incapacità di urinare. Questo quadro non è differente dalle altre cause di FLUTD. Nei nostri pazienti, l’espressione di dolore, ematuria, pollachiuria e stranguria è stata osservata nel 50% circa dei casi con FLUTD idiopatica, mentre la periuria era presente soltanto nel 35%. Più di metà dei gatti (55%) è stata portata alla visita con ostruzione uretrale.6 La FLUTD idiopatica è più comune nei gatti maschi che nelle femmine e si riscontra più nei soggetti giovani che in quelli di media età.17

Terapia I gatti con ostruzione del tratto urinario sono da considerare pazienti in condizioni di emergenza. Lo scopo prin-

Nei pazienti umani, la cistite idiopatica è anche classificata come una sindrome di dolore cronico, il che indica che le sensazioni algiche sono una parte importante della malattia. Il dolore sembra essere una caratteristica comune della FLUTD idiopatica e deve quindi essere opportunamente trattato, almeno nella fase acuta.6

Antibiotici La terapia antibiotica è indicata se i gatti sono stati sottoposti a cateterizzazione. Attraverso un catetere, gli agenti infettanti possono accedere al tratto urinario e dare origine ad un’infezione. Quest’ultima è da ritenere probabile in particolare se è stato lasciato in sede un catetere permanente per parecchi giorni. La terapia non deve essere iniziata con il catetere in sede, per evitare la crescita di batteri resistenti.


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Glicosaminoglicani Le modificazioni dello strato di glicosaminoglicani della vescica sembrano essere una delle caratteristiche della FLUTD idiopatica. Di conseguenza, pare logico ripristinare i livelli di questi composti. Nei pazienti umani è stato descritto un certo successo, che però non è stato costante. In medicina veterinaria è stato pubblicato soltanto uno studio relativo all’applicazione dei glicosaminoglicani nei gatti con FLUTD idiopatica.19 In questo lavoro, non è stata osservata alcuna differenza fra i gatti trattati con N-acetilglucosamina per 6 mesi e quelli trattati con un placebo.

Amitriptilina L’amitriptilina è un antidepressivo triciclico che viene utilizzato in medicina veterinaria per i problemi comportamentali.20 Si ritiene che sia dotato di azione antistaminica, anticolinergica, anti-alfa-adrenergica, antinfiammatoria, analgesica e lievemente sedativa. Sulla base di questo ampio spettro d’azione, l’amitriptilina è parsa essere ideale per il trattamento di tutte le forme di FLUTD. Nei pazienti umani, il farmaco consente di ottenere un certo sollievo nei pazienti con cistite interstiziale. In due studi condotti in medicina veterinaria, l’amitriptilina è stata usata per un breve periodo di tempo in gatti con FLUTD idiopatica.21,22 In entrambe queste indagini non è stato possibile dimostrare alcun effetto positivo del farmaco. In un altro studio, sfortunatamente non controllato, l’amitriptilina ha portato ad una riduzione dei segni clinici in 9 gatti su 15 che erano stati trattati per un anno.20 Sfortunatamente, l’appetibilità del farmaco non è buona ed è difficile per i proprietari di gatti trattare i loro animali per un lungo periodo di tempo. Di conseguenza, sono state prese in esame altre forme di applicazione. In uno studio, sono state misurate le concentrazioni plasmatiche dell’amitriptilina dopo applicazione transdermica.23 In questa prova, tutti i livelli plasmatici sono risultati al di sotto del limite di rilevamento, tuttavia era stata utilizzata soltanto una dose bassa di amitriptilina.

Riduzione dello stress I segni clinici della FLUTD idiopatica possono essere esacerbati dallo stress,14 che a sua volta può essere ridotto dall’adattamento dei gatti all’ambiente.24 Si ritiene che i feromoni riducano lo stress nel gatto. In uno studio pilota, si è fatto uso di feromoni facciali felini di sintesi (Feliway®) per il trattamento della FLUTD idiopatica.25 Non è stata osservata alcuna differenza significativa fra i gatti trattati e quelli non trattati. Tuttavia, è stata rilevata una tendenza a presentare meno giorni con alterazioni evidenti, segni clinici meno pronunciati e meno episodi di malattia.

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sumavano la stessa dieta in forma secca.26 Inoltre, in uno studio il miglioramento dei segni clinici nei gatti con FLUTD idiopatica è stato attribuito ad una modificazione della dieta umida.19 Ciò implica che l’aggiunta di acqua alla dieta possa essere utile per i gatti con questa affezione.

4.4 Prognosi La prognosi della FLUTD non ostruttiva non è nota. Quella della forma ostruttiva è riservata.27 Le manifestazioni ricorrenti di affezioni delle basse vie urinarie come l’ostruzione erano comuni nei gatti con ostruzione uretrale. La metà circa degli animali presentava segni ricorrenti di affezione delle basse vie urinarie, un terzo circa era nuovamente ostruito ed un quinto circa è stato soppresso eutanasicamente a causa della malattia. La prognosi è parsa essere indipendente dalla causa primaria dell’ostruzione. La ricomparsa dei segni clinici si è verificata indipendentemente dalla causa primaria dell’ostruzione. Inoltre, la frequenza della riostruzione è parsa essere la stessa di quasi trenta anni fa.

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Pollachiuria: frequente emissione di piccole quantità di urina. Stranguria: minzione dolorosa non controllabile. c Periuria: minzione in sedi inappropriate. b

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Video-endoscopia auricolare Giovanni Ghibaudo Med Vet, Samarate (VA) e Fano (PU)

Federico Leone Med Vet, Senigallia (AN)

L’otite esterna è un processo infiammatorio, acuto o cronico, del condotto uditivo esterno. Il termine otite esterna cronica viene riservato ad un otite esterna la cui sintomatologia sia presente da più di tre settimane o, evenienza più frequente, nella quale si siano verificati episodi di recidiva. L’otite media è un processo infiammatorio dell’orecchio medio. Un corretto approccio all’otite comprende diverse tappe alcune delle quali fanno parte dell’esame dermatologico di base. L’otite esterna può rappresentare, infatti, l’espressione localizzata o meno, di una sottostante dermatosi per cui nel corso della visita occorre appurare se il problema è esclusivamente otologico o se sono presenti contemporaneamente altri segni cutanei e/o sistemici. La finalità di questa sequenza diagnostica è quella di identificare e controllare, in una prima fase, le infezioni secondarie (fattori perpetuanti) e, successivamente, identificare e combattere i fattori primari, perpetuanti e predisponenti eventualmente coinvolti nell’insorgenza dell’otite. L’ispezione del condotto uditivo esterno degli animali con otite rappresenta il punto di partenza fondamentale per raggiungere una diagnosi eziologica delle affezioni auricolari. Tramite l’esame diretto del condotto uditivo esterno è possibile evidenziare la presenza di corpi estranei all’interno del condotto, la presenza di quantità eccessiva di peli, valutare il diametro del condotto, visualizzare la presenza di lesioni a carico della parete del condotto uditivo, la presenza di neoformazioni e soprattutto di valutare la presenza, l’integrità, l’aspetto, il grado di vascolarizzazione ed eventuali variazioni di colore della membrana timpanica. L’ispezione del condotto uditivo tramite otoscopio tradizionale prevede l’utilizzo di coni di adeguata lunghezza e larghezza per eseguire al meglio l’esame. Per poter correttamente visualizzare il condotto uditivo orizzontale e la membrana timpanica è necessario afferrare il padiglione auricolare e compiere una trazione in modo da sollevarlo e allontanarlo dal piano sagittale per rendere il condotto più rettilineo possibile. L’esame otoscopico, soprattutto in corso di otite cronica, può essere difficoltoso, se non impossibile, per una marcata stenosi del condotto, che può impedire l’introduzione del cono al suo interno, o per la presenza di abbondanti secrezioni. Nel primo caso è consigliabile prescrivere al paziente una terapia antinfiammatoria prima di ripetere l’esame. Nel

secondo caso è necessario procedere ad un accurato lavaggio del condotto uditivo. La visione del timpano che si ha con un normale otoscopio è limitata sia in qualità che in quantità di membrana visualizzata. Nel cane infatti sfugge all’osservazione la porzione cranio-dorsale per la particolare inclinazione della porzione ossea del condotto e per l’angolo che il timpano forma con l’asse del canale orizzontale (circa 45°). Nel gatto invece, il timpano descrive un angolo di circa 90° con l’asse del condotto, rendendo praticamente visibile tutta la membrana. La porzione visibile della membrana timpanica, inoltre, non è sufficientemente ingrandita per permettere di identificare, ad esempio, perforazioni di limitate dimensioni. L’otoscopia microscopica consiste nella visualizzazione del condotto uditivo esterno e della membrana timpanica attraverso un microscopio operatorio interponendo, fra il microscopio e l’orecchi da esaminare, un cono da otoscopia di idonee dimensioni. Questa metodica consente di apprezzare molto dettagliatamente ogni particolare del condotto e specialmente della membrana timpanica in quanto la visione risulta molto più ingrandita (6-11X). È evidente che i limiti di visibilità del timpano sono gli stessi dell’otoscopia tradizionale. La video-oto-endoscopia auricolare consente una visione più raffinata e completa del condotto uditivo e del timpano. Per utilizzare in modo efficace e sicuro la video-oto-endoscopia è necessario acquisire tutte le informazioni anatomiche dell’orecchio e nel contempo conoscere le componenti del video- endoscopio e le indicazioni d’utilizzo. L’orecchio esterno è formato da due parti di cartilagine ricoperte da cute. La porzione più ampia, cartilagine auricolare, forma il padiglione auricolare e la maggior parte del condotto uditivo. Il padiglione si avvolge su se stesso, formando delle pieghe anatomiche, dove inizia il canale auricolare esterno. Questo condotto varia in lunghezza (da 5 a 10 cm in base alle dimensioni dell’animale) e, classicamente, è costituito da una porzione verticale e una orizzontale. La porzione verticale origina dal padiglione auricolare e si estende in direzione ventro-rostrale ripiegandosi medialmente, dove un prominente rilievo cartilagineo separa il tratto verticale da quello orizzontale. Quest’ultimo si estende medialmente fino a raggiungere la membrana timpanica. La cute che ricopre il condotto uditivo è costituita da un’epider-


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mide sottile e derma che contiene gli annessi (follicoli piliferi, ghiandole sebacee e apocrine). La membrana timpanica è una struttura epiteliale che separa l’orecchio esterno dalla cavità dell’orecchio medio posta medialmente. Il timpano del cane è costituito da una pars flaccida e una pars tensa. La pars flaccida è una piccola area della parte dorsale-anteriore del timpano; è relativamente flaccida e abbastanza vascolarizzata. La maggiore parte della membrana timpanica che viene visualizzata all’esame otoscopico è invece costituita dalla pars tensa che si presenta, in condizioni normali, traslucida con striature che si estendono dal manubrium del malleus o martello (uno degli ossicini dell’orecchio insieme a incudine e staffa) verso la periferia. Nella sezione mediana della membrana timpanica è visibile una struttura biancastra a forma di C con la punta bassa raddrizzata, tale struttura corrisponde alla prominenza ossea (manubrium del malleus) che separa la cavità timpanica dalla bolla timpanica . La cavità timpanica è divisa in tre parti: dorsale, media e ventrale. La dorsale è la più piccola e contiene il manubrio, l’incudine e la staffa. La staffa è attaccata ad un forame vestibolare (finestra ovale) che porta verso l’orecchio interno. La parte media è adiacente alla membrana timpanica e una prominenza cocleare unisce una parte interna del timpano alla finestra rotonda (o cocleare) che comunica con il labirinto osseo della coclea. Questa è la struttura da evitare quando si compie una miringotomia. L’apertura della tuba uditiva (tuba di Eustachio) è posizionata nella parte rostro-mediale della cavità timpanica; comunica con il nasofaringe. Infine la parte ventrale è la bolla timpanica che rappresenta la porzione più estesa. Nel gatto la cavità timpanica è nettamente divisa in due camere da un setto osseo che si estende, con andamento curvilineo, dalla porzione medio craniale della bolla fino a quella medio laterale. Rispetto alla visione data dal classico otoscopio, il videooto-endoscopio garantisce una maggiore e istantanea visione, tramite schermo, della visita otoscopica. Le fibre ottiche, il miglioramento della fonte di luce e la miniaturizzazione delle videocamere insieme all’endoscopio rigido (diametro 2,7 e 4 mm) hanno condotto allo sviluppo della video-otoendoscopia. Questo equipaggiamento può essere connesso ad un monitor, a software per acquisizione d’immagini (con stampa) e filmati. La visualizzazione delle immagini permette di procedere ad un esame del condotto uditivo accura-

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ta: presenza di cerume, ectoparassiti, corpi estranei, iperplasia ghiandole ceruminose, erosioni, ulcere ecc.; della integrità della membrana timpanica; infine della bolla timpanica (presenza di materiale ceruminoso, purulento, neoplasie o colesteatomi). Attraverso la video-oto-endoscopia è possibile effettuare, sotto visione, prelievi bioptici tramite pinze flessibili bioptiche/chirurgiche, tamponi in cavità timpanica (con o senza miringotomia) ed effettuare lavaggi e pulizie dell’orecchio tramite vie di servizio nelle camicie dell’ottica. L’immissione di soluzione fisiologica a temperatura corporea può essere effettuata tramite sacca spremitrice, per semplice gravità o attraverso irrigatori appositi (siringhe da 20-60 ml connessi con valvole a tre-vie al canale di servizio dell’ottica o irrigatori specifici elettrici). L’efficacia dell’utilizzo del video-oto-endoscopio è dovuta non solo alla possibilità di eseguire al meglio procedure sia diagnostiche (tamponi, ago-infissioni, biopsie ecc…) che terapeutiche (asportazione piccole neoformazioni, lavaggio e pulizia del condotto uditivo e/o della bolla timpanica); ma anche al fatto di potere refertare tramite fogli con immagini e/o CD con immagini e filmati al proprietario e al veterinario referente mostrando le condizioni cliniche dell’orecchie dell’animale.

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Indirizzo per la corrispondenza: Giovanni Ghibaudo: gioghi1@alice.it Federico Leone: mrfeleo@libero.it


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Patologie oculari dei conigli Cristina Giordano Med Vet, Torino

Cenni di anatomia L’orbita è la fossa ossea che separa il bulbo oculare dalla cavità cranica, lo circonda, lo protegge e attraverso forami permette a vasi e nervi di raggiungerlo. Essa inoltre contiene un plesso venoso retrobulbare (seno orbitale) e le ghiandole lacrimali associate al globo oculare. Il coniglio possiede 4 ghiandole lacrimali:ghiandola lacrimale e ghiandola lacrimale accessoria situate dorso lateralmente,ghiandola superficiale e ghiandola profonda (di Harder) associate alla terza palpebra Le lacrime drenano attraverso l’unico punto lacrimale situato nella porzione mediale del sacco congiuntivale ventrale circa 3-4mm centralmente al margine palpebrale.Il dotto lacrimale decorre attraverso l’osso lacrimale, l’osso mascellare, poi in prossimità della radice dei molari e degli incisivi ed emerge a livello della mucosa nasale a pochi millimetri dalla giunzione muco cutanea. A livello della mascella prossimale e alla base dell’incisivo superiore esso va incontro a due restringimenti, importanti nello sviluppo delle ostruzioni. La cornea occupa circa il 25% dell’intero globo La testa del nervo ottico è posizionata a circa un diametro di disco sopra la linea mediana dell’occhio. Fibre nervose mielinizzate si estendono orizzontalmente da entrambi i lati del disco ottico e sulla superficie di tali fibre si possono osservare vasi retinici maggiori. Il coniglio ha una retina che viene denominata “merangiotica.

Patologie orbitali Prolasso del globo A causa della posizione anatomica del globo oculare, naturalmente sporgente, il bulbo può facilmente prolassare a seguito di traumi anche di lieve entità. Esoftalmo La causa più comune di esoftalmo è la presenza di un ascesso o cellulite retrobulbare che si può formare in segutito, ad esempio, ad infezioni dentarie. Altre cause meno frequenti sono:cisti orbitali (es parassitarie),neoplasie orbitali,anomalie vascolari e/o impedimento di drenaggio dall’orbita (es masse toraciche o trombosi per cateterismo vena giugulare),grasso orbitale per obesità. Esoftalmo intermittente può verificarsi durante la visita clinica per congestione del seno vascolare orbitale.

Patologie delle palpebre, della congiuntiva e della terza palpebra A carico delle palpebre possono verificarsi difetti di posizionamento, processi infiammatori e neoplastici. Tra i difetti di posizionamento la patologia che si osserva più comunemente è l’entropion che può essere primario, come descritto nei conigli bianchi Nuova Zelanda e French lop, o secondario alla formazione di cicatrici in seguito a blefariti o blefarocongiuntiviti e può interessare sia la palpebra superiore che quella inferiore. I principali segni clinici in corso di entropion includono epifora, blefarospasmo, iperemia congiuntivale e, in alcuni casi, cheratite ulcerativa. La terapia è prettamente chirurgica. Le blefariti sono processi infiammatori spesso associati a congiuntivite, che si manifestano inizialmente con iperemia e lieve scolo mucoso a cui può far seguito la comparsa di scolo muco purulento. Possono essere conseguenti a cause irritative (polveri o difetti di posizionamento palpebrale), infettive (Pasteurella spp, Treponema cuniculi, Staphilococcus aureus, Haemophilus spp e Mixoma virus) oppure a patologie dentali. Le neoplasie palpebrali le più comunemente riportate sono il carcinoma squamocellulare, il fibrosarcoma ed il melanoma. Per quanto concerne le congiuntiviti, possono essere primarie, associate a blefariti, cheratiti o a gravi patologie dell’intero occhio (ad es. uveiti o panoftalmiti), o possono essere correlate ad infezioni del tratto respiratorio superiore. Tra le cause più frequenti di congiuntivite non infettiva si possono annoverare la cheratocongiuntivite secca, i traumi e gli stimoli allergenici ambientali. Nelle congiuntiviti infettive spesso si riscontra la presenza di abbondanti quantità di batteri e virus, che costituiscono la normale flora congiuntivale. Fattori predisponenti lo sviluppo di tali forme di congiuntivite possono essere rappresentati da stress o inadeguate condizioni ambientali. Le patologie che si riscontrano a livello di terza palpebra interessano principalmente le ghiandole lacrimali e, nella pratica clinica, si osserva più frequentemente il prolasso della ghiandola profonda.

Disordini del Sistema Lacrimale Le condizioni patologiche che possono interessare con maggior frequenza il sistema naso lacrimale sono l’ostruzio-


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ne del dotto naso lacrimale e le dacriocistiti. Un’ostruzione del dotto nasolacrimale si può verificare per la presenza di materiale mucopurulento denso conseguente a patologie congiuntivali o ad infezioni. Anche patologie dentali o cambiamenti ossei dell’osso mascellare, secondari a iperparatiroidismo nutrizionale, possono indurre un’ostruzione del dotto. Tra le patologie dentali una malocclusione dei molari e dei premolari e, meno frequentemente, degli incisivi, può indurre retropulsione dei denti stessi e creare danni al dotto nasolacrimale. Il segno clinico più caratteristico di dacriocistite è la presenza di scolo oculare che può variare da semplice epifora a scolo mucoso- muco purulento. L’utilizzo di esami radiografici o tomografici, e l’esecuzione di una dacriorinocistografia sono di ausilio nell’individuare la causa e la localizzazione dell’ostruzione. La terapia è volta alla risoluzione della patologia primaria, specialmente alla correzione di eventuali patologie dentali.

Patologie della cornea Distrofie corneali Si manifesta come un’opacità di forma solitamente ovalare, bianco-grigiastra situata in posizione assiale o temporale, negativa alla colorazione con fluoresceina. Cheratopatia lipidica Per cheratopatia lipidica si intende la deposizione all’interno della cornea di colesterolo o dei suoi esteri, fosfolipidi ed esteri di acidi grassi. Può presentarsi in forma uni o bilaterale e macroscopicamente appare come un’opacità biancogrigiastra in posizione perilimbare o ventromediale accompagnata da neovascolarizzazione della cornea. Dermoide Il dermoide è costituito da un’isola di tessuto dermico situato in posizione aberrante in seguito ad un anormale invaginamento del tessuto ectodermico, durante la vita embrionale. Sulla cornea si reperta solitamente a livello limbare temporale. Cheratiti ulcerative Le cheratite ulcerative si dividono in:ulcere corneali superficiali,erosioni persistenti superficiali indolenti ed ulcere profonde o stromali Le ulcere corneali superficiali sono caratterizzate da epifora e/o scolo mucoso, muco-purulento, edema corneale di lieve entità, prova con fluoresceina debolmente positiva. Se limitate allo strato superficiale (epitelio), possono rimarginare rapidamente e richiedono unicamente una terapia antibiotica topica. Le erosioni persistenti superficiali indolenti sono caratterizzate da segni clinici sovrapponibili a quelli delle ulcere corneali superficiali. L’epitelio corneale appare edematoso e mobile ai bordi delle erosioni. Le ulcere profonde o stromali sono caratterizzate da un marcato arrossamento della congiuntiva bulbare, blefarospasmo di grado variabile, edema e neovascolarizzazione corneale; possono avere una profondità variabile ed assumere

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un colore giallo-verdastro (ascessi corneali), soprattutto quando la causa scatenante è la penetrazione di un corpo estraneo di natura vegetale.

Uveiti Le uveiti nel coniglio possono essere causate da batteri quali Pasteurella multocida e Staphylococcus aureus, microsporidi quali Encephalitozoon cunicoli, traumi, neoplasie quali il linfoma. I segni clinici possono essere variamente rappresentati da iperemia congiuntivale, edema corneale, vascolarizzazione corneale e iridea,ascessi iridei, sinechie anteriori, flare, ipopion, cataratta. Uveite facoclastica È sostenuta dall’Encephalitozoon cunicoli che è un parassita intracellulare obbligato che infetta i conigli ed altri mammiferi. I conigli nani e i New Zealand bianchi sembrano essere più sensibili all’infezione. La forma oculare si manifesta con cataratta, granulomi infiammatori, uveite lente indotta (LIU) di tipo facoclastico (legata cioè alla rottura della capsula anteriore della lente ed alla conseguente improvvisa esposizione dell’uvea alle proteine lenticolari e glaucoma secondario. Le indagini diagnostiche prevedono le analisi sierologiche (ICA/IFA, Elisa), la citologia lacrimale (colorazioni calcofluor white, trichrome modified), il centrifugato delle urine e la paracentesi dell’acqueo.

Glaucoma Può essere primario (ereditario nel coniglio bianco di Nuova Zelanda ed associato al gene bu) o secondario ad uveite batterica, trauma o neoplasia (linfoma). I segni clinici sono: buftalmo, iperemia congiuntivale, aumento del diametro corneale,, riduzione dei riflessi pupillari, edema corneale, cupping del disco ottico (segno clinico tardivo) e perdita della visione. Il glaucoma è apparentemente meno doloroso nel coniglio rispetto al cane e al gatto. Con il passare dei mesi la pressione intraoculare spesso ritorna nei range della norma probabilmente a causa di una diminuzione di produzione di acqueo dovuta ad una marcata atrofia dei corpi ciliari.

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Indirizzo per la corrispondenza: Cristina Giordano Studio Veterinario Oculistico Galileo C.so Galileo Ferraris 121. Torino E mail:cgiordano@libero.it


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“Le razze: motivazioni e vocazioni” Sabrina Giussani Med Vet Comportamentalista,Dpl ENVF, Busto Arsizio (VA)

Dove si sono incontrati l’uomo ed il cane? L’uomo ha incontrato il lupo e non il cane. Il cane, quindi, è il frutto dell’incontro e non il partner dell’incontro stesso. Inoltre, è opportuno chiedersi se anche l’uomo (così come lo concepiamo) sia l’esito dell’incontro più che il partner dell’incontro (R. Marchesini). Le attuali conoscenze sulla natura sociale del lupo hanno contribuito a chiarire la preferenza dell’uomo primitivo per questa specie rispetto ad altre come lo sciacallo ed il coyote. Questi ultimi, infatti, vivono in coppia, non possiedono né struttura sociale né capacità comunicative mimiche e posturali simili a quelle dell’uomo. Inoltre, cacciano piccole prede la cui carne avrebbe sfamato con difficoltà le famiglie umane. Uomini e lupi hanno spartito per molti millenni lo stesso territorio di caccia come nemici e competitori.

L’evoluzione dell’uomo 6 milioni di anni fa

3 milioni di anni fa 2 milioni di anni fa 1,7 milioni di anni fa 500 mila anni fa 190 – 150 mila anni fa

Pongidi (gorilla, scimpanzè, oranghi), Ominidi Australopitecus robustus Homo abilis Homo erectus Homo sapiens Homo sapiens neanderthalensis Homo sapiens sapiens

La domesticazione degli animali da utilità 8000 a. C. 6000 a. C. 4000 a. C. 3500 a. C. 2500 a. C.

Maiale, pecora, capra Bue, gatto Cavallo, asino, bufalo Lama, alpaca Dromedario, cammello

Tutto ciò suggerisce che il processo di domesticazione del cane si differenzia da quello di altri animali poiché non è stato realizzato in base ad esigenze performative dettate dal territorio. Le ricerche effettuate sul Dna mitocondriale da C. Vilà et al (1999) posizionano il processo di domesticazione del cane circa 135000 anni fa mentre P. Savolainen et al (2002) lo collocano intorno ai 40000 anni fa. La presenza del cane ha favorito la crescita della sicurezza del gruppo famigliare: la notte è una sentinella, il giorno collabora nella caccia e nella difesa del gruppo durante gli spostamenti. Il cane, nel periodo Paleolitico, ha influenzato lo stile di vita dell’uomo tanto che Allmann sostiene che la presenza di questo animale abbia contribuito a favorire l’affermazione dei sapiens rispetto ai neandertaliani. Gli effetti della co – evoluzione riguardano il miglioramento delle tecniche di caccia, un’alimentazione più ricca, un incremento riproduttivo a cui fa seguito un’espansione sia dell’uomo che del cane.

La domesticazione e le razze Le ricerche realizzate non hanno fatto chiarezza sulle dinamiche dell’incontro: è stato l’uomo ad avvicinarsi al lupo o viceversa? Il semplice incontro, inoltre, non è sufficiente per spiegare la domesticazione del cane. È necessario che si realizzi un processo di adozione per rendere operative l’alleanza e l’affiliazione. L’adozione nasce da un comportamento epimeletico messo in atto dall’adottante e da una riconoscibilità et – epimeletica dell’adottabile (R. Marchesini). Le teorie maggiormente accreditate indicano che l’adottabile può essere stato rinvenuto nei pressi dell’accampamento oppure trovato durante una battuta di caccia. La tesi Autointegrativa proposta da R. e L. Coppinger sostiene che nel periodo Mesolitico il lupo si sia avvicinato al villaggio e ne abbia tratto un vantaggio selettivo legato alla minore mortalità. La tesi del Maternaggio, invece, ipotizza che durante il periodo Paleolitico, l’uomo abbia raccolto un cucciolo di lupo e la donna lo abbia allattato al seno, poiché gli erbivori non erano ancora stati addomesticati (R. Marchesini).

I concetti di addomesticare, ammansire e domare spesso sono confusi con il processo di domesticazione. Questo ultimo si differenzia dai precedenti poiché comporta la rottura con il pool genetico della popolazione del progenitore e prevede un’ibridazione sia ontogenetica che filogenetica. La domesticazione, tra i tanti parametri, richiede all’animale la capacità di riprodursi una volta sottratto dalla propria nicchia ecologica. Le nuove direttrici selettive sono, così, antropocentrate: è l’uomo che ne modifica i parametri (pressione selettiva antropocentrata). Quanto più i caratteri et – epimeletici persistono nell’adulto, tanto più il soggetto sarà in grado di evocare cura e accudimento nell’uomo aumentando le possibilità di sopravvivenza e riproduzione. Inoltre, l’uomo primitivo, seleziona la docilità, la remissività, la ridotta tendenza alla fuga, la tolleranza alle manipolazioni e le capacità collaborative. Il cane primordiale è di taglia inferiore e possiede


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un muso più corto rispetto a quello del lupo. L’encefalo ha una dimensione inferiore del 20%: la riduzione è soprattutto a carico delle aree sensitive, così come accade nella maggior parte degli animali domestici. Il cane rispetto al lupo tende a mantenere alcuni caratteri giovanili (neotenia) o a presentare caratteri che imitano quelli giovanili (pseudoneotenia) (R. Marchesini). Gli accoppiamenti controllati hanno dato luogo alla nascita delle razze, popolazioni estremamente omogenee all’interno di una specie originate per volere dell’uomo (B. Gallicchio). La selezione ha attraversato periodi ben distinti. Dapprima è empirica e basata sull’attitudine al lavoro: l’interesse per la morfologia è scarso ed i riproduttori sono provati sul campo. In seguito, grazie alla standardizzazione (vedi tabella), emerge un sempre maggiore interesse per le caratteristiche estetiche: nell’epoca vittoriana l’allevamento inizia ad indirizzarsi verso anomalie o peculiarità che assumono il valore di simbolo di qualità e di prestigio.

Definizione di standard Lo standard è la descrizione di una variante genetica prodotta artificialmente dopo l’isolamento riproduttivo di una piccola popolazione (prole).

Nel 1822, infatti, nascono il pedigree ed il Libro d’Allevamento dove i soggetti sono riconoscibili con un nome e un numero. Intorno agli anni ’30 la selezione si disinteressa al comportamento della razza: la divergenza dal tipo primitivo è notevole e la consanguineità in continuo aumento. Compare, così, la fase critica caratterizzata da alterazione della riproduzione, alta frequenza di patologie ereditarie, alto tasso di mortalità infantile e longevità ridotta (maltrattamento genetico). Clamoroso è l’esempio del Pastore Tedesco dove, attualmente, è presente una vistosa differenza dal punto di vista estetico e comportamentale tra le linee da lavoro e da bellezza. La variazione dell’aspetto morfologico ha provocato la modificazione di alcune motivazioni (ad esempio la collaboratività e la concentrazione sono venute meno) ed un innalzamento dell’arousal (o attivazione emozionale). Le razze così selezionate sono state classificate con differenti modalità. È possibile evidenziare: • Classificazione convenzionale – morfologica (tipologie fondamentali: lupoidi, braccoidi, molossoidi, graioidi); • Razze specializzate e non specializzate; • Classificazione FCI (Federazione Cinologica Internazionale, evidenzia dieci gruppi e ciascuno comprende differenti razze); • Classificazione anglosassone (sporting/ gundogs, hound, working, terrier, toy, non sporting/ utility, herding/ pastoral, miscellaneous).

Motivazioni e vocazioni Le motivazioni sono disposizioni di orientamento verso un target o un’espressione comportamentale (R. Marchesini). Indicano l’orientamento del soggetto verso il mondo esterno e definiscono “ciò che cerca nel mondo” (la sensibi-

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lità verso particolari stimoli) e “cosa l’individuo si propone di fare” (la tendenza ad esprimere un certo comportamento). Le motivazioni sono un retaggio filogenetico: hanno un valore adattativo per la sopravvivenza della specie e sono riferibili alla selezione naturale, non a processi di apprendimento. Ogni specie, infatti, nasce con un retaggio motivazionale di tendenze ad esprimere particolari comportamenti. I behaviouristi hanno ignorato il concetto di motivazione, considerando i soli fabbisogni fisiologici o di mantenimento del corpo (mangiare, bere, dormire, respirare e così via). L’etologia classica, invece, riteneva la motivazione una forma di energia da sfogare attraverso un comportamento (teoria psicoenergetica). Nell’approccio cognitivo la mente funziona in maniera sistemica e non analitica: dal punto di vista neurobiologico la motivazione è spiegata in termini di set neurali (ovvero gruppi di neuroni interconnessi) che, attivando una cascata di eventi fisiologici, provocano l’espressione di un comportamento (repertorio cinestesico ed uno stato del corpo). L’approccio cognitivo considera la motivazione un’attivazione complessa che coinvolge anche altre componenti cognitive come le emozioni (risposte reattive di base, indotte dall’ambiente e da stati mentali, componenti fondamentali del processo di apprendimento) e l’arousal (livello di attivazione emozionale) (R. Marchesini). I set neurali che caratterizzano le motivazioni sono sottoposti a Darwinismo neuronale: quanto più una motivazione è sollecitata tanto più si potenzierà. Le motivazioni sono, quindi, rafforzate ontogeneticamente: la prevalenza di un assetto motivazionale rispetto ad un altro dipende dallo sviluppo ontogenetico del soggetto. Ad esempio, lanciando più e più volte una pallina, il proprietario “non sfogherà” la necessità del cane di rincorrere oggetti in movimento abbassando la motivazione predatoria. Invece, ne aumenterà il volume favorendo l’apparizione di un comportamento di inseguimento indirizzato verso ciclisti, podisti e così via. Le motivazioni prevalenti indicano lo spettro vocazionale dell’individuo, cioè a che cosa è interessato. Inoltre, ogni razza possiede alcune motivazioni enfatizzate ed altre neglette: questo assetto indica la vocazione di razza, ossia ciò verso cui il cane è predisposto (R. Marchesini). In alcune razze, motivazioni sinergiche (una data motivazione agisce rafforzandone un’altra) e controlaterali (una data motivazione agisce inibendone un’altra) si sovrappongono ponendo le basi per una fragilità emozionale. Ciò accade ad esempio nel Dalmata, cacciatore e guardiano delle carrozze, o nel Dobermann, cacciatore di topi, guardiano dei cavalli e difensore dei postiglioni lungo le strade. La pedagogia cinofila e la terapia comportamentale “lavorano” anche sulle motivazioni dell’individuo modificandone il volume o dando una cornice (contesto) alla motivazione stessa. È opportuno ricordare che queste ultime non possono essere né eliminate né aggiunte ma è possibile modificare il loro volume all’interno dell’assetto posizionale del soggetto agendo sulla stimolazione, sull’esercitazione, sulla gratificazione e così via. Per disciplinare una forte motivazione è necessario legarla ad un target (un contesto, come ad esempio una rappresentazione cinestesica) mentre è possibile enfatizzare una motivazione negletta attraverso la stimolazione, l’esercizio, la gratificazione (lavorando contemporaneamente sull’assetto emozionale e sull’arousal).


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Le principali tipologie di motivazione del cane sono predatoria, sillegica (raccogliere oggetti e portarli nella cuccia o in un nascondiglio), sociale, esplorativa, territoriale, competitiva, possessiva, collaborativa, ludica ed epimeletica (aiutare ad accudire un compagno). Un importante obiettivo pedagogico consiste nell’allargare l’orizzonte motivazionale del soggetto in modo da favorire l’emissione di comportamenti adeguati all’integrazione nella società attuale. È bene ricordare che, quando si lavora sulle motivazioni in ambito educativo o terapeutico, è necessario cercare il consenso motivazionale del soggetto per non scivolare nell’ambito imperativo o coercitivo. Le motivazioni rappresentano il motore del comportamento dell’individuo: se un’attività trova il consenso della motivazione l’attività è “voluta”, se un’attività non trova il consenso o addirittura incontra il dissenso l’attività è “dovuta”. Le attività volute incentivano e rafforzano la relazione con il proprietario (R. Marchesini). Inoltre, ogni situazione vissuta dal cane è marcata da un’emozione che mette il corpo nelle migliori condizioni per affrontarla. Per questo è importante collegare ogni processo d’apprendimento ad emozioni positive.

Razze specializzate e non specializzate L’Autore si soffermerà in modo dettagliato sulla Classificazione razze specializzate e non specializzate poiché meglio si adatta all’applicazione dei concetti di motivazione e vocazione. Inoltre saranno descritte le caratteristiche dei gruppi attualmente più diffusi. Il comportamento delle razze specializzate è stato sottoposto a selezione in modo da evidenziare in particolar modo alcune attitudini (E. Garoni). Le capacità ricercate si basano sulla motivazione predatoria, amplificata e ritualizzata. Le razze specializzate comprendono: • I pastori conduttori del bestiame (Pastore Tedesco, Pastore Belga e &, Border Collie, Australian Shepherd, etc); • I cani da ferma (Bracco Italiano, Spinone, Bracco Tedesco, Epagneul Breton, Pointer, Setter e &, Cocker Spaniel, etc); • I retriever (Labrador Retriever, Golden Retriever, Flat Coated, Curly Coated, Cheasepeake Retriever); • I cani da slitta (Siberian Husky, Alaskan Malamute, Groenlandesi); • I terrier (Parson Jack Russel Terrier, West Highland Terrier, Yorkshire Terrier, Fox Terrier, Bull Terrier, Staffordshire Bull Terrier, etc); • I molossi (Mastino Napoletano, Cane Corso, Dogue de Bordeaux, Boxer, Rottweiler, Dogo Argentino, Bulldog Inglese, Mastiff, Alano, etc). La selezione, per quanto riguarda i pastori conduttori del bestiame, ha favorito la motivazione collaborativa (E. Garoni). Il cane, la maggior parte delle volte in seguito all’indicazione del conduttore, sposta gli armenti utilizzando la bocca (ad esempio i Bovari), la voce (ad esempio il Pastore Bergamasco) o lo sguardo (ad esempio il Pastore Australiano). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione collaborativa, sociale inter - ed intraspecifica, predatoria, esplorativa, territoriale. La motivazione difensiva è, al contrario, bassa. Per quanto riguarda

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lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante: • legame sociale con gli eterospecifici; • predatorietà (anche nel gioco); • mandato di responsabilità; • collaborazione con il conduttore. Una notevole variabilità di razza è presente nella vocazione relativa al mantenimento del possesso. Inoltre, l’arousal di questi individui è alto poiché devono prestare continuamente attenzione allo spostamento del bestiame. Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe: • esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (auto – accreditamento per l’individuo e base della relazione con il proprietario) ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal); • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal); • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere (modellare l’arousal). Inoltre, è fondamentale non frustrare la motivazione sociale (ad esempio isolando il Pastore Tedesco in un grande giardino) e non incentivare la motivazione predatoria (ad esempio con il lancio di oggetti). I retriever – cani da riporto derivano dal Cane di Terranova. Sono specialisti nel ritrovare e riportare (dall’inglese “to – retrieve”, rintracciare, riportare) la selvaggina abbattuta. Per questo i retriever sono grandi cacciatori: l’olfatto è molto sviluppato così come la perseveranza nel seguire la traccia fino al recupero (B. Gallicchio). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione predatoria, esplorativa, sillegica, sociale inter - ed intraspecifica, possessiva, collaborativa. È opportuno evidenziare che la motivazione predatoria è gratificata in sé: il cane non è ricompensato dal “Bravo” ma dal riporto. Inoltre, la collaborazione permette la chiusura della sequenza predatoria grazie al “Lascia”. Le motivazioni difensiva e territoriale sono, al contrario, basse Per quanto riguarda lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante: • esplorazione olfattiva; • predatorietà (anche nel gioco); • legame sociale con i con – e gli eterospecifici • mantenere il possesso; • collaborazione con il conduttore. L’arousal di questi individui è alto poiché devono continuare a cercare il selvatico ferito o abbattuto seguendo la traccia olfattiva anche in terreno umido o in acqua. Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe: • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal); • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere (modellare l’arousal); • esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (auto – accreditamento per l’individuo e base della relazione con il proprietario) ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal). Inoltre, è fondamentale non incentivare sia la motivazione predatoria (ad esempio con il lancio di oggetti) sia il riporto


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di oggetti target in autonomia al fine si scoraggiare l’esplorazione orale degli stessi. I terrier derivano dai segugi: inseguono il selvatico sottoterra nella tana, lo afferrano e lo portano all’esterno. Sono molto combattivi tanto che da confrontarsi anche con prede di taglia superiore alla loro. Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione predatoria, esplorativa e possessiva. Le motivazioni difensiva, collaborativa e sociale inter – e intraspecifica sono, al contrario, basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante: • esplorazione olfattiva; • predatorietà (anche nel gioco); • tendenza a mantenere il possesso (non devono riportare ma estrarre); • agonismo inter – ed intraspecifico (sono competitivi). La collaborazione con il proprietario non è mai stata richiesta ai terrier così come la difesa di un territorio. L’arousal di questi individui è alto: sono caratterizzati da un profilo emozionale eccitabile. Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe: • esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (base della relazione con il proprietario) ed imparare a delegare le responsabilità (cerca e lascia); • esercitare la collaboratività al fine di imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal). • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal); • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere (modellare l’arousal). Inoltre, è fondamentale non frustrare la motivazione esplorativa e non incentivare sia la motivazione predatoria (ad esempio con il lancio di oggetti) sia l’agonismo. Dal ceppo dei cani da montagna (definiti oggi Molossoidi) originano i molossi (mastini), termine forse derivato dalla parola latina “mansata” che significa cane appartenente alla casa. L’eredità dei pastori guardiani appare ancora oggi evidente. Infatti, la maggior parte delle razze era adibita a tenere a bada il bestiame più irruente come ad esempio il maiale. Inoltre, sono descritti grossi molossi utilizzati per cacciare il leone e l’asino selvatico presso gli Assiri o come cani da guerra per combattere contro i nemici appiedati ed i loro cavalli (B. Gallicchio). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione difensiva (nei confronti delle risorse e degli esseri umani), territoriale, competitiva e possessiva (nei confronti degli oggetti). Le motivazioni collaborativa, sociale inter – e intraspecifica ed esplorativa sono, al contrario, basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante: • difesa del territorio; • tendenza a mantenere il possesso; • agonismo interspecifico. È importante evidenziare che Boxer e Rottweiler sono attualmente straordinari cani da lavoro nonostante il ridotto volume della motivazione collaborativa. L’arousal ed il profilo emozionale sono bassi. Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe: • esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risulta-

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to (base della relazione con il proprietario) ed imparare a delegare le responsabilità (chiedere al proprietario il permesso di iniziare un’azione); • esercitare la collaboratività al fine di imparare ad attendere; • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a scovare/ cercare (al fine di modellare la difesa ed il possesso); • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere; • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere. È fondamentale disciplinare le motivazioni fin dal momento dell’adozione in modo da esaltare la dimensione collaborativa per evitare conflitti nel gruppo uomo - cane al momento della maturazione sociale. Le razze non specializzate originano dai cani dei villaggi. Motivazioni e vocazioni sono legate alla caccia ed alla protezione e normalmente esercitate. Per questo, il conduttore non deve possedere particolari abilità (E. Garoni). Le razze non specializzate comprendono: • I cani da caccia da seguita (Segugi Italiani, Segugi Tedeschi, Bassotti, Beagle, Bloodhound, etc); • I levrieri primitivi (Cirneco dell’Etna, Levriero dei Faraoni, Podengo Ibicenco, Podengo Portoghese, Gruppo dei cani nudi)); • I guardiani degli armenti (Pastore Maremmano – Abruzzese, Pastore Bergamasco, Pastore del Caucaso, Cane da Montagna dei Pirenei, Bovaro del Bernese, etc). I cani da caccia da seguita (segugi) cercano, scovano, inseguono, catturano ed a volte uccidono la preda. La seguita è caratterizzata dall’uso della voce con la quale i cani segnalano di essere all’inseguimento e mantengono il contatto con il cacciatore. Si tratta del metodo di caccia più primitivo e naturale per il cane (B. Gallicchio). I segugi lavorano in mute ed il comportamento agonista è poco sviluppato. Il compito del cacciatore si limita a dare il via alla coreografia iniziale eccitatoria: il cane, in un secondo tempo, segue il selvatico rincorso a sua volta dal conduttore. I segugi non hanno bisogno di apprendere dall’uomo che cosa seguire e come farlo, imparano soprattutto dagli altri cani. Inoltre, crescono a contatto con gli animali da cortile che non saranno cacciati in futuro (E. Garoni). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione predatoria, esplorativa e sociale soprattutto intraspecifica. Le motivazioni territoriale, difensiva e collaborativa (il cacciatore dà solamente il via al cane) sono, al contrario, basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale, si evidenzia un’importante predatorietà (tendenza a cercare, scovare, inseguire, catturare, uccidere). L’arousal di questi individui è alto: sono caratterizzati da un profilo emozionale eccitabile sensibile alla coreografia che dà il via alla caccia. Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe: • esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (base della relazione con il proprietario); • esercitare la collaboratività al fine di centripetare l’attenzione del cane (l’attenzione del cane deve essere rivolta al proprietario e non all’ambiente che lo circonda); • esercitare la collaboratività al fine di imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal);


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• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere (modellare l’arousal); • esercitare il possesso e la difesa per ridurre la tendenza a cercare, scovare. Inoltre, è fondamentale non frustrare la motivazione esplorativa e sociale poiché gli schemi comportamentali innati relativi alla vita “in muta” sono molto forti. L’origine dei pastori guardiani degli armenti risale all’età pastorale. I cani crescono e vivono sempre all’interno del gregge tanto da considerare questi animali come componenti del gruppo sociale. L’educazione è compito degli adulti già presenti nel gregge mentre l’essere umano ha pochi rapporti con i cani stessi. I pastori guardiani si muovono con gli armenti, allertano, difendono e minacciano. Non cacciano, uccidono o mangiano gli animali con cui sono cresciuti (E. Garoni). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione territoriale, difensiva e possessiva. Le motivazioni collaborativa, predatoria ed esplorativa sono, invece, basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale si evidenzia un/ una importante: • difesa del territorio; • diffidenza verso gli estranei (esseri umani); • legame sociale con i conspecifici; • autonomia decisionale. L’arousal ed il profilo emozionale sono bassi. Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe: • esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (base della relazione con il proprietario) ed imparare a delegare le responsabilità (chiedere al proprietario il permesso di iniziare un’azione); • esercitare la collaboratività al fine di imparare ad attendere; • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a scovare/ cercare (al fine di modellare la difesa ed il possesso); • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere; • esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere. La gratificazione effettuata con la voce, il contatto ed il cibo è poco importante per questi cani. Il percorso educativo cercherà di trasformare la ricompensa in un tempo di attesa (“Aspetta”) che, una volta rispettato, permetterà la realizzazione del comportamento desiderato dal cane.

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È fondamentale disciplinare le motivazioni fin dal momento dell’adozione in modo da esaltare la dimensione collaborativa per evitare conflitti (difficilmente risolvibili) nel gruppo uomo - cane al momento della maturazione sociale. Inoltre, le motivazioni difensiva e sociale non devono essere frustrate.

Conclusioni Il percorso educativo inizia fin dal momento dell’adozione del cucciolo: la pedagogia cinofila ha il compito di realizzare lo sviluppo armonico dell’individuo. È fondamentale, quindi, esercitare le motivazioni di ampio volume e allenare quelle depresse in modo da trasformare le vocazioni in doti evitando le fissazioni. È opportuno ricordare che l’apprendimento non completa ciò che è innato ma dà forma all’individuo. Per questo tanto più è forte una vocazione, tanto più necessita di apprendimento o esercizio. La conoscenza del repertorio motivazionale – vocazionale delle differenti razze permetterà al Medico Veterinario di fornire al proprietario fondamentali informazioni relative al “carattere” del soggetto che desidera adottare. Inoltre, la visione pedagogica permette un dialogo migliore tra il Medico Veterinario e l’Educatore Cinofilo: il Medico Veterinario, durante la visita di Educazione Cucciolo, traccerà un profilo dell’individuo e fornirà le linee guida del processo pedagogico che sarà realizzato dall’Educatore Cinofilo.

Bibliografia Atti, II Edizione Corso Educatori Cinofili, maggio 2006 – maggio 2007, organizzato da SIUA; B. Gallicchio, “Lupi travestiti, le origini biologiche del cane domestico”, Edizioni Cinque, Biella 2001; J. Clutton – Brock, “Storia naturale della domesticazione dei mammiferi”, Bollati Boringhieri Editoria S.r.l., Torino 2001; R. Marchesini, “L’identità del cane”, Apèiron Editoria e Comunicazione S.r.l., Bologna 2004; R. Marchesini, “Pedagogia cinofila introduzione all’approccio cognitivo zooantropologico”, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2007.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani sgiuss@mac.com - sabrinagiussani@yahoo.it - Tel: 3331861226


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Educazione del cliente e dell’animale: corretta impostazione e gestione del colloquio Sabrina Giussani Medico Veterinario Comportamentalista, Master in Etologia applicata e Benessere animale, Diplomato Medico Veterinario Comportamentalista ENVF, Consigliere SISCA

INTRODUZIONE Le informazioni sui possibili rischi per la salute dell’animale, legati ad un’alimentazione non corretta, sono spesso ignorate dal proprietario. Questo ultimo, infatti, sostiene di amare così tanto il proprio pet da non potergli negare l’affetto sotto forma di cibo! L’inadeguata alleanza terapeutica tra Medico Veterinario, Cliente e Pet è un problema di primaria importanza nella prevenzione e nel trattamento dell’obesità del cane e del gatto. È opportuno ricordare che alcuni stati patologici conseguenti a malattie del comportamento, possono essere alla base dell’obesità. La bulimia è, infatti, un sintomo presente nello stato ansioso permanente e nella depressione cronica. Inoltre, la restrizione alimentare può peggiorare la sintomatologia di malattie dl comportamento preesistenti o indurne la nascita. Durante la progettazione di un piano di restrizione alimentare è necessario eseguire un’accurata valutazione comportamentale.

LA RELAZIONE UOMO - ANIMALE: LA DIMENSIONE DI CURA Al fine di valutare l’importanza della relazione uomo – animale nella genesi dell’obesità, un recente studio pilota (A Comparison of the Feeding Behavior and the Human–Animal Relationship in Owners of Normal and Obese Dogs, Ellen Kienzle, Reinhold Bergler and Anja Mandernach) ha reclutato 60 coppie proprietario/ cane obeso e ad altrettante formate da proprietario/ cane normale. Dall’elaborazione dei dati raccolti con l’aiuto di un questionario, è emerso che il legame tra proprietario/ cane obeso è più stretto rispetto a quello esistente tra proprietario/ cane normale: il proprietario ha meno paura di contrarre malattie, affronta con l’animale un gran numero di argomenti di discussione, dorme spesso con il cane, osserva a lungo il pet mentre mangia, somministra un numero elevato di pasti e spuntini al cane, considera poco importante l’esercizio fisico ed il lavoro collaborativo. Queste osservazioni indicano che la somministrazione del cibo è una piacevole forma di comunicazione e d’interazione con il cane: il proprietario di un cane obeso interpreta ogni esigenza dell’animale come una richiesta di cibo. Inoltre, appare poco attento alla propria salute e trasferisce non solo le proprie abitudini alimentari all’animale ma anche la mancanza di apprezzamento per una buona condizione fisica. E. Kienzle e R. Berglery hanno osservato che solo una piccola percentuale di gatti obesi riesce a perdere peso utiliz-

zando diete dimagranti. Tuttavia, studi clinici controllati eseguiti in laboratorio hanno mostrano che la restrizione alimentare consente ai gatti coinvolti di raggiungere una riduzione del peso. È, dunque, possibile ipotizzare una mancanza di compliance (alleanza terapeutica) da parte dei proprietari di gatti obesi. Un recente studio (Human-Animal Relationship of Owners of Normal and Overweight Cats, Ellen Kienzle and Reinhold Berglery) ha coinvolto 120 proprietari di gatti, 60 animali normali e 60 in sovrappeso. L’inchiesta ha esaminato il rapporto uomo - animale, alcuni aspetti del comportamento del gatto ed alcune caratteristiche personali del proprietario (come ad esempio la salute e le abitudini alimentari). Dall’elaborazione dei dati raccolti con l’aiuto di un questionario è emerso che il legame tra proprietario/ gatto obeso è più stretto rispetto a quello esistente tra proprietario/ gatto normale: il proprietario parla con l’animale affrontando un gran numero di argomenti (lavoro, famiglia, amici e conoscenti), la convivenza con il gatto lo ha rassicurato e consolato, l’animale è considerato non solo un membro della famiglia ma anche un bambino da accudire. La maggior parte dei proprietari di gatti obesi guarda il proprio animale mentre mangia. Inoltre, i proprietari di gatti normali utilizzano il gioco come premio mentre i proprietari di gatti obesi offrono all’animale il cibo preferito. L’alimentazione ad libitum è un fattore di rischio controverso. Infatti, soltanto in alcuni studi è emerso che la possibilità di avere libero accesso al cibo è correlata all’obesità. La maggior parte dei proprietari di gatti obesi percepisce il proprio animale più magro di quanto non sia in realtà. Una possibile spiegazione può essere che il gatto non appare quasi mai in pubblico e, di conseguenza, le persone commentano saltuariamente la condizione fisica dell’animale. A differenza dei dati ottenuti dalla ricerca svolta sui proprietari di cani la maggior parte dei proprietari di gatti obesi è di sesso femminile. Le osservazioni raccolte mostrano che la somministrazione del cibo potrebbe essere una piacevole forma di comunicazione e d’interazione con il gatto: il proprietario di un gatto obeso interpreta ogni esigenza dell’animale come una richiesta di cibo. Gli Autori hanno interpretato le differenze evidenziate nella relazione tra proprietario/ cane – gatto obeso come indicatori di eccessiva umanizzazione dell’animale. Secondo l’approccio zooantropologico, la relazione si differenzia dalla semplice interazione. Nella relazione è riconosciuta la soggettività dell’animale: il cane è una controparte sociale, un interlocutore, una referenza. L’accreditamento del pet comporta un interscambio non solo sulla base dei contenuti ma anche sulla base dei ruoli sociali che ven-


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gono negoziati. La negoziazione dei ruoli sociali comporta la definizione di dimensioni o livelli, ciascuna caratterizzata da una specifica funzione di transazione. Una delle dimensioni di base della relazione uomo – animale è quella affettiva: l’interscambio è basato sulla protezione, sulla rassicurazione, sull’offerta/ richiesta di aiuto, sulla condivisione emozionale. L’area affettiva mostra differenze d’espressione che variano a seconda del ruolo assunto dal fruitore: epimeletico (offre protezione, cura, sicurezza, alimento), et – epimeletico (chiede protezione, conferme, sicurezza, alimento). Il partner umano mostra un comportamento protettivo nei confronti dell’animale assumendo il ruolo del genitore e mostra l’atteggiamento tipico dell’accudimento parentale. Un eccesso epimeletico può provocare lo sbilanciamento della relazione e, di conseguenza, una deriva proiettiva nel rapporto. Nel caso di tendenze surrogatorie dove il pet assume il ruolo di animale – bambino o animale – figlio è necessario integrare la dimensione affettiva con le altre dimensioni di relazione (ludica, epistemica, edonica, sociale, affiliativa) (R. Marchesini). Un approccio psicologico, come la sostituzione di un comportamento associato all’alimentazione con un comportamento di gioco può migliorare la compliance dei proprietari di gatti che partecipano a programmi di riduzione del peso (E. Kienzle e R. Berglery).

IL CLIENTE: LO STADIO DEL CAMBIAMENTO La reticenza del cliente ad intraprendere un percorso terapeutico dovrebbe essere interpretata come un problema di motivazione al cambiamento e di consapevolezza dell’esistenza di un problema, piuttosto che come una resistenza incosciente, un tentativo di sabotare gli sforzi del terapeuta. Questa differente visione appare quando si pensa al cliente in funzione del suo livello di motivazione, di coscienza o di preparazione al cambiamento. L’attitudine, le aspettative e gli interventi del terapeuta devono, quindi, adattarsi. Prochaska e Diclemente (1983) hanno proposto una teoria del cambiamento psicoterapico composta di cinque stadi. Ogni stadio mostra la percezione del cliente di fronte alla situazione problema. Secondo gli Autori esiste un legame tra lo stadio del cambiamento ed i processi psicologici indispensabili da mettere in atto per produrre un cambiamento. Young nel 1992 ha proposto un modello semplificato in quattro stadi che ben si adatta alle nostre esigenze. Nel primo stadio, detto di pre – intenzione, il cliente non è cosciente della situazione problema e si mostra completamente reticente verso qualsiasi tentativo di presa in carico. Il cambiamento, secondo il cliente, comporta conseguenze negative rispetto alla persistenza dello stato di difficoltà in cui si trova. Nello stadio successivo, di intenzione, il cliente è cosciente dell’esistenza della situazione problema ma ne sminuisce l’importanza, nega il bisogno di aiuto o ritiene che nessuno possa assisterlo. Fa seguito la fase di azione in cui il cliente desidera il cambiamento e comincia a cambiare o a cercare un aiuto esterno. Il progetto terapeutico può, quindi, essere messo in opera. Infine, la fase di mantenimento consiste nel mantenere i risultati ottenuti e permette ulteriori progressi del cliente. In questo stadio gli Autori collocano la

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possibile ricaduta. È necessario che il terapeuta annunci la possibilità di una recrudescenza della sintomatologia, così che la fidelizzazione del cliente sia ancor più importante. Infatti, quando un evento è previsto ed annunciato, viene più facilmente affrontato e superato dalla coppia cliente – terapeuta. Secondo il modello presentato, il Medico Veterinario, per raggiungere l’obiettivo terapeutico, dovrà adattandosi al livello di motivazione ed allo stadio di cambiamento del cliente. Solo nella fase di azione è possibile realizzare una terapia volta alla soluzione della situazione problema. Questo concetto è riportato anche da Malarewicz (1996). Esiste una profonda differenza tra domanda e processo terapeutico Quando il cliente fissa un appuntamento con il Medico Veterinario, effettua una domanda terapeutica e spesso il procedimento si arresta a questo livello. Infatti, il cliente si accontenta di aver preso contatto con il professionista e rimette nelle mani di quest’ultimo il suo destino. Il Medico Veterinario dovrà, durante il colloquio, trasformare la domanda in processo terapeutico valutando lo stadio di cambiamento in cui si trova il cliente ed adattando il proprio intervento terapeutico. È necessario, quindi, lasciare al cliente il tempo necessario per far proprie le informazioni ricevute e prepararsi al cambiamento.

IL MEDICO VETERINARIO ED IL CLIENTE: L’ALLEANZA TERAPEUTICA La prima tappa della relazione terapeutica consiste nello stabilire un’alleanza terapeutica con il cliente. Lo scopo dell’interazione è suscitare un’impressione positiva attraverso l’empatia, il calore umano, la sincera preoccupazione e l’assenza di giudizio/ pregiudizio. L’alleanza terapeutica implica la percezione di un lavoro in comune, della collaborazione tra i partecipanti. Per favorire una corretta interazione è necessario condurre la visita all’interno di un setting ben definito (ad esempio la sala visite). Il setting è l’insieme delle condizioni metodologiche entro le quali si può osservare, descrivere, comprendere l’oggetto di conoscenza, che ne permette l’obiettivazione (B. Alessio). Le attitudini elementari di ascolto, di attenzione, di rilancio e di ripetizione sono alla base della nascita dell’alleanza terapeutica.

L’attitudine all’attenzione Consiste nel mostrare attenzione (soprattutto utilizzando la comunicazione non verbale) in modo che il cliente percepisca l’interesse del terapeuta.

Mantenere il contatto visivo Il contatto visivo è il più importante indizio d’ascolto e di coinvolgimento. È opportuno evidenziare che un contatto mantenuto troppo a lungo può essere inappropriato. È necessario interrompere il contatto visivo di quando il quando, in modo naturale.


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Mantenere una distanza adeguata La distanza fisica può essere più o meno grande ma, quando il terapeuta ed il cliente sono l’uno di fronte all’altro, è consigliabile rimanere a circa 1,50 m.

gia il suo cane?” è una domanda aperta). Inoltre, spesso sono formulate sottoforma di frase affermativa o imperativa per evitare di dare la sensazione al cliente di essere sottoposto ad un interrogatorio.

La postura È necessario assumere una postura detta “di coinvolgimento”: un atteggiamento rilassato ma vigile che comunica la disponibilità all’ascolto. Inclinare leggermente il busto in avanti in occasione dei “punti critici” del colloquio, carichi di emozione, trasmettono l’interesse del terapeuta e la volontà di venire in aiuto al cliente. Inoltre, una postura aperta, senza braccia e gambe incrociate, sembra incoraggiare il cliente ad aprirsi.

Il silenzio attento I momenti di silenzio permettono, sia al Medico che al cliente, di riflettere. Inoltre il silenzio è spesso la riposta più appropriata a rivelazioni dolorose che riguardano la vita del cliente (ad esempio un lutto). È bene che il terapeuta rimanga in silenzio in modo da essere presente senza interferire. Inoltre, il silenzio incita il cliente ad esprimere le proprie emozioni.

I gesti e l’espressione facciale L’espressione del viso del Medico deve essere adeguata alle emozioni mostrate dal cliente durante il colloquio. Inoltre, alcuni gesti (ad esempio mangiarsi le unghie, tamburellare con le dita, giocare con la penna, cambiare frequentemente posizione) possono disturbare l’interazione facendo trasparire disinteresse o impazienza. Toccare il cliente Il contatto fisico può essere un importante fattore di coinvolgimento emozionale. È necessario valutare attentamente la disponibilità del cliente, quale tipo di contatto realizzare ed in quale momento del colloquio.

L’attitudine al rilancio Questa attitudine, aiuta il cliente a parlare di sé, all’interno di una situazione non coercitiva, senza manipolazioni.

Gli inviti L’invito indica la disponibilità all’ascolto del Medico. Abitualmente avviene durante la prima fase del colloquio e lascia trasparire l’assenza di giudizio. Il terapeuta può formulare osservazioni che invitano il cliente a parlare ad libitum come ad esempio “Mi può dire qualche cosa di più a questo proposito?”. Gli incoraggiamenti Sono risposte verbali molto brevi che comunicano l’interesse ed il coinvolgimento lasciando libera scelta al cliente per quanto riguarda la direzione che prenderà il colloquio. Sono spesso accompagnate da uno scuotimento d’approvazione del capo. Ad esempio “Vedo”, “Si”, “Certo”, “D’accordo”, “Capisco”. Le domande aperte È possibile formulare due tipi di domande: aperte e chiuse. Le domande chiuse hanno lo scopo di chiedere un’informazione specifica e comportano una risposta breve (spesso un semplice Si o No). Le domande aperte consentono una maggiore libertà d’espressione e permettono di ricevere un gran numero di informazioni senza interrompere il processo di ascolto (Ad esempio: “Il suo cane mangia cibo secco?” è una domanda chiusa mentre “Che cosa man-

L’empatia È uno degli strumenti più importanti a disposizione del Medico. Consiste nella capacità di immergersi nel mondo di un altro essere umano: comprendere il punto di vista e le emozioni dell’altro e far sì che l’interlocutore percepisca tutto ciò. L’empatia non deve essere confusa con la simpatia, sentimento connesso alla partecipazione e alla comunicazione degli stati affettivi.

L’attitudine alla ripetizione Questa attitudine trasmette al cliente una sensazione di comprensione. Il termine ripetizione significa riformulare i pensieri e le emozioni del cliente con termini differenti, in modo da comunicare la reale comprensione delle parole dette. La ripetizione è un mezzo per trasmettere l’empatia a livello verbale ed agisce come uno specchio che permette al cliente di confermare o invalidare l’impressione trasmessa al Medico.

La parafrasi Questa tecnica riformula il messaggio di base e lo trasmette con le parole utilizzate da colui che ascolta. L’informazione di ritorno si basa sul contenuto del messaggio più che sulle emozioni trasmesse dalla persona: l’accento è posto sui fatti, sui pensieri e sulle conclusioni del cliente. La parafrasi è utilizzata sia per eliminare la confusione che può provare il Medico sia per ripetere alcuni pensieri o comportamenti importanti contenuti nelle parole del cliente.

La ripetizione dei sentimenti È una tecnica identica alla precedente ma l’accento è posto sulle emozioni/ sentimenti più che sui contenuti. Così facendo il Medico comunica la comprensione dei sentimenti di collera, colpa o tristezza legittimandone l’esistenza senza esprimere un giudizio. Il riassunto Il riassunto focalizza l’attenzione del Medico e del cliente sui punti principali del colloquio, sintetizza il contenuto e le emozioni/ sentimenti espressi. Può essere realizzato all’inizio, a metà o alla fine della visita. È opportuno impiegare le stesse parole utilizzate dal proprietario durante il colloquio. Questa tecnica conferma al cliente che il Medico ha


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ascoltato con attenzione il dialogo e che è riuscito a comprendere tutto ciò che è stato detto.

LA RESISTENZA: IL PET, IL CLIENTE ED IL MEDICO Il termine resistenza si riferisce “all’opposizione inconscia il Medico da parte del soggetto sottoposto ad analisi, ad accedere alle proprie dinamiche profonde” (U. Galimberti). L’approccio alla resistenza del paziente è stato descritto la prima volta da Freud e dai suoi successori. In seguito, numerosi Autori hanno apportato il proprio contributo. È opportuno evidenziare che la resistenza può essere messa in atto da tutti i protagonisti del processo terapeutico: il Pet, il Cliente ed il Medico. La resistenza è un elemento normale all’interno della terapia poiché il cambiamento che il Medico vorrebbe indurre provoca l’alterazione dell’omeostasi del sistema cliente/ pet.

La resistenza del pet Anche il Cane ed il Gatto possono mostrare resistenza. Durante la messa in atto del processo terapeutico, infatti, la restrizione alimentare può essere alla base dell’opposizione del paziente al cambiamento. È necessaria una negoziazione tra ciò che il Medico ed il Cliente desiderano ottenere e ciò che piace all’animale: al esempio la dieta in cambio di passeggiate nei luoghi graditi al cane (area cani, parco, centro città) oppure dell’arricchimento ambientale per il gatto (fontanella per l’acqua, giochi in elevazione, graffiatoio, tunnel). Nella progettazione di un programma di restrizione alimentare, è opportuno ricordare le caratteristiche etologiche delle specie in esame. Ad esempio, il comportamento alimentare del gatto presenta numerose differenze rispetto al cane. Numerosi Autori definiscono il gatto un animale sbocconcellatore poiché nelle 24 ore effettua da 8 a 16 piccoli pasti. Questo animale, infatti, è un cacciatore solitario che cattura numerose prede di piccole dimensioni. Somministrare il cibo ad orari può costituire un fattore di rischio per l’insorgenza di patologie del comportamento come l’Ansia da Luogo Chiuso (caratterizzata dalla comparsa di un comportamento di aggressione predatoria e per irritazione a carico dei proprietari), la Sindrome della Tigre (caratterizzata dalla comparsa di un comportamento di aggressione predatoria a carico dei proprietari all’ora della somministrazione del pasto), l’Ansia da Coabitazione (caratterizzata da un comportamento di aggressione per irritazione a carico del gatti conviventi) e nel gatto anziano alcune demenze senili. Inoltre il disagio legato alla dieta può indurre il peggioramento delle malattie del comportamento preesistenti. Il cane è un predatore che caccia in gruppo e cattura animali di grandi dimensioni. Inoltre, il pasto assume per questa specie, un significato sociale. La restrizione alimentare può provocare un peggioramento delle patologie del comportamento già in atto a causa dell’aumento dello stato ansioso legato alla sensazione di disagio indotta dalla fame. Ad esempio un cane affetto da squilibrio gerarchico (alterazione del ruolo e del rango all’interno del gruppo uomo – cane/ cane - cane) potrebbe sviluppare una Sociopatia stadio 1 (patologia caratterizzata dalla presenza di numerosi sintomi tra i quali

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anche un comportamento di aggressione per irritazione e gerarchico a carico dei proprietari o dei cani conviventi). È opportuno, quindi, eseguire un’attenta valutazione comportamentale in modo da prevenire l’insorgenza di alcune malattie del comportamento o il peggioramento delle patologie presenti. Per affrontare al meglio la resistenza, è opportuno: • Eseguire un’attenta valutazione comportamentale; • Utilizzare la terapia feromonale per ridurre il disagio legato alla dieta (Feliway diffusore ambientale per il gatto, DAP diffusore ambientale per il cane); • Ridurre progressivamente la quantità di alimento o modificarne gradualmente la qualità; • Integrare nel cane la dimensione affettiva (et - epimeletica) con altre dimensioni di relazione (ad esempio ludica cognitiva o sociale – collaborativa); • Integrare nel gatto la dimensione affettiva (et - epimeletica) con altre dimensioni di relazione (ad esempio ludica – performativa o ludica – comica).

La resistenza del Cliente Il Cliente, nella fase di azione, desidera cambiare ma, poiché il processo è doloroso, viene rifiutato a livello inconscio. Ogni azione, infatti, implica una reazione: il cambiamento induce inizialmente un evitamento ed un’opposizione. Per affrontare al meglio la resistenza, è opportuno: • Chiedere che l’intera famiglia partecipi alla visita poiché gli assenti possono ostacolare il cambiamento; • Osservare la postura del corpo del cliente (ad esempio braccia e gambe incrociate indicano resistenza); • Chiedere al cliente il più piccolo cambiamento possibile; • Proporre al cliente di mettere in atto il cambiamento solo per una settimana, a titolo di esperienza; • Integrare la dimensione affettiva (di cura) con le altre dimensioni di relazione (ad esempio ludica o sociale).

La resistenza del Medico Anche la resistenza opposta dal Medico fa parte del processo terapeutico. Generalmente, l’opposizione nasce dalla frustrazione di fronte alla previsione dell’insuccesso terapeutico. La resistenza può essere indotta da numerosi fattori: la motivazione (il terapeuta cerca di convincere il cliente a realizzare la terapia non tenendo conto del suo stadio del cambiamento), il pregiudizio (il terapeuta sospetta che il cliente non seguirà le indicazioni date ed adotta una comunicazione verbale e posturale che induce alla chiusura), l’incompetenza (il terapeuta ritiene di non essere competente in quel settore ed adotta una comunicazione sbrigativa che genera nel cliente confusione). Inoltre, quando un Cliente è particolarmente simpatico, il Medico corre il rischio di annullare la distanza terapeutica necessaria alla messa in opera del processo terapeutico. Per affrontare al meglio la resistenza, è opportuno: • Pensare di essere al “posto del Cliente”; • Mostrare empatia; • Spiegare in modo comprensibile la diagnosi e la terapia senza cercare di convincere il Cliente; • Mantenere il contatto visivo, una distanza adeguata e adottare una postura corretta.


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CONCLUSIONI

Bibliografia

Anche in Medicina Umana, il concetto di dimensione di relazione (madre – figlio) assume una sempre maggior importanza. Negli anni passati le madri sono state “educate” a concentrarsi soprattutto sulla dimensione dietetica (qualità e quantità degli alimenti) a scapito della dimensione relazionale. Ai giorni nostri la tendenza sembrerebbe piuttosto opposta, in quanto basata su un’alimentazione a richiesta, con lo scopo di proteggere la relazione madre-figlio, così a lungo trascurata. Il Medico Veterinario, durante la progettazione di un piano di restrizione alimentare, deve tenere in considerazione numerosi fattori: la presenza di patologie del comportamento, le esigenze etologiche del pet e la dimensione prevalente nella relazione uomo – animale. Così facendo il processo terapeutico andrà a buon fine.

B. Alessio, “Setting e dintorni: il significato del primo colloquio nella terapia comportamentale”, Veterinaria, monografia SISCA; O. Chambon, M. Marie – Cardine, “Les bases de la psychothérapie”, Dunod, Paris 1999; R. Colangeli, S. Giussani, “Medicina del comportamento del cane e del gatto”, Poletto Editore, Gaggiano, 2005; U. Galimberti, “Dizionario di psicologia”, UTET, Torino 2000; E. Kienzle, R. Berglery, “Human-Animal Relationship of Owners of Normal and Overweight Cats”, American Society for Nutrition. J. Nutr. 136: 1947S–1950S, 2006; E. Kienzle, R. Bergler, A. Mandernach, “A Comparison of the Feeding Behavior and the Human–Animal Relationship in Owners of Normal and Obese Dogs”, American Society for Nutritional Sciences. J. Nutr. 128: 2779S–2782S, 1998; R. Marchesini, “Canone di zooantropologia applicata”, Apèiron Editoria e Comunicazione S. r. l., Bologna 2004; R. Marchesini, “L’identità del cane”, Apèiron Editoria e Comunicazione S. r. l., Bologna 2004; R. Marchesini, “Fondamenti di zooantropologia”, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2005.

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Eutanasia: l’ultimo atto d’amore del medico nei confronti del suo paziente Oscar Grazioli Med Vet, Reggio Emilia

Scrivere dell’intervento farmacologico e di una “ottima” pratica veterinaria relative all’eutanasia non è forse divertente ma è necesssario, in quanto questa pratica, per essere ben condotta, implica una notevole conoscenza dell’anatomia, della fisiologia e della farmacologia, nelle varie specie animali, oltre che una particolare empatia nei confronti del paziente e del proprietario. Le conoscenze che l’anestesista ha dei farmaci sedativi, ipnotici e antalgici, ne fanno dunque il miglior candidato per l’attuazione di questa pratica così frequente nella nostra attività, specie quando si tratti di “eutansie difficili” o particolarmente delicate. D’altronde l’eutanasia è uno dei capitoli finali che si trovano nei libri di anestesiologia, è giusto che sia chi si occupa di anestesia e di terapia del dolore a metterci mano. Si avrà la certezza che le migliori competenze sono state messe in campo per evitare al massimo stress, dolore e disagio a chi deve subire il passaggio obbligato di un triste confine. In Italia, da un’indagine effettuata personalmente su oltre cento veterinari, il 99% degli intervistati utilizza il Tanax come farmaco eutanasico, quasi sempre preceduto da varie combinazioni di sedativi, analgesici e ipnotici.. Sono certo che ci sia ancora un elevato numero di colleghi che, spesso per sottovalutazione dell’argomento, commette errori difficilmente perdonabili nell’esecuzione di questa delicatissima procedura. Già l’uso di sedativi, seguiti da induzione dell’anestesia e poi dal farmaco eutanasico configura un procedimento di livello accettabile. Quando però il proprietario richiede di essere presente, è necessario che non ci siano sbavature di alcun genere: spasmi, tremori, scialorrea, perdita di feci e di urina, possono essere talvolta eventi “fisiologici della morte imminente“. Questo per un occhio professionale. All’occhio di chi accompagna il proprio pet verso l’exitus tutto ciò diventa intollerabile. Da qui l’imperativa necessità di far sì che tutto si svolga in maniera dolce e “senza scosse”. In Italia esistono due farmaci eutanasici approvati: il Tanax e l’Eutathal. Il primo è una miscela di tre sostanze: un anestetico generale, un bloccante neuromuscolare e un anestetico locale. Il secondo è Pentobarbitale ad elevata concentrazione. Si consideri che da numerosi anni il Tanax (T 61 nei paesi anglosassoni) è stato ritirato dal commercio in USA, UK, Australia e numerosi altri paesi per mano stessa della ditta produttrice. Donald Sawyer aveva già messo in evidenza come la tetracaina e la dietilformamide presenti nel T 61 potessero dare origine a spasmi, eccitazione e convulsioni prima della morte. Inoltre lo scriteria-

to assenso all’uso intrapolmonare (che perdura in Italia) ha dato origine ad episodi “spiacevoli“ che hanno convinto la ditta a ritirare il prodotto in quei paesi. Oggi in USA e UK l’eutanasia si effettua con elevate dosi di Pentobarbital, anche se questo stesso farmaco non è esente da inconvenienti, quali gli ampi sospiri prima dell’exitus e il perdurare dell’attività cadiaca talora per diversi minuti. In Italia, essendo nella tabella degli stupefacenti, nessuno lo usa e, di fatto, l’Eutathal non è più venduto. Rimane universalmente usato dunque un farmaco, il Tanax, ritirato nei paesi anglosassoni. Rifacendomi agli studi effettuati sulle tecniche di soppressione in uso negli stati americani in cui vige la pena di morte tramite iniezione letale, ho appreso che i medici attualmente reputano la sequenza Pentothal -> Pancuronio-> Cloruro di Potassio, la migliore possibile per arrecare il minor disagio (si fa per dire) al condannato a morte. In realtà recentemente è scoppiata la polemica sull’uso del bloccante neuromuscolare che una parte dei medici ha messo sotto accusa per la cinetica e la sovrapposizione nei confronti del barbiturico, fino ad obbligare molti stati alla sospensione delle esecuzioni (recentemente la combinazione letale è stata ritenuta valida dagli organi governativi). La mia personale esperienza mi porta a consigliare alcune regole fondamentali nell’esecuzione di questa purtroppo necessaria, ma delicatissima pratica. Innanzitutto, anche se non esplicitato sui bugiardini delle specialità eutanasiche, questi farmaci non vanno mai utilizzati quale unico componente dell’eutanasia, a meno che il paziente non sia moribondo e già privo di coscienza. D’altro canto anche l’eccesso di zelo nel somministrare farmaco sedativi o analgesici a dosaggi elevatissimi costituisce un altro errore, in quanto i loro effetti collaterali possono indurre, ipovolemia, ipotensione, vomito, diarrea, shock, allucinazioni ed altri fenomeni da evitare. Quello che si richiede è un profondo grado di sedazione e parimenti di analgesia, in modo da potere trovare un accesso venoso senza creare disagio o dolore al paziente. Una volta assicurato un accesso al sistema circolatorio suggerisco l’utilizzo di un farmaco per l’induzione (propofol o pentothal) in modo da potere raggiungere lo stadio dell’anestesia chirurgica. Solo a questo punto è lecito iniettare il farmaco eutanasico e non a dosaggio ridotto al minimo, come ho raccolto da alcuni colleghi, ma a dosaggio pieno indicato dalla ditta nel bugiardino. Ricordo che l’errato o improprio utilizzo del T 61 (il nostro Tanax) è stato uno dei motivi per i


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quali chi lo produceva ha deciso di ritirarlo dal commercio nei paesi anglosassoni. Spero non si vorrà fare la speculazione di poche centinaia i vecchie lire in momenti come questo. Da proscrivere nel modo più assoluto l’uso intrapolmonare (peraltro incredibilmente concesso nella registrazione da parte del Ministero della Salute), mentre l’uso intracardiaco nell’animale in anestesia generale è consentito, specie se gli accessi venosi sono difficili o impossibili da reperire.

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Molta attenzione va fatta nei confronti degli animali non convenzionali, il cui metabolismo può riservare spiacevolissime sorprese a chi riteneva di avere effettuato un’ eutanasia e si vede ritornare il proprietario con qualcosa che zampetta ancora dentro una scatola. Capisco che riferire un caso ad un collega per un’eutanasia farà sorridere i più, ma sono altresì convinto che vedere il proprietario tornare in ambulatorio con attaccata alla vanga la tartaruga, soppressa il giorno prima, potrebbe spegnere più di un sorriso.


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Contemplating Canine Cough: Update on Infectious Tracheobronchitis Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Etiology and Epidemiology Kennel cough in dogs is a clinical syndrome with several and often combined causative agents. Experimental studies have shown that concurrent Bordetella and canine parainfluenza virus (CPIV-2) infections in dogs cause more severe disease than with infections caused by either organism alone. Furthermore, combined infections produced predominantly lower airway disease. Kennel cough usually resolves on its own. Severe or persistent infections are caused by secondary invading bacteria such as Bordetella bronchiseptica.1 In addition to these pathogens, a number of additional viruses, including Canine distemper, Canine Adenovirus-2, Canine Herpesvirus, and Canine Respiratory Coronavirus, have been associated with breaks of ITB in dogs.1,2 Although Bordetella is the predominant nonviral respiratory infection of dogs,3 Mycoplasmas and Chlamydophila have also been incriminated. Dogs and cats have been infected with influenza viruses in every major world pandemic in the last century. This is evident from their seroconversion during the epidemic that spreads through people. Generally their infection is asymptomatic although mild respiratory infections have been observed in some outbreaks where people become infected. In the most recent outbreak of H5N1avian influenza virus infection in the Far East, being spread by waterfowl, cats became infected with the avian strain. A few cats and dogs in the orient or Europe developed documented fatal infections. The virus did not seem to spread beyond these dead end hosts and its origin was generally associated with the feeding of offal from infected birds. In 2004 outbreaks were recognized of fatal respiratory diseases in racing greyhound dogs from many tracks in the United States. The outbreaks were associated with high morbidity and mortality and rapid spread through affected dogs. An H3N8 strain closely related to that associated with outbreaks of equine influenza was identified. The virus has evolved since it first infected dogs and it readily spreads through susceptible animals in kennels. Documentation of infection was found in many kennels of other dog breeds throughout the United States. Unfortunately, there is no effective vaccine. Husbandry and appropriate care of infected dogs is essential. Although most primary respiratory infections in dogs are viral in origin, bacterial infections can occur as a result of invasion by normal microflora or specific pathogens after impairment of normal host defense mechanisms. Although

Bordetella bronchiseptica is the predominant pathogen as discussed above, the upper respiratory tract of clinically healthy dogs from the tip of the nares to the laryngeal opening contains many types of aerobic and facultative anaerobic bacteria. The numbers and types of organisms vary somewhat but in general this can be closely predicted. Underlying diseases or antimicrobial therapy can alter these levels. Bacteria are generally limited from entering the lower respiratory passages; however organisms reflective of the upper airway composition can be found in low numbers down to the tracheobronchial tree. Levels are likely aspirated during breathing and exercise. These bacteria can complicate the interpretation of airway and lung cultures; and in some instances, cytologic or pathologic examination.

Clinical Signs Dogs with upper respiratory infection can be differentiated from those with pneumonia, because the former have no fever, they continue to eat, and have few if any other systemic signs of infection. This is of value in differentiating this infection with causes of pneumonia which causes both febrile and systemic complications. If the latter occur then thoracic radiographs are advised.

Diagnosis As alluded to above, hematological and radiological examinations should not be performed unless dogs are showing signs of systemic or lower airway complications. Then a complete blood count and thoracic radiographs would be warranted. Should lover airway disease be detected by radiography then airway washings should be collected for cytologic and microbiologic examination as indicated below. Diagnostic abnormalities include inflammatory leukograms and thoracic radiographic densities. Alveolar patterns are found in the lung with bacterial pneumonia. Confirmation is based upon obtaining washings from the lower airways by transtracheal, endotracheal or endobronchial means. Quantitating bacteria obtained by airway washings is essential to eliminate contamination. Bacterial counts of 103 or greater per ml or presence of intracellular bacteria are needed to eliminate contamination from consideration.3 Fine needle aspiration of the lung has also been used.4


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Treatment Systemic antibiotics can be chosen empirically or on the basis of culture and sensitivity of a transtracheal or endotracheal wash. Ampicillin is usually effective in bacterial pneumonia in man. Tetracycline or chloramphenicol can be used in dogs if infection with Bordetella is suspected. Whether antibiotics should be used to routinely “cover” viral infections remains controversial. Antibiotics may also be administered by aerosol in respiratory infections. The purpose is to deposit large amounts of potent antibiotics in the airways. Drugs which are poorly absorbed from the respiratory mucosa should be used. These include bacitracin, neomycin, kanamycin, gentamicin and polymyxin. Other antibiotics such as penicillins, chloramphenicol and tetracycline are well absorbed from the respiratory mucosa and are probably not indicated for aerosol therapy, since they are just as effective systemically. Aerosol therapy also humidifies the respiratory mucous membranes and is a desirable mode of therapy.

Prevention Lipopolysaccharide (LPS) has been responsible for the allergic reactions produced by some of the early parenteral bacterins for bordetellosis.4 Several methods have been used by manufacturers to eliminate the LPS from these products and this may affect their efficacy and side effects. Most are composed of purified extracted antigen from bacterial cell. This modification allows for reduced local allergic reaction following injection and vaccination can begin at 6 weeks of age and is safe for pregnant animals. It is recommended that animals receive at least 2 doses, 2 to 4 weeks apart.

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Intranasal vaccines for tracheobronchitis produce more rapid and effective secretory antibody production as compared to inactivated parenteral products.5 They can provide protection within a short time interval after a single administration which is not the case with inactivated parenteral products. Studies show that a combination of both intranasal and an IM parenteral vaccines provides better immunity than either product alone; however, the IM vaccine used in these studies is not currently marketed. In general intranasal vaccines have been shown to produce more rapid and persistent protection against infection compared to subcutaneously administered vaccines. Boostering with intranasal products can precede hospitalization or kenneling when upper respiratory disease is known to be a problem. In some cases the intranasal products can produce postvaccinal upper airway infections in dogs.

References 1.

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Meditiamo sulla tosse nel cane: un aggiornamento sulla tracheobronchite infettiva Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Eziologia ed epidemiologia La tosse dei canili nel cane è una sindrome clinica che riconosce parecchi agenti eziologici, spesso combinati. Studi sperimentali hanno dimostrato che la concomitante infezione da Bordetella e virus della parainfluenza del cane (CPIV-2) provoca una malattia più grave delle infezioni causate dall’uno o dall’altro microrganismo da sole. Inoltre, le infezioni combinate hanno prodotto principalmente una malattia a carico delle vie aeree profonde. La tosse dei canili di solito si risolve spontaneamente. Le infezioni gravi o persistenti sono causate da batteri di irruzione secondaria come Bordetella bronchiseptica.1 Oltre a questi agenti patogeni, numerosi altri virus, come quello del cimurro, l’Adenovirus canino-2, l’Herpesvirus del cane e il Coronavirus respiratorio canino sono stati associati ad epizoozie di tracheobronchite infettiva in questa specie animale.1,2 Benché Bordetella sia l’infezione respiratoria non virale predominante nei cani,3 sono stati individuati anche casi in cui la responsabilità è stata attribuita a Mycoplasma e Chlamydophila. Cani e gatti sono stati infettati da virus influenzali in ogni principale pandemia mondiale nell’ultimo secolo. Ciò risulta evidente dai dati della sieroconversione durante gli episodi epidemici che si diffondono attraverso la popolazione umana. Generalmente, l’infezione di questi animali è asintomatica, benché lievi forme respiratorie siano state osservate in alcune epizoozie in cui si era avuta l’infezione dell’uomo. Nelle più recenti epizoozie di infezione da virus dell’influenza aviaria H5N1 in estremo oriente, diffuse dagli uccelli acquatici, i gatti hanno contratto l’infezione sostenuta dal ceppo aviare. Pochi gatti e cani in oriente o in Europa hanno sviluppato infezioni fatali documentate. Il virus non è parso diffondere oltre questi ospiti terminali venuti a morte e la sua origine era generalmente associata al consumo alimentare di interiora e scarti derivanti da uccelli infetti. Nel 2004 sono state riconosciute delle epizoozie di malattie respiratorie fatali nei levrieri da corsa di molte piste degli Stati Uniti. Le epizoozie erano associate ad elevata morbilità e mortalità ed alla rapida diffusione fra i cani colpiti. È stato identificato un ceppo H3N8 strettamente correlato a quello associato alle epizoozie dell’influenza equina. Il virus si è evoluto a partire dai primi cani infettati e si è rapidamente diffuso attraverso gli animali suscettibili nei canili. La documentazione dell’infezione è stata riscontrata in molti canili di altre razze di tutti gli Stati Uniti. Sfortunatamente, non esiste alcun vaccino efficace. È essenziale garantire tecniche di allevamento e cure appropriate per i cani infetti.

Benché la maggior parte delle infezioni respiratorie primarie del cane sia di origine virale, si possono avere anche forme batteriche conseguenti all’invasione da parte della microflora normale o di specifici agenti patogeni, per effetto della compromissione degli ordinari meccanismi di difesa dell’ospite. Benché, sulla base dei dati sopra riportati, Bordetella bronchiseptica sia l’agente patogeno predominante, le vie aeree superiori dei cani clinicamente sani contengono, dalla punta delle narici all’apertura laringea, molti tipi di batteri aerobi ed anaerobi facoltativi. Il numero ed il tipo dei microrganismi presenta una certa variabilità, ma in generale è possibile effettuare delle previsioni precise. Le malattie sottostanti o la terapia antimicrobica possono alterare questi livelli. Ai batteri viene generalmente impedito di entrare nelle vie aeree profonde; tuttavia, microrganismi che riflettono la composizione delle vie aeree superiori si possono riscontrare, in numero ridotto, lungo l’intero albero tracheobronchiale. Probabilmente vengono aspirati durante la respirazione e l’esercizio fisico. Questi batteri possono complicare l’interpretazione degli esami colturali delle vie aeree e del polmone, e, in alcuni casi, gli esami citologici o istopatologici.

Segni clinici I cani colpiti da infezione delle vie aeree superiori possono essere differenziati da quelli con polmonite, perché i primi non presentano febbre, continuano a mangiare e mostrano scarsi o nulli altri segni sistemici di infezione. Ciò risulta utile per differenziare questi processi dalle cause di polmonite che provocano sia complicazioni febbrili che sistemiche. In quest’ultimo caso, sono consigliate le radiografie del torace.

Diagnosi Come già ricordato, non è necessario ricorrere agli esami ematologici e radiologici, a meno che i cani non stiano manifestando segni di complicazioni sistemiche o a carico delle vie aeree profonde. In questo caso, sarebbe richiesto l’esame emocromocitometrico completo e la radiografia del torace. Qualora quest’ultima dovesse individuare una malattia delle vie aeree profonde, si può ricorrere al lavaggio delle vie aeree per prelevare campioni da destinare agli esami citologici e microbiologici, come indicato più oltre.


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Le anomalie diagnostiche sono rappresentate da leucogramma infiammatorio ed alterazioni della radiopacità toracica. Nei polmoni con polmonite batterica, si osservano quadri alveolari. La conferma prevede il prelievo di campioni mediante lavaggio dalle vie aeree profonde per via transtracheale, endotracheale o endobronchiale. La quantificazione dei batteri ottenuti mediante lavaggio delle vie aeree è essenziale per escludere le contaminazioni. Per escludere dalle possibili ipotesi la contaminazione è necessario rilevare conteggi batterici pari o superiori a 103/ml o la presenza di microrganismi intracellulari.3 Si è anche fatto ricorso all’aspirazione con ago sottile del polmone.4

Trattamento Gli antibiotici sistemici possono venire scelti empiricamente oppure sulla base dei risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi su campioni di liquido di lavaggio transtracheale o endotracheale. Nella polmonite batterica dell’uomo risulta solitamente efficace l’ampicillina. Nel cane si può in genere utilizzare la tetraciclina o il cloramfenicolo se si sospetta un’infezione da Bordetella. Resta ancora da chiarire se gli antibiotici debbano essere utilizzati di routine come “copertura” per le infezioni virali. Nelle infezioni respiratorie, gli antibiotici possono anche essere somministrati mediante aerosol. Lo scopo è quello di ottenere il deposito di grandi quantità di principi attivi potenti all’interno delle vie aeree. Si devono utilizzare farmaci che vengono scarsamente assorbiti dalla mucosa respiratoria. Rientrano fra questi la bacitracina, la neomicina, la kanamicina, la gentamicina e la polimixina. Altri agenti come le penicilline, il cloramfenicolo e la tetraciclina sono ben assorbiti dalla mucosa respiratoria e probabilmente non sono indicati per la terapia mediante aerosol, dal momento che sono altrettanto efficaci per via sistemica. L’aerosolterapia inoltre umidifica le mucose respiratorie e rappresenta una modalità terapeutica desiderabile.

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può avere influito sulla loro efficacia e sugli effetti collaterali. La maggior parte di questi farmaci è costituita da un estratto antigenico purificato ottenuto dalla cellula batterica. Questa modificazione consente una ridotta reazione allergica locale in seguito all’iniezione e la vaccinazione può iniziare all’età di 6 settimane e risulta sicura anche negli animali gravidi. Si raccomanda di trattare i pazienti con almeno due dosi, a 2-4 settimane di distanza. I vaccini intranasali per la tracheobronchite determinano una produzione di anticorpi secretori più rapida ed efficace rispetto ai prodotti paraenterali inattivati.5 A differenza di questi ultimi, possono conferire una protezione entro un breve intervallo di tempo da una singola somministrazione. Gli studi condotti dimostrano che una combinazione di vaccini intranasali e paraenterali IM assicura un’immunità migliore di quella che si ottiene con l’uno o l’altro prodotto da solo; tuttavia, il vaccino IM utilizzato in questi studi non è attualmente commercializzato. In generale, i vaccini intranasali si sono dimostrati in grado di produrre una protezione più rapida e persistente nei confronti dell’infezione rispetto a quelli somministrati per via sottocutanea. Il richiamo con prodotti intranasali può precedere l’ospedalizzazione o il ricovero nei canili nei casi in cui è noto che una malattia delle vie aeree superiori costituisce un problema. In alcuni casi, i prodotti intranasali possono determinare delle infezioni postvaccinali delle vie aeree superiori nel cane.

Bibliografia 1.

2.

3.

4.

Prevenzione Il lipopolisaccaride (LPS) è stato responsabile delle reazioni allergiche prodotte da alcune delle prime batterine paraenterali per la bordetellosi.4 I vari produttori hanno utilizzato diversi metodi per eliminarlo da questi prodotti e ciò

5.

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Dreaded doggie diarrhea: canine viral enteritis revisited Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Canine Parvovirus (CPV-2) Infection Studies on pound dogs, family dogs, and samples submitted to state diagnostic laboratories have shown that parvoviral diarrhea is more severe and prevalent than all other cause of viral diarrhea. Bloody diarrhea, fever, leukopenia and death are much more likely to be associated with parvoviral diarrhea than coronaviral or parasitic diarrheas. The fecal antibody tests measure viral antigen in the feces. Modifiedlive canine vaccine strains shed in the feces and can cause weak positive reactions in some situations. Viral antigen stool....There are limitations for detecting virus particles in the feces of diseased animals. This appears very early in the course of infection and can disappear after 4 to 5 days of clinical illness causing false-negative results. Large amounts of viral particles are most significant and occur very early in association with clinical signs. Lower levels of vaccine antigen will occur in stool causing false-positive results. Extremely small numbers of particles are shed by dogs in contaminated environments. What methods might be too sensitive to use for diagnosis in detection of parvovirus? Treatment varies in the disease according to the severity of clinical illness (eg. watery vs bloody, leukopenia, etc) Studies on pound dogs, family dogs and samples submitted to diagnostic labs have shown that parvoviral diarrhea is more severe and more prevalent than all other forms of viral diarrhea. Bloody diarrhea, fever, leukopenia and death are much more likely to be associated with parvovirus diarrhea. Animals with such symptoms will be treated differently than those with milder watery diarrhea. Blood and protein loss requires transfusions with blood or plasma. Antimicrobials must be used when hemorrhage and necrosis indicates transmucosal bowel damage. Studies on treatment of canine parvovirus infection have shown that passively administered virus-specific antisera has been effective in reducing the severity of infection. Furthermore, treatment with high dose interferon omega has also shown benefit in reducing the clinical severity and mortality. Around 1996, vaccine manufacturers introduced potentiated products in the United States. These were: high titer, lower passage vaccines which are now in use by most major manufacturers. They provide protection as early as 12 weeks of age in most puppies. Vaccines available through other sources and over the counter may still contain conventional parvoviral antigen. Initially conventional vaccines were claimed to break through maternal immunity as early as 6 weeks of age. However, the titers of pups the litters protect-

ed by such vaccination programs were low. For this reason, a complete series, with vaccines were given every three weeks until the dogs were 16 weeks old, has been recommended. With some breeds, veterinarians were continuing out to 18 weeks of age. These breeds include Dobermans, Rottweilers, (some studies also suggest increased susceptibility for English springers, Dalmatians, Siberian huskies, German shepherds, Labradors, and greyhounds). Conventional products are still sold at feed stores and in catalogs. A shifting of antigenic determinants and genetic composition of canine parvovirus has taken place at least twice. Cross-protection still exists between the old strains in the vaccine and the new field strains. Vaccine breaks that occur in dogs that seemingly went through a “good” vaccine schedule are probably accounted for by maternal antibody blockade. Increased virulence of the new parvoviral strains might explain more severe illness that is detected in some dogs that become infected. Most of the current isolates are of the CPV-2b variety. Some manufacturers have products containing newer parvoviral strains (CPV-2b). The CPV-2b strain may infect cats. What relationship this has to the resurgence of FPV is uncertain.

Canine Parvovirus-1 CPV-1 outbreaks have been associated with neonatal or in utero mortality and may be responsible for diarrhea and reported vaccine breaks in young pups (≤ 6 weeks). CPV-2 immunodiagnostic tests do not cross-react with CPV-2. Since the CPV-1 disease looks grossly and microscopically like CPV-2 infection, cultural diagnosis is impractical but essential to separate them.

Canine Coronaviral Infection Infection with CCV is less severe than that with canine parvovirus (CPV). Viremia and generalized tissue infections seen with CPV are not found with CCV infection because the latter infection is localized to the intestinal tract. Nevertheless, CCV infection can increase the severity of that seen with CPV infection alone. Most recently, a more virulent disease-producing strain of canine enteric coronavirus has been reported. More severe morbidity, and in some cases mortality, has been reported. There are several products licensed for protection against canine coronavirus (CCV)


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infection. These are inactivated strain vaccines, and there is one modified-live product. Further work needs to be done to see if these vaccines protect against the more virulent strains of enteric coronavirus which have originated worldwide. It is recommended that at least 2 vaccines be given at an interval of 2 to 3 weeks, beginning at 6-8 weeks of age. However, puppies <12 weeks of age should be given an additional dose between 12 and 16 weeks of age. There are few adverse reactions with these products and they do not interfere with other biologics. Combinations of inactivated coronavirus vaccine with leptospirosis fraction have resulted in increased allergenicity. This has been overcome by reducing excessive protein fractions in the leptospirosis bacterins. Still combination of leptospiral and inactivated coronaviral vaccines in the youngest of pups may potentiate allergic reactions. I do not recommend this combination in pups less than 9 weeks unless the MLV coronaviral vaccine is used. Although duration of immunity to challenge with CCV has not been established for longer than 2 to 3 weeks, protection is probably of longer duration. During challenge studies, vaccinates had reduced intensity of viral replication

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in their intestinal epithelial cells. Because of the additional cost to clients for coronaviral protection, vaccination may not be recommended routinely but rather when clients desire all possible disease prevention in areas where endemics occur with CCV. If the vaccines are shown to protect against the new virulent strains, then more widespread and routine vaccination will be recommended.

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La diarrea nel cane di cui aver paura: l’enterite virale canina da un punto di vista diverso Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Infezione da Parvovirus canino (CPV-2) Gli studi condotti su cani tenuti in canili ed in famiglia e su campioni inviati ai laboratori diagnostici statali hanno dimostrato che la diarrea da Parvovirus è più grave e prevalente di tutte le altre cause di diarrea virale. Diarrea emorragica, febbre, leucopenia e morte hanno molte più probabilità di essere associate alla diarrea da Parvovirus che a quella da coronavirus o parassiti. I test anticorpali fecali misurano il livello dell’antigene virale nelle feci. I ceppi vaccinali vivi modificati nel cane vengono eliminati attraverso queste ultime e possono causare deboli reazioni positive in alcune situazioni. Antigene virale – feci… esistono dei limiti per individuare le particelle virali nelle feci degli animali malati. Ciò avviene molto precocemente nel decorso dell’infezione e può scomparire dopo 4-5 giorni di malattia clinica, determinando risultati falsi negativi. Il riscontro di grandi quantità di particelle virali è più significativo e si verifica molto precocemente in associazione con i segni clinici. Livelli più bassi di antigene vaccinale compaiono nelle feci causando risultati falsi positivi. Un numero estremamente ridotto di particelle virali viene eliminato dai cani negli ambienti contaminati.Quali metodi potrebbero essere troppo sensibili da utilizzare per la diagnosi nell’identificazione del parvovirus? Il trattamento varia in funzione della malattia a seconda della gravità delle manifestazioni cliniche (ad es., diarrea acquosa o emorragica, leucopenia, ecc…). Gli studi condotti su cani tenuti in canili ed in famiglia e su campioni inviati ai laboratori diagnostici hanno dimostrato che la diarrea da Parvovirus è più grave e più prevalente di tutte le altre forme di diarrea virale. Diarrea emorragica, febbre, leucopenia e morte hanno molte più probabilità di essere associate alla diarrea da Parvovirus. Gli animali che mostrano questi segni clinici saranno trattati in modo differente da quelli colpiti da una diarrea acquosa più lieve. Le perdite di sangue e proteine richiedono trasfusioni di sangue o plasma. Quando l’emorragia e la necrosi indicano un danno che ha attraversato la mucosa intestinale, si devono utilizzare gli agenti antimicrobici. Gli studi condotti sul trattamento dell’infezione da Parvovirus canino hanno dimostrato che gli antisieri virus-specifici somministrati passivamente sono risultati efficaci per ridurre la gravità dell’infezione. Inoltre, anche il trattamento con alte dosi di omega-interferon si è dimostrato utile per ridurre la gravità clinica e la mortalità. Intorno a 1996, sono stati immessi sul mercato negli Stati Uniti dei prodotti vac-

cinali potenziati. Si trattava di vaccini a titolo elevato e minore passaggio che sono oggi in uso presso la maggior parte dei principali produttori. Questi conferiscono una protezione già a 12 settimane di età nella maggior parte dei cuccioli. I vaccini disponibili attraverso altre fonti e come prodotti da banco possono ancora contenere l’antigene parvovirale convenzionale. Inizialmente, è stato affermato che i vaccini convenzionali superassero l’immunità materna già a partire da 6 settimane di vita. Tuttavia, i titoli riscontrati negli animali delle cucciolate protette da questo programma di vaccinazione erano bassi. Per questa ragione, è stata raccomandato un protocollo di immunizzazione completo, con vaccini somministrati ogni tre settimane fino a che l’animale non raggiungeva le sedici settimane di vita. Per alcune razze, i veterinari continuavano fino a 18 settimane di vita. Queste razze erano rappresentate da Dobermann e rottweiler (alcuni studi hanno anche suggerito un aumento della suscettibilità per english springer spaniel, dalmata, Siberian husky, Labrador, pastore tedesco e levrieri). I prodotto convenzionali sono ancora venduti presso negozi di mangimi e nei cataloghi. Uno spostamento dei determinanti antigenici e della composizione genetica del Parvovirus nel cane si è verificato almeno due volte. Esiste ancora una protezione crociata fra i ceppi vecchi nel vaccino e quelli nuovi di campo. Le rotture vaccinali che si verificano nei cani che sembrano essere stati sottoposti ad un “buon” programma vaccinale sono probabilmente spiegate dal blocco determinato dagli anticorpi materni. L’aumento della virulenza dei nuovi ceppi di Parvovirus può spiegare la malattia più grave che viene individuata in alcuni cani che contraggono l’infezione. La maggior parte degli attuali isolati appartiene alla varietà CPV-2b. Alcuni produttori commercializzano vaccini contenenti ceppi parvovirali più recenti (CPV-2b). Il ceppo CPV-2b può infettare il gatto. Che relazione abbia questo con la recrudescenza di FPV non è chiaro.

Parvovirus canino-1 Le epizoozie di CPV-1 sono state associate a mortalità neonatale o in utero e possono essere responsabili di diarrea e delle rotture vaccinali segnalate nei cuccioli giovani (≤ 6 settimane). I test immunodiagnostici per CPV-1 non danno origine a reazioni crociate con CPV-2. Dal momento che la malattia da CPV-1 si presenta macroscopicamente e microscopicamente come l’infezione da CPV-2, per distinguere le


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due condizioni è essenziale, pur essendo poco pratica, la diagnosi colturale.

Infezione da coronavirus nel cane L’infezione da CCV è meno grave di quella da parvovirus canino (CPV). La viremia e le infezioni tissutali generalizzate osservate in caso di CPV non si riscontrano nell’infezione da CCV perché quest’ultima è localizzata al tratto intestinale. Ciò nonostante, l’infezione da CCV può aumentare la gravità di quella che si osserva con la sola infezione da CPV. Più recentemente, è stato segnalato un ceppo più virulento del Coronavirus enterico canino, capace di causare malattia. Sono stati descritti una morbilità ed in alcuni casi una mortalità, più gravi. Ci sono diversi prodotti registrati per la protezione dall’infezione da Coronavirus canino (CCV). Si tratta di vaccini costituiti da ceppi inattivati e ne esiste uno a virus vivo modificato. Per vedere se questi vaccini proteggano dai ceppi più virulenti del Coronavirus enterico che hanno avuto origine in tutto il mondo saranno necessari ulteriori lavori. Si raccomanda di praticare come minimo due vaccinazioni ad un intervallo di 2-3 settimane, a partire dall’età di 6-8 settimane. Tuttavia, ai cuccioli con meno di 12 settimane di vita si deve somministrare una dose aggiuntiva fra le 12 e le 16 settimane di età. Vi sono poche reazioni avverse a questi prodotti, che non interferiscono con altri agenti biologici. Le combinazioni del vaccino a Coronavirus inattivato con la frazione della leptospirosi hanno portato ad un aumento dell’allergenicità. Questo problema è stato superato riducendo le eccessive frazioni proteiche nelle batterine della leptospirosi. Tuttavia, la combinazione di

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vaccini antileptospirosi ed anticoronavirus inattivati nei cuccioli più giovani possono potenziare le reazioni allergiche. Personalmente, non raccomando questa combinazione nei cuccioli con meno di 9 settimane di età, a meno che non si utilizzi il vaccino anticoronavirus a virus vivo modificato. Benché la durata dell’immunità nei confronti della provocazione da CCV non sia stata stabilita per più di 2-3 settimane, la protezione ha probabilmente una durata maggiore. Durante gli studi di provocazione, gli animali vaccinati hanno presentato una riduzione dell’intensità della replicazione virale nelle loro cellule epiteliali intestinali. A causa del costo aggiuntivo per i clienti derivante dalla protezione anticoronavirus, la vaccinazione può non essere raccomandata come procedura di routine, ma piuttosto come intervento da attuare quando i clienti desiderano tutta la protezione possibile nei confronti della malattia nelle aree in cui il CCV risulta endemico. Se sarà dimostrato che i vaccini proteggono dai nuovi ceppi virulenti, verrà raccomandata una vaccinazione più diffusa e di routine.

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Canine distemper: what’s new in treatment and prevention Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Distemper is caused by a paramyxovirus that causes a severe multisystemic fatal disease including respiratory, enteric and CNS signs. It is closely related to measles virus and a number of other multisystemic severe diseases of animals such as herbivores, pinnipeds, and cetaceans. In recent years, outbreaks of distemper have occurred where these marine mammals have contacted dogs living in isolation or having a lapse in their vaccination boosters. As a multisystemic disease, CDV must spread to many tissues as the course of infection. Serum antibody is protective against viral spread and the level at the time of infection is critical in determining the course of illness. 1 Systemic spread can infect epithelial tissues causing severe multisystemic illness and this occurs with the lowest level of immunity. During the systemic spread, virus can enter the CNS when there is no protection or partial protection by serum antibody. CNS infection occurs after this systemic illness; however the course of infection within the CNS can either be directly caused by the virus or be a result of the body’s immune response to the presence of virus. In the latter case, dogs have an intermediate level of immunity, and the subsequent involvement of the CNS can develop months to years later. Dogs with the lowest level of immunity develop no illness or mild signs compatible with tracheobronchitis. The clinical signs of systemic CDV infection usually precede the development of neurologic signs. Respiratory signs can involve both the lower and upper respiratory tract. However, neurologic signs can occur in the absence of other systemic manifestations. Old dog encephalitis is a chronic persistent form of latent CDV in the CNS. For diagnosis, clinical suspicion is the usual means of detecting infected dogs. Although the multisystemic disease is easy to recognize, the neurologic form can be more difficult. Clinical pathologic changes include erythrocyte inclusions and a mononuclear CSF cytology. Radiography of the thorax will show viral pneumonia with secondary bacterial infection. Immunocytological methods can be used to detect virus within various tissues. Immunocytology should be done, only in the acute phases of illness. The direct method can be used to examine scrapings of conjunctiva, tissues, blood, CSF, or urine. This test is not as sensitive as ELISA or PCR and a negative does not eliminate the disease from consideration. However, a positive test result usually reflects large amounts of virus which can be more likely correlated with infection. Unfortunately false-positive results may be obtained because of nonspecific fluorescence. It is important to understand the timing of direct immunofluorescence for

antigen in confirming infection. Acute infections are within 1 week and have epithelial signs. Chronic persistent infections are considered to last longer than week however the persistence is hidden only in nervous and ocular tissues (rarely lung and foot pad). This particular hidden infection is not eliminated by systemic antibody response. Serologic detection of antibody titers can be helpful for determining the possibility of infection. Rising IgG titers or IgM single titers are considered for systemic disease (timing for antibody determinations is later than antigen in immunocytology). Therefore for acute disease, a single IgM or paired IgG titer can be used to detect recent or active infection. The antibody titers are also protective and can be used to measure seroprotection when the appropriate type of test is used. For CNS infections a comparison is made between serum verses CSF IgG. Using this and another titer or measure an antibody index or ratio can be calculated. It is ideal to compare this ration with another tested antigen. PCR has been used to detect viral genome in tissues and body fluids. The results would seem promising for diagnosis of CNS distemper when the virus can be found in body tissues or fluids. Unfortunately, further controlled studies are needed with quantitative PCR to determine if this method can be accurate. Low levels of virus in contact dogs, those recovering from mild infections, or those vaccinated might lead to false-positive results. There are some important and unique features of distemper vaccination which may alter the vaccination protocol. Elevated rectal temperature has an effect on the immune response as 103.6oF rectal temperatures suppress the antibody titer. Distemper vaccines can also be given in the face of an outbreak to dogs that either have a lapse in their immunity or have been exposed and were not adequately immunized. Parenteral administration of vaccine can thwart canine distemper that is incubating within 4 days of exposure. It is important to remember that we are concerned with exposure and not clinical illness! Vaccinations for distemper in puppies are usually started at 6 to 8 weeks of age. At this age a minimum of at least 3 vaccinations, 3 to 4 weeks apart should be given, followed by a yearly booster. If an animal presents at an older age they still need at least 2 distemper vaccines for solid primary immunity if no other vaccines have been given. Duration of immunity has been lengthened in recent years. This is due to the concern of over vaccination causing potential side effects and from studies showing protective immune responses to distemper for at least 3 years.


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Vaccination with MLV CDV vaccine provides the greatest chance for postvaccinal disease of any canine biologic. Concurrent diseases or immunosuppression and canine distemper vaccination pose the potential problem of postvaccinal canine distemper encephalitis. Post vaccinal systemic disease such as HOD has also been observed in some breeds. These vaccine reactions may be strain dependent. Attempts to use inactivated distemper vaccines in the past have failed. Onset and duration of immunity has been limited with inactivated products. A recombinant distemper vaccine (Recombitek, Merial) is now available consisting of a canary pox vector. It has been developed because of potential vaccine-induced illnesses that can occur with MLV products. Current MLV strains of CDV vaccine are Rockborn, Snyder Hill, Onderstepoort. The Rockborn is the most immunogenic but has a risk of postvaccinal disease. Most companies in the USA have discontinued their use because of the greater risk of vaccine-induced complications. Onderstepoort strains are intermediate potency. Challenge infections have shown that immunity to distemper can last for at least 3 years. The recombinant vaccine is safe from vaccineinduced disease. It seems to provide protection equal to that of the Onderstepoort strains.

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Immunity to canine distemper can be effectively determined with measurement of serum antibody titers.2- 4 Canine distemper virus vaccines generally provide adequate protection against disease; however, the possibility for vaccine failure exists as a result of the level of maternal antibody, concurrent immunosuppression. Outbreaks of canine distemper have occurred where lapses in periodic vaccination have occurred. Furthermore, wildlife reservoirs have been important in spreading the virus to susceptible dogs.

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Cimurro nel cane: cosa c’è di nuovo nel trattamento e nella prevenzione Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Il cimurro è causato da un Paramyxovirus (CDV) che provoca una grave malattia fatale multisistemica con segni clinici respiratori, enterici e neurologici (SNC). È strettamente correlato al virus del morbillo ed a numerose altre gravi malattie multisistemiche di animali come erbivori, pinnipedi e cetacei. In anni recenti, si sono verificate epizoozie di cimurro in cui questi mammiferi marini sono venuti a contatto con cani che vivevano in isolamento o non erano stati sottoposti ai regolari richiami vaccinali. Essendo una malattia multisistemica, il cimurro deve diffondersi a molti tessuti durante il decorso dell’infezione. Gli anticorpi sierici sono protettivi nei confronti della diffusione del virus e il loro livello al momento dell’infezione risulta di importanza critica per determinare il decorso della malattia.1 La diffusione sistemica può infettare i tessuti epiteliali causando una grave malattia multisistemica e ciò avviene con il livello di immunità più basso. Durante la diffusione sistemica, il virus può penetrare nel SNC, quando la protezione da parte degli anticorpi sierici è del tutto assente o solo parziale. L’infezione del SNC si verifica in seguito a questa malattia sistemica; tuttavia, il decorso dell’infezione all’interno del SNC può essere direttamente causato dal virus oppure essere una conseguenza della risposta immunitaria dell’organismo alla presenza del virus stesso. In quest’ultimo caso, i cani mostrano un livello intermedio di immunità ed il successivo coinvolgimento del SNC può insorgere a distanza di mesi o anni. I cani con il livello di immunità più basso non sviluppano alcuna malattia o lievi segni clinici compatibili con una tracheobronchite. I segni clinici dell’infezione sistemica da CVD di solito precedono lo sviluppo di quelli neurologici. Le manifestazioni respiratorie possono coinvolgere sia le vie aeree superiori che quelle inferiori. Invece, i segni neurologici possono insorgere in assenza di altre manifestazioni sistemiche. L’encefalite del cane vecchio è una forma cronica e persistente di CVD latente nel SNC. Per la diagnosi, il sospetto clinico è di solito il mezzo per individuare i cani infetti. Mentre la malattia multisistemica è facile da riconoscere, la forma neurologica può essere più difficile. Le alterazioni clinicopatologiche sono rappresentate da inclusioni eritrocitarie e quadri mononucleari all’esame citologico del liquor. La radiografia del torace evidenzia una polmonite virale con infezione batterica secondaria. Per individuare il virus all’interno di vari tessuti possono venire utilizzati metodi immunocitologici. L’immunocitologia va attuata soltanto nella fase acuta della malattia. Si può impiegare solto il metodo diretto per esaminare raschiati congiun-

tivali, tessuti, sangue, liquor o urina. Questo test non è sensibile quanto l’ELISA o la PCR ed un esito negativo non permette di escludere la malattia dalle possibili diagnosi differenziali. Invece, un suo esito risultato positivo di solito riflette la presenza di grandi quantità di virus, che possono essere più probabilmente correlate all’infezione. Sfortunatamente, si possono ottenere risultati falsi positivi a causa di una fluorescenza aspecifica. È importante conoscere l’andamento temporale dell’immunofluorescenza diretta per l’antigene ai fini della conferma dell’infezione. Le infezioni acute si verificano entro una settimana e sono caratterizzate da segni epiteliali. Si ritiene che quelle croniche persistenti durino più a lungo di una settimana, tuttavia la persistenza è occulta, presente soltanto nei tessuti nervosi ed oculari (in vari casi, nel polmone e nei cuscinetti plantari). Questa particolare infezione occulta non viene eliminata dalla risposta anticorpale sistemica. L’individuazione sierologica dei titoli anticorpali può risultare utile per determinare la possibilità di infezione. Per la malattia sistemica viene considerato l’innalzamento dei titoli IgG o dei singoli titoli IgM (il momento della determinazione anticorpale è più tardivo dell’antigene nell’immunocitologia). Di conseguenza, per la malattia acuta si può utilizzare un singolo titolo IgM o una sieroconversione delle IgG per individuare un’infezione recente o in atto. I titoli anticorpali sono anche protettivi e possono essere usati per individuare la sieroprotezione quando ci si serve del tipo appropriato di test. Per le infezioni del SNC, si effettua un confronto fra i livelli di IgG nel siero e nel liquor. Utilizzando questo e un altro titolo o misura è possibile calcolare un indice o rapporto anticorpale. L’ideale è confrontare questo rapporto con un altro antigene testato. Per individuare il genoma virale nei tessuti e nei liquidi organici è stata impiegata la PCR. I risultati sembrerebbero promettenti per la diagnosi del cimurro del SNC quando il virus può venire riscontrato nei tessuti o nei fluidi corporei. Sfortunatamente, saranno necessari ulteriori studi controllati con la PCR quantitativa per determinare se questo metodo possa essere accurato. Bassi livelli di virus nei cani a contatto con quelli vecchi, in quelli guariti da infezioni lievi o in quelli vaccinati possono portare a risultati falsi positivi. Esistono alcune caratteristiche importanti ed esclusive della vaccinazione anticimurro che possono alterare il protocollo vaccinale. L’elevata temperatura rettale ha un effetto sulla risposta immunitaria, dato che valori di 39,5°C sopprimono il titolo anticorpale. I vaccini anticimurro possono anche venire somministrati in presenza di una epizoozia nei


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cani che presentano una rottura dell’immunità o sono stati esposti e non erano adeguatamente immunizzati. La somministrazione per via paraenterale del vaccino può contrastare il cimurro canino che è in via di incubazione entro 4 giorni dall’esposizione. È importante ricordare che ci preoccupa l’esposizione e non la malattia clinica! Le vaccinazioni per il cimurro nei cuccioli vengono di solito iniziate all’età di 68 settimane. A questa età, si devono praticare come minimo tre vaccinazioni, a 3-4 settimane di distanza, seguite da un richiamo annuale: se un animale viene portato alla visita ad un’età più avanzata, è ancora necessario effettuare almeno due vaccinazioni anticimurro per garantire una solida immunità primaria se non sono state praticate altre vaccinazioni. La durata dell’immunità si è allungata negli ultimi anni. Ciò è dovuto alla preoccupazione della sovravaccinazione, che può causare potenziali effetti collaterali, ed agli studi che dimostrano risposte immunitarie protettive nei confronti del cimurro per almeno tre anni. La vaccinazione con vaccini anti-CVD a virus vivo modificato comporta la più elevata probabilità di malattia postvaccinale fra tutti gli agenti biologici canini. Le concomitanti malattie o immunosoppressione e la vaccinazione anticimurro del cane pongono il potenziale problema dell’encefalite da cimurro postvaccinale. In alcune razze è stata anche osservata una malattia sistemica postvaccinale come la osteodistrofia ipertrofica (HOD). Queste reazioni vaccinali possono essere dipendenti dal ceppo. I tentativi di utilizzare vaccini anticimurro inattivati in passato sono falliti. L’insorgenza e la durata dell’immunità sono state limitate con i prodotti inattivati. Oggi è disponibile un vaccino anticimurro ricombinante (Recombitek, Merial) che utilizza un vettore del vaiolo del canarino. È stato sviluppato a causa delle potenziali malattie vaccino-indotte che si possono verificare con i prodotti a virus vivo modificato. Gli attuali ceppi vivi modificati del vaccino anticimurro sono Rockborn, Snyder Hill, Ondersterpoort. Il Rockborn è

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quello più immunogeno, ma comporta un rischio di malattia postvaccinale. La maggior parte delle compagnie degli USA ne ha sospeso l’uso a causa del rischio più elevato di complicazioni da vaccinazione. I ceppi Ondersterpoort hanno una potenza intermedia. Le infezioni di provocazione hanno dimostrato che l’immunità nei confronti del cimurro può durare per un periodo minimo di tre anni. Il vaccino ricombinante è sicuro per quanto riguarda il rischio di malattia vaccino-indotta. Sembra conferire una protezione uguale a quella dei ceppi Ondersterpoort. L’immunità nei confronti del cimurro del cane può venire efficacemente determinata con la misurazione dei titoli anticorpali sierici.2-4 I vaccini anti-virus del cimurro del cane generalmente conferiscono una protezione adeguata nei confronti della malattia; tuttavia, esiste la possibilità di un insuccesso vaccinale come conseguenza del livello di anticorpi materni, con immunosoppressione concomitante. Si sono verificare delle epizoozie di cimurro in casi cui si erano avute delle interruzioni della vaccinazione periodica. Inoltre, i serbatoi selvatici sono risultati importanti per la diffusione del virus a cani suscettibili.

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Gram positive bacterial infections of dogs and cats: zoonotic implications Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Introduction Microfloral organisms that inhabit the skin and mucosal surfaces of dogs have been associated with human infections. In addition to pathogenic strains, antimicrobial resistant bacteria have been of most concern. Immune-compromised people have the greatest risk for these infections. Immune deficient people own pets at the same prevalence rate as the general population. People with medical disabilities are often socially isolated, and pets offer them various psychological benefits including companionship and a feeling of self-worth. Immune compromised people should not eliminate their pets but should take appropriate precautions to avoid possible disease transmission. The spread of pathogenic organisms from pets to people is actually less of a problem than the spread of infectious agents between people. In summary, with appropriate hygienic measures, pets pose minimal health risk.

Bite or Scratch Infections Dog bite wounds are the most common pet-associated microbial zoonosis. The infecting organism in bite or scratch injuries usually corresponds to the normal oral microflora. When present, anaerobic bacteria are usually isolated in mixed cultures. P. multocida is uncommonly transferred by dogs as compared to cats. However, Capnocytophaga canimorsus is probably the most pathogenic organism from canine bites. It can cause severe sepsis in immunocompromised people. Veterinarians should be aware of emergency protocols for medical care of bite wounds in people. Thorough washing of all bite wounds and scratches with quaternary ammonium soaps and water is essential. Although physicians handle the bitten human, Antimicrobial therapy with a penicillin derivative has been recommended for all penetrating bite injuries, even though studies have questioned routine prophylaxis. For DF-2, penicillins such as ampicillin (amoxicillin) should be used as a first choice.

streptococci have been cultured from pets in households where streptococcal-throat infections are present in people. Genetic or immunologic testing for streptococcal strains has not always been done when these claims have been made. Rather, the supposition has been made that pets are reinfecting children. Despite this concern, Group A streptococcal infections are most likely an inverse zoonosis. No clinical signs are evident in pets harboring Group A streptococci. Diagnosis is made with dry swab culture of the tonsillar region. Therapy includes penicillins and the response to treatment may be improved with clavulanic acid added. Erythromycin can be considered as an alternative drug but it is associated with more gastrointestinal side effects. First generation cephalosporins are similarly effective and less toxic. Group G organisms have been responsible for Streptococcal toxic shock syndrome STSS) and necrotizing fasciitis (NF) in dogs. A similar “flesh-eating� bacterial infection of people has been discussed in the popular media and is caused by corresponding group A organisms. Transmission of these virulent streptococcal strains between people and dogs is possible but these organisms generally have host species adaptation. In dogs, most cases involve previously healthy adult, dogs. A history of mild trauma, bite wounds, or respiratory or urinary tract disease has been apparent. In a majority, treatment with fluroquinolones has been used. High fever has been a characteristic feature. Severe, rapidly developing cellulitis, usually of a limb develops. In association the animals exhibit intense pain which may become generalized. Chains of streptococci would be readily demonstrated in fluid aspirated from the cellulitis or in underlying tissues by histopathology. Dogs develop septic shock and have extensive exudate accumulation along fascial planes and fascia that requires surgical debridement. Dogs with extensive swelling that develop shock often die while those with more localized NF may survive. All dogs had full thickness skin sloughs and required debridement of necrotic tissue, appropriate antibiotic treatment and intensive supportive fluid therapy. Indicated antibiotics are penicillin G, aminopenicillins (ampicillin, amoxicillin), erythromycin or clindamycin. The latter drug has been most effective in people with this condition.

Streptococcal Infections Staphylococcal Infections Group G streptococci are the predominant cause of streptococcal infections of dogs, while Group A are the major cause of human infections. A higher percentage of group A

Staphylococcus intermedius has also been associated with some cases of cellulitis and toxic shock in dogs. S schleiferi


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another staphylococcal species has been isolated from increasing numbers of cases of canine pyoderma. It has been more commonly associated with antimicrobial drug resistance (methicillin and fluoroquinolone) as have an increasing number of methicillin-resistant S. aureus infections. The latter organism is believed to have been acquired from human contact as seen below. As with streptococci, staphylococci can produce bacterial exotoxins that behave as superantigens to T cells causing massive inflammatory responses. The disease is similar to toxic shock involving group G streptococci described above. In one documented case the dog had cellulitis with marked swelling and dermal inflammation. DIC and septic shock was associated with the dog’s death. Staphylococci have also been transmitted among hospital patients by visiting animals when hand washing precautions were not practiced.

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patients in the hospital can become contaminated by veterinary health care workers that are carrying these organisms. For further information on animal staphylococcal infections transmitted to people, see Staphylococcal Infections, above. Household pets may also become infected with bacterial isolates from the genitourinary tract of people. E. coli from women with urinary tract infections were compared with those isolated from dog fecal specimens. Antibacterial resistance was more common in fecal microflora of dogs from households where women had urinary tract infections than from fecal isolates from dogs in households with healthy humans and no concurrent antibacterial use. This suggests dog fecal strains might acquire resistance from human bacterial flora; however further direct documentation is needed.

References Methicillin-Resistant Staphylococcal Infections Methicillin-resistant strains of Staphylococcus aureus (MRSA) are usually harbored by people, especially medical health care workers. They inadvertently transmit the infection to hospitalized human patients. Similarly, veterinary

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Infezioni da batteri Gram positivi nel cane e nel gatto: implicazioni zoonosiche Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Introduzione

Infezioni da Streptococco

I microrganismi della microflora che alberga sulla cute e sulle mucose del cane sono stati associati ad infezioni nell’uomo. In aggiunta ai ceppi patogeni, il maggior motivo di preoccupazione è stato rappresentato dai batteri resistenti agli agenti antimicrobici. La popolazione umana immunocompromessa è quella più esposta al rischio di queste infezioni. La prevalenza del possesso di animali da compagnia fra le persone immunodeficienti è pari a quella riscontrata nella popolazione complessiva. Le persone con invalidità di natura medica sono spesso socialmente isolate e gli animali offrono loro vari benefici psicologici come la compagnia e la sensazione di valere qualcosa. La popolazione immunocompromessa non deve eliminare i propri animali, ma adottare le precauzioni appropriate per evitare la possibile trasmissione di malattia. La diffusione dei microrganismi patogeni dagli animali da compagnia alla popolazione umana è in realtà un problema minore di quella degli agenti infettivi fra esseri umani. Riassumendo, con le misure igieniche appropriate, il rischio sanitario determinato dagli animali da compagnia è minimo.

Gli Streptococchi del gruppo G sono la causa predominante delle infezioni streptococciche del cane, mentre quelle del gruppo A sono le principali responsabili di infezione nell’uomo. Una percentuale più elevata di Streptococchi del gruppo A è stata isolata in coltura dagli animali da compagnia che vivono in nuclei familiari in cui nella popolazione umana sono presenti infezioni della gola da Streptococco. Nei casi in cui sono state formulate queste affermazioni non sempre sono stati effettuati i test genetici o immunologici per individuare i ceppi streptococcici. Piuttosto, è stata fatta la supposizione che gli animali stessero reinfettando i bambini. Nonostante questo tipo di preoccupazione, le infezioni da Streptococchi del gruppo A sono più probabilmente una zoonosi inversa. Negli animali da compagnia che ospitano Streptococchi del gruppo A non sono evidenti segni clinici. La diagnosi viene formulata sulla base della coltura di un tampone asciutto prelevato dalla regione tonsillare. La terapia comprende la somministrazione di penicillina e la risposta al trattamento può essere migliorata con l’aggiunta di acido clavulanico. L’eritromicina può essere considerata un farmaco alternativo, che però è associato a maggiori effetti collaterali di tipo gastroenterico. Le cefalosporine di prima generazione hanno un’efficacia simile e sono meno tossiche. Nel cane, i microrganismi del gruppo G sono stati responsabili della sindrome da shock tossico streptococcico (STSS, Streptococcal toxic shock syndrome) e della fascite necrotizzante (NF). I mezzi di comunicazione popolari hanno parlato diffusamente di un’analoga infezione batterica “divora carne” nella popolazione umana, che è causata da corrispondenti microrganismi del gruppo A. La trasmissione di questi ceppi streptococcici virulenti tra popolazione umana e canina è possibile, ma questi microrganismi generalmente presentano un adattamento di specie all’ospite. Nel cane, la maggior parte dei casi colpisce soggetti adulti precedentemente sani. È stato riscontrato il riferimento anamnestico ad un trauma lieve, ferite da morso o malattie respiratorie o del tratto urinario. In una maggioranza di casi, è stato utilizzato un trattamento con fluorochinoloni. Una delle caratteristiche tipiche è stata la febbre elevata. Insorge una grave cellulite a rapido sviluppo, solitamente a carico di un arto. Inoltre, l’animale manifesta un intenso dolore che può diventare generalizzato. Nei fluidi aspirati dalla cellulite o nei tessuti sottostanti, mediante esame istopatologico, è possibile dimostrare facilmente la presenza di catene di Streptococchi. I cani sviluppano shock settico e presentano lungo i piani

Infezioni da morso o da graffio Le ferite da morso di cani sono fra le più comuni zoonosi microbiche associate agli animali da compagnia. Il microrganismo infettante presente nelle lesioni da morso o da graffio di solito corrisponde alla microflora orale normale. Quando sono presenti, i batteri anaerobi vengono solitamente isolati in colture miste. Nel cane, in confronto al gatto, la frequenza di trasmissione di P. multocida è scarsa. Invece, Capnocytophaga canimorsus è probabilmente il microrganismo più patogeno da morso di cane. Può causare una grave sepsi nella popolazione umana immunocompromessa. I veterinari devono essere consapevoli dei protocolli di emergenza per la terapia medica delle ferite da morso nell’uomo. È essenziale un lavaggio a fondo di tutti i morsi ed i graffi con acqua e saponi all’ammonio quaternario. Benché i pazienti umani morsicati vengano trattati dai medici, la terapia antimicrobica con un derivato della penicillina è stata raccomandata per tutte le ferite penetranti da morso, anche se gli studi condotti hanno messo in discussione la profilassi di routine. Per la DF-2, si devono utilizzare come prima scelta le penicilline come l’ampicillina (amossicillina).


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fasciali e la fascia un esteso accumulo di essudato che richiede una revisione chirurgica. I cani con estesa tumefazione che sviluppano uno shock spesso vengono a morte, mentre quelli colpiti da una NF più localizzata possono sopravvivere. Tutti i soggetti colpiti presentano una necrosi cutanea a tutto spessore con distacco della parte e richiedono la rimozione chirurgica del tessuto necrotico, un trattamento antibiotico appropriato ed un’intensa fluidoterapia di sostegno. Gli antibiotici indicati sono la penicillina G, le aminopenicilline (ampicillina, amossicillina), l’eritromicina o la clindamicina. Quest’ultima è stata più efficace nella popolazione umana colpita da questa condizione.

Infezioni stafilococciche Anche Staphylococcus intermedius è stato associato ad alcuni casi di cellulite e shock tossico nel cane. S. schleiferi è un altro stafilococco che è stato isolato da un numero sempre maggiore di casi di piodermite nel cane. È stato più comunemente associato alla resistenza ai farmaci antimicrobici (meticillina, fluorochinolone), dal momento che si riscontra un numero crescente di infezioni da S. aureus meticillina-resistente. Si ritiene che quest’ultimo microrganismo sia stato acquisito dai soggetti umani a contatto, come osservato più sotto. Come nel caso degli Streptococchi, gli Stafilococchi possono produrre esotossine batteriche che si comportano come superantigeni nei confronti delle cellule T, causando risposte infiammatorie imponenti. La malattia è simile allo shock tossico che coinvolge gli Streptococchi del gruppo G descritto più sopra. In un caso documentato, il cane presentava cellulite con marcata tumefazione ed infiammazione del derma. DIC e shock settico sono stati associati alla morte dell’animale. La trasmissione degli Stafilococchi è anche avvenuta fra pazienti di uno stesso ospedale, visitando gli animali senza rispettare le precauzioni relative al lavaggio delle mani.

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Infezioni Stafilococciche meticillina-resistenti I ceppi meticillina-resistenti di Stafilococcus aureus (MRSA) sono solitamente ospitati dalla popolazione umana, in particolare dagli operatori che prestano cure mediche. Queste persone trasmettono involontariamente l’infezione ai pazienti umani ospedalizzati. Analogamente, in medicina veterinaria gli animali ricoverati possono venire contaminati da coloro che si prendono cura di loro e sono portatori di questi microrganismi. Per ulteriori informazioni sulle infezioni stafilococciche animali trasmesse alle persone, si veda la sezione più sopra relativa alle infezioni da Stafilococchi. Gli animali da compagnia che vivono nei nuclei familiari possono anche venire infettati da batteri isolati dalle vie genitourinarie della popolazione umana. E. coli ottenuti da donne con infezioni del tratto urinario sono stati confrontati con quelli isolati da campioni di feci canine. La resistenza antibatterica è risultata più comune nella microflora fecale dei cani provenienti da nuclei familiari in cui le donne erano colpite da infezioni del tratto urinario rispetto agli isolati fecali di cani provenienti da nuclei familiari in cui la popolazione umana era sana e non vi era alcun impiego concomitante di agenti antibatterici. Ciò suggerisce che i ceppi fecali del cane possano acquisire la resistenza dalla flora batterica umana; tuttavia, è necessaria un’ulteriore documentazione diretta.

Bibliografia Rich M. Methicillin-Resistant Staphylococci in Animals. Brit J Biomed Sci 2005: 62:98-105. Sasaki T, Kikuchi K, Tanaka Y, et al Methicillin-Resistant Staphylococcus pseudintermedius in a Veterinary Teaching Hospital. J Clin Microbiol,2007;45:1118-1125. Naidoo SL, Campbell DL, Miller LM, et al. Necrotizing Fasciitis: A Review. J Am Anim Hosp Assoc 2005; 41: 104-109.


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FIP: what’s new in clinical features and diagnosis Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Etiology and Epidemiology FIP is caused by invasion of body tissues by Feline Coronaviruses (FCoV). They have been classically divided enteric and systemic strains. Molecular research shows that these two viruses are related and probably continuously evolving variants of each other. Therefore, any FCoV isolate has the potential to produce FIP. Virus is spread through gastrointestinal and other body secretions. Enteric virus replicates in the intestinal tract undergoing novel mutations in its hypervariable gene sequences that may lead to its ability to penetrate the intestinal epithelium and result in the immunoreactive disease FIP. Immunosuppression leads to higher replication and increase chance of mutation. The sporadic nature of the disease is related to this random event in each cat since the mutated virus does not shed. Excreted virus may last up to 2 months in the environment. Fecal contamination of litter boxes and soil probably serves as the most consistent and persistent reservoir throughout the enteric infection. Naïve cats, entering such environments, seroconvert within a week of arrival and beginning shedding virus. Immunity against the mucosal disease caused by non mutant strains is dependent on secretory IgA. Following mutation with subsequent viral dissemination, lesions at the site of tissue localization relate to an immune-mediated vasculitis. Endothelial disruption leads to leakage of plasma proteins and the fluid accumulation within the peritoneum. Non-effusive FIP may relate to the ability of cell-mediated responses to contain the infection. Using molecular techniques, shedding of virus in the stool has now shown to last for variable periods up to 10 months. Some cats that recover from shedding may be reinfected once their immunity has waned. Young kittens are protected from contracting infection until about 5 weeks of age and in utero transmission is unlikely.

Clinical Signs Cats that develop enteric or systemic signs of coronaviral infection are generally from multi-cat environments. Enteric manifestations are usually limited to diarrhea in young or immunosuppressed cats. Healthier infected cats may excrete virus but remain asymptomatic. Most severely affected kittens show stunted growth and frequently have

upper respiratory signs. When FIP develops, the signs are variable in onset and location depending on the affected cats immune status and prior exposure. The delay in incubation period for this course of illness can be months to years, with the longest times associated with the noneffusive form of disease. Stresses in the environment often precede the onset of illness by one to two months. Cats with the effusive disease show fever, anorexia and signs of abdominal and or thoracic effusion. These signs are dyspnea, regurgitation mucosal pallor, abdominal or scrotal distention, vomiting, icterus and anorexia. Muffled heart sounds or mesenteric lymphadenomegaly may be found on physical examination. Signs in cats with non-effusive FIP are vaguer. Intermittent fever and anorexia may be apparent for weeks to months. Physical examination may reveal anterior uveitis, chorioretinitis, irregular kidneys or enlarged mesenteric lymph nodes. Neurologic manifestations occur in a certain percentage of cats and the signs usually reflect the underlying area of the nervous system damaged by meningitis or the development of obstructive hydrocephalus. Paraparesis and sensory ataxia, vestibular ataxia or seizures have been most commonly observed.

Diagnosis There is no definitive test for the antemortem diagnosis of systemic FIP. Inflammatory leukograms and hyperglobulinemia are nonspecific and may be noted in other chronic inflammatory illnesses. Icterus or CSF pleocytosis are seen in cats with hepatic or CNS involvement. In cases of effusive FIP, the effusion is a modified transudate with high protein and moderate to low cell counts. The protein in the fluid is high in globulins as is the serum proteins. Serologic testing can be used as an aid in the diagnosis of systemic FIP. Serologic testing has been maligned in the past because veterinarians and laboratories were overinterpreting the results. Many cats have been euthanized on the basis of a serologic test, which is unfortunate. Titers are only meaningful if they are quantitated and each laboratory has an individual range. Each laboratory must determine their high-titer and lowtiter values. Unfortunately, each lab’s methods and procedures differ so that they must each determine diagnostic criteria. IFA titers generally give the best correlation with


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disease development. The low titer represents the least significant level of reactivity and can only be used as an epidemiologic tool to document exposure. The high titer represents a level associated with documented infections based upon necropsy or biopsy of ill cats. In endemic catteries, asymptomatic cats may have high titers because of continual or recent exposure to virus. The environmental situation of the cat being tested must be considered in interpreting titer values. Using a referenced test, high titers and clinical signs are likely due to FIP when cats come from solitary or closed environments. False-negative and positive results are possible as with any serologic test. Serologic testing of abdominal or thoracic fluids gives the same information as with serum; however, with CSF there is additional significance in that cats will not be seropositive on CSF unless they have meningeal disease. Specific genetic tests have been advocated for diagnosis of FIP. There is a 7b ELISA test which has been developed to distinguish antibody to a particular protein epitope on the virus. Early on, this protein was thought to be unique for FIPV and lacking in enteric FCoV strains. With further study, it was determined that there are more differences among this hypervariable protein between FIPV strains than between an FCoV strain and its mutant FIPV counterpart. Similarly, use of PCR has been promoted as a way of distinguishing FCoV infection from FIPV disease. Theory suggests that any FCoV found in the systemic circulation would be pathologic and represent an FIP mutation. Apparently the PCR is so sensitive, it can detect few viral genomic sequences that likely translocated from the portal circulation into the systemic circulation during enteric infection. Thus the test on blood is positive for cats with and without FIP. Use of this PCR on non enteric tissues or body effusions may be more meaningful but the sensitivity is so great that this method may not be helpful for distinction. Immunoperoxidase staining has been valuable in detecting virus in lesions of cats with histopathologic lesions suggestive of FIP.

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Treatment There is no specific therapy that can stop the progression of FIP once it has developed. High dosages of anti-inflammatory or immunosuppressive drugs have been used to slow the progression of inflammatory FIP lesions once the disease has begun. With seropositive cats from endemic households, stresses should be minimized to reduce the chance that viral replication and mutation will occur. Symptomatic therapy is used to treat coronaviral diarrhea.

Prevention Treatment for this disease is ineffective and response is short term. An intranasal product is available for vaccination. The perceived low prevalence of disease, prolonged incubation period, and required intranasal administration make routine use of a vaccine for this disease uncertain. The intranasal vaccine apparently produces local protection against viral invasion, a prerequisite to the development of FIPV. There is concern and evidence from some studies that at high aerosol or intranasal viral challenge doses in the laboratory that virulent virus may gain entry into the body despite intranasal vaccination. Such challenged animals have antibody-dependent enhancement of disease. In contrast at lower oral exposure rates, the same vaccine is protective. To be effective vaccination should be given prior to exposure.

References Bell Et, Toribio JA, White JD, et al Seroprevalence study of feline coronavirus in owned and feral cats in Sydney Australia. Aust Vet J 2006; 84: 74-81. De Groot-Mijnes JDF, van Dunn JM, van der Most RG, et al. Natural history of a recurrent feline coronavirus infection and the role of cellular immunity in survival and disease. J Vriol 2005:79:10361044.


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FIP: cosa c’è di nuovo nelle manifestazioni cliniche e nella diagnostica Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Eziologia ed epidemiologia La FIP è causata dall’invasione dei tessuti corporei da parte dei coronavirus felini (FCoV). Questi sono stati classicamente distinti in ceppi enterici e sistemici. La ricerca molecolare dimostra che questi due virus sono correlati e probabilmente in continua evoluzione delle varianti l’una nell’altra. Di conseguenza, qualsiasi isolato di FCoV è potenzialmente in grado di indurre la FIP. Il virus si diffonde attraverso le secrezioni gastroenteriche ed altre secrezioni organiche. Il virus enterico si replica nel tratto intestinale andando incontro a nuove mutazioni delle sue sequenze geniche ipervariabili che possono portare alla sua capacità di penetrare attraverso l’epitelio intestinale ed esitare nella malattia immunoreattiva nota come FIP. L’immunosoppressione porta ad una replicazione più elevata e ad un aumento delle probabilità di mutazione. La natura sporadica della malattia è correlata a questo evento casuale in ciascun gatto, dal momento che il virus mutato non viene eliminato nell’ambiente. Il virus escreto può durare fino a due mesi nell’ambiente. La contaminazione fecale delle cassette delle deiezioni e del terreno probabilmente costituisce il serbatoio più costante e persistente attraverso cui si sviluppa l’infezione enterica. I gatti naif, entrando in questi ambienti, presentano una sieroconversione entro una settimana dall’arrivo ed iniziano ad eliminare il virus. L’immunità nei confronti della malattia della mucosa causata dai ceppi non mutanti dipende dalle IgA secretorie. Dopo la mutazione con successiva disseminazione virale, le lesioni a livello del sito di localizzazione tissutale sono riferibili ad una vasculite immunomediata. La distruzione endoteliale porta alla filtrazione di proteine plasmatiche ed all’accumulo di fluidi all’interno del peritoneo. La FIP non essudativa può essere correlata alla capacità delle risposte cellulomediate di contenere l’infezione. Utilizzando le tecniche molecolari, è stato ora dimostrato che l’eliminazione del virus nelle feci dura per periodi variabili fino a 10 mesi. Alcuni gatti che guariscono dell’eliminazione possono andare incontro a reinfezione una volta che la loro immunità è svanita. I gattini giovani sono protetti dal contrarre l’infezione fino a 5 settimane di età circa e la trasmissione in utero è improbabile.

Segni clinici I gatti che sviluppano segni enterici o sistemici di infezione da coronavirus provengono generalmente da ambienti in

cui vivono più felini. Le manifestazioni enteriche sono di solito limitate alla diarrea nei gatti giovani o immunodepressi. Alcuni soggetti infetti più sani possono presentare l’escrezione del virus, pur restando asintomatici. I gattini colpiti più gravemente mostrano una crescita stentata e sono frequentemente colpiti da manifestazioni a carico delle vie aeree superiori. Quando si sviluppa la FIP, i segni clinici hanno un’insorgenza ed una localizzazione variabili, a seconda dello status immunitario e della precedente esposizione dei gatti colpiti. Il ritardo nel periodo di incubazione per questo decorso della malattia può essere di mesi o anni, con i periodi più lunghi associati alla forma non essudativa della malattia. Gli stress ambientali spesso precedono l’insorgenza della malattia di uno o due mesi. I gatti colpiti dalla forma essudativa presentano febbre, anoressia e segni di versamento addominale e/o toracico. Tali segni sono rappresentati da dispnea, rigurgito, pallore delle mucose, distensione addominale o scrotale, vomito, ittero ed anoressia. All’esame clinico si possono riscontrare l’attenuazione dei toni cardiaci o la linfoadenomegalia mesenterica. I segni clinici nei gatti colpiti dalla FIP non essudativa sono più vaghi. Si possono osservare febbre intermittente ed anoressia per settimane o mesi. L’esame clinico può evidenziare uveite anteriore, corioretinite, reni irregolari o linfonodi mesenterici ingrossati. In una certa percentuale di gatti si osservano manifestazioni neurologiche ed i segni clinici di solito riflettono la sottostante area di sistema nervoso danneggiata dalla meningite o dallo sviluppo di un idrocefalo ostruttivo. Nella maggior parte dei casi sono state rilevate paraparesi ed atassia sensoriale, atassia vestibolare o crisi convulsive.

Diagnosi Non esiste alcun test definitivo per la diagnosi ante-mortem della FIP sistemica. Il riscontro di leucogrammi infiammatori e di iperglobulinemia è aspecifico e si può osservare in altre malattie infiammatorie croniche. Ittero o pleocitosi del liquor si osservano in gatti con coinvolgimento epatico o del SNC. Nei casi di FIP essudativa, il versamento è costituito da un trasudato modificato con elevati livelli di proteine e conteggi cellulari moderati o bassi. Le proteine del fluido sono caratterizzate da un elevato tenore di globuline, così come le proteine sieriche.


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Come mezzo per contribuire alla diagnosi della FIP sistemica si possono utilizzare i test sierologici. In passato questi sono stati messi in discussione perché veterinari e laboratori ne sovrainterpretavano i risultati. Molti gatti sono stati soppressi eutanasicamente sulla base di un test sierologico, il che è un evento spiacevole. I titoli sono significativi soltanto se vengono quantificati e ciascun laboratorio dispone di un proprio range individuale. Ogni struttura dove vengono eseguite analisi di questo tipo deve determinare i propri valori limite per definire i titoli elevati e bassi. Sfortunatamente, i metodi e le procedure di ciascun laboratorio differiscono in modo tale che ognuno deve stabilire i propri criteri diagnostici. I titoli IFA generalmente offrono la massima correlazione con lo sviluppo della malattia. Il titolo basso rappresenta il minimo livello significativo di reattività e può essere utilizzato soltanto come strumento epidemiologico per documentare l’esposizione. Il titolo elevato corrisponde ad un livello associato ad infezioni documentate sulla base di necroscopia o biopsia di gatti malati. Nei gattili endemici, i gatti asintomatici possono presentare titoli elevati a causa di un’esposizione continua o recente al virus. La situazione ambientale del gatto che viene sottoposto al test deve essere tenuta in considerazione per interpretare i valori dei titoli. Utilizzando un test referenziato, i titoli elevati ed i segni clinici sono probabilmente dovuti alla FIP quando i gatti provengono da ambienti isolati o chiusi. Risultati falsi negativi o positivi sono possibili come con qualsiasi test sierologico. Le prove sierologiche condotte su fluidi addominali o toracici offrono le stesse informazioni di quelle effettuate su campioni di siero; tuttavia, nel caso del liquor, si ha una significatività aggiuntiva dato che i gatti non risultano sieropositivi a livello del liquido cefalorachidiano, a meno che non siano colpiti da una malattia meningea. Per la diagnosi della FIP è stato suggerito l’impiego di specifici test genetici. Esiste un test ELISA 7b che è stato sviluppato per distinguere gli anticorpi nei confronti di un particolare epitopo proteico sul virus. All’inizio, si riteneva che questa proteine fosse esclusiva di FIPV ed assente nei ceppi enterici di FCoV. Con ulteriori studi, è stato determinato che le differenze esistenti fra questa proteina ipervariabile fra i ceppi di FIPV erano maggiori di quelle fra un ceppo di FCoV ed il suo equivalente FIPV mutante. Analogamente, l’uso della PCR è stato promosso come un modo per distinguere l’infezione da FCoV dalla malattia da FIPV. La teoria suggerisce che qualsiasi FCoV riscontrato nella circolazione sistemica sarebbe patologico e rappresenterebbe una mutazione di FIPV. Apparentemente, la PCR è così sensibile da poter individuare poche sequenze genomiche virali che probabilmente hanno effettuato la traslocazione dalla circolazione portale in quella sistemica durante l’infezione enterica. Quindi il test su campioni di sangue è positivo nei gat-

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ti con e senza FIP. L’uso di questa PCR su tessuti non enterici o versamenti corporei può essere più significativo, ma la sensibilità è così elevata che questo metodo può non essere utile ai fini della distinzione. Per individuare il virus nelle lesioni dei gatti con alterazioni istopatologiche indicative di FIP, è risultata utile la colorazione immunoperossidasica.

Trattamento Non esiste alcuna terapia specifica che possa arrestare la progressione di FIP una volta che questa si sia sviluppata. Per rallentare la progressione delle lesioni infiammatorie della FIP una volta che la malattia è iniziata sono stati utilizzati elevati dosaggi di farmaci antinfiammatori o immunosoppressori. Nei gatti sieropositivi provenienti da nuclei familiari endemici è necessario ridurre al minimo gli stress per diminuire le probabilità che si verifichino la replicazione virale e la mutazione. Per il trattamento della diarrea da coronavirus si fa ricorso alla terapia sintomatica.

Prevenzione Il trattamento di questa malattia è inefficace e la risposta è a breve termine. Per la vaccinazione è disponibile un prodotto intranasale. La bassa prevalenza percepita della malattia, il prolungato periodo di incubazione e la necessità della somministrazione per via intranasale rendono incerto l’uso di routine di un vaccino per questa malattia. L’immunizzazione intranasale apparentemente determina una protezione locale nei confronti dell’invasione virale, un prerequisito allo sviluppo di FIPV. Si teme, anche sulla base dei risultati di alcuni studi, che in seguito ad un’elevata stimolazione virale per aerosol o intranasale a dosi di laboratorio il virus virulento possa riuscire a penetrare nell’organismo nonostante la vaccinazione intranasale. Gli animali sottoposti a questi test di provocazione presentano un potenziamento della malattia anticorpo-dipendente. Al contrario, per i tassi di esposizione per via orale, più bassi, lo stesso vaccino è protettivo. Per poter essere efficace, la vaccinazione va praticata prima dell’esposizione.

Bibliografia Bell Et, Toribio JA, White JD, et al Seroprevalence study of feline coronavirus in owned and feral cats in Sydney Australia. Aust Vet J 2006; 84: 74-81. De Groot-Mijnes JDF, van Dunn JM, van der Most RG, et al. Natural history of a recurrent feline coronavirus infection and the role of cellular immunity in survival and disease. J Vriol 2005:79:1036-1044.


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Canine Leptospirosis, emerging or surging? Craig E. Greene DVM, MS, Dipl ACVIM, Professor, Georgia, USA

Etiology and Epidemiology Leptospirosis, a zoonotic disease of worldwide importance, is caused by infection with antigenically distinct serovars of the parasitic species Leptospira. Based upon genetic analysis, Leptospira interrogans sensu lato includes at least eight species. For those serovars of pathogenic importance, the species L. kirschneri contains serovar grippotyphosa, while species L. interrogans sensu stricto contains serovars hardjo, bataviae, canicola, pomona, icterohaemorrhagiae, autumnalis, and bratislava. Serovars are maintained in nature by numerous subclinically infected wild and domestic animal reservoir hosts that serve as a potential source of infection and illness for humans and other incidental animal hosts. Due to vaccination, the prevalence of disease caused by L. canicola and L. icterohaemorrhagiae has decreased, while there is increasing evidence that the other serovars are becoming more prevalent in producing disease. Encroachment of domestic dogs on the environment of wildlife reservoir hosts in rural or suburban environments is another factor increasing prevalence. Since the advent of antibiotics and leptospiral vaccines, the classical disease became less common and severe, and many veterinarians had discontinued their use of the vaccines. In the last two decades, there have been increasing reports of leptospirosis in dogs caused by strains other than those used in vaccines and the clinical syndrome is more of an insidious onset of chronic renal or hepatic dysfunction. The disease caused by grippotyphosa has been present in kenneled hunting dogs in the southeastern United States. In the northeastern states, pomona has predominated and in the western coast bratislava and pomona. Leptospires can potentially spread directly between hosts in close contact through urine, venereal routes, bites, or ingestion of infected tissues. Indirect transmission, involves exposure of susceptible animals to contaminated soil, food, or bedding. Water contact is the most prevalent means of spread, and habitats with stagnant warm water and alkaline pH favor leptospire survival. Ambient temperatures between 0 to 25째C maintain the organism, and freezing decreases survival.

Clinical Signs Clinical signs depend on the immunity of the host and virulence and quantity of the serovar to which they are exposed.1 Young animals are more severely affected. Acute-

ly, elevated rectal temperature, stiffness and discomfort are noted. Subsequently, vomiting, dehydration, and shock may ensue. Coagulation defects have also been noted. In subacute cases, anorexia, dehydration, and thirst may be noted. Reluctance to move and respiratory signs of conjunctivitis, rhinitis, and tonsillitis may be observed. In more chronically infected animals, progressive deterioration in renal function may be manifest by weight loss, polyuria and polydipsia, anorexia, and vomiting. Signs of acute or chronic hepatic dysfunction also include icterus from acute necrosis or chronic fibrosis. Overt signs of liver failure such as inappetence, weight loss, ascites, icterus, or hepatoencephalopathy may also be observed. Signs in cats are often mild or inapparent despite histologic evidence of a chronic inflammatory process in renal and hepatic tissues.

Diagnosis Clinical laboratory abnormalities usually include leukocytosis, thrombocytopenia, high serum urea and creatinine, electrolyte disturbances. Dogs with hepatic dysfunction frequently have bilirubinemia, and high serum hepatic enzyme activities. Urinalysis abnormalities are often glucosuria, proteinuria, and bilirubinuria with increased numbers of granular casts, leukocytes, and sometimes erythrocytes in the sediment. Coagulation parameters may be altered in severely affected animals. Serologic testing usually involves the microscopic agglutination (MA) test; however other methods such as immunofluorescence (FA) or enzyme immunoassay (ELISA) have been used, especially in Europe. Dogs with positive titers generally have cross-reactive sera with a variety of serovars. The highest titer is generally interpreted as the infecting one, however this cross reaction may relate to differing genotypes that overlap. The pattern of serologic reactivity is generally variable to a given geographic area with adaptation of particular strains to reservoir and domestic hosts. MA titers greater than 1:800 are considered presumptive for recent or active infection with Leptospira. In animals that are seronegative or have lower titers, a four-fold or greater rising titer should be demonstrated with a follow-up in 2 to 3 weeks. Vaccine titers using bacterins do not usually increase above 1:400 titer range, and the duration of their increase is generally transient. Organisms are difficult to isolate because of their fastidious growth requirements and susceptibility to pH and other environmental factors. Immunohistochemical methods are


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helpful in specific determination for tissue sections. Genetic detection using PCR has been helpful in determining specific leptospires in body fluids or tissues such as blood, CSF, aqueous humor, and urine. Genetic methods will likely improve our understanding of this disease in the future.

Treatment Supportive treatment depends on the severity of infection and whether renal or hepatic dysfunction exists. Antimicrobial therapy is essential in the treatment of leptospirosis to terminate the bacteremia. Penicillin and its derivatives are the treatment of choice; however, they do not eliminate the renal carrier state. Initially penicillin or ampicillin are given parenterally to animals with gastrointestinal disturbances from uremia or visceral inflammation. Amoxicillin is preferred for oral use in animals that are alimenting normally. Other drugs such as tetracyclines, aminoglycosides, or macrolides should be used to eliminate the carrier state. Doxycycline can be given regardless of the degree of renal dysfunction; however, aminoglycosides must be strictly avoided. Newer erythromycin derivatives can be used to clear the renal carrier state should doxycycline cause toxicity.

Prevention Prevention of leptospirosis involves clearing the renal carrier state of infected animals. This may prevent the risk of infecting people; however, it does nothing to eliminate the contamination of water from wildlife reservoirs. Prevention of contact of dogs and cats with wildlife reservoirs may help reduce the risk of contact but most infections are contracted from drinking or immersion in water rather than via direct urinary spread. Inactivated bacterins were developed against the serovars icterohaemorrhagiae and canicola, and this

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strategy has reduced the prevalence of these highly virulent forms of illness in countries where vaccination is practiced. Bivalent bacterins have been available for many years that offer protection against L. canicola and L. icterohaemorrhagiae. These are not cross protective against those serovars that are responsible for the majority of recent infections in dogs. Recent vaccines contain serovars grippotyphosa and pomona, either as a bivalent or quadrivalent product with the other two agents.2 As inactivated bacterial products, leptospiral vaccines have always had the tendency to cause allergenic reactions, especially when they have been combined with other adjuvanted agents. Many manufacturers have improved and purified their leptospiral vaccines to their recombination with other antigens.

Public Heath Risks The majority of leptospiral infections in people are among those engaging in water-related activities, either in work or leisure. Contact with urine can produce disease when it contacts mucosal surfaces or a break in the epidermal barrier. Gloves should always be worn in cleaning kennels and when cleaning urine-contaminated areas. Facemasks and goggles are essential in people spraying down housing environments for animals. Disinfectants can be sprayed on the surface of areas before generating aerosols to reduce the chance of inadvertent transmission.

References 1.

2.

Goldstein RE, Lin RC, Langston CE, et al. Influence of serogroup on clinical features of leptospirosis in dogs. J Vet Intern Med 2006; 20: 489-494. Barr SC, McDonough PL, Scipioni-Ball RL, et al Vaccination against Leptospira interrogans serovar pomona and Leptospira kirschneri serovar grippotyphosa. Am J Vet Res 2005; 66:1780-1784.


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Leptospirosi nel cane: problema emergente o in aumento? Craig E. Greene DVM, MS, DACVIM, Professor, College of Veterinary Medicine, University of Georgia

Eziologia ed epidemiologia

Segni clinici

La leptospirosi, una malattia zoonosica di importanza mondiale, è causata dall’infezione da parte di serovar antigenicamente distinte delle specie parassitarie di Leptospira. Sulla base dell’analisi genetica, Leptospira interrogans sensu lato comprende come minimo 8 specie. Per quelle serovar di importanza patogena, la specie L. kirschneri contiene la serovar grippotyphosa, mentre la specie L. interrogans sensu stricto contiene le serovar hardjo, bataviae, canicola, pomona, icterohaemorrhagiae, autumnalis e bratislava. Le serovar sono mantenute in natura da numerosi ospiti-serbatoio rappresentati da animali selvatici e domestici con infezione subclinica che fungono da potenziali fonti di infezione e malattia per l’uomo e per altri ospiti animali incidentali. Grazie alla vaccinazione, la prevalenza della malattia causata da L. canicola ed L. icterohaemorrhagiae è diminuita, mentre vanno aumentando le prove del fatto che le altre serovar presentano una prevalenza crescente dal punto di vista della capacità di determinare la malattia. L’avanzare dei cani domestici nell’ambiente degli ospiti serbatoio selvatici in ambito rurale o suburbano è un altro fattore che accresce la prevalenza. Sin dall’avvento degli antibiotici e dei vaccini antileptospirosi, la malattia classica è diventata meno comune e grave e molti veterinari hanno sospeso l’impiego di questi vaccini. Nell’ultimo ventennio, si è osservato un aumento delle segnalazioni di leptospirosi nel cane causate da ceppi diversi da quelli utilizzati nei vaccini e la sindrome clinica è caratterizzata più da un’insorgenza insidiosa di una disfunzione epatica o renale cronica. La malattia sostenuta da grippotyphosa è stata presente nei cani da caccia ricoverati nei canili degli Stati Uniti sud-orientali. Negli stati nord-orientali si è osservato il predominio di pomona, mentre nella costa occidentale sono state riscontrate bratislava e pomona. Le leptospire sono potenzialmente in grado di diffondere direttamente fra gli ospiti a stretto contatto attraverso l’urina, le vie veneree, i morsi o l’ingestione di tessuti infetti. La trasmissione indiretta comporta l’esposizione di animali suscettibili a terreno, cibo o lettiere contaminati. Il contatto idrico è il mezzo più prevalente di diffusione e gli ambienti con acqua calda stagnante e pH alcalino favoriscono la sopravvivenza delle leptospire. Le temperature ambientali comprese fra 0 e 25°C mantengono il microrganismo, mentre il congelamento ne diminuisce la sopravvivenza.

I segni clinici dipendono dall’immunità dell’ospite e dalla virulenza, nonché dalla quantità di serovar alla quale sono stati esposti.1 Gli animali giovani sono colpiti più gravemente. Si nota l’insorgenza acuta di innalzamento della temperatura rettale, rigidità e disagio. In seguito possono comparire vomito, disidratazione e shock. Sono anche stati notati difetti della coagulazione. Nei casi subacuti si possono riscontrare anoressia, disidratazione e sete. Si possono osservare riluttanza a muoversi e segni respiratori di congiuntivite, rinite e tonsillite. Negli animali con infezione più cronica, il deterioramento progressivo della funzione renale si può manifestare con perdita di peso, poliuria e polidipsia, anoressia e vomito. I segni della disfunzione epatica acuta o cronica comprendono anche l’ittero da necrosi acuta o fibrosi cronica. Si possono anche osservare manifestazioni palesi di insufficienza epatica come inappetenza, perdita di peso, ascite, ittero o encefalopatia epatica. Le alterazioni cliniche nel gatto sono spesso lievi o inapparenti, nonostante la prova istologica di un processo infiammatorio cronico a carico dei tessuti renali ed epatici.

Diagnosi Le anomalie degli esami di laboratorio di solito sono rappresentate da leucocitosi, trombocitopenia, elevati livelli sierici di urea e creatinina e disturbi elettrolitici. I cani con disfunzione epatica mostrano frequentemente bilirubinemia ed elevati livelli di attività sierica degli enzimi del fegato. Le alterazioni dell’analisi dell’urina sono spesso costituiste da glicosuria, proteinuria e bilirubinuria, con aumento del numero di cilindri granulari, leucociti e talvolta eritrociti nel sedimento. Negli animali gravemente colpiti possono essere alterati i parametri della coagulazione. I test sierologici di solito sono rappresentati dall’agglutinazione microscopica (MA); tuttavia, soprattutto in Europa, sono stati utilizzati altri metodi come l’immunofluorescenza (FA) o l’ELISA. I cani con titoli positivi generalmente presentano una reattività crociata dei sieri con una varietà di serovar. Il titolo massimo viene generalmente interpretato come quello infettante, tuttavia questa reazione crociata può essere correlata a differenti genotipi che si sovrappongono. Il quadro della reattività sierologica è generalmente variabile in una data area geografica con l’adattamento di partico-


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lari ceppi ai serbatoi ed agli ospiti domestici. Titoli MA superiori ad 1:800 sono considerati sufficienti per una diagnosi presuntiva di infezione recente o in atto da Leptospira. Negli animali sieronegativi o con titoli più bassi, è necessario dimostrare un aumento di 4 o più volte dei livelli con un esame di follow-up effettuato a distanza di 2-3 settimane. I titoli indotti dai vaccini che utilizzano batterine di solito non provocano aumenti al di sopra di 1:400 e la durata del loro incremento è generalmente transitoria. I microrganismi sono difficili da isolare perché sono particolarmente esigenti quanto a terreno di crescita e risultano suscettibili al pH e ad altri fattori ambientali. I metodi immunoistochimici sono utili per la determinazione specifica delle sezioni tissutali. L’identificazione genetica mediante PCR si è rivelata adatta per determinare le specifiche leptospire in fluidi o tessuti corporei come sangue, liquor, umore acqueo ed urina. I metodi genetici probabilmente miglioreranno in futuro la nostra comprensione di questa malattia.

Trattamento Il trattamento di sostegno dipende dalla gravità dell’infezione e dall’esistenza o meno di una disfunzione renale o epatica. Per il trattamento della leptospirosi al fine di porre termine alla batteriemia, è essenziale una terapia antimicrobica. La terapia d’elezione è rappresentata dalla penicillina e dai suoi derivati; tuttavia, questi farmaci non eliminano lo stato di portatore renale. Inizialmente, penicillina o ampicillina vengono somministrate per via paraenterale agli animali con disturbi gastroenterici da uremia o infiammazione viscerale. Nei soggetti che sono in grado di alimentarsi normalmente si preferisce impiegare l’amossicillina per via orale. Altri farmaci come le tetracicline, gli aminoglicosidi o i macrolidi vanno utilizzati per eliminare lo stato di portatore. La doxiciclina può venire somministrata indipendentemente dal grado di disfunzione renale; invece, gli aminoglicosidi vanno rigorosamente evitati. I più recenti derivati dell’eritromicina possono venire impiegati per eliminare lo stato di portatore renale nei casi in cui la doxiciclina dovesse causare tossicità.

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nulla per eliminare la contaminazione dell’acqua da parte dei serbatoi selvatici. Impedire che cani e gatti incontrino i serbatoi selvatici può contribuire a ridurre il rischio di contatto, ma la maggior parte delle infezioni viene contratta perché gli animali bevono l’acqua o vi si immergono piuttosto che attraverso una diffusione urinaria diretta. Sono state sviluppate delle batterine inattivate contro le serovar icterohaemorrhagiae e canicola e questa strategia ha ridotto la prevalenza di queste forme di malattia altamente virulente nei Paesi in cui la vaccinazione viene praticata. Da molti anni sono disponibili delle batterine bivalenti che offrono protezione nei confronti di L. canicola ed L. icterohaemorrhagiae. Non conferiscono una protezione crociata contro le serovar responsabili della maggior parte delle recenti infezioni nel cane. I vaccini recenti contengono le serovar grippotyphosa e pomona, sia come prodotti bivalenti che quadrivalenti insieme agli altri due agenti.2 In quanto prodotti batterici inattivati, i vaccini anti-leptospirosi hanno sempre avuto la tendenza a causare reazioni allergiche, specialmente quando sono stati combinati con altri agenti adiuvanti. Molti produttori hanno migliorato e purificato i loro vaccini antileptospirosi fino a ricombinarli con altri antigeni.

Rischi per la salute pubblica La maggior parte delle infezioni da leptospirosi nella popolazione umana si riscontra fra coloro che sono impegnati in attività a contatto con l’acqua, sia sul lavoro che nel tempo libero. L’urina può causare una malattia quando viene a contatto delle superfici mucose o con una rottura della barriera dell’epidermide. Per pulire i canili e quando si lavano aree contaminate da urina bisogna sempre indossare dei guanti. Per coloro che svolgono trattamenti nebulizzanti negli ambienti utilizzati come ricovero per gli animali sono essenziali le maschere facciali e gli occhiali. Per ridurre le probabilità di una trasmissione involontaria, si possono spruzzare dei disinfettanti sulla superficie delle aree da trattare prima di generare areosol.

Bibliografia Prevenzione La prevenzione della leptospirosi comporta l’eliminazione dello stato di portatore renale negli animali infetti. Ciò può evitare il rischio di infezione nell’uomo; tuttavia, non fa

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Enteroscopia: procedura semplice o complessa? Massimo Gualtieri Med Vet, PhD, Milano

INDICAZIONI

STRUMENTARIO

Digiuno, tenue e ileo sono strutture di difficile esplorazione per due motivi fondamentali: il primo consiste nella loro notevole mobilità e capacità di elongazione che rendono tecnicamente complessa la progressione dell’endoscopio (il quale, esercitando una certa frizione sulle pareti dell’intestino, tende a “trascinarlo” con sé); il secondo è rappresentato dalla distanza di queste strutture dalle due vie d’accesso dell’indagine endoscopica, ovvero la bocca e l’ano. L’esame endoscopico del piccolo intestino (duodenodigiuno-ileoscopia o enteroscopia) è indicato quando i sintomi e i segni clinici del soggetto indicano la presenza di una patologia intestinale cronica, quando è necessario confermare o escludere un sospetto diagnostico emesso radiograficamente o con altre metodiche di imaging o quando si deve tipizzare, mediante l’esecuzione di una biopsia, una lesione ipotizzata o visualizzata mediante altre procedure diagnostiche (esame clinico, esami di laboratorio, ecografia, radiologia, TAC, ecc.). Le indicazioni per l’enteroscopia includono quindi tutti i segni clinici associati a patologie del piccolo intestino come vomito, diarrea cronica, ematemesi, melena, dimagramento appetito capriccioso, anoressia. L’enteroscopia terapeutica è indicata invece per la rimozione di corpi estranei, per l’esecuzione di polipectomie e per il posizionamento di sonde enterostomiche.

Gli strumenti utilizzabili per una enteroscopia possono differire in funzione del tratto intestinale da osservare e della specie nella quale si esegue l’esame. Per una gastroduodenoscopia lo strumento di scelta è il gastroscopio standard (lunghezza della sonda esplorante 100/110 cm). Con questo strumento è possibile eseguire una esofagogastro-duodenoscopia nella maggior parte dei soggetti e ottenere dei buoni campioni bioptici. Tuttavia, nei cani di taglia grossa o gigante lo strumento consente l’esplorazione fino al solo duodeno discendente, ed è quindi consigliabile utilizzare strumenti di lunghezza superiore (150-160 cm), al fine di poter eseguire l’esplorazione completa del tratto digerente anteriore. Gli stessi strumenti possono essere impiegati per l’esplorazione della porzione distale dell’ileo previa coloscopia. Per la duodenoscopia è possibile utilizzare in alternativa al gastroscopio standard, un duodenoscopio a visione laterale. In soggetti invece di piccole dimensioni (gatti o cani di peso inferiore a 10 kg) dove spesso risulta difficoltoso il superamento del piloro o della valvola ileocolica a causa delle ridotte dimensioni di queste strutture, è possibile utilizzare un gastroscopio sottile (“slim gastroscope”), con diametro di 5,9 mm. e lunghezza di 110 cm. Questo strumento, disponibile però solo in versione elettronica, consente di raggiungere agevolmente il duodeno in qualsiasi soggetto, anche di dimensioni maggiori. L’unico inconveniente (oltre agli elevati costi) è dato dalla possibilità di ottenere solo campioni bioptici di ridotte dimensioni rispetto al gastroscopio standard. Nel gastroscopio sottile infatti il canale operativo può essere al massimo di 2 mm, consentendo di utilizzare una pinza bioptica da 1,8 mm contro i 2,2 mm di una pinza standard. Per l’esplorazione delle restanti porzioni del piccolo intestino attraverso la cavità orale è possibile mediante l’impiego di altre tecniche (ancora in fase sperimentale in medicina veterinaria) che fanno uso dell’enteroscopio a singolo o a doppio pallone. L’enteroscopio a doppio pallone è costituito da uno strumento di 2 m. di lunghezza, con diametro di 8.5 - 9.4 mm, canale operativo da 2.2 o 2.8 mm, munito, in corrispondenza dell’estremità distale, di una cuffia pneumatica. Su questo strumento va inserito un apposito tubo di rivestimento, coassiale alla sonda endoscopica stessa (overtube), di 1,450 mm

PREPARAZIONE DEL PAZIENTE La preparazione del paziente per una enteroscopia varia in funzione del tratto intestinale da osservare. Per quanto concerne il duodeno e le porzioni esplorabili del digiuno, la preparazione non differisce da quella dello stomaco. La preparazione per l’esame dell’ileo è invece più complessa in quanto è richiesta la completa evacuazione del materiale fecale dal colon. I pazienti devono essere posti in anestesia generale secondo il più idoneo protocollo che potrà variare in funzione dello stato patologico del singolo soggetto. Sia per il duodeno che per l’ileo il paziente deve essere posizionato in decubito laterale sinistro: in questa posizione risulteranno semplici da ispezionare e liberi da secrezioni l’antro gastrico, il piloro, il duodeno e la porzione prossimale del colon.


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di lunghezza munito anch’esso all’estremità distale di una cuffia pneumatica di 40 mm di diametro. L’enteroscopio a singolo pallone è costituito invece da uno strumento del tutto analogo al precedente, ma privo di cuffia pneumatica distale. Anche su questo strumento va inserito un overtube coassiale munito di cuffia pneumatica distale. L’esame si può condurre sia per via orale che per via anale, a seconda delle dimensioni del soggetto o che si ipotizzi la sospetta lesione nella parte prossimale o distale del piccolo intestino. L’endoscopio a visione laterale è stato ideato per l’incannulazione a fini sia diagnostici che terapeutici della papilla di Vater nell’uomo (colangio-pancreatografia retrograda endoscopica [ERCP]; sfinterotomia, ecc.). In medicina veterinaria, per la difficoltà e specificità di utilizzo, non trova routinaria indicazione ed è attualmente impiegato solo per l’esecuzione di studi radiografici (o con intensificatore di brillanza) delle vie biliari extraepatiche nel cane.

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COMPLICANZE Le complicanze in corso di enteroscopia diagnostica con strumento standard sono rare e possono essere assimilate a quelle che possono verificarsi durante la gastroscopia. Se si impiegano strumenti a singolo o a doppio pallone le complicanze sono rare e consistono in traumi della mucosa esofago-gastrica e, in casi eccezionali, perforazione duodenodigiunale. Il rischio di perforazione intestinale si ha anche durante l’esecuzione di biopsie alla cieca. Per quanto riguarda invece l’endoscopia terapeutica, complicanze si possono osservare a seguito della rimozione di corpi estranei (lesioni mucosali, lesioni neurologiche sfinteriali, lacerazione/perforazione intestinale), polipectomia (sanguinamento, dalla perforazione e dalle ustioni) o durante il posizionamento di una sonda digiunostomica (perforazione intestinale, migrazione retrograda della sonda in cavità gastrica).

Letture consigliate BIOPSIA INTESTINALE Il prelievo di campioni endoscopici adeguati di mucosa del piccolo intestino è più difficile di quanto si possa ritenere a causa della sua mobilità e per la presenza dei villi. Quando effettuata correttamente, la biopsia endoscopica determina generalmente un difetto mucosale caratterizzato da un tessuto biancastro al centro che rappresenta la muscolaris mucosa (non la tonaca muscolare). Si tratta di un aspetto non sempre osservabile, ma in genere presente quando si effettua una buona biopsia con l’endoscopio flessibile. La presenza di tale difetto mucosale non implica un rischio di perforazione.

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Pet animals as reservoirs of antimicrobial-resistant bacteria: recent discoveries potentially impacting human health Luca Guardabassi DVM, PhD, Associate Professor, Copenhagen, Danimarca

Animal and human health risks associated with antimicrobial resistance in pet animals were regarded as negligible in the past. However, in the last years various resistant bacteria of clinical relevance have emerged in dogs and cats, including epidemic strains that are virtually resistant to all antimicrobial agents available in small animal practice. Some of these bacteria, especially methicillin-resistant Staphylococcus aureus (MRSA), ampicillin-resistant Enterococcus faecium (AREF) and Escherichia coli producing extended-spectrum β-lactamases (ESBL) can cause severe infections in humans and their occurrence in pets poses serious health risks to pet animal owners and veterinary staff. In addition, the emergence of these bacteria in animals represents a difficult challenge in veterinary antimicrobial therapy. Treatment of infections caused by resistant bacteria in animals is even more difficult than in humans since certain antimicrobial compounds employed in human medicine (e.g. vancomycin, linezolid, streptogramins, tigecycline, amikacin and imipenem) are expensive, not licensed for animal use and all except for linezolid must be administered intravenously. The recent spread of methicillin-resistant Staphylococcus pseudintermedius (MRSP) has further conferred an animal health dimension to this problem. The present abstract provides an overview of the recent discoveries in this field and addresses their implications for both human and animal health.

1) Methicillin-resistant Staphylococcus aureus (MRSA) MRSA has been a serious problem in human medicine since the 1960s and today is the most important cause of human mortality due to bacteraemia in developed countries. Methicillin resistance is a major cause of therapy failure since the responsible gene, mecA, confers resistance to all penicillins and cephalosporins. The problem is further complicated by the fact that MRSA is frequently resistant to alternative antimicrobial agents. MRSA in diagnostic speciments from dogs and cats was first reported in the UK, USA and South Korea in 1999. Today we now that MRSA is much more prevalent in small animal veterinary practice than has been previously recognized. In Europe, the veterinary problem seems to be confined to countries with high MRSA prevalences in the human population. In Italy, prevalences of 0.4% in dogs and 1.2% in cats have been reported over a

three-year period of passive surveillance (2005-2007) on clinical case referrals and necropsies1. As in humans, MRSA can colonize the skin and the mucosae of pet animals without causing any harm. However, healthy carriers have a significantly higher risk of developing MRSA infections in the course of their life. Canine and feline MRSA infections are usually associated with wounds and hospital-acquired infections, mainly post-surgical infections. MRSA isolated from pets in North Europe usually belong to the epidemic clone EMRSA-15, the most common cause of MRSA bacteraemia in humans in the UK2. Surveys conducted at veterinary conferences have indicated that veterinarians are a category at risk for MRSA carriage3. Cases of MRSA infections in pet owners and veterinary staff infected by animals have been reported in the literature4. Altogether, these data indicate that although MRSA clones occurring in pets originated from humans, these animals can act as secondary reservoirs for the spread of MRSA in the human community.

2) Methicillin-resistant Staphylococcus pseudintermedius (MRSP) Until two years ago, cephalosporin resistance was unknown in S. intermedius, the canine pathogen recently reclassified as S. pseudintermedius5. Strains displaying resistance to cephalosporins are regarded as MRSP, since resistance is mediated by the same gene (mecA) found in MRSA. In addition to β-lactam antibiotics, such strains are typically resistant to all oral antimicrobial formulations available for use in small animals6. Some epidemic MRSP clones have rapidly spread worldwide and in some areas in the USA already account for approximately 20% of S. pseudintermedius isolates from clinical specimens. Similarly to MRSA, MRSP tends to be clonally distributed within and between countries, meaning that certain clones can be isolated from epidemiologically unrelated dogs and even from veterinary hospitals located at distant geographical areas and even in different countries5. To date, the occurrence of MRSP has been reported in the USA, Canada, Slovenia, Germany, Holland, Italy, Sweden and Switzerland. In Italy, MRSP prevalences of 2.3% and 4.9% have been reported in dogs and cats, respectively1. Zoonotic transmission to veterinary staff7 and severe human infections8 have been documented. MRSP poses a diagnostic problem since most veterinary laboratories are unaccustomed to screening


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for methicillin resistance and some of the diagnostic tests available for MRSA detection have shown low sensitivity for detecting MRSP. Methicillin resistance has also been reported in the new emerging canine pathogen S. schleiferi, which has been associated with cases of recurrent pyoderma and otitis externa in dogs in the USA (40). This problem appears to be mainly confined to North America as only sporadic cases have been reported in Europe. However, the occurrence of S. schleiferi in dogs may be overlooked due to the phenotypic similarities with S. pseudintermedius (S. schleiferi subsp. coagulans) and coagulase-negative staphylococci (S. schleiferi subsp. schleiferi). Accurate speciation of staphylococcal isolates from recurrent pyoderma and otitis externa by PCR or phenotypic tests is needed to understand the clinical importance of this emerging pathogen in Europe.

3) Escherichia coli producing extended spectrum β-lactamases (ESBL) ESBL-producing E. coli have recently emerged in small animals, especially in dogs. These bacteria produce enzymes able to hydrolyse cephaloporins and are typically multiresistant. Some strains are resistant to all antimicrobial agents except amikacin and/or imipenem9, which are injectable drugs not licensed for use in small animals. ESBL-producing E. coli have been isolated from clinical infections in dogs in Italy, Portugal, Spain, USA, Canada and Australia. Although clinical isolates producing ESBL are still rare in veterinary medicine time, their occurrence in dogs needs to be monitored carefully in the next years. The ESBL types reported in canine isolates are the same as those occurring in human infections (mainly CTX-M). Zoonotic transmission cannot be excluded since canine E. coli have been shown to be genetically related to virulent strains causing urinary tract infections and bacteraemia in humans10.

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investigated the prevalence of AREF CC17 in healthy dogs and, to our surprise, we found these bacteria in 59 of 210 dogs tested (28%)11. The unexpected and widespread occurrence of AREF CC17 in dogs raises a important questions about the possible role of dogs as reservoirs of this human epidemic clone. Apart from the potential zoonotic risk, a veterinary perspective should also be kept in mind. Veterinarians should be aware that effective antimicrobial treatment of AREF infections is extremely difficult in veterinary medicine since some last choice agents used in human medicine are not licensed for use in animals.

References 1.

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4) Ampicillin-resistant Enterococcus faecium (AREF) This year our diagnostic laboratory detected a case of canine urinary tract infection associated with a human epidemic AREF clone rensponsible for nosocomial infections and denominated clonal complex 17 (CC17). AREF are difficult to be treated because enterococci are naturally resistant to most antimicrobial agents. Penicillins, alone or in combination with gentamicin, are the drugs of choice in the treatment of enterococcal infections. After this finding, we

11.

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Adrress for correspondence: Luca Guardabassi Associate Professor, Department of Veterinary Pathobiology, Faculty of Life Sciences, University of Copenhagen


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Gli animali da compagnia come reservoir di batteri resistenti agli antimicrobici: scoperte recenti e loro potenziali ripercussioni sulla salute umana Luca Guardabassi DVM, PhD, Associate Professor, Copenhagen, Danimarca

I rischi per la salute animale ed umana associata alla resistenza agli agenti antimicrobici negli animali da compagnia in passato sono stati considerati trascurabili. Tuttavia, negli ultimi anni, nel cane e nel gatto sono emersi vari batteri resistenti di rilevanza clinica, quali ceppi epidemici che sono virtualmente resistenti a tutti gli agenti antimicrobici disponibili per l’impiego nella clinica dei piccoli animali. Alcuni di questi batteri, in particolare Staphylococcus aureus meticillina-resistente (MRSA, methicillin-resistant Staphylococcus aureus), Enterococcus faecium ampicillina-resistente (AREF, ampicillin-resistant Enterococcus faecium) ed Escherichia coli produttore di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL, Escherichia coli producing extended-spectrum βlactamases) possono causare gravi infezioni nell’uomo e la loro comparsa negli animali da compagnia comporta gravi rischi sanitari sia per i proprietari che per lo staff veterinario. Inoltre, l’emergere di questi batteri negli animali rappresenta una sfida difficile nella terapia antimicrobica veterinaria. Il trattamento delle infezioni causate da batteri resistenti negli animali è ancor più difficile che nell’uomo, dal momento che certi composti antimicrobici impiegati in medicina umana (ad es., vancomicina, linezolid, streptogramina, tigeciclina, amikacina e imipenem) sono costosi, non registrati per l’impiego negli animali e tutti, tranne il linezolid, devono essere somministrati per via endovenosa. La recente diffusione di Staphylococcus pseudintermedius meticillina-resistente (MRSP, Staphylococcus pseudintermedius methicillin-resistant) ha ulteriormente confermato l’esistenza di una dimensione di questo problema legata alla salute animale. Il presente lavoro costituisce una rassegna sulle recenti scoperte in questo campo e ne illustra le implicazioni per la salute umana ed animale.

1) Staphylococcus aureus meticillina-resistente (MRSA) L’infezione da MRSA è stato un grave problema in medicina umana fin dagli anni ’60 del secolo scorso ed oggi è la causa più importante di mortalità umana dovuta a batteriemia nei Paesi sviluppati. La meticillina-resistenza è una delle principali cause di fallimento della terapia dal momento che il gene responsabile, mecA, conferisce la resistenza nei confronti di tutte le penicilline e cefalosporine. Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che MRSA è frequentemente resistente ad agenti antimicrobici alternativi. La pre-

senza di questo microrganismo in campioni diagnostici prelevati da cani e gatti è stata segnalata per la prima volta in Regno Unito, USA e Corea del Sud nel 1999. Oggi sappiamo che MRSA ha una prevalenza molto maggiore nella clinica dei piccoli animali di quanto non si ritenesse in precedenza. In Europa, il problema veterinario sembra essere confinato ai Paesi con elevate prevalenze di MRSA nella popolazione umana. In Italia, nell’arco di un periodo di sorveglianza passiva della durata di tre anni (2005-2007) su casi clinici riferiti e necroscopie sono state segnalate prevalenze dello 0,4% nel cane e dell’1,2% nel gatto.1 Come nell’uomo, MRSA può colonizzare la cute e le mucose degli animali da compagnia senza causare alcun danno. Tuttavia, i portatori sani sono esposti ad un rischio significativamente più alto di sviluppo di infezioni da MRSA nel corso della loro vita. Le infezioni da MRSA nel cane e nel gatto sono solitamente associate a ferite ed infezioni nosocomiali, principalmente postoperatorie. I ceppi di MRSA isolati dagli animali da compagnia del nord Europa di solito appartengono al clone epidemico EMRSA-15, la causa più comune di batteriemia da MRSA nell’uomo nel Regno Unito.2 Le indagini condotte in occasione di convegni veterinari hanno indicato che questi professionisti costituiscono una categoria a rischio come portatori di MRSA.3 In letteratura sono stati descritti casi di infezione da MRSA nei proprietari di animali da compagnia e i componenti degli staff veterinari infettati dagli animali.4 Nel complesso, questi dati indicano che benché i cloni di MRSA che si riscontrano negli animali da compagnia abbiano origine dall’uomo, questi stessi animali possono agire da serbatoi secondari per la diffusione dell’ MRSA nella comunità umana.

2) Staphylococcus pseudintermedius meticillina-resistente (MRSP) Fino a due anni fa, la resistenza alle cefalosporine era sconosciuta in S. intermedius, l’agente patogeno del cane recentemente riclassificato come S. pseudointermedius.5 I ceppi che manifestano la resistenza alle cefalosporine erano considerati come MRSP, dal momento che la resistenza è mediata dallo stesso gene (mecA) riscontrato in MRSA. Oltre agli antibiotici β-lattamici, questi ceppi sono tipicamente resistenti a tutte le formulazioni antimicrobiche per uso orale disponibili per l’impiego nei piccoli animali.6 Alcuni cloni di MRSP epidemici si sono rapidamente diffusi a livello mondiale ed in alcu-


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ne aree degli USA costituiscono già circa il 20% degli isolati di S. intermedius da campioni clinici. Analogamente ad MRSA, MRSP tende ad essere distribuito in modo clonale all’interno e fra i Paesi, il che significa che certi cloni possono essere isolati da cani epidemiologicamente non correlati ed anche da ospedali veterinari localizzati in aree geografiche distanti e persino in Paesi diversi.5 Sino ad oggi, l’occorrenza di MRSP è stata segnalata in USA, Canada, Slovenia, Germania, Olanda, Italia, Svezia e Svizzera. In Italia, le prevalenze di MRSP sono state, rispettivamente, del 2,3% e del 4,9%.1 Sono state documentate la trasmissione zoonosica allo staff veterinario7 e le gravi infezioni umane8. MRSP costituisce un problema diagnostico dal momento che la maggior parte dei laboratori veterinari non è abituata ad eseguire lo screening per la meticillino-resistenza ed alcuni dei test diagnostici disponibili per l’identificazione di MRSA si sono dimostrati dotati di una bassa sensibilità per MRSP. La meticillino-resistenza è stata anche segnalata nel nuovo patogeno emergente del cane S. schleiferi, che è stato associato a casi di piodermite ricorrente ed otite esterna negli animali di questa specie in USA.40 Questo problema sembra essere principalmente confinato al nord America, dal momento che in Europa sono stati segnalati solo casi sporadici. Tuttavia, l’occorrenza di S. schleiferi nel cane può essere sottovalutata a causa delle analogie fenotipiche con S. pseudointermedius (S. schleiferi subspec. coagulans) e con gli stafilococchi coagulasi negativi (S. schleiferi subsp. schleiferi). Per comprendere l’importanza clinica di questo patogeno emergente in Europa, è necessario determinare accuratamente la specie degli isolati stafilococcici ottenuti da piodermiti ricorrenti ed otiti esterne mediante PCR o test fenotipici.

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associata ad un clone AREF epidemico umano responsabile di infezioni nosocomiali e denominato complesso clonale 17 (CC17). Gli AREF sono difficili da trattare perché gli enterococchi sono naturalmente resistenti alla maggior parte degli agenti antimicrobici. Le penicilline, da sole o in combinazione con la gentamicina, sono i farmaci d’elezione nel trattamento delle infezioni enterococciche. Dopo questo riscontro, abbiamo studiato la prevalenza di AREF CC17 in cani sani e, con nostra sorpresa, abbiamo riscontrato questi batteri in 59 esemplari su 210 esaminati (28%).11 La inattesa e diffusa occorrenza di AREF CC17 nei cani pone delle importanti domande sul possibile ruolo degli animali di questa specie come serbatoi di questo clone epidemico umano. A parte il potenziale rischio zoonosico, bisogna anche tenere presente il punto di vista veterinario. Bisogna essere consapevoli del fatto che è estremamente difficile trattare efficacemente con antimicrobici le infezioni da AREF in medicina veterinaria, dal momento che alcuni agenti utilizzati in medicina umana come ultima scelta non sono registrati per l’impiego negli animali.

Bibliografia 1.

2.

3.

3) Escherichia coli produttore di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) Recentemente, nei piccoli animali ed in particolare nel cane sono emersi E. coli produttori di ESBL. Questi batteri producono enzimi capaci di idrolisare le cefalosporine e sono tipicamente multiresistenti. Alcuni ceppi sono resistenti a tutti gli agenti antimicrobici, tranne l’amikacina e/o l’imipem, [9] che sono farmaci iniettabili non registrati per l’impiego nei piccoli animali. E. coli ESBL-produttori sono stati isolati da infezioni cliniche in cani in Italia, Portogallo, Spagna, USA, Canada ed Australia. Benché gli isolati clinici produttori di ESBL siano ancora rari in medicina veterinaria, la loro occorrenza dovrà essere monitorata accuratamente nei prossimi anni. I tipi di ESBL segnalati negli isolati di origine canina sono gli stessi riscontrati nelle infezioni umane (principalmente CTX-M). Non si può escludere la trasmissione zoonosica, dal momento che gli E. coli canini si sono dimostrati geneticamente correlati a ceppi virulenti che causano infezioni del tratto urinario e batteriemia nell’uomo.10

4) Enterococcus faecium ampicillina-resistente (AREF) Quest’anno il nostro laboratorio diagnostico ha individuato un caso di infezione del tratto urinario del cane

4.

5.

6.

7.

8.

9.

10.

11.

Iurescia M. et al. 2007. Stafilococchi coagulaze positive meticillinoresistenti in animali da compagnia: la sorveglianza passica nell’area romana 2005-2007. IX Congresso Nazionale S.I.Di.L.V. Roma 14 16 Novembre 2007. Moodley A. et al. 2006. spa typing of methicillin-resistant Staphylococcus aureus isolated from domestic animals and veterinary staff in the UK and Ireland. J Antimicrob Chemother 58:1118-23. Moodley A. et al. 2008 High risk for nasal carriage of methicillin resistant Staphylococcus aureus among Danish veterinary practitioners. Scand J Work Environ Health (in press). Weese J. S. et al. 2006 Suspected transmission of methicillin-resistant Staphylococcus aureus between domestic pets and humans in veterinary clinics and in the household. Vet Microbiol 115:148-55 Bannoeehr J. et al. 2007. Population genetic structure of the Staphylococcus intermedius group: insights into agr diversification and the emergence of methicillin-resistant strains. J Bacteriol 189:8665-92. Loeffler A. et al. 2007. First report of multiresistant, mecA-positive Staphylococcus intermedius in Europe: 12 cases from a veterinary dermatology referral clinic in Germany. Vet Dermatol 18: 412-21. van Duijkeren E. et al. Transmission of methicillin-resistant Staphylococcus intermedius between humans and animals. Vet. Microbiol: 128: 213–15. Campanile F et al. 2007. Characterization of a variant of the SCCmec element in a bloodstream isolate of Staphylococcus intermedius. Microbial Drug Resist 13: 7-10. Warren A. et al. 2001. Multi-drug resistant Escherichia coli with extended-spectrum _-lactamase activity and fluoroquinolone resistance isolated from clinical infections in dogs. Aust Vet J 79: 621-23. Johnson J. R. et al. 2001. Phylogenetic and pathotypic similarities between Escherichia coli isolates from urinary tract infections in dogs and extraintestinal infections in humans. J Infect Dis 183:897–906. Damborg P. et al. Ampicillin-resistant Enterococcus faecium clonal complex 17 is widespread in healthy dogs: anthropozoonosis or zooanthroponosis? 18th European Congress of Clinical Microbiology and Infectious Diseases, Barcelona, 19-22 April 2008.

Adrress for correspondence: Luca Guardabassi Associate Professor, Department of Veterinary Pathobiology, Faculty of Life Sciences, University of Copenhagen


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Minimising resistance in the use of antimicrobials in cutaneous infections: the microbiologist’s point of view Luca Guardabassi DVM, PhD, Associate Professor, Copenhagen, Danimarca

The present abstract provides an overview of the current trends in antimicrobial prescription in small animals and explains the microbiologist’s point of view regarding possible strategies to minimise development of antimicrobial resistance in the treatment of cutaneous infections. Amoxicillinclavulanate, cephalosporins, trimethoprim-sulfonamides, macrolides, lincosamides and fluoroquinolones are the antimicrobials most commonly prescribed to small animals. Patterns of usage vary extensively between geographical areas as well as between veterinary hospitals within the same region. National figures on antimicrobial prescriptions for companion animals are only available in Sweden1 and Denmark2. Such figures indicate that the use of fluoroquinolones or cephalosporins in dogs has significantly increased in the last years and is comparatively higher than in humans. These data suggest that the clinical efficacy of cephalosporins and fluoroquinolones has determined some laxity in veterinary prescription. There is concern among small animal practitioners about the consequences of treatment failure, but too little awareness of the risks associated with overuse of broad-spectrum antimicrobials. Canine pyoderma is the most common cause of antimicrobial treatment in small animal veterinary practice and probably the most difficult therapeutic challenge. Therapy is difficult due to the complex aetiology of the disease, which is generally caused by primary underlying disease or host factors. In addition, various microbiological and pharmacological factors complicate the choice of an appropriate antimicrobial drug. Resistance to penicillins is widespread in Staphylococcus pseudintermedius, the bacterial pathogen associated with pyoderma. Resistance to alternative narrowspectrum antimicrobial classes such as macrolides (erythromycin and tylosin) and lincosamides (lincomycin and clindamycin) has been observed with increased frequency. The combination trimethoprim-sulfonamides may cause side effects in extended treatment regimes. Aminoglycosides (e.g. kanamycin and gentamycin) have potential nephrotoxic effects and their use is further discouraged by compliance problems associated with parenteral administration. As a consequence of these factors, cephalosporins (cefalexin, cefadroxil and cefovecin) and fluoroquinolones (enrofloxacin, marbofloxacin, difloxacin and orbifloxacin) are increasingly used for treatment of canine pyoderma. From a clinical point of view, cephalosporins and fluoroquinolones are extremely effective due to excellent pharmacokinetic properties and activity against S. pseudintermedius. However, such

broad-spectrum antimicrobials exert a selective pressure on a larger number of microorganisms than narrow-spectrum antimicrobials and are therefore more prone to selecting for resistance development and spread. Various types of evidence indicate that exposure to broad-spectrum antimicrobials enhances colonization with multi-resistant bacteria. Such evidence will be reviewed in the conference presentation. Specific guidelines for antimicrobial use in dogs and cats have been presented in a new book edited by the author of this abstract3. The general criteria in the choice of antimicrobial therapy can be classified into three categories: clinical efficacy, convenience and safety. In order to ensure clinical efficacy, the veterinarian should prescribe antimicrobial agents that are active against the target bacterial species and able to achieve therapeutic concentrations at the infection site. In some cases, for example when dealing with immunosuppressed patients, priority should be given to antimicrobials with bactericidal activity. Convenience factors that influence antimicrobial choice include cost and modality of administration. The marked difference in the prices of new and old generation antimicrobials have to be considered when long therapy is required, a situation not rare in the treatment of cutaneous infections. Drugs requiring daily multiple oral administration or, even worse, parenteral administration pose serious compliance problems. Possible toxic effects should be considered in relation to the health status of the patient (e.g. nephrotoxicity by aminoglycosides) or to the length of the treatment period (e.g. side effects by sulfonamides in the dog). Last but not least important, veterinarians should try to limit development of antimicrobial resistance by prudent and rational antimicrobial use. Ten key recommendations to minimise resistance in the treatment of cutaneous infections are summarized in the following paragraphs: 1) Identify and eliminate the primary cause of pyoderma S. intermedius is a secondary cause of canine pyoderma. Identification and elimination of the underlying cause of disease is essential to prevent recurrent infection, thereby minimising antimicrobial use and selection for resistance. 2) Avoid systemic antimicrobial therapy whenever possible The most effective way to avoid selection for resistant bacteria is to minimize the use of antimicrobial agents. Some forms of superficial pyoderma do to require systemic antimicrobial therapy.


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3) Guide antimicrobial choice by cytology Cytology is important in the diagnosis as well in the choice of the most approriate antimicrobial agent by revealing the the presence of bacterial cells, their morpholoy and Gram-staining.

10) Consider carefully owner’s compliance. Veterinarians should inform the owner about the importance of compliance and prescribe drugs and dosage regimens that are compatible with the owner’s daily routine.

4) Use topical antimicrobial therapy when appropriate When possible, topical antimicrobials should be used instead of systemic drugs. Topical antimicrobials are poorly adsorbed and do not exert antimicrobial selective pressure in the commensal flora resident at other body sites.

In conclusion, small animal dermatology and more generally small animal medicine have reached a difficult situation with regard to antimicrobial therapy, a kind of turning point determined by the emergence of resistant bacteria of clinical importance, the widespread use of broad spectrum antimicrobials, and the lack of new antimicrobial agents. Such a critical situation requires a specific preparation by veterinarians and poses important questions regarding the role of small animal practitioners in the defence of animal and public health. A change in the attitude toward antimicrobial prescription is needed to preserve the efficacy of antimicrobial agents and to prevent risks to both animal and human health.

5) Limit empirical antimicrobial use The antimicrobial susceptibility patterns of S. pseudintermedius are unpredictable. Therefore, susceptibility testing is recommended, preferably before initiation of antimicrobial treatment. 6) Record data on antimicrobial susceptibility testing Recording of data on antimicrobial susceptibility provides a solid basis for the implementation and evaluation of therapeutic protocols, and reveals the emergence of novel antimicrobial resistance phenotypes. 7) Limit the use of cephalosporins and fluoroquinolones These drugs are critically-important in small animal medicine. Prudent use is necessary to preserve their efficacy in as well as to limit selection of resistant bacteria of veterinary and zoonotic interest.

References 1.

2. 3.

8) Avoid off-label use Avoid use of antimicrobial agents that are not licensed for veterinary use. Such products are not clinically tested in animals and their use should be preserved for the treatment of human infections. 9) Use appropriate dosage regimens Low doses, increased dose intervals, and reduced treatment duration can lead to recrudescence of the infection and increase the risk of selecting resistant organisms.

DANMAP 2006. Use of antimicrobial agents and occurrence of antimicrobial resistance in bacteria from food animals, foods and humans in Denmark. ISSN 1600-2032 [Online]. Copenhagen, Denmark. Available at http://www.food.dtu.dk SVARM 2006. Swedish Veterinary Antimicrobial Resistance Monitoring. 2006. Upsala, Sweden [Online]. Available at http://www.sva.se Guardabassi, L., Houser, G.A., Frank, L.A., Papich, M.G., 2008. Guideline for antimicrobial use in dogs and cats. In Guide to Antimicrobial use in animals Eds. Guardabassi L., Jensen L.B and Kruse H., pp 183-206. Wiley-Blackwell, Oxford, UK

Adrress for correspondence: Luca Guardabassi Associate Professor, Department of Veterinary Pathobiology, Faculty of Life Sciences, University of Copenhagen


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Ridurre il rischio di resistenza nei confronti degli antimicrobici al momento di trattare le infezioni cutanee: il punto di vista del microbiologo Luca Guardabassi DVM, PhD, Associate Professor, Copenhagen, Danimarca

Il presente lavoro costituisce una rassegna generale sulle attuali tendenze nelle prescrizioni degli antimicrobici negli animali da compagnia e spiega il punto di vista del microbiologo circa le possibili strategie finalizzate a ridurre al minimo lo sviluppo dell’antibioticoresistenza nel trattamento delle infezioni cutanee. Amossicillina/clavulanato, cefalosporine, trimethoprim-sulfamidici, macrolidi, lincosamidi e fluorochinoloni sono gli antimicrobici più comunemente prescritti nei piccoli animali. Le modalità di impiego variano notevolmente a seconda delle aree geografiche e da un ospedale veterinario all’altro all’interno della stessa regione. I dati nazionali sulle prescrizioni antimicrobiche per gli animali da compagnia sono disponibili soltanto in Svezia1 e Danimarca 2. Tali dati indicano che l’uso dei fluorochinoloni o delle cefalosporine nel cane è significativamente aumentato negli ultimi anni ed è proporzionalmente più elevato che nell’uomo. Inoltre suggeriscono che l’efficacia clinica delle cefalosporine e dei fluorochinoloni abbia determinato un certo lassismo nelle prescrizioni veterinarie. I clinici che si occupano di animali da compagnia si preoccupano delle conseguenze dell’insuccesso del trattamento, ma sono troppo poco coscienti dei rischi associati al dosaggio eccessivo di antimicrobici ad ampio spettro. La piodermite del cane è la causa più comune di trattamento antimicrobico nella clinica dei piccoli animali e probabilmente costituisce la sfida terapeutica più difficile. La terapia è ostacolata dalla complessa eziologia della malattia, che generalmente è causata da un’affezione primaria sottostante o da fattori legati all’ospite. Inoltre, la scelta dell’antimicrobico appropriato è complicata da varie caratteristiche microbiologiche e farmacologiche. La resistenza alle penicilline è ampiamente diffusa in Staphylococcus pseudintermedius, il batterio patogeno associato alla piodermite. La resistenza alle classi alternative di antibiotici a spettro ristretto come i macrolidi (eritromicina e tilosina) ed i lincosamidi (lincomicina e clindamicina) è stata osservata con frequenza relativamente maggiore. La combinazione di trimethoprim e sulfamidici può causare effetti collaterali nei protocolli terapeutici ampliati. Gli aminoglicosidi (ad es., kanamicina e gentamicina) sono potenzialmente dotati di effetti nefrotossici ed il loro uso è ulteriormente sconsigliato da problemi legati alla scarsa collaborazione dei proprietari che tendono a non effettuare le somministrazioni per via paraenterale. Come conseguenza di questi fattori, per il trattamento della piodermite del cane vengono sempre più utilizzati le cefalosporine (cefalessina, cefa-

droxil e cefovecina) e i fluorochinoloni (enrofloxacin, marbofloxacin, difloxacin ed orbifloxacin). Dal punto di vista clinico, queste due classi di antibiotici sono estremamente efficaci, grazie alle loro eccellenti proprietà farmacocinetiche ed all’attività nei confronti di S. pseudintermedius. Tuttavia, si tratta di antimicrobici ad ampio spettro che esercitano una pressione selettiva su un numero più ampio di microrganismi rispetto a quelli a spettro più ristretto e pertanto sono più predisposti a selezionare lo sviluppo e la diffusione delle forme di resistenza. Esistono prove di vario tipo che indicano che l’esposizione agli antimicrobici ad ampio spettro accentua la colonizzazione di parte di batteri multiresistenti. Questi dati verranno illustrati nel corso della relazione. Le specifiche linee guida per l’impiego degli antimicrobici nel cane e nel gatto sono state presentate in un nuovo libro pubblicato dall’autore di questa relazione.3 I criteri generali per la scelta della terapia antimicrobica possono essere fatti rientrare in tre categorie: efficacia clinica, convenienza e sicurezza. Al fine di garantire l’efficacia clinica, il veterinario deve prescrivere degli antimicrobici che siano attivi nei confronti delle specie batteriche bersaglio e capaci di raggiungere concentrazioni terapeutiche nella sede dell’infezione. In alcuni casi, ad esempio quando si trattano pazienti immunodepressi, si deve dare la priorità agli antimicrobici con attività battericida. I fattori legati alla convenienza che influiscono sulla scelta degli antimicrobici sono rappresentati dal costo e dalla modalità di somministrazione. La marcata differenza esistente fra i prezzi degli antibiotici di nuova e vecchia generazione deve essere tenuta presente quando è necessaria una terapia a lungo termine, una situazione non rara nel trattamento delle infezioni cutanee. I farmaci che richiedono molteplici somministrazioni quotidiane per via orale o, ancora peggio, il ricorso alle vie paraenterali generano gravi problemi di scarsa osservanza delle prescrizioni. I possibili effetti tossici vanno considerati in relazione allo status di salute del paziente (ad es., nefrotossicità da aminoglicosidi) oppure alla durata temporale del periodo di trattamento (ad es., effetti collaterali da sulfamidici nel cane). Ultimo, ma non meno importante, i veterinari devono cercare di limitare lo sviluppo dell’antibioticoresistenza con un impiego prudente e razionale degli antimicrobici. Nei successivi paragrafi vengono riassunte dieci raccomandazioni chiave per ridurre al minimo la resistenza nel trattamento delle infezioni cutanee:


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1) Identificare ed eliminare la causa primaria della piodermite S. intermedius è la causa secondaria della piodermite nel cane. L’identificazione e l’eliminazione dell’eziologia sottostante sono essenziali per prevenire le infezioni ricorrenti, riducendo così al minimo l’uso degli antimicrobici e la selezione a favore della resistenza. 2) Evitare ogni volta che sia possibile la terapia con antimicrobici sistemici Il modo più efficace per evitare di selezionare batteri resistenti è quello di ridurre al minimo l’uso degli antibiotici. Alcune forme di piodermite superficiale necessitano di una terapia antimicrobica sistemica. 3) Scelta degli antimicrobici in base agli esiti citologici La citologia è importante per la diagnosi e per la scelta degli antimicrobici più appropriati perché rivela la presenza di cellule batteriche, la loro morfologia e la risposta alla colorazione di Gram. 4) Uso della terapia antimicrobica topica nei casi appropriati Quando è possibile, si devono impiegare gli antimicrobici topici invece di quelli sistemici. I primi sono scarsamente assorbiti e non esercitano una pressione selettiva antimicrobica sulla flora commensale residente in altre sedi dell’organismo. 5) Limitare l’uso empirico degli antibiotici I quadri di sensibilità agli antimicrobici di S. pseudintermedius sono imprevedibili. Di conseguenza, si raccomanda di ricorrere agli antibiogrammi, preferibilmente prima di iniziare un trattamento antibiotico.

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ti non sono clinicamente testati negli animali ed il loro uso deve essere riservato alla terapia delle infezioni nell’uomo. 9) Uso di schemi di dosaggio appropriati L’impiego di dosi basse, di intervalli prolungati fra le somministrazioni e di una ridotta durata del trattamento può portare alla recrudescenza dell’infezione ed all’aumento del rischio di selezione di microrganismi resistenti. 10) Considerare accuratamente la disponibilità del proprietario ad osservare le prescrizioni I veterinari devono informare il proprietario dell’importanza del rispetto delle prescrizioni ed indicare farmaci e schemi di dosaggio compatibili con la routine giornaliera del cliente. In conclusione, la dermatologia e, più in generale, la medicina dei piccoli animali sono giunte ad una situazione difficile per quanto riguarda la terapia antimicrobica, una sorta di punto di svolta determinato dall’emergenza di batteri resistenti di importanza clinica, dall’impiego diffuso di antimicrobici ad ampio spettro e dalla mancanza di nuovi principi attivi. Una simile situazione critica richiede una preparazione specifica da parte dei veterinari e pone importanti domande circa il ruolo dei clinici dei piccoli animali in difesa della salute degli animali stessi e dell’uomo. È necessario modificare l’atteggiamento nei confronti della prescrizione antibiotica per preservare l’efficacia degli agenti impiegati ed evitare i rischi per la salute umana ed animale.

Bibliografia 6) Registrare i dati relativi ai risultati degli antibiogrammi La registrazione dei dati relativi agli antibiogrammi costituisce una solida base da utilizzare per mettere in atto e valutare i protocolli terapeutici e rivela l’emergenza di nuovi fenotipi antibioticoresistenti. 7) Limitare l’uso delle cefalosporine e dei fluorochinoloni Questi farmaci hanno importanza critica nella medicina dei piccoli animali. È necessario utilizzarli con prudenza per preservarne l’efficacia e limitare la selezione di batteri resistenti di interesse veterinario e zoonosico. 8) Evitare l’uso l’improprio Evitare di utilizzare gli agenti antimicrobici che non sono registrati per l’impiego in ambito veterinario. Questi prodot-

1.

2. 3.

DANMAP 2006. Use of antimicrobial agents and occurrence of antimicrobial resistance in bacteria from food animals, foods and humans in Denmark. ISSN 1600-2032 [Online]. Copenhagen, Denmark. Available at http://www.food.dtu.dk SVARM 2006. Swedish Veterinary Antimicrobial Resistance Monitoring. 2006. Upsala, Sweden [Online]. Available at http://www.sva.se Guardabassi, L., Houser, G.A., Frank, L.A., Papich, M.G., 2008. Guideline for antimicrobial use in dogs and cats. In Guide to Antimicrobial use in animals Eds. Guardabassi L., Jensen L.B and Kruse H., pp 183-206. Wiley-Blackwell, Oxford, UK

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Emergency in Neonatology Johnny D. Hoskins DVM, PhD, Louisiana, USA

CLINICAL EVALUATION OF THE PUPPY AND KITTEN Clinical evaluation of the puppy and kitten initially focuses on taking a case history and performing the physical examination. The case history and physical examination alone may not, however, provide a definitive diagnosis of any existing or suspected problem. Routine laboratory tests, imaging with radiography and/or ultrasonography, electrocardiography, and other electrodiagnostic procedures should therefore be considered in the initial evaluation, especially if any illness is likely. Diagnostic accuracy can be more readily attained by the correlating all information from these sources.

CASE HISTORY Basic information about the animal, such as breed, age, and sex as well as owner concerns or complaints, is essential to the case history. The chronologic order in which the owner detected any potential problem should be pursued until the owner has described the sequence of events from the time of examination. If information suggesting an abnormality is uncovered, such additional records as nutrition of the animal and dam, number of animals affected within a litter, treatment administered by the owner, and dam’s reproductive history are required to complete the case history.

THE PHYSICAL EXAMINATION After obtaining the case history, the physical examination should be conducted in a systematic manner on a warmed examination table or other warmed surface. Although the examination may be easier to complete by proceeding from head to tail, it is advisable to examine and record observations according to body systems. The first skill used in the examination is careful observation of the animal’s responses to the environment. Specific notes regarding the animal’s general condition, mentation, posture, locomotion, and breathing pattern while on the warmed examination table or in the home environment are significant. Next, the body temperature and weight of an animal should be recorded using a small rectal thermometer and an accurate gram scale. Physical inspection begins by checking the head area for evidence of malformation of the skull, cleft lip, stenotic nares,

or cleft palate. The mucous membranes should be light pink and moist. The teeth, if present, should be examined for early occlusion problems. The skin should be inspected for wounds, state of hydration, completeness of hair cover, and condition of foot pads. When necessary, the dermatologic examination may also require such diagnostic procedures as exfoliative cytology, bacterial culture and sensitivity testing, skin scrapings, and dermatophyte culture and identification of external parasites (e.g., ear mites, fleas, ticks, and chiggers). The umbilicus should be carefully inspected for evidence of infection or abnormalities of the abdominal wall. The limbs, tail, anus, and genitalia should be normal in appearance. After completing the observation and basic inspection phase, the clinician should begin assessing the function of specific body systems. EXAMINATION OF THE EYES. Puppies and kittens are blind at birth because the eyelids are closed and the visual system is poorly developed. The eyelids generally separate into upper and lower eyelids at 5 to 14 days after birth. At this time, visual evidence of menace reflex is present but slow; in some animals, the menace reflex may not appear until around 3 to 4 weeks of life. Reflex lacrimation begins when the eyelids open, evaluation of tear production by Schirmer’s tear test can be done once the eyelids open. Pupillary light responses are present within 24 hours after eyelids separate, although in some animals the responses may not be evident until around 21 days of age. Obvious ocular lesions should be noted during the examination sequence. Optimal examination of the lens and fundus requires the pupil to be dilated using one drop of 1% tropicamide solution, followed in four minutes by a second application. Maximum mydriasis occurs within 15 to 20 minutes. The pupil of puppies and kittens dilates quickly because the lightly pigmented uvea is less likely to bind drug and delay mydriasis. Examination of the eyelids, conjunctiva, cornea, anterior chamber, and iris is best done using a bright-light source and a magnifying loupe. After the pupil is dilated, the penlight or direct ophthalmoscope (set at +8 to +12 diopters) can be used to examine the lens. The retina and optic disc may be evaluated by 6 weeks of age if the ophthalmoscope is set at -2 to +2 diopters. EXAMINATION OF THE EARS. Puppies and kittens are born with closed external ear canals; however, they can perceive sound before the external ear canals open, although hearing is poor. The external ear canals open between 6 and


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14 days after birth and should be completely open by 17 days. Once the external ear canals open, the epithelial lining cells desquamate rapidly for the first week. Cytologic examination at this time shows an abundance of desquamative cells and some oil droplets. The mixed flora that normally reside in an external ear canal develop immediately after the external ear canal opens. A thorough otoscopic examination can usually be made in puppies and kittens older than 4 weeks of age. EVALUATION OF THE THORAX. The circulatory physiology of newborn puppies and kittens is different from that of adults. Compared with adults, puppies and kittens have a lower blood pressure, stroke volume, and peripheral vascular resistance; faster heart rate; and greater cardiac output and central venous pressure. Autonomic innervation the heart and vasculature is incomplete in newborn puppies and kittens, thus providing them with limited baroreceptor control of circulation. The heart rate is faster than 220 beats/min, and the respiratory rate is from 15-35 breaths/min during the first 4 weeks of life. The chronotropic responses to either parasympathetic or sympathetic stimuli are greatly attenuated during the first eight weeks of life because of the functional immaturity of the autonomic nervous system. The normal heart rhythm of puppies and kittens is a regular sinus rhythm. There is little to no variation in rhythm associated with their breathing. AUSCULTATION OF THE HEART. Because the rapid heart rate and the small size of puppies and kittens make definition of the precise anatomic location of heart sounds difficult, a stethoscope with a pediatric chest piece (2-cm bell; 3-cm diaphragm) is preferred for auscultating the heart. Generally heart sounds can be localized to the left cardiac apex (left 5th-6th intercostal space, ventral third of thorax), the left cardiac base (left 3rd-4th intercostal space above the costochondral junction), or the right cardiac apex (right 4th-5th intercostal space opposite the mitral valve area). A heart murmur is the most common type of abnormal sound heard, frequently being a functional murmur or a murmur associated with congenital heart disease. Knowledge of the location, timing, and quality of the murmur is used to determine its cause and significance. Functional murmurs are usually soft (grade 1 to 3/6) early systolic murmurs heard best at the left cardiac base. These murmurs generally result from increased blood velocity, such as occur during fever, sepsis, or high sympathetic tone, or from decreased blood velocity, such as occur during anemia or hypoproteinemia. Murmurs of congenital disease usually are loud and occur with precordial thrill, an abnormal arterial or venous pulse, polycythemia, and/or cardiomegaly. AUSCULTATION OF THE LUNGS. The small amount of air movement within the upper airways and lungs of puppies and kittens makes distinction between normal and abnormal sounds difficult. Absence of lung sounds or audible asymmetry usually indicates abnormalities within the thorax. Auscultation of the lungs can be approached in a systematic manner by dividing the thorax into right and left sides, upper and lower lung fields, and cranial and caudal

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lung fields. Proceeding clockwise on the right side, auscultate the cranial upper quadrant, then the caudal upper quadrant, followed by the caudal lower quadrant, and finally cranial lower quadrant. Repeat the procedure on the left side. NEUROLOGIC ASSESSMENT. The nervous system is not fully developed at birth; therefore, certain tests of neurologic function cannot be readily applied to the newborn puppy or kitten. After birth, the motor skills continue to mature in conjunction with the nervous system. Thermoregulation is poorly developed until 2 weeks of age. Locomotor functions continue to mature so that by 3 weeks of age the puppy or kitten is sitting; in another day or two, it is walking unsteadily. Postural reactions can be used from birth to 8 weeks of age for assessing symmetry of neurologic function. Postural reactions collectively, however, are not fully developed until 6-8 weeks of age. Reactions in the forelimb generally develop before those of the hind limbs. Nystagmus associated with rotatory stimulation appears at the end of the first week. Vestibular nystagmus becomes adultlike by the end of the third week of life. Reflexes must be carefully assessed in newborn puppies and kittens not only because some develop more slowly than others but because the small size of the puppy or kitten may be a technical hindrance to eliciting the reflex. Patellar and extensor carpi radialis tendon reflexes are present at birth; however, the reflexes are difficult to elicit in a newborn puppy or kitten. The forelimb crossed extensor reflex is acquired by some puppies and kittens before birth. For others, the forelimb and hind limb crossed extensor reflex may appear up to the third day of life. Regardless, the crossed extensor reflex ends between 1-2 weeks of age. Persistence of this reflex beyond this age is indicative of upper motor neuron disease. Sucking reflex is present at birth and disappears by 3 weeks of life. Eliminative behaviors are controlled for several weeks by anogenital reflex. The newborn puppy or kitten cannot voluntarily urinate and defecate. Stroking of the puppy’s or kitten’s perineal region or caudal abdomen by the dam or with a paper tissue or wet cloth elicits urination and defecation. The anogenital reflex disappears by 3-4 weeks of age. The corneal reflex is evident as soon as the eyelids completely separate. The palpebral reflex becomes adult-like by the 9th day of life.

LABORATORY TESTS Reference laboratory values for young dogs and cats during the first 4 months of life are different from the values for mature dogs and cats. Because of this, reference intervals that may serve as rough guidelines for interpretation of laboratory data should be consulted. Most clinicians use a commercial laboratory facility for such routine tests as hemograms, serum chemistry profiles, and urine analyses. Collections from young puppies and kittens, however, often result in obtaining inadequate samples for testing by these laboratories. As an alternative, the clinician can use in-house laboratory tests, including microhematocrit to determine the PCV, blood film examination of RBC and WBC morphology, blood glucose and BUN determinations by reagent strips for whole blood, urine evaluation by reagent strip for urinal-


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ysis and a urine sediment examination, and total plasma solids and urine specific gravity determinations by refractometer. The results of these few tests may be sufficient to confirm illness or assist in case management of an illness.

ELECTROCARDIOGRAPHY AND ECHOCARDlOGRAPHY The ECG can be used to diagnose arrhythmias and conduction disturbances in puppies and kittens; however, ECG identification of right- or left-sided chamber enlargement or hypertrophy and alterations in mean electrical axis (MEA) usually is not attempted. The ECG of young kittens normally have small amplitude P waves and QRS complexes in all leads. Any ECG lead with easily recognizable P waves and QRS complexes can be used to identify arrhythmias. Echocardiography, whether obtained by the M-mode, twodimensional, contrast, and/or Doppler echocardiographic technology, has facilitated evaluation of dogs and cats with congenital heart disease or cardiomyopathy by improving the diagnostic accuracy and lessening the stress and risk to animals. The use of echocardiography in young dogs and cats, however, is limited because many times the appropriate-size transducers are not available. The interpretation of echocardiography in puppies and kittens is based primarily on observations derived from adults because studies involving of puppies and kittens have not been done. The interpretation of echocardiography in young puppies and kittens also requires an awareness of the increase in mass of the left ventricle, which develops after birth.

RADIOGRAPHY A finely tuned technique chart is necessary if good-quality radiographs are to be produced for all body parts of young puppies and kittens. Seldom can a technique chart designed for one x-ray machine be used on another x-ray machine with any degree of success. Kilovoltage must be greatly reduced for radiography of a young puppy or kitten because of minimal absorption of x-rays by partially mineralized bones and because of the thinness of soft tissue body parts. A general guideline for reducing kilovoltage is to reduce the radiographic exposure to about one half of that used for adult dogs and cats of the same thickness. Extrapolations to thinner dogs and cats can be made based on the fact that each 1 cm of soft tissue is the equivalent of 2 kVp at values equal to or less than 80 kVp. Most radiography of young puppies and kittens will be performed in the 40 to 60 kVp range; therefore, a change of 4-6 kVp doubles or halves the film exposure. An additional step that can be helpful in producing maximum quality radiographs in young puppies and kittens is to use a single high-detail intensifying screen within the cassette. The single screen should be adhered to the back inner surface of the cassette. The cassette is then loaded with single-emulsion film to take advantage of the increased detail that can be produced with the single screen. The single-emulsion screen should be a rare-earth high-detail type. The emulsion side of the film must be positioned toward the screen.

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SELECTED ELECTRODlAGNOSTIC PROCEDURES The development of computer equipment that can average electrical signals by extracting low-amplitude, time-locked potentials from random background electrical activity have provided procedures for noninvasive evaluation of the auditory and visual system. Recording of the brain stem auditoryevoked response (BAER) is the best objective procedure for assessment of hearing in puppies and kittens. The electrical potential from the cochlea, cochlear nerve, and brain stem in response to an auditory stimulus is recorded. The BAER approximates functional maturity by 4-6 weeks of age. If there is no response at all in puppies or kittens older than 6 weeks of age, the cochlea is not functioning, as may occur with congenital deafness. The electroretinography (ERG) is the electrical recording of retinal response to light. The ERG approximates functional maturity by 5-10 weeks of age. If there is no response at all after 10 weeks of age, the retina is not functioning, as may occur in retinal blindness due to congenital or acquired causes. The visual-evoked response (VER) provides an objective evaluation of the central visual pathways. The VER is the cortical electrical activity that occurs in response to a light stimulus administered to the eye. The VER approximates functional maturity by 6 weeks of age. If there is an altered VER after 10 weeks of age, central visual pathways may not be functioning, as may occur in central blindness due to congenital or acquired causes.

Problems at Birth The immediate problems that may occur in the newborns during natural delivery or quickly after being delivered by non-planned or planned cesarean section are the following. Hypoxia or anorexia is the most common initiating cause of death in newly delivered neonate. When each newborn is delivered from the uterus by natural deliver through the birth canal or by cesarean section, several maneuvers should be performed. Immediately an open airway should be established. It is essential that the newborn’s airway be free of any placental membranes, free fluid, and meconium (first stool passed in a newborn) within 1- to 3-minutes of birth. The placental membranes are torn and removed quickly from around the head, especially those covering the openings of the nostrils. Gentle suctioning and swabbing the oral cavity and laryngeal opening for free fluid should quickly follow the removal of the placental membranes. Thereafter, fluid is expelled from the lumen of the larynx, trachea, and lower airways by a person swinging the newborn gently headfirst in a downward path while supporting head and trunk in a dry, warm towel. The maneuvers of establishing the open airways will usually cause spontaneous breathing to occur. If not, further chest and facial massage with a dry, warm towel may be needed to start spontaneous breathing. In the poorly responsive newborn, reversal of any narcotic or barbiturate anesthetic drugs used in the mother during cesarean section may be needed by instilling one to two drops of naloxone or doxapram onto the newborn’s tongue and roof of the mouth.


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If still unresponsive, then provide positive pressure ventilation or oxygen by way of a facemask. No heartbeats or failing heartbeats of the newborn generally will follow poorly responsive breathing efforts. The heartbeats should be monitored by chest palpation and auscultation. If the heartbeats are undetected, external cardiac massage is performed. If prolonged bradycardia exists, epinephrine, diluted 1:10,000, is instilled into the open airway or oral cavity at dosage of 0.1 ml/kg body weight. Unfortunately, by the time the diluted epinephrine is instilled, these newborns generally do not survive. Life-threatening hypothermia will occur if external warming is not provided immediately after birth. Coldness will contribute to the newborn’s suppressed breathing efforts and heartbeats. The newborn should be quickly dried after birth and maintained in a warm state. The ambient room temperature should be about 84°-86° F (29°-30° C). The rectal temperature of the newborn should be ideally maintained at 95°96° F (35°-35.5° C).

The Newborn Puppies and kittens arrive into this world in a very caredependent state (Table 1). They are born with little spontaneous movement and must receive stimulation from the mother’s licking to begin breathing, irregularly at first. Because of the inability in maintaining body heat, it is always important for newborns to stay close to their mother and littermates. The newborn roots with their nose like it is looking for mother’s nipple, which begins to disappear at four days of life, to establish the initial bond with mother and warmth. With this rooting activity, the newborn will orient itself toward and push into any warm object near its head, and warm object(s) would most likely be their mother or littermates. A newborn will also orient toward the source of licking directed at its head and dorsum, using the licking act as orientation toward its mother. Newborns also rely on their mother for food, elimination, cleanliness, and protection. Their eyes and ears are sealed that reflect an incompletely developed nervous system. They are incapable of thermal regulation for the first six days of life and require an external heat source to stay warm for 1 to 3 weeks of life. They nurse from the mother every 1 to 2 hours for the first week, and the mother licks their external genitalia both to stimulate urination and defecation and clean them after every feeding. Five to 14 days after delivery, the puppies’ and kittens’ eyes open but have limited vision; a day or so later their external ear canals open. By 18 days of age they begin to move around and explore their environment. Keep mother and neonates in a confined area such as in a box with sides high enough both to keep them inside and to prevent drafts. Raise the bottom of the box off the floor and cover it with padded, disposable, or washable flooring such as indoor-outdoor carpeting and disposable diapers or cotton towels to stay as warm and dry as possible. Materials that become slippery when wet such as newspapers should not be used as bedding. A puppy’s or kitten’s rectal temperature should be maintained at 96° to 97° F (35.5˚ to 36.1˚ C) for

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the first week of life and at 97° to 100° F (36.1˚ to 37.7˚ C) for the second, third, and fourth weeks. Do not cover the entire floor of the box with a warming device such as a heating pad or heat lamp; the neonate must be able to get away from the heat source if it gets too warm. A ticking clock placed in the box may help to keep puppies and kittens quiet if mother is unwilling to stay with the neonate most of the time under they are able to walk and explore.

Nutrition Inadequate nutrition in the newborn will lead to prompt dehydration and muscular weakness. Milk consists of mainly water that contains various lipids, sugars, minerals, and minor constituents. It is, thus, always important to encourage immediate suckling by the newborn to provide water, nourishment, glucose, and colostral antibodies. If nursing does not occur immediately, provide nourishment in the form of a commercial milk replacer or use warm 5% dextrose in water delivered by a feeding tube until nursing can occur. Healthy puppies, during the first 2 to 3 weeks of their life, should only eat and sleep. Nursing should be vigorous and active, with each puppy receiving sufficient milk from its mother. If the mother is healthy and well nourished, the puppy’s nutritional needs for its first 3 to 4 weeks of life should be provided completely by her. Indications that the puppy is not receiving sufficient milk are constant crying, extreme inactivity, and/or failure to achieve weight gains in accordance with the general guidelines that a puppy should gain 1 to 2 g/day/lb (2 to 4 g/day/kg) of anticipated adult weight, or at least 10% gain per day. For example, if the adult dog is expected to weigh 30 lbs, as a puppy it should gain 30 to 60 g/day during its first 5 months of life. Healthy kittens, during their first 4 weeks of life, should nurse vigorously and actively. If the mother is healthy and well nourished, the nutritional needs of the kittens during this time should be filled completely by her. Each kitten should receive sufficient milk from its mother. Kittens not receiving sufficient milk cry constantly, are restless or extremely inactive, and/or fail to achieve the expected weight gain of 10 to 15 g/day.

Walrus Puppy Syndrome When a non-planned or planned cesarean section is performed in breeds such as English and French bulldogs, a puppy is delivered that many times looks like a “Walrus” — often referred to as “bulldog water puppy” or “walrus puppy syndrome”. Many times those in attendance of the cesarean section that the walrus puppy should be put down since they never live is decided on the spot. What should really be done? Well, there is a similar condition in humans to the walrus puppy situation. Physicians treat the excessive fluid accumulation during pregnancy before it gets out of hand with the mothers by limiting fluid intake, weight gain, and the liberal use of diuretics. Common diuretics commonly used are thiazides and furosemide. If the baby is born with excessive fluid


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accumulation, the physician tries to dry the child out as quickly as possible. At birth, all the fluid is in the tissues of the newborn. There is no excess fluid anywhere except in the subcutaneous tissues of the skin. The reason for this is the fact that the fetus uses the umbilical cord and the lungs and liver of the mother for his basic metabolic functions. The fetus’ lungs and liver are clear and its heart is strong since the heart has not really been working. If the excessive fluid accumulation is not treated and the newborn is allowed to fend for itself, it will typically die. The newborn heart begins to pump the blood around the body and this blood picks up the accumulated fluid from the subcutaneous tissues and skin. The blood stream becomes overloaded with water. The newborn’s kidneys are unable to excrete all of the fluid that is delivered to them. Thus, the body begins to distribute this fluid to other organs of the body, such as lungs, liver, and brain. Eventually, the newborn drowns in its own fluid within the first 24 hours after birth. In addition, physicians have recognized that if they give a diuretic to the newborn they could enhance the ability of the kidney to excrete a greater amount of fluid and possibly prevent the inevitable drowning. The newborns would live longer with the diuretic therapy but then die on the second day. It was then determined that the cause of death on the

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second day was due to excessive loss of potassium. Potassium is responsible for the heart to continue to beat. If the body’s concentration of potassium is lowered below a certain level, the heart will stop. It was later found that the kidney, when it is making urine, loses 3 meq of potassium for each 100 ml of urine it produces. Armed with this information, physicians began replacing potassium along with the use of the diuretic and these newborns began surviving. Of course, the preferred treatment for a walrus puppy is prevention. If a breeder and veterinarian see a pregnant bitch putting on excessive weight as fluid accumulation, a diuretic should be administered. Thiazide diuretics are the safest, since they spare potassium and will not interfere with normal heart activity. What do a breeder and veterinarian do when presented with a walrus puppy? The following is the sequence of events to use in the treatment of a walrus puppy. 1. Immediately clear the puppy’s airways and keep it in a warm location with the other puppies. 2. Weigh the walrus puppy in grams before beginning any treatment. 3. Administer immediately furosemide (50 mg/ml) at 0.2 ml (total dose) intramuscularly. 4. Now weigh a normal size newborn puppy in the litter. 5. Subtract the weight of the normal size puppy from the

Table 1 - AGE-RELATED DEVELOPMENTAL STAGES Body System

Age

Developmental Stages

Eyes

Birth-13 days

Eyelids are closed, but puppies respond to a bright light with a blink reflex. This reflex disappears at 21 days probably due to development of accurate pupil control. Palpebral reflex is present at 3 days, becoming adult-like by 9 days.

5-14 days

Menace reflex is present, but slow. Eyelids separate into upper and lower lids. Pupillary light responses are present within 24 hours after eyelids separate. Reflex lacrimation begins when eyelids separate. Corneal reflex is present after eyelids separate.

3-4 weeks

Vision should be normal.

Birth-5 days 10-14 days

External ear canals are closed. Hearing is poor. External ear canals open (should be completely open by 17 days). For the first week after the ear canals are completely opened there is an abundance of desquamated cells and some oil droplets, which is normal as the ear canals remodel to the external environment.

Ears

Teeth

4-6 weeks

Deciduous incisors erupt, followed by deciduous canines.

4-8 weeks

Deciduous premolars erupt.

Circulatory

Birth-4 weeks

Lower blood pressure, stroke volume and peripheral vascular resistance present. Increased heart rate (>220 bpm), cardiac output and central venous pressure present. Heart rhythm is regular sinus.

Respiratory

Birth-4 weeks

Respiratory rate is 15 to 35 breaths per minute.

Neuromuscular

Birth

Flexor dominance is present at birth, with extensor dominance starting as early as 1 day. Seal posture reflex can last up to 19 days. Sucking reflex is present, but disappears by 23 days. Anogenital reflex disappears between 23-39 days. Cutaneous pain perception is present, but withdrawal reflex is noticeable at about 7 days. Tonic neck reflexes are present until 3 weeks of age. Can raise head. Righting response is present. Myotatic reflexes are present at birth, but difficult to elicit in newborns. Panniculus reflex is present at birth.

5 days

Nystagmus associated with rotatory stimulation appears at the end of the first week. Cross extensor reflex ends between 2-17 days — persistence of this reflex indicates upper motor neuron disease. Direct forelimb support of body weight.

14-16 days

Puppies are crawling. Rear limb support of body weight.

20 days

Puppies can sit and has reasonable control of distal phalanges.

22 days

Puppies are walking normally. Vestibular nystagmus becomes adult-like.

23-40 days

Puppies are climbing and have air righting response.

3-4 weeks

Hemiwalking response, but may not be fully developed in rear limbs until 6 weeks old.

6-8 weeks

Postural reactions are fully developed.

The time frame is an approximation for normal development, with variances occurring with some individuals.


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weight of the walrus puppy. This is the amount of fluid and weight that has to be removed from the walrus puppy. 6. Move the walrus puppy around every 30 to 60 minutes and hold it to encourage urination. Weigh the walrus puppy every 3 hours and record its weight loss. The puppy has to be maintained warm at all times. 7. Every 3 hours determine how much fluid (weight) the walrus puppy has lost. At this time, repeat the furosemide injection and give the walrus puppy oral potassium chloride by a medicine dropper or syringe. The potassium chloride can be obtained as a pediatric elixir from a human pharmacy. Potassium chloride can also be purchased as a 10% solution from the human pharmacy. For each 30 grams of weigh loss, give one meq of potassium chloride. There are approximately one meq of potassium chloride per one ml of solution. One ml equals 20 drops. 8. Repeat the treatment regime every 3 hours until the walrus puppy weighs no more than 30 to 45 grams of the other puppies in the litter. Then, the puppy should be home free. The treatment regime outlined above has been helpful. For example, an English bulldog litter is delivered by way of planned cesarean section. The litter has six puppies weighing 420 to 480 grams, while a littermate walrus puppy weighs 960 grams. With the medical management as out-

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lined above, during the first 3 hours the walrus puppy losses 120 grams. A medicine dropper administers four milliequivalents of potassium chloride orally. During the next 3 hours, the puppy losses 80 grams and is given 3 milli-equivalents of potassium chloride. This approach continues for the next 24 hours. At the end of this time, the puppy weighs 510 grams and is nursing from its mother.

Pediatric Critical Care The most life-threatening diseases in 6- to 12-week-old puppies and kittens include infectious diseases (canine distemper and viral enteritis in puppies; feline leukemia virus infection, feline infectious peritonitis, and panleukopenia in kittens). General concerns regarding management of these sick puppies and kittens include prevention of hypoglycemia, dehydration, hypoproteinemia, and anemia. Without immediate treatment, canine parvovirus type 2 enteritis is often a rapidly fatal disease in puppies 6 weeks to 6 months old, ending in severe dehydration, endotoxic or septic shock, and multiple organ failure. With aggressive therapy and supportive care, however, a survival rate of 85% to 95% can be achieved in most dog breeds, with the exception being the Rottweiler.

Medical Management of a Sick Puppy or Kitten I. External warming procedure A. Use circulating hot water blanket, rice bags, or hot water bottle B. Take at least 20 to 30 minutes for gradual warming of the animal C. Turn the animal every hour D. Record rectal temperature every hour II. Parenteral fluid therapy A. Use balanced multiple electrolyte solution supplemented with 5% dextrose solution B. Supplement the fluids with potassium chloride solution if plasma potassium concentration is less than 2.5 mEq/L C. Administer warm fluids slowly by intravenous or intraosseous route III. Glucose replacement therapy A. Administer 5% dextrose solution intravenously or intraosseously to effect B. Administer 1 to 2 ml/kg of a 10% to 20% dextrose solution to the animal that is profoundly depressed or having seizures C. Maintain plasma glucose concentration at 80 to 200 mg/dl for euglycemia IV. Antimicrobial therapy A. Collect bacterial culture samples (whole blood, urine, exudate, and feces) before initiation of antimicrobial therapy 1. For blood culture, collect 1 ml of whole blood aseptically and inoculate blood directly into enriched tryptic or trypticase soy broth, dilute the whole blood 1:5 to 1:10 in enriched broth, and examine broth for bacterial growth 6 to 18 hours later 2. For urine culture, collect urine by cystocentesis and culture it by standard methods 3. For exudate and fecal cultures, collect and culture by standard methods B. Empirical treatment with antimicrobial agent(s) begins immediately after collection of appropriate bacterial culture samples C. Adjust the dosage and dosing interval of antimicrobial agent(s) selected D. Administer antimicrobial agent(s) by the intravenous or intraosseous route V. Provide oxygen and nutritional therapy A. Administer oxygen by mask or intranasal catheter to counteract tissue hypoxemia B. Encourage food intake once animal is normothermic and adequately hydrated VI. Monitor the effectiveness of medical management A. Observe for improvement in the animal’s general demeanor B. Regularly assess the cardiopulmonary status (it is extremely easy to overhydrate the ill puppy and kitten; thus, attentive monitoring of breathing pattern is helpful for early recognition of overhydration) C. Weigh the animal three to four times a day to record weight gain D. Observe for moistness and color of mucous membranes in assessing for adequate hydration


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Pediatric Renal Disease Urinary tract disorders of puppies and kittens may result from heritable (genetic) or acquired disease processes affecting differentiation and growth of the developing urinary tract, or from similar processes that eventually affect the structure or function of the mature urinary system. Successful management of urinary tract disorders depends on familiarity with the structure and functions of the kidneys, ureters, urinary bladder, and urethra.

Renal Dysplasia Renal dysplasia refers to disorganized parenchymal development characterized by segmental or focal areas of immature or anomalous structures in an otherwise normal kidney. Renal aplasia represents a more severe generalized form of dysplasia that affects the entire kidney. Renal dysplasia has been observed in male and female puppies, but rarely in kittens. Renal dysplasia is a familial disorder in the Lhasa Apso, Shih Tzu, Soft-Coated Wheaten terrier, and standard poodle. In addition, a hereditary basis is strongly suspected in Keeshonds, Chow Chows, and Miniature Schnauzers. Renal dysplasia has been associated with in utero inoculation of kitten fetuses with panleukopenia virus, and in puppies with canine herpesvirus. Puppies with renal dysplasia may appear clinically normal for extended periods prior to development of signs of chronic renal failure (CRF). The rate at which renal dysplasia progresses to overt renal failure depends upon the severity of initial renal lesions and factors resulting in progressive loss of renal functional mass. Age of onset of clinical signs is variable, ranging from 4 weeks to more than 5 years; however, most cases of chronic renal failure (CRF) are recognized in puppies younger than 2 years. Early signs of CRF are often subtle and may include lethargy, selective appetite, poor hair coat, variable weight loss, nocturia, and mild to moderate polyuria and polydipsia. Severe dysplasias are associated with signs of advanced CRF and uremia (anorexia, depression, vomiting, diarrhea, dehydration, halitosis, oral ulceration, pale mucous membranes, and severe weight loss). Abdominal palpation may reveal small, irregularly shaped kidneys. Symmetrical enlargement of the maxilla and mandible, bone pain, soft pliable mandibles (“rubber jaw”), and pathological fractures are occasionally observed in young dogs with renal dysplasia, and are indicative of severe renal osteodystrophy. Laboratory findings with renal dysplasia reflect changes associated with CRF and typically include azotemia, hyperphosphatemia, metabolic acidosis, and normocytic normochromic nonregenerative anemia. Serum calcium concentrations may be decreased, normal, or increased. Typically, serum calcium concentrations are normal to decreased in animals with CRF; however, some puppies develop hypercalcemia. Urinalysis usually reveals an inappropriately low urine specific gravity, an inactive urine sediment, and occasional mild to moderate proteinuria. A diagnosis of renal dysplasia is based on breed and clinical and laboratory findings. A definitive diagnosis of renal dysplasia depends on

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identification of primary dysplastic lesions by microscopic evaluation of renal tissues obtained by biopsy or necropsy. Primary lesions suggestive of renal dysplasia include 1) fetal or immature glomeruli and/or tubules, 2) persistent mesenchyme, 3) persistent metanephric ducts, 4) atypical tubular epithelium, and 5) dysontogenic metaplasia. Renal dysplasia is an irreversible and often progressive disorder for which there is no specific therapy. However, clinical and pathologic consequences of renal failure may be minimized by supportive and symptomatic therapies designed to correct fluid, electrolytes, acid-base, endocrine, and nutritional imbalances. Therapeutic strategies for the management of CRF include the following: 1) ameliorate clinical signs of uremia, 2) correct fluid, electrolyte, and acid-base abnormalities, 3) minimize endocrine and hematologic disturbances, 4) provide adequate nutritional support, 5) modify progression of renal dysfunction, and 6) avoid conditions which exacerbate or promote progressive renal dysfunction. Recommendations regarding therapy should be individualized for each puppy. Because CRF associated with renal dysplasia is often progressive, serial clinical and laboratory evaluations are helpful for effective long-term management. Since moderate protein restriction is of benefit in uremic dogs and cats, and may have potential long-term benefits with respect to renal hemodynamics, proteinuria, renal growth, and phosphate retention, it is logical to recommend feeding reduced-protein diets. Optimal daily protein requirements for puppies and kittens with CRF are not known. Therefore, serial determinations of serum albumin concentration and body weight should be performed to monitor for malnutrition and hypoalbuminemia. Hyperphosphatemia is a major factor promoting development of renal secondary hyperparathyroidism and progressive decline of renal function in dogs and cats with CRF. A goal of medical therapy is to normalize serum phosphorous concentrations. In early stages of CRF, hyperphosphatemia may be controlled by dietary phosphorous restriction alone. In advanced CRF, control of serum phosphorous concentrations may require administration of oral intestinal phosphate binding agents. Serum phosphorous concentrations should be monitored regularly to evaluate therapeutic efficacy of dietary phosphate restriction and intestinal phosphate binders.

Glomerulopathies Congenital renal diseases affecting predominantly the glomerulus have been described in young Bernese mountain dogs, English cocker spaniels, Samoyeds, Doberman pinschers, bull terriers, cocker spaniels, and Rottweilers. Proteinuria is the hallmark of glomerular disease. Although severe proteinuria may be associated with the nephrotic syndrome (i.e., proteinuria, hypoalbuminemia, hypercholesterolemia, and edema), most puppies and kittens with congenital glomerulopathies develop signs of advanced CRF.

Canine Diabetes Insipidus • Diabetes insipidus can be (1) hypothalamic-neurohypophyseal (central) in origin, caused by an insufficiency


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or deficiency of antidiuretic hormone (ADH), or (2) nephrogenic in origin, in which there is a renal inability to respond to ADH. Nephrogenic diabetes insipidus is not a hypothalamic or neurohypophyseal disease but a failure of the kidneys to respond to ADH; it causes signs identical to those caused by central diabetes insipidus. The cardinal signs of diabetes insipidus are excessive thirst and voiding of excessive quantities of clear urine. Urine volume exceeds 50 ml/kg body weight daily; compensatory water consumption exceeds normal, which is less than 100 ml/kg daily. Although polyuria and severe dehydration do not occur as long as there is free access to water, rapid dehydration quickly progressing to death will result if water is withheld. Affected animals have nocturia and will awaken at night to drink. Urinalysis reveals persistently dilute urine. Often the urine specific gravity and osmolality are less than 1.006 and 200 mOsm/kg body weight, respectively. Normal dogs and cats have a urine osmolality in excess of 400 mOsm/kg body weight and a specific gravity of more than 1.015 on random samples. Differential diagnoses for diabetes insipidus include diabetes mellitus, psychogenic polydipsia, hyperadrenocorticism-like disease, severe hepatic disease, and severe renal disease. Each of these except psychogenic polydipsia causes at least one marked abnormality in routine hemograms or serum chemistry determinations. Uncomplicated central diabetes insipidus does not cause any abnormalities in routine hemogram or serum chemistry evaluations. Psychogenic polydipsia causes plasma hypoosmolality. Diabetes insipidus causes plasma hyperosmolality. After ruling out other causes for polyuria and polydipsia, a water deprivation test should be considered. The water deprivation test is unnecessary and contraindicated if dehydration or plasma hyperosmolality is already present. Close supervision during this test is very important because animals with complete central or nephrogenic diabetes insipidus may lose 5% of their body weight in voided urine and have cardiovascular collapse within 4 hours of water deprivation. A water deprivation test should never be performed on a dehydrated, hyperglycemic, or azotemic animal. The water deprivation test is simply performed by fasting the animal 12 hours, followed by withdrawing the animal’s access to water, recording an initial body weight, and weighing the animal every 2 hours. When the body weight has decreased 5%, the urinary bladder should be emptied by catheterization. After 2 more hours without water, another urine sample is collected and evaluated. A urinary concentration of at least 900 mOsm/kg body weight or a specific gravity of 1.025 in dogs and 1000 mOsm/kg body weight or specific gravity of 1.030 in the cat indicate adequate ADH production and urine-concentrating ability. Critical evaluation of urine-concentrating ability is best done using urine-to-plasma osmolality ratios. A ratio of less than 1:1 is characteristic of diabetes insipidus. Ratios of more than 3:1 are normal. Partial ADH or ADH action deficiency, renal medullary washout, and severe dehydration in con-

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junction with complete ADH deficiency can produce intermediate ratios of 1:1 to 3:1. Failure to concentrate urine adequately after a properly conducted water deprivation test is diagnostic for diabetes insipidus. To differentiate the cause, an exogenous ADH response test using an intramuscular or subcutaneous dose of 0.1 U/kg, bodyweight of aqueous vasopressin should be done at the end of an abnormal water deprivation test. Limited amounts of water can be offered during the ADH response test. Central diabetes insipidus typically is identified by a marked increase in urine specific gravity in 2 to 12 hours after the administration of ADH. Nephrogenic diabetes insipidus is characterized by unresponsiveness to the administration of exogenous ADH. If an affected animal is capable of ingesting sufficient water to compensate for urinary water loss, no other treatment than providing adequate access to water may be necessary. However, most animals are either severely affected or demonstrate a degree of excessive thirst and urination that is unacceptable to the owner. Central diabetes insipidus can be treated with a synthetic arginine ADH for intranasal use, desmopressin (DDAVP). One to three drops in a nostril or in the conjunctival sac per day is generally sufficient. Chlorpropamide stimulates the secretion of ADH, when ADH can still be produced, and it also sensitizes the renal tubules to ADH. It has been used in dogs in doses of 50 to 250 mg daily and in cats in doses of 50 mg daily. Potential adverse reactions are hypoglycemia, nausea, and skin eruptions. Treatment of nephrogenic diabetes insipidus can be attempted with 20 to 40 mg/kg body weight of chlorothiazide twice per day, or 2.5 to 5 mg/kg body weight of hydrochlorothiazide and a low-salt diet. Thiazide diuretics and a low-salt diet can decrease the glomerular filtration rate, indirectly causing increased reabsorption of sodium in the proximal convoluted tubule. This decreases the volume of water presented to the loop of Henle and distal convoluted tubules, resulting in a reduction of urine volume by 20%-50%. Potassium supplements may be required.

PEDIATRIC DISEASES OF THE LIVER AND PANCREAS Congenital Portosystemic Venous Shunts The hepatic portal system develops from the umbilical and omphalomesenteric systems. The mesenteric portions of the omphalomesenteric veins become the tributaries of the portal vein. Small anastomoses develop between the portal and systemic circulation routes that become the normal portosystemic venous communications. In the fetus, blood from the umbilical vein flows directly to the caudal vena cava through the ductus venosus, thus bypassing the liver. By passively responding to changes in the systemic or hepatic circulation, the ductus venosus stabilizes the venous return to the fetal heart as the umbilical venous return fluctuates. Functional and morphologic closure of the ductus venosus


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does not occur at the same time after birth. Functional closure develops gradually during the second and third days after birth in the puppy. Morphologic closure occurs as the ductus atrophies, resulting in the formation of a thin fibrous band, the ligamentum venosum, within the liver. The ductus closure depends on changes in pressure and resistance across the hepatic vasculature that follows the postnatal obliteration of the umbilical circulation. Morphologic closure of the ductus occurs by 1 to 3 months after birth. Congenital portosystemic venous shunts (PSS) are abnormal vascular connections between the portal and systemic venous circulation. Several different types of congenital PSS occur in young dogs and cats, including but not limited to (1) persistent patent fetal ductus venosus, (2) direct portal vein to caudal vena cava, (3) direct portal vein to azygos vein, (4) combination of portal vein with caudal vena cava into the azygos vein, (5) left gastric vein to vena caval shunt, (6) portal vein hypoplasia or atresia with secondary anomalous vessel, and (7) anomalous malformation of the caudal vena cava. Congenital PSS in puppies and kittens are usually single anomalous vessels in extrahepatic or intrahepatic locations, while acquired PSS most commonly occur as multiple extrahepatic smaller vessels that become patent during sustained portal hypertension. The consequences of the anomalous portal circulation are the portal blood contains toxins absorbed from the intestines that is delivered directly to the systemic circulation without benefit of hepatic detoxification, contributing to signs of hepatic encephalopathy, and hepatotrophic factors in the visceral circulation draining the gastrointestinal tract and pancreas do not circulate directly to the liver, causing inadequate liver development and reduced functional liver tissue. Signs of hepatic dysfunction associated with congenital PSS are usually exhibited at a young age in puppies and kittens. Puppies may exhibit the signs as early as 6- to 8-weeks of age. The signs in puppies are variable but may include vomiting, diarrhea, anorexia, small body stature, weight loss, intermittent fever, polyphagia, polydipsia, hematuria, hypersalivation, intolerance to anesthetic agents or tranquilizers that require hepatic metabolism or excretion, atypical behavior, and rarely ascites or icterus. Intermittent neurologic abnormalities associated with ingestion of protein-laden food or resolving hemorrhage are common and may include episodic aggression, amaurosis, ataxia, incessant pacing, circling, head pressing, and seizures. Some puppies are presented with ammonium biurate uroliths located in the urinary tract. Most cases of congenital PSS in kittens (by 6 months of age in 75% of affected kittens) occur in Himalayan, Persian, and mixed breed cats, although any breed may be presented with a congenital PSS. Kittens may exhibit signs as early as 6- to 8-weeks old. The signs of congenital PSS are usually hypersalivation, seizures, ataxia, tremors, and depression. Intermittent or permanent blindness and mydriasis are also observed. Other less often noted signs may include vomiting, diarrhea, anorexia, tachypnea, dyspnea, and nasal discharge. Polyuria and polydipsia are observed infrequently. Dysuria may be observed in kittens with ammonium biurate calculi. About two-thirds of affected kittens will have small body stature and be thin and unkempt.

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Definitive diagnosis of congenital PSS in puppies and kittens is often not possible by routine laboratory evaluations. Complete blood counts (CBC), serum chemistry profiles, and urinalysis may help rule out other causes of presenting signs such as acute renal failure, electrolyte derangements, hypoglycemia, and urinary tract disorders. The CBC findings may include microcytic, normochromic erythrocytes and/or a mild nonregenerative anemia. Poikilocytosis has been observed in peripheral blood films of some kittens with congenital PSS. Urinalysis may reveal ammonium biurate crystals, when viewed under magnification (x400) to see their typical color and shape. Serum chemistry profiles may reveal mild increases in the serum activity of ALT, AST, and ALP. Because of the young age of the animals at initial diagnosis, the serum ALP activity is usually two- to threefold greater than normal. The serum activity levels of the ALT and AST are less frequently increased. In some cases, active liver disease coexists with a congenital PSS, and the animals so affected have mildly to moderately increased liver enzyme activity and notable hepatic inflammation and/or fibrosis on histopathologic examination. In most animals with congenital PSS, the total bilirubin values are normal. Albumin values may be mildly decreased. Coagulation profiles including prothrombin time, activated partial thromboplastin time, and fibrinogen are usually normal. Serum glucose values may be normal, mildly reduced, or markedly hypoglycemic. In some cases, the hypoglycemia-produced neuroglycopenia may complicate the recognition of the congenital PSS. Animals with congenital PSS may become hypoglycemic due to insufficient glycogen stores, abnormal responsiveness to glucagon, hyperglucagonemia, or abnormal insulin metabolism. These abnormalities, coupled with the metabolic immaturity of the young animal’s liver, may cause profound hypoglycemia during the first weeks of life. Toy-breed puppies appear to be at increased risk for profound hypoglycemia. The blood urea nitrogen (BUN) concentration may be low or in the low normal range in any young animal with hepatic dysfunction. The most reliable and consistent blood test for the detection of liver dysfunction in puppies and kittens with congenital PSS is the 12- to 24-hour fasted and 2-hour postprandial serum bile acid concentrations. Diagnostic imaging of a puppy or kitten with abnormal serum bile acid values is to determine if a suspected congenital PSS is present. Animals with congenital PSS frequently have reduced hepatic size, i.e., rounded contour of the caudal edge of the liver and cranial displacement of the stomach radiographically. In addition, these animals may have opaque ammonium biurate calculi. Ultrasonographic findings in puppies with congenital PSS include small liver, reduced visibility of intrahepatic portal vasculature, and anomalous blood vessel draining into the caudal vena cava or sometimes into the azygos vein. If serum chemistry profile and serum bile acid concentrations indicate ongoing hepatic dysfunction, then medical management should be continued. Medical management is directed to minimizing the signs of hepatic encephalopathy and includes manipulation of dietary proteins and intestinal flora and avoidance of medications or substances capable of inducing encephalopathic signs. A restricted protein diet (2.0 to 2.5 mg/kg) composed of proteins rich in branched-chain amino


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acids with comparatively smaller amounts of aromatic amino acids is recommended. Foods containing milk protein (dried milk or cottage cheese) are best. The bulk of the caloric intake should consist of simple carbohydrates such as boiled white rice. Meals should be frequent and small amounts to maximize digestion and absorption so that minimal residue is passed into the colon, where intestinal anaerobic bacteria degrade nitrogenous compounds to ammonia. Commercial diets formulated for liver or renal dysfunction and a diet formulated for intestinal disease are used with success in most puppies and kittens with congenital or acquired PSS. Manipulation of intestinal flora with antimicrobial agents and lactulose also produces marked clinical improvement. For animals presented in encephalopathic crisis, intravenous isotonic electrolyte solutions supplemented with 2.5% or 5.0% dextrose solution and potassium chloride, cleansing enemas with warmed 0.9% saline solution, or enemas with added neomycin (15 to 20 ml of 1% solution tid-qid), lactulose (5 to 10 ml diluted 1:3 with water tid-qid), or betadine solution (10% solution, rinse after 10 minutes with warm water) are recommended. For long-term medical management of encephalopathic signs, lactulose is given orally at a dosage of 0.25 to 1.0 ml per 4.5 kg body weight, the dose adjusted to the frequency and consistency of the stools passed each day. Two to three soft or pudding-consistency stools indicate an optimal dose. Too great a dose may result in flatulence, severe diarrhea, dehydration, and acidemia. To further manipulate the intestinal flora, neomycin (22 mg/kg orally bid-tid), metronidazole (7.5 mg/kg orally bid-tid), ampicillin (5 mg/kg orally bid-tid), or amoxicillin (2.5 mg/kg orally bid) may be used intermittently for several weeks.

Congenital Hepatoportal Microvascular Dysplasia Hepatoportal microvascular dysplasia is characterized by the presence of multiple microscopic intrahepatic shunts. The microvascular dysplasia occurs in the same dog breeds that have the congenital PSS, possibly being an inherited disorder in Cairn terriers. Most dogs with microvascular dysplasia are asymptomatic, probably because only a small amount of blood is being shunted away from the liver. When signs are present, they are similar to those seen in dogs with congenital extrahepatic and intrahepatic PSS, with the exception that most dogs with microvascular dysplasia usually present at an older age. The most prominent laboratory abnormality is increased serum bile acid concentrations. There are no ultrasonographic, surgical, or portographic evidence of a congenital PSS, and the rectal portal scintigraphy is normal. Medical treatment is the same as for any suspected congenital PSS. Asymptomatic dogs with increased serum bile acids as their only detectable abnormality do not require treatment.

Inflammatory Pancreatic Disease The pancreas is a unique organ possessing both exocrine (digestive) and endocrine (hormonal) functions. Inflammatory pancreatic disease affecting only the exocrine portion is

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extremely uncommon in young dogs and cats. Consequently, inflammatory pancreatic disease, i.e., acute pancreatitis or relapsing pancreatitis that more commonly affects older dogs and cats, has been rarely identified in dogs and cats younger than 6 months of age. The likely causes of inflammatory pancreatic disease in the young dog and cat are abdominal trauma and infectious agents. Abdominal trauma may induce pancreatitis in dogs that are traumatized by motor vehicles and in cats that have fallen or jumped from high places (high rise syndrome). In addition, abdominal surgery may result in acute pancreatitis due to traumatic injury to the pancreas (spearing the pancreas with a surgical instrument) or excessive manipulation of the pancreas. Infectious agents can occasionally contribute to inflammatory pancreatic disease. Pancreatic necrosis can be found on postmortem examination of an occasional dog afflicted with canine parvovirus (CPV-2) infection. It is not known whether the canine parvovirus is directly cytotoxic to the pancreatic tissue or pancreatitis occurs secondarily to the invasion of enzymes and bacteria of the intestinal tract into the pancreas. In cats, pancreatitis may be associated with the effusive form of feline infectious peritonitis (FIP). Other infectious agents directly associated with inflammatory pancreatic disease in the young dog and cat would be extremely unusual and most likely a one-time occurrence. Although seldom required, laboratory confirmation of inflammatory pancreatic disease includes a complete blood count, serum chemistry profile, serum amylase and lipase determinations, serum trypsin-like immunoreactivity (TLI) assay, and survey radiographs and/or ultrasonography of the abdomen. Normal values for serum amylase and lipase activity in dogs and cats younger than 6 months of age are generally indicative of normal adult values. Hyperamylasemia and hyperlipasemia combined with typical clinical features of inflammatory pancreatic disease, as seen in adult animals, establish the diagnosis of inflammatory pancreatic disease until proven otherwise. The serum TLI assay may be increased – TLI values >35 μg/L in young dogs and >50 μg/L in young cats are consist with pancreatitis. Its treatment is entirely supportive and is managed in a manner similar to that for the afflicted older dog or cat.

Pediatric Gastrointestinal Diseases At birth to 3 weeks of age, a sick puppy or kitten is limp and relaxed, with poor muscle tone. They often have pale, gray, or cyanotic membranes and lack normal bowel sounds on abdominal auscultation. Diarrhea is present in approximately 60% of sick puppies and kittens. After dehydration and hypoglycemia are corrected, oral feeding can be initiated if a suckling reflex and bowel sounds are present. Puppy or kitten milk replacer can be fed with a bottle, dosing syringe, or feeding tube. If a feeding tube is used, care must be taken not to place it in the trachea. Improper placement is more likely in puppies and kittens because the gag reflex does not develop until 10 days of age. If diarrhea occurs, the milk replacer should be diluted at a 1:2 ratio with balanced multiple electrolyte solution until the diarrhea resolves. Before 1985, canine parvovirus type 1 was considered a


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nonpathogenic parvovirus of dogs; however, since 1985 clinical infections of canine parvovirus type 1 in neonatal puppies have been demonstrated. It appears to be widespread in the canine population and is restricted to causing clinical disease in puppies younger than 3 weeks. It is likely that the virus spread is similar to that of canine parvovirus type 2. Four to 6 days after oral exposure, canine parvovirus type 1 can be recovered from the small intestine and other organs. In addition, canine parvovirus type 1 is capable of crossing the placenta and producing early fetal deaths and birth defects. Affected puppies usually are presented with diarrhea, vomiting, dyspnea, constant crying, and sudden death – the same clinical signs as seen in canine herpesvirus infection. Treatment of affected puppies is usually unrewarding because of the rapid progression of the disease. Mortality may be reduced by ensuring that the environmental temperature of newborn puppies is kept warm and adequate nutrition and hydration are provided. Toxic milk syndrome may cause bloating, green diarrhea, crying, and a red edematous rectum. Puppies should be removed from the mother and supplemented with milk replacer, and the mother should be evaluated for underlying diseases such as mastitis or metritis. During the period between 3 and 6 weeks of age, the most life-threatening problems are internal and external parasites, juvenile hypoglycemia, dehydration from diarrhea, and traumatic insult. Internal parasites can result in a significant burden at 2 to 4 weeks of age. Toxocara species can be transmitted transplacentally from the mother and Ancylostoma species are

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ingested through the mother’s milk. Proper perinatal care of the mother should prevent severe parasitic infections in puppies and kittens of this age. In cases of poor husbandry, however, Toxocara species can cause weight loss, unthriftiness, abdominal distention, and diarrhea, while Ancylostoma species can cause life-threatening anemia. Puppies and kittens can be treated with pyrantel pamoate (5-10 mg/kg administered orally) as early as 2 to 3 weeks of age, and this can be repeated every 2 to 3 weeks until at least 12 weeks of age. Severe anemia (pale mucous membranes, tachycardia, weakness, packed cell volume <15) and hypoproteinemia may require a whole blood transfusion. Whole blood is diluted at a 1:10 ratio with a citrate anticoagulant and is given through a millipore blood filter at dosage of 10 ml/lb over 2 hours. Intraosseous or intravenous administration is preferred in critically ill puppies or kittens, but blood can be given by the intraperitoneal route as a last resort. Iron supplementation should be given following transfusion in anemias involving blood loss. Protozoal parasites that may cause diarrhea in puppies and kittens include Giardia species and Cystisospora species. Giardiasis is treated with metronidazole (30 mg/kg administered orally for 7 to 10 days), febantel (30-40 mg/kg administered orally once daily for 7 days), or fenbendazole (50 mg/kg administered orally once daily for 7 days). Coccidiosis can be managed with sulfadimethoxine at 50 mg/kg on the first day followed by a daily dose of 25 mg/kg until signs regress. Now, ponazuril (Marquis) 20 mg/kg on each of two consecutive days is being used for coccidiosis. External par-

Summary of Products for Management of Bacterial Infection or Canine Parvoviral Enteritis Drug Antiemetic Agents Chlorpromazine Metoclopramide Prochlorperazine Antimicrobial Agents Amikacin Ampicillin Cefotaxime Cefazolin Ceftiofur Enrofloxacin Gentamicin Imipenem-cilastatin Ticarcillin-clavulanate Adjunctive Therapies Antiendotoxin Recombinant granulocyte colony Stimulating factor Specific hyperimmune plasma Gastric Protectants Cimetidine Famotidine Ondansetron Ranitidine Sucralfate

Dosage and Route* 0.5 mg/kg tid IM 1.0 mg/kg tid rectal via plastic catheter (calculated dose diluted in 1 ml of normal saline solution) 0.05 mg/kg tid IV 0.2-0.4 mg/kg tid SC 1-2 mg/kg administered every 24 hours as a slow IV infusion for severe vomiting 0.1 mg/kg tid-qid IM 10 mg/kg tid IM, SC 10-20 mg/kg tid-qid IV, IM, SC, IO 25-50 mg/kg tid-qid IV, IM, IO 22 mg/kg tid IV, IM, IO 2.2-4.4 mg/kg bid SC 5 mg/kg bid IM, SC, IV, IO 2.2 mg/kg tid IM, SC 5 mg/kg tid IM, IV, IO 20-30 mg/kg tid IV, IO According to manufacturer’s directions 5 μg/kg sid SC 1.1-2.2 ml/kg IV or SC 5-10 mg/kg bid-tid IM, SC, IV, IO 0.5 mg/kg bid-tid IM, SC, IV, IO 0.1-0.15 mg/kg bid-qid IV, IO 2-4 mg/kg bid-tid IM, SC, IV, IO 1 g dissolved in 10 ml of warm water tid PO

*PO = oral administration; SC = subcutaneous administration; IV = intravenous administration; IM = intramuscular administration; IO = intraosseous administration; sid = Once daily; bid = twice daily; tid = three times daily; qid = four times daily.


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asites may cause severe debilitation in young animals. Most flea and tick products should not be used in nursing animals. The mother should be treated, but her nipples should be avoided or rinsed. Bedding should be washed or discarded. The safest way to treat young puppies and kittens is to spray a towel with pyrethrin insecticide and wrap the animal’s body in the towel, leaving the head out. A flea comb can be used to remove dead and dying fleas. If the puppy or kitten is bathed, extreme care must be taken to avoid hypothermia. In some cases, ectoparasite infestation is so severe that a blood transfusion is required. The most life-threatening diseases in 6- to 12-week-old puppies and kittens include infectious diseases (canine distemper and viral enteritis in puppies; feline leukemia virus infection, feline infectious peritonitis, and panleukopenia in kittens). General concerns regarding management of these sick puppies and kittens include prevention of hypoglycemia, dehydration, hypoproteinemia, and anemia. Without immediate treatment, canine parvovirus type 2 enteritis is often a rapidly fatal disease in puppies 6 weeks to 6 months old, ending in severe dehydration, endotoxic or septic shock, and multiple organ failure. With aggressive therapy and supportive care, however, a survival rate of 85% to 95% can be achieved in most dog breeds, with the exception being the Rottweiler.

SUGGESTED PROTOCOL FOR OPTIMAL CARE OF PUPPIES WITH CANINE PARVOVIRAL ENTERITIS Initial Treatment Plan 1. Aseptically place an intravenous or intraosseous indwelling catheter. 2. Obtain a minimum database, including packed cell volume, total plasma solids, blood urea nitrogen, glucose, sodium, and potassium, or even better, obtain a complete blood cell count and serum chemistry profile with electrolytes. 3. Provide adequate fluids for reperfusion of vital organs utilizing lactated Ringer’s solution or Normosol-R at a volume and rate adequate to restore perfusion to the vital organ at a supranormal level. If perfusion is poor, rapidly infuse a bolus of hetastarch or dextran 70 at a rate of 20 ml/kg for initial resuscitation and provide supplemental oxygen by nasal catheter. Do not use hypertonic saline solution in this resuscitative process, as the puppy is usually severely dehydrated. 4. Rehydrate with lactated Ringer’s solution or Normosol-R at a rate of 3 to 10 ml/kg/h initially until hydration is restored over 4 hours. The maintenance rate is 2 to 3 ml/kg/h. Using hetastarch or dextran 70, less fluid is lost into the gastrointestinal tract, and the total volume of fluid required for rehydration is approximately 50% of what is used when lactated Ringer’s solution or Normosol-R is used alone. 5. Administer intravenous antimicrobial agents such as first-generation cephalosporins. If the puppy appears to be septic, consider cephalosporins, an aminoglycoside, and metronidazole once perfusion has improved.

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6. Palpate the puppy’s abdomen at least every 4 hours to detect intussusception. 7. Give nothing orally until vomiting is controlled. 8. Flush indwelling catheter with heparinized saline every 6 hours. 9. Warm or cool the puppy as deemed necessary once perfusion has been restored. 10. Listen for bowel sounds. If decreased or no bowel sounds are detected, put the puppy on metoclopramide via the intravenous drip. 11. Control significant vomiting with metoclopramide or chlorpromazine. If vomiting is persistent, place a nasogastric tube and suction the gastric contents every 1 to 2 hours initially. Back off the frequency of suctioning as directed by withdrawal of gastric fluid. Use the nasogastric tube to give microenteral nutrition. 12. Consider nutritional support early in the course of hospitalization. Once the vomiting has been controlled, begin the puppy on oral electrolyte solution supplemented with glucose. This can be done by giving 2 to 10 ml of a oral electrolyte solution by dosing syringe, or the oral electrolyte solution can be placed in a fluid bag and dripped continuously into the nasogastric tube at a rate of 2 to 10 ml/h. Once the puppy tolerates the oral electrolyte solution for at least 4 to 6 hours, begin liquid nutritional supplementation.

Check Monitoring 1. Packed cell volume, total plasma solids, blood urea nitrogen, glucose, sodium, and potassium every 4 to 6 hours. Supplement and adjust fluid rate as deemed necessary. 2. Check perfusion parameters (mucous membrane color, pulse rate and intensity, capillary refill time, blood pressure, central venous pressure) every 2 to 4 hours, and resuscitate with fluids +/- hetastarch or dextran 70 as necessary. 3. Estimate quantity of vomiting, diarrhea, and urine output, and record observations every 2 hours. 4. Monitor rectal temperature every 4 to 6 hours.

Maintenance 1. Anticipate the problems of poor perfusion, severe dehydration, hypokalemia, hypoglycemia, hypoproteinemia, aspiration pneumonia, sepsis/septic shock, intussusception, hyperthermia or hypothermia, and massive fluid replacement requirements. 2. Maintain the albumin concentration above 2 mg/dl, which likely needs to be done with fresh-frozen plasma on hospital days 2 to 4. 3. Administer hetastarch or dextran 70 at a rate of 20 ml/kg over 4 hours, decreasing lactated Ringer’s solution or Normosol-R during this time interval, on hospital days 2 and 3.

Address for correspondence: Johnny D. Hoskins - Small Animal Internal Medicine Consultant Choudrant, LA 71227 USA


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Medicina d’urgenza in neonatologia Johnny D. Hoskins DVM, PhD, Louisiana, USA

VALUTAZIONE CLINICA DEL CUCCIOLO E DEL GATTINO La valutazione clinica del cucciolo e del gattino inizialmente viene focalizzata sulla raccolta dell’anamnesi e sull’esecuzione dell’esame obiettivo. Tuttavia, l’indagine anamnestica e quella clinica, da sole, possono anche non portare ad una diagnosi definitiva di un problema esistente o sospettato, di qualsiasi natura. Nell’ambito della valutazione iniziale, soprattutto se si ritiene probabile una qualsiasi malattia, è necessario prendere in considerazione anche le indagini di laboratorio di routine, le tecniche di diagnostica per immagini mediante radiografia e/o ecografia, l’elettrocardiografia e le altre procedure elettrodiagnostiche. Correlando tutte le informazioni ottenute attraverso queste fonti si può giungere più facilmente ad una diagnosi accurata.

ANAMNESI Ai fini dell’anamnesi sono essenziali le informazioni di base relative all’animale, come la razza, l’età ed il sesso, nonché le preoccupazioni o le lamentele del proprietario. È necessario stabilire l’ordine cronologico con cui quest’ultimo ha individuato ogni potenziale problema in modo da ottenere una descrizione della sequenza degli eventi fino momento della visita. Se le informazioni raccolte suggeriscono un’anomalia non scoperta, per completare l’indagine anamnestica è necessario ricorrere alla valutazioni di registrazioni aggiuntive come la nutrizione dell’animale e della madre, il numero degli animali colpiti all’interno della stessa cucciolata, il trattamento somministrato dal proprietario e l’anamnesi riproduttiva della madre.

ESAME CLINICO Dopo aver effettuato l’indagine anamnestica, si deve condurre un esame clinico sistematico su un tavolo da visita riscaldato o su un’altra superficie calda. Benché sia più facile effettuare l’esame procedendo dalla testa verso la coda, è consigliabile valutare e registrare le varie osservazioni facendo riferimento ai diversi apparati. La prima capacità utilizzata nel corso della visita è l’accurata osservazione delle risposte dell’animale all’ambiente. Sono da ritenere significative tutte le specifiche note relative alle condizioni generali dell’animale, allo stato mentale, alla postura, alla loco-

mozione ed al quadro della respirazione mentre si trova sul tavolo da visita riscaldato o nell’ambiente domestico. Successivamente, è necessario rilevare la temperatura corporea ed il peso dell’animale utilizzando un piccolo termometro rettale ed una bilancia precisa sino al grammo. L’ispezione fisica inizia controllando l’area della testa per rilevare segni di malformazioni del cranio, labbro leporino, stenosi delle narici o palatoschisi. Le mucose devono essere di colore rosa chiaro ed umide. I denti, se presenti, devono essere esaminati per rilevare precocemente eventuali problemi di occlusione. La cute va ispezionata alla ricerca di ferite e per valutare lo stato di idratazione, la completezza della copertura da parte del mantello e le condizioni dei cuscinetti plantari. Quando è necessario, l’esame dermatologico può anche richiedere procedure diagnostiche come la citologia esfoliativa, la coltura batterica e gli antibiogrammi, i raschiati cutanei e la coltura dermatofitica e l’identificazione dei parassiti esterni (ad es., acari dell’orecchio, pulci, zecche e larve di Trombicula). L’ombelico va accuratamente ispezionato per rilevare segni di infezione o anomalie della parete addominale. Gli arti, la coda, l’ano ed i genitali devono avere un aspetto normale. Una volta completata l’osservazione e la fase dell’ispezione di base, il clinico deve iniziare a valutare la funzione degli specifici apparati. ESAME DEGLI OCCHI. Cuccioli e gattini sono ciechi alla nascita perché le palpebre sono chiuse ed il sistema visivo è scarsamente sviluppato. Le palpebre generalmente si separano dividendosi in superiore ed inferiore all’età di 5-14 giorni dopo la nascita. A questo punto, la prova visiva del riflesso della minaccia è già presente, ma lenta; in alcuni animali, questo riflesso può non comparire fino a circa 3-4 settimane di vita. La lacrimazione riflessa inizia quando si aprono le palpebre; a questo punto si può effettuare anche la valutazione della produzione lacrimale mediante test di Schirmer. Il riflesso pupillare può essere presente entro 24 ore dalla separazione delle palpebre, sebbene in alcuni animali le risposte possano non essere evidenti fino a circa 21 giorni di età. Nel corso della sequenza dell’esame si devono rilevare le eventuali lesioni oculari evidenti. L’esame ottimale della lente e del fondo dell’occhio richiede la dilatazione della pupilla con una goccia di soluzione di tropicamide all’1%, seguita entro 4 minuti da una seconda applicazione. La midriasi massima si ottiene entro 15-20 minuti. La pupilla dei cuccioli e dei gattini si dilata rapidamente perché l’uvea leggermente pigmentata ha minori probabilità di legare il farmaco e ritardare la midriasi. L’esame di palpebre, con-


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giuntiva, cornea, camera anteriore ed iride va effettuato preferibilmente utilizzando una fonte luminosa brillante ed una lente di ingrandimento (loupe). Dopo che la pupilla è stata dilatata, si può esaminare la lente servendosi di una lampada a stilo o di un oftalmoscopio diretto (regolato a +8 +12 diottrie). La retina ed il disco ottico possono essere valutati da sei settimane di età se l’oftalmoscopio viene regolato a –2 +2 diottrie. ESAME DELLE ORECCHIE. Cuccioli e gattini nascono con condotto uditivo esterno chiuso; tuttavia, sono in grado di percepire i suoni già prima che questi condotti si aprano, anche se l’udito è scarso. I condotti uditivi esterni si aprono tra 6 e 14 giorni dopo la nascita e devono essere completamente pervi entro 17 giorni. Una volta che il condotto uditivo esterno si apre, le cellule del rivestimento epiteliale desquamano rapidamente durante la prima settimana. L’esame citologico a questo punto evidenzia un’abbondante quantità di elementi desquamativi ed alcune gocce oleose. La flora mista che normalmente risiede nel condotto uditivo esterno si sviluppa immediatamente dopo la sua apertura. Di solito, nei cuccioli e nei gattini con più di quattro settimane di vita è possibile effettuare un approfondito esame otoscopico. VALUTAZIONE DEL TORACE. La fisiologia circolatoria dei cuccioli e dei gattini neonati è differente da quella degli adulti. In confronto a questi ultimi, cuccioli e gattini presentano livelli più bassi di pressione sanguigna, gittata sistolica e resistenza vascolare periferica, una frequenza cardiaca più rapida e valori più elevati di gittata cardiaca e pressione venosa centrale. L’innervazione autonoma del cuore e della vascolarizzazione è incompleta nei gattini e nei cuccioli neonati, che sono quindi dotati di un limitato controllo barocettoriale della circolazione. La frequenza cardiaca è più rapida di 220 battiti al minuto e quella respiratoria è compresa fra 15 e 35 atti/minuto durante le prime 4 settimane di vita. Le risposte cronotrope agli stimoli parasimpatici o simpatici sono notevolmente attenuate durante le prime 8 settimane di vita, a causa dell’immaturità funzionale del sistema nervoso autonomo. Il ritmo cardiaco normale dei cuccioli e dei gattini è regolare e sinusale. Le variazioni di ritmo associate alla respirazione sono scarse o assenti. AUSCULTAZIONE DEL CUORE. Poiché la frequenza cardiaca è rapida e le ridotte dimensioni di cuccioli e gattini rendono difficile definire con precisione la localizzazione anatomica dei toni cardiaci, per l’auscultazione del cuore si preferisce utilizzare uno stetoscopio dotato di una campana di tipo pediatrico (campana di 2 cm, membrana di 3 cm). Generalmente, i toni cardiaci possono essere localizzati in corrispondenza dell’apice cardiaco sinistro (quinto-sesto spazio intercostale sinistro, terzo ventrale del torace), della base sinistra del cuore (terzo-quarto spazio intercostale sinistro, al di sopra della giunzione costocondrale) o dell’apice cardiaco destro (quarto-quinto spazio intercostale destro, dal lato opposto all’area della valvola mitrale). Il più comune tipo di tono cardiaco anormale è il soffio; frequentemente è di tipo funzionale, oppure associato ad una cardiopatia congenita. Per determinare la causa ed il significato del soffio è necessario conoscerne la localizzazione, il momento tempo-

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rale e la qualità. I soffi funzionali sono solitamente molli (grado da 1 a 3/6) all’inizio della sistole e meglio udibili in corrispondenza della base cardiaca di sinistra. Questi soffi generalmente derivano da un aumento della velocità del sangue come avviene in caso di febbre, sepsi o elevato tono simpatico, oppure da un calo della velocità del sangue come si ha durante l’anemia o l’ipoproteinemia. I soffi da cardiopatia congenita di solito sono forti e si verificano con un fremito precordiale, un polso venoso o arterioso anormale, policitemia e/o cardiomegalia. AUSCULTAZIONE DEI POLMONI. La scarsità del movimento di aria all’interno delle vie aeree superiori e dei polmoni dei cuccioli e dei gattini rende difficile distinguere i suoni normali da quelli anormali. L’assenza di suoni polmonari o un’asimmetria udibile di solito indica la presenza di anomalie all’interno del torace. L’auscultazione dei polmoni può essere effettuata con un approccio sistematico dividendo il torace in lato destro e sinistro, campo polmonare superiore ed inferiore e campo polmonare craniale e caudale. Procedendo in senso orario sul lato destro, si effettua l’auscultazione del quadrante craniale superiore, poi di quello caudale superiore, seguito da quello caudale inferiore ed infine da quello craniale inferiore. L’intera procedura viene ripetuta sul lato sinistro. VALUTAZIONE NEUROLOGICA. Alla nascita, il sistema nervoso non è completamente sviluppato; di conseguenza, certi test di valutazione della funzione neurologica non possono essere facilmente applicati al cucciolo o gattino neonati. Dopo la nascita, le capacità motorie continuano a maturare in associazione con il sistema nervoso. La termoregolazione è scarsamente sviluppata fino a 2 settimane di età. Le funzioni locomotorie continuano a maturare, in modo tale che a 3 settimane di vita il cucciolo o gattino è in grado di restare seduto; dopo altri 1 o 2 giorni, riesce a camminare con un’andatura incerta. Le reazioni posturali possono venire utilizzate dalla nascita ad 8 settimane di età per valutare la simmetria della funzione neurologica. Le reazioni posturali nel complesso, tuttavia, non sono completamente sviluppate fino all’età di 6-8 settimane. Le reazioni dell’arto anteriore generalmente si sviluppano prima di quelle degli arti posteriori. Il nistagmo associato alla stimolazione rotatoria compare alla fine della prima settimana. Il nistagmo vestibolare diviene simile a quello dell’adulto alla fine della terza settimana di vita. I riflessi devono essere accuratamente valutati nei cuccioli e nei gattini neonati, non solo perché alcuni si sviluppano più lentamente di altri, ma perché le ridotte dimensioni di questi animali possono costituire un impedimento tecnico a suscitare il riflesso. I riflessi del tendine rotuleo e del tendine estensore radiale del carpo sono presenti alla nascita; tuttavia, sono difficili da suscitare nel cucciolo o nel gattino neonato. Il riflesso estensore crociato dell’arto anteriore viene acquisito da alcuni cuccioli e gattini prima della nascita. Per altri, questo riflesso, come quello corrispondente dell’arto posteriore, può comparire fino a 3 giorni dopo la nascita. Indipendentemente da ciò, il riflesso estensore crociato termina fra 1 e 2 settimane di vita. La sua persistenza dopo questa età è indicativa di una malattia da motoneurone superiore. Il riflesso di suzione è presente alla nascita e scompare entro la ter-


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za settimana di vita. I comportamenti legati all’eliminazione delle deiezioni vengono controllati per parecchie settimane dal riflesso anogenitale. Il cucciolo o il gattino neonato non è in grado di urinare o defecare volontariamente. La stimolazione della regione perineale o della parte caudale dell’addome di questi animali con lievi colpetti da parte della madre oppure con un tovagliolo di carta o un panno umido sollecitano la minzione o la defecazione. Il riflesso anogenitale scompare all’età di 3-4 settimane. Quello corneale risulta evidente non appena le palpebre si separano completamente. Il riflesso palpebrale diviene simile a quello da adulto a partire dal nono giorno di vita.

ESAMI DI LABORATORIO I valori di riferimento per gli esami di laboratorio nei cani e nei gatti giovani durante i primi quattro mesi di vita sono diversi da quelli degli adulti delle stesse specie animali. Perciò, è necessario consultare gli intervalli di riferimento che possono servire da linee guida di massima per l’interpretazione dei dati di laboratorio. La maggior parte dei clinici si serve di laboratori commerciali per i test di routine come l’esame emocromocitometrico completo, il profilo biochimico e l’analisi dell’urina. I campioni prelevati da cuccioli e gattini giovani, tuttavia, spesso risultano inadeguati per i test effettuati da questi laboratori. Come alternativa, è possibile utilizzare dei test da effettuare a livello ambulatoriale, come il microematocrito per determinare l’ematocrito, l’esame di uno striscio di sangue per valutare la morfologia di eritrociti e leucociti, le determinazioni della glicemia e dell’azotemia mediante strisce reattive su campioni di sangue intero, l’analisi dell’urina con le specifiche strisce reattive, l’esame del sedimento urinario, la determinazione dei solidi plasmatici totali e quella del peso specifico dell’urina mediante refrattometria. I risultati di questi pochi test possono essere sufficienti a confermare l’esistenza di una malattia o comunque contribuire alla gestione del caso in esame.

ELETTROCARDIOGRAFIA ED ECOCARDIOGRAFIA L’ECG può venire utilizzato per diagnosticare le aritmie ed i disturbi della conduzione nei cuccioli e nei gattini; tuttavia, l’identificazione elettrocardiografica di un ingrossamento o un’ipertrofia della camera di destra o di sinistra e delle alterazioni dell’asse elettrico medio (MEA) di solito non vengono tentate. L’ECG dei gattini giovani presenta normalmente onde P e complessi QRS di ampiezza limitata in tutte le derivazioni. Qualsiasi derivazione elettrocardiografica che consenta di ottenere onde P e complessi QRS facilmente riconoscibili può essere utilizzata per identificare le aritmie. L’ecocardiografia, indipendentemente dal fatto che sia stata ottenuta in M-mode, bidimensionale, con mezzo di contrasto e/o con tecnologia ecocardiografica Doppler, ha facilitato la valutazione dei cani e dei gatti con cardiopatia congenita o miocardiopatia migliorando la precisione diagnostica e diminuendo lo stress ed il rischio per l’animale. L’uso dell’ecocardiografia nei cani e nei gatti giovani, tut-

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tavia, è limitato perché spesso non si dispone di trasduttori di dimensioni appropriate. L’interpretazione dell’ecocardiografia nei cuccioli e nei gattini è basata principalmente sulle osservazioni derivate dagli adulti, perché non sono stati effettuati studi su animali di età così giovane. Anche l’interpretazione dell’ecocardiografia nei cuccioli e nei gattini giovani richiede la conoscenza dell’aumento della massa del ventricolo sinistro, che si sviluppa dopo la nascita.

RADIOGRAFIA Per ottenere immagini radiografiche di buona qualità da tutte le parti corporee di cuccioli e gattini giovani è necessario uno schema tecnico finemente regolato. È raro che uno schema tecnico messo a punto per un apparecchio radiografico possa essere utilizzato con un altro con un certo grado di successo. Per l’esame radiografico di un cucciolo o un gattino giovane il kilovoltaggio deve essere notevolmente ridotto, perché l’assorbimento dei raggi X da parte delle ossa parzialmente mineralizzzate è minimo e le parti corporee composte da tessuti molli sono molto sottili. Una linea guida di carattere generale per la riduzione del kilovoltaggio prevede di ridurre l’esposizione radiografica a circa la metà di quella usata per i cani ed i gatti adulti dello stesso spessore. Le estrapolazioni per i cani ed i gatti più sottili possono essere effettuate basandosi sul fatto che ogni centimetro di tessuti molli è equivalente a 2 kVp a valori pari o inferiori ad 80 kVp. La maggior parte degli esami radiografici nei cuccioli e nei gattini giovani viene effettuata nella gamma compresa fra 40 e 60 kVp.; di conseguenza, una variazione di 46 kVp raddoppia o dimezza l’esposizione della pellicola. Un altro accorgimento che può essere utile per produrre radiografie della massima qualità nei cuccioli e nei gattini giovani è quello di utilizzare un singolo schermo di rinforzo a dettaglio elevato all’interno della cassetta radiografica. Il singolo schermo deve essere fatto aderire alla superficie interna posteriore della cassetta. Quest’ultima viene poi caricata con una pellicola ad emulsione singola per sfruttare l’aumento di dettaglio che si può ottenere con un singolo schermo. Lo schermo ad emulsione singola deve essere del tipo a terre rare ed a dettaglio elevato. Il lato emulsionato della pellicola deve essere posizionato rivolto verso lo schermo.

PROCEDURE ELETTRODIAGNOSTICHE SELEZIONATE Lo sviluppo dell’apparecchiatura computerizzata che può calcolare la media dei segnali elettrici estraendo dall’attività elettrica random di fondo i potenziali a bassa ampiezza e a durata bloccata ha messo a disposizione procedure per la valutazione non invasiva dell’apparato uditivo e visivo. La registrazione della risposta uditiva evocata del tronco encefalico (BAER, brain stem auditory-evoked response) è la migliore procedura obiettiva per valutare l’udito nei cuccioli e nei gattini. Viene registrato il potenziale elettrico proveniente dalla coclea, dal nervo cocleare e dal tronco encefalico in risposta ad uno stimolo uditivo. Il BAER raggiunge valori prossimi alla maturità funzionale dall’età di 4-6 setti-


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mane. Se non si ha alcuna risposta nei cuccioli e nei gattini con più di 6 settimane di vita, la coclea non è più funzionante, come può avvenire in caso di sordità congenita. L’elettroretinografia (ERG) è la registrazione elettrica della risposta retinica alla luce. L’ERG si avvicina alla maturità funzionale all’età di 5-10 settimane. Se non si riscontra alcuna risposta dopo la decima settimana di vita, la retina non sta funzionando, come può avvenire nella cecità retinica da cause congenite o acquisite. La risposta visiva evocata (VER) consente di effettuare una valutazione obiettiva delle vie centrali della visione. La VER è l’attività elettrica corticale che si ha in risposta ad un lieve stimolo esercitato sull’occhio. Il valore di questo parametro si avvicina alla maturità funzionale all’età di 6 settimane. Se si riscontra una sua alterazione dopo le 10 settimane di vita, può darsi che le vie centrali della visione non stiano funzionando, come può avvenire nella cecità centrale da cause congenite o acquisite.

Problemi alla nascita I problemi immediati che possono insorgere nei neonati durante il parto naturale o poco dopo la nascita, attraverso un taglio cesareo, pianificato o meno, sono i seguenti. L’ipossia o l’anoressia è la più comune causa scatenante di morte nei neonati appena partoriti. Quando ciascun neonato viene espulso dall’utero in modo naturale attraverso il canale del parto oppure attraverso taglio cesareo, è necessario effettuare diverse manovre. Bisogna immediatamente garantire la pervietà delle vie aeree. È essenziale che queste siano libere da ogni eventuale residuo di invogli placentari, fluidi liberi e meconio (prime feci emesse da un neonato) entro 1-3 minuti dalla nascita. Gli invogli fetali vengono lacerati e rimossi rapidamente dalla zona intorno alla testa, in particolare quelli che ricoprono le aperture delle narici. Dopo la rimozione degli invogli placentari, è necessario effettuare rapidamente una delicata aspirazione e tamponamento del cavo orale e dell’apertura laringea per rimuovere i fluidi liberi. Successivamente, si espelle il liquido viene espulso dal lume della laringe, della trachea e delle vie aeree profonde facendo dondolare delicatamente il neonato tenendolo con la testa verso il basso e al tempo stesso sostenendone la testa ed il tronco con un telo caldo ed asciutto. Le manovre volte a stabilire la pervietà delle vie aperte finiscono per indurre la comparsa della respirazione spontanea. In caso contrario, per avviarla può darsi che si debba ricorrere ad un’ulteriore massaggio del torace e della regione facciale con un telo caldo ed asciutto. Nei neonati che rispondono poco e male, può essere necessario far regredire ogni eventuale effetto dei narcotici o dei barbiturici utilizzati come anestetici nella madre durante il parto cesareo instillando 1 o 2 gocce di naloxone o doxapram sulla lingua del neonato e sulla volta del cavo orale. Se l’animale non risponde ancora, si può ricorrere alla respirazione a pressione positiva o alla somministrazione di ossigeno mediante maschera facciale. L’assenza o la debolezza dei battiti cardiaci nel neonato è generalmente conseguente ad una scarsa risposta agli sforzi respiratori. I battici cardiaci vanno monitorati mediante palpazione ed auscultazione del torace. Se non vengono rileva-

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ti, si ricorre al massaggio cardiaco esterno. In presenza di una bradicardia prolungata, si instilla nelle vie aeree aperte o nella cavità orale dell’adrenalina diluita 1:10000 alla dose di 0,1 ml/kg di peso corporeo. Sfortunatamente, dal momento in cui si instilla l’adrenalina diluita, questi neonati generalmente non sopravvivono. Se immediatamente dopo la nascita non viene garantito un riscaldamento esterno si può avere un’ipotermia potenzialmente letale. Il raffreddamento contribuisce a sopprimere gli sforzi respiratori ed i battiti cardiaci del neonato. Quest’ultimo deve essere rapidamente asciugato dopo la nascita e mantenuto caldo. La temperatura ambiente deve essere di circa 29-30°C. Quella rettale del neonato, in condizioni ideali, va mantenuta a 35-35,5°C.

Il neonato Cuccioli e gattini arrivano in questo mondo in uno stato che risulta davvero bisognoso di cure (Tab. 1). Vengono partoriti con scarsi movimenti spontanei e devono ricevere un’opportuna stimolazione da parte della madre che deve leccarli per farli iniziare a respirare, dapprima in modo irregolare. A causa dell’incapacità di mantenere il calore corporeo, è sempre importante che i neonati restino vicini alla madre e ad i fratelli. Per instaurare il legame iniziale con la madre e con il calore, i neonati frugano col naso come se stessero cercando il capezzolo, una manifestazione che inizia a scomparire all’età di 4 giorni. Con questa attività di ricerca il neonato si orienta in direzione di e spinge contro qualsiasi oggetto caldo vicino alla testa, dato che gli oggetti caldi con tutta probabilità saranno la madre o i fratelli. Un neonato si orienta anche verso la fonte del leccamento diretta verso la sua testa ed il dorso, usando l’atto di leccamento per volgersi verso la madre. I neonati si basano anche sulla madre per le esigenze di cibo, l’eliminazione delle deiezioni, la pulizia e la protezione. I loro occhi ed orecchie sono chiusi, il che riflette un incompleto sviluppo del sistema nervoso. Non sono in grado di effettuare la termoregolazione per i primi sei giorni di vita e per 1-3 settimane necessitano di una fonte di calore esterna per rimanere caldi. Assumono il latte della madre ad intervalli di 1-2 ore per la prima settimana, e la madre lecca i loro genitali esterni per stimolare la minzione e la defecazione e per pulirli dopo ogni pasto. A distanza di 5-14 giorni dal parto, gli occhi dei cuccioli e dei gattini si aprono, ma la visione è limitata. Un giorno circa più tardi di aprono i condotti uditivi esterni. All’età di 18 giorni questi animali iniziano a muoversi intorno e ad esplorare l’ambiente. La madre ed i neonati vanno posti in un’area confinata, come una scatola con i bordi abbastanza alti da tenerli all’interno e proteggerli dalle correnti d’aria. Il fondo della scatola va sollevato dal pavimento e coperto con un rivestimento imbottito, monouso o lavabile come uno zerbino e dei pannolini monouso o teli di cotone per mantenere gli animali il più possibile caldi ed asciutti. I materiali che diventano scivolosi quando sono umidi, come i giornali, non vanno mai usati come lettiera. La temperatura rettale del cucciolo o del gattino va mantenuta a 35-36,1°C per la prima settimana di vita ed a 36,1-37,7°C per la seconda, la terza e la quarta.


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Non si deve coprire l’intero pavimento della scatola con un dispositivo di riscaldamento come un materassino riscaldato o una lampada termica; il neonato deve essere in grado di allontanarsi dalla fonte di calore se ha troppo caldo. Un orologio ticchettante posto nella scatola può servire a mantenere tranquilli i cuccioli ed i gattini se la madre non è disposta a rimanere con i neonati la maggior parte del tempo quando questi diventano in grado di camminare ed esplorare.

Nutrizione La nutrizione inadeguata nel neonato porta ad una repentina disidratazione e debolezza muscolare. Il latte è composto principalmente da acqua, che contiene vari lipidi, zuccheri, minerali e componenti minori. Quindi, è sempre importante incoraggiare l’immediata suzione da parte del neonato per garantire l’apporto di acqua, principi nutritivi, glucosio e anticorpi colostrali. Se l’allattamento non inizia immediatamente, la nutrizione va garantita sotto forma di latte artificiale del commercio oppure con l’impiego di una soluzione riscaldata di destrosio al 5% in acqua somministrata attraverso una sonda da alimentazione fino a che l’animale non inizia a nutrirsi dalla madre. I cuccioli sani, durante le prime 2-3 settimane della loro vita, devono solo mangiare e dormire. L’allattamento deve essere vigoroso ed attivo, con ciascun cucciolo che riceve una quota sufficiente di latte dalla madre. Se quest’ultima è sana e ben nutrita, deve essere in grado di coprire completamente le esigenze nutrizionali del cucciolo per le prime 3-4 settimane di vita. Le indicazioni del fatto che il cucciolo non sta ricevendo latte a sufficienza sono rappresentate da pianto costante, estrema inattività e/o mancato raggiungimento degli incrementi ponderali in accordo con le linee guida generali secondo cui questi animali dovrebbero aumentare di 1-2 grammi/libbra/giorno (2-4 grammi/chilo/die) del peso previsto da adulto, o come minimo in misura pari ad un aumento del 10% al giorno. Ad esempio, se ci si aspetta che il cane adulto pesi 15 kg, un cucciolo dovrebbe aumentare di 30-60 grammi al giorno durante i primi 5 mesi di vita I gattini sani, nelle loro prime quattro settimane di vita, devono poppare energicamente ed attivamente. Se la madre è sana e ben nutrita, deve essere in grado di coprire completamente le esigenze nutrizionali dei gattini durante questo periodo. Ciascun gattino deve ricevere latte a sufficienza dalla madre. Quelli che non lo fanno piangono costantemente, sono irrequieti o estremamente inattivi e/o non riescono a raggiungere il previsto incremento ponderale di 10-15 grammi/die.

Sindrome del cucciolo tricheco Quando si esegue un taglio cesareo, pianificato o meno, in razze come il bulldog inglese e francese, si ottiene un cucciolo che molto spesso somiglia ad un “tricheco”, spesso indicato come “cucciolo di bulldog marino” o “sindrome del cucciolo tricheco”. Spesso, ai proprietari in attesa della nascita di cuccioli mediante taglio cesareo viene chiesto di decidere sul momento di accettare la soppressione di questi particolari animali, dal momento che non vivono mai. Cosa

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si dovrebbe fare davvero? Bene, nell’uomo esiste una condizione simile alla situazione del cucciolo tricheco. I medici trattano l’eccessivo accumulo di fluidi durante la gravidanza prima che sfugga loro di mano agendo sulle madri, limitando l’assunzione di fluidi, l’aumento di peso e l’impiego senza controllo di diuretici. I comuni diuretici routinariamente utilizzati sono i tiazidici e la furosemide. Se il bambino nasce con un eccessivo accumulo di fluidi, il medico cerca di asciugarlo il più rapidamente possibile. Alla nascita, i liquidi si trovano nei tessuti del neonato. Non c’è alcun eccesso idrico, tranne che a livello del tessuto sottocutaneo della cute. La ragione di ciò è il fatto che il feto utilizza il cordone ombelicale, i polmoni ed il fegato della madre per le sue funzioni metaboliche di base. I polmoni ed il fegato fetali sono liberi ed il suo cuore è forte, dal momento che in realtà non ha mai lavorato. Se l’eccessivo accumulo di fluidi non viene trattato e il neonato viene lasciato a se stesso, tipicamente viene a morte. Il suo cuore inizia a pompare nell’organismo il sangue, che preleva il fluido accumulato dal sottocute e dalla cute. Il flusso sanguigno viene sovraccaricato di acqua. I reni neonatali non sono in grado di effettuare l’escrezione di tutto il liquido che viene loro apportato. Quindi, il corpo inizia a distribuire questa componente fluida ad altri organi, come i polmoni, il fegato e l’encefalo. Infine, il neonato annega nei suoi stessi liquidi entro le prime 24 ore dalla nascita. Inoltre, i medici hanno riconosciuto che se somministrano un diuretico al neonato possono suscitare la capacità del rene di effettuare l’escrezione di una quantità maggiore di fluidi ed eventualmente prevenire l’inevitabile annegamento. I neonati vivrebbero più a lungo con la terapia diuretica, ma poi verrebbero a morte al secondo giorno. È stato quindi determinato che la causa di morte al secondo giorno era dovuta ad un’eccessiva perdita di potassio. Quest’ultimo è responsabile del fatto che il cuore continui a battere. Se la concentrazione organica di questo elemento viene diminuita fino a scendere al di sotto di un certo livello, il cuore si ferma. In seguito è stato riscontrato che i reni, quando producono urine, perdono 3 mEq di potassio ogni 100 ml di urina prodotta. Sulla base di questa informazione, i medici hanno iniziato ad effettuare una somministrazione sostitutiva di potassio insieme all’impiego di diuretici e questi neonati hanno iniziato a sopravvivere. Naturalmente, il trattamento d’elezione per un cucciolo tricheco è la prevenzione. Se un allevatore ed un veterinario vedono una cagna gravida che prende troppo peso per accumulo di fluidi, occorre somministrare dei diuretici. I più sicuri sono i tiazidici, dal momento che sono antikaliuretici e non interferiscono con la normale attività cardiaca. Cosa devono fare un allevatore ed un veterinario di fronte ad un cucciolo tricheco? Quella che segue è la sequenza di eventi da attuare nel trattamento di questi animali. 1. Liberare immediatamente le vie aeree del cucciolo e tenerlo al caldo insieme ad altri cuccioli. 2. Pesare il cucciolo tricheco, in grammi, prima di iniziare il trattamento. 3. Somministrare immediatamente furosemide (50 mg/ml) alla dose totale di 0,2 ml per via intramuscolare 4. A questo punto, pesare un cucciolo neonato di taglia normale della stessa cucciolata.


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5. Sottrarre il peso del cucciolo di taglia normale da quello del cucciolo tricheco. Questa è la quantità di liquidi ed il peso che quest’ultimo dovrà perdere. 6. Portare in giro il cucciolo tricheco ogni 30-60 minuti e tenerlo sollevato in modo da incoraggiare la minzione. Pesarlo ogni tre ore e registrare il calo ponderale. Il cucciolo deve essere mantenuto costantemente al caldo. 7. Ogni 3 ore determinare la quantità di fludi (peso) che il cucciolo tricheco ha perso. A questo punto, ripetere l’iniezione di furosemide e somministrare all’animale del cloruro di potassio per via orale attraverso un contagocce o una siringa. Il cloruro di potassio si può trovare sotto forma di elisir pediatrico nelle farmacie fra i prodotti per uso umano. Può anche essere acquistato come soluzione al 10% dalle stesse farmacie. Per ogni 30 grammi di calo peso, somministrare 1 mEq di cloruro di potassio. C’è circa 1 mEq di cloruro di potassio per 1 ml di soluzione. 1 ml equivale a 20 gocce.

8. Ripetere il protocollo terapeutico ogni 3 ore fino a che il cucciolo tricheco non pesa più di 30-45 grammi in più dei suoi fratelli e sorelle. A questo punto, il cucciolo deve essere lasciato andare a casa. Il protocollo di trattamento delineato più sopra si è rivelato utile. Ad esempio, vediamo il caso di un cucciolo di bulldog inglese nato per parto cesareo pianificato. La cucciolata era costituita da 6 soggetti di peso compreso fra 420-480 grammi, tranne un soggetto tricheco che pesava 960 grammi. Con il trattamento medico sopradelineato, durante le prime tre ore questo animale ha perso 120 grammi. Con un contagocce per uso medico si somministrano 4 mEq di cloruro di potassio per via orale. Durante le successive tre ore, il cucciolo perde 80 grammi e gli si somministrano 3 mEq di cloruro di potassio. Questo approccio viene continuato per le successive 24 ore. Al termine di questo periodo, il cucciolo pesa 510 grammi e sta assumendo il latte della madre.

Tabella 1 - Stadi di sviluppo correlati all’età Organi/apparati

Età

Stadi di sviluppo

Occhi

Nascita-13 giorni

Le palpebre sono chiuse, ma i cuccioli rispondono ad una luce brillante con un riflesso di ammiccamento. Questo riflesso scompare a 21 giorni, probabilmente a causa dello sviluppo di un accurato controllo pupillare. Il riflesso palpebrale è presente a 3 giorni, diventando simile a quello degli adulti a 9 giorni.

5-14 giorni

Il riflesso della minaccia è presente, ma lento. Le palpebre si separano in superiore ed inferiore. I riflessi pupillari sono presenti entro 24 ore dalla separazione delle palpebre. La lacrimazione riflessa inizia quando le palpebre si separano. Anche il riflesso corneale è presente dopo la separazione delle palpebre.

3-4 settimane

La visione dovrebbe essere normale.

Nascita – 5 giorni

I condotti uditivi esterni sono chiusi. L’udito è scarso.

10-14 giorni

I condotti uditivi esterni si aprono (dovrebbero essere completamente aperti a 17 giorni). Per la prima settimana dopo la completa apertura dei condotti, si osserva un’abbondante quantità di cellule desquamate ed alcune gocce oleose, che sono normali dato che i condotti uditivi si rimodellano in funzione dell’ambiente esterno.

4-6 settimane

Erompono gli incisivi decidui, seguiti dai canini decidui.

4-8 settimane

Erompono i premolari decidui.

Sistema circolatorio

Nascita – 4 settimane

Pressione sanguigna bassa, gittata sistolica e resistenza vascolare periferica presente. Aumento della frequenza cardiaca (> 220 battiti al minuto), gittata cardiaca e pressione venosa centrale presenti. Il ritmo cardiaco è sinusale regolare.

Apparato respiratorio

Nascita – 4 settimane

La frequenza respiratoria è di 15-35 atti al minuto.

Apparato neuromuscolare

Nascita

Alla nascita è presente un predominio flessorio, mentre quello estensorio inizia già ad un giorno. Il riflesso della postura a foca può durare fino a 19 giorni. Il riflesso della suzione è presente, ma scompare a 23 giorni. Quello anogenitale scompare fra 23 e 39 giorni. È presente la percezione del dolore cutaneo, ma il riflesso di retrazione diventa apprezzabile a circa 7 giorni. I riflessi tonici del collo si osservano fino a 3 settimane di età. L’animale è in grado di sollevare la testa. Esiste la risposta di raddrizzamento. Alla nascita sono presenti i riflessi miotattici, che però sono difficili da suscitare nei neonati. Anche il riflesso pannicolare è riscontrabile alla nascita.

5 giorni

Il nistagmo associato alla stimolazione rotatoria compare al termine della prima settimana. Il riflesso estensore crociato termina fra 2 e 17 giorni – la sua persistenza indica una malattia da motoneurone superiore. Sostegno diretto del peso corporeo da parte degli arti anteriori.

14-16 giorni

I cuccioli strisciano. Il peso corporeo viene sostenuto dagli arti posteriori.

20 giorni

I cuccioli sono in grado di stare seduti ed hanno un ragionevole controllo delle falangi distali.

22 giorni

I cuccioli camminano normalmente. Il nistagmo vestibolare diviene simile a quello dell’adulto.

Orecchie

Denti

23-40 giorni

I cuccioli si arrampicano ed hanno la risposta di raddrizzamento in aria.

3-4 settimane

Risposta di emideambulazione, che però può non essere completamente sviluppata negli arti posteriori fino all’età di 6 settimane.

6-8 settimane

Le reazioni posturali sono completamente sviluppate

Lo schema temporale costituisce un’approssimazione del normale sviluppo, dato che in alcuni individui si verificano delle variazioni


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Terapia intensiva pediatrica Le malattie più pericolose per la sopravvivenza nei cuccioli e nei gattini di 6-12 settimane sono quelle infettive (cimurro ed enterite virale nei cuccioli; infezione da virus della leucemia felina, peritonite infettiva felina e panleucopenia nei gattini). Le preoccupazioni generali circa il trattamento di questi cuccioli e gattini malati consistono nella prevenzione di ipoglicemia, disidratazione, ipoproteinemia ed anemia. Senza il trattamento immediato, l’enterite da Parvovirus canino di tipo 2 è spesso una malattia rapidamente fatale nei cuccioli di età compresa fra 6 settimane e 6 mesi, che termina in grave disidratazione, shock endotossico o settico ed insufficienza multiorganica. Con un terapia aggressiva e le opportune cure di sostegno, invece, nella maggior parte delle razze canine, con l’eccezione del rottweiler, si può arrivare ad avere un tasso di sopravvivenza dell’85-95%.

Nefropatia pediatrica I disordini del tratto urinario dei cuccioli e dei gattini possono essere dovuti a processi patologici ereditari (genetici)

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oppure acquisiti che colpiscono la differenziazione e la crescita dell’apparato in via di sviluppo, oppure causati da processi simili che in ultima analisi colpiscono la struttura e la funzione del sistema urinario maturo. Il successo del trattamento dei disordini delle vie urinarie dipende dalla familiarità con la struttura e la funzione di reni, ureteri, vescica ed uretra.

Displasia renale Col termine di displasia renale si indica una disorganizzazione dello sviluppo del parenchima caratterizzata da aree segmentali o focali di strutture immature o anomale in un rene altrimenti normale. L’aplasia renale denota una forma generalizzata e più grave di displasia che colpisce l’intero rene. La displasia renale è stata osservata in cuccioli maschi e femmine, ma raramente nei gattini. La malattia è un disordine familiare in Lhasa apso, Shih Tzu, soft-coated wheaten terrier e barbone standard. Inoltre, si sospetta fortemente una base ereditaria nel Keeshounds, nel chow-chow e nello schnauzer nano. La displasia renale è stata associata ad inoculazione in utero di feti di gattini con il virus della panleucopenia e di cuccioli con herpesvirus canino.

Trattamento medico di un cucciolo o gattino malato I. Procedura di riscaldamento esterno A. Utilizzare una coperta ad acqua calda circolante, sacchetti di riso o bottiglie di acqua calda B. Impiegare come minimo 20-30 minuti per il riscaldamento graduale dell’animale C. Girare l’animale ogni ora D. Registrare la temperatura rettale ogni ora II. Fluidoterapia paraenterale A. Utilizzare una soluzione multielettrolitica bilanciata integrata con una soluzione di destrosio al 5% B. Aggiungere ai fluidi una soluzione di cloruro di potassio se la concentrazione plasmatica di questo elemento è inferiore a 2,5 mEq/l C. Somministrare fluidi riscaldati mediante infusione lenta per via endovenosa o intraossea III. Terapia sostitutiva con glucosio A. Somministrare per via endovenosa o intraossea una soluzione di destrosio al 5% sino ad effetto B. Somministrare 1-2 ml/kg di una soluzione di destrosio al 10-20% agli animali che si presentano profondamente depressi o manifestano crisi convulsive C. Mantenere la concentrazione plasmatica di glucosio a 80-200 mg/dl per l’euglicemia IV. Terapia antimicrobica A. Prelevare campioni da destinare alle colture batteriche (sangue intero, urina, essudati e feci) prima di iniziare la terapia antimicrobica 1. Per l’emocoltura, prelevare 1 ml di sangue intero con tecnica asettica ed inocularlo direttamente in un brodo di soia arricchito (Trypticase soy broth), diluire il sangue intero da 1:5 ad 1:10 nel brodo arricchito ed esaminare quest’ultimo per rilevare la crescita batterica dopo 6-18 ore 2. Per l’urocoltura, prelevare l’urina mediante cistocentesi ed allestire la coltura con i metodi standard 3. Per le colture di essudati e feci, prelevare i campioni ed allestire le colture con i metodi standard B. Il trattamento empirico con uno o più agenti antimicrobici inizia immediatamente dopo il prelievo di appropriati campioni per le colture batteriche C. Correggere il dosaggio e l’intervallo fra le somministrazioni degli agenti antimicrobici prescelti D. Somministrare gli agenti antimicrobici per via endovenosa o intraossea V. Apportare ossigeno ed attuare una terapia nutrizionale A. Somministrare ossigeno mediante maschera o catetere intranasale per contrastare l’ipossiemia tissutale B. Incoraggiare l’assunzione di cibo quando l’animale è normotermico ed adeguatamente idratato VI. Monitorare l’efficacia dei trattamenti medici A. Osservare il miglioramento del comportamento generale dell’animale B. Valutare regolarmente lo status cardiopolmonare (è estremamente facile sovraidratare il cucciolo ed il gattino; quindi, per riconoscere precocemente un’iperidratazione risulta utile l’attento monitoraggio del quadro del respiro) C. Pesare l’animale tre o quattro volte al giorno e registrare l’incremento ponderale D. Osservare l’umidità ed il colore delle mucose per valutare se l’idratazione è adeguata


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I cuccioli con displasia renale possono apparire clinicamente normali per periodi di tempo prolungati prima di sviluppare i segni dell’insufficienza renale cronica (CRF). La rapidità con cui la displasia renale progredisce fino ad un’insufficienza renale manifesta dipende dalla gravità delle lesioni iniziali a carico dell’organo e da fattori che esitano nella progressiva perdita della massa funzionale del rene. L’età di insorgenza dei segni clinici è variabile, da 4 settimane ad oltre 5 anni; tuttavia, la maggior parte dei casi di insufficienza renale cronica (CRF) viene riconosciuta in cuccioli con meno di due anni. I primi segni di CRF sono spesso sottili e possono essere rappresentati da letargia, appetito selettivo, mantello scadente, perdita di peso variabile, nicturia e lieve o moderata poliuria e polidipsia. Le displasie gravi sono associate a segni clinici di insufficienza renale cronica avanzata ed uremia (anoressia, depressione, vomito, diarrea, disidratazione, alitosi, ulcerazione orale, pallore delle mucose e grave perdita di peso). La palpazione dell’addome può rivelare reni piccoli e di forma irregolare. L’ingrossamento simmetrico di mascella e mandibola, il dolore osseo, il riscontro di mandibole molli e flessibili (“rubber jaw”, mandibola di gomma) e le fratture patologiche si osservano occasionalmente in giovani cani con displasia renale e sono indicative di una grave osteodistrofia renale. I riscontri di laboratorio in caso di displasia renale riflettono le alterazioni associate all’insufficienza cronica dell’organo e sono tipicamente rappresentate da iperazotemia, iperfosfatemia, acidosi metabolica ed anemia non rigenerativa normocitica normocromica. I livelli sierici del calcio possono essere diminuiti, normali o aumentati. Tipicamente, sono normali o diminuiti negli animali con insufficienza renale cronica; tuttavia, alcuni cuccioli sviluppano un’ipercalcemia. L’analisi dell’urina di solito rivela un peso specifico inappropriatamente basso, un sedimento urinario inattivo ed una proteinuria lieve o moderata. La diagnosi di displasia renale si basa sulla razza e sui riscontri clinici e di laboratorio. La diagnosi definitiva della malattia dipende dall’identificazione delle lesioni displasiche primarie mediante valutazione al microscopio di tessuti renali ottenuti mediante biopsia o necroscopia. Le lesioni primarie indicative di displasia renale sono rappresentate da 1) glomeruli e/o tubuli fetali o immaturi, 2) mesenchima persistente, 3) dotti metanefrici persistenti, 4) epitelio tubulare atipico e 5) metaplasia disontogenica. La displasia renale è un disordine irreversibile e spesso progressivo per il quale non esiste alcuna terapia specifica. Tuttavia, le conseguenze cliniche e patologiche dell’insufficienza renale possono essere ridotte al minimo con opportune terapie di sostegno e sintomatiche studiate per correggere gli squilibri idrici, elettrolitici, acidobasici, endocrini e nutrizionali. Le strategie terapeutiche per il trattamento dell’insufficienza renale cronica prevedono di 1) alleviare i segni clinici dell’uremia, 2) correggere le anomalie idriche, elettrolitiche ed acidobasiche, 3) minimizzare i disturbi endocrini ed ematologici, 4) garantire un adeguato supporto nutrizionale, 5) modificare la progressione della disfunzione renale e 6) evitare le condizioni in grado di esacerbare o promuovere la disfunzione renale progressiva. Le raccomandazioni relative alla terapia devono essere modulate individualmente per ciascun cucciolo. Poiché l’insufficienza renale cronica associata a displasia renale è spesso progressiva,

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per un efficace trattamento a lungo termine sono utili valutazioni cliniche e di laboratorio in serie. Dal momento che nei cani e nei gatti uremici risulta indicata una moderata restrizione proteica, che può avere potenziali benefici a lungo termine con riferimento alle emodinamiche renali, proteinuria, crescita renale e ritenzione di fosfati, risulta logico raccomandare di alimentare gli animali con diete a ridotto tenore di proteine. I fabbisogni proteici quotidiani ottimali per i cuccioli ed i gattini con insufficienza renale cronica non sono noti. Di conseguenza, sarà necessario effettuare delle determinazioni seriali dei livelli sierici di albumina e del peso corporeo per monitorare l’eventuale comparsa di malnutrizione ed ipoalbuminemia. L’iperfosfatemia è uno dei principali fattori che promuovono lo sviluppo dell’iperparatiroidismo secondario renale ed il progressivo declino della funzione dell’organo nei cani e nei gatti con insufficienza renale cronica. Uno degli scopi della terapia medica è di normalizzare i livelli sierici del fosforo. Negli stadi iniziali dell’insufficienza renale cronica, l’iperfosfatemia può venire controllata con la sola restrizione del fosforo nella dieta. Nelle forme avanzate, il controllo dei livelli sierici di fosforo può richiedere la somministrazione per via orale di agenti capaci di legare i fosfati a livello intestinale. Le concentrazioni sieriche del fosforo vanno monitorate regolarmente per valutare l’efficacia terapeutica della restrizione dei fosfati nella dieta e dei leganti intestinali del fosforo.

Glomerulopatie Le nefropatie congenite che colpiscono principalmente il glomerulo sono state descritte in giovani cani di razza bovaro bernese, cocker spaniel inglese, samoiedo, Dobermann, bull terrier, cocker spaniel e rottweiler. La caratteristica distintiva della glomerulopatia è la proteinuria. Benché una grave perdita di proteine nell’urina possa essere associata alla sindrome nefrosica (proteinuria, ipoalbuminemia, ipercolesterolemia ed edema), la maggior parte dei cuccioli e dei gattini con glomerulopatie congenite sviluppa segni di insufficienza renale cronica avanzata.

Diabete insipido avanzato • Il diabete insipido può essere (1) di origine ipotalamiconeuroipofisaria (centrale), causato da un’insufficienza o carenza di ormone antidiuretico (ADH), oppure (2) di origine nefrogena, in cui è presente un’incapacità del rene di rispondere all’ADH. • Il diabete insipido nefrogeno non è una malattia ipotalamica o neuroipofisaria, ma dipende dall’incapacità del rene di rispondere all’ADH; determina la comparsa di segni clinici identici a quelli provocati dal diabete insipido centrale. • I segni cardine del diabete insipido sono la sete eccessiva e l’emissione di quantità esagerate di urina limpida. Il volume urinario supera i 50 ml/kg di peso corporeo al giorno; il consumo di acqua per compensazione è superiore alla norma, che è meno di 100 ml/kg/die. La poliuria e la grave disidratazione non compaiano fino a che l’a-


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nimale ha libero accesso all’acqua, ma se questa gli viene tolta si osserva una rapida disidratazione che progredisce fino alla morte. Gli animali colpiti presentano nicturia e si svegliano di notte per bere. L’analisi dell’urina rivela un’urina persistentemente diluita. Spesso, il peso specifico urinario e l’osmolalità sono inferiori, rispettivamente, a 1.006 e 200 mOsm/kg di peso,. I cani ed i gatti normali presentano un’osmolalità urinaria superiore a 400 mOsm/kg di peso e un peso specifico di oltre 1.015 in campioni scelti a caso. Le diagnosi differenziali per il diabete insipido sono rappresentate da diabete mellito, polidipsia psicogena, malattia iperadrenocorticismo-simile, grave epatopatia e grave nefropatia. Ognuna di queste, tranne la polidipsia psicogena, provoca come minimo una marcata anomalia nell’esame emocromocitometrico o nel profilo biochimico di routine. Il diabete insipido centrale non complicato non causa alcuna anomalia degli esami ematochimici di routine. La polidipsia psicogena induce un’iposmolalità plasmatica. Il diabete insipido provoca un’iperosmolalità plasmatica. Dopo aver escluso le altre cause di poliuria e polidipsia, si deve prendere in considerazione l’esecuzione di un test di privazione dell’acqua. Questo non è necessario ed è controindicato se sono già presenti disidratazione o iperosmolalità plasmatica. È molto importante attuare una stretta supervisione durante questa prova, perché gli animali con diabete insipido centrale o nefrogeno completo possono perdere fino al 5% del proprio peso corporeo sotto forma di urina emessa e manifestare un collasso cardiovascolare entro quattro ore dalla privazione dell’acqua. Il test non va mai eseguito su un animale disidratato, iperglicemico o iperazotemico. Il test di privazione dell’acqua si effettua semplicemente tenendo l’animale a digiuno per 12 ore, per poi impedirgli l’accesso all’acqua, registrando il peso corporeo iniziale e pesandolo ogni due ore. Quando il peso corporeo è diminuito del 5%, la vescica va svuotata mediante cateterizzazione. Dopo altre due ore senz’acqua, si preleva ed esamina un altro campione di urina. Una concentrazione urinaria pari come minimo a 900 mOsm/kg di peso o un peso specifico di 1.025 nel cane e di 1000 mOsm/kg o un peso specifico di 1.030 nel gatto indicano una produzione di ADH ed una capacità di concentrazione dell’urina adeguate. Il modo migliore per effettuare una valutazione clinica della capacità di concentrazione dell’urina consiste nell’utilizzare i rapporti di osmolalità fra urina e plasma. Un rapporto inferiore ad 1:1 è caratteristico del diabete insipido. Rapporti superiori a 3:1 sono normali. La carenza parziale dell’ADH o della sua azione, il dilavamento della midollare del rene e la grave disidratazione in associazione con la carenza completa di ADH possono determinare rapporti intermedi fra 1:1 e 3:1. L’incapacità di concentrare adeguatamente l’urina dopo un test di privazione dell’acqua condotto in modo appropriato ha valore diagnostico per il diabete insipido. Per differenziare la causa, si ricorre ad un test di risposta all’ADH esogeno, mediante somministrazione per via intramuscolare o sottocutanea di una dose di 0,1 U/kg di vasopressina acquosa, da attuare al termine di un test di privazione dell’acqua risultato anormale. Durante il test di

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risposta all’ADH si possono offrire all’animale quantità limitate di acqua. Il diabete insipido centrale viene tipicamente identificato da un marcato incremento del peso specifico dell’urina entro 2-12 ore dalla somministrazione dell’ADH. Il diabete insipido nefrogeno è contraddistinto invece dalla mancata risposta alla somministrazione dell’ADH esogeno. Se l’animale colpito è in grado di ingerire una quantità d’acqua sufficiente a compensare le perdite urinarie, può darsi che non sia necessario alcun altro trattamento che garantire un accesso adeguato all’acqua. Tuttavia, la maggior parte di questi soggetti risulta gravemente malata, oppure mostra un certo grado di eccesso di sete e di minzione che risulta inaccettabile per il proprietario. Il diabete insipido centrale può venire trattato con un’ADH arginina vasopressina di sintesi per uso intranasale, la desmopressina (DDAVP). In genere sono sufficienti da una a tre gocce in una narice o nel sacco congiuntivale al giorno. La clorpropamide stimola la secrezione di ADH quando questo può ancora essere prodotto ed inoltre sensibilizza i tubuli renali all’ADH. È stata utilizzata nel cane in dosi comprese fra 50 e 250 mg al giorno e nel gatto alla dose di 50 mg al giorno. Le potenziali reazioni indesiderate sono rappresentate da ipoglicemia, nausea ed eruzioni cutanee. Il trattamento del diabete insipido nefrogeno può venire tentato con 20-40 mg/kg di clorotiazide due volte al giorno o 2,5-5 mg/kg di idroclorotiazide ed una dieta a basso tenore di sale. I diuretici tiazidici e la dieta iposodica possono diminuire la velocità di filtrazione glomerulare, che causa indirettamente un incremento del riassorbimento del sodio nel tubulo convoluto prossimale. Ciò diminuisce il volume di acqua che viene presentato all’ansa di Henle ed ai tubuli convoluti distali, esitando in una diminuzione del volume di urina del 20-50%. Può essere necessaria un’integrazione con potassio.

MALATTIE PEDIATRICHE DEL FEGATO E DEL PANCREAS

Shunt venosi portosistemici congeniti Il sistema portale epatico si sviluppa a partire da quello ombelicale ed onfalomesenterico. Le porzioni mesenteriche delle vene onfalomesenteriche diventano vasi tributari della vena porta. Si sviluppano piccole anastomosi fra la circolazione portale e quella sistemica che diventano le normali comunicazioni venose portosistemiche. Nel feto, il sangue proveniente dalla vena ombelicale fluisce direttamente nella vena cava caudale attraverso il dotto venoso, aggirando così il fegato. Rispondendo passivamente alle modificazioni della circolazione sistemica o epatica, il dotto venoso stabilizza il ritorno venoso al cuore fetale, dato che il ritorno venoso ombelicale fluttua. La chiusura funzionale e morfologica del dotto venoso non avvengono nello stesso momento dopo la nascita. La chiusura funzionale si sviluppa gradualmente durante il secondo ed il terzo giorno di vita del cucciolo. Quella morfologica si ha quando il dotto si atrofizza, esitan-


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do nella formazione di una sottile banda fibrosa, il legamento venoso, all’interno del fegato. La chiusura del dotto dipende dalle modificazioni della pressione e della resistenza attraverso la vascolarizzazione epatica che seguono l’obliterazione postnatale della circolazione ombelicale. La chiusura morfologica del dotto si ha 1-3 mesi dopo la nascita. Gli shunt venosi portosistemici congeniti (PSS) sono connessioni vascolari anomale fra la circolazione portale e quella venosa sistemica. Nei cani e nei gatti giovani si riscontrano parecchi tipi differenti di PSS congeniti, che comprendono, senza essere limitati ad essi, (1) la persistenza della pervietà del dotto venoso fetale, (2) la connessione diretta fra la vena porta e la vena cava caudale, (3) la connessione diretta fra la vena porta e la vena azigos, (4) la combinazione della vena porta con la vena cava caudale nella vena azigos, (5) lo shunt fra la vena gastrica sinistra e la vena cava, (6) l’ipoplasia o atresia della vena porta con formazione di un vaso anomalo secondario e (7) la malformazione anomala della vena cava caudale. I PSS congeniti nei cuccioli e nei gattini sono di solito rappresentati da singoli vasi anomali in sede extra- o intraepatica, mentre i PSS acquisiti nella maggior parte dei casi si presentano sotto forma di molteplici vasi extraepatici più piccoli che diventano pervi in caso di ipertensione portale prolungata. Le conseguenze della circolazione portale anomala sono che il sangue portale contenente le tossine assorbite dall’intestino viene immesso direttamente nella circolazione sistemica senza poter beneficiare della detossificazione operata dal fegato, contribuendo alla comparsa dei segni clinici dell’encefalopatia epatica, e i fattori epatotrofici presenti nel circolo viscerale che drena il tratto gastroenterico ed il pancreas non giungono direttamente al fegato, causando un inadeguato sviluppo di quest’organo ed una riduzione della funzionalità del suo tessuto. I segni clinici della disfunzione epatica associata a PSS congenito vengono solitamente manifestati in giovane età nei cuccioli e nei gattini. I cuccioli possono mostrare delle alterazioni già a 6-8 settimane di vita. I segni clinici nei cuccioli sono variabili, ma possono essere rappresentati da vomito, diarrea, anoressia, bassa statura, perdita di peso, febbre intermittente, polifagia, polidipsia, ematuria, ipersalivazione, intolleranza ad anestetici o tranquillanti che richiedono una metabolizzazione o escrezione epatica, comportamento atipico e, in rari casi, ascite o ittero. Le anomalie neurologiche intermittenti associate all’ingestione di alimenti carichi di proteine o le emorragie in via di risoluzione sono comuni e possono comprendere aggressione episodica, amaurosi, atassia, tendenza a camminare in modo incessante, maneggio, spinta con la testa contro ostacoli fissi e crisi convulsive. Alcuni cuccioli vengono portati alla visita con uroliti di biurato di ammonio localizzati nelle vie urinarie. La maggior parte dei casi di PSS congenita nei gattini (a partire dall’età di 6 mesi nel 75% di quelli colpiti) si riscontra in soggetti di razza himalayana, persiana e mista, benché qualsiasi razza possa essere portata alla visita con un’anomalia di questo tipo. Nei gattini le manifestazioni della malattia si possono osservare già all’età di 6-8 settimane. I segni del PSS congenito sono solitamente rappresentati da ipersalivazione, crisi convulsive, atassia, tremori e depressione. Si osservano anche cecità e midriasi intermittenti o permanenti. Altre anomalie di riscontro meno comune pos-

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sono comprendere vomito, diarrea, anoressia, tachipnea, dispnea e scolo nasale. Con scarsa frequenza si osservano poliuria e polidipsia. Nei gattini con calcoli di biurato di ammonio è possibile riscontrare disuria. Circa due terzi dei soggetti colpiti presenta bassa statura e può apparire magro e trascurato. La diagnosi definitiva di PSS congenito nei cuccioli e nei gattini spesso non è possibile attraverso le valutazioni di laboratorio di routine. Esame emocromocitometrico completo, profilo biochimico ed analisi dell’urina possono contribuire ad escludere altre cause dei segni clinici che hanno motivato la visita come l’insufficienza renale acuta, le alterazioni elettrolitiche, l’ipoglicemia ed i disordini del tratto urinario. I riscontri all’esame emocromocitometrico completo possono essere rappresentati da eritrociti microcitici e normocromici e/o lieve anemia non rigenerativa. In strisci di sangue periferico di alcuni gattini con PSS congenito è stata osservata una poichilocitosi. Quando viene esaminata all’ingrandimento di X 400 per visualizzarne il colore e la forma tipici, l’urina può presentare cristalli di biurato di ammonio. Il profilo biochimico può mostrare lievi incrementi dell’attività sierica di ALT, AST ed ALP. A causa della giovane età degli animali al momento della diagnosi iniziale, l’attività sierica dell’ALP è solitamente due o tre volte superiore alla norma. L’aumento dei livelli di attività sierica di ALT ed AST è meno frequente. In alcuni casi, il PSS congenito coesiste con un’epatopatia attiva e gli animali così colpiti presentano un incremento lieve o moderato dell’attività degli enzimi epatici ed una notevole infiammazione e/o fibrosi del fegato all’esame istopatologico. Nella maggior parte degli animali con PSS congenito, i valori di bilirubina totale sono normali. Quelli dell’albumina possono essere lievemente diminuiti. I profili della coagulazione che comprendono il tempo di protrombina, il tempo di tromboplastina parziale attivata, e fibrinogeno sono solitamente normali. I valori della glicemia possono essere normali, lievemente ridotti o marcatamente ipoglicemici. In alcuni casi, la neuroglicopenia prodotta dall’ipoglicemia può complicare il riconoscimento del PSS congenito. Quest’ultimo può rendere gli animali colpiti ipoglicemici a causa di insufficienti riserve di glicogeno, anomalie della capacità di risposta al glucagone, iperglucagonemia o anormale metabolismo dell’insulina. Queste alterazioni, abbinate alla immaturità metabolica del fegato degli animali giovani, possono causare una profonda ipoglicemia durante le prime settimane di vita. I cuccioli delle razze toy sembrano essere maggiormente a rischio di profonda ipoglicemia. L’azotemia può essere bassa oppure al limite inferiore della norma in qualsiasi animale giovane con disfunzione epatica. Il test ematochimico più affidabile e costante per individuare la disfunzione epatica nei cuccioli e nei gatti con PSS congenita è la determinazione dei livelli degli acidi biliari, rilevati dopo 12 e 24 ore di digiuno e a due ore di distanza dal pasto. La diagnostica per immagini nei cuccioli e nei gattini con valori anomali dei livelli sierici degli acidi biliari ha lo scopo di determinare la presenza di un sospetto PSS congenito. Questo determina frequentemente negli animali colpiti una riduzione delle dimensioni del fegato, con profilo arrotondato del bordo caudale dell’organo e dislocazione craniale dello stomaco nelle immagini radiografiche. Inoltre,


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questi animali possono avere calcoli di biurato di ammonio radiopachi. I riscontri ecografici nei cuccioli con PSS congenito sono rappresentati da fegato piccolo, ridotta visibilità della vascolarizzazione portale intraepatica e vasi sanguigni anomali che drenano nella vena cava caudale o talvolta in quella azigos. Se il profilo biochimico ed i livelli sierici degli acidi biliari indicano una disfunzione epatica in atto, si deve continuare con la terapia medica. Quest’ultima è finalizzata a ridurre al minimo i segni clinici dell’encefalopatia epatica e prevede la modificazione delle proteine della dieta e della flora intestinale e l’eliminazione di farmaci o sostanze capaci di indurre segni di encefalopatia. Si raccomanda una dieta caratterizzata da restrizione proteica (2,0-2,5 mg/kg) e costituita da proteine ricche di aminoacidi a catena ramificata, con quote proporzionalmente minori di aminoacidi aromatici. Gli alimenti migliori sono quelli che contengono le proteine del latte (latte condensato o formaggio fresco). La gran parte dell’assunzione calorica deve derivare da carboidrati semplici come il riso bianco bollito. I pasti devono essere frequenti e piccoli, per massimizzare la digestione e l’assorbimento in modo da ridurre al minimo i residui che passano nel colon, dove i batteri anaerobi intestinali degradano i composti azotati in ammoniaca. Nella maggior parte dei cuccioli o dei gattini con PSS congenito o acquisito si utilizzano con successo le diete commerciali formulate per le disfunzioni epatiche o renali e una dieta messa a punto per le malattie intestinali. Anche la modificazione della flora intestinale con agenti microbici e lattulosio consente di ottenere un marcato miglioramento clinico. Per gli animali che vengono portati alla visita in crisi encefalopatica, si raccomanda l’infusione endovenosa di una soluzione elettrolitica isotonica integrata con una soluzione di destrosio al 2,5% o al 5,0% e cloruro di potassio, clismi di pulizia con soluzione fisiologica (0,9%) riscaldata o clismi con l’aggiunta di neomicina (15-20 ml di una soluzione all’1% tid-qid), lattulosio (5-10 ml diluiti 1:3 in acqua tid-qid) o soluzione di polivinilpirrolidone iodio (al 10%, risciacquare dopo 10 minuti con acqua calda). Per la terapia medica a lungo termine dei segni encefalopatici, il lattulosio viene somministrato per via orale alla dose di 0,25-1,0 ml ogni 4,5 kg di peso corporeo, correggendo la posologia in modo da adattarla alla frequenza ed alla consistenza delle feci emesse ogni giorno. Due o tre emissioni di feci molli o di consistenza pastosa indicano un dosaggio ottimale. Una posologia troppo elevata può essere causa di flatulenza, grave diarrea, disidratazione ed acidemia. Per modulare meglio la flora intestinale, è possibile utilizzare in modo intermittente per diverse settimane la neomicina (22 mg/kg per os bid-tid), il metronidazolo (7,5 mg/kg per os bid-tid), l’ampicillina (5 mg/kg per os bid-tid) o l’amossicillina (2,5 mg/kg per os bid).

Displasia microvascolare epatoportale congenita La displasia microvascolare epatoportale è caratterizzata dalla presenza di molteplici shunt intraepatici microscopici. La condizione si riscontra nelle stesse razze canine affette da

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PSS congenito, e forse è un disordine ereditario nel cairn terrier. La maggior parte dei cani con displasia microvascolare è asintomatica, probabilmente perché solo una piccola quota di sangue viene deviato lontano dal fegato. Quando sono presenti, i segni clinici sono simili a quelli osservati nei cani con PSS congenito extra- ed intraepatico, con l’eccezione che la maggior parte dei cani con displasia microvascolare di solito viene portata alla visita ad un’età più avanzata. L’anomalia di laboratorio più accentuata è l’aumento dei livelli sierici di acidi biliari. Non vi sono prove ecografiche, chirurgiche o portografiche di PSS congenito e la scintigrafia portale rettale risulta normale. La terapia medica è la stessa di qualsiasi sospetto PSS congenito. I cani che presentano come unica anomalia rilevabile l’aumento dei livelli sierici degli acidi biliari non necessitano di trattamento.

Malattia pancreatica infiammatoria Il pancreas è un organo con caratteristiche esclusive, dato che svolge sia funzioni esocrine (digestive) che endocrine (ormonali). La pancreopatia infiammatoria che colpisce soltanto la porzione esocrina è estremamente poco comune nei cani e nei gatti giovani. Di conseguenza, la pancreopatia infiammatoria, cioè la pancreatite acuta o quella recidivante che colpisce più comunemente i cani ed i gatti anziani, è stata raramente identificata in animali di queste specie con meno di sei mesi di vita. Le cause probabili dell’infiammazione pancreatica nel cane e nel gatto giovani sono rappresentate da traumi addominali ed agenti infettivi. I primi possono indurre una pancreatite nei cani traumatizzati da veicoli a motore e nei gatti caduti o saltati da sedi elevate (sindrome di caduta dall’alto). Inoltre, la chirurgia addominale può esitare in una pancreatite acuta da danno traumatico del pancreas (perforazione dell’organo con uno strumento chirurgico) o da eccessiva manipolazione pancreatica. Gli agenti infettivi possono occasionalmente contribuire all’infiammazione pancreatica. Occasionalmente, si può riscontrare la necrosi dell’organo all’esame microscopico di un cane colpito dall’infezione da parvovirus canino (CPV-2). Non è noto se questo virus sia direttamente citotossico per il tessuto pancreatico oppure se la pancreatite insorga secondariamente all’invasione di enzimi e batteri del tratto intestinale nel pancreas. Nel gatto, la pancreatite può essere associata alla forma essudativa della peritonite infettiva felina (FIP). Altri agenti infettivi che accompagnano direttamente la pancreopatia infiammatoria nel cane e nel gatto giovani sarebbero estremamente inusuali e con tutta probabilità costituirebbero un evento unico. Benché sia necessario solo raramente, la conferma di laboratorio dell’infiammazione pancreatica richiede l’esame emocromocitometrico completo, il profilo biochimico, la determinazione dei livelli sierici di amilasi e lipasi, la misurazione dell’immunoreattività tripsinosimile del siero (TLI) e l’esame radiografico in bianco e/o ecografico dell’addome. I valori normali dell’attività dell’amilasi e della lipasi sierica nel cane e nel gatto con meno di sei mesi di età sono generalmente indicativi dei normali valori negli adulti. L’iperamilasemia e l’iperlipasemia combinate alle tipiche caratteristiche cliniche dell’infiammazione del pancreas, come si


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osserva negli animali adulti, permettono di formulare la diagnosi di pancreopatia infiammatoria sino a prova contraria. Il test della TLI sierica può essere aumentato – valori di TLI > 35 μg/l nei cani giovani e > 50 μg/l nei gatti giovani sono compatibili con una pancreatite. Il trattamento è completamente di supporto e viene gestito in maniera simile a quella dei cani o dei gatti più anziani colpiti dalla stessa malattia.

Affezioni gastroenteriche pediatriche Dalla nascita sino a tre settimane di vita, un cucciolo o un gattino malato si presenta flaccido e rilasciato, con tono muscolare scadente. Questi animali hanno spesso mucose pallide, grigie o cianotiche, e non presentano i normali suoni intestinali all’auscultazione dell’addome. La diarrea si riscontra nel 60% circa dei cuccioli e dei gattini malati. Una volta corretta la disidratazione e l’ipoglicemia, si può iniziare l’alimentazione per via orale se l’animale presenta il riflesso di suzione e suoni intestinali. Si possono somministrare latti artificiali per cuccioli o gattini servendosi di una bottiglia, una siringa dosatrice o una sonda da alimentazione. Se si opta per quest’ultima soluzione, bisogna stare attenti a non inserire il tubo in trachea. Il posizionamento non corretto è più probabile nei cuccioli e nei gattini perché il riflesso faringeo non si sviluppa prima dei dieci giorni di vita. Se insorge diarrea, il latte artificiale va diluito in un rapporto 1:2 con soluzione multielettrolitica bilanciata fino a che la diarrea non si risolve. Prima del 1985, il parvovirus canino tipo 1 era considerato un parvovirus non patogeno del cane; tuttavia, a partire da quell’anno, sono state dimostrate delle infezioni cliniche da esso sostenute in cuccioli neonati. Il virus sembra essere ampiamente diffuso nella popolazione canina, ed è limitato a provocare una malattia clinicamente manifesta nei cuccioli con meno di tre settimane. È probabile che la sua diffusione sia simile a quella del parvovirus canino tipo 2. Da quattro a sei giorni dopo l’esposizione orale, il parvovirus canino tipo 1 si può reperire dal piccolo intestino e dagli altri organi. Inoltre, è in grado di attraversare la placenta e determinare morte fetale precoce e difetti alla nascita. I cuccioli colpiti di solito vengono portati alla visita con diarrea, vomito, dispnea, pianto costante e morte improvvisa – gli stessi segni clinici si osservano nell’infezione da herpesvirus canino. Il trattamento di questi animali è di solito insoddisfacente a causa della rapida progressione della malattia. La mortalità può essere ridotta assicurandosi che la temperatura ambientale dei cuccioli neonati venga mantenuta su valori elevati e che vengano fornite nutrizione ed idratazione adeguate. La sindrome del latte tossico può causare meteorismo, diarrea verde, pianto e retto edematoso e rosso. I cuccioli vanno alimentati con latte artificiale ed allontanati dalla madre, che deve essere esaminata alla ricerca di una malattia sottostante come una mastite o una metrite. Durante il periodo compreso fra la terza e la sesta settimana di età, la maggior parte dei problemi potenzialmente letali è rappresentata da parassiti interni ed esterni, ipoglicemia giovanili, disidratazione da diarrea ed eventi traumatici. Le parassitosi interne possono esitare in un carico significativo all’età di 2-4 settimane. Toxocara spp. può venire tra-

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smesso per via transplacentare dalla madre ed Ancylostoma spp. viene ingerito attraverso il latte materno. Le appropriate cure perinatali della madre dovrebbero prevenire le gravi infestazioni parassitarie di cuccioli e gattini di questa età. Nel caso in cui gli animali vengano tenuti male, tuttavia, Toxocara spp. può causare perdita di peso, scarso accrescimento, distensione addominale e diarrea, mentre Ancylostoma spp. può essere responsabile di un’anemia potenzialmente letale. Cuccioli e gattini possono venire trattati con pirantel pamoato (5-10 mg/kg per os) già all’età di 2-3 settimane, ed il trattamento può essere ripetuto ogni 2-3 settimane fino ad almeno 12 settimane di vita. La grave anemia (pallore delle mucose, tachicardia, debolezza, ematocrito < 15) e l’ipoproteinemia possono richiedere una trasfusione di sangue intero. Quest’ultimo viene diluito in rapporto 1:10 con un anticoagulante citrato ed infuso attraverso un filtro ematico millipore alla dose di 10 ml/libbra (circa 20 ml/kg) nell’arco di due ore. Nei cuccioli o nei gattini in condizioni critiche si preferisce ricorrere alla somministrazione per via intraossea o endovenosa, ma il sangue può essere somministrato come ultima risorsa anche per via intraperitoneale. Dopo la trasfusione, nelle anemie che comportano perdita ematica si deve effettuare un’integrazione con ferro. I protozoi parassiti che possono essere causa di diarrea nei cuccioli e nei gattini sono rappresentati da Giardia spp. e Cystiospora spp. La giardiasi viene trattata con metronidazolo (30 mg/kg somministrati per via orale per 7-10 giorni), febantel (30-40 mg/kg somministrati per via orale una volta al giorno per 7 giorni) o fenbendazolo (50 mg/kg somministrati per os una volta al giorno per 7 giorni). La coccidiosi può essere trattata con sulfadimetossina alla dose di 50 mg/kg al primo giorno, seguita da una somministrazione quotidiana di 25 mg/kg sino a che i segni clinici non regrediscono. Oggi, per la coccidiosi viene usato il ponazuril (Marquis) alla dose di 20 mg/kg/die per due giorni consecutivi. I parassiti esterni possono causare una grave debilitazione negli animali giovani. Nei soggetti allattati non si devono utilizzare la maggior parte dei prodotti antipulci ed antizecche. La madre va trattata ma evitando i capezzoli, oppure risciacquandoli. La lettiera va lavata o eliminata. Il modo più sicuro per trattare i cuccioli ed i gattini giovani è quello di spruzzare su un telo un insetticida a base di piretrina ed avvolgere con esso il corpo dell’animale, lasciando la testa fuori. Per rimuovere le pulci morte o morenti si può impiegare un apposito pettine. Se il cucciolo o il gattino viene trattato con bagno, bisogna stare estremamente attenti ad evitare l’ipotermia. In alcuni casi, l’infestazione da ectoparassiti è così grave da richiedere una trasfusione di sangue. Le malattie più potenzialmente letali nei cuccioli e nei gattini di età compresa fra sei e dodici settimane sono quelle infettive (cimurro ed enterite virale nei cuccioli, infezione da virus della leucemia felina, della peritonite infettiva felina e della panleucopenia nei gattini). Le preoccupazioni di carattere generale relative al trattamento di questi cuccioli e gattini malati consistono nel prevenire l’ipoglicemia, la disidratazione, l’ipoproteinemia e l’anemia. Senza un trattamento immediato, l’enterite da parvovirus canino di tipo 2 è spesso una malattia rapidamente fatale nei cuccioli di età compresa fra sei settimane e sei mesi, che termina in grave


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disidratazione, shock endotossico o settico ed insufficienza multiorganica. Tuttavia, con una terapia aggressiva e le adeguate cure di supporto, nella maggior parte delle razze canine, con l’eccezione del rottweiler, si può ottenere un tasso di sopravvivenza dell’85% - 95%.

PROTOCOLLI CONSIGLIATI PER LA CURA OTTIMALE DEI CUCCIOLI CON ENTERITE DA PARVOVIRUS NEL CANE Piano terapeutico iniziale 1. Inserire con tecnica asettica un catetere permanente endovenoso o intraosseo 2. Effettuare le determinazione del database minimo, comprendendo ematocrito, solidi plasmatici totali, azotemia, glucosio, sodio e potassio o, ancora meglio, effettuare un esame emocromocitometrico completo ed un profilo biochimico con elettroliti 3. Garantire un adeguato apporto di fluidi per la riperfusione degli organi vitali utilizzando la soluzione di Ringer lattato o il Normosol-R ad un volume ed una velocità di infusione adeguati a ripristinare la perfusione degli organi vitali portandola ad un livello superiore alla norma. Se la perfusione è scarsa, infondere rapidamente un bolo di amido eterificato o destrano 70 alla dose di 20 ml/kg per la rianimazione iniziale e garantire l’apporto di ossigeno

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mediante catetere nasale. Non utilizzare la soluzione salina ipertonica in questo processo di rianimazione, dato che il cucciolo di solito è gravemente disidratato 4. Reidratare con soluzione di Ringer lattato o Normosol-R alla velocità di 3-10 ml/kg/ora inizialmente fino a che l’idratazione non viene ripristinata nell’arco di 4 ore. La velocità di mantenimento è di 2-3 ml/kg/ora. Utilizzando l’amido eterificato o il destrano 70 si ha una minore perdita di fluidi nel tratto gastroenterico e il volume totale di liquidi necessari per la reidratazione è approssimativamente pari al 50% di quello usato quando si impiegano la soluzione di Ringer lattato o il Normosol-R da soli. 5. Somministrare per via endovenosa agenti antimicrobici come le cefalosporine di prima generazione. Se il cucciolo sembra settico, prendere in considerazione le cefalosporine, un aminoglicoside e il metronidazolo una volta che la perfusione sia migliorata. 6. Palpare l’addome del cucciolo almeno ogni 4 ore per individuare un’eventuale intussuscezione. 7. Non somministrare nulla per os fino a che il vomito non è sotto controllo. 8. Lavare il catetere permanente con soluzione fisiologica eparinizzata ogni 6 ore. 9. Riscaldare o refrigerare il cucciolo nel modo ritenuto necessario una volta ripristinata la perfusione. 10. Ascoltare i suoni intestinali. Se risultano diminuiti o assenti, trattare il cucciolo con metoclopramide mediante infusione a goccia endovenosa.

Riassunto dei prodotti per il trattamento delle infezioni batteriche o dell’enterite da parvovirus nel cane Farmaco Antiemetici Clorpromazina

Metoclopramide Proclorperazina Agenti antimicrobici Amikacina Ampicillina Cefotaxime Cefazolina Ceftiofur Enrofloxacin Gentamicina Imipenem-cilastatina Ticarcillina - clavulanato Terapie aggiuntive Antiendotossina Fattore stimolante le colonie granulocitarie ricombinante Plasma iperimmune specifico Gastroprotettori Cimetidina Famotidina Ondansetrone Ranitidina Sucralfato

Dosaggio e via di somministrazione * 0,5 mg/kg tid IM 1,0 mg/kg tid per via rettale mediante catetere in plastica (dose calcolata diluita in 1 ml di soluzione fisiologica normale) 0,05 mg/kg tid IV 0,2-0,4 mg/kg tid SC 1-2 mg/kg somministrati ogni 24 ore mediante infusione endovenosa lenta in caso di vomito 0,1 mg/kg tid-qid IM 10 mg/kg tid IM, SC 10-20 mg/kg tid-qid IV, IM, SC, IO 25-50 mg/kg tid-qid IV, IM, IO 22 mg/kg tid IV, IM, IO 2.2-4.4 mg/kg bid SC 5 mg/kg bid IM, SC, IV, IO 2.2 mg/kg tid IM, SC 5 mg/kg tid IM, IV, IO 20-30 mg/kg tid IV, IO Secondo le indicazioni del produttore 5 μg/kg sid SC 1,1-2,2 ml/kg IV o SC 5-10 mg/kg bid-tid IM, SC, IV, IO 0,5 mg/kg bid-tid IM, SC, IV, IO 0,1-0,15 mg/kg bid-qid IV, IO 2-4 mg/kg bid-tid IM, SC, IV, IO 1 g disciolto in 10 ml di acqua calda tid PO

*PO = somministrazione per via orale; SC = somministrazione per via sottocutanea; IV = somministrazione per via endovenosa; IM = somministrazione per via intramuscolare; IO = somministrazione per via intraossea; sid = una volta al giorno; bid = due volte al giorno; tid = tre volte al giorno; qid = quattro volte al giorno.


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11. Controllare il vomito significativo con metoclopramide o clorpromazina. Se l’emesi è persistente, inserire una sonda rinogastrica ed aspirare il contenuto dello stomaco ogni 1-2 ore inizialmente. Ridurre la frequenza dell’aspirazione come indicato dalla quantità di fluido gastrico recuperato. Utilizzare la sonda rinogastrica per somministrare una nutrizione microenterale. 12. Prendere in considerazione il supporto nutrizionale nelle fasi iniziali del decorso dell’ospedalizzazione. Una volta che il vomito sia stato controllato, iniziare a trattare il cucciolo con una soluzione elettrolitica per os integrata con glucosio. Ciò si può fare somministrando 2-10 ml di una soluzione elettrolitica per os utilizzando una siringa dosatrice, oppure si può porre la soluzione elettrolitica per uso orale in una sacca da fluidi e farla defluire continuamente goccia a goccia nella sonda rinogastrica alla velocità di 2-10 ml/ora. Quando il cucciolo tollera la soluzione elettrolitica orale per almeno 4-6 ore, iniziare l’integrazione nutrizionale liquida.

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mento capillare, pressione sanguigna, pressione venosa centrale) ogni 2-4 ore ed attuare la rianimazione con fluidi ± amido eterificato o destrano 70, secondo necessità. 3. Stimare la quantità di vomito, diarrea ed urina emessa e registrare le osservazioni ogni 2 ore. 4. Monitorare la temperatura rettale ogni 4-6 ore.

Mantenimento

Monitoraggio

1. Prevedere i problemi di cattiva perfusione, grave disidratazione, ipokalemia, ipoglicemia, ipoproteinemia, polmonite ab ingestis, sepsi/shock settico, intussuscezione, ipertermia o ipotermia e imponenti necessità di ripristino di fluidi. 2. Mantenere la concentrazione dell’albumina al di sopra di 2 mg/dl, il che probabilmente richiederà l’impiego di plasma fresco congelato in ospedale nei giorni da 2 a 4. 3. Somministrare amido eterificato o destrano 70 alla velocità di 20 ml/kg nell’arco di 4 ore, diminuendo la soluzione di Ringer lattato o il Normosol-R durante questo intervallo di tempo, in ospedale nei giorni 2 e 3.

1. Ematocrito, solidi plasmatici totali, azotemia, glucosio, sodio e potassio ogni 4-6 ore. Integrare e correggere la velocità dei fluidi secondo necessità. 2. Controllare i parametri di perfusione (colore delle mucose, frequenza ed intensità del polso, tempo di riempi-

Address for correspondence: Johnny D. Hoskins Small Animal Internal Medicine Consultant Choudrant, LA 71227 USA


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Less is more when it comes to feeding dogs How to extend Life Span Melissa Kelly PhD, Missouri, USA

The Purina Life Span Study evaluated the effects of 25% diet restriction on joint development and subsequent osteoarthritis, several potential markers of ageing, and longevity in Labrador Retrievers. Forty-eight 8-week-old Labrador Retriever puppies from 7 litters were paired by gender and weight and randomly assigned to a control [control] group or calorie-restricted [lean-fed] group. The control group had ad libitum access to food for 15 minutes per day, and the lean-fed littermate was fed 25% less food than the control puppy. At 3.25 years, the formulation and amount fed to both groups of dogs was changed. The control-fed group was offered 62.1 Kcal of metabolizable energy (ME)/kg of estimated ideal body weight for the rest of their lives. Each dog in the lean-fed group continued to receive 25% less food than its pair-mate consumed the previous day. All dogs received the same dry, extruded 100 percent nutritionally complete and balanced diet, just the amount fed to the control-fed and lean-fed groups differed. Dogs were weighed weekly as puppies, periodically as adolescents and weekly as adults. Beginning at 6 years of age, they were evaluated annually for body condition using the Purina Body Condition System™, a validated standard used by veterinarians to evaluate body physique in pets. Other health indicators, including annual radiographs, body fat, lean body mass and bone mass, effective glucose and insulin use, serum cholesterol and triglyceride levels, cardiac parameters, immune and antioxidant variables, were measured annually. Healthrelated events, as well as time and cause of death, also were recorded. Earlier results published from this same study showed that hip joint laxity was significantly less among dogs given reduced food intake. The severity of osteoarthritis (OA) was less in lean-fed dogs as well. By age 5, moderate-to-severe coxofemoral OA was present in 43% of the control-fed dogs, compared to only 9% among the lean-fed dogs. By 8 years of age, OA was found in multiple joints (hip, stifle, shoulder, elbow) with greater frequency and severity among the control-fed dogs. Osteoarthritis was identified radiographically in two (45%) or three (32%) different joints in 77% of the control-fed dogs but only 10% of the lean-fed dogs at 8 years of age. Another indicator reflecting the delayed development of OA in the lean-fed dogs is the age at which 50% of the dogs (the median) in each group required regular medical treatment for OA. Among the control-fed dogs, this occurred at 10.3 years of age, but was delayed by almost 3 years (13.3

years of age) in the lean-fed group, a statistically (P< 0.001) and clinically significant difference. The need for treatment of any health condition was also delayed in the lean-fed dogs. The age when 50 percent of the dogs required treatment for a chronic condition was 12.0 years among the leanfed dogs, compared to 9.9 years for the control-fed dogs. Between the two groups, age at mortality differed more significantly than causes. Median life span was increased by 1.8 years, or 15 percent, in the lean-fed dogs compared to the control-fed dogs (P<0.001). Median life span (age at which 50 percent of the dogs in the group had died) was 11.2 years in the control-fed group compared to 13.0 years in the leanfed group. By age 10, only three lean-fed dogs had died, compared to seven control-fed dogs. At the end of the twelfth year, 11 lean-fed dogs were alive, with only one control-fed dog surviving. Twenty-five percent of the lean-fed group survived to 13.5 years, while none of the dogs from the control-fed group lived to that age. Throughout the study, the lean-fed group had a significantly (P<0.01) greater mean percentage of lean body mass. The lean-fed group also experienced a two-year delay in loss of lean body mass (the average onset of decline was 11 years vs. 9 years) compared to control-fed dogs, and maintained significantly (P<0.01) lower body condition scores. The average BCS (from age 6 through 12 years) for the lean-fed and control-fed dogs was 4.6 + 0.2 and 6.7 + 0.2, respectively. Thus, the control-fed dogs were only slightly to moderately overweight and the lean-fed dogs were well within the ideal body condition of 4 to 5 on Nestlé Purina’s 9-point scale. Despite this, the correlation between BCS at middle age and longevity was impressive. Dogs with a BCS of 5 or less at middle age (6 through 8 years of age) were more likely to live beyond 12 years of age compared to those with a higher BCS. The lean-fed group had lower serum triglycerides and triiodothyronine, as well as improved insulin and glucose utilisation. The Purina Life Span Study demonstrated that feeding to ideal body condition (BCS of 4 to 5 on 9-point scale) increased the median life span and delayed the onset of signs of chronic disease in this group of Labrador Retrievers.

Address for correspondence: Melissa Kelly Nestlé Purina PetCare Research


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Preventing is better than curing. Neutering the female dog and cat Jolle Kirpensteijn DVM, PhD, Dipl ECVS, Utrecht, Olanda

INTRODUCTION

ETHICAL CONSIDERATIONS

Although neutering of dogs and cats is one of the most common procedures performed by veterinarians, the debate around spaying is still ongoing. Not only the perfect age to perform the procedure but also if the procedure should be performed at all is a hot topic of the last 5 years. OVE is most commonly performed for elective neutering; however, it is also indicated for treatment of ovarian tumors, to promote involution of placental sites (non-responsive to medical treatment), to prevent recurrence of vaginal hyperplasia, to prevent hormonal changes that can interfere with medical therapy in patients with endocrine diseases (eg, diabetes), and to eliminate the transfer of inherited diseases. OVE is also performed in young dogs (≤ 2.5 years) to decrease the incidence of mammary gland tumors. The relative risk for developing mammary gland tumors decreases when neutering is performed before 1st estrus (0.5%), between 1st and 2nd estrus (8%), and between 2nd estrus and 2.5 years of age (26%). Despite one contrary opinion, there is seemingly no benefit in performing OVH at the time of mammary tumor removal because neither tumor-related nor overall survival improves after OVH. Future tumors may be easier detected after involution of the mammary tissue caused by the neutering, however. OVH is the treatment of choice for most uterine diseases, including congenital anomalies, pyometra, localized or diffuse cystic endometrial hyperplasia, uterine torsion, uterine prolapse, uterine rupture, and uterine neoplasia. In a study of 1712 canine OVHs, 1409 (82%) were performed for elective sterilization, and only 313 (18%) for reproductive tract disease (as adjunctive therapy for mammary neoplasia, for treatment of pyometra, endometrial hyperplasia, vaginitis, and several miscellaneous genital tract diseases).

Although most countries will allow elective neutering of dogs and cats, regional differences exist. In Nordic countries (Sweden) elective neutering practices have been strongly discouraged, while in Holland for instance public opinion of castrating a male dog seems to be more problematic that spaying a bitch. Many factors associated with the client’s background and beliefs and the type of animal play a role. For instance a cat spay or castration is commonly more acceptable than and dog spay or castration.

PERFECT AGE There is a regional difference in the ideal age of spaying dogs and cats. Gonadectomy of dogs and cats routinely are performed between 6-9 months in the US, while Dutch veterinarians tend to spay the dogs between the first and second heat. The time frame for spaying is not based on scientific proof but is determined by the traditions of the surgical practice of the region. The main reason why dogs and cats are spayed between 6-9 months in the US is that 1. It needs to be performed before the first heat and 2. It needs to be during an age where anaesthetic safety can be guaranteed.

OPERATIVE CONSIDERATIONS The chances of complications associated with the surgery are small. Numbers vary but in average 65 of dogs and 3% f cats are reported to have complications after neutering. Most of these complications are minor and vary from local inflammation to depression. Older dogs and dogs operated by veterinary students seemed to have a higher minor complication rate. Surgery time and increased body weight (both correlated) will increase the change of complications. If age was considered, very few differences were observed. Only the incidence of infectious diseases in dogs < 12 weeks were significantly different but this may have been caused by other factors such as the recruitment source of the dogs.

ADVANTAGES The obvious advantage of population control of free roaming dogs and cats is well described in literature. Pet overpopulation is a serious problem with major consequences. Millions of animals are euthanatized yearly all over the world. Certain countries do not allow euthanasia of dogs and cats and feral dog populations terrorize the local society. Next to this fact, unawareness of pet owners adds to the overpopulation by unplanned litters. Spay and neuter contracts of adopted pets seem only to have a compliance of 60%, leading to a strong pull towards mandatory neutering of animals before they leave the pound. Early neutering is most likely one of the only options left to prevent further escalation of the pet control issue. Certain (sexually dimorphic) behaviour will significantly decrease after gonadectomy. This phenomenon is directly related to the decrease in gonadal hormones and does not


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depend on the duration or prior sexual experiences. Trainability of working dogs will not be affected by routine castration. Male cats are prime examples of unwanted behaviour changes after elective neutering. Non-sexually dimorphic behaviour is often not affected by gonadectomy. The most common reason to electively spay dogs (and cats) next to preventing gravidity is the decrease in incidence in mammary tumours (MT). MT are the most common tumour of the female dog (3.4%) and the third most common tumour in the female cat (2.5%). In cats most MT are malignant whilst dogs have a 50:50 incidence of malignancy. Metastases rates are high in the malignant forms of MT with figures approaching 70% depending on specific factors (such as size of the primary tumour). Many breeds have been reported to have an increased risk and MT occur in the older animal more frequently. Cats and dogs that are not spayed have an overall 7x higher risk of developing MT and dogs spayed before the first heat have 0.5%, after the first heat 8% and after the 2nd heat 26% risk of developing MT. There is discussion if gonadectomy at an older age decreases the risk of further development of MT. Most likely this risk will not be higher for malignant disease but will definitely influence the occurrence of benign disease. MT develop because of both oestrogen and progesterone influences.

Uterine tumor formation Uterine tumours are rare in the dog, with a reported rate of 0.4% of all canine tumours. The University of Pennsylvania Veterinary Hospital examined 33,570 female dogs between 1952 and 1966, and 96 gynaecologic neoplasms (uterus, n=11; vagina or vulva, n=85) were detected in 90 dogs (0.27%). Middle-aged to older animals were most commonly affected and most canine uterine tumours were mesenchymal in origin. Of the uterine tumours, 85-90% were benign leiomyomas and 10% leiomyosarcomas. The true risk for development of malignant tumoural disease of the uterus is 0.003%. The prognosis associated with leiomyomas and other benign tumours is excellent because surgery is nearly always curative. For leiomyosarcomas and other malignant tumours, the prognosis remains good if there is no evidence of metastatic disease at surgery and complete excision is possible.

DISADVANTAGES Behaviour An increase in aggression has been reported after elective ovariohysterectomy (OHE)

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uncommon disease in intact bitches with reported incidences of 0.2% (10/5315) to 0.3% (7/2434). Because of the underlying hormonal cause, a significant increase of this pathology in spayed bitches has been hypothesized. Nickel reported a significantly impaired urethral sphincter mechanism in gonadectomized dogs. In a retrospective investigation, Holt using data from a general and a referral practice in the United Kingdom, reported that 3% (53/1681) and 17.7% (296/1681) respectively of dogs were considered incontinent after OVH. In Switzerland, up to 20% (83/412) of spayed bitches developed signs suggestive of urinary incontinence postoperatively. Confounding factors in the development of incontinence include time of OVH, body weight, breed of dogs and tail docking. An increased risk in tail-docked bitches has been documented raising the incidence to 1.3 (34/2614) compared with 0.7% (29/4382) for undocked dogs.

Body weight gain Gonadectomy adversely affects the ability to regulate food intake and thus predisposes these animals to obesity. Inactivity and increased food intake contributes to weight gains up to 38%. Edney observed that 21.4% of all dogs were overweight and spayed females were twice as likely to be obese compared with intact bitches. In another study, where dogs were exercised regularly and their food intake was controlled, there was no significant increase in weight in either spayed or intact females.

Tumour formation Gonadectomised animals have a higher incidence of transitional cell carcinomas of the bladder and urethra. The exact cause is unclear and certain breeds seem to be more susceptible. Also osteosarcoma ad hemangiosarcoma have been reported in gonadectomised animals more commonly than intact ones.

Orthopedic abnormalities Closure of the physis are in part dependent on the gonadal hormones and early neutering will lead to delayed closure of the growth plates. These changes were not clinically significant, however. One study reports an increased incidence of hip dysplasia in dogs neutered at an early age. Other orthopaedic diseases may be exacerbated by the weight gain after gonadectomy.

Phenotype abnormalities Urinary sphincter mechanism incontinence The most common cause of incontinence in spayed dogs is urethral sphincter mechanism incompetence (USMI), an

Certain phenotypic abnormalities may occur in bitches and queens that are spayed before the first heat. Immature development of the outer genitalia may occur and lead to dermatitis.


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References Root Kustritz. Determining the optimal age for gonadectomy of dogs and cats. J Am Vet Med Assoc 2007, 231:1665-1675. van Goethem B, Schaefers-Okkens A, Kirpensteijn J. Making a rational choice between ovariectomy and ovariohysterectomy in the dog: a discussion of the benefits of either technique.Vet Surg. 2006 Feb; 35(2):136-43.

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Address for correspondence Jolle Kirpensteijn Department of Clinical Sciences of Companion Animals Utrecht University Faculty of Veterinary Medicine Utrecht, The Netherlands E mail j.kirpensteijn@uu.nl


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Prevenire o curare? Questo è il problema. La sterilizzazione delle femmine di cane e gatto Jolle Kirpensteijn DVM, PhD, Dipl ECVS, Utrecht, Olanda

INTRODUZIONE Benché la sterilizzazione chirurgica dei cani e dei gatti sia uno degli interventi più eseguiti dai veterinari, il dibattito su questo argomento è ancora in corso. Non si discute solo dell’età ideale per eseguire l’intervento; anche il fatto che questo debba essere eseguito o meno è un argomento scottante degli ultimi cinque anni. L’ovariectomia viene eseguita come intervento di chirurgia elettiva; tuttavia, è anche indicato per trattare tumori ovarici, promuovere l’involuzione dei siti placentari (mancata risposta alla terapia medica), prevenire le recidive di un’iperplasia vaginale o evitare le modificazioni ormonali che possono interferire con la terapia medica nei pazienti con affezioni endocrine (ad es., diabete) ed eliminare la trasmissione di malattie ereditarie. L’ovariectomia viene anche eseguita in cagne giovani (≤ 2,5 anni) per diminuire l’incidenza dei tumori delle ghiandole mammarie. Il rischio relativo di sviluppare questo tipo di neoplasia diminuisce quando la sterilizzazione viene effettuata prima del primo estro (0,5%), fra il primo e il secondo estro (8%) e fra il secondo estro e i 2,5 anni di età (26%). Nonostante un’opinione contraria, sembra che non vi sia alcun beneficio nell’esecuzione dell’ovaristerectomia al momento della rimozione dei tumori mammari, perché né la sopravvivenza correlata al tumore né quella complessiva migliorano in seguito all’intervento. Tuttavia, i futuri tumori possono essere più facili da individuare dopo l’involuzione del tessuto mammario causato dalla sterilizzazione. L’ovaristerectomia è il trattamento d’elezione della maggior parte delle malattie uterine, comprese le anomalie congenite, la piometra, l’iperplasia endometriale cistica localizzata o diffusa, la torsione uterina, il prolasso dell’utero, la rottura uterina e la neoplasia uterina. In uno studio su 1712 ovaristerectomie nel cane, 1409 (82%) sono state eseguite per una sterilizzazione elettiva e solo 313 (18%) a causa di affezioni dell’apparato riproduttore (come terapia aggiuntiva in caso di neoplasia mammaria, per il trattamento di piometra, iperplasia endometriale, vaginite e malattie varie delle vie vaginali).

desi tendono a sterilizzare le cagne fra il primo e secondo calore. Lo schema temporale della castrazione non è basato su prove scientifiche, ma determinato da tradizioni relative alla pratica chirurgica nella regione. I motivi principali per cui cagne e gatte vengono ovariectomizzate fra il sesto e nono mese negli Stati Uniti è che 1) è necessario che l’intervento sia effettuato prima del primo calore e che 2) si deve operare in un’età in cui sia possibile garantire la sicurezza anestetica.

CONSIDERAZIONI ETICHE Benché la maggior parte dei Paesi consenta la sterilizzazione elettiva di cani e gatti, esistono differenze regionali. Nei Paesi nordici (Svezia) questi interventi sono stati fortemente scoraggiati mentre in Olanda, ad esempio, per l’opinione pubblica la castrazione di un cane maschio sembra essere più problematica dell’ovariectomizzazione di una cagna. Entrano in gioco molti fattori associati al background colturale ed alle convinzioni del cliente ed al tipo di animale. Ad esempio, l’ovariectomia o la castrazione di un gatto risultano comunemente più accettabili di quelle di un cane.

CONSIDERAZIONI OPERATORIE Le probabilità di complicazioni associate all’intervento sono limitate. I numeri variano, ma in media nel 6% dei cani e nel 3% dei gatti possono venire segnalate delle complicazioni in seguito alla sterilizzazione chirurgica. La maggior parte di esse sono di minore entità e vanno dall’infiltrazione locale alla depressione. I cani ed i gatti più anziani operati da studenti di veterinaria sembrano presentare una percentuale più elevata di complicazioni di minore entità. Il momento dell’intervento e l’aumento del peso corporeo (entrambi correlati) innalzano le probabilità di complicazione. Nei casi in cui viene presa in considerazione l’età sono state osservate pochissime differenze. Solo l’incidenza delle malattie infettive nei cani di età inferiore a 12 settimane era significativamente differente, ma ciò può essere stato causato da altri fattori, come la provenienza di questi animali.

L’ETÀ PERFETTA Esiste una differenza regionale nell’età ideale per la sterilizzazione chirurgica di cagne e gatte. La gonadectomia in questi animali viene effettuata di routine ad un’età compresa fra sei e nove mesi negli Stati Uniti, mentre i veterinari olan-

VANTAGGI I vantaggi evidenti del controllo della popolazione di cani e gatti vaganti sono ben descritti in letteratura. La sovrappo-


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polazione degli animali da compagnia è un problema grave con importanti conseguenze. Milioni di animali vengono soppressi eutanasicamente ogni anno in tutto il mondo. Certi Paesi non ammettono l’eutanasia del cane e del gatto e le popolazioni di cani inselvatichiti terrorizzano le comunità locali. A ciò si aggiunge che, a causa della scarsa consapevolezza del problema da parte dei proprietari di animali da compagnia, la sovrappopolazione viene aggravata dalla nascita di cucciolate non pianificate. L’obbligo di far sottoporre ad ovariectomia e castrazione gli animali da compagnia adottati sembra essere rispettato soltanto in misura del 60%, portando ad una forte spinta verso la castrazione obbligatoria degli animali prima che questi lascino il canile. La sterilizzazione precoce è con tutta probabilità una delle poche opzioni che restano per prevenire l’ulteriore escalation del problema del controllo della popolazione animale. Certi comportamenti (sessualmente dimorfici) diminuiscono significativamente dopo la gonadectomia. Questo fenomeno è direttamente correlato al calo degli ormoni delle gonadi e non dipende dalla durata o da precedenti esperienze sessuali. La possibilità di addestrare i cani da lavoro non viene influenzata dalla castrazione di routine. I gatti maschi sono i principali esempi di modificazioni comportamentali non desiderate dopo una castrazione elettiva. Il comportamento non sessualmente dimorfico spesso non viene influenzato dalla gonadectomia. La ragione più comune per l’ovariectomia delle cagne (e delle gatte), dopo la prevenzione della gravidanza, è la riduzione dell’incidenza dei tumori mammari (TM). Questi rappresentano le più comuni neoplasie delle cagne (3,4%) e sono al terzo posto in ordine di frequenza nelle gatte (2,5%). Nei felini la maggior parte dei TM è di natura maligna, mentre nel cane l’incidenza della malignità è di 50: 50. Le frequenze delle metastasi sono elevate nelle forme maligne di TM, con dati che si avvicinano al 70% in funzione di fattori specifici (come le dimensioni del tumore primario). Sono state descritte molte razze con un aumento del rischio di TM che si verifica più frequentemente negli animali anziani. Le cagne e le gatte che non vengono ovariectomizzate presentano un rischio complessivo più alto di 7 volte di sviluppare TM e nelle cagne ovariectomizzate prima del primo calore tale rischio è solo dello 0,5%, in quelle operate dopo il primo calore è dell’8% e dopo il secondo calore è del 26%. Si discute se la gonadectomia ad un’età più avanzata diminuisca il rischio di un ulteriore sviluppo di TM. Con tutta probabilità tale rischio non sarà più elevato per le malattie maligne, ma verrà definitivamente influenzato dall’occorrenza di quelle benigne. I TM si sviluppano a causa dell’influenza di estrogeni e progesterone.

Formazione di tumori uterini I tumori uterini sono rari nella cagna, con una frequenza segnalata dello 0,4% sulla totalità delle neoplasie in questa specie animale. L’University of Pennsylvania Veterinary Hospital ha esaminato 33.570 cagne fra il 1952 ed il 1966 e sono state individuate 96 neoplasie ginecologiche (utero, n =11, vagina o vulva, n = 85) in 90 animali (0,27%). In genere erano colpiti soggetti di media età o anziani e la maggior parte dei tumori uterini del cane era di origine mesenchima-

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le. Fra i tumori uterini, l’85-90% era rappresentato da leiomiomi benigni ed il 10% da leiomiosarcomi. L’autentico rischio di sviluppo di tumori maligni dell’utero è dello 0,003%. La prognosi associata ai leiomiomi e ad altri tumori benigni è eccellente, perché la chirurgia è quasi sempre risolutiva. Per i leiomiosarcomi ed altri tumori maligni, la prognosi rimane buona se al momento dell’intervento non vi sono segni di metastasi ed è possibile eseguire un’escissione completa.

SVANTAGGI Comportamento In seguito all’ovaristerectomia elettiva è stato segnalato un aumento dell’aggressività.

Incontinenza del meccanismo dello sfintere urinario La causa più comune dell’incontinenza nelle cagne ovariectomizzate è l’incompetenza del meccanismo dello sfintere uretrale (USMI), una malattia poco comune nelle cagne integre nelle quali è stata segnalata un’incidenza compresa fra lo 0,2% (10/5315) e lo 0,3% (7/2434). A causa della sottostante eziologia ormonale, è stato ipotizzato un significativo incremento di questa patologia nelle cagne ovariectomizzate. Nickel ha riferito una significativa compromissione del meccanismo dello sfintere uretrale nelle cagne gonadectomizzate. In uno studio retrospettivo Holt, utilizzando dati raccolti presso una struttura generica e specialistica del Regno Unito, ha segnalato che il 3% (53/1681) ed il 17,7% (296/1681) rispettivamente delle cagne era considerata incontinente dopo ovaristerectomia. In Svizzera, fino al 20% (83/412) delle cagne ovariectomizzate ha sviluppato segni indicativi di incontinenza urinaria nel periodo postoperatorio. I fattori confondenti nello sviluppo dell’incontinenza sono rappresentati dal momento dell’intervento, dal peso corporeo, dalla razza del cane e dal taglio della coda. È stato documentato un aumento del rischio nelle cagne sottoposte a caudectomia, con innalzamento dell’incidenza ad 1,3 (34/2614) in confronto allo 0,7% (29/4382) per le cagne non sottoposte al taglio della coda.

Aumento del peso corporeo La gonadectomia influisce negativamente sulla capacità di regolare l’assunzione di cibo e quindi predispone questi animali all’obesità. L’inattività e l’aumento dell’assunzione di cibo contribuiscono ad incrementi ponderali fino al 38%. Edney ha osservato che il 21,4% della totalità dei cani era sovrappeso e che per le femmine ovariectomizzate la probabilità di essere obese era doppia rispetto a quelle integre. In un altro studio, in cui i cani facevano regolarmente esercizio ed erano sottoposti ad un’assunzione di cibo controllata, non è stato riscontrato alcun significativo aumento del peso nelle cagne ovariectomizzate ed in quelle integre.


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Formazione di tumori

Anomalie del fenotipo

Gli animali gonadectomizzati presentano un’incidenza più elevata di carcinomi delle cellule di transizione, della vescica e dell’uretra. La causa esatta non è chiara e certe razze sembrano essere più suscettibili di altre. Anche l’osteosarcoma e l’emangiosarcoma sono stati segnalati più comunemente negli animali gonadectomizzati che in quelli integri.

Nelle cagne e nelle gatte sterilizzate prima del primo calore si possono osservare certe anomalie fenotipiche. Si può avere uno sviluppo immaturo dei genitali esterni che può portare a dermatiti.

Anomalie ortopediche La chiusura della fisi è in parte dipendente dagli ormoni delle gonadi e la sterilizzazione precoce porta ad una chiusura ritardata delle cartilagini di accrescimento. Queste modificazioni non sono tuttavia clinicamente significative. Uno studio riferisce un aumento dell’incidenza della displasia dell’anca nelle cagne sterilizzate in giovane età. Altre malattie ortopediche possono essere esacerbate dall’aumento di peso conseguente alla gonadectomia.

Bibliografia Root Kustritz. Determining the optimal age for gonadectomy of dogs and cats. J Am Vet Med Assoc 2007, 231:1665-1675. van Goethem B, Schaefers-Okkens A, Kirpensteijn J. Making a rational choice between ovariectomy and ovariohysterectomy in the dog: a discussion of the benefits of either technique.Vet Surg. 2006 Feb; 35(2):136-43.

Indirizzo per la corrispondenza: Jolle Kirpensteijn Department of Clinical Sciences of Companion Animals Utrecht University, Faculty of Veterinary Medicine Utrecht, The Netherlands - j.kirpensteijn@uu.nl


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Should we use male castration (orchiectomy) to treat dogs and cats or to prevent disease? Jolle Kirpensteijn DVM, PhD, Dipl ECVS, Utrecht, Olanda

Introduction

Prostatic carcinoma

Although castration of male dogs is less common than ovariohysterectomy, it is still a procedure that is performed routinely. Most commonly, if abnormalities are present in the testicles or prostate or if the dogs show abnormal behaviour. Feline castration is very common and often performed at the age that the cat’s urine smell develops to a pungent odour.

The incidence of prostatic cancer is approximately 0.05%. Because the tumours are almost always malignant and surgical therapies often unsuccessful, prevention seems to be important. Castrated dogs have a higher incidence of developing prostatic cancer than intact dogs, with an increased risk of 2.5-5 times. The exact cause for this is unknown at the moment.

Surgical technique

Prostatic hyperplasia

The technique differs between dogs and cats. In cats the testicles are approached through a scrotal incision. The testicles are pushed out and multiple techniques have been described for removal. The author prefers the sutureless technique in which a knot is placed in the pedicle itself. Both incisions are left open for second intention healing. A prescrotal castration is routinely performed in dogs. The testicles are removed through an op en or closed castration, depending n the size of the animal and the type of disease. In the case of tumours the author prefers a closed castration. The incision is closed after the procedure.

Hyperplasia of the prostate is a common abnormality in the dog with an incidence of up to 90-100% in intact older dogs. BPH can lead to prostatitis and castration is the most definitive treatment of the disease

Testicular cancer Testicular tumors are common (incidence of about 1%) and castration is curative.

References Cryptorchid animals Cryptorchid dogs are not castrated routinely at the Department of Clinical Sciences of Companion Animals University Clinic for Companion Animals in Utrecht, the Netherlands, based on a risk analysis from Van Sluijs (2002). Van Sluijs performed an analysis to estimate the life span of cryptorchid dogs that undergo a preventive orchidectomy and compared it to dogs that stayed intact. The expected life span of an orchidectomised, cryptorchid dog was not significantly different from an intact cryptorchid dog. The expected utility value for no surgery was 8.98 years against 8.97 years for dogs with a preventive orchidectomy.

Root Kustritz. Determining the optimal age for gonadectomy of dogs and cats. J Am Vet Med Assoc 2007, 231:1665-1675. Maarschalkerweerd RJ, Endenburg N, Kirpensteijn J, Knol BW. The influence of orchiectomy on canine behavior. Vet Rec 1997; 140:617-619.

Address for correspondence: Jolle Kirpensteijn Department of Clinical Sciences of Companion Animals Utrecht University, Faculty of Veterinary Medicine Utrecht, The Netherlands E mail j.kirpensteijn@uu.nl


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Castrazione del cane e del gatto maschi: abitudine, prevenzione o terapia? Jolle Kirpensteijn DVM, PhD, Dipl ECVS, Utrecht, Olanda

Introduzione

Carcinoma prostatico

Benché la castrazione dei cani maschi sia meno comune dell’ovaristerectomia, è comunque una procedura che viene eseguita di routine. Nella maggior parte dei casi, l’intervento si esegue se sono presenti delle anomalie dei testicoli o della prostata o se il cane mostra un comportamento anormale. La castrazione del gatto è molto comune e spesso viene attuata nell’età in cui l’urina di questi animali inizia a sviluppare un odore pungente.

L’incidenza del tumore prostatico è approssimativamente dello 0,05%. Poiché le neoplasia sono quasi sempre maligne e le terapie chirurgiche spesso non hanno successo, sembra essere importante la prevenzione. I cani castrati mostrano un’incidenza più elevata di sviluppo di neoplasie prostatiche rispetto a quelli interi, con un aumento del rischio di 2,5-5 volte. Al momento, la causa esatta di questo fenomeno è sconosciuta.

Tecnica chirurgica

Iperplasia prostatica

La tecnica differisce fra il cane ed il gatto. Nei gatti si accede ai testicoli attraverso un’incisione scrotale. Gli organi vengono spinti all’esterno e poi rimossi con una delle molteplici tecniche descritte. L’autore preferisce quella che non prevede l’applicazione di suture, perché si realizza un nodo sul peduncolo stesso. Entrambe le incisioni vengono lasciate aperte a guarire per seconda intenzione. Nel cane si effettua abitualmente una castrazione prescrotale. I testicoli vengono rimossi attraverso una tecnica a cielo aperto o coperto, a seconda delle dimensioni dell’animale e del tipo di malattia. Nel caso dei tumori, l’autore preferisce la castrazione a cielo coperto. L’incisione viene chiusa dopo l’intervento.

L’iperplasia della prostata è un’anomalia di comune riscontro nel cane, con un’incidenza che arriva fino al 90100% nei cani anziani interi. La BPH può portare a prostatite e la castrazione rappresenta il trattamento più definitivo per la malattia.

Tumori testicolari I tumori testicolari sono comuni (incidenza dell’1% circa) e la castrazione è risolutiva.

Bibliografia Animali criptorchidi I cani criptorchidi non vengono castrati di routine presso il Department of Clinical Sciences of Companion Animals University Clinic for Companion Animals di Utrecht, Paesi Bassi, in base ad un’analisi del rischio di Van Sluijs (2002). Questo autore ha eseguito uno studio per stimare la durata della vita media dei cani criptorchidi sottoposti ad un’orchiectomia preventiva in confronto a quelli lasciati interi. La durata prevista della vita di un cane criptorchide orchiectomizzato non era significativamente differente da quella di uno intero. Il valore previsto nei soggetti non operati era di 8,98 anni, contro gli 8,97 anni per i cani sottoposti ad orchiectomia preventiva.

Root Kustritz. Determining the optimal age for gonadectomy of dogs and cats. J Am Vet Med Assoc 2007, 231:1665-1675. Maarschalkerweerd RJ, Endenburg N, Kirpensteijn J, Knol BW. The influence of orchiectomy on canine behavior. Vet Rec 1997; 140:617-619.

Indirizzo per la corrispondenza: Jolle Kirpensteijn Department of Clinical Sciences of Companion Animals Utrecht University, Faculty of Veterinary Medicine Utrecht, The Netherlands j.kirpensteijn@uu.nl


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Ovariectomy versus ovariohysterectomy. Is the eternal argument ended? Jolle Kirpensteijn DVM, PhD, Dipl ECVS, Utrecht, Olanda

Gonadectomy is one of the most frequently performed surgical techniques in veterinary practice because it is the most reliable means of pet population control. The importance of pet population control is underscored by the American Humane Association’s Animal Shelter Reporting Study that between 3.9 and 5.9 million dogs are euthanatized annually in the United States. Gonadectomy can be performed by ovariectomy (OVE) or ovariohysterectomy (OVH), the latter being the preferred approach in the USA. This preference is most likely based on the presumption that future uterine pathology is prevented by removing the uterus. In the Netherlands and some other European countries, OVE is routinely performed and has replaced OVH as the standard approach for gonadectomy; the uterus is only removed when uterine pathology is present.

SURGICAL TECHNIQUE OVE is started by a median coeliotomy extending from the umbilicus to approximately halfway between umbilicus and os pubis, depending on dog size. In deep-chested or obese dogs it is sometimes necessary to enlarge the incision cranially to allow sufficient exposure of the ovarian pedicle. The ovary is located, and retracted caudally to expose the suspensory ligament and ovarian pedicle. The suspensory ligament is stretched, broken, or transected by electrocoagulation or scissors, to improve manipulation and observation of the pedicle. The arteriovenous complex within the pedicle, arising from the ovarian artery and vein is ligated with 0 - 4/0 absorbable suture material, depending on pedicle size, after which it is transected. The uterine artery and vein are ligated at the cranial tip of the uterine horn, 5 mm caudal to the proper ligament, using 2/0 - 4/0 absorbable suture material, and transected at the proper ligament. After excision the ovarian bursa is opened and inspected to confirm complete ovarian removal. OVH is also performed through a median coeliotomy, although, based on the dog’s size and body condition, the incision is lengthened in a caudal direction. After the ovarian pedicles are ligated and severed, the broad ligament is examined. If it is vascular, it is ligated with 1 or 2 ligatures using 2/0 - 4/0 absorbable suture material before it is cut or torn. A clamp is placed on the uterine body just cranial to, or on, the cervix. The uterine arteries are individually ligated proximal to the clamp using 2/0 - 4/0 absorbable suture material and the uterus is ligated circumferentially in the

crushing groove that remains after removal of the clamp using 0 - 4/0 absorbable suture material. After inspection for potential bleeding at the ligated pedicles, the coeliotomy is closed in layers.

OVE VERSUS OVH From a technical perspective, OVE is less invasive and less time-consuming than OVH. Although it is possible to perform OVH through a small median coeliotomy, atraumatic technique and correct placement of the uterine ligature near the cervix typically requires a larger coeliotomy compared with OVE. Thus, the duration of surgery and anesthesia should be shorter for OVE, and because the coeliotomy is shorter, the broad ligaments are not disrupted, and the uterine stump left intact, there should also be less surgical trauma. The primary rationale for selection of OVH or OVE is likely related to the expected frequency of short- and longterm complications. In a retrospective study of 62 dogs that had OVH, 17.7% developed complications. Complications associated with OVE would be expected to be similar to complications associated with the ovariectomy component of OVH, however other complications associated with removal of the uterus in OVH would not be expected with OVE. A review of reported complications after OVE and OVH is presented below and a logical decision for technique is suggested.

Intra-abdominal haemorrhage Haemorrhage was the most common complication (79%) in dogs > 25 kg in a review of 853 OVHs. Concurrently, haemorrhage has been determined to be the most common cause of death after OVH in large breed dogs. Clinically important haemorrhage primarily occurs from the ovarian pedicles, the uterine vessels, or the uterine wall when ligatures are improperly placed, and rarely occurs from vessels that accompany the suspensory ligament or within the broad ligament. Thus, comparing OVE and OVH, the likelihood of clinically important haemorrhage from the ovarian pedicles should be similar. Theoretically, OVH has additional risk for haemorrhage from vessels in the broad ligament and from uterine vessels near the cervix (where the uterine arteries are larger than at the tip of the uterine horn and bleeding can be


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more severe in comparison). Haemorrhage from uterine vessel rupture caused by excessive traction on the uterine body during OVH has been reported.

Vaginal bleeding Single nonabsorbable multifilament ligatures around the uterine body can predispose to erosion of uterine vessels, resulting in intermittent vaginal bleeding. Pearson reported vaginal bleeding in 11 (15%) of 72 dogs, 4 - 16 days after surgery. Vaginal tamponade or exploratory coeliotomy may be indicated, if the bleeding becomes severe. Vaginal haemorrhage also may be associated with infection caused by contamination during surgery, use of infected suture material, or from transfixation ligatures that enter the lumen of the uterus or cervix. The advantage of ligating the uterine vessels at the uterine horn tip and transection at the proper ligament is, that the uterine horn is not opened and the serosa remains intact. Bleeding from the vulva in the first weeks after surgery cannot occur. The only case in which one of the authors have observed a dog with vaginal bleeding after ovariectomy was when the surgeon transected the uterine horn (and thus opened the lumen).

Ligation of the ureter Direct obstruction of a ureter occurs when the ureter is accidentally included in a ligature. If, for instance, the pedicle is ligated to close to its base at the abdominal wall, because of inadequate exposure of the caudal pole of the kidney, the proximal aspect of the ureter may be incorporated. More often the distal part of the ureter is involved because of its close location to the uterine body. Inadvertent, suture-associated occlusion of the distal ureter is more common if a distended urinary bladder displaces the trigone cranially. Okkens, et al reported complications after OVH in 109 dogs, admitted over a 2-year period (1977-1979) at the University of Utrecht. Of these dogs, 18 had signs related to the urinary system. Direct ligation of the ureter was observed at the ovarian pedicle in 2 dogs (11%) and at the distal ureter by uterine ligature in 3 dogs (17%). It is evident that the chance of ligation of the proximal ureter during OVE is identical to the OVH technique, but distal ureteral ligation is nonexistent during OVE.

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(1973) described 12 dogs with recurrent oestrus in a group of 72 dogs with complications after OVH (17%). Okkens, et al reported 109 dogs with complications after OVH, of which 55 dogs had complications of a gynaecologic nature. Residual ovarian tissue was observed in 47 dogs (43%). Of these dogs, 16 had bilateral, 25 right-sided, and 6 left sided residual ovarian tissue. Ovarian remnants tend to be more commonly located on the right side. This higher frequency of right-sided ovarian remnants has been observed by others and is likely explained by a more cranial and deeper anatomic location of the right ovary, decreasing the ease of observation and removal. When performing OVE, the surgeon is placing 2 cuts close to the ovary (ovarian pedicle and proper ligament). One could argue, but this remains speculative, that there is an increased chance for ovarian remnants with OVE in comparison with OVH (where only 1 cut is made close to the ovary); however this cannot be confirmed by literature review. Most ovarian remnants occur after OVH. This may be because OVH is more commonly performed technique or because that the coeliotomy for OVH is located more caudally making observation of the (right) ovary more difficult. Decreased visualization enhances the chance for incorrect technique and the chance for ovarian remnants. In OVE, the incision can be positioned more cranial, avoiding this problem. Ovarian remnant syndrome can be avoided by correct surgical technique regardless of technique used. It is essential to have the incision cranial enough to allow complete visualization, especially of the right ovary. To achieve this with OVH a larger incision is necessary than for OVE.

Stump granuloma Inflammation and granuloma formation can be caused by ligatures of nonabsorbable suture material, poor aseptic technique, or excessive residual devitalized tissue (at the uterine body). Braided nonabsorbable suture materials, such as silk, nylon, or linen, and non-surgical self-locking nylon bands (cable ties) have been implicated in most patients. Okkens et al reported granulomas at the ovarian pedicle in 1 patient (6%) and at the uterine stump in 5 patients (28%). In dogs with gynaecologic complications after OVH, Okkens et al. observed 8 (15%) stump granuloma. The likelihood for development of a granuloma at the ovarian stump is not influenced by technique (OVE versus OVH), but the incidence of the more common granuloma at the uterine stump cannot occur with OVE. Granulomas at the uterine horn tip are possible, but to our knowledge, have not been described.

Ovarian remnant syndrome Recurrent oestrus occurs after OVE or OVH when the ovaries are incompletely removed and residual ovarian tissue becomes functional. Collateral circulation to the ovarian tissue can develop even though the ovarian arteriovenous complex has been ligated and interrupted. In dogs, neither ectopic ovaries (ovarian tissue in an abnormal location such as in the mesentery), nor accessory ovarian tissue extending into the ligament of the ovary have been reported compared with their occurrence in cats, cows, and humans. Pearson

Endometritis and pyometra Epidemiologic data for ~200,000 dogs covered by insurance in Sweden revealed that ~ 1,800 non-spayed bitches were treated for pyometra in 1996. The risk of an intact bitch developing pyometra before 10 years of age was 23 - 24%. Other studies, albeit on a smaller scale, had similar findings. Fukuda reported a 15.2% chance for the development of pyometra in 15.2% chance female dogs > 4 years old (n =


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165) and Von Berky reported a 14.9% chance for uterine disease (n =175). Thus, it is important to determine if the uterus in ovariectomized dogs is predisposed to develop endometritis and pyometra. Pyometra has been defined as a hormonally mediated diestral disorder resulting from bacterial interaction with an abnormal uterine endometrial that has undergone pathologic changes assumed to be caused by an exaggerated response to progesterone stimulation. Recently, the concept of considering cystic endometrial hyperplasia (CEH)pyometra as a complex has been questioned. It has been suggested that 2 different disorders; one where CEH-endometritis appears to have a strong hormonal component and pyometra might be more influenced by the bacterial component. Nevertheless, both conditions are exclusively encountered in the luteal phase of the oestrus cycle. Experimentally CEH or CEH-endometritis can be induced by administration of progesterone, even in ovariectomized bitches. Withdrawal of progesterone treatment causes regression of the naturally occurring disease. Thus exposure to progestagen appears to be necessary for the development of CEHendometritis. A study by Okkens et al comparing the long-term effects of OVE versus OVH was conducted at the University of Utrecht in 1997. Questionnaires were sent to 264 owners of bitches that had either OVE (n = 126) or OVH (n = 138) performed for routine neutering 8-11 years earlier. Complete data were obtained for 69 OVE bitches and 66 OVH bitches. None of the OVE bitches had signs consistent with having had endometritis. With the exception of urinary incontinence, no other problems related to surgical neutering were identified. These findings agree with those of Janssens who performed ovariectomy on 72 bitches and after a 6 - 10 year follow-up, no pyometra was detected. When OVE is correctly performed (all ovarian tissue removed) and in the absence of supplementation of exogenous progestagens, endometritis (CEH or pyometra) cannot occur. These studies strongly suggest that progesterone is an essential factor in the occurrence of CEH-endometritispyometra and that correctly performed, OVH or OVE will prevent development CEH-pyometra in later life. OVE will not increase the chance for development of CEH-pyometra compared with OVH.

Uterine tumor formation Uterine tumors are rare in the dog, with a reported rate of 0.4% of all canine tumours. The University of Pennsylvania Veterinary Hospital examined 33,570 female dogs between 1952 and 1966, and 96 gynecologic neoplasms (uterus, n=11; vagina or vulva, n=85) were detected in 90 dogs (0.27%). Middle-aged to older animals were most commonly affected and most canine uterine tumours were mesenchymal in origin. Of the uterine tumours, 85-90% were benign leiomyomas and 10% leiomyosarcomas. The true risk for development of malignant tumoural disease of the uterus is 0.003%. The prognosis associated with leiomyomas and other benign tumours is excellent because surgery is nearly always curative. For leiomyosarcomas and other

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malignant tumours, the prognosis remains good if there is no evidence of metastatic disease at surgery and complete excision is possible. When performing gonadectomy, the surgeon has to balance the risk for possible tumoural development in the uterus when performing OVE, against the increase in surgery related complications when performing OVH.

Urinary sphincter mechanism incontinence Long-term studies have been unable to detect a difference between occurrence of incontinence in dogs after OVE compared with OVH. One of the initial reports concluded that there was no difference between OVE and OVH. Another study reported that 54 out of 260 OVE dogs developed incontinence (20.8%) compared with 29 of 152 OVH dogs (19.1%); however, this difference was not significant.45 Okkens et al reported urinary incontinence in 15 dogs (11%) after long-term follow-up but no significant difference in incidence between OVE and OVH neutered bitches.

Body weight gain No significant difference in weight gain has been observed between dogs that had OVE versus OVH in other studies.

CONCLUSION The absence of randomized studies comparing complications after OVE and OVH in dogs forces us to interpret historical reviews of both techniques. The rational conclusion after review, when immediate postoperative complications are considered, is that either technique can be used for canine female gonadectomy. The surgeon has to choose the least invasive, fastest, and safest procedure. A major advantage of OVE is that it can be performed through a smaller coeliotomy and with less traction on the female genital tract. Technically, OVH is more complicated (more tissue is ligated and transected), time consuming (because a larger coeliotomy is needed to expose the entire uterus) and is therefore expected to be associated with a greater short-term morbidity when compared with OVE. However, differences in short-term postoperative morbidity between the 2 techniques have not been published. Increased risk for surgery-related complications associated with OVH are estimated for: intraabdominal and vaginal bleeding (because of larger vessel diameter near the uterine body), ureteral ligation (because of close proximity of the distal part of the ureter to the uterine body), ovarian remnants (because of the more caudally located incision), uterine stump complications, and sinus tracts (because of mucosal exposure). Since 1981, after introduction of OVE as the standard technique for canine neutering at Utrecht University, no increase in short-term complications has been observed. With respect to long-term urogenital problems, including endometritis/pyometra and urinary incontinence, it has been


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clearly established that they do not any occur more frequently with either technique. The overall chance for development of uterine tumours is very low (0.003%), and, in our opinion, does not warrant performing a potentially more traumatizing surgical procedure, OVH, that might be associated with more postoperative complications. Without benefit of more prospective studies comparing surgical complications between OVE and OVH, most evidence extracted from the literature leads us to the conclusion that there is no benefit and thus no indication for removing the uterus during routine neutering in healthy bitches. Thus we believe that OVE should be the procedure of choice for canine gonadectomy.

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Reference van Goethem B, Schaefers-Okkens A, Kirpensteijn J. Making a rational choice between ovariectomy and ovariohysterectomy in the dog: a discussion of the benefits of either technique.Vet Surg. 2006 Feb; 35(2):136-43.

Address for correspondence: Jolle Kirpensteijn Department of Clinical Sciences of Companion Animals Utrecht University, Faculty of Veterinary Medicine Utrecht, The Netherlands E mail j.kirpensteijn@uu.nl


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Ovariectomia versus ovario-isterectomia: cosa dobbiamo fare? Jolle Kirpensteijn DVM, PhD, Dipl ECVS, Utrecht, Olanda

La gonadectomia è una delle tecniche chirurgiche eseguite più frequentemente in medicina veterinaria, perché è il mezzo più affidabile per il controllo della popolazione degli animali da compagnia. L’importanza di tale controllo viene sottolineata dall’American Humane Association’s Animal Shelter Reporting Study che riferisce che ogni anno negli Stati Uniti viene soppresso eutanasicamente un numero di cani compreso fra 3,9 e 5,9 milioni. La gonadectomia può venire eseguita mediante ovariectomia (OVE) o ovaristerectomia (OVH); quest’ultima costituisce l’approccio d’elezione negli USA. Questa preferenza con tutta probabilità è basata sul presupposto che la rimozione dell’utero consente di evitare lo sviluppo di future patologie a carico dell’organo. Nei Paesi Bassi ed in alcune altre nazioni europee si esegue routinariamente l’ovariectomia, che ha rimpiazzato l’ovaristerectomia come approccio standard alla gonadectomia; l’utero viene rimosso soltanto quando è colpito da un processo patologico.

TECNICA CHIRURGICA L’ovariectomia si inizia con una laparotomia lungo la linea mediana che si estende dall’ombelico fino ad un punto situato approssimativamente a metà distanza fra l’ombelico stesso e l’osso del pube, a seconda della taglia del cane. Nelle razze a torace profondo come i soggetti obesi è talvolta necessario allargare l’incisione cranialmente, in modo da consentire una sufficiente esposizione del peduncolo ovarico. L’ovaio viene localizzato e scostato caudalmente in modo da esporre il legamento sospensore ed il suo peduncolo. Il legamento sospensore viene stirato, rotto o scontinuato mediante elettrocoagulazione o con le forbici, per migliorare la manipolazione e l’osservazione del peduncolo. Il complesso arterovenoso all’interno del peduncolo, che origina dall’arteria e dalla vena ovariche, viene legato con materiale da sutura assorbibile 0-4/0 a seconda delle dimensioni del peduncolo stesso e poi scontinuato. L’arteria e la vena uterine vengono legate in corrispondenza dell’estremità craniale del corno uterino, 5 mm caudalmente al legamento proprio, utilizzando materiale da sutura assorbibile 2/0-4/0, e poi recidendo il legamento proprio. Dopo l’escissione, si apre la borsa ovarica e si ispeziona l’organo per confermarne la completa rimozione. Anche l’ovaristerectomia viene eseguita attraverso una laparotomia lungo la linea mediana, benché, in base alle dimensioni ed alla condizione corporea della cagna, l’incisione venga allungata in direzione caudale. Dopo aver lega-

to e reciso i peduncoli ovarici, si esamina il legamento largo. Se è vascolarizzato, si eseguono una o due legature dei vasi presenti utilizzando materiale assorbibile 2/0 o 4/0 prima di tagliarlo o reciderlo. Sul corpo uterino, appena cranialmente alla cervice o su di essa, si applica una pinza. Prossimalmente a questa si legano individualmente le arterie uterine utilizzando materiale assorbibile 2/0-4/0, mentre sull’utero, con materiale da sutura assorbibile 0-4/0, si applica una legatura circonferenziale nel solco di schiacciamento che rimane dopo la rimozione della pinza. Dopo aver ispezionato i potenziali rischi di sanguinamento in corrispondenza dei peduncoli legati, si chiude la laparotomia su più piani.

OVARIECTOMIA CONTRO OVARISTERECTOMIA Da un punto di vista tecnico, l’ovariectomia è meno invasiva e richiede meno tempo dell’ovaristerectomia. Benché sia possibile eseguire quest’ultima attraverso una piccola laparotomia mediana, la tecnica atraumatica ed il corretto posizionamento della legatura uterina vicino alla cervice richiedono tipicamente una laparotomia più grande di quella dell’ovariectomia. Quindi, nel caso di quest’ultima, la durata dell’intervento e l’anestesia saranno più brevi e poiché la laparotomia è più corta, non si ha la distruzione dei legamenti larghi ed il moncone uterino viene lasciato intatto, si determina anche un minor trauma chirurgico. I presupposti razionali primari per scegliere fra ovaristerectomia o ovariectomia sono principalmente correlati alla prevista frequenza di complicazioni a breve ed a lungo termine. In uno studio retrospettivo su 62 cani sottoposti ad ovaristerectomia, il 17,7% ha sviluppato complicazioni; quelle associate all’ovariectomia saranno prevedibilmente simili a quelle che si accompagnano alla rimozione delle gonadi nell’ovaristerectomia, mentre quelle che in quest’ultima si accompagnano alla rimozione dell’utero non costituiranno ovviamente un riscontro atteso nell’ovariectomia. Viene presentata una rassegna delle complicazioni descritte per l’ovariectomia e l’ovaristerectomia suggerendo una scelta logica della tecnica da eseguire.

Emorragia intraddominale L’emorragia è stata la complicazione più comune (79%) nelle cagne di peso superiore a 25 kg in una rassegna rela-


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tiva ad 853 ovaristerectomie. Attualmente, è stato accertato che l’emorragia è la causa più comune di morte in seguito a questo intervento nelle cagne di grossa taglia. L’emorragia clinicamente importante si verifica principalmente dai peduncoli ovarici, dai vasi uterini o dalla parete uterina in seguito all’applicazione non corretta delle legature ed in rari casi deriva da vasi che accompagnano il legamento sospensore o sono situati all’interno del legamento largo. Quindi, confrontando ovariectomia ed ovaristerectomia, le probabilità di un’emorragia clinicamente importante dal peduncolo ovarico dovrebbero essere simili. Teoricamente, l’ovaristerectomia comporta un rischio aggiuntivo di emorragia dai vasi del legamento largo e da quelli uterini vicino alla cervice (dove le arterie uterine sono più grandi che in corrispondenza della estremità delle corna e il sanguinamento può essere proporzionalmente più grave). È stata segnalata l’emorragia da rottura dei vasi uterini causata dall’eccessiva trazione sul corpo dell’organo durante l’ovaristerectomia.

Sanguinamento vaginale Le singole legature monofilamento assorbibili intorno al corpo uterino possono predisporre all’erosione dei vasi uterini, con conseguente sanguinamento vaginale intermittente. Pearson ha descritto un sanguinamento vaginale in 11 cagne su 72 (15%), 4-16 giorni dopo l’intervento. Se la perdita ematica diviene grave può essere indicato il tamponamento vaginale o la laparotomia esplorativa. L’emorragia vaginale può anche essere associata ad un’infezione causata da contaminazione durante l’intervento, uso di materiale da sutura infetto o legature trapassanti che penetrano nel lume dell’utero o della cervice. Il vantaggio della legatura dei vasi uterini a livello della punta delle corna dell’organo e della resezione del legamento proprio è che il corno uterino non viene aperto e la sierosa rimane integra. Il sanguinamento dalla vulva nella prima settimana dopo l’intervento non può avvenire. L’unico caso in cui uno degli autori ha osservato una cagna con sanguinamento vaginale dopo ovariectomia è stato quando il chirurgo ha tagliato il corno uterino (e quindi aperto il lume).

Legatura dell’uretere L’ostruzione diretta di un uretere si ha quando questo viene accidentalmente compreso in una legatura. Se, per esempio, il peduncolo viene legato per chiudere la sua base a livello della parete addominale, a causa di un’inadeguata esposizione del polo caudale del rene può venire incorporato il tratto prossimale dell’uretere. Più spesso è la parte distale di quest’ultimo ad essere coinvolta a causa della sua localizzazione vicino al corpo uterino. L’involontaria occlusione da sutura a livello del tratto distale dell’uretere è più comune nei casi in cui una vescica distesa determina una dislocazione craniale del trigono. Okkens et al. hanno riferito complicazioni in seguito ad ovaristerectomia in 109 cagne, ricoverate nell’arco di un periodo di due anni (1977-

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1979) presso la University of Utrecht. Fra questi animali, 18 presentavano segni correlati al sistema urinario. La legatura diretta dell’uretere è stata osservata a livello del peduncolo ovarico in due cagne (11%) e nel tratto distale dell’uretere per legatura uterina in tre (17%). È evidente che le probabilità di legatura del tratto prossimale dell’uretere durante la ovariectomia sono identiche a quelle della ovaristerectomia, mentre la legatura ureterale distale non esiste nella ovariectomia.

Sindrome del residuo ovarico Dopo un’ovariectomia o un’ovaristerectomia in cui le ovaie non sono state rimosse completamente si può avere una ricomparsa dell’estro quando il tessuto ovarico residuo diviene funzionale. Si può sviluppare una circolazione collaterale del tessuto ovarico anche se il complesso arterovenoso ovarico è stato legato e scontinuato. Nella cagna, non sono state segnalate né ovaie ectopiche (tessuto ovarico in sede anormale come il mesentere), né ovaie accessorie che si estendono nel legamento ovarico, mentre sono state rilevate in gatte, bovine e donne. Pearson (1973) ha descritto 12 cagne con estro ricorrente in un gruppo di 72 soggetti con complicazioni dopo ovaristerectomia (17%). Okkens et al. hanno segnalato 109 cagne con complicazione dopo ovaristerectomia, fra le quali 55 mostravano complicazioni di natura ginecologica. La presenza di tessuto ovarico residuo è stata osservata in 47 cagne (43%). Fra queste, 16 presentavano tessuto ovarico residuo bilaterale, 25 dal lato destro e 6 dal lato sinistro. I residui ovarici tendono ad essere più comunemente localizzati sul lato destro. Questa maggiore frequenza dei residui ovarici di destra è stata osservata da altri autori ed è probabilmente spiegabile con una localizzazione anatomica più craniale e più profonda dell’ovaia di questo lato, che ne diminuisce la facilità di osservazione e rimozione. Quando si esegue una ovariectomia, il chirurgo pratica due tagli vicino all’ovaia (peduncolo ovarico e legamento proprio). Si potrebbe ipotizzare, ma questa ipotesi resta speculativa, che vi sia un aumento delle probabilità di residui ovarici in caso di ovariectomia in confronto alla ovaristerectomia (dove si esegue solo un taglio vicino all’ovaia); tuttavia, ciò non può essere confermato dall’esame della letteratura esistente. La maggior parte dei residui ovarici si osserva in seguito ad ovaristerectomia. Ciò può essere dovuto al fatto che questo intervento è la tecnica più comunemente eseguita o perché la laparotomia per l’ovaristerectomia è localizzata più caudalmente, il che rende più difficile l’osservazione dell’ovaia (di destra). La diminuita visualizzazione aumenta le probabilità di una tecnica non corretta e il rischio di residui ovarici. Nella ovariectomia, l’incisione può essere eseguita più cranialmente, evitando questo problema. È possibile prevenire la sindrome del residuo ovarici eseguendo una tecnica chirurgica corretta, indipendentemente dalla metodica utilizzata. È essenziale praticare l’incisione abbastanza cranialmente da consentire la visualizzazione completa, soprattutto dell’ovaia destra. Per ottenere questo risultato nell’ovaristerectomia è necessaria un’incisione più ampia di quella dell’ovariectomia.


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Granuloma del moncone L’infiammazione e la formazione di un granuloma possono essere causate da legature in materiale da sutura non assorbibile, tecnica poco asettica o eccessivi residui di tessuto devitalizzato (a livello del corpo dell’utero). Nella maggior parte dei pazienti sono stati implicati i materiali da sutura non assorbibili intrecciati come la seta, il nylon o il lino e le fascette di nylon autobloccanti non chirurgiche (fascette da elettricista). Okkens et al. hanno riferito granulomi a livello del peduncolo ovarico in una paziente (6%) ed in corrispondenza del moncone uterino in 5 (28%). Nelle cagne con complicazioni ginecologiche dopo ovaristerectomia, Okkens et al. hanno osservato otto granulomi del moncone (15%). La probabilità di sviluppo di un granuloma a livello del moncone ovarico non viene influenzata dalla tecnica (ovariectomia piuttosto che ovaristerectomia), ma l’incidenza del più comune granuloma a livello del moncone uterino non può avvenire in caso di ovariectomia. I granulomi della punta del corno uterino sono possibili, ma, per quanto è a nostra conoscenza, non sono stati descritti.

Endometrite e piometra I dati epidemiologici relativi a circa 200.000 cagne coperte da assicurazione in Svezia hanno rivelato che nel 1996 erano stati trattati per piometra circa 1.800 soggetti non ovariectomizzati. Il rischio che una cagna intera sviluppi una piometra prima dei dieci anni di età era del 23-24%. Altri studi, benché su scala più ridotta, hanno fornito risultati simili. Fukuda ha segnalato una probabilità del 15,2% dello sviluppo di piometra in cagne femmine con più di 4 anni di vita (n = 165) e Von Berky ha riferito una probabilità del 14,9% di affezioni uterine (n = 175). Quindi, è importante determinare se l’utero nelle cagne ovariectomizzate sia predisposto allo sviluppo di endometrite e piometra. Quest’ultima è stata definita come un disordine diestrale mediato a livello ormonale e derivante dall’interazione batterica con un endometrio anormale che è andato incontro ad alterazioni patologiche presumibilmente causate da un’esagerata risposta alla stimolazione da parte del progesterone. Recentemente, è stato messo in discussione il concetto di considerare l’iperplasia endometriale cistica (CEH)-piometra come un complesso. È stato ipotizzato che si tratti di due disordini differenti; uno in cui la CEH-endometrite sembra riconoscere una forte componente ormonale e la piometra che può essere maggiormente influenzata da una componente batterica. Ciò nonostante, entrambe le condizioni si riscontrano esclusivamente nella fase luteinica del ciclo estrale. Sperimentalmente, è possibile indurre CEH o CEH-endometrite con la somministrazione di progesterone anche in cane ovariectomizzate. La sospensione del trattamento con progesterone causa la regressione della malattia ad insorgenza spontanea. Quindi, per lo sviluppo della CEH-endometrite sembra essere necessaria l’esposizione ai progestinici. Uno studio di Okkens et al. volto a confrontare gli effetti a lungo termine dell’ovariectomia con quelli dell’ovaristerectomia è stato condotto presso la University of Utrecht nel

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1997. Sono stati inviati dei questionari a 264 proprietari di cagne che erano state sottoposte ad ovariectomia (n = 126) o ovaristerectomia (n = 138) per una castrazione di routine 811 anni prima. Sono stati ottenuti i dati completi per 69 cagne sottoposte ad ovariectomia e 66 sottoposte ad ovaristerectomia. Nessuna delle cagne ovariectomizzate presentava segni compatibili con l’aver avuto un’endometrite. Con l’eccezione dell’incontinenza urinaria, non sono stati identificati altri problemi correlati alla castrazione chirurgica. Questi riscontri sono in accordo con quelli di Janssens che ha eseguito l’ovariectomia in 72 cagne e dopo un follow-up di 6-10 anni non ha individuato alcuna piometra. Quando l’ovariectomia viene eseguita correttamente (rimozione di tutto il tessuto ovarico) ed in assenza di somministrazione di progestinici esogeni, l’endometrite (CEH o piometra) non può avvenire. Questi studi sono fortemente indicativi del fatto che il progesterone sia un fattore essenziale per l’occorrenza della CEH-endometrite-piometra e che, se correttamente eseguite, l’ovaristerectomia o l’ovariectomia prevengono lo sviluppo della CEH-piometra nelle fasi successive della vita. L’ovariectomia non determina alcun aumento delle probabilità di sviluppo della CEH-piometra in confronto all’ovaristerectomia.

Formazione di tumori uterini I tumori uterini nel cane sono rari, con una frequenza segnalata dell’0,4% sulla totalità delle neoplasie canine. L’University of Pennsylvania Veterinary Hospital ha esaminato 33.570 cagne fra il 1952 ed il 1966, riscontrando 96 casi ginecologici (utero, n = 11; vagina o vulva, n = 85) in 90 soggetti (0,27%). Erano maggiormente colpiti gli animali di media età o anziani e la maggior parte dei tumori uterini canini era di origine mesenchimale. Fra i tumori dell’utero, l’85-90% era rappresentato da leiomiomi benigni ed il 10% da leiomiosarcomi. L’autentico rischio di sviluppo di una malattia tumorale maligna dell’utero è dello 0,003%. La prognosi associata ai leiomiomi e ad altri tumori benigni è eccellente, perché la chirurgia è quasi sempre risolutiva. Per i leiomiosarcomi e gli altri tumori maligni, la prognosi resta buona se non vi sono segni di metastasi al momento dell’intervento ed è possibile eseguire un’escissione completa. Quando si effettua una gonadectomia, il chirurgo deve valutare i rischi di possibile sviluppo tumorale nell’utero, raffrontandoli all’aumento delle complicazioni correlate alla chirurgia in caso di ovaristerectomia.

Incontinenza del meccanismo dello sfintere urinario Studi a lungo termine non sono stati in grado di rilevare una differenza fra l’occorrenza dell’incontinenza nelle cagne sottoposte ad ovariectomia in confronto a quelle ovaristerectomizzate. Una delle prime segnalazioni è giunta alla conclusione che non vi era alcuna differenza fra ovariectomia ed ovaristerectomia. Un altro studio ha riferito che 54 cagne su 260 sottoposte ad ovariectomia hanno sviluppato l’inconti-


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nenza (20,8%), in confronto a 29 cagne su 152 sottoposte ad ovaristerectomia (19,1%); tuttavia, questa differenza non era significativa.45 Okkens et al. hanno riferito un’incontinenza urinaria in 15 cagne (11%) dopo follow-up a lungo termine, ma non è stata riscontrata alcuna differenza significativa nell’incidenza fra le cagne sterilizzate con ovariectomia e ovaristerectomia.

Aumento del peso corporeo In altri studi non è stata osservata alcuna differenza significativa nell’aumento di peso fra le cagne sottoposte ad ovariectomia e quelle trattate con ovaristerectomia.

CONCLUSIONE L’assenza di studi randomizzati volti a confrontare le complicazioni in seguito ad ovariectomia ed ovaristerectomia nelle cagne ci costringe ad interpretare le rassegne anamnestiche relative ad entrambe le tecniche. La conclusione razionale dopo questo esame, quando si prendono in considerazione le complicazioni postoperatorie immediate, è che per la gonadectomia nella cagna si possono utilizzare entrambe le tecniche. Il chirurgo deve scegliere quella meno invasiva, più rapida e più sicura. Uno dei principali vantaggi della ovariectomia è che può essere effettuata attraverso una breccia laparotomica più piccola e con una minore trazione sulle vie genitali femminili. Tecnicamente, l’ovaristerectomia è più complicata (è necessario legare e recidere più tessuti), richiede più tempo (perché occorre realizzare una laparotomia più ampia per esporre l’intero utero) e di conseguenza ci si attende che sia associata ad una maggiore morbilità a breve termine rispetto alla ovariectomia. Tuttavia, le differenze nella morbilità postoperatoria a breve termine fra le due tecniche non sono state pubblicate. L’aumento del rischio per le complicazioni correlate all’intervento chirurgico ed associate all’ovaristerectomia è stato stimato per sanguinamento intraddominale e vaginale (a causa del maggior diametro dei vasi vicino al corpo uterino), legatura ureterale

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(a causa della stretta prossimità della parte distale dell’uretere con il corpo uterino), residui ovarici (a causa della localizzazione più caudale dell’incisione), complicazioni del moncone uterino e tragitti fistolosi (a causa dell’esposizione della mucosa). Dal 1981, dopo l’introduzione della ovariectomia come tecnica standard per la sterilizzazione chirurgica del cane presso la Utrecht University, non è stato osservato alcun incremento delle complicazioni a breve termine. Per quanto riguarda i problemi urogenitali a lungo termine, compresi l’endometrite-piometra e l’incontinenza urinaria, è stato chiaramente stabilito che non si verificano con frequenza maggiore né con l’una né con l’altra tecnica. Le probabilità complessive di sviluppo di tumori uterini sono molto basse (0,003%) e, nella nostra opinione, non giustificano l’esecuzione di un intervento chirurgico potenzialmente più traumatizzante, l’ovaristerectomia, che può essere associato a maggiori complicazioni postoperatorie. Senza i benefici di maggiori studi in prospettiva che confrontino le complicazioni chirurgiche fra ovariectomia ed ovaristerectomia, la maggior parte dei dati estratti dalla letteratura ci porta a concludere che non vi è alcun beneficio e quindi nessuna indicazione per la rimozione dell’utero durante la sterilizzazione di routine nelle cagne sane. Pertanto, riteniamo che la procedura d’elezione per la gonadectomia nella cagna debba essere l’ovariectomia.

Bibliografia van Goethem B, Schaefers-Okkens A, Kirpensteijn J. Making a rational choice between ovariectomy and ovariohysterectomy in the dog: a discussion of the benefits of either technique.Vet Surg. 2006 Feb;35(2):136-43.

Indirizzo per la corrispondenza: Jolle Kirpensteijn Department of Clinical Sciences of Companion Animals Utrecht University, Faculty of Veterinary Medicine Utrecht, The Netherlands j.kirpensteijn@uu.nl


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