65a edizione Scivac Program - Abstract 2010

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SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA SOCIETÀ FEDERATA ANMVI

65° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC

RIMINI 28-30 MAGGIO 2010 Palacongressi di Rimini

Estratti relazioni Comunicazioni brevi • Poster


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SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA SOCIETÀ FEDERATA ANMVI

65° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC

RIMINI 28-30 MAGGIO 2010 Palacongressi di Rimini

ESTRATTI RELAZIONI COMUNICAZIONI BREVI POSTER

QUESTO VOLUME DI ATTI CONGRESSUALI RIPORTA FEDELMENTE QUANTO FORNITO DAGLI AUTORI CHE SI ASSUMONO LA RESPONSABILITÀ DEI CONTENUTI DEI PROPRI SCRITTI.

THESE PROCEEDINGS REPORT FAITHFULLY ALL ABSTRACTS PROVIDED BY THE AUTHORS WHO ARE RESPONSIBLE OF THE CONTENT OF THEIR WORKS.

organizzato da

Soc. Cons. a r.l.

Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001:2008


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La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor per il sostegno e il contributo prestati alla realizzazione del 65째 Congresso Internazionale.

LABORATORIO PER MEDICI VETERINARI


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COMITATO SCIENTIFICO CONSIGLIO DIRETTIVO SCIVAC DEA BONELLO Presidente MASSIMO BARONI Presidente Senior FEDERICA ROSSI Vice Presidente GUIDO PISANI Tesoriere MARCO BERNARDINI Segretario ALBERTO CROTTI Consigliere BRUNO PEIRONE Consigliere

Anestesia - Adriano Lachin Animali esotici - Giordano Nardini Cardiologia - David Chiavegato Chirurgia - Luca Formaggini Citologia/Patologia Clinica - Walter Bertazzolo Dermatologia - Fabia Scarampella Diagnostica Per Immagini - Federica Rossi Fisioterapia - Ludovica Dragone

COMMISSIONE SCIENTIFICA Massimo Baroni Davide De Lorenzi Giorgio Romanelli Fulvio Stanga

Gastroenterologia - Ugo Lotti Medicina Comportamentale - Raimondo Colangeli Medicina Felina - Silvia Rossi Medicina Interna - Tommaso Furlanello Nefrologia - Paola Scarpa Neurologia - Mariateresa Mandara Odontostomatologia - Dea Bonello

COORDINATORE SCIENTIFICO CONGRESSUALE FULVIO STANGA Med Vet, Cremona

Oftalmologia - Alberto Crotti Oncologia - Paolo Buracco Ortopedia - Aldo Vezzoni Riproduzione - Manuela Farabolini

RESPONSABILE SEGRETERIA SCIENTIFICA MONICA VILLA Segreteria scientifica e organizzativa Tel: +39 0372 403504 E mail: commscientifica@scivac.it

CHAIRMEN - MAIN SESSIONS Anestesia - Federico Corletto, Adriano Lachin Animali Esotici - Giordano Nardini, Paolo Selleri Cardiologia - Francesco Migliorini, David Chiavegato

RESPONSABILE UFFICIO MARKETING FRANCESCA MANFREDI E ILARIA COSTA Tel: +39 0372 403538 E mail: marketing@evsrl.it

Chirurgia - Luca Formaggini, Giorgio Romanelli Citologia - Walter Bertazzolo Dermatologia - Fabia Scarampella, Luisa Cornegliani Diagnostica per Immagini - GianMarco Gerboni, Giliola Spattini Endoscopia - Roberta Caccamo Fisioterapia - Ludovica Dragone Gastroenterologia - Ugo Lotti

RESPONSABILE SEGRETERIA ISCRIZIONI PAOLA GAMBAROTTI Tel: +39 0372 403508 Fax: +39 0372 403512 E mail: info@scivac.it

Medicina Comportamentale - Raimondo Colangeli Medicina Felina - Stefano Bo, Saverio Paltrinieri Medicina Interna - Tommaso Furlanello Nefrologia - Monica Cherubini, Paola Scarpa Neurologia - Stefania Gianni, Mariateresa Mandara Odontostomatologia - Maria Teresa Semeraro Oftalmologia - Maurizio Mazzucchelli

ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE EV - Eventi Veterinari - Via Trecchi 20 26100 CREMONA (I)

Oncologia - Paolo Buracco, Laura Marconato Ortopedia - Filippo Maria Martini, Massimo Petazzoni Practice Management - Marco Viotti, Francesco Carrani Riproduzione - Manuela Farabolini


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CURRICULA VITAE DEI RELATORI ALESSANDRO BELLESE Med Vet, Venezia

DIANE ADDIE Dr Vet Med, PhD, BVMS, Etchebar (F)

Laureato in Medicina Veterinaria a Bologna l’8-11-1994. Da sempre appassionato di zoologia in generale e di entomologia ed erpetologia in particolare. Da quando ha intrapreso la professione medico veterinaria, si è interessato in modo sempre più esclusivo agli animali da compagnia “non convenzionali”, fino, allo stato attuale di dedicarsi interamente alla medicina e chirurgia di questi ultimi, in particolare di rettili e mammiferi. Esercita principalmente a Spinea (VE) e Lido di Venezia (VE) e collabora con colleghi della provincia. È il veterinario responsabile della Casa delle Farfalle di Bordano (UD). Iscritto dal 1995 dapprima al GAE (Gruppo di studio animali Esotici) della SCIVAC, poi SIVAE. Socio fondatore e consigliere dell’AAE (Associazione Animali Esotici). Ha scritto il volume divulgativo Voglio Un Serpente, Gruppo Castel Negrino Editore 2008 ed il paragrafo “Esami collaterali nei cheloni” nel volume “Diagnosi e terapia negli animali esotici” della Dr. M. Avanzi. Scrive articoli di argomenti medico veterinari per la rivista per appassionati Testudo magazine.

La Dr.ssa Diane D. Addie è un virologo veterinario che si interessa in particolar modo delle malattie infettive del gatto. Dopo essersi laureata alla University of Glasgow, ha esercitato per 8 anni la professione sui piccoli animali. I suoi sogni sono di eradicare la peritonite infettiva felina (FIP), almeno fra i gatti di razza e quelli dei rifugi, e trovare una cura per la gengivostomatite felina cronica. È Honorary Senior Research Fellow at the University of Glasgow, dove, fino al 2006, è stata direttrice del Diagnostic Veterinary Virology laboratory. Ha fondato il Feline Institute Pyrenees, dedicato alla ricerca sulla FIP e sostenuto da donazioni offerte da singoli individui. È autrice del sito web www.catvirus.com sulla FIP e la gengivostomatite felina (FGS). Nel 2003 ha ricevuto l’Amoroso award per i notevoli contributi agli studi sui piccoli animali da parte di un membro non clinico dello staff universitario. Ha fatto parte per 20 anni del Council of Cats Protection ed oggi è uno dei patrocinatori del Celia Hammond Animal Trust. È membro del European Advisory Board of Cat Disease, i cui convegni sono finanziati da Merial, ma i cui membri veterinari sono volontari non retribuiti. È ricercatrice indipendente, non possedendo azioni né avendo cariche di amministratore in alcuna compagnia commerciale di interesse veterinario o comunque correlata agli animali. Tutti i suoi studi sono stati condotti su animali colpiti da infezioni spontanee e desidera cogliere questa opportunità per ringraziare tutti i veterinari, gli operatori ed i gatti stessi che hanno reso possibile la sua ricerca.

MARCO BERNARDINI Med Vet, Dipl ECVN, Padova Si laurea presso l’Università di Bologna nel 1988. Comincia ad occuparsi di neurologia nel 1992, frequentando in Lussemburgo e Svizzera i corsi dell’European School for Advanced Veterinary Studies (ESAVS). Effettua un Residency in Neurologia presso l’Università di Berna (Svizzera) e nel 1995 consegue il diploma dell’European College of Veterinary Neurology (ECVN). Dal 1997 al 2001 è docente di Neurologia Veterinaria presso l’Università di Barcellona (Spagna) e responsabile del Servizio di Neurologia e Neurochirurgia presso l’Ospedale Veterinario della stessa facoltà. Nel biennio 2002-03 è Oberassistent in Neurologie presso l’Università di Berna (Svizzera). Attualmente esercita la libera professione esclusivamente come referente di casi neurologici in Emilia Romagna. Inoltre, è docente a contratto di Neurochirurgia Veterinaria presso l’Università di Padova. Autore di articoli e del libro “Neurologia del cane e del gatto” (Poletto Editore, Milano).

LUCA ARESU Med Vet, Padova Luca Aresu si è laureato in Medicina Veterinaria a Torino nel 2004. Nel 2007 ha conseguito il dottorato di Ricerca in Patologia Veterinaria con “Study of Inflammatory Kidney Diseases in Dog” in collaborazione con il centro di Patologia Umana dell’ospedale di Ginevra, CMU. Dal 2007 è ricercatore in Patologia e Anatomia Patologica Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova. Dal 2000 collabora a tempo pieno con l’attività diagnostica istopatologica e necroscopica. È responsabile del settore di patologia sperimentale presso la facoltà di Padova. Il suo principale ambito di interesse è lo studio dei meccanismi della fibrosi renale e la ricerca di biomarcatori plasmatici nelle neoplasie linfoidi del cane. È membro della “WSAVA renal standardization study group” e responsabile per l’attività della microscopia elettronica del servizio diagnostico della facoltà di Medicina Veterinaria di Utrecht. È autore di numerose pubblicazioni nell’ambito della patologia renale e neoplastica nel cane e nel gatto.

DAVID LEONARD BLOW Acupuncturist, Roma Nasce a Waratah, Australia il 26 Ottobre 1958. Cittadino Australiano. Laurea “Tradizional Chinese Medicine” University of Technology, Sydney Australia 1988. Presidente Associazione NADA Italia (dal 1994) e Fondatore Ass. NADA Italia (1994). Presidente e Fondatore Associazione TapingNeuromuscolare Institute Italia (dal 2005). Taping Neuromuscolare Trainer (2000), Taping Neuromuscolare Institute. 11


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JOHN D. BONAGURA DVM, Dipl ACVIM, Ohio, USA

ca sperimentale su analgesici presso la Cornell. Dal 1991 è membro SISVet e SCIVAC, dal 1993 è membro AVA, dal 1994 è membro SICV. Dal 2003, docente ai corsi SCIVACdi anestesiologia e dal 2004 è membro del consiglio direttivo SIARMUV. Autore/co-autore di 100 pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali. Relatore a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali. Co-autore di un capitolo su Veterinary Clinics of North America. Autore del manuale: “Concetti di base per l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”.

John Bonagura è Professor of Veterinary Clinical Sciences e direttore del Cardiology Service all’Ohio State University College of Veterinary Medicine, dove ha lavorato per la maggior parte della sua carriera. È stato Visiting Research Fellow alla Edinburgh University nel 1989 ed è stato Gilbreath-McLorn Endowed Professor of Cardiology alla University of Missouri. È autore di oltre 200 lavori e capitoli di libri correlati alla cardiologia clinica. È anche editor di Kirk’s Current Veterinary Therapy. È stato riconosciuto come Ohio State University Distinguished Teacher.

PAOLO BURACCO Med Vet, Dipl ECVS, Torino È nato a Torino il 16-8-1956. È professore straordinario di Semeiotica e Clinica Chirurgica Veterinaria presso la Facoltà di Med. Vet. di Torino. Nel periodo settembre 1987-dicembre 1988 è stato Visiting Assistant Professor presso la School of Vet. Med. (Purdue University, Indiana), con Borsa di Perfezionamento Ass. It. Ric. Cancro. È diplomato dal giugno 1998 al Collegio Europeo dei Chirurghi Veterinari, piccoli animali (E.C.V.S.). È membro della Veterinary Cancer Society, della Società Ital. di Chir. Vet., dell’Europ. Soc. of Vet. Oncology e dell’European College of Veterinary Surgeons. È stato relatore in numerosi convegni nazionali ed internazionali ed è autore di circa 100 pubblicazioni su riviste italiane ed estere.

DEA BONELLO Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino Si laurea nel 1989 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino, dove poi si specializza nel 1997 in Radiologia Veterinaria e nel 2000 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Medicina Interna Veterinaria. Ha lavorato come ricercatore a contratto presso il Dipartimento di Patologia Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino dal 2001 al 2003. Dal 1989 si dedica all’odontostomatologia veterinaria ed in questo settore svolge attività di consulenza per i piccoli ed i grossi animali. Nel 1996 e nel 1998 si è recata, a scopo di aggiornamento, presso l’Università di Davis, California. Nel 1998 consegue il Diploma dell’European College of Veterinary Dentistry. Relatore a numerosi congressi in Italia ed all’estero e autore di pubblicazioni inerenti l’odontostomatologia veterinaria e comparata. Dal 1998 al 2002 è stata Segretario dell’EVDC e Coordinatore del Gruppo di Studio di Odontostomatologia della SCIVAC.

FRANCESCA CAZZOLA Med Vet, San Martino, Novara Laureata in Medicina Veterinaria nel 2003 presso l’Università degli studi di Torino e abilitata alla professione nello stesso anno. Nel 2004 ha lavorato presso il Centro di riabilitazione “Villa Beria” (Mathi, Torino). A novembre dello stesso anno ha iniziato a lavorare presso l’ospedale veterinario ANUBI di Moncalieri (Torino) dove ha esercitato fino a febbraio 2010. I suoi principali campi d’interesse sono rappresentati da fisiatria e fisioterapia, traumatologia ed ortopedia. Da novembre del 2009 svolge la sua attività professionale presso la Clinica S. Martino di Novara. Nel gennaio 2007 ha frequentato il corso di idroterapia presso la Westcoast Products Ltd a Diss, Norfolk, Inghilterra. Relatrice a diversi corsi nazionali di fisoterapia e ai Congressi Internazionali SCIVAC. Ha partecipato al corso di taping neuromuscolare nei mesi di gennaio e febbraio 2010 e, da allora, fa parte del ‘Taping neuromuscolare Institute’. Da maggio del 2008 fa parte del consiglio direttivo del gruppo di studio di fisioterapia e partecipa attivamente a tutti gli incontri.

ENRICO BOTTERO Med Vet, Cuneo Si laurea in Medicina veterinaria presso l’università di Torino nel 1997 con una tesi sulle periodontopatie nel cane. Esperienze professionali presso numerosi ambulatori e cliniche nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Relatore dal 2003 al corso Scivac di citologia. Istruttore e relatore a corsi di endoscopia flessibile nel 2004 e nel 2005. Istruttore e relatore a corsi di gastroenterologia nel 2006 e 2007. Relatore al congresso nazionale Scivac del 2006, del 2007, del 2008 e del 2009. Vicepresidente della Siciv (Società Italiana di Citologia Veterinaria). Direttore del corso di endoscopia digestiva Scivac nel 2009. È autore e coautore di articoli su riviste nazionali ed internazionali. Attualmente lavora come libero professionista nell’ambito dell’endoscopia flessibile presso numerosi ambulatori e cliniche in Piemonte, Liguria e Lombardia.

DAVID CHIAVEGATO Med Vet, Dr Ric, Padova

ANTONELLO BUFALARI Med Vet, Dr Ric, Perugia

Laureato nel 1984 alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Bologna, con 110/110. Si occupa di cardiologia e diagnostica ecografica nei piccoli animali da circa 15 anni. È relatore a corsi SCIVAC di “ Cardiologia”, e di “Ecografia” di “Ecocardiografia”. Coordinatore del Gruppo di studio di “Diagnostica per immagini” della SCIVAC nel 1999/2001, attuale Presidente della SICARV (Soc. Italiana di Cardiologia Vet.). Autore e coautore di articoli e relazioni in congressi

Laureato in Medicina Veterinaria (1989). Professore Associato dal 2006 presso l’Università di Perugia, con incarichi di insegnamento in Anestesiologia e Clinica Chirurgica. Visiting Fellowship e Post-doctoral Associate presso la Cornell University, per 2 anni. Titolo di PhD presso Faculty of Veterinary Medicine, Helsinki. Co-investigator di una ricer12


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LUISA CORNEGLIANI Med Vet, Dipl ECVD, Milano

nazionali e internazionali. È stato relatore al corso di Ecocardiografia (advanced course “cardiology III”-ESAVS). È stato docente al Master di II livello presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma e presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Torino. Nel 2009 ha conseguito il titolo di “Dottore di Ricerca” in Scienze Cliniche Veterinarie. Lavora a Padova come libero professionista.

Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel settore dei piccoli animali dove si occupa di dermatologia dal 1995. Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture private ed universitarie. Full member dell’ESVD, sta attualmente seguendo la via alternativa per conseguire il diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria. È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore di testi di dermatologia veterinaria e co-autore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara.

JAMES COOK DVM, PhD, Dipl ACVS, Missouri, USA James (Jimi) Cook ha conseguito la laurea (DVM) alla University of Missouri, ha condotto un periodo di internato alla University of Minnesota ed è tornato alla University of Missouri per un PhD-Small Animal Surgery Residency. Dopo aver ottenuto questo PhD nel 1998, nel 1999 è diventato Diplomate ACVS. Nello stesso anno, è stato co-fondatore del Comparative Orthopaedic Laboratory, un laboratorio di ricerca che coinvolge il College of Veterinary Medicine, la School of Medicine ed il College of Engineering. Oggi, oltre 30 scienziati sono coinvolti nella ricerca del COL nei settori dell’osteoartrite, dell’ingegneria tissutale e della fisiologia della cartilagine articolare. È autore di oltre 100 pubblicazioni peer-reviewed, ha ricevuto più di 10 milioni di dollari per finanziare la sua ricerca ed è stato insignito di numerosi riconoscimenti, come l’America’s Best Veterinarian nel 2007. Il Dr. Cook è stato presidente della Veterinary Orthopedic Society nel 2008-2009. Detiene 8 brevetti US Patents ed ha visto due dispositivi biomedici superare l’approvazione FDA. Attualmente ricopre un duplice ruolo alla University of Missouri in Small Animal Orthopaedics and Orthopaedic Surgery (umana), ed è Director of The Comparative Orthopaedic Laboratory and the William & Kathryn Allen Distinguished Professor in Orthopaedic Surgery. È anche co-fondatore e co-direttore di Be The Change Vacations, un’organizzazione non-profit dedicata alla costruzione di scuole nei paesi del terzo mondo in modo che ai bambini di tutto il pianeta possano venire offerte le opportunità che solo l’educazione è in grado di dare.

ALBERTO CROTTI Med Vet, Genova Membro della Società di Oftalmologia Veterinaria Italiana dalla sua costituzione, componente del Consiglio direttivo dal 1993, ricopre attualmente la carica di President senior della società. Membro del consiglio direttivo SCIVAC e Responsabile del coordinamento delle Società specialistiche dal 2007. È membro del Gruppo di Studio sulla Leishmaniosi canina Scivac. Ha frequentato negli anni 1992, 1993 e 1994 il corso specialistico in oftalmologia dell’European Society for Advanced Veterinary Studies. Dal 2006 è coordinatore dell’Itinerario didattico in Oftalmologia della Scuola di Formazione post universitaria SCIVAC e direttore del I corso del triennio di studi. Ha partecipato in qualità di relatore a numerosi congressi ed incontri su temi di oftalmologia. È titolare dal 1984 di uno studio associato in Genova dove si occupa esclusivamente di oftalmologia degli animali da affezione. DOUGLAS DEBOER DVM, Dipl ACVD, Wisconsin, USA Il Dr. DeBoer ha studiato alla University of California-Davis ed alla Michigan State University. Nel 1986, è entrato a far parte del personale docente della School of Veterinary Medicine, University of Wisconsin-Madison, dove attualmente è Professor of Dermatology. Gli interessi clinici e di ricerca del Dr. DeBoer sono incentrati sull’immunologia delle dermatopatie recidivanti e croniche, con particolare riguardo alle malattie allergiche del cane ed alla dermatofitosi del gatto. È Diplomate of the American College of Veterinary Dermatology ed ha ricevuto l’ACVD Award of Excellence nel 2003. Il Dr. DeBoer ha fatto parte del comitato scientifico editoriale dell’American Journal of Veterinary Research e di Veterinary Dermatology, ed attualmente è il presidente della International Task Force on Canine Atopic Dermatitis.

FEDERICO CORLETTO DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Six Mile Bottom (UK) Laureato con lode in medicina Veterinaria presso la Facoltà di Padova nel 1997. Ha compiuto un residency in Anestesia Veterinaria presso l’Animal Health Trust (Newmarket, UK). Nel 2002 ha conseguito il Certificate in Anestesia veterinaria, rilasciato dal Royal College of veterinary Surgeons e nel 2003 il Diploma di specializzazione rilasciato dal College Europeo di Anestesia ed Analgesia Veterinaria (Dipl. ECVAA). È stato ricercatore presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, Clinical Anaesthetist presso l’Animal Health Trust e Research Fellow presso la divisione di anestesia dell’ospedale di Addenbrooke’s, finanziato dal Wellcome Trust. Attualmente è responasible del serivizio di anestesia presso la referral practice del Prof. Dick White, a Six Mile Bottom, in Suffolk. Autore di pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, ha partecipato a congressi e corsi in qualità di relatore ed è autore del “Manuale di anestesia del cane e del gatto”, pubblicato da Poletto Editore.

DAVIDE DE LORENZI Med Vet, SMPA, Dipl ECVCP, Dott Ric, Padova Laurea con lode in Medicina Veterinaria a Bologna nel 1988; specializzazione in Clinica e Patologia degli Animali da Affezione a Pisa nel 1995; Diploma Europeo in Patologia Cli15


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nica Veterinaria nel 2005. Autore e coautore di oltre 40 articoli scientifici, ha curato l’edizione italiana di testi di citologia veterinaria ed ha scritto capitoli su libri sia nazionali che internazionali di citologia ed endoscopia. Docente in master universitari, è regolarmente relatore invitato a congressi nazionali ed internazionali. Svolge attività di rewiever scientifico per varie riviste nazionali e internazionali ed attualmente svolge un Dottorato di Ricerca presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia relativo allo studio del lavaggio bronco-alveolare. Esercita a Forlì ed a Padova occupandosi di patologie respiratorie e otorinolaringoiatriche, endoscopia e citologia diagnostica.

conda banca del seme del cane in Francia. Nel Settembre 2000, è passato alla Scuola di Veterinaria di Alfort, Parigi. Oggi è direttore dell’Unità Didattica di Biologia e Patologia della Riproduzione ed Ostetricia e del CERCA (Centre d’Etude en Reproduction des Carnivores) e si occupa principalmente di inseminazione artificiale e fertilità/infertilità nel cane, nel gatto e nei felidi selvatici. È Diplomate of the European College of Animal Reproduction ed ha supervisionato la residenza di tre giovani diplomati (un italiano e due francesi). Attualmente, altri due residenti (un francese ed uno spagnolo) stanno lavorando sotto la sua guida. Alain Fontbonne è anche Past-President della EVSSAR (European Veterinary Society for Small Animal Reproduction) e Past Vice-President del gruppo specialistico.

DANIELE DELLA SANTA Med Vet, PhD, Dipl ECVDI, Pisa Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa nell’anno 2000. Ha ottenuto il titolo di dottore di ricerca presso la medesima Università nell’anno 2005. Dal 1998 al 2003 ha trascorso alcuni periodi di studio negli Stati Uniti e in Europa (Michigan State University, Colorado State University, Università di Berna). Dal 2004 al 2008 ha svolto il programma di training per il College Europeo di Diagnostica per Immagini presso l’Università di Pisa e Berna (Svizzera). Diplomato al college Europeo di Diagnostica per Immagini Veterinaria (ECVDI) nel 2008. È autore di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali inerenti la diagnostica per immagini. Attualmente svolge attività libero professionale occupandosi esclusivamente di diagnostica per immagini in Toscana.

LUCA FORMAGGINI Med Vet, Dormelletto (NO) Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dal 1996 lavora presso la Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” di cui è socio fondatore. È relatore SCIVAC per argomenti di chirurgia, medicina d’urgenza e terapie postoperatorie; ha tenuto relazioni a diversi congressi e seminari in Italia e all’estero; è autore e co-autore di vari testi scientifici pubblicati in Italia e su riviste internazionali. È stato accettato a sostenere l’esame dello European College of Veterinary Surgeons. Dal 2008 è Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi d’interesse sono rivolti a tutti gli aspetti della traumatologia (pronto soccorso, chirurgia e terapia intensiva), alla chirurgia dei tessuti molli e alla chirurgia miniinvasiva laparoscopica e toracoscopica. I suoi hobbies comprendono la corsa, la pesca e lo snowboard. Da osservatore ama il basket e il calcio.

ALESSANDRA FONDATI Med Vet, Dipl ECVD, Dr Ric, Roma Alessandra Fondati si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Pisa nel 1981. Si è occupata di dermatologia veterinaria come libero professionista dal 1984 al 1997, prima a Firenze quindi a Roma. Nel 1998 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (ECVD) e dal 1998 al 2003 ha lavorato come Professore Associato di Dermatologia presso l’Università Autonoma di Barcellona (Spagna). Nel 2003 ha completato un PhD sulla patogenesi del complesso del granuloma eosinofilico felino presso l’Università Autonoma di Barcellona. Attualmente si occupa di dermatologia veterinaria, come libero professionista, a Roma.

FEDERICO FRACASSI Med Vet, Dott Ric, Bologna Laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Bologna nel 2001. Nel 2005 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca. Dal 2006 ricopre il ruolo di Ricercatore Universitario presso il Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università di Bologna. Dal 2005 svolge un “alternative residency” in medicina interna presso l’Università di Zurigo sotto la guida della Prof. Claudia Reusch. È membro dell’European Society of Veterinary Endocrinology (ESVE) e dell’European Society of Veterinary Internal Medicine (ESVIM). Dal 2007 è componente del consiglio direttivo della Società Italiana di Medicina Interna Veterinaria (SIMIV). Autore di pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali e relatore a congressi nazionali ed internazionali. Il suo principale campo di ricerca è la medicina interna ed in particolare l’endocrinologia dei piccoli animali.

ALAIN FONTBONNE Dr Vet Med, PhD, Dipl ECAR, Ass Pr, Alfort, Francia Il Dr. Alain Fontbonne si è laureato alla facoltà di Medicina Veterinaria di Nantes nel 1985 e poi è entrato a far parte della Scuola di Veterinaria di Alfort (Parigi) dove ha seguito un periodo di internato sulla medicina interna dei carnivori durato 2 anni. Dopo 7 mesi di esercizio della pratica professionale a tempo pieno in una clinica veterinaria vicino a Parigi, fra il 1988 ed il 1993 ha lavorato per il Kennel Club francese. Nel 1993 è diventato Assistant Professor presso il Dipartimento di Riproduzione della Scuola Veterinaria di Lione, dove ha aperto un centro di ricerca che si occupa della riproduzione e dell’allevamento del cane e del gatto e la se-

GIANMARCO GERBONI Med Vet, Samarate (VA) Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma nel 1998. Ha svolto un periodo di tirocinio intensivo con il dr Romanelli Dipl.ECVS e un anno di intenship sotto la supervisione 16


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THOMAS K. GRAVES DVM, MS, PhD, Dipl ACVIM, Illinois, USA

del dr Santilli Dipl ECVIM-ca. Dal 1999 lavora presso la Clinica Malpensa (Varese) come responsabile della Terapia intensiva (UTI), occupandosi di medicina interna, pronto soccorso ed ecografia addominale. Dal 1999 si occupa di studi Scintigrafici del cane e del gatto. È stato istruttore e relatore a diversi corsi pratici nazionali. Autore di alcuni articoli su riviste veterinarie nazionali ed estere e traduttore di alcuni testi di Ecografia addominale. Dal 2007 ricopre la carica di segretario della S.V.I.D.I – Società Veterinari Italiana Diagnostica per Immagini.

Il Dr. Graves si è laureato in medicina veterinaria (DVM) alla Cornell University nel 1991 e poi ha portato a termine un periodo di internato alla The Ohio State University, seguito da uno di residenza in medicina interna dei piccoli animali alla Michigan State University. Diplomato ACVIM, ha anche conseguito il titolo di MS e PhD in farmacologia alla University of Rochester School of Medicine and Dentistry. Attualmente è Associate Professor and Chief of Small Animal Internal Medicine allo University of Illinois College of Veterinary Medicine, dove è anche Assistant Department Head for Curriculum and Instruction. Ha pubblicato più di 50 articoli su riviste refereed, 30 capitoli di libri ed oltre 140 atti congressuali ed abstract, principalmente nel campo dell’endocrinologia dei piccoli animali. Il Dr. Graves ha svolto un’estesa attività didattica in tutto il Nord America, in Sud America, in Asia e in Europa. La sua attività di ricerca, focalizzata sulla medicina geriatrica e sull’endocrinologia, è stata finanziata da American Association of Feline Practitioners, American Animal Hospital Association, Feline Winn Foundation e National Institutes of Health.

SABRINA GIUSSANI Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA) Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Dal 1998 si occupa di Medicina Comportamentale. È consigliere SISCA (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2002. Ha partecipato a seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale sia in Italia sia in Francia. Si è diplomata Medico Veterinario Comportamentalista presso l’Ecole Nationale Française nel novembre 2002. È stata relatore a giornate regionali, seminari, corsi di base e avanzati in Italia. Ha pubblicato articoli inerenti la Medicina Comportamentale su riviste del settore scientifico ed è autore, insieme al Dott. Colangeli, del libro” Medicina comportamentale del cane e del gatto” edito da Poletto nel 2004. Consegue nel dicembre 2004 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova in “Etologia applicata al benessere animale”. È professore a contratto nel 2005 nel Master inerente alla Medicina Comportamentale organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Torino. È socio di Zoopsy e di ESVCE.

LESLEY G. KING DVM, MRCVS, MVB, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA La Dr.ssa Lesley King si è laureata alla Faculty of Veterinary Medicine, University College Dublin, Ireland, nel 1986. Dopo aver trascorso un anno come House Surgeon in Dublin, la Dr.ssa King si è trasferita alla School of Veterinary Medicine della University of Pennsylvania, dove nel 1989 ha portato a termine un periodo di residenza in medicina interna dei piccoli animali. Dopo la residenza, la Dr.ssa King è rimasta a far parte dello staff della Intensive Care Unit della University of Pennsylvania, ed attualmente è Professor in the Section of Critical Care, e Director of the Intensive Care Unit. È Diplomate of the American College of Veterinary Emergency and Critical Care, the American College of Veterinary Internal Medicine, and the European College of Veterinary Internal Medicine (Companion Animal). Gli interessi della Dr.ssa King nel campo della ricerca sono rappresentati da tutti gli aspetti della terapia intensiva dei piccoli animali, con particolare attenzione alla medicina polmonare ed alla previsione dell’esito nei piccoli animali in condizioni critiche.

DANIELE GRASSI DM, Modena (I) Direttore del Servizio di Urologia Funzionale, Urologia Femminile/Uroginecologia e Chirurgia Ricostruttiva Pelvica dell’Hesperia Hospital Via Arquà, 80 di Modena. 1985: Laurea con Lode in Medicina e Chirurgia, Università di Modena. 1990: Specializzazione con Lode in Urologia, Università di Verona. 1993: Abilitazione in Urologia Comunità Europea. 198991: Assistente Medico di Urologia; 1991-97: Aiuto Corresponsabile Ospedaliero in Urologia (U.L.SS. n.4). 19972002: UO di Urologia del Policlinico di Modena. 2002-: Attività libero-professionale presso strutture sanitarie private, come l’Hesperia Hospital (Modena) dove fonda il Centro di Urologia Funzionale, Urologia Femminile / Uroginecologia e Chirurgia Ricostruttiva Pelvica. Stages e corsi di aggiornamento Internazionali: 1988-2008 in USA, Europa, Australia. Attività didattica: 1990-2006 vari insegnamenti su argomenti di urologia ed uro-ginacologia. Relatore in oltre 200 Congressi nazionali ed internazionali. Autore di 67 pubblicazioni nazionali ed internazionali su argomenti di Urologia Funzionale, Uroginecologia, Chirurgia Ricostruttiva Pelvica. Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Italiana Continenza (FIC).

ADRIANO LACHIN Med Vet, Venezia Laureato presso l’Università degli Studi di Parma nel 1996. Nel 1997 ha intrapreso un periodo di tirocinio della durata di tre anni nel reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale “Villa Salus” di Mestre (Ve) frequentando attivamente la sala operatoria, successivamente, con le medesime modalità, ha frequentato per due anni il reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale di Dolo (Ve). Relatore a Corsi nazionali, Congressi e seminari. Ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “Medicina d’urgenza e terapia intensiva del cane e del gatto” (Masson-2004); nel 2005 ha curato l’edizione Italiana dell’opera in lingua tedesca (J. Henke e W. Erhardt) di “Terapia del do17


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lore negli animali da compagnia” (Masson 2006). Collabora con la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli studi di Perugia mediante attività di consulenza scientificodidattica. Dal Gennaio 2006 ha iniziato un periodo di tirocinio presso la divisione di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Padova frequentando il reparto di Chirurgia Pediatrica. Attualmente svolge l’attività libero professionale e si occupa esclusivamente di Anestesia.

Socio della Società Europea di Riproduzione Animali da Compagnia. Relatore a Congressi e Corsi di carattere Nazionale ed Internazionale sui temi della Riproduzione degli Animali da Compagnia, campo di maggior interesse la “Riproduzione dei Piccoli Animali” con particolare riferimento al cane. Iscritto all’Ordine provinciale di Genova al n°231. Giovanni, oltre ad essere uno stimato veterinario, ha un allevamento amatoriale di Labrador neri e chocolate ai quali si è aggiunto ultimamente anche un bellissimo cocker spaniel maschio bianco/nero, Greg. I Labrador “Della Lontra” sono cani amabili e versatili, allevati in un clima sereno e socializzati al meglio, grazie anche all’aiuto indispensabile di Pietro e Teresa, gli assistenti primari della famiglia Majolino.

RICHARD A. LECOUTEUR DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Neurology), Dipl ECVN, California, USA Il Dr. LeCouteur si è laureato alla University of Sydney, Australia, nel gennaio 1975. Dopo aver esercitato per un anno in una struttura privata per piccoli animali a Sydney, in Australia, ha portato a termine un Periodo di Internato e Residenza in Chirurgia alla University of Guelph in Canada. In seguito, il Dr. LeCouteur ha completato un periodo di Residency in Neurology and Neurosurgery alla University of California, Davis. Da luglio 1980 a gennaio 1984, ha conseguito un PhD in Comparative Pathology alla University of California in Davis. Il campo dello studio erano le Lesioni del Midollo Spinale. Da gennaio 1984 ad agosto 1989, il Dr. LeCouteur ha fatto parte del corpo docente della Colorado State University. Nel settembre 1989 è tornato a Sydney, in Australia, per aprire una struttura specialistica in Neurologia e Neurochirurgia. Nel gennaio 1995 è tornato negli USA per assumere l’incarico di Professor of Neurology and Neurosurgery alla University of California at Davis. Il Dr. LeCouteur è Diplomate of the American College of Veterinary Internal Medicine (Neurology), e Diplomate of the European College of Veterinary Neurology (ECVN). Attualmente, è Chair of the Board of Regents of the ACVIM e fa parte del Board of the North American Veterinary Conference (NAVC).

MASSIMO MARISCOLI Med Vet, Dipl ECVN, Teramo Laureato presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bologna nel 1990. Dal 1992 al 1994 ha partecipato ai corsi teorico-pratici di Neurologia Veterinaria alla European School for Advanced Veterinary Studies (ESAVS). Si è diplomato all’European College of Veterinary Neurology nel 1996 dopo il Conforming Residency Program in Neurologia e Neurochirurgia Veterinaria presso l’Università di Berna. Ha partecipato come relatore a numerosi congressi, corsi, seminari nazionali ed internazionali. È stato Professore a contratto presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova e Parma e dal 1998 è docente (ssd vet/09) presso il Dip.to di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università degli Studi di Teramo. È autore o co-autore di numerose pubblicazioni scientifiche inerenti la neurologia e la neurochirurgia veterinaria. ALESSANDRO MELILLO Med Vet, Roma Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Ateneo degli Studi di Pisa nel 1997 con tesi sperimentale dal titolo: “Anestesia di alcuni ordini di Mammiferi esotici e selvatici: Marsupiali, Chirotteri, Roditori, Lagomorfi, Primati e Carnivori”. Da sempre si interessa e si occupa in maniera quasi esclusiva di “Nuovi Animali da Compagnia” con particolare attenzione agli Uccelli, al Coniglio e al Furetto: ha sempre ritenuto fondamentale l’aggiornamento e il confronto coi colleghi, cercando quindi di frequentare attivamente corsi, convegni e congressi, nonché periodi di tirocinio presso strutture specializzate in vari aspetti della Medicina e della Chirurgia degli Animali non Convenzionali in Italia e all’estero, fra cui ricorda la clinica veterinaria del Loro Parque sotto la direzione del dr. Lorenzo Crosta. Dal 2000 è socio della Clinica Veterinaria Omniavet di Roma dove è responsabile del settore “Nuovi Animali da Compagnia”.

OLIVIER LEVIONNOIS DVM, Dr Med Vet, Dipl ECVAA, Berna (CH) Il Dr. Olivier Levionnois si è laureato in medicina veterinaria a Nantes, in Francia, nel 2000. Ha poi effettuato un periodo di internato in Equine Medicine a Montreal, QE (2001), seguito da uno di residenza in Veterinary Anaesthesia a Berna, CH (2002-2005) ed ha anche ultimato due tesi di laurea in medicina veterinaria (F, CH). Dopo 2 anni (2006-2008) come assistente in Anestesia Veterinaria all’Ospedale Veterinario di Berna, è divenuto Diplomate of the European College of Veterinary Anaesthesia and Analgesia (Dip.ECVAA) ed ora lavora come Assistente Direttore Medico a Berna, sul punto di terminare la sua tesi di PhD. Uno dei suoi centri di interesse professionale è rappresentato dalla farmacocinetica e farmacodinamica degli anestetici veterinari come la ketamina o il propofolo.

PERE MERCADER DVM, MBA, DAS (Economics and Management), Barcelona (E)

GIOVANNI MAJOLINO Med Vet, Parma

Pere Mercader si è laureato presso l’Università degli Studi di Barcellona nel 1988. Ha conseguito un Master in Amministrazione e Finanza (MBA –Master in Business Administration presso la scuola IESE nel 1991) e ha completato un dottorato in Economia e Gestione Finanziaria (DAS) nel 2003.

Laureato in Medicina Veterinaria conseguita presso l’Università di Parma, nel 1991 specializzato in “Malattie dei Piccoli Animali” presso l’Università di Pisa nel 1994. Past-President e Socio Fondatore della SIRVAC (Società Italiana Veterinari per la Riproduzione degli Animali di Compagnia) 20


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Dal 1991 al 2001 ha lavorato in un’azienda globale di alimenti per animali, dove ha occupato varie posizioni come direttore Marketing sia in Spagna che in Europa. Nel 2001 ha fondato la sua società indipendente di consulenza in Practice Management, un ruolo che aveva sviluppato da sempre. Pere attualmente fa regolarmente consulenza presso cliniche veterinarie e ospedali in Spagna e Portogallo. Ha tenuto molte conferenze e lezioni di Practice Management a veterinari di piccoli animali europei e sudamericani. È anche professore universitario, avendo insegnato in vari corsi di Economia. Attualmente coordina le lezioni di Marketing e Strategia del corso di Veterinaria MBA organizzato dall’AVEPA (Associazione Spagnola Veterinari per Animali da Compagnia) presso l’Università di Barcellona (UAB). Pere ha condotto studi su prezzi e profitti nell’ambito del settore delle cliniche per piccoli animali in Spagna, anche in collaborazione con AVEPA. Ha pubblicato di recente il suo primo testo di PM (Management Solutions for Small Animal Veterinary Practices). Pere è anche socio fondatore e direttore degli Studi di Gestione Veterinaria (www.estudiosveterinarios.com), la prima azienda di ricerca di mercato specializzata nel canale delle cliniche per piccoli animali. Quest’azienda attualmente offre un sistema di raffronto continuo dei rendimenti finanziari tra i vari concorrenti in Spagna e non solo delle cliniche.

Teramo: “Gestione degli Animali da Compagnia Non Convenzionali” - Corso di Laurea in Tutela e Benessere Animale. Nel periodo luglio 2004 – dicembre 2006 è stato il veterinario responsabile dell’Ospedale delle tartarughe marine della Fondazione Cetacea (Riccione) di cui tutt’ora è consulente. È stato relatore a corsi e congressi nazionali ed internazionali sulla medicina e chirurgia degli animali non convenzionali. È autore di pubblicazioni di interesse nazionale ed internazionale sulla medicina degli animali esotici. Svolge attività di consulenza per animali esotici presso cliniche veterinarie dell’Emilia Romagna, centri di recupero della fauna selvatica e parchi italiani ed esteri. STEFANO NICOLI Med Vet, Reggio Emilia Laureato presso l’università di Bologna nel 1994, fino al 2004 ha svolto attività libero-professionale presso la Casa di cura veterinaria S. Geminiano di Modena; dal 2004 ad oggi collabora alcune strutture tra cui la Clinica Veterinaria Pirani di Reggio Emilia occupandosi di chirurgia dei tessuti molli con particolare interesse per la chirurgia delle alte vie urinarie, la chirurgia dell’apparato endocrino, la chirurgia vascolare, la microchirurgia e la radiologia interventistica. È socio della Società Italiana di Microchirurgia. Dal 1 Ottobre 2008 è chirurgo a contratto presso l’ospedale didattico della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Torino; sta seguendo il percorso per il conseguimento del titolo di Dottore di ricerca. Ha presentato numerose relazioni in congressi nazionali ed internazionali ed è coautore di alcune pubblicazioni su riviste indicizzate.

ISABELLA MEROLA Med Vet, Milano Isabella Merola si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Napoli nel 2005. Lavora come libero professionista dal 2005. Riceve il titolo di Itinerario formativo in Medicina Comportamentale del cane e del gatto nel 2006, ed il titolo di Master in Etologia Applicata e Benessere Animale, presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna nel 2007. Ha seguito vari corsi e congressi, in Italia e all’estero sulla medicina comportamentale. È relatrice in corsi e seminari di patologia comportamentale in Italia. Si occupa di Medicina del Comportamento del cane e del gatto dal 2005. È socio SISCA dal Febbraio 2006. Attualmente esercita come medico veterinario comportamentalista a Milano e segue un Dottorato di Ricerca in Psicologia Comparata presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Milano nel Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche con un progetto di ricerca sulla relazione uomo-cane; uomo-gatto.

GAETANO OLIVA Med Vet, Napoli Si è laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, il 31/07/1984. Dal 1984 al 1987 ha trascorso un periodo di formazione presso l’Istituto di Clinica Medica Veterinaria della Facoltà di Napoli. È stato borsista per tre mesi (novembre 1990- febbraio 1991) presso il Department of Clinical Sciences of Companion Animals, dell’Università di Utrecht, Olanda. Dal 1987 al 1991 è stato Funzionario Tecnico Laureato presso l’Istituto di Clinica Medica Veterinaria della Facoltà di Med Vet, Napoli. Dal 1991 al 2001 è stato Professore Associato di Terapia Medica Veterinaria presso la stessa Facoltà. Dal 2001 è Professore Ordinario; attualmente ricopre la cattedra di Clinica Medica Veterinaria. Dal 2001 il Prof Oliva è il Presidente del Corso di Laurea Specialistica in Medicina Veterinaria della Facoltà di Napoli. I suoi interessi didattici e di ricerca sono nel campo della Medicina Interna degli animali da Compagnia, con particolare riguardo agli aspetti diagnostici, clinici e terapeutici delle malattie trasmesse da vettori. È autore di 110 lavori a stampa, su riviste nazionali ed internazionali.

GIORDANO NARDINI Med Vet, Modena Laureato a Bologna nell’Aprile 2004 con tesi sull’importanza della farmacocinetica degli antibiotici nei rettili. Socio fondatore della Clinica Veterinaria MODENA SUD a Spilamberto (MO), dove ricopre il ruolo di Responsabile della Medicina e Chirurgia degli animali esotici e non convenzionali. Da marzo 2008 ricopre l’incarico di consigliere della SIVAE (Società Italiana Veterinari Animali Esotici). È titolare di un dottorato di ricerca in Morfofisiologia e Patologia Veterinaria presso l’Università degli Studi Bologna. Dal 2007 è membro del Comitato Internazionale dell’ARAV (Association of Reptilian and Amphibian Veterinarians). Da Ottobre 2006 è Professore a contratto presso l’Università di

DOMENICO OTRANTO Med Vet, BVetMed, Dr Ric, Dipl EVPC, Bari Professore Ordinario di Parassitologia e Malattie Parassitarie presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Bari. Diplomato all’European Veterinary Parasitology College 21


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FRANK PASMANS DVM, PhD, Dipl ECZM (herpetology), Ghent (B)

(EVPC). Fellow Royal Entomological Society, London (FRES). Nel Giugno 2006 ha ricevuto il premio internazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei per le ricerche svolte nel campo della Zoologia ad indirizzo evoluzionistico. Ha svolto la sua attività di ricerca nell’ambito della parassitologia e dell’entomologia medico veterinaria in Italia e all’estero (Francia e Germania). Ha ricoperto numerosi incarichi d’insegnamento presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia e di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Bari nell’ambito della parassitologia e delle malattie parassitarie. È responsabile di progetti bilaterali del Ministero degli Esteri Italiano con la Cina, l’Albania e il Belgio ed è stato consulente dell’European Food Safety Agency (EU). È referee per riviste mediche del settore e componente dell’Editorial Board di Medical and Veterinary Entomology. I campi di ricerca hanno riguardato: Siero-diagnosi di numerose miasi. Studio dell'infezione oculare degli animali e dell’uomo da Thelazia spp. Differenziazione molecolare e la definizione dei rapporti filogenetici di larve di Oestridae causa di miasi obbligatorie degli animali domestici. Studi di campo per l’efficacia di prodotti farmacologici per il controllo degli ectoparassiti. È coautore di pubblicazioni scientifiche e autore di capitoli di libri del settore.

Frank Pasmans si è laureato in medicina veterinaria nel 1998 alla Università di Ghent, in Belgio. Nel 2002 ha ottenuto il PhD sulle infezioni da Salmonella nei rettili. Nel 2009 è stato diplomato fondatore dell’European College of Zoological Medicine nella sottospecialità “Erpetologia”. Attualmente, è responsabile della medicina di rettili e anfibi alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Ghent. Inoltre, è direttore del laboratorio di batteriologia e micologia veterinaria della stessa facoltà. Questa fortunata combinazione gli consente di svolgere attività di ricerca nel campo delle malattie batteriche e micotiche dei rettili e degli anfibi. MANUELA PEREGO Med Vet, Samarate, Varese Laureata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 2003. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) dove svolge attività clinica occupandosi di medicina interna con particolare interesse alla cardiologia. È autrice di numerose pubblicazioni di cardiologia su riviste nazionali ed internazionali. È stata istruttrice ai corsi di aritmologia clinica organizzati dal G.A.C.V.I. e dalla S.C.I.V.A.C. Ha presentato lavori di cardiologia a congressi nazionali ed internazionali. È coautrice del libro Elettrocardiografia nel cane e nel gatto: genesi ed interpretazione del ritmo cardiaco, edito da Elsevier Masson e del CD sulle aritmie del cane edito da Merial. Il suo settore di ricerca è lo studio della diagnosi e terapia delle aritmie.

VALERIA PANTALEO Med Vet, Padova Si laurea a pieni voti in Medicina Veterinaria presso l’Università di Padova nel 2000 con una tesi in neuroanatomia dal titolo “Il peptide vasoattivo intestinale nella ghiandola pineale di ovini normali e ganglionectomizzati”. Dal 2001 al 2003 lavora come internista in un ambulatorio veterinario. Dal 2003 al 2005 completa un programma di fellowship in Emodialisi e Medicina Renale presso il Veterinary Teaching Hospital dell’Università di Davis sotto la guida del dottor Larry D. Cowgill e Thierry Francey. Ha presentato diverse short comunications a congressi internazionali e ha pubblicato un lavoro scientifico relativo all’emodialisi nel cane e nel gatto. Dal 2006 svolge la sua attività di medico internista con interesse particolare alla nefrologia e urologia negli animali da compagnia presso la Clinica Veterinaria San Marco di Padova.

MICHELE POLLI DVM, Dr Ric, Milano Laureato in Medicina Veterinaria ha conseguito il Dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano, da sempre si occupa di genetica molecolare e patologie ereditarie negli animali domestici. È docente di genetica per il corso di laurea in Allevamento e Benessere Animale e per l’insegnamento di malattie geneticamente trasmissibili negli animali d’affezione per il corso di laurea in Medicina Veterinaria di Milano. Svolge da anni la sua attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Animali dell’Università degli Studi di Milano. La sua attività di ricerca ha permesso l’identificazione di mutazioni causative di alcune malattie ereditarie negli animali di interesse veterinario e il conseguente sviluppo di alcuni brevetti. È Presidente e amministratore di VetoGene, laboratorio di genetica molecolare, spin-off-Università degli Studi di Milano. La sua attività di ricerca è finalizzata soprattutto al controllo genetico delle malattie ereditarie per la preservazione della salute e del benessere degli animali d’affezione. È responsabile della certificazione diagnostica forense VetoGene. Attualmente gli interessi di ricerca sono mirati soprattutto allo sviluppo della medicina veterinaria forense relativa alle analisi del DNA, all’identificazione di geni candidati responsabili di malattie ereditarie riferite a differenti specie animali, allo studio dell’evoluzione, filogenesi e biodiversità delle principali razze canine e di alcune specie di canidi. È autore di circa 140 pubblicazioni scientifiche.

VALENTINA PAPA Med Vet, Dr Ric, Roma Laureata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo nel luglio 2001 con la tesi “Manifestazioni neurologiche associate alle sindromi paraneoplastiche del cane”. Dopo un periodo di formazione presso la Klinik für kleine Haustiere, Tierärztliche Hochschule (Università di Hannover, Germania) e presso il Departement für klinische Veterinarmedizin, Abteilung fur Neurologie (Università di Berna, Svizzera) ha svolto un residency in neurologia veterinaria, un dottorato in medicina e terapia d’urgenza veterinaria e un post-dottorato di due anni presso l’Università degli Studi di Teramo. Attualmente svolge la sua attività a Roma come libero professionista presso la Clinica delle Emergenze Veterinarie (CEV) occupandosi di neurologia e neurochirurgia veterinaria. 22


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GIORGIO ROMANELLI Med Vet, Dipl ECVS, Milano

2004 e 2005 ha ricoperto la carica di Junior Docent presso i dipartimenti di Diagnostica per Immagini delle Università di Uppsala ed Utrecht. Nel 2006 ha intrapreso un dottorato di ricerca presso il dipartimento di Diagnositca per Immagini dell’Università di Parma, conseguito nel 2009. Nel 2008 ha conseguito il Diploma Europeo di Diagnostica per Immagini Veterinaria. Lavora come libera professionista presso la Clinica Veterinaria Castellarano (RE).

Laureato in Medicina Veterinaria nel 1981 presso l’Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano, relatore il Prof. Renato Cheli. Subito dopo la laurea partecipa ad un programma di chirurgia sperimentale sul trapianto di cuore e di pancreas. Libero professionista lavora in provincia di Milano occupandosi totalmente di casi di riferimento di oncologia e chirurgia dei tessuti molli. Charter Member e, dal luglio 1993, diplomato all’European College of Veterinary Surgeons. Presidente SCIVAC nel periodo 1993-1995. Presidente SCVI nel periodo 1998-2004. Segretario SIONCOV. Ha presentato relazioni ad oltre 85 congressi e meeting nazionali ed internazionali. Editor e coautore del testo “Oncologia del cane e del gatto” edito da Elsevier-Masson. Ha soggiornato per periodi di studio presso le università di Cambridge (UK), North Carolina (USA) e Purdue-Indiana (USA) I suoi hobbies sono la pesca a mosca e la coltivazione di alberi bonsai.

ENRICO STEFANELLI Med Vet, Roma Si laurea con lode in Medicina Veterinaria a Bologna nel 1994, inizia l’attività professionale occupandosi quasi esclusivamente di odontostomatologia ed anestesiologia. Nel 1995 trascorre un periodo di tirocinio pratico negli Stati Uniti presso la Colorado State University e si reca successivamente all’estero più volte per brevi corsi di specializzazione. Dal 1996 è referente per l’odontostomatologia e l’anestesiologia di numerose strutture veterinarie private in Italia. Relatore invitato in Congressi e Seminari Nazionali e istruttore a numerosi corsi pratici nazionali. Nel 2006 consegue il Master internazionale universitario, II livello, in Gastroenterologia ed endoscopia digestiva degli animali d’affezione presso l’Università di Teramo. È stato socio fondatore e vice presidente della prima Società Italiana Veterinaria di Anestesia Locoregionale e Terapia del Dolore. Dal 2006 è responsabile dell’attività formativa post laurea in anestesia di Dormire Sognare. Attualmente svolge la propria professione dividendosi tra la gestione del reparto di Anestesia e Odontostomatologia della Clinica Veterinaria Gregorio VII di Roma e l’attività didattica nell’ambito della Educazione Continua in Medicina.

FEDERICA ROSSI Med Vet, SRV, Dipl ECVDI, Sasso Marconi (BO) Laureata nel 1993 a Bologna, con lode, ha ricevuto il “Premio Rotary Corsi di Laurea” per il miglior Curriculum di Laurea nell’Anno 92/93. Ha trascorso diversi periodi di formazione all’estero. Nel 1997 ha conseguito il Dipl di Spec. in Radiologia e nel 2003 il Dipl del College Europeo in Diagnostica per Immagini (ECVDI). È autrice di oltre 40 pubblicazioni nazionali ed internazionali, revisore e coautore di testi scientifici. È Pres, della Soc. Italiana ed Europea di Diagnostica per Immagini (SVIDI ed EAVDI). Ha lavorato come Ober-assistent alle Univ. di Berna e Philadelphia. Dal 2008-2009 è Prof. a contratto e consulente per la TC per la Facoltà di Med. Vet. dell’Univ. di Torino. Dal 1993 lavora a Sasso Marconi (BO), svolgendo attività di referenza in Radiologia, Ecografia e TC e di ricerca nel campo dei mezzi di contrasto ecografici.

JÖRG M. STEINER Dr Med Vet, PhD, Dipl ACVIM, Dipl ECVIM-CA, Texas, USA Jörg Steiner si è laureato nel 1992 all’Università LudwigMaximilians di Monaco, Germania. Dal 1992 al 1993 ha fatto il suo internato in medicina e chirurgia dei piccoli animali all’Università della Pennsylvania e dal 1993 al 1996 il suo residency in medicina interna dei piccoli animali alla Purdue University. Ha ricevuto nel 1995 il diploma di Dr. med. vet. alla Università Ludwig-Maximilians di Monaco, Germania, con uno studio sulla tripsina felina e l’immunoreattività tripsinosimile felina. Nel 1996 si è diplomato all’American College of Veterinary Internal Medicine e all’European College of Veterinary Internal Medicine. Nel 2000 il Dr. Steiner ha ricevuto il PhD dalla Texas A&M University per il suo lavoro sulle lipasi digestive del cane ed il loro utilizzo pratico per la diagnosi di affezioni gastrointestinali nel cane. È attualmente Professore Assistente Clinico presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia di piccoli animali alla Texas A&M University. Il Dr. Steiner è inoltre responsabile, quale co-direttore, del Laboratorio di Gastroenterologia della Texas A&M University ed è impegnato nella ricerca e sviluppo di nuovi test diagnostici per i disturbi dell’apparato gastrointestinale.

MASSIMO SERRERI Med Vet, Olbia Laurea in medicina veterinaria anno 2000. Master economia del turismo università Bocconi anno 2008. Master Sole 24 ore management & leadership anno 2009. Consulente per gruppo vetservice & cinoservice Sardegna. Consulente per Gruppo “Martini Holding” Gruppo Alberghiero. Consulente Consorzio Costa Smeralda per serv. veterinari Costa Smeralda. Consulente gruppo L&D grossa Distribuzione. Business Advisor per R&S vet management. GILIOLA SPATTINI Med Vet, Dipl ECVDI, Dr Ric, Reggio Emilia Si laurea in Med Vet con Lode a Parma nel 1998. Nel 1999 vince una borsa di studio di specializzazione per l’estero e si reca al Royal Veterinary College di Londra dove nel 2000 intraprende il training del College Europeo di Diagnostica per Immagini. Ha integrato il piano di studi con stage trimestrali nelle Università di Utrecht, Tufts, Pennsylvania e Berna. È autrice di pubblicazioni nazionali ed internazionali. Nel 25


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TRACY STOKOL DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVP, Ithaca, USA

mans and Animal (Università di Salamanca) e D. immitis and D. repens in dog and cat and human infections (Università di Napoli). Dal 2006 è diplomato dell’European Veterinary Parasitology College. Lavora a Pavia presso l’Ospedale veterinario Città di Pavia dove svolge attività prevalente di referenza inerente le malattie parassitarie e la cardiologia, collabora nel settore della ricerca parassitologica con le sezioni di parassitologia delle Università degli Studi di Salamanca e Milano, ed è consulente nel settore della cardiochirurgia.

La Dr.ssa Stokol si è laureata (BVSc) nel 1987 alla University of Melbourne, Australia. Dopo la laurea, ha lavorato come veterinario associato in una struttura per piccoli animali nell’area metropolitana di Melbourne, prima di tornare alla University of Melbourne per iniziare un PhD sotto la guida del Dr. Bruce Parry. Nel 1993 discusse con successo la propria tesi sulla “Malattia di von Willebrand nei cani in Australia”. Nello stesso anno, passò alla Cornell University come istruttore di Patologia Clinica. Nel 1995 ottenne il certification in Clinical Pathology e rimase alla Cornell University fino al 2000. A questo punto, si spostò a Boston ed assunse il ruolo di post-doctoral fellow presso il Department of Pathology al Brigham and Women’s Hospital, Harvard University. Nel maggio 2002 tornò alla Cornell University come Assistant Professor nel Department of Population Medicine and Diagnostic Sciences. I suoi interessi di ricerca comprendono le malattie dell’emostasi e dell’emopoiesi negli animali e la ricerca di base sui meccanismi delle metastasi neoplastiche.

ANTONELLA VERCELLI Med Vet, CES derm, CES oft, Torino Laureata in medicina veterinaria presso la facoltà di Torino nel 1985. Ha conseguito Il diploma francese in oftalmologia (CES 1989 ENV Toulouse) e il diploma francese in dermatologia (CES 1992 ENV Nantes-Lyon). È Full member della ESVD (Società Europea di Dermatologia veterinaria) ed è stata board member della medesima società negli anni 1999-2001. È past President della società di oftalmologia veterinaria italiana (Sovi) dal 2001. È membro fondatore della Sidev (Società italiana di dermatologia veterinaria) di cui è attualmente Past President. Lavora dal 1985, come libero professionista, presso l’Ambulatorio Veterinario Associato di Torino dove si occupa di dermatologia ed oftalmologia dei piccoli animali ed è direttore del laboratorio analisi per piccoli animali per il quale si occupa di istopatologia. È autore di numerose pubblicazioni sia su riviste nazionali che internazionali. Ha partecipato alla realizzazione di corsi e congressi nazionali ed internazionali in dermatologia ed oculistica come relatore e come organizzatore. È autore e co-autore di atlanti e CD dedicati alla dermatologia veterinaria. È stata professore a contratto presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Grugliasco (TO) per l’insegnamento: CIP medicina del cane e del gatto: esercitazioni teorico pratiche inerenti le applicazioni dei chemioterapici nella dermatologia dei piccoli animali, negli anni accademici 2003-2004, 2004-2005 e 2005-2006, 2006-2007.

SHELLY VADEN DVM, PhD, Dipl ACVIM, Raleigh (NC) La Dr.ssa Shelly Vaden è Professor of Small Animal Internal Medicine al North Carolina State University College of Veterinary Medicine, USA. Si è laureata alla University of Georgia, College of Veterinary Medicine, ed in seguito ha svolto un periodo di internato alla Cornell University ed uno di residenza in Small Animal Internal Medicine alla North Carolina State University. È Diplomate of the American College of Veterinary Internal Medicine. Ha anche conseguito un PhD presso la North Carolina State University. L’attività accademica della Dr.ssa Vaden è stata principalmente incentrata sulle malattie del rene e delle basse vie urinarie del cane e del gatto. Negli ultimi anni, questo è diventato anche il principale centro di interesse della sua attività clinica. Ha pubblicato oltre 100 lavori peer-reviewed ed oltre 100 non-peer reviewed, capitoli di libri e relazioni congressuali.

MASSIMO VIGNOLI Med Vet, SRV, Dipl ECVDI, Bologna Laureato a Bologna su: “displasia dell’anca nel cane”. Specializzato a Torino su: “Kodak insight nella radiologia toracica del cane”. Resident Prize ECVDI, Murcia 2002: “biopsie TC-guidate nello scheletro”. Autore di 73 lavori scientifici (44 internazionali). Diplomato College Europeo Diagnostica per Immagini (Dipl. ECVDI). Dal 2005 Coordina l’itinerario di diagnostica per immagini della Scuola di Formazione Post Universitaria a Cremona. Coautore del libro “Radiologia del cane e del gatto”. Presidente SVIDI 2001-2004. Professore a contr. a Napoli, 2007, 2008, 2009. Docente 2007, 2008 Scuola di Spec. Patol. e Clinica An. Affez. e Master di Oncologia a Pisa. Lavora presso la Clinica Veterinaria dell’Orologio e Centro Oncologico Veterinario a Sasso Marconi (BO), dove si occupa di diagnostica per immagini e radioterapia. Sta completando PhD all’Università di Ghent.

LUIGI VENCO Med Vet, Torino Nato nel 1961 consegue la laurea in Medicina veterinaria e di seguito il Diploma di specializzazione in Clinica dei piccoli animali presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Milano. Frequenta il Corso di cardiologia presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Torino. Soggiorna per periodi di studio, ricerca ed insegnamento all’estero presso le Università di Athens (GA), Philadelphia (PEN), Fort Collins (CO), Davis (CA) negli USA e Gifu (Giappone). È autore e coautore di più di venti articoli inerenti la filariosi cardiopolmonare e la cardiologia su International peer reviewed Journal (recensiti da PubMed), Editore ed autore della Monografia sulla Filariosi cardiopolmonare pubblicata da SCIVAC ed autore di capitoli in Dirofilariasis in Hu26


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MARCO VIOTTI Med Vet, Torino

dicina interna alla Michigan State University, ha rivestito diverse cariche nel corpo docente della Michigan State University, della Mississippi State University, ed ora della Texas A&M University. È professor of Small Animal Clinical Science e specialista in gastroenterologia, epatologia, pancreatologia ed endoscopia. Il Dr. Willard ha condotto ricerche sui cani da slitta in Alaska e sta collaborando con il gruppo di lavoro WSAVA di istopatologia gastroenterica. Ha tenuto oltre 2.100 ore di lezione di aggiornamento postlauream ed ha oltre 70 pubblicazioni refereed e più di 100 capitoli di libri. I suoi hobby sono le passeggiate, giocare a scacchi (male, ma divertendosi comunque) e lavorare nell’azienda agricola di famiglia.

Laureato a Torino nel 1994 con una tesi sperimentale sull’embriogenesi cardiaca,si occupa esclusivamente di piccoli animali.Ha frequentato numerosi corsi di aggiornamento scivac, nonché congressi e seminari. Attualmente vicecoordinatore del Gruppo di Studio di Practice Management, membro del consiglio direttivo di Amnvi Piemonte,si occupa esclusivamente di medicina interna e practice management. ROBERT N. WHITE BSc (Hons) BVetMed, CertVA, DSAS (Soft Tissue) Dipl ECVS, MRCVS, Nottingham (UK) Il Dr. White si è laureato al Royal Veterinary College nel 1989. Ha conseguito il RCVS Diploma in Small Animal Surgery (Soft Tissue) ed è Diplomate of the ECVS. È anche RCVS and European Specialist in Small Animal Surgery. Nel 2002 gli è stato assegnato il BSAVA Simon Award per i suoi notevoli contributi alla chirurgia veterinaria. È Special Professor of Small Animal Soft Tissue Surgery alla Nottingham University. Nel 1998 è stato cofondatore della Davies White Veterinary Specialists. In seguito, nel 2004, ha fondato un proprio Surgical Consultancy Service offrendo i propri servizi chirurgici, su base itinerante, a strutture veterinarie generiche, centri specialistici ed università di tutto il Regno unito. Nell’agosto del 2009 è entrato a far parte del Willows Veterinary Centre and Referral Service per contribuire a fondare un nuovo servizio di chirurgia dei tessuti molli nella loro nuova struttura di Solihull, nel Regno unito, che rappresenta lo stato dell’arte.

ANDREA ZATELLI Med Vet, Reggio Emilia (I) Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma nel 1990. Dal 1991 al 1998 trascorre periodi di aggiornamento in Europa e Stati Uniti su tematiche di medicina interna e diagnostica per immagini. Incarichi SCIVAC: socio dal 1991, relatore dal 1998, consulente scientifico dal 2001. Relatore a congressi nazionali ed internazionali ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su nefrologia, ecografia addominale e medicina d’urgenza. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. Dal 2006 al 2007 è stato coordinatore della Società Italiana di Nefrologia Veterinaria e dal 2005 al 2009 Chairman del Board del Gruppo di Studio sulla Leishmaniosi Canina. Nel 2005 ha ricevuto l’IRIS (International Renal Interest Society) AWARD. Attualmente svolge la libera professione a Reggio Emilia, dove dal 2002 è Direttore Sanitario di una referral practice. I suoi principali settori di interesse sono le nefropatie e le tecniche innovative nel settore dell’ecografia interventistica e dell’ecocontrastografia.

MIKE WILLARD DVM, MS, Dipl AVCIM, Texas, USA Il Dr. Willard si è laureato nel 1975 alla Texas A&M University. Dopo aver effettuato un periodo di residenza in me-

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ESTRATTI DELLE RELAZIONI Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome del relatore e quindi in ordine cronologico di presentazione.

LECTURES ABSTRACTS The abstracts are listed in alphabetical order by surname and then in chronological order of presentation.


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Update on feline calicivirus Diane D. Addie Dr Vet Med, PhD, BVMS, Etchebar (F)

Feline calicivirus (FCV) is one of the cat flu viruses. Most FCV infections are completely asymptomatic, with only a few cats developing the oral ulcers and mild upper respiratory tract signs usually associated with FCV.18 Although there were sporadic reports of FCV associated with unusual and fatal clinical manifestations,22,23 it was after Pedersen et al12 reported the 1998 outbreak in the USA that the syndrome of virulent systemic FCV (VS-FCV) became widely recognised. Since that initial report, several others followed in the USA,10, 13, 20 the UK,5 Belgium7 and France.19 In every FCV infection, an evolutionary race begins between the virus and its host: FCV is an RNA virus that exists in each infected cat as a quasispecies (that is a cloud of viruses which vary genetically and antigenically).6, 16, 17 Infected cats generate antibodies capable of neutralising the predominant FCV strain and other variants are then able to predominate6, 16 i.e. the virus alters rapidly in order to avoid the immune system. Coyne et al6 showed that mutations occurred more rapidly in a population than in an individual. There are 4 consequences of the ability of FCV to mutate and recombine frequently: 1. The emergence of new diseases (Virulent Systemic FCV, VS-FCV) 2. Viral persistence (e.g. in feline chronic gingivostomatitis, FGS) 3. Failure of reverse-transcriptase polymerase chain reaction (RT-PCR) tests to detect all FCV subtypes 4. Evolution of field strains of FCV away from vaccinal strains, leading to the eventual failure of existing vaccines to protect

Persistent (chronic) FCV infection. In most FCV infections, the cat wins the evolutionary race between itself and the virus – the half-life of FCV shedding is 75 days although the cat is then susceptible to re-infection by new variants of the original calicivirus strain. 6 However, occasionally the virus wins, finding an antigenic niche to which the cat cannot mount a successful immune response, therefore the cat becomes persistently infected. Most FCV carrier cats are asymptomatic. Strains of FCV from cats with feline chronic gingivostomatitis (FGS) are notoriously difficult to neutralise. 14 However, the role of FCV in FGS is unclear – it is present in almost 100% of cases, but is it the cause or merely an opportunistic infection? FGS is multifactorial in aetiology: other causes include an abnormal immune reaction by the cat (too much humoral, not enough cellular, response) to oral antigens; and commercial cat food. Corticosteroids should not be used to treat FGS for the following reasons: 1. steroids suppress the Th1 response as well as the Th2, ruining the cat’s chances of ever clearing FCV. 2. steroids thin the epithelium. 3. immunosuppression allows concurrent infections such as feline herpesvirus, feline infectious peritonitis, leishmania to emerge. 4. chronic use leads to obesity and diabetes. The most effective treatment is to remove all the teeth, but one must be extremely careful to avoid penetration of dental instruments into the eyeball.21 FGS treatment also involves recombinant feline interferon omega (Virbagen Omega, Virbac, France); meloxicam (Metacam, Boehringer) and change to an organic and additive free diet.2 For further information see www.dr-addie.com/stomatitis.html.1 Recovered cats should not be given a live FCV vaccine for fear of re-inducing the disease.

Virulent systemic FCV disease Out of the diversity of FCV strains present, particularly in multicat environments, strains capable of causing virulent systemic disease (VSFCV) arise de novo in each new outbreak, therefore the clinical presentation tends to be unique to that outbreak. Nonetheless, there are a number of clinical signs which appear frequently, which can give rise to suspicion that one is dealing with a VS-FCV outbreak: pyrexia, anorexia, jaundice, oedema, skin lesions, death.5, 7, 10, 12 13, 18, 19, 20 The ramifications of an outbreak are very serious – frequently resulting high mortality and in the closure of the veterinary hospital in which the diagnosis was made while the virus is eliminated from the environment19 therefore clinicians must constantly be extremely alert to the possibility of VS-FCV. Treatment tends to be symptomatic, and recent evidence suggests that interferon may help.4

FAILURE OF RT-PCR TESTS TO DETECT ALL FCV SUBTYPES PCR tests are becoming widely available for the detection of many feline infections. PCR requires accurate primers which closely recognise the sequence of the virus being detected, in addition, in real-time (Taqman or quantitative) PCR, accurate probes are also required. Therefore it is difficult to develop an accurate assay for a virus which changes rapidly genetically, so assay sensitivity is a big issue – false negative results can occur. Since FCV is an RNA virus, a 31


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DNA copy of the RNA must first be made in a reverse transcriptase (RT) step. RNA is very sensitive to environmental enzymes which degrade it – again resulting in false negative results. For these reasons, virus isolation in cell culture can be more sensitive than PCR for FCV.

5. 6.

EVENTUAL FAILURE OF EXISTING VACCINES TO PROTECT

7. 8.

FCV vaccination may ameliorate clinical signs of FCV, but does not prevent asymptomatic carrier states. Rapid evolution of FCV is driven by immune selection pressure from the cat – this was elegantly demonstrated by Radford et al 16 who took a laboratory strain of FCV and passed it 95 times in cell culture – the virus after 95 passages was remarkably similar to that put into the first culture. However, the same strain of FCV put into a cat evolved rapidly – in less than 39 days the virus had changed such that it was no longer neutralised by antibody the cat had developed, and the cat had to respond immunologically all over again to the new strain of FCV which had emerged. 16 It is believed that this process has been repeated on a national scale, resulting in strain diversity such that the FCV strains used in vaccines are not likely to protect equally well against all field strains, especially where vaccines are used widely. 8, 11, 24 Therefore new vaccinal FCV strains are required regularly. In vitro, antisera to new FCV strains G1 and 431(Purevax RCP, Merial) neutralised more field strains than did antisera to older FCV vaccinal strains 3, 15 including most VS-FCV strains. 15 In addition, dual-strain FCV vaccines stimulate broader crossneutralization antibodies than single-strain vaccines and lessen clinical signs in vaccinated cats.9

9.

10. 11. 12.

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Key messages of this lecture: - Be alert for VS-FCV clinical signs (jaundice, oedema, skin lesions, death) - Prepare your veterinary hospital NOW for the event of an outbreak of VS-FCV - Never treat cats with FGS with corticosteroids - Put cases of FGS onto as natural a diet as possible - Be aware that RT-PCR will not detect all strains of FCV - Revise your vaccination policy regularly to take advantage of new vaccinal strains

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18.

19.

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ACKNOWLEDGEMENTS 21.

I am grateful to Merial, Italy, for sponsoring my appearance at SCIVAC.

22. 23.

References 1. 2.

3.

24.

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Address for correspondence: Diane Addie - Honorary Senior Research Fellow, University of Glasgow Veterinary School, UK - Feline Institute Pyrenees, Etchebar, 64470, France www.catvirus.com 32


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Nefropatie ereditarie e congenite del cane e del gatto: aspetti clinico-patologici Luca Aresu Med Vet, Dr Ric, Padova

Le patologie renali di origine congenita ed ereditaria sono caratterizzate da una elevata incidenza sia nel gatto sia nel cane. Negli ultimi anni il miglioramento delle tecniche diagnostiche clinico-patologiche ha permesso in molti casi di avere diagnosi maggiormente dettagliate. Tecniche di immunoistochimica, immunofluorescenza e microscopia elettronica hanno affinato quelli che erano i problemi relativi alla classificazione delle patologie; studi sulle razze, molecolari e su profili genetici, soprattutto in comparato con la patologia umana hanno evidenziato ampie comparazioni. Il cane e il gatto rimangono ancora due specie, in cui la studio delle patologie renali,è tutt’ora in continua evoluzione. Nella bibliografia delle patologie renali ereditarie e congenite di entrambe le specie troviamo situazioni legate ad anomalie di sviluppo quantitative e qualitativo di origine congenito o familiari/ereditarie. Esse sono tali che in molti casi sono incompatibili con la vita, ma la bilateralità dell’organo rene, e dall’altra parte anche la capacità intrinseca compensatoria possono supplire per brevi e lunghi periodi a delle anomalie di sviluppo. Tra le anomalie di sviluppo quantitativo sicuramente annoveriamo: agenesie renali, ipoplasie e duplicazione renale. In generale si considera sotto un’unica terminologia le lesioni classiche di anomalia qualitativa di sviluppo: displasia renale. Termine assai generico, che nella bibliografia moderna deve trovare ancora una corretta classificazione per tutte quelle lesioni che derivano da fenomeni displastici dei diversi elementi del blastema metanefrico nel suo sviluppo embrionale. Nel cane, esistono diverse descrizioni sulla displasia renale con numerosi case report per classificare l’origine di tale patologia. Nel gatto è presente una descrizione sommaria associata a patologie di origine infettivo e congenite. Studi sull’evoluzione di questa patologia fornirebbero importanti dati a livello clinico, infatti la diagnosi di displasia renale viene identificata troppo tardi evolutivamente, molto spesso quando l’animale presenta uno stato di insufficienza cronica irreversibile. Tra le anomalie di forma, posizione ed orientamento nei gli animali domestici si classificano le ectopie renali, la lobulazione fetale ed anche il rene a ferro di cavallo. Sempre il gatto è diventato nell’ultimo decennio modello per le patologie policistiche nell’uomo. Il gatto persiano rappresenta la razza più colpita con una incidenza del 38%. In questi casi, come anche in alcune razze di cani, l’esperienza del veterinario aiuterebbe significativamente a ridurre la frequenza di tale patologie. La prevenzione e l’informazione, soprattutto nei confronti di allevatori di alcune razze, per evitare possibili incroci oppure estromettendo dalla riproduzio-

ne quegli animali con chiari segni di patologia. Nella razza West Highland White Terrier e nella razza Persiano, la patologia è collegata ad un gene autosomico recessivo, il termine anglossassone è di polycystic kidney disease (PKD). Sempre tra le patologie razze specifiche, nel pastore tedesco è bene ricordare l’associazione tra la dermatofibrosi cutanea (patologia cronica prevalentemente a livello delle zampe) e il cistoadenocarcinoma renale (tumore maligno a crescita espansiva ed infiltrativa). Tale patologia è una malattia autosomica dominante che colpisce animali in età media/avanzata, nelle femmine è importante controllare anche l’utero, per possibili forme di leiomioma. L’eziopatogenesi è legata a dei fattori di crescita (Transforming Growth Factor Beta e Tumor Necrosis Factor) che causano la soppressione del cromosoma 5. Tra le anomalie qualitative e quantitative renali si può annoverare l’idronefrosi, condizione molto spesso secondaria a fenomeni ostruttivi. La definizione di idronefrosi è di “dilataizione della pelvi e dei calici renali con progressiva atrofia del parenchima renale con successiva dilatazione cistica”. Le principali cause di tale ostruzione meccanica sono: urolitiasi, ipertrofia prostatica, errata chirurgia addominale (legatura ureteri), masse uretrali o retroperitoneali, ostruzione vie urinarie inferiori. Se l’ostruzione permane per più di tre settimane la lesione diventa irreversibile. L’amiloidosi rappresenta una patologia su base familiare/ereditaria in alcune razze come beagle, samoiedo e razza basenji. L’amiloide è un materiale proteinaceo, eosinofilico, omogeneo, fibrillare che si deposita prevalentemente a livello dei capillari glomerulari, nelle cellule mesangiali e nell’interstizio renale. A livello clinico il dato più rappresentativo è dato dalla grave proteinuria con possibili edemi dovuti a condizioni di ipoproteinemia. L’eziopatogenesi dell’amiloidosi origina da tre tipi: 1) amiloidosi reattiva sistemica, legata alla produzione di proteina sierica AA prodotta dal fegato in condizioni di infiammazione cronica, 2) amiloidosi da produzione da immunoglobuline, sindrome paraneoplastica in seguito a mieloma multiplo, 3) amiloidosi familiare sia nel cane sia nel gatto. In ultimo, le nefropatie familiari nella razza canina rappresentano un vasto campo in evoluzione, soprattutto per i meccanismi che ne sono causa. Gruppi di ricerca sulle patologie renali hanno utilizzato il bull terrier e il dalmata come modelli per la sindrome di Alport: patologia legata ad un deficit del collagene IV. Sono note nefropatie ereditarie nella razza samoiedo (glomerulopatia ereditaria), nefrite ereditaria nel cocker spaniel e nel bull terrier e glomerulonefropatia nel bovaro del bernese. 33


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A livello tubulare, la bibliografia è testimone di alcune patologie prettamente cliniche, che a livello istologico non sono diagnosticabili. La più conosciuta è la sindrome di Fanconi, la quale risulta ereditaria nella razza Basenji, caratteristica di questa malattia è una condizione clinica mista data da: poliuria, polidipsia, isostenuria, normoglicemia, iperfosfaturia, proteinuria, aminoaciduria e glicosuria. Sempre tra le disfunzioni tubulari in alcune razze è presente una forma di diabete nefrogenico insipido.

Bibliografia

Indirizzo per la corrispondenza: Luca Aresu Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata ed Igiene Veterinaria Università di Padova - Viale dell’Università 16 35020 Agripolis Legnaro PD - Italia E-mail: luca.aresu@unipd.it Tel: +39 049 8272963 - Fax: +39 049 8272604

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Gestione della stasi gastrointestinale nel coniglio Alessandro Bellese Med Vet, Venezia

SINDROME DA STASI GASTROENTERICA

Eccesso di carboidrati • Inibizione secrezione motilina, ormone prodotto dalle cellule enterocromaffini del duodeno e del digiuno, che favorisce la peristalsi stimolando la muscolatura gastroenterica. • Aumento produzione acidi grassi volatili, diminuzione pH ciecale, dismicrobismo: inibizione normale flora, proliferazione Clostridi (C. spiriforme) ed E. coli. Questi patogeni determinano produzione di gas e tossine che vengono assorbite. Il che porta a tossicosi endogena e ipomotilità (enterotossiemia) e stasi intestinale causata dal meteorismo. Il meteorismo inoltre provoca dolore che aggrava ulteriormente il quadro.

La sindrome da stasi gastroenterica è una delle entità cliniche più frequenti nel coniglio da compagnia. Primariamente consiste in un rallentamento del transito gastroenterico di vario grado fino alla stasi completa che si manifesta con mancata emissione di feci e anoressia. Le cause sono varie così come le manifestazioni cliniche. Saranno prese in considerazione e analizzate le scelte gestionali e terapeutiche per il trattamento di questa sindrome tenendo conto della bibliografia, dei protocolli “classici” e delle osservazioni aneddotiche e personali di professionisti che si occupano regolarmente di medicina e chirurgia del coniglio da compagnia. La stasi gastroenterica può essere definita come un disordine acquisito della motilità gastrointestinale. La motilità subisce un rallentamento che nelle forme più gravi arriva alla stasi o ileo completo. Dal punto di vista eziologico può essere classificata in primaria e secondaria. Primaria: causata da alterazione della funzionalità dei neuroni mioenterici o della muscolatura liscia gastrica. Secondaria: causata e favorita da molteplici fattori.

Fattori stressanti La secrezione di motilina può essere ridotta anche dall’aumento di catecolamine che si può verificare in seguito ad un evento stressante. Gli eventi stressanti causali possono essere di vario tipo: • Stress emozionali - Cambio di ambiente - Introduzione di un nuovo coniglio o altro animale in casa - Perdita di un compagno - Presenza di coniglio dominante - Arrivo di persone estranee in casa - Rumori eccessivi e/o improvvisi - Degenza • Stress algici - Patologie dolorose - Traumi • Stress termici: temperatura ambiente troppo calda o troppo fredda

Fattori causali • • • • • • • •

• • • •

Dieta Stress emozionali Fattori stressanti vari Fattori algici (anoressia e stress) Mancanza di esercizio Anestesia Aderenze postchirurgiche Dismicrobismo/Enterotossiemia (causa ed effetto) secondario a: - Antibiotico terapia - Eccesso di carboidrati - Stasi ciecale Patologie (stress, dolore) Patologie gastrointestinali Patologie dentali Patologie uterine

TERAPIA La terapia dovrà essere indirizzata sia alle entità causali e favorenti la sindrome, ma anche e soprattutto a contrastare i sintomi e le conseguenze che di per sé aggravano la situazione e sono potenzialmente letali. Conigli anoressici vanno sempre trattati il prima possibile e questa è un’informazione che va data al proprietario già in prima visita e tutte le volte che se ne presenta l’occasione. Conigli che non si alimentano da più di 3 giorni vanno sempre considerati come emergenza. • Fluidotetrapia • Alimentazione

Fattori dietetici Carenza di fibra lunga • Riduzione stimolo meccanico distensivo del colon • Aumento di butirrati e proprionati a scapito degli acetati nel cieco • Questo comporta una compromissione della motilità intestinale. 35


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- Correzione degli errori dietetici - Valutazione a seconda della dieta attuale - Valutazione a seconda della reale possibilità di masticazione - Gestione dietetica - Alimentazione assistita - Alimentazione forzata (sonda naso-gastrica) - Formule per erbivori - Formule per nutrizione enterale umana • Esercizio fisico • Gestione ambientale (ambiente caldo e tranquillo) • Terapia farmacologica - Analgesia - Procinetici - Antimeteorici - Complesso vit B - Colestiramina - Antibiotici - Probiotici - Antiacidi - Chirurgia

Per favorire l’idratazione, le erbe e le verdure fresche possono essere inumidite. In caso di errori dietetici gravi, come la somministrazione di mangimi misto semi senza verdure, il cambio dietetico deve essere molto graduale e si continuerà almeno inizialmente a somministrare la vecchia dieta perché l’obiettivo è comunque indurre il coniglio a mangiare. In caso di perdita di peso eccessiva e di rifiuto di assunzione di cibo si ricorrerà alla alimentazione assistita. Possono essere utilizzate formulazioni specifiche per erbivori eventualmente mescolate a succhi di frutta, oppure pellet di buona qualità miscelati e frullati assieme a verdure, omogeneizzati alle verdure, succhi di frutta ed acqua. I volumi consigliati sono 10-15 mL/kg q 6-8 ore, ma si possono utilizzare volumi maggiori e più frequenti, se sono accettati dal paziente. L’uso di procinetici dovrebbe stimolare la peristalsi e favorire il transito intestinale. L’utilizzo di procinetici è controindicato in caso di occlusione intestinale. Se l’alimentazione assistita non è accettata e non si riesce a somministrare una quantità efficace, si ricorrerà all’alimentazione forzata mediante sondino naso gastrico. Il prima possibile la dieta va corretta, tenendo conto per la tempistica della dieta precedente e della oggettiva possibilità di masticare il fieno. Un coniglio con tavole molari gravemente alterate non riesce a masticare il fieno.

Fluidoterapia La somministrazione parenterale e orale di fluidi è essenziale nel trattamento della stasi gastrointestinale del coniglio. La somministrazione orale aiuta a reidratare il contenuto gastrico compattato. Conigli con quadro clinico lieve o moderato possono rispondere bene alla somministrazione orale o sottocutanea di fluidi, accompagnata da aumento della fibra lunga nella dieta, da somministrazione di procinetici ed eventualmente analgesici. Pazienti con quadro clinico più grave richiedono somministrazione endovenosa o intraossea possibilmente continua in pompa da infusione per evitare somministrazioni troppo rapide particolarmente pericolose in questi pazienti. Possono essere utilizzate soluzioni elettrolitiche bilanciate come Ringer lattato a 100 mL/kg/24 h. La somministrazione di colloidi va considerata in caso d’ipoproteinemia o d’ipotensione se i cristalloidi non riescono a ripristinare i normali valori pressori (90-120 mm Hg). Durante la gestione della stasi l’assunzione orale di fluidi deve sempre essere incoraggiata utilizzando acqua fresca o aromatizzata con succhi di frutta ed eventualmente bagnando i vegetali.

Esercizio fisico Se il paziente non è particolarmente debilitato si dovrebbe incoraggiare l’esercizio fisico per almeno 10-15 minuto ogni 6-8 ore per stimolare la motilità gastrica.

Terapia farmacologica In linea di massima in pazienti con motilità gravemente compromessa se possibile preferire la via di somministrazione parenterale, perché le medicazioni introdotte via orale potrebbero non essere adeguatamente assorbite. Analgesia: La sindrome provoca dolore, l’utilizzo di antidolorifici è imperativo, una volta alleviato il dolore ed equilibrato lo stato di idratazione il coniglio potrebbe cominciare a muoversi ed a mangiare (possibilmente il fieno o l’erba), stimolando la motilità gastrointestinale.

Gestione dietetica

Meloxicam - 0,2 mg/kg SC, IM q 24h - 0,2-0,5 mg/kg PO q24h

L’assunzione di cibo deve continuare durante il trattamento. La mancata introduzione di cibo aggrava l’ipomotilità e favorisce il dismicrobismo intestinale. Il digiuno inoltre può indurre rapidamente lipidosi epatica, e questo processo metabolico una volta avviato è difficilmente reversibile. Il supporto dietetico assistito o forzato dovrebbe essere preso in considerazione quando vi è una perdita acuta di peso del 10% o cronica del 20%. Bisogna cercare sempre di indurre il coniglio ad alimentarsi volontariamente possibilmente di alimenti ricchi di fibra; vanno sempre lasciati a disposizione fieno, erbe selvatiche e verdure fresche se il soggetto è già abituato agli alimenti freschi.

I FANS vanno usati con cautela se si sospetta compromissione renale o possibilità di ulcerazione gastrica. Buprenorfina 0,01-0,05 mg/kg SC, IM, EV q8-12h Butorfanolo 0,1-0,5 mg/kg SC, IM, EV q4-6h Durante le chirurgie prestare sempre particolare attenzione all’analgesia, anche per evitare la possibilità di ipomotilità postchirurgica. 36


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Probiotici: la loro efficacia non è dimostrata ma vengono spesso utilizzati in corso di patologie gastrointestinali nel coniglio.

Procinetici: Utili soprattutto per favorire lo svuotamento gastrico. Il farmaco più usato è il Clebopride. Altri farmaci utilizzati sono Trimebutina maleato e Metoclopramide. Sono controindicati in caso di sospetto di ostruzione intestinale.

Colestiramina: la Colestiramina è una resina a scambio ionico, la sua funzione è quella di legare le enterotossine prodotte dai clostridi. Ridurrebbe la mortalità in caso di enterotossiemie da terapia antibiotica inappropriata, viene da alcuni consigliata in qualsiasi sospetto di dimicrobismo con possibile crescita eccessiva di clostridi. Può causare costipazione soprattutto se non è curata adeguatamente l’idratazione. Colestiramina 2 g/animale in 20 ml di acqua PO q24h per 18-21 giorni

Clebopride 0,05-0,1 mg/kg PO q 8-12h Metoclopramide 0,2-1 mg/kg PO, SC q6-8h La reale efficacia soprattutto in seguito di somministrazione orale è messa in dubbio. Antimeteorici: Il meteorismo intestinale provoca dolore e dilatazione delle pareti aggravando così l’ipomotilità.

Complesso vitaminico B: terapia di supporto per stimolazione appetito e per contrastare la lipidosi epatica, da considerare sempre in corso di anoressia.

Simeticone 65-130 mg soggetto Inizialmente in casi gravi, ogni ora per 3-6 trattamenti. Poi ogni 6-8 ore, valutare comunque a bisogno.

Antiacidi: indicati in caso di sospetto di lesioni o ulcere gastriche (ad esempio se presenti tricobezoari).

Antibioticoterapia: la stasi gastroenterica, in particolare del cieco, indipendentemente dalla causa, provoca una situazione che favorisce la disbiosi che provoca proliferazione di batteri patogeni in particolare clostridi e quindi endotossiemia, meteorismo e aggravamento della stasi. Questa situazione è più probabile in conigli anorettici da più giorni. L’antibiotico terapia è indicata soprattutto in pazienti con diarrea, citologia fecale anormale e sangue nelle feci (che indicano lesione della mucosa intestinale). L’antibiotico di scelta dovrebbe agire su G- ed anaerobi. In genere si utilizzano antibiotici ad ampio spettro come Tretropin-sulfa e fluorochinoloni. Se si sospetta una crescita eccessiva di Clostridi, si può utilizzare Metronidazolo. Tenere presente comunque che anche se si utilizzano antibiotici “sicuri”, la somministrazione orale per lunghi periodi di qualsiasi antibiotico, soprattutto in condizioni gastroenteriche non ottimali può causare o favorire dismicrobismo, pertanto in caso di segnali quali diarrea o anoressia la terapia va interrotta.

Cimetidina 5-10 mg/kg PO, SC, IM, EV q6-12h Ranitidina 2 mg/kg EV q24h

Lubrificanti intestinali: non sono di alcuna utilità; non servono a far avanzare eventuali tricobezoari e non servono a contrastare nessuno dei fattori predisponenti o causali della sindrome. Enzimi proteolitici: spesso viene suggerito l’utilizzo di enzimi pancreatici o la somministrazione di succo fresco d’ananas o papaya (enzima papaina) per sciogliere i tricobezoari. La cheratina non è intaccata da questi enzimi che al più possono sciogliere la componente mucipara dei tricobezoari. In ogni caso queste sostanze se usate, vanno impiegate con precauzione perché possono esacerbare lesioni mucosali. Inoltre non fanno nulla per contrastare la stasi che è la causa della formazione dei tricobezoari, a parte per quanto riguarda i succhi a idratare.

Trim-Sulfa 30 mg/kg PO q12h Enrofloxacina 5-20 mg/kh PO, SC, IM q 12-24h

Chirurgia

Marbofloxacina 2-5 mg/kg q24h SC, IM, PO

Nella maggior parte dei casi la chirurgia non è necessaria; indicata in caso di ostruzione pilorica o se si sospetta un processo necrotico o ischemico a carico della parete intestinale per azione compressiva e/o abrasiva (es corpo estraneo). In questo caso la chirurgia è l’unica scelta nonostante la prognosi sia spesso infausta.

Azitromicina 30 mg/kg PO q24h Metronidazolo 20 mg/kg PO q12h Per contrastare l’endotossiemia causata dai clostridi intestinali che può essere favorita dal rallentamento intestinale causato dall’anestesia chirurgica, sembra sia utile la somministrazione EV o IO di fluidi e antibiotici per diversi giorni nel periodo peri e post operatorio.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Bellese Lido di Venezia-VE- Spinea-VE E-mail: a.bellese@alice.it Web site: www.alessandrobelleseveterinario.eu 37


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Cortisonici e malattie neurologiche: un rapporto di amore-odio Marco Bernardini Med Vet, Dipl ECVN, Padova

Daniela Candini, Med Vet, Zola Predosa (BO) Federica Balducci, Med Vet, Zola Predosa (BO)

I glucocorticoidi sono frequentemente utilizzati in neurologia veterinaria. Seppure le loro potenzialità siano molteplici, questi farmaci sono usati principalmente per il loro effetto antinfiammatorio e immunosoppressivo1. Gli effetti benefici della terapia steroidea, particolarmente per quello che riguarda le malattie dell’encefalo e del midollo spinale, includono la protezione dai radicali liberi, la riduzione della pressione intracranica attraverso la riduzione della produzione di liquido cefalorachidiano (LCR) e il mantenimento dell’integrità della normale microvascolarizzazione. In alcuni casi, il loro uso è appropriato; in molti altri, al contrario, vengono utilizzati in maniera empirica (dosi non corrette, periodi di tempo troppo lunghi o troppo corti), fino ad un vero e proprio abuso. Essi presentano numerosi effetti collaterali a breve e lungo termine; la loro somministrazione dovrebbe perciò essere limitata a specifiche situazioni nelle quali i benefici siano maggiori dei rischi connessi. La causa più frequente di utilizzo scorretto consiste nella mancanza di una diagnosi. Ciò è in parte imputabile alla difficoltà che il suo conseguimento comporta, legato alla scarsa disponibilità sul territorio delle attrezzature necessarie. Tuttavia, un’altra causa, molto frequente e meno giustificabile, consiste nella diffusa abitudine di tentare di risolvere il problema in atto con una terapia corticosteroidea associata ad un antibiotico, della durata di qualche giorno. Di fronte ad un problema neurologico in atto, tale terapia non presenta alcuna possibilità di successo mentre, al contrario, spesso ritarda e complica la diagnosi. Scopo di questa presentazione è quello di definire il corretto utilizzo di tali farmaci nella maggior parte delle malattie neurologiche del sistema nervoso centrale. A livello cerebrale, le più frequenti patologie vascolari sono gli infarti encefalici da occlusione di una delle arterie cerebrali. Nella zona infartuata, cessa la produzione di ATP, si instaura acidosi da glicolisi anaerobia, aumenta il Ca++ intracellulare e si formano radicali liberi; rapidamente, si assiste a morte neuronale2. Tali infarti sono detti “infarti bianchi”, in contrapposizione con i cosiddetti “infarti rossi”, caratterizzati da emorragia secondaria alla rottura del vaso. Un vasto edema, visibile con la Tomografia Computerizzata (TC) e la Risonanza Magnetica (RM), interessa la zona infartuale. Non esiste una terapia specifica per le forme infartuali: nonostante i meccanismi patogenetici scatenati dall’ischemia e la presenza di edema, non è dimostrato che

l’uso di corticosteroidi favorisca il recupero del paziente. A livello midollare, la più frequente patologia vascolare è la mielopatia ischemica, un’ischemia necrotizzante focale e lateralizzata del midollo spinale, il più delle volte dovuta all’occlusione di un vaso da parte di materiale fibrocartilagineo3. La RM, grazie alla sua capacità di visualizzare il midollo spinale e la presenza di edema, permette di effettuare una diagnosi diretta di mielopatia ischemica. Non esiste alcuna terapia specifica: nelle primissime ore si può intervenire, per limitare l’estensione dell’edema midollare, somministrando farmaci antinfiammatori. Tra le malattie infiammatorie di origine infettiva4, si annoverano prevalentemente meningoencefalomieliti virali, batteriche, fungine e protozoarie. In questi casi, l’uso di glucocorticoidi può essere pericoloso, se effettuato a dosi alte, immunosoppressive. A dosaggi appropriati, ma in assenza di diagnosi, su pura base sintomatica, la terapia corticosteroidea frequentemente ritarda la diagnosi e ostacola l’esecuzione di importanti test (esame del LCR), oltre a non avere diretti effetti curativi sull’agente sottostante. Tra le malattie infiammatorie di origine non infettiva, che spesso riconoscono un meccanismo immunomediato, quali le meningoencefaliti di origine sconosciuta (MUO) e la meningite-arterite che risponde agli steroidi (SRM-A), i glucocorticoidi somministrati a dosaggio elevato e per lunghi periodi di tempo possono essere curativi o allungare considerevolmente i tempi di sopravvivenza. Tuttavia, somministrati a dosi contenute, spesso per mancanza di diagnosi, tendono a mascherare, ma non a contrastare, l’evoluzione della patologia, ritardandone la diagnosi: quando questa viene finalmente conseguita, la patologia si presenta in una forma già avanzata e la terapia può essere inefficace. In caso di traumi cranici5, la terapia da effettuare è controversa per la mancanza di studi basati su ampie casistiche in medicina veterinaria. In teoria, l’uso di glucocorticoidi è utile per inibire la perossidazione dei lipidi, evitando i danni secondari, ridurre la formazione di edema e modulare la risposta infiammatoria. In realtà, studi clinici in campo umano non supportano tale evenienza e attualmente non esistono i presupposti per raccomandare nei pazienti con trauma cranico una terapia corticosteroidea, che potrebbe inoltre essere responsabile di coagulopatie ed iperglicemia. In caso di traumi spinali6, l’uso di metilprednisolone sodio succinato (MPSS) è stato a lungo consigliato. Tuttavia, i ristretti ran38


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Bibliografia

ge temporali in cui utilizzarlo e l’estrapolazione di protocolli per gli animali da quelli umani senza prove cliniche della loro efficacia rendono questionabile il suo impiego. Fra le anomalie congenite, l’idrocefalo rappresenta la forma più comune. L’uso di glucocorticoidi può migliorare la condizione clinica, sia diminuendo la formazione di LCR, sia agendo sull’edema che può interessare il parenchima nervoso periventricolare. Una terapia a lungo termine è possibile, ma spesso si deve ricorrere ad altri farmaci o alla terapia chirurgica. In caso di neoplasie del sistema nervoso, la terapia corticosteroidea è considerata di tipo palliativo7. Tuttavia, può agire sulle lesioni secondarie alla presenza del tumore (idrocefalo, edema), che spesso sono le vere responsabili della sintomatologia evidenziata dal paziente e migliorare notevolmente il quadro sintomatologico per un periodo di alcune settimane o mesi. Può essere indicata anche durante terapie radianti e facilitare l’asportazione chirurgica della massa.

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Indirizzo per la corrispondenza: Marco Bernardini Dip. Scienze Cliniche Veterinarie - Università degli Studi di Padova Legnaro (PD) - Tel. +39.049.8272609 - Fax +39.049.8272954 - E-mail: marco.bernardini@unipd.it Ospedale Veterinario “I Portoni Rossi” - Zola Predosa (BO) Tel. +39.051.755233 - Fax +39.051.755876 - E-mail: marco.bernardini@portonirossi.it

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Taping neuro muscolare - Applicazioni in fisioterapia e riabilitazione - animali da compagnia David Blow Acupuncturist, Roma, Italia

di corporei; migliorare la circolazione sanguigna e linfatica; ridurre l’eccesso di calore e di sostanze chimiche presenti nei tessuti; ridurre l’infiammazione; ridurre anche l’anormale sensibilità e dolore della pelle e dei muscoli. Inoltre la “Taping Neuromuscolare” mira ad azionare i sistemi analgesici endogeni ed a stimolare il sistema inibitore spinale e discendente. La taping neuromuscolare infine mira a correggere i problemi delle articolazioni, ridurre gli allineamenti imprecisi causati da spasmi e muscoli accorciati; normalizzare il tono del muscolo e l’anormalità di fascia delle articolazioni, migliorare la rom. L’efficacia del taping neuromuscolare è dimostrata da numerosi casi clinici trattati dall’Institute di Taping NeuroMuscolare in Italia.

L’innovativa tecnica di Taping Neuromuscolare si basa sulle naturali capacità di guarigione del corpo, stimolate dall’attivazione del sistema “neuro-muscolare” e “neuro-sensoriale”. Si tratta di una tecnica correttiva meccanica e/o sensoriale che favorisce una migliore circolazione sanguigna e linfatica nell’area da trattare. La tecnica “Taping Neuromuscolare” offre al terapista un approccio nuovo alla radice di ogni patologia. Taping Neuromuscolare è un nuovo approccio alla cura di muscoli, nervi e organi nelle situazioni post-traumatiche. Ai muscoli viene attribuito non solo il movimento del corpo ma anche il controllo della circolazione venosa e linfatica e della temperatura corporea, di conseguenza se i muscoli sono danneggiati o traumatizzati si avranno vari tipi di sintomi. Trattando i muscoli con un nastro elastico che permette il pieno movimento muscolare e articolare, si attivano le difese corporee e si aumenta la capacità di guarigione di nervi muscoli e organi. Nella fase riabilitativa la taping neuromuscolare si applica con tecniche miranti a: rimuovere la congestione dei flui-

Indirizzo per la corrispondenza: David Blow NeuroMuscular Taping Institute, Rome, Italy www.tapingneuromuscolare.eu

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Management of chronic canine heart disease (Parts 1 & 2) John D. Bonagura DVM, MS, Dipl ACVIM (Cardiology, Internal Medicine) Ohio, USA

INTRODUCTION

of DCM. Arrhythmogenic cardiomyopathy, especially common in boxers, English bulldogs, and Doberman pinschers, may predate the development of DCM in some cases. PH stems most often from chronic left heart failure, dirofilariasis, and severe interstitial lung diseases; PH also can be idiopathic (primary) in dogs. PH is very common in dogs with chronic mitral regurgitation (MR) and typically leads to signs of low cardiac output, a progressively louder murmur of tricuspid regurgitation, and signs of right sided failure (ascites and exertional syncope). Pericardial effusion is a frequent cause of heart failure in dogs but often is misdiagnosed. Right-sided CHF, including pleural effusion, can occur in chronic cardiac tamponade. Often cardiac related neoplasia is involved (hemangiosarcoma, chemodectoma, mesothelioma, ectopic thyroid neoplasia). Treatment does not involve drugs but pericardiocentesis often followed by surgical procedures. Cardiac arrhythmias often complicate these disorders and may precede development of heart failure. Tachyarrhythmias, if relentless (as with sustained atrial flutter or reentrant supraventricular tachycardia) induce a reversible decrease in ventricular function, additive to preexisting disease. Bradyarrhythmias such as sinus arrest and atrioventricular block are more often related to primary disease of the conduction system in dogs. Cardiac arrhythmias are considered author elsewhere. Treatments involve drug therapy, pacing, or catheter interventions. The diagnosis of heart disease and the recognition of CHF require a careful clinical examination. No historical findings are diagnostic of CHF. Exercise intolerance can be identified and respiratory signs are common in left-sided CHF. In right-sided CHF, the abdomen may be distended by hepatomegaly and ascites. Auscultation may indicate a heart murmur, arrhythmia, or gallop sound, and the lungs may auscult abnormally. Key radiographic findings of left-sided CHF include left-sided cardiomegaly; pulmonary venous congestion or distension; and pulmonary infiltrates compatible with cardiogenic edema. Pleural effusions also may be evident. A diagnosis of right-sided CHF is usually made from physical examination (jugular venous distention, hepatomegaly, ascites and abnormal auscultation); recognition of cardiomegaly; and echocardiography. The EKG in CHF may delineate cardiac-enlargement patterns or arrhythmias but is too often within normal limits (slow sensitivity). Elevated blood troponin (cTnI) indicates heart muscle injury and high circulating NT-pro-BNP (brain natriuretic hormone) is a marker of canine CHF; there are emerging data

Acquired heart diseases of dogs include chronic degenerative valvular diseases (endocardiosis), pericardial diseases, cardiac neoplasia, dilated cardiomyopathy (DCM), arrhythmogenic cardiomyopathy, pulmonary hypertension (PH), infective endocarditis, and heart rhythm disturbances, some of which represent primary electrical disorders. These conditions can lead to clinical signs of limited exercise capacity, congestive heart failure (CHF), weakness/collapse, or sudden cardiac death. CHF is a clinical syndrome characterized by a cardiac lesion that limits cardiac output, creates arterial under-filling, and evokes maladaptive compensations to restore blood pressure. Most compensatory responses triggered in heart failure, including those of the sympathetic nervous system, renin-angiotensin-aldosterone system, and proinflammatory cytokines, injure heart muscle and blood vessels. Furthermore, CHF is characterized by renal sodium retention that promotes elevated venous pressures behind the failing side of the heart. Effective treatment controls these compensations with multifaceted medical therapy.

CAUSES AND DIAGNOSIS OF HEART FAILURE The most common causes of CHF requiring medical treatment are valvular endocardiosis, DCM, and PH. Valvular endocardiosis is characterized by progressive mitral/tricuspid valvular degeneration and typical murmurs of mitral regurgitation (MR) and tricuspid regurgitation (TR). Atrial arrhythmias, left mainstem bronchus compression, PH, and rarely atrial tearing may complicate the clinical picture. Systemic hypertension from renal or Cushing’s disease increases the regurgitant fraction and represents a comorbid condition. In contrast to endocardiosis, infective endocarditis is a multisystemic inflammatory disorder originating from a cardiac infection and is a relatively rare cause of CHF in dogs. DCM is a primary myocardial disorder caused by an inexplicable loss of myocardial contractility. This idiopathic/genetic disease is often associated with cardiac arrhythmias, such as atrial fibrillation (AF) and ventricular tachycardia (VT). Occult or preclinical DCM refers to the echocardiographic finding of reduced left ventricular (LV) ejection fraction in the absence of CHF. Left- and right-sided CHF as well as sudden cardiac death are common outcomes 41


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slows heart rate. The main indication for digoxin is advanced CHF or CHF with AF where its vagal stimulating effect helps to slow AV nodal conduction and heart rate. Adverse effects of digoxin – anorexia, vomiting, diarrhea, depression, and cardiac arrhythmias – are best avoided by monitoring therapy with a serum digoxin level. Pimobendan (0.2–0.3 mg/kg PO q12h) is a potent, orally administered inotropic drug with vasodilator properties. It is classified as a calcium sensitizer with phosphodiesterase III inhibition. In our practice, pimobendan is combined with furosemide, an ACE-inhibitor, and spironolactone (and sometimes a beta-blocker in LV systolic dysfunction) for management of chronic CHF due to dilated cardiomyopathy or chronic valvular heart disease. Beta-adrenergic Blockers – Beta-blockers, particularly carvedilol, metoprolol (long acting), bucindolol (in clinical trial) and atenolol are increasingly prescribed to protect the heart muscle. The hope is that with chronic use, myocardium will be protected, and LV ejection fraction will improve (as observed in human patients). In canine model studies, beta-blockers are cardioprotective, but this effect was not evident in a preliminary clinical study of dogs with DCM. While beta-blockers should never be used in uncontrolled CHF, gradual dose up-titration is possible in some dogs following stabilization. Dog with advanced heart disease but not yet in CHF tolerate betablockade the reasonably well. Concurrent use of pimobendan in particular seems to offset some of the negative inotropic effects of beta-blockers in dogs with heart failure. Major adverse effects are weakness, hypotension, bradycardia, and worsening of edema or effusions. Antiarrhythmic Drugs – Antiarrhythmic drugs are not used specifically for treatment of CHF. However, in AF heart rate control is usually gained by combination of digoxin plus diltiazem (starting dose of 0.5 mg/kg PO q8h uptitrated to as high as 2 mg/kg PO q8h). Once stabilized, the addition of a beta-blocker (if tolerated) will further slow the ventricular rate response to AF, allowing for a dose-reduction of diltiazem. Both drugs are negative inotropes and must be used carefully. Target in-hospital heart rate is 120-160/minute. Holter monitoring can be done to objectively assess rate control. DC synchronized cardioversion also can be considered, but in our experience is more effective and lasting for dogs without structural heart disease. Management of ventricular arrhythmias in the setting of CHF is very difficult. IV lidocaine (2–4 mg/kg IV boluses to 8 mg/kg; 50 microgram/ kg/minute constant rate infusion) can be used in the hospital, and mexiletine (5–8 mg/kg PO q8h) may be effective if adverse effects (anorexia, vomiting, and tremors) are not severe and t.i.d. dosing is acceptable. Sotalol (1–2 mg/kg PO q12h) is a negative inotrope and best avoided in CHF if possible, but is sometimes the only reasonable choice. Amiodarone is increasingly used (10 mg/kg PO once daily for two weeks; thereafter 4–6 mg/kg PO once daily). However, liver enzymes/function tests and a complete blood count should be followed in dogs receiving amiodarone owing to potential toxicities. Management of rhythm disturbances are discussed in more detail elsewhere.

the use of these tests but still much overlap between cardiac failure and respiratory disease. Azotemia is relatively common in CHF patients, from pre-existing disease or drug therapy. Blood pressure may be low in profound CHF or surprisingly high, indicating a complicating condition of systemic hypertension. Echocardiography is the noninvasive gold standard for diagnosis of heart disease and is very helpful in many cases of suspected CHF.

DRUGS USED IN THERAPY OF CHF A large number of drugs affect heart and vascular functions. Some treatments for CHF are affect ventricular pumping or loading conditions; some demonstrate rapid hemodynamic effects; and others more gradually modulate neurohormonal or inflammatory mediators of CHF (cardioprotective treatments). The clinician should be mindful of the clinical pharmacology of these agents and that most drug use constitutes extra-label prescribing. Diuretics – Diuretics and dietary sodium restriction are critical for management of CHF. Furosemide (2–6 mg/kg IV, IM, SQ, PO) is a potent loop diuretic used firstly for mobilization of edema and chronically to prevent fluid retention (on a b.i.d.–t.i.d. basis). Spironolactone (2 mg/kg PO daily in one or two divided doses) is a cardioprotective and potassium sparring but otherwise very weak diuretic given as cotherapy with furosemide in chronic management of CHF. Adverse effects of diuretics include polydipsia, polyuria, reduction in blood pressure, azotemia, electrolyte depletion, and elevated blood potassium (with spironolactone). Vasodilators/ACE-Inhibitors – The ACE-inhibitors and vasodilators are mainstays of CHF therapy. Venodilation pools blood in systemic veins and reduces venous pressures, while arterial dilation reduces ABP and LV afterload. Mitral regurgitation is usually reduced by arterial vasodilation and lowering of diastolic blood pressure. ACE-inhibitors, including benazepril, enalapril, and ramipril are typically dosed at (0.5 mg/kg once or twice daily, PO; check regional labeling instructions). These drugs also reduce aldosterone and protect cardiac muscle and other tissues. Direct vasodilator drugs include 2% nitroglycerine ointment (¼ to one inch topically q12h), sodium nitroprusside (0.5–5 micrograms/kg/minute with systolic BP titrated to 85 to 90 mm Hg), and sildenafil (0.5–3 mg/kg PO q12h). These drugs are useful for hospital therapy of CHF (nitrates) or management of PH (sildenafil). Amlodipine (0.05–0.1 mg/kg PO q12h in dogs with CHF) is a calcium channel blocker used mostly for intercurrent systemic hypertension. The main adverse effect of all arterial vasodilator drugs is systemic hypotension. Some drugs, including amlodipine and hydralazine (1–3 mg/kg PO q12h), also may cause reflex neurohormonal activation. Inotropic Drugs – The positive inotropic drugs include catecholamines (dobutamine, dopamine), digoxin, and pimobendan. Dobutamine (2.5–10 micrograms/kg/minute) is reserved for dogs with cardiogenic shock (ABP <80 to 85 mm Hg; hypothermia; CHF) and is infused for 24 to 48 hours. Digoxin (0.005–0.0075 mg/kg PO q12h with normal renal function) is a modest positive inotropic drug that also 42


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TREATMENT PLANS FOR CONGESTIVE HEART FAILURE

from catecholamine therapy is similar to that discussed in the previous section. After 24 to 48 hours of dobutamine therapy, reduce the dobutamine rate by 50% every 2–4 hours, and after reaching 1.25 micrograms/kg for 2-4 hours, stop the infusion. Home Therapy of CHF – The transition from hospital to home therapy of CHF usually begins within 24 hours of admission. During that interval, the initial diagnostic workup should have been completed. The typical transition to “Home Therapy”: 1) Parenteral furosemide is replaced with oral furosemide; 2) Oxygen is discontinued; 3) Nitroglycerine is replaced with an ACE-inhibitor; 4) Pimobendan is continued; digoxin is used only for rate control in AF; 5) Spironolactone is initiated mainly for cardioprotection at the time of release or at first follow-up; 6) the client is counseled regarding a sodium-restricted diet and pros/cons of nutriceuticals; and 7) for those dogs with echocardiographic evidence of LV systolic dysfunction, beta-blockade can be considered at the first or second follow up examination, assuming the dog is “dry” and very stable; 8) in special cases of severe PH with symptoms such as exertional collapse, sildenafil is discussed with the owner; and when AF complicates CHF, diltiazem is added to the treatment plan to gain better heart rate control. Strategies for managing refractory edema or ascites include first reviewing and optimizing the dosages of currently prescribed drugs. Pimobendan dosage is generally increased to 0.25 mg/kg PO q8h (extra-label). Client administration of subcutaneous furosemide is suggested (begin by substituting one oral dose of furosemide for a subcutaneous injection, three times weekly then go to every other day if necessary). Alternatively, a low dose of hydrochlorothiazide can be started (1 mg/kg daily or every other day) with monitoring of serum biochemistries within a week (or earlier). Abdominal paracentesis should be done considered to reduce tense ascites. Sildenafil (Viagra®) plus L-arginine supplementation (250 to 500 mg PO three times daily) are offered when severe PH is documented. Drug dosing and adverse effects of all drugs are discussed with the client. Follow up evaluations for dogs with chronic CHF are scheduled initially at 10-14 days after release, then one month later, then every 3 to 4 months if possible. Emphasis is on quality of life (eating, sleeping, walking/mobility, family interaction, resting respiratory rate, and clinical signs of disease or toxicity); physical examination findings; bodyweight; BP; renal function; heart rhythm; and thoracic radiography if respiratory symptoms are still present.

A number of standard treatment approaches that have proven useful for management of established CHF in dogs. More controversial is treatment of asymptomatic valvular disease or cardiomyopathy. Typical Left-Sided CHF – The combination of furosemide, oxygen, nitroglycerine (or sodium nitroprusside) & sedation with butorphanol (0.25 mg/kg IM, repeated in 30 to 60 minutes if needed) followed by oral administration of pimobendan (0.25 mg/kg q12h) represents the initial treatment plan applicable to most cases of CHF regardless of cause. With this protocol, diuresis is initiated; oxygen saturation is increased; ventricular load preload is reduced; the tendency towards pulmonary edema is decreased; myocardial contractility is supported; and anxiety is relieved. If patients are heavily sedated, the torso is positioned in sternal recumbency, the chin supported with a towel or soft pad, and nasal oxygen prongs are inserted for better oxygenation. A relatively high initial furosemide dose (4–5 mg/kg, IV) is administered in cases of severe CHF as renal blood flow may be reduced. Once diuresis ensues, the dose is reduced to 2 mg/kg q8–12h, IV or IM. In life-threatening pulmonary edema, a constant rate infusion of furosemide and afterload reduction with nitroprusside (or oral hydralazine) should be considered. Administration of pimobendan in this acute treatment setting also is helpful, as it is a preload and afterload reducer as well as a potent inotrope. Less-potent and less controllable alternatives to nitroprusside include low dose oral hydralazine (starting at 0.5 to 1 mg/kg q12h) or hospital initiation of an ACE-inhibitor such as benazepril or enalapril (0.25 mg/kg PO, q12h). Cardiogenic Shock – The finding of cardiogenic pulmonary edema or pleural effusion with severe hypotension (ABP <80 mm Hg) and other indicators of low cardiac output (pallor, hypothermia, depression, elevated blood lactate) is highly suggestive of cardiogenic shock. Dogs with CHF due to dilated cardiomyopathy (often Doberman pinschers) represent the typical case of cardiogenic shock. Other potential causes of cardiogenic shock include myocardial infarction and massive pulmonary embolus as might occur following treatment for adult heartworms or after a spontaneous pulmonary embolism. Initial treatment is the same as discussed above with Furosemide-Oxygen-Nitrate-Pimobendan. As these patients are hypotensive and often very depressed, sedation is not often needed. Determine if centesis is necessary, as dogs with cardiogenic shock may have both pulmonary edema and large cavity effusions. Volume infusion is inappropriate to raise ABP in this setting, as it will only worsen edema. In most cases, there is a need to stimulate myocardial contractility to improve pump function and facilitate diuresis. Dobutamine (or dopamine) is administered as a constant rate intravenous infusion, starting at 2.5 micrograms/kg per minute and increasing the infusion every 30 minutes until systolic ABP is 90 mm Hg. The typical endpoint is 5–10 micrograms/kg/minute. Once the ABP is stable (systolic pressure in the 90 to 100 mm Hg range), other vasoactive drugs, either nitroprusside or an ACE-inhibitor, can be added to unload the left ventricle. The approach aside

ASYMPTOMATIC HEART DISEASE Early introduction of CV drug therapy in “preclinical” or “asymptomatic” dogs with heart disease is controversial. Most studies of valvular heart disease have failed to show clear benefit. When there is obvious LV systolic dysfunction by echo or severe remodeling, there is some evidence that cardioprotective drugs may be useful. There is some evidence that early “cardioprotective” therapy is of value to dogs with well defined, occult DCM. In these dogs, an ACEinhibitor such as enalapril or benazepril is initiated at a min43


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imal dose of 0.5 mg/kg daily and more often increasing that to twice daily. Consideration also should be given to the use of a beta-blocker considering these are likely to be well tolerated at this time. Use of inotropic drugs (i.e., pimobendan) is not recommended in this setting unless radiographs indicate that pulmonary edema is imminent, there is demonstrable exercise intolerance, or LV systolic dysfunction is unequivocally reduced (e.g. LV shortening fraction less than ~15%). Large breed dogs with chronic mitral regurgitation and demonstrable cardiomegaly or LV dysfunction are treated as if they have occult DCM. In small dogs with degenerative valvular heart disease, the use of ACE-inhibitors has not proven to delay onset of CHF and beta-blockers and pimobendan as of yet are not sufficiently studied. In the author’s practice, an ACE-inhibitor is only begun if there are other indications (e.g., systemic hypertension, glomerular disease), or if six-monthly interval evaluations indicate a marked increase in cardiac size (either vertebral heart score or echocardiography) or impending CHF. The onset of clinical signs in dogs with advanced valvular endocardiosis is often very gradual but heralded by intermittent coughing related to compression of the left mainstem bronchus between descending aorta and dorsal left atrium with and radiographically normal lung fields. This feature of chronic MR in dogs is not synonymous with left-sided CHF, but can be difficult to distinguish from pulmonary edema from left-sided CHF or from or coughing due to primary airway diseases (tracheal collapse or chronic bronchitis). The author’s approach to management is treatment with enalapril (0.25 mg/kg q12h for one week then 0.5 mg/kg q12h thereafter) and low dose furosemide (1-2 mg/kg PO once daily). In most cases the cough improves if it’s due to bronchial compression (or early CHF). If the cough returns week to months later or if respiratory rate increases at home (>40/min), full CHF therapy (see above) is initiated.

Failure of the cough to respond to diuretic/ace-inhibitor therapy should prompt reconsideration of the diagnosis; in particular, the clinician should rule out chronic bronchitis, other airway diseases (laryngeal disease, tracheal collapse), and pulmonary disorders (pneumonia, neoplasia, heartworm disease, etc.). Sometimes a trial course of doxycycline or prednisone may be useful. Cough suppressants can be prescribed as a last resort for symptom relief.

PROGNOSIS IN CHF The prognosis of canine CHF depends on the cause, severity, and care received. Many dogs survive > 1 year following the first signs of CHF provided they receive optimal veterinary and home care. It may take weeks to obtain optimal stabilization of seriously ill dogs with CHF: not every dog will be well overnight. As patients become well managed, other problems may become evident. Some dogs with chronic left-sided CHF appear to develop pulmonary fibrosis at an accelerated rate – this should be recognized, not misdiagnosed as uncontrolled CHF (usual findings are tachypnea + crackles + “clear lung fields” radiographically). Dogs with chronic airway disease (tracheal or primary bronchus collapse, chronic bronchitis) may become symptomatic due to these diseases requiring other treatments for control. Development of chronic renal failure is a poor prognosis, especially if diuretic dosages cannot be reduced due to fluid accumulation.

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Management of cardiac arrhythmias John D. Bonagura DVM, MS, Dipl ACVIM (Cardiology, Internal Medicine) Ohio, USA

SINUS RHYTHMS

tricular responses of 300 to 400 per minute! In 2:1 AV conduction of atrial tachycardia or flutter, the rate may suddenly double or half as the conduction ratio (P’:QRS) changes. Subtle electrical alternans is a common finding in regular SVTs regardless of mechanism. This finding may help to separate a pathologic SVT from a “fast” sinus tachycardia (wherein alternans is uncommon). Supraventricular tachyarrhythmias also can be conducted with bundle branch block, and the resultant QRS complexes can be confused with PVCs or ventricular tachycardia (VT). Recurrent atrial premature complexes or atrial tachycardia are often treated with drugs that suppress ectopic rhythms, including lidocaine (acutely), sotalol, and amiodarone. When efforts to suppress these ectopics fail, ventricular rate control is the goal. When atrial tachyarrhythmias are associated with CHF, digoxin is chosen first, but otherwise, diltiazem or a beta-blocker are more effective for rate control, and sometimes these drugs will convert the rhythm back to sinus. Combined therapy with digoxin and diltiazem is often used in chronic AF associated with CHF. Synchronized DC cardioversion of atrial flutter/fibrillation is another approach, particularly in dogs with lone atrial fibrillation. Amiodarone or sotalol are often prescribed after cardioversion to maintain sinus rhythm. These drugs should be continued for at least three months if possible to prevent reversion to atrial fibrillation; however, amiodarone therapy can lead to severe hepatotoxicity in dogs. Reentrant SVTs employ circuits that develop at the micro and macro levels. The best characterized in dogs use a circuit involving the atria, AV node, and an accessory AV pathway that bypasses (or longitudinally separates) the AV conduction system. The tachycardia is often triggered by a sudden change in sinus cycle length, a premature atrial or ventricular complex. In most cases the circuit is “orthodromic”; down the AV node with an associated normal (narrow) QRS. Retrograde P’-waves may be identified in the ST segment (an R–P’). In some dogs periods of sinus rhythm are associated with ventricular pre-excitation, a helpful clue to the presence of an accessory pathway. Pre-excitation is characterized by a short PR interval and early ventricular activation (the delta wave) with wide QRS and T-waves. Management of reentrant SVT is done with drugs initially (diltiazem and procainamide can be tried), but referral to a specialist for catheter ablation of the accessory path is the best treatment. Atrial standstill indicates that the atrial muscle is inexcitable. This condition is caused transiently by high serum potassium or persistently by atrial muscle disease or severe

Physiologic rhythms during routine exam include normal (regular) sinus rhythm and sinus arrhythmia. Sinus rhythm disorders are often due to high vagal or sympathetic tone; any patient with sinus bradycardia or tachycardia should be evaluated with this in mind. Additionally, drugs, anesthetics, temperature, and endocrine status (thyroid or adrenal) can affect sinus node rate. Dogs with respiratory disease can show pronounced sinus arrhythmia with wandering pacemaker; the short cycles can resemble premature atrial complexes. Management of sinus rhythm disturbances is focused first on treating any underlying conditions. Occasionally inappropriate sinus tachycardia is treated with a beta-blocker. Sinus bradycardia can be treated in the hospital with atropine or glycopyrrolate. Chronic, progressive, sinus node dysfunction is common in miniature Schnauzers, West Highland white terriers, and cocker spaniels. Insufficient escape activity may result in collapse or syncope (“sick sinus syndrome”). The best long-term therapy for this syndrome is not drugs like anticholinergics or terbutaline but permanent transvenous pacing. Pacemaker programming is critical for optimal system performance (e.g. VVIR mode) and longterm outcomes are generally excellent.

SUPRAVENTRICULAR ARRHYTHMIAS Supraventricular rhythm disturbances are among the most common and difficult of all ECG diagnoses. These arrhythmias include premature atrial complexes, atrial tachycardia, atrial flutter, atrial fibrillation (AF), re-entrant supraventricular tachycardia (SVT), and atrial standstill. Supraventricular arrhythmias can be transient, recurrent, or permanent. In most cases, recurrent or permanent arrhythmias are caused by structural heart diseases associated with congenital, chronic valvular, myocardial, or pericardial disease. Some giant canine breeds develop chronic atrial arrhythmias without overt structural disease. Lone AF in Irish wolfhounds is an example. The ventricular rate response in a SVT is determined by the type of arrhythmia and AV conduction: the ventricular response can be slow or fast; regular or irregular. In high-sympathetic states, AV conduction of supraventricular arrhythmias can be very rapid, as with AF in the setting of congestive heart failure (CHF). Organized, regular SVT associated with atrial tachycardia, atrial flutter or re-entrant SVT often induce ven45


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atrial dilation (in cats). In these cases, no P-waves are evident (atrial standstill) or very tiny, non-conducted or broadlow amplitude P waves are evident. Persistent standstill is most common in English Springer spaniels, but can also occur in larger retriever breeds. In cats apparent atrial standstill can be observed with severe forms of cardiomyopathy.

ECG diagnosis of PVCs or of VT is generally straightforward. In many cases a full workup including drug history, history of clinical signs (weakness, collapse or syncope), Echo findings, laboratory tests (CBC, chemistries, serum troponin-I), and abdominal ultrasound may be needed to determine the likely cause and significance. The Holter ECG can help assess the severity of ventricular arrhythmias, complexity of the complexes, and response to therapy. The absolute number of “normal” PVCs (not simply ectopics) per day is controversial, but in the author’s (arbitrary) opinion >10/day in cats and >50/day in dogs should be considered abnormal. Day to day variation is common (up to ~85%) and this must be taken into account when considering both severity and “response” to any treatment. Management of ventricular ectopic rhythms involves determining the most likely cause, advancing an educated guess about the clinical significance, considering the need for therapy, and possibly choosing one or more drugs. All antiarrhythmic drugs carry the potential for side-effects and worsening of the arrhythmia (proarrhythmia). Lidocaine remains the drug of choice for acute management, with IV procainamide, esmolol, magnesium salts, and amiodarone as back up treatments. For chronic therapy, sotalol is generally the best tolerated (except for negative inotropic effects in CHF), but it not always as effective as mexiletine plus sotalol, mexiletine plus atenolol, or amiodarone. Amiodarone deserves respect, especially in terms impairing liver function.

VENTRICULAR ARRHYTHMIAS Arrhythmias arising in the ventricle parallel those of the atria in terms of nomenclature. But there are important differences: 1) the AV node need not be activated to generate a QRS complex, and 2) there is greater potential for sudden death if the rhythm degenerates to ventricular fibrillation or asystole. Idioventricular “escape” complexes are rescue mechanisms for sinus node arrest or AV block and should not be suppressed. The typical idioventricular rhythm in the dog discharges at 20 to 40/minute, but in the cat the rate is much faster, approaching 130/minute in many cats with complete AV block. Premature ventricular complexes (PVCs, VPCs) arise early, and can be uniform or multiform in morphology. A fusion complex between a PVC and a sinus impulse also can create intermediate QRS forms and are less serious. Ventricular tachycardia (VT) can be “slow” or “fast”; paroxysmal or sustained (>30 secs); monomorphic or polymorphic; or rapidly varying in orientation (torsade de pointes). The ventricles also can flutter (producing sine waves), or fibrillate (a disorganized and lethal activation). In very sick animals or in those with CHF, death can occur from asystole, which is essentially ventricular standstill. Clearly PVCs are among the most common rhythm disturbances. Causes include primary electrical or structural heart diseases, electrolyte and metabolic disturbances, autonomic imbalance, drugs, toxins, and the “usual suspects”, such as splenic masses and gastric dilatation. It can be difficult to decide if PVCs are “clinically significant” or not, but the issue is important. For example, most cats with chronic ventricular ectopy have structural heart disease (cardiomyopathy) or an elevated serum troponin suggestive of active myocardial injury or myocarditis. A Doberman pinscher (at least one from North America) with PVCs on a routine ECG is likely to progress towards overt dilated cardiomyopathy. Furthermore, when an ECG demonstrates even a few PVCs in a Doberman pinscher that has collapsed or fainted, the risk of sudden cardiac death within the year is very high. Such information may prompt antiarrhythmic therapy, recognizing that there is no proof treatment will prolong life. Conversely, some boxers have PVCs for years without signs and are best assessed by history and ambulatory (Holter) ECG monitoring.

CONDUCTION DISTURBANCES In addition to sick sinus syndrome, persistent atrial standstill, and ventricular pre-excitation (each discussed above), conduction disturbances include the AV blocks; bundle branch blocks, and intraventricular conduction disturbances. The AV blocks are classified as first, second (Mobitz I, Mobitz IIA and IIB), and complete (third-degree block). Treatment of symptomatic AV blocks generally involves referral for permanent pacing. Single or dual chamber pacing systems can be used, depending on a variety of patient and technical factors. Longterm prognosis depends mainly on etiology of the bradyarrhythmia (best prognosis for SSS and AV block without other structural diseases and worst for persistent atrial standstill). Persistent bundle branch block or phasic aberrant ventricular conduction can be encountered in structurally normal hearts or in those with disease of the bundle branches.

Address for correspondence: John D. Bonagura Veterinary Clinical Sciences, The Ohio State University Columbus, Ohio, USA

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Update on feline cardiomyopathy John D. Bonagura DVM, MS, Dipl ACVIM (Cardiology, Internal Medicine) Ohio, USA

INTRODUCTION

is typical of advanced hyperthyroidism in cats. Other conditions including severe anemia, volume overload, and chronic bradycardia can also lead to CHF in cats. Systemic hypertension counts the heart as a target, along with the brain, eyes, kidneys, and small arterioles. Clinical signs are typically related to another target organ, but cardiac signs including gallops, murmurs, and CHF can occur. LV hypertrophy may resolve in part with effective controll of blood pressure (BP).

Myocardial diseases are the most important causes of heart murmurs, gallop sounds, arrhythmias, cardiomegaly, congestive heart failure (CHF), arterial thromboembolism (ATE), and sudden cardiac death (SCD) in cats. Cardiomyopathies are classified based on morphology and function of the ventricles, etiology, and associated functional disturbances. Both primary (idiopathic, genetic) and secondary myocardial diseases are encountered. Hypertrophic cardiomyopathy (HCM) is a genetic disorder characterized by thickening of the left ventricle (LV). This hypertrophy is unexplained by congenital heart disease, hypertension, or endocrinopathy. The pattern of ventricular thickening, ranging from focal to segmental to concentric, can be demonstrated by high quality 2D echocardiography. Functional consequences include variably: dynamic LV midventricular and outflow tract obstruction, mitral regurgitation, and ventricular diastolic and systolic dysfunction. Restrictive cardiomyopathy (RCM) in the cat represents a heterogeneous disorder, and some prefer the term unclassified cardiomyopathy (UCM). The key pathologic features are diffuse or multifocal myocardial fibrosis and striking left atrial dilation. The latter is probably a consequence of diastolic stiffness and LV systolic dysfunction. Arrhythmias are common. The pathogenesis or RCM is uncertain, but prior myocarditis or “burned out” HCM are likely causes. Other types of cardiomyopathy (CM) are recognized. Dilated cardiomyopathy (DCM) is uncommon today. Taurine deficiency can cause DCM in cats, but most cases are idiopathic or due to myocarditis. Nonsuppurative endomyocarditis occurs sporadically in cats. Some cats manifest ventricular arrhythmias and other dies suddenly or develop progressive RCM, CHF, or thromboembolism. Diagnosis is difficult, but entertained when cardiac signs are coupled with markedly elevated blood troponin and imaging studies exclude HCM or RCM. Right ventricular cardiomyopathy has been observed in cats, characterized by extensive fibrofatty replacement of the RV myocardium. The clinical findings are results of right-heart failure, tricuspid regurgitation, arrhythmias, and pleural effusion with chylothorax. Ascites have been observed Secondary cardiac hypertrophy associated with thyrotoxicosis is likely multifactorial, related to the hypermetabolic state, peripheral vasodilation, increased demands for cardiac output, sympathetic activation, systemic hypertension, and direct hormonal effects on myocardium. Biventricular CHF

CLINICAL EVALUATION OF CARDIOMYOPATHY Risk factors for HCM include feline breed and genetic mutations for which there is limited testing available. CHF can be precipitated by stress, treatment with long-acting corticosteroids, anesthesia, or intravenous fluid therapy. Common signs of cardiomyopathy are murmur, gallop, findings of CHF, or signs of ATE. SCD may occur. Laboratory studies of use may include the CBC, serum biochemistries, thyroxine, creatine kinase, and cTnI. The role of plasma NTproBNP for predicting a diagnosis of heart disease is evolving. The ECG carries a low negative but higher positive predictive value for diagnosis of heart disease. Radiographs are most useful when there are respiratory signs or suspicion of CHF. Echocardiography is the method of choice for assessing cats with cardiomyopathies and Doppler studies can show diastolic heart failure and estimate the risk for CHF. Left atrial size and auricular contractile function are particularly critical when assessing short-term prognosis and risks for CHF or ATE.

THERAPY OF FELINE CV DISEASES Most treatments for feline myocardial diseases have evolved empirically and are based on clinical experience with no published trial data available. Treatment of preclinical HCM is controversial. Clinicians often use beta-blockers, diltiazem, ACE inhibitors, spironolactone, aspirin, and clopidigrel in asymptomatic cats with HCM; however, there are no data to show clear clinical benefit in terms of major outcome events (CHF, ATE, SCD). Atenolol is often used in cats with LV outflow tract (LVOT) obstruction and is superior to diltiazem for slowing heart rate, reducing obstruction, and decreasing 47


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one month of stable medical therapy, cautious up-titration of atenolol may be initiated to reduce the gradient. Alternatively, diltiazem may be added if deemed useful for ventricular diastolic function. Rutin (250 mg q12h) is prescribed when there is chylothorax. The extralabel use of the inodilator pimobendan (~0.25 mg/kg PO q12h) provides an additional treatment approach for some cats with chronic CHF. Digoxin is rarely used today. Famotidine (2.5 to 5 mg once or twice daily for one to two weeks) represents an empirical treatment for cats with partial anorexia. In general, progressive azotemia indicates the effects of diuretics plus an ACE-inhibitor, and when possible, the dosages should be reduced. A number of approaches have been used when prevention of ATE is deemed important, especially in cats with LA>19 mm; echogenic LA smoke; poor LA contractility (velocity <0.2 m/s); or prior embolic event. Possible drugs include: aspirin (~10 mg daily combined with clopidogrel 18.75 mg daily; or 81 mg aspirin q72h if used alone). More aggressive treatement involves enoxaparin or dalteparin (100 Units/kg once or twice daily, SQ) with or without microdose aspirin or clopidogrel. Management of ATE demands high quality critical and nursing care. Strong analgesia is needed for 24–48 hours. We use a fentanyl CRI (1 to 5 mcg/kg/hour); buprenorphine is an alternative. Very small doses of acepromazine (0.025 mg/kg subcutaneously if BP is >100 mm Hg) will sedate the cat. Heparin is administered (300 units/kg IV, then 150 to 200 U/kg SQ q8h for 48–72 hours). Aspirin (one 81 mg dose) can be given if the cat presents within 3 hours of the embolic event. The cat should be monitored for fatal hyperkalemia from potassium leaked from necrotic muscles. Most cats that improve are better within 72 hours of admission. Frequent follow up is needed to prevent limb injury or contraction in a nonfunctional position. Cardiac arrhythmias can complicate cardiomyopathies in some cats. Isolated atrial or ventricular premature complexes are left untreated. Ventricular tachycardia is managed with either lidocaine, atenolol, or sotalol. Negative inotropic effects may limit the application of these beta-blockers. Diltiazem is an effective blocker of AV nodal conduction and represents an excellent choice for rate control in cats with atrial fibrillation or SVT. The best outcome in treating hypertensive heart disease involves managing systemic hypertension to prevent target organ injury. Amlodopine (¼ of a 2.5 mg tablet once or twice daily) is the drug of choice; an ACE-inhibitor such as benazepril (0.5 mg/kg/day) can be useful for mild hypertension or a cotherapy in cats with hypertension and primary renal disease.

intensity of murmurs. Atenolol and diltiazem each reduce myocardial oxygen demand and prolong ventricular filling time. Diltiazem may improve diastolic function in some cats, but clinical benefit is unproven. Atenolol has a lower side-effect profile (compared to diltiazem). Atenolol dosing is based on exam heart rate (target: 120-160/min). Betablockers are contraindicated in hypotension, bradycardia, thromboembolism, and CHF of recent onset. When HCM is associated with significant left atrial dilation (>19 mm diameter by 2D imaging) either benazepril or enalapril (0.25 to 0.5 mg/kg PO daily) is prescribed by the author. The author also treats these cats with antithrombotic medications (see below) and doses of atenolol that do not lead to bradycardia or impair auricular contractile function on Doppler studies. Combining atenolol and diltiazem can cause bradycardia and hypotension and generally is not recommended. Treatment of acute CHF in cats begins with gentle handling. Most cats are managed successfully with the F-O-N-S regimen: Furosemide is administered (2 mg/kg IV, IM initially); Oxygen is delivered by cage oxygenator; Nitroglycerin (2%) ointment is administered for venodilation (¼ inch) and Sedation is induced with butorphanol (0.25 mg/kg IM or SQ; it can be mixed with acepromazine dosed at 0.025 to 0.05 mg/kg, provided rectal temperature >100 degrees F and blood pressure >100 mm Hg). Thoracocentesis is performed for moderate to large pleural effusions are present. The cat with cardiogenic shock (hypothermia, bradycardia, systolic ABP <70 mm Hg) is often suffering from an acute ischemic myocardial injury. These cats are treated with passive warming and IV dobutamine infusion for 24 to 48 hours (regardless of type of CM). Dosing is initiated at 2.5 micrograms/kg/minute and increased to between 5 to 10 micrograms/kg/min). The final infusion rate targets a rectal temperature of >100o, heart rate >180/minute, and systolic ABP >90 mm Hg. The dose is reduced by 50% every 2-3 hours before discontinuing the drug. Furosemide is given for CHF and an ACE-inhibitor is started once ABP exceeds 90 mm Hg. Cats can survive with aggressive treatment. Home therapy of chronic CHF due to CM centers on furosemide (1 to 2 mg/kg, PO once or twice daily), combined with an ACE-inhibitor such as benazepril or enalapril (0.25 to 0.5 mg/kg, PO once or twice daily). Occasionally furosemide is given subcutaneously on a regular schedule (1 mg/kg SQ once to three times weekly in place of an oral dose) for poorly responsive pulmonary edema or pleural effusion. Spironolactone (6.25 mg, once daily) can be given for possible cardioprotection and potassium sparring effects (beware: anorexia, skin lesions). Atenolol and diltiazem should not be administered to cats with recent onset CHF. When CHF develops in a cat with HCM receiving chronic atenolol or diltiazem therapy, the daily dosage is reduced by 25% to 50%, but the blocker is not stopped unless the cat shows cardiogenic shock. In cats with clearly defined dynamic outflow obstruction, after

Address for correspondence: John D. Bonagura Veterinary Clinical Sciences, The Ohio State University Columbus, Ohio, USA

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La semplicità della diagnosi: un approccio orientato al problema La complessità del trattamento: gli errori più frequenti I nostri errori professionali: le azioni legali per imperizia, negligenza e imprudenza Dea Bonello Med Vet, Spec Rad Vet, Dipl EVDC, Torino

ATTI NON PERVENUTI

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Errori interpretativi e operativi in endoscopia dell’apparato gastroenterico Enrico Bottero Med Vet, Cuneo

L’esame endoscopico del tratto digerente è una metodica diagnostica e terapeutica attualmente disponibile nella maggior parte delle strutture veterinarie. Gli errori nella sua applicazione possono essere divisi in tre categorie: errori di impostazione, errori interpretativi ed errori operativi. In questa relazione la descrizione degli errori più frequenti seguirà la localizzazione anatomica. L’esofagoscopia è un’indagine rapida e semplice. I disturbi della motilità e segnatamente il megaesofago sono una patologia che va diagnosticata mediante esame radiografico. Emettere una diagnosi di megaesofago solo in base al riscontro endoscopico è un grave errore di impostazione in quanto la condizione anestesiologica altera sempre la funzionalità fisiologica dell’esofago. Nei cani brachicefali inoltre l’esofago è normalmente più tortuoso e dilatato, questo può trarre in inganno l’operatore inesperto e far così ipotizzare un diverticolo esofageo. Nei cani adulti, affetti da megaesofago congenito, la progressiva dilatazione che si verifica nell’esofago in porzione precardiaca non deve essere confusa o diagnosticata come diverticolo. L’ernia iatale è una patologia infrequente che non è facile diagnosticare, soprattutto quando è intermittente; l’esame endoscopico non è sempre esaustivo e nella maggior parte dei casi evidenzia solo un’esofagite precardiale. Quindi la mancata evidenziazione dell’ernia non permette di escluderla, questo sarebbe infatti un falso negativo. Nel gatto durante la premedicazione può verificarsi un’emesi farmacoindotta, l’esame endoscopico successivamente eseguito può rilevare pliche gastriche nell’esofago toracico. L’interpretazione di questa condizione come ernia iatale o intussuscezione gastro-esofagea è un grave errore interpretativo. I corpi estranei esofagei sono una patologia grave che va rapidamente affrontata mediante approccio endoscopico ed eventualmente chirurgico. Il principale errore di impostazione consiste nell’affrontare tale situazione senza una corretta strumentazione ancillare. Il principale errore operativo consiste nell’applicare una forte forza traente sul corpo estraneo senza prima averlo dislocato correttamente e completamente. Durante la manovra è poi necessario monitorare sempre l’iperinsufflazione gastrica che può compromettere la capacità respiratoria del paziente. L’esame endoscopico dello stomaco si può eseguire sia nel cane che nel gatto; con la tecnologia attualmente a disposizione del medico veterinario l’attraversamento del piloro è possibile in tutti i pazienti di ogni razza e dimensione. La non esecuzione di tale manovra deve essere considerata un errore. La stenosi pilorica è una patologia estremamente rara, ma che deve essere tenuta presente in caso di mancato attraversamento del piloro. In cor-

so di tale patologia anche attraversare lo sfintere con la pinza bioptica può essere difficoltoso. Non bisogna confondere questa patologia con il piloro spasmo. Questa condizione è frequentemente rilevata in corso di endoscopia ed è una normale contrazione reattiva della muscolatura pilorica. Le biopsie duodenali vanno sempre eseguite, anche facendo passare alla cieca la pinza oltre lo sfintere pilorico. Le biopsie dello stomaco devono essere numerose ed eseguite con pinze di forma e dimensione adeguata. Ci sono lesioni gastriche, che macroscopicamente sono suggestive di una diagnosi: ad esempio le ulcere gastriche a margini rilevati localizzate nel terzo distale sono frequentemente di origine neoplastica. L’operatore deve comunque eseguire numerose biopsie per ottenere la conferma istologica. Il prelievo bioptico va eseguito sempre sui margini della lesione e non nella porzione centrale che potrebbe essere necrotica. Biopsare questa porzione potrebbe non essere diagnostico oltre che indurre una perforazione. Il leiomioma o leiomiosarcoma gastrico possono non essere diagnosticati mediante biopsia mucosale, quindi in corso di lesioni compatibili o sospette è possibile eseguire ago infissioni sottovisione che bypassino la mucosa. Inoltre in questi casi è consigliabile eseguire una biopsia a pieno spessore mediante tecnica chirurgica. L’asportazione dei corpi estranei gastrici è una frequente applicazione dell’endoscopia. In caso di corpi estranei di tessuto per una corretta asportazione è necessario utilizzare pinze dormia in quanto l’uso di pinze a coccodrillo o a dente di topo può indurre strappamento del tessuto che è imbibito dal contenuto liquido gastrico. In caso di corpo estraneo ostruente il piloro la gestione del paziente deve essere chirurgica in quanto non è endoscopicamente possibile stimare la condizione intestinale. I corpi estranei taglienti devono essere asportati rapidamente e sempre sotto visione, a volte è possibile usare un sovra tubo per proteggere il cardias o l’esofago durante la manovra estrattiva. Le biopsie duodenali sono una manovra diagnostica fondamentale che si rende necessaria al termine dell’iter diagnostico. La diagnosi di IBD ( inflammatory bowel disease) non può infatti prescindere dall’esame istologico. Recentemente sono stati pubblicati dalla WSAVA dei criteri diagnostici, operativi ed istologici che hanno l’obiettivo di uniformare l’approccio clinico alla malattia infiammatoria intestinale. Le biopsie duodenali devono essere eseguite utilizzando le pinze di maggior dimensioni possibili, questo agevola il campionamento di maggior tessuto istologicamente valutabile. La biopsia deve essere eseguita ponendo la pinza endoscopica il più perpendicolarmente possibile rispetto alla mucosa, questo agevola 50


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il campionamento anche delle porzioni mucosali più profonde. In un recente articolo viene considerata esaustiva una biopsia che comprenda almeno 3 villi intestinali integri fino alla muscolaris mucosae. Un limite di molti prelievi eseguiti con tecnica scorretta è il campionamento solo degli apici villari, questo non permette al patologo di valutare le alterazioni strutturali della mucosa e quindi rende vano tutto l’iter diagnostico. Anche il numero di biopsie è importante in quanto maggiore è la qualità delle biopsie minore è il numero necessario, ma per definire le condizioni patologiche più gravi ed infrequenti sono necessarie biopsie più numerose. Un recente articolo pone l’accento sulla necessità di eseguire anche biopsie dall’ileo e non solo dal duodeno. Ci sono per ora solo pochi dati, ma è condivisibile che maggiore sia l’area esplorata maggiori siano le informazioni ottenibili; quindi va considerato un errore operativo il mancato campionamento dell’ileo in tutti i casi in cui ci sia diarrea sia del grosso che del piccolo intestino. Inoltre nei casi in cui la condizione clinica e le alterazioni laboratoristiche fanno ipotizzare un coinvolgimento ileale le biopsie andrebbero eseguite. La strumentazione attualmente disponibile in endoscopia permette l’esplorazione ileale sia nel cane che nel gatto. Nei felini l’attraversamento della valvola ileo-colica è decisamente più agevole che nel cane. La colonscopia è un’indagine che viene spesso eseguita per ricercare cause di ematochezia; se il colon non è adeguatamente preparato l’operatore commette un errore operativo in quanto potrebbe non individuare la causa del sanguinamento. Quindi accettare di eseguire l’indagine può essere considerato un errore preanalitico. In corso di diarrea cronica del grosso intestino

è utopistico esaminare un colon pulito; in questo frangente l’obiettivo è il campionamento mucosale diffuso, quindi l’operatore può eseguire l’indagine anche in assenza di una pulizia completa. L’asportazione dei polipi rettali o colici mediante ansa è una manovra semplice ed eseguibile, ma solo con la certezza che l’istotipo della neoformazione sia benigno, altrimenti è sempre da preferirsi l’asportazione per via chirurgica che garantisce una migliore e più ampia escissione.

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Indirizzo per la corrispondenza: Bottero Enrico Clinica Veterinaria Albese per Animali da Compagnia botvet@alice.it - 017335122

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Patologie respiratorie del gatto: come l’endoscopia ci aiuta nell’iter diagnostico corretto Enrico Bottero Med Vet, Cuneo

La rinosinusite cronica felina è una patologia molto frequente e frustrante sia per il veterinario che per il paziente. Il Calicivirus (FCV) e l’Herpevirus (FeHV) sono i due principali agenti eziologici; nei pazienti giovani la diagnosi viene emessa sulla base dei segni clinici che tipicamente sono: scolo nasale, sternuti, congiuntivite e ulcerazione del cavo orale. L’esame endoscopico può evidenziare flogosi, iperemia e materiale catarral-purulento; in alcuni casi si rileva aumento dello spazio respiratorio. L’esame istologico da biopsia endoscopica conferma e descrive la condizione flogistica cronica, ma non individua gli agenti eziologici causativi. La poliposi nasale del gatto è una patologia infrequente la cui fisiopatologia non è conosciuta con certezza. Colpisce per lo più soggetti giovani, di età inferiore ad un anno ed è stata segnalata soprattutto in Italia. Il gatto affetto può presentare scolo nasale anche ematico, sternuti, deformazione del profilo fronto-nasale ed anche protrusione della neoformazione dalla narice. L’esame endoscopico rileva tessuto neoformato di colore rosso vinoso, costituito da tessuto fibroso misto a cisti a contenuto siero-ematico che facilmente si sfaldano. Può essere colpita solo una delle due cavità nasali ed il tessuto polipoide si può estendere anche al rinofaringe. Seppur l’aspetto endoscopico sia suggestivo, è sempre necessario avere una conferma istologica dopo adeguato prelievo bioptico. La presenza di coaguli ematici potrebbe macroscopicamente mimare la poliposi nasale. I polipi rinofaringei sono neoformazioni benigne; colpiscono per lo più gatti di giovane età, senza predisposizione di razza o sesso. I polipi si sviluppano in prossimità dell’apertura interna delle trombe di Eustachio e viene ipotizzato che l’occlusione di queste ultime sia una condizione predisponente al loro sviluppo. Queste neoformazioni possono accrescersi in direzione dell’orecchio medio, dell’orecchio esterno e, meno frequentemente, del rinofaringe; a volte sono contemporaneamente presenti in più sedi. I segni clinici sono influenzati dalla sede di accrescimento e comprendono: otite esterna, otorrea, otite media, manifestazioni neurologiche e segni respiratori come scolo nasale, stertore e dispnea. L’esame endoscopico per via anterograda può evidenziare rinite, iperemia, materiale muco-catarrale o anche normalità. Le cavità nasali possono essere, o meno, colpite da infezione secondaria alla presenza del polipo rinofaringeo. La valutazione del rinofaringe permette di evidenziare il polipo. In alcuni casi possono evidenziarsi due o tre neoformazioni, mentre in altri il polipo è completamente ostruente il rinofaringe. Questi soggetti sono quelli clinicamente più compromessi con respirazione a bocca aperta e tendenza alla dispnea. In que-

sti casi l’apertura del cavo orale permette la visualizzazione diretta del polipo, che appare come rigonfiamento teso del palato molle in direzione ventrale. L’asportazione del polipo mediante pinza endoscopica non è di facile esecuzione; in quanto i polipi hanno una consistenza fibrosa; è quindi consigliabile utilizzare la tecnica tradizionale mediante pinza curva e trazione. La biopsia endoscopica può essere utile nei casi dubbi per discriminare tra una condizione polipoide benigna ed una neoplastica. Le neoplasie nasali nel gatto sono maligne in circa il 90% dei casi. Nel gatto il linfoma è la neoplasia più frequente mentre carcinomi e sarcomi sono più rari. Il decorso clinico è tipicamente lento ed insidioso, in quanto nelle prime fasi la condizione clinica appare migliorare con la terapia antibiotica ed antiinfiammatoria. I tumori nasali hanno la caratteristica di essere localmente molto aggressivi, ma di avere un basso indice metastatico. Nelle fasi avanzate è possibile vedere deformazione frontonasale, invasione del sistema nervoso centrale, distruzione del setto nasale e coinvolgimento dei linfonodi sottomandibolari, prescapolari etc.. Le micrometastasi sonno spesso presenti fin dall’inizio, ma tendono a rimanere subcliniche anche diversi mesi dopo. Inoltre i segni clinici sono sovrapponibili alla maggior parte delle rinopatie croniche: scolo nasale unilaterale, epistassi, sternuto, diminuzione del flusso d’aria e, meno spesso, deformazione del profilo fronto-nasale, stertore, esoftalmo ed epifora. La diagnosi di neoplasia endonasale si avvale con successo della diagnostica per immagini, ma non può prescindere dall’esame istopatologico. L’esame tomografico è sicuramente più sensibile della rx per individuare invasione della lamina cribrosa, dell’osso orbitale e per valutare l’estensione della massa; imprescindibile per una corretta stadiazione prechirurgica. L’esame endoscopico è la tecnica di elezione per la diagnosi di neoplasia endonasale; permette infatti la diretta visualizzazione della neoformazione ed anche l’esecuzione di prelievi multipli. Le biopsie endoscopiche possono essere eseguite mediante pinza inserita nel canale di lavoro oppure utilizzando pinze fatte passare esternamente all’endoscopio ed utilizzate poi sotto visione endoscopica. Il vantaggio di questa metodica è che permette la raccolta di campioni di maggiori dimensioni, anche se può indurre copiosi sanguinamenti. Non esiste un aspetto macroscopico caratteristico per i diversi istotipi neoplastici. Nel gatto anziano è poi relativamente frequente il riscontro di neoplasia linfoide localizzata esclusivamente nel rinofaringe, questi soggetti possono presentare scolo nasale, sternuti e soprattutto stertore. In questi soggetti è necessario eseguire la biopsia per via endoscopi52


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ca, tramite strumento flessibile, che deve avere un canale di lavoro sufficiente per un prelievo sottoponibile ad esame istologico (2 mm.). Infatti non sempre il rinofaringe di gatto è raggiungibile per via anterograda. La stenosi rinofaringea del gatto è una condizione patologica rara. È stato ipotizzato che tale patologia sia una conseguenza di pregresse condizioni infiammatorie nasali e rinofaringee; non si evidenzia correlazione tra le malattie infettive retro virali e la stenosi rinofaringea. L’età di insorgenza dei sintomi o comunque il momento in cui questi soggetti sono condotti alla visita può essere molto variabile. Il sintomo principale delle stenosi è lo stertore, provocato dal passaggio forzato dell’aria inspirata ed espirata attraverso un rinofaringe ridotto. L’esame radiografico può evidenziare la deviazione dorsale del palato molle o una radiopacità tissutale dorsalmente al palato molle. In corso di stenosi rinofaringea l’endoscopia permette una diagnosi rapida e certa. La terapia della stenosi può essere chirurgica, endoscopica o una associazione delle due tecniche. La terapia tramite dilatazione pneumatica è minimamente invasiva ed efficace sia per via anterograda che per via retrograda. I fattori prognostici negativi sono le piccole dimensioni o l’occlusione completa della stenosi, l’età avanzata dei soggetti colpiti e la cronicità dei segni clinici. Vista la tendenza alla recidiva è consigliabile eseguire dilatazioni seriali. La paralisi laringea nel gatto è un disturbo funzionale raro, esistono una forma congenita ed una acquisita; quest’ultima è la più frequente. I segni clinici variano da alterazioni della vocalizzazione e impossibilità di fare le fusa a gravi crisi dispnoiche. Anche nel gatto l’esame endoscopico è l’ausilio diagnostico più efficace per rilevare la mancata

abduzione delle cartilagini aritnoidi. A livello laringeo si possono rilevare anche neoformazioni sia di natura benigna, come i granulomi, che maligna. Tra queste il linfoma ed il carcinoma squamo cellulare sono gli istotipi più frequenti. La trachea può essere sede di processi infiammatori ed ostruttivi. I corpi estranei rappresentano una vera e propria urgenza clinica e l’esame endoscopico può essere risolutivo se eseguito con tempestività e con attrezzatura adeguata. Le neoformazioni endotracheali possono essere sia di natura benigna che maligna. il soggetto colpito può presentarsi alla visita con grave dispnea inspiratoria. L’esame endoscopico permette di eseguire un prelievo bioptico, diagnosi e stadiazione, ma anche di asportare la neoformazione sotto visione mediante anse da polipectomia. Le patologie infiammatorie delle vie aeree inferiori nel gatto sono una condizione clinica frequente; l’asma felino viene sospettato sulla base dei segni clinici e della risposta alla terapia, ma la conferma diagnostica richiede l’esecuzione di un lavaggio bronco-alveolare e l’individuazione di flogosi eosinofilica. L’esame endoscopico risulta un utile e sicuro ausilio diagnostico per questi obiettivi; inoltre in alcuni casi può avere anche un ruolo operativo in caso di corpi estranei. In corso di condizioni neoplastiche focali o diffuse il lavaggio bronco-alveolare raramente identifica la patologia primaria.

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Rigurgito e vomito: due sintomi simili per patologie diverse. Approccio clinico e diagnostico Enrico Bottero Med Vet, Cuneo

Il rigurgito ed il vomito sono due segni clinici importanti e frequenti. Per i proprietari differenziarli con certezza può essere difficile, quindi un’accurata raccolta anamnestica è fondamentale per approcciare correttamente l’iter diagnostico. Il rigurgito è un processo passivo di espulsione del contenuto esofageo. Avviene quasi senza sforzo e non ci sono segni premonitori a parte lo ptialismo, se è presente esofagite o ostruzione. Il materiale espulso è spesso semiformato e può odorare come cibo fermentato. Il vomito è il risultato dello sforzo coordinato dell’apparato gastroenterico, del sistema muscolo-scheletrico e del sistema nervoso per espellere cibo, fluidi o scorie dall’apparato digerente. I fattori causativi di rigurgito sono molteplici, ma interessano comunque in maniera primaria o secondaria l’esofago. Al contrario i fattori causativi di vomito sono molto numerosi e non sono ascrivibili ad un solo organo o apparato. Ne consegue che l’iter diagnostico del vomito è più complesso e dovrebbe essere accurato e standardizzato. Una volta stabilito che il sintomo è rigurgito il clinico deve approfondirne le caratteristiche e valutare attentamente il segnalamento. Molte patologie esofagee sono infatti congenite e l’insorgenza dei sintomi avviene in concomitanza con lo svezzamento. Questo si verifica ad esempio in caso di megaesofago congenito o di anomalie dell’anello vascolare. Nel Foxterrier e nello Schnauzer nano la trasmissione genetica del megaesofago è stata dimostrata. Se il rigurgito si verifica subito dopo l’ingestione del cibo, le condizioni ostruttive come stenosi o corpi estranei vanno sospettate per prime. In caso di megaesofago invece la distanza dal pasto può essere molto variabile. L’esame emato-biochimico spesso è normale in corso di esofagopatia. L’esame radiografico è un passaggio fondamentale nell’indagare il rigurgito. Le radiografie in bianco possono evidenziare i corpi estranei esofagei, la dilatazione esofagea diffusa o localizzata ed anche radiopacità precardiale, da riferire a ernia iatale. La stenosi acquisita benigna, l’esofagite e l’ernia iatale possono invece avere un quadro radiografico aspecifico. L’esame radiografico con contrasto è un ausilio diagnostico imprescindibile, si può utilizzare il bario liquido oppure anche il pasto baritato; in molti casi dubbi di megaesofago, corpi estranei, di stenosi o di ernia iatale questa manovra permette di avere una conferma diagnostica. L’esame ecografico in corso di rigurgito ha un’applicabilità limitata, soprattutto perché l’aria in torace non permette il corretto passaggio degli echi. Al contrario nel caso di masse mediastiniche compressive sull’esofago causative di rigurgito l’ecografia permette visualizzazione e diagnosi mediante agoaspirazione eco-

guidata. L’esame endoscopico rappresenta spesso l’apice dell’iter diagnostico in caso di rigurgito. Le condizioni patologiche esofagee più frequenti sono l’esofagite ed il megaesofago. L’esofagite è una patologia probabilmente sotto diagnosticata, che ha tipicamente una sintomatologia aspecifica e altalenante con rigurgito, disoressia e scialorrea. La causa più importante di esofagite è il reflusso gastro-esofageo, ma l’impossibilità in veterinaria di utilizzare phmetro e manometro esofageo rende questa diagnosi complessa. Attualmente il riscontro di esofagite precardiale e incompetenza cardiale durante l’endoscopia rappresenta il gold standard diagnostico. Il megaesofago può essere congenito od acquisito; anche per quest’ultima forma nella maggior parte dei casi la causa è idiopatica (80% dei casi), ma è necessario comunque escludere la Myastenia gravis tra i fattori causativi primari (80% dei casi delle forme non idiopatiche). Il sintomo vomito si basa su un meccanismo complesso la cui comprensione è decisiva per la diagnosi e per il trattamento precoce ed efficace. Il vomito può essere suddiviso in tre fasi: nausea, conati ed esplulsione. Questo complicato processo presume una coordinazione funzionale tra gli organi coinvolti e un coordinamento centrale. Quest’ultimo avviene nel midollo allungato nel cosiddetto centro del vomito. I recettori periferici sono localizzati in varie parti del corpo: il maggior numero si trova nel duodeno che, proprio per questo motivo, è definito l’organo della nausea. Vi sono recettori anche nella parete gastrica, tuttavia questa, soprattutto nel cane, è assai più distendibile di quella intestinale. Altri recettori sono localizzati lungo tutto l’intestino, il faringe, il peritoneo e i muscoli gastrici. I recettori centrali sono localizzati nella zona chemorecettoriale sul pavimento del quarto ventricolo. Poiché la barriera emato-encefalica a questo livello non è completa, è qui che si stimola il vomito farmaco-indotto; anche le endocrinopatie come l’iperadrenocorticismo, il diabete mellito, l’ipertiroidismo etc… stimolano l’emesi in questa sede. Anche l’apparato vestibolare possiede recettori centrali, che possono stimolare il vomito in corso di patologia a questo livello. Oltre alla conoscenza del contesto fisiopatologico dell’emesi, la consapevolezza dei meccanismi che lo inducono è di importanza decisiva anche ai fini terapeutici. ll medico veterinario in base all’anamnesi ed alla visita clinica può decidere se impostare un trattamento sintomatico o se iniziare subito l’approfondimento diagnostico. Per prima cosa è necessario definire se si tratta di vomito acuto o di vomito cronico. Il vomito viene definito acuto se insorto da meno di 5 – 7 giorni. Questa condizione si verifica ad esempio in cor54


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valutare la funzionalità di alcuni organi; si deve considerare parte degli esami di base la valutazione degli elettroliti. Il morbo di Addison è infatti l’endocrinopatia che tipicamente simula patologie gastroenteriche causative di vomito acuto. La diagnostica per immagini comprende esame radiografico ed ecografico. In corso di vomito acuto la radiografia in bianco può evidenziare corpi estranei radiopachi o condizioni ostruttive intestinali; però, sopratutto in corso di vomito cronico, non dà indicazioni. L’esame ecografico permette di valutare gli organi intraddominali, evidenziando ad esempio nel cane pancreatite o colecistite. Inoltre dà informazioni sulla presenza di neoformazioni intraddominali e sulla peristalsi intestinale. Ovviamente è una tecnica influenzata dalla capacità dell’operatore e dall’adeguatezza della strumentazione, inoltre la presenza di gas endoluminale nell’intestino può impedire la corretta visualizzazione ecografica. Alla fine dell’iter diagnostico, quando le varie cause di vomito sono state progressivamente escluse l’esame endoscopico permette di prelevare campioni bioptici gastrici, duodenali, ileali e colici. Questa manovra permette di individuare le patologie infiammatorie croniche dell’apparato gastroenterico che sono una causa importante di vomito e di diarrea.

so di indiscrezioni della dieta o di alimentazione scorretta. Anche l’esposizione ad agenti infettivi come la parvovirosi può indurre vomito acuto. In alcuni casi il vomito acuto può essere il primo sintomo di un patologia cronica come l’ibd, oppure di una patologia grave di un altro apparato come un’infezione uterina. L’anamnesi deve investigare la durata, la frequenza, il contenuto e l’associazione del vomito con altri sintomi. La relazione con il pasto è un parametro molto importante che può dare informazioni importanti; ad esempio il vomito alimentare molto ore dopo l’ingestione deve far ipotizzare un ritardato svuotamento, che sarà da definire se di natura funzionale o meccanica. Il vomito intermittente cronico è un segno compatibile con le condizioni flogistiche croniche come l’IBD, disordini metabolici, parassitosi, reazioni avverse al cibo etc... La visita clinica deve prendere in considerazione lo stato del sensorio, le alterazioni posturali, la valutazione delle mucose, l’esame dei linfonodi, della cute e del turgore cutaneo. L’auscultazione cardiaca, del respiro, la palpazione e l’auscultazione dell’addominale ed anche l’esplorazione rettale devono far parte della visita clinica. La diagnostica di laboratorio aggiunge informazioni importanti sia per la diagnosi sia per l’impostazione terapeutica. Ad esempio il riscontro di leucopenia in corso di vomito acuto in animali giovani può indirizzare alla diagnosi di Parvovirosi mentre la linfocitosi e l’eosinofilia si possono riscontrare in caso di Addison. Le malattie infiammatorie croniche inducono tipicamente un’anemia microcitica normo o ipocromica. Gli esami biochimici permettono di

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La diarrea. Un sintomo frustrante per il cane e per il proprietario. Approccio clinico e diagnostico Enrico Bottero Med Vet, Cuneo

La diarrea è un segno clinico frequente in corso di patologie che, primariamente o secondariamente, interessano il tratto digerente. La diarrea è definibile come una troppo rapida evacuazione di feci troppo molli. La percezione di molti proprietari è che la diarrea sia solo l’evacuazione acquosa e profusa; invece ogni variazione in frequenza e consistenza delle feci è potenzialmente anormale. La fisiopatologia della diarrea coinvolge più meccanismi: osmosi, ipersecrezione, aumento della permeabilità mucosale e anomala motilità. La diarrea osmotica e da ipersecrezione sono considerate le più frequenti. Ad esempio in caso di sovralimentazione, cambi di dieta o ingestione di cibi alterati la presenza di soluti osmoticamente attivi nel lume intestinale richiama liquidi che esitano poi in diarrea. La diarrea da ipersecrezione deriva dall’eccesiva stimolazione degli enterociti delle cripte. Questo avviene spesso in corso di malattie infettive come colibacillosi o salmonellosi ma anche durante la sovracrescita batterica. La diarrea ipersecretoria può causare effetti devastanti sull’equilibrio idrico, elettrolitico e acido-basico, soprattutto nei neonati. Il meccanismo che induce un’aumentata permeabilità è causato ed accompagnato, normalmente, da fenomeni infiammatori, erosivi ed anche ulcerativi della mucosa intestinale. Questo si verifica ad esempio in corso di ibd e neoplasie. La diarrea da alterata motilità è spesso secondaria a stimolazione nervosa che aumenta la motilità con diminuzione delle contrazioni segmentarie; questo provoca un trasporto delle ingesta troppo rapido per permettere un’adeguata digestione dei nutrienti ed un adeguato assorbimento dei liquidi, creando i presupposti per una diarrea osmotica. Nella maggior parte dei casi i meccanismi fisiopatologici della diarrea si intersecano e si sovrappongono. In tutti i pazienti il segnalamento va sempre valutato con attenzione. Esistono patologie tipiche della razza come la colite istiocitaria del Boxer o l’enteropatia glutine sensibile del Setter Irlandese, etc... Inoltre sono epidemiologicamente evidenti anche delle predisposizioni di razza come l’insufficenza pancreatica nel Pastore Tedesco o la linfangectasia primaria nello York-shire Terrier. L’approccio clinico deve prevedere un’accurata raccolta anamnestica ed una visita clinica approfondita. Il primo obiettivo è capire le condizioni generali del paziente e se la sintomatologia è acuta o cronica. In secondo luogo è necessario definire se la diarrea deriva dal piccolo o dal grosso intestino o da entrambi. L’urgenza defecatoria, l’aumentata frequenza, la presenza di muco, tenesmo e sangue non digerito sono più tipici della diarrea del grosso intestino. Il volume fecale, aumentato in corso di diarrea del piccolo intesti-

no, è invece un parametro che può trarre in inganno il proprietario. Anche i segni clinici associati come il dimagramento, la presenza di vomito o rigurgito etc… vanno approfonditi e va cercato un possibile collegamento con la diarrea. Alcune patologie, tra cui l’ibd, possono indurre segni clinici sia del piccolo che del grosso intestino. In caso di diarrea acuta non preoccupante, se le condizioni generali del paziente sono buone, si può scegliere di intraprendere una terapia medica sintomatica. In alcuni casi la diarrea acuta può essere rischiosa per la vita del paziente. Questo accade in caso di malattie infettive come la Clostridiosi o la Salmonellosi, ma anche in corso di intussuscezione ileo-colica o HGE (Gastro-enterite emorragica). Quest’ultima patologia si presenta in pazienti adulti / anziani di taglia piccola che presentano ematemesi ed ematochezia associate ad abbattimento. In questi pazienti si rileva un ematocrito molto elevato associato a proteine totali normali o poco aumentate. Anche il morbo di Addison può indurre grave vomito e diarrea acuta in pazienti molto depressi che tipicamente rispondono bene alla fluido terapia. In corso di diarrea cronica l’approccio clinico deve essere sistematico e standardizzato. Esistono vari algoritmi diagnostici e non è possibile dire quale sia il migliore; l’importante è sceglierne uno ed applicarlo correttamente. L’esame delle feci va eseguito in maniera sistematica mediante flottazione su campioni raccolti per almeno tre giorni consecutivi. È comunque corretto eseguire una sverminazione ad ampio spettro, ad esempio mediante Fenbendazolo a 50 mg/kg PO per 5 giorni consecutivi. Le indagini di laboratorio di base comprendono l’emocromocitometrico ed il profilo biochimico. In corso di diarrea cronica è possibile individuare anemia di grado lieve normocitica e normo o ipocromica. In molti casi l’emocromo è normale. Il profilo biochimico può dare informazioni sulla condizione epatica, renale e metabolica. Se in corso di diarrea il soggetto presenta ipoalbuminemia bisogna escluderne l’origine renale o epatica prima di focalizzare le indagini sull’intestino. In base al quadro clinico si possono eseguire indagini di laboratorio più approfondite. Esistono esami specifici per valutare la funzionalità epatica come gli acidi biliari pre e post prandiali, il test di stimolazione con ACTH per il morbo di Cushing e il morbo di Addison, la valutazione del T4 e free T4 per la funzionalità tiroidea etc… Quando l’iter diagnostico ha focalizzato la causa della diarrea nel tubo digerente è possibile eseguire esami biochimici specifici per questo apparato. Il Tli permette di valutare la funzionalità pancreatica. Nei soggetti con quadro clinico, segnalamento ed anamnesi compatibile 56


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questo esame viene eseguito già alla prima visita. La c-PLI e la f-PLI sono test sensibili e specifici per individuare la pancreatite. La valutazione della Cobalamina e dei Folati mira ad individuare la sede del malassorbimento, rispettivamente nella porzione caudale e craniale del tenue. La diagnostica per immagini viene utilizzata, a seconda della situazione clinica, prima o dopo i test biochimici. L’esame radiografico può dare informazioni riguardo alla presenza di corpi estranei radiopachi e segni di ostruzione totale o parziale; purtroppo non esistono criteri radiografici sensibili per individuare le patologie infiammatorie, quindi in corso di diarrea cronica molto spesso l’esame radiografico è normale o poco significativo. L’esame contrasto grafico con solfato di bario può dare informazioni riguardo alle condizioni ostruttive, ma non è un test efficace per valutare la morfologia mucosale dell’intestino; in quanto è soggetto a troppe variabili sia nella fase esecutoria che in quella interpretativa. L’esame ecografico dà informazioni sulla capacità peristaltica intestinale, sulla presenza di neoformazioni o alterazioni del parenchima degli organi addominali e dei linfonodi mesenterici. Esistono recenti pubblicazioni che individuano alterazioni ecografiche tipiche e ripetitive in corso di patologie infiammatorie. In genere la perdita della stratigrafia permette di discriminare le condizioni neoplastiche da quelle infiammatorie. La presenza di gas è una frequente complicazione dell’indagine ecografica addominale. La seconda fase dell’iter diagnostico nel paziente gastro-enteropatico cronico mira ad escludere la diarrea dieta-responsiva e antibiotico-responsiva. La diarrea dieta-responsiva comprende sia l’allergia che l’intolleranza alimentare. È necessario sottoporre il paziente a dieta ad eliminazione da

scegliere rigorosamente in base all’anamnesi alimentare. Bisogna variare non solo il contenuto, ma anche la formulazione dell’alimento. In caso di allergia alimentare per confermare la diagnosi è necessario dimostrare la recidiva dei sintomi dopo la reintroduzione del vecchio alimento; questo va reintrodotto un ingrediente per volta. Nel gatto recentemente un articolo ha evidenziato come circa il 50% dei gatti curati con steroidi per patologia infiammatoria intestinale aveva una risoluzione dei sintomi con il cambio di dieta. Per diagnosticare la diarrea antibiotico responsiva non esiste un test laboratoristico esaustivo. La coltura del succo duodenale, utilizzato in medicina umana, non è un test sensibile né specifico; così come la valutazione dell’idrogeno nell’espirato o l’esame istologico. La diagnosi di ARD (diarrea antibiotico responsiva) si raggiunge quindi tramite la valutazione clinica e la risposta ex-juvantibus alla terapia antibiotica. Il metronidazolo, la tilosina e l’ossitetraciclina sono i principi attivi maggiormente utilizzati. A questo punto se la diarrea persiste bisogna eseguire un esame endoscopico dell’apparato gastroenterico. Le biopsie devono essere numerose, eseguite con tecnica appropriata e sottoposte a valutazione istologica. La diagnosi di malattia infiammatoria intestinale rappresenta spesso il punto di arrivo dell’iter diagnostico della diarrea cronica, visto che si tratta di una diagnosi per esclusione che necessita della conferma istologica.

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Lidocaina in infusione continua per il controllo del dolore intra e perioperatorio, facciamo un po’ di chiarezza: utile…inutile…o pericolosa? Antonello Bufalari Med Vet, PhD, Perugia

Luigia Bonifazi, Med Vet, Perugia - Ilaria Cerasoli, Med Vet, Perugia Chiara Maggio, Med Vet, Perugia - Rossana Barontini, Med Vet, Perugia

INTRODUZIONE

La normale conduzione nervosa prevede la propagazione di un segnale elettrico generato dal rapido movimento di piccole quantità di ioni (sodio e potassio) attraverso la membrana della cellula nervosa. Il passaggio degli ioni attraverso le membrane avviene tramite alcune proteine speciali dette canali ionici. Sia il potenziale di riposo che la generazione e trasmissione di un impulso nervoso dipendono dalla diversa concentrazione ionica ai due lati della membrana della cellula nervosa (membrana semipermeabile). La membrana neurale, allo stato di riposo è in grado di mantenere una differenza di voltaggio (da 60 a 90 mV) tra il suo lato esterno e quello interno. Questo stato di riposo detto anche potenziale di riposo o transmembranario (stato di “polarizzazione”) dipende da:

L’uso della lidocaina cloridrato in infusione endovenosa in corso di anestesia generale nel cane è relativamente recente. La lidocaina è uno degli anestetici locali più utilizzati in medicina veterinaria in virtù del suo basso costo, dell’ampio margine di sicurezza e della rapida comparsa del blocco. Oltre alla sua spiccata azione antiaritmica, recentemente si è dimostrata utile ausilio in anestesia generale quando somministrata in infusione endovenosa. Studi clinici, in medicina umana e veterinaria, hanno evidenziato che l’utilizzo di questo anestetico per via endovenosa determina una riduzione della concentrazione media di alogenato e un certo grado di analgesia. Le prime valutazioni, condotte intorno agli anni ’60 ’70, vennero rapidamente interrotte per i gravi effetti collaterali a carico del sistema nervoso e cardiocircolatorio, conseguenti ad accumulo e sovradosaggio del farmaco. Dagli studi più recenti, invece, si evince che la gestione anestesiologica dei soggetti trattati con lidocaina a concentrazioni plasmatiche adeguate (2-7 µg/ml), risulti scevra di importanti effetti collaterali. La lidocaina è risultata un valido supporto nel trattamento del dolore intra- e post-operatorio ed inoltre, determinando la diminuzione della concentrazione media di alogenato, consente di mantenere stabili i principali parametri cardiovascolari. Il suo utilizzo infine può essere di valido aiuto come stabilizzante di membrana delle cellule cardiache per prevenire le disaritmie più facilmente riscontrabili durante l’anestesia generale. È stato evidenziato inoltre, l’importante ruolo della lidocaina come antiossidante attraverso la modulazione della risposta infiammatoria. Potrebbe quindi risultare interessante il suo impiego nel prevenire i danni da riperfusione postischemica, nella sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS) e in quella da disfunzione multipla di organo (MODS).

-Differente composizione ionica fra l’esterno e l’interno -Presenza di una membrana che suddivide i due compartimenti comportandosi selettivamente riguardo la permeabilità ai singoli ioni In condizioni di riposo la membrana neurale è relativamente impermeabile agli ioni Na+ e selettivamente permeabile agli ioni K+ (la concentrazione del potassio è più alta all’interno della cellula rispetto all’esterno, mentre per il sodio è l’esatto contrario). Un meccanismo attivo (pompa Na+-K+), energia dipendente (ATP) mantiene questa differenza di potenziale mediante una costante estrusione di Na+ dall’interno della cellula in cambio di un riassorbimento di K+. Il canale rapido del sodio è il recettore specifico su cui agiscono gli anestetici locali. L’ipotesi più accreditata suggerisce che questi agiscano legandosi alle subunità proteiche dei canali per il Na+, impedendo di fatto l’ingresso massivo di ioni Na+ e quindi la fase di depolarizzazione. Quando un numero adeguato di canali del Na+ è bloccato, il potenziale d’azione non raggiunge il livello soglia e nessun impulso viene condotto. Il meccanismo che sta alla base dell’effetto anestetico non spiega completamente l’effetto analgesico. Sono state avanzate diverse ipotesi. L’analgesia centrale dovuta alla somministrazione sistemica di anestetico locale potrebbe anche essere spiegata attraverso la presenza di meteboliti attivi, che svolgerebbero azione glicino-simile.

MECCANISMO D’AZIONE La lidocaina, alla stessa stregua degli altri anestetici locali, previene o elimina il dolore interrompendo la trasmissione dello stimolo lungo la fibra nervosa. 58


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L’infusione continua di lidocaina si è rivelata vantaggiosa per numerosi aspetti: nell’uomo ha dimostrato di essere efficace nel trattamento del dolore post-operatorio e dopo chirurgia addominale, nonché nel trattamento dell’iperalgesia; nel ratto affetto da dolore neuropatico, se somministrata in premedicazione, sembra ritardare la comparsa di iperalgesia. Nel cane è stato riportato che l’infusione di lidocaina diminuisce la MAC di anestetico inalatorio (a seconda degli studi presi in esame) dal 18% fino al 44% e proprio questa notevole riduzione sembra dimostrare l’effettivo potere analgesico della lidocaina somministrata in infusione. La lidocaina in infusione nel gatto è sconsigliata per la marcata depressione cardiovascolare che si può verificare, pertanto i vantaggi in termini di riduzione della MAC non giustificano il suo impiego in questa specie. La somministrazione sistemica di lidocaina per il controllo del dolore intraoperatorio nel cane prevede l’utilizzo di una dose di carico (2 mg/kg, EV) seguita da un’infusione continua pari a 50-250 µg/kg/min (3-15 mg/kg/h).

Sicuramente la lidocaina riduce il dolore interagendo con i recettori degli oppioidi µ e k, modulando la formazione di AMP-C. La lidocaina, inoltre, ha un minimo effetto inotropo negativo ed è priva di effetti sul sistema nervoso autonomo.

EFFETTI COLLATERALI La lidocaina, a concentrazioni plasmatiche ottimali (2-7 µg/ml), non determina significativi effetti collaterali. A dosaggi superiori possono comparire manifestazioni gastroenteriche ed il vomito è il primo sintomo di tossicità. A dosaggi ancora superiori possono manifestarsi segni neurologici quali sonnolenza, agitazione, disorientamento, diminuzione dell’udito, tremori muscolari e convulsioni, fino ad arresto respiratorio, cardiocircolatorio e morte. Inizialmente l’anestetico locale provoca una depressione selettiva dei neuroni inibitori della corteccia cerebrale, liberando di conseguenza la funzione dei neuroni facilitatori, con attività eccitatoria e convulsiva. Un aumento della concentrazione di anestetico locale porta all’inibizione sia sui circuiti inibitori che facilitatori e segue rapidamente un quadro di depressione globale sul SNC. Durante l’anestesia generale o in presenza di farmaci che deprimono il SNC, può avvenire depressione del SNC senza una fase eccito-convulsiva precedente. Gli effetti cardiovascolari compaiono per concentrazioni plasmatiche molto superiori a quelle necessarie a provocare effetti tossici sul SNC. Gli effetti sul cuore possono essere di origine elettrofisiologica (riduzione della velocità di depolarizzazione con conseguente bradicardia ed altri tipi di aritmie) e meccanica (azione inotropo negativo); entrambi provocano una riduzione della gittata cardiaca. L’effetto sulla muscolatura liscia vasale periferica può risultare bifasico. A basse concentrazioni l’anestetico può provocare vasocostrizione, per contro l’effetto clinico più comune, soprattutto a concentrazioni più elevate, è un leiomiorilasciamento con conseguente vasodilatazione. Quest’ultima e la ridotta gittata cardiaca determinano ipotensione.

Bibliografia Doherty T.J., Frazer D.L. Effect of intravenous lidocaine on halothane minimum alveolar concentration in ponies. Eq. Vet. J. 1998, 30: 300-303. Hirota K. et al., Interaction of local anaesthetics whit recombinant, κ and δ opioid receptors espresse in Chinese hamster ovary cells. British Journal of Anaesthesia, 2000. Pypendop BH, Ilkiw JE, et al. (2006). Effects of intravenous administration of lidocaine on the thermal threshold in cats. Am J Vet Res. Ravasio G., Ferrando A., et al. Effetto analgesico della somministrazione in infusione continua di lidocaina cloridrato nella chirurgia perineale del cane. XII Congresso Nazionale Società Italiana di Chirurgia Veterinaria, S.I.C.V., Pisa 2005: 163-165. Smith L.J., Bentley E., et al. Systemic lidocaine infusion as an analgesic for intraocular surgery in dogs: a pilot study. Vet. Anesth. Analg. 2004, 31: 53-63. Smith L.J. et al.,Continual systemic infusion of lidocaine provides analgesia in an animal model of neuropathic pain. Pain 2002, 97:267-273. Tanelian DL., Maciver MB., 1991. Analgesic concentration of lidocaine suppress tonic A-δ and C-fiber discharges produced by acute injury. Anesthesiology 74, 934-936. Valverde A., Doherty T.J., et al. Effect of lidocaine on the minimum alveolar concentration of isoflurane in dogs. Vet. Anesth. Anal. 2003, 30: 100-120.

IMPIEGO CLINICO DELLA LIDOCAINA IN INFUSIONE

Indirizzo per la corrispondenza: Sezione di Clinica Chirurgica e Radiodiagnostica Veterinaria Facoltà di Medicina Veterinaria di Perugia Via S. Costanzo 4, 06126 Tel/fax 075/5857710 - E-mail: antonello.bufalari@unipg.it

Gli effetti della lidocaina somministrata in infusione endovenosa sono stati oggetto di numerosi studi condotti negli ultimi anni sia sull’uomo che sugli animali.

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Neoplasie del pancreas endocrino: approccio diagnostico e terapeutico ragionato Paolo Buracco Med Vet, Dipl ECVS, Torino

Le isole di Langerhans comprendono cellule α (20%; glucagone), β (60-75%; insulina), δ (somatostatina) e F (o P, polipeptide pancreatico). Il tumore più frequente è l’insulinoma; molto più rari sono gastrinoma, glucagonoma, somatostatinoma e carcinoidi1.

TABLE 1 - Stadio clinico (tnm) dell’insulinoma7 T Tumore pancreatico primario T1 tumore localizzato T2 tumore a invasività intermedia T3 tumore invasivo

INSULINOMA. Raro, prevale in cani di taglia medio-grande di 9-10 anni ma può colpire anche soggetti più giovani o più anziani. Nel gatto è molto raro e rappresenta invece il 20% dei tumori nel furetto. La maggior parte degli insulinomi canini è maligna, con metastasi (soprattutto linfonodi regionali e fegato) alla presentazione nel 50% dei soggetti. La produzione di insulina è in genere autonoma. Il quadro clinico è dominato dall’ipoglicemia i cui segni (neurologici) si accentuano con esercizio, digiuno e, talvolta, con l’assunzione di cibo; in seguito, per l’adattamento del SNC, anche a valori di 20-30 mg/dl i segni divengono meno gravi. La maggior parte degli insulinomi è diagnosticata, secondo uno studio, nei mesi estivi2. La diagnosi è presuntiva1 e basata su: segni clinici e ipoglicemia/insulinemia alta o normale (valore alto del range di normalità). La somministrazione di glucosio risolve i segni clinici (3° segno della triade di Whipple; oltre a ipoglicemia e iperinsulinemia). Opportuno escludere altre cause di ipoglicemia: artefatti, altri tumori pancreatici (ad es. peptidomi) o di altra sede (epatoma, muscolatura liscia dell’intestino, salivari, melanoma maligno, etc), etc.. Il prelievo di sangue va eseguito a digiuno (monitoraggio della glicemia almeno ogni ora) per la valutazione contemporanea di glicemia e insulinemia (quando la glicemia è < 60 mg/dl). Se la glicemia è normale ma il sospetto di insulinoma è fondato, si è segnalato che la determinazione delle fruttosamine e dell’emoglobina glicosilata può essere di aiuto (entrambe ridotte in caso di insulinoma)3,4. La valutazione del rapporto glucosio:insulina o insulina:glucosio (anche corretto) può fornire risultati falsamente positivi. L’ecografia addominale è utile per lesioni di una certa dimensione e per le metastasi. Lavori recenti, anche se basati su pochi casi, hanno dimostrato l’utilità dell’angiografia in fase arteriosa con TC5,6, con alta corrispondenza con i rilievi chirurgici. Altre possibili tecniche riportate per l’individuazione prechirurgica dell’insulinoma sono: scintigrafia (incostante), blu di metilene endovena (incostante e possibili effetti collaterali) ed ecografia intraoperatoria. La ricerca delle metastasi polmonari è in genere negativa. La diagnosi definitiva è istopatologica (anche immunoistochimica - cromogranina A e enolasi neurospecifica) e la stadiazione TNM è post-chirurgica (Tab. 1)7.

N Linfonodi Regionali (LR) (portali, splenici, epatici, etc) N0 nessuna evidenza di coinvolgimento linfonodale N1 LR coinvolti N2 LR bilaterali coinvolti M Metastasi lontane M0 nessuna evidenza di metastasi lontane M1 evidenza di metastasi lontane - specificare sede ................... Stadio I Stadio II Stadio III

T(1)N0M0 T(1-3)N1M0 T(1-3)N0(1)M1

La glicemia va stabilizzata prima della chirurgia. L’ipoglicemia si tratta con zucchero (sciroppo, tavolette o miele); se in clinica, per infusione endovenosa di glucosio. In alternativa, è descritta l’infusione continua di glucagone (5-15 ng/kg/min). Per le convulsioni sono indicati diazepam ed eventualmente barbiturici. Necrosi cerebrale sottocorticale responsabile di fenomeni convulsivi non responsivi a trattamento si può produrre a seguito di intense crisi ipoglicemiche8. La fluidoterapia intra- e post-operatoria aiuta a prevenire la pancreatite iatrogena, così come il digiuno postchirurgico per 1-2 giorni. Il pancreas e tutto l’addome sono esaminati mediante ispezione e palpazione. Il rilievo del tumore primario è in genere agevole mentre alcune metastasi possono potenzialmente essere omesse. Ogni area sospetta va rimossa o biopsiata. Se la/e lesione/i è/sono a livello del corpo del pancreas, l’escissione è marginale, se a carico di uno dei lobi si procede a pancreatectomia parziale. Dopo l’intervento la glicemia va controllata 2-3 volte/die nei primi 4-5 giorni. Il successo dell’intervento è documentato dall’iperglicemia, in genere transitoria (alcuni giorni fino ad alcuni mesi e raramente è necessario somministrare insulina). La persistenza dell’ipoglicemia indica non completa escissione tumorale; se ciò accade il soggetto è gestito con terapia 60


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medica2. Quest’ultima, come singolo presidio o in associazione alla chirurgia, si basa su: ambiente tranquillo, 3-5 pasti al giorno (ricchi in carboidrati complessi); successivamente, prednisone (0,3-2,5-3 mg/kg per os.), alla dose minima utile a prevenire i segni clinici. Farmaci più specifici per l’ipoglicemia sono diazossido, somatostatina e octreotide (analogo della somatostatina) i cui risultati sono però incostanti. Farmaci anti-insulinoma più specifici sono streptozotocina ed allossano, entrambi caratterizzati da notevole tossicità. La giovane età e il grado di iperinsulinemia sembrano giocare un ruolo negativo sulla sopravvivenza. La chirurgia è difficilmente curativa; comunque, la maggior parte dei soggetti nel postoperatorio diventa progressivamente euglicemica ma alcuni sviluppano diabete mellito e/o insufficienza pancreatica esocrina (per rimozione di gran parte della ghiandola o per resezione di entrambi i dotti). La sopravvivenza media dei cani trattati in forma medica è circa 1 anno. Per quelli trattati chirurgicamente, la sopravvivenza mediana è più lunga9 per quanto influenzata dallo stadio clinico: in particolare da 6 mesi (stadio III) a 18 mesi (stadi I e II). Le sopravvivenze oltre 2 anni sono possibili anche nei soggetti già metastatici alla presentazione ma il ricorso alla terapia medica diventa essenziale2. Nello studio di Polton, la sopravvivenza mediana dei 28 cani esaminati è stata di 547 giorni, mentre per i 19 sottoposti a pancreatectomia parziale di 785 giorni mentre per quelli trattati in forma medica di 452 giorni; in quelli, infine, che hanno ricevuto, al momento della recidiva postchirurgica, anche prednisone (o prednisone e diazossido) di 1316 giorni. In questo lavoro, l’euglicemia post-operatoria piuttosto che lo stadio clinico sembra aver maggiormente influenzato la sopravvivenza (forse per il limitato numero di casi considerati e tutti T1). La chirurgia, secondo tali autori, è giustificata anche negli stadi II e III.

Le SINDROMI DELLE NEOPLASIE ENDOCRINE MULTIPLE, caratterizzate da coinvolgimento della componente APUD di più ghiandole a secrezione interna (tiroide, paratiroide, pancreas, surrene e, meno frequentemente, ipofisi) con conseguente aumento di specifici ormoni, rappresentano eventi sporadici nei nostri animali1. Il trattamento è in genere riservato alla condizione endocrino-metabolica e al tumore che mettono maggiormente a rischio la vita dell’animale.

Bibliografia 1.

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8. 9.

GASTRINOMA E GLUCAGONOMA (1). Tumori molto rari ed entrambi maligni e metastatici, secernenti gastrina il primo (con conseguenti vomito ed ulcerazioni gastriche fino alla potenziale peritonite), e glucagone il secondo (in associazione a lesioni cutanee peculiari - dermatite necrolitica superficiale, dermatopatia diabetica, sindrome epatocutanea, eritema migrante necrolitico con ipercheratosi dei cuscinetti plantari, dermatosi erosive, eritematose e crostose intorno agli occhi e su muso, genitali, perineo, orecchie, etc).

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Indirizzo per la corrispondenza: Paolo Buracco prof. ordinario di Clinica Chirurgica Veterinaria Facoltà di Medicina Veterinaria Via Leonardo da Vinci 44, 10095, Grugliasco (Torino) Tel. 011 6709063 Fax 011 6709165 E-mail: paolo.buracco@unito.it

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Campi di applicazione del TNM in Medicina Veterinaria Francesca Cazzola Med Vet, San Martino, Novara

Il taping neuro muscolare è una tecnica correttiva meccanica e sensoriale che favorisce la circolazione sanguigna e linfatica nell’area trattata e coadiuva il lavoro fisiatrico nella risoluzione di alcune patologie muscolari ed articolari degenerative e traumatiche2, 10. Questa tecnica consiste nell’applicazione di un nastro adesivo elastico sulla cute al fine di ottenere effetti benefici sia sul sistema muscolo-scheletrico che sugli organi interni. La stimolazione cutanea ha inoltre un effetto indiretto anche sugli strati sottostanti. Il Taping Neuro Muscolare è indicato nelle infiammazioni e rigidità articolari, nell’affaticamento muscolare e nei postumi di traumi1, cioè in tutte quelle situazioni ove si verifichi compressione dello spazio linfatico e limitazione della circolazione della linfa e del microcircolo. La compressione comporta, infatti, una pressione sui recettori del dolore sottostanti la pelle. Questo tipo di dolore è conosciuto come mialgia o più semplicemente come dolore muscolare2. L’applicazione del nastro, riduce la compressione sollevando la cute, facilita la circolazione linfatica e il microcircolo sanguigno, permettendo, in questo modo, il migliore drenaggio degli essudati. L’azione del nastro agisce sul dolore5, alleviandolo, e determina una forte riduzione dell’affaticamento muscolare così da consentire il miglioramento della risposta motoria4. Da queste brevi premesse ben si può intuire il carattere innovativo della tecnica in questione, la quale non può in alcun modo essere equiparata ai bendaggi attualmente in uso in medicina veterinaria, i quali hanno quale unico scopo la limitazione drastica del movimento dei muscoli o delle articolazioni interessate. Non sempre la riduzione della mobilità ottenuta dai bendaggi è utile al fine perseguito. In alcuni casi, infatti, le condizioni di immobilità determinano danni sia a livello articolare7 (ectasia della capsula articolare, rigidità articolare e degenerazione cartilaginea) che muscolare8 (ipotrofia ed ipotonia muscolare). La stimolazione del Taping Neuro Muscolare permette, invece, un movimento controllato, rispettando i limiti fisiologici del movimento articolare e muscolare. Il nastro utilizzato per il Taping è costituito da uno strato di cotone di pochi millimetri con adesivo acrilico (latex free) steso ad onde; la superficie adesiva è protetta da carta removibile. È caratterizzato da un’elasticità (solo in lunghezza) simile a quella cutanea. Queste sue caratteristiche rendono la scelta del nastro di particolare rilevanza per la buona riuscita dell’applicazione. Inoltre, a seconda del tipo di tecnica, si avranno risultati e campi d’applicazione differenti. La tecnica ‘decompressiva’ prevede l’utilizzo del tape senza sfruttarne l’elasticità; in questo caso, infatti, il nastro non verrà tirato; al contrario, la

cute dell’area interessata dalla lesione dovrà essere tesa mediante lo stiramento del muscolo e delle articolazioni interessate. Dopo l’applicazione, quando i muscoli e la pelle saranno tornati nella loro posizione d’origine, il nastro formerà delle ‘grinze’ cutanee che durante il movimento passivo o attivo dell’arto, determineranno continui micromovimenti3. Questi stimoleranno i recettori della cute e degli strati sottostanti, inviando stimoli propriocettivi a livello del sistema nervoso centrale e determinando una risposta muscolare riflessa. Le tecniche di correzione articolare sfruttano, invece, le capacità di allungamento del nastro. Il grado dello stimolo è determinato dalla percentuale della trazione applicata al nastro durante l’applicazione e dal grado di tensione. Determinante per la cura della patologia è anche la scelta del taglio del ‘tape’. Il cerotto può essere infatti applicato come striscia unica, a forma ‘Y’, ‘X’ o a ventaglio. La striscia unica sarà applicata per agire su muscoli profondi, la ‘Y’ o la ‘X’ per i muscoli di media profondità, il ventaglio sarà invece molto utile per le zone più superficiali e per favorire il drenaggio linfatico. I nastri possono essere di colore diverso, sebbene alla diversa colorazione non corrisponda una differenza sostanziale né per le caratteristiche del nastro, né per l’applicazione a cui è destinato. Il colore del nastro, quindi, non influisce in alcun modo sulla patologia e sul buon esito della terapia. Per una corretta attuazione della tecnica è necessario seguire alcune regole fondamentali: il paziente va rasato e la pelle va accuratamente lavata, disinfettata e asciugata. Il ‘tape’ va poi applicato direttamente sulla cute avendo cura di toccare il nastro il meno possibile in modo da preservarne l’adesività. Il Taping neuro muscolare può essere un valido ausilio per la riabilitazione; nel particolare troviamo una sua corretta applicazione in caso di ematomi, edemi, congestione linfatica o sanguigna, contratture, stiramenti o danni del muscolo, infiammazioni, lievi instabilità articolari e deficit esterocettivi o propriocettivi11. È inoltre un valido aiuto per migliorare la postura nei pazienti neurologici9, per ridurre il dolore articolare e per migliorare l’escursione articolare nei pazienti ortopedici6. Questa tecnica, già molto utilizzata in medicina Umana, ha trovato alcune applicazioni anche in Medicina Veterinaria nel cavallo, mentre non risultano fino ad oggi in letteratura applicazioni cliniche nei piccoli animali. L’esperienza dell’autore, invece, ha permesso di testare e verificare l’efficacia della tecnica anche su cani e gatti, pur non senza particolari accorgimenti. Infatti le prime difficoltà incontrate durante l’utilizzo del Taping neuro muscolare negli animali domestici riguardano l’adesività del nastro sulla cute dei pic62


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coli animali su cui, come è noto, qualunque tipologia di cerotto aderisce in modo meno efficace, sia per le caratteristiche peculiari della cute rispetto a quella dell’uomo che per le caratteristiche della colla del nastro, studiata per la pelle dell’uomo. Altra importante differenza rispetto all’applicazione in umana riguarda la capacità di scorrimento della cute sui tessuti sottostanti che essendo maggiore nei piccoli animali potrebbe interferire negativamente sull’efficacia della terapia. Sarà quindi utile per ottenere dei buoni risultati nella pratica dei piccoli animali, prestare particolare cura e attenzione al posizionamento del nastro sulla cute che dovrà essere sostituito più frequentemente rispetto all’uomo. L’applicazione del tape richiederà inoltre particolare collaborazione da parte del paziente. Data la grande versatilità della tecnica di taping, è comunque possibile applicarlo sia sui gatti che su cani di diverse dimensioni e affetti da diverse patologie.

10.

Bibliografia

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Indirizzo per la corrispondenza: Francesca Cazzola Clinica Veterinaria San Martino (NO) E mail: francescacazzola@gmail.com

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Attivazione neuro-ormonale in corso di insufficienza mitralica David Chiavegato Med Vet, Dr Ric, Padova

La malattia valvolare cronica mitralica o endocardiosi mitralica, è la malattia cardiaca acquisita di più frequente riscontro nella specie canina. La patologia è caratterizzata da un ispessimento nodulare dei lembi e dall’allungamento delle corde tendinee con conseguente protrusione in atrio del lembo interessato con aspetto tipo ballooning o prolasso della valvola con o senza rigurgito. Le lesioni dei lembi valvolari sono caratterizzate da alterazioni strutturali con carattere mixomatoso con gravità spesso correlata alla progressione del prolasso. Sia l’ispessimento che il prolasso condizionano l’estensione, e pertanto l’entità, del rigurgito. Quando la patologia colpisce un unico lembo, quello più frequentemente coinvolto appare il lembo anteriore, tuttavia va rilevato che il quadro patologico più comunemente osservato è quello del prolasso bivalvolare. L’espressione clinica della malattia degenerativa mitralica cronica avviene sostanzialmente attraverso due vie che appaiono strettamente correlate fra loro: la riduzione della portata con attivazione neuro-ormonale sistemica e l’aumento cronico della pressione polmonare. Il cronico aumento della pressione atriale e della pressione venosa polmonare rappresenta, secondo quanto ampiamente dimostrato dall’equazione di Starling, la causa di raccolta di liquido nell’interstizio polmonare. Nelle fasi iniziali della malattia si osserva un passaggio dal lume dei capillari all’interstizio di liquido che viene compensato da un aumento della capacità drenante del circolo linfatico. Solo nelle fasi successive, cioè quando il circolo linfatico non è più in grado di far fronte alla richiesta di drenaggio si osserva la comparsa di edema interstiziale con insorgenza della sintomatologia clinica tipica. Essendo nella malattia valvolare mitralica la quota di rigurgito il principale fattore condizionante la gittata anterograda, appare verosimile che la comparsa dell’attivazione neuroormonale, come risposta dell’organismo al mantenimento dell’omeostasi pressoria e volumetrica, sia correlabile all’entità della malattia mitralica stessa. In che momento dell’evoluzione della malattia valvolare mitralica in realtà avvengano l’attivazione simpatica e del RAAS e quanto la liberazione dei peptidi natriuretici atriale e cerebrale (ANP e BNP) ne possano condizionare il meccanismo di cascata è ancora molto discusso e controverso. Secondo alcuni autori l’attivazione neuro ormonale avverrebbe solo nelle fasi più avanzate mentre, in apparente contraddizione, Pedersen et al. avrebbero dimostrato l’attivazione del RAAS sin nelle fasi più precoci di malattia. L’attivazione e la dinamica delle variazioni neuroormonali rappre-

sentano pertanto un buon indice evolutivo della malattia valvolare mitralica con significati riferibili anche a condizioni prognostiche. Accanto all’attivazione sistemica del RAAS assume sempre più rilevanza la risposta infimmatoria con liberazione di citochine con prevalenza del fattore di necrosi tumorale (TNFα) e la risposta vascolare endoteliale che si esprime con un aumento dell’attività endotelinica ed una riduzione dell’ossido nitrico. Il rimodellamento cardiaco, la fibrosi miocardica e la vasocostrizione periferica sembrano rappresentare le principali conseguenze di questa condizione. Per controbilanciare questa cascata di eventi svolgono un ruolo determinante gli ormoni natriuretici atriale (ANP) e ventricolare (BNP) con la peculiare finalità di favorire la diuresi e la vasodilatazione contrastando l’attivazione del RAAS, inibendo l’attivazione simpatica ed endotelinica e favorendo la produzione di NO.

RISPOSTA ADRENERGICA Rappresenta la principale risposta compensatoria dell’organismo con un’attivazione “rapida” per via barorecettoriale e chemorecettoriale. L’attivazione dei β1 recettori è associata ad un’azione cronotropa ed inotropa positiva, mentre la stimolazione degli alfa e beta recettori periferici determina una vasocostrizione ed un aumento delle resistenze periferiche. Il livello di catecolamine circolanti riflette il grado di scompenso cardiaco e, pertanto nelle fasi più avanzate, anche il grado di compromissione della funzione sistolica ventricolare sinistra e di diminuzione della portata. L’alta concentrazione di noradrenalina può esitare però in una eccessiva stimolazione recettoriale con conseguente downregulation dei beta recettori, ed effetto cardiotossico. La condizione di attivazione catecolaminica non rappresenta solo la risposta dell’organismo in una condizione di stress emodinamico, ma anche, soprattutto in condizioni di stimolazione cronica, causa indiretta della compromissione della risposta recettoriale compensatoria.

SISTEMA RENINA ANGIOTENSINA ALDOSTERONE (RAAS) Sempre con la finalità di preservare l’equilibrio emodinamico dell’organismo segue all’attivazione del sistema simpatico l’attivazione dell’asse renina angiotensina ed aldosterone. 64


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ENDOTELINE

L’Angiotensina II causa vasocostrizione periferica, fibrosi o ipertrofia miocardica, apoptosi miocardica e favorisce la liberazione di endoteline con un effetto di peggioramento della funzione miocardica ed un aumento delle resistenze periferiche. L’aldosterone, oltre a svolgere una potente attività di ritenzione di sodio, interveniene nell’attivazione dei fenomeni di fibrosi miocardica, sulla funzione endoteliale e sull’attività perossidativa partecipando alla progressione della disfunzione diastolica ventricolare ed alla modificata risposta endoteliale all’ossido nitrico. Sembra sempre più provata la correlazione fra alti livelli di aldosterone e condizioni prognostiche negative. Uno dei fenomeni più studiati è quello dell’”aldosterone escape” condizione per cui nonostante l’inibizione del sistema ACE avverrebbe una produzione di aldosterone favorita da vie chimasiche o alternative al sistema di produzione tradizionale.

Sono peptidi prodotti direttamente dalle cellule endoteliali con un effetto di vasocotrizione 10 volte superiore a quello dell’angiotensina II. Esse si contrappongono all’azione di vasodilatazione svolta dall’ossido nitrico. La loro produzione è favorita dalla condizione di ipossia, dalla liberazione di angiotensina II, vasopressina e fattori dell’infiammazione (interleuchine e TNFα). L’incremento sierico delle endoteline è stata correlata con l’evoluzione dello scompenso cardiaco e con la progressione della malattia cardiaca con una corrispondente riduzione della produzione ed attività dell’ossido nitritico.

PEPTIDI NATRIURETICI ANP E BNP La loro azione è rivolta precipuamente alla conservazione dell’omeostasi dell’organismo. Svolgono un’azione inibitoria del RAAS, inibiscono l’attivazione endotelinica e favoriscono la produzione di ossido nitrico ed infine agiscono sul rimodellamento cardiaco grazie ad una diretta inibizione della produzione del collagene ed all’attivazione delle metalloproteasi sintetasi.Proprio per la loro stretta correlazioni con le fasi evolutive dello scompenso l’uso clinico dei peptidi natriuretici può rappresentare in futuro un utile strumento per consentire in primo luogo un monitoraggio della progressione della malattia cardiaca, ed in secondo luogo per valutare l’efficacia della risposta terapeutica. Ancora discusso se i peptidi natriuretici si modifichino già nelle fasi asintomatiche di malattia o solo in condizioni di scompenso.

RISPOSTA INFIAMMATORIA Lo stress determinato dalla malattia cardiaca, l’ipossia, la stimolazione adrenergica e la liberazione di endoteline sembrano essere la causa della liberazione da parte di leucociti e delle cellule endoteliali di fattori proteici di vario peso molecolare infiammatorio, che sono genericamente chiamate citochine. Una delle citochine che maggiormente ha richiamato l’attenzione in campo cardiologico, in quanto apparentemente coinvolta nel meccanismo fisiopatogenetico dello scompenso cardiaco, è il TNF-alfa. Qurst’ultima oltre a svolgere un’azione anoressizzante e cachetizzante sarebbe in grado di modificare il processo di accoppiamento betarecettori adenilciclasi con effetto cardiodepressante e di svolgere un’azione favorente la produzione perossidativa failitando il meccanismo apoptotico. Nonostante però che numerosi siano i modelli animali di studio non è ancora del tutto chiarito completamente il ruolo del meccanismo infiammatorio nei vari stadi dello scompenso.

Bibliografia disponibile presso l’autore Indirizzo per la corrispondenza: David Chiavegato Clinica Veterinaria Arcella V. C. Callegari, 48 Padova E-mail: david.chiavegato@libero.it

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Shoulder diagnosis and treatment James L. Cook DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ACVSMR, Missouri, USA

Forelimb lameness in adult dogs is often easy to see and difficult to determine a diagnosis for. The cause of the lameness may involve the bones, joints, muscles, tendons, ligaments, and/or nerve supply. It is always important for the veterinarian to consider and investigate all possible causes. However, this lecture will focus on the shoulder joint. The major problems affecting the shoulders of adult dogs that we commonly see include: • Supraspinatus calcification • Bicipital tenosynovitis • Infraspinatus contracture • Shoulder instability • Trauma Again, it is important to remember that many other problems involving the shoulder region can and do occur, including humeral osteosarcoma and neurologic disorders. Therefore, a complete orthopaedic and neurologic examination and work-up are essential.

foci with distal acoustic shadowing. If magnetic resonance imaging is utilized, T1-weighted images will show calcifications as areas of decreased signal intensity and T2weighted images may demonstrate a perifocal band of increased signal intensity associated with edema. Various treatments have been described for lameness attributable to calcification of the supraspinatus in the dog including conservative management, surgical removal of the calcific deposits and extracorporeal shock wave therapy. Surgery consists of accessing the deposits through longitudinal incisions in the tendon for their subsequent removal. Interestingly, in a long-term follow up study of four operated cases, Laitinen noted that that the calcific deposits had reoccurred in all the dogs after a mean follow-up time of 5.1 years after surgery. However, despite the reformation of the calcium-based deposits, resolution of lameness has been reported following their surgical removal in the majority of cases. Current opinions include recommendations for a period of conservative management including rest, administration of non-steroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) and physical therapy for 3 months from the time of diagnosis prior to attempting surgery. Another treatment strategy that has been reported in the dog is extracorporeal shock wave therapy. Success with this technique in alleviating clinical signs has been demonstrated in a small population. Other potential techniques to consider include ACP or PRP injections, ultrasound guided needle aspiration and lavage, and arthroscopic assisted aspiration and debridement.

Calcification or mineralization of the supraspinatus tendon of the canine shoulder is a well-documented condition yet remains controversial with respect to its etiopathogenesis, relationship to clinical signs and treatment. Several reports now document the occurrence of calcification of the supraspinatus tendon in dogs. Adult Labrador retrievers, Rottweilers and German Shepherd Dogs are the most frequently reported affected animals, however this may indicate breed popularity rather than true prevalence. Other than the speculation of localized tissue hypoxia within the avascular portion of the supraspinatus tendon, no definitive risk factors have been determined in reported canine populations. The relationship between the presence of calcific deposits in the supraspinatus and clinical signs is not clear. Supraspinatus calcifying tendinopathy may be an incidental finding and result in no clinical signs. Pain may or may not be elicited upon palpation of the tendon of insertion of the supraspinatus over the greater tubercle and upon shoulder flexion. The most common diagnostic tool is radiography. However, mineralization of the supraspinatus may be indistinguishable from that of the biceps tendon if only mediolateral radiographs are taken. Therefore, a flexed cranioproximal-craniodistal tangential view of the intertubercular groove, or ‘skyline’ view should also be taken to distinguish the location of the calcific density. Ultrasonography can be used successfully to detect disruption or inflammation within tendon fibers. Furthermore, if present, calcification is easily recognized as hyperechoic

Contracture of the infraspinatus represents a chronic process by which initial injury to the muscle and tendon eventually results in severe fibrosis and adherence to the underlying joint capsule. The condition is a well-recognized disorder occurring in medium to large-breed working dogs. The initiation of the process can either be self-inflicted through vigorous activity or from a traumatic event. A presumptive diagnosis can be made based on patient history, the characteristic positioning of the affected limb and orthopedic examination. Dogs affected by this condition will carry the limb in a characteristic fashion during ambulation in which the lower limb swings out in a circumducted fashion while advancing the foot forward. Careful palpation will reveal atrophy of the infraspinatus and possibly the supraspinatus muscles with subsequent prominence of the scapular spine and acromial process. Attempts to internally rotate or adduct the proximal humerus will result in noticeable scapular excursion away from the thoracic wall. Radi66


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ment, transposition, and lavage. The published literature regarding surgical treatment of biceps tendon pathology suggests postoperative protection of the repair or treatment, weight management, and physical rehabilitation are critical for a successful outcome when treating biceps tendon problems using any modality. It is important to counsel owners regarding the facts that maximal function may not be reached until 6 months following surgery in the majority of cases, and that these are typically chronic problems requiring compliance in treatment, careful monitoring, and, most of all, patience. However, when these factors are addressed, the prognosis for the vast majority of biceps tendon disorders is good to excellent for pain-free “pet-level” function, and guarded to good for high-level athletic function.

ographs of the shoulder may be normal or reveal a narrowing of the scapulohumeral joint space, particularly evident on the craniocaudal view. Ultrasonographic examination of the infraspinatus muscle and tendon can be completed to substantiate the diagnosis. If the disorder can be diagnosed in the early stages, in which the tendon has been strained prior to any secondary fibrotic response, management consisting of rest, NSAIDs and physical rehabilitation can be successful. Once the muscle and tendon have undergone fibrosis and contracture, only surgical release has been shown to be successful. Prognosis with this treatment appears to be good to excellent. Pathologic conditions of the biceps tendon reported to occur in dogs include tenosynovitis, partial or complete rupture, avulsion, tendinitis, tendinosis, displacement, and bipartite tendon. Most often, these conditions occur in middle-aged medium and large breed dogs that participate in athletic activities. Apart from rupture or avulsion, dogs with biceps tendon pathology are presented for unilateral forelimb lameness of insidious onset. Dogs are typically weightbearing on the affected limb. Rupture or avulsion may result in more acute and more severe lameness. Physical examination of dogs with biceps tendon pathology is very similar regardless of specific cause. The most consistent examination findings reported include lameness, mild to moderate atrophy of the affected spinatus muscles, pain on shoulder flexion (especially with the elbow extended), and pain on direct palpation of the biceps tendon and/or manual tensioning of the biceps muscle. Definitive diagnosis and characterization of type of pathology of the biceps tendon typically requires more advanced imaging modalities such as contrast arthrography, ultrasonographic evaluation and/or arthroscopic visualization. Plain radiographic views of the affected shoulder joint provide relevant information regarding secondary bone and soft tissue changes and should be included in the diagnostic database. “Skyline” radiographic views may aid in evaluating the biceps groove. Ultrasonography is helpful for determining the type and severity of the pathology in the majority of cases. Arthroscopic evaluation of the shoulder joint allows for visualization and assessment of all intra-articular structures providing definitive evidence of visible biceps pathology as well as involvement of other tissues. More advanced imaging techniques such as computed tomography and magnetic resonance imaging are currently being investigated for their usefulness for diagnosis of shoulder joint pathology in dogs. When biceps tendon pathology is determined to be a significant cause of pain, lameness, and/or dysfunction in dogs, treatment is indicated. Non-surgical management of biceps tendon pathology consisting of activity modification, non-steroidal anti-inflammatory drugs, analgesics, and/or intra-articular injections may be effective in many cases. Exercise restriction appears to be a critical component for successful non-surgical management. Success rates for nonsurgical treatment of biceps tenosynovitis range from 41% to 73%. Surgical management is deemed necessary in a significant number of dogs with biceps tendon pathology. The reported surgical treatment options for biceps tendon disease include tenodesis, tenotomy, primary repair, debride-

Shoulder instability due to peri-articular soft tissue pathology is a commonly diagnosed problem in humans. Bardet has described a shoulder instability syndrome in dogs. Although lateral and multi-directional shoulder instabilities have been described, medial shoulder instability (MSI) appears to be the predominate type of shoulder instability seen in dogs. Dogs diagnosed with MSI are most commonly middle-aged, large breed dogs with a history of chronic unilateral forelimb lameness. Dogs with MSI typically have an intended purpose of work, performance, or very active pet-level function. The etiology of MSI is not known, but available data suggest that this problem occurs as a result of chronic overuse injury with episodes of “micro” trauma to the shoulder occurring during the development of disease. The pathology associated with MSI includes lameness, shoulder joint laxity, pain on manipulation of the shoulder, and abnormalities of the medial joint capsule, subscapularis tendon, and medial glenohumeral ligament observed via arthroscopy. Signalment, complete history, complete orthopaedic and neurologic examination, blood work, radiographs, and ultrasonography are integral to the comprehensive diagnostic approach. Ultrasonographic evaluation is recommended for all potential MSI patients to rule out primary or concurrent musculotendinous pathology. Definitive diagnosis of MSI is based primarily on palpation and exploratory arthroscopy. Palpation under sedation is a key component of pre-operative diagnosis of MSI. Range of motion in flexion, extension, and rotation, the “shoulder drawer sign” as described by Bardet, and the shoulder abduction test should be assessed in each limb. Shoulder abduction angles measured under sedation have been reported to provide objective data for diagnosis of MSI in dogs. Shoulders with clinical and arthroscopic evidence of MSI have significantly higher angles (53.7 ± 4.7o) compared to shoulders considered normal (32.6 ± 2.0o). Currently, arthroscopic exploration provides the most definitive diagnosis of MSI and allows assessment of cartilage damage and other key structures in the shoulder joint. Arthroscopic identification of tearing and laxity of the subscapularis tendon, medial glenohumeral ligament, and joint capsule are consistent findings in reported cases of MSI. Treatment recommendations are based on extent and severity of instability, concurrent shoulder pathology, concurrent orthopaedic problems, the overall health of the patient, the intended use of the patient, and the commitment of the own67


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er. No study in which any of the treatments for MSI were compared has been reported to date. A wide variety of traumatic injuries can affect the shoulder joint of dogs. These injuries can result from relatively minor trauma like jumping from a height or very severe trauma from motor vehicle accidents. The primary pathology can involve bone, tendon, ligament, joint capsule, and muscle. It is also important to remember that the shoulder joint is in close proximity to the chest and brachial plexus. Therefore, concurrent thoracic and neurologic trauma are common. Complete evaluation is important for determining injuries to the shoulder resulting from

trauma. Careful gait evaluation, palpation, radiographic, and ultrasonographic exams are part of the minimum database for assessing the traumatized shoulder. Early and accurate diagnosis and treatment are vital for success in these cases. The prognosis varies with the extent and nature of the injuries, the timing and type of treatment, and the intended use of the dog.

Address for correspondence: Comparative Orthopaedic Laboratory University of Missouri, Columbia, MO, USA

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Use of ultrasound for orthopaedics James L. Cook DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ACVSMR, Missouri, USA

Cristi R. Cook, DVM, MS, Dipl ACVR, Missouri, USA

Ultrasound is a widely available diagnostic tool in both human and veterinary medicine. It is becoming a more commonly used modality in veterinary medicine for musculoskeletal imaging. The musculoskeletal soft tissues, both intra- and extra-articular, as well as the superficial bone, can be imaged with ultrasound. The advantages of ultrasound include soft tissue differentiation, capabilities for detailed assessment of the internal architecture of structures, availability, ability to perform without the need for general anesthesia, relative ease of follow-up examinations, and cost compared to other advanced imaging modalities. Another major advantage of ultrasound is the ability to use it for ultrasound guided aspirations, injections, or biopsies of musculoskeletal-related fluids or tissues. The major disadvantages of musculoskeletal ultrasound are related to the required knowledge of normal and abnormal sonographic characteristics of each tissue in each joint of interest, and the expertise to interpret the findings of the ultrasonographic examination. It is relatively difficult to become proficient and develop expertise in musculoskeletal ultrasound. Interpretation of the lesions may be complicated by imaging artifacts. Artifacts can be created due to the imaging plane, position of the transducer with respect to the structure being imaged, orthopaedic implants causing distal acoustic shadowing over the area of interest, and by remodeling changes surrounding or within the tissues of interest. In addition, pathology is often bilateral in the orthopaedic disorders we typically use ultrasound for, so that the contralateral limb is not a valid reference for normal sonographic appearance for comparison. For musculoskeletal imaging, no or light sedation, is typically all that is required for well-controlled patients. Hair is clipped over the area of interest. The patient is positioned on a padded examination table such that all aspects of the joint or limb of interest are accessible. A 10-14 MHz linear transducer is used for all small animal musculoskeletal imaging in our hospital. Relevant anatomic structures are evaluated for sonographic characteristics, and images and data recorded in the patient’s medical record. Extra-articular soft tissues (ligaments, tendons, muscles) are the easiest structures to image and assess. The ligaments, tendons and muscles can be imaged for echogenicity, internal architecture, shape, size and location (displacement). In acute injuries, these structures may be thickened due to hemorrhage and edema within or surrounding the tissue, and the fibers may be disrupted. In chronic injuries, the fibers may realign or may heal with less organized fibrous tissue. Dys-

trophic mineralization within or along the surfaces of these structures may also be noted. The diameter of the structure may be decreased compared to normal due to replacement with fibrous tissue and contraction of the tissues as it heals. Our work in sonographic assessment of extra-articular structures has been focused on the shoulder of dogs. We are able to consistently image and diagnose pathology in biceps muscle-tendons, supraspinatus muscle-tendons, infraspinatus muscle-tendons, subscapularis muscle-tendons, and the medial glenohumeral ligament. Sonographic assessment of these structures is very sensitive (86%) and specific (91%) for diagnosis of shoulder disorders (other than primary ligamentous instabilities) causing lameness in adult dogs. Based on our clinical studies, we have concluded that sonographic evaluation of soft tissues associated with the shoulder joint in dogs is clinically useful for ruling in and ruling out shoulder pathology and localizing the source of forelimb lameness. We have also used ultrasound clinically for imaging of the common calcanean tendon complex, gracilis and semitendinosis muscle-tendons, iliopsoas muscle-tendons, triceps muscle-tendons, collateral ligaments of the carpus, stifle, and hock, and digital flexor and extensor tendons. Our work in sonographic assessment of intra-articular structures has been focused on the stifle joint, and particularly the menisci. In the stifle joint of dogs, we are consistently able to image and diagnose pathology in patellar and collateral ligaments, infrapatellar fat pad, synovium, lateral and medial menisci, long digital extensor tendons and cranial cruciate ligaments. In addition, the presence or absence, location, and amount of joint fluid is often very helpful for indicating the presence and even type of pathology present in joints. Our work in meniscus has revolutionized the way we handle stifle cases in our practice. We have reported the ability of meniscal ultrasound to accurately determine presence and type of meniscal pathology in stifles of dogs, concurrent or subsequent to CCL deficiency and surgical treatment of CCL deficiency, based on evaluation of meniscal echogenecity, shape, and location (displacement), and the presence of peri-meniscal fluid. We reported a sensitivity and specificity for ultrasonographic diagnosis of meniscal pathology of 90.0% and 92.9%, respectively, and showed that ultrasonography was better than stifle MRI in our hands for diagnosis of meniscal pathology associated with CCL deficiency in dogs. We have also assessed changes in sonographic characteristics of menisci following repair, replacement, release, and various types of CCL surgeries and corre69


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lated these findings with second-look arthroscopy, clinical outcomes, and postmortem examinations. Based on all of this work, we have found meniscal ultrasound to be very accurate, reliable, and precise for assessment of canine menisci in all respects. In other intra-articular applications, we have also found ultrasound useful for assessing OC/OCD of the humeral head, medial aspect of the humeral condyle, femoral condyles, and talar ridges, FMCP, and various chip fractures. Ultrasound is also very sensitive to changes in superficial bone in or about joints. Early remodeling changes in bone may be detected with ultrasound prior to visualization with standard radiography. Early osteomyelitis or neoplasia may be identified with ultrasound as irregular bone margins or loss of the normal cortical echo, and a soft tissue mass effect within or adjacent

to the cortex with surrounding cortical edema are findings that suggest further diagnostics should be performed to investigate a potentially major problem. In our hospital, ultrasound is an excellent tool for comprehensive assessment of patients. We use it routinely for diagnosis, clinical decision making, treatment monitoring, and prognostication for our orthopaedic cases. The time it takes to attain expertise in this area is certainly worth it in the long run based on the numerous clinical benefits of musculoskeletal ultrasonography.

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Arthroscopy in small animal orthopaedics James L. Cook DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ACVSMR, Missouri, USA

Arthroscopic procedures are the mainstay of joint surgery in human orthopaedics, and are rapidly becoming a major component of veterinary joint surgery. The advantages of arthroscopic surgery over open arthrotomies are significant and well-documented. In general, arthroscopic surgery provides increased visualization and access to the joint, while also resulting in less patient morbidity, shorter anesthetic and surgery times, lower complication rates, shorter hospital stays, and more rapid and functional recoveries. The disadvantages are few, and primarily involve the expertise and equipment required to perform arthroscopic surgery at an appropriate level.

interest (i.e. craniolateral for the caudal humeral head, caudolateral for the bicipital tendon) and the instrument portal nearest the area of interest (vice versa). This will allow for optimal triangulation and visualization without impinging on instrument manipulation. If possible, all aspects of the joint should be viewed and evaluated in a systematic fashion, and this should be documented with images and/or video and recorded in the medical record of the patient.

SHOULDER ARTHROSCOPY Arthroscopy of the shoulder is typically performed through craniolateral and caudolateral portals initially. Once you have become comfortable with this arthroscopic technique for the shoulder, then the hanging limb arthroscopic technique will be important to master so that the medial compartment can be directly accessed, lateral compartment pathology can be more fully visualized, additional arthroscopically-guided techniques can be performed, and concurrent shoulder and elbow arthroscopy can be performed more easily and efficiently. For the lateral approach, the patient is positioned in lateral recumbency with the affected limb up, the joint is distended with isotonic saline, a camera portal is established in the craniolateral or caudolateral portal and a 2.7 mm long 30o foreoblique arthroscope with camera is inserted. Fluid flow is maintained through the camera cannula. The joint should be explored and assessed using a standard compartmental approach as follows: • Cranial compartment – biceps tendon, bicipital groove, synovium, supraglenoid tubercle • Medial compartment – synovium, subscapularis tendon, medial glenohumeral ligament, medial “labrum” • Caudal compartment – caudal glenoid, caudal “labrum”, synovium • Lateral compartment – lateral glenohumeral ligament, synovium, lateral “labrum” • Articular cartilage of glenoid cavity and humeral head

INSTRUMENTATION A 2.7 mm 30o foreoblique arthroscope works well in most dogs’ joints, however, 1.9 mm or even smaller scopes are helpful for elbows, carpi, hocks, and for arthroscopy in small dogs and cats. Video arthroscopy is required. Fluid flow is required and can be delivered through a pump, by gravity flow, or through pressurized bag and gravity flow. I prefer the latter. A motorized shaver and a variety of arthroscopic probes, graspers, basket forceps, and knives are needed in order to be able to perform a full range of arthroscopic procedures in the shoulder joint. A radiofrequency generator and probes can be useful, but are not required and extreme care must be taken when using these devices as they can cause severe harm to the joint. Another “instrument” that I highly recommend for everyone doing small animal arthroscopy is the book by Beale, et al.

BASIC TECHNIQUE The affected limb is prepared for aseptic surgery using a hanging limb technique. Patient and limb positioning will vary based on affected limb, location of pathology, required manipulations, and personal preference. It is helpful to have an assistant scrubbed in to provide distraction, flexion and extension, and rotation of the joint as needed for complete visualization and access. All manipulations are typically performed by using one or more arthroscope portals and one or more instrument portals. Some arthroscopists employ the use of an egress cannula, however, I do not find this necessary or additive in my experience. As the relevant anatomy allows, place the arthroscope in the portal farthest from the area of

ELBOW ARTHROSCOPY Arthroscopy of the elbow is typically performed through craniomedial (instrument) and caudomedial (camera) portals. Although other portals have been described and may be helpful for very specific applications, the standard medial portals allow access to the entire joint in most cases. The patient is placed in dorsal recumbency so that the medial 71


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aspects of each elbow can be accessed without repositioning. A 1.4, 1.9, or 2.7 mm short 30o foreoblique arthroscope can be used based on equipment availability and patient size.

geon can position the limb such that the paw is in contact with his or her torso, allowing flexion and extension of the stifle to be achieved while the hands are left free to manipulate the arthroscope and instruments. The portals that I use for the stifle are a modification of what has been reported by Beale, et al. The portals are placed medial and lateral to the patellar ligament at a point slightly proximal to the midpoint of the patella-to-tibial tuberosity distance. This allows maximum initial visualization while minimizing the amount of fat pad that must be removed to access the relevant structures. Some arthroscopists employ the use of an egress cannula placed in the proximal aspect of the joint. However, I do not find this necessary or additive in my experience. The craniolateral camera portal is established by inserting the obturator and cannula directed from the craniolateral skin incision across the joint to the medial compartment. The camera can then be inserted and initial visualization and orientation can be established. Complete exploration of the joint can be performed by moving the arthroscope and changing the direction of view with the 30o foreoblique scope. We typically explore the stifle joint in the following order: • Medial articular compartment (medial femoral and tibial condyles, cranial horn of medial meniscus) • Medial joint pouch (medial trochlear ridge and joint capsule) • Intercondylar notch (cruciate ligament, notch) – often requires debridement of fat pad and proliferative synovium • Lateral articular compartment (lateral femoral and tibial condyles, cranial horn of lateral meniscus) • Lateral joint pouch (lateral trochlear ridge, joint capsule, long digital extensor tendon of origin) • Proximal compartment (patella, trochlear groove)

COMBINED SHOULDER AND ELBOW ARTHROSCOPY For adult dogs with forelimb lameness that cannot be definitively localized to a single joint, we now commonly perform arthroscopy of both shoulders and both elbows as a comprehensive approach to diagnosis and understanding of forelimb lameness in dogs. Complete shoulder arthroscopy is performed first in all dogs with the dog in dorsal recumbency and the limbs in the hanging position as described by Devitt, et al. If treatment of shoulder pathology is deemed necessary, this is completed prior to elbow arthroscopy. The limbs are then taken out of the hanging position and complete arthroscopic assessment of both elbows is performed using caudomedial and craniomedial arthroscope and instrument portals. Importantly, each dog is carefully rolled toward the side of the elbow undergoing arthroscopy for each joint to avoid undue stresses on the shoulder joints, particularly abduction, which may have detrimental effects on periarticular tissues and/or surgical treatments performed on the shoulders. Each joint is fully examined arthroscopically and each major articular structure assessed, imaged, and recorded in the medical record.

HIP ARTHROSCOPY Hip arthroscopy is performed through craniolateral and caudolateral portals. The patient is placed in lateral recumbency with the affected limb up. We routinely use a 2.7 mm 30o fore oblique arthroscope for the hip. The arthroscope can be placed in either portal, with the remaining portal used for instruments if necessary. Distal traction on the limb aids in entering the joint and for subsequent manipulations. We routinely perform hip arthroscopy on all TPO candidates to assess the articular surfaces and intra-articular structures for degree and extent of pathology. Based on Holsworth, et al’s work, pre-TPO arthroscopy appears to provide vital information regarding patient selection, and perhaps prognosis, that other means of pre-operative assessment may not address. We have also used hip arthroscopy as a means of exploration for diagnosis and biopsy. The 2.0 mm blade on the mini-shaver, small curettes, and small grasping and basket forceps are the instruments of choice for hip arthroscopy.

HOCK ARTHROSCOPY Arthroscopy of the hock can be performed through dorsolateral, dorsomedial, plantar-medial, and plantar-lateral portals. Currently, we have performed arthroscopy on the hock for OC/OCD flap removal, debridement, and curettage; exploration for diagnostics including synovial biopsy; chip fracture removal; and arthroscopic assisted talar fracture repair. The hock is a very difficult joint to manipulate instruments in, especially with respect to the typical OC lesions encountered, and care must be taken to avoid damaging intra-articular structures, as well as the equipment. Most often, the patient is placed in sternal recumbency with the hindlimbs hanging off the end of the table, as the plantarlateral and plantar-medial portals are most commonly used (medial talar OC lesions, talar fractures, exploratory with biopsy). The dog is placed in dorsal recumbency using a hanging limb preparation technique when the dorsal portals are to be used (lateral talar OC lesions). Rarely, the dog is placed in lateral recumbency using a hanging limb preparation technique with the affected limb up if both dorsal and plantar portals are needed (complete exploratory). We use a 1.9 or 2.7 mm short 30o fore oblique arthroscope for depending on the size of the patient. A mini-shaver with a

STIFLE ARTHROSCOPY Arthroscopy of the stifle is typically performed through craniolateral and caudolateral portals using a 2.7 mm short 30o fore oblique arthroscope. The affected limb is prepared for aseptic surgery using a hanging limb technique. The dog is placed in dorsal recumbency with the hindlimbs extending past the edge of the patient table. In this manner, the sur72


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2.0 mm shaver blade is extremely useful in the hock. Small curettes and graspers are also very useful for manipulation in this joint.

patient, client, and problem. The postoperative care protocol must be discussed with the client prior to surgery in order to ensure feasibility and compliance. It will be vital for surgeons to maintain our commitment to development of appropriate and optimal protocols for postoperative care of our patients that go hand-in-hand with the development of new surgical techniques and modalities.

POSTOPERATIVE CARE As the operative aspect of small animal arthroscopy becoming more innovative, advanced, and creative, it is vital that we address the postoperative aspects of treatment with the same enthusiasm, insight, and rigor. Activity modification, wound care, and physical rehabilitation must all be tailored to the

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Repair of CCL with new materials James L. Cook DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ACVSMR, Missouri, USA

Cranial cruciate ligament (CCL) deficiency is a common and costly problem in dogs for which there are multiple treatment modalities. While numerous techniques have been investigated, none have proven optimal in terms of technical ease, associated costs, prevention of secondary pathology, complication rate or types, or long term outcomes. To the authors’ knowledge, no technique for treatment of CCL deficiency has been shown superior to others in terms of functional outcome. In fact, recent evidence suggests that there is no appreciable difference in short or longterm functional outcomes among commonly used CCL treatment techniques. Therefore, we sought to investigate a stifle stabilization technique that had the potential to address perceived shortcomings of current techniques specifically to be minimally invasive, technically feasible, address all aspects of instability, minimize secondary pathology, and consistently result in functional outcomes with a low complication rate in a cost effective manner. After initial testing for safety and efficacy via in vitro, ex vivo, and animal model studies, we prospectively compared the outcomes of a novel technique, the Tightrope CCL (TR) (Arthrex Vet Systems, Naples, FL), to Tibial Plateau Leveling Osteotomy (TPLO) (Slocum Enterprises, Eugene, WA) in dogs with CCL deficiency. After this prospective cohort clinical trial was completed, TR was released for clinical use. As part of a commitment to critically assess outcomes associated with TR, we enrolled veterinarians using TR in a multicenter outcomes study to further assess clinical safety and efficacy in over 1,000 cases. The study design for the prospective clinical trial was within the guidelines of our institution’s animal care and use committee for privately-owned canine patients. Dogs presenting to the University of Missouri Veterinary Medical Teaching Hospital from October 2006 through April 2007 for hindlimb lameness subsequently diagnosed to be caused by CCL deficiency were considered for study inclusion. Dogs were included in the study when the owners consented to TR or TPLO being performed on their dogs, and to allowing relevant data to be collected, analyzed, and reported. After diagnosis of CCL deficiency and consent to treatment, the affected stifle(s) of each dog was (were) arthroscopically evaluated and treated as deemed necessary based on CCL, articular cartilage, and meniscal pathology noted. TR or TPLO was then performed to address stifle instability. All surgical procedures were performed by a single surgeon (JLC). Pre-operative and postoperative treatments including instructions for aftercare and recheck examinations were

standardized for all dogs in the study. Intra-operative findings and treatments, as well as all intraoperative and postoperative complications, were determined and recorded. All dogs were evaluated 6 months postoperatively using the Texas A&M clinical questionnaire developed by Hudson, et al (AJVR 2004) as the primary outcome measure. Subjective radiographic assessment of stifle osteoarthritis (OA) changes using the system developed by Roy, et al (Vet Surg 1992) was performed to determine amount of radiographic change over the study period. Statistical analyses were performed with significance set at p < 0.05. Twenty-four stifles in the TR group and twenty-three stifles in the TPLO group met inclusion criteria. There were no significant differences in age, weight, pre-operative TPA, or pre-operative radiographic score between groups. The overall complication rates (12.5% TR vs 17.4% TPLO) were not significantly different between groups. This included documented subsequent meniscal tear rates (8.3% TR vs 8.7% TPLO). No significant differences were noted between TR and TPLO for scores for each of the 11-point Texas A&M Client Questionnaire Outcome Measures. Scores varied between groups as to which was numerically “better” for each outcome measure. No significant differences were noted between TR and TPLO for change in radiographic OA score or total radiographic score at the 6-month postoperative study end point. Both groups had numerically higher radiographic scores 6 months after surgery, however, the differences were not significant compared to preoperative scores for either group. Centers from around the world interested in performing and evaluating TR clinically were then enrolled based on their voluntary commitment to prospectively collect and submit outcomes data for all dogs that they treated with TR for which ≥ 3-month follow-up data were available. Definitions and criteria for reporting time frame, outcome, and complications associated with TR cases were from a system proposed for clinical orthopaedic studies in veterinary medicine (Vet Surg, in press) and were set and given to each participating center a priori. Data were reported by each participating center directly to the author and were combined for descriptive analyses. ANOVA with significance set at p<0.05 was used to test for differences among time frames. Twenty-nine centers participated in the study. Data from 1,004 TR cases were collected. Dogs ranged in weight from 2-93 kg. Time frame of assessment ranged from 3 months to 3 years with 58.7% being short term (3-6 mos), 31.1% being mid term (6-12 mos), and 10.2% being long term (>12 mos) 74


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of care can be expected to occur in approximately 10% of TR cases. While no catastrophic complications occurred and the major complication rate is the lowest reported in the peer-reviewed literature for any CCL surgical technique to the author’s knowledge, the rate and types of complications noted should be fully disclosed to clients during preoperative discussions regarding treatment of CCL disease in dogs, including the fact that approximately 6% of patients will be judged to have unacceptable function as a final outcome. Based on the prospective, multicenter nature of this study, these subjective data indicating safety and efficacy of Tightrope CCL for treatment of dogs with CCL disease can be broadly applied.

follow-up. Subjective clinical outcomes as assessed by the reporting DVM were determined to be successful in 93.9% of cases. At follow-up, 54.1% of cases were judged to have “full function”, 39.8% were judged to have “acceptable function”, and 6.1% were judged to have “unacceptable function”. No catastrophic complications were reported in this study. Major complications were reported in 9.9% of cases and consisted of subsequent meniscal tears (4%), infection (2.8%), and failure (3.1%). Minor complications were reported in 10.1% of cases, the majority of which involved seroma formation. No significant differences in levels of function or rates and types of complications were noted among follow-up time frame categories. These data suggest that Tightrope CCL can be successfully performed in medium, large, and giant breed dogs with CCL deficiency and result in 6-month outcomes which are not different than TPLO in terms of client-evaluated level and degree of pain and function, as well as subjective assessment of radiographic progression of osteoarthritis. The Tightrope CCL technique was felt to be minimally invasive, relatively easy to perform, and cost effective in comparison to TPLO. The multicenter data show that Tightrope CCL can be expected to be associated with successful outcomes in approximately 94% of patients that are typically presented to veterinary clinics for signs of CCL disease. Clients should be advised that complications requiring further surgical or medical treatment based on current standards

Acknowledgments: My sincerest thanks to the conscientious veterinarians at the 29 participating centers who helped bring TightRope to clinics in a safe and effective manner and honestly reported their data. Disclosure: JL Cook is a paid consultant for Arthrex and receives royalties from sales of Tightrope. Tightrope devices were provided by Arthrex for the initial clinical study.

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Evidence-based orthopaedics for practitioners James L. Cook DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ACVSMR, Missouri, USA

The current success of veterinary orthopaedic surgery cannot distract us from the need to continue to elevate the standards of practice. To the contrary, the increasing cost of surgical care and the financial success of surgical specialists make us accountable for more critically assessing the safety and efficacy of the treatments we provide. The application of the results from clinical efficacy studies to patient care is referred to as evidence based medicine. The concept of evidence-based medicine is being adopted in the human medical field and to some degree in veterinary medicine. Unfortunately, veterinary orthopaedics does not currently meet the highest standards in terms of producing data of high evidentiary value or developing and implementing new devices and procedures in a systematic methodology that ensures safety and efficacy prior to any clinical use. We need to pursue studies and processes that provide the ‘‘best’’ evidence or data for valid decision making, ethical application of diagnostics and treatments, ensuring patient safety, and accurately weighing the costbenefit ratio for our clients. Studies of high evidentiary value include both clinical and basic science research and can have a variety of outcome measures; however, they need to be applicable in terms of time frame, species, model, application, and definition of success. The troubling fact is that the overwhelming majority of clinically applicable studies in veterinary surgery fail to meet this or even lower levels of clinical evidence. Subsequently, decision making is based extensively on substandard clinical studies, dogma, and the ‘‘personal experience’’ of ourselves or our mentors. A vast array of lameness scores, palpation methods, and client questionnaires, none of which to our knowledge have been rigorously validated are reported in veterinary surgical publications. Every surgeon, myself included, is guilty of using these measures, applying data from these measures, and/or making potentially inappropriate decisions based on these measures. Outcomes instruments are standardized methods and questionnaires used for determining the clinical safety and efficacy of a technique or medication. Development of rigorous outcomes instruments is not simple or inexpensive, however, we believe that the rapid growth of orthopaedic surgery and the economic success of veterinary surgeons performing these techniques necessitates the development, validation, and consistent implementation of standardized outcomes assessment instruments as quickly as possible. Accomplishing this goal would enable us to provide solid evidence for the procedures we perform on a

daily basis: to truly compare diagnostics, treatments, and protocols, and optimally inform our clients. The development and validation of outcomes instruments is well documented in human orthopedics. Excellent examples include the SF-36 Health Survey from Medical Outcomes Trust, Inc., Knee Injury and Osteoarthritis Outcome Score (KOOS), and the Western Ontario and McMaster Universities Osteoarthritis (WOMAC) Index. The need for validated outcomes instruments goes beyond assessment of our own performance. As veterinary surgeons, we have a responsibility to our clients to advise them on the safety and efficacy of pharmaceuticals, nutritional supplements, and alternative and complementary medicine techniques. Whereas pharmaceutical manufacturers must meet FDA standards, few studies go beyond these requirements to critically assess the long term value of medications for improving the function and quality of life of our patients. As clinicians, we believe that the procedures we perform are efficacious and serve the welfare of our clients and patients. But today it is not adequate to simply believe that our techniques are effective, we must prove it. The Canine Orthopedic Outcomes Measures Program is a dedicated effort designed to address the perceived need in veterinary orthopedics for development of standardized and validated outcomes instruments allowing clinically relevant comparison studies of surgical, medical, and alternative treatments in veterinary medicine. The authors initiated this program to accomplish that objective. Dr. Dottie Brown has been actively researching owner assessment outcome instruments for the last 4 years through her NIH K08 grant. Building on Dottie’s initial research, we will develop a clinically relevant owner (or lay observer) based outcomes instrument to assess measures of quality of life, pain, and function (including limb-specific measures). Our plan is to first develop this owner (lay observer) based assessment tool, followed closely by development of a clinician-based instrument covering the same measures. Prof. John Innes will be the lead investigator on the clinician-based tool. Over the past year, Drs. Kurt Schulz and I have garnered major sponsorship for this work from Pfizer, Merial, and Novartis, and additional sponsorship from Arthrex, Biomedtrix, Fort Dodge, and IMEX. These sponsors have provided sufficient funding to actively pursue the work of the OMP. All funds are being routed through the ACVS Board of Regents and the ACVS Foundation, enabling us to maintain credibility, accountability and oversight for this program. The final instruments will be available free of charge 76


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References

via the web to all investigators wishing to use them for clinical, translational, and comparative studies. We have enlisted an incredible group of advisors who have agreed to provide input regarding the development and applicability of the instruments. Dr. Amy Kapatkin will be the primary liaison for the advisory group. Importantly, we have also received initial philosophical “buy-in” from the ACVS, FDA, NIH, and numerous corporate entities supporting the substantial need for these instruments and our proposed mechanism for their development, validation, and application. We are dedicated to the success of this project so that the end result will be instruments used broadly throughout the veterinary field. Additionally we hope to further the understanding among veterinarians and other scientists that validated and standardized outcomes instruments are valuable and necessary tools for our professions.

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Schulz KS, Cook JL, Kapatkin AS, Brown DC. Evidence-based surgery: Time for change. Vet Surg 2006;35:697-699. Cook JL. Outcomes based patient care in veterinary surgery: What is an outcome measure? Vet Surg 2007;36:187-189 Brown DC. Outcomes based medicine in veterinary surgery: Getting hard measures of subjective outcomes. Vet Surg 2007;36:289-292 Kapatkin AS. Outcomes based medicine and its application in clinical surgical practice. Vet Surg 2007;36:515-518 Innes JF. Outcomes based medicine in veterinary surgery: Levels of evidence. Vet Surg 2007;36:610-612 Schulz KS. The outcomes measures program: What’s in it for you? Vet Surg 2007;36:715-716

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I coxib di nuova generazione possono davvero rivoluzionare il trattamento del dolore? Il ruolo di questi farmaci per l’anestesista che si occupa di dolore Federico Corletto DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Six Mile Bottom (UK)

I farmaci anti infiammatori non steroidei (FANS) cosituiscono il fondamento della terapia del dolore domiciliare in medicina veterinaria. Il loro uso, tuttavia, non è scevro da complicazione, in particolare interessanti l’apparato gastroenterico. La comparsa di tali complicazioni (nausea, emesi, ulcerazioni gastriche, ematochezia) spesso limita l’impiego di tali farmaci in alcuni pazienti, risultando in un considerevole impatto sulla qualità della vita dell’animale. Lo sviluppo di farmaci con migliore gastrotollerabilità è stato ed è tuttora oggetto di ricerca da parte delle compagnie farmaceutiche, sia in medicina umana che veterinaria. La caratterizzazione delle due isoforme dell’enzima ciclossigenasi (COX-1 e COX-2), ha aperto la strada allo sviluppo di farmaci con minori effetti collaterali e migliore gastrotollerabilità a lungo termine. Mentre la COX-1 è prevalentemente implicata nel mantenimento dell’omeostasi, la COX-2 sembra essere responsabile delle modificazioni indotte durante il processo infiammatorio. La situazione clinica è risultata essere, tuttavia, notevolmente più complessa, con la COX-1 e la COX-2 entrambe implicate nel mantenimento dell’omeostasi e nel processo infiammatorio. Ciononostante, lo sviluppo di farmaci con prevalente selettività nei confronti della COX-2 è continuato e l’evidenza raccolta in laboratorio su modelli sperimentali e in trial clinici supporta una migliore gastrotollerabilità dei farmaci COX-2 selettivi rispetto ai FANS tradizionali di prima generazione, mentre il confronto con i farmaci più recenti suggerisce un rischio di effetti colalterali gastroenterici simile. I farmaci COX-2 selettivi sembrano influenzare in misura minore la produzione di prostanoidi a livello duodenale nel cane, rispetto ai FANS tradizionali ed il carprofen, tuttavia la limitata conoscenza dell’esatto ruolo di tale riscontro rende particolarmente difficile speculare sul ruolo di tale differenza nello sviluppo di complicazioni gastroenteriche. In medicina umana la migliore gastrotollerabilità è stata notevolmente ridimensionata alla luce dei possibili effetti collaterali cardiocircolatori riscontrati in pazienti in terapia cronica con coxibs. In base alle attuali conoscenze sulla produzione di eicosanoidi pro infiammatori, è lecito supporre che lo sviluppo dei FANS abbia raggiunto un plateau, che potrebbe essere superato solo nell’eventualità di ulteriori scoperte che consentano di modificare significativamente le ipotesi correnti sulle vie infiammatorie e quindi identificare un nuovo target per lo sviluppo di nuove molecole. Considerata tale situazione, la ricerca farmacologica e clinica si è quindi spostata nella dire-

zione della migliore caratterizzazione della tollerabilità a lungo termine di questi farmaci e dell’identificazione di nuove metodologie di somministrazione, in particolare considerando la necessità di somministrazione cronica e la palatabilità. Il coxib il cui uso è stato meglio caratterizzato in condizioni cliniche, dimostrando una notevole efficacia con minima incidenza di complicazionigastrointestinali è, probabilmente, il firocoxib, il cui uso è autorizzato, nel cane, fino ad un periodo di 90 giorni. Considerando più recenti sviluppi nella farmacologia dei coxib, sono degni di nota la commercializzazione di un FANS COX-2 selettivo a lunga durata di azione (mavacoxib) e di un FANS COX-2 selettivo che ha breve emivita plasmatica, ma persiste a livello del sito infiammatorio (robenacoxib). Il mavacoxib rappresenta una possibile soluzione al problema delle somministrazioni ripetute in animali in terapia cronica con FANS, in particolare i cani con osteoartrite. È un farmaco che, differentemente dai FANS comunemente disponibili in medicina veterinaria, è stato registrato per l’uso in cani con patologie degenerative articolari nei quali un trattamento per più di un mese è indicato. Il termine della licenza è, quindi, sostanzialmente differente dal comune uso perioperatorio ed il farmaco è, quindi, stato sviluppato per il solo trattamento cronico. È interessante notare che la biodisponibilità aumenta notevolemte quando il farmaco è somministrato per via orale con il cibo. La lunga durata di azione è determinata dal lento metabolismo, con emivita di eliminazione superiore a 16 giorni in condizioni sperimentali, mentre in condizioni cliniche l’emivita sembra essere notevolmente più lunga (39 giorni) e in alcuni casi (<5%) può superare gli 80 giorni. Per conseguire concentrazioni plasmatiche stabili, il farmaco deve essere somministrato al giorno 0, quindi 14, quindi ogni mese, per un massimo di 6 mesi e mezzo. L’uso è controindicato in animali con meno di un anno di età e in caso di patologie gastroenteriche, renali, insufficienza cardiaca, gravidanza, patologie della coagulazione. Gli studi clinic su larga scala effettuati dal produttore hanno mostrato simile tollerabilità al carprofen, per quanto riguarda gli effetti colalterali gastroenterici. Il principale problema relativo a tale formulazione è rappresentato dall’impossibilità di antagonizzare il farmaco in caso di effetti collaterali, nel qual caso la lunga durata di azione diviene un notevole svantaggio, e dal rischio di somministrazione concomitante o ravvicinata di altri FANS o steroidi, con notevole rischio di gastrotossicità. 78


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il notevole ruolo dei FANS nella gestione del dolore da osteoartrosi ed il fatto che tale patologia rappresenta la più comune indicazione terapeutica per l’utilizzo di analgesici in modo cronico, la disponibilità di coxib consente interventi analgesici rispettando i termini della licenza di commercializzazione del farmaco. Nonostante la relativa tollerabilità del carprofen, per esempio, è necessario considerare che l’uso di questo farmaco è autorizzato per un periodo fino a 5 giorni nel cane. Per quanto riguarda la possiblità di “rivoluzionare” il trattamento del dolore, probabilmente i coxib rappresentano una evoluzione di una classe di farmaci già importante nella gestione del dolore infiammatorio, ma sicuramente non possono essere considerati la soluzioni a tutti i tipi di dolore che richiedono terapia cronica. La complessa fisiopatologia del dolore è responsabile di una notevole variabilità nella risposta individuale agli analgesici, e la valutazione del paziente con un approccio logico e oggettivo rappresenta il passo fondamentale nel pianificare una terapia analgesica efficace.

Il robenacoxib è un coxib relativamente recente altamente selettivo, sviluppato con lo scopo di ottenere una rapida eliminazione dal torrente circolatorio e dai tessuti non affetti da processi infiammatori, mentre il farmaco tende ad accumularsi nei tessuti infiammati. Il robenacoxib può essere somministrato cronicamente nel cane, e i termini della registrazione a livello Europeo non pongono un limite temporale. Nel gatto, a differenza che nel cane, il farmaco può essere somministrato per un periodo di 6 giorni. In caso di somministrazione cronica, il produttore suggerisce di effettuare regolarmente test per valutare la funzione epatica e renale. Dal punto di vista clinico, la gastrotollerabilità è simile a quella degli altri FANS. La licenza per l’uso di questo farmaco è interessante, poiché consente, almeno nel cane, l’uso perioperatorio e quello cronico, non limitando l’ambito di utilizzo ad una sola situazione. Dal punto di vista prettamente teorico sono quindi disponibili almeno due prodotti che possono essere usati, nel cane, in modo cronico per trattare il dolore. Considerata

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Tiopentale prima, propofol poi, … e ora?! Cosa c’è di nuovo all’orizzonte? Federico Corletto DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Six Mile Bottom (UK)

A differenza di alter classi di farmaci (antibiotici, antiinfiammatori, antiparassitari), lo sviluppo di nuovi anestetici generali iniettabili sembra aver raggiunto un punto morto. La domanda che ci si deve porre a questo punto è la seguente: lo sviluppo si è fermato perché disponiamo già del farmaco ideale, e non lo abbiamo riconosciuto, oppure è possibile sviluppare nuovi agenti anestetici nel futuro immediato? Provando a considerare le caratteristiche ideali degli anestetici iniettabili, è possibile stabilire se i farmaci di cui disponiamo rispondono a tali caratteristiche: - Costo basso - Lunga conservabilità - Assenza di istolesività - Effetto prevedibile e di durata breve • Rapida perdita di coscienza • Assenza di fenomeni eccitatori durante l’induzione ed il risveglio dall’anestesia • Durata del risveglio non influenzata dalla quantità di farmaco somministrata - Minimo accumulo dopo somministrazione di boli ripetuti o infusione endovenosa - Minima depressione cardiocircolatoria - Minima depressione respiratoria - Metabolismo indipendente dalla funzione renale ed epatica

conoscenze farmacocinetiche e farmacodinamiche più recenti hanno conseguito di raffinare la modalità di somministrazione del propofol, per esempio utilizzando modelli PK/PD per conseguire in modo rapido e prevedibile, e con minimo rischio di sovradosaggio, una concentrazione plasmatica o a livello del sito effettore. Il farmaco è quindi dosato in modo più accurato, minimizzando gli effetti indesiderati derivanti dal temporaneo sovradosaggio al momento dell’induzione dell’anestesia. La somministrazione di propofol mediante sistemi guiti da computer o anche manualmente, ma rispettando il modello PK/PD, consente di mantenere uno stato di ipnosi con minima depressione cardiocircolatoria e, almeno nel cane, il risveglio è rapido e di durata prevedibile. Ovviamente è necessario inquadrare tale tecnica nell’ambito di un’anestesia bilanciata, pertanto la componente analgesica deve essere conseguita mediante l’utilizzo di altre tecniche (anestesia locoregionale) o farmaci (oppioidi). Per quanto riguarda il gatto, il propofol, essendo un composto fenolico, non presenta caratteristiche farmacocinetiche che lo rendono un composto ideale per la somministrazione in infusione: la durata della fase di risveglio, già dopo singolo bolo, è notevolmente maggiore rispetto al cane. Di più recente introduzione nel mercato Australiano ed Inglese è il neurosteroide alfaxalone. L’alfaxalone era precedentemente commercializzato, anche in Italia (Althesin), in combinazione con lo steroide alfadolone e con veicolo oleoso (olio di ricino). L’utilizzo di tale formulazione causava, tuttavia, un inaccettabile incidenza di reazioni anafilattoidi nell’uomo, pertanto l’anestetico è stato ritirato dal commercio. Nel Regno Unito, tuttavia, è stato utilizzato per anni in una formulazione ad uso veterinario (Saffan) nel gatto e negli animali estoci. L’elevata incidenza di reazioni anafilattoidi nel cane ne ha precluso l’utilizzo in questa specie, ma è bene ricordare che il Saffan causava liberazione di istamina in molti gatti. Lo sviluppo del farmaco non è stato tuttavia abbandonato, poiché l’alfaxalone, la molecola principalmente responsabile del meccanismo di azione anestetico presenta un notevole margine di sicurezza e minimi effetti cardiocircolatori, come dimostrato da studi con dosi cliniche e sopracliniche nel cane e nel gatto. La farmacocinetica dell’alfaxalone, inoltre, rende questa molecola un farmaco particolarmente interessante per l’uso in infusione, soprattutto nel gatto. Consoderato ciò, è stata recentemente sviluppata e commercializzata, prima in Australia e poi nel Regno Unito, una nuova formulazione dell’alfaxalone, in ciclodestrine.

Al momento nessun farmaco presenta tutte le caratteristiche sopra elencate e dal punto di vista pratico il principale problema incontrato nello sviluppo di nuove molecole anestetiche è rappresentato dal fatto che l’esatto sito e meccanismo di azione dei farmaci anestetici non è ancora stato identificato. È quindi impossibile ideare un farmaco se non si conosce l’esatto recettore o meccanismo di azione che si desidera ottenere. La produzione di un farmaco con le caratteristiche ideali richiederebbe l’esatta comprensione dei meccanismi del sonno e l’induzione di uno stato di sonno controlalto farmacologicamente, in modo che non vi sia una significativa alterazione dei meccanismi neurovegetativi. I farmaci anestetici attualmente disponibilii sono il tiopentale (ormai in disuso), il propofol e la ketamina (e tiletamina). Mentre per il tiopentale e le cicloesamine risulta notevolemente difficile conseguire le caratteristiche dell’anestetico ideale, il propofol è probabilmente il farmaco che attualemente più si avvicina ad esse, pur non riuscendo a ragiungere la perfezione. La ketamina risulta essere, invece, più utile come ausilio nell’analgesia intraoperatoria. Le 80


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Tale farmaco, nonostante un costo relativamente elevato e paragonabile a quello del propofol appena introdotto in medicina veterinaria, è particolarmente interessante per l’anestesia veterinaria: non solo può essere dosato in maniera incrementale per ottenere un effetto che va dalla sedazione all’anestesia, ma sembra indurre meno depressione ventilatoria rispetto al propofol e può essere somministrato in infusione nel gatto senza rischio di accumulo. Può essere, inoltre, somministrato anche per via intramuscolare in animali nei quali non sia possibile ottenere un accesso venoso; l’uso di tale via di somministrazione è,

tuttavia, limitato dal volume da somministrare in animali con peso superiore a 5-6 kg. In conclusione, è probabile che nuove molecole non saranno immesse sul mercato a breve termine, tuttavia il raffinamento delle tecniche di somministrazione dei farmaci già commercializzati può consentire di migliorare la sicurezza dei protocolli anestetici. È ausipcabile, inoltre, che la nuova formulazione dell’alfaxalone sia introdotta anche in Italia, considerata il potenziale di questo agente anestetico nell’anestesia totalmente iniettabile nel gatto.

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Terapia preventiva delle malattie dermatologiche indotte dall’eccessiva esposizione solare Luisa Cornegliani Med Vet, Dipl ECVD, Milano

IL SOLE E LE RADIAZIONI ULTRAVIOLETTE (UV)

state segnalate reazioni allergiche all’applicazione e non protegge la cute già lesionata. Negli ultimi anni, sono stati introdotti prodotti con maggiori capacità di assorbimento (UVB ed UVA-II) e limitati effetti collaterali. La maggior parte dei dati sull’applicazione derivano dalla medicina umana e dagli studi di laboratorio. In generale è importante ricordare che vanno applicati ogni 2-3 ore. Si ottiene una migliore protezione applicando il prodotto 20-30 minuti prima dell’esposizione ai raggi solari e 15-30 dopo. I punti critici sono muso e parte distale degli arti, ma anche addome ed inguine sono a rischio4.

I raggi ultravioletti (UV) sono radiazioni elettromagnetiche con lunghezza d’onda inferiore alla luce visibile, ma maggiore dei raggi X; sono più piccole e rapide della luce visibile colorata, che ha una lunghezza d’onda da 400 a 700 nm (nanometri), e costituiscono meno del 5% della radiazione solare. La gamma delle lunghezze d’onda UV viene suddivisa in: UVA (400-320 nm), UVB (320-290 nm) e UVC (inferiore a 290 nm). La maggior parte dei raggi nocivi è assorbita dallo strato d’ozono, dalle impurità atmosferiche e dai vetri delle finestre. Tuttavia una parte di queste radiazioni raggiunge la superficie terrestre e rappresenta un potenziale rischio per la salute della cute. L’esposizione ai raggi solari aumenta al crescere dell’altitudine e per ogni 1000 metri si ha un incremento del 1012%. La cute deve essere protetta dall’eccessiva esposizione ai raggi UV sia al mare sia in montagna, soprattutto nelle giornate limpide e durante le ore più calde1,2,3.

ECCESSIVA ESPOSIZIONE AI RAGGI UV: MECCANISMI DI DIFESA DELLA CUTE E MALATTIE DERMATOLOGICHE ASSOCIATE Il mantello è la prima barriera fisica ai raggi solari e ne impedisce il contatto diretto con la cute. I raggi UV possono indurre foto-ossidazione ed un cambiamento nella composizione chimica del pelo. L’alterazione della struttura cuticolare comporta la diminuzione e/o perdita di coesione tra le lamelle cornee. Ne consegue indebolimento del pelo, perdita di lucidità ed opacamento. Questi eventi sono abbastanza rari in dermatologia veterinaria e possono essere limitati dal buonsenso, soprattutto nel cane. In dermatologia umana, esistono anche tumori del fusto pilare foto-indotti, ma negli animali non sono mai stati dimostrati. Gli animali a pelo corto, glabri o a pelo bianco sono a rischio maggiore di sviluppare dermatite solare, ustioni e tumore squamocellulare. La cute adotta numerosi meccanismi per difendersi dall’esposizione ai raggi UV: sintetizza enzimi, antiossidanti e “stress protein” che proteggono le cellule epidermiche dai danni ossidativi. Altri enzimi consentono di riparare il DNA cellulare eventualmente danneggiato. Inoltre, tramite la produzione di melanina, da parte dei melanociti dello strato basale dell’epidermide, le radiazioni ultraviolette sono assorbite con relativa diminuzione del danno cellulare1,2,3,5,6.

PREVENZIONE: QUALCHE SUGGERIMENTO UTILE La prevenzione è una la migliore terapia. Bisognerebbe evitare lunghe passeggiate nelle ore più calde e, nella stagione estiva, tra le 10 e le 16. Gli animali, come le persone, hanno cuti differenti secondo età e razza: gli animali a pelo corto e chiaro sono a maggiore rischio per malattie fotoindotte. In questi casi, la dove non è possibile limitare le attività del cane o del gatto (animali con accesso al giardino) è necessario utilizzare protettivi solari prima delle esposizioni.

Cosa sono i protettivi solari e come funzionano I protettivi solari sono divisi in fisici e chimici. I primi sono pigmenti organici che proteggono la cute impedendo ai raggi solari di penetrarla attraverso la formazione di una barriera opaca che li riflette, mentre gli altri assorbono i raggi UV. I protettivi solari fisici sono l’ossido di zinco ed il diossido di titanio. Entrambi forniscono una protezione totale e non sono state segnalate reazioni avverse alla loro applicazione. I protettivi chimici sono una famiglia di prodotti a base di acido aminobenzoico (PABA) e derivati del benzofenone. Il PABA è un buon assorbente degli UVB, ma sono

Malattie dermatologiche foto-indotte La dermatite solare è una reazione fototossica ed interessa principalmente le aree glabre e/o a pelo corto degli animali. La sua gravità dipende dal tempo d’esposizione ai raggi UV e si ha la formazione di cheratinociti vacuolizzati dell’epidermide superficiale, cheratinociti apoptotici, dilatazione dei 82


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le infezioni virali ed aumentando la suscettibilità per i tumori cutanei5,6.

vasi, incremento dei componenti vasoattive, delle citochine infiammatorie e dell’ossigeno reattivo. Questa serie di eventi induce una progressiva alterazione del DNA con possibile trasformazione cellulare neoplastica (cheratosi attinica vs carcinoma squamocellulare). Con l’esposizione ripetuta, dopo l’iniziale eritema, si formano lesioni dermatologiche spesso ad evoluzione carcinomatosa. L’elastosi è un evento importante a livello del collagene dermico ed implica una diminuzione dell’elasticità cutanea1,2,3,5,6. Nel gatto bianco, le lesioni croniche sono rappresentate da una dermatite attinica su orecchie, dorso del naso, ecc. Nei casi più gravi la malattia progredisce in carcinoma squamocellulare. La neoplasia è localmente invasiva; la gravità della lesione e la sua localizzazione, spesso rendono necessarie interventi chirurgici debilitanti. Nel cane si possono sviluppare follicoliti e cisti follicolari attiniche su tronco ed arti. Le complicanze batteriche nel cane (piodermite), peggiorano i sintomi clinici e prolungano la risoluzione delle lesioni dermatologiche1,2,3,5,6.

TERAPIA: QUANDO NON È STATA FATTA PREVENZIONE E SI DEVONO LIMITARE I DANNI Il trattamento farmacologico consiste, per i casi meno gravi, nella protezione dai raggi solari e l’idratazione cutanea; alcuni autori suggeriscono beta-carotene a 30 mg/kg/die per os. Se presenti lesioni dermatologiche di maggiore gravità è preferibile aggiungere corticosteroidi per via sistemica a dosi antinfiammatorie (prednisolone 1 mg/kg/die) per 7-10 giorni; in alcuni casi può essere utile acitretina 0,5-1 mg/kg/die nel cane e 5-10 mg/gatto. Negli animali con infezione batterica si utilizzano antibiotici ad ampio spettro (durata secondo la gravità dell’infezione). Alla presenza di neoplasie cutanee è meglio consultare il veterinario oncologo per la terapia più idonea5,6. Negli animali con malattie immunomediate, dove gli UV abbiano indotto peggioramento o recrudescenza della sintomatologia, è utile consultare il dermatologo per modificare la terapia.

Malattie dermatologiche foto-aggravate L’esposizione eccessiva ai raggi solari è un fattore di peggioramento di malattie immunomediate. In particolare modo è da evitare in corso di lupus cutaneo e/o sistemico, lupus vescicolare dello Sheltie Sheep dog, dermatomiosite, pemfigo complex e penfigoide. In queste malattie, l’esposizione agli UV può aumentare la liberazione di antigeni, generare alcune molecole di DNA alterato dai cheratinociti epidermici e creare numerose citochine e molecole di adesione. Le molecole di DNA alterato fissandosi alla membrana basale dell’epidermide, alla presenza di autoanticorpi, formano nuovi immunocomplessi e causano la recrudescenza della malattia. È importante informare i proprietari riguardo ai rischi che i loro animali corrono se esposti erroneamente ai raggi UV, per evitare recidive e conseguenti modifiche del protocollo terapeutico in atto1,2,3,5,6.

Bibliografia 1.

2.

3.

4.

Altri effetti dei raggi UV

5.

Animali in terapia con alcuni antibiotici, come per esempio le tetracicline, devono evitare l’esposizione ai raggi solari: questi possono causare una reazione di foto-tossicità e foto-allergia per i “cataboliti” dei farmaci. L’eccessiva esposizione ai raggi UV, altera la normale azione delle cellule di Langerhans influenzando la produzione di citochine, la normale protezione nei confronti degli antigeni estranei inducendo una diminuita protezione verso

6.

Bensignor E, (1999), Soleil et peau chez les carnivores domestique, 1- effects des raynnements solaires sur les structures cutanées, Le Point Veterinaire, 30: 225-228. Bensignor E, (1999), Soleil et peau chez les carnivores domestique. 2-Affections photo-induites et photo-aggravées, Le Point Veterinaire, 30: 229-236. Calmont JP, (2002), Dermatoses solaires (1re partie): photodermatoses et dermatoses photo-aggravées. Prat Méd Chir Anim Comp, 37: 185-193. Gasparro FP, Brown D, Diffey BL, Knowland JS, Reeve V (2003): Sun protective agents: formulations, effects and side effects. In Fitzpatrick’s Dermatology in general medicine, McGraw-Hill ed. cap 247: 2344-2359. Noli C, Scarampella F, (2004), Malattie ambientali, in Dermatologia del cane e del gatto, ed Poletto, 327-330. Scott DW, Miller WH, Griffin CE, (2001), enviromental skin diseases, in Muller and Kirk’s small animal dermatology. WB Saunders, Filadelfia, cap 16: 1073-1081.

Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria S. Siro, Milano E-mail: lcornegliani@libero.it

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Dermatite erpetica felina Luisa Cornegliani Med Vet, Dipl ECVD, Milano

INTRODUZIONE

DIAGNOSI

Herpesvirus felino di tipo 1 (FHV-1) è un Alphaherpesvirus con epiteliotropismo. FHV-1 è un comune patogeno dei gatti domestici principalmente associato a rinite acuta e cronica, cheratocongiuntivite ulcerativa ed eosinofilica, sequestri corneali ed uveite della camera anteriore1. FHV-1 è anche responsabile di stomatiti, dermatiti erosive e ulcerative facciali e nasali2.

Le metodiche diagnostiche a disposizione sono varie e la scelta del tipo di esame va effettuata in base al quadro clinico del soggetto e al materiale campionabile. Sulle biopsie cutanee la diagnosi definitiva richiede l’identificazione degli inclusi intranucleari classici di FHV-13. Qualora questi non siano identificabili, ma permane il sospetto clinico, è possibile ricercare il virus tramite metodiche differenti come per es. reazione a catena della polimerasi (PCR) o immunoistochimica (IIC).

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Esame istopatologico La dermatite da FHV-1 è caratterizzata istologicamente da severa necrosi e ulcerazione dell’epidermide con estensione della necrosi nel derma sottostante. C’è generalmente una massiva essudazione che forma estese croste serocellulari superficiali. L’epidermide adiacente all’ulcera è acantotica. Ci possono essere spongiosi, degenerazione balloniforme e occasionalmente vescicolazione superficiale. La necrosi e la spongiosi possono estendersi nei follicoli superficiali, spesso fino all’istmo. L’epitelio follicolare intatto è generalmente iperplastico. Gli eosinofili spesso migrano nell’epitelio necrotico della parete follicolare e degranulano in questa sede. In tutti i casi, i corpi inclusi intranucleari possono essere presenti e/o assenti. Questi ultimi sono meglio identificati nell’epitelio integro vicino ai foci di necrosi; più in profondità si possono trovare dentro le ghiandole sebacee. I corpi inclusi intranucleari sono metallici o amfofilici, generalmente omogenei e marginano la cromatina. Nelle lesioni acute, il derma è generalmente invaso da eosinofili e neutrofili (localizzazione da perivascolare a diffusa) con presenza di aggregati di linfociti e plasmacellule. I corpi inclusi sono difficilmente identificati all’interno dell’infiltrato infiammatorio. Dal punto di vista istopatologico, la dermatite erpetica può essere indistinguibile da quella d’ipersensibilità al morso d’insetti o altre malattie eosinofiliche, se i corpi inclusi non possono essere identificati. Nella placca eosinofilica istologicamente si riscontrano spongiosi e mucinosi, senza coinvolgimento dell’epidermide e dei follicoli superficiali. Nell’ulcera indolente spesso si rileva intensa degranulazione degli eosinofili. La dermatite erpetica ulcerativa neutrofilia può essere simile alle infezioni batteriche croniche o all’infezione da cowpoxvirus (anche se in questo caso i corpi inclusi di tipo A sono intracitoplasmatici ed eosinofilici)3. In generale, si consiglia di eseguire biopsie multiple per aumentare la possibilità d’identificazione dei corpi inclusi nelle istologie1,2.

Le dermatiti ulcerative causate da FHV-1 sono poco frequenti e a localizzazione prevalentemente facciale. Sono caratterizzate da erosioni e ulcerazioni al muso, associate a vari gradi di eritema, essudazione, ulcerazione e croste. Sono state osservate anche lesioni vescicolari. Le aree facciali più frequentemente interessate dall’infezione sono il tartufo, il filtro, canna nasale, le labbra e le regioni periorbitali1,2. Un limitato numero di gatti può presentare lesioni facciali simmetriche che mimano malattie autoimmuni. Altri animali manifestano lesioni ulcerative nella porzione distale degli arti, forse per il contatto diretto con le secrezioni e/o le aree ulcerate durante l’azione di pulizia di toelettatura. Il prurito generalmente è moderato o assente, ma la concomitante presenza di infezioni microbiche secondarie può renderlo più manifesto1,2.

DIAGNOSI DIFFERENZIALI Negli animali giovani, provenienti da colonie o gruppi di gatti non vaccinati, difficilmente possono essere sospettate malattie differenti dalla forma virale, considerando anche il concomitante coinvolgimento sistemico (febbre, ecc). Nelle forme croniche le lesioni cliniche possono essere compatibili con molte malattie dermatologiche1,2. Le diagnosi differenziali includono: ipersensibilità al morso di insetti, reazione allergica al cibo, malattie eosinofiliche feline raggruppate come complesso granuloma eosinofilico, infezioni batteriche, altre dermatiti virali, pemfigo fogliaceo ed alcune malattie neoplastiche (es. carcinoma squamocellulare)1,2,3. 84


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Isolamento virale

gendo con un substrato cromogeno, lo fa precipitare nel punto dove la reazione antigene-anticorpo è avvenuta6. L’immunoistochimica è considerata un metodo diagnostico sensibile e specifico per identificare le proteine di herpesvirus nelle biopsie. Di fatto, l’identificazione di proteine virali significa la presenza di antigeni virali, di attiva trascrizione e trasduzione dell’mRNA virale. L’immunoistochimica può discriminare tra un’infezione attiva o latente, quando solo poche proteine virali sono trasdotte1,6.

L’isolamento del virus si esegue con colture cellulari da linee cellulari feline in cui è possibile rilevare l’effetto citopatico causato dalla replicazione di FHV-1. L’isolamento virale può essere utile in corso d’infezione acuta, visto l’elevata capacità replicativa virale. Nelle infezioni croniche tale metodica è difficoltosa ed è considerata meno sensibile della PCR4. Inoltre è difficoltoso trovare un laboratorio con adeguata attrezzatura per eseguire tale isolamento1.

Reazione a catena della polimerasi

CONCLUSIONI

La PCR consente d’identificare alcune sequenze virali, tramite primer specifici, permettendo il riconoscimento del virus nel campione in esame, con l’amplificazione di una specifica sequenza nucleotidica del DNA. Nei laboratori di diagnostica per l’identificazione di FHV-1 si utilizzano: PCR convenzionale, nested-PCR e real-time PCR. I primer specifici amplificano una regione del gene della timidina chinasi che rappresenta uno dei target preferenziali per la diagnosi di herpesvirus tramite PCR1,5. In questo momento, la PCR è considerata il metodo di elezione per identificare l’FHV-1 nei campioni biologici, e sembra più sensibile dell’isolamento virale o dell’immunofluorescenza indiretta. Tuttavia l’impiego di questa metodica nei gatti con dermatiti ulcerative, dove si sospetta un’eziologia virale, può avere dei limiti. L’integrazione del DNA virale nel DNA cellulare dell’ospite non consente la corretta distinzione tra infezione attiva o latente. Un altro limite nell’impiego della PCR è che la sensibilità varia secondo il tipo di PCR impiegata, dal numero di cicli, dal tipo di primer, dal tampone, dalla temperatura e dall’eventuale contaminazione. In generale, con l’aumentare della sensibilità aumenta anche la possibilità di ottenere falsi positivi. La loro presenza può dipendere da un’errata interpretazione dei risultati. L’alta sensibilità della PCR è quindi anche il suo limite. Un risultato positivo va sempre interpretato con cautela e correlato al quadro clinico1.

La PCR rivela il DNA virale, ma non è possibile correlarlo a un’infezione attiva nei campioni presi in esame. Per questo può essere considerato uno screening preliminare. L’immunoistochimica rileva l’espressione proteica che indica la transcrizione virale, l’attivazione del virus e la possibile eziologia virale delle lesioni cliniche. Può essere considerata più sicura per dimostrare la correlazione tra virus e lesioni dermatologiche.

Bibliografia 1.

2.

3.

4. 5.

6.

Immunoistochimica L’identificazione di FHV-1 può avvenire tramite tecniche immunodiagnostiche che utilizzano l’anticorpo virus specifico. Tali metodiche permettono il riconoscimento dell’antigene con l’utilizzo dell’anticorpo coniugato con cromogeno. L’immunocomplesso è coniugato con un enzima che, rea-

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Indirizzo per la corrispondenza: Ambulatorio Veterinario Associato, Torino E-mail: lcornegliani@libero.it

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Le emergenze oftalmologiche: diagnosi e trattamento Alberto Crotti Med Vet, Genova

INTRODUZIONE

oppiacei il butorfanolo, il metadone, il tramadolo ed il fentanyl. In soggetti particolarmente agitati va valutata l’utilizzazione di farmaci sedativi dopo attenta valutazione dello stato generale. Per evitare gli autotraumatismi è sempre opportuno raccomandare l’uso di un collare elisabettiano o altri mezzi di contenzione appropriati.

Con il termine emergenza oftalmologica si intende uno stato clinico, molto frequentemente ad insorgenza acuta, nel quale il ritardo nella diagnosi e conseguentemente nel trattamento mette a rischio la struttura anatomica e di conseguenza il corretto funzionamento delle componenti oculari con possibile perdita parziale o totale della funzione visiva. Molto spesso le urgenze oftalmologiche sono la conseguenza di eventi traumatici esterni quali ferite, corpi estranei, causticazioni corneali e la proptosi bulbare anche se in alcuni casi quali ad esempio il glaucoma acuto la causa è da ricercarsi in patologie intraoculari.

LE ULCERE CORNEALI L’ulcera corneale consegue alla perdita di integrità della superficie corneale. Le cause possono essere molteplici ma i traumi esterni in seguito a ferite da graffio o morsicature, il contatto con sostanze caustiche quali ad esempio gli alcali, la presenza di corpi estranei non diagnosticati come frammenti vegetali rappresentano le evenienze più comuni. Il grado di urgenza e il tipo di trattamento sono determinati dalle dimensioni e dalla estensione in profondità della lesione. Lesioni epiteliali e stromali superficiali possono non essere considerate reali emergenze anche se non devono essere sottovalutate. Al contrario lesioni profonde dello stroma o localizzate alla membrana di Descemet obbligano il veterinario ad agire con rapidità o a riferire il caso ad uno specialista soprattutto se si ritiene opportuna la terapia chirurgica della quale questo tipo di patologie molto spesso necessita ai fini del loro trattamento. In questi casi la sola terapia medica può non essere sufficiente alla risoluzione del problema ed il ritardo nella eseguzione della corrette manualità può rappresentare un rischio per la funzionalità oculare. Dal punto di vista medico l’ulcera va curata sempre con terapia antibiotica topica con tobramicina, chinolonici o gentamicina in associazione alla sistemica quale amoxicillina ed ac. clavulanico, tetracicline o cefalosporine. L’uso di farmaci midriatici-cicloplegici come l’atropina 1% contribuisce, come già detto, a determinare una riduzione dello spasmo della muscolatura ciliare e di conseguenza del dolore, stabilizza la barriera ematoacquea e determinando midriasi evita l’insorgenza di sinechie irido lenticolari che possono potenzialmente dare origine a gravi complicanze secondarie. In caso di contatto con soluzione caustiche il lavaggio dell’occhio con soluzioni irriganti quali Ringer lattato o soluzione salina bilanciata (BSS) in modo prolungato è assolutamente indispensabile per limitare il contatto tra l’agente tossico e la superficie corneocongiuntivale riducendo in tal modo le conseguenti lesioni.

LA VISITA OCULISTICA Uno degli errori più comuni che viene commesso alla presentazione di un soggetto con emergenza oftalmica in atto è la mancata valutazione dello stato generale e una osservazione completa della struttura oculare. A fini esemplificativi possiamo osservare come nel caso di un soggetto che ha subito proptosi del bulbo in seguito a trauma automobilistico non si può non considerare la possibile concomitante presenza di trauma cranico, così come la sola valutazione di una ulcera corneale non può esimere dalla ricerca dell’eventuale presenza di un corpo estraneo causa dell’ulcera stessa. Per tali motivi quando un soggetto viene portato per un emergenza in campo oftalmologico è imperativo effettuare una accurata, anche se il più possibile rapida, visita oculistica.

CONTROLLO DEL DOLORE Il controllo del dolore durante le fasi di emergenza è essenziale sia per svolgere una visita completa sia per scongiurare possibili autotraumatismi. In corso di lesioni corneali l’uso di farmaci cicloplegici, riducendo lo spasmo della muscolatura ciliare contribuisce al controllo del dolore mentre a tale scopo viene sconsigliata la somministrazione di anestetici locali quali ossibuprocaina o benoxidate cloruro perché considerati istolesivi per le cellule epiteliali corneali. L’uso topico di derivati della morfina sarebbe invece, secondo alcuni autori, appropriato data l’assenza di tali effetti collaterali. A scopo analgesico possono essere utilizzati per via sistemica i fans quali il carprofene o l’ac. tolfenamico e tra gli 86


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LA PROPTOSI BULBARE

patologia con terapia medica ed il ricorso alla chirurgia deve essere il più possibile tempestivo. La prima fase della riduzione del prolasso consta nella cantotomia laterale ai fini di ampliare la rima palpebrale. La seconda fase prevede, attraverso una manovra da effettuarsi con delicatezza, la riposizione del globo nella sua naturale sede anatomica orbitale. Questa manovra viene effettuata dopo aver apposto in prossimità della rima palpebrale alcune suture passanti ed utilizzando il manico di un bisturi o una spatola di Jager per esercitare una spinta delicata sul globo stesso. In seguito secondo la scelta del chirurgo può essere posto o meno in opera un flap della terza palpebra a scopo protettivo e contenitivo ed infine occorre raffrontare i margini palpebrali tramite tarsorrafia temporanea dopo aver provveduto alla sutura della cantotomia laterale. La terapia medica sistemica presuppone l’utilizzo di antibiotici come l’amoxicillina ed ac clavulanico ed antiinfiammatori steroidei quali prednisone e prednisolone o fans tipo carprofene ed antibiotici topici ad esempio tobramicina, enrofloxacina, gentamicina, cloramfenicolo da applicarsi in forma di collirio attraverso la rima palpebrale parzialmente suturata dalla tarsorrafia. Come precedentemente citato dovrebbero essere utilizzate terapie antalgiche e deve essere sempre applicato un collare elisabettiano per circa due settimane fino alla rimozione delle suture. Spesso la prognosi per la funzionalità visiva, nonostante l’intervento tempestivo e le corrette terapie può risultare riservata o infausta dal momento che in seguito all’evento traumatico si ha frequentemente danno alle fibre del nervo ottico in seguito alla sua trazione mentre può essere buona per il recupero anatomico se le cure sono state rapide. Le possibili complicanze sono nel breve termine emorragie intraoculari, edemi ed emorragie retrobulbari, malacia corneale ed exotropia. Nel lungo termine si può avere enoftalmo o esoftalmo, limitata mobilità bulbare, degenerazioni retiniche, danni su base neurologica alla ghiandola lacrimale principale con cheratocongiuntivite secca secondaria, ipoestesia corneale, tisi bulbare, cheratite da esposizione secondaria a lagoftalmo.

Si ha proptosi bulbare quando il globo oculare si sposta in senso anterogrado con conseguente suo blocco oltre il margine palpebrale. Le razze più frequentemente colpite sono le brachicefaliche e la causa è sempre riconducibile ad un evento traumatico esterno acuto quale lotte tra animali, investimento d’auto ma può conseguire anche a manualità di contenzione improprie. Non è possibile la risoluzione della

Indirizzo per la corrispondenza: Alberto Crotti Studio Veterinario Associato Via Paolo Revelli Beaumont 43 16143 Genova Tel. 010 5221411 - Fax 010 501338 E-mail: alcrot@tin.it

Il ricorso alla terapia chirurgica si avvale di tecniche quali la sutura corneale semplice, l’uso di flap peduncolati congiuntivali di vario tipo, il trapianto corneale lamellare, la trasposizione sclero corneale e corneo congiuntivale. Tali manualità necessitano di esperienza e strumentazione adeguata e vanno pertanto riferite a chirurghi oculisti.

IL GLAUCOMA ACUTO Il glaucoma acuto è causato dalla rapida insorgenza di aumento della pressione intraoculare in esito ad un fenomeno infiammatorio o per un alterazione anatomica preesistente dell’angolo di filtrazione iridocorneale in razze predisposte. Spesso la persistenza dell’ipertensione anche solo per alcune ore può determinare danni irreversibili al nervo ottico e alla retina con gravi ripercussioni sullo stato visivo fino a provocare cecità completa. I sintomi clinici ad insorgenza acuta sono caratterizzati da fotofobia, blefarospasmo, dolore, epifora, procidenza della terza palpebra, iperemia congiuntivale, congestione dei vasi episclerali, edema corneale e pupilla fissa e lievemente dilatata. Dal punto di vista terapeutico è essenziale provvedere con la massima rapidità ad instaurare una terapia che può essere inizialmente di tipo medico con inibitori dell’anidrasi carbonica quali la dorzolamide o la brinzolamide associati a betablocanti come il betaxololo e prostaglandinici come ad esempio il latanoprost con l’ausilio eventualmente di farmaci iperosmotici quali il mannitolo 20%. Nel caso la terapia medica di attacco non sia in grado di riportare in modo rapido e con stabilità la pressione entro i limiti della norma occorre optare per il ricorso alla terapia chirurgica. È essenziale in caso di glaucoma primario monolaterale instaurare una terapia profilattica sull’occhio controlaterale sano.

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Idiopathic recurrent pyoderma in dogs Douglas J. DeBoer DVM, Dipl ACVD, Wisconsin USA

To every veterinarian’s frustration, staphylococcal skin infections can be stubbornly recurrent in some dogs. The client (and the veterinarian) must understand that staphylococcal bacteria are in essence normal flora; infection cannot occur unless something has gone wrong with the skin or its defense systems. Thus particularly in recurrent infections, the first step is to attempt to define the underlying cause with appropriate diagnostic investigation. In younger dogs with recurrent infections, common causes of recurrence include external parasites and allergic disease. Older animals can also develop recurrent infections from hypothyroidism, or any other underlying systemic disease. Despite thorough testing, some patients with recurrent infections defy diagnosis – their infections respond completely to antibiotic treatment, yet continue to recur soon after such treatment is discontinued. For such patients with “idiopathic recurrent pyoderma” there are several measures that may help to prevent or limit recurrence.

and of course, presence of a highly resistant bacterial strain may complicate treatment. In some cases of recurrent pyoderma, there are complicating factors. We must consider several forms of pyoderma where there are additional factors contributing to the pathogenesis, and making treatment difficult. Examples include German Shepherd Dog Pyoderma/Cellulitis — a special case of deep pyoderma, where there is evidence of a genetically-determined cellular immunodeficiency. Also, interdigital pyoderma - in addition to staphylococcal infection, the deep infection that occurs between the toes is in part foreign body reaction to hair shafts, perhaps entrapped in scar tissue, and recent evidence suggests that at least some cases truly begin as cystic structures that become secondarily infected.

IDIOPATHIC RECURRENT PYODERMA: CLINICAL PERSPECTIVE From a clinician’s perspective, the main underlying causes of a recurring pyoderma can be divided into 4 groups, depending on the response to antibiotic treatment. Routine procedures such as skin scrapings for mites, dermatophyte culture, careful history, and physical examination should be conducted first to eliminate common and obvious causes of recurrence. Following this, the patient’s response to antibiotic treatment is a valuable clue to underlying factors, and will aid greatly in planning logical diagnostic evaluation to uncover the predisposing factors for each patient. The clinician must treat with antibiotics ALONE, for 3 to 4 weeks, then observe the clinical response. We can examine the 4 groups of underlying causes more carefully, depending on response. • If the response is a complete clearing of lesions, yet with substantial remaining pruritus, allergic causes should be strongly considered as underlying causes. • If the response is a partial clearing of the lesions, but the skin is not totally normal and pruritus remains, underlying factors to consider include inadequate treatment, parasitism, food allergy, primary seborrhea, or dermatophytosis. Diagnostic steps in this case might include repeated skin scrapings, empirical treatment for scabies mites, a hypoallergenic diet trial, fungal culture, and skin biopsy. • If there is little or no clinical response to antibiotic treatment at all, factors such as antibiotic resistance or poor client compliance should be considered. It’s also

HOST FACTORS, BACTERIAL FACTORS, COMPLICATING FACTORS Advanced techniques have allowed a more careful examination of the host factors AND the bacterial factors that may be important in the pathogenesis of recurrent pyoderma. The first step in infection is adherence of the bacterium to the cells or tissue of interest. Recent studies have shown that it is much easier for staphylococci to adhere to canine skin cells than to feline skin cells. Perhaps this helps explain why infection occurs more often in dogs. As another example, the epidermis, as part of its normal defense system, secretes bactericidal peptides called defensins. It is now well-established in humans that individuals with atopic dermatitis may have decreased production of these substances, when compared with non-allergic people; this may explain the predisposition to recurrent infection in atopic patients. These factors are currently being studied in dogs. With regard to bacterial factors, several studies have attempted to find some characteristic of the organism itself (for example, the particular species or strain of Staphylococcus) that makes it particularly virulent, or prone to cause recurrent infection. So far, these factors have not been uncovered, leading one to speculate that the most important factors may be those associated with the host. There has been a recent increase in reports of multi-drug resistant staphylococcal strains. In particular, the methicillin-resistant staphylococci (MRS) are of concern 88


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the necessity of prolonged antibiotic treatment in some pets. SPL has a variety of immunomodulatory actions; unfortunately, these have mostly been studied in mouse models or in vitro and rarely in dogs. Recent gene-expression microarray studies in dogs suggest that SPL may exert its effect via upregulation of interferon-gamma production. SPL is administered at 0.5 cc subcutaneously, twice weekly, for a trial period of 10 weeks. During the first 6 weeks of injections, antibiotics are administered concurrently. After 6 weeks, the antibiotics are stopped, and the injections continued. Success is manifested as failure to relapse, much milder relapse, or infrequent relapse as compared to before use of the SPL. If SPL is effective, it can usually be reduced to once weekly injection, and sometimes once every 2 weeks. Continuous antibiotic treatment via “pulse therapy” has always been a last-resort treatment for IRSP, and is rapidly becoming less and less advisable. The emergence of MRS has virtually guaranteed that such treatment will eventually result in colonization by a resistant strain, a phenomenon that is growing worldwide. Thus every effort should be made to use alternatives to “pulse therapy” with antibiotics.

possible the diagnosis is wrong - non-pyoderma pustular diseases like pemphigus foliaceus may be present. Bacterial culture and sensitivity testing, fungal culture, and skin biopsy would be indicated with this response pattern. • If the response is a complete clearing of both lesions and pruritus, the main underlying factors to consider include systemic disease, very early allergic disease, or idiopathic recurrent superficial pyoderma. In this event, diagnostic evaluation consists of evaluation for systemic disease with blood and urine analyses, and possible evaluation for allergic disease. Failing to find a specific cause, the diagnosis of “idiopathic recurrent pyoderma” can be made; several treatment options are available for attempting long-term control and prevention of recurrence.

STRATEGIES FOR PREVENTING RECURRENCE Antimicrobial topicals are the first line of defense with recurrent skin infections. Shampoos containing chlorhexidine, benzoyl peroxide, or phytosphingosine appear especially helpful when used twice weekly and allowed to remain on the pet for 5-10 minutes before rinsing. Obviously, any product that is formulated to remain on the skin, or that has a prolonged antimicrobial action, is preferred here. For localized areas, treatment with 2% mupirocin ointment is highly effective and avoids the need for systemic antibiotics. For broader regions of the skin, spray-on or “leave-on” conditioner products containing chlorhexidine and/or phytosphingosine are recommended. Recently, products containing saccharide molecules that interfere with attachment of bacteria and yeast to the skin (“glycotechnology”) have become available, and may be of benefit in limiting colonization. The overall principle here is to limit, to the extent possible, prolonged or repeated courses of antibiotic treatments so as to minimize the potential for development of antibiotic resistance Immunomodulatory therapy can be remarkably effective for some patients with idiopathic recurrent superficial pyoderma. Its use for recurrent deep pyoderma, or for recurrent pyoderma associated with allergic disease, is less well studied. Immunomodulatory drugs, such as levamisole and cimetidine, do not appear to be effective for this use. On the other hand, staphylococcal bacterin products are very useful. These “staph vaccines” are either available commercially (Staphage Lysate SPL®) or are prepared by a local laboratory as autogenous bacterins. They generally must be used long-term to prevent recurrence, however, their use avoids

IDIOPATHIC RECURRENT SUPERFICIAL PYODERMA (IRSP) – DOES IT EXIST? Finally, it is useful to reconsider whether IRSP actually exists in dogs. Many veterinary dermatologists, including this author, have noted that the diagnosis of IRSP is being made less and less often as our clinical diagnostic acumen becomes better and better. There is some discussion that, in the past, many dogs with IRSP are actually atopic dogs. These dogs have either very mild AD, or are a subset of AD patients whose major manifestation of their atopic state is recurrent infection and pruritus that is largely controlled with antibiotics. This is an intriguing possibility, because it opens the possibility that such dogs could eventually be treated with, for example, allergen immunotherapy. Interestingly, it is known that administration of injections of canine interferon-gamma to dogs with AD can provide significant clinical benefit. If by using staphylococcal bacterins for IRSP, we are stimulating the dog’s own IFN-gamma production, perhaps these dogs really just have AD, and we are just indirectly treating the AD with the dog’s “own” interferon gamma! This is but one of many mysteries about recurrent pyoderma that remains to be elucidated.

Address for correspondence: School of Veterinary Medicine, University of Wisconsin Madison, Wisconsin USA

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Skin barrier repair and canine atopic dermatitis Douglas J. DeBoer DVM, Dipl ACVD, Wisconsin USA

Atopic dermatitis (AD) is a complex, multifaceted disease with many possible manifestations, and many possible treatment modalities. Modern research continually reveals new findings about the pathogenesis of AD, which is incompletely understood even in man. It is important to understand what is known about the pathogenesis of AD in order to understand the logical diagnosis and treatment of this disease. The objective of this lecture is to review new findings about AD, particularly regarding epidermal barrier function, and to discuss how these findings affect how we approach management of AD.

80% of patients with AD have demonstrable allergen-specific IgE in serum or are positive on “allergy tests”; 20-30% do not and are NOT positive on these tests…we can find no “inside” abnormality! Therefore, it seemed that other mechanisms were clearly involved, at least in some patients. Some examples of other mechanisms that were shown to be important in human AD, and which came under investigation in animal allergy, include decreased epidermal barrier function, reduced production of antimicrobial peptides by epidermal cells, the role of toxins secreted by micro-organisms, identification of genetic polymorphisms, and recognition that environmental conditions can modify development of allergy in a genetically-predisposed individual. It was thus noted that many of the factors being discovered involved the epidermis itself and “outside” influences, and a new view developed – perhaps AD may begin first as a defect in the “outside” – for example, in the epidermal barrier – and following this, the barrier function problems result in development of an altered immune response and inflammatory cascade. Thus, the “outside-inside” view came into being. For clinicians, the importance of all this discussion is that we now recognize that AD has a very complex pathogenesis. We can now see clearly how diagnosis and treatment will be more difficult that we used to think!

ATOPIC DERMATITIS: INSIDE-OUTSIDE? Historically, AD was considered to be caused by an IgEmediated, immediate-type hypersensitivity response to an inhaled allergen – “allergic inhalant dermatitis.” The IgE produced would sensitize cutaneous mast cells; the mast cells degranulate upon further allergen exposure, with subsequent mediator release causing clinical signs. Taking one step backwards, we emphasized that the important factor underlying this hypersensitivity response was a basic alteration in the immune response, caused by a combination of genetic and environmental factors. Thus, we viewed AD as a disease that began on the “inside” of the individual – the immune system – and that following this, “outside” influences such as allergens, irritants, bacteria, and yeast would cause development and worsening of symptoms (“insideoutside”). Many years and thousands of research studies focused on defining the abnormalities in the “inside” - the immune system and inflammatory response. Our diagnostic approach was focused on evaluating the immunologic IgE and immediate hypersensitivity response, and our treatment approach consisted mostly of attempting to modify the immune system and inflammatory response.

THE EPIDERMAL BARRIER Because many of the abnormalities recently identified in AD patients involved some aspect of the epidermal barrier, it is useful to examine this concept more closely. The “epidermal barrier” is primarily a function of the stratum corneum, the uppermost layer of the epidermis consisting of dead, keratinized cells held tightly together by intercellular “glue” consisting of a complex mixture of lipid and protein. This structure has often been compared to a wall made of “bricks and mortar.” The stratum corneum is formed by the process of cornification (or keratinization), which is an extremely complex process of cell division, maturation, and differentiation during which dozens of new proteins are synthesized to produce tough, resistant, fully mature corneocytes (‘bricks’) and the intercellular material (“mortar”) that holds them together and prevents passage of material into or out of this tough barrier. The intercellular material is produced by the corneocytes themselves. Within the cells, lipid-rich “lamellar bodies” form, which are then transported to the cell surface and

ATOPIC DERMATITIS: OUTSIDE-INSIDE? More recently, this “inside-outside” view has come into some question, and a different view is evolving. For example, we began to recognize that atopic dermatitis may not always be IgE-mediated, or at least we could not prove this in some patients. Some authorities even theorized that that the presence of IgE was merely an ‘epiphenomenon’ or marker of the true underlying disorder. In humans, about 7090


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ejected out into the intercellular space to form a regular, layered structure of “lipid lamellae” which act as physical gaskets between the cells. The epidermal barrier has many functions, including protection against mechanical trauma and ultraviolet radiation, prevention of water loss through the skin, and preventing entry of external substances (toxins, drugs, irritants, allergens…) into the body. A recent view is to consider the epidermal barrier to consist of two basic elements: a physical permeability barrier, as described above, but also an antimicrobial barrier. It is now recognized that the epidermis and associated glandular structures are also very active in secreting a wide variety of substances involved in defense against cutaneous micro-organisms. These substances include antimicrobial lipids and specific immunoglobulins, as well as antimicrobial peptides such as the defensins. Together with the tough mechanical structure of the stratum corneum, these molecules provide a formidable defense against colonization and infection…or at least, they will provide this in normal individuals! There is no question that the epidermal barrier functions are abnormal in atopic people. Early research on morphologic evaluations (as performed by electron microscopy), analysis of lipid components of the epidermis, and functional evaluations (as performed by the technique of transepidermal water loss) consistently showed that the stratum corneum in atopic human beings is defective or “leaky” compared with normal people. As research progressed, it was determined that not only the permeability barrier, but also the antimicrobial barrier was defective – the skin of atopic people produces much less antimicrobial peptide than normal. More recently, genetic analysis has revealed specific genetic defects in critical functional proteins in the epidermis. Most notably, a mutation in the gene coding for the epidermal protein filaggrin was recently shown to be highly associated with allergy in certain groups of people. In fact, the more the concept of “barrier function” is examined, the more it becomes obvious that barrier function is abnormal in AD, and this is a critical part of the pathogenesis of the disease. Do these same concepts extend to allergy in animals? Early morphologic studies showed remarkable differences in the intercellular lamellar lipid structure between normal and atopic dogs. Studies on lipid composition and functional evaluations are in their beginning stages, but as results become available, it appears that the situation will likely parallel exact-

ly what is seen in human beings. Some groups of investigators are also beginning to evaluate antimicrobial peptides, filaggrin, and other possible specific defects in canine skin. From a clinician’s standpoint, the obvious question becomes “can we improve clinical signs of AD by somehow improving barrier function?” This is actually two questions in one: (1) can we somehow modify barrier function through therapy?; and (2) if so, does such modification result in clinical benefit? In human AD, application of emollient preparations to the skin is an important and basic element of treatment, and unquestionably helps relieve symptoms over time. In dogs, studies have shown that the lipid composition of the stratum corneum can be modified by either dietary or topical means. Manipulation of the diet by altering its fatty acid composition affects the composition of skin lipids. A series of studies of micronutrients demonstrated convincingly that certain nutrients can stimulate production of barrier components and can measurably enhance barrier function in dogs. Some of these studies suggested that the modifications in epidermal composition were accompanied by relief of allergy clinical signs. Topical modification of barrier function is an active area of research in veterinary medicine. Early research has shown that application of topical lipid emulsion preparations can result in “normalization” of the intercellular lipid lamellar structure and composition. If these therapies result in remission of clinical signs, they will become an important and necessary part of the therapy of AD. To summarize experience to date, barrier function can indeed be modified through dietary or topical means. Modifying barrier function is an important and effective part of treatment in human AD, and may become a mainstay of therapy in animals in the near future. With recognition of the complexity of the pathogenesis of AD, we now also recognize that treatment approaches must be individualized and flexible, must combine several modes of therapy, and must be aimed at both the primary disease and at secondary complications, to maximize success and client satisfaction. Within this “integrated approach,” we see each of the potential therapy possibilities as “tools.” Our goal with each patient is to find just the right combination of tools to provide lifelong therapy that is effective, affordable, convenient, and with as few adverse effects as possible.

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Recurrent Malassezia otitis in dogs Douglas J. DeBoer DVM, Dipl ACVD, Wisconsin USA

MALASSEZIA OTITIS: INFECTION OR OVERGROWTH?

suggests that this relationship may be a “chicken or egg” situation, at least in some animals. While it seems clear that primary inflammatory disease (such as with AD) may set the stage for initial development of Malassezia otitis, it is also clear that hypersensitivity to yeast antigens develops in some dogs, which could either cause or aggravate an existing inflammatory response. Does inflammation lead to yeast overgrowth, or does yeast overgrowth lead to inflammation? Probably, both are true but to varying extents in each patient, and may lead to a “positive feedback” or “vicious cycle” effect in the ear canal. In particular, the nature of the hypersensitivity response to yeast in dogs is deserving of further study. Passive-transfer experiments, detection of yeast allergen-specific IgE in some canine patients, and demonstration of positive immediate intradermal test (IDT) reactions to yeast extract clearly demonstrate that IgE-mediated, immediate-type hypersensitivity to yeast may develop in some patients. However, if a patient has no detectable IgE against yeast and is negative on IDT, can we then conclude that yeast hypersensitivity is not present? Rather extensive evidence in humans, and initial studies in dogs, suggest that delayed-type hypersensitivity to yeast antigens is reasonably common. Such hypersensitivity could only be detected by e.g. 48-hour patch testing or perhaps observation of 48-hour IDT reactions – and how many of us routinely do these tests? Analogous to flea allergy dermatitis, it is likely that either immediate, delayed, or both types of hypersensitivity may develop to yeast allergens in dogs. However, in contrast to the situation with FAD where the offending allergen can be eliminated, yeast is “normal flora” and cannot be eliminated from the host. The challenge of providing treatment to a patient who is allergic to something that will remain present almost regardless of what is done therapeutically represents an obvious challenge! Thus, our second difficulty in dealing with recurrent Malassezia otitis is to recognize that “yeast allergy” is involved in many, if not most patients, but that we have limited ability to evaluate its presence, and limited understanding of how and when it should be treated.

Malassezia yeast are considered normal inhabitants of canine skin and ear canal – they will be present in various numbers depending upon the presence of favorable or unfavorable growth conditions in the local environment. If we accept this fact, we then must accept that yeast otitis is rarely, if ever, a primary “infection,” but actually an “overgrowth” of normal flora that has arisen because the environment of the ear canal has in some way changed, to allow excessive multiplication of the organism. We must therefore accept that treatment should be aimed in part at inhibiting multiplication of the yeast, but more importantly, correction of the underlying disease condition that has allowed such multiplication. The underlying conditions that can predispose a dog to development of yeast otitis are many, and it is likely that some of these conditions are not yet known or are poorly defined. Anatomical conditions or changes that create ear canal stenosis, promote retention of cerumen and moisture, or inhibit air circulation in the ear canal predispose to yeast overgrowth. Primary inflammatory disease of the ear canal, such as may occur as part of atopic dermatitis or adverse food reactions, not only contributes to stenosis but also increases cerumen secretion, and is a common cause of recurrent yeast otitis. Ceruminous otitis occurring as part of primary seborrhoea is also a common cause, as is most evident in Spaniel breeds. With atopic dermatitis, recent attention has been focused on the role of reduction in natural immunity, i.e. normal antimicrobial properties of skin, in the pathogenesis of recurrent infection. Logically, some of these factors could also apply to recurrent ear infections, though this concept is largely unstudied. Thus, our first difficulty in dealing with recurrent Malassezia otitis in dogs is to recognize that underlying predisposing conditions are of critical importance in this disease, yet that our understanding of these conditions is far from complete.

YEAST OTITIS AND THE ROLE OF INFLAMMATION

PRIMARY TREATMENT: ANTIFUNGAL OR ANTI-INFLAMMATORY?

Another incompletely explored aspect of recurrent yeast infections is the likely complex relationship between the yeast organisms and the inflammatory response. Evidence

Given this relationship between the organism and the host, what should be the primary aim of treatment, especial92


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the long term. With recurrent otitis, it doesn’t really matter if Product A provides better initial kill than Product B – the more important question is, which product has a more persistent action over the longest time? Given the fact that owner compliance is very poor over the long term if medications must be applied frequently, our true goal is to find a treatment that can inhibit growth of yeast for at least several days, if not a week. Is this best accomplished with topical treatments? Is it better to use pulse-dosing of oral antifungals? How well do these migrate into the external ear canal secretions, and do some of them accumulate in secretions over a prolonged period? These questions remain unanswered, but are crucial to our success in managing chronic yeast otitis. What about the inflammatory response? The author routinely finds that long-term, regular use of a topical corticosteroid-only preparation in the ear canal is highly beneficial for recurrent yeast otitis; typically, use of a moderate-potency steroid such as dexamethasone every 2-7 days as a maintenance treatment is helpful. However, is this the best treatment? Are there any long-term consequences of such treatment, if used for many years? In theory, use of “soft steroids” might be ideal in this situation, but ear products with such drugs are not available, or are available only as combination antimicrobial-steroid combinations that are unwise to use long-term. The possible benefit of topical calcineurin inhibitors such as tacrolimus is largely unexplored. The finding of hypersensitivity opens the possibility of immunotherapy to “desensitize” the individual against relevant yeast allergens. One problem here is that fungal organisms may express different antigens under different stages of growth or growth conditions. We have no idea if the “relevant” allergens of yeast are uniformly produced when the organism is grown in bulk culture, and thus whether commercially-available yeast extracts are potentially useful. A second problem may relate to the type(s) of hypersensitivity present; subcutaneous immunotherapy as currently performed is primarily aimed at mitigating IgE-mediated processes, and though it may have effects on other aspects of the immune response, we don’t know if it might help (for example) delayed-type hypersensitivity to yeast. Alternative allergen-immunotherapy regimens with known effectiveness in DTH, such as sublingual immunotherapy, or specific immunomodulatory adjuvants, may be important to explore. Thus, our final and most important difficulty in dealing with recurrent Malassezia otitis is that we have only limited knowledge about the best way to accomplish our two most important therapeutic goals. There is clearly a need for greater understanding and research in these important areas.

ly in cases of recurrent Malassezia otitis? Shall we attack the yeast, attempting to limit its numbers and thereby limit potential hypersensitivity reactions? Or, shall we attack the inflammatory response, thus normalizing conditions within the ear canal and making it less hospitable to growth of yeast? Of course, the answer is probably “both,” but the author’s bias is strongly that directing therapy at the underlying inflammatory response is generally much more important than finding something to kill yeast. Veterinarians are often overly concerned about “what’s the best antifungal” to use, be it topical or systemic, and falsely believe that the reason they have not been successful in controlling recurrent yeast otitis is that they simply have not yet found the right product that will “get rid of the yeast.” The truth is, yeast is normal flora, and one will never be able to rid the ear canal of yeast – or perhaps temporarily, but nature will quickly replace the organisms at the first opportunity. Treatment of yeast otitis with antifungal products alone is often unsatisfactory. However, treatment of yeast otitis with corticosteroids alone is often highly effective – following control of the inflammatory response, conditions in the canal improve, ear secretions are lessened, and the yeast population dies down on its own. Thus, our third difficulty in dealing with recurrent Malassezia otitis is to understand there is some controversy that antifungal treatment may not be the best primary treatment, and that anti-inflammatory treatment may be actually more important.

TREATING RECURRENT YEAST OTITIS: GOALS AND METHODS Treatment of recurrent yeast otitis must begin with the understanding that yeast are normal flora, and there is nothing we can do to completely and permanently eliminate them from the animal, and also that the hypersensitivity/inflammatory response is a critical part of pathogenesis in many dogs. Though elimination of accumulated debris and “depopulation” of the canal with cleaning and antifungal treatment is no doubt helpful for initial treatment of yeast otitis, in this author’s view, longer-term success depends primarily on control of the inflammatory response, and secondarily on making conditions within the ear unfavorable for yeast growth over a long period of time. Unfortunately, neither of these two main goals has been adequately researched in our specialty. Nearly all studies on the effect of topical or systemic products on Malassezia otitis have focused on the relative abilities of various preparations to initially kill the yeast. Little or no study has been made regarding our true goal... creating conditions within the ear canal that are unfavorable to regrowth or recolonization of the ear canal with yeast over

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Tyrosine kinase inhibitors: theoretical possibilities in inflammatory diseases and skin tumors Douglas J. DeBoer DVM, Dipl ACVD, Wisconsin USA

One of the most exciting new classes of drugs in medicine is the tyrosine kinase inhibitors (TKIs). These drugs represent a new and completely different way to change cellular function. Development of TKIs is only in very early stages of infancy. It is likely that many drugs in this group will be developed over the coming years, aimed at treating a variety of neoplastic, inflammatory, and immunologic diseases. Thus, it is important for veterinarians to understand the basis of these new and exciting molecules.

Kit – a receptor TK found on mast cells, hematopoietic stem cells, and melanocytes. Kit is the receptor for Stem Cell Factor (SCF) and is important for growth and division of mast cells and some other hematopoietic cells. EGFR (Epithelial Growth Factor Receptor) This is the receptor for EGF, and is important in growth and differentiation of a variety of cells. VEGFR (Vascular Endothelial Growth Factor Receptor) and PDGFR (Platelet Derived Growth Factor Receptor) These two receptors function to promote angiogenesis, and are important mechanisms by which tissues stimulate angiogenesis to provide themselves with blood supply. Abl – a cytoplasmic TK Abl is important in growth and differentiation of certain myeloid cells.

WHAT ARE TYROSINE KINASES? Very simply, tyrosine kinases (TKs) are enzymes that catalyze transfer of phosphate groups onto the amino acid tyrosine. TK enzymes function to grab an ATP molecule, and transfer a phosphate group from it onto a tyrosine residue in their target protein. When this tyrosine becomes phosphorylated, the shape of the protein changes somehow, in such as way that it goes from an “inactive” to “active” state.

WHY ARE TYROSINE KINASES INTERESTING?

TK Protein (inactive) + ATP → Protein-P (active) + ADP

From a clinical standpoint, TKs are important for one simple reason: occasionally something goes wrong with a TK, and that causes disease. Sometimes, a mutation will occur in a TK which stops its normal functioning. Other times, a mutation will cause the TK to become “overactive.” Either situation can result in disease. One common situation is for a cellular TK to become mutated, and as a result become constantly activated – it loses the ability to regulate cell function because it is always “turned on.” Many times, the result is uncontrolled cellular proliferation, perhaps with uncontrolled angiogenesis to the tissue as well – in short, CANCER. On the other hand, if a mutation occurs which stops all activation of the TK – turns it “off” - then the cell may be unable to divide and function normally, leading to situations such as immunodeficiency diseases. You can imagine that if we could, pharmacologically, partially or selectively inhibit specific TKs, it is possible that we could create a rather dramatic effect in the patient!

By phosphorylating this tyrosine, the shape of the protein molecule is altered such that the protein becomes activated and is capable of performing its function. This phosphorylation is a very basic way that cells regulate many different biochemical processes. There are many, perhaps hundreds, of different TKs that exist within cells; each TK is slightly different and controls a specific cell process. Some TKs are within the cytoplasm or nucleus of the cell. Others, termed “receptor tyrosine kinases” are actually part of a cell surface receptor and form part of the “triggering” mechanism for that receptor. The TK within the receptor is what transmits the signal from the outside of the cell to the inside. Thus, TKs are a diverse group of molecules that are at the very core of cellular signaling and regulation.

EXAMPLES OF TYROSINE KINASES Dozens of TKs have been identified, and most of them have been given the typical confusing, abbreviated names that biochemists seem to love! Here are five examples of TKs which are currently particularly important in clinical medicine:

TYROSINE KINASE INHIBITORS Small molecule drugs have been developed which are capable of inhibiting TKs. It is helpful to think that the TK 94


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enzyme has a “pocket” within its structure into which the ATP must fit. In most cases, these drugs fit into the ATPbinding “pocket” of the enzyme and thus prevent it from binding ATP and performing its normal action. Much research is centered on understanding exactly the shape of the pocket so that drugs can be developed that very specifically fit in the pocket, thus inhibiting only a small subset of TKs and leaving the rest unchanged. This seems to be the key: find a very specific TK that is involved in the process you wish to inhibit, and find a drug that binds ONLY in the pocket of this very specific TK enzyme, and not in others.

inflammatory disease, including arthritis, inflammatory bowel disease, and asthma. A pilot study demonstrated significant efficacy in canine atopic dermatitis, and we eagerly await the results of a pivotal study in this disease to be released soon. GI toxicity occurs occasionally; uncommonly protein-losing nephropathy or hemolytic anemia may occur and the drug must be carefully monitored.

SOME SPECIFIC EXAMPLES OF TKIs

Beyond possible uses of current anticancer TKIs for treating skin cancers or inflammatory skin diseases, there are many TK targets that remain to be explored for possible drug development. One example is Bruton’s TK (Btk) in B-lymphocytes and mast cells. Btk is a crucial molecule involved in B-lymphocyte receptor signaling. In fact, a hereditary condition exists in man with mutation in Btk such that the enzyme is inactive or “off”. This mutation leads to a failure to develop mature B-cells and a severe immunodeficiency state known as Bruton’s agammaglobulinemia. Interestingly, Btk is also critically involved in IgE-mediated activation of mast cells. A small molecule inhibitor of Btk has been developed (PCI-32764; Pharmacyclics). This drug covalently binds to Btk and irreversibly inhibits its action. However, the drug has a short half-life, and in normal tissues new Btk is quickly regenerated by the cell. Thus, it is possible that the compound may inhibit an “extreme” cellular response while allowing “normal” responses to proceed. PCI-32764 inhibits B-cell activation, providing a profound anti-inflammatory/immunosuppressive action. At the same time, it is capable of nearly completely inhibiting IgE-mediated mast cell activation. This combination of actions results in significant inhibition of inflammatory responses. In mouse models, the drug is able to inhibit arthritic inflammation and inflammation associated with lupus. Obviously, its mechanism suggests that it may have value in allergic inflammation as well. This is one small example of the potential of these drugs for treatment of inflammatory skin disease, and we await further trials with PCI-32764 and similar drugs in the future.

FOR THE FUTURE – WHY DERMATOLOGISTS SHOULD UNDERSTAND THESE DRUGS

Currently available TKIs were developed for treatment of cancer, and are secondarily being explored for their possible anti-inflammatory effects. Each has a unique profile of action and a unique set of potential toxicities. Imatinib (Gleevec, Novartis; human drug) blocks Abl and Kit. Many cases of human chronic myelogenous leukemia are caused by an “always-on” mutation in Abl, resulting in uncontrolled myeloid cell growth. Blocking this TK with imatinib results in a 95% remission rate in such patients! Imatinib has been used to treat mast cell tumors, systemic mastocytosis, and sarcomas in dogs and cats. A small number of dogs develop idiosyncratic hepatotoxicity, but it appears very well tolerated in cats. Other “human” TKIs such as sunitinib (Sutent, Pfizer) and gefitinib (Iressa, AstraZeneca) are mostly unstudied in veterinary medicine. Toceranib (Palladia, Pfizer) is a US veterinary drug that blocks VEGFR, PDGFR, and Kit – thus one would predict it has both anti-angiogenic and direct antitumor effects. It has demonstrated efficacy in mast cell tumors, sarcomas, carcinomas, melanoma, and myeloma and is currently in a wide range of clinical trials to further define its efficacy in animal cancers. GI side effects are reasonably common; less common toxicities include neutropenia and muscle cramping. There are no reports of its use in inflammatory disease. Masitinib (Kinavet, AB Science) is a European veterinary drug that targets Kit, PDGFR, and a few other TKs. Its primary indication is control of mast cell tumors in dogs, but it is also undergoing intensive study in other cancers such as melanoma and hemangiosarcoma, as a single agent or as combination therapy. Importantly for veterinary dermatology, it has shown effectiveness in cutaneous T-cell lymphoma. It is also being studied extensively for action in

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Un uso poco comune dell’endoscopio: uretrocistoscopia Davide De Lorenzi Med Vet, Dr Ric, SMPA, Dipl ECVCP, Padova

“The question is not if cystoscopy is indicated in management of lower urinary tract disease, but rather when is cystoscopy indicated in management of lower urinary tract disease” T. McCarthy in Veterinary Endoscopy for the Small Animal Practitioner

primo tratto tracheale e il condotto uditivo. Personalmente impiego una ottica di 2.7 mm di diametro, 18 cm di lunghezza e angolo di visione frontale di 30° e con questo strumento è possibile eseguire l’ispezione del tratto urinario inferiorie in cagne dagli 8-10 kg in su. Questa ottica deve necessariamente esse impiegata in associazione ad una guaina operativa che consenta l’irrigazione e la dilatazione della vagina, dello sfintere uretrale e dell’uretra, facilitando così la progressione dell’endoscopio. La guaina che viene impiegata aumenta il diametro dell’ottica da 2.7 mm a circa 5 x 3.6 mm e questo va tenuto presente perché in animali molto piccoli può essere difficile se non impossibile entrare nell’uretra. In cagne di dimensioni medio-grandi, è anche possibile impiegare un fibroscopio originariamente utilizzato per le broncoscopie (5.5 mm di diametro) che permette una maggiore manovrabilità della punta dell’endoscopio a scapito però di una peggiore qualità dell’immagine. Nel cane maschio il diametro uretrale realtivamente ridotto, la presenza dell’osso penieno, la lunghezza e la conformazione uretrale non rettilinea rendono gli strumenti fino a qui descritti non utilizzabili, se non attraverso uno stoma uretrale perineale, eventualità di assoluta eccezionalità nella pratica clinica. Per una adeguatua visualizzazione del tratto urinario inferiore nel cane maschio è necessario utilizzare uno strumento flessibile, sottile e di lunghezza adeguata, con possibilità di orientare la punta in due direzioni, necessariamente dotato di canale di lavoro che permetta di irrigare, aspirare e utilizzare strumenti per la raccolta di campioni. A questo proposito si impiegano uretrocistoscopi di diametro inferiore a 3 mm e lunghezza variabile da 60 a 100 cm. Personalmente ho utilizzato per un lungo periodo un fibroscopio prodotto da Storz (mod 60003VB) con un diametro esterno di 2.5/2.8 mm, una lunghezza di 100 cm, un canale di lavoro di 1.2 mm di diametro, e possibilità di deflessione su-giu rispettivamente di 170 e 90 gradi. Se da un lato questo endoscopio ha il vantaggio di associare notevole lunghezza, diametro ridotto e possibilità di deflessione dall’altro la qualità dell’immagine risulta modesta a causa della modesta quantità di luce che può essere veicolata da un così sottile strumento; oltre a questo, la manovrabilità della punta risultà fortementte limitata dalla presenza di uno strumento all’interno del canale di lavoro. Più recentemente utilizzo uno strumento, sempre di produzione della ditta Storz (mod URS 1178 Flex-X2) originariamente disegnato per eseguire litotripsie laser, sotto visione endoscopica, negli ureteri e nei bacinetti renali dell’uomo. Questo uretero-pieloscopio presenta numerosi vantaggi rispetto al modello 60003 VB: la

Le patologie del tratto urinario inferiore sono comuni nel cane e nel gatto; in un buon numero di casi le valutazioni laboratoristiche (esame ematobiochimico, esame delle urine, urocoltura) e le radiografie addominali permettono di conseguire una diagnosi definitiva e di impostare una terapia adeguata. Alcuni casi necessitano di valutazioni addizionali quali le radiografie a contrasto singolo o doppio e l’ecografia addominale associate, quando possibile, a prelievi citologici e/o istologici. Esistono tuttavia dei casi nei quali una diagnosi conclusiva oppure la conferma di un sospetto basato su rilevi laboratoristici e di diagnostica per immagini richiede una valutazione diretta delle superfici mucosali uretrali, vescicali e delle papille ureterali con prelievi diretti per valutazioni istologiche e colturali. In questi casi l’esame endoscopico (uroendoscopia trans-uretrale) rappresenta un esame di insostituibile valore consentendo una ispezione diretta dell’anatomia e delle caratteristiche mucosali, permettendo prelievi sotto visione diretta per valutazioni citoistologiche e procedure interventistiche anche di una certa complessità.

INDICAZIONI L’esame endoscopico può risultare utile in una ampia gamma di patologie molto differenti del tratto urinario inferiore: cistite cronica o recidivante, ematuria, stranguria, pollachiuria, incontinenza urinaria, alterazioni del getto urinario, cellule neoplastiche o sospette tali nel sedimento urinario e, in generale, anomalie non spiegate rilevate in corso di radiografia o ecografia.

STRUMENTARIO A causa della notevole diversità anatomica fra maschi e femmine, gli strumenti da impiegarsi variano notevolmente a seconda del paziente da esaminare. Nei cani femmina vengono generalmente impiegate ottiche rigide associate a guaine operatorie. Questo strumento può essere impiegato per ispezionare altri distretti come le cavità nasali, la laringe, il 96


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delle preferenze dell’operatore, in decubito dorsale, laterale destro o laterale sinistro. La mia personale preferenza va al decubito laterale sinistro, principalmente per la disposizione della sala endoscopica dove lavoro ma questa posizione non risulta essere più vantaggiosa di altre. Nella femmina l’area perineale viene rasata e disinfettata avendo cura di minimizzare l’irritazione in aree perivulvari infiammate in animali con perdita cronica di urina. Si indossano guanti sterili e si inserisce lo strumento dotato di guaina e collegato alla sacca per l’irrigazione nel vestibolo vaginale, facendosi aiutare da un assistente nel tenere chiuse le labbra vulvari per ridurre l’uscita di liquido irrigato che ha la funzione di dilatare l’organo e permetterci di individuare il meato uretrale. A questo punto lo strumento viene fatto progredire con attenzione lungo l’uretra dilatandola con fisiologica fino ad entrare a livello vescicale; qui viene aspirata tutta l’urina e la vescica viene gradualmente riempita con liquido limpido migliorando in maniera notevole la qualità dell’osservazione. Nel cane maschio la procedura è simile a quella utilizzata per inserire un catetere urinario: il prepuzio viene retratto manualmente e l’endoscopio, leggermente lubrificato con apposito gel, viene inserito nel meato uretrale e fatto progredire lungo tutta l’uretra irrigando contemporaneamente con fisiologica sterile e tiepida per dilatare l’uretra fino ad entrare nella vescica. Nel corso della presentazione verranno mostrati i quadri endoscopici normali e patologici più frequentemente incontrati nel cane maschi e femmina.

visione è migliore grazie ad una più sosfisticata tecnologia applicata alla punta, lo strumento è più robusto e resistente e soprattutto è in grado di eseguire una deflessione su-giu di 270 gradi e questa notevolissima possibilità di controllare la punta non è che minimamente limitata dall’inserimento di uno strumento nel canale di lavoro. In cani di peso superiore ai 20-25 kg è possibile esaminare oltre al tratto urinario inferiore, compresa la parete vascicale con visione retroflessa, anche un tratto più o meno lungo degli ureteri. Per quello che riguarda il gatto, la questione si complica notevolmente a causa delle dimensioni estremamente ridotte dei distretti da esaminare; nelle femmine adulte è possibile utilizzare ottiche rigide di 1.5-1.8 mm di diametro mentre nel maschio questo strumento può essere utilizzato unicamente in animali uretrostomizzati. In gatti maschi con uretra integra possono essere utilizzati unicamente strimenti a fibra di 1-1.2 mm di diametro che non hanno canale di lavoro o possibilità di deflessione della punta. Un sistema di irrigazione risulta indispensabile per consentire un flusso costante di liquido che consenta di dilatare uretra e vescica e di allontanare detriti e sangue eventualmente presenti permettendo una adeguata visualizzazione delle strutture esaminate; io utilizzo uno spremisacca pneumatico con una sacca di soluzione fisiologica tiepida collegata all’endoscopio tramite un deflussore. Attraverso l’apertura e la chiusura delle valvole collegate all’endoscopio è possibile irrigare e aspirare alternativamente. Sono inoltre descritte tecniche di esame endoscopico “percutaneo” prepubico, inserendo l’ottica attraverso microaccessi praticati alla parete addominale e alla vescica ma trattazione di questo argomento non rientra nelle finalità di questa relazione.

Letture consigliate Cannizzo KL, McLoughlin AM, Chew DJ, DiBartola SP. Uroendoscopy: evaluation of the lower urinary tract. In Melendez L ed The Veterinary Clinics of North America: Small Animal Practice – Endoscopy. (2001); 31:789-807. McCarthy TC. Cystoscopy. In McCarthy TC ed. Veterinary Endoscopy for the Small Animal Practitioner. (2005); 49-135.

PREPARAZIONE DEL PAZIENTE E INIZIO DELL’ESAME L’esame endoscopico viene eseguito in anestesia generale e questo allo scopo di rendere più facili le manovre, evitare traumatismi e minimizzare il disagio del paziente (e dell’operatore!). Il paziente viene posizionato, a seconda

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Endoscopia interventistica dalla B (biopsia) alla L (laser) Davide De Lorenzi Med Vet, Dr Ric, SMPA, Dipl ECVCP, Padova

L’endoscopio rappresenta uno strumento di inestimabile utilità nell’ispezione di parti dell’organismo difficilmente esaminabili se non attraverso procedure chirurgiche complesse, dolorose, rischiose e costose. In effetti l’utilizzo principale che viene fatto di questo strumento è quello di esaminare strutture quali cavità nasali, rinofaringe, albero tracheobronchiale, esofago, stomaco, intestino, uretra e vescica. Nel corso delle indagini endoscopiche un passaggio quasi obbligatorio è rappresentato dall’esecuzione di biopsie; si tratta in effetti della più frequente e più semplice fra procedure interventistiche eseguibili con l’endoscopio. Ma l’apparente semplicità della manovra non deve però trarre in inganno: una grande quantità di campionamenti endoscopici ricevuti dai laboratori di istologia risultano non significativi a causa o delle dimensioni inadeguate o da artefatti da schiacciamento e coartazione dei campioni. A seconda dei distretti da campionare, le tecniche impiegabili sono differenti: se stiamo esaminando le cavità nasali con un’ottica rigida, i campionamenti possono essere eseguiti tramite una pinza inserita all’interno del canale di lavoro della guaina operatoria entro la quale si inserisce l’ottica oppure utilizzando una pinza da biopsia esterna fatta scorrere parallelamente all’endoscopio. Quest’ultima procedura, anche se di esecuzione più complessa, è quella che personalmente preferisco impiegare tutte le volte che il diametro della narice lo consente poiché permette la raccolta di campioni di maggiore volume e quindi più probabilmente significativi. Il sanguinamento che consegue a biopsie di maggiori dimensioni su mucosa nasale colpita da patologi neoplastiche e/o infiammatorie può essere a volte preoccupante: in questi casi irrigazioni con fisiologica fredda e applicazioni di ghiaccio sulla superficie nasale esterna spesso permettono una riduzione dell’emorragia. Nel caso che il sanguinamento continui la mia preferenza va alla zaffatura con tamponi lunghi che vengono inseriti profondamente, uno dopo l’altro, nella cavità nasale fino a riempirla completamente. Questi tamponi vengono quindi rimossi uno alla volta, uno ogni 2-3 minuti, fino a verificare la sospensione del sanguinamento. Le biopsie al tratto gastroenterico vengono praticamente sempre eseguite utilizzando pinze lunghe flessibili attraverso il canale di lavoro dell’endoscopio. Ovviamente, anche in questo caso, maggiore è la dimensione dello strumento da biopsia migliore risulta la qualità del campione ma la scelta della pinza è forzatamente determinata dal diametro di lavoro dell’endoscopio. Personalmente preferisco pinze con le coppe ovali, fenestrate e prive di ago centrale: questa tipolo-

gia di strumento ha infatti il vantaggio di minimizzare gli artefatti da schiacciamento e di raccogliere biopsie di maggiori dimensioni. In generale, anche in assenza di alterazioni evidenti, è buona regola raccogliere 8-10 biopsie da stomaco, duodeno, retto e colon. Prima di eseguire il campionamento gli organi devono essere parzialmente sgonfiati in modo che la mucosa risulti meno tesa è più facilmente campionabile. A questo punto la punta dello strumento viene orientata in modo che la pinza fuoriesca a branche aperte in direzione più perpendicolare possibile rispetto alla superficie da campionare; la pinza viene spinta conto la superficie mucosa, le branche vengono chiuse e lo strumento viene ritirato con uno scatto nel canale di lavoro. Un piccolo sanguinamento è generalmente presente dopo ogni biopsia ed il campione così ottenuto deve essere messo in una apposita cassettina, orientandolo, a sua volta immersa in formalina. In presenza di lesioni quali ulcere, erosioni o masse le biopsie devono essere raccolte seguendo delle procedure standardizzate: i campioni più significativi vengono in genere raccolti eseguendo prelievi dai margini delle ulcere ed erosioni mentre le aree centrali risultano spesso costituite unicamente da tessuto necrotico e cellule infiammatorie. In queste zone, inoltre, è maggiore il rischio di perforazione a causa della minore consistenza del tessuto necrotico. In presenza di masse, specialmente quando sottomucose, la probabilità di raccogliere campioni non significativi è piuttosto elevata a causa delle piccole dimensioni delle pinze da biopsia. In questi casi è buona regola eseguire numerosi campionamenti sempre nello stesso punto, cercando di raccogliere tessuto dagli strati più profondi, dove con maggiore probabilità si trova il tessuto patologico. L’estrazione di corpi estranei, della più svariata natura e nelle più svariate localizzazioni, rappresenta uno dei più classici esempi di endoscopia interventistica. Come regola generale, in assenza di perforazione, ogni corpo estraneo (CE) incastrato a livello esofageo deve essere rimosso il prima possibile anche se raramente un CE esofageo deve essere considerato come reale emergenza; in ogni caso l’estrazione deve essere tentata 4-6 ore dall’identificazione del CE e l’endoscopia rappresenta la scelta iniziale migliore per ogni corpo estraneo esofageo; non deve essere fatto nessun tentativo di spingere nello stomaco “alla cieca” un CE esofageo con un tubo o strumento analogo per il rischio di lacerazioni o di ulteriore incarceramento del CE nell’esofago. L’estrazione deve essere eseguita con il paziente in anestesia generale e posizionato sul fianco sinistro con apribocca, posizione standard per quasi tutte le procedure 98


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endoscopiche del tratto gastroenterico superiore; nel corso del tentativo di estrazione, specialmente nei casi più complessi, il paziente viene spesso ruotato per consentire un ottimale impiego degli strumenti viavia impiegati. Ogni corpo estraneo ha caratteristiche peculiari che differiscono di volta in volta a seconda anche del tempo di permanenza, delle dimensioni del paziente, di precedenti tentativi di estrazione o dislocazione (classico esempio è l’amo ingerito che viene tirato per la lenza dal proprietario) per cui regole assolute di comportamento durante l’estrazione non esistono; vi sono però regole generali che devono essere di volta in volta adattate alle varie situazioni. Una volta individuato il CE bisogna evitare di tentare la sua dislocazione utilizzando la punta dell’endoscopio perché si possono determinare danni gravissimi allo strumento (perforazione, graffiatura e dislocazione della lente, occlusione degli ugelli di insufflazione e irrigazione); personalmente il primo tentativo che faccio, dopo una accurata ispezione e lavaggio dell’area circostante il CE, vede l’impiego di un’ansa o una pinza inserita nel canale di lavoro dello strumento con lo scopo di agganciare una protuberanza del CE (nella maggior parte dei casi un osso) e saggiarne il movimento. In rari casi questa tecnica consente di rimuovere il CE ma nella maggior parte dei casi è necessario l’impiego di pinze più forti, come quelle da laparoscopia. Una volta tentata la mobilizzazione del CE è possibile applicare forze traenti progressivamente più intense, facendo però attenzione che le pinze da presa laparoscopiche sono in grado di sviluppare una trazione estremamente energica, sicuramente in grado di lacerare l’esofago. La maggior parte dei CE gastrici può essere estratta endoscopicamente: le difficoltà maggiori si possono incontrare con corpi estranei sferici e lisci e con corpi estranei taglienti e appuntiti; oggetti di plastica rotti con la masticazione e deglutiti (ad es palloni) possono indurirsi moltissimo a contatto con i succhi gastrici e diventare quasi impossibili da estrarre. Spesso l’ingestione di corpi estranei può essere conseguenza di aberranti abitudini alimentari: una buona regola è quella di eseguire in ogni caso, dopo l’estrazione del CE, una endoscopia completa, duodeno compreso, e di ese-

guire le biopsie da stomaco e duodeno anche in assenza di lesioni endoscopicamente rilevabili. I corpi estranei bronchiali rappresentano un evento relativamente frequente in certe tipologie di cani. Si tratta quasi esclusivamente di CE vegetali (reste di avena selvatica, spighe di grano o orzo, rametti di pruni, etc,) che vengono aspirati dai cani da caccia mentre corrono a bocca spalancata in campi durante battute di caccia o allenamento. Se si sospetta un CE endobronchiale, deve essere eseguita una broncoscopia completa, indipendentemente da quello che la diagnostica per immagini ci mostra; questo perché spesso il cane aspira più di un CE ed è possibile che solamente uno dei CE endobronchiali dia anomalie radigraficamente evidenti. La maggior parte delle volte dal bronco spuntano le “code” dell’avena selvatica, più lunghe e di colore nero o marrone: a questo punto sarebbe ideale prendere con una pinza tipo alligatore inserita nel canale di lavoro dell’endoscopio, entrambe le code e più in basso possibile in modo da avere una presa forte e stabile sul CE. Si mantiene la presa alcuni istanti senza fare alcuna trazione poi si inizia con molta lentezza a fare una modesta trazione sul CE, facendosi aiutare dai movimenti respiratori dell’animale che in fase inspiratoria allontana il CE dall’endoscopio esercitando una lieve e ritmica trazione. Nel corso della relazione verranno mostrati ulteriori esempi di interventi più o meno semplici eseguito in corso di endoscopia: dilatazione di stenosi, intubazioni selettive e impiego di laser a diodi.

Letture Consigliate Sobel D, Lulich J: An introduction to laser enosurgery. In Lhermette P, Sobel D eds. BSAVA Manual of Canine and Feline Endoscopy and Endosurgery. BSAWA Gloucester, UK (2008): 220-227.

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Il ruolo dell’endoscopia nelle patologie causative di rigurgito e vomito Davide De Lorenzi Med Vet, Dr Ric, SMPA, Dipl ECVCP, Padova

L’endoscopia è una procedura con la quale uno strumento specificamente progettato viene utilizzato per ispezionare l’interno di una cavità corporea. Il principale utilizzo di questa tecnica di ispezione strumentale in gastroenterologia veterinaria è senza dubbio quello di raccogliere campioni da mucosa esofago-gastro-enterica senza la necessità di eseguire procedure chirurgiche sebbene anche l’ispezione diretta delle superfici mucosali o la rimozione di corpi estranei rappresentino ulteriori importanti indicazioni per l’esame endoscopico. In campo veterinario la gastroduodenoscopia rappresenta l’indagine endoscopica più frequentemente utilizzata. Le principali indicazioni per questa procedura sono rappresentate da necessità di - valutazioni istologiche delle superfici mucosali in pazienti con vomito, diarrea, perdita di peso, anoressia, ipoalbuminemia; - identificare e rimuovere corpi estranei; - identificare la presenza e la natura di una eventuale ostacolo al deflusso gastrico; - identificare aree di sanguinamento al tratto GE superiore; - identificare la presenza di una esofagite o di una alterazione anatomica esofagea; - dilatare stenosi esofagee benigne; - inserire tubi da gastrostomia con tecnica endoscopica; - rimozione di polipi; L’esame endoscopico deve essere inserito in un iter diagnostico standardizzato, che prevede indagine anamnestica accurata e approfondita, specialmente incentrata sulle informazioni relative alle abitudini alimentari recenti e remote del paziente; a questo devono necessariamente seguire valutazioni cliniche e laboratoristiche estese (ematobiochimica, urine, esame feci) e diagnostica per immagini. In generale, le informazioni più significative ai fini di una eventuale procedura endoscopica si ricavano da indagine eco-addominale, che consente di rilevare alterazioni non alla “portata” di una ispezione endoscopica; fra queste ricordiamo la presenza di liquido o gas liberi in addome che possono suggerire una perforazione, la presenza di lesioni nodulari o masse addominali e anomalie digiuno-ileali. Poiché l’esame ecografico rappresenta una tecnica relativamente specifica ma non altrettanto sensibile per l’identificazione di patologie infiammatorie e infiltrative gastrointestinali, la valutazione endoscopica risulta comunque indicata anche in assenza di alterazioni ecografiche, evento questo non insolito in presenza di IBD o di linfoma.

A causa dell’estrema variabilità morfologica dei pazienti, sarebbe ideale potere disporre di 2 o 3 endoscopi a diametro e lunghezza variabili per potere passare agevolmente il piloro, momento questo fondamentale per ogni procedura endoscopica al tratto gastroenterico superiore. In generale, strumenti abbastanza lunghi (130-140 cm) per l’ispezione in cani di grossa taglia hanno un diametro che non consente agevoli manovre o il passaggio pilorico in cani di razza toy o in gatti mentre strumenti a diametro ridotto risultano spesso troppo corti e con canale di lavoro così piccolo da non permettere l’utilizzo di pinze da biopsia di adeguate dimensioni. Personalmente impiego un singolo strumento, che raccoglie in sé quasi tutte le caratteristiche ideali di lunghezza e diametro a scapito forse di un canale di lavoro di dimensioni sufficienti anche se non ideali. Si tratta di un video-endoscopio di marca Storz, cat n° PV-SG 22-140 con diametro esterno di 9 mm, lunghezza 140 cm, canale di lavoro di 2.2 mm, deflessione giudestra-sinistra di 120° e su di 180°/220°, angolo di visione frontale di 140°. I pazienti con problemi gastroenterici cronici, specialmente con vomito, possono avere un ritardato svuotamento gastrico e per questa ragione è importante, prima di eseguire la procedura endoscopica, fare osservare un periodo di digiuno di circa 24 ore e di sospensione idrica di circa 10-12 ore; è anche importante non avere somministrato bario o sucralfato nelle 48 ore precedenti l’endoscopia poiché tali sostanze, oltre ad aderire tenacemente alle superfici mucosali possono, se aspirate, tappare il canale di lavoro impedendo uno svolgimento adeguato della procedura. Il paziente, una volta anestetizzato e intubato, viene posizionato disteso sul fianco sinistro, con un apribocca in posizione e il collo leggermente esteso. Lo strumento viene quindi inserito sotto visione diretta oppure alla cieca e, appena entrati nell’esofago, si inizia ad insufflare aria allo scopo di distendere moderatamente l’esofago per potere ispezionare adeguatamente la superficie mucosale. Una volta giunti allo sfintere esofago inferiore, se questo risulta chiuso, ci si pone con la punta dello strumento al centro dello sfintere forzando leggermente e insufflando al contempo per favorirne l’apertura. Una volta entrati nello stomaco risulta di fondamentale importanza adottare una procedura ispettiva che esamini metodicamente tutta la superficie gastrica una volta dilatato l’organo con altra aria insufflata. Per prima cosa, appena passato lo sfintere esofageo inferiore, si ispeziona il corpo dello stomaco facendo muovere la punta con un movimento lento e rego100


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lare. Lo strumento viene quindi avanzato e la punta viene retroflessa al massimo delle caratteristiche dello strumento, così da esaminare il cardias ed il fondo dello stomaco, area questa spesso “dimenticata” da coloro i quali si sono dedicati alla tecnica endoscopica da poco tempo. Quindi lo strumento viene riportato in posizione rettilinea e fatto scorrere lungo la grande curvatura dentro l’antro fino al piloro che viene visualizzato in profondità e a sinistra del piano mediano. Dopo avere accuratamente ispezionato questa parte dello stomaco lo strumento viene fatto progredire fina ad arrivare a ridosso del piloro direzionandolo fino a mantenere il piloro al centro del campo di osservazione. A questo punto spesso tutto il campo di visione viene occupato da immagini sfumate di colore rossastro e questo è causato dalla eccessiva vicinanza della punta dello strumento con la mucosa pilorica; l’endoscopio viene a questo punto retratto contemporaneamente insufflando al fine di dilatare la piccola apertura pilorica per favorirne l’ingresso nel duodeno. Una volta passato il piloro il duodeno piega bruscamente a destra (dal punto di vista dell’operatore che guarda il monitor) per cui di nuovo tutto il campo di osservazione risulta occupato da aree sfocate rosate; per guadagnare il centro dell’organo è opportuno retrarre lo strumento di alcuni mm insufflando contemporaneamente per dilatarlo. Una volta raggiunto il centro lo strumento viene fatto avanzare sfruttando al massimo la sua lunghezza ed ispezionando accuratamente tutta la circonferenza duodenale, ricordando che, a causa della particolare friabilità della mucosa, è molto facile creare delle erosioni lineari con la punta dell’endoscopio che non devono essere scambiate per lesioni già presenti prima dell’indagine. A questo punto vengono raccolte le biopsie, seguendo le indicazioni già date in un’altra relazione presentata a questo congresso (vedi: Endoscopia Interventistica dalla B (biopsia) alla L (laser).

Esofago: la mucosa esofagea normale nel cane è di aspetto liscio, tenuemente rosata o grigiastra, senza vasi sottomucosi apparenti. Alcune delle strutture periesofagee lasciano una impronta sulla flaccida parete esofagea: la trachea viene distintamente identificata in corrispondenza della parete esofagea ventrale, quindi è possibile identificare l’arco aortico pulsare e poco oltre l’impronta del bronco principale di sinistra. In alcuni pazienti è possibile rilevare inoltre le pulsazioni dell’arteria succlavia di sinistra, dell’atrio sinistro e della vena azygos. Nel gatto è possibile evidenziare la vascolarizzazione sottomucosa ed inoltre nel terzo distale sono perfettamente evidenti pliche mucosali di aspetto concentrico che arrivano fino allo sfintere esofageo inferiore; in questa specie è inoltre possibile evidenziare, in fase di uscita dello strumento, un restringimento al passaggio fra esofago e faringe chiamato limen faringoesofageo. Il passaggio fra mucosa esofagea e mucosa gastrica è ben evidente a livello di giunzione gastroesofagea dove la mucosa squamosa e chiara dell’esofago viene sostituita da quella cubica e di colore rosso dello stomaco. Una volta entrati nello stomaco è possibile vedere le pliche gastriche ammassate e rilevate; con l’insufflazione le pliche vengono gradualmente distese fino a evidenziare la mucosa gastrica che risulta liscia, rosa scuro o rossastra, più chiara nella zona antrale e pilorica e la vascolarizzazione ben evidente in corrispondenza dell’area fundica. In condizioni normali di adeguato digiuno pre-esame, lo stomaco risulta vuoto o al massimo con modesta quantità di fluido. Nel corso della relazione verranno illustrate,oltre alle caratteristiche normali sopra descritte, le più frequenti anomalie rilevabili endoscopicamente in pazienti che presentano come segno clinico principale rigurgito e vomito. Indirizzo per la corrispondenza: davide.delorenzi@fastwebnet.it

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Qual è il ruolo dell’endoscopia nelle patologie enteriche? Davide De Lorenzi Med Vet, Dr Ric, SMPA, Dipl ECVCP, Padova

L’esame endoscopico del tratto digerente inferiore permette di valutare l’aspetto e di raccogliere campioni bioptici da retto, colon e ileo e pertanto è indicato sia in casi nei quali si sospetta una patologia a principale coinvolgimento dell’intestino tenue che nei casi che si sospettano a principale o esclusivo coinvolgimento dell’intestino crasso. Pertanto, le principali indicazioni per eseguire questa indagine sono rappresentate da: -) raccogliere campioni bioptici da ileo in pazienti con sospette patologie a carico dell’intestino tenue; -) raccogliere campioni bioptici da colon in pazienti che non hanno risposto a terapia dietetica e sintomatica o che mostrano gravi segni sistemici di malattia; -) identificare una causa di ematochezia o dischezia persistente; -) esaminare pazienti con sospetto di neoformazioni al grosso intestino e al retto. Uno dei principali obbiettivi da porsi, una volta deciso che il paziente deve essere sottoposto a questo tipo di procedura è quello di “pulire” adeguatamente tutta l’area da esaminare. La preparazione necessaria per ottenere questo risultato è decisamente più complessa di quella richiesta in caso di ispezione al tratto gastroenterico superiore. Il digiuno richiesto è di circa 36 ore e al paziente deve essere somministrata una soluzione in grado di “lavare” il tratto intestinale da esaminare. Sono riportati vari protocolli per il lavaggio del tratto enterico inferiore: personalmente utilizzo una soluzione di glicole polietilenico (Isocolan® Bracco) da 17.4 grammi, da sciogliere in 250 ml di brodo di carne, che risulta generalmente gradito ai cani, somministrato al mattino del giorno prima dell’endoscopia. La quantità da somministrare è di circa 1/2 litro di questa soluzione ogni 10 kg di peso, eventualmente da ripetersi a metà pomeriggio se le feci non sono acquose e frequenti dopo la prima somministrazione. In cani che non vogliono assumere il farmaco è possibile somministrare la soluzione con sonda orogastrica. Prima dell’esame io eseguo un clisma con acqua tiepida, circa 1 litro ogni 15 kg di peso e 20 ml in totale nel gatto, eventualmente da ripetere fino a quando il liquido di lavaggio risulta pulito. Nonostante il retto ed il colon discendente possano essere esaminati e campionati anche con strumenti rigidi specificamente progettati, chi scrive ha sempre utilizzato endoscopi flessibili, in particolare utilizzo lo stesso strumento con il quale eseguo endoscopie al tratto gastroenterico superiore cioè un video-endoscopio di marca Storz, cat n° PV-SG 22140 con diametro esterno di 9 mm, lunghezza 140 cm, cana-

le di lavoro di 2.2 mm, deflessione giu-destra-sinistra di 120° e su di 180°/220°, angolo di visione frontale di 140°. La procedura deve necessariamente essere eseguita in anestesia generale, con paziente intubato e in decubito laterale sinistro, in modo che il colon discendente sia appoggiato ventralmente, cosa questa che facilita la progressione dell’endoscopio nel colon trasverso e nel colon ascendente. La parte terminale dello strumento deve essere lubrificata con apposito gel lubrificante, allo scopo di diminuire l’attrito e favorire la progressione dell’endoscopio. Lo strumento viene inserito e viene insufflata aria in modo da distendere le pliche rettali e del colon discendente; in questa prima fase è possibile che molta aria fuoriesca dall’ano, rendendo difficile o impossibile la dilatazione del tratto retto-colico per cui risulta indispensabile un aiuto che mantenga la cute anale stretta attorno alla punta dello strumento mentre viene insufflata aria. Lo strumento deve essere fatto progredire solamente quando il lume interno del tratto da esaminare è chiaramente visibile e le pliche sono ben distese, evitando di spingere la punta contro pliche mucose non distese, rischiando di non visualizzare alterazioni importanti o, peggio, di causare perforazioni accidentali al tratto esaminato. Non di rado una quantità variabile di fluido torbido ricopre parte del colon discendente: questo materiale deve essere rimosso tramite aspirazione evitando però di eseguire questa operazione se sono presenti particelle solide che potrebbero ostruire il canale di aspirazione dell’endoscopio. Qualora il materiale sia di consistenza poltacea o addirittura solido, la procedura deve essere interrotta per eseguire un nuovo clistere nel tentativo di rendere adeguatamente accessibile la superficie intestinale. Se anche questo tentativo fallisce, l’esame deve essere sospeso e rimandato dopo più adeguata preparazione. La mucosa del colon discendente risulta di colore rosa chiaro, con vascolarizzazione sottomucosa evidente; è importante esaminare con attenzione la mucosa del colon mentre si procede con lo strumento poiché il contatto dell’endoscopio con la superficie mucosale può causare traumatismi iatrogeni che possono essere confusi con lesioni primarie e refertate come tali. La struttura anatomica del colon è molto semplice, trattandosi di un tubo che presenta due flessioni, una al passaggio fra colon discendente e colon trasverso e una al passaggio fra colon trasverso e colon ascendente. Queste flessioni vengono ben evidenziate in corso di endoscopia: l’endoscopio deve essere piegato nella direzione della curva e avanzato lentamente, nel contempo insufflando per allontanare la mucosa che tende ad impedire la visione. Il colon ascendente è breve e termina a livello di 102


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leiomioma, leiomiosarcoma) sono state più raramente segnalate. Il linfoma ha aspetto spesso sovrapponibile a quadro gravi di colite linfo-plasmocitaria, con diffuso ispessimento e irregolarità mucosale. Il carcinoma si presenta generalmente come proliferazione localizzata spesso ulcerata e sanguinante, che provoca spesso riduzione del lume intestinale; più raramente questa neoplasia assume aspetto di stenosi circonferenziale che può arrivare a determinare una sub-occlusione del tratto intestinale coinvolto. Polipi rettali: Sono una causa relativamente comune di tenesmo ed ematochezia nel cane; l’indagine endoscopica può risultare complicata perché spesso queste neoformazioni si trovano a ridosso dell’ano per cui può essere difficile insufflare adeguatamente il tratto da esaminare. Una tecnica che può essere utilizzata a questo proposito consiste nell’inserire l’endoscopio, ben lubrificato, per circa 10-15 cm, fare chiudere l’ano da un assistente quindi insufflare e sfilare lentamente lo strumento, valutando l’aspetto della mucosa “in uscita”. Le neoformazioni polipose hanno generalmente aspetto proliferativo, sono friabili e facilmente sanguinanti e tendono ad occludere l lume del retto. Numerose biopsie, da aree differenti delle lesioni sono indispensabili per potere differenziare con buona accuratezza le forme benigne da quelle maligne

giunzione ileo-cieco-colica, facilmente riconoscibile per la presenza della valvola ileo-colica che mostra aspetto rilevato, globoso, a fungo, quasi costantemente chiusa e dall’inizio del cieco. Qualora sia indicato anche esaminare l’ileo, la punta dello strumento viene orientata verso il centro della valvola insufflando e spingendo leggermente; il passaggio della valvola è però spesso problematico a meno di non esaminare un cane di dimensioni molto grandi oppure di utilizzare un endoscopio di diametro ridotto. Nel caso non si riesca a passare la valvola con lo strumento è comunque possibile eseguire campionamenti alla cieca facendo proseguire la pinza oltre l’apertura della valvola. A questo punto l’endoscopio viene lentamente sfilato, e vengono raccolte le biopsie, 2 o 3 per ognuno dei tratti intestinali, retto compreso per un totale di 10-12 campionamenti.

ASPETTI ENDOSCOPICI PATOLOGICI Colite: la colite rappresenta la forma più frequente di patologia del grosso intestino e spesso coinvolge tutto l’organo, non di rado in associazione con alterazioni anche del piccoli intestino. Le coliti vengono poi ulteriormente classificate sulla base delle linee cellulari coinvolte nel processo infiammatorio per cui campionamenti bioptici assumono una importanza fondamentale. L’aspetto endoscopico è variabile, andando da un diffuso edema associato a eritema, modesti aspetti di irregolarità mucosale e perdita del letto vascolare sottomucoso a quadri più gravi, con erosioni a sanguinamento spontaneo, a diffusa iperplasia linfoide con presenza di rilevatezze piatte, biancastre, con piccolo cratere centrale. In casi più rari, l’infiammazione coinvolge solo un tratto del colon assumendo, a volte, l’aspetto di una neoformazione ulcerata. È importante sottolineare come in endoscopia non esistano quadro patognomonici per cui l’esame istopatologico risulta sempre e comunque fondamentale. Neoplasia: le neoplasie più frequentemente identificate nel colon di cani e gatti sono rispettivamente adenocarcinoma e linfoma anche se altre neoplasie (ad. es. plasmocitoma,

Letture consigliate Simpson J.W.: Flexible endoscopy: lower gastrointestinal tract. In Lhermette P, Sobel D eds. BSAVA Manual of Canine and Feline Endoscopy and Endosurgery. BSAWA Gloucester, UK (2008): 73-83. Willard M.D.: Colonscopy, proctoscopy and ileoscopy. In Melendez L ed. The Veterinary Clinic of North America, small animals: Endoscopy. WB Saunders (2001): 657-669. Richter K.P.: Endoscopic evaluation of the colon. In McCarthy T.C.: Veterinary Endoscopy for Small Animal Practitioner. Elsevier Saunders (2005): 323-356.

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Diagnostica per immagini delle neoplasie endocrine Daniele Della Santa Med Vet, PhD, Dipl ECVDI, Pisa

Il ruolo della diagnostica per immagini nei pazienti con sospetta neoplasia endocrina è duplice: da una parte infatti l’obiettivo è confermare o smentire il sospetto clinico di neoplasia endocrina, dall’altra (qualora il sospetto clinico sia confermato) stadiare accuratamente il paziente allo scopo di pianificare il trattamento più adatto al caso in esame. La presentazione clinica classica delle neoplasie tiroidee nel cane è quella di una tumefazione cervicale variamente associata con dispnea/disturbi respiratori, disfagia, alterazione della voce, rigurgito, dimagramento. Le domande che vengono poste al radiologo sono: la tumefazione è effettivamente di natura tiroidea? L’eventuale lesione tiroidea è localmente invasiva? La lesione è benigna o maligna? Sono presenti metastasi a distanza? Le metodiche di diagnostica per immagini che abbiamo a disposizione sono la radiologia, l’ecografia, la tomografia computerizzata, la risonanza magnetica e la scintigrafia. L’ecografia consente di valutare l’aspetto della lesione e delle strutture anatomiche circostanti (allo scopo di escluderne un’origine extratiroidea), la vascolarizzazione, l’eventuale invasività locale e consente di eseguire prelievi ecoguidati cito/istologici. I campioni citologici sono solitamente sufficienti per appurare la natura tiroidea della lesione, ma solitamente non consentono di determinarne la benignità/malignità. Poiché l’esecuzione di una biopsia è correlata ad un certo rischio di emorragia iatrogena, questo fattore dovrebbe essere tenuto in considerazione. Va tuttavia ricordato che, soprattutto in presenza di lesioni occupanti spazio di grandi dimensioni, può essere difficile accertare con sicurezza la natura tiroidea della lesione osservata. L’esame radiografico del torace è utile come metodica di stadiazione di screening prima di rivolgersi a metodiche più “impegnative” come la tomografia computerizzata. In presenza di dolore osseo, può essere utile l’esecuzione di uno studio radiografico dello scheletro; va tuttavia ricordato che non sempre le metastasi scheletriche sono visibili radiograficamente quindi questa metodica non consente di escluderne completamente la presenza. La scintigrafia tiroidea con 99mTc è una metodica molto utile, ma che trova la maggiore limitazione nella scarsa disponibilità sul territorio nazionale. Il maggiore vantaggio della scintigrafia è quello di poter determinare la natura tiroidea di eventuali noduli ectopici funzionali. Un’ulteriore applicazione è la valutazione postchirurgica in caso di sospetta exeresi incompleta o recidiva. I carcinomi tiroidei canini sono solitamente delle neoplasie funzionali caratterizzate da aumento di dimensioni della tiroide e pattern eterogeneo

(aree calde e fredde); più raramente sono neoplasie “fredde” in cui il tessuto tiroideo è completamente sostituito da tessuto neoplastico che non risulta visibile con la scintigrafia. Le neoplasie tiroidee nel gatto sono solitamente di natura benigna (adenomi: spesso bilaterali), mentre solo raramente sono maligni. Nonostante i carcinomi e gli adenomi possano avere aspetto scintigrafico simile, molti carcinomi tendono ad avere un pattern eterogeneo con margini irregolari; una lesione caratterizzata da uptake del composto radiofarmaceutico multifocale al di fuori dei limiti tiroidei, ha maggiori probabilità di essere un carcinoma. L’accumulo del radioisotopo a livello polmonare è solitamente associato con una neoplasia maligna, ma non necessariamente tiroidea in quanto anche alcune neoplasie polmonari primarie possono accumulare il radioisotopo. La TC total body è fondamentale in quanto consente un’eccellente visualizzazione dell’anatomia della lesione (condizione sine qua non per una pianificazione chirurgica ottimale) e un’adeguata stadiazione sia dei tessuti molli toracici/addominali, sia dei tessuti duri. Studi riguardanti l’impiego della RMN nella caratterizzazione delle neoplasie tiroidee nel cane sono al momento in corso. Una neoplasia paratiroidea è solitamente sospettata in caso di ipercalcemia o in presenza di una massa cervicale. L’ecografia è la metodica di prima scelta per la valutazione delle paratiroidi in quanto consente di valutarne le dimensioni, forma ed, eventualmente, invasività locale. Sulla base di questi parametri (in particolare le dimensioni e il coinvolgimento di una o più paratiroidi) e dei dati clinici/laboratoristici è infatti possibile distinguere con una buona accuratezza diagnostica un adenoma/adenocarcinoma paratiroideo da un’iperplasia paratiroidea primaria o secondaria. La scintigrafia paratiroidea (nonostante sia comunemente usata in medicina umana dove è caratterizzata da un’elevata sensibilità nell’individuazione degli adenomi paratiroidei), ha scarsa utilità in medicina veterinaria in quanto richiede l’impiego di composti radiofarmaceutici scarsamente disponibili (Tcsestamibi) e ha accuratezza diagnostica limitata. La TC e la RMN sono attualmente scarsamente impiegate nello studio delle paratiroidi. Le neoplasie surrenaliche nel cane possono interessare sia la componente midollare (feocromocitoma, più raramente neuroblastoma, ganglioneuroma) che la componente corticale (adenoma, adenocarcinoma, metastasi). L’ecografia addominale è il mezzo diagnostico di screening per lo studio dei surreni, che dovrebbero essere cercati e valutati in ogni paziente esaminato. L’aspetto ecografico di una mas104


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sa/nodulo surrenalico non è indicativo di una specifica neoplasia (benigna o maligna) o di un’iperplasia nodulare; ciononostante l’ecografia consente di valutarne le dimensioni (ingrandimento unilaterale vs bilaterale) e la forma/struttura (forma e struttura rispettate vs massa surrenalica). Inoltre, in presenza di un nodulo/massa surrenalica si possono studiare margini, invasività locale (vasi, reni, spazio retroperitoneale), eventuale presenza di metastasi a distanza (fegato, linfonodi, milza) e di emorragia retroperitoneale/peritoneale. In presenza di lesioni surrenaliche di grandi dimensioni può non essere possibile accertarne con certezza l’origine con questa metodica. La TC consente una migliore visualizzazione delle lesioni (in particolare dell’eventuale invasione vascolare la cui valutazione ecografica può essere difficile specialmente in presenza di mineralizzazioni surrenaliche); nei casi dove la natura della lesione osservata è dubbia, è spesso possibile ottenere una più certa localizzazione anatomica. Va tuttavia sottolineato che lesioni particolarmente voluminose possono essere particolarmente difficili da studiare anche con la TC a causa della distorsione anatomica e della compressione della vena cava caudale cui si associano. La diagnosi definitiva richiede un esame cito/istologico che può essere ottenuto sia per via eco- che TC-guidata. In presenza di sintomatologia clinica e laboratoristica suggestiva di iperadrenocorticismo ipofisario e sintomatologia neurologica può essere utile cercare di verificare la presenza di un adenoma ipofisario. Gli adenomi ipofisari si classificano in microadenomi (<10 mm) o macroadenomi (>10 mm). La presenza di un macroadenoma può solitamente essere evidenziata sia con la TC che con la RMN dopo somministrazione di mezzo di contrasto (le due metodiche forniscono informazioni paragonabili); viceversa i microadeno-

mi, in virtù delle loro ridotte dimensioni, possono essere molto difficili da diagnosticare con certezza con entrambe le metodiche. Quando si voglia confermare la presenza di un microadenoma ipofisario, la metodica diagnostica di prima scelta è la TC dinamica dell’intera ghiandola pituitaria. In presenza di sospetto clinico di insulinoma, la metodica diagnostica di screening usata più frequentemente è l’ecografia addominale: questa metodica può consentire di evidenziare lesioni nodulari sospette a livello pancreatico che solitamente appaiono come lesioni nodulari solide ipoecogene di dimensioni variabili. L’accuratezza diagnostica dell’ecografia nella visualizzazione della lesione primaria e delle eventuali metastasi epatiche e/o linfonodali è variabile nei diversi studi pubblicati. Una metodica diagnostica alternativa è l’angio-TC attraverso cui spesso si riescono ad evidenziare lesioni non rilevabili all’esame ecografico. Gli insulinomi tendono a mostrare un marcato enhancement durante la fase arteriosa in cui risultano particolarmente iperdensi rispetto al tessuto pancreatico adiacente e quindi ad essere più facilmente distinguibili. La diagnostica per immagini svolge quindi un ruolo fondamentale nella valutazione dei pazienti affetti da una neoplasia endocrina, ma solo una corretta interazione tra oncologo clinico e radiologo consente l’individuazione delle metodiche più appropriate al caso in esame, condizione a sua volta fondamentale per una diagnosi e stadiazione accurate.

Indirizzo per la corrispondenza: Daniele Della Santa E-mail: danieledellasanta@yahoo.it

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Ecografia toracica: la tecnica e i trucchi che aiutano l’ecografista Daniele Della Santa Med Vet, PhD, Dipl ECVDI, Pisa

In condizioni fisiologiche solo poche strutture anatomiche intratoraciche sono esplorabili ecograficamente in quanto l’aria contenuta a livello polmonare rende impossibile la trasmissione del fascio ultrasonoro necessario alla formazione dell’immagine. Viceversa in condizioni patologiche, spesso si rendono disponibili numerose finestre acustiche (normalmente non presenti in condizioni fisiologiche) che consentono di studiare anche le strutture anatomiche posizionate in profondità nella cavità toracica e quindi non visibili in condizioni fisiologiche. Uno dei miti da sfatare inerenti l’ecografia toracica è che sia necessario l’impiego di sonde phased-array: in realtà, con l’eccezione delle sonde convex il cui impiego risulta spesso difficoltoso e non associato a particolari vantaggi quanto a qualità delle immagini ottenute, possono essere usate sia sonde microconvex, sia sonde lineari. La maggiore qualità delle immagini ottenute con una sonda lineare è spesso di grande ausilio diagnostico. L’uso della sonda lineare, comunque possibile in quasi tutti i nostri pazienti, è particolarmente utile nel gatto, nei cani di piccola taglia e nei soggetti giovani, specialmente nel caso in cui debbano essere studiate strutture non particolarmente profonde o la parete toracica. L’interferenza esercitata dalle coste/cartilagini costali (specialmente se mineralizzate) è costantemente presente, ma non è solitamente tale da precluderne l’impiego. L’esecuzione di un esame radiografico del torace in due proiezioni ortogonali prima dell’ecografia toracica è un grandissimo ausilio nell’esecuzione dell’esame ecografico in quanto, specialmente in alcune situazioni cliniche quali ad esempio il versamento pleurico, consente spesso di localizzare il processo patologico e quindi di eseguire un esame ecografico più mirato con maggiori probabilità di successo dal punto di vista diagnostico. Durante l’esecuzione di un’ecografia addominale, è sempre indicato eseguire una rapida verifica dell’eventuale presenza di alterazioni intratoraciche visibili: non è infatti raro identificare versamento pericardico, pleurico o lesioni occupanti spazio polmonari durante la scansione del fegato. Lo stesso concetto vale per l’ecocardiografia in quanto è sempre buona norma osservare il fegato e le strutture anatomiche addominali eventualmente visibili quando si esegue la scansione sottocostale. Il posizionamento del paziente per l’esecuzione di un’ecografia toracica è variabile dipendentemente da numerosi fattori i più importanti dei quali sono la struttura anatomica di interesse e le condizioni cliniche. L’esame con il paziente in piedi o in decubito sternale è solitamente ben tollerato

anche dai pazienti dispnoici e consente un’adeguata esplorazione di entrambi gli emitoraci. Se il paziente è stabile dal punto di vista respiratorio può essere posizionato anche in decubito laterale: questa posizione presenta il vantaggio di essere più stabile e quindi spesso consente di ottenere delle immagini di migliore qualità; inoltre consente all’operatore di lavorare in una posizione più comoda (aspetto rilevante soprattutto per l’esecuzione di prelievi ecoguidati). Ovviamente per eseguire un esame completo è necessario eseguire l’esame ecografico di entrambi gli emitoraci, sia della porzione ventrale che della porzione dorsale; questo aspetto riveste particolare importanza nella ricerca di eventuali lesioni polmonari. Può accadere che le radiografie toraciche mostrino una lesione polmonare che non risulta poi direttamente accessibile con l’ecografia in quanto non in diretto contatto con la superficie pleurica; in questi casi può essere utile provare a tenere per qualche minuto il paziente in decubito laterale con la lesione dal lato declive in modo da provocare l’atelettasia del parenchima polmonare adiacente. In questo modo può essere possibile riuscire a rimuovere l’aria interposta tra la sonda e la lesione e quindi riuscire a visualizzarla: in questo caso sarà quindi possibile studiarla ed eventualmente prelevare dei campioni biologici da analizzare. Se questa metodica non ha successo perché la lesione è localizzata troppo in profondità nel parenchima polmonare, è necessario ricorrere a metodiche di diagnostica per immagini diverse quali ad esempio la TC. Anche i linfonodi tracheobronchiali (laterali e mediano) possono essere, specialmente in assenza di versamento pleurico, difficilmente accessibili ad una valutazione ecografica. In alcuni casi possono rendersi visibili impiegando il cuore come finestra acustica ma spesso, anche se di grandi dimensioni, per una loro adeguata valutazione è necessario un esame TC. I linfonodi mediastinici craniali possono più facilmente essere visibili anche in assenza di versamento pleurico in quanto possono dislocarsi ventralmente. Anche l’esofago è una struttura anatomica che solo occasionalmente risulta visibile ecograficamente per la cui valutazione è necessario un esame radiografico con mezzo di contrasto, un’endoscopia, una TC o una combinazione di queste metodiche. Una finestra acustica non molto usata, ma talvolta utile è quella attraverso la base del collo, ottenuta posizionando la sonda in prossimità del manubrio dello sterno e dirigendo il fascio ultrasonoro in direzione caudale. Questo approccio consente una visione ottimale della porzione craniale 106


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del torace e in particolare delle strutture vascolari con cui di ottiene un buon allineamento per l’esame Doppler (altrimenti di difficile esecuzione con il classico approccio intercostale). Può infatti risultare utile in caso di voluminose masse mediastiniche e sospetta sindrome della vena cava craniale. La tecnica per l’esecuzione di prelievi cito/istologici non presenta particolari differenze rispetto a quella comunemente impiegata a livello addominale. Un’attenzione particolare deve essere rivolta alle masse mediastiniche craniali in quanto queste possono determinare una dislocazione laterale della vena toracica interna tale da interferire con l’esecuzione del prelievo. L’esame con il doppler a codice di colore consente di evidenziare facilmente eventuali vasi di dimensioni significative interposti tra la lesione e la parete toracica (se possibile è conveniente impiegare l’approccio dall’altro emitorace). Il sito dove eseguire una toracentesi ecoguidata (diagnostica o terapeutica) varia dipendentemente dalla localizzazione del versamento pleurico (a sua volta variabile anche con la posizione del paziente). In pazienti dispnoici solitamente questa viene eseguita in stazione o in decubito sternale. L’esecuzione di una pericardiocentesi è indicata in caso di tamponamento pericardico e/o di una sospetta pericardite settica. L’approccio preferito è solitamente quello intercostale destro con il paziente in decubito laterale sinistro. Qualora sia necessario interrompere la procedura prima di aver completato il drenaggio, può essere conveniente aspettare qualche minuto prima di eseguire una nuova pericardiocentesi in quanto può accadere che il liquido pericardico residuo fuoriesca a livello pleurico attraverso la perforazione pericardica e quindi una nuova procedura non sia necessaria.

L’eventuale ricerca di una massa cardiaca dovrebbe idealmente essere eseguita prima del drenaggio pericardico perché l’assenza del liquido riduce la sensibilità dell’ecocardiografia in particolare nella ricerca delle lesioni atriali destre. Le principali limitazioni dell’ecografia toracica sono legate ai falsi negativi e allo scarso valore della metodica dal punto di vista della stadiazione. Per falsi negativi si intendono quei casi in cui l’esito dell’esame eseguito è negativo (ossia non sono state riscontrate lesioni), ma queste sono effettivamente presenti. Nel caso dell’ecografia toracica, è necessario sottolineare che alcune lesioni sono per loro natura inaccessibili agli ultrasuoni (ad esempio perché localizzate in profondità nel parenchima polmonare); ne deriva che il loro mancato rilievo non ne esclude la presenza. Per lo stesso motivo, l’ecografia toracica non costituisce il mezzo diagnostico di elezione per la stadiazione del torace nei pazienti neoplastici in quanto la visione che si può ottenere delle diverse strutture intratoraciche (in particolare dei polmoni) è comunque incompleta. Allo stesso tempo, in virtù della sua ridotta invasività e ampia disponibilità sul territorio, comunque associati ad un elevato valore diagnostico, l’ecografia toracica costituisce un valido complemento all’esame radiografico del torace nella pratica clinica che, qualora non già diagnostico di per sé, aiuta nella selezione dei pazienti in cui è necessario e indicato ricorrere a metodiche diagnostiche più avanzate quali la tomografia computerizzata.

Indirizzo per la corrispondenza: Daniele Della Santa E-mail: danieledellasanta@yahoo.it

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Pododermatite papulo-nodulare nel cane Piodermite da MRS nel cane Piodermite muco-cutanea nel cane Alessandra Fondati Med Vet, Dipl ECVD, PhD, Roma

ATTI NON PERVENUTI

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Approaching the endoscopic vaginal examination. Why to use this kind of diagnostic investigation Alain Fontbonne DVM, PhD, Dipl ECAR, Alfort (F)

Vaginal endoscopy is nowadays one of the best technique that makes possible to explore the post-uterine genital tract of the bitch. It also allows diagnosing endometritis in this species. Indeed in the bitch there is a limited use of speculum or otoscope and a limited visualisation cranial to the cingulum.

Vaginal endoscopy in the bitch is usually performed using rigid endoscopes. Rigid cystourethroscopes (Karl Storz Ltd - Germany) have been adapted for dogs6. They consist of an optic fibre inserted in a protective sheath (Lenght 29 cm / Diameter 22 fr). An obturator helps to insert the endoscope in the vagina without being bothered by fluid backflow. Human rectoscopes or cystoscopes have been used but nowadays most veterinarians use equipment specifically designed for

dogs. At the Alfort Veterinary College, we also use rigid human uretero-renoscopes (Karl Storz Ltd -Lenght 34 cm / Diameter 9.5 fr) without obturators. Few veterinarians use flexible fibroscopes, however, this technique may be re-considered as it may reveal to be quite practical to use. Video-endoscopy will be preferred as it provides a superior image quality than optic fiber viewing. A camera control unit is needed, with a cold light source, C02 insufflator (controversial depending on different authors), camera and eventually PCMCIA card. To pass the cervix, we recommend the use of human ureteral catheters, ch6. which are thin, rigid (steel guided) and very long. Depending on the size of the bitch, different endoscopes may be required4: - Bitches less than 10 kg: 18 cm long / 2.7 mm scope with a 14.5 Fr (< 5 mm) diameter. - Bitches above 10 kg: 36 cm long / 3.7 mm scope with a 17 Fr (< 6 mm) diameter. What will we see (normal anatomy of a normal bitch):

- vestibulum and cingulum:

- caudal vagina:

- cranial vagina with the dorsal median fold:

- uterine cervix:

This lecture will be highly illustrated by clinical cases.

1. MATERIALS AND METHODS

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2. INDICATIONS

4. A RECENT TECHNIQUE: HYSTEROSCOPY IN THE BITCH2

There are several indications of this technique:

Whereas it is widely used in equine and human medicine in the diagnostic workup of infertility, few reports have focussed on hysteroscopy in the bitch. From a preliminary study, it appeared that diestrus may be the best period for diagnosing uterine problems1. Hysteroscopy may be performed using a rigid uretero-renoscope (27002K; 9.5Fr, 43cm length, Storz®, Germany). A ureteral catheter (Ureteral CRU®, 5Fr, Rusch, France) inserted inside the operating channel is used for cervical catheterization and remained close to the cervical opening. Then filtered air is insufflated (GastroPack®, Storz, Germany) through the catheter to allow distension of the cervix in order to allow the passage of the scope inside the uterus. Recently, 6 attempts were realised in 5 different bitches (3 beagles, 1 German Shepherd, 1 Afghan), 5 of them being in diestrus and one of them in oestrus. Bitches were sedated using medetomidine (Domitor®, Pfizer, France, 0.5µg/kg IV) before examination. The endometrium was then visualized and lesions that may be related to the procedure were notified. Bitches were then given meloxicam (Metacam®, Boehringer Ingelheim, France, 0.1 mg/kg SC) during three days. In order to prevent occurrence of pyometra, the German shepherd bitch was also administered aglépristone (Alizine®, Virbac, France, 10 mg/kg SC) once a week during 4 weeks. Bitches were monitored by uterine ultrasound during three weeks following the procedure. The bitch that was in heat at the time of the procedure was inseminated after timing ovulation. Observation of the uterine body and horns was successfully performed in 5/6 attempts; it was unsuccessful in the Afghan Hound. In one bitch, we were able to reach the cranial end of the horns but no clear visualization of the uterotubal junction was obtained. Petechias were observed at the endometrial level at the end of the procedure, but were mainly localized in small and defined aeras and did not affect an important proportion of the uterus. During follow up, no abnormal vaginal discharge and no fluid uterine content under ultrasound were observed and none of the bitches develop uterine diseases. Moreover, the bitch that was inseminated was pregnant. In conclusion, hysteroscopy may be a useful tool in order to perform a direct visual exploration of uterine troubles in the bitch. These preliminary data are promising and need to be completed by a larger scale.

2.1. Follow up of the œstrous cycle: Vaginal endoscopy allows to determine the stage of the œstrous cycle in the bitch, and may represent an alternative to the use of vaginal cytology. Different appearances of the vagina under endoscopy have been described depending on the stage of the cycle. In infertile bitches, some authors think that it may be useful in better etermining the optimal mating time, detecting behavioral troubles, detecting split-heats or anovulatory cycles, prolonged inter-oestrus and prolonged pro-oestrus.

2.2. Artificial Insemination (AI): Vaginal endoscopy allows to carry out transcervical intrauterine artificial inseminations, which are required when performing AIs with frozen semen or when using bad quality semen or a very low inseminating dose (low number of spermatozoa)5.

2.3. Diagnosis of vaginal pathology: Vaginal endoscopy is a useful tool to diagnose vestibular and vaginal stenosis or malformations, traumatisms and foreign bodies, vestibular and vaginal tumors, vestibulitis, vaginitis and cervicitis. It also allows performing biopsies;

2.4. Diagnosis of endometritis: Using a vaginal endoscope, a transcervical catheterization may be performed using a human ureteral catheter (diameter 5fr). Flushing of the uterine lumen is performed with sterile saline fluid (NaCl 0.9%, 2 mL/10 kg instilled then reabsorbed) and collected samples may be used for uterine cytology and bacteriology1,3,5. This is useful in case of infertile bitches;

2.5. Obstetrics: Vaginal endoscopy may be used in obstetrics to visualize the degree of cervical dilatation and/or in case of dystocia. - Pre-partum period: detection of abnormalities/stenosis / anatomical modifications - During pregnancy: evaluation of cervical dilatation? / detection of uterine inertia? - Post-partum period: due to the opening of the cervix, hysteroscopy is feasible until > 20 days post-partum. Potential detection of: metritis / placental retention / sub-involution of placental sites/ post-partum uterine rupture.

References 1. Fontaine E. et al. Diagnosis of endometritis in the infertile bitch: a new approach. 2009. Accepted to be published in Reproduction in Domestic Animals. 2. Fontaine E. et al. Development of a transcervical hysteroscopic technique in the bitch. Proceed. EVSSAR symposium Louvain la Neuve (Belgium). 13-15th May 2010. 3. Günzel-Apel AR. et al. Development of a technique for transcervical collection of uterine tissue in bitches. J Reprod Fertil Suppl. 2001; 57:61-5. 4. Lulich JP. Endoscopic vaginoscopy in the dog. Theriogenology, 2006 (66), 588-591. 5. Watts JR et al. Investigating uterine disease in the bitch: uterine cannulation for cytology, microbiology and hysteroscopy. J. Small Anim. Pract., 1995. 35: p. 201-206. 6. Wilson M. Endoscopic transcervical insemination in the bitch. www.ivis.org

3. POTENTIAL COMPLICATIONS OF VAGINOSCOPY Some complications may arise when these techniques are performed. - Vaginoscopy alone: risk of vaginal rupture: avoid anoestrus period? - Detection of endometritis through vaginoscopy: avoid dioestrus period? / Use of antibiotics ± PGF2α treatments after the procedure? Concomittant use of luteolytic compounds / aglepristone1

Address for correspondnce: Alain Fontbonne Ass.Pr. Head of Animal Reproduction Department Alfort Veterinary College. Paris. France - afontbonne@vet-alfort.fr

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Iperadrenocorticismo ipofisario e surrenalico: indagini di laboratorio e approccio medico ragionato Federico Fracassi Med Vet, Dott Ric, Bologna

INTRODUZIONE

monolaterale, tuttavia sono segnalati anche casi di tumori a carico di entrambe le ghiandole. Ipercortisolismo iatrogeno Tale situazione si verifica in seguito alla somministrazione prolungata e/o eccessiva di glucocorticoidi esogeni. Viene inibito l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con conseguente atrofia della corticale surrenalica e sviluppo della classica sintomatologia da Cushing. Ipercortisolismo alimento indotto Recentemente è stata descritta in un cane una rara forma di ipersecrezione di cortisolo da parte delle surrenali in seguito all’espressione recettoriale da parte delle surrenali di un peptide gastrico (GIP).

La malattia/sindrome di Cushing viene definita come l’insieme delle alterazioni cliniche e laboratoristiche connesse ad uno stato ipercortisolemico cronico e patologico.

SEGNALAMENTO La Sindrome di Cushing si manifesta generalmente in soggetti di età compresa tra i 6 e i 16 anni (media circa 1011 anni). L’incidenza delle neoplasie ipofisarie è maggiore nei soggetti di peso inferiore ai 20 kg (75%). Le neoplasie surrenaliche, invece, mostrano un’incidenza del 50% in soggetti di peso superiore ai 20 kg. Le razze più a rischio sono il Barbone Nano, il Bassotto, il Beagle, il Boxer, il Labrador, il Pastore Tedesco e i vari Terrier.

SEGNI CLINICI Poliuria e polidipsia: l’80-85% dei soggetti ne è affetto e sono spesso il motivo principale che spinge il proprietario a richiedere il consulto veterinario. Polifagia è presente in circa il 90% dei casi. “L’Addome a botte” è presente in circa l’80% dei cani con ipercortisolismo. Le classiche manifestazioni cutanee sono rappresentate da alopecia simmetrica bilaterale, assottigliamento cutaneo, comedoni, infezioni secondarie, calcinosis cutis. Altri sintomi sono rappresentati da astenia muscolare e letargia, dispnea, atrofia testicolare e anestro, miotonia e sintomi neurologici da macroadenoma ipofisario.

PATOGENESI In base all’eziopatogenesi è possibile parlare di ipercortisolismo ACTH dipendente e ACTH non dipendente:

Ipercortisolismo ACTH dipendente Ipercortisolismo ipofisi-dipendente “pituitary dependent hypercortisolism” (PDH) o malattia di Cushing Circa l’85% dei cani presenta questa forma. È sostenuta da una neoplasia pituitaria ACTH-secernente. L’eccessiva secrezione di ACTH determina un’iperplasia surrenalica bilaterale ed una conseguente ipersecrezione di glucocorticoidi surrenalici. Nella maggior parte dei casi si tratta di tumori benigni che normalmente sono microadenomi e nel 15-25% macroadenomi. Ipercortisolismo da produzione ectopica di ACTH Nell’uomo tale patologia è ben conosciuta ed è caratterizzata dalla produzione di ACTH da parte di neoplasie non ipofisarie (solitamente carcinomi polmonari). Ciò determina un’abnorme stimolazione delle surrenali con conseguente iperplasia bilaterale ed iperproduzione di cortisolo. Tale forma è stata recentemente segnalata in un cane.

ESAMI DI LABORATORIO Esame emocromocitometrico “Leucogramma da stress”: l’80% dei soggetti ha una linfopenia ed eosinopenia e il 2025% mostra un lieve aumento dei leucociti totali. La trombocitosi è un rilievo comune. Profilo Biochimico L’eccesso di cortisolo endogeno determina un aumento della fosfatasi alcalina (SAP) corticosteroido-indotta. L’85% dei soggetti affetti da ipercortisolismo presenta valori di fosfatasi alcalina superiori a 150 UI/L e non è raro che tali valori superino i 1000 UI/L. Gli enzimi epatici, soprattutto ALT e GGT sono generalmente aumentati (epatopatia e induzione enzimatica). Aumento della lipemia e del colesterolo sierici sono reperti frequenti. Nel 5-10% dei soggetti è presente lieve iperglicemia. Va ricordato che i cani con ipercortisolismo presentano un aumento dell’aptoglobina. Urine Riduzione del peso specifico. Nell’85% dei cani, infatti, il peso specifico urinario risulta inferiore a 1.020. Circa il 40-50% dei soggetti presenta infezioni alle vie urinarie.

Ipercortisolismo non ACTH dipendente Ipercortisolismo surrenalico (ADH) È sostenuto da adenomi o carcinomi a carico della corticale delle surrenali che secernono un’eccessiva quantità di cortisolo indipendentemente dal controllo pituitario. Solitamente la neoplasia è 111


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DIAGNOSI

l’avvento dell’ecografia ha perso molto di importanza. Si effettua misurando la cortisolemia prima e dopo 3-4 ore la somministrazione endovenosa di 0,1 mg/kg di desametasone. Va usato in quei casi in cui, pur sospettando un PDH, non si è ottenuta soppressione della cortisolemia a 4 ore al test di soppressione a basse dosi. Il test è indicativo di PDH se la cortisolemia a 4 ore è <1,4 µg/dl o inferiore del 50% rispetto al valore basale. Non bisogna dimenticare che anche con questo test, circa il 15-25% dei casi di PDH non presenta alcuna soppressione, comportandosi quindi come ADH. Rapporto Cortisolo urinario/Creatinina (UC:CR) In soggetti affetti da ipercortisolismo, l’escrezione urinaria di cortisolo aumenta come conseguenza di una maggior secrezione da parte delle surrenali. Le urine vanno prelevate al mattino a casa dal proprietario. Lo stress influenza in modo importante l’esito del test. Questo test è dotato di una bassa specificità, tuttavia ha una sensibilità elevata. Esiste anche la possibilità di eseguire un test di soppressione con desametasone (assunto per bocca) misurando il cortisolo urinario. Ecografia addominale In corso di PDH, nella maggior parte dei casi, forma, contorni, ecogenicità ed ecostruttura delle ghiandole surrenali appaiono normali all’esame ecografico, tuttavia con un aumento simmetrico delle dimensioni. In corso di ADH, invece, l’ecogenicità della surrenale colpita dalla neoplasia appare variabile ed eterogenea, con distorsione dei contorni e un aumento irregolare delle dimensioni, la surrenale controlaterale, invece, può apparire atrofica o normale. Bisogna ricordare che possono esistere anche tumori surrenalici bilaterali. Tomografia computerizzata/Risonanza magnetica La CT e la RMN sono estremamente utili per evidenziare anomalie sia a carico dell’ipofisi che delle surrenali. Tali tecniche permettono di evidenziare macroadenomi a carico dell’ipofisi.

Test di soppressione con desametasone a basse dosi (LDDS) Questo test è sia diagnostico che discriminante e può pertanto permette di differenziare forme di PDH da forme di ADH sfruttando il feedback negativo del cortisolo sulla liberazione di ACTH. In un cane sano la somministrazione di desametasone blocca la produzione di ACTH e quindi di cortisolo:l’effetto si avverte già dopo 2-3 ore dalla somministrazione e può perdurare per 8-48 ore. Il protocollo di esecuzione del test prevede la misurazione della cortisolemia basale e dopo 4 e 8 ore dalla somministrazione endovenosa di 0.01 mg/kg di desametasone. Il test viene considerato negativo se la cortisolemia all’ottava ora risulta inferiore a 1 µg/dl. Valori compresi tra 1 µg/dl e 1.4 µg/dl indicano una risposta dubbia mentre valori superiori a 1.4 µg/dl confermano la diagnosi di ipercortisolismo. Un abbassamento della cortisolemia a 4 ore <1,4 µg/dl o inferiore del 50% rispetto al valore basale permette di dire che si tratta di un PDH. Bisogna ricordare che in circa il 40% dei cani con PDH non si osserva la caratteristica diminuzione della cortisolemia a 4 ore. Nei soggetti affetti da ADH, invece, non si ha alcuna soppressione della produzione di cortisolo da parte delle surrenali. Da molti endocrinologi questo viene considerato il singolo test con la migliore sensibilità e specificità per la diagnosi di ipercortisolismo spontaneo nel cane. Test di stimolazione con ACTH Il test di stimolazione con ACTH è il più comunemente utilizzato per confermare la diagnosi di ipercortisolismo nel cane. Si tratta di un test semplice, relativamente poco costoso e veloce. Ha tuttavia lo svantaggio di non essere particolarmente sensibile e specifico. Il protocollo più comunemente utilizzato prevede la misurazione del cortisolo ematico basale e dopo 1 ora dalla somministrazione endovenosa o intramuscolare di 0,25 mg di ACTH sintetico (Synachten®). Un soggetto sano presenta una cortisolemia basale compresa tra 0.5 e 6.0 µg/dl e post stimolazione compresa tra 6 e 17 µg/dl. Valori post-stimolazione compresi fra 17 e 22 µg/dl sono considerati dubbi e non diagnostici, invece, valori post-stimolazione superiori a 22 µg/dl sono indicativi di ipercortisolismo. Soggetti affetti dai ipercortisolismo iatrogeno mostrano valori basali di cortisolo ematico bassi o normali che tuttavia non subiscono variazioni in seguito alla somministrazione di ACTH esogeno. Questo test permette di confermare un ipercortisolismo nell’80-85% dei cani affetti da PDH e nel 50-60% dei cani affetti da ADH. Test di soppressione con desametasone ad alte dosi (HDDS) Questo test è esclusivamente differenziale e dopo

Bibliografia Clinical Endocrinology of Dogs and Cats. Eds Rijnberk A., Kooistra H.S., Schlütersche, Hannover 2010. Canine and Feline Endocrinology and Reproduction. Eds Feldman E.C., Nelson R.W., Saunders, St. Louis, Missouri 2004.

Indirizzo per la corrispondenza:

Federico Fracassi DVM, PhD Dipartimento Clinico Veterinario Università degli Studi di Bologna Via Tolara di Sopra 50, 40064 Ozzano dell’Emilia (BO) Tel. 051 2097590 - Fax 0512097593 E-mail: federico.fracassi @unibo.it

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Neoplasie tiroidee del cane e del gatto Federico Fracassi Med Vet, Dott Ric, Bologna

INTRODUZIONE

dismo: l’alimentazione con “pet food”, in particolare con alimenti in scatola, il trattamento con “sprays” antipulci, l’utilizzo della lettiera ed eventuali concomitanti patologie autoimmuni. Gli effetti principali degli ormoni tiroidei sono l’aumento del metabolismo basale e il potenziamento dell’azione delle catecolamine. Tale disendocrinia è una patologia che colpisce i gatti anziani con più di otto anni, non ci sono predisposizioni di razza, tuttavia sembrano essere maggiormente colpiti i soggetti non di razza. Gli apparati più colpiti dall’eccesso di ormoni tiroidei sono il gastroenterico e il cardiocircolatorio. Il cuore viene coinvolto in una fase avanzata della patologia. I tipici segni clinici sono rappresentati da dimagramento, polifagia, iperattività, poliuria/polidipsia, vomito, diarrea, tachicardia, pelo poco curato e a volte apatia, debolezza e anoressia. Una manualità importante da eseguire nel corso della visita clinica di un gatto anziano, soprattutto se si sospetta l’ipertiroidismo è la palpazione della regione cervicale ventrale. Questa permette di valutare la presenza di un nodulo tiroideo che si riscontra nella maggior parte dei gatti ipertiroidei. La diagnostica di laboratorio di base fornisce informazioni utili, anche se non specifiche, di ipertiroidismo. Le alterazioni più frequenti sono l’aumento delle transaminasi e dei parametri renali. Un esame più specifico è il dosaggio del T4, che risulta aumentato in oltre il 90% dei gatti ipertiroidei. Nonostante non siano disponibili in tutte le cliniche, gli studi sulla captazione di radioiodio con 131l o 123l o pertecnetato possono contribuire a stabilire la diagnosi. Nel gatto ipertiroideo si osserva una rapida captazione del tracciante a valori più alti rispetto al gatto normale. Anche la diagnostica per immagini fornisce utili informazioni, in particolare, consente di valutare il coinvolgimento dell’apparato cardiovascolare e la gravità dell’eventuale patologia cardiaca. Esistono tre possibilità per eliminare la produzione in eccesso di T4: (1) ablazione con radioiodio della tiroide, (2) tiroidectomia chirurgica e (3) inibizione della secrezione mediante i farmaci antitiroidei. Quando le strumentazioni non rappresentano un fattore limitante, la prima opzione è quella da preferire.

Le neoplasie tiroidee possono manifestarsi in due modi. Nel cane la presenza fisica del tumore è in genere il primo elemento a essere scoperto dal proprietario. Tuttavia, se il tumore produce ormone tiroideo, aumentando di dimensioni, le quantità di ormone prodotto possono essere tali da provocare lo sviluppo dei sintomi dell’ipertiroidismo. Ciò si osserva piuttosto frequentemente nel gatto e solo occasionalmente nel cane. Dal momento che gli aspetti clinici della neoplasia tiroidea variano notevolmente tra cane e gatto, verranno discussi separatamente.

IPERTIROIDISMO NEL GATTO L’ipertiroidismo è una condizione clinica derivante da un’eccessiva produzione, secrezione e, quindi, dall’aumento della concentrazione ematica di tiroxina (T4) e triiodotironina (T3) da parte della ghiandola tiroide. Nel gatto l’ipertiroidismo è quasi sempre conseguenza di una condizione primaria (quindi indipendente da un problema ipotalamico o ipofisario) ed è spesso correlato a neoplasie che coinvolgono uno o entrambi i lobi tiroidei. Il gozzo adenomatoso multinodulare è la più comune lesione istologica descritta in gatti ipertiroidei. Nella maggior parte dei soggetti sono coinvolti entrambi i lobi della ghiandola. I noduli multifocali sono dispersi in tutta la tiroide, che assume un aspetto simile a un grappolo d’uva, e hanno dimensioni che vanno da meno di un centimetro a più di tre centimetri. Molti noduli sono solidi ma una piccola percentuale può essere cistica e piena di liquido. I noduli sono composti da follicoli destrutturati pieni di colloide ben distinguibili dal tessuto normale che a volte può risultare compresso. Il carcinoma tiroideo, causa principale di ipertiroidismo nel cane, è poco frequente nel gatto; si riscontra in circa il 3% dei gatti ipertiroidei. L’incidenza della malattia è in crescita. La patogenesi dell’iperplasia adenomatosa della tiroide nel gatto non è chiara. La condizione assomiglia al gozzo nodulare tossico (morbo di Plummer) nell’uomo. Nel gatto ipertiroideo, la tiroide contiene noduli iperplastici multipli circondati da un tessuto follicolare inattivo. Il trapianto sperimentale del tessuto adenomatoso nel topo nudo ha dimostrato che la sua crescita non dipende dalla stimolazione umorale extratiroidea. Al contrario, le anomalie cellulari intrinseche devono essere responsabili della sua crescita e funzione sregolate. Una serie di fattori sono stati correlati allo sviluppo di ipertiroi-

TUMORI TIROIDEI NEL CANE La neoplasia tiroidea è responsabile dell’1-2% di tutti i tumori canini. I tumori benigni (adenomi) sono per la maggior parte di piccole dimensioni e, in genere, non vengono scoperti nel corso della vita. Solo in qualche caso diventano cistici e quindi grandi abbastanza da essere individuati dal 113


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proprietario. Un tumore benigno della tiroide può altresì essere individuato a causa dei sintomi che suggeriscono l’ipertiroidismo. Una palpazione accurata del collo può rivelare una tiroide leggermente ingrossata. Inoltre l’85% dei casi, i tumori tiroidei canini individuati clinicamente sono di dimensioni piuttosto grandi (diametro >3 cm), solidi e maligni. La loro natura maligna può risultare già evidente durante l’esame obiettivo, a causa delle alterazioni quali l’adesione alle strutture adiacenti e la diffusione di metastasi ai linfonodi regionali. Gli esami microscopici dimostrano che la maggior parte dei tumori consiste di tessuto sia solido sia follicolare.Tra i tumori tiroidei degli animali domestici, quello del cane – in particolare il tipo follicolare – assomiglia molto al carcinoma follicolare umano. Le similitudini non includono solamente il comportamento clinico del tumore ma anche l’andamento dei livelli circolanti di tireoglobulina e la conservazione dei recettori del TSH nei tumori primari (molto meno nelle metastasi). I tumori della tiroide non originano solo dall’epitelio follicolare ma anche dalle cellule C parafollicolari, tuttavia tali tumori midollari sono estremamente rari. La metastasi dei carcinomi epiteliali tiroidei canini è relativamente frequente e interessa solitamente i polmoni e i linfonodi regionali. Nella maggior parte degli studi vene riportata un età di sviluppo sui 9-10 anni. Boxer, Beagle e Golden Retrivers sembrano essere le razze maggiormente rappresentate. La maggior parte dei tumori tiroidei viene scoperta dai proprietari che individuano una massa non dolente nella regione medio- o ventrocervicale che non causa alcun fastidio. Tuttavia, quando la dimensione aumenta, si manifestano i sintomi correlati alla pressione esercitata, come disfagia, raucedine e ostruzione tracheale. Un tumore esteso e invasivo può danneggiare persino il tronco simpatico cervicale, causando la sindrome di Horner. Nel cane, l’ipersecrezione degli ormoni tiroidei si verifica in circa il 10% dei casi con sintomi simili a quelli del gatto (dimagramento, poliuria/polidipsia, irrequietezza, diarrea, tachicardia, intolleranza al caldo e a volte astenia). Nei rari casi di ipersecrezione da parte del tessuto tiroideo ectopico può

non essere possibile palpare la massa tiroidea. Lo stato funzionale può essere testato attraverso la misurazione delle concentrazioni plasmatiche di T4 e di TSH. Livelli plasmatici di T4 bassi e livelli plasmatici di TSH elevati sono indicativi di ipofunzionamento e si possono riscontrare in cani in cui il tessuto tiroideo normale è sostituito da un carcinoma tiroideo bilaterale o da una tiroidite pregressa. I tumori tiroidei iperfunzionanti comportano valori plasmatici di T4 elevati e di TSH bassi. Le tecniche di diagnostica per immagini quali l’ecografia, la TC e la RM possono essere di notevole aiuto nell’individuazione di cisti, metastasi dei linfonodi regionali, emorragia, necrosi, calcificazione, spostamento vascolare e invasione. I dubbi in merito all’origine tiroidea di una massa sono di solito fugati per mezzo della scintigrafia con pertecnetato o ioduro. Le metastasi polmonari si possono evidenziare mediante la radiografia e, se necessario, la TC. Queste metodiche sono più sensibili per tali scopi rispetto alla scintigrafia in quanto le metastasi, in particolare se sono solide o anaplastiche, non sono in grado di captare il pertecnetato. L’analisi citologica della massa attraverso ago aspirato può risultare estremamente utile nonostante sia frequente la contaminazione ematica.

Bibliografia Rijnberk A, Kooistra HS, (2010): Thyroids. In: Clinical Endocrinology of Dogs and Cats. Eds Rijnberk A., Kooistra H.S., Schlütersche, Hannover 55-91. BARBER LG (2007). Thyroid tumors in dogs and cats. Vet Clin Small Anim Pract 37:755–773.

Indirizzo per la corrispondenza:

Federico Fracassi DVM, PhD Dipartimento Clinico Veterinario Università degli Studi di Bologna Via Tolara di Sopra 50, 40064 Ozzano dell’Emilia (BO) Tel. 051 2097590 - Fax 0512097593 E-mail: federico.fracassi @unibo.it

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APU…che??? Neoplasie endocrine rare Federico Fracassi Med Vet, Dott Ric, Bologna

ACROMEGALIA

ALDOSTERONOMA

L’acromegalia è una patologia non frequente, osservata in cane, gatto e uomo. Questo disturbo consiste in un’ipersecrezione di ormone della crescita (GH). Gli animali colpiti manifestano aumento di volume di testa (prognatismo, aumento degli spazi interdentali), arti, addome e organi interni, difficoltà respiratorie, intolleranza all’esercizio, iperglicemia ed altre alterazioni ematochimiche. Nell’uomo e nel gatto l’eccessiva secrezione di GH, deriva solitamente da una neoplasia ipofisaria ormono-attiva. Nel cane, invece, l’acromegalia da tumore ipofisario è estremamente rara e, ad oggi, in letteratura è descritto in un solo caso, un dalmata di 10 anni presentato alla visita per aumento del volume della testa e della lingua ridondanti pieghe cutanee, aumento dello spazio interdentale e rigidità nel deambulare. Nel gatto è probabilmente una patologia sottostimata e in letteratura troviamo segnalati più di 100 casi. Sono maggiormente colpiti i soggetti maschi castrati in un età che va dai 6 ai 15 anni. Le alterazioni cliniche sono simili a quelle del cane anche se meno pronunciate (aumento di peso, lieve prognatismo, aumento di volume delle zampe e a volte zoppia). Quasi tutti i gatti colpiti presentano un diabete mellito insulino-resistente. La poliuria/polidipsia e l’intensa polifagia sono solitamente legati allo stato diabetico. In alcuni soggetti è presente un soffio cardiaco e negli stati avanzati si può arrivare a un’insufficienza cardiaca congestizia. Le alterazioni agli esami ematobiochimici di base sono quelle compatibili con un diabete mellito mal controllato. Per la diagnosi definitiva è possibile misurare il GH sierico che purtroppo viene misurato in pochissimi laboratori al mondo. Una valida alternativa è rappresentata dalla misurazione delle IGF-I che nei gatti con acromegalia supera solitamente i 1000 µg/l. Un vantaggio nella determinazione delle IGF-I è rappresentato dal fatto che presenta minori fluttuazioni nell’arco della giornata rispetto al GH. I gatti acromegalici non in terapia insulinica presentano valori più bassi di IGF-I rispetto a gatti in terapia. Pertanto, per non rischiare di incorrere in risultati falsi negativi è opportuno testare i gatti diabetici almeno un mese dopo l’inizio dell’insulinoterapia. Le possibilità terapeutiche sono rappresentate dall’ipofisectomia (un unico caso riportato in letteratura) o la radioterapia. Gli analoghi della somatostatina (octreotide) potrebbero avere un potenziale ruolo terapeutico, tuttavia gli studi preliminari non sono particolarmente incoraggianti. Normalmente il diabete mellito di questi soggetti deve essere trattato con dosi molto elevate di insulina.

Nel cane due sono le segnalazioni di iperaldosteronismo primario mentre nel gatto sono stati riportati almeno 20 casi in cui la patologia era dovuta a tumori corticosurrenalici, solitamente unilaterali, con vari gradi di malignità. L’eccesso di mineralcorticoidi tende a essere associato a espansione del liquido extracellulare, ipertensione e aumentata gittata cardiaca. La progressiva deplezione di potassio e lo sviluppo di ipokaliemia influenzano diversi sistemi di organi, ma diventano particolarmente manifesti nel sistema neuromuscolare influendo sulla polarizzazione delle membrane di nervi e muscoli. L’eccesso di mineralcorticoidi si verifica in età medio-adulta. I principali sintomi di presentazione sono debolezza episodica e una caratteristica ventroflessione del collo, che in alcuni casi porta a paresi flaccida accompagnata da iporiflessia e ipotonia muscolare. In altri gatti, la sintomatologia è dominata da distacco della retina ed emorragie retiniche e intravitreali dovute all’ipertensione. Il reperto laboratoristico più costante è l’ipokaliemia. A volte è presente un’alcalosi metabolica ipovolemica (di solito lieve). Nell’eccesso di mineralcorticoidi primario, la concentrazione plasmatica di aldosterone è elevata e l’attività reninica plasmatica (ARP) è notevomente bassa. Poiché l’ipokaliemia è un fattore predominante nella riduzione della concentrazione di aldosterone, in presenza di ipokaliemia moderatamente elevata i valori di aldosterone possono essere ritenuti impropriamente alti. Deve essere presa in considerazione anche la ARP. La combinazione di una concentrazione di aldosterone di grado elevato o elevato-normale e una ARP bassa è indizio di una sintesi di aldosterone persistente in presenza di una stimolazione ridotta o nulla del sistema renina-angiotensina. Il rapporto aldosterone/renina (ARR) è in medicina umana il miglior indice per valutare uno stato di iperaldosteronismo e sembra essere adeguato anche nel cane e nel gatto. L’ecografia e la tomografia computerizzata sono state utilizzate nei cani e nei gatti per individuare e caratterizzare i tumori surrenalici. Come per l’uomo, i reperti non sono sempre immediatamente decisivi. L’adrenalectomia unilaterale è il trattamento di elezione per l’iperaldosteronismo primario unilaterale confermato. L’ipokaliemia deve essere controllata nel miglior modo possibile, sia prima sia durante l’intervento, mediante supplementazioni per via orale ed endovenosa. A volte può rendersi necessaria una terapia temporanea con fludrocortisone. Tuttavia, nei casi riportati, queste misure postchirurgiche non sono state necessarie e la loro omissione non sembra avere avuto effetti deleteri. 115


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lizzata per l’individuazione di eventuali metastasi ed è inoltre possibile esaminare l’ispessimento della parete gastrica e ulcere di grandi dimensioni. L’ispezione e la palpazione intraoperatorie degli organi interessati continuano ad essere le tecniche standard per la localizzazione e la stadiazione di questi tumori. ll trattamento ideale del gastrinoma è la resezione chirurgica tuttavia l’elevato grado di malignità dei gastrinomi rende infausta la prognosi a lungo termine.

Se non è possibile eseguire l’intervento chirurgico o se la patologia corticosurrenalica è bilaterale, il trattamento medico è possibile con lo spironolattone, antagonista dei recettori per i mineralcorticoidi e supplementazioni orali con gluconato di potassio. L’ipertensione arteriosa persistente può essere trattata con l’amlodipina.

GASTRINOMA GLUCAGONOMA

Nella maggior parte dei cani il gastronoma ha una localizzazione pancreatica. I gastrinomi sono in genere maligni e in oltre il 70% dei casi alla diagnosi si possono riscontrare metastasi. Sono colpiti cani di età medio-avanzata, con età media di circa 9 anni. Sono estremamente rari nel gatto. I sintomi sono legati alla stimolazione diretta della secrezione di acido cloridrico da parte delle cellule parietali gastriche e indiretta attraverso il rilascio di istamina da parte delle cellule entorocromaffino-simili del fondo gastrico, e agli effetti trofici sulla mucosa gastrica. L’ipersecrezione di acido cloridrico e la gastrite ipertrofica provocano anoressia, vomito e calo ponderale. Può essere presente diarrea intermittente e lo sviluppo di esofagite erosiva e ulcere gastroduodenali può indurre ematemesi. Alcuni manifestano sintomi di dolore addominale. Le ulcere perforanti possono causare segni e sintomi da addome acuto e shock settico. Il sospetto può nascere se l’endoscopia rivela la presenza di esofagite, gastrite ipertrofica e ulcerazione gastrica e/o duodenale. La diagnosi presuntiva di gastrinoma si basa sulla presenza di reperti clinici ed elevate concentrazioni di gastrina in circolo in assenza di altre cause di ipergastrinemia come ad esempio l’insufficienza renale cronica o la somministrazione di anti H2. L’individuazione, la localizzazione e la stadiazione precise del tumore primitivo e delle metastasi sono essenziali per la selezione dei candidati idonei all’intervento chirurgico. L’utilizzo a tale scopo dell’ecografia, della TC e della risonanza magnetica non è ancora stato valutato, ma le ridotte dimensioni di questi tumori sembrano porre un limite all’utilità di tali tecniche di diagnostica per immagini. L’ecografia addominale, tuttavia, può essere uti-

I tumori pancreatici secernenti glucagone o glucagonomi, sono stati descritti solo raramente nel cane. La sintomatologia è caratterizzata da letargia, anoressia, calo ponderale, rash cutanei (eritema necrolitico migrante), stomatite, anemia lieve, iperglicemia (diabete mellito lieve), ipoaminoacidemia e iperglucagonemia. La diagnosi presuntiva può essere confermata dal riscontro di un’elevata concentrazione plasmatica di glucagone in assenza di ipoglicemia. La resezione chirurgica è la prima opzione terapeutica. La terapia medica con analoghi della somatostatina potrebbe rappresentare un’alternativa. I corticosteroidi dovrebbero essere evitati, in quanto lo sviluppo del diabete mellito aggraverebbe la situazione.

Bibliografia Clinical Endocrinology of Dogs and Cats. Eds Rijnberk A., Kooistra H.S., Schlütersche, Hannover 2010. Canine and Feline Endocrinology and Reproduction. Eds Feldman E.C., Nelson R.W., Saunders, St. Louis, Missouri 2004.

Indirizzo per la corrispondenza:

Federico Fracassi DVM, PhD Dipartimento Clinico Veterinario Università degli Studi di Bologna Via Tolara di Sopra 50, 40064 Ozzano dell’Emilia (BO) Tel. 051 2097590 - Fax 0512097593 E-mail: federico.fracassi @unibo.it

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Tecniche e segreti per ottenere il massimo dall’ecografia addominale Gian Marco Gerboni Med Vet, Samarate, Varese

INTRODUZIONE

possibile esaminare alcune strutture che si localizzano craniodorsalmente al fegato, attraversano il diaframma o prendono contatto con esso. La vena cava, l’esofago e l’apice cardiaco sono le strutture che possiamo identificare attraverso la finestra epatica, mentre lesioni o masse del torace caudale sono identificabili solo se entrano in contatto con il muscolo diaframmatico. Le scansioni attraverso il parenchima epatico sono ottimizzate dall’atto inspiratorio poiché il movimento sposta caudalmente gli organi addominali. Con il paziente in decubito dorsale è utile applicare una leggera pressione per favorire il contatto con queste strutture. La vena cava si reperisce grazie alla sua posizione dorsale e spostata a destra rispetto alla vena porta, ed è l’unico grande vaso che attraversa il diaframma. Negli animali magri è possibile seguirla fino all’immissione nell’atrio destro. Il diametro della vena cava subisce della variazioni fisiologiche con la respirazione ed è influenzato dalle patologie cardiache che modificano la pressione venosa. L’esofago diventa visibile nella suo tratto distale a livello di iato fino al cardias ed è localizzato a sinistra del piano mediano. Questa proiezione consente di studiarne lo spessore parietale, la stratigrafia e la motilità o apprezzare la presenza di lesioni occludenti il lume. Sempre a sinistra del piano mediano l’apice cardiaco prende contatto con il diaframma ed il passaggio degli ultrasuoni consente di identificare l’eventuale presenza di liquido nel pericardio. Attraverso la finestra acustica trans-epatica è possibile valutare l’integrità del diaframma, ricercando la presenza di eventuali porte erniarie, la dislocazione di organi addominali in torace e la presenza di liquido nello spazio pleurico. L’effetto specchio è il comune artefatto considerato segno di integrità del diaframma. Lesioni o strutture ecogeniche occupanti spazio nel mediastino caudale o nei lobi polmonari caudali vengono scoperte se generano un sufficiente contatto con il diaframma.

Il costante progredire delle conoscenze nel campo della diagnostica per immagini e l’avvento di apparecchiature sempre più sofisticate ha incrementato le capacità diagnostiche di queste metodiche, aumentando però la variabilità del loro utilizzo nella pratica clinica. La realtà odierna è caratterizzata da una notevole difformità di utilizzo delle metodiche e spesso dalla inadeguata conoscenza delle potenzialità diagnostiche e cliniche delle diverse tecniche. Nell’ultimo decennio l’ecografia dell’addome è diventata l’ausilio fondamentale nel campo della medicina interna dei piccoli animali, consolidando il ruolo di esame di primo livello anche in virtù della rapidità di esecuzione, dell’innocuità ed economicità. I limiti principali rimangono la necessità di un’immediata interpretazione delle immagini e la dipendenza dall’abilità e dalle conoscenze dell’operatore (scarsa riproducibilità dell’esame). In letteratura esistono grandi quantità di dati su applicazioni ormai non più recenti; al contrario, non emergono spesso dati sufficienti su nuove prove foriere di nuove tecniche. Per migliorare l’adeguatezza diagnostica il medico veterinario ha la necessità di aggiornarsi sull’innovazione tecnologica degli ecografi di ultima generazione, ma soprattutto di mantenere un atteggiamento attento ad acquisire informazioni sulle nuove possibili applicazioni. Gli argomenti trattati non svelano quindi nessun “segreto”, ma illustrano alcune tecniche di esplorazione basate sui fondamenti dei principi fisici dell’indagine ad ultrasuoni e applicazioni meno comuni, spesso non affrontate dai principali testi di ecografia ma solo ricercate da alcuni autori come nuove frontiere dell’ecografia addominale.

Proiezione attraverso la finestra trans-epatica L’esplorazione classica del fegato avviene con l’animale in decubito dorsale utilizzando piani di scansione latero-laterali (piani traversali) o cranio-caudali (piani sagittali o longitudinali). Con questo approccio è possibile esaminare i tre elementi principali della struttura epatica: parenchima, tratti biliari e vasi. Nelle razze dolicomorfe, nei pazienti con microepatia o con versamento peritoneale questo approccio non è soddisfacente e si deve utilizzare l’intercostale destro a livello di 11° e 12 ° spazio. Con questa scansione si ottimizza la visione della vena cava caudale, delle vene epatiche, della vena porta, del dotto biliare e dei linfonodi epatici. Il parenchima epatico è delimitato cranialmente dal diaframma che appare come una linea curva tanto più ecogenica quanto più il fascio di ultrasuoni lo intersecano perpendicolarmente. Con la sonda inclinata di circa 30° cranio-dorsalmente a partire dalla posizione mediana posteriormente alla cartilagine xifoidea é

Tecnica di esplorazione delle ghiandole surrenali La visualizzazione delle ghiandole surrenali per dimensioni e posizione anatomica richiede una buona conoscenza dei punti di repere e la cooperazione dell’animale esaminato. A volte questo non basta perché la presenza di gas intestinale, abbondanti feci nel colon o una massa addominale non ne consentono l’dentificazione. In queste condizioni occorre adottare per entrambe le ghiandole un approccio con scansione esclusivamente da destra o sinistra. La ricerca si effettua sempre a partire dai grossi vasi, aorta e vena cava caudale, ricordando che la vena cava è l’elemento chiave per la ricerca della surrenale destra e che l’aorta è il repere della sinistra. Quando si verifica un impedimento nell’emiad117


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dome di sinistra bisogna si posiziona il paziente in decubito dorsale o laterale sinistro e con la sonda posta cranialmente a destra dietro l’ultima costa, si esegue una scansione parasagittale, dopo aver visualizzato il polo craniale del rene destro si ricerca cranialmente la vena cava secondo un piano longitudinale. Compiendo piccoli spostamenti laterali la surrenale destra appare in longitudinale a livello dell’insorgenza dell’arteria celiaca e dall’arteria mesenterica. Dallo stesso piano di scansione compiendo un movimento di inclinazione della sonda si sposta il fascio ultrasonoro medialmente e verso sinistra per visualizzare in asse longitudinale l’aorta e in sezione trasversale le arterie mesenterica e celiaca. La ghiandola surrenale sinistra appare caudale all’arteria mesenterica e craniale all’arteria renale sinistra.

zare il Doppler colore. La rilevazione di un flusso attraverso il Doppler di norma differenzia i vasi sanguigni dalle strutture tubulari non vascolari (dotti biliari, ureteri, dotto pancreatico), ma in alcuni casi è utilizzato per riconoscere flussi non ematici (Jet ureterale). Nella pratica clinica veterinaria non si eseguono studi quantitativi del flusso ureterale su fenomeni ostruttivi e le principali valutazioni sono qualitative per gli ureteri ectopici e reimpiantati.

Artefatto scintilla o Twinkling artifact Il Twinkling artifact è un fenomeno che si osserva distalmente ad interfacce acustiche altamente riflettenti gli ultrasuoni come le mineralizzazioni di parenchimi o i calcoli dell’apparato urinario. Si genera per l’Aliasing del Doppler causato dalla moltiplicazione del segnale prodotto dalle piccole interfacce della struttura riflettente. Applicando il Doppler a colore si visualizza un mosaico di pixel colorati all’interno, intorno e spesso lungo il cono d’ombra della formazione litiasica. Il rilievo di questo artefatto è influenzato dalle performance e dal settaggio dell’ecografo, in particolare dal guadagno del colore oltre che dalle dimensioni e dalla forma degli uroliti. Risulta utile per differenziare i calcoli urinari veri da altro materiale iperecogeno spesso presente in vescica.

Proiezione in decubito laterale destro per ottenere lo spostamento del colon discendente In decubito dorsale si utilizza la finestra acustica creata dalla vescica per la visione dell’utero, del linfocentro ileosacrale e della biforcazione dell’aorta e vena cava caudale nelle arterie e vene iliache. Il colon con il suo contenuto gassoso altamente riflettente a contatto con la parete dorsale della vescica può rendere difficoltoso l’esame di questa regione. Portare il paziente dal decubito dorsale a quello laterale destro consente di “far cadere“ il colon verso la parte ventrale dell’addome e di posizionare la sonda nella regione dorso-caudale per una scansione longitudinale dei grandi vasi. L’aorta appare come il vaso più vicino alla sonda mentre la vena cava si localizza nel campo distale, la facilità di identificazione dei reperi vascolari senza interposizione di organi favorisce l’ispezione dei linfonodi iliaci ed ipogastrici. Eliminando l’artefatto creato dal riverbero anche l’esame della vescica risulta agevolato.

Utilizzo del Doppler a codice di colore Nel Color Doppler il flusso sanguigno viene rappresentato con la media delle velocità e viene visualizzato come una mappa di colore sovrapposta all’immagine in B-mode. Il colore rosso codifica il flusso diretto verso la sonda, mentre l’azzurro è assegnato a quello che si allontana. Il principale vantaggio di questa modalità di visualizzazione risiede nella sua semplicità ed intuitività di interpretazione. Questa modalità non è in grado di dare informazioni quantitative ma solo qualitative sul flusso: un rosso molto intenso o un blu molto intenso significheranno flussi molto veloci in avvicinamento o in allontanamento e la presenza di un mosaico di colori in un vaso testimoniano un flusso di tipo turbolento. Senza possedere un conoscenza approfondita della metodica Doppler si può effettuare un uso “semplificato” del Doppler colore per stabilire la direzione di un flusso e riconoscerne la natura venosa o arteriosa. Nello studio della normale circolazione portale si rileva un flusso venoso di tipo continuo diretto verso il fegato detto epatopetale, l’uso del Doppler consente di riconoscere con facilità la presenza di un flusso che si allontana dal fegato detto epatofugo, apprezzabile in alcuni pazienti cirrotici o affetti da fistola artero-venosa epatica. Anche nello studio delle comunicazione porto-cavali il colore si rivela utile per identificare le turbolenze generate da queste aberrazioni all’interno del lume della vena cava caudale. Le valutazioni con colore sono di aiuto nel caratterizzare le lesioni trombotiche o neoplastiche che occludono il lume delle strutture vascolari, evidenziando il flusso residuo, le turbolenze create dall’ostruzione e la eventuale presenza di circolo all’interno della lesione invadente.

Ecografia dell’uretra peniena Utilizzando una sonda lineare ad alta frequenza è possibile identificare l’uretra canina in scansione longitudinale come un sottile struttura tubulare. In scansione trasversale appare circolare, priva di lume e contenuta nella forma a “V” dell’osso. Nella parte prossimale del pene se non dilatata è difficile distinguerla dai tessuti molli che la circondano (corpo cavernoso, corpo spongioso e muscoli). Le più comuni affezioni del pene sono l’ostruzione da calcoli uretrali, fratture, neoplasie e stritture. Con l’esame ecografico dell’uretra peniena si identificare la presenza dei calcoli che appaiono come strutture riflettenti a cono d’ombra acustico posteriore. L’instillazione di soluzione salina eseguita sotto visione ecografica consente di identificare tratti stenotici. Anche le manualità di idropulsione degli uroliti ostruenti può avvenire sotto visione ecografica.

Riconoscimento del flusso ureterale in vescica “jet ureterale” Nella regione del trigone vescicale in condizioni fisiologiche gli ureteri non sono visibili fino al loro ingresso nella papilla ureterale. L’emergenza del Jet ureterale nella regione del trigone appare come una nubecola ecogenica, apprezzabile solo se la composizione dell’urina vescicale è differente da quella proveniente dagli ureteri. Quando non si ottiene la visone del Jet con la valutazione in B-mode si può utiliz-

Bibliografia disponibile su richiesta Indirizzo per la corrispondenza: GianMarco Gerboni - Clinica Veterinaria Malpensa Viale Marconi, 27 – 21017 Samarate, Varese, Italy Tel. 0331-228155 (3) – Fax. 0331-220255 E-mail: ecografia@cvmalpensa.it 118


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Eliminazione inappropriata e marcatura urinaria: sintomo di malattia comportamentale Sabrina Giussani Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA)

Isabella Merola Med Vet Comportamentalista, Milano

I comportamenti di eliminazione inappropriata e di marcatura urinaria sono una delle principali cause di richiesta di consulto da parte di un Medico Veterinario Comportamentalista. L’eliminazione inappropriata e la marcatura urinaria, infatti, sono tra i sintomi più manifesti nelle patologie del comportamento del gatto. L’origine di questo comportamento può riconoscere molteplici cause scatenanti: uno studio effettuato tramite un questionario su un campione di 800 gatti di proprietà, ha evidenziato che il 24% di questi soggetti (192) presentava un problema di tipo eliminatorio (P.L. Borchelt, V.L. Voith 1986). Per eliminazione inappropriata si intende l’emissione di urine in luogo inappropriato e, quindi, al di fuori della cassetta igienica. Il normale comportamento di minzione del gatto prevede una sequenza comportamentale particolare che consiste nello scavare una piccola depressione con le zampe anteriori, urinarvi assumendo postura accucciata (analoga sia nel maschio che nella femmina), girare su se stesso ed annusare ed infine coprire le deiezioni con terra o un substrato adeguato utilizzando nuovamente gli arti anteriori. Il comportamento di eliminazione inappropriata comporta l’emissione di una grande quantità di urina su un substrato orizzontale, preferibilmente assorbente, ma al di fuori della cassetta igienica e con una sequenza che può essere quella prima descritta oppure essere alterata. Per marcatura urinaria si definisce invece l’eliminazione di urina, al fine di lasciare un messaggio di tipo olfattivo e visivo, rivolto ai cospecifici (comunicazione) o a soggetti appartenenti ad altre specie (indizio), non correlata allo svuotamento fisiologico della vescia. Il comportamento di marcatura urinaria è un comportamento normale nella comunicazione del gatto: è solitamente più frequente nei maschi, ma può essere messo in atto anche dalle femmine. Durante una marcatura urinaria il soggetto rilascia un segnale di comunicazione visiva, ma soprattutto di tipo olfattivo e feromonale. Le marcature urinarie sono effettuate emettendo uno spot di urina del diametro di 10-20 centimetri (che costituisce quindi un segnale visivo) ad un’altezza di circa 3050 centimetri su di un supporto verticale. Sono caratterizzate da una specifica sequenza comportamentale che le differenzia dagli altri tipi di minzione: il gatto ricerca olfatti-

vamente il luogo in cui effettuerà lo spot, rimane in stazione quadrupedale (non si accuccia), muove alternativamente i piedi (“petrissage”) e, mentre la coda tenuta in posizione verticale vibra, effettua la marcatura urinaria. In seguito esplora olfattivamente i feromoni emessi grazie al comportamento di Flehmen. Il comportamento di eliminazione inappropriata e quello di marcatura urinaria possono essere messi in atto sia per cause organiche, che per cause comportamentali. Spesso le cause organiche rivelano un’insorgenza improvvisa in soggetti che non avevano mai messo in atto questo comportamento in passato. Le patologie del comportamento, invece, riferiscono storie anamnestiche relative a questo comportamento: il sintomo era presente sporadicamente in varie fasi di vita del soggetto o successivo a modificazioni ambientali o a modificazioni del gruppo familiare con cui il soggetto vive. Le patologie del comportamento sono dei veri e propri quadri clinici corredati da un insieme di sintomi ben identificabili, che si manifestano in un individuo riferendosi ad una difficoltà psichica del soggetto. Tutte le patologie del comportamento se caratterizzate da uno stato patologico di tipo fobico, ansioso, depressivo, ecc. possono presentare i sintomi di eliminazione inappropriata e/o di marcatura urinaria. Le cause di queste patologie possono ritrovarsi in un’alterazione dell’omeostasi sensoriale nei primi mesi di vita del gattino, oppure in cambiamenti ambientali e/o limitazioni dello spazio nei, o molto frequentemente in situazioni di convivenza tra gatti senza il rispetto delle esigenze etologiche di questa specie. Anche nelle patologie legate all’invecchiamento è possibile riscontrare questi tipi di comportamenti tra i vari sintomi presentati dal soggetto. I maschi e le femmine sono ugualmente rappresentati nelle popolazioni che presentano i sintomi in oggetto. Non è descritta alcuna predisposizione di sesso per quanto riguarda i disturbi eliminatori nel gatto. È importante sottolineare che anche in medicina comportamentale da un solo sintomo non è possibile emettere una diagnosi: è necessario realizzare una visita clinica e comportamentale in cui i differenti sintomi potranno essere ricollegati in un quadro patologico. 119


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Le entità nosografiche maggiormente rappresentate come causa di eliminazione inappropriata sono la Sindrome da Privazione e l’Ansia da Coabitazione, mentre per le marcature urinarie le cause più frequenti sono da ricondurre ad Ansia da Coabitazione e stati ansiosi legati alla modificazione del territorio o da Ansia da luogo chiuso. La Sindrome da Privazione Sensoriale è un’alterazione dell’omeostasi di un individuo che è cresciuto durante i primi tre mesi di vita in un ambiente ipostimolante rispetto al luogo in cui vivrà, creando un soggetto che farà fatica a sviluppare strategie adattative in questo nuovo contesto. L’Ansia da coabitazione è uno stato ansioso che si sviluppa in un soggetto o in più soggetti appartenenti ad un gruppo di gatti che non hanno una relazione tra loro, ma che condividono uno stesso ambiente. Spesso l’introduzione di un nuovo gatto, il raggiungimento della maturità sessuale di uno o più soggetti, o il ricovero e la reintroduzione di un individuo possono essere le cause scatenanti di questo stato ansioso. L’Ansia da modificazione del territorio è uno stato ansioso di un individuo causato da modificazioni ambientali come il cambio di casa, o lavori all’interno di un appartamento, la chiusura di alcune stanze dell’appartamento o l’introduzione di nuovi componenti nel gruppo familiare. L’Ansia da luogo chiuso è invece uno stato ansioso che si presenta quando un gattino che viveva in ambiente e sterno o che aveva accesso ad un ambiente esterno viene a vivere in un appartamento con spazi ridotti, oppure in soggetti che risiedono in appartamento in assenza del soddisfacimento delle esigenze etologiche e comportamentali. Tra le cause comportamentali dell’eliminazione inappropriata fanno eccezione, rispetto alle patologie del comportamento, i possibili errori gestionali da parte del proprietario sull’utilizzo della cassetta igienica: sulla scelta del tipo di lettiera, del tipo di sabbia, del numero di cassette rispetto al numero dei gatti e/o alla non corretta pulizia delle stesse, o alla loro posizione all’interno dell’appartamento. In queste situazioni il gatto emette un comportamento di eliminazione inappropriata causata da questo “errore gestionale”, ma che può con il passare del tempo mettere in seria difficoltà il gatto creando uno stato ansioso ed il conseguente quadro di una vera e propria patologia del comportamento. Solitamente in queste situazioni la sequenza com-

portamentale della minzione è emessa in modo corretto, ma su superfici diverse dalla lettiera. Un’altra causa di eliminazione inappropriata che si riscontra di frequente nei gattini orfani è il non corretto apprendimento alla sequenza di eliminazione e/o alla mancanza di apprendimento del corretto substrato di eliminazione. Questo tipo di comportamento può essere riscontrato anche in gatti di alcune razze allevati su superfici non idonee e in assenza di una lettiera (pratica che spesso avviene in gatti a pelo lungo) in cui la madre non può mostrare ai piccoli le correte sequenze di eliminazione. In questi soggetti solitamente il sintomo si presenta molto precocemente e la sequenza comportamentale di minzione può essere alterata: alcuni soggetti,ad esempio, non coprono le minzioni e/o non scavano prima di emetterle. In questa particolare situazione è importante accompagnare il gattino sulla lettiera fin da quando è molto piccolo e mostrare la corretta sequenza ed il corretto luogo di eliminazione. La presenza di altri gatti adulti può facilitare l’apprendimento del comportamento per imitazione.

Bibliografia P.L. Borchelt, V.L. Voith, Elimination behavior problems in cats, The Compendium on Continuing Education, 1986, 8: 197-205. R. Colangeli, S. Giussani, Patologie del comportamento legate alla modificazione del territorio. In R. Colangeli, S. Giussani, Medicina comportamentale del cane e del gatto, 2004, Poletto editore, Milano, 311-34. K.L. Overall, Disturbi eliminatori del gatto, In K.L. Overall, La clinica comportamentale del cane e del gatto, 2001, C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 235-279.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani Tel. 3331861226 E-mail: sabrinagiussani@yahoo.it www.veterinariocomportamentalista.it Isabella Merola Tel. 3343597003 E-mail: isabellamerola@fastwebnet.it www.veterinariocomportamentalista.it

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Terapia farmacologica e feromonale dell’eliminazione inappropriata e della marcatura urinaria Sabrina Giussani Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA)

Isabella Merola, Med Vet Comportamentalista, Milano

Le patologie del comportamento sono caratterizzate da veri e propri quadri clinici corredati da un insieme di sintomi ben identificabili che si manifestano in un individuo e si riferiscono ad una difficoltà psichica del soggetto: l’individuo inizia a mettere in atto comportamenti che non più adattativi rispetto alle variazioni dell’ambiente che lo circonda. Queste patologie riconoscono differenti diagnosi nosografiche e prevedono trattamenti terapeutici molto diversi tra loro. In particolare, una volta diagnosticate, queste patologie possono prevedere per il loro trattamento una terapia di tipo feromonale, e/o una terapia farmacologica, entrambe sempre supportate da una terapia di tipo comportamentale. I feromoni (dal greco “portare” e “stimolare”) sono sostanze in grado di provocare modificazioni emozionali che possono essere condivise tra più individui appartenenti alla stessa specie o a specie diverse. I feromoni sono prodotti da strutture ghiandolari diffuse su tutto il corpo (soprattutto su guance, dorso, cuscinetti plantari e zona anale). Alcuni feromoni sono percepibili a breve distanza, altri a grande distanza a seconda del tipo di composizione chimica. La comunicazione del gatto utilizza i feromoni attraverso le marcature facciali, graffiature e marcature urinarie. Il gatto percepisce i feromoni grazie al comportamento del Flehmen o Lip-curl che consiste nel sollevamento del labbro superiore con la bocca semiaperta in fase inspiratoria completato da movimenti della lingua. Questo comportamento provoca una trazione verso l’alto del labbro superiore cui fa seguito l’apertura di un opercolo cartilagineo che copre parzialmente il meato incisivo. Di conseguenza il lume di questo ultimo si dilata e nello stesso tempo si assiste ad un collasso del corpo vascolare erettile dell’Organo Vomeronasale che permette l’accesso delle molecole alla mucosa olfattiva che tappezza le pareti dell’OVN stesso. Grazie ad un legame con le proteine, le molecole feromonali possono raggiungere i recettori olfattivi. Gli impulsi elettrici generati dai recettori seguono il nervo vomeronasale, giungono al bulbo olfattivo accessorio e da qui al sistema limbico. Alcuni feromoni, invece, non scatenano il Flehmen, mentre altri sono percepiti contemporaneamente sia grazie al Flehmen sia attraverso la via nasale. In commercio esistono feromoni di sintesi (© Feliway) sia in forma spray che in forma di diffusore per l’ambiente,

estremamente utili per la terapia e la riduzione della sintomatologia legata ad un disturbo dell’eliminazione. Questi feromoni possono avere un ruolo nell’incoraggiare la marcatura facciale del gatto in modo che questi riconosca sempre meglio il territorio in cui vive in modo da ridurre il sintomo della non corretta minzione. È stato, infatti, osservato che il gatto evita di marcare con urina le aree dove ha precedentemente effettuato una marcatura facciale. Inoltre, i feromoni possono determinare una stabilizzazione emozionale e di conseguenza ridurre la marcatura urinaria e le eliminazioni inappropriate. Sono stati effettuati diversi studi sull’efficacia del trattamento con feromoni in corso di eliminazione inappropriata e/o di marcatura urinaria ed i risultati suggeriscono un miglioramento nell’60-90% dei soggetti, ed una completa risoluzione nel 15-30% degli animali. L’utilizzo dei feromoni non sembra inoltre aver avuto effetti collaterali o complicazioni. In presenza o in assenza di una terapia di tipo feromonale, talvolta può essere necessaria una terapia di tipo farmacologico. I farmaci maggiormente utilizzati in terapia comportamentale sono gli antidepressivi appartenenti al gruppo dei triciclici, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina SSRI ed i timoregolatori. Tra i primi di particolare rilievo è la Clomipramina un farmaco utilizzato come ansiolitico ed in presenza di fobie. Questa molecola agisce principalmente come inibitore della ricaptazione della serotonina ed in seconda istanza bloccando gli autorecettori presinaptici della noradrenalina. Secondo uno studio realizzato da Dehasse (1997) la somministrazione di Clomipramina per una sola settimana ha portato nel 35% dei casi ad una totale scomparsa del comportamento di marcatura ed ad una riduzione significativa (superiore al 75%) nell’80% dei gatti studiati. Effetti collaterali di questo farmaco sono a carico del sistema cardiovascolare, del sistema nervoso, sulla sfera sessuale ed alcuni effetti anticolinergici legati, appunto, alle sue attività anticolinergiche. Nel gatto la dose complessiva è di 0,2 – 0,8 mg/kg, suddivisa in una o due somministrazioni al giorno. La fluoxetina è il farmaco maggiormente utilizzato tra gli inibitori selettivi della serotonina, in presenza di sintomi come la minzione inappropriata e le marcature urinarie. 121


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Nello studio condotto da Pryor et Hart (2001) è stata valutata l’efficacia della fluoxetina nella riduzione della marcatura urinaria. Questa molecola appartiene alla famiglia dei farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e permette di aumentare la concentrazione del neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. In tale studio i gatti trattati con fluoxetina hanno mostrato una riduzione significativa del numero di marcature se confrontati con un gruppo di controllo che ha ricevuto un placebo: tutti i gatti trattati hanno, infatti, avuto una riduzione maggiore o uguale al 90% del numero di eliminazioni. Gli effetti secondari della somministrazione della fluoxetina possono essere: sedazione, tendenza all’anoressia, iporessia, sedazione, instabilità emotiva ed impulsività. Dosaggi eccessivi di farmaco possono portare tremori della testa e sonnolenza marcata. Nel gatto la dose complessiva è 0,5 – 1 mg/kg al mattino. La Selegilina è un farmaco appartenente alla classe dei timoregolatori ed è un inibitore delle monoaminoossidasi B (IMAO) enzimi responsabili della metabolizzazione delle catecolamine, che blocca in modo irreversibile e specifico. La Selegilina ha effetti collaterali se associata ad altri farmaci. In particolare è sconsigliata l’associazione ad altri antidepressivi, a cortisonici ed antibiotici (cefalosporine e aminoglicosidi). Nel gatto la dose complessiva è 1 mg/kg, al mattino. È importante ricordare che la somministrazione per via orale di farmaci può essere un evento particolarmente stressante per molti gatti e per i rispettivi proprietari. Per questo è opportuno mostrare la corretta procedura di assunzione della molecola in modo da evitare che il gatto metta in atto un comportamento di evitamento, di aggressione o rifiuti di assumere l’alimento (poiché mescolato al farmaco). È importante sottolineare che la terapia farmacologia funge da ponte tra le difficoltà del soggetto ed il nuovo equilibrio che questi dovrà raggiungere: è necessario associare una terapia di tipo comportamentale in modo da ridurre i fattori stressogeni per il soggetto, e da accrescere le capacità di

risposta agli stessi in modo che il trattamento risulti efficace anche una volta sospesa la terapia farmacologica. La terapia comportamentale può dividersi in modificazioni effettuate sull’ambiente in cui il soggetto vive, conosciute con il nome di arricchimento ambientale (volte a rispettare le esigenze etologiche del soggetto) e modificazioni di tipo relazionale che mirano a creare una relazione stabile tra il paziente ed i componenti della famiglia in cui questo vive andando a soddisfare le esigenze relazionali e sociali di questa specie. Un soggetto in cui è presente una difficoltà emotiva e psichica, la costruzione di una relazione corretta e stabile porterà a ridurre il disagio ed aiuterà il paziente a costruire una “sicurezza” emotiva e ad accrescere le abilità cognitive. Non è possibile quindi scindere i tipi di terapia, ma è necessario valutare l’intero complesso (animale persona ed ambiente) in modo da poter scegliere la terapia più efficace e soddisfacente per quel sistema.

Bibliografia J. Dehasse, Feline urine spraying, Journal of Feline Medicine and Surgery, 1997, 52: 365-371. R. Colangeli, S. Giussani, Patologie del comportamento legate alla modificazione del territorio. In R. Colangeli, S. Giussani, Medicina comportamentale del cane e del gatto, 2004, Poletto editore, Milano, 311-34. P.A. Pryor, B.L. Hart, Effects of a selective serotonin reuptake inhibitor on urine spraying behavior in cats, Journal of the American Veterinary Medical Association, 2001, 219: 1557-1561.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani Tel. 3331861226 E-mail: sabrinagiussani@yahoo.it www.veterinariocomportamentalista.it Isabella Merola Tel. 3343597003 E-mail: isabellamerola@fastwebnet.it www.veterinariocomportamentalista.it

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Feline calcium disorders Thomas K. Graves DVM, MS, PhD, Dipl ACVIM, Illinois, USA

HYPERCALCEMIA

In hypercalcemia of any cause, treatment of hypercalcemia is needed if the product of calcium x phosphorus exceeds 75. Fluid therapy is used to cause calciuresis and to increase glomerular filtration rate. Furosemide can also be used to promote urinary calcium loss. Glucocorticoids can be useful to promote urinary calcium excretion and to inhibit absorption of calcium from the gut, but extreme care must be taken to ensure that a diagnosis of lymphoma has been excluded. The phosphonate drug pamidronate can also be used to decrease bone resorption, so it is a logical choice in the treatment of hypercalcemia of malignancy. To treat the primary condition, surgical parathyroidectomy is indicated. At the time of surgery, all four parathyroid glands must be inspected, although solitary gland involvement is by far the most common finding. Recurrence of hyperparathyroidism is extremely uncommon following surgery, and surgery is, therefore, almost always curative. Post-operative care following a parathyroidectomy is critical because of the very high likelihood of post-operative hypocalcemia (iatrogenic hypoparathyroidism) even when normal parathyroid glands are left in place during surgery. In anticipation of this problem, vitamin D should be administered beginning two days prior to surgery and for a variable period afterwards. Vitamin D is commonly available in two forms (dihydrotachysterol (DHT) and calcitriol). DHT is the precursor to active vitamin D (1, 25-dihydroxycholecalciferol, or aka vitamin D3), and must be hydroxylated in the kidney to become active. The dose is 0.02 to 0.03 mg/kg/day divided BID, and it can take a week to become effective. Furthermore, it has a long half-life, so should vitamin D toxicity occur, it takes longer to subside. My preference is to use calcitriol (tradename is Rocaltrol), which is active vitamin D3. It does not require renal activation, has a quicker onset of activity, and the short half-life makes it much easier to manage iatrogenic vitamin D toxicity. The dose is 0.03 to 0.06 Âľg/kg/day divided BID. Along with vitamin D, calcium supplementation must be given. In an acute hypocalcemic crisis following treatment of hyperparathyroidism, IV calcium gluconate is given at a dose of 1 ml/kg of 10% solution slowly IV. This calcium preparation must be given slowly and the veterinarian should monitor for cardiac arrhythmia. Oral calcium supplementation is easier. Several calcium salts are available for oral administration, but the one with the most elemental calcium, and the one that is least expensive and most readily available is calcium carbonate. Cats are given 1 gm of calcium day. Because calcium carbonate contains 40% elemental calcium, one 750 tablet con-

Clinical signs of hypercalcemia can be difficult to detect. Usually, hypercalcemic animals have no clinical signs other than those referable to the underlying disease causing the calcium derangement. There are usually no signs due to hypercalcemia itself. In some cases, however, signs of hypercalcemia are present, and include polyuria/polydipsia (this is the most common sign), constipation, vomiting, anorexia, neurological signs, muscle wasting, fatigue, and, if calcium containing uroliths are present due to longstanding hypercalciuria, lower urinary tract signs can be present.

Hypercalcemia of Malignancy Parathyroid hormone-related peptide (PTHrp) is secreted by a wide variety of neoplastic cells and has similar actions to those of PTH on bone but not on the kidney. Hypercalcemia is much less common in feline lymphoma than in its canine counterpart. Other causes of hypercalcemia of malignancy include any tumor that has osteolytic activity. Such tumors include multiple myeloma and osteosarcoma. These tumors are thought to secrete cytokines that activate osteoclasts, thereby resorbing bone and elevating serum calcium concentrations.

Primary Hyperparathyroidism Primary hyperparathyroidism is caused by an autonomously hyperfunctioning adenoma of the chief cells of the parathyroid gland. Carcinoma of the parathyroid gland is also possible, but it is uncommon and is usually not invasive. While it does occur, primary hyperparathyroidism is uncommon in cats. The physical examination findings in animals with primary hyperparathyroidism are usually normal. An enlarged parathyroid gland can be palpated about half of the time in cats with the disease. The problem with cervical palpation in cats is the difficulty in distinguishing a parathyroid adenoma from a thyroid nodule. Clinical signs of primary hyperparathyroidism are usually related to the effects of prolonged hypercalcemia rather than to the PTH-secreting mass itself. Urinalysis is critical to the work-up of the disease. Calcium-containing crystals, isosthenuria, hematuria, and/or pyuria can be present. CBC is usually normal, but is necessary to rule out other causes of hypercalcemia. The serum chemistry profile, besides hypercalcemia, shows a normal or low serum phosphorus concentration. Azotemia can be present because of the deleterious effects of hypercalcemia on the kidney (renal mineralization). 123


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tains 300 mg of calcium, so a cat would need approximately 3 tablets daily for calcium supplementation. The duration of treatment for iatrogenic hypocalcemia is variable. Treatment should be withdrawn slowly and ionized calcium measurements should be monitored periodically. I prefer to withdraw treatment gradually at 2-week intervals beginning with the vitamin D therapy. BID calcitriol is reduced to once a day treatment, then to every other day treatment, then to every 4 day treatment. When the vitamin D therapy is at the every-fourth-day schedule, calcium supplementation is slowly withdrawn over several weeks. It must be noted that every animal is different, and the return of normal parathyroid gland function is impossible to predict. For this reason, calcium must be monitored frequently, and owners should be made aware of the clinical signs of hypocalcemia.

hypoalbuminemia. In these cases, ionized calcium concentrations are normal. Clinical signs of hypocalcemia include tetany, ataxia, facial twitches, seizures, arrhythmia, facial pruritis, PU/PD, anorexia, vomiting, diarrhea, and posterior lenticular cataracts. There are several causes of hypocalcemia worth noting:

Primary Hypoparathyroidism Normally, the parathyroid gland responds rapidly to hypocalcemia by secreting PTH. This results in activation of vitamin D, increased renal resorption of calcium, and mobilization of calcium from bone, thereby normalizing ionized calcium in the extracellular fluid. In primary hypoparathyroidism, the parathyroid glands are destroyed by immunemediated mechanisms, rendering the response to hypocalcemia impossible. Physical examination findings in cats with primary hypoparathyroidism are usually normal. Historically, seizures occur in about 50% of cases. CBC and urinalysis findings are usually normal. Electrocardiography can show wide T waves, as well as prolongation of ST and QT intervals. The disorder is diagnosed by finding of low concentrations of PTH in the serum, and is treated as is iatrogenic hypoparathyroidism (see above).

Renal Failure The first elelctrolyte abnormality in renal failure is usually hyperphosphatemia due to decreased renal blood flow, and calcium concentrations can drop by mass action. Hyperphosphatemia also stimulates PTH secretion from the parathyroid glands which can increase serum calcium concentrations. PTH also activates vitamine D and can cause bone resorption and increased calcium. Renal hydroxylation of vitamin D, however, is often impaired in renal disease, leading to relative vitamin D deficiency. Vitamin D deficiency leads to poor intestinal calcium absorption and further lack of PTH inhibition, helping to add to the syndrome of renal secondary hyperparathyroidism. This is a complicated system, and the pathogenesis of renal secondary hyperparathyroidism is incompletely understood. The end result, however, is that calcium is usually normal in dogs and cats with renal failure, and it does not require treatment.

Post-thyroidectomy Hypoparathyroidism As discussed above, hypocalcemia is common following surgical therapy for parathyroid gland adenoma or carcinoma. The most common type of iatrogenic hypoparathyroidism, however, is associated with thyroidectomy for treatment of feline hyperthyroidism. This occurs in roughly 10 percent of cats undergoing thyroidectomy, but it is largely dependent upon the skill of the surgeon performing the procedure. In my experience, the first clinical sign of post-thyroidectomy hypocalcemia is anorexia. Calcium should be monitored closely following any thyroidectomy, and treatment of hypocalcemia is the same as for post-parathyroidectomy hypocalcemia. The duration of calcium and vitamin D supplementation is difficult to predict. Some cats require post-operative supplementation for up to 6 months, but eventually normal parathyroid gland function returns.

Vitamin D Toxicity Most cases of vitamin D toxicity are iatrogenic, and occur following parathyroidectomy. In the past, vitamin D-containing rodenticides were used and were a more common cause of hypervitaminosis D, but those products are no longer marketed. Some pet owners can over-supplement their pets with vitamin D preparations intended as dietary supplements, and there are plants, notably the day blooming Jessamine (Cestrum diurnum) that contain vitamin D and can be associated with toxicity when ingested. Still, hypervitaminosis D is a rare cause of hypercalcemia.

Suggested Reading Savary, K.C., Price, G.S., Vaden, S.L. Hypercalcemia in cats: a retrospective study of 71 cases (1991–1997). J Vet Intern Med 2000;14(2):184-189. Midkiff, A.M., Chew, D.J., Randolph, J.F., Center, S.A., DiBartola, S.P. Idiopathic hypercalcemia in cats. J Vet Intern Med 2000;14(6):619-626. Schenck PA, Chew DJ. Hypercalcemia: a quick reference. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008;38:449-453. Schenck PA, Chew DJ.Hypocalcemia: a quick reference. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2008;38:455-458.

Idiopathic Hypercalcemia Idiopathic hypercalcemia has been described in cats, with Persians being over-represented. Similar syndromes occur in people, and advances in molecular medicine have removed the “idiopathic” label in many cases. Efforts are ongoing to define the molecular biology of idiopathic hypercalcemia in cats.

Address for correspondence: Department of Veterinary Clinical Medicine College of Veterinary Medicine University of Illinois at Urbana-Champaign Urbana, IL 61802

HYPOCALCEMIA Hypocalcemia is less common than hypercalcemia, and is often actually pseudohypocalcemia associated with

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Diagnostic investigation of cats with hypertension Thomas K. Graves DVM, MS, PhD, Dipl ACVIM, Illinois, USA

Once considered an insignificant clinical problem, systemic hypertension has emerged as a common finding, especially in geriatric cats. Although many veterinary practitioners have yet to adopt the practice of routinely measuring blood pressure in cats, blood pressure measurement is becoming more and more commonplace. As a result our knowledge of hypertension is expanding, and questions about diagnosis and management of hypertension continually arise.

is important to look for other physical exam findings that are consistent with true hypertension. Chronically hypertensive cats often have heart murmurs (due to the hypertrophic effects of hypertension on the heart). Palpably abnormal kidneys could be found in a cat with hypertension due to renal disease. Fundic examination is one of the most helpful tests. Chronically hypertensive cats can have areas of retinal hemorrhage and detachment.

DIAGNOSIS OF HYPERTENSION IN CATS

CAUSES OF HYPERTENSION Renal disease

The diagnosis of hypertension in cats with hyperthyroidism is not always straight-forward. In normal cats, measurement of blood pressure is fairly reliable, whether using oscillometry or Doppler ultrasonography (Jepson et al. 2005). Both correlate well with intra-arterial measurements (Brown et al, 2007). Measurement of blood pressure requires experience, skill, and patience, and when blood pressure is measured in a relatively calm environment, and by a skilled operator, 150 mmHg is generally used as a cutoff for normal systolic pressure, and 95 mmHg is considered the upper limit of normal for diastolic pressure. Blood pressure classifications have been proposed in an American College of Veterinary Internal Medicine consensus statement (Brown et al. 2007), and are presented in Table 1. False-positive blood pressure measurements are common in cats. When a high blood pressure reading is encountered, there are several strategies to determine if the finding is due to a stress-induced temporary rise in blood pressure, or if it is real. Some practitioners simply have the cat returned to the clinic on another day to re-test. Putting the cat in a quiet area of the hospital for several hours and measuring the blood pressure again is sometimes helpful. When in doubt, it

Chronic renal disease is probably the most common cause of hypertension in cats, and renal disease can cause hypertension prior to the development of overt azotemia. For that reason, and because chronic hypertension can have deleterious effects on the kidneys, thorough investigation of the kidneys is necessary in hypertensive cats. Control of blood pressure and control of proteinuria is key to the management of chronic renal insufficiency in cats. (Brown et al. 2007)

Primary Hyperaldosteronism Primary hyperaldosteronism is probably an underdiagnosed disease in cats (Schulman 2010). The disease is usually caused by an aldosterone-secreting adenoma of the adrenal gland, but can sometimes be associated with bilateral adrenal hyperplasia. The disease typically is associated with hypokalemia, and cats with the disease can become profoundly weak as a result of hypokalemic myopathy. Diagnostic work-up of a cat with suspected hypoaldosteronism includes measurement of serum electrolytes, ultrasonography of the adrenal glands, and measurement of serum aldosterone concentrations or urinary aldosteron:creatinine ratio. Cats with primary hyperaldostero-

TABLE 1 - Classification of Blood Pressure based on risk of target-organ damage (TOD), from Brown et al. 2007 SYSTOLIC

DIASTOLIC

Category I: Minimal risk of TOD

< 150 mmHg

< 95 mm Hg

Category II: Mild risk of TOD

150-159 mmHg

95-99 mm Hg

Category III: Moderate risk of TOD

160-179 mmHg

100-119 mm Hg

Category IV: Severe risk of TOD

> 180 mmHg

>120 mm Hg

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Other Disorders

nism are treated by surgical adrenalectomy, or by medical management with spironolactone, amlodipine, and potassium gluconate supplementation.

Less common causes of hypertension in cats include pheochromocytoma and hypercortisolism. While hypertension is common in people and in dogs with diabetes mellitus, it is not a prominent clinical feature of diabetic cats (Sennello et al. 2003).

Hyperthyroidism The “white coat effect” is difficult to recognize in veterinary medicine, but it may be even more important in cats with hyperthyroidism. The earliest study on hypertension in cats with hyperthyroidism showed the prevalence of hypertension to be as high as 87% (Kobayashi et al. 1990). In that study, 34 of 39 cats with hyperthyroidism were hypertensive, but the cutoff values for definition of hypertension may have been unrealistically low. It should be noted, however, that the study was well-controlled, with hyperthyroid cats being compared to groups of both normal cats and cats with chronic renal failure, so the finding that cats with hyperthyroidism have significant elevations in blood pressure is difficult to dispute. While a decline in both systolic and diastolic pressure was documented in cats after treatment of hyperthyroidism, not all cats were reevaluated, so strong conclusions could not be made. Subsequent studies have shown much lower prevalence rates of hypertension in cats with hyperthyroidism (Stepien et al. 2003, Syme and Elliott 2003). Prevalence of hypertension was between 5% and 20%. Stepien et al. showed that the “white coat effect” is pronounced in cats with hyperthyroidism and no decrease in blood pressure was seen after treatment of hyperthyroidism. Syme and Elliot, however, showed a marked increase in the prevalence of hypertension after treatment of hyperthyroidism. For that reason, it is important that blood pressure be monitored carefully for the development of post-treatment hypertension. In people with hyperthyroidism, hypertension is rarely a problem. When it occurs, the hypertension is usually systolic only. Thyroid hormone causes a pronounced decrease in peripheral vascular resistance. Hemodynamic effects of thyrotoxicosis include increased heart rate and increased stroke volume. It has been proposed that increased heart rate causes a summation of pressure in peripheral arteries with the pressure from systole, resulting in overall systolic hypertension (Biondi et al. 2002). This phenomenon may exist also in cats with hyperthyroidism, but the reason for the increase in diastolic pressure in some hyperthyroid cats is unclear. The answer might be found in the kidney. Chronic renal insufficiency is common in cats with hyperthyroidism (Graves 1997), and hypertension is common in cats with renal insufficiency, evidence of which can be masked by hyperthyroidism. It is difficult to tell if hyperthyroidism really does cause hypertension in cats. There is an association between the two, but a cause and effect has not been established. If hyperthyroidism is a significant cause of hypertension, it may not be as common a cause as some clinicians might believe. In one study, only 5 of 30 cats with hypertension were diagnosed with hyperthyroidism (Elliott et al 2001). In a study of cats with hypertensive retinopathy, only 5 of 69 cats were hyperthyroid (Maggio et al. 2000). Conversely, another study found no evidence of ocular changes consistent with hypertensive damage in cats with hyperthyroidism (van der Woerdt and Peterson 2000).

TREATING HYPERTENSION IN CATS While the diagnosis of hypertension in cats with hyperthyroidism may sometimes be difficult, once the diagnosis is established, the need for treatment is clear. Persistent hypertension damages the kidneys (Brown et al. 2007), and the comorbid condition of hyperthyroidism and renal failure is well-documented in cats. Drugs used to treat hypertension in cats are presented in Table 2. Drugs used to treat hypertension in cats fall into 3 categories: angiotensin-converting enzyme (ACE) inhibitors, calcium-channel antagonists, and beta adrenergic antagonists.

Amlodipine Amlodipine is a calcium channel antagonist, and it probably the most frequently used anti-hypertensive drug in cats. It is considered the drug-of-choice for treatment of severe hypertension. The drug acts by inhibiting calcium entry into smooth muscle cells, resulting in arterial muscle relaxation. As evidence of the importance of hypertension in the progression of renal disease in cats, a large study of 141 cats with systolic hypertension showed that treatment with amlodipine causes a significant reduction in pathologic proteinuria (Jepson et al. 2007). It is interesting to note that proteinuria is associated with decreased survival times in hypertensive cats, but a concurrent diagnosis of hyperthyroidism is not.

ACE Inhibitors The use of ACE inhibitors in treating hypertension in cats with hyperthyroidism seems compelling. There is mounting evidence that benazapril has highly beneficial effects on the kidneys (Lefebvre et al. 2007, Mizutani et al. 2006, Watanabe et al. 2007). Like amlodipine, it is associated with decreased proteinuria, and it has been shown to slow the progression of glomerulosclerosis in cats with chronic renal disease. Because hyperthyroidism and renal disease occur together, benazapril would seem a wise choice for treatment of hypertension in a cat with hyperthyroidism. In general, enalapril and benazapril are less effective anti-hypertensive agents that amlodipine. Because hypertension in cats with hyperthyroidism might not be persistent and severe, ACE inhibitors may well afford an adequate anti-hypertensive effect in these cats. Ramipril is not widely used by veterinarians in the United States but has been evaluated for use in hypertensive cats. (Coulet et al. 2003, Graff and Herve 2003). This drug is more potent than other ACE inhibitors, requiring smaller doses of the drug to achieve an effect. Pharmacokinetic studies show that it can be given once daily. The drug is well-tolerated. One study of 12 hypertensive cats showed effective control of blood pressure with ramipril in all cases (Graff and Herve 2003). Another study of 54 cats with cardiomy126


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TABLE 2 - Drugs used to treat hypertension in cats DRUG

DOSAGE

NOTES

Amlodipine

0.625 mg/cat Every 24 hours

Calcium channel antagonist. Useful for severe hypertension. Decreases proteinuria. Well-tolerated

Benazapril

0.5 mg/kg Every 12-24 hours

ACE Inhibitor Not as effective as amlodipine Decreases proteinuria Delays progression of renal disease Well-tolerated

Enalapril

0.5 mg/kg Every 12-24 hours

ACE Inhibitor Not as effective as amlodipine No negative effects on kidneys Well-tolerated

Ramipril

0.125 mg/kg Every 24 hours

ACE Inhibitor Effective in controlling hypertension Hepatic metabolism Renal effects unknown Well-tolerated

Atenolol

3.125-6.25 mg/cat Every 12 hours

Selective Beta-1 antagonist Controls tachycardia Useful in hyperthyroidism Limited use for hypertension

References

opathy showed good control of hypertension when present (Schille and Skrodzki 2002). No adverse side effects were noted in either normotensive or hypertensive cats with cardiomyopathy in that study, and it is interesting to note that hypertension was effectively controlled in 4 cats of that study that were also diagnosed with hyperthyroidism and treated with carbimazole

Biondi B, Palmieri EA, Lombardi G, Fazio S. Effects of thyroid hormone on cardiac function: the relative importance of heart rate, loading conditions, and myocardial contractility in the regulation of cardiac performance in human hyperthyroidism. J Clin Endocrinol Metab. 2002;87:968-74. Brown S, Atkins C, Bagley R, Carr A, Cowgill L, Davidson M, Egner B, Elliott J, Henik R, Labato M, Littman M, Polzin D, Ross L, Snyder P, Stepien R; American College of Veterinary Internal Medicine.Guidelines for the identification, evaluation, and management of systemic hypertension in dogs and cats. J Vet Intern Med. 2007;21:542-58. Coulet MNG, Sionneau MB, Harnois G, Burgaud S. Effect of feeding on the pharmacokinetics of ramipril and ramiprilat following a single oral administration to healthy cats. J Vet Pharmacol Therap 2003;26 (suppl1):118-119 (Abstract 49). Elliott J, Barber PJ, Syme HM, Rawlings JM, Markwell PJ. Feline hypertension: clinical findings and response to antihypertensive treatment in 30 cases. J Small Anim Pract. 2001;42:122-9. Graff JF, Herve C. Efficacy of ramipril in the treatment of arterial hypertension in cats. Proceedings of the 13th ECVIM-CA Congress, 4-6 September 2003, Uppsala, Sweden: 165. Graves TK. Hyperthyroidism and the Feline Kidney. In August JR (ed). Consultations in Feline Internal Medicine 3. W.B. Saunders Co., Philadelphia 1997, pp.345-348. Himmelmann A, Hansson L, Hansson BG, Hedstrand H, Skogström K, Ohrvik J, Furängen A.Long-term renal preservation in essential hypertension. Angiotensin converting enzyme inhibition is superior to beta-blockade.Am J Hypertens. 1996;9:850-3. Jensen J, Henik RA, Brownfield M, Armstrong J. Plasma renin activity and angiotensin I and aldosterone concentrations in cats with hypertension associated with chronic renal disease. Am J Vet Res. 1997; 58:535-40.

Beta Adrenergic Antagonists Beta blockers have long been used in cats with hyperthyroidism. Propanolol has not been shown to be effective in the control of hypertension in cats (Jensen et al. 1997). Atenolol, is a beta-1 selective adrenergic antagonist recommended for treatment of tachycardia in cats with hyperthyroidism (Trepanier 2007). If, as in some human patients, cats with hyperthyroidism have systolic hypertension due to tachycardia, the use of atenolol would be ideal. A question arises in the use of atenolol in a hypertensive hyperthyroid cat with underlying renal disease. ACE inhibitors and beta blockers have been compared in human patients with non-diabetic nephropathies. Some studies have shown ACE inhibitors to be superior for use in patients with renal failure (Himmllmann et al. 1996), whereas other studies have shown no difference (van Essen et al. 1997). Because the effects of beta blockers on renal function in cats, and especially those with hyperthyroidism and renal disease, have not been reported, atenolol should probably be used with caution in hypertensive cats with hyperthyroidism. 127


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Insulin resistance in cats Thomas K. Graves DVM, MS, PhD, Dipl ACVIM, Illinois, USA

The term “insulin resistance” is used differently in human and veterinary medicine. In terms of pathophysiology, insulin resistance is defined as peripheral antagonism to insulin. If target tissues cannot respond to insulin secreted by the pancreatic beta cells, diabetes ensues. Insulin resistance can be due to degradation of insulin, insulin receptor defects, postreceptor defects, or glucose transport defects. In veterinary medicine, we use the term insulin resistance to describe persistent hyperglycemia in the face of insulin dosages in excess of 2 to 2.5 units/kg. This may or may not reflect true insulin resistance at the cellular level. It should be noted that “apparent” insulin resistance is probably the most common form of the condition. Things that mimic insulin resistance include inappropriate handling and storage of insulin, improper administration of insulin, improper care and feeding, use of the wrong type of insulin, or insulin-induced hyperglycemia.

the liver, and thus raise blood glucose concentrations. These hormones also inhibit glucose transport, increase glucagons secretion, interfere with insulin receptor binding, and cause abnormalities in insulin secretion from beta cells. Exogenous steroid-induced diabetes may be less common in cats than in dogs, but it can occur. Dogs with naturally-occurring Cushing’s can have diabetes secondary to their hypercortisolemia, but his problem is even more striking in cats. All of the cats with hyperadrenocorticism reported in the veterinary literature have been severe insulin-resistant diabetics. Hyperthyroidism is associated with glucose intolerance in people. Thyroid hormone excess augments hepatic glucose production. My clinical impression is that cats with both hyperthyroidism and diabetes mellitus have lower insulin requirements when their hyperthyroidism is controlled. Diagnosis of diabetes mellitus in hyperthyroid cats, however, is sometimes challenging. The stress associated with hyperthyroidism often causes hyperglycemia. In some cats, stress-induced hyperglycemia can even result in glycosuria. Normally, stress-induced hyperglycemia can be differentiated from diabetes by measuring serum frustosamine, which reflects persistent hyperglycemia over a 2 – 3 week period. In cats with hyperthyroidism, however, protein catabolism is increased and fructosamine concentrations can be falsely lowered. A normal fructosamine concentration in a hyperglycemic cat with hyperthyroidism does not necessarily exclude a diagnosis of diabetes mellitus. Growth hormone is an insulin antagonist. Cats with acromegaly are commonly insulin-resistance diabetics.

CAUSES OF INSULIN RESISTANCE Elevations in hormones other than insulin can cause insulin resistance. For example, hypoglycemia, stress, and other factors can induce counter-regulatory hormones that act to raise blood glucose. Glucagon and catecholamines are examples of these hormones. Anti-insulin antibodies can render insulin administered to a diabetic patient less effective or ineffective. Because cats receive insulin preparations based on the amino acid sequences for insulin of other species, some might develop antibodies to insulin. Infection is associated with hyperglucagonemia in human patients, leading to insulin resistance. Although this mechanism of insulin resistance has not been studied in dogs and cats, it may still be present. For this reason, control infection may help decrease insulin resistance. Dental disease is extremely common and cats, and may contribute to insulin resistance in diabetics. Occult urinary tract infections are fairly common in cats with diabetes, so urinalysis and culture should always be part of the work-up for insulin resistance. In addition to infection indirectly causing hyperglycemia, it is thought that hyperglycemia can cause infections in a variety of organ systems. This phenomenon is well-described but not well understood. It is thought that diabetic patients have altered host defenses making them more prone to infections. Glucocorticosteroid hormones can cause insulin resistance. Glucocorticoids cause increased gluconeogensis in

DIAGNOSTIC WORK-UP OF INSULIN RESISTANCE The first step in evaluation of insulin resistance in a dog or cat is careful review of insulin administration procedures. Feeding history, diet, insulin storage, injection techniques, and insulin handling must be evaluated to rule out “apparent” insulin resistance. To rule out other disorders underlying insulin resistance, animals receiving inappropriately high doses of insulin in the face of poor glycemic control should have a CBC, urinalysis, urine culture, serum chemistry profile, and, in the case of cats, a serum T4 determination performed. Because many animals with diabetes, hyperthyroidism, or hypercortisolism are hyperten129


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Suggested Reading

sive, blood pressure should be measured. Pituitary-adrenal axis function testing should be performed if there are sufficient clinical data to make a diagnosis likely. It should be remembered that false positive ACTH stimulation or dexamethasone suppression test results are common in animals with diabetes. For this reason, astute clinical skills are required to diagnose hypercortisolism in diabetics. Diagnostic imaging for insulin resistance may include CT or MRI of the pituitary gland. In one recent study (Elliott et al, JAVMA 2000;216:1765-8) 16 of 16 cats with insulin resistance diabetes mellitus had pituitary masses. Disorders like acromegaly and hypercortisolism may be more common in cats than we think.

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The endocrinology of obesity Thomas K. Graves DVM, MS, PhD, Dipl ACVIM, Illinois, USA

ENDOCRINOLOGY OF ADIPOSE TISSUE AND OBESITY

Obesity is at epidemic proportions in the United States and worldwide. Despite major public health initiatives spanning several decades, human obesity has reached prevalence rates nearing 40% in some states. Obesity in dogs and cats has followed this trend. Obesity is loosely defined as body weight 20% above the ideal, or as accumulation of body fat to the extent that it affects the animal’s health.

Based on the current understanding of fat endocrinology, it is reasonable to consider obesity a true medical disorder rather than simply a lifestyle/willpower issue. Fat is an endocrine organ that secretes a variety of hormones and cytokines.3 These are collectively termed “adipokines.” Leptin and adiponectin are the best characterized fatderived hormones. Leptin is important in regulation of energy balance and satiety. Leptin concentrations in the circulation increase in obesity, but this is because of leptin resistance, so the beneficial effects of leptin are lost. Adiponectin is a hormone with several functions, but the most important is probably in conferring insulin sensitivity. As body fat increases, adiponectin concentrations drop, contributing to the insulin resistance of obesity. The effects of adiponectin and leptin have been documented in dogs.46 Other hormones secreted by fat cells include resistin and vistatin, which are involved in insulin resistance, and apelin, which may contribute to hypertension in obesity. These hormones have not been well-studied in dogs and cats. Vistatin affects insulin secretion. In addition to hormones, inflammatory cytokines are secreted by adipose tissue. Abnormally increased concentrations of adipose-derived tumor necrosis factor-alpha, for example, provides an illustration of obesity as a systemic inflammatory condition. Other proinflammatory adipokines are present in obesity as well. Gut-derived hormones, which are critical for appetite control and glucose homeostasis, are also abnormal during obesity.7 In particular, ghrelin, a powerful orexigenic hormone secreted by the gastrointestinal tract, remains elevated longer post-prandially in obese human patients,8 although studies of this effect have not been reported in dogs or cats. As a result of ghrelin dysregulation, obese patients need less food but are more hungry, illustrating the vicious cycle of obesity and loss of appetite control. In addition to the abnormal endocrine functions of adipose tissue itself, other endocrine systems are affected by obesity. Increased serum thyroid hormone concentrations,9 believed to reflect thyroid hormone resistance, have been documented in canine obesity, as have increases in circulating concentrations of prolactin,10 insulin, and insulin-like growth factor 1.11 Obese dogs secrete more cortisol in response to ACTH stimulation than do lean dogs,10 further

RISK FACTORS FOR OBESITY There are several risk factors for obesity in dogs. These include breed (e.g., Labrador Retriever, Cairn Terrier, Cavalier King Charles Spaniel, Scottish Terrier, Cocker Spaniel); neutering; and several owner behavioral and socioeconomic factors. Owner factors include over-humanizing pets, owner obesity, time spent observing pet eating, and lower income.1 Interestingly, the type of food a dog is fed is not associated with obesity. A recent study showed that cats gained 40% of their body weight by being fed freechoice food for 3 months after spaying.2 To maintain prespay body weight, food intake had to be reduced by 30%. Similar studies have demonstrated increased obesity in neutered dogs as well. The simple reason for obesity is that energy intake exceeds energy expenditure. This can occur when a dog has excessive caloric intake (food and treats) or reduced energy expenditure (e.g., reduced activity, illness or injury resulting in less exercise). Some medical conditions (endocrinopathies, such as hypercortisolism and hypothyroidism) and drugs (steroids and anticonvulsants) are associated with obesity. Medical conditions should be considered carefully in the clinical approach to an obese animal. Hypothyroidism is diagnosed commonly in dogs and is often suspected as a prime differential in obese dogs. This disease, however, is widely overdiagnosed, and owners are often frustrated when their dogs fail to lose weight despite thyroid hormone supplementation. Hypercortisolism (Cushing’s syndrome), on the other hand, may be underdiagnosed. Glucocorticosteroid hormones, endogenous or exogenous, are known to cause increased body fat in many species, and it is important to consider this syndrome as a differential in obese dogs. While genetic factors are also probably involved in the predisposition of some breeds to obesity (e.g., Labrador retrievers have a higher incidence of obesity than is seen in other breeds of like size), the role of inheritance in canine obesity needs more study. 131


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References

illustrating the multisystemic nature of the medical disorder of obesity.

1.

OBESITY-ASSOCIATED DISEASE 2.

Obese human beings generally do not live as long as their lean counterparts and are much more prone to such diseases as type 2 diabetes, coronary artery disease, osteoarthritis, hypertension, and some types of cancer. Obese dogs and cats are susceptible to the same detrimental effects, including decreased lifespan and development of a variety of disorders. This was best illustrated in a study of two groups of Labrador Retrievers, in which one group had a 25% lifelong reduction in caloric intake compared with the other group. In that study, dogs fed less food were leaner and significantly outlived the other dogs. In addition, incidence of osteoarthritis and hip dysplasia was decreased, and glucose tolerance was improved in the food-restricted group. There are numerous other obesity-related diseases in dogs and cats—some are caused by obesity and others are exacerbated by it. Such disorders include orthopedic diseases, lipid disorders, diabetes, urinary incontinence, and a variety of respiratory disorders. Even some types of neoplasia have been strongly associated with obesity in dogs. Veterinarians are familiar with the dramatic decline in the incidence of mammary cancer resulting from ovariohysterectomy in bitches, but that protective effect is often lost as a result of obesity.12 Obesity has also been established as a risk factor for transitional cell carcinoma in dogs.13

3.

4. 5.

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7.

8. 9.

10.

11.

WEIGHT LOSS STRATEGIES

12.

Weight loss can be difficult in veterinary patients. Successful weight loss requires either decreasing energy intake or increasing metabolism—usually both are required. Increasing energy expenditure can be hampered by musculoskeletal problems associated with obesity, or by the pet owner’s lifestyle. Decreasing the amount of food given to an obese dog can also be difficult. Most pet owners find their pets’ food-seeking behavior hard to resist. Recently, a pharmaceutical approach to canine obesity has been used. Dirlotapide is a drug that increases release of peptide YY, a powerful centrally acting appetite suppressant, from intestinal cells following a meal. When used in dogs, dirlotapide significantly decreases appetite and is associated with significant weight loss.14 When prescribing dirlotapide, it is important to have careful case follow-up to ensure compliance and to monitor weight loss. Drug dosages are adjusted to maintain a slow, steady rate of weight loss.

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Treating canine bacterial pneumonia: more than just antibiotics Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

ORGANISMS CAUSING BACTERIAL PNEUMONIA IN DOGS

carefully when using this drug. The animal is intubated using a sterile endotracheal tube, with the operator wearing sterile gloves and taking great care to avoid contamination by touching the oral mucosa during intubation. Once the animal has been intubated, then a sterile catheter is placed down through the endotracheal tube into the airways. Ideally, the tube should reach far enough to pass the carina, although placement is blind. Catheters commonly used include red rubber urinary or suction catheters. Increments of 5 or 10 mls of sterile saline are injected into the airway through the tube, and then aspirated back out. Typically, the yield is only 0.5-1 mls per aspirate. Aspiration can be performed using suction on the syringe used to inject the saline, or using mechanical suction devices through a mucus specimen trap. After the wash, the animal should receive several large breaths with 100% oxygen prior to extubation. Careful monitoring should follow extubation, and oxygen supplementation should be provided during anesthesia recovery.

Variable bacterial isolates have been reported in cases of bronchopneumonia in small animals. Most dogs with bacterial pneumonia are infected with a single organism, but some may have multiple isolates. In dogs, the majority (>80%) of bacteria cultured in pneumonia are gram negative aerobic rods such as E. coli, Pseudomonas spp, Klebsiella spp, Enterobacter spp, Pasteurella spp, and Bordetella bronchiseptica. A minority of pneumonia cases culture positive for gram positive aerobic cocci such as Enterococcus spp, Streptococcus spp, and occasionally Staphylococcus spp. The incidence of anaerobic infections in dogs with bronchopneumonia is unclear, but may be up to 20%. Except in acute, low-grade infections, representative cultures should be obtained from the respiratory tract prior to initiation of antibiotic therapy. Antimicrobial therapy should be initiated immediately after obtaining the tracheal wash for culture, and can then be fine-tuned once the result is obtained. This author has found that tracheal cultures are usually positive and useful even if the animal has received one or two doses of antibiotics.

FIRST-LINE ANTIBIOTIC THERAPY FOR DOGS WITH PNEUMONIA The initial antibiotic choice should provide broad-spectrum coverage for the most likely organisms, bearing in mind the possibility of polymicrobial infection. Cytologic results may assist in antibiotic choice, by documenting whether the bacterial organisms are gram positive or gram negative, rods or cocci. Rational antibiotic choices should initially provide broad spectrum coverage effective against both gram negative and positive organisms. Once culture and sensitivity results are available, a specific and narrow spectrum antibiotic can then be chosen for ongoing care. The route of antibiotic administration for a pneumonia patient depends on the severity of illness. If the dog is systemically quite healthy, has no evidence of hypoxemia, is eating and drinking well and is active, then oral antimicrobials are appropriate. Good oral first line choices for a stable, normoxemic pneumonia patient could include • Amoxicillin or amoxicillin/clavulanate • Fluoroquinolones • Trimethoprim/sulfa On the other hand, if the dog is anorexic, febrile or hypoxemic, then it should probably be hospitalized for administration of parenteral antibiotics, ideally intravenously. In a sick patient, it is not reasonable to rely on drug absorption from a GI tract that may have poor perfusion and low motility. When

OBTAINING CULTURES FROM THE LUNGS To confirm the diagnosis of bacterial pneumonia, and to help direct therapy, it is important to obtain a sample from the lungs for cytology and culture. This can be important to help distinguish pneumonia from other causes of radiographic alveolar disease such as hemorrhage or neoplasia. A cytologic finding of suppurative inflammation can help confirm the diagnosis and can suggest chronicity if macrophages are found in addition to neutrophils. Cultures will subsequently confirm the presence of bacteria, and help to direct antibiotic therapy. In order to obtain samples that are free of pharyngeal contamination, techniques that by-pass the pharynx must be used to obtain the sample. Cultures may be obtained by transtracheal or endotracheal tube washes, by bronchoalveolar lavage, or by fine needle aspiration of consolidated areas of lung. To perform an endotracheal lavage (ETL, anesthesia is induced using a short-acting injectable drug. Propofol (1-4 mg/kg) is often used, although care must be taken to avoid any periods of apnea and to monitor cardiovascular function 133


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a penicillin is combined with an aminoglycoside, a synergistic effect provides excellent broad spectrum coverage in serious respiratory infections. Ticarcillin is a semi-synthetic penicillin, which when used in combination with clavulanate (Timentin®), which can be a good parenteral choice for severe pneumonia. Other new beta lactam drugs such as imipenem are also becoming available. First generation cephalosporins such as cephalexin, do not have an adequate gram negative spectrum for patients with serious pneumonia when they are used alone. They should be combined with aminoglycosides for a broader aerobic spectrum. Alternatively, second or third generation cephalosporins can be considered. Fluoroquinolones are useful because of their efficacy and excellent distribution to the cells and tissues of the lung. If concern exists about renal function, fluoroquinolones or extended spectrum beta lactam antibiotics should be used instead of aminoglycosides. Therefore, parenteral choices for a sick pneumonia patient with hypoxemia could include one of the following more aggressive combinations (bearing in mind the need for broad spectrum coverage): • Ampicillin and a fluoroquinolone • Ampicillin and an aminoglycoside • Clindamycin and a third generation cephalosporin • A potentiated penicillin such as ticarcillin/clavulanate This author recommends that parenteral antibiotic therapy, as directed by the results of the culture and sensitivity, should be continued until the animal is no longer hypoxemic and has normal GI tract function. Once oxygenation has returned to normal and the animal is eating well, then oral antibiotics can be substituted based on the results of sensitivity testing, and the animal can be discharged from the hospital.

ulization. Orally administered expectorants such as ammonium bicarbonate and potassium iodide act by irritating the mucosa of the gastrointestinal tract, thereby stimulating a vagal gastropulmonary reflex that results in increased secretion by the bronchial glands. Phenolic compounds such as guaiacol, and inhaled volatile oils such as Eucalyptus oil, may directly stimulate production of increased amounts of watery mucus. Nebulization is a technique in which tiny spherical droplets of water are generated and inhaled by the patient. The droplets then “shower out” at various levels of the respiratory tract, depending on their size, due to changes in direction of air flow, brownian motion, and gravity. Droplets greater than 10 microns reach only the upper airway and trachea. In the range of 1-10 microns, the smaller the droplet, the deeper it is able to penetrate into the respiratory tract. Droplets less than 0.5 microns reach the alveoli and are exhaled. Most ultrasonic nebulizers create droplets in the 25 micron range. Once the respiratory tract secretions have been moistened and increased in volume, clearance of the material depends on normal function of the other respiratory defense mechanisms. Atelectasis predisposes to pneumonia because bacteria can be trapped and proliferate in collapsed airspaces and cannot effectively be cleared by the mucociliary escalator. In addition, animals with prolonged or recurrent atelectasis are often recumbent, and because they are weak and sometimes painful they may also have a depressed cough reflex, further impairing their ability to clear organisms and material from their airways. In particular, the cough reflex is a vital part of recovery from serious pneumonia. The simplest method of stimulating coughing is simply to stimulate an increased tidal volume during respiration, usually by mild exercise. Dogs with pneumonia should not be allowed to lie in one place for long periods of time. The amount of exercise needed to increase the tidal volume and respiration rate is variable depending on the severity of disease. In some, simply turning the animal from one side to the other in lateral recumbency is enough. The next step may be to stand the patient for brief periods of time, then to take a few steps, gradually building strength and mobility. Mild to moderate exercise often stimulates productive coughing which should be encouraged by coupage. Coupage is the action of firmly striking the chest wall of the patient with a cupped hand, which helps to stimulate the cough reflex and to “break up” secretions in the airways. Coupage should be performed several times daily, especially in patients that are unable to stand and move around. It is usually well tolerated, except in patients that have experienced thoracic trauma or thoracic surgery.

AIRWAY HYGIENE AND CLEARANCE OF SECRETIONS Clearance of secretions from the airways occurs via the mucociliary escalator and cough reflex, and is delayed if the secretions are extremely viscous and tenacious. In dogs and cats with pneumonia, large amounts of viscous secretions are produced, and attempts to resolve the infection must include attention to the character of the respiratory secretions. Productive coughing must be actively encouraged, and the secretions must be maintained as liquid as possible. More than 90% of the mucus in the respiratory tract is water, so even a mild degree of dehydration leads to drying of the secretions. The most important means by which this is achieved is by parenteral fluid therapy. Unless extreme respiratory distress is present, these patients should not be allowed to become dehydrated, and diuretic use should be avoided. The tenacity of mucus also depends on the structure of the mucopolysaccharides that it contains. N-acetylcysteine can be administered orally, and acts as a mucolytic by opening disulfide bonds, thereby decreasing the viscosity of the mucus. It can also be administered by nebulization, but it can cause bronchospasm by this route, which is usually manifested by coughing. If coughing or dyspnea occurs, the patient may be pre-treated with bronchodilators prior to neb-

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Infectious pneumonia in puppies: Bordetella and beyond Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

ETIOLOGY OF PNEUMONIA IN PUPPIES Puppies are often physiologically stressed by changes in ownership and new environments. In addition, poor nutrition, overcrowding, poor hygiene, and concurrent diseases such as parasitism all predispose them to development of symptomatic contagious respiratory tract infections. They can be exposed to a variety of infectious organisms, including viruses such as parainfluenza, adenovirus, canine distemper virus and (in the USA) canine influenza virus; and bacteria such as Bordetella, Streptococci, and Mycoplasma sp., which usually cause infectious tracheobronchitis, but can progress to pneumonia if the load of infectious agents is high, or if the puppy is immunosuppressed. In addition to infectious pneumonia, puppies with gastrointestinal tract disease caused by parasites or viruses can experience vomiting, which can predispose them to aspiration pneumonia. The youngest, most immunosuppressed puppies, or those of breeds such as English bulldogs with congenital abnormalities including brachycephalic airway syndrome or hypoplastic trachea, have a decreased ability to resolve respiratory tract infections. In these patients, infectious pneumonia is a real and life-threatening risk when they are exposed to overwhelming loads of these infectious pathogens. Puppies with infectious bronchopneumonia (i.e. infections of the lower respiratory tract) can be recognized because they are usually systemically sick, often febrile, and they may have significant respiratory distress. These puppies require aggressive and careful management. In contrast, puppies that have infections confined to the upper respiratory tract (tracheobronchitis and rhinitis) are usually clinically healthy, eating and afebrile. Most of these less severely affected puppies will respond favorably to time, good husbandry, and antibiotic therapy.

bacterial organisms are gram positive or gram negative, rods or cocci. Although Bordetella bronchiseptica is often implicated especially when the puppy has a history consistent with possible exposure (obtained from a pet store or shelter), it is important not to forget that aspiration pneumonia can also occur in this population. Aspiration pneumonia is usually caused by gram negative enteric aerobes such as E. coli, Klebsiella, or Enterobacter. As a general rule, oral antibiotics can be used if the pneumonia puppy is systemically healthy and is not dyspneic. Antibiotics should be administered by parenteral routes (ideally intravenously) in puppies that are dyspneic, febrile, debilitated, or depressed. Intravenous antibiotics are the best way of ensuring that adequate plasma concentrations are achieved, because there is no guarantee of adequate absorption of drugs from the gut in such sick animals. For puppies with mild upper respiratory disease, we recommend oral azithromycin therapy. Puppies with severe pneumonia require much more aggressive therapy, and we usually begin with a combination of ampicillin and an aminoglycoside (once dehydration has been corrected), in addition to azithromycin which provides optimal coverage for Bordetella. When ampicillin is combined with an aminoglycoside, a synergistic effect provides excellent broad spectrum coverage in serious respiratory infections. Other options such as enrofloxacin or tetracyclines should ideally be avoided because of their respective adverse effects on joints and teeth. Interestingly, the beta lactams such as amoxicillin, ampicillin and ticarcillin do not penetrate well into the mucus lining the bronchi, and therefore are often less effective in puppies with Bordetella pneumonia. Once culture and sensitivity results are available, a specific and narrow spectrum antibiotic can then be chosen for ongoing care.

ANTIBIOTIC THERAPY AND CULTURES

SUPPORTIVE CARE

Representative cultures should ideally be obtained from the respiratory tract prior to initiation of antibiotic therapy. In most puppies, cultures are best obtained by endotracheal lavage. Once samples have been obtained for culture, antibiotic therapy should be instituted immediately. The initial antibiotic should provide broad-spectrum coverage for the most likely organisms, bearing in mind the possibility of polymicrobial infection. Cytologic results may assist in choice of the best antibiotic, by documenting whether the

Oxygen supplementation should be delivered as required to keep the puppy comfortable. Many of the sickest puppies require oxygen supplementation for prolonged periods of time, sometimes as long as 2-3 weeks. Puppies with severe respiratory distress may not be able to sleep because they need to remain sternal with their head and neck stretched out in order to breathe. In these puppies, the provision of a pillow or teddy bear can help them to find a comfortable position in which to sleep. 135


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Nutritional support must also be considered in these puppies, particularly if they are too dyspneic to eat sufficient calories to support their resting energy expenditure. Ideally, if voluntary food intake is possible, they should eat a high calorie diet designed for recovery from illness or a high quality puppy food. Careful calorie counting should be performed to ensure that they are eating enough, and the puppy should be weighed daily to confirm that growth is occurring. Alternatively, a feeding tube may be placed, although this can be risky in these small patients who present significant anesthetic risks. Nasoesophageal feeding tubes are not usually a good choice in these dyspneic patients. Total parenteral nutrition is another possible option when it is available.

1. Incorrect antibiotic choice: If a culture is not obtained, empiric antibiotic therapy may prove to be incorrect. For example, if a dog has pneumonia caused by E. coli, then use of a first generation cephalosporin such as cephalexin (primarily effective against gram positive organisms) is likely to be ineffective. 2. Failure to optimize airway defenses during treatment: If the animal is dehydrated, weak or recumbent, then it will be unable to remove secretions from its airways and pneumonia can persist in spite of appropriate antibiotic therapy. 3. Insufficient duration of therapy/follow-up: If antibiotic therapy is not continued for a long enough duration of time, then recurrence of disease is possible. This is an easy trap to fall into, as many of these animals can feel very well and show minimal signs of disease, despite still having abnormal radiographs. If radiographic evidence of disease persists in one lung lobe, and each of these three possibilities has been considered and ruled out, other options must be investigated. It is possible that severe inflammation in one lung lobe has caused some degree of fibrosis or chronic changes that will never completely resolve and do not represent an active pneumonia. If this is the case the radiographic changes in that lung lobe, while appearing as alveolar disease, are usually wispy and minor. Alternatively, one lung lobe may appear completely atelectatic, with movement of the mediastinum towards that side of the thorax because the lung lobe is smaller than normal. If treatment has appeared to be clinically effective and the animal is doing well, then a decision must eventually be made about whether to discontinue antimicrobial therapy even though the radiographs have not completely returned to normal. If antibiotic treatment is terminated prematurely, there is a risk of recurrence of pneumonia and the animal should be monitored carefully. In this situation, a bronchoalveolar lavage or repeat tracheal wash after antibiotics have been discontinued can provide useful information. Alternatively, if a significant amount of alveolar disease persists but is consistently localized to one lung lobe, especially if the animal continues to have clinical signs of respiratory disease, then further investigation should be considered. An area of lung necrosis or abscessation may be present, which can occasionally be associated with aspiration of a foreign body. It is also possible that the diagnosis of bacterial pneumonia was incorrect, and other diagnoses such as neoplasia or lung lobe torsion should be considered. Bronchoscopy and bronchoalveolar lavage can provide useful information that may help direct therapy. Ultimately, if the disease is localized, is severe, and is failing to resolve with appropriate therapy, then surgical exploration and resection of the offending lung lobe may be required in order to completely resolve the problem.

RADIOGRAPHIC MONITORING AND FOLLOW-UP Puppies with pneumonia must be monitored carefully to ensure that they are continuing to respond appropriately to therapy. Radiographs of the chest should be obtained periodically during hospitalization (about every 4-7 days) to confirm that the alveolar disease is resolving. Failure to achieve clinical or radiographic improvement should prompt reconsideration of antibiotic therapy, repeat tracheal wash culture, or repeated attempts to resolve the underlying cause of the pneumonia. Once the lung function has returned to normal, the radiographs are improving, and the puppy is feeling better, eating well, and is active and alert, oral antibiotic therapy can be instituted and discharge from the hospital can be considered. In most adult dogs, this occurs 3-14 days from hospital admission, but in puppies it can be a very protracted process sometimes requiring as long as 3-4 weeks of hospitalization and oxygen supplementation. The puppy should be re-examined about one week after discharge with chest radiographs to confirm that the pneumonia is continuing to resolve. In severe cases, several weeks or even months of therapy are required for complete resolution of radiographic signs of pneumonia. As long as the animal is doing well clinically, it should be radiographed approximately every 2 weeks until the radiographs are normal. Oral antibiotic therapy should be continued for a further 2 weeks after radiographic resolution of the disease, in order to assure that the bacterial infection has been completely eliminated. The total duration of antibiotic therapy may be as long as 3-6 months in severely affected puppies.

PERSISTENT LUNG LOBE ABNORMALITIES DESPITE TREATMENT In animals with pneumonia, review of a series of sequential radiographs should reveal a gradual progression of improvement and eventually resolution if all is going well. Occasionally, a patient may have persistent alveolar disease that eventually plateaus and fails to improve further despite ongoing appropriate therapy. If the alveolar disease persists, then several possibilities should be considered:

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Medical management of the coughing dog: heart failure versus lung disease? Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

DISTINGUISHING CARDIAC FROM PULMONARY DISEASE IN COUGHING ANIMALS

Coughing is a non-specific response to inflammation or stretch of the airways following a variety of insults, including viral, bacterial or other infections, allergic or hypersensitivity responses, foreign material, external compression, accumulation of edema fluid, structural abnormalities, or neoplasia. When the airways become inflamed, the clinical manifestations include erythema and hyperemia, mucosal edema, increased mucus production with proliferation of goblet and Clara cells, and infiltration of inflammatory cells. Normally, the mucociliary escalator, the alveolar macrophages, and the bronchus associated lymphoid tissue are the most important protective mechanisms of the lower airways. The cough reflex comes into play when these responses have been overwhelmed by an increased volume of edema, exudate or mucus, or by the presence of foreign material. The cough reflex may also be triggered by repeated local trauma or stretch, such as might occur in dogs with structural abnormalities such as collapsing trachea or compression of the left mainstem bronchus as a result of left atrial enlargement. The cough reflex is triggered locally in the airways, and controlled by cough centers in the brainstem. A cough begins as a maximal inspiration, followed by initial forced exhalation against a closed glottis. Sudden opening of the glottis results in rapid expulsion of air under considerable pressure, which assists in removal of debris, foreign material, and mucus from the respiratory tract. This is further assisted by simultaneous contraction of the bronchial smooth muscle, which narrows the airways, further increasing the force with which material is expelled. Coughing may be defined as productive or non-productive. A productive cough occurs when material is expectorated from the trachea into the pharynx. In dogs and cats this material is usually swallowed, but it can occasionally be expectorated to the exterior. Clinically, a productive cough sounds moist and low-pitched, and the animal often swallows immediately afterwards. In contrast, non-productive coughing is usually harsh, high-pitched or even honking. Expectoration of mucus may occur occasionally, but is usually not a feature. Dogs with heart disease may cough because of the presence of pulmonary edema fluid within the pulmonary airspaces if they are in congestive heart failure. Alternatively, they may not be in congestive heart failure, but may cough because an enlarged left atrium is pressing upwards against the left mainstem bronchus, directly compressing and irritating the airway.

In dogs, coughing may be caused by either cardiac or airway disease. In cats, cardiac disease and congestive heart failure rarely cause coughing. Therefore, coughing in cats is much more likely to be caused by feline asthma/bronchial disease. The signalment can provide useful information: coughing in older dogs can be caused by congestive heart failure or by inflammation in chronic bronchitis or collapsing trachea. Younger patients may be more likely to suffer from infectious or parasitic infestations, especially if they are in a high-stress environment. Breed predispositions exist for certain disorders such as collapsing trachea in Yorkshire Terriers and Miniature Poodles. A previous history of vomiting or regurgitation can indicate the presence of chronic aspiration pneumonia or systemic neoplasia. Chronic bronchitis may be a sequela of infectious tracheobronchitis or necrotizing tracheitis due to smoke inhalation. Recent travel to areas endemic for lungworms, heartworms or fungal infections may be of diagnostic significance. Observation of the patient at rest can provide vital information. Most patients with mild to moderate chronic bronchitis, collapsing trachea, or airway compression/obstruction are normal at rest between paroxysms of coughing. In contrast, patients with severe airway disease or congestive heart failure often have increased respiratory rate and effort at rest. They may have a considerable abdominal component to their respiration, with nasal flare and postural adaptation. The most severely affected patients have paradoxical respiration and signs of respiratory muscle fatigue. The whole airway, particularly the cervical trachea, should be carefully palpated. Attention should be paid to the presence of any kind of compressive mass lesion in the neck or thoracic inlet. The trachea itself should be palpated and compressed to induce coughing. In normal dogs and cats, the trachea is cylindrical and the dorsal membrane can only be palpated with difficulty. Dogs with collapsing trachea may have obvious softening of the tracheal cartilage and airway deformity (rings become C-shaped). A brief, dry cough can be induced in most normal dogs and cats when the trachea is compressed. In contrast, paroxysms of coughing and wheezing may be precipitated in patients with pre-existing inflammation caused by tracheal collapse, chronic bronchitis or feline asthma. Induction of a moist or productive cough should prompt suspicions of bronchiectasis, bronchopneu137


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monia, or other serious lung disease. The jugular veins should be evaluated for excessive distention or jugular pulses, which can indicate right-sided heart disease. Auscultation is a vital part of the evaluation of any patient with a cough. The first important question, particularly in dogs, is whether or not there is evidence of heart disease. The heart must be carefully ausculted to detect any evidence of a murmur or arrhythmia. Coughing can be an early sign of left-sided congestive heart failure in dogs with mitral regurgitation or dilated cardiomyopathy. It is important to recognize that the mere presence of a murmur is not enough to prompt a diagnosis of congestive heart failure. Many patients that are actually suffering from chronic bronchitis or collapsing trachea also have some degree of mild mitral endocardiosis, but are not actually in heart failure. Therapy for heart disease in such patients will not result in resolution of the cough, which instead should be treated with anti-tussives and bronchodilators. Some patients with mitral regurgitation may have significant enlargement of the left atrium due to regurgitant flow. In this instance, compression of the left mainstem bronchus may result in coughing that is unrelated to heart failure. Next, all lung fields and the cervical trachea should be carefully ausculted for the presence of abnormal sounds. The most common finding is increased upper airway sounds, particularly in patients with chronic bronchitis, collapsing trachea, or airway obstruction. In patients with tracheal obstruction, the sounds are loudest when the bell of the stethoscope is placed over the cervical trachea. Wheezes (musical sounds produced by movement of air through narrowed airways) are often ausculted in cats with feline asthma. Dull areas may indicate the presence of collapsed or consolidated lung lobes, masses, or pleural effusion. Soft crackles are a serious finding, suggesting the presence of fluid such as cardiogenic edema or pneumonia. Dogs with chronic end-stage bronchial or lung disease may also have generalized coarse crackles which are probably caused by early closure and opening of small bronchi. A complete physical examination, paying particular attention to abdominal palpation, should be performed. Abdominal distention attributable to hepatomegaly can contribute to coughing due to craniad pressure on the diaphragm by abdominal contents. A fluid wave may indicate ascites and right-sided heart failure.

intent is to determine the presence of organic or systemic disease that may be contributing to chronic cough. For example, patients with fungal pneumonia may have eosinophilia or increased white blood cell count, and those with neoplasia or hyperadrenocorticism may have increased liver enzymes. If therapy with drugs such as corticosteroids, angiotensin-converting enzyme inhibitors, or digoxin is to be considered, then knowledge of liver and kidney function, and electrolyte status, is vital. Thoracic and possibly also cervical radiographs are vital in evaluation of patients with chronic coughing. If the patient has a heart murmur, the radiographs should be carefully screened to rule out any evidence of pulmonary venous distention or alveolar disease caused by pulmonary edema. If there is evidence of pulmonary edema or pulmonary venous distention, then congestive heart failure is likely to be contributing to the coughing in a dog. The cardiac silhouette should be checked for enlargement, which could be global or only of one chamber, usually the left atrium. If the left atrium is enlarged and pressing dorsally against the left mainstem bronchus, this can be a cause of coughing that relates to the heart disease, but is not congestive heart failure. Dogs with chronic bronchitis or collapsing trachea usually have normal radiographs or a peribronchial pattern. Sometimes a collapsing trachea can be demonstrated by radiographs obtained during inspiration and during exhalation, or by using flexed and extended neck views. Caution should be exerted in interpretation of these views, however. Patients with chronic tracheal collapse or bronchitis usually do not have evidence of pulmonary alveolar disease. If there are any signs of alveolar disease, other disorders such as bronchopneumonia, neoplasia, or congestive heart failure should be considered. Bronchiectasis can be evident as a cylindrical dilation of bronchi as they extend to the periphery of the lung lobes, rather than their usual tapering. Masses may be evident in lung lobes or compressing the airways. Radio-opaque foreign bodies may be seen. Lastly, intraluminal masses, abscesses, parasitic nodules or foreign bodies may be outlined by the negative contrast of air in the major airways. Fluoroscopy is a very useful additional modality to confirm a diagnosis of collapsing trachea or mainstem bronchus. Bronchoscopy is a very useful tool for evaluation of the chronically coughing dog. Dynamic collapse of the airways can be easily seen, and bronchoscopy is the “gold standard� for diagnosis of collapsing trachea. Foreign bodies may be visualized and even removed. The airways can be evaluated for the presence of inflammation and exudate, and samples can be obtained directly from affected areas. Bronchoalveolar lavage is a useful technique which can provide diagnostic information in the presence of fungal or neoplastic lung disease. Bronchoscopy can only be carried out under general anesthesia, which limits its use to the stable patient. Left-sided congestive heart failure may require evaluation with echocardiography and electrocardiography. Some dogs or cats with chronic coughing may have mass lesions in the lung, which may require surgical exploration and resection. Some of these patients may also benefit from additional imaging modalities such as computed tomography or magnetic resonance of the thorax.

Diagnostic testing Every patient that has been coughing for more than 2 months, deserves at least a basic workup to determine the best course of management, and to attempt to prevent progression of the disease. Many of these disorders, whether they are cardiac or respiratory in origin, are slowly progressive and most do not resolve spontaneously. Early treatment is often the most important tool to delay progression and minimize morbidity. Many of these animals require life-long therapy, and most have gradually progressive disease. In particular, management of disorders such as collapsing trachea, chronic bronchitis, and congestive heart failure can be extremely frustrating for both owner and veterinarian. Before committing to life-long therapy for these chronic illnesses it is vital that a correct diagnosis is made, and that reversible or curable disorders are ruled out. A basic clinical workup should include a complete blood count, chemistry panel, urinalysis, and heartworm testing. The

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Pleural space disease: an update Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

Pleural space disease is a frequent cause of respiratory distress in cats, and less common in dogs. Clinical signs include: • Increased respiratory rate and effort, “restrictive” breathing pattern • Dyspnea • Cough may occur • Dull or diminished lung sounds on auscultation • Fever may occur • Weight loss and lethargy

Soft tissue lesions • diaphragmatic hernia • pleural neoplasia or mass • lung lobe torsion

THORACOCENTESIS Thoracocentesis should be performed in any animal that has evidence of pleural effusion on clinical examination or on a thoracic radiograph, and in any animal with a clinically significant pneumothorax that is affecting respiratory function. Thoracocentesis is a readily available and practical technique that is often of immense diagnostic as well as potentially life-saving therapeutic value, and in most cases no other technique or therapy can be substituted for its use. Since all fluids within the pleural cavity appear the same soft-tissue density radiographically, it is vital to obtain samples in order to reach a diagnosis. Large amounts of pleural fluid or air are likely to significantly impair respiration, so their removal can often be a life-saving procedure. In the case of an animal with pyothorax, drainage of even moderate amounts of purulent fluid may also be life-saving by minimizing the risk of sepsis. In an emergency when an animal presents in respiratory distress, obtaining radiographs may be time-consuming and stressful. In this instance, diagnostic and therapeutic thoracocentesis may be performed immediately to rule out a pneumothorax or pleural effusion, since this procedure is easy and may be life-saving. This is of particular importance if auscultation of the chest reveals dull or absent lung or heart sounds. Sedation is not usually required in dogs, but some cats may require short-acting or reversible sedatives in order to carry out thoracocentesis. The dog or cat is restrained by one or two assistants in a sternal position if possible. It can be more difficult to perform a successful thoracocentesis if the animal is in lateral recumbency, since fluid will tend to drain downwards towards the dependent side. The usual site for thoracocentesis is the 7th or 8th intercostal space, which can be located by counting backwards from the 13th rib. If fluid is present in the pleural space, the needle is inserted low down, near the costrochondral junction, to maximize the chance of obtaining a sample. If a pneumothorax is thought to be present, the needle should be inserted more dorsally in the intercostal space. The clinician should attempt to insert the needle cranial to the rib, since the intercostal blood vessels run caudal to the rib.

Clinical examination of any animal with respiratory difficulty should include auscultation of the thorax, Sometimes it is difficult to hear air movement in all or part of the lung fields. If lung sounds cannot be heard in one localized area of the chest, this suggests absence of air movement through one particular lung lobe, such as might occur with a consolidated lung lobe, neoplastic masses, or lung lobe torsion. If the sounds are dull all over the chest, one might consider pleural disease such as pleural effusion, pneumothorax, or diaphragmatic hernia. In some cases, a fluid line may be ausculted above which air movement can be easily heard, but below which the sounds are dull. Heart disease is an extremely important cause of dyspnea and pleural effusion in cats, therefore the heart should be carefully ausculted in each case. Although some cats with congestive heart failure have normal cardiac auscultation, most will have evidence of a murmur or an arrhythmia. Discovery of an abnormal sound on cardiac auscultation elevates heart failure on the list of differentials and provides the clinician with an important therapeutic direction.

DIFFERENTIAL DIAGNOSES FOR PLEURAL SPACE DISEASE Fluid (Pleural effusion) • pyothorax • non-bacterial exudates eg FIP • chylothorax • hemothorax • transudates (pure and modified) eg right heart failure • neoplastic effusions • lung lobe torsion Air (Pneumothorax) • traumatic pneumothorax • spontaneous pneumothorax 139


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Once the site has been located, it should be clipped and scrubbed. The needle and extension tubing are attached to the 3-way stopcock and the syringe. The needle is then inserted perpendicular to the skin and advanced slowly through the intercostal muscles. Once the needle is in the intercostal muscles, an assistant can begin to create some negative pressure using the syringe. As soon as the needle passes through the pleura into the intercostal space, fluid will be seen within the tubing, and the needle should then be kept stationary as fluid is aspirated into the syringe. If a pneumothorax is present, when the needle penetrates the intercostal muscles the assistant will find the syringe filling with air. The needle should be kept stationary as long as fluid or air continue to be obtained. If a scraping or bumping sensation of the needle is felt, the needle should be withdrawn slightly. Eventually negative pressure will be reached and the needle can be removed. The same procedure may then be repeated on the other side of the chest. In some patients, especially if fluid is loculated within the pleural cavity by fibrin tags and fibrous adhesions, it can be difficult to clear all of the fluid by aspirating from one site. These animals can be very frustrating to treat since multiple sites must then be used, either selected at random or using thoracic radiographs for guidance. In these cases, ultrasonographic guidance can be very helpful, by helping to locate fluid pockets within the chest. Thoracocentesis is not a particularly stressful or painful procedure, but some animals in respiratory distress (especially cats) may object to the restraint that is required. If excessive struggling occurs in the dyspneic animal, this can be life-threatening. Sedation or anesthesia may be vital in this situation in order to allow thoracocentesis. If the clinician elects to use chemical restraint, respiration must be observed carefully, and ideally the animal should be intubated and ventilated with oxygen if it is anesthetized. The incidence of complications with thoracocentesis is generally low, and primarily relates to damage by the nee-

dle within the thoracic cavity. Lacerations of lungs leading to pneumothorax, or coronary vessels leading to hemorrhage, may occur. This can be minimized by careful control of the needle tip, and by reducing struggling by the animal. Coagulopathies are a relative contraindication of thoracocentesis - but sometimes the procedure cannot be avoided, especially in the case of life-threatening pleural hemorrhage. Occasionally air may escape into the pleural cavity through the needle, but this usually leads to only minor pneumothorax.

EMERGENCY MANAGEMENT OF ANIMALS WITH PLEURAL SPACE DISEASE Provide oxygen supplementation Rest the patient and avoid stress Obtain vascular access if it does not induce too much stress Perform thoracocentesis, analyze fluid Thoracic radiographs if possible after thoracocentesis Fluid analysis: • Cell counts • Cytology • Aerobic and anaerobic culture • Biochemical analysis if indicated (triglycerides)

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Understanding eosinophilic/inflammatory airway disease in dogs and cats Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

BRONCHIAL INFLAMMATION

Chronic bronchial inflammation (Chronic Obstructive Pulmonary Disease, COPD) is associated with thickening of the bronchial walls due to infiltrates of inflammatory cells (neutrophils, eosinophils, macrophages), hyperemia with increased vascularity, edema, and proliferation of goblet cells with increased mucus production. In addition to becoming thickened, the lumen of the small bronchi may be narrowed by cartilage weakness and collapse. Early closure of the small bronchi therefore occurs during exhalation. Phasic collapse of the mainstem bronchi can also occur during coughing and during breathing, which can cause clinical “overlap” between a diagnosis of chronic bronchitis and collapsing trachea. Dogs with collapse of the mainstem bronchi usually have a non-productive honking cough similar to that of collapsing trachea patients. Bronchiectasis is abnormal dilation of the bronchi, which is most commonly cylindrical but occasionally saccular. Most cases of bronchiectasis occur as a sequela of chronic inflammation in dogs with chronic bronchitis, (although it is an uncommon sequela of chronic airway inflammation). In rare cases, bronchiectasis can be congenital as a component of ciliary dyskinesia. In either case, the distortion of the bronchial wall results in defective mucus clearance from the lungs, which prompts repeated bacterial infections and a predisposition to pneumonia. Dogs with bronchiectasis usually have productive coughing. Physical examination findings in dogs with chronic bronchitis are often unremarkable. Typically, the history involves a stable or progressive history of coughing over a prolonged period of time (eg months). The cough is usually harsh and non-productive, and may be precipitated by exercise or excitement. A productive cough should prompt concerns of more complex disease such as bronchiectasis, neoplasia, or pneumonia. Dogs with mild bronchial disease usually have a normal respiratory pattern and do not have exercise intolerance. Those with severe bronchial disease often have normal inspiration, but show an “expiratory” abdominal push, as they attempt to overcome early collapse of the small bronchi during exhalation, and they may also have exercise intolerance. Auscultation of the lungs may reveal harsh/ increased bronchovesicular sounds in mildly affected animals. Dogs with severe bronchial disease may have harsh crackles on auscultation as the small airways snap open and closed during breathing. From a clinical perspective, the diagnosis of chronic bronchitis is often one of exclusion. It is important to perform a basic initial workup to rule out important differentials such

Bronchial inflammation occurs in numerous species, and is mediated by neutrophils, monocytes/macrophages, eosinophils, mast cells and lymphocytes, IgE, histamine, PAF, leukotrienes, prostaglandins, interleukins and TNF. In the bronchi, inflammation causes mucosal edema and hyperemia, infiltration of inflammatory cells, and proliferation of goblet cells with increased mucus production, all of which lead to narrowing of the bronchial lumen. In addition, bronchoconstriction may occur to varying degrees. Chronic inflammation and narrowing of the small bronchi can lead to a number of serious changes in the lung. The lesions in the small bronchi primarily affect expiration. Since the negative pressure exerted by the lung parenchyma on the small bronchi during inspiration tends to “stent” the airways open, inhalation can occur normally. When exhalation occurs, however, the small bronchi tend to collapse because they are narrowed and weakened by inflammation. Early closure of small bronchi during exhalation results in air trapping in the lung and an expiratory respiratory difficulty. Clinically, lung over-distention with air may be recognised by the presence of over-inflated lungs and a flattened diaphragm on thoracic radiographs (especially in cats). As the lungs become overdistended, emphysema (breakdown of alveolar septal walls) can develop at the periphery of the lungs, leading to decreased alveolar surface area for gas exchange. Persistent mucous plugs in narrowed airways may lead to the development of absorbtive atelectasis (manifested as an alveolar pattern) as the lung collapses distal to the obstructive airway. The right middle lung lobe is particularly susceptible to collapse in asthmatic cats.

CANINE CHRONIC BRONCHITIS Chronic bronchitis represents one of the most common diagnoses in dogs with chronic coughing. Inflammation of the small bronchi sometimes has an initial inciting cause, such as Bordetella infection as a puppy or exposure to lungworms or toxic inhaled substances. Hypersensitivity may be suspected in some cases. More often, however, the inflammation is idiopathic and there is no known etiology. Bronchial inflammation is usually neutrophilic, but the presence of eosinophils may prompt concerns about hypersensitivity or parasites. Aside from Bordetella, primary bacterial infection is usually not a significant feature of chronic bronchitis. 141


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The reasons for this lack of bronchospasm in the smooth muscle of canine airways are not well understood. One theory involves differences in the innervation of the airway smooth muscle between species. In all species, the airways are innervated by parasympathetic cholinergic pathways which mediate bronchoconstriction, and by sympathetic adrenergic pathways which mediate bronchodilation. Most species also have miscellaneous pathways including tachykinin-containing nerves, rapidly and slowly adapting receptors, and unmyelinated C fibers. In addition, cats, horses and people (but not dogs) have a non-adrenergic vagal inhibitory pathway (NANC) which causes bronchodilation, for which vasoactive intestinal peptide (VIP) and nitric oxide appear to be the mediators. NANC appears to be a remnant of a primitive inhibitory nervous system, which is present in both the GI and the respiratory tracts. In humans, absence of GI NANC leads to loss of inhibition and spasm of GI smooth muscle (Hirschsprung’s disease). It is possible that a defect in the NANC system in the feline respiratory tract could result in the hyper-reactive airways we see in feline asthma. Since NANC does not appear to exist in the canine respiratory tract, this could explain the absence of a parallel disease in the dog. Classical acute feline asthma is often an eosinophilic inflammatory disorder. These cats have marked acute bronchoconstriction and inflammation that may be triggered by specific allergens. They can present with acute and severe dyspnea. In these cases, once the acute phase has passed and bronchospasm resolves, the animal can return to perfectly normal function, and thoracic radiographs taken after resolution of the crisis will be normal. Clinical signs in these cats are primarily caused by bronchospasm, with an additional contribution from the inflammation. Other cats have more chronic inflammation of the bronchi with infiltrates of inflammatory cells (including neutrophils, eosinophils, or macrophages) that surround the bronchi. In these cats, a chronic cough is often recognised because the inflammation is ongoing. Intermittent reversible exacerbations of disease may occur, but the underlying inflammatory disease seems to persist between each exacerbation. Thus, thoracic radiographs obtained between incidences of respiratory distress may show varying amounts of peribronchial inflammation.

as neoplasia, pneumonia and parasites. Fecal Baerman testing for lungworms, and blood testing for heartworms, should be considered. Thoracic radiographs in dogs with uncomplicated chronic bronchitis should show minimal evidence of alveolar disease. The predominant radiographic finding is usually a pattern of peri-bronchial infiltrates known as “donuts and tramlines”. Radiography must be interpreted with caution however, because some dogs with chronic bronchitis have normal radiographs, and some peribronchial infiltrates are completely normal in geriatric dogs. Following radiography, the next diagnostic steps become more invasive. The definitive diagnosis is obtained by tracheobronchoscopy, which reveals thickened airway mucosa, partially collapsed airways, and/or increased mucus accumulation. Samples can be obtained for cytology and culture. In absence of endoscopy, a tracheal wash can be performed to obtained blind samples from the airways. Bacterial cultures are often negative, but may grow gram negative organisms such as Bordetella or Pseudomonas. Bordetella should be treated as it is a primary pathogen of the airways. Other gram negative enteric rods may be colonizing the inflamed airway rather than causing a primary problem. In that case, antibiotic therapy may result in partial or transient improvement, but typically does not resolve the problem. Cytologic findings usually confirm inflammation and/or excessive mucus, or the presence of lungworm larvae, but are often non-specific.

FELINE BRONCHIAL DISEASE “ASTHMA” Feline asthma arises from a heterogeneous and poorly characterized group of inflammatory conditions of the bronchi. Like dogs, cats with bronchial disease have inflammation characterized by edema, hyperemia, infiltrates of inflammatory cells, and increased mucus production. In addition, the hallmark of “asthma” in the cat is the presence of excessive but reversible bronchospasm (sudden constriction of the smooth muscle of the small bronchi), which is triggered by the underlying inflammatory process. Inflammation in the airway may be brief and transient, or may be a chronic ongoing process. Cats with asthma, like people, seem to have hyper-responsiveness of the airway smooth muscle, and a given stimulus or degree of inflammation leads to a greater degree of bronchospasm in asthmatic cats than it does in normal cats. Clinical signs include coughing and dyspnea, caused by inflammation and bronchospasm. Acute and/or chronic inflammation of bronchi occurs in numerous species: canine chronic bronchitis, equine ‘heaves”, feline asthma/bronchitis and human asthma/bronchitis. Interestingly, smooth muscle hyper-reactivity to inflammation does not occur in all species. It is well documented in cats, horses, and humans, but does not appear to occur in dogs.

References available from the author on request

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Treating feline asthma and canine chronic bronchitis Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

Dogs and cats presenting with signs consistent of chronic bronchitis and asthma require some diagnostic testing to confirm the diagnosis, rule out other disorders, and direct therapy. If a cat presents in a respiratory crisis caused by bronchospasm, diagnostic testing to confirm the diagnosis should be postponed till after the cat has been stabilized.

Usually fecal samples are evaluated three days in a row, and if there is a strong suspicion of the presence of lungworms, anthelminthic therapy may be initiated even if the results are negative.

Cultures and respiratory cytology When a bronchoscope is not available, diagnostic samples may be obtained by endotracheal washing. Because of the inherent risks associated with anesthesia and increased tracheal and bronchial inflammation, this technique should be used cautiously in cats with feline asthma. When available, bacterial and fungal cultures from the airway may be diagnostic if bronchopneumonia or bronchiectasis is present, but should not be over-interpreted in the presence of chronic bronchitis. Although positive bacterial cultures are obtained in some patients with chronic airway disease, the bacteria may be colonizing the inflamed airway rather than primary pathogenic agents. Cytologic samples may show evidence of toxoplasma tachyzoites, fungal yeast forms, or lungworm larvae, and they occasionally reveal neoplastic cells. The type of inflammatory cell can also provide useful information, for example the presence of a predominant population of eosinophils in tracheal wash fluid.

Physical examination On auscultation, wheezes may be heard indicating narrowing of small airways, sometimes crackles are ausculted representing the sound of small airways snapping open and closing.

Blood tests Most of these patients deserve a basic clinical workup including a complete blood count, chemistry panel, urinalysis, and heartworm testing. The intent is to determine the presence of organic or systemic disease that may be contributing to chronic cough. Testing for Feline Leukemia Virus and Feline Immunodeficiency Virus may be indicated.

Radiographs Thoracic radiographs are vital in evaluation of small animals with bronchial disease. Typically, radiographs are normal or have a peribronchial pattern. The lungs may be hyperinflated, evidenced by a flattened diaphragm and an increased distance between the caudal border of the heart and the diaphragm. Although atelectasis can occur because of occlusion of small airways in cats with asthma, the finding of alveolar disease should prompt consideration of other disorders such as bronchopneumonia, neoplasia, or congestive heart failure. Bronchiectasis can be evident as a cylindrical dilation of bronchi as they extend to the periphery of the lung lobes, rather than their usual tapering. Masses may be evident in lung lobes or compressing the airways. Radio-opaque foreign bodies may be seen. Lastly, intraluminal masses, abscesses, parasitic nodules or foreign bodies may be outlined by the negative contrast of air in the major airways.

Other Congestive heart failure is a common cause of chronic coughing in dogs, but is unlikely to cause coughing in cats. However, congestive heart failure is a common cause of dyspnea in cats, and is therefore an important differential for feline asthma. Heart disease may require evaluation with echocardiography and electrocardiography.

EMERGENCY STABILIZATION Cats that present with severe dyspnea associated with bronchospasm require aggressive but careful management. They should be immediately placed in an oxygen cage, and manipulated as little as possible to minimize stress, maximise oxygen delivery, and minimize oxygen consumption. Observation of the cat while it is resting in oxygen allows determination of the respiratory pattern. Classically, cats with asthma have expiratory dyspnea with increased abdominal effort on exhalation. Clinically, however, almost any respiratory pattern may be recognised.

Fecal flotation for parasites In areas where lungworms are endemic, a Baermann preparation should be performed to detect the presence of lungworm larvae in the stool. It must be remembered that lungworm larvae may not be present in the stool, as their numbers may be low or they may be intermittently shed. 143


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DRUG THERAPY

recommended that cats should not receive bronchodilators alone (without corticosteroids) for asthma therapy.

There are three main therapeutic aims. First, bronchodilation must be achieved. Secondly, the inflammation that is the underlying cause of the bronchoconstriction must be addressed. Finally, cough suppressants may be required, particularly in dogs with chronic bronchitis. It is important that drugs not be given orally to the dyspneic patient. The goal of therapy is to manage clinical signs and minimize the rate of progression of the disease. The client should be educated that these are longterm diseases that will need to be managed for the life of the pet. Typically, a trial and error approach is necessary to discover the best combination of drug therapies for each individual patient.

Corticosteroids Corticosteroids play an important role in therapy, but considering their negative side-effects, their use should be undertaken with caution. Anti-inflammatory doses of prednisone can be beneficial for treatment of bronchial inflammation in both dogs and cats. This dose can be effective in decreasing the inflammatory response, leading to reduction of secretions, and decreases in mucosal edema, airway thickening and bronchospasm. This results in clinical improvement in many patients, with decreased coughing and better exercise tolerance. Corticosteroids may be less effective in dogs with bronchiectasis because of the risk of secondary infections in these patients. At the beginning of treatment, most clinicians begin with a fairly high dose (Prednisone 1-2 mg/kg PO BID), and rapidly taper to a low maintenance dose. Dogs and cats should be maintained on the minimum dose that controls their clinical signs of disease, ie minimizes clinical evidence of coughing. Some animals can gradually be completely weaned from steroids, with resumption of therapy when their disease recurs, while others require life-long therapy to control clinical signs. If the owner has difficulty administering pills, inhaled steroids or repository steroid administration can be considered. For cats with dyspnea caused by feline asthma, antiinflammatory to immunosuppressive doses of short-acting corticosteroids should also be administered to counteract the underlying inflammation that is resulting in bronchoconstriction. Dexamethasone sodium phosphate (0.2-1 mg/kg IV or IM) is our drug of choice because of its low cost and easy availability. By addressing the underlying inflammatory process, corticosteroids decrease edema, minimise mucus production, and minimise the subsequent bronchospasm. Steroids are well tolerated by most cats, and do not cause many of the unwelcome side-effects that are recognised in dogs and people. Although corticosteroids have been implicated as an acute cause of increased intravascular volume which can precipitate progression to congestive heart failure, a single dose of steroids does not seem to cause clinical problems in the dyspneic cat, and if there is concern then a low dose of furosemide can be administered concurrently. The dose of corticosteroids is variable, depending on the condition and requirements of the individual cat.

Bronchodilators Bronchodilators are indicated for management of dogs with chronic bronchitis and bornchiectasis, and for cats with feline asthma. Two classes of bronchodilators are widely used: methylxanthine derivatives and beta 2 agonists. Methylxanthine derivatives such as aminophylline (4-5.5 mg/kg PO TID) and theophylline (dog 9 mg/kg PO BIDQID; cat 4 mg/kg PO BID-TID, extended release 20 mg/kg q24-48 hrs) are well absorbed from the gastrointestinal tract. These are phosphodiesterase inhibitors that cause bronchodilation by decreasing the intracellular breakdown of cAMP. Recent studies suggest that they may also act at the level of the diaphragm to increase its contractility and to render it less susceptible to fatigue. Thus, these agents may also prove useful in cases of chronic respiratory tract disease for reasons other than bronchodilation. The beta 2 agonists such as terbutaline sulfate (1.25-5 mg PO BID-TID) and albuterol (50 mg/kg PO BID-TID) activate adenylate cyclase and therefore they also induce bronchodilation by increasing intracellular cAMP. For many patients, the beta 2 agonists provide a more effective degree of bronchodilation than phosphodiesterase inhibitors. For cats presenting in an asthmatic crisis, we have found that the ß2 agonists, particularly terbutaline (0.01 mg/kg IV or IM) are particularly helpful in management. Other bronchodilators such as aminophylline can be used intravenously, but are often less effective and must be diluted in large volumes for parenteral administration. In cats with agonal respiration that fail to respond to terbutaline, epinephrine (0.5-0.75 ml of a 1:10,000 solution can be given IM or SQ) can be used in an aggressive attempt to achieve bronchodilation by its ß effects. Before administration of a bronchodilator, the cat should be carefully evaluated to confirm that there is no evidence of heart disease. Parenteral administration of a beta agonist to a cat with hypertrophic cardiomyopathy could result in worsening of dyspnea and tachycardia, with progression of congestive heart failure. If a murmur or gallop rhythm is detected on physical examination, then this category of drugs should be avoided, and instead corticosteroids become the most important therapeutic modality. Bronchodilators are an important part of long term therapy, especially if corticosteroids are contraindicated or if the disease is not responding to steroids alone. Recognizing that inflammation is the underlying cause of bronchospasm, it is

Anti-tussives Anti-tussive agents are one of the cornerstones of therapy of chronically coughing dogs. They are especially important when the cough is non-productive, and are often of considerable benefit when longterm coughing is interfering with the patient’s ability to exercise and even to sleep. In such cases, the continued airway irritation caused by coughing can lead to more coughing, and thus can perpetuate a vicious cycle, which can be temporarily broken by anti-tussive agents. The primary drugs effective as anti-tussives are centrally acting opiate derivatives, which act on the cough center of the brain to depress its response to cough stimuli. Hydrocodone bitartrate (1.25-5 mg PO up to QID) is effec144


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tive and widely used. It is a DEA Schedule CIII drug. Its main side effect is mild sedation, which can, however, prove to be helpful in some patients. Other prescription drugs, such as butorphanol tartrate (0.05-0.1 mg/kg PO, BID-QID) are also effective, with less central nervous system depression. Non-prescription drugs such as dextromethorphan (1-2 mg/kg PO, TID-QID) are available in various human proprietary cough mixtures, and play a useful role in symptomatic treatment of chronic cough.

Drugs may not effectively be distributed to all parts of the lower respiratory tract if the patient is dyspneic, and the mask may not be tolerated by animals that are having difficulty breathing in the midst of a respiratory crisis. Thus, in an emergency aerosol administration should not be used instead of parenteral drug therapy, but rather as an adjunct in addition to parenteral drugs. If there is concern about possible cardiomyopathy in cats, inhaled albuterol may be a good option for bronchodilation that avoids systemic drug levels. Similarly, aerosolization of fluticasone may represent a good option if corticosteroids are contraindicated, eg in a diabetic cat.

Aerosolization of drugs Bronchodilators (albuterol) and corticosteroids (fluticasone) are both available as inhalers which can be administered on a long-term basis at home to chronically coughing dogs and cats. The advantages of inhaled therapy are the administration of drugs locally to the respiratory tract, with minimal systemic absorption and therefore minimal toxicity. Possible disadvantages include insufficient distribution to the most diseased areas of the lung, and increased cost and labor intensity to the client. Administration involves the use of a face-mask and a spacer into which the drugs are aerosolized.

References available from the author on request

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Upper airway obstruction: emergency stabilization Lesley G. King MVB, Dipl ACVECC, Dipl ACVIM, Pennsylvania, USA

Patients with varying degrees of partial airway obstruction usually have a fairly typical presentation. The hallmark clinical sign of upper airway obstruction is the presence of an audible noise during breathing. Forced movement of air through narrowed airways results in generation of loud sounds that can easily be heard without a stethoscope. Animals with laryngeal disease often make a rasping noise that is worse during inspiration, which is termed stridor. In contrast, animals with nasal, pharyngeal or soft palate disease tend to make of a snoring noise that can occur during either inspiration or exhalation, which is termed stertor. Animals with laryngeal disease often have a history of a change in sound quality of their bark. The pattern of respiration can also provide some useful information about the location of the respiratory disease. Animals with dynamic upper airway obstruction (for example laryngeal paralysis) tend to have prolonged inspiratory efforts as they try to move air into the lungs through the narrowed part of the airway. The respiratory rate may not be greatly increased above normal, but there is increased respiratory effort, sometimes associated with rhythmical opening of the mouth towards the end of each inspiration. In these animals, the expiratory phase of respiration is often completely normal as the pressure changes in the airway tend to “blow open” the larynx during exhalation. In contrast, animals with fixed upper airway obstructions, for example brachycephalic dogs or those with airway masses, tend to have trouble during both inhalation and exhalation. The condition of animals with upper airway obstruction is often considerably worsened by stress or exercise. Even slight increases in oxygen demand can result in serious problems for some of these patients. Increased respiratory drive stimulates an increase in respiratory effort, which results in generation of greater negative pressure within the airway. Negative pressure within the airway tends to exacerbate collapse of the upper airway at the site of the obstruction, much as would happen if attempts are made to suck on a straw that is blocked at the end. The more the animal tries to inhale against the obstruction, the worse the airway obstruction becomes. A vicious cycle of progressive obstruction and dyspnea therefore ensues, that can spiral out of control within minutes. Dyspnea can also be profoundly worsened by the presence of hyperthermia. Increased activity of the respiratory muscles, combined with stress associated with high ambient temperatures and excitement, often results in significant elevation of the body temperature of these patients. Normal

thermoregulation in the dog involves evaporative cooling as water evaporates from the surface of the tongue during panting. In animals with upper airway obstruction, there may be minimal to no movement of air over the surface of the tongue, considerably restricting their ability to thermoregulate. The higher the body temperature becomes, the more they attempt to pant, resulting in generation of even greater swings in airway pressure, and further worsening of the airway obstruction. Extreme hyperthermia can have serious consequences including disseminated intravascular coagulation and shock. Animals with upper airway obstruction are prone to the development of secondary pulmonary complications that can also exacerbate respiratory distress. The most common complication is aspiration pneumonia, particularly if the laryngeal function is abnormal and the airway is therefore unprotected. Regurgitation and vomiting are common consequences in these patients as a result of aerophagia, further exacerbating the risk of aspiration. The other common pulmonary complication is the development of non-cardiogenic pulmonary edema due to profound negative pressure within the thorax and poorly understood changes in vascular permeability. Thus, animals with partial airway obstructions frequently present with a chronic history suggesting that airway disease has been present for a prolonged period of time. The acute presentation is often associated with a sudden and rapid decompensation to respiratory distress that is often triggered by stress, exercise, excitement, hyperthermia, or the development of pulmonary complications.

INITIAL STABILIZATION Upper airway obstruction can represent a crisis that must be managed aggressively but very carefully. The first priority is to provide immediate oxygen supplementation, using methods that will be tolerated by the patient. Dyspneic animals may not accept placement of a mask over the muzzle, and typically are not calm and stable enough for nasal cannula placement. Alternate methods that are usually reasonably well tolerated include “flow-by” oxygenation, oxygen hoods and oxygen cages. Care must be taken that the chosen method of oxygen supplementation does not result in a further increase in body temperature. Its also important to recognize that increasing the percent of inspired oxygen does not actually change the volume of air being moved past the 146


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obstruction per minute, therefore the carbon dioxide levels in the blood do not go down. Thus, although oxygenation may improve, the sensation of dyspnea in the patient is usually unchanged. One of the next highest priorities is to obtain secure vascular access, if possible, without causing too much additional stress to the patient. As soon as possible, a short catheter should be placed in a peripheral vein such as the cephalic or saphenous. Obtaining vascular access allows intravenous drug administration and provides a route for crisis management should the patient decompensate or even suffer a respiratory arrest. This is of particular importance if stressful diagnostic testing such as radiography is being attempted. Placement of the catheter also is an opportunity to obtain a small blood sample from the hub of the catheter to run an emergency database consisting minimally of a PCV, TS, blood glucose and azostix. If available, venous blood gases and electrolyte determination can also provide valuable information at the same time. Rectal temperature should be measured as soon as possible, and hyperthermia treated aggressively to minimize the additional respiratory drive generated by attempts to pant. The occurrence of heat-induced complications is directly related to the degree of temperature elevation and the duration of hyperthermia. Cooling methods can include soaking the patient with cool water, placement of ice packs, administration of cool intravenous fluids, alcohol on the pads of the feet, and placement of fans blowing cool air on the patient. The rectal temperature should be re-measured every 15 minutes, as the temperature can drop very quickly using these methods. Cooling should be discontinued once the temperature reaches 103ÂşF, as the temperature often continues to drop a few degrees, and hypothermia should be avoided. Since stress and excitement also exacerbate respiratory distress, sedatives play an important role in management of these patients. Calming the animal decreases the respiratory drive and therefore partially relieves the obstruction of the airway. If possible, the animal should be placed in a quiet environment and handling kept to a minimum. Sedative drugs must be administered cautiously, however, because of the risk of complications in these unstable animals. High doses of sedatives can result in decreased blood pressure if hypovolemia is present. Similarly, excessive decreases in respiratory drive can sometimes precipitate respiratory arrest. Narcotics can sometimes cause panting which should be avoided if possible. If any sedative is to be administered, preparations should be made to deal with a respiratory or cardiac arrest, should it occur. The most effective and first line sedative in this population is usually acepromazine, administered in much lower doses than usual (start with 0.01 mg/kg IV, repeat if needed every 10 minutes up to a total dose of 0.05 mg/kg IV). Acepromazine, even if given intravenously, has a slow onset of action and will require at least

10 minutes to reach its full effect. If acepromazine alone does not provide enough sedation, the addition of diazepam (0.25-0.5 mg/kg IV) and/or butorphanol (0.2-0.5 mg/kg IV) will often have an excellent calming effect in these patients. If sedation does not result in an improvement in the patient’s condition within 20-30 minutes, general anesthesia may be required (see below). Efforts should be made to decrease inflammation within the upper airway, pharynx and larynx. Short-acting intravenous corticosteroids therefore have an important role in management of these patients. A single anti-inflammatory dose of corticosteroids rarely has serious negative effects, but caution should be exercised if aspiration pneumonia or other serious infections might be present. The author often administers a single dose of dexamethasone sodium phosphate (0.1 mg/kg IV) at presentation. Other short-acting steroids at equipotent doses may also be used. Intravenous fluid therapy is important in animals with signs of hypovolemia. Considerable fluid losses can occur in these patients associated with hypersalivation, vomiting or regurgitation, and overheating. In addition, vasodilation as a result of hyperthermia can result in relative hypovolemia. Hypovolemic and/or distributive shock are common. The aggressiveness of fluid therapy depends on the severity of cardiovascular distress and also the presence of lung complications. If there is no lung disease, the patient can be treated with shock doses of intravenous fluids. If aspiration pneumonia or non-cardiogenic pulmonary edema are present, then fluid therapy should be considerably restricted and catecholamines such as dopamine should be used to support cardiovascular function. Finally, in patients that are collapsed or heavily sedated, good patient positioning can significantly improve their ability to move air past an obstruction. Placement in sternal recumbency allows maximal ability to move both sides of the chest wall and optimizes ventilation:perfusion matching. Lateral and dorsal recumbency should be avoided if possible. Stretching out the head and neck decreases airway resistance in the trachea by avoiding kinking. Propping the mouth open further decreases airway resistance, as does pulling the tongue forward out of the mouth to decrease pharyngeal obstruction by the base of the tongue. This type of patient positioning can be used during the initial stabilization of the patient, and also during recovery from anesthesia.

References available from the author on request

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Cara vecchia anestesia per inalazione... forse né così vecchia né così cara. L’utilizzo dell’anestesia a bassi flussi in medicina veterinaria Adriano Lachin Med Vet, Venezia

La scarsa conoscenza nei confronti degli strumenti del nostro lavoro è una carenza purtroppo comune non solo tra gli anestesisti veterinari ma anche tra i colleghi medici anestesisti. Le moderne macchine per l’anestesia hanno raggiunto un livello di precisione ed efficienza fino a qualche anno fa impensabile: macchine per l’anestesia dotate di procedure di autocontrollo e autotest gestiti da software sempre più sofisticati in grado di verificare, ad ogni accensione, il corretto funzionamento di ogni componente del sistema, di flussimetri di precisione gestiti elettronicamente, sistemi di erogazione degli anestetici inalatori sempre più precisi anche con flussi di gas freschi minimi e di ventilatori in grado di offrire le più avanzate modalità ventilatorie, sono troppo spesso male o perlomeno sotto utilizzate, nella maggior parte dei casi l’anestesista si limita ad agire con abbondanza di flussi di gas freschi sull’erogazione fornita (regolata con fine quanto inutile precisione dai moderni flussimetri, elettronici o meno) in alcuni casi sulla ghiera del vaporizzatore, in molti altri sulla regolazione delle pompe infusionali per la somministrazione del farmaco ipnotico. Non tutti conoscono le importanti differenze funzionali tra un circuito a non rirespirazione ed un circuito rotatorio con calce sodata e soprattutto, le enormi potenzialità in termini di efficienza che quest’ultimo è in grado di offrire nella gestione delle tecniche di anestesia a bassi flussi. Cosa si intende per “anestesia a basso flusso”?: Se vogliamo tenere conto non solo del volume dei flussi freschi erogati ma anche dell’efficienza del sistema respiratorio utilizzato e dell’uptake totale del paziente, dobbiamo fare riferimento alla quota di rirespirato piuttosto che ai FGF Possiamo quindi indicare una tecnica di anestesia a basso flusso come una tecnica di anestesia inalatoria dove il FGF viene ridotto in maniera tale da portare la percentuale di “rebreathing” pari almeno al 50% del volume dei gas espiratori. Solitamente vengono distinte tre tecniche di anestesia a basso flusso: a) Anestesia a basso flusso b) Anestesia a flusso minimo c) Anestesia in circuito chiuso

b) Il FGF è uguale al volume totale di gas consumato dal paziente più le eventuali perdite del circuito c) La percentuale di rirespirazione è pari al 100%. In ossequio alla legge sulla costante di tempo, rapidi aumenti della concentrazione di anestetico nel circuito respiratorio, richiedono aumenti opportuni del flusso di gas freschi. Ognuna di queste tecniche è comunque caratterizzata da una prima fase breve, di induzione, dove vengono utilizzati alti FGF per saturare il circuito ed eliminare quasi completamente l’azoto, alla quale poi segue la fase di mantenimento, in cui viene effettivamente impiegata una delle differenti tecniche a bassi flussi Le tecniche di anestesia inalatorie contemplano storicamente l’utilizzo del protossido d’azoto nella composizione del FGF, allo stato attuale, con il continuo perfezionarsi delle tecniche di anestesia bilanciata, gli effetti di potenziamento sull’ipnosi ed analgesia offerti da questo gas possono vantaggiosamente essere sostituiti da altri farmaci somministrati in infusione continua quali ad esempio oppioidi ed α2-agonisti ed aumentando adeguatamente la concentrazione di alogenato. I vantaggi in termini di sicurezza per il paziente e gli operatori derivanti dalla eliminazione del protossido d’azoto sono indiscutibili, senza contare il non trascurabile risparmio economico.

ANESTESIA A BASSI FLUSSI In questa tecnica di anestesia il FGF durante la fase di mantenimento è pari a 1 L/min; a fronte di una fase iniziale della durata di circa 10 min. dove viene utilizzato un FGF di circa 4 L/min (miscela di aria e ossigeno) – dopo 10 min. il FGF viene ridotto a 1 L/min. (miscela aria ossigeno) e tale, salvo diverse esigenze, viene mantenuto. La tecnica di anestesia a bassi flussi, avendo a disposizione un monitoraggio multi-gas completo, è alla portata di tutti, anche non disponendo di macchine per l’anestesia all’avanguardia e particolarmente sofisticate, è ovviamente importante che il sistema sia affidabile, il più possibile privo di perdite e soggetto a manutenzione accurata. Ritengo comunque indispensabile anche in questa tecnica di anestesia a bassi flussi considerata di facile esecuzione, l’utilizzo di un monitoraggio completo dei gas, di una scatola flusso metrica di precisione e di un vaporizzatore ben calibrato ed in grado di erogare correttamente anche a flussi inferiori ai 500 ml.

Nell’anestesia a basso e minimo flusso: La percentuale di rirespirazione è maggiore del 50% Nell’anestesia a circuito chiuso: a) Il volume espirato viene rirespirato completamente nella successiva inspirazione (previa eliminazione della CO2) 148


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b) Flussimetri di alta precisione nel range di regolazione ai bassissimi flussi c) Ventilatore che lavori correttamente indipendentemente dal FGF erogato d) Possibilità di poter utilizzare anestetici inalatori come il Sevofluorano o ancor meglio Desfluorano Le considerazioni da fare sarebbero ancora numerose e di fondamentale importanza per una corretta comprensione di questa particolare tecnica di anestesia inalatoria; l’anestesia a circuito chiuso resta comunque una tecnica di anestesia avanzata, che richiede sistemi per l’anestesia avanzati e un monitoraggio inderogabilmente completo di tutte le funzioni respiratorie, una approfondita conoscenza da parte dell’operatore delle leggi che regolano la farmacocinetica e la farmacodinamica dei gas anestetici oltre che una maturata esperienza delle tecniche di anestesia a bassi e minimi flussi, esperienza che deve essere a mio avviso considerata propedeutica all’utilizzo del circuito chiuso.

Per quanto riguarda la composizione in percentuale della miscela aria/ossigeno un importante parametro di riferimento è costituito dal monitoraggio dell’ossigeno inspirato la cui percentuale non deve scendere al di sotto del 30%, con una percentuale auspicabile compresa tra il 35-45%.

ANESTESIA A FLUSSO MINIMO In questa tecnica di anestesia il FGF durante la fase di mantenimento è ridotto a 0,5 L/min. Secondo Virtue che la introdusse nel 1974, si procede con una prima fase caratterizzata dalla somministrazione di alti FGF (1,5 L/min O2 e 3,5 L/min N2O) della durata di 15-20 minuti, alla quale segue una seconda e duratura fase dove il FGF viene ridotto a 0,5 L/min. (0,3 L/min O2 e 0,2 L/min N2O). Eliminando il protossido d’azoto e sostituendolo con aria, la prima fase può durare solo 10 minuti. Questa tecnica permette, rispetto a quella a bassi flussi, un migliore utilizzo dei sistemi a non-rirespirazione, ottenendo il migliore compromesso tra la semplicità e la facilità di esecuzione della tecnica a bassi FGF e i vantaggi estremi offerti dalla complessa ed avanzata tecnica a circuito chiuso.

Vantaggi delle tecniche di anestesia a bassi flussi a) b) c) d) e)

Riduzione dei costi per risparmio dei gas anestetici Minore inquinamento ambientale Migliore climatizzazione delle vie aeree Maggiore attenzione nei confronti del paziente Acquisizione di una maggiore preparazione nei confronti dell’anestesia inalatoria f) Miglioramento della qualità della macchina per l’anestesia g) Acquisizione di un sistema di monitoraggio strumentale completo h) L’elevata costante di tempo rappresenta un eccellente fattore di sicurezza nei confronti di errori di impostazione accidentali del vaporizzatore

ANESTESIA A CIRCUITO CHIUSO L’anestesia a circuito chiuso rappresenta una estremizzazione delle tecniche di anestesia a bassi flussi, dove, una volta terminata la fase iniziale ad alto flusso, l’erogazione di aria viene interrotta mente l’ossigeno viene erogato in quantità esattamente uguale a quella consumata dal paziente, la valvola di scarico dei gas in eccesso resta chiusa e l’intero volume espirato viene nuovamente immesso nel circuito previa assorbimento della CO2. Il consumo di ossigeno corrisponde circa a quello basale ed è quasi costante e si può calcolare in maniera approssimativa con la formula di Brody, mentre il consumo di protossido d’azoto, qual’ora lo si volesse utilizzare, può essere calcolato con la formula di Severinghaus, ma è soprattutto il consumo di anestetico a rappresentare la maggiori incognite e variabili, anche se può essere calcolato anch’esso in maniera approssimativa dalla formula di Lowe; si tratta comunque sempre di un approccio “non quantitativo” all’anestesia a circuito chiuso, l’anestesia a circuito chiuso “quantitativa” può essere praticata solo se la somministrazione di gas anestetici viene regolata elettronicamente con un sistema di controllo a feed-back, dove la composizione di gas freschi ed il suo volume, corrispondono esattamente all’uptake del paziente. Vi sono macchine per l’anestesia a completa gestione elettronica appositamente dedicate all’anestesia in circuito chiuso di tipo quantitativo, mentre per cercare di gestire un anestesia a circuito chiuso non quantitativa occorre utilizzare sistemi che garantiscano almeno i seguenti requisiti: a) Alto grado di impermeabilità sia del sistema respiratorio che del ventilatore

Requisiti tecnici per una conduzione sicura dell’anestesia a FGF ridotti Una macchina per l’anestesia moderna ed affidabile in grado di garantire: a) Flussimetri calibrati, capaci di erogare con precisione flussi di gas molto bassi b) Vaporizzatori compensati in funzione del FGF erogato e della temperatura ed in grado di compensare l’effetto “pompa” c) Circuiti respiratori privi di perdite (<100 mxmin-1 a una pressione di 20 mbar) d) Presenza di un pallone di riserva per compensare eventuali perdite di volume nel corso dell’anestesia e) Ventilatori in grado di lavorare correttamente a FGF ridotti e di eseguire la compensazione dei flussi, il calcolo della compliance ed il test delle perdite in maniera affidabile Un monitoraggio completo del paziente: a) Monitoraggio continuo della pressione di picco e del volume espirato b) Monitoraggio completo dei gas respirati (Fi / Fe di CO2, gas anestetici, ossigeno)

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L’alotano rappresenta ormai il passato, l’isofluorano il presente, ed il futuro?... sevofluorano e desfluorano: il ruolo dei moderni anestetici inalatori in anestesia veterinaria Adriano Lachin Med Vet, Venezia

Nel 1954, la sintesi del’alotano fu una importante scoperta e il suo successivo utilizzo clinico ha sicuramente rivoluzionato l’anestesia generale inalatoria, in seguito, tra gli anni 60 e 70, vennero sintetizzati numerosi composti alogenati e tra questi l’isofluorano, che presentava e presenta tuttora delle ulteriori caratteristiche migliorative rispetto all’alotano. Ultimamente nuovi anestetici sono stati messi a disposizione dell’anestesista, quali il sevofluorano e più recentemente il desfluorano. Il sevofluorano è caratterizzato da una solubilità sanguetessuti molto bassa che gli conferisce delle ottime capacità di indurre rapidamente sia l’ipnosi che il risveglio, nonché la possibilità di passare rapidamente da un piano anestesiologico ad una altro anche lavorando a bassi flussi di gas freschi. Questa caratteristica l’ha reso il primo anestetico volatile realmente idoneo per le tecniche di anestesia a bassi flussi. La bassa solubilità unitamente ad un odore non irritante e non sgradevole, lo rende particolarmente idoneo per l’induzione in maschera in quelle specie ove questa opzione possa essere praticabile. Il Sevofluorano reagisce con la calce sodata con formazione del composto A (potenzialmente nefrotossico e neurotossico). Purtroppo il costo decisamente più elevato rispetto all’isofluorano, lo rende ancora poco diffuso nella pratica anestesiologica veterinaria. Nel desfluorano, grazie ad una solubilità ancora più bassa rispetto al sevofluorano, la velocità con cui è possibile approfondire od alleggerire il piano anestesiologico, anche continuando a lavorare a flussi minimi, è ancora maggiore:

il basso coefficiente di ripartizione sangue/gas del desflurane determina che una bassa quota di farmaco si solubilizza nel sangue; ciò induce una più rapida salita o discesa nella concentrazione alveolare di questo alogenato ogni qualvolta si desideri modificarne rapidamente il piano anestesiologico; altro non trascurabile vantaggio del desfluorano rispetto ad altri anestetici volatili a rapida insorgenza d’azione, è che il desflurane risulta spiccatamente resistente alla degradazione da parte della calce sodata, appare quindi evidente come il questo moderno anestetico inalatorio rappresenti allo stato attuale la migliore opzione farmacologica per la conduzione di una anestesia inalatoria con la tecnica a “circuito chiuso”. A concentrazioni superiori a 6-7%, il desfluorano risulta irritante per le vie aeree producendo apnea, tosse, ipersecrezione e/o laringospasmo all’induzione, rendendolo così poco idoneo per l’induzione in maschera. Il desflurane possiede un metabolismo d’organo praticamente assente che ne permette l’impiego in qualunque paziente con grave patologia renale ed epatica; possiede inoltre limitati effetti collaterali sul sistema cardiovascolare e respiratorio sempre comunque facilmente e rapidamente reversibili titolandone la concentrazione inspiratoria. La pressione di vapore del desfluorano a 20 °C è di 669 mmHg ed il punto di ebollizione a pressione atmosferica è di 22,8 °C: caratteristiche che richiedono uno specifico vaporizzatore, pressurizzato e riscaldato. Purtroppo il costo di questo anestetico è realmente proibitivo per la nostra realtà lavorativa, considerando anche il fatto che occorre acquistare specifici vaporizzatori termostatati.

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Brain tumors: where are we now? Richard A. LeCouteur DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Neurology), Dipl ECVN, California, USA

ADVANCES IN CONVENTIONAL THERAPY

Intracranial tumors occur relatively frequently in dogs, and are less common in cats. With the availability of computed tomography (CT) and magnetic resonance imaging (MRI), accurate determination of location and extent of brain tumors in companion animals has become more frequent. Following these advances in imaging, precise CTguided stereotactic techniques for both tumor biopsy and intratumoral drug delivery have been developed for use in cats and dogs. Also, tumor identification methods, such as crush preparation examination, have facilitated rapid tumor identification. The use of improved diagnostic techniques has resulted in an increasing demand for effective therapies for brain tumors. While surgical removal and irradiation remain important treatment considerations in the management of brain tumors of cats and dogs, the development of targeted therapies, and gene therapy strategies, for treatment of intracranial tumors offers fascinating promise, although research in this area remains preliminary in nature. The major goals of brain tumor therapy are: (1) to eliminate a tumor, or at least reduce its size, and (2) to control secondary effects of a tumor (e.g., increased intracranial pressure [ICP] or cerebral edema). Palliative therapy for animals with a brain tumor consists of glucocorticoid administration for edema reduction, and in some cases (e.g., lymphoma), for retardation of tumor growth. Should seizure therapy be required, phenobarbital is the drug best suited for the control of generalized seizures in dogs and cats.

Improved pre-surgical imaging capabilities, together with improved surgical techniques and equipment, are likely to lead to some modest improvements in prognosis, particularly for readily accessible extra axial tumors. Conventional chemotherapy has advanced very little in both the human and veterinary fields in the last 2 decades. Use of adjunctive chemotherapy such as hydroxyurea in the treatment of meningioma, either following surgery or following recurrence post surgery may be beneficial, however no objective data are available at this time. The only “new� chemotherapeutic agent to be approved for the treatment of human glioma in the last 2 decades is the alkylating agent temozolamide (Temodar), however clinical gains are small. It is unclear whether Temodar offers any significant advantages over standard (much cheaper!) alkylating agents such as CCNU in dogs with gliomas. Although few data are available to make specific conclusions, radiation therapy is generally accepted to be the most useful adjunctive or sole therapy (where surgery is not possible), particularly for intra-axial tumors. Standard radiation treatment involves 15-20 fractionated doses of radiation over a 3-4 week treatment course, and significant expense. Advances in the ability to deliver radiation to tumors while sparing normal brain (e.g., intensity modulated radiation therapy or IMRT) are likely to result in improved survival, and are becoming available at a limited number of veterinary institutions. More advanced stereotactic radio-surgical techniques such as the Gamma Knife and LINAC knife deliver very high doses of radiation to tumors in a single treatment while sparing normal tissues. These facilities are available to veterinarians at only a small number of research facilities, however this is likely to change in the next several years. Radiation involving a single treatment, and therefore a single anesthesia, has many potential benefits for veterinary patients. Preliminary studies in dogs with brain tumors suggested that single dose radiosurgery may be as effective as standard fractionated radiation treatment in selected tumors.

CONVENTIONAL THERAPY Conventional therapeutic approaches to brain tumors have involved a combination of surgical debulking/resection, chemotherapy, and radiation therapy. A large body of clinical data exists in human medicine pertaining to the relative efficacy of these therapies for specific tumors, together with the expected prognosis. Very little similar objective information is available for the dog, even relating to the normal progression of brain tumors in the absence of treatment. Small case study series, lack of ante mortem (or post mortem) diagnoses, differing treatment plans, the high degree of variability associated with an end point often defined by euthanasia, and variation in clinical severity at presentation have made the comparison of canine and human data very difficult.

MOLECULAR DIAGNOSTICS AND TARGETED THERAPY Over the past 15- 20 years, there has been a large effort to understand the specific molecular abnormalities underlying 151


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areas including expression and altered regulation of growth factor pathways; tumor suppressor gene function; telomerase activity, gene array expression profiling and chromosomal alterations. The recent release of the canine genome data will help enormously in promoting this basic research and help ensure that the veterinary profession is able to benefit from current and future advances in human brain tumor therapy, as well as potentially playing an integral part in both basic and applied clinical research.

the development and progression of human primary brain tumours. Many of these abnormalities involve tumor suppressor genes, oncogenes, and pathways involved in cell cycle regulation and angiogenesis. This has had an impact in two major ways. 1. By defining tumors in terms of their molecular characteristics, it has been possible to further classify apparently histologically identical tumors into separate groups. This has had a major impact on the ability to predict prognosis and response to conventional therapies. For example, many oligodendroglial tumors exhibit loss of chromosomes 1p and 19q. Loss of 1p or combined loss of 1p and 19q is associated with increased chemosensitivity and increased survival. Over expression of the epidermal growth factor receptor (EGFR) insulin like growth factor receptor (IGF1R) in gliomas is associated with radio resistance; similarly, over expression of the vascular endothelial growth factor (VEGF) and its receptors (VEGFR) is associated with a poor prognosis. The ability to predict response to treatment based on the presence or absence of specific molecular markers has taken clinical pathology/histology to a new level and not only helps to select appropriate patients for specific treatments, but also helps to more realistically assess efficacy of therapeutic regimens which may have appeared ineffective when applied to a “mixed” population of uncharacterized and potentially inappropriate tumors.

DELIVERY OF THERAPEUTIC AGENTS A wide variety of methods have been employed to deliver therapeutic agents to brain tumors. Many strategies have involved systemic delivery of agents either orally or intravenously. Some drugs (e.g., standard chemotherapeutic agents) are relatively non-specific with respect to their potential targets, whereas others (e.g., small molecule tyrosine kinase inhibitors such as Gleevac) may have a more precisely defined target despite the systemic delivery. Even with the use of targeted therapies, the likelihood of significant systemic side effects is a major concern with drugs delivered in this manner. Ability of drugs to cross the blood brain barrier is also a factor that can significantly limit the efficacy of systemically delivered therapies, and many factors such as molecular weight, permeability of vasculature, drug stability and diffusion characteristics as well as tumor related factors are critical to attain effective cellular levels of anti tumor drugs. Local “targeted” delivery of therapies directly into tumor tissue has been advocated as a way to increase both the efficacy of many therapeutic agents whilst at the same time decreasing the likelihood of significant systemic toxicity. Therapeutic agents may be delivered directly at surgery following excision/debulking of tumors, or by stereotactic injection. Recent advances in injection of agents by convection enhanced delivery (CED) (over several hours), have shown great promise, and may allow highly accurate and comprehensive delivery of therapeutics to a defined area of tumor and/or surrounding brain. Preliminary results with CED using a novel chemotherapeutic agent CPT-11 (topoisomerase I inhibitor) in an ongoing clinical trial in dogs with spontaneous gliomas are encouraging, and demonstrate the feasibility of targeted delivery in veterinary patients.

2. Because of the relatively poor response of many primary brain tumors to conventional therapies, many novel approaches have been designed. Many of these approaches target the molecular abnormalities known to be present in specific tumors such as replacing abnormal or absent tumor suppressor gene function (e.g., TP53), or inhibiting growth factors known to be important in angiogenesis or tumor growth (e.g., VEGF, EGF). If appropriate pathways are present, such targeted treatments can be extremely effective, as has been shown in the remarkable success of ST1571 (“Gleevac”) in the treatment of chronic myeloid leukemia. (ST1571 targets the constitutively activated BCR-ABL tyrosine kinase receptor). Many similar treatments are currently in development and clinical trials in brain tumor patients. Additionally, over expression of markers specific to brain tumors can be used to target non-specific therapeutics such as toxins or more conventional chemotherapeutic agents. Gene therapy using viral vectors such as adenovirus, retrovirus and adeno-associated virus has also been assessed in both experimental and clinical tumors. The ability of many viruses to transduce tumor cells (or normal brain) depends on many factors including appropriate cell surface targets. Generation of promoter specific viral constructs also adds an additional targeting step helping ensure that therapeutic gene expression occurs only in the appropriate cell types.

Recommended Reading Higgins R.J., McKisic M., Dickinson P.J., Jimenez D.F., Dow S.W., Tripp L.D., LeCouteur R.A. Growth inhibition of an orthotopic glioblastoma in immunocompetent mice by cationic lipid-DNA complexes. Cancer Immunol Immunother 2004;53:338-344. Varenika V, Dickinson PJ, Bringas J, LeCouteur RA, Higgins RJ, Park J, Fiandaca M, Berger M, Sampson J, Bankiewicz K. Real-Time Imaging of CED in the Brain Permits Detection of Infusate Leakage. J Neurosurg 2008;109:874-880. Dickinson PJ, Sturges BK, Roberts BN, Leutenegger CM, Bolen AW, LeCouteur RA. Vascular endothelial growth factor mRNA expression and peritumoral edema in canine primary central nervous system tumors. Vet Pathol 2008;45:131-139.

There is little published data documenting the molecular characteristics of canine brain tumors, however several research groups currently are involved in work in several 152


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Sturges BK, Dickinson PJ, Bollen AW, Koblik PD, Kass PH, Kortz GD, Vernau KM, Knipe MF, LeCouteur RA, Higgins RJ. Magnetic resonance imaging and histological classification of intracranial meningiomas in 112 dogs. J Vet Int Med 2008;22 (3):586-595. Westworth DR, Dickinson PJ, Vernau W, Johnson EG, Bollen AW, Kass PH, Sturges BK, Vernau KM, Le Couteur RA, Higgins RJ. Choroid plexus tumors in 56 dogs (1985-2007). J Vet IntMed 2008;22(5):1157-1165. Dickinson PJ, Surace EI, Cambell M, Higgins RJ, Leutenegger CM, Bollen AW, LeCouteur RA, Gutmann DH. Expression of the tumor suppressor genes NF2, 4.1B and TSLC1 in canine meningiomas. Vet Pathol;46:884-892. MacLeod AG, Dickinson PJ, LeCouteur RA, Higgins RJ, Pollard RE. Quantitative assessment of blood volume and permeability in cerebral mass lesions using dynamic contrast-enhanced computed tomography in the dog. Acad Rad;16:1187-1195. Valles F, Fiandaca M, Bringas J, Dickinson PJ, LeCouteur RA, Higgins RJ, Berger M, Forsayeth J, Bankiewicz. Anatomical compression due to

high volume convection-enhanced delivery J Neurosurg 2009; 65 (3):579-586. Higgins R J, Dickinson PJ, LeCouteur RA, Bollen AW, Wang H, Corely LJ,. Moore LM, Zang W,Fuller GN. Spontaneous canine gliomas: overexpression of EGFR, PDGFRalpha and IGFBP2 demonstrated by tissue microarray immunophenotyping J Neuro-oncol 2010;(E Pub ahead of print). Dickinson PJ, LeCouteur RA, Higgins RJ, Bringas J, Larson RF, Yamashita Y, Krauze MT, Forsayeth J, Noble CO, Drummond DC, Kirpotin DB, Park JW, Berger MS, Bankiewicz KS. Canine spontaneous glioma: A translational model system for convection-enhanced delivery. Neurooncol 2010; (In Press).

Address for correspondence: Richard A. LeCouteur University of California, Davis, California, USA

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Refractory epilepsy: a rational e practical approach Richard A. LeCouteur DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Neurology), Dipl ECVN, California, USA

Seizure disorders occur frequently in dogs and cats. Estimates of seizure incidence during a lifetime vary from 0.5% to 5.7% of all dogs, and from 0.5% to 1.0% of all cats. Discussion of seizure disorders of all types must precede consideration of the clinical management of epilepsy. Such a broad approach is necessary because dogs and cats with a seizure disorder frequently have similar histories and physical signs despite a wide variety of underlying causes of cerebral dysfunction (including epilepsy). Similarities in clinical histories of dogs or cats with a seizure disorder reflect the similar pathophysiological mechanisms that underlie seizure disorders of all types.

General Principles of Anticonvulsant Therapy. Prevention of seizures in cats or dogs with epilepsy is a pharmacological problem in clinical veterinary medicine. Surgical therapy for uncontrolled epilepsy as applied in humans has not yet been reported for use in animals. Prior to initiation of therapy for seizures induced by epilepsy, every reasonable effort must be made to rule out either extracranial or progressive intracranial causes for the seizures.

DIAGNOSTIC APPROACH

Seizure Frequency. The seizures observed in epileptic animals occur with varying frequency, and two general approaches exist regarding the institution of anticonvulsant therapy. Some authors state that therapy should not be started before the recurrent nature of the disease has been established. This means that at least two seizures should have been observed. Otherwise animals may be treated that would not have had additional seizures. However, there may be sound biological reasons for beginning treatment after the first seizure. Experience in human epilepsy indicates that when this is done, seizure control may be more effective.

Decisions Regarding the Need for Anticonvulsant Therapy. Many factors must be considered prior to the initiation of anticonvulsant therapy. The most important considerations are seizure frequency, seizure character, and owner factors.

A comprehensive case history, complete physical and neurological examinations, and a minimum data base consisting of results of hematological and serum chemistry analyses should be obtained for all animals suspected of having a seizure disorder, even if only one seizure has been observed. On the basis of this information a list of differential diagnoses should be made. Further clinical laboratory, toxicological, or radiographical procedures may be indicated after the results of these initial tests are known [Table 1].

Character of Seizures. In certain instances, early and aggressive control of seizures is required. For example, in those animals where preictal and postictal phases are characterized by intolerable changes in personality (eg, aggression) or in excretory behavior.

ANTICONVULSANT THERAPY Appropriate therapy for a seizure disorder depends on accurate determination of the cause of the seizures. Treatment with anticonvulsants is indicated for animals with idiopathic epilepsy. Seizures resulting from a structural brain disorder (progressive intracranial disease) require additional therapy, depending on the cause of the disease (eg, neoplasia or inflammation). Anticonvulsants usually are contraindicated in animals with extracranial causes of seizures, where therapy should be directed towards the primary cause of the seizures (eg, hypoglycemia).

Owner Factors. In veterinary practice, the decision for or against anticonvulsant therapy ultimately must be made by the owner of an epileptic dog or cat. This decision should be based on information and advice provided by a veterinarian. An owner should be fully informed about the nature of the disease and its treatment in terms that are easily understandable. The owner should have a realistic knowledge of the objectives of anticonvulsant therapy because frequently an owner will expect successful therapy to be curative with complete elimination of seizures. An owner must appreciate the need for regular administration of an anticonvulsant drug and also understand that an animal may require medication for the remainder of its life. Cost of medication and regular assessments by a veterinarian should be discussed. Alterations in dosage without prior consultation must not occur.

Objectives of Anticonvulsant Therapy. While the overall goal of anticonvulsant therapy is to eradicate all seizure activity, this goal is rarely achieved. Most dogs and cats benefit from anticonvulsant medication by reduction in frequency, severity, and duration of their seizures. A realistic goal is to reduce seizure frequency to a point that is acceptable to an owner without intolerable or life-threatening adverse affects to the animal. 154


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TABLE 1 - Diagnostic Approach for Seizures.

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Omission of a single dose may result in severe relapses and sometimes status epilepticus. Although seizure frequency and severity will be reduced in the majority of cats or dogs that receive anticonvulsant medications, a proportion of animals (perhaps as high as 20-30%) may not be controlled adequately despite intensive medical management. With high dosages of anticonvulsant medications, the risk of druginduced complications increases and must be weighed against the benefits of therapy. Once therapy has begun, a prescribed dosage schedule must be followed exactly. An owner should have a detailed knowledge of expected undesirable effects of anticonvulsant medications. Knowledge of these factors is essential for a high and intelligent degree of cooperation between an owner and veterinarian. Euthanasia of an animal should be considered when an owner cannot commit to supervision and lifetime treatment of a dog or cat with severe epilepsy.

dency to become more frequent and severe in such animals when control is not attempted. When seizures have not occurred in a dog or cat for a period of 6-12 months, a cautious reduction of dosage may be attempted. Such a reduction must be done slowly. In rare instances, a dog or cat may remain free of seizures after withdrawal of drug therapy. There are few alternatives to the use of pharmacological agents in the control of seizures. Acupuncture, either as a sole therapy or in conjunction with conventional anticonvulsant therapy, has been recommended by several authors. Results of these reports are encouraging, and it is likely that acupuncture will be used with increasing frequency as an adjunctive therapy to conventional anticonvulsant therapy in dogs in the future.

GENERAL RECOMMENDATIONS FOR ANTICONVULSANT THERAPY

The efficacy of an anticonvulsant depends on its serum concentration, because this determines its concentration in the brain. Therapeutic success can be achieved only when serum concentrations of a given anticonvulsant are consistently maintained within a therapeutic range. Therefore, anticonvulsants that are eliminated slowly must be employed. The elimination half lives of the various anticonvulsants differ considerably between different species. Few of the anticonvulsant drugs used for the treatment of epilepsy in people are suitable for use in dogs and cats.. This is largely because of differences in pharmacokinetics of antiepileptic drugs in animals and in humans. Some drugs are metabolized so rapidly that it is not possible to reach consistently high serum concentrations, even with very high doses. For many drugs, pharmacokinetic data and/or clinical experience is lacking in cats, which usually metabolize anticonvulsants more slowly than dogs.

SELECTION OF AN ANTICONVULSANT MEDICATION

In general, owners should be encouraged to begin anticonvulsant medication in epileptic dogs or cats that are known to have had one or more seizures within an eight week period. Treatment is not routinely advised in animals with seizures that occur less frequently than once every eight weeks, as owners of such animals often do not follow instructions diligently and may treat animals only intermittently. Certain owners, however, are so distressed by seizures that occur in their pet that they are willing to medicate an animal daily despite a history of infrequent seizures. In animals that have had only one seizure, institution of therapy may be delayed. Such a delay may permit the seizure interval to become apparent, thereby providing a basis for a decision regarding the need for therapy and also for an assessment of the efficacy of therapy once it is initiated. Exceptions to these recommendations are made for animals that have seizures in clusters or episodes of status epilepticus even though the interval between clusters may be greater than eight weeks. The seizure episodes have a ten-

Address for correspondence: Richard A. LeCouteur University of California, Davis, California, USA

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Neurology in the genetic tests era: how can they help in daily practice? Richard A. LeCouteur DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Neurology), Dipl ECVN, California, USA

THE FELINE GENOME

Recent advances in molecular genetics have enabled the ongoing development of genetic tests that may be used for the diagnosis and prevention of neurological diseases in humans and animals.

The feline genome currently is being sequenced. As opposed to dogs, where selective breeding for many centuries has created hundreds of distinct breeds, most cat breeds have been created within the past century. In addition, breed development often has been based on single gene traits, such as coat color or type. Thus, cat breeds, and their genes, tend to be more homogeneous than dog breeds, resulting in fewer breed specific genetic diseases and morphologic differences.

THE CANINE GENOME The original compiled dog genome was released to the public in July 2004. To date, approximately 98% of the dog genome has been sequenced. Information contained in the canine genome enhances the ability of scientists to examine the genetic basis for traits and diseases by providing a basic blueprint to work with. In addition, the dog genome may be compared with that of other mammals, including human beings, and data from such studies may be used to determine the evolution of various species (comparative genomics). The implications for veterinary medicine of the sequencing of the canine genome are many, and include: improved diagnostic capabilities using genetic testing, increased understanding of disease and trait pathogenesis, and new opportunities to develop gene therapy strategies.

GENETIC TESTS Recent advances in technology have permitted scientists to identify the genetic basis for many diseases and traits in dogs and cats. Currently there are more than 100 breed- and DNA-based testing combinations for inherited diseases and traits in dogs, and several such combinations are available for cats. Many such tests are used for the identification of disorders affecting the nervous system. Examples of diseases that affect the nervous system, where commercial tests are available for inherited diseases and traits, are listed for dogs (Table 1) and cats (Table 2).

TABLE 1 - Examples of inherited traits and diseases of dogs where commercial tests are available. Disease/Trait Canine globoid cell leukodystrophy Canine muscular dystrophy Centronuclear myopathy Ceroid lipofuscinosis Degenerative myelopathy “Exercise induced collapse” Fucosidosis Globoid cell leukodystrophy GM1 gangliosidosis Myotonia congenita Narcolepsy Neuronal ceroid lipofuscinosis

Breeds Cairn terrier, West Highland white terrier Golden retriever Labrador retriever Border collie Boxer, Cardigan Welsh corgi, Chesapeake Bay retriever, German shepherd, Pembroke Welsh corgi, Rhodesian ridgeback, Standard poodle Labrador retriever English Springer spaniel Cairn terrier, West Highland white terrier Portugese water dog Miniature Schnauzer Dachshund, Doberman Pinscher, Labrador retriever Border Collie

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TABLE 2 - Examples of inherited traits and diseases of cats where commercial tests are available. Disease/Trait Glycogenosis type IV Mannosidosis Mucopolysaccharidosis VI Spinal muscular atrophy

Breeds Norwegian Forest cat Domestic long-haired and short-haired, Persian Siamese Maine Coon

DNA TEST FOR DEGENERATIVE MYELOPATHY

taken seriously. It is a fatal disease with devastating consequences for the dogs and a very unpleasant experience for the owners who care for them. Thus, a realistic approach when considering which dogs to select for breeding would be to consider dogs with the A/A or A/G test result to have a fault, just as a poor top-line or imperfect gait would be considered faults. Dogs that test A/A should be considered to have a worse fault than those that test A/G. Dog breeders could then continue to do what conscientious breeders have always done: make their selections for breeding stock in light of all of the dogs’ good points and all of the dogs’ faults. Using this approach over many generations should substantially reduce the prevalence of DM while continuing to maintain or improve those qualities that have contributed to the various dog breeds. It is recommended that dog breeders take into consideration the DM test results as they plan their breeding programs; however, they should not over-emphasize this test result. Instead, the test result is one factor among many in a balanced breeding program.

The collaborative efforts of Dr Joan Coates and Dr Gary Johnson and associates at the University of Missouri and Dr Kirsten Lindblad-Toh and Dr Claire Wade and associates at the Broad Institute at MIT/Harvard have resulted in identification of a mutation that is a major risk factor for the development of degenerative myelopathy in many breeds of dogs. This DNA test clearly identifies dogs that are clear (have 2 normal copies of the gene), those who are carriers (have one normal copy of the gene and one mutated copy of the gene), and those who are at much higher risk for developing DM (have 2 mutated copies of the gene). A gene has been discovered that is a major risk factor for degenerative myelopathy (DM). In the gene, the DNA occurs in two possible forms (or alleles). The “G” allele is the predominant form in dog breeds in which DM seldom or never occurs; you can think of it as the “Good” allele. The “A” allele is more frequent in dog breeds for which DM is a common problem; you can think of it as the “Affected” allele. Since an individual dog inherits two alleles (one from the sire and one from the dam) there are three possible test results: two “A” alleles; one “A” and one “G” allele; and, two “G” alleles. Test results can be A/A, A/G, or G/G. In the seven breeds studied so far (Boxer, Chesapeake Bay Retriever, German Shepherd Dog, Pembroke Welsh Corgi, Cardigan Welsh Corgi, Rhodesian Ridgeback, and Standard Poodle), dogs with test results of A/G and G/G have never been confirmed to have DM. Essentially all dogs with DM have the A/A test result. Nonetheless, many of the dogs with an A/A test result have not shown clinical signs of DM. Dogs with DM can begin showing signs of disease at 8 years of age, but some do not show signs until they are as old as 15 years of age. Thus, some of the dogs that have tested A/A and are now normal may still develop signs of DM as they age. However, a few 15-year-old dogs that tested A/A are not showing the clinical signs of DM. Unfortunately, at this point there is not a good estimate of what percent of the dogs with the A/A test result will develop DM within their lifespan. In summary, dogs that test A/G or G/G are very unlikely to develop DM. Dogs that test A/A are much more likely to develop DM. The “A” allele is very common in some breeds. In these breeds, an overly aggressive breeding program to eliminate the dogs testing A/A or A/G might be devastating to the breed as a whole because it would eliminate a large fraction of the high quality dogs that would otherwise contribute desirable qualities to the breed. Nonetheless, DM should be

GENE THERAPY Gene therapy involves the introduction of genes (DNA) or RNA by various means to restore the normal (or almost normal) phenotype to an individual with an inherited disease. Opportunities for the correction of inherited diseases have resulted from increased knowledge regarding the molecular basis of inherited diseases in dogs, and to a lesser degree in cats. For example, gene therapy has been successful for lysosomal storage diseases in dogs and cats, permitting subsequent clinical trials in humans. Gene therapy also may be used for the treatment for diseases without a defined inherited basis.

SUMMARY The wealth of of genetic resources available to veterinarians is continually expanding. Many screening and diagnostic genetic tests are available to assist veterinarians in providing informed medical advice to animal owners. With the sequencing of the canine, and soon the feline, genome, more genetic tests are likely to become available for use in dogs and cats. Such genetic information will not only facilitate diagnosis and prevention of diseases through selective breeding, but may also lead to clinically feasible gene therapies. 158


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References

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Address for correspondence: Richard A. LeCouteur University of California, Davis, California, USA

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Lumbosacral instability and foraminal stenosis: solved or unsolved problems? Richard A. LeCouteur DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Neurology), Dipl ECVN, California, USA

ETIOLOGY AND PATHOGENESIS

cauda equina compression had radiographic and pathologic abnormalities compatible with osteochondrosis of the sacral end-plate.

Lumbosacral vertebral canal stenosis (also called lumbosacral instability, lumbosacral malformation/ malarticulation, lumbar spinal stenosis, lumbosacral spondylolisthesis, and cauda equina syndrome) is a term that encompasses a spectrum of disorders that result in narrowing of the lumbosacral vertebral canal with resulting compression of the cauda equina. The term cauda equina syndrome describes a group of neurologic signs that results from compression, destruction, or displacement of those nerve roots and spinal nerves that form the cauda equina by a variety of causes, including lumbosacral vertebral canal stenosis. The term lumbosacral vertebral canal stenosis is used by this author to describe an acquired disorder of large breeds of dog that results from several or all of the following: type II disk protrusion (dorsal bulging of the annulus fibrosus), hypertrophy and/or hyperplasia of the interarcuate ligament, thickening of vertebral arches or articular facets, and (infrequently) subluxation/instability of the lumbosacral junction. It is likely that several separate disorders currently are included within this single syndrome. Other terms have been used to describe this syndrome, including lumbosacral spondylolisthesis, lumbar spinal stenosis, and lumbosacral instability. In humans, the term spondylolisthesis refers specifically to a forward (anterior) movement of a lower lumbar vertebra relative to a lumbar vertebra or sacrum directly below it. This problem rarely occurs in dogs, in which the most frequently encountered problem is a ventral “slippage” of the sacrum relative to the body of the L7 vertebra. The term retrolisthesis has been proposed to describe this “reverse spondylolisthesis” of dogs. Lumbar spinal stenosis is a term that perhaps is best used to describe a congenital (“idiopathic”) syndrome reported to occur in young dogs. Lumbosacral instability is a misleading term, as instability is not demonstrated consistently in association with lumbosacral vertebral canal stenosis. Certain similarities between vertebral and soft tissue alterations seen in dogs with lumbosacral vertebral canal stenosis and Doberman pinscher dogs with caudal cervical spondylomyelopathy have been noted. As the etiology and pathogenesis for either condition are incompletely understood, such comparisons are of little significance at the present time. Recently, an association has been reported between lumbosacral stenosis and transitional vertebrae in German shepherd dogs. In another recent report, more than 30 per cent of German shepherd dogs with clinical signs of

CLINICAL FINDINGS Acquired degenerative lumbosacral vertebral canal stenosis occurs most commonly in largebreed dogs especially German shepherd dogs. Males appear to be affected more frequently than females. Dogs with the congenital (“idiopathic”) form appear to be of the smaller breeds. Affected dogs in both categories are between 3 and 7 years of age, although the problem may occur at any age. Degenerative lumbosacral vertebral canal stenosis rarely is recognized in cats. Signs of cauda equina compression seen frequently in affected dogs include the following: apparent pain on palpation of the lumbosacral region, on caudal extension of the pelvic limbs, or on elevation of the tail; difficulty rising; pelvic limb lameness (often unilateral); pelvic limb muscle atrophy; paresis of the tail; scuffing of the toes; urinary and/or fecal incontinence, or “inappropriate” voiding due to an inability to assume a voiding posture; self-mutilation of the perineum, tail, or pelvic limbs; and rarely, paraphimosis. These signs most often are insidious in onset and progress gradually over months, and they are easily confused with those of hip dysplasia or degenerative myelopathy. Abnormalities detected on neurologic examination include gait deficits related to sciatic nerve paresis (e.g., dragging of toes). In addition, depression or loss of conscious proprioception, normal or slightly exaggerated patellar reflexes (“pseudoexaggeration” related to loss of antagonism to femoral nerve-innervated muscles by sciatic nerve-innervated muscles), depressed or absent flexion reflexes in pelvic limbs, decreased anal tone and anal sphincter reflexes, atonic bladder, hypesthesia of the perineum and tail, and muscle atrophy may be seen. These abnormalities relate to deficits of the sciatic, pudendal, caudal, and pelvic nerves, whose nerve roots comprise the cauda equina.

DIAGNOSIS Characteristic clinical findings may be consistent with a diagnosis of degenerative lumbosacral vertebral canal stenosis. Careful mapping of areas of loss of cutaneous sensation may assist in determining involved nerve roots. However, 160


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presence of this syndrome must be confirmed by means of plain radiographs and special radiographic procedures. Rarely can this condition be diagnosed on the basis of plain radiographic findings alone. Plain radiographic findings include spondylosis deformans ventral and lateral to the lumbosacral articulation, sclerosis of vertebral end-plates, “wedging” or narrowing of the L7Sl disk space, and secondary degenerative joint disease in the region of L7-S1 articular facets. Ventral displacement of the sacrum with respect to L7 (“retrolisthesis’’) and diminished dorsoventral dimensions of the lumbosacral spinal canal may be seen; however, such findings must be interpreted with caution, as they may be seen in normal dogs in association with slight rotation of the vertebral column on lateral radiographs. Every effort must be made to ensure that such rotation does not occur during exposures for lateral radiographic projections. General anesthesia is mandatory for obtaining radiographs of the lumbosacral vertebral column. A ventrodorsal projection also is recommended. “Stressed” plain radiographic projections (flexed and extended views), completed with careful attention to avoid rotation, often assist in determining the presence of instability or “retrolisthesis. Several attempts to separate normal dogs from dogs with lumbosacral vertebral canal stenosis by means of objective measurements made from radiographs have not been successful. Appearance on plain radiographs helps to eliminate other causes of cauda equina syndrome (e.g., diskospondylitis or vertebral neoplasia). Linear tomography, when available, may provide specific information regarding the diameter of the lumbosacral vertebral canal that cannot be obtained from plain radiographs. Electromyography may complement information available from a neurologic examination and from plain spinal radiographs by confirming denervation in muscles innervated by the nerves of the cauda equina. Motor nerve conduction velocity determinations in sciatic and tibial nerves and measurement of evoked spinal cord potentials may also provide indirect evidence of cauda equina dysfunction. Several contrast radiographic techniques exist for examination of the lumbosacral vertebral canal. Use of such techniques is necessary for demonstration of soft tissue vertebral canal stenosis. Myelography most often is useful in the diagnosis of lumbosacral problems, as the terminal portion of the subarachnoid space of dogs may fill with contrast material at this level. Transosseous vertebral sinus venography (filling of vertebral sinuses with contrast material) and epidurography (filling of the lumbosacral epidural space with contrast material) have been used by many investigators in an attempt to outline soft tissue stenosis of the lumbosacral vertebral canal. Results obtained with either of these techniques must be interpreted cautiously, as falsely positive studies occur with both. A technique that is useful for confirmation of lumbosacral soft tissue stenosis is diskography. Diskography consists of radiography completed following the injection of contrast material into the nucleus pulposus of an intervertebral disc.

This technique has special application to the lumbosacral disk space. Computed tomography, either alone or combined with the contrast techniques listed above, and MRI, may provide further information regarding soft tissue stenosis of the lumbosacral vertebral canal, particularly with regard to the L7S1 intervertebral foramen. Surgical exploration may be indicated in dogs (with appropriate history and clinical signs) in which results of ancillary diagnostic tests do not provide a definite diagnosis of soft tissue stenosis.

TREATMENT Some affected dogs in which clinical signs are mild or in which apparent lumbosacral pain is the sole problem improve temporarily after strict confinement and restricted leash exercise for a period of 4 to 6 weeks. Use of analgesic drugs or corticosteroids has been recommended; however, their use must be accompanied by strict confinement. Clinical signs commonly recur in affected dogs treated only by means of medical therapy. Dogs with recurrence of signs, or dogs that are moderately to severely affected at the time of initial presentation (especially those with urinary/ fecal incontinence), should be considered candidates for surgical therapy. Dorsal decompressive laminectomy of L7 and S1 vertebrae is recommended. This procedure may be combined with foraminotomy or facetectomy in dogs in which compression of spinal nerves at the level of the intervertebral foramina is suspected. In animals with radiographically confirmed instability or significant retrolisthesis, fusion of the lumbosacral articulation may be necessary. A dorsal approach for fusion has been recommended. Dogs should be confined for 2 to 4 weeks postoperatively. Postoperative complications include seroma formation at the surgical site and formation of a laminectomy scar at the site of the laminectomy. Both may be avoided by use of appropriate surgical technique and postoperative patient management. Attention to bladder emptying may be necessary in dogs with bladder atony prior to surgery. The bladder should be manually expressed three times daily in such dogs. Urine should be submitted for culture and sensitivity testing prior to and 2 weeks after completion of surgery, and appropriate antibiotic therapy instituted as indicated by results. Prognosis for affected dogs is dependent on the severity of signs prior to surgery. Return to normal function may be expected in dogs that are mildly affected prior to surgery. Dogs with bladder atony or a flaccid anal sphincter prior to surgery have the poorest prognosis.

Address for correspondence: Richard A. LeCouteur University of California, Davis, California, USA

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Pure isomers instead of racemic mixtures: is this the future of anaesthesia or just an expensive fashion? Olivier L. Levionnois DVM, Dr Med Vet, Dipl ECVAA, Berna (CH)

“No doubt most anesthesiologists have long since deliberately forgotten the nomenclature nightmare of stereochemistry, once learned from the pages of their now dusty organic chemistry textbooks. Stereochemistry, and more specifically chirality, are more relevant to anesthesia practice today than ever before”(Egan 1996). “Isomers are molecules that have the same numbers of the same kind of atoms arranged in different ways. There are two major categories of isomers: constitutional (or structural) isomers and stereoisomers. Stereosisomers have identical sets of atoms that are configured in the same positions but are arranged differently spatially. Enantiomers are stereoisomers bearing a mirror image relationship. The pharmacological complication caused by drug racemates is that their component enantiomers usually have different pharmacodynamic effects and different pharmacokinetic properties. Enantioselective pharmacology can occur at any site in the body where a drug interacts with an endogenous chiral centre. The purpose of this presentation is to give some examples where drug chirality is pharmacologically significant to potency, uptake, distribution and elimination” (Mather 2005). The chosen examples are the anesthetic and analgesic drugs, atracurium as structural isomers, and medetomidine, methadone, bupivacaine, ropivacaine and ketamine as stereoisomers. “There are 3 main sets of nomenclature used to describe stereochemistry in drugs. OPTICAL ACTIVITY (ca 1830s): right (or clockwise) and left (or counter-clockwise) planepolarized light rotating substances can be referred as (+) and (-), respectively, and dextro- (or d-, dex-) and laevo- (or l-, lev-, levo-), respectively. This is arbitrary, and the same molecule may rotate plane-polarized light in one direction when dissolved in one solvent and in the opposite direction when dissolved in another solvent. THE FISCHER CONVENTION (ca 1919): a molecule’s configuration at its asymmetric centre is related to, or could be degraded to, (+)-glyceraldehyde, which was arbitrarily assigned a “D” configuration; if the direction of planepolarized light rotation was the reverse of (+)- glyceraldehyde, it was assigned an “L” configuration. “D” and “L” are still widely used in sugar and amino acid chemistry. THE CAHN-INGOLD-PRELOG CONVENTION (1955), the preferred and currently recommended nomenclature, is unequivocal: this method gives a sequence of priority to the 4 atoms or chemical groups attached to a tetrahedral chiral centre from largest to smallest size. If, when viewed from

the side opposite the atom or chemical group with the smallest atomic number, the remaining 3 have a highest to lowest (molecular weight) arrangement is in a clockwise direction, the molecule is assigned an R- (Rectus = right) configuration and if, highest to lowest is anticlockwise, the molecule is assigned an S- (Sinister = left) configuration. Unfortunately, many currently available drugs may be referenced in the literature as (+) or (-), d or l, dex- or levo-, D or L and R or S with corresponding racemates referred to as (±)-, dl-, D,L- and RS-, or just rac-. Thus, the nomenclature of drugs in the literature is a mixture of all three systems” (Mather 2005). Most naturally occurring substances and body receptors are stereoselective. Artificially synthetised drugs are not, because chemical processes used to produce them have the same probability to deliver one or the other enantiomer as an end-product, leading to racemic mixtures. “The pharmacological complication caused by drug racemates is that their component enantiomers usually have different pharmacodynamic effects and different pharmacokinetic properties. Moreover, the body itself is a chiral environment due to its structures being made of numerous chiral components (e.g. natural amino acids, sugars). Thus, although the racemate is administered as “a pure drug”, the body recognizes the racemate as 2 (or more) different drugs and allows them to behave as essentially independent entities with respect to their actions, distribution and elimination. Hence the effect / side-effect profile depends upon the dominating local concentration of the dominating enantiomer, i.e. both pharmacokinetic and pharmacodynamic properties of both enantiomers need to considered” (Mather 2005). “The development of clinically useful isomers can, then, be foreseen as a progress, when a therapeutic advancement can be defined and proved to be linked to the application of one of the pure isomers” (Kochs 1997). The benzylisoquinolinium muscle relaxants, such as atracurium, have two identical heterocyclic groups linked through an ester-containing carbon chain. Each of the heterocyclic groups contains a planar ring with groups that may be arranged in either the trans- or cis- conformation. Atracurium is formulated as a mixture of 10 stereoisomers, resulting from the presence of four chiral centres. Cis-atracurium is one of the 10 stereoisomers present in atracurium. This group of muscle relaxant is often favored according to their advantageous pharmacokinetic like their relatively independency from liver and renal metabolism. However, their high potential for anaphylactoïd reactions leads to cardiovascular com162


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plications. Cis-atracurium shows the least potentential for histamine- and tryptase-release, and therefore the better cardiovascular stability (Soukup, Doenicke et al. 1997). “This isomer, cis-atracurium, offers clinical advantages over the atracurium mixture, principally due to the lack of histaminereleasing propensity and the higher neuromuscular blocking potency” (Nigrovic, Diefenbach et al. 1997). “The α2-agonist medetomidine is an equal mixture of two optical enantiomers, dexmedetomidine and levomedetomidine. The latter is generally considered to be pharmacologically inactive. The selectivity of the active isomer dexmedetomidine is greater for the α2-receptor than the α1-receptor, compared with the racemate” (Murrell and Hellebrekers 2005). However, complete inactivity of the isomer levomedetomidine is controversial, even if it has been clearly established that only very high dose may lead to potential sedative and analgesic effects. Results on comparison between medetomidine and dexmedetomidine in several species generally shows very little differences regarding sedative, analgesic or physiological effects. Some studies suggest that if levomedetomidine effects are not observable in conscious dogs, it reduces the sedative and analgesic effects of dexmedetomidine, and enhances bradycardia. Therefore, dexmedetomidine is hypothesized to show a better pharmacodynamic profile than the racemate medetomidine (Kuusela, Vainio et al. 2001). Methadone is also a racemic mixture of two enantiomers. Levomethadone has long been described as the pharmacologically active form. Interestingly, dexmethadon has been demonstrated to bear high binding affinity to N-methyl Daspartate (NMDA) receptors, when its affinity to mu opioidreceptors is very low. If levomethadon can be recommended when only opioid effects are targeted, the racemic mixture could actually provide some benefits for analgesic therapy combining opioid and NMDA-antagonistic properties. “For bupivacaine, a widely used amide local anaesthetic, important enantiomeric differences can be found for toxicity, clinical effect and pharmacokinetics. In particular, S-(-)bupivacaine (levobupivacaine) has an improved central vervous system and cardiac safety profile. This is partly explained by the pharmacokinetic differences. Based on these differences, ropivacaine, a propyl homologue of bupivacaine, has been produced sololy as the S-(-)-enantiomer. The available evidence suggests significantly improved safety for this agent over racemic bupivacaine” (Sidebotham and Schug 1997). “The incidence of intoxication by these drugs is a rare but catastrophic event – Ropivacaine appears to be

the safest long-acting local anaesthetic” (Graf 2001). Moreover, “ropivacaine provides more differential block when given epidurally, allowing for a better separation between sensory and motor block. This feature can be used to its advantage in obstetrics and in postoperative epidural pain relief“ (Stienstra 2003). Ketamine is well known as a racemic mixture of S(+)- and R(-)-ketamine. “Studies in rats and mice have shown that S(+)-ketamine is approximately 3 times more potent than R(-)-ketamine. Studies in man have indicated that, with equi-anaesthetic doses, R(-)-ketamine anaesthesia is associated with a greater incidence of restlessness, tachycardia and psychic emergence reactions” (Enantioselective behavior of drugs used in domestic animals: a review. Landoni J vet pharmacol 1997 1-16). The hypothesis that S(+)-ketamine enhances more desirable effects (analgesia, anaesthesia) and R(-)-ketamine more undesirable one (tachycardia, excitation, increased intracranial pressure) could be validated in several species, even thought the results are often mild or unclear. S(+)-ketamine was also found in several species to exhibit a shorter elimination half-life, leading to less potential for accumulation and a better profile for continuous intravenous administration.

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Let’s talk about ketamine… again. Can we teach an old dog new tricks? Olivier L. Levionnois DVM, Dr Med Vet, Dipl ECVAA, Berna (CH)

cokinetic also helps to provide species-specific dose regimen based on evidence rather than based on non-verified extrapolations (Kohrs and Durieux 1998; Eide 2000).

Ketamine is a drug that has been around for a long, long time. In many ways, it is a drug that provides a “complete” anesthetic in that it combines sedation, amnesia and pain relief. At the same time, it has fewer tendencies to depress airway reflexes than some of the other commonly used anesthetic agents, a property still appreciated from veterinary practitioners when the animal is left without endo-tracheal tube. With improving minimal safety requirements, development of invasive surgical procedures and development of newer intravenous induction agents with short duration of action made the use of isoflurane anaesthesia growing, and ketamine tends to lose its leader position. On the other side, ketamine became again a new subject of discussion in the past decade as its mechanism of action and clinical properties are better understood (Kohrs and Durieux 1998).

KETAMINE ENANTIOMERS, S(+)KETAMINE BETTER THAN KETAMINE? As discussed in the previous abstract, ketamine is a racemic mixture of S(+)- and R(-)-ketamine. It has been shown that the use of S(+)-ketamine could improve the pharmacokinetic profile with a shorter duration of action and a lesser potential for accumulation. Moreover, S(+)-ketamine would induce less of the common side-effects of ketamine like excited recovery, tachycardia and increased intra-cranial pressure. Even though these advantages are still poorly investigated in clinical setting for domestic species, this could contribute to improve the use of ketamine (Adams and Werner 1997; Himmelseher and Pfenninger 1998).

ANALGESIC ADJUVANT/PRE-EMPTIVE ANALGESIA? It has always been clear that ketamine provides analgesia via a different mechanism when compared to opioids. More and more evidence is piling up that this antagonistic action on NMDA receptors has beneficial effects. For example, it is a common observation clinically that some patients have pain that is resistant to opioids. There is some evidence to suggest that this resistance is the result of the activation of NMDA receptors in the perioperative period. Several studies in man showed ketamine in low dose is an effective adjunct for analgesia. The study also showed that there was a lack of significant side effects at the low doses given. What is interesting is that they found that the effects of low dose ketamine lasted past the known plasma half-life of ketamine. This suggests that ketamine may play a role in preventing opioid tolerance and reducing central sensitization in the face of pain. Similar findings have been reported elsewhere. The postulation that ketamine can provide analgesia while at the same time inhibiting NMDA activation (that might then prevent central sensitization and future hyperalgesia) is an active area of interest for many current researchers. Early results are promising - but much work remains to be done. More and more, analgesic infusion rate for peri- and postoperative continuous intravenous delivery are recommended. However, these dosages are extrapolated from studies conducted in man. Newer information on ketamine pharma-

KETAMINE AND NEUROLOGIC PATIENTS When an important amount of animals enter veterinary emergency services with history of road accident or other cause of head trauma, the dogma established from long date contraindicating the use of ketamine in patient at risk for elevated intracranial pressure contributed to its limitations. However, it seems that its neuroprotective actions have led to a reevaluation of this issue. When effects of ketamine on intracranial pressure, on cerebral blood flow and on neuroprotection and neuroregeneration are studied, it has been suggested that ketamine may be appropriate therapy in patients with acute cerebral ischemia/hypoxia. The literature suggest that S(+)- ketamine especially may have neuroregenerative properties. On another side, an important concern regarding the use of ketamine in early stages of life (neonates to young individuals) and potential neurodegenerative effects on developing central nervous system have been pointed out. The awareness pointing on Ketamine in this regard came from the large amount of preclinical studies conducted in laboratory animals. However, there are no data to support recommending that any anesthetic or regimen is safer than any other (Himmelseher and Durieux 2005). 164


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these two drugs provided pain relief for some surgeries beyond the duration of either the ketamine or the local anesthetic. Specifically, the need for supplemental post-operative analgesia was reduced. Details on mechanism of action and effective benefits remain to be studied. Also, the optimal dose of ketamine as an adjunct to peripheral nerve block is unknown. However, the suggestion that a very low dose of ketamine (low enough to avoid side effects) might have significant implications for post-operative care is once again intriguing (Kohrs and Durieux 1998).

KETAMINE AS ADJUNCT IN CENTRAL BLOCKADE? Ketamine has also been described as an effective adjunct for epidural and spinal anaesthesia. Preservative-free ketamine has been studied to prolong the duration of effect of bupivacaine, and can be expected to add anti-hyperalgesic effects via its NMDA-antagonist activity. Several clinical studies reported beneficial effects of ketamine as adjunct to local anaesthetics or opioids by epidural route. However, reports of potential neuryxial toxicity of ketamine are present and lead to a controversial issue. De Limaa et al. to conclude, that while it would be prudent then to continue to advise caution when administering ketamine intrathecally or epidurally, and to recommend strongly against the inclusion of any preservative/anti-oxidant in such injections, the continued study of low doses of ketamine (in low concentrations) in epidural injections and infusions in both animals and humans should be encouraged and not proscribed (Pedraz, Calvo et al. 1991; Himmelseher, Ziegler-Pithamitsis et al. 2001).

Bibliografia Adams, H. A. and C. Werner (1997). “[From the racemate to the eutomer: (S)-ketamine. Renaissance of a substance?].” Anaesthesist 46(12): 1026-42. Eide, P. K. (2000). “Wind-up and the NMDA receptor complex from a clinical perspective.” Eur J Pain 4(1): 5-15. Himmelseher, S. and M. E. Durieux (2005). “Revising a dogma: ketamine for patients with neurological injury?” Anesth Analg 101(2): 524-34, table of contents. Himmelseher, S. and E. Pfenninger (1998). “[The clinical use of S-(+)-ketamine—a determination of its place].” Anasthesiol Intensivmed Notfallmed Schmerzther 33(12): 764-70. Himmelseher, S., D. Ziegler-Pithamitsis, et al. (2001). “Small-dose S(+)ketamine reduces postoperative pain when applied with ropivacaine in epidural anesthesia for total knee arthroplasty.” Anesth Analg 92(5): 1290-5. Kohrs, R. and M. E. Durieux (1998). “Ketamine: teaching an old drug new tricks.” Anesth Analg 87(5): 1186-93. Pedraz, J. L., M. B. Calvo, et al. (1991). “Pharmacokinetics and distribution of ketamine after extradural administration to dogs.” Br J Anaesth 67(3): 310-6.

KETAMINE AS ADJUNCT IN PERIPHERAL BLOCKADE? Low dose ketamine also appears to be a useful adjunct when the primary form of pain relief is peripheral nerve block. ketamine added to local anesthetic for regional block has been shown to be beneficial. Indeed, the combination of

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Cenni di fisiologia del ciclo riproduttivo della cagna e della gatta e principali cause d’infertilità Giovanni Majolino Med Vet, SMPA, Collecchio (Parma)

I cicli riproduttivi della cagna e della gatta presentano notevoli differenze dal punto di vista fisiologico e quindi anche clinico e pratico. Nella cagna la pubertà avviene mediamente intorno ai 9 mesi (dai 6 ai 24 mesi), con notevoli differenze a seconda della taglia di appartenenza e di tipo razziale oltre che soggettivo. Nelle piccole taglia è più facile che si abbia una pubertà più precoce anche attorno ai 6 mesi mentre al contrario nelle taglie giganti è più facile che tale limite possa essere posticipato anche dopo l’anno di età. Si ritiene patologico un anaestro primario oltre i 24 mesi. Nella gatta la pubertà è condizionata dalla stagione in cui il soggetto ha l’età minima per poter avere la prima manifestazione estrale. Nella gatta i calori si manifestano durante le stagioni con maggior ore di luce (fotoperiodismo) mentre nel tardo autunno e inverno si ha una fase di riposo ovario fisiologico. Se la gatta raggiungerà i 6 mesi di età durante il periodo di maggior fotoperiodismo sarà stimolata ad andare in calore precocemente, al contrario se tale età è raggiunta durante la stagione autunnale-invernale attenderà la primavera per entrare in pubertà. Eccezione può essere fatta in quei soggetti che possono essere stimolati da ore di luce artificiale supplementari, anche durante il periodo invernale. Nella cagna il ciclo si articola in 4 fasi: Proestro-EstroDiestro-Anaestro. Il periodo di “calore” comprende le fasi di Proestro ed Estro a cui segue una fasi di Diestro seguita a sua volta da una fase, piuttosto lunga, di Anaestro, definita di riposo ovario. L’intervallo tra i cicli è mediamente di 6 mesi, con un range che và dai 3 mesi ai 12 e più. Il Prostro dura mediamente 9 giorni inizia con le prime perdite ematiche vaginale accompagnate da un turgore vulvare e vaginale, in questa fase c’è già attrazione sessuale da parte dei maschi anche se la cagna rifiuta i tentativi di monta. Il Proestro è caratterizzato, dal punto di vista ormonale, da un aumento degli estrogeni. Il termine del Prostro e l’inizio dell’Estro si ha in funzione di un graduale aumento del Progesterone e una corrispondente graduale diminuzione del tasso ematico degli Estrogeni. La vulva appare meno edematosa e la cagna si dimostra più disponibile alle attenzioni del maschio. Nella fase di estro conclamato la cagna accetta l’accoppiamento e l’ovulazione è preceduta di 48 ore da un aumento del tasso ematico del Progesterone a 2 ng/ml corrispondente al picco dell’Lh (Ormone Luteinizzante). L’ovulazione è testimoniata da un aumento del tasso del Progesterone ad un livello tra i 5 e 8 ng/ml.

Il termine dell’Estro e l’inizio del Diestro è segnalato dal primo giorno in cui la cagna non accetta più la monta e dal punto di vista ormonale, tale fase, è caratterizzata da un aumento del tasso ematico del Progesterone e un suo graduale declino nell’arco di 9 settimane circa. L’Anaestro inizia quando il progesterone ritorna ad un valore basale sotto i 2 ng/ml per mantenersi sotto 1 ng/ml per circa 4 mesi. Nella Gatta la stagione riproduttiva inizia non appena le ore di luce tendono ad aumentare (mediamente in febbraio) e dura fino a circa settembre. Il ciclo inizia con un aumento degli estrogeni testimoniati da un inequivocabile comportamento estrale della gatta che emette vocalismi ripetuti compiendo spesso movimenti di rollio sulla schiena e ricerca del maschio, il periodo di “calore” è contraddistinto da un brevissimo periodo di proestro (2-3 giorni) a cui segue una fase estrale vera e propria con recettività del maschio che dura alcuni giorni (3-5 giorni). Durante la fase estrale vera e proria la gatta si accoppia innumerevoli volte e il coito determina attraverso una stimolazione delle pareti vaginali l’ovulazione. Differenza sostanziale tra le due specie è che nella Cagna l’ovulazione è spontanea e nella gatta nell’85% dei casi indotta dal coito. Nel caso in cui la gatta non si accoppi durante la fase estrale seguirà un breve periodo di diestro a cui segue un nuovo periodo di “calore”. Nel caso in cui avvenga l’accoppiamento seguirà gravidanza e dopo il parto facilmente la gatta tornerà in calore. In alcuni soggetti l’allattamento caratterizzato da alte concentrazioni di Prolattina non permette il ritorno in calore ma in alcuni soggetti (30%) è possibile avere un ritorno in calore anche a breve distanza dal parto anche inj corrispondenza dell’allattamento. Le cause d’Infertilità nella Cagna sono molteplici e possono essere suddivise in cause di tipo infettivo, batteriche, virali, di tipo fisico, di tipo ormonale, di tipo genetico; tale cause rossore essere valide anche nel caso d’insuccesso nella gatta. Le cause di tipo batterico possono essere sia presistenti all’accoppiamento: endometrite sub-clinica, che con l’aumento del progesterone conseguente all’ovulazione, possono indurre uno stato infettivo dell’utero fino a sfociare in piometra (vedi relazione “Patologie uterine”), sia cause che subentrano durante la gravidanza x passaggio e colonizzazione dell’utero da parte di batteri che fanno ingresso durante l’estro con l’apertura della cervice. Le cause di tipo infettivo virale sono rappresentate per lo più dall’Herpes Virus che può determinare infertilità, riassorbimento, aborto o 166


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tipo genetico possono essere ricondotte a incompatibilità genetica tra il corredo cromosomico dei due partner o alterazioni genetiche cariotipiche che possonoe rendere i potenziali riproduttori sterili. Nel caso d’Infertilità del maschio le cause possono essere le stesse viste per la femmina. La sede di problemi di tipo infettivo potrà essere quella testicolare e/o prostatica. Per poter applicare un corretto iter diagnostico nel caso dell’infertilità della cagna e della gatta è necessario una raccolta di dati anamnestici più completa possibile, seguita una visita clinica accurata sia generale che particolare del tratto riproduttivo. La visita ginecologica della cagna infertile prevede anche l’uso di un endoscopio rigido per la valutazione del tratto vaginale e della cervice, nonché di tamponi camiciati per le colture cervicali e di un attento esame ecografico di ovaie e utero. Nel caso del maschio infertile oltra a dosaggi ormonali le informazioni maggiori saranno dedotte da uno spermiogramma completo altre che dall’esame ecografico del tratto riproduttivo.

motalità peri-natale. L’Herpes Virus è specie specifico e il suo contagio è banalmente attraverso il contatto tra le mucose sia oro-nasali che genitali. La localizzazione dell’Herpes è sulle mucose esterne in quanto il virus non sopravvive ad una temperatura superiore ai 37°. Nella gatta anche l’azione del virus della Leucemia Felina e dell’Immuno deficienza Felina nonché della Peritonite Infettiva possono determinare infertilità. Le cause di tipo fisico possono essere riconducibili ad alterazioni di tipo anatomico del tratto riproduttivo di tipo congenito od acquisto sia a carico di vagina che utero. Nel caso di anomalie dell’utero possono essere conseguenza di problemi del puerperio in seguito a gravidanze pregresse a cui conseguono alterazioni dell’endometrio che non consentono un annodamento degli ovuli fecondati o un mantenimento della gravidanza stessa. Le cause di tipo ormonale possono essere dovute a qualsiasi alterazione endocrina che si ripercuote sulla fertilità (Ipotiroidismo, Iper e Ipo-Adrenocorticismo, Diabete) o per insufficiente produzione di Progesterone per poter mantenere la gravidanza: Ipoluteinidismo. Quest’ultima condizione può essere diagnosticata mediante un attento monitoraggio dei tassi ematici durante la gravidanza ed eventuale terapia sostituitiva, in caso di diagnosi certa, mediante somministrazione di progesterone naturale o di sintesi. Le cause d’infertilità di tipo genetico andrebbero sempre prese in condizione, con attenzione, in caso d’insuccesso avendo escluso tutte le altre possibili cause. Le alterazioni di

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Progesterone nella cagna e nella gatta, sua funzione e differenze nelle due specie Giovanni Majolino Med Vet, SMPA, Collecchio (Parma)

Il progesterone è prodotto dai corpi lutei (struttura extraovarica) che si formano in conseguenza dello scoppio dei follicoli. Tale ormone rimane a concentrazioni elevate durante tutto il diestro nella cagna e durante l’intera gravidanza sia nella cagna che nella gatta. Nella cagna le concentrazioni sieriche del Progesterone, se rapportate alla superficie corporea, sono le più alte, confrontate con le femmine delle altre specie animali e per un periodo molto lungo (9 settimane di diestro o gravidanza). Tale caratteristica giustifica la percentuale elevata di disordini diestrali nella cagna indotte dal progesterone. (vedi relazione: “PATOLOGIE UTERINE (IPERPLASIA ENDOMETRIALE CISTICA, ENDOMETRITE, PIOMETRA)” Il tasso ematico del Progesterone nella cagna aumenta, da un valore inferiore a 1 ng/ml prima dell’inizio del calore, fino ad un picco di 30-60 ng/ml raggiunto tra i 15-25 giorni dopo l’inizio dell’estro. Il tasso ematico nel sangue periferico scende bruscamente sotto i 2 ng/ml tra le 36-48 ore prima del parto. Nella gatta le concentrazioni plasmatiche del progesterone sono basali durante l’anaestro, inter-estro, pro-estro e estro prima dell’ovulazione. Nelle gatte gravide o pseudogravide il progesterone plasmatico inizia ad aumentare dopo l’ovulazione, iniziando tra 24 ore e 50 ore dopo il picco dell’LH. Il picco ematico di tale ormone nella gatta è raggiunto tra i 20 e 25 giorni dopo l’accoppiamento raggiungendo delle concentrazioni di 30-65 ng/ml. Nelle gatte pseudogravide le concentrazioni plasmatiche del progesterone diminuiscono attorno al 25° giorno dal giorno dell’ovulazione raggiungendo concentrazioni basali attorno al 30°-40° giorno. Questo abbassamento graduale delle concentrazioni del progesterone è la caratteristica delle gatte in pseudogravidanza ovvero con ovulazione spontanea, o con ovulazione indotta dal coito senza che si insaturi una gravidanza reale.

Nella cagna in stato di pseudogravidanza l’unica differenza nei confronti della cagna gravida è che il tasso ematico del progesterone diminuisce gradualmente, ma sempre intorno alle 9 settimane post-ovulazione. Le principali azioni del Progesterone sono:a carico dell’endometrio: - favorisce lo sviluppo delle ghiandole endometriali, - stimola un certo grado di iperplasia endometriale, - permette l’inserzione della placenta con l’endometrio stesso, - rende quiescente l’utero inibendone la motilità del miometrio. Le azioni del Progesterone sono però anche di indurre un aumento del tasso ematico dell’ormone della crescita (GH) sia nella cagna che nella gatta. L’aumento del GH si ripercuote nelle due specie in modo diverso. Nella cagna l’Ormone Somatotropo ha come effetto quello di creare un certo grado di insulino-resistenza, nella gatta lo stesso ormone ha come organo bersaglio il tessuto mammario. Le conseguenze di tale andamento ormonale nella cagna sono di predisporla a una iperglicemia durante la fase diestrale, con possibilità di condizione diabetica con esordio nel diestro. Nella gatta l’aumento dei tassi plasmatici del Progesterone e di conseguenza del Gh può predisporre ad una fibroadenomatosi benigna o iperplasia mammaria benigna. (vedi relazione: “IPERGLICEMIA/DIABETE CON ESORDIO NEL DIESTRO NELLA CAGNA E FIBROADENOMATOSI BENIGNA NELLA GATTA, COSA HANNO IN COMUNE”)

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Patologie uterine del diestro nella cagna e nella gatta Giovanni Majolino Med Vet, SMPA, Collecchio (Parma)

La piometra è un’infezione localizzata all’interno dell’utero con raccolta di pus più o meno abbondante. Tale patologia fino a qualche anno fa veniva risolta solamente dal punto di vista chirurgico, rimovendo l’utero in quanto sede dell’infezione. L’ovaristerectomia (asportazione di ovaie e utero) poneva fine irrimediabilmente alla carriera rproduttiva della fattrice

i protocolli terapeutici erano basati sull’utilizzo delle prostaglandine naturali prima e sintetiche più recentemente. L’azione delle prostaglandine era duplice: indurre luteolisi e conseguente crollo delle concentrazioni del progesterone, e indurre contrazioni di tipo peristaltico del miometrio con conseguente svuotamento del contenuto dell’utero. Gli effetti collaterali ben noti delle prostaglandine (scialorrea, tachipnea, spasmi della muscolatura liscia addominale con vomito e diarrea, prostrazione) non rendono tale protocollo privo di effetti indesiderati, seppure a breve termine, e non applicabile a tutte le pazienti. La soppressione dell’azione del Progesterone sull’endotelio uterino può essere ottenuta mediante la somministrazione di un farmaco con azione anti-progesterone: l’AGLEPRISTONE. Tale molecola ha un meccanismo d’azione di tipo recettoriale spiazzando il progesterone endogeno dai suoi siti recettoriali, occupa i siti del progesterone senza attivarli, tale meccanismo d’azione è assolutamente innovativo e privo di effetti collaterali. Tale farmaco è già ben conosciuto come terapia per il trattamento della gravidanza indesiderata ma la sua spiccata affinità per i siti recettoriali uterini, fino a 3 volte superiore rispetto al progesterone endogeno, lo rende particolarmente adatto anche per la terapia medica della piometra sia nella cagna che nella gatta. Tale farmaco riveste una importanza notevole per poter trattare non solo cagne di alto pregio genealogico per le quali deve essere fatto tutto il possibile per salvaguardarne la fertilità, ma anche per quelle pazienti con piometre “chiuse” e/o a rischio anestesiologico per le quali l’intervento chirurgico può rappresentare un problema aggiuntivo. L’efficacia del trattamento aumenta notevolmente se si associa un farmaco che favorisca le contrazioni uterine per promuovere lo svuotamento del contenuto dell’utero, a tal proposito il protocollo qui proposto prevede l’utilizzo del cloprostenolo (prostaglandina sintetica) che potrà essere utilizzata a dosaggi molto ridotti minimizzando, quindi, gli effetti collaterali. Sarà possibile far precedere la somministrazione del cloprostenolo con una pre-medicazione che antagonizza quasi del tutto gli effetti collaterali seppure già modesti. Il protocollo proposto è il seguente: - giorno 0: aglepristone 10 mg/kg/sc - giorno 1: aglepristone 10 mg/kg/sc - giorni 2-3-4-5-6-7: cloprostenolo 1,5 microgrammi/kg/sc preceduto da pre-medicazione - giorno 8: aglepristone 10 mg/kg/sc

EZIOPATOLOGIA La Piometra nei Piccoli Animali è un disordine diestrale ormone-mediato, in particolare le alte concentrazioni del progesterone, tipiche del periodo post-ovulatorio e per un periodo prolungato di due mesi, tale è il diestro nella cagna, sensibilizzano l’endometrio nello sviluppare tale patologia. Conseguenza della sollecitazione progestinica sarà l’aumento della secrezione ghiandolare endometriale, la soppressione dell’attività del miometrio reso quiescente dal progesterone, ne deriva che l’accumulo della secrezione uterino-ghiandolare è un ottimo substrato per la crescita di batteri, soprattutto Escherichia Coli. La colonizzazione da parte di Escherichia Coli all’interno dell’utero determinerà la polidipsia che caratterizza la maggior parte delle piometre. Sembra che il meccanismo con cui si instaura la polidipsia è dovuto ad una tossina prodotta dall’Escherichia Coli che interferisce con il riassorbimento del Na e Cl nell’ansa di Henle con minor ipertonicità renale midollare e conseguente necessità di bere da parte della paziente. Altra teoria è che la tossina elaborata dal battere determini un danno tubulare con conseguente mancata risposta all’azione dell’ADH da parte del tubulo renale. La Piometra conclamata sarà accompagnata da leucocitosi, anemia normocitica normocromica non rigenerativa, iperproteinemia e iperglobulinemia, iperazotemia pre-renale, aumento dei livelli dell’ALT, ALP in funzione del danno epato-cellulare e ipostenuria. Il complesso iperplasia cistica endometriale/endometrite/ piometra è stato per lo più considerato una condizione patologica dell’utero che pressoché inevitabilmente portava all’infertilità, se non altro per l’approccio chirurgica (ovaristerectomia) che ha sempre caratterizzato la risoluzione di tale condizione. Recentemente sono stati proposti protocolli terapeutici volti a salvaguardare l’utero con la speranza di salvaguardare la fertilità della paziente, essendo riconosciuta come causa primaria del disordine l’azione del progesterone sull’endometrio, 169


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nolo ma soprattutto hanno reso possibile il recupero della fertilità in quasi tutti i soggetti trattati. L’azione anti-progesterone di tipo recettoriale dell’aglepristone, atta a rimuovere la causa ormonale primaria della piometra, risulta fondamentale nell’ottenere il risultato. L’azione congiunta di una molecola con effetto contratturante il miometrio per promuovere attivamente lo svuotamento della raccolta endo-uterina, fa si che il risultato sia più facilmente ottenibile. Ritengo che la terapia di sostegno e in particolar modo l’utilizzo di un medicamento antibiotato che espande le corna uterine diffondendo bene all’interno dell’utero combattendo la causa batterica del processo infettivo aumenti ulteriormente le possibilità di successo di una terapia che si pone come alternativa ad un intervento chirurgico senz’altro più invasivo e soprattutto incompatibile con una mantenuta fertilità.

- giorno 15: aglepristone 10 mg/kg/sc in funzione del controllo ecografico e del dosaggio del progesterone sierico - durante il trattamento è bene associare una terapia di sostegno con fluidoterapia, se necessario, e antibiotico terapia con farmaci che ben si concentrino a livello uterino quali i chinolonici di ultima generazione associati o no a cefalosporine, in funzione della gravità dell’infezione. La pre-medicazione al cloprostenolo prevede l’utilizzo di atropina solfato (0,025 mg/kg/im) e bromuro di prifinium (0,75 mg/kg/im) nella stessa siringa da somministrarsi circa 15 minuti prima di ogni singola somministrazione di cloprostenolo. Sarà possibile, nei casi più gravi, associare una medicazione antibiotata, a base di rifampicina, localmente in utero, con preparato a base di schiuma che dovrà essere applicato attraverso un sottile catetere di soli 2 mm di diametro, attraverso un endoscopio rigido, che visualizzando l’ostio cervicale permetterà il passaggio del catetere attraverso la cervice. La sperimentazione di tale protocollo ha evidenziato un ottima efficacia e ottima tollerabilità dei farmaci utilizzati, con effetti collaterali del tutto nulli per l’aglepristone e modesti e del tutto tollerabili per bassi dosaggi di cloproste-

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Iperglicemia/diabete con esordio nel diestro nella cagna e iperplasia fibroepiteliale della ghiandola mammaria nel gatto, cosa hanno in comune? Giovanni Majolino Med Vet, SMPA, Collecchio (Parma)

L’azione dell’Ormone Somatotropo, conosciuto anche come Ormone della Crescita, è tale da determinare, sul tessuto mammario del paziente felino, proliferazione dei dotti epiteliali e dello stroma ghiandolare fino ad arrivare a determinare IPERPLASIA FIBROEPITELIALE a carico, di solito, delle mammelle più inguinali per poi estendersi all’intera fila mammaria bilateralmente. Raramente il quadro evolve con ulcerazione del tessuto ma in molti casi l’edema mammario e le ripercussioni dal punto di vista circolatorio possono arrivare a determinare emorragie e/o necrosi del tessuto mammario coinvolto. La diagnosi differenziale, per l’estensione delle lesioni e per la gravità delle stesse, dovrà prendere in considerazione la Neoplasia Mammaria, ma considerando che l’età delle gatte colpite è solitamente intorno all’anno e dopo il loro primo calore, è difficile che queste condizioni siano associate alla patologia tumorale. Altra patologia che dovrà essere considerata è la Mastite che presuppone però una lattazione in corso con ingorgo mammario che nel caso della Fibroadenomatosi benigna non c’è, la fase del ciclo in cui si verifica l’Iperplasia Mammaria Benigna o (Fibroadenomatosi benigna) è la gravidanza o il diestro post-ovulazione spontanea, fasi in cui predomina l’azione del progesterone, nelle mastiti la fase del ciclo è l’anaestro che inizia quando il progesterone torna al suo valore basale e quando aumenta il tasso ematico della prolattina. Un’attenta anamnesi circa l’età del soggetto e il ciclo riproduttivo ci guiderà nella diagnosi differenziale. Nel caso della Fibroadenomatosi benigna l’anamnesi segnalerà la presenza di un calore con accoppiamento nei due mesi precedenti oppure una somministrazione di progestinici di sintesi.

Iperplasia fibroepiteliale della ghiandola mammaria, iperplasia mammaria benigna, fibroadenomatosi della mammella sono tutte definizioni diverse di una stessa condizione patologica a cui possono andare incontro alcuni felini sia in modo spontaneo sia per cause iatrogene, in quest’ultimo caso possono essere interessati sia le femmine che i gatti maschi. Si tratta di una patologia ad andamento benigno che colpisce solo esclusivamente la specie felina. Fu descritta per la prima volta da Allen nel 1973. Si tratta di una ipertrofia-iperplasia mammaria benigna di una o più ghiandole mammarie senza coinvolgimento dei linfonodi tributari e solitamente non accompagnata da secrezione lattea e senza un coinvolgimento dello stato generale. Solitamente sono colpite gatte al di sotto dell’anno di età e subito dopo il primo calore in cui si accoPpiano, per la forma spontanea;mentre per la forma indotta farmacologicamente possono essere colpite gatte di qualsiasi età dopo la prima somministrazione di progestinici di sintesi atti a interrompere il ciclo riproduttivo. È possibile che tale condizione si presenti nel gatto maschio trattato in precedenza con progestinici di sintesi. Và ricordato che nella specie Felina l’ovulazione è indotta dal coito e solo circa il 5% delle ovulazione avviene per via spontanea, quindi l’Iperplasia mammaria benigna segue di solito un accoppiamento accompagnato da ovulazione con conseguente aumento del progesterone. In soggetti predisposti le prime sollecitazioni da Progesterone possono determinare il quadro sintomatologico di seguito descritto. Gli effetti collaterali noti del Progesterone naturale o di sintesi sono: aumento di peso, iperplasia cistica endometriale, diabete mellito, rischio di neoplasie mammarie per somministrazione perpetuate nel tempo, eventuali disturbi comportamentali e aumento della secrezione del GH (ormone Somatotropo) conosciuto anche come Ormone della Crescita. L’aumento dei livelli di GH, in risposta all’aumento del tasso sierico di Progesterone, comporta conseguenze diverse a seconda della specie animale che viene considerata, nel gatto l’organo bersaglio è il tessuto mammario, mentre nel cane l’azione dell’Ormone Somatotropo induce un’insulina resistenza che predisporrà ad una condizione diabetica o tenderà a peggiorare una condizione diabetica pre-esistente.

TRATTAMENTO PATOGENESI “SPONTANEA” per gravidanza o ovulazione spontanea: • Ovariectomia in quanto l’asportazione delle ovaie eliminerà la causa ormonale, ovvero il progesterone, nel caso di gravidanza avanzata oltre i 15 giorni sarà necessaria l’ovaristerectomia (ovariectomia/ovaristerectomia controindicate per la notevole iperplasia mammaria e per il traumatismo chirurgico che ne deriverebbe) 171


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• Aborto indotto farmacologicamente (aglepristone) in quanto rimuove l’azione del progesterone mediante antagonismo diretto di tipo recettoriale • Anti-Prolattinico per sfruttare l’azione inibente il corpo luteo e azione anti-infiammatoria sul tessuto mammario • Antinfiammatorio anti-edemigeno (arnica) per combattere l’infiammazione del tessuto mammario (co-adiuvante)

dosaggio del Progesterone sierico mediante prelievo di sangue da effettuarsi al sesto giorno dopo l’ultima somministrazione di Aglepristone, se il valore del progesterone sarà maggiore di 2 ng/ml con iperplasia mammaria ancora presente, sarà bene al settimo giorno somministrare Aglepristone. Le stesse gatte così trattate nel corso della loro prima gravidanza non è detto che nelle gravidanze successive debbano avere lo stesso andamento, ma nel caso la stessa situazione si ricreasse nella gravidanza successiva sarebbe corretto considerare un’ovariectomia come risoluzione definitiva. Lo stesso risultato potrebbe essere perseguito attraverso somministrazione di altre molecole che inducano aborto con conseguente abbattimento delle concentrazioni ematiche di progesterone come Cabergolina/Metergolina o prostaglandine. Per quanto riguarda Cabergolina/Metergolina indurrebbero l’aborto attraverso un meccanismo indiretto ovvero attraverso la loro azione antiprolattinica, essendo la prolattina l’ormone che sostiene il corpo luteo che produce il progesterone che a sua volta mantiene la gravidanza. Tale terapia è stata abbandonata in quanto la risposta non era sempre costante e soprattutto i tempi in cui poteva agire erano dopo la prima metà della gravidanza. Le Prostaglandine invece agiscono attraverso un’azione luteolitica diretta e inducendo contrazioni del miometrio volte ad espellere il contenuto dell’utero (embrioni/feti), tale molecola ha degli effetti collaterali non trascurabili pertanto poteva essere considerato l’utilizzo quando non esisteva un’alternativa abortigena priva di effetti collaterali.

PATOGENESI “NON SPONTANEA” per somminitrazione di progestinici di sintesi: • Cessare somministrazione progestinici • Aglepristone per rimuovere l’azione dei progestinici mediante antagonismo recettoriale diretto • Anti-Prolattinico per sfruttare l’azione inibente il corpo luteo e azione anti-infiammatoria sul tessuto mammario • Antinfiammatorio anti-edemigeno (arnica) per combattere l’infiammazione del tessuto mammario (co-adiuvante) • Mastectomia totale (troppo invasivo)

TERAPIA MEDICA Il trattamento di tale patologia sarà volto a rimuovere la causa primaria che sostiene tale condizione ovvero il Progesterone. Il farmaco d’elezione è l’AGLEPRISTONE che grazie alla sua affinità per i siti recettoriali del progesterone, 5 volte superiore rispetto al progesterone endogeno, spiazzerà il progesterone naturale o di sintesi dai siti recettoriali senza attivarli. Lo schema terapeutico sarà diverso a seconda che si tratti di una forma spontanea o indotta dalla somministrazione di progestinici di sintesi, di solito con lunga durata d’azione.

FORMA INDOTTA FARMACOLOGICAMENTE: tale forma sostenuta da somministrazione di progestinici con azione depot prevede che la terapia con il farmaco antiProgesterone sia protratta per l’intero periodo di azione del progestinico di sintesi utilizzato. A tal proposito va ricordato che il tempo di azione dell’AGLEPRISTONE nell’occupare i siti recettoriali del Progesterone non và oltre ai sette giorni, per cui lo schema terapeutico dovrà prevedere due somministrazioni di AGLEPRISTONE: 15 mg/kg/sc a distanza di 24 ore e una somministrazione singola ogni sette giorni fino al termine dell’azione del progestinico di sintesi. Purtroppo in questo caso il controllo della Progesteronemia non può essere considerato un indicatore valido in quanto non può rilevare il progestinico di sintesi ma solo quello endogeno. Nel protocollo terapeutico può essere eventualmente aggiunto un anti-Prolattinico (come la Metergolina o Cabergolina) in modo da sfruttare anche l’azione inibente il corpo luteo e l’azione anti-infiammatoria sul tessuto mammario. Le alte concentrazioni sieriche di progesterone inducono un aumento dell’ormone somatotropo circolante (GH) e conseguentemente, nella cagna, si ha un antagonismo all’insulina (Pierluissi e Campbell, 1980, Eingenmann, 1981). L’alto tasso di somatotropo ridurrebbe il numero dei recettori per l’insulina a livello delle membrane cellulari, ne altererebbe l’affinità per l’ormone, e ne altererebbe anche le rea-

FORMA SPONTANEA: abbiamo detto che nella forma spontanea, dopo l’accoppiamento che determinerà l’ovulazione, il progesterone prodotto dal corpo luteo rimarrà a valori elevati (da 5 a 40 ng/ml) per tutto il periodo della gravidanza. Tale aumento del progesterone indurrà un aumento del GH che stimolerà in maniera abnorme il tessuto mammario per tutta la durata della gravidanza. Va da sé che il trattamento volto a rimuovere l’azione del progesterone sortirà due effetti: interrompere inevitabilmente la gravidanza e eliminare la sollecitazione ormonale sul tessuto mammario, purtroppo le due azioni non possono essere disgiunte. Lo schema terapeutico prevede due somministrazioni di AGLEPRISTONE: 15 mg/kg/sc a distanza di 24 ore, tale trattamento garantirà una sospensione dell’azione del progesterone endogeno per sette giorni. Ogni sette giorni verrà ripetuta una singola somministrazione di AGLEPRISTONE allo stesso dosaggio di 15 mg/kg fino a quando il tessuto mammario non sarà rientrato nella norma. In questo caso il trattamento non può durare oltre i 2 mesi, dal momento che dopo due mesi dall’ovulazione fisiologicamente il progesterone scende a valori basali. Un ottimo indicatore per sapere per quanto eventualmente proseguire la somministrazione settimanale di AGLEPRISTONE è il 172


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zioni normali che scaturirebbero dall’attivazione del recettore da parte dell’ormone (Ganong, 1981)Anche la somministrazione di progestinici di sintesi è in grado di stimolare attivamente la liberazione di ormone della crescita. La cagna diabetica deve essere sterilizzata per evitare questo scompenso ormonale indotto dal progesterone che attraverso l’ormone somatotropo si traduce in una insulinoresistenza. Spesso l’esordio della condizione diabetica nella cagna intera coincide con l’inizio del diestro. Una condizione pre-diabetica o latenza di una pre-disposizione diabetica si concretizza in diabete conclamato, durante il diestro. Per evitare di sterilizzare una cagna quando altamente scompensata, l’aglipristone può offrire un ottima arma terapeutica per riportare la paziente a valori normo-glicemici per poi programmare la sterilizzazione più tardi. Aglipristone con il suo meccanismo recettoriale antiprogesterone si è dimostrato efficace nell’antagonizzare gli effetti del progesterone nel determinare insulino-resistenza Possibilità di effettuare la sterilizzazione nella paziente diabetica quando si è stabilizzata e in condizioni generali migliori rispetto a quelle dell’esordio della patologia durante il diestro • Inappropriata somministrazione di insulina • Insulina inattiva o scaduta • Metabolismo rapido dell’insulina • Iperglicemia insulino-dipendente • Iperadrenocorticismo • Iperprogesteronemia • Acromegalia • Feocromocitoma • Programma alimentare inadeguato • Condizioni stressanti infettive e non • Anticorpi anti-insulina • Eccessiva degradazione dell’insulina nella sede d’inoculo si intende un antagonismo “periferico” agli effetti dell’ormone, con conseguente iperglicemia persistente (>300 mg/ dl), glicosuria,poliuria, polidpsia, polifagia e dimagaramento, nonostante la terapia insulinica. All’aumento del dosaggio dell’insulina anche oltre le 2UI/ kg non corrisponde alcun miglioramento della sintomatologia e quindi della glicemia L’insulino resistenza progesterone indotta (attraverso l’aumento del Gh progesterone indotto) può essere trattata con somministrazione di AGLEPRISTONE che attraverso la sua azione anti-progesterone, occupa i siti recettoriali del Progesterone senza attivarli. Mancando la possibilità del progesterone circolante di espletare la sua azione verrà meno anche l’azione di aumento del Gh e quindi anche l’Insulino resistenza cesserà. Il protocollo, se il progesterone è superiore a 2 ng/ml, prevede:

bisognerà adeguare la terapia insulinica all’andamento della glicemia facendo molta attenzione ad evitare ipoglicemie repentine dovute alla mancata azione del progesterone. OLIVIA: husky femmina 9 anni di età•Ultimo calore metà marzo 2005 • Calore molto lungo (30 giorni di perdite vaginali) • Interestri ed espletamento dei calori precedenti nella norma • 2 settimane dopo la fine del calore: polidpsia, poliuria, polifagia, perdita di peso, condizioni generali molto scadenti, abbattimento • Glicemia: 480 mg/dl • Alkp: 1015 U/L (10-100) • ALT: 322 U/L (10-100) • AST: 13 U/L (0-50) • AMILASI: 2300 U/L (<1800) • LIPASI: 2023 U/L (200-1800) • PROGESTERONE: 13,9 ng/mlTerapia iniziale: • 22 UI caninsulin con mono soministrazione giornaliera per un peso corporeo di 17 kg • Glicemia oscillante tra 415 e 312 • Polidipsia e poliuria MANTENUTE • Condizioni generali scadenti • Dimagramento ed apatia Terapia impostata dopo consulto: • Protophane: prima 1,5 UI/Kg BID per passare a 2,2 UI/ Kg BID • Fluidoterapia per (amilasi, lipasi, alt, got, alkp elevate) • Glicemia oscilla tra 430-220 mg/dl • Terapia insulinica con 2,2 UI/kg • Compenso glicemico molto scadente • Unica possibilità per controllare la glicemia a 221 mg/dl mediante somministrazione ev di insulina rapida (actrapid) Trattamento aglipristone: • 23-aprile: glicemia 343 mg/dl (mattina) – 316 mg/dl (sera) con 40 UI …. insulina protophane BID • 23-aprile: aglipristone: 10 mg/kg • 24-aprile: aglipristone: 10 mg/kg • 24-aprile: progesterone: 14,6 mg/dl (diestro) Risultati della terapia con Aglipristone sull’andamento della glicemia: • 25-aprile: glicemia hr.9,30: 104 hr.15,00: 138 hr.22,00: 214 progesterone: 10,8 ng/ml (diestro) • Dopo 2 giorni riduzione del dosaggio di insulina da 40 UI a 30 U/I • Dopo 4 giorni: 25 UI • Dopo 6 giorni: 18 UI • Dopo 7 giorni: progesterone: 8,06 (diestro) ripetuto aglipristone: 10 mg/kg • Dopo 8 giorni: 16 UI (0,8 UI/Kg) • Dopo 10 giorni:progesterone: 2,5 (ultimi giorni diestro)

AGLEPRISTONE: 10 mg/kg sottocute da ripetere dopo 24 ore, e una monosomministrazione di AGLEPRISTONE: 10 mg/kg sottocute ogni 7 giorni per tutta la durata del diestro (fino a quando il progesterone non scende sotto i 2 ng/ml). Contestualmente alla terapia anti-progesterone 173


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CONCLUSIONI

de o gatti maschi affetti da tale condizione. Nel caso della iperglicemia nella cagna in diestro, indotta indirettamente dall’aumento del tasso plasmatico del progesterone la terapia con una molecola con spiccata azione anti-progesterone si è dimostrata estremamente efficace nel controllo dell’insulino resistenza. Adeguando la terapia insulinica alle reali necessità della paziente. Concludendo, anche per questa condizione, i punti di maggio forza e interesse circa il farmaco proposto ed utilizzato (Aglepristone) sono: Blocco degli effetti del GH che crea insulino-resistenza, spiazzando il progesterone (naturale o di sintesi) dai suoi siti recettoriali, senza attivarli. L’azione anti-progesterone è da considerarsi fondamentale nel trattamento dell’iperglicemia nella cagna diabetica durante il periodo diestrale.

La fibroadenomatosi benigna del gatto è una condizione patologica spesso non riconosciuta in quanto tale e/o spesso non inquadrata correttamente nel suo meccanismo eziopatogenico ma la gravità delle lesioni spesso associate a tale condizioni a carico del tessuto mammario ghiandolare impone una diagnosi e una terapia tempestiva che porterà come risultato un sollievo alla paziente o al paziente e un altrettanto sollievo al proprietario preoccupato per le condizioni del proprio animale. La terapia proposta ha avuto un ottimo successo portando alla risoluzione tutti i casi clinici così trattati. Concludendo i punti di maggio forza e interesse circa il farmaco proposto ed utilizzato (Aglepristone) sono: Blocco degli effetti del GH sul tessuto mammario spiazzando il progesterone (naturale o di sintesi) dai suoi siti recettoriali, senza attivarli. L’azione anti-progesterone è da considerarsi fondamentale nel trattamento dell’iperplasia fibroadenomatosa del gatto. L’aglepristone determinerà aborto nelle gatte che hanno sviluppato fibroadenomatosi benigna durante la fase gravidica e si è rilevato un ottimo ausilio nelle gatte non gravi-

Bibliografia disponibile su richiesta.

Indirizzo per la corrispondenza: Giovanni Majolino - www.bancasemecanino.com E-mail: info@bancasemecanino.com

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Valutazione neurologica nei nuovi pets Massimo Mariscoli Med Vet, Dipl ECVN, Teramo

Valentina Papa Med Vet, Dr Ric, Roma

Il numero di animali da compagnia non convenzionali, soprattutto conigli e furetti, è in progressivo aumento negli ultimi anni. Ne consegue che tali animali vengono riferiti con sempre maggiore frequenza allo specialista per patologie neurologiche anche se le segnalazioni riportate in bibliografia sono piuttosto limitate. In letteratura la maggior parte delle pubblicazioni riguardano per lo più singoli casi clinici e descrivono in prevalenza gli aspetti anatomopatologici correlandoli a scarsi dati clinici. La descrizione degli aspetti semiologici neurologici e della loro interpretazione è invece in letteratura veterinaria piuttosto scarsa. Partendo dallo schema classico dell’esame neurologico lo scopo del nostro lavoro è stato quello di valutare in furetti e conigli sani i test funzionali maggiormente attendibili nella valutazione del sistema nervoso. Sono stati esaminati 50 furetti e 20 conigli che non presentavano in anamnesi possibili patologie a carico del sistema nervoso ed è stato videoregistrato, con il consenso dei proprietari, l’esame neurologico completo. I risultati sono stati raccolti in un database ed stata effettuata una statistica descrittiva monovariata. L’esame dello stato del sensorio, ossia la capacità dell’animale di interagire con l’ambiente esterno, è risultato agevole in tutti gli animali esaminati, considerando le normali differenze esistenti nelle due specie. I furetti infatti durante la visita neurologica hanno dimostrato marcato interesse al nuovo ambiente, manifestando una maggiore tendenza all’esplorazione e all’interazione con l’operatore. Come riportato in letteratura i furetti non sono neofobici e un ambiente nuovo non li inibisce, generalmente quando vengono posti sul tavolo da visita non si immobilizzano ma iniziano ad esplorare l’ambiente. I furetti non tollerano lunghe manipolazioni e abbiamo constatato che l’offerta di alimenti molto appetibili come paste aromatizzate per furetti o prodotti multivitaminici per gatti, così come attirare la loro attenzione con il gioco possono essere utilizzati per effettuare determinate manovre come ad esempio alcune reazioni posturali. Durante la visita i conigli hanno mostrato una notevole variabilità nel comportamento, infatti dopo l’approccio iniziale la maggioranza sono rimasti immobili, (13/20), alcuni hanno mostrato una certa tendenza all’esplorazione (5/20),

mentre altri hanno manifestato una certa aggressività (2/20). Vista la loro sensibilità allo stress i conigli devono essere visitati in un ambiente tranquillo e maneggiati con molta cura durante l’esame poiché questo aumenta l’attendibilità delle risposte ottenute ed evita lesioni traumatiche accidentali, soprattutto alla colonna vertebrale lombare. Nel coniglio la valutazione della postura della testa e del collo è particolarmente importante poiché in questa specie si osservano frequentemente sindromi vestibolari periferiche, come nel caso dell’otite media-interna da Pasteurella multocida, che centrali, come ad esempio nel caso della meningoencefalite sostenuta da Encephalitozoon cunicoli. La postura della testa, caratterizzata da un asse orizzontale parallelo al terreno, è risultata costante in tutti gli animali così come la postura degli arti, anche se nel coniglio risulta più difficile da valutare per le piccole dimensioni e per l’atteggiamento con gli angoli articolari posteriori chiusi tipica di questa specie. Particolarmente interessante è la postura del rachide nel furetto dove la cifosi assunta anche durante la locomozione è da ritenersi normale. In uno studio sulla postura del rachide e sui suoi movimenti è stato osservato, utilizzando la cineradiografia, che in questa specie durante la locomozione il rachide viene mantenuto in posizione arcuata tanto da raggiungere una proporzione tra lunghezza degli arti e tronco simile ai piccoli animali. Nella valutazione dell’andatura abbiamo valutato la presenza di eventuali segni di debolezza, di incoordinazione motoria, dismetrie e movimenti di maneggio. Nei coniglio la fisiologica andatura caratterizzata da una andatura saltellante sugli arti posteriori rende difficile evidenziare eventuali lievi disturbi nella coordinazione del movimento. Il furetto normale assume l’atteggiamento cifotico sopra descritto e mantiene una andatura diagonale simile a quelle del cane o del gatto. Nella valutazione della propriocezione e delle reazioni posturali, ossia la capacità del soggetto di riconoscere la posizione del tronco e degli arti nello spazio, abbiamo effettuato i test funzionali descritti nel cane e nel gatto. La prova del saltellamento, che consiste nel sollevare l’animale in maniera tale da farlo saltellare su un solo arto anteriore o posteriore, è risultata di facile esecuzione ed interpretazione in 46 furetti su 50 e in tutti i conigli. 175


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La spinta posturale estensoria, che consiste nel sollevare l’animale e successivamente avvicinarlo al terreno per valutare l’iniziale estensione degli arti posteriori prima di toccare il suolo e la capacità di effettuare alcuni passi, è risultata simile al cane e al gatto in 41 furetti su 50 mentre è stato possibile effettuarla solo in 6 conigli su 20 rendendo questo test poco attendibile e per di più pericoloso se non si sostiene con grande attenzione il rachide. La carriola con visione consiste nel valutare la capacità dell’animale di camminare solo con gli arti anteriori. Questa reazione posturale è stata eseguita con successo in 38 furetti su 50 e in 11 conigli su 20, mentre effettuandola eliminando la componente visiva la sua attendibilità è marcatamente diminuita in entrambe le specie (8/50 furetti, 3/20 conigli). Nel furetto però utilizzando un alimento appetibile per distogliere l’attenzione dell’animale durante l’esecuzione della carriola a collo esteso è stato possibile effettuare il test in modo corretto in 22 soggetti su 50. Il posizionamento propriocettivo, ossia la valutazione della capacità dell’animale di riposizionare correttamente l’estremità distale dell’arto se posizionato sul dorso del piede, è risultato immediato in 22 furetti su 50 e in 6 conigli su 20. Per quanto riguarda la valutazione dei nervi cranici, il riflesso palpebrale, la sensibilità facciale e il riflesso della deglutizione sono risultati di facile esecuzione e interpretazione e sovrapponibili a quelli del cane e del gatto in pressoché la totalità dei soggetti esaminati. La valutazione del diametro pupillare, del riflesso pupillare diretto e indiretto e del nistagmo fisiologico sono risultati piuttosto difficili a causa della pigmentazione scura dell’iride e della piccola dimensione del globo oculare soprattutto nei furetti. La reazione alla minaccia che consiste nell’effettuare un gesto di minaccia e nel valutare la completa chiusura della palpebra è risultata anormale in 45 furetti su 50 e in tutti i conigli. Questo dato contrasta con la maggior parte dei dati da noi reperiti in bibliografia. Nella valutazione dei riflessi spinali abbiamo trovato particolare difficoltà nell’esecuzione dei riflessi miotatici, quali il riflesso patellare e il tibiale craniale, mentre il riflesso flessorio è risultato di facile esecuzione in 47 furetti su 50 e in 18 conigli su 20. In quest’ultima specie, a differenza del furetto, il riflesso flessorio è stato evocato in alcuni soggetti dopo ripetute stimolazioni. La difficoltà nell’esecuzione dei riflessi miotatici, in entrambe le specie, risiede a nostro giudizio oltre che nella dif-

ficoltà nel contenere il soggetto in decubito laterale, anche nelle piccole dimensioni dell’animale. La percussione di un ventre muscolare determina infatti un movimento passivo dell’arto piuttosto ampio difficilmente distinguibile da un riflesso. Riassumendo il nostro studio suggerisce che l’esame neurologico del furetto deve prendere in considerazione la valutazione della postura, dell’andatura e tra le reazioni posturali il saltellamento, la carriola e la spinta posturale estensoria. I nervi cranici e il riflesso flessorio negli arti sono attendibili e di facile esecuzione, mentre la reazione alla minaccia non risulta attendibile. Nel coniglio la valutazione della postura, delle reazioni posturali quali il saltellamento e la carriola, dei nervi cranici e il riflesso flessorio rappresentano i test più rappresentativi in questa specie.

Bibliografia Antinoff N. Musculoskeletal and neurological diseases. In: Quesenberry KE, Carpenter JW, editors. Ferrets, rabbits and rodents: clinical medicine and surgery. 2nd edition. Philadelphia: W.B. Saunders; 1997. p. 115-20. Avanzi M. et al. (2008) Diagnosi e terapia delle malattie degli animali esotici. Ed. Masson, Milano. Diaz-Figueroa O. and Smith M. (2007) Clinical Neurology of Ferrets. Vet Clin Exot Anim 10 759–773. Lewington J.H. Ferret husbandry,medicine, and surgery. 2st edition. Woburn (MA): Butterworth Heinemann; 2000. p. 129–52.Moritz S. et al. (2007) Three dimensional fibre-type distribution in the paravertebral muscle of domestic ferret (mustela putorius f. furo) with relation to functional demands during locomotion. Zoology 110, issue 3 197-211. Vernau K. M. et al. (2007) Examination and Lesion Localization in the Companion Rabbit (Oryctolagus cuniculus). Vet Clin Exot Anim 10 731-758.

Indirizzo per la corrispondenza: Valentina Papa Clinica delle emergenze veterinarie, Viale Etiopia 16 Roma Tel. 0697614877 E-mal: valentina_papa@hotmail.it Massimo Mariscoli Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi Di Teramo Viale Crispi 212, Teramo Tel. 0861266982 E-mail: mmariscoli@unite.it

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La terapia nel coniglio nefropatico Alessandro Melillo Med Vet, Roma

La malattia renale è sicuramente una delle patologie più sottodiagnosticate nel coniglio: uno studio ha evidenziato una prevalenza di oltre il 30% di nefropatie nei soggetti macellati. Purtroppo una diagnosi precoce è difficile per diversi fattori: la poliuria è difficilmente riconosciuta nei soggetti che vivono principalmente in gabbia e ancor più in quelli mantenuti all’aperto; anche la polidipsia spesso inizialmente passa inosservata e così il calo ponderale che è mascherato dalla folta pelliccia e dall’aspetto raccolto tipico di questa specie. Anche nel caso di proprietari attenti che richiedono controlli periodici del loro coniglio, la biochimica clinica è poco sensibile per quanto riguarda la funzionalità renale; e gli esami delle urine, che sarebbero più informativi, vengono spesso sottoutilizzati. Di conseguenza in molti casi i soggetti nefropatici cronici (CRF) vengono presentati al veterinario ad uno stadio molto avanzato della patologia in cui le possibilità di intervento sono ridotte. Viceversa, le patologie renali acute (ARF) evolvono molto rapidamente, spesso in conseguenza di quadri patologici acuti e gravi, e spesso sono già ad uno stadio irreversibile quando l’animale viene portato all’attenzione del veterinario. L’insufficienza renale acuta (ARF) è un patologia estremamente grave e comporta una prognosi da riservata ad infausta. La gestione della ARF comincia con la prevenzione della stessa: i pazienti a rischio (traumatizzati gravi, pazienti con patologie da immunocomplessi, animali che devono subire anestesia generale, pazienti che necessitano di terapie nefro tossiche) dovrebbero sempre ricevere fluidoterapia e monitoraggio adeguati per scongiurare l’insorgenza di questa grave condizione. La produzione di urina e la qualità della stessa dovrebbe essere obbligatoriamente controllata in ogni coniglio malato presentato a visita, soprattutto se la sintomatologia è acuta: anche il controllo dell’azotemia e degli elettroliti è consigliato. Un protocollo diagnostico e terapeutico mirato e tempestivo è fondamentale per la prognosi di un coniglio presentato con iperazotemia acuta. L’iperazotemia pre-renale dipende da diminuita filtrazione glomerulare (GFR) ed è accompagnata da urina concentrata o in casi gravi da anuria: dipende di solito da grave disidratazione, ipovolemia o ipotensione. Nel coniglio è molto comune in seguito a dilatazione gastrica da ostruzione pilorica/duodenale come pure in seguito a copiose emorragie nelle coniglie con aneurisma o neoplasie uterine sanguinanti. Anche il colpo di calore, l’esteso danno muscolare (come in seguito all’attacco di un predatore) o un grave stress che riduce la circolazione a livello renale sono cause comuni di ARF.

L’iperazotemia post-renale consegue ad ostruzione delle vie urinarie o rottura delle stesse per cui il deflusso dei prodotti di scarto è interrotto. L’iperazotemia post-renale dovrebbe risolversi una volta eliminata l’ostruzione a meno che quest’ultima sia durata così a lungo da causare danno tubulare per eccesso di pressione a valle. Durante la risoluzione dei problemi ostruttivi è fondamentale monitorare la diuresi post-ostruttiva che può essere imponente e deve essere supportata da adeguata fluidoterapia, pena disidratazione e iperazotemia pre-renale. Le sindromi ostruttive nel coniglio non sono particolarmente frequenti e la formazione di calcoli o plug uretrali spesso consegue ad una malattia renale preesistente. La nefropatia primitiva con autentico danno al parenchima renale è caratterizzata da iperazotemia con urine isostenuriche. Cause comuni di danno acuto al parenchima renale nel coniglio sono infezioni batteriche, aminoglicosidi e FANS (soprattutto in concomitanza di anestesia generale) ed alcune tossine vegetali, fra cui le liliacee e le foglie di quercia. Ischemia del parenchima renale può conseguire a ipotensione, ipovolemia, sepsi e insufficienza organica multipla come in seguito a grave trauma. Una volta che l’ARF è sospettata è importante agire rapidamente: radiologia, ecografia e risposta alle prime terapie sono utili complementi all’ematochimica e all’esame delle urine quando presenti per emettere una prima prognosi. Se la causa della condizione non è immediatamente evidente, l’urinocultura è utile per individuare pielonefriti e trattarle da subito in maniera mirata. Se si sospetta una causa tossica ingerita, può essere indicata una lavanda gastrica e la somministrazione di carbone attivo. Il primo parametro da monitorare in caso di ARF è la pressione sistemica: questa non è sempre semplice da misurare nei conigli, soprattutto se di piccola taglia, ma dovrebbe essere controllata almeno quotidianamente, come pure altri segni di ipertensione, come lesioni della retina. La produzione di urina è un parametro importante ma l’applicazione di cateteri urinari permanenti è stressante per il coniglio. Dal momento che la disidratazione persistente prolunga l’ipossia renale e aumenta la mortalità delle cellule tubulari, ristabilire un volume circolatorio normale è essenziale. I pazienti severamente ipovolemici beneficiano inizialmente di boli (45-90 ml/kg diviso in quarti e somministrato fino alla risoluzione dello shock): la soluzione fisiologica è il fluido di prima scelta soprattutto in caso di iperkaliemia, ma bisogna far attenzione al pH in quanto la fisiologica può aggravare l’acidosi. Utilizzare una soluzione salina/glucosata in parti 177


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uguali (quindi con Na 0,45% e glucosio 2,5%) è indicato nei pazienti ipernatriemici e può aiutare la ricaptazione del potassio da parte delle cellule. Nei pazienti normokaliemici è meglio utilizzare il Ringer lattato o acetato. Il volume da infondere può essere calcolato moltiplicando il peso corporeo in kg x la % di disidratazione stimata. La reidratazione dovrebbe durare almeno 4 ore (più a lungo in caso di cardiopatia compresente) ed essere attentamente monitorata: infondere grandi volumi di liquidi rapidamente può determinare iperidratazione e conseguente edema polmonare che in un soggetto anurico è estremamente difficile da risolvere. Monitoraggio degli elettroliti: l’ipernatriemia di solito dipende dalla scelta dei fluidi. La maggior parte dei conigli nefropatici è ipercalcemico: ristabilire la diuresi è di solito sufficiente per contrastare questa tendenza nei casi acuti. L’iperkaliemia è invece una condizione molto pericolosa per la sopravvivenza del paziente. Se i livelli di potassio sono compresi fra 6 e 7 mEq/l, di solito la diluizione con fluidi senza potassio ed il ristabilirsi della diuresi sono sufficienti; viceversa, con livelli di potassio > 7 mEq/l, o anche inferiori ma già accompagnati da alterazioni ECG, è necessario intervenire con farmaci che abbassino la potassiemia o contrastino gli effetti del potassio sulla conduzione dell’impulso cardiaco. Il bicarbonato di sodio non solo contrasta l’acidosi ma abbassa la potassiemia inducendo lo scambio di ioni idrogeno intracellulari per quelli potassio plasmatici. È però pericoloso somministrare bicarbonato di sodio senza un regolare controllo dello stato acido/base: ipocalcemia e edema cerebrale sono potenziali complicazioni. In caso di emergenza per contrastare le aritmie da iperkaliemia si può usare il calcio gluconato 10% alla dose di 0,5-1 ml/kg in 10-15 minuti: il calcio contrasta gli effetti cardiotossici ma non corregge l’iperpotassiemia. Purtroppo la maggior parte dei conigli presentati in condizioni di oliguria o anuria non riprendono ad urinare semplicemente perchè il volume circolatorio è stato ristabilito, l’uso di diuretici è quindi frequente. Il mannitolo al 10 o al 20%, somministrato alla dose di 0,5-1 gr/kg in bolo lento endovena è probabilmente l’agente più efficace per stimolare la diuresi: è un agente osmotico e come tale riduce l’edema delle cellule tubulari, facilitando il flusso nei tubuli e prevenendone l’ostruzione; appare anche avere una moderata attività vasodilatatoria a livello glomerulare come pure nell’eliminazione dei radicali liberi. I risultati del bolo di mannitolo si dovrebbero vedere già nel giro di un’ora: in caso contrario, la somministrazione può essere ripetuta ma con maggiori rischi di iperespansione del volume circolatorio e conseguente edema polmonare. Se invece otteniamo la diu-

resi, la somministrazione può essere continuata in CRI alla frequenza di 1-2 mg/kg/min per 24-48 ore. La furosemide è il diuretico più usato nella pratica con il cane e con il gatto e si usa anche nel coniglio, sebbene in questa specie risulti leggermente meno efficace: può essere somministrato a boli di 2-6 mg/kg ogni 8 ore, ma nel cane è dimostrata una maggior efficacia in CRI a 0,66 mg/kg/hr dopo un primo bolo, risultando in maggiore diuresi ed eliminazione di sodio e calcio (non invece di potassio). Anche la furosemide agisce principalmente come diuretico osmotico a livello di ansa di Henle, ma ha anche una modesta attivata vasodilatatoria a livello renale. La dopamina è una catecolamina precursore dell’epinefrina ed è stata usata per migliorare la perfusione renale somministrata a dosaggi molto bassi (1-3 microgr/kg/min IV): a dosaggi più alti l’effetto sistemico (stimolazione dei recettori beta e alfa, effetto inotropo positivo e aumento delle resistenze periferiche con conseguente diminuita perfusione!) è invece prevalente. Di fronte alla concreta possibilità di effetti avversi e alla segnalazione di limitata se non assente differenza nella prognosi di pazienti umani affetti da ARF trattati con dopamina, l’uso di questo farmaco è diventato meno frequente. Le conseguenze gastrointestinali dell’iperazotemia sono spesso sottovalutate nei conigli dato che questi animali non vomitano: tuttavia la gastrite uremica affligge anche questa specie e il controllo di essa è tanto più importante in questa specie che reagisce con l’ileo a quasi tutte le condizioni patologiche e stressanti. Metoclopramide e ranitidina oppure omeprazolo sono le molecole più usate: attenzione perché gli integratori della pompa protonica possono favorire le clostridiosi frequenti nei conigli alimentati con dieta scorretta e stressati. A questo proposito, il supporto nutrizionale con frullati vegetali ricchi di fibra lunga è indispensabile per contrastare la gastrite, reidratare in maniera fisiologica e stimolare la motilità intestinale: l’utilizzo di fermenti lattici per contrastare il dismicrobismo intestinale è del tutto aneddotico ma largamente utilizzato e non dannoso. I conigli che sopravvivono all’ARF richiedono di solito diverse settimane di sostegno prima di riguadagnare una funzione renale normale e molti purtroppo residuano un danno più o meno grave, che può condurre ad una situazione di insufficienza renale cronica (CRF) in seguito.

Indirizzo per la corrispondenza: Alessandro Melillo Clinica Vet OMNIAVET, Roma

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Is my clinic profitable? What is a profitable clinic? How can i measure it? Pere Mercader DVM, MBA, DAS (Economics and Management), Barcelona (E)

This lecture will address the following questions: 1) What is a profitable veterinary practice? 2) How to calculate and analyze the profitability of my practice? 3) How can I analyze the productivity of my team of veterinarians and support staff? 4) Which is the cost of just opening my clinic every day 5) How many patients do I need to see every day just in order to cover my costs? 6) Which is the cost for my clinic of every minute that a veterinarian spends with one client in the consultation room? 7) Is it economically rational to buy a new piece of equipment (i.e. an ecograph) In order to answer the first question (“What is a profitable veterinary clinic”?) we first need to answer the following five questions: • Does the revenue of this clinic allow to pay the opportunity cost of the facilities (i.e. does it pay a market value rent to the owner/s)? • Does the revenue of this clinic allow to pay a market value salary to the owner/s (proportional to her/his expertise, experience, dedication and level of responsibility)? • Does the revenue of this clinic allow to pay a market value salary to all the staff (proportional to their expertise, experience, dedication and level of responsibility)? • Does the revenue of this clinic allow to fairly compensate the owner/s for their investment in assets and for their business risk? • Does the revenue of this clinic allow for a consistent policy of reinvestment in equipment and facilities? A profitable veterinary clinic is one that can answer affirmatively (and honestly) these questions. Usual profitability measures in some countries (UK, US, Spain, Portugal) will be discussed. The structure of the key financial statements will be reviewed: Profit and Loss statement, and Balance Sheet. Profit and Lost statement analysis (we will discuss the following):

• How to properly account for the key income and expense categories; - income in medical services (consultations, vaccines, hospitalization, surgeries, diagnostic tests, lab and analysis, emergencies...) - income in product sales (therapeutic and wellness diets, prescription and otc drugs, accessories) - expenses: payroll costs, purchases, structure (facilities), overhead and administration... • How to account for the owner’s salaries, for the ownership of the facilities... • What is a purchase and what is an investment? Why does it make a difference? What is the impact of inventory? How do inventory variations affect my cost of purchases? • What is a depreciation / amortization? Does it affect my cash-flow? Why should I bother? • How to analyze the quality of my revenues? What is a “normal” percentage of income coming from medical services, from consultations, from vaccines, from surgery, from diagnostic tests, from hospitalization... Benchmarking sources? What is the role of pricing in my income numbers? • How to analyze my expenses? Are they too high? Which ones? Why? Which are typical ranges for expenditure in purchases, staff, overhead? Why could these show an upward deviation? Corrective measures? • How can I know if my payroll expenses are too high? Which is the right proportion between income, salaries, prices? How much should a veterinarian “produce”? Which factors influence this productivity in a positive and in a negative manner? Which are the implications of this productivity requirements in terms of pay schemes: does this mean that we should all move to variable pay?

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Key financial (and non financial) calculations for understanding the economics of your clinic Pere Mercader DVM, MBA, DAS (Economics and Management), Barcelona (E)

• Key patient metrics: do I have enough clients/patients in comparison with my structure (facilities, staff, costs...)? do my clients visit me more/less frequently? What is a “normal” number for patients per veterinarian, yearly visit frequency, annual expenditure per patient? Where should my growth come from in the coming years: more patients, more visits, or more spending per visit?? • How can I calculate the real cost of one minute of veterinarian? What should I take into account? How can this calculation be helpful to raise the awareness of my time about the business side of their work? How can it help me in establishing a sound pricing policy? • The lethal effect of wrong pricing / discounting policies: what is the impact on an average clinic? What is the root of this problem? How can I know if my pricing policy makes sense? Have I ever discussed this with my team (a simple exercise)? • Managing during recession times: which are the key things to keep an eye on during recession? How to keep purchases / stocks under control? How to make sure that we charge for all the services / products that we deliver? How to make sure that we minimize client losses? Should we call to recover clients? Is this a sin? Is this unprofessional? What do other companies in other sectors do? (= “are we from Mars??”)

This lecture deepen the concepts introduced on the first one (“What is a profitable clinic”). The main goal will be to “open your eyes” about a number of important economic “laws” and proportions that must be respected and understood if you want your clinic to be a viable project. Money is not a goal per se, but is a necessary condition to be able to practice good medicine. If you own a practice, you are not only responsible to your patients any more… Now you are also responsible to other parties: partners, employees, suppliers, clients, administration. You need to improve your understanding of business if you want to perform successfully in this new dimension. Some of the issues covered and discussed will include: • Fixed costs in a veterinary clinic; which are they? What is my break-even point? How can I calculate it? Why are they so high? Is it necessary / important to explain this to my team? Which are the expectations of my team about profitability? How much do they think that I make? We will show an educational tool designed to raise the awareness of your team about these economic dimensions. • How can I properly evaluate an investment in a new piece of equipment? Which are all the costs (not just the acquisition costs)? How can I simulate different variables (number of procedures performed, price, etc.) to evaluate the economic logic of the investment? Should I only take into account economic considerations in this decision? Again, what and how should I explain to my team? What kind of commitment should I try to obtain on their side?

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Practice valuation: what is the economic value of my practice? Should anyone be interested in buying it? Pere Mercader DVM, MBA, DAS (Economics and Management), Barcelona (E)

Why is it important for you to understand the economic value of your clinic? Is this only relevant if you are in the process of buying or selling a clinic? There are a number of situations when it becomes necessary having a good understanding about this matter: • When one or more of the partners of a veterinary clinic wants to / needs to leave the business • When one of the partners has a legal problem (i.e. divorce) that requires valuation of her/his economic position • When there is a chance that one or more employees become partners • When the managers/owners of the clinic want to evaluate the long-term performance of the business • When the owner/owners want to start planning for succession / retirement During many years there has been a wrong “legend” in the market stating that a veterinary clinic is valued at 1,5 times the annual sales… This is an absurd, false and dangerous misconception. This will be proven with an example. Empirical observation of practice transactions in the UK and US in the last years confirm that this so called “method” is totally erroneous and has no relationship with reality at all… The economic value of a company depends on its ability to produce a predictable, steady flow of earnings (preferably cash) in the future. This is why the first step in any professional practice valuation must be determining the real profitability level of the clinic. The valuation will be determined by two components: 1) The easy one; the tangible assets such as facilities, stocks, equipment, once we have substracted the corresponding external financing (debts, credits…) 2) The difficult one; also called “goodwill” (which is an intangible asset of the business). Goodwill is the result of know-

how, reputation in the market, client loyalty, good internal organization, etc. and must be proven (if we want to get paid for it) in the form of profits above a certain level. To the extent that a clinic has done things well in the past (from a management perspective) it will be able to generate profits. A professional appraiser (valuator) will determine the total value of the clinic by adding the value of both tangible and intangible assets. The intangible part will be calculated by multiplying adjusted earnings (to be explained in the lecture) by a multiple which will be affected by the following; • Physical location of the clinic • State of facilities • Pricing level • Level of management (i.e. quality of information) • Salary levels • Selling part plans and commitments • Income and expense trends over the last 3 years • Intensity of competition in the local market • Etc. A special case takes place when the purpose of the valuation is to allow for the transition of an employee into a partner. In this case, it will also be necessary to agree (apart from the value of the shares) on a number of relevant issues: • Which will be the future compensation for owners (by tiers: salary, rent of facilities, management role…) • How to handle part-time dedication of a partner • Rights and duties of a partner who decides to sell • Re-investment in the business: which is the policy?

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Productivity, internal organization, prices and salaries: where is the missing link? Pere Mercader DVM, MBA, DAS (Economics and Management), Barcelona (E)

In order for a veterinary clinic to be economically healthy, not more than a 40-45% of income should be allocated to cost of payroll (including owners). Another important “economic law” states that a veterinarian should generate income (in medical services plus prescription and otc drugs) at least equivalent to 5 times her/his net salary. The lecture will explain how and why these proportions are calculated. The reasons for lower productivity of veterinarians can be multiple: • Bad organization (wrong scheduling, wrong proportion of support staff to veterinarians) • Insufficient client / patient traffic in the practice • Misscharging / discounting • Wrong pricing • Bad example by owner/s • Low training, lack of protocols.. It is important to reach a good diagnostic before we can take any corrective measures for this problem. Is this a general problem in our clinic, or is it specific or one or two people? Are these veterinarians junior or senior? Have they received proper training? Do they have an attitude problem, a skills problem or both? What is the role of variable compensation in this problem? Is it the solution? Does it always work? What kind of people is more responsive to it? Can it have any collateral effects? Which are the alternatives? One of the classical coexisting problems of low productivity is wrong pricing. For this reason it is useful to revisit the most common pricing mistakes made by veterinarians from all over the world: 1) Misunderstanding of the real costs of a veterinary clinic. We will share data on actual costs.

2) Inability to share with their team the critical importance (for everyone in the clinic) of a sound pricing policy. We will cover an example of an exercise that can help open your team’s eyes. 3) Wrong perception about the real profitability of veterinary clinics. 4) Giving away money to clients (without even telling them…). Discounting, miss-charging… Do we have a policy in our clinic? Who, why, when, and how much can be discounted? 5) Not understanding the value of time (veterinarian’s time but also client’s time). We will review the cost per minute of veterinarian calculation 6) Trying to manage the client’s pocket. What do we want to be: doctors, or bankers? 7) Prejudging the client’s willingness to invest in her/his pet’s health because of external signs (clothes, car, etc). Spending is determined by emotional attachment to the pet, not by social class. 8) Confusing value and price, and spending much more time worrying about price than worrying about delivering value. We tend to be terrible “marketers” of our services, unable to explain the value of what we do… 9) Overestimating the importance of price for clients. We will see actual research data about this matter. 10) Ignoring the logical relationships between prices, productivity and salaries. With this we will go back to the beginning of the lecture and close the loop.

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La terapia comportamentale: un punto di incontro tra specialisti Isabella Merola Med Vet Comportamentalista, Milano

Sabrina Giussani, Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF, Busto Arsizio (VA)

Le cause che danno vita a quadri sintomatologici delle malattie del comportamento sono varie, ma un aspetto da non sottovalutare è quello legato all’origine di un sintomo di tipo comportamentale come conseguenza di un disagio fisico. Con il termine “stress” si intende uno stato di alterata omeostasi provocato da fattori di natura fisica o psichica definiti stressori. L’organismo reagisce mettendo in atto meccanismi che innescano una serie di funzioni fisiologiche, immunitarie e comportamentali al fine di adattarsi alla nuova situazione e ripristinare l’omeostasi iniziale. Si tratta di un meccanismo fisiologico altamente adattativo che consente all’animale di reagire rapidamente nei confronti di un evento che può minacciare la sua sopravvivenza. In questa situazione, l’organismo attiva le risorse per rispondere al cambiamento con un’ottimizzazione dello stato di vigilanza e di reattività e con l’attivazione del sistema immunitario allo scopo di difendersi da possibili agenti patogeni e stressori. La risposta allo stress è la conseguenza della stretta comunicazione tra il Sistema Nervoso Centrale, il Sistema dello Stress ed il Sistema Immunitario. Tale risposta può diventare problematica quando un animale è incapace di controllare la situazione o sottrarsi allo stressore tramite una corretta risposta comportamentale. In questo caso, si evidenziano effetti negativi sulla salute fisica ed emotiva dell’individuo caratterizzati sia da alterazione della funzionalità immunitaria (e conseguente maggiore suscettibilità dell’organismo alle patologie) sia da risposte comportamentali inappropriate o anomale che hanno lo scopo di ridurre gli effetti nocivi di una prolungata risposta allo stress. Lo stress può essere indotto anche dal dolore: la malattia contribuisce ad aumentare il distress del paziente trasformandosi in un agente stressore. Da tutto ciò si evince che in un soggetto in cui il dolore e la malattia sono presenti, aumenterà il distress e quindi il disagio emotivo alterando non solo lo stato fisico del paziente ma anche quello psichico, peggiorandoli entrambi. La medicina comportamentale si occupa di valutare l’aspetto funzionale di un comportamento o di un insieme di comportamenti che hanno perso la funzione adattativa rispetto alle variazioni dell’ambiente in cui il soggetto vive. Le cause che danno vita ai quadri sintomatologici delle malattie del comportamento sono varie, ma un aspetto

da non sottovalutare è quello legato all’origine di un sintomo di tipo comportamentale come conseguenza di un disagio fisico. Talvolta nel paziente felino la diagnosi precoce di una patologia organica può essere difficile: i sintomi clinici possono celarsi in un soggetto che presenta un disagio spesso manifestato solo attraverso sintomi di tipo comportamentale. Talvolta patologie cliniche, anche se diagnosticate e trattate in modo corretto, possono dare origine ad uno stato ansioso in un soggetto già emotivamente instabile prima del trattamento. Altre volte il tipo di trattamento terapeutico o il ricovero possono essere stati particolarmente invasivi e generare uno stato ansioso. Alcuni studi hanno mostrato che la valutazione dell’esame delle urine di soggetti sottoposti ad una visita comportamentale, ha presentato una positività nel 47% dei casi lasciando intuire la presenza di uno stato clinico alterato contemporaneamente al problema comportamentale. Secondo alcuni Autori (GUNN-MOORE 2007), quando il gatto con alterazione del comportamento eliminatorio non è sintomatico al momento degli esami fisici e di laboratorio, la ripetizione di queste indagini quando i segni clinici sono evidenti, può rivelare una patologia vescicale. Molte patologie dell’apparato urinario possono, quindi, presentarsi inizialmente con modificazioni comportamentali e viceversa patologie a carico dell’apparato urinario possono creare stati ansiosi che danno origine a patologie del comportamento. Anche altri quadri clinici possono essere collegati all’alterazione del comportamento eliminatorio al di là di quelli che riguardano in modo diretto l’apparato urinario: disturbi intestinali, artriti od altre patologie ortopediche possono determinare ad esempio l’insorgenza di una avversione alla lettiera. Spesso i sintomi legati alla patologia organica sembrano permanere anche in seguito alla risoluzione della malattia. Ad esempio lo stato ansioso originato dall’associazione tra dolore e lettiera, favorisce la permanenza di un comportamento di eliminazione inappropriata. È di fondamentale importanza effettuare un esame delle urine ed un approfondito esame ecografico nei soggetti sottoposti a visita comportamentale per sintomi legati ad una alterazione del comportamento eliminatorio e, viceversa, è indispensabile accompagnare la terapia clinica ad una terapia di tipo comportamentale in modo da prevenire l’insorgenza di alterazioni comportamentali sia in soggetti “nor183


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mocomportamentali” che in quelli particolarmente fragili da un punto di vista emotivo. La pulizia giornaliera della lettiera, la preferenza di sabbie agglomeranti e non profumate, l’aumento del numero delle cassette in base al numero di gatti presenti nell’abitazione, la disposizione delle stesse in ambienti tranquilli, sono informazioni indispensabili da fornire perché garantiscono al gatto il soddisfacimento delle esigenze etologiche. In corso di patologie dell’apparato urinario il clinico proporrà, quando è necessario, una visita comportamentale, mentre il comportamentalista dovrà avvalersi di esami collaterali per escludere la contemporanea presenza di patologie organiche ma sarà compito di entrambi fornire gli strumenti di prevenzione per queste patologie. Un altro punto di incontro tra la terapia clinica e la terapia comportamentale riguarda la sterilizzazione e la castrazione del gatto. L’intervento chirurgico può prevenire e soprattutto ridurre l’emissione delle marcature urinarie, ma quando non è effettuato entro 8-15 giorni dall’esecuzione delle prime marcature da “adulto” e del cambiamento di odore delle urine prodotte dal soggetto, il comportamento permane anche in seguito all’ovariectomia o all’orchiectomia. La sterilizzazione “tardiva” può provocare la diminuzione della frequenza delle marcature e l’attenuazione dell’odore urinario quando emesse da un individuo di sesso maschile. È importante ricordare che il comportamento di marcatura urinaria può essere appreso dai cospecifici per imitazione: un gatto sterilizzato o castrato può mettere in atto questo comportamento dopo aver osservato lo stesso comportamento in un individuo della stessa specie. È importante ricordare che

la realizzazione di marcatura urinarie costituisce un messaggio all’interno del sistema di comunicazione del gatto la cui frequenza di emissione aumenta in presenza ad esempio di uno stato ansioso. È opportuno, quindi, proporre la sterilizzazione precoce (poco prima della pubertà) come mezzo di prevenzione dell’emissione di marcature urinarie e fornire al proprietario gli strumenti per ridurre il rischio di uno stato ansioso o di un disagio del gatto che può provocare la messa in atto di un comportamento patologico.

Bibliografia D.A. Gunn-Moore, Feline lower urinary tract disease (FLUTD), Atti del 55° Congresso nazionale SCIVAC, 2007, Milano, 230-285. Claudia Sodini, Grazia Guidi Disturbi della minzione nel gatto: cause organiche e comportamentali 2005 Pisa. R. Colangeli, S. Giussani, Patologie del comportamento legate alla modificazione del territorio. In R. Colangeli, S. Giussani, Medicina comportamentale del cane e del gatto, 2004, Poletto editore, Milano, 311-34.

Indirizzo per la corrispondenza: Sabrina Giussani Tel 3331861226 E-mail sabrinagiussani@yahoo.it www.veterinariocomportamentalista.it Isabella Merola Tel 3343597003 E-mail isabellamerola@fastwebnet.it www.veterinariocomportamentalista.it

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Impiego dei laser a bassa e ad alta potenza: nuova e utile integrazione alle terapie tradizionali Giordano Nardini Med Vet, Spilamberto, Modena

per l’unità di area (cm2). Modalità di emissione. Il raggio laser può essere gestito in tre diversi modi: 1. emissione in continuo (cw): flusso costante del raggio laser. Il flusso continuo non permette di avere un adeguato TRT inducendo così nei tessuti un danno termico aspecifico direttamente proporzionale ai Watt utilizzati e al tempo di esposizione. 2. emissione in super pulsato (spw): è un’emissione di energia a picchi, quindi non costante caratterizzata da una durata dell’impulso da 0,05 sec a 1 sec. e una potenza massima di picco pari ai Watt usati. 3. emissione in pulsato (pw): si ha un’emissione di raggio laser con potenze non più di picco ma potenze medie che derivano dall’opportuna impostazione dei parametri Hz (frequenza) e Duty-cycle. Il primo parametro permette di regolare il numero di impulsi/sec., il secondo di impostare i tempi di emissione e di pausa. L’impiego dei laser ad alta potenza negli animali esotici. L’utilizzo del laser chirurgico nella medicina degli esotici è relativamente nuovo ed è una disciplina in espansione; per questo devono essere sviluppati protocolli per migliorare le tecniche chirurgiche in quanto i parametri sono molto differenti dagli altri animali. Laser a CO2: rappresenta il laser di elezione per la vaporizzazione e il taglio chirurgico di lesioni cutanee. L’introduzione in dermatologia del laser CO2 in regime super pulsato e in particolare ultrapulsato permette la vaporizzazione di lesioni cutanee con minima diffusione dermica ai tessuti adiacenti. Il cromoforo principale è rappresentato dall’acqua. I vantaggi dell’utilizzo del laser CO2 negli esotici includono una minor perdita di sangue rispetto alla chirurgia tradizionale (fattore molto importante nelle piccole specie esotiche). L’uso del laser CO2 nella chirurgia diminuisce inoltre il dolore in quanto cicatrizza le terminazioni nervose mentre taglia. Questo riduce i fenomeni di auto-traumatismo dopo la chirurgia e conseguentemente riducendo il dolore diminuisce paura e ansietà post-chirurgica. Il laser rende la chirurgia degli animali esotici più sicura e permette tempi di ricovero più brevi. Il CO2 può essere utilizzato focalizzato (migliore vaporizzazione e taglio) o defocalizzato (vaporizzazione, coagulazione). Applicazioni: Ascessi: molti animali esotici sviluppano una capsula circostante agli ascessi, se questa capsula non è rimossa o lo è solo parzialmente si verifica un’alta probabilità di recidiva. Il laser permette una più semplice e completa ablazione della capsula. Ascessi cutanei di conigli e roditori: 4W continuo/pulsato. Ascesso del seno infraorbitale degli uccelli. Ascesso auricolare delle tartarughe: 3 W sp (super pulsato); 4-6 W continuo Adrenalectomia del furetto: 6 W sp per la cute; 5 W continuo (cw) per l’adrenalectomia. Insuli-

L’utilizzo di laser bio-medicali in medicina veterinaria è una tecnologia dei primi anni del ’900 utilizzata in varie pratiche veterinarie. L’incremento dell’uso del laser in medicina veterinaria è dovuto all’interesse di scoprire nuove possibilità terapeutiche e all’evoluzione delle apparecchiature laser verso una maggiore applicabilità ed un minore costo di acquisto. Attualmente il laser a CO2 e quello a diodi sono i tipi di laser maggiormente utilizzati in medicina veterinaria. La luce prodotta da un laser differisce dalla luce incandescente in quanto monocromatica, coerente e intensa (LASER è l’acronimo di “Light Amplification by Stimulated Emission of Radiaton”). L’effetto di un raggio laser in un tessuto è dipendente dalle proprietà ottiche e meccaniche del tessuto stesso, dalla lunghezza d’onda, dalla potenza e dal tempo dell’esposizione al laser. La luce laser interagendo con il tessuto biologico induce effetti diversi che possono essere riassunti come: effetti fotofisici: indotti dall’interazione della luce monocromatica con il cromoforo bersaglio (emoglobina, mioglobina, melanine, carotene, acqua…). Solo la luce assorbita è in grado di produrre un effetto sul tessuto. Effetti fotochimici: il processo di assorbimento è seguito da una serie di reazioni chimiche che modificano il substrato biologico. Effetti fototermici: sono dovuti alla conversione dell’energia utilizzata in calore. Durante il riscaldamento del tessuto colpito, il calore viene distribuito per conduzione ai tessuti adiacenti. Tale processo è denominato “rilasciamento termico”, da esso deriva il “Tempo di Rilasciamento Termico” (TRT), che è il tempo necessario al tessuto irradiato per rilasciare il 50% del calore accumulato. Questo indice risulta fondamentale nella prevenzione dei danni tissutali. Effetti fotomeccanici: dovuti alla focalizzazione di impulsi ultracorti di elevata potenza di picco su volumi molto piccoli, in questo modo si ottengono vere e proprie vibrazioni meccaniche del tessuto bersaglio che si propagano e che sono capaci di indurre su cristalli lesioni strutturali e rotture (litotripsia e facoemulsificazione). I vari effetti tissutali possono essere controllati attraverso due importanti caratteristiche della luce laser: l’Intensità o densità di potenza (W/cm2): esprime la quantità di energia rilasciata per unità di area di tessuto irradiato. Si determina dividendo la potenza di uscita del laser (Watt) per la dimensione dello spot (cm2). La Fluenza o densità di energia (J/cm2): per indurre un effetto clinico è necessario che una certa quantità di energia venga assorbita dal tessuto. Questo valore viene misurato dalla densità di energia che è l’energia rilasciata per unità di area del tessuto irradiato. Si calcola dividendo il prodotto tra potenza e tempo di esposizione (Joule), 185


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tuata da personale competente e può essere fatta in associazione a qualsiasi altra terapia. L’azione del Laser non è legata al semplice riscaldamento dei tessuti, ma su effetti fotochimici e foto biologici nelle cellule e nei tessuti. Il Laser in particolare: 1. aumenta la produzione di ATP (la principale fonte di energia utilizzata dalle cellule) attraverso meccanismi diretti e indiretti, stimolando la cellula a livello mitocondriale e permettendo in caso di danno di origine traumatica, degenerativa o infiammatoria un più rapido ritorno alla attività fisiologica. 2. Permette una rigenerazione più rapida di tessuti danneggiati. 3. Attiva il microcircolo, permettendo un maggior apporto di sostanze nutrienti ai tessuti. 4.Ha effetto antiedemigeno, dilatando i vasi linfatici e riducendo la permeabilità vascolare. Ha effetto analgesico, agendo direttamente sulle fibre nervose, stimolando la produzione di endorfine e riducendo edema e gonfiore. L’effetto anti-edemigeno è basato sulla dilatazione dei vasi linfatici e sulla riduzione della permeabilità dei vasi sanguigni. La laserterapia trova ampia applicazione in: Traumatologia: stiramenti e strappi muscolari, distorsioni, tendiniti, contusioni. Ortopedia: artrosi, artriti, miositi (es. muscoli masticatori). Dermatologia: edemi (es. postoperatori, reazione tissutale o pre-operatori: preparazione chirurgica degli ascessi cloacali delle tartarughe), dermatiti (es. allergiche), cicatrizzazione per seconda intenzione (es. in seguito a chirurgie complesse o ferite lacere di grandi dimensioni). La Laserterapia può essere applicata a scansione o a contatto. In quest’ultima modalità, in cui la sorgente Laser è posta direttamente a contatto con la cute del paziente, la massima efficacia terapeutica viene ottenuta quando vengono trattati i punti trigger.

noma del furetto: 6 W continuo. Sacculectomia anale del furetto: 6 W sp. Mastectomia e masse cutanee nei piccoli mammiferi: 4 W continuo (cw). Ablazione di masse cutanee: semplificata con minima perdita di sangue. Il laser a diodi supera il laser a CO2 in molti usi clinici nei piccoli animali. La maggior parte dei modelli è equipaggiata con un manipolo e fibre ottiche di diverso diametro (200, 400, 600 µm). La lunghezza d’onda del diodi è nel range infrarosso (810-980 nm). La capacità di assorbimento dell’acqua a questa lunghezza d’onda è minima. Il laser a diodi riconosce come cromoforo principale l’ossiemoglobina. Specificatamente il laser a diodi, rispetto al CO2 ha i seguenti vantaggi: maggiore capacità emostatica (capacità di chiudere vasi fino a 2 mm di diametro rispetto ai 0,6 mm del laser a CO2), possibilità di utilizzo in ambienti fluidi ad esempio tratto intestinale, addome ripieno di liquidi, vescica. Il laser a diodi è inoltre utilizzabile in endoscopia (endoscopio rigido o flessibile). Applicazioni: Uccelli (uso endoscopico): ablazione testicolare e ovariectomia per via endoscopica: 4-6 W continuo. Papilloma cloacale: 4-6 W continuo. Rettili: cistotomia, enterotomia, enterectomia, amputazione di dita zampe o arti, chirurgia orale (stomatiti, ascessi,..), enucleazione, asportazione endoscopica di lesioni del tratto respiratorio e in celoma. Mammiferi: asportazione endoscopica di neoformazioni del tratto respiratorio, lesioni del cavo orale, lesioni cutanee, caudectomia patologici. I vantaggi del Laser a Diodi utilizzato nella chirurgia, sono legati alla possibilità di intervenire su tessuti altamente irrorati, senza il rischio di eccessivi sanguinamenti riducendo i rischi su animali di piccole dimensioni (criceti, gerbilli, piccoli rettili…) e di operare attraverso cavità naturali quali l’orecchio e il naso soto al guida endoscopica. Utilizzo dei Laser a bassa potenza: la Laserterapia. L’impiego di laser a bassa potenza sta trovando negli ultimi anni un più vasto impiego negli animali esotici per i costi maggiormente contenuti rispetto ai laser chirurgici e per la molteplicità delle applicazioni terapeutiche. La Laserterapia è inoltre una tecnica completamente indolore e quindi non stressante per l’animale. Non presenta alcun rischio se effet-

Bibliografia disponibile presso l’autore. Indirizzo per la corrispondenza: Giordano Nardini Clinica Veterinaria Modena Sud, Piazza dei Tintori, 1 41057 Spilamberto (Modena) - Tel 059783272 E-mail: info@clinicaveterinariamodenasud.it

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Il ruolo del chirurgo nella resezione di neoplasie endocrine: surrenalectomia, tiroidectomia (…) Stefano Nicoli Med Vet, Reggio Emilia

La chirurgia spesso rappresenta il trattamento di elezione in caso di patologie dell’apparato endocrino. Si tratta di trattamento risolutivo che, però, richiede la presenza di un chirurgo esperto in quanto estremamente operatore-dipendente. Per affrontare al meglio la chirurgia delle ghiandole endocrine è necessaria un’adeguata conoscenza dell’anatomia, della fisiopatologia, delle tecniche chirurgiche e delle regole da seguire in corso di chirurgia oncologica. Non fondamentale ma spesso molto utile, soprattutto nella gestione di eventuali complicanze intraoperatorie, è la preparazione specifica dell’operatore in chirurgia vascolare e in microchirurgia. Tutto ciò ancora non basta. Il trattamento delle neoplasie che colpiscono le ghiandole endocrine può essere visto come un mosaico del quale l’atto chirurgico rappresenta un tassello. La fase diagnostica è estremamente importante e spesso fornisce notizie di grande utilità per evitare inconvenienti durante la chirurgia (per esempio segnalando la presenza di vascolarizzazione anomala, di trombi neoplastici cavali o di aree di colliquazione/necrosi). Il periodo post operatorio poi riveste un’importanza drammatica. Spesso, a causa della chirurgia, questi pazienti vanno incontro ad alterazioni metaboliche che richiedono trattamenti immediati e il ricovero, nei giorni che seguono l’intervento, in unità di terapia intensiva è cruciale. In definitiva, è necessaria una grande sinergia tra le figure dell’internista, dell’anestesista, del chirurgo e dell’intensivista per realizzare le maggiori possibilità di successo. Surrenalectomia: la surrenalectomia o adrenalectomia viene eseguita per asportare tumori della corticale (adenoma; carcinoma) o della midollare (feocromocitoma) surrenalica. Può anche essere utilizzata per trattare un iperadrenocorticismo pituitario-dipendente non rispondente a terapia medica (adrenalectomia bilaterale). Le ghiandole surrenali si trovano nello spazio retroperitoneale in posizione craniomediale rispetto al rene corrispondente. Spesso avvolte da un pannicolo adiposo, sono posizionate tra le vene frenicoaddominali ventralmente, che rappresentano il miglior repere anatomico per la loro identificazione, e le arterie frenicoaddominali dorsalmente. La ghiandola destra è in posizione leggermente più craniale e mediale rispetto alla contro-laterale e si trova addossata alla vena cava caudale in modo così intimo che spesso la tunica esterna della vena cava e la capsula surrenalica si fondono a formare una struttura unica. Il polo caudale si trova in vicinanza dei vasi renali che spesso, in seguito ad aumenti di volume della ghiandola, vengono spostati caudalmente o, peggio, coinvolti nel processo patogeno. La preparazione del paziente riveste grande importan-

za; oltre agli esami di routine, se si sospetta un feocromocitoma devono essere monitorate la pressione ematica e la funzionalità cardiaca che, se alterate, devono essere controllate prima della chirurgia. In caso di chirurgia eseguita per iperadrenocorticismo l’asportazione della surrenale patologica può causare un crollo nella cortisolemia. Per questo motivo la somministrazione di glucocorticoidi è spesso consigliata nelle fasi preoperatorie. L’accesso chirurgico può essere eseguito sulla linea ventrale mediana, con approccio retroperitoneale. L’approccio ventrale è, in genere, da preferire perché permette di evidenziare entrambe le ghiandole e tutti gli organi addominali. Alcune volte può essere di aiuto eseguire un accesso combinato tra celiotomia mediana ventrale e incisione paracostale al fine di ottenere una migliore visualizzazione della ghiandola. L’isolamento della surrenale deve essere fatto con grande attenzione al fine di non lesionare le strutture adiacenti, spesso con anatomia modificata, e di non causare la rottura della capsula ghiandolare. La chiusura dei vasi è estremamente facilitata dall’uso di clip vascolari, il cui utilizzo rende, inoltre, la procedura molto più veloce. A mio parere, anche l’uso di mezzi di magnificazione ottica (loupe) agevola la procedura in quanto facilita l’evidenziazione e il trattamento delle diverse strutture anatomiche. Talvolta, le neoplasie surrenaliche sono associate a disseminazione sotto forma di trombo cavale, per lo più attraverso la vena frenico-addominale. Di norma, un accurato percorso diagnostico preoperatorio consente di visualizzare il trombo cavale, nonostante ciò è buona norma in sede chirurgica esaminare attentamente la vena cava. In caso di invasione cavale è necessario eseguire una venotomia che consenta di rimuovere il materiale trombotico. Al termine della procedura può essere utile il posizionamento di materiale emostatico al fine di controllare eventuali piccole emorragie residue. L’attento monitoraggio del paziente nel periodo post-operatorio è fondamentale per riconoscere e trattare celermente segni di insufficienza surrenalica e le altre importanti complicanze potenzialmente legate a questa chirurgia. Tra queste ricordiamo l’ipoadrenocorticismo, il tromboembolismo, le emorragie retro peritoneali e la pancreatite dovuta a manipolazione chirurgica. Utile, inoltre, ricordare che i pazienti affetti da iperadrenocorticismo possono presentare cicatrizzazione rallentata e questo va considerato sia in fase di sutura, per la scelta del materiale, sia in fase di rimozione della stessa. Il tasso di mortalità in seguito a surrenalectomia riportato in letteratura varia, a seconda dei report, dal 10 al 20% e i decessi sono per lo più concentrati nel periodo perioperatorio; nonostante questo, gli autori 187


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sono concordi nel considerare la chirurgia come il trattamento di elezione almeno in caso di lesione monolaterale. Tiroidectomia La ghiandola tiroide nel cane e nel gatto è costituita da due lobi separati situati in posizione ventrolaterale alla trachea cervicale. Il lobo dx è in posizione leggermente più craniale e va dalla laringe al quinto anello tracheale, il sinistro dal terzo all’ottavo anello. L’arteria carotide comune, la vena giugulare e il tronco vago-simpatico decorrono in posizione dorso-laterale. Le ghiandole paratiroidi sono intimamente unite alla capsula tiroidea sul polo craniale. Sono coperte ventralmente dai muscoli sternoioideo e sternocefalico, lateralmente dal muscolo sternotiroideo. L’apporto vascolare è assicurato dalle arterie tiroidee craniali e caudali e il sangue refluo è drenato dalle vene tiroidee craniali e caudali. Le neoplasie tiroidee hanno, nel cane e nel gatto, caratteristiche molto diverse, sia della tipologia istologica, sia per sintomatologia e trattamento. Nel cane le neoplasie tiroidee sono relativamente comuni con una frequenza che varia da 1.2 a 3.8% sul totale dei tumori rappresentati in questa specie. Le forme maligne (carcinomi) sono preponderanti (circa 88%) e si presentano spesso come grandi masse, a volte rivestite da una capsula sottilissima, con grande invasività locale. Le forme monolaterali sono maggiormente rappresentate (67-75%). Nel cane solo il 25% delle neoplasie tiroidee è secernente quindi, nella maggior parte dei casi, la malattia decorre senza segni clinici o ematologici. La disseminazione metastatica a distanza è relativamente comune. Il trattamento dipende dalla condizione clinica del paziente. Probabilmente, il miglior parametro per pianificare l’iter terapeutico è dato dalla mobilità della neoformazione. In caso di masse mobili la chirurgia è la terapia d’elezione mentre in caso di masse non mobili sono da preferire chemioterapia, radioterapia o terapia con radioisotopi. L’approccio chirurgico avviene sulla linea mediana ventrale del collo, con il paziente posizionato in decubito dorsale, con testa estesa e collo leggermente inarcato. Dopo aver separato i muscoli sternoioidei sulla linea mediana si raggiungono i lobi tiroidei. I vasi tiroidei devono essere identificati e legati e, in caso di tiroidectomia monolaterale, non è necessario preservare la ghiandola paratiroide ipsilaterale. Se coinvolti, i grossi vasi del collo possono essere sacrificati senza conseguenze così come il tronco vago-simpatico la cui asportazione, però, può esitare in una sindrome di Horner monolaterale. La complicanza più importante nel periodo peri e post-operatorio è l’emorragia, causata dalla fragilità della neovascolarizzazione, dalla distruzione della rete vascolare ghiandolare, da coagulopatie e dalla presenza di trombi neoplastici. Per questa ragione è molto importante avere a disposizione sangue fresco in caso necessiti una trasfusione. La sopravvivenza media di cani con carcinoma tiroideo non trattato è di soli 3 mesi. Al contrario, il tempo di sopravvivenza dei pazienti con neoplasia mobile trattati chirurgicamente è buono (medio 36 mesi) con tassi di sopravvivenza del 75 e 70% dei pazienti a 1 e 2 anni rispettivamente. La sola chirurgia nei cani con neoplasia fissa porta a risultati meno confortanti (tempo medio di sopravvivenza di 10 mesi) con il 25% dei pazienti ad un anno ed il 10% a due. Se alla tiroidectomia si associa radioterapia il valore

aumenta sensibilmente (sopravvivenza media 24.5 mesi) con l’80% dei casi ad un anno ed il 72% a due anni. In un report, 32 cani trattati solo con isotopi radioattivi (Iodio 131) hanno avuto un tempo di sopravvivenza medio di 30 mesi. Un altro fattore importante che influenza la prognosi è dato dalle dimensioni della neoplasia, infatti all’aumentare del volume (e di conseguenza dell’invasività locale) della neoformazione corrisponde una prognosi via via sempre più scadente. Nel gatto le neoplasie tiroidee sono per la quasi totalità benigne (98%) e spesso sono secernenti quindi, al contrario di quanto accade nel cane, i pazienti sviluppano sintomi correlabili ad ipertiroidismo. Nel 70% dei casi la malattia è bilaterale ma, clinicamente, spesso appare alterato un solo lobo. La terapia chirurgica è certamente indicata quando la patologia è monolaterale mentre, in caso di invasione bilaterale, la necessità di risparmiare almeno una ghiandola paratiroide può esitare in recidiva di ipertiroidismo se la capsula residua contiene ancora cellule tumorali. Prima di affrontare l’intervento è opportuno preparare il paziente al fine di renderlo eutiroideo somministrando metimazolo, che è anche utilizzato per la terapia non chirurgica, ma che non è privo di effetti collaterali (vomito, depressione, anoressia, leucopenia, trombocitopenia, coagulapatie, ecc). La chirurgia può essere eseguita tramite exeresi totale (extracapsulare) o con tecnica intracapsulare eseguita al fine di preservare le paratiroidi. In caso di neoplasie bilaterali o di disseminazione ectopica la terapia consigliata è quella con radioisotopi (Iodio 131) che è associata a minori complicanze e ha la caratteristica di non necessitare di terapia ormonale sostitutiva in quanto provoca la distruzione selettiva delle cellule neoplastiche. Le ghiandole paratiroidi possono essere interessate da neoplasie benigne (adenoma) o maligne (adenocarcinoma); le prime sono rappresentate con maggiore frequenza. Le paratiroidi sono quattro, due esterne, posizionate sul polo craniale di ciascun lobo tiroideo e due interne o mediali, situate medialmente e posteriormente tra la tiroide e la trachea bilateralmente. La chirurgia rappresenta il trattamento di elezione e consiste nell’asportazione delle ghiandole patologiche. L’accesso è il medesimo descritto per la tiroidectomia ed è importante visualizzare tutte e quattro le ghiandole in quanto spesso soltanto una è interessata dalla patologia. È importante preservare il tessuto ghiandolare sano al fine di evitare uno stato di grave ipocalcemia post operatorio. Gli adenomi infiltrano raramente il parenchima tiroideo, le forme maligne, al contrario, spesso invadono il tessuto sottostante e richiedono l’asportazione parziale o totale del lobo tiroideo corrispondente. In un report l’ipocalcemia post operatoria è stata riportata nel 58% dei casi; nonostante questo, con le adeguate terapie di supporto e/o sostitutive, la prognosi di cani e gatti trattati chirurgicamente per iperparatiroidismo causato da adenoma è eccellente.

Bibliografia disponibile su richiesta Indirizzo per la corrispondenza: Stefano Nicoli stefano.nicoli@unito.it; sn-cvp@libero.it

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Leishmaniosi canina: dalla stadiazione clinica alla prevenzione in campo Domenico Otranto Med Vet, Dr Ric, Dipl EVPC, Fellow R.E.S., Bari

Gaetano Oliva Med Vet, Napoli

INTRODUZIONE

inferiore a 3 anni e quelli tra gli 8 e i 10 sono i più sensibili. L’anamnesi è quindi fondamentale nell’indirizzare il sospetto clinico. A causa del lungo periodo d’incubazione la malattia non è stagionale. Nel cane la malattia si presenta nella forma generalizzata a decorso cronico, ed il quadro sintomatologico è pleomorfo; dopo il periodo d’incubazione (variabile da 1 mese a 4 anni) possono manifestarsi inizialmente sintomi quali lieve depressione e diminuzione dell’attività fisica e, quindi, comparire lesioni cutanee non pruriginose, alopecia progressiva, desquamazione e ulcerazioni. Alcuni cani sviluppano lesioni oculari quali cheratocongiuntiviti, uveiti e accrescimento abnorme delle unghie. Si può registrare riduzione del peso, atrofia muscolare, insufficienza renale con poliuria, polidipsia, depressione del sensorio. La stadiazione clinica è fondamentale per decidere se e come trattare un cane infetto da L. infantum. Un cane infetto è un soggetto nel quale sia dimostrabile la presenza del parassita, con metodi diretti (microscopia, coltura, PCR) o con metodi indiretti (messa in evidenza di anticorpi specifici). Per rendere più agevole l’inquadramento diagnostico dei cani infetti, è stata recentemente pubblicata una classificazione elaborata dal Gruppo di Studio sulla Leishmaniosi Canina (GSLC; www.gruppoleishmania.org). Il GSLC, oltre a pubblicare linee guida riguardanti la diagnosi e la classificazione dei soggetti infetti, ha elaborato indicazioni sul trattamento terapeutico della LCan. Un cane infetto può essere definito malato quando mostra uno o più segni clinici di leishmaniosi, incluse alterazioni ematologiche, ematobiochimiche ed urinarie. Un cane infetto da L. infantum, inoltre, prima di manifestare segni clinici di malattia, può permanere per numerosi mesi o anni in uno stato d’infezione. Tale stato può essere facilmente diagnosticabile (infezione patente) o essere al limite della rilevabilità, pur a seguito dell’impiego di metodiche di diagnosi sierologica, citologiche e molecolari (infezione sub patente). Una volta che l’infezione abbia dato luogo alla malattia essa può assumere espressioni cliniche più o meno gravi, a seconda degli organi coinvolti. La classificazione dei diversi stadi di malattia è stata invece recentemente pubblicata da un gruppo di docenti di medicina veterinaria provenienti da numerosi paesi del mon-

La leishmaniosi è una infezione causata da protozoi (ordine Kinetoplastida e famiglia Trypanosomatidae) presenti, in quanto parassiti intracellulari obbligati, nella forma di amastigote nelle cellule del sistema reticolo endoteliale (SRE) di ospiti vertebrati quali roditori, carnivori domestici (cani, gatti) e selvatici (volpi), e uomo. La trasmissione di Leishmania spp. avviene quando i flebotomi vettori si alimentano su animali infetti. Nel cane la leishmaniosi canina (LCan) è caratterizzata da un ampio range di segni clinici. Leishmania infantum è la specie maggiormente diffusa al mondo e svolge un importante ruolo sia nell’ambito della medicina veterinaria sia della Sanità Pubblica. In Europa, la leishmaniosi da L. infantum è endemica nei Paesi mediterranei anche se, negli ultimi anni, l’areale di diffusione dell’infezione si è espanso alle regioni settentrionali con focolai autoctoni segnalati in alcune aree della Svizzera e della Germania. In Italia oltre alle aree endemiche per LCan del Centro e Sud Italia, isole comprese, nuovi focolai sono stati riportati nelle regioni del Nord Italia. La prevalenza dell’infezione nei cani, in Italia, varia da 1.7 al 48.4% con un’incidenza annuale del 9.52% fino al 13.1% in animali presenti in un area endemica della Puglia. Il cane è il principale serbatoio domestico di L. infantum. La maggior parte dei cani che vivono in aree endemiche è stato esposto alle punture di flebotomi infetti anche se, un alta percentale di questi animali, in aree endemiche non sviluppa segni clinici. Nonostante ciò, questa categoria di soggetti rappresenta una importante fonte di infezione da L. infantum per altri animali recettivi attraverso la puntura di insetti vettori. Le caratteristiche biologiche ed epidemiologiche su descritte condizionano molto sia le valutazioni cliniche dei liberi professionisti che il controllo dell’infezione in aree endemiche.

DALLA STADIAZIONE CLINCA… Gli animali che vivono all’aperto, che provengono da aree endemiche o che vi hanno trascorso periodi di soggiorno sono maggiormente a rischio, così come, i soggetti di età 189


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do (Leishvet, Vet. Parasitology, 2009). La distinzione in 4 gradi di gravità rende più agevole il compito del medico veterinario, soprattutto ai fini terapeutici e prognostici.

ne comunemente definita come “effetto repellente”. I collari impregnati di deltametrina (Scalibor® ProtectorBands; Intervet, Netherlands) sono stati impiegati in numerose prove di campo condotte in Italia per il controllo della LCan in aree endemiche e hanno fatto registrare un tasso di protezione pari al 50% e al 86% su animali trattati in due stagioni consecutive. Recentemente, un’associazione di imidacloprid 10% e permetrina 50% -ImPer- (Advantix®; Bayer AG, Germany) spot-on è stata sviluppata per il trattamento e la profilassi delle infestazioni da zecche e pulci e contro le punture di zanzare e flebotomi. Sulla scorta dei risultati ottenuti in laboratorio, l’efficacia dell’associazione ImPer spot-on come misura di controllo per prevenire la LCan è stata valutata in cani in aree endemiche del Sud Italia, in condizioni naturali di infezione. La prova è stata condotta in due canili situati in aree endemiche per LCan nella regione Puglia. In entrambi i canili sono stati formati tre gruppi di animali: cani trattati con ImPer ogni 28 giorni o ogni 14 giorni e cani controllo non trattati. Prima dell’inizio dello studio, e in assenza di flebotomi, 845 animali asintomatici di entrambi i sessi e di età e razze differenti sono stati testati sierologicamente e con metodiche molecolari per effettuare la diagnosi di infezione da Leishmania. Al termine della prova di campo è stata calcolata un’efficacia di protezione dell’ImPer nei confronti di L. infantum di 89,65% e di 95,36% negli animali trattati una e due volte al mese rispettivamente. Senza dubbio l’attività anti-feeding dell’associazione ImPer contro i flebotomi in condizioni naturali ha dato indicazioni chiare sull’importanza del trattamento con soluzioni repellenti per la diminuzione dell’infezione da L. infantum in aree endemiche. Nondimeno, tutte le strategie di controllo devono essere correlate ad una politica ambientale adeguata che preveda il censimento della popolazione canina attraverso la lotta al randagismo e la gestione sanitaria dei canili.

… AL CONTROLLO Controllare un’infezione causata da un protozoo intracellulare che elude il sistema immunitario dell’ospite attraverso una serie di meccanismi di escape biologici e biochimici, è complesso soprattutto quando si tratta, come nel caso della leishmaniosi, di un’infezione trasmessa da artropodi. L’eutanasia dei cani infetti sintomatici è stata considerata per lungo tempo l’unica via per eradicare l’infezione da L. infantum nella popolazione animale e umana in alcune regioni del mondo (es. India, Brasile, Cina). Tuttavia, questa misura di controllo è del tutto inadeguata poiché non diminuisce l’incidenza dell’infezione nelle popolazioni canine e umane. Ad oggi, non sono ancora disponibili presidi vaccinali efficaci nei confronti dell’infezione da Leishmania. Nonostante le ricerche per la preparazione di un vaccino nei confronti di leishmania siano numerose e comprendano l’impiego di vaccini inattivati, a subunità o ad antigeni ricombinanti, la vaccinazione ad oggi rimane un’intervento non realistico per il controllo dell’infezione in campo. Tra le motivazioni più importanti sono da annoverare, il complesso quadro patogenetico della LCan, soprattutto in animali infetti in natura, la molteplicità dei sintomi, la difficoltà nel discriminare sierologicamente gli animali vaccinati rispetto a quelli infetti e i costi elevati. L’intervento sui vettori è quindi un punto cruciale per la strategia di controllo nei confronti di L. infantum. Interventi ambientali con DDT, carbammati, malathion, permetrina e piretroidi per diminuire le popolazioni di flebotomi, dove effettuati, sono stati caratterizzati da insuccesso a causa delle difficoltà di dosaggio degli insetticidi, dell’impossibilità di raggiungere i siti di riposo e riproduzione di questi insetti, dell’inquinamento ambientale, dell’attività residuale nei confronti di altri organismi e, non ultimo, dei costi elevati. Al contrario, non permettere che il flebotomo si alimenti sul cane significa prevenire l’inoculazione del protozoo e quindi l’infezione da Leishmania ad un ospite recettivo. È su questa semplice strategia che si basa quella che ad oggi è considerata la migliore soluzione per il controllo della LCan. I piretroidi (deltametrina, permetrine) hanno un’attività non solo insetticida ma anche anti-feeding (gli ectoparassiti non compiono il pasto di sangue sull’ospite) che vie-

Indirizzo per la corrispondenza: Domenico Otranto Dipartimento di Sanità e Benessere Animale Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Bari Str. Prov. per Casamassima Km3, 70010 Valenzano (Bari) Tel/fax: +39 080 4679839 E-mail: d.otranto@veterinaria.uniba.it Gaetano Oliva Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie Università degli Studi di Napoli Federico II E-mail: gaeoliva@unina.it

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Eliminazione inappropriata: sintomo di malattia organica Valeria Pantaleo Med Vet, Padova

Con il termine di minzione inappropriata ci si riferisce a segni clinici quali stranguria, pollachiuria, ematuria e periuria (urinazione in luoghi inappropriati) causati dall’irritazione della mucosa vescicale e/o uretrale. Si pensa che l’incidenza di tale problematica si aggiri intorno all’1.5% nella popolazione felina. Spesso la frustrazione dei proprietari è tale da indurli a cedere il loro gatto a qualcun altro o ad abbandonarlo in gattili e in casi estremi a ricorrere all’eutanasia quando i segni clinici recidivano nel corso degli anni senza miglioramento nonostante le terapie di supporto1. Molte volte i proprietari tendono a confondere i segni clinici di minzione inappropriata con la poliuria. Per tali ragioni durante la raccolta anamnestica è molto importante porre domande mirate in maniera tale da non ottenere informazioni fuorvianti. Il segnalamento e l’anamnesi sono due strumenti di fondamentale importanza per cercare di capire la natura del problema. Le cause di minzione inappropriata sono diverse da quelle di poliuria, ma alcune cause di poliuria possono anche essere responsabili di minzione inappropriata. In particolare si devono ricordare da un lato malattie endocrine come l’ipertiroidismo e il diabete mellito, dall’altro malattie metaboliche quali l’insufficienza renale cronica in cui è stata evidenziata una maggiore incidenza di infezioni urinarie (che giustificano la minzione in luogo inappropriato)2. Nel corso degli anni sono stati condotti vari studi per cercare di definire le più comuni cause di eliminazione inappropriata. Uno studio epidemiologico che includeva un numero elevato di gatti, ha evidenziato, che la prima causa di eliminazione inappropriata è cistite idiopatica felina, seguita dall’ostruzione uretrale, dagli uroliti (comprendenti calcoli vescicali e/o calcoli uretrali e/o tappi uretrali), dalle infezioni urinarie, dall’incontinenza urinaria, dai difetti congeniti e da altre cause meno importanti da un punto di vista numerico. Inoltre, quando venivano considerati gatti di età superiore ai 10 anni, aumentava il rischio di infezioni batteriche e di neoplasie e si riduceva quello di cistite idiopatica felina3. L’approccio diagnostico al gatto con eliminazione inappropriata prevede l’utilizzo di tre test di base: la radiografia addominale, l’esame delle urine e l’urinocoltura4. A seconda del segnalamento e dei segni clinici si potrà decidere se eseguire uno o più test diagnostici per individuare la natura del problema. Una radiografia addominale in bianco che includa tutto l’apparato urinario (compresa l’uretra) può essere uno strumento molto utile; soprattutto se si pensa all’elevata incidenza di litiasi vescicale e/o uretrale respon-

sabile dei segni clinici legati ai disturbi della minzione. Nel caso in cui fosse possibile eseguire un solo test diagnostico è probabile che uno studio radiografico fornisca informazioni molto preziose. In presenza di calcoli non radiopachi o lesioni quali masse, coaguli di sangue e stenosi uretrali si rendono necessari studi di diagnostica per immagini più sofisticati. Se l’esecuzione di un’ecografia addominale non è sufficiente a individuare la natura del problema si può ricorrere a studi contrastografici quali cistografia con doppio contrasto, uretrografia ascendente e/o tomografia computerizzata. L’esame delle urine è un valido ausilio quando si indagano le cause di poliuria. L’individuazione di un peso specifico urinario inferiore a 1.035 per un gatto che assuma una dieta esclusivamente secca o inferiore a 1.025 per un gatto che ingerisca una dieta esclusivamente umida suggerisce l’esecuzione di ulteriori esami di approfondimento (esame biochimico e misurazione del tT4 e/o fT4) per escludere la presenza di cause metaboliche di poliuria. È importante ricordare che la presenza di ematuria, piuria, proteinuria e/o cristalluria non è indicativa di uno specifico disordine a carico della vescica e/o dell’uretra, e che in caso di calcolosi non sempre la cristalluria si correla con la composizione del calcolo. La piuria non sempre si associa a batteriuria, e occasionalmente si riscontra in quadri di cistite sterile. Il riscontro di batteri è poco frequente nel gatto giovane mentre l’incidenza di infezioni aumenta nel gatto anziano (>10 anni di età). Nel caso in cui si sospetti un’infezione urinaria, la conferma dovrebbe sempre avvenire tramite urinocoltura. In due terzi dei gatti affetti da patologia delle basse vie urinarie la principale causa di malattia risulta essere la cistite idiopatica felina. La diagnosi avviene escludendo tutte le altre possibili cause di inappropriata minzione. Il segnalamento, la storia clinica, la visita clinica, una diagnostica per immagini negativa, un esame delle urine e un’urinocoltura negativi permettono di diagnosticare una forma di cistite idiopatica. Non esistono segni clinici patognomonici che ci possano indirizzare verso tale problematica, ma si è visto che molti gatti affetti da cistite idiopatica hanno un intenso dolore che si manifesta con vocalizzazione durante la minzione, andatura rigida, fastidio o atteggiamento di difesa quando toccati a livello addominale, ossessiva pulizia della zona addominale e/o alterazione del comportamento (nervosismo, aggressività e/o tendenza a nascondersi). Per la forte sintomatologia dolorifica e per la natura idiopatica, questa cistite è stata avvicinata alla cistite interstiziale che colpisce gli esseri umani. Quando in un gatto affetto da cistite idio191


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scatenante, si cerca di ridurre e/o eliminare gli stimoli stressanti con strategie di arricchimento ambientale8, e solo in casi molto gravi è necessario introdurre una terapia farmacologia complementare1.

patica si esegue una cistoscopia e si riscontrano caratteristiche petecchie emorragiche sottomucosali si può parlare di cistite interstiziale anche in questa specie. Tra i fattori predisponenti sono stati riconosciuti: l’appartenenza alla razza persiana, il sovrappeso, una dieta prettamente con alimento secco, una vita esclusivamente casalinga e la convivenza con uno o più gatti5. La patofisiologia della malattia non è ancora ben chiara e implicherebbe complesse interazioni tra diversi sistemi organici6. Normalmente, in condizioni di stress si ha l’attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS) da un lato e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene dall’altro. Al contrario nella cistite idiopatica, in cui gli stimoli stressogeni giocano un ruolo primario esacerbando i segni clinici, si ha un’iperreattività del SNS dovuta a inadeguato meccanismo di feed-back negativo da parte delle ghiandole surrenali che perpetua il processo di malattia. Infatti il rilascio di cortisolo nei gatti affetti da cistite idiopatica sarebbe ridotto; non a caso il volume delle surrenali e la zona fascicolata (esame istologico) appaiono diminuite in questi soggetti7. Inoltre l’aumentata permeabilità uroteliale favorirebbe un maggior contatto tra l’epitelio e i costituenti dell’urina con rilascio locale di neurotrasmettitori e conseguente infiammazione neurogenica vescicale. La cistite idiopatica ha un andamento altalenante. I segni clinici tendono a risolversi indipendentemente dalla terapia nella maggior parte dei gatti colpiti nel giro di 2-5 giorni, purtroppo circa il 50% di questi gatti avrà una recidiva entro un anno4. Nelle forme acute la terapia ha come fine quello di attenuare i segni clinici legati al dolore. Perciò a seconda della condizione clinica del gatto potranno essere utilizzati oppioidi, antinfiammatori non steroidei o neurolettici. Nelle forme croniche, rappresentando lo stress un possibile fattore

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Indirizzo per la corrispondenza: Valeria Pantaleo E-mail: valeria.pantaleo@sanmarcovet.it

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Salmonella in reptiles: a real zoonotic risk? Frank Pasmans DVM, PhD, MSc, Dipl ECZM (herpetology), Ghent (B)

SALMONELLA INFECTIONS IN REPTILES

granulomatous disease. Its role in enteric disease in reptiles is not clear but at least in chelonians and bearded dragons, no signs of enteritis can be seen after experimental inoculation. When Salmonella is isolated from the internal organs of chelonians showing clinical signs, this condition is generally associated with other predisposing factors such as stress, heavy parasitic loads, traumata, tumours and other infectious diseases (Cambre et al., 1980). Also in lizards and snakes, viral infections (e.g. adenovirosis in lizards) or heavy intestinal parasitic infections often coincide with these Salmonella associated lesions. A primary role of Salmonella in the development of disease in reptiles has still to be demonstrated. Even when infected intracardially, subcutaneously or intraperitoneally with Salmonella, chelonians mostly don’t show any clinical signs of salmonellosis (Blanc et al., 1960; Delage, 1966; Dimow, 1966). Parenterally infected chelonians are able of mounting an antibody response towards Salmonella (Blanc et al., 1960; Dimow, 1966, Pasmans et al., 2002). An intriguing series of cases of clinical Salmonella infections with the subspecies arizonae, causing osteomyelitis in rattle snakes has been reported (a.o. Bemis et al., 2007). Until clear evidence is presented, Salmonella should be considered a facultative pathogen in reptiles, which occurs as a natural component of their intestinal microbiota. Hence, it is the author’s point of view that Salmonella infections in reptiles should not be treated unless associated with clinical signs.

Reptiles are well known carriers of Salmonella. Especially lizards, snakes and tortoises can be considered natural reservoirs for this bacterium and each reptile should be considered a Salmonella carrier until the contrary is proven. Both Salmonella enterica and Salmonella bongori, their subspecies and serovars can be found in reptiles (Bäumler et al., 1998). Moreover, reptiles can be infected by multiple serovars at the same time. Known host-adapted and hostrestricted serovars are rarely reported from reptiles, one of the examples is a serovar Dublin strain that has been isolated from the snake Walterinnesia aegyptia (Greenberg and Sechter, 1992). Although clinical salmonellosis occasionally occurs in reptiles, most infections do not induce any pathology. The mechanisms Salmonella uses to persistently colonize the reptilian host are poorly understood. Although there is some evidence that Salmonella might be transferred vertically in reptiles, the oral route of infection probably is the most common one. After infection, the bacterium mainly resides in the gut. Colonization of the chelonian host is restricted to the distal intestinal tract, without invasion of intestinal tissues and colonisation of internal organs, (Dimow, 1966, Pasmans et al. 2002). In the hindgut, chelonians can carry and excrete Salmonella for at least one year (Dimow, 1966) and even for up to nine years (Boycott, 1962). However, experimental inoculation of bearded dragons (Pogona vitticeps) with a Salmonella Typhimurium strain did result in persistent colonization of both the intestinal tract and liver and spleen in the absence of clinical signs (Pasmans, unpublished results). Indeed, Salmonella appears to be perfectly capable of surviving and even proliferating intracellularly in chelonian and saurian macrophages (Pasmans et al., and unpublished results). This suggests that the pathogenesis of a Salmonella infection does not only differ strongly between reptiles and homeothermic hosts, but probably also between different reptilian orders. In mammals and birds, the so called Salmonella pathogenicity islands (SPI) are major virulence determinants, and among other functions responsible for intestinal invasion and persistency in the host macrophages (for recent reviews see Schlumberger and Hardt, 2006; Waterman and Holden, 2003). In reptiles, the role of these SPI is far from clear yet but recent results show that they do contribute significantly to the pathogenesis of Salmonella infections in reptiles. Clinical salmonellosis is rare in reptiles but might present as salpingitis, dermatitis, osteomyelitis, septicaemia and

ZOONOTIC IMPORTANCE It is now generally accepted that, with the exception of host-restricted serovars like Pullorum or Abortusovis, most serovars of Salmonella are able to cause salmonellosis in humans (Aleksic et al., 1996). Because a high percentage of reptiles excrete high numbers of Salmonella bacteria as asymptomatic carriers, they constitute a source of Salmonella infections to humans. Human salmonellosis and Salmonella infections in chelonians were linked for the first time in 1962 (Communicable Disease Center, 1963). Since then, an increasing number of reptile-associated salmonellosis was noted. In the seventies, the source of infection of between 11 and 22% of all registered human salmonellosis cases were chelonians (Lamm et al., 1972; Cohen et al., 1980). A recent study estimates that 6% of all sporadic Salmonella infections in the USA can be attributed to reptiles. Of the top 20 increasing serovars isolated from 1987 until 193


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References

1997 in the USA, seven were common reptile-associated Salmonella serovars (Olsen et al., 2001). Turtle-associated salmonellosis was estimated to cost about 12.5 million Euro in the USA in 1987 (Stehr Green and Schantz, 1987). Sources of infection for humans are: contact with reptiles, their faeces or contaminated water and objects such as aquaria, feeding bowls etcetera (Ackman et al., 1995). Children younger than 4 years of age are most often infected, probably due to unhygienic handling of reptiles. Salmonella infections generally cause gastro-enteritis in humans. However, depending on age or immune status of the patient and the serovar involved, generalization may occur, leading to septicaemia, abortion and even death (Woodward et al., 1997). Especially immune deficiencies, for instance caused by leukaemia, systemic lupus erythematosus or HIV infections predispose for a very severe clinical course (Ackman et al., 1995; Woodward et al., 1997). Should we thus ban the keeping of reptiles because of the zoonotic risk they pose? Of course not. The discussion is unfortunately very heavily biased and should rather be: should we ban keeping pets because of the possible health risk they pose? The most common bacterial and mycotic zoonoses are contracted from food (e.g. salmonellosis, campylobacteriosis), dogs and cats (e.g. dermatophytosis, wound infections after bites and scratches), birds (e.g. ornithosis) and even fish (fish tuberculosis). Other pet associated health risks include traumata. For example, an estimated 100000 dog bites occur yearly in the Netherlands alone. Should we thus ban the keeping of dogs? Of course not. Clearly, the physical and psychological benefits of keeping dogs outweigh the risk they pose for public health. The same, however, does account for reptiles. Perhaps we should accept that a biological risk can never be eliminated when dealing with animals. As for dogs, we should aim at reducing the risk our pet reptiles pose. This can be very easily done using basic hygienic measures. Most reptile-associated salmonellosis cases are caused by direct or indirect contact of small children with reptiles. Reptiles are simply not suitable as pets / toys for small children and will definitely not benefit from being petted by a toddler. The following guidelines are proposed regarding the handling of reptiles and strongly reduce the risk of contracting salmonellosis from reptiles: thoroughly washing of the hands, using soap and or hot water after direct or indirect contact with reptiles, separating reptile accessories from all utensils used for human food preparation, no free-roaming of reptiles in places accessible to children and finally, keeping reptiles away from children younger than 5 years of age, pregnant women and immunodeficient persons. Raising awareness of reptile owners concerning the zoonotic risk their pet poses is an important task of any reptile veterinarian. Extensive guidelines can be obtained from the Association of Reptile and Amphibian Veterinarians. In conclusion, there are no sound arguments to selectively ban the keeping of reptiles because of the possible zoonotic risk they pose.

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Address for correspondence: Frank Pasmans Laboratory of Veterinary Bacteriology and Mycology & Division of Poultry, Exotic Companion and Laboratory Animals, Department of Pathology, Bacteriology and Avian Diseases, Faculty of Veterinary Medicine, Ghent University, Belgium

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Dermatology in reptiles Frank Pasmans DVM, PhD, MSc, Dipl ECZM (herpetology), Ghent (B)

Tom Hellebuyck, DVM, Ghent (B) An Martel, DVM, PhD MSc, Ghent (B)

INTRODUCTION

Antimycotic resistance against itraconazole and hepatotoxicity of itraconazole have been observed (Van Waeyenberghe et al., 2010). Voriconazole proved to be a safe and effective antimycotic drug to treat CANV infections in lizards at a dose of 10 mg/kg BW q24h (Hellebuyck et al., 2010; Van Waeyenberghe et al., 2010). Despite the long treatment duration needed, the higher survival rate of the infected animals and the complete clearance of CANV currently makes this the treatment of choice. However, in case of systemic infections, prognosis remains poor. Besides antimycotic treatment, elimination of predisposing factors should be achieved and a regular follow up should be carried out to confirm the absence of the fungus.

Skin diseases represent one of the most important reasons for veterinary intervention in reptile medicine. Whereas most skin diseases in commonly kept reptile species are primarily caused by inappropriate husbandry and feeding, few infectious agents that primarily cause dermatitis are known. In this manuscript, we will focus on one bacterial (Devriesea agamarum) and one mycotic (Nannizziopsis vriesii) agent involved in severe and persistent dermatological problems in collections of captive reptiles.

CANV DEVRIESEASIS

Dermatomycosis caused by the Chrysosporium anamorph of Nannizziopsis vriesii (CANV) is a frequently observed and a difficult to treat disease problem in several captive reptile species. CANV infections typically present as skin discolouration, whether or not associated with hyperkeratosis and the formation of granulomata. In contrast to most dermatophyte associated diseases, CANV infections, if left untreated, often result in systemic spread causing death of the infected animal. CANV infections can be easily diagnosed by culture of the organism from clinical samples (skin lesions, granulomata). When culturing the fungus, one should bear in my mind an incubation period of 7-14 days at 30°C is needed for visible growth. Previously, clinical cure of CANV infection was established after itraconazole administration in a Parson’s chameleon (Chamaeleo parsonii, Paré et al., 1997) and in a bearded dragon (Pogona vitticeps, Bowman et al., 2007) and following ketoconazole treatment in two green iguanas (Iguana iguana, Abarca et al., 2008). In salt water crocodiles (Crocodylus porosus) debridement of dermal lesion combined with iodine-based antiseptic betadine swabbing and formalin bathing eliminated CANV infection (Thomas et al., 2002). Nevertheless, therapeutic failure has repeatedly been reported in reptiles suffering from CANV infection, even in spite of the use of antimycotics (Bertelsen et al., 2005; Bowman et al., 2007; Martel et al., 2006; Nichols et al., 1999; Paré et al., 1997; Thomas et al., 2002). This might be at least partly explained by the lack of knowledge concerning drug susceptibility patterns of Chrysosporium species and pharmacokinetics of antifungal drugs in reptiles.

Devriesea agamarum is a Gram positive, small rod, belonging to the class Actinobacteria (Martel et al., 2008), that causes dermatitis in lizards (P. vitticeps; Hellebuyck et al., 2009a). Probably, the disease is most often secondary to e.g. poor husbandry. D. agamarum causes chronic proliferative dermatitis, especially in agamid lizards. Lesions typically occur around the oral cavity, but also the pericloacal region and the legs are frequently involved. Septicaemia is a frequent complication and results in the death of the affected animal. Certain saurian taxa appear to be highly sensitive to the disease, especially dab lizards (genus Uromastyx), rock agamas (genus Laudakia), agamas (genus Agama) and Crotaphytus sp. An infection with D. agamarum in a captive collection of one of these lizard taxa may lead to high morbidity and mortality. In contrast, other taxa such as bearded dragons (genus Pogona) appear to be much less sensitive to D. agamarum associated disease. We have strong indications that bearded dragons are a major asymptomatic reservoir of D. agamarum infection for other lizard species. We recently showed that D. agamarum is able to persist for very long times in the environment: up to 57 days in dermal crusts and more than 3 months in moist sand at 20 or 30°C. In contrast, survival on dry surfaces is limited. This finding emphasises the need for a dry environment for most desert lizards. Indeed, the moist retreats as proposed in older literature for desert dwelling lizards, are definitely not nec195


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essary for the wellbeing of at least dab lizards. The authors have been keeping and breeding several Uromastyx species for almost 20 years, without providing any moisture, except for dietary vegetables. Diagnosis is based on a combination of clinical signs and the isolation of the bacterium from dermatitis lesions and blood in living specimens or skin or organ lesions in deceased animals. D. agamarum grows in small haemolytic colonies under aerobic, microaerobic or anaerobic conditions at temperatures between 25 and 42°C. A treatment schedule of intramuscular ceftiofur injections at 5 mg/kg body weight q24h was successful in eliminating both clinical signs and D. agamarum in experimentally and in naturally infected bearded dragons and dab lizards within 18 days (Hellebuyck et al., 2009b). However, prognosis is mostly poor in lizards with a systemic infection of D. agamarum. Besides antimicrobial treatment, it is of major importance to correct any predisposing factors such as husbandry shortcomings. Besides diet, proper heat, (lack of) moisture and lighting, especially dab lizards are highly prone to cage mate associated stress. Although this is not always obvious, social stress will lead to poor performance of the subdued animal.

References Abarca ML, Martorel J, Castella G, Ramis A, Cabañes FJ. 2008. Cutaneous hyalohyphomycosis caused by a Chrysosporium species related to Nannizziopsis vriesii in two green iguanas (Iguana iguana). Med Mycol. 2008;46:349-354. Bertelsen MF, Crawshaw GJ, Sigler L, Smith DA. Fatal Cutaneous Mycosis in tentacled snakes (Erpeton tenteculatum) caused by the Chrysosporium anamorph of Nannizziopsis vriesii. J Zoo Wildl Med. 2005;36:82-87. Bowman MR, Paré JA, Sigler L, Naeser JP, Sladky KK, Hanley CS, Helmer P, Phillips LA, Brower A, Porter R. Deep fungal dermatitis in three inland bearded dragons (Pogona vitticeps) caused by the Chrysosporium anamorph of Nannizziopsis vriesii. Med Mycol. 2007;45:371-376.

Address for correspondence: Frank Pasmans Laboratory of Veterinary Bacteriology and Mycology & Division of Poultry, Exotic Companion and Laboratory Animals, Department of Pathology, Bacteriology and Avian Diseases, Faculty of Veterinary Medicine, Ghent University, Belgium

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The role of the veterinarian in amphibian conservation: chytridiomycosis Frank Pasmans DVM, PhD, MSc, Dipl ECZM (herpetology), Ghent (B)

An Martel, DVM, PhD MSc, Ghent (B)

Amphibian populations are declining worldwide at an alarming rate. Although the main culprit of these declines is the human impact on the environment, infectious diseases such as chytridiomycosis are responsible for massive amphibian die offs. This paper briefly describes chytrid infections in amphibians and will then focus on how the veterinarian can contribute to limit the impact of chytridiomycosis on amphibian populations.

Chytridiomycosis can be diagnosed in practice using wet mounts of sloughed skin (Longcore et al., 1999). The sporangia are then visible as groups of rounded structures (generally in colonies) and moving zoospores can be seen. However, mild infections are easily missed and sloughed skin should be available. On dead specimens, the diagnosis can be confirmed using histology or immunohistochemistry. Preferential sampling sites are toes and / or skin from the drinking patch and / or thighs in. Again, mild infections can be easily overlooked. Isolation is theoretically possible as well but laborious and requires a lot of expertise. Besides, isolation from living specimens is currently not feasible. At present, the gold standard for the diagnosis of chytridiomycosis is quantitative (q) PCR (Boyle et al., 2004). Living specimens can be sampled by rubbing a cotton tipped swab over the drinking pad area of the belly and over the underside of fingers and toes. Swabs can be stored dry and frozen until further analysis. On dead specimens, the same samples can be used as for histology. Treatment of infected amphibians should consist of 1) treatment of the animal and all contact animals and 2) treatment of the environment. If a colony of captive amphibians is affected, all terrariums containing infected inmates must be identified using qPCR on skin swabs. Then, all animals from the infected terraria must be treated using itraconazole or voriconazole in separate enclosures. We currently designed a safe treatment using voriconazole, topically applied during at least 7 days at 1.25 mg/l water (Martel et al., 2010). During the animal treatment, the terraria with contents and all contact materials should be thoroughly disinfected (e.g. by heating > 50째C and or chlorine). The contents of the terrarium should never be discarded of in the environment before decontamination. After treating the terraria and the animals, the amphibians should again be tested for the presence of the fungus. In conclusion: treatment of B. dendrobatidis infected amphibian collections is possible but laborious and should be done very concisely.

CHYTRIDIOMYCOSIS Chytridiomycosis is caused by a fungus (Batrachochytrium dendrobatidis, Longcore et al., 1999), probably originating from clawed frogs (Xenopus) from South Africa (Weldon et al., 2004). This organism has spread worldwide and would play a major role in the alarming worldwide amphibian population declines (Berger et al., 1998). The fungus is adapted to lower temperatures and can persist for 7 weeks in pond water (Johnson and Speare, 2003). The organism prefers temperatures of 25째C and below, temperatures above 30째C are not well tolerated (Piotrowski et al., 2004). The pathogenesis is only poorly known at present. Fungal zoospores adhere to the amphibian skin and form sporangia inside the keratinocytes. Mature sporangia produce infective, motile zoospores. An infection with B. dendrobatidis causes epidermal hyperplasia and hyperkeratosis, without inducing a marked inflammatory response. Probably, the alterations of the skin disturb the electrolyte and fluid balances, resulting in the death of the animal (Voyles et al., 2009). In frogs and toads, symptoms include apathy, inappetence, pressing of the belly against the substrate and, characteristically, very frequent ecdysis and, eventually, death (Nichols, 2001; Berger et al., 1999). In salamanders of the genus Bolitoglossa, the tail is autotomized as well (Pasmans et al., 2004). Pathogenicity appears to vary widely between amphibian species and between B. dendrobatidis strains (Blaustein et al., 2005; Fisher et al., 2009). The course of an infection is hard to predict. Even when supposedly sensitive species are inoculated with a supposedly highly virulent strain, this does not necessarily result in the development of overt clinical disease (Martel et al., 2010). The complex interactions between fungus, host and environment, which eventually result in clinical chytridiomycosis are not yet understood.

How can veterinarians contribute to limit the impact of chytridiomycosis? 1) contribution to chytridiomycosis research Most of the research into chytridiomycosis is currently performed by non veterinarians. Although a lot of beautiful work has been done, veterinarians can significantly contribute to the solution of the problem because of their train197


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Blaustein, A.R., Romansic, J.M., Scheessele, E.A., Han, B.A., Pessier, A.P., Longcore, J.E., 2005. Interspecific variation in susceptibility of frog tadpoles to the pathogenic fungus Batrachochytrium dendrobatidis. Conservation Biology 19, 1460-1468. Boyle, D.G., Boyle, D.B., Olsen, V., Morgan, J.A.T., Hyatt, A.D., 2004. Rapid quantitative detection chytridiomycosis (Batrachochytrium dendrobatidis) in amphibian samples using real-time Taqman PCR assay. Diseases of Aquatic Organisms 60, 141-148. Fisher, M.C., Bosch, J., Yin, Z., Stead, D.A., Walker, J., Selway, L., Brown, A.J.P., Walker, L.A., Gow, N.A.R., Stajich, J.E., Garner, T.W.J., 2009. Proteomic and phenotypic profiling of the amphibian pathogen Batrachochytrium dendrobatidis shows that genotypes is linked to virulence. Molecular Ecology, 18, 415-429. Johnson, M.L., Spearen R., 2003. Survival of Batrachochytrium dendrobatidis in water: quarantine and disease control implications. Emerging Infectious diseases 9, 922 - 925. Longcore, J.E., Pessier, A.P., Nichols, D.K., 1999. Batrachochytrium dendrobatidis gen. et sp. nov., a chytrid pathogenic to amphibians. Mycologia 91, 219-227. Martel, A., Van Rooij, P., Vercauteren, G., Baert, K., Van Waeyenberghe, L., Debacker, P., Garner, T.W.J., Woeltjes, T., Ducatelle, R., Haesebrouck, F., Pasmans, F., 2010. Developing a safe antifungal treatment protocol to eliminate Batrachochytrium dendrobatidis from amphibians. Medical Mycology, in press. Nichols, D.K., Lamirande, E.W., Pessier, A.P., Longcore, J.E., 2001. Experimental transmission of cutaneous chytridiomycosis in dendrobatid frogs. Journal of Wildlife Diseases 37, 1-11. Pasmans, F., Zwart, P., Hyatt, A.D., 2004. Chytridiomycosis in the Central American bolitoglossine salamander (Bolitoglossa dofleini). The Veterinary Record 154, 153. Piotrowski, J.S., Annis, S.L., Longcore, J.E., 2004. Physiology of Batrachochytrium dendrobatidis, a chytrid pathogen of amphibians. Mycologia 96, 9-15. Voyles, J., Young, S., Berger, L., Campbell, C., Voyles, W.F., Dinudom, A., Cook, D., Webb, R., Alford, R.A., Skerratt, L.F., Speare, R., 2009. Pathogenesis of chytridiomycosis, a cause of catastrophic amphibian declines. Science, 326, 582-585. Weldon, C., du Preez, L.H., Hyatt, A.D., Muller, R., Speare, R., 2004. Origin of the amphibian chytrid fungus. Emerging Infectious Diseases 10, 2100-2105.

ing in clinical pathology, infectious diseases, host responses, diagnosis and treatment options etc. We strongly plea for a multidisciplinary approach to tackle this worldwide crisis (Pasmans et al., 2006). 2) raising public awareness Clients with amphibian collections should be made aware of the possible risk their animals pose to native ecosystems. Most keepers of amphibian have no idea of the chytrid status of their collection, let alone that they would take any biosecurity measures such as decontamination of terrarium contents before disposal. 3) maintaining healthy, chytrid free amphibian collections Responsible keeping of amphibians requires the absence of known pathogens, such as B. dendrobatidis or ranaviruses, that might severely impact native amphibian populations. Veterinarians with amphibian collections under their veterinary care should try to impose entry control and appropriate quarantine measures for any new arrival, to perform necropsy on dead animals and to eliminate any existing chytrid infection, even if asymptomatic. 4) contribution to captive breeding projects Measures to cope with amphibian declines include establishing of breeding groups of endangered species in captivity. Health management of these breeding groups should be done by a qualified veterinarian and is vital for the success of these projects.

References Berger, L, Speare, R., Daszak, P., Green, D.E., Cunningham, A.A., Goggin, C.L., Slocombe, R., Ragan, M.A., Hyatt, A.D., Mc Donald, K.R., Hines, H.B., Lips, K.R., Marantelli, G., Parkes, H., 1998. Chytridiomycosis causes amphibian mortality associated with population declines in the rain forest of Australia and Central America. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America 95, 9031-9036. Berger, L., Speare, R., Hyatt, A.D., 1999. Chytrid fungi and amphibian declines: overview, implications and future directions. In: Campbell, A. (Ed.), Declines and disappearances of Australian frogs. Environment, Canberra, Australia, pp.23-33.

Address for correspondence: Frank Pasmans Laboratory of Veterinary Bacteriology and Mycology & Division of Poultry, Exotic Companion and Laboratory Animals, Department of Pathology, Bacteriology and Avian Diseases, Faculty of Veterinary Medicine, Ghent University, Belgium

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Terapia interventistica delle aritmie Manuela Perego Med Vet, Samarate, Varese

Roberto Santilli, Med Vet, PhD, Dipl ECVIM-C.A. (Cardiology), Samarate, Varese

pacemaker permanente. Le complicanze correlate all’utilizzo della SET sembrano essere minime. L’impianto di pacemaker permanente rappresenta il trattamento di elezione nei pazienti affetti da bradiaritmie sintomatiche. L’elettrostimolazione permanente si avvale dell’utilizzo di una batteria in grado di generare impulsi elettrici trasmessi al miocardio atriale o ventricolare mediante uno o due elettrodi che contraggono rapporto con il miocardio in sede endocardica od in sede epicardica. Nel periodo compreso fra febbraio 2005 ed aprile 2010 sono stati impiantati 104 stimolatori endocardici permanenti ed 1 stimolatore epicardio permanente. L’impianto di pacemaker si è reso necessario nel 66,7% dei casi per BAV III°, nel 10,5% per disfunzione sinusale, nell’8,6% per BAV II° tipo 2:1, nel 5,7% per silenzio atriale, nel 3,8% per BAV II° avanzato, nel 1,9% per disfunzione sinusale associata a BAV III°, nel 1,9% per trattamento “ablate and pacing” e nel 0,9% per il trattamento di crisi vasogale con componente cardio-inibitoria. I pacemaker possono essere programmati secondo diverse funzionalità. In particolare la sigla VVI indica un impianto monocamerale con funzione di rilevamento e stimolazione ventricolare, con possibile funzione di modulazione della frequenza con l’esercizio (VVIR). Gli impianti bicamerali sono invece siglati VDD in caso di elettrodo singolo con sensore atriale e DDD in caso di doppio elettrodo di cui uno posizionato in auricola destra ed uno in apice ventricolare destro. La nostra casistica è caratterizzata dal 46,7% di impianti VVIR, 30,5% VVI, 12,4% VDD, 9,5% DDD e 0,9% AAI. Le complicanze relative ad impianto di pacemaker sono costituite da complicanze definite maggiori quali dislocazione dell’elettrocatetere che è avvenuta nel 7,5% dei soggetti, microdislocazione dell’elettrocatetere nel 2,8% ed infezione della tasca cutanea nell’1,9%. I tassi di complicanze, in linea con quelli riportati in medicina veterinaria, sembrano essere direttamente correlati al grado di training esercitato dall’operatore. Le complicanze minori hanno mostrato avere un tasso minimo pari al 1,98%Il termine cardioversione elettrica indica una procedura secondo la quale viene rilasciato uno shock elettrico trans-toracico bifasico sincronizzato con il ritmo cardiaco atto a ripristinare l’attività sinusale in soggetti con fibrillazione atriale o tachicardia sopraventricolare. Questi disturbi del ritmo vengono interrotti dallo shock elettrico mediante una depolarizzazione simultanea di tutte le cellule miocardiche eccitabili con prolungamento del periodo refrattario. La cardioversione elettrica avviene con il soggetto in anestesia

La terapia interventistica delle aritmie comprende una serie di procedure chirurgiche mini-invasive atte a trattare i disturbi del ritmo. In particolare, le terapie interventistiche ad oggi in uso nella pratica clinica veterinaria possono essere suddivise in presidi per il trattamento delle bradiaritmie e presidi per il trattamento delle tachiaritmie. Il primo gruppo comprende l’utilizzo di pacemaker esterno temporaneo e l’impianto di pacemaker permanente, mentre il secondo comprende la cardioversione elettrica, la defibrillazione asincrona e l’ablazione con radiofrequenza. La stimolazione esterna temporanea (SET) rappresenta una procedura potenzialmente salvavita in pazienti in anestesia prima dell’impianto di pacemaker permanente o in pazienti ad alto rischio di asistolie prolungate nei reparti di pronto soccorso e terapia intensiva. La SET può avvenire mediante due modalità: la SET trans-venosa e la SET trans-cutanea. La SET transvenosa è una tecnica che è stata ampiamente utilizzata in medicina veterinaria e che si avvale dell’utilizzo di un elettrodo endocardico posizionato nella camera ventricolare destra mediante accesso venoso femorale e connesso ad un sistema generatore di impulsi elettrici. A causa delle possibili complicanze correlate a questa tecnica (infezione della tasca, perforazione cardiaca, flebite), la SET trans-venosa è stata negli ultimi anni sostituita dalla SET trans-cutanea. La SET trans-cutanea può essere effettuata mediante un generatore singolo o incorporato in un apparecchio defibrillatore. La metodica si avvale dell’utilizzo di piastre adesive radiotrasparenti a bassa impedenza. Studi effettuati in campo veterinario hanno dimostrato che le piastre con superficie di 20cm2 con posizionamento destra-sinistra al 5°-7° spazio intercostale rappresentano lo strumentario con maggior efficacia e minori effetti collaterali. Una SET trans-cutanea adeguata viene ottenuta aumentando progressivamente la corrente in uscita fino ad acquisire spikes seguiti da complessi QRS larghi associati a presenza di polso femorale. Nel periodo compreso fra gennaio 2005 ed aprile 2010, la SET è stata effettuata in 35 su 105 casi di impianto endocardico permanente. La soglia di stimolazione della SET è stata compresa fra 30-160 mA con una frequenza di stimolazione per minuto pari a 40-60 ppm. Le complicanze dell’utilizzo della SET sono state induzione di torsione di punte in due soggetti e mancata cattura in due soggetti. Questi dati confermano che la SET trans-cutanea rappresenta uno strumento promettente per il trattamento delle asistolie prolungate o delle bradicardie profonde in pazienti in anestesia per impianto di 199


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generale posto in decubito latero-laterale con piastre adesive posizionate destra-sinistra al 5°-7° spazio intercostale. Prima di iniziare la procedura, è opportuno assicurarsi di aver azionato la modalità ”sincro” che previene il rilascio dello shock elettrico durante la fase di ripolarizzazione. L’intensità di corrente elettrica raccomandata è di 150-200J per interrompere tachicardie sopraventricolari quali il flutter atriale e 200J per interrompere la fibrillazione atriale. I dati a nostra disposizione provano che la cardioversione elettrica eseguita in 15 soggetti è risultata una procedura efficace nel ripristinare il ritmo sinusale nel 75% dei casi con fibrillazione atriale e nell’unico soggetto con flutter atriale trattato. In letteratura, viene riportata una percentuale di successo della cardioversione elettrica in più del 90% dei soggetti affetti da fibrillazione atriale anche in presenza di importanti malattie cardiostrutturali.Con il termine di defibrillazione asincrona è indicata una procedura secondo la quale viene rilasciato uno shock elettrico trans-toracico bifasico non sincronizzato con il ritmo cardiaco e atto a ripristinare il ritmo sinusale in pazienti con tachicardia ventricolare e scompenso emodinamico oppure in pazienti con fibrillazione ventricolare. L’utilizzo del defibrillatore bifasico è raccomandato ogniqualvolta insorgano aritmie ventricolari quali torsione di punte o fibrillazione ventricolare durante procedure di cardiologia interventistica. In questi casi, tale procedura rappresenta l’unico presidio in grado di ripristinare il ritmo normale e, secondo i nostri dati ottenuti su un campione di 6 casi, presenta un alto tasso di successi (83%). L’ablazione con radiofrequenza rappresenta la terapia d’elezione per il trattamento della tachicardia atrioventricolare ortodromica reciprocante mediata da via accessoria, della tachicardia atriale focale del flutter atriale e di alcune forme di tachicardie ventricolari. Attraverso tre introduttori vengono inseriti nel sistema venoso sotto visione fluoroscopia un elettrocatetere decapolare dalla vena giugulare esterna posizionato nel lume del seno coronarico, un elettrocatetere quadripolare da una vena femorale posizionato a livello del fascio di His ed un elettrocatetere ablatore dall’altra vena femorale posizionato alternativamente in atrio destro o in apice ventricolare destro. L’ablazione con radiofrequenza consiste nell’applicazione di energia termica ad un’area miocardica con conseguente necrosi coagulativa ed interruzione del meccanismo aritmogenico alla base del disturbo del ritmo. L’ablazione con radiofrequenza è stata applicata in 22 pazienti per un totale di 27 vie accessorie localizzate in sede laterale destra (9), postero-settale destra (9), medio-settale destra (3), anterosettale destra (1). Un soggetto presentava due vie accessorie (laterale destra e postero-settale destra) ed un soggetto presentava tre vie accessorie (laterale destra, postero settale destra e antero-settale destra). La percentuale di successo in fase acuta di 91,66% e al follow-up di 8 mesi 87,5% con un tasso di recidiva pari a 4,54%. Le complicanze relative all’ablazione con radiofrequenza sono risultate correlate all’induzione di blocco atrioventricolare di III° (9,0%). Le tachicardie atriali focali sono state studiate in 20 soggetti. I focolai ectopici risultavano distribuiti per il

76,4% in corrispondenza dell’atrio destro (6 cresta terminale, 3 triangolo di Koch, 2 annulus valvola tricuspide, 1 setto interatriale, 1 auricola destra) e per il 23,6% dei casi in corrispondenza dell’emergenza delle vene polmonari (4 vena polmonare superiore destra, 2 vena polmonare superiore sinistra, 1 vena polmonare inferiore destra). L’ablazione con radiofrequenza ha presentato successo nel 52,9% dei casi (in 7 casi con l’eliminazione di 9 focolai ectopici). Le complicanze della procedura sono intervenute nel 17,6% dei soggetti e sono rappresentate da morte del soggetto durante la procedura e da un infarto cerebrale risoltosi spontaneamente. L’ablazione con radiofrequenza è stata utilizzata anche per il trattamento del flutter atriale. La stimolazione atriale programmata ha consentito di effettuare diagnosi di flutter atriale dipendente dall’istmo cavo-tricuspidale in due casi e di flutter atriale non dipendente dall’istmo cavo-tricuspidale in un caso. L’ablazione con radiofrequenza nei primi due casi è avvenuta durante tachicardia posizionando la punta dell’elettrocatetere ablatore in corrispondenza della porzione media dell’istmo cavo-tricuspidale. Nel terzo caso, il macro-circuito di rientro anatomico era dipendente dalla porzione settale dorsale, punto di applicazione della radiofrequenza. L’ablazione con radiofrequenza delle vie accessorie atrioventricolari e del flutter atriale rappresenta una procedura sicura nel cane e correlata ad elevate percentuali di successo in fase acuta ed in fase cronica con minimi tassi di complicanze. La tachicardia atriale focale, sebbene possa essere trattata con questa metodica, presenta percentuali di successo inferiori e tassi di complicanze superiori rispetto alle vie accessorie ed al flutter atriale. L’utilizzo dell’ablazione con radiofrequenza per il trattamento delle tachicardie ventricolari è stato applicato in un soggetto affetto da cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro in forma segmentale che presentava tachicardia ventricolare monomorfa incessante proveniente dalla regione antero-laterale del tratto di efflusso ventricolare destro aneurismatico refrattaria al trattamento farmacologico. Il mappaggio della regione ha consentito l’identificazione di potenziali tele diastolici e tele sistolici alla base del circuito di rientro. L’ablazione della zona di interesse ha consentito l’eliminazione di tali potenziali con conseguente interruzione dei disturbi del ritmo ventricolari. La metodica di ablazione con radiofrequenza rappresenta una metodica promettente per il trattamento delle tachicardie ventricolari refrattarie al trattamento farmacologico in soggetti con cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro.

Bibliografia disponibile su richiesta Indirizzo per la corrispondenza: Clinica Veterinaria Malpensa Viale Marconi, 27 – 21017 - Samarate, Varese, Italy Tel. 0331-228155 (3) – Fax. 0331-220255 e-mail: m.perego@ecgontheweb.com Pagina Web: www.ecgontheweb.com

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Genetica, prevenzione e diagnosi molecolare delle nefropatie ereditarie del cane e del gatto Michele Polli Med Vet, PhD, Milano

Negli ultimi anni si è assistito ad un vorticoso aumento degli studi genetici riguardanti la specie canina e felina, soprattutto con un approccio biomolecolare derivante dal sequenziamento del genoma di queste due specie animali. Di particolare interesse risultano le ricerche volte alla comprensione, a livello del DNA, dei principali disordini genetici che interessano il cane e il gatto. Grazie a queste tecniche è stato possibile ottenere una valida mappa del genoma che ha già consentito il riconoscimento di numerosi geni che sono alla base di differenti malattie ereditarie che colpiscono le diverse razze canine e feline. Nel cane e nel gatto è ora possibile disporre di una mappa del genoma che ci permette di riconoscere direttamente i geni difettosi, relativi a determinate malattie ereditarie. È quindi possibile monitorare in modo preciso fenomeni quali la perdita di eterozigosità e l’erosione genetica1. È inoltre possibile calcolare anche i coefficienti di consanguineità all’interno di una determinata popolazione con l’impostazione di efficaci piani selettivi per il miglioramento genetico di una determinata razza canina o felina. Sono quindi oggi disponibili diversi test genetici basati sulle principali tecniche di biologia molecolare anche per l’identificazione delle più comuni nefropatie ereditarie del cane e del gatto. Le tecniche diagnostiche basate sul DNA permettono di distinguere univocamente i soggetti malati o portatori della patologia di interesse. Nel caso di patologie ad “insorgenza tardiva” cioè che si manifestano in età adulta o a “penetranza incompleta” che si manifestano solo in una parte dei soggetti con il genotipo difettoso, con l’analisi del DNA è possibile l’identificazione precoce alla nascita del soggetto sano, malato o portatore. Queste tecniche, congiuntamente all’identificazione del soggetto e all’analisi della parentela permettono l’esclusione dalla riproduzione degli animali malati o portatori e costituiscono pertanto un utile strumento nella convalida dei dati genealogici riportati nel pedigree con un enorme valore aggiunto per il miglioramento genetico. Dagli studi effettuati presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano si è potuto constatare un’elevata diffusione di nefropatie ereditarie soprattutto a carattere autosomico dominante o recessivo. Anche nel caso di nefropatie a trasmissione ereditaria più complessa (penetranza incompleta, insorgenza tardiva, sindromi, espressività variabile) con l’analisi del DNA è possibile l’identificazione precoce alla nascita del soggetto sano, malato o portatore. Queste tecniche, pertanto sono un utile strumento nella convalida dei dati genealogici, aggiungendo una garanzia in più alla qualità del prodotto dell’allevamento del cane e del gatto di razza.

I ricercatori del laboratorio della Facoltà di Medicina Veterinaria (Vetogene - laboratorio di riferimento dell’Ente nazionale della Cinofilia Italiana) hanno constatato un’elevata diffusione di nefropatie ereditarie, soprattutto relative alla Cistinura, nella razza terranova per quanto riguarda il cane e della malattia policistica renale (PKD) per quanto riguarda il gatto. Per la cistinuria nell’anno 2009 sono stati esaminati circa 82 soggetti di razza terranova dei quali si è visto, trattandosi di una patologia ereditaria a carattere recessivo, che il 36,2% è portatore dell’“allele” difettoso, un dato piuttosto allarmante vista la limitata consistenza numerica in Italia della razza Terranova. Il test molecolare utilizzato si avvale di una PCR-RFLP (Polymerase chain reaction)2 con una successiva gel elettroforesi in agarosio che evidenzia dei frammenti di DNA che identificano i soggetti malati, portatori o sani. Dagli studi condotti presso la Facoltà di Medicina veterinaria di Milano, con un approccio biomolecolare (PCRRFLP), si è potuto constatare che la Malattia Policistica Renale (PKD-polycystic kidney disease) del gatto, forma autosomica dominante3, risulta interessare soprattutto la razza Persiana e le razze ad essa correlate. In particolare presso il laboratorio Vetogene, sono stati esaminati a livello del DNA4 negli ultimi anni circa 500 gatti di razza. Di questi i soggetti colpiti da PKD sono risultati essere rispettivamente il 50,6% Persiani, il 21,9% Exotic Shorthair, il 10,5% Ragdoll, l’8,4% Main Coon, il 3,7% British Shorthair. In tutte le razze feline sopracitate, ma soprattutto nella razza persiana con il test del DNA è stato possibile riscontrare in soggetti fino a 3 mesi di età un elevato numero di gatti colpiti da PKD. In particolare il dato più preoccupante è stato rilevato nei persiani dove su 247 soggetti esaminati 75 erano malati, e su 77 Exotic Shorthair sono stati riscontrati 30 soggetti positivi al test genetico. È stato quindi condotto un interessante studio comparativo in collaborazione con Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma5 (Dipartimento di Salute Animale) per verificare a differenti età la capacità diagnostica dell’ecografia in rapporto al test del DNA. Sono stati quindi esaminati 70 gatti (63 Persiani e 7 Exotic Shorthair) di età copresa tra i 2,5 e 3,5 mesi di età. Con l’ecografia il 41,4% dei soggetti esaminati ha mostrato cisti renali, mentre il 34,3% di questi è risultato positivo al test del DNA. Quindi sei gatti con almeno una cisti renale sono risultati negativi al test genetico, mentre solo un gatto negativo all’ecografia è risultato positivo al test del DNA. Si è potuta constatare quindi una concordanza del test genetico con la diagnosi ecografica del 90%. La sensibilità e la specificità dell’indagine ecografica è risultata essere rispet201


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TABELLA 1 - Malattia Policistica Renale (PKD) del gatto: Razze esaminate presso il laboratorio di biologia molecolare Vetogene della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano

TABELLA 2 - Malattia Policistica Renale del gatto (PKD): Razze esaminate presso il laboratorio di biologia molecolare Vetogene della Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano: numero di soggetti sani e malati per razza

RAZZE

N° e % CAMPIONI

RAZZE

SANI

MALATI

TOTALE

British Shorthair

18

3,7%

British Shorthair

18

0

18

Certosino

7

1,4%

Certosino

4

3

7

Devon Rex

2

0,4%

Devon Rex

1

1

2

Europeo

1

0,2%

Europeo

1

0

1

107

21,9%

Exotic Shorthair

77

30

107

41

8,4%

Maine Coon

41

0

41

Persiano

247

50,6%

Persiano

172

75

247

Ragdoll

51

10,5%

Ragdoll

51

0

51

Sacro di Birmania

2

0,4%

Sacro di Birmania

2

0

2

Scottish Fold

3

0,6%

Scottish Fold

3

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3

Siberiano

9

1,8%

Siberiano

9

0

9

TOTALE

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100%

TOTALE

379

109

488

Exotic Shorthair Maine Coon

Bibliografia

tivamente del 95,8% e 86,9% dimostrando un’assoluta efficacia come tecnica di controllo e di eradicazione della malattia genetica nel gatto di razza. Per differenti nefropatie soprattutto nel cane esistono ormai molti laboratori di biologia molecolare internazionali di riferimento per il test genetico. Purtroppo tali test riguardano per ora soprattutto le nefropatie a trasmissione ereditaria semplice di tipo mendeliano. Per quanto riguarda alcune forme ad eredità più complessa (a supposta eredità multifattoriale) non esistono per ora riscontri efficaci a breve termine. È però prevedibile nei prossimi anni che gli studi molecolari basati sulla post-genomica (proteomica), soprattutto relativi all’applicazione di tecniche ormai consolidate quali la “single-nucleotide polymorphism analysis” o la “microarray gene expression analysis, possano chiarire le modalità della trasmissione genetica e quindi rendere applicabili nuovi test molecolari anche per le nefropatie dove attualmente le modalità di trasmissione genetica sono ancora sconosciute. I risultati in termini di miglioramento genetico delle razze canine colpite da disordini ereditari saranno sicuramente efficaci con l’applicazione delle nuove tecniche biomolecolari a maggior ragione se verranno applicati tutti quei controlli atti ad ottenere un rapido passaggio da un libro genealogico anagrafico ad un libro genealogico basato sul controllo del DNA (diagnosi di parentela), con applicazione quindi delle nuove norme tecniche (DPR 8/3/2005) da parte dell’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana. Anche nel gatto l’applicazione delle analisi molecolari basate sullo studio del DNA non sarà così efficace senza la collaborazione dei Club di Razza o delle Associazioni Feline italiane che dovranno promuovere un maggior controllo di tutti i principali disordini ereditari.

1.

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Pertica G., Strillacci M.G., Marelli S.P., Valiati P., Gandolfi B., Cozzi. M.C., Polli M., Longeri M., Guidobono Cavalchini L. Genetic variabilità in Hunting dog breeds using microsatellites markers and mitocondrial DNA polymorphism. (2008) XXXI International Conference on Animal Genetics (ISAG) Atti ISAG Amsterdam, The Netherlands - 20 a 24 July 2008. Henthorn P.S., Jonlong L., Gidalevich T., Jikang F., Casal M.L.; Patterson D. F.Giger U. Canine cystinuria: polymorphism in the canine SLC3A1 gene and identification of a nonsense mutation in cystinuric Newfoundland dogs. Human genetics ISSN 0340-6717 2000, vol. 107, no4, pp. 295-303 (1 p.1/4). Al-Bhalal L, Akthar M (2008) Molecular Basis of Autosomal Recessive Polycystic Kidney Disease (ARPKD) Advances in Anatomic Pathology 15, 54-58. Lyons LA, Biller DS, Erdman CA, Lipinski MJ, Young AE, Roe BA, Qin B, Grahn RA (2004) Feline polycystic kidney disease mutation identified in PKD1. Journal of the American Society of Nephrology 15, 2548-2555. Bonazzi M., Volta A., Gnudi G., Cozzi M.C., Strillacci M.G., Polli M., Longeri M., Manfredi S., Bertoni G.: Comparison between ultrasound and genetic testing for the early diagnosis of Polycystic Kidney Disease in Persian and Exotic Shorthair cats (2009) The Journal of Feline Medicine and Surgery 11:430-434. ISSN 1098-612X IF 1,168.

Indirizzo per la corrispondenza: Michele Polli Dipartimento di Scienze Animali Facoltà di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Milano Via Celoria 10 - 20133 Milano Tel. 0250318056 - E-mail: michele.polli@unimi.it 202


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Complicanze in chirurgia plastica e ricostruttiva Giorgio Romanelli Med Vet, Dipl ECVS, Nerviano (MI)

INTRODUZIONE

Sieroma Il sieroma rappresenta l’accumulo di liquido sterile (un filtrato del sangue) di sotto a una ferita Il liquido di un sieroma è solitamente citrino ma può anche essere ematico e va differenziato da un ematoma o da un ascesso tramite esame citologico. Le cause di formazione sono molteplici: • Creazione di uno spazio morto eccessivo e difficoltà od impossibilità nel colmarlo • Tecnica chirurgica troppo traumatica • Eccessivo movimento dell’animale • Ferita non adeguatamente compressa o immobilizzata • Reazione idiosincrasica ad alcuni materiali (es. reti di sostegno o suture) I sieromi sono meglio prevenuti che trattati, ponendo particolare attenzione alla chiusura dello spazio morto o usando drenaggi, possibilmente in aspirazione continua, in caso si preveda che la formazione sia inevitabile. Nel caso di formazione postoperatoria, solitamente 3-5 giorni dopo l’intervento, si può provare ad aspirarne il contenuto ed applicare un bendaggio moderatamente compressivo. Se tale misura non fosse sufficiente, si deve usare un drenaggio fino a risoluzione completa.

La chirurgia plastica, esattamente come tutte le altre branche chirurgiche, è soggetta ad una serie di complicanze, spesso di non facile risoluzione, visti gli innumerevoli fattori con cui si deve avere a che fare. Inoltre le complicanze possono essere secondarie ad una tecnica errata od imputabili al paziente o al proprietario dell’animale. È quindi necessario usare sempre una tecnica chirurgica corretta, oltre ad assicurarsi di istruire adeguatamente il proprietario sulla necessità di usare tutte le accortezze possibili per proteggere la ferita durante il tempo necessario alla cicatrizzazione cutanea mediante l’applicazione ed il mantenimento di un collare elisabettiano di adeguate dimensioni e di bendaggi quando necessario.

COMPLICANZE GENERALI Deiscenza e infezione In caso di deiscenza della ferita sussiste sempre un certo grado d’infezione e spetta al clinico decidere se una è la conseguenza dell’altra o viceversa. Cause ovvie di deiscenza sono l’autotraumatismo, l’eccesso di movimento e soprattutto, l’eccesso di tensione cutanea. In quest’ultimo caso, infatti, la cute non è in grado di adattarsi alla situazione di tensione e i due margini tendono a distaccarsi. Inoltre la vascolarizzazione è gravemente compromessa e non è più in grado di nutrire e apportare ossigeno ai bordi. L’infezione può essere immediata o evidenziarsi nel tempo e, in generale, le cause sono differenti. Considerando le varie cause d’infezione post-operatoria le più importanti sono: • Tecnica chirurgica non sterile (che comprende sala operatoria, preparazione del paziente, del chirurgo e dello strumentario • Presenza nella ferita di materiale estraneo • Presenza di patogeni particolarmente virulenti (es. S. Aureus meticillino-resistente) • Inadeguata rimozione di eventuale materiale purulento preesistente La diagnosi è solitamente semplice e prevede un esame citologico assieme ad un esame colturale Il trattamento prevede l’uso di antibiotici e il courettage chirurgico della ferita. Se le infezioni persistono, è necessario rivedere completamente la propria tecnica chirurgica.

Emorragia ed ematoma Un sanguinamento, anche minimo, nel periodo postoperatorio può condurre ad alterazioni evidenti del processo di cicatrizzazione e in ogni momento si deve eseguire un’emostasi accurata del letto mediante pressione diretta, uso accurato dell’elettrobisturi o tramite l’uso di suture e di spugnette di collagene. Le conseguenze di un ematoma, secondario ad una emostasi inaccurata, possono essere serie ed hanno un effetto negativo sulla cicatrizzazione per le seguenti ragioni: • Pressione meccanica sui bordi della ferita • Ostruzione fisica all’entrata dei neutrofili e macrofagi nella ferita • Creazione di un ambiente a bassa tensione d’ossigeno che rappresenta il pabulum ideale per la Moltiplicazione batterica • Inibizione, da parte dell’emoglobina, sulle cellule fagocitiche Come per il sieroma, l’ematoma è meglio prevenuto che trattato. In caso di evidenza postoperatoria però, il semplice drenaggio è solitamente scarsamente efficace visto la densità del sangue coagulato e, spesso, si richiede una nuova apertura della ferita con pulizia del letto prima dell’applicazione di un drenaggio. 203


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Ritardo di cicatrizzazione

È necessario ricordare che, usando un lembo libero, per ottenere un corretto attecchimento, si devono necessariamente rispettare 3 regole: Limitare la possibilità di versamento tra il lembo ed il letto ricevente Eliminare il movimento fra le due componenti Mantenere un corretto contatto fra le due superfici Infatti, un lembo libero non possiede una sua vascolarizzazione ma sopravvive per la formazione di una colla di fibrina tra il trapianto e la superficie che funziona da supporto per crescita capillare e che viene poi rimpiazzata da tessuto fibroso maturo. Inizialmente la nutrizione del lembo avviene per imbibizione plasmatica con conseguente sviluppo di una circolazione rudimentale e successiva rivascolarizzazione. Qualsiasi fattore che contribuisca ad alterare il normale processo di rivascolarizzazione può portare alla necrosi con conseguente distacco e perdita del lembo. E’quindi necessario mantenere un corretto contatto fra il lembo e la superficie ricevente mediante l’uso di bendaggi e impedire la formazione di versamento di sotto il lembo, praticando delle incisioni che servano da drenaggio.

Si definisce come una non progressione del processo cicatriziale dopo 7 giorni. Le cause sono molteplici: • Tecnica chirurgica inadeguata • Infezione della ferita • Scadente stato nutrizionale del paziente ed ipoprotidemia • Carenza di alcune vitamine e di fattori trofici • Presenza di malattie che alterano il metabolismo (es. diabete, morbo di Cushing) • Trattamento con cortisonici o alcuni chemioterapici È quindi evidente che, per riavviare il processo cicatriziale, è necessario trattare la causa e quindi correggere lo stato nutrizionale del paziente, se necessario mediante alimentazione forzata, enterale o parenterale. Inoltre bisogna porre particolare attenzione all’uso di farmaci che possono contribuire alla inadeguatezza della cicatrizzazione.

COMPLICANZE NELL’USO DEI LEMBI LOCALI L’uso dei lembi locali di avanzamento, trasposizione o rotazione, è solitamente riservato alla ricostruzione di difetti, non colmabili con una sutura diretta, sia per la posizione del difetto (es. testa) che per le sue dimensioni. La complicanza più frequente è la necrosi tissutale, solitamente evidente all’apice del lembo dove la vascolarizzazione è maggiormente ridotta, soprattutto se il plesso subdermico è stato danneggiato durante l’elevazione. In pratica tal eventualità è maggiormente evidente se si realizza un lembo di esagerata lunghezza impedendo quindi una corretta circolazione all’apice. Quando si usa un lembo locale, al fine di ridurre al minimo le possibilità di necrosi e conseguente deiscenza, è quindi necessario: • Realizzare lembi della minore lunghezza possibile, quanto basta per coprire il difetto. • Eseguire 2 incisioni convergenti, in modo che la base del lembo sia più ampia dell’apice. • Mantenere la vascolarizzazione del plesso sub dermico. A tal proposito è bene ricordare che il plesso è situato fra la cute ed il muscolo pellicciaio e che lo scollamento deve essere eseguito al di sotto di tale struttura anatomica. Nei siti dove il pellicciaio non è presente (es. arti distali), la separazione fra gli strati cutanei deve essere realizzato con estrema attenzione cercando, se possibile, di incorporare un vaso cutaneo, anche se di piccole dimensioni. Evitare trazioni esagerate della striscia cutanea. Evitare trasposizioni ad angolo troppo ampio Quando possibile, realizzare due lembi di lunghezza minore piuttosto che uno solo molto lungo.

COMPLICANZE NELL’USO DEI LEMBI VASCOLARIZZATI I lembi vascolarizzati sono realizzati isolando un lembo cutaneo che è nutrito da un’arteria diretta. Come tali sono solitamente molto robusti e di facile attecchimento. Tuttavia si possono, anche in questo caso, evidenziare alcune complicanze che sono però, per la maggior parte, facilmente risolvibili. I problemi maggiormente visibili sono necrosi, deiscenza e formazione di sieroma. Le prime due eventualità sono legate spesso fra loro e sono normalmente limitate mantenendo la lunghezza del lembo al minimo necessario per evitare ischemia della parte più lontana dall’arteria nutritizia. Il sieroma è in questi casi difficilmente evitabile viso che è, in concreto, impossibile obliterare completamente lo spazio morto ed e meglio prevenuto applicando sempre un drenaggio in aspirazione continua mantenuto per 3-5 giorni, dando così tempo alla superficie inferiore del lembo di aderire al letto ricevente. Un’altra complicanza minima è l’edema del lembo, dovuto per lo più ad una eccessiva torsione del peduncolo vascolare al momento del posizionamento soprattutto se lo spostamento è effettuato per più di 180°. Poiché l’edema è dovuto ad una alterazione del ritorno venoso, è solitamente autolimitante e si risolve da se con la ripresa del circolo collaterale.

COMPLICANZE NELL’USO DEI LEMBI LIBERI

Indirizzo per la corrispondenza: Giorgio Romanelli Clinica Veterinaria Nerviano via Lampugnani, 3 20014 Nerviano (MI) E-mail: giorgioromanelli@alice.it

Il maggior problema nell’uso di un lembo libero è legato alla necrosi ed al distacco del lembo. 204


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È possibile rendere meno difficile la radiologia dello scheletro assiale (cranio e colonna?) Federica Rossi Med Vet, SRV, Dipl ECVDI, Sasso Marconi (BO)

Le difficoltà che si incontrano nella esecuzione e interpretazione delle radiografie del cranio e colonna dipendono da diversi fattori: 1. complessità della anatomia delle strutture scheletriche del cranio. La sovrapposizione delle diverse ossa del cranio, di spessore variabile e con numerose cavità e prominenze, rende difficile l’identificazione con precisione di tutte le strutture nelle diverse proiezioni radiografiche. 2. variabilità della conformazione del cranio nelle diverse razze canine. Anche se le tipologie del cranio possono essere fondamentalmente differenziate in razze dolicomorfe, mesomorfe e brachimorfe, esistono moltissime varianti anche al’interno del singolo gruppo. Ciò rende difficile stabilire uno standard di normalità ed avere dei riferimenti certi anche all’interno di testi ed atlanti. 3. spessori diversi nelle varie porzioni del cranio (per esempio calvarium vs mandibola), che richiedono esposizioni diverse, quindi l’esecuzione di almeno due radiogrammi per una valutazione completa del cranio. 4. mancanza di collaborazione del paziente, che rende estremamente complesso effettuare radiografie corrette senza l’anestesia generale. 5. per la colonna, difficoltà nell’allineamento perfetto delle strutture sul piano longitudinale a causa della differenza di spessore delle porzioni del rachide.

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per lo studio delle cavità nasali), le proiezioni con cassetta in bocca per la colonna, studiare sempre settori brevi, in modo che le strutture di interesse siano al centro del fascio radiogeno, per evitare il fenomeno della distorsione geometrica. Ciò è particolarmente importante quando si devono valutare gli spessori degli spazi intervertebrali utilizzare proiezioni con il raggio orizzontale nei pazienti traumatizzati, per ridurre il rischio di ulteriori danni che potrebbero verificarsi per cambiare decubito utilizzare una combinazione schermi-pellicola che garantisca una buona risoluzione spaziale, eventualmente un sistema per mammografia utilizzare la griglia per spessori superiori a 10-12 cm identificare sempre il lato destro e sinistro con i marker.

2. curare sempre al massimo il posizionamento del soggetto: a. per il cranio, avere attenzione nel posizionare in modo simmetrico le parti nelle proiezioni sagittali. Se si effettuano proiezioni oblique, cercare di ottenere lo stesso grado di obliquità per il lato destro e sinistro. Il criterio del confronto tra destra e sinistra è fondamentale per facilitare l’identificazione delle anormalità b. per la colonna, utilizzare supporti di gommapiuma per allineare sul piano longitudinale il rachide, in modo da pareggiare le differenze di spessore che ci sono tra il rachide cervicale, toracico e lombare c. posizionare gli arti in modo che siano simmetrici, in posizione neutra, oppure estesi cranialmente o caudalmente per ridurre la sovrapposizione con i diversi segmenti del rachide.

Le strategie che si possono messere in atto per rendere meno difficile questa parte della radiologia sono: 1. usare una TECNICA RADIOGRAFICA corretta: a. prevenire qualsiasi movimento dell’animale effettuando le radiografie in sedazione o anestesia generale b. eseguire sempre due proiezioni ortogonali c. per il cranio, utilizzare non solo le proiezioni standard ma aggiungere altre proiezioni utili per studiare quel settore. Le proiezioni laterale e sagittale sono spesso insufficienti a dimostrare le lesioni in quanto le strutture dei due lati si sovrappongono. Le proiezioni oblique vanno utilizzate di modo che il fascio radiogeno sia tangenziale alla struttura di interesse in modo da proiettarla al di fuori delle prominenze adiacenti. Vanno sfruttare anche le proiezioni tangenziali (es. la proiezione frontale o la proiezione sky line per lo studio delle bolle timpaniche nel gatto), le proiezioni a bocca aperta (es. la proiezione rostro-caudale per lo studio delle bolle timpaniche), le proiezioni con fascio radiogeno inclinato (es. la proiezione rostro-caudale

3. utilizzare correttamente i mezzi di contrasto: a. per il cranio, attualmente non sono molte le indicazioni per l’utilizzo dei mdc. Ricordiamo la sialografia opaca (studio del dotto di Stenone), canalografia opaca (studio del condotto uditivo esterno), fistulografia b. per il rachide, la mielografia ha ancora un ruolo nella valutazione delle patologie del canale vertebrale, anche se sempre di più questa tecnica viene sostituita da metodiche di imaging avanzate (TC ed RM) c. Se si effettuano studi contrastrografici, vanno conosciuti e riconosciuti i possibili artefatti. Per esempio, se si effettua una mielografia l’iniezione del mdc nello 205


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spazio subdurale o epidurale piuttosto che subaracnoideo, determina difficoltà nella interpretazione dei pattern anormali. d. Se si effettua una mielografia, talvolta può essere utile effettuare un radiogramma durante l’iniezione del mdc, per superare eventuali resistenze nel flusso del mdc e meglio delineare una lesione compressiva. Ciò è necessario soprattutto per lesioni acute del tratto toraco-lombare.

5. nella fase di interpretazione, ricordare di: a. esaminare con calma i radiogrammi prima di spostare il soggetto, per poter aggiungere eventuali altre proiezioni necessarie b. sfruttare al massimo il criterio del confronto tra lato destro e sinistro nelle proiezioni sagittali e oblique c. valutare anche i tessuti molli e non solo le strutture scheletriche d. utilizzare una luce spot per valutare eventuali strutture sovraesposte e. utilizzare una lente di ingrandimento per valutare strutture molto piccole

4. conoscere l’anatomia radiografica delle strutture fondamentali del cranio: a. articolazioni temporo-mandibolari b. bolle timpaniche c. cavità nasali d. denti e. mandibola f. regione del palato molle, del rino e orofaringe

Indirizzo per la corrispondenza: Federica Rossi Clinica Veterinaria dell’Orologio Via Gramsci 1/4, Sasso Marconi (BO)

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Yield management ovvero la gestione del rendimento di una azienda Massimo Serreri Med Vet, Olbia

ATTI NON PERVENUTI

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2010-2015 verso una nuova stabilità macroeconomica e la rivoluzione dei servizi sanitari Massimo Serreri Med Vet, Olbia

A che punto è la ripresa economica mondiale dopo quasi due anni di crisi senza precedenti, e quali sono le prospettive per i prossimi anni? Quali impatti ci saranno sulla medicina veterinaria e sulla libera professione? quale è stata la reazione del mondo delle aziende alla crisi prima finanziaria e poi dell’economia reale, e quali sono state le strategie da porre in essere per arrivare a posizionarsi nel modo migliore per il momento in cui ci troveremo in una situazione maggiormente equilibrata e dinamica. Il primo obiettivo di questo lavoro è stato, innanzitutto, quello di tracciare un quadro quanto più chiaro possibile dello stato del contesto economico italiano e internazionale nel quale le aziende si trovano a operare. Il passaggio tra il 2009 e il 2010 è certamente caratterizzato da un consolidamento delle prospettive di ripresa economica, per quanto lievi e non prive di contraddizioni. Secondo tutte le previsioni più accreditate, la ripresa si manifesterà nel 2010 in modo contenuto ma continuativo; non si dovrebbe verificare la ricaduta che molti temono (il cosiddetto “double dip”). Un secondo elemento, almeno in prima istanza positivo, è che la ripresa non dovrebbe essere accompagnata da inflazione. Il motivo è che i consumi, almeno nei paesi avanzati, restano e sembrano destinati a restare alquanto bassi; e la maggior crescita che si verificherà nei Paesi emergenti riuscirà solo in parte a compensarne la lentezza. Dunque, crescita lenta e poco inflazionistica. Con forti incertezze e alcuni residui rischi, difficili da decifrare e in parte da prevedere. Ad esempio, occorre chiedersi se e come l’economia e le aziende, nei paesi dove è stato più forte l’intervento pubblico a salvataggio delle realtà più compromesse, potrà arrivare a una situazione di sostenibilità autonoma: tema estremamente delicato, specie se si tiene presente che i forti interventi statali si sono tradotti in maggiori deficit pubblici e più elevato debito. E questo, oltre a porre una ipoteca futura, può determinare problemi immediati anche gravi, come dimostra il caso Grecia. Altri punti di grave incertezza concernono il sistema finanziario internazionale, la situazione delle banche e delle politiche bancarie e finanziarie conseguenti alla crisi. Sul piano del sistema finanziario globale non c’è chiarezza su quale sia lo stato di elaborazione di nuove norme e regole, quali controlli, quali nuove istituzioni saranno preposte alla supervisione di regole e comportamenti per scongiurare il fatto che in futuro possano ripetersi le gravi distorsioni che hanno portato alla crisi attuale. Non occorre sottolineare che troppa regolamentazione potrebbe avere effetti altrettanto negativi di scarsa, o poco rispettata, regolamentazione.

Per ciò che riguarda le banche, molti si chiedono se oggi, a inizio 2010, le necessarie operazioni di ripulitura dei bilanci dai titoli tossici siano effettivamente concluse, se le banche potranno porsi di nuovo in tempi brevi in un clima di maggiore fiducia reciproca, se i meccanismi di concessione del credito al sistema produttivo potranno riprendere a marciare in modo relativamente normale. È ben noto che le imprese, specie se di minore dimensioni, lamentano in Italia come altrove una scarsa disponibilità al credito. È anche di dominio comune che le banche procedano, spesso con ragione, in modo cautelativo. Ma è anche ormai acquisito che sono molti gli istituti di credito che utilizzano il capitale a basso costo immesso dalle banche centrali per sostenere l’attività economica non a questo scopo, bensì per investimenti finanziari meno rischiosi (il cosiddetto carry trade). È dunque questo un blocco di questioni di rilevanza primaria che occorre comprendere ed eventualmente sbloccar rapidamente per restituire fiducia al mondo delle imprese e dell’economia in generale. Un’altra area di incertezza, e in qualche caso di timore, è costituita dalle tendenze dei consumatori. Che i consumi esitino a riprendere è un dato di fatto, ma ci si domanda se queste tendenze di maggiore austerità e sobrietà nei consumi siano temporanee o se siano destinate a protrarsi anche una volta finita la crisi. Un punto su cui le opinioni divergono fortemente. Questa l’ampia gamma di questioni di vasta rilevanza che si sono affrontate nel presente lavoro dal quale emerge che vi è una prospettiva sostanzialmente ottimistica sull’evoluzione a medio termine dell’economia internazionale. Certo, non si può non considerare che nei prossimi anni la crescita sarà lenta, ma il dato rilevante è che le politiche macroeconomiche utilizzate per far fronte alla crisi sono state, a differenza del 1929, sostanzialmente corrette, pur con errori ed omissioni. Usciamo, come ricordano tutti gli economisti, da un ventennio in cui la crescita ha avuto una intensità straordinaria per cui se anche nei prossimi anni lo sviluppo sarà un po’ meno dinamico ciò non costituisce una prospettiva disastrosa. Occorre però comprenderne i caratteri nuovi, diversi dal passato. I punti critici della ripresa sono la fragilità finanziaria, il necessario spostamento di domanda dal pubblico al privato e le possibili conseguenze degli squilibri commerciali. In parte, una maggiore domanda dai paesi emergenti potrà attenuare i rigori di questo quadro, specie se si confermeranno le dinamiche in atto in Paesi come Cina, India e altri, ma le criticità andranno comunque risolte tenendo conto dei limiti menzionati. 208


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I nuovi strumenti sono spesso meravigliosi e complessi e il loro uso richiede un personale sempre più numerose e addestrato in ambiti molto specifici. I pazienti con condizioni complesse possono finire per essere visitati da una molteplicità di medici, spesso collocati in organizzazioni differenti. Ma questa esplosione di conoscenze avviene in un sistema troppo frammentato e disorganizzato per assorbirla. Il risultato è il caos.

L’Europa non sta uscendo male dalla crisi e, soprattutto, va notato quanto sia stata efficace la funzione dell’euro nell’evitare una dispersione potenzialmente catastrofica delle politiche economiche dei diversi paesi, a partire da quelli dell’Europa Centrale e orientale. L’America di Obama costituisce un punto interrogativo, poiché dovrà risolvere gravi problemi di squilibrio interno tra risparmio e investimenti, ma è possibile affermare che le istituzioni europee – la BCE E L’EURO- siano addirittura uscite dalla crisi rafforzate. Per quanto riguarda l’Italia le prospettive future saranno condizionate più che in altri Paesi da un forte debito pubblico che limiterà il potenziale di una politica fiscale più leggera per favorire la ripresa. La transizione a una “nuova normalità” richiede, infatti, alle imprese scelte oculate e azioni rapide; senza dubbio questa crisi è la più dura da quella del 29, ma proprio per questo le aziende devono reagire con prontezza, effettuando scelte difficili che però possono premiare con una maggiore longevità, redditività e leadeship. Anche nella “nuova normalità”, infatti, sarà possibile crescere a ritmi sostenuti, ma il rilancio va impostato ora. I manager interpellati, in uno studio da noi consultato, mostrano di condividere questa impostazione, ma nei fatti si nota una prevalenza di comportamenti prudenziali, che continuano a mettere al primo posto il taglio dei costi, seguito da un recupero di flessibilità, e al terzo posto l’innovazione di prodotto. Certo, sarebbe improponibile negare che azioni di efficienza rappresentino una priorità, ma la realtà dimostra che sono le aziende che puntano alla crescita ad ottenere, oggi e in prospettiva, i risultati migliori.

Terapia d’urto Per attaccare efficacemente questo caos serve un nuovo tipo di leadership a tutti i livelli del sistema sanitario, dai grandi sistemi integrati come Partners agli ospedali, agli ambulatori e gli studi medici. Gli specifici tipi di lavoro e le misure di performance possono variare da un contesto all’altro, ma le responsabilità chiave della leadership sono le stesse. Per capire quali sono, i leader devono prima interiorizzare tre verità dolorose.

La performance è importante Molti medici e veterinari lavorano duramente, ma la qualità del loro lavoro non va misurata dal numero di pazienti che riescono a visitare o esaminare e dalle procedure che raccomandano. Ciò che conta sono i risultati. Questo è controverso perché come è noto la comparazione degli esiti è difficile. Dopo tutto, l’esito finale del processo di guarigione dipende dalla gravità della condizione iniziale del paziente. Nondimeno, a conti fatti la cosa importante è la salute del paziente. Quali sono il tasso di sopravivenza alle malattie e la percentuale di recupero delle disabilità? con quale frequenza i pazienti contraggono infezioni e altre complicazioni? I loro bisogni informativi ed emotivi vengono soddisfatti?

RIVOLUZIONE NEI SERVIZI SANITARI Valore non è una parolaccia Trasformare i medici in leader

Quando i datori di lavoro usano la parola “valore”, molti operatori sanitari sospettano che sia solo un modo di mascherare un taglio dei costi. Ma Michael Porter della Harvard Business School e altri sostengono da anni che, nel campo della assistenza sanitaria “valore” significa un’altra cosa: conseguire esiti positivi nella maniera più efficiente possibile. Questo potrebbe non essere esprimibile come un coefficiente numerico (rapporto tra qualità e costi) che favorisca un confronto significativo tra fornitori di servizi; ma la misura degli esiti e dei costi permetterebbe agli operatori di conseguire dei miglioramenti e di apprendere dai propri concorrenti.

il problema dell’assistenza sanitaria è costituito da una serie human resorce con un’età media di 50 anni che hanno appreso la medicina quando ancora era più arte che finanza. Ad essi veniva insegnato ad andare in ospedale prima dell’alba, a restare finché i loro pazienti non si erano stabilizzati e a concentrarsi sui bisogni dei pazienti che stavano curando senza preoccuparsi dei costi. Veniva detto di valutare i risultati di ogni esame con i loro occhi e non dipendere da nessuno. L’unico modo di garantire la qualità era darsi elevati standard personali e poi cercare di soddisfarli. Adesso molte organizzazioni sanitarie operano sotto la loro responsabilità. E questo è un problema, perché oggi l’assistenza sanitaria ha bisogno di un approccio radicalmente diverso e di una nuova generazione di leader. Le più recenti discussioni sul sistema sanitario si sono concentrate sul continuo aumento dei costi, ma queste difficoltà finanziarie sono null’altro che un sintomo. Qual è la vera malattia? i soliti sospetti hanno ruoli sorprendentemente secondari: l’avidità e l’incompetenza certamente esistono, ma gli economisti concordano che da sole non bastano a spiegare aumenti di costi superiori al 10% all’anno. La buona notizia, che è anche cattiva, è il principale motivo per cui i costi crescono è il progresso in campo medico: nuovi farmaci, nuovi test, nuove apparecchiature e nuovi modi di usare tutto questo.

Il miglioramento della performance richiede lavoro di squadra Singoli medici e ospedali hanno un controllo limitato sul destino dei propri pazienti. In tutte le organizzazioni che forniscono assistenza sanitaria, il miglioramento del valore e degli esiti richiede coordinamento, condivisione delle informazioni e lavoro di squadra a un livello interdisciplinare superiore. I leader di molte organizzazioni ricordano esattamente il momento in cui hanno capito che il loro mondo stava cambiando; spesso questo è avvenuto quando qualcuno, fuori dell’organizzazione, ha cominciato a misurare le loro performance. Uno sviluppo di questo tipo crea i presupposti per una nuova generazione di leader, sebbene pochi fornitori di 209


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SVILUPPARE UN SISTEMA DI MISURAZIONE

servizi sanitari lo accolgano di buon grado. I leader tradizionali del sistema sanitario cercano di prendere tempo, di sottrarsi al cambiamento e di massimizzare finché possono i ricavi sulla base del sistema di pagamento esistenti. I nuovi leader si concentrano sui risultati e utilizzano misure di performance come strumento di motivazioni per organizzare i propri colleghi e conseguire miglioramenti. Le sfide sono simili, sia che lavorino in un grande sistema di erogazione integrato, in un ospedale, in un gruppo di medici multi- specializzato o in un piccolo ambulatorio medico. Le loro tattiche possono variare da un contesto all’altro, ma i ruoli che i leader devono assumere rimangono gli stessi.

La prima difficoltà nel creare un sistema di misurazione della performance è ottenere che tutti i membri di un’organizzazione parlino lo stesso “linguaggio”, cioè misurino le stesse cose allo stesso modo; in caso contrario è facile e comprensibile per chi oppone resistenza al cambiamento mettere in discussione la validità delle differenze che emergono. Ma una volta che gli operatori si convincono che i confronti vengono effettuati accuratamente, le pressioni del gruppo di pari e altri incentivi contribuiranno a diffondere le prassi d’eccellenza. Quando i dati sono uniformi e attendibili, i leader possono attuare uno standardizzazione delle migliori prassi all’interno dell’organizzazione. Infine un sistema di misurazione efficace richiede metriche chiare che descrivono in dettaglio costi ed esiti per gli episodi di cura ed anche per le intere popolazioni di pazienti. La misurazione delle performance orientata al valore deve diventare il punto focale degli sforzi di miglioramento interni, prima ancora che la misura venga imposta da leader provenienti dall’esterno.

Formulare visioni e valori Il processo di riorganizzazione inizia con una formulazione della logica e degli obiettivi del cambiamento. Il cambiamento è difficile in tutti i campi e i valori altruistici alla base della medicina rafforzano la resistenza dei medici ad alterare lo status quo. Le persone tradizionaliste con un’età di circa 50 anni sanno di essere brave persone che lavorano duro e, nel sottolineare i rischi del cambiamento, esprimono il coraggio delle proprie convinzioni. Quindi la vision espressa dai leader nel settore sanitario deve trasmettere comprensione e determinazione; deve riconoscere l’importanza di ciò che il personale medico attualmente fa, ma anche chiarire che dovrà lavorare in maniera diversa in futuro; deve individuare esplicitamente i criteri di successo che dovranno essere soddisfatti; e dovrà essere ottimista e realista allo stesso tempo, esprimendo la convinzione che l’assistenza sanitaria può migliorare e che l’erogazione di cure di eccellente qualità è la migliore strategia di business. Una vision efficace aiuta le persone ad accettare i cambiamenti inevitabili e a mettere le informazioni e gli eventi nel giusto contesto.

Creare team efficaci Per i medici non è facile lavorare in team, perché spesso si considerano ancora eroici guaritori solitari. Nondimeno, lo sviluppo dei team è una funzione di leadership essenziale per gli operatori sanitari di tutti i tipi. Per esempio, i team di alcune delle più innovative strutture americane hanno contribuito a dimezzare le riammissioni in ospedale. Negli stati uniti circa il 20% dei pazienti di Medicare dimessi dagli ospedali viene ricoverato nuovamente entro 30 gg. Queste “ricadute” vanno viste per quello che sono: un fallimento del sistema sanitario di soddisfare i bisogni dei pazienti. Anche a posteriori molte riammissioni sono inevitabili, ma altre sono dovute alla confusione sui farmaci che il paziente avrebbe dovuto assumere, sui sintomi che potrebbero suggerire l’insorgere di una complicazione, sui tempi di una visita di controllo e sulla scelta del medico cui rivolgesi a questo scopo. Tale confusione crea un’opportunità per i fornitori di servizi sanitari meglio organizzati. La formula del successo di queste strutture ha un ingrediente evidente le infermiere (coordinatrici di cure) negli ambulatori del medico di base del paziente; queste coordinatrici rimangono continuamente in contatto con i pazienti che presentano casi complessi, soprattutto quando stanno per essere dimessi dall’ospedale o sono appena tornati a casa, e stabiliscono quali pazienti debbano vedere quali medici e quando. Il fattore più sofisticato che garantisce il successo di questo modello – l’ingrediente segreto – è una cultura in cui le coordinatrici delle cure svolgono effettivamente un ruolo di coordinamento. Per far questo è necessario che i medici siano leader dei team e si prestino a lavorare in squadra. Non molto tempo fa, nella rigida gerarchia della medicina, le infermiere erano generalmente considerate personale tecnico tenuto ad eseguire gli ordini; non si dovevano prendere decisioni senza che il medico lo sapesse e acconsentisse. L’idea che un infermiere potesse dare contributi cruciali e prendere decisioni indipendenti all’interno di un team clinico sarebbe stata assurda.

ORGANIZZAZIONE FINALIZZATA ALLA PERFORMANCE L’attenzione alla performance in campo sanitario è un concetto più radicale di quando non sembri. Nell’era che sta per chiudersi era opinione dominante che la vera qualità non potesse essere misurata; perciò la performance veniva valutata in base al volume e alla redditività dei servizi erogati. Nel sistema tradizionale, la medicina è organizzata attorno al lavoro dei medici anziché ai bisogni dei pazienti. Spesso una frammentazione di unità non si limita semplicemente alla divisione organizzativa tra i medici; in molti casi le relazioni tra medici e amministratori sono spesso antagonistiche e gli interessi finanziari sono mal allineati, o anche in diretto conflitto tra loro. L’organizzazione finalizzata ad una performance di eccellenza (anziché alla fornitura di un certo numero di unità di servizio)può contribuire ad abbattere tutte queste barriere. Il primo passo è la co-ubicazione. Un’opportunità di co-ubicazione viene creata dalla costruzione di una nuova struttura dedicata ai pazienti con specifiche condizioni. Ma da sola la co-ubicazione non è garanzia di un processo ben coordinato per migliorare gli esiti dei pazienti. Il lavoro di organizzare la cura attorno ai bisogni dei pazienti piuttosto che dei territori e ai giochi di potere dei medici può dare i suoi frutti anche in strutture più piccole. 210


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Tutto questo sta cambiando, perché le organizzazioni che erogano cure mediche nella maniera tradizionale non riescono ad eguagliare le performance delle strutture di eccellenza. Nel gestire questi team i medici devono delegare molte responsabilità alle infermiere; il risultato è il miglioramento delle performance nelle metriche che contano maggiormente per il personale medico e per i pazienti. Il team building è una competenza cruciale per i leader di gruppi di medici, specialmente in quelli, sempre più frequenti, composti da almeno 25 unità composti da dottori con una vasta gamma di specializzazioni. Molti di questi medici entrano a far parte di un gruppo non perché vogliono lavorare con spirito collaborativo con altri al miglioramento delle performance, ma perché vogliono trovarsi in una grande organizzazione in cui le seccature amministrative spettano a qualcun altro, in cui il numero di componenti fornisce una certa sicurezza rispetto alle forze del mercato, e in cui realizzare guadagni addizionali da servizi accessori come radiologia ed esami di laboratorio. Ma le fortune di questi gruppi e di altri in tutte le aree della medicina dipendono da leader che sappiano migliorare le performance ispirando (o imponendo) il lavoro di squadra. In molti mercati gli assicuratori stanno incorporando i costi e la qualità nelle caratteristiche di servizio, in modo che i pazienti debbano pagare di più – o non godano di alcuna copertura – se vogliono farsi curare da medici inquadrati in gruppi più costosi, meno efficienti o di qualità inferiore.

questa passione per gli interessi dei pazienti possa essere, l’autonomia del medico non è sinonimo di qualità. Affinché i cambiamenti strutturali e organizzativi necessari (misurazione della performance, miglioramento dei processi, lavoro di squadra) divengano la norma, i medici devono riconoscere che prendersi cura di tutti è diverso dal sapere tutto o dall’avere tutto sotto controllo. Per far si che lo capiscano, i leader possono usare tre approcci. FARE APPELLO A NUOVI IDEALI: le persone che scelgono di lavorare nel settore sanitario vogliono dedicare la propria vita a uno scopo nobile, ovvero aiutare i pazienti. L’altruismo è una dimensione essenziale dell’identità dei medici e di tutti coloro che lavorano in ambito sanitario; i leder della sanità non possono avere successo se non dichiarano esplicitamente di condividere e di agir sulla base della medesima aspirazione. MOSTRARE I DATI: i medici sono veloci a mettere in discussione i dati sulla performance e a identificar eventuali problemi metodologici: ma la verità è che sono affascinati dai dati e non riescono ad ignorarli. DEFINIRE LA STRATEGIA ATTORNO AI BISOGNI DEI PAZIENTI: le conoscenze e le procedure mediche sono in continuo cambiamento, ma i bisogni dei pazienti rimangono gli stessi. L’assistenza sanitaria consiste nel soddisfare questi bisogni. Il passaggio ad un sistema sanitario orientato al valore e votato alla performance richiede che i medici adattino e rifiutino alcuni modi di lavorare che appartengono al passato della medicina.

Migliorare i processi I team che erogano assistenza sanitaria non possono darsi una finalità limitata nel tempo o focalizzata su un unico progetto. I tassi di riammissione non saranno mai abbastanza bassi, il trattamento degli attacchi cardiaci non sarà mai abbastanza rapido e i processi non saranno mai abbastanza efficienti e attendibili. Pertanto i leader devono lavorare instancabilmente per ridurre gli errori e gli sprechi e per migliorare i risultati, ad esempio prevenendo le riammissioni o riducendo il tempo tra l’arrivo di un paziente per un attacco cardiaco al pronto soccorso e l’apertura di una arteria ostruita. Per far questo serve una cultura orientata al miglioramento dei processi e l’uso disciplinato di metodi come il lean management la raccolta dati, il brainstrorming, l’intervento e l’analisi degli impatti, e un impegno costante alla loro applicazione. Tale cultura ed esperienza possono essere inculcati in diversi modi.

UNA CURA RADICALE PER L’ASSISTENZA MEDICA Negli stati uniti e in tutto il mondo sono state avanzate molte proposte per curare i mali del sistema sanitario; ovvero nuove forme organizzative, sistemi di pagamento alternativi, concorrenza i mercato, con lo scopo di affrontare uno sfida universale, che è quella di migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria e di ridurre o contenere i costi crescenti. Pertanto l’unica speranza realistica di ottenere un miglioramento sostanziale dell’erogazione dell’assistenza sanitaria è che la vecchia guardia lanci una rivoluzione dall’interno. Gli operatori di attività devono riprogettare il proprio ruolo, ovvero rinnovare i progetti clinici fondamentali e le strutture organizzative, i sistemi di gestione e le culture che li sostengono in modo che i fornitori di servizi sanitari possano svolger simultaneamente tre compiti ben definiti. Applicare rigorosamente le migliori prassi scientificamente affermate per la diagnosi e il trattamento delle malattie conosciute Utilizzare dei processi”TRIAL AND ERROR” per il trattamento di condizioni complesse o scarsamente comprese Cogliere e applicare le nuove conoscenze generate dall’attività quotidiana di assistenza Se in passato la diagnosi e il trattamento erano generalmente lasciati al giudizio dei singoli medici, che conseguivano i migliori risultati possibili fornendo un’assistenza personalizzata, in quanto la medicina era una piccola organizzazione di artigiani autonomi, e gli ospedali erano considerati

Smantellare le barriere culturali Perché è così difficile la collaborazione in un campo che attrae persone idealiste che vogliono fare del bene? Perché la misurazione e il miglioramento della performance sono così problematiche per alcune delle persone più intelligenti dedite al lavoro e competitive della società? Perché il concetto di valore viene rifiutato da operatori che avrebbero tutto da un miglioramento delle cure erogate? È tutta una questione di autonomia. Le barriere culturali al cambiamento nel settore sanitario (la resistenza di medici a essere misurati, il loro bisogno di essere perfetti, la riluttanza a criticare i colleghi, la resistenza al lavoro di squadra) rispecchiano la profonda convinzione che l’autonomia del medico è indispensabile per la qualità dell’assistenza sanitaria. Per quanto preziosa 211


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una sorta di laboratori dei medici. Oggi invece i progressi scientifici hanno accresciuto notevolmente il volume e la specificità del sapere medico, che può essere tradotto in processi standardizzati e programmato in sistemi di supporto decisionale computerizzati. Però la capacità delle organizzazioni di applicare le scoperte scientifiche non ha tenuto il passo con l’evoluzione di queste ultime, poiché molte organizzazioni non sono configurate per disseminare e impiegare in modo rapido le nuove conoscenze. Inoltre le organizzazioni sanitarie non sono molto abili ad apprendere sistematicamente come organizzare i casi più difficili, a cu è ascrivibile la maggior parte dei costi sanitari. Pertanto le moderne organizzazioni sanitarie devono essere in grado di ottimizzare l’esecuzione di processi standardizzati per affrontare i problemi noti, e imparare a risolvere i problemi sconosciuti. Infatti, alcune delle proposte di riforma della sanità hanno un difetto che è quello di non affrontare debitamente la complessità della cura dei pazienti, nella quale convivono fianco a fianco ambiguità e prevedibilità. In termini molto pratici dovranno essere i principali operatori tradizionali a riconfigurare le proprie operazioni e a fare progressi nonostante alcuni ostacoli come l’onorario, un sistema di pagamento che incoraggia l’esecuzione delle procedure indipendentemente dal loro impatto sui risultati. Molte organizzazioni hanno compreso che le conoscenze mediche sono oramai molto voluminose per essere immagazzinate tutte nella testa dei singoli medici e devono essere invece incorporate in protocolli e routine. In altre parole la cura delle malattie deve diventare una sorta di responsabilità di tipo organizzativo.

re ovviamente condivise (questo avviene strutturando il sistema degli incentivi in modo tale da incoraggiare i medici ad operare nelle varie strutture o dipartimenti o nei vari ospedali). In secondo luogo devono gestire le interfacce tra le unità, in modo tale che i pazienti possano passare rapidamente e agilmente dall’una all’altra struttura a seconda delle necessita(e questo avviene facendo affidamento alla cultura e alle varie procedure). In ultimo luogo si deve coordinare il flusso di pazienti con delle malattie complesse e multiple tra i vari reparti specializzati che contribuiscono al loro trattamento (e questo si effettua sfruttando un ambiente collegiale che stimola la cooperazione tra i vari personali.) in breve quindi prendersi cura dei pazienti con condizioni complesse o scarsamente comprese richiede dei modelli organizzativi alquanto complessi.

RIORGANIZZARE LE RISORSE Il terzo principio è che, nel ripensare le procedure cliniche, le varie organizzazioni sanitarie devono anche riconfigurare le infrastrutture e le prasi di supporto. Sfortunatamente molte organizzazioni non adeguano le risorse (il mix di personale, la struttura gestionale, la misurazione delle performance, il sistema degli incentivi, il sistema informatico, la disposizione fisica della clinica o del reparto, le regole di condivisione delle risorse, la tecnologia per la diagnosi del trattamento della malattia, i programmi di formazione), con le procedure così riformulate. Di conseguenza il risultato sarò quello di avere degli specialisti altamente qualificati che continuano a svolgere delle mansioni che potrebbero essere delegate ad un altro personale come quello infermieristico, oppure i protocolli non vengono tradotti in semplici passi da seguire attraverso un programma informatico, o le misure delle performance e i badget rimangono focalizzati su costi e sul volume dei servizi, piuttosto che sul risultato per il paziente, oppure i professionisti che dovrebbero lavorare in team lavorano dal soli. Di conseguenza le organizzazioni sanitarie si devono porre la seguente domanda: quali cure si possono offrire con le risorse che si dispongono?oppure di quali risorse si ha bisogno e come devono essere configurate per il tipo di cure che si intende offrire?.

GESTIRE L’ASSISTENZA Le decisioni, le mansioni e il WORK FLOW cruciali per l’ottimizzazione della cura del paziente devono diventare il focus primario dell’organizzazione. Questo non è altro che un’importante cambio di prospettiva. Infatti per applicare alla prassi l’evidenza acquisita occorre una standardizzazione, non solo della routine operativa, ma anche delle regole per prendere delle decisioni cliniche ed eseguire i compiti.

ISOLARE LA VARIABILITÀ APPRENDERE DALLE CURE QUOTIDIANE

Pur standardizzando il più possibile i trattamenti, si cerca di far si che i medici in generale si discostino dal protocollo ogni qualvolta ritengano che questo sia nel migliore interesse del paziente. Infatti un altro modo di limitare la variabilità è adottare un modello di”ospedale dentro l’ospedale” o “di clinica dentro la clinica”, che consiste nel creare due unità, ovvero una che è specializzata nei casi semplici e d una che invece è specializzata nei casi più complessi. Questo modello permette alla clinica di realizzare i benefici del focus operativo, come attendibilità, accuratezza ed efficacia, in modo tale da assicurarsi che a nessun paziente venga negata l’assistenza. Le organizzazioni che adottano questo modello di ospedale dentro l’ospedale si trovano a confrontarsi con tre difficoltà di esecuzione. In primo luogo devono assicurarsi che tutti i pazienti e gli addetti alle cure abbiano accesso a risorse costose o scarse che devono esse-

Il quarto principio è che la struttura e i processi di ospedali, ambulatori o cliniche devono essere progettati in modo tale da aiutare le varie organizzazioni ad apprendere sistematicamente dal proprio lavoro quotidiano. Però molto spesso questo non si osserva, poiché si ha una separazione tra generazione e applicazione delle conoscenze di tipo medico (infatti si può vedere come gli scienziati e i ricercatori clinici creano conoscenza che viene poi insegnata durante i corsi di formazione continua ai vari medici.).si può vedere infatti come alcune organizzazioni, riconoscendo che il proprio personale produce degli spunti e delle innovazioni, che potrebbero avere un impatto positivo sulla performance, sviluppano routine per la creazione, la cattura e la divulgazione di queste preziose conoscenze. 212


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IL DURO LAVORO DELLA RIPROGETTAZIONE

Poi ci sono anche gli ostacoli esterni, come le burocrazie pubbliche, i rimborsi basati su un onorario a prestazione che riducono i proventi delle organizzazioni e degli individui che realizzano miglioramenti qualitativi. Le politiche pubbliche possono agevolare la transizione,ma il duro lavoro della riprogettazione spetta al personale clinico a ai manager che lavorano nelle organizzazioni dove i pazienti ricevono delle cure. La riforma delle cure mediche è una sfida tanto manageriale quanto politica.

Non esiste una soluzione che può essere imposta dall’alto; non c’è un modello che va bene per tutti. Infatti ogni organizzazione deve basare il proprio modello organizzativo sui bisogni della popolazione che serva, sul contesto normativo locale e sulle risorse disponibili. Infatti riprogettare non significa semplicemente lanciare alcuni programmi pilota dall’alto profilo; ma richiede un’enorme quantità di lavoro dettagliato in ogni clinica, reparto e ambulatorio. La riprogettazione richiede che i medici abbandonino il proprio isolamento e comincino a lavorare come membri di un team, e ad apprezzare il valore di progettazione e ad implementare procedure di cura pur sapendo quando e come discostarsene.

Fonti Centro studi Mckinsey & Company Prof Thomas H Lee – prof. Medicina alla Harvard medical School Richard M.J. Bohmer prof. di prassi managerial alla Harvard B.S. Harvard business Review

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Tecnica, artefatti e considerazioni nella valutazione dei reni policistici del gatto Giliola Spattini Med Vet, PhD, Dipl ECVDI, Castellarano (RE)

La sindrome del rene policistico è la più comune patologia genetica ereditaria del gatto. È estremamente frequente nei gatti Persiani puri, in razze collegate ai Persiani come ad esempio alcune razze esotiche, ma anche in incroci di gatti Persiani. Raramente è riportata anche in gatti europei comuni. La patologia viene trasmessa attraverso un gene autosomico dominante. Nel 2004 è stato identificato il gene responsabile della mutazione anche se in uno studio più recente, il 5% dei gatti che presentavano sia le caratteristiche ecografiche che istologiche del rene policistico risultavano negativi al gene individuato come responsabile. Questo dato suggerisce che ci siano più geni coinvolti nella mutazione del rene policistico. I portatori del gene individuato sono risultati tutti eterozigoti e si suppone che i gatti omozigoti muoiano allo stadio embrionale. In pochi pazienti, il test genetico risultava positivo ma ecograficamente il paziente non presentava reni policistici. Si suppone che in alcuni casi la penetranza del gene non sia completa, o che intervengano geni “silenziatori” che non facciano esprimere il gene della mutazione.1 Questi casi sono allo studio ed ancora in discussione. L’esame ecografico è un esame non invasivo ed accurato per diagnosticare la sindrome del rene policistico. La sensibilità aumenta con l’aumentare dell’età, in quanto in pazienti molto giovani le cisti possono essere talmente piccole da rimanere al di sotto della risoluzione spaziale dell’ecografo. Per questo motivo in alcuni stati come l’Inghilterra, la certificazione dell’esenzione dalla sindrome del rene policistico viene eseguita in gatti di età superiore ai 10 mesi. In altri stati si accettano certificazioni ufficiali in gatti a partire dai tre mesi (Svezia) anche se la letteratura riporta che la sensibilità dell’esame ecografico è del 75% in pazienti di 16 settimane mentre sale al 91% nei pazienti di 36 settimane.2 I recenti apparecchi ecografici permettono risoluzioni ecografiche superiori con l’identificazione di cisti renali anche molto piccole. In alcuni paesi, solo specialisti o diplomati in diagnostica per immagini possono rilasciare certificazioni ufficiali per la patologia. Questo potrebbe sembrare una forzatura in quanto la tecnica della valutazione ecografica dei reni del gatto è molto semplice, tuttavia sono necessarie minime competenze tecniche di base per evitare errori grossolani. Se la trasmissione degli ultrasuoni attraverso la cute non è ottimale, ad esempio nel caso in cui il paziente non venga rasato attentamente, la riduzione della densità del fascio ultrasonoro crea immagini

molto più contrastate e la midollare risulta estremamente anecogena. Questo potrebbe mascherare cisti molto vicine alla distinzione cortico-midollare o potrebbe fare erroneamente scambiare aree della midollare per cisti renali. Anche l’eccessiva inclinazione della sonda rispetto alla superficie da esaminare (off normal artifact) può fare risultare una parte del rene estremamente anecogena rispetto ad altre aree e generare l’erronea impressione della presenza di lesioni cistiche o al contrario mascherare le stesse. Le accortezze per correggere questi difetti sono molto semplici: è necessario rasare sempre il paziente esaminato ed è necessario mantenere la superficie della sonda perpendicolare all’organo da esaminare. Per riconoscere una struttura cistica, si utilizza il rinforzo di parete posteriore, artefatto generato dal computer dell’ecografo. Esso infatti postulizza che l’intensità degli echi di ritorno dai tessuti sia strettamente correlata alle caratteristiche del tessuto. In realtà, gli ultrasuoni che passano attraverso una struttura contente liquidi, vengono attenutati di meno rispetto agli ultrasuoni che passano attraverso tessuti solidi. Per questo motivo il computer rende iperecogene le aree al di sotto di una struttura liquida. Il rinforzo di parete posteriore si verifica quando lo spessore della raccolta di liquidi è sufficiente a creare una differenza nell’attenuazione del fascio sonoro. Se le lesioni cistiche sono molto piccole, potrebbero non essere accompagnate da questo artefatto. In questo caso un secondo modo per confermare che la struttura indagata contenga liquido, consiste nel saturare l’immagine impostando ai massimi livelli il gain: se la struttura contiene liquidi allora tende a divenire meno ecogena ed il contrasto con i tessuti circostanti si riduce solo di poco, se invece la struttura è anecogena ma contiene dei tessuti solidi, il contrasto con i tessuti circostanti si riduce di molto. A volte la vascolarizzazione renale risulta molto prominente e questo potrebbe creare l’impressione che siano presenti una o più piccole cisti. L’utilizzo del color doppler rivela l’origine vascolare delle pseudo-lesioni, per cui sarebbe auspicabile includere questa metodica nell’esame.3 Ad oggi possiamo contare su due tecniche ragionevolmente sensibili ed accurate, l’ecografia ed il test genetico. Quale metodica scegliere? I test genetici sono sempre più accurati e precisi anche se le metodiche di laboratorio possono essere complesse ed essere soggette all’errore umano. D’altra parte abbiamo visto che possiamo avere pazienti che non hanno cisti renali ma che sono portatori del gene del rene policistico. Idealmente l’associazione delle due 214


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metodiche dovrebbe permettere la riduzione della prevalenza di questa patologia, eliminando dalla riproduzione i soggetti che risultino positivi almeno ad una metodica, ed i migliori riproduttori dovrebbero essere quelli negativi ad entrambe.

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Bibliografia 1.

Wills SJ, Barrett EL, Barr FJ, Bradley KJ, Helps CR, Cannon MJ, Gruffydd-Jones TJ (2009): Evaluation of the repeatability of ultrasound scanning for detection of feline polycystic kidney disease. Journal of Feline Medicine and Surgery, 11, 1-4. Beck C, Lavelle RB (2001): Feline polycystic kidney disease in Persian cats: a prospective study using ultrasonography. Australian Veterinary Journal, 79 (3), March.

Indirizzo per la corrispondenza: Giliola Spattini Clinica Veterinaria di Castellarano Via Fuori Ponte 1/1, Castellarano (RE) Tel/fax: 0536859701 E mail giliolavet@yahoo.it

Bonazzi M, Volta A, Gnudi G, Cozzi MC, Srtillacci MG, Polli M, Longeri M, Manfredi S, Bertoni G (2009): Comparison between ultrasound and genetic testing for the early diagnosis of polycystic kidney disease in Persian and Exotic Shorthair cats. Journal of Feline Medicine and Surgery, 11, 430-434.

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Mezzi di contrasto in radiologia: trucchi pratici per le metodiche standard ed applicazioni inusuali Giliola Spattini Med Vet, PhD, Dipl ECVDI, Castellarano (RE)

Appena dopo la scoperta dei raggi X nel 1895, ci furono i primi tentativi di utilizzare mezzi di contrasto in radiologia. Il primo studio documentato fu effettuato su una cavia, alla quale somministrarono per via orale del piombo sub-acetato per mettere in evidenza lo stomaco. Da allora diversi mezzi di contrasto sono stati utilizzati. Per poterli utilizzare al meglio, è necessario conoscerli e conoscere le eventuali contro-indicazioni degli stessi.

dell’endoscopio, per cui è preferibile aspettare almeno 48 ore dalla somministrazione del mezzo di contrasto prima di procedere con l’endoscopia. Similarmente, visto che il prelievo bioptico, potrebbe creare delle piccole lesioni parietali, si preferisce attendere almeno 24 ore prima di effettuare uno studio baritato in un paziente sottoposto ad endoscopia. Il bario non può essere usato per via endovenosa, endovescicale, parenterale e non può essere utilizzato nello spazio subaracnoideo. Detto questo, sorge spontanea una domanda: ma oggi, avendo a disposizione ecografia, CT, endoscopia, che ruolo rimane in medicina veterinaria al solfato di bario? Innanzitutto, nonostante sia stato dimostrato che un ecografista esperto abbia una superiore capacità di individuare patologie del tratto gastro-enterico, molti colleghi hanno maturato un’ammirevole esperienza nell’interpretazione dei pasti baritati, rendendo questa metodica assai sensibile. Rimane inoltre una metodica molto economica e tecnicamente alla portata di qualsiasi struttura veterinaria. Per esperienza personale ed anche di colleghi, si è riscontrato un effetto benefico del bario sull’intestino, associato a volte, ad un miglioramento della sintomatologia gastro-enterica dopo lo studio contrastografico.

SOLFATO DI BARIO Utilizzato già nel 1904, il solfato di bario è una polvere cristallina, che crea delle sospensioni, avendo particelle più grandi di 0.1 µm. Questo è uno dei maggiori svantaggi del bario solfato in quanto essendo una sospensione e non un colloide, se ristagna per lungo tempo, la polvere tende a separarsi dal liquido. Questo si traduce in uno studio non diagnostico nel caso in cui si voglia indagare l’apparato gasro-enterico di un paziente con un ileo paralitico o meccanico con totale atonia intestinale. In questi pazienti è preferibile utilizzare mezzi di contrasto iodati che hanno una velocità di transito molto superiore al bario e non sono in sospensione. Il bario come ione è estremamente tossico, tuttavia il solfato di bario è molto stabile, pochissimo solubile in acqua e scarsamente assorbito attraverso il tratto gastroenterico. Il solfato di bario rimane il mezzo di contrasto d’elezione per il tratto gastro-enterico perché fornisce le migliori immagini della mucosa delle anse intestinali in quanto ha un’ottima adesione. In letteratura ci sono molti lavori che permettono di standardizzare la lettura di uno studio contrastografico al bario; queste informazioni dettagliate mancano per gli altri mezzi di contrasto. Un notevole vantaggio del bario è che in caso di un’aspirazione nelle vie aeree, in genere, a parte un eccesso di tosse, ed eventualmente, una polmonite infiammatoria locale, difficilmente si creano conseguenze preoccupanti. Per questo motivo, anche pazienti con mega-esofago possono essere sottoposti ad un pasto baritato con relativa tranquillità. Il maggiore svantaggio di questo mezzo di contrasto è che nel caso di una perforazione mediastinica o gastro-enterica, il bario è in grado di creare una violentissima mediastinite o peritonite, che può evolvere in fibrosi e formazione di granulomi. Spesso il processo infiammatorio è così violento che potrebbe essere fatale, per cui si preferisce risolvere chirurgicamente una eventuale contaminazione. Altro limite di questa metodica è che se è prevista un’endoscopia, il bario potrebbe incrostare l’ottica

MEZZI DI CONTRASTO IODATI Per quanto riguarda gli studi del tratto gastro enterico, sebbene la qualità delle immagini prodotte sia molto superiore utilizzando il solfato di bario, tuttavia, in pazienti con ileo paralitico, dove il bario avrebbe una progressione lentissima, in pazienti molto prostrati o gravi, dove si vuole ottenere al più presto una risposta, ed in pazienti dove si sospetti la rottura di un viscere, si utilizza un mezzo di contrasto iodato. Infatti se il bario in genere impiega 8 ore per spostarsi dallo stomaco al colon, i mezzi di contrasto iodati impiegano in media 90 minuti. Tuttavia i mezzi iodati, soprattutto quelli ionici, sono ipertonici, e quindi non si possono somministrare oralmente a pazienti disidratati, o si rischierebbe di richiamare troppi liquidi nel lume intestinale e portare il paziente al collasso. Sempre a causa dell’ipertonicità, l’aspirazione dei mezzi di contrasto iodati è potenzialmente fatale a causa del massiccio richiamo di liquidi nelle vie aeree e dell’edema polmonare conseguente. Queste situazioni si possono evitare utilizzando mezzi di contrasto iodati non ionici che hanno una lieve o nulla ipertonicità. I mezzi di contrasto iodati si dividono in due classi: i mezzi di contrasto iodati ionici, e quelli non ionici. 216


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vena mesenterica in sede chirurgica. Dopo aver iniettato il mezzo di contrasto in una vena digiunale, si eseguivano i radiogrammi. Questa metodica è stata quasi del tutto abbandonata a scapito della CT, più accurata e meno invasiva. Tuttavia non tutti i proprietari possono permettersi un esame CT. Un modo più semplice per eseguire una portografia, consiste nell’iniettare il mezzo di contrasto in una vena splenica. Tramite la guida ecografica, si mette un ago nella milza, il più vicino possibile ad una vena ilare. Poi con una leggerissima pressione, stando attendi a non rompere la vena splenica, si inietta il mezzo di contrasto che confluirà nella vena porta attraverso la vena splenica. Il chilotorace ha diverse cause. Una di queste è la rottura del dotto toracico. Il dotto toracico è una struttura non evidenziabile in diagnostica, se non attraverso un mezzo di contrasto. La procedura standard prevedeva una celiotomia attraverso la quale si individuava un linfonodo del cieco. Si iniettava 0.5-1.0 ml di blu di metilene in modo che 5/20 minuti dopo, il colorante permette di individuare i vasi linfatici. Un vaso linfatico veniva incannulato, e poi poteva cominciare lo studio contrastografico. Recentemente, è stata proposta una metodica che prevede l’iniezione di mezzo di contrasto iodato nel linfonodo popliteo. Si iniettano 1 ml/kg alla velocità di 2 ml/minuto. I migliori risultati si hanno se si ottiene la prima radiografia dopo 5 ml di mezzo di contrasto, in un tempo di 2.5 minuti. Se l’opacificazione del dotto non è sufficiente si ripete una seconda iniezione di mezzo di contrasto immettendo altri 5 millilitri di contrasto in 2.5 minuti.

I mezzi di contrasto iodati ionici hanno maggiore ipertonicità, producono ioni, hanno una maggiore stimolazione antigenica. Non possono essere utilizzati nello spazio subaracnoideo, sono più economici. I mezzi di contrasto non ionici, sono lievemente ipertonici o isotonici e non producono ioni. Hanno molti meno effetti collaterali, possono essere somministrati nello spazio subaracnoideo, hanno costi maggiori. Entrambi possono essere somministrati per via endovenosa e parenterale. I mezzi di contrasto iodati non devono essere utilizzati in pazienti diabetici.1

TRUCCHI PER ESEGUIRE UNA UROGRAFIA DISCENDENTE ENDOVENOSA Per ottenere un buon esame è necessario idratare bene il paziente prima, ma sospendere la somministrazione del mezzo di contrasto durante l’esame, per evitare la diluizione dello stesso. Il mezzo di contrasto va iniettato a bolo, questo potrebbe provocare conati di vomito nel paziente, ma è necessario avere una buona concentrazione del mezzo di contrasto o questo viene velocemente diluito dal flusso sanguigno e le immagini possono risultare scarsamente diagnostiche. È consigliabile tenete il paziente sotto fluidi, dopo l’esame contrastografico, per evitare che l’ipotensione transitoria che potrebbe verificarsi, arrechi danni renali. Cosa fare se in un paziente con sospetta ostruzione di un uretere, il mezzo di contrasto non viene perfuso a livello ureterale? Questo può capitare sia per l’effetto dell’ostruzione, ma anche per un deficit della ultrafiltrazione renale. Una metodica che può essere molto utile in questi casi è l’iniezione del mezzo di contrasto, tramite guida ecografica, direttamente nella pelvi renale dilatata. Il materiale aspirato può essere analizzato, poi si inietta con una minima pressione un quantitativo simile di mezzo di contrasto. Si scatta il radiogramma subito dopo aver terminato l’iniezione.

Bibliografia 1. 2.

NUOVE METODICHE PER VECCHIE TECNICHE

Wallack ST (2002): The handbook of Veterinary Contrast radiography. Naganobu K, Ohigashi Y, Akiyoshi T, Hagio M, Miyamoto T, Yamaguchi R: Volume 35, Issue 4, Pages 377-381.

Indirizzo per la corrispondenza: Giliola Spattini Clinica Veterinaria di Castellarano Via Fuori Ponte 1/1, Castellarano (RE) Tel/fax: 0536859701 E mail giliolavet@yahoo.it

La portografia mesenterica, è una metodica utilizzata per diagnosticare anomalie vascolari epatiche, tra le quali gli shunt portosistemici. Veniva eseguita cateterizzando una

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Il Butorfanolo nell’ecocardiografia del cane Enrico Stefanelli Med Vet, Roma

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Endoscopy is not enough: how lab work can help in the diagnosis of gastrointestinal problems Jörg M. Steiner Dr Med Vet, PhD, Dipl ACVIM, Dipl ECVIM-CA, Texas, USA

INTRODUCTION

death and even a weak suspicion of hypoadrenocorticism warrants further testing. Cats with hyperthyroidism often have anemia and increases of serum activities of hepatic enzymes. Results from the serum chemistry profile also help to rule-out hepatic failure.

Gastrointestinal problems are one of the most common reasons why dogs or cats are presented to a veterinarian. While gastrointestinal endoscopy often provides the basis for a definitive diagnosis, many patients can be successfully diagnosed and treated by use of laboratory tests. A systematic work-up for dogs and cats with chronic diarrhea includes a careful history and a thorough physical examination. Also, patients must be evaluated for gastrointestinal parasites and treated with a broad-spectrum anthelminthic agent. Next secondary causes need to be differentiated from primary causes of the gastrointestinal problem. When secondary gastrointestinal causes have been ruled out, the primary gastrointestinal disease should be further characterized and therapeutic trials should be employed to further define the problem if they are not contraindicated. When this approach fails to resolve the problem a definitive diagnosis needs to be sought by further work-up including abdominal ultrasound and gastrointestinal endoscopy.

ASSESSMENT OF THE EXOCRINE PANCREAS Exocrine pancreatic disease can also cause chronic diarrhea. Dogs and cats with exocrine pancreatic insufficiency (EPI) often have soft stools or diarrhea as the most important clinical sign. EPI can easily be diagnosed by measurement of serum TLI concentration. Serum TLI concentration is highly specific for EPI in both dogs and cats. Dogs with a serum cTLI of ≤ 2.5 μg/L and cats with a serum fTLI ≤ 8.0 μg/L can be diagnosed with EPI, respectively. A recent report has shown that some German shepherd dogs have subclinical EPI with severely decreased serum cTLI concentrations. These dogs have a lack of exocrine pancreatic tissue at biopsy, but no or only intermittent clinical signs of EPI. This highlights the remarkable functional reserve of the exocrine pancreas and the entire gastrointestinal tract in dogs. Also, dogs and cats with chronic pancreatitis often present for nonspecific clinical signs, such as anorexia and chronic diarrhea may be the only clinical signs reported. If there is any suspicion for chronic pancreatitis, a serum pancreatic lipase immunoreactivity concentration (PLI; as measured by Spec cPL® in dogs and as Spec fPL® in cats) should be evaluated. Many different cell types in the body synthesize and secrete lipases. In contrast to catalytic assays for the measurement of lipase activity, use of immunoassays does allow for the specific measurement of lipase originating from the exocrine pancreas. Serum PLI has been shown to be highly specific for exocrine pancreatic function. Also, the sensitivity of different minimally-invasive diagnostic tests was compared in dogs with pancreatitis. The sensitivity of serum TLI concentration was below 35%, that of serum lipase activity less than 55%, and ultrasound 68%. In contrast, the sensitivity of serum cPLI concentration for pancreatitis was above 80%. Clinical studies in cats have shown similar results. In a study of cats with spontaneous pancreatitis serum fPLI concentration was more sensitive and more specific than serum fTLI concentration or abdominal ultrasonography. Thus, in both dogs and cats, serum PLI concen-

GENERAL CLINICAL PATHOLOGY As mentioned above, one of the most important steps for a proper diagnosis of the gastrointestinal problem is the differentiation of primary and secondary gastrointestinal diseases, which can be achieved by performing a complete blood count, a serum chemistry profile, a urinalysis, and in cats above the ages of 6-7 a serum total T4 concentration. Some additional serum should always be collected and frozen for possible future analysis. A complete blood count may help to identify inflammatory, infectious, or endocrine disorders, as it may reveal anemia or an inflammatory leukogram. The serum chemistry profile, together with specific gravity from the urinalysis is useful to rule out chronic renal failure. Hyperkalemia and hyponatremia may be present in dogs with hypoadrenocorticism. However, it is important to note that not all dogs with hypoadrenocorticism show these abnormalities. Some dogs do not lack mineralocorticoids and will not show electrolyte abnormalities, but should still show a lack of an appropriate stress leukogram. Dogs that are suspected of having hypoadrenocorticism should be evaluated with a base-line serum or plasma cortisol concentration and, if inconclusive, with an ACTH stimulation test. Hypoadrenocorticism, if untreated, can lead to an Addisonian crisis and 219


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folate concentration. In contrast, many intestinal bacteria produce folate and thus small intestinal dysbiosis can lead to increased serum folate concentrations. Dietary cobalamin is bound to dietary protein derived from animal protein. In the stomach, dietary protein is partially digested by pepsin and HCl and cobalamin is being released. However, cobalamin immediately binds to R-protein. The R-protein in turn is digested by pancreatic proteases in the small intestine. Free cobalamin binds to intrinsic factor, released mostly in pancreatic juice. These cobalamin-intrinsic factor complexes are then absorbed through specific receptors in the ileum. Therefore, severe and longstanding disorders of the distal small intestine as well as exocrine pancreatic insufficiency will lead to cobalamin malabsorption, depletion of cobalamin body stores, and to a decreased serum cobalamin concentration. In a recent study 61% of 80 cats with clinical signs of chronic gastrointestinal disease had a decreased serum cobalamin concentration. Also, almost all cats and 82% of dogs with EPI have been reported to be cobalamin deficient.

tration is the most sensitive and specific diagnostic test for pancreatitis currently available.

ASSESSMENT OF SERUM FOLATE AND COBALAMIN CONCENTRATIONS Serum cobalamin and folate concentrations are of great diagnostic importance as they help to further characterize the condition. Serum folate concentration can be decreased in proximal small intestinal disorders, while serum cobalamin concentration can be decreased in distal small intestinal disorders and EPI. In patients with diffuse small intestinal disorders both serum folate and cobalamin concentrations can be decreased. Dogs with small intestinal bacterial overgrowth can have a decreased serum cobalamin concentration and an increased serum folate concentration. Folate and cobalamin are both water-soluble vitamins that are plentiful in almost all commercial diets. However, dietary folate, which is mostly folate polyglutamate, needs to be deconjugated to folate monoglutamate by folate deconjugase, a jejunal brush border enzyme. Folate monoglutamate is absorbed by specific carriers in the proximal small intestine. Therefore, longstanding and severe disorders of the proximal small intestine can lead to folate malabsorption, depletion of folate body stores, and a decreased serum

Address for correspondence: JĂśrg M. Steiner Associate Professor and Director Gastrointestinal Laboratory, Texas A&M University College Station, TX

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Alternative to immunosuppression: using diet, probiotics, and other therapeutic approaches JĂśrg M. Steiner Dr Med Vet, PhD, Dipl ACVIM, Dipl ECVIM-CA, Texas, USA

INTRODUCTION

not been demonstrated. Finally, cats with chronic diarrhea may benefit from a diet that is low in carbohydrates.

Immunosuppression is a common and popular therapeutic option for dogs and cats with chronic gastrointestinal diseases. However, it should be noted that many patients can be successfully managed without the use of immunosuppression. Thus, if the patient does not have any systemic clinical signs and does not deteriorate, several therapeutic trials could be considered before measures are taken to reach a definitive diagnosis of the primary gastrointestinal disease (i.e., by abdominal ultrasound and/or gastrointestinal endoscopy) or a therapeutic trial with immunosuppressive drugs are undertaken.

PROBIOTICS Probiotics have garnered a lot of interest in both human and veterinary medicine. Initially, probiotics were mostly embraced by holistic physicians and veterinarians and the expectations for probiotics were dramatic, with probiotics being hypothesized to be of benefit in disorders ranging from stress to gastrointestinal health, weight management, and even the prevention of cancer. These unrealistic expectations have been replaced with well-defined requirements for probiotics and controlled studies of their beneficial effects. The three key requirements for a probiotic for use in dogs are: 1) the probiotic must be safe; 2) the probiotic must be stable; and 3) the probiotic must be efficacious. In a recent study, 8 veterinary and 5 human probiotics were evaluated and only 2 of the 13 products contained the strains and concentrations of those strains indicated on the label. Several of the products contained bacterial species that could potentially act as pathogens. Thus, in order to ensure safety, the probiotic product should adhere to strict production and storage requirements. The probiotic also must be stable throughout transport and storage until the product is being administered by the petowner. In order to ensure that a certain number of colonies are administered to the patient, the colonies in the product should neither proliferate nor die. Finally, a probiotic must be efficacious. In order to be efficacious, the bacteria must reach the intestinal lumen. This requires that the bacterial species being used in the formulation are both acid- and bileacid-resistant. Also, the bacterial species of the probiotic preparation should adhere to the intestinal mucosa to prolong the time of interaction. Finally, the presence of the probiotic species must have beneficial effects in the host. Several controlled studies have been conducted in dogs that also show that certain probiotics carry health benefits in dogs with gastrointestinal disorders.

DIETARY TRIAL A dietary trial is a reasonable first step in managing dogs and cats with chronic signs of gastrointestinal disease. There have been estimates that more than 50% of dogs and cats with chronic clinical signs of gastrointestinal disease respond to a dietary trial alone. Depending on the urgency several different diets could be introduced in order to identify an ideal diet for a particular patient. Several different types of diets can be chosen. Diets should be switched slowly over a period of 3-5 days. Also, some improvement of clinical signs should be observed by the owner if the diet will be beneficial. If there is no improvement within the first 10-14 days another dietary type should be tried. However, complete resolution of clinical signs could take up to 6 weeks and the diet should be continued as long as some continued improvement can be observed. A limited antigen diet that contains a single novel proteinsource and a single novel carbohydrate source is a good first choice for patients with chronic gastrointestinal disease. A hypoallergenic diet based on hydrolyzed proteins could also be used. These diets are based on the fact that hydrolyzed proteins are poor immunogens and thus cannot induce an allergic reaction. There are several easily digestible diets that often contain a decreased amount of dietary fat and may also contain prebiotics, such as fructo-oligosaccharides, beetpulp, or inulin and/or other neutraceuticals. High-fiber diets can be used in patients that are suspected of having mainly large-bowel disease. However, in humans fiber supplementation is mainly used in colitis patients that have constipation rather than diarrhea and the clinical usefulness of high-fiber diets in dogs and cats with chronic large bowel disease has

ANTIBIOTICS Oxytetracycline (10-20 mg/kg q 8-12 hrs for 4-6 weeks) used to be the therapy of choice. Unfortunately, oxytetracy221


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amin used for supplementation is cyanocobalamin, but hydroxocobalamin can also be used. The author empirically uses the following dosing schedule: 150-250 µg per injection in cats, 250-1500 µg per injection in dogs; SC q 7 days for 6 weeks, then q 14 days for 6 weeks, then q 30 days for one injection, then reevaluate serum cobalamin concentration one month later. If the underlying disease process has resolved and cobalamin body stores have been replenished, serum cobalamin concentration should be supranormal at the time of re-evaluation. However, if serum cobalamin concentration is in the normal range, treatment should be continued at least monthly and the owner should be forewarned that clinical signs may recur sometime in the future. Finally, if serum cobalamin concentration at the time of recheck is subnormal, further work-up is required to definitively diagnose the underlying disease process and cobalamin supplementation should be continued weekly or bi-weekly. In a recent study cats with chronic gastrointestinal disease that had failed therapy and were shown to have cobalamin deficiency quickly gained weight after initiation of cobalamin supplementation. It is also interesting to note that the recommended dose for cobalamin supplementation in humans by far exceeds what is believed to be the physiologic cobalamin requirement in humans. Thus, there is speculation that the beneficial responses of cobalamin supplementation in human patients with cobalamin deficiency may at least in part be due to pharmacologic effects of cobalamin. Similarly, many cats with anorexia due to gastrointestinal disease will start eating once treated with cobalamin supplementation, but will stop eating again once cobalamin supplementation is discontinued, regardless of their cobalamin status.

cline for oral use has become largely unavailable. Tylosin (25 mg/kg q 12 hrs for 6 weeks) is the new antibiotic agent of choice. Other antibiotics, such as metronidazole can also be used. Tylosin is uniquely effective in many dogs and cats with chronic gastrointestinal disease, so much so, that recently the term of tylosin-responsive diarrhea has been coined. Some dogs respond to therapy rapidly and do not have a recurrence. However, other dogs do not respond to antibiotic therapy alone. If there is no marked improvement after 2 weeks of appropriate antibiotic therapy further work-up is necessary. Some dogs may respond to therapy with a complete resolution of clinical signs but may have a recurrence of clinical signs as soon as antibiotic therapy is discontinued. These patients require a further diagnostic work-up. In some of these patients a specific underlying cause of the dysbiosis can be identified and treated accordingly. However, in some dogs no specific cause can be identified and prolonged, maybe even life-long, antimicrobial therapy is required.

COBALAMIN SUPPLEMENTATION Patients with severe cobalamin deficiency often do not respond to therapy of the underlying gastrointestinal disorder until cobalamin is supplemented. Unfortunately, only empirical suggestions are available concerning protocols for cobalamin supplementation in dogs or cats. However, there is no indication that over-supplementation of cobalamin leads to clinical disease. In humans, the standard route of cobalamin application is by parenteral administration. This is because cobalamin deficiency has been shown to lead to cobalamin malabsorption in the ileum. However, there are recent data that would suggest that with certain forms of cobalamin deficiency, oral or nasal supplementation may be efficacious. There are no such data for dogs or cats and the data in humans is controversial. Thus, currently, the recommendation is to supplement cobalamin in veterinary patients by subcutaneous injection. The most common form of cobal-

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Hemostasis review including some newer tests Tracy Stokol DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVP, Ithaca, USA

Hemostasis is a complex physiological process involving a fine counterbalancing act between procoagulant and anticoagulant forces. Alterations in this delicate balance can result in hemostatic abnormalities which manifest as either hemorrhage or thrombosis. Most animals with hemostatic disorders present with clinical signs of excessive hemorrhage. In contrast, thrombosis is far more difficult to detect clinically or by laboratory tests, particularly when it occurs in internal microvessels. When any animal presents with clinical signs of a hemostatic disorder, it is essential to do a complete physical examination and take a thorough history. Vital clues as to the underlying cause of the hemostatic disorder are obtained from the signalment (age, breed and sex), history (e.g. access to toxins or drugs, evidence of multiple hemorrhagic episodes) and clinical signs (e.g. type and location of hemorrhage). To understand hemostasis, it is useful to separate it into 3 processes: Primary hemostasis, secondary hemostasis and fibrinolysis. However, it must be realized that all are activated simultaneously (to varying degrees) and do not occur sequentially in vivo.

ecchymoses. Note petechiae are rare in von Willebrand disease (vWD). Severe defects in primary hemostasis can result in intra-cavity hemorrhage and hematomas. Disorders of primary hemostasis include defects in platelet number (thrombocytopenia or thrombocytosis), function (thrombopathia) and vWD. The most common inherited defect is vWD, whereas the most common acquired defect is thrombocytopenia. Tests of primary hemostasis include: 1) Platelet counts: Smear estimate: 1 platelet per 100x oil immersion field = 15,000 platelets/ÂľL); 2) Production tests: Megakaryocyte numbers and reticulated platelets; 3) Function tests: All aspects of function can be tested, however most are specialized tests offered by specific laboratories. Newer tests include flow cytometry for P-selection and PS exposure (markers of activation); 4) vWD tests: vWf:Ag, genetic assays; and 5) Combined tests: Buccal mucosal bleeding time (BMBT) and platelet function analyzers (e.g. PFA100). These evaluate platelet number and function and vWf.

SECONDARY HEMOSTASIS This is defined as the formation of insoluble, cross-linked fibrin by an activated coagulation cascade. Secondary hemostasis involves coagulation factors, calcium and platelet PS (platelet factor 3). Secondary hemostasis is initiated by the extrinsic pathway (tissue factor/factor VII) on fibroblasts and amplified by the intrinsic pathway (factors XI down) (Figure 1) on platelets. This amplifcation generates large amounts of thrombin. Thrombin cleaves fibrinogen to fibrin and activates factor XIII, which crosslinks fibrin. Fibrin incorporates into and stabilizes the primary platelet plug. At the same time, thrombin inhibits fibrinolysis, by activating a protein called thrombin-activatable fibrinolytic inhibitor (TAFI). Thrombin is a powerful platelet agonist and recruits and activates additional platelets which incorporate into the growing thrombus. Coagulation factors bind to PS on platelet surfaces, thus coagulation always proceeds on cell surfaces. Contact factors (factor XII, prekallikrein and high molecular weight kininogen) have no role in physiologic hemostasis. Natural inhibitors are tissue factor pathway inhibitor, antithrombin, protein C (activated by thrombin) and protein S. Therapeutic inhibitors are heparin, warfarin and hirudin. Clinical signs associated with secondary hemostatic disorders are: Ecchymoses, hematomas and bleeding into body cavities, including joints.

PRIMARY HEMOSTASIS This is defined as the formation of the primary platelet plug and involves platelets, von Willebrand factor (vWf), and the vessel wall. With vessel injury, circulating platelets adhere via specific receptors to exposed collagen and vWf in the subendothelial matrix. Platelets then become activated – they undergo shape change, release granule constituents (including stored coagulation factors and platelet agonists), produce and secrete activators (e.g. thromboxane), expose the negatively charged phospholipid, phosphatidylserine (PS), on their surfaces and shed membrane-derived microparticles. This serves to recruit additional platelets, provide a scaffold and receptor surface for binding of coagulation factors, and support fibrin formation. Fibrinogen binds to activated receptors on adjacent platelets forming, the platelet plug. Natural inhibitors are an intact endothelium and endothelial-secreted platelet antagonists (ADPase, nitric oxide). Therapeutic inhibitors include COX inhibitors (e.g. aspirin) and ADP receptor antagonists (e.g. clopidogrel). Since the platelet plug normally seals off small injuries in microvessels, clinical signs associated with primary hemostatic disorders are: Hemorrhage from mucosal surfaces, petechiae, purpura and 223


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into a syringe containing anticoagulant, maintaining the correct citrate to anticoagulant ratio (1:9) and appropriate storage conditions (separate promptly from cells, store plasma at 4°C for 24 hours, store plasma at -20°C in a dedicated freezer if > 24 hours).

FIBRINOLYSIS Fibrinolysis involves dissolution of the fibrin clot by plasmin. Plasmin is generated from plasminogen by tissue plasminogen activator (tPA), which is released by injured endothelial cells. Plasmin binds to and degrades fibrinogen and fibrin, releasing fibrin(ogen) degradation products (FDPs). Plasmin lysis of cross-linked fibrin releases Ddimer, which is a sensitive test for fibrinolysis. Note that contact factors promote fibrinolysis by inducing tPA release or converting plasminogen to plasmin. Natural inhibitors of fibrinolysis include TAFI, plasminogen activator inhibitors and anti-plasmin. Therapeutic inhibitors include epsilonaminocaproic acid and traxenamic acid. Disorders of fibrinolysis can cause hemorrhage (if excessive) or thrombosis (if deficient). FDPs can exacerbate hemorrhage by inhibiting platelet function and fibrin formation. Disorders of fibrinolysis can be inherited or acquired, however inherited defects are rare. The most common acquired disorder of fibrinolysis in animals is DIC. Tests for fibrinolysis include: 1) Fibrin(ogen) degradation products: These will be increased with excessive fibrinogenolysis or fibrinolysis (especially in DIC), internal hemorrhage or decreased clearance by an impaired mononuclear phagocyte system or dysfunctional/failing liver; and 2) D-dimer: This detects breakdown products of crosslinked fibrin (therefore, D-dimer indicates the activation of thrombin – to form crosslinked fibrin – AND plasmin – to break the crosslinked fibrin down) (Figure 2). Increased values are seen with DIC and any condition causing physiologic (e.g. wound healing after surgery) or pathologic (e.g. thrombosis) fibrinolysis. Like FDPs, values may also increase with extravascular fibrinolysis (bleeding into body cavities) or decreased clearance. Other tests such as measurement of plasminogen or tissue plasminogen activator are not readily available. A new global test of hemostasis is thromboelastography. These tests all aspects of clot formation, including platelet number and function, and fibrinolysis.

Figure 1

Figure 2

Disorders of secondary hemostasis include inherited and acquired conditions. Hemophilia A or factor VIII deficiency is the most common inherited defect. Anticoagulant rodenticide toxicosis, heparin overdose and disseminated intravascular coagulation (DIC) are the most common acquired defects of secondary hemostasis. Tests of secondary hemostasis include: 1) Extrinsic and common pathway: Prothrombin time (PT) and proteins induced by vitamin K antagonism (PIVKA); 2) Intrinsic and common pathway: Activated coagulation time (ACT) and activated partial thromboplastin time (aPTT); 3) Thrombin conversion of fibrinogen to fibrin: Thrombin clot time (TCT) and fibrinogen concentration; 4) Specific factor assays; 5) Inhibitor assays: Antithrombin, Protein C, and anti-Factor Xa activity for heparin; 6) Genetic tests. The most important aspect of testing is correct sample collection. This includes: Clean venipuncture, drawing blood

Bibliography 1. 2.

McMichael M (2005) Primary haemostasis. J. Vet. Emerg. Crit. Care, 15:1-8. Smith S (2009) The cell-based model of coagulation. J. Vet. Emerg. Crit. Care, 19:3-10.

Address for correspondence: Tracy Stokol Assistant Professor, Department of Population Medicine and Diagnostic Sciences College of Veterinary Medicine, Cornell University, Ithaca, USA 224


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New concepts in disseminated intravascular coagulation (DIC) Tracy Stokol DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVP, Ithaca, USA

1. To reiterate a well-known fact - DIC arises as a complication of underlying diseases, particularly sepsis and neoplasia. 2. The microvasculature (in which DIC occurs) is considered a distinct physiologic organ. 3. DIC is initiated by tissue factor expression in most disorders. 4. Coagulation proceeds on a phosphatidylserine-rich surface – this surface is vastly increased in DIC by shedding of microparticles (from monocytes and apoptotic cells) and lipoproteins. This facilitates the dissemination of coagulation. 5. Thrombin is pivotal in DIC – it forms fibrin clots, activates other coagulation factors amplifying its own production, activates platelets, activates (by stimulating tissue plasminogen activator release) and inhibits (by activating thrombin-activatable fibrinolytic inhibitor [TAFI]) fibrinolysis, and binds to receptors on cells (protease-activated receptors [PARs]), stimulating an inflammatory response. 6. Anticoagulants (antithrombin [AT], activated protein C [APC]) are crucial for limiting DIC and preventing its progression. 7. DIC is first and foremost a hypercoagulable or thrombotic disorder. Hemorrhage is a late manifestation of this syndrome. 8. Based on clinical and laboratory criteria, DIC is separated into two distinct phases: non-overt and overt DIC. Essentially, non-overt DIC reflects activation of the hemostatic system that is “challenged” but still compensated for or controlled by anticoagulants. In overt DIC, this control goes awry and hemostasis becomes uncompensated – at this stage, removal of the initiating stimulus may not halt progression. In human patients, more attention is being placed on recognition of non-overt DIC; this stage representing the best opportunity for therapeutic intervention. There has been a recent trend towards thinking of DIC, particularly that due to sepsis, as a dysregulated response of the hemostatic system that can be divided into 4 stages: initiation, amplification and dissemination, potentiation, and endothelial dysfunction.

constitutive tissue factor expression on tumor cells. In DIC, inhibition of this pathway by tissue factor pathway inhibitor might be ineffective. Amplification and dissemination: Thrombin amplifies its own expression through the intrinsic pathway as discussed in the previous lecture on hemostasis. Thrombin also downregulates itself by binding to a receptor on endothelial surfaces, thrombomodulin. This complex activates protein C, which degrades factor VIIIa and factor Va (slowing down thrombin generation), with Protein S as a co-factor. This stage of DIC, where coagulation is limited by anticoagulants, is termed non-overt DIC. The depletion of anticoagulants, including AT and APC, and the exposure of PS on cell surfaces and shed microparticles (which circulate widely and are not rapidly cleared) results in coagulation proceeding unchecked throughout the vasculature and overt DIC. The importance of coagulation inhibitors, particularly APC, cannot be over-stated. Clinical trials in human patients with DIC due to sepsis suggest that treatment with recombinant APC decreases mortality. This is thought to be due to the action of APC as an anticoagulant and anti-inflammatory agent. Potentiation via links between coagulation and inflammation: A vicious cycle is initiated between coagulation and inflammation. Inflammation (especially that due to sepsis) is one of the main causes of DIC. Inflammatory cytokines induce monocytes to express tissue factor and shed tissue factor- and phosphatidylserine-rich microparticles, which activates and amplifies coagulation, respectively. Inflammation contributes to dissemination by decreasing anticoagulants (cleaved by neutrophil proteases, decreased activation through cytokines downregulating thrombomodulin expression and cytokine-mediated reduced hepatic synthesis). Yet inflammation is also fueled by coagulation. Thrombin binds to PARs on endothelial cells, stimulating them to release inflammatory cytokines and upregulate adhesion molecules, thus contributing to the inflammatory milieu in DIC and promoting leukocyte-mediated tissue injury. Deficiency of APC potentiates the inflammatory state. Endothelial cell dysfunction: When the normal adaptive mechanisms that operate to limit hemostasis to a localized site are overwhelmed, the endothelium itself becomes dysfunctional, which clinically manifests as thrombosis or hemorrhage.

Initiation: DIC is primarily triggered by tissue factor, i.e. the extrinsic pathway of coagulation. In most cases, this is through massive tissue or endothelial injury, cytokineinduced aberrant expression of tissue factor on monocytes or 225


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NON-OVERT VERSUS OVERT DIC

has been emphasized in non-overt DIC. Veterinarians in Europe have begun to apply the ISTH scheme in dogs. However, there is no consensus on which tests and cut-offs to include in a grading scheme in dogs and whether such a scheme is useful.

The International Society of Thrombosis and Haemostasis (ISTH) has developed a scoring scheme to classify human patients into non-overt and overt DIC. This system is currently being tested in clinical human patients and initial studies suggest that it might be useful, i.e. patients in non-overt DIC have a poorer outcome (fatality rate) than those not in DIC and a greater likelihood of progressing to overt DIC and patients in overt DIC have a higher fatality rate than those not in DIC. The ISTH scoring scheme for overt DIC is primarily based on routine laboratory or “global coagulation tests” that reflect consumption or impaired synthesis, including the PT, platelet counts, fibrinogen concentration and FDP/D-dimer. This was done to make the system feasible for everyone (because other molecular tests, e.g. AT, APC are not routinely performed), and not on these necessarily being the best tests for inclusion. The distinction between non-overt and overt DIC is based on routine hemostasis assays (which may be insensitive to this phase) and more specific tests of thrombin activation (e.g. thrombin-antithrombin complexes) with depletion of inhibitors (APC, AT). Recently, identifying trends in laboratory data over time, rather than on absolute values,

References Hopper K, Bateman SW. An updated view of hemostasis: mechanisms of hemostatic dysfunction associated with sepsis. J Vet Emerg Crit Care 2005;15:83-91. Hoots WK. Non-overt disseminated intravascular coagulation: definition and pathophysiological implications. Blood Rev 2002;16 Suppl 1:S3-9. Taylor FB, Jr., Toh CH, Hoots WK, et al. Towards definition, clinical and laboratory criteria, and a scoring system for disseminated intravascular coagulation. Thromb Haemost 2001;86:1327-1330. Toh CH, Dennis M. Disseminated intravascular coagulation: old disease, new hope. BMJ 2003;327:974-977.

Address for correspondence: Tracy Stokol Assistant Professor, Department of Population Medicine and Diagnostic Sciences College of Veterinary Medicine, Cornell University, Ithaca, USA

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Challenging cases in hemostasis Tracy Stokol DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVP, Ithaca, USA

CASE 2 WIGGLES

In this session, three canine cases will be presented. These cases were chosen to encompass the following points: 1) Diagnostic evaluation of a dog with excessive clinical signs of hemorrhage: Coming up with a differential diagnosis list and tests used to determine the final diagnosis. 2) Important aspects to consider regarding hemostasis testing: Choice of laboratory, type of analyzer used for testing, provided reference intervals. 3) Interpretation of hemostasis testing results, with respect to history, signalment and clinical signs. This also involves a consideration of the pathophysiology of the disease process. 4) An unusual disease, which is a good example of the concept of the cell-based model of coagulation.

Wiggles is a 1.5 year old male German Shepherd. He had suffered from spontaneous epistaxis on several occasions. On physical examination, no abnormalities were noted. Hemostasis screening testing was performed at a specialist veterinary laboratory and results are given below: Test

Brief case information (signalment, history, physical examination findings) and results for hemostasis screening tests are given below for each case.

Patrick is a 2 year old neutered male Scottish Terrier. He had a prolonged history consisting of transient paraplegia at 3 months of age and excessive bruising after neutering at 9 months of age. On physical examination, no abnormalities were noted. Hemostasis screening testing was performed at a local human hospital and results are given below:

Platelet count (x 109/L) PT (secs) aPTT (secs)

Patrick

Reference interval

200

200-500

<8L

11-14

22

20-31

Reference interval

Platelet count (x 109/L)

315

179-483

PT (secs)

15

14-18

aPTT (secs)

12

10-17

TCT (secs)

7

5-9

Consider the following questions: 1. Does Wiggles have a defect in hemostasis? 2. Is his defect inherited or acquired? 3. Based on his history, is the defect in primary or secondary hemostasis? 4. What further tests should be performed?

CASE 1 PATRICK

Test

Wiggles

CASE 3 ROSE Rose is a 4 year old intact female Daschund. She had eaten a cycad bonsai 9 days previously and had vomited within 2 hours of ingesting the plant. On physical examination, she had a mild gingivitis and an abrasion on her dorsal nose. Hemogram, urinalysis, chemistry and coagulation screening testing was performed at a specialist veterinary laboratory and results are given below:

Consider the following questions: 1. Does Patrick have an inherited or acquired defect in hemostasis? 2. Based on his history, is the defect in primary or secondary hemostasis? 3. What further tests should be performed?

Test

Rose

Reference interval

Platelet count (x 109/L)

129 L

179-483

PT (secs)

22 H

14-18

aPTT (secs)

23 H

10-17

Fibrinogen (g/L)

1.4 L

1.5-4.8

D-dimer (mg/L)

2.0 H

< 0.25

91

> 70

Protein C (%)

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Hemogram: Rose was not anemic but had a mild leukocytosis due to a neutrophillia and a monocytosis. She also was eosinopenic and her plasma was slightly icteric on examination.

Test

Rose

Reference interval

Urea nitrogen (mmol/L)

2.1 L

2.8-10.2

Albumin (g/L)

30 L

31-41

ALT (U/L)

1843 H

25-106

AST (U/L)

593 H

16-50

ALP (U/L)

1177 H

12-122

GGT (U/L)

42 H

0-10

Total bilirubin (µmol/L)

58.1 H

0-5.1

Direct bilirubin (µmol/L)

44.5 H

0-1.7

References

Indirect bilirubin (µmol/L)

13.7 H

0-5.1

Brooks MB et al. A hereditary bleeding disorder of dogs caused by a lack of platelet procoagulant activity. Blood 2002; 99:2434-2441.

Cholesterol (mmol/L)

2.8 L

3.2-8.8

Urinalysis: The urine was orange and slightly cloudy. The urine specific gravity was 1.020. On the dipstick, there was a large amount of bilirubin (3+). No abnormalities were seen in the urine sediment. Chemistry: Only abnormal results are shown.

Consider the following questions: 1. What type of hemostastic disorder does Rose have? 2. What is the cause of this disorder?

Address for correspondence: Tracy Stokol Assistant Professor, Department of Population Medicine and Diagnostic Sciences College of Veterinary Medicine, Cornell University, Ithaca, USA

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Bone marrows: unraveling the mystery Tracy Stokol DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVP, Ithaca, USA

DEFINITIONS AND USAGE OF COMMON, BUT POTENTIALLY, CONFUSING TERMS

areas of marrow can become hematopoietically active and hematopoiesis can also occur in extramedullary sites such as the spleen and liver (extramedullary hematopoiesis, EMH). Granulopoiesis is the production of granulocytes. As they mature, they become smaller, with more condensed chromatin, increased amounts of cytoplasm, undergo nuclear lobulation, and acquire specific cytoplasmic granules. Within the marrow, there is a “pyramid effect” in their maturation, i.e. there are more mature than immature cells (i.e. most neutrophil lineage cells in normal marrow are segmented neutrophils and bands). Erythropoiesis is controlled by erythropoietin (produced primarily in the kidney). As erythroid precursors mature, they become smaller, the nucleus becomes pyknotic and is extruded, RNA is progressively lost, and hemoglobin is acquired. As with granulocytes, erythroid maturation is “pyramidal”, i.e. mature cells, such as metarubricytes and polychromatophils, dominate. Thrombopoiesis is controlled primarily by thrombopoietin. As megakarocytes mature, they become larger and undergo nuclear endomitosis (become polyploidy). Platelets form from cytoplasmic extensions which fragment into circulation. Lymphopoiesis is the production of lymphocytes. Lymphocytes are generated in the bone marrow and then leave to mature in the thymus (T cells) or extramedullary lymphoid tissue (B cells). Low numbers of lymphocytes (with rare lymphoblasts) and plasma cells are seen in normal marrows.

Hematopoietic: Any cell arising in the bone marrow from the hematopoietic stem cell. This includes all myeloid or non-lymphoid (definition 1 below) and lymphoid (B, T, natural killer) cells. Myeloid: Myelo- or myeloid can carry different connotations, depending on context: 1) Cells derived from the common myeloid progenitor: This encompasses ALL non-lymphoid marrow cells, including granulocytes (neutrophils, eosinophils, basophils), monocytes, megakaryocytes and erythrocytes. This term is used for description of leukemias, e.g. an acute myeloid leukemia. 2) Cells derived from the myelomonocytic progenitor: This encompasses all granulocytes and monocytes, but excludes megakaryocytes and erythrocytes. This term is used for marrow descriptions, i.e. M:E ratio. 3) Granulocytic lineage only: This encompasses all granulocyte precursors, i.e. myeloblasts to segmented cells, although it is usually restricted to neutrophils since these are the most dominant granulocyte in marrow. This term is used for describing the maturation sequence and morphologic features of granulocytes (primarily neutrophils) in the marrow and for marrow interpretation, e.g. myeloid hyperplasia = neutrophil hyperplasia. When eosinophils or basophils are abnormal in number or morphology, a modifying prefix is added, e.g. eosinophilic hyperplasia.

BONE MARROW SAMPLING Indications for obtaining a bone marrow sample are: • Persistent or unexplained abnormalities in blood, e.g. moderate to severe nonregenerative anemia, pancytopenia, leukemia • Neoplasia: Including staging (lymphoma, mast cell tumors) and diagnosis (occult neoplasia, multiple myeloma). • Detection of infectious agents, e.g. deep mycoses, protozoa • Estimation of body iron stores in dogs • Fever of unknown origin Bone marrow can be collected by aspiration or core biopsy. Aspirates yield more detailed information on cell morphology (M:E, maturation sequence etc), results are available quicker and they are easier to perform. Core biopsies yield more accurate information on cellularity, megakaryocyte numbers, focal infiltrates of cells, and presence of myelofibrosis. Cores are most useful with a hypocellular or

Lymphoid: This refers to cells derived from the common lymphoid progenitor and encompasses B cells, T cells and natural killer (NK) cells.

HEMATOPOIESIS Bone marrow is the main hematopoietic tissue and is composed of roughly equal amounts of hematopoietic cells and fat. The bone marrow contains multiple cell types, including myeloid precursors (definition 2), erythroid precursors, megakaryocytes, lymphocytes (mostly small, with some plasma cells), stromal cells (adipocytes, macrophages, fibroblasts) and vascular sinus endothelial cells. Most hematopoiesis occurs in flat bones and in the end of long bones in adults. During periods of increased demand, more 229


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Iron stores are species- (none is expected in normal feline marrow) and age- (less is seen in young animals) dependent. 6) Evaluation of other cell types and infectious agents: Lymphocytes (<5% in dogs, <15% in cats), plasma cells (<2%) and histiocytes (<1%) are normally found in marrow. Increased numbers, abnormal appearance (e.g. increased phagocytic activity) or presence of an infiltrate (e.g. mast cells) are commented on. The marrow is also evaluated for infectious organisms, e.g. Histoplasma.

fibrotic marrow. In general, most people perform aspirates and cores are only done if an aspirate cannot be obtained. Bone marrow is commonly collected from the proximal humerus, proximal femur, and iliac crest in the dog and the proximal humerus and femur in the cat. General anesthesia or sedation with local anesthesia (subcutaneous tissue, bone periosteum) is required for collection and sterile technique should be used. Specific needles (which contain a stylet) are required. For an aspirate, the needle is introduced into bone by rotating the needle until it is seated firmly in the bone. The needle is then advanced a little, the stylet is removed, a 10-12 ml syringe is attached, and the plunger pulled back quickly. Ideally, anticoagulant (1 ml of CPD or several drops of EDTA) should be placed into the syringe and the aspirated marrow can be dispelled into a petri dish. The marrow particles, which sink to the bottom of the dish, can be lifted with a glass pipette and gentle squash smears are made. Alternatively, the un-anticoagulated marrow (which clots quickly) can be expelled rapidly onto prepared glass slides, excess blood is dripped off and squash smears made rapidly. Smears should be rapidly dried, preserving cell morphology. For a core, the needle (a different one from the aspirate) is advanced into bone, the stylet is removed and then the needle is advanced further and then rotated to “free” up the core. A wire is placed into the bevel of the needle and advanced to expel the core. The core can be rolled on a glass slide for cytology and placed in formalin for histologic evaluation (keep formalin fumes away from cytology slides).

BONE MARROW INTERPRETATION The bone marrow results are interpreted with current hemogram (and chemisty) results to try and explain the hematologic abnormalities. Some of the more common interpretations are given below. • Erythroid, myeloid, and megakaryocytic hyperplasia and hypoplasia: Refers to increased and decreased numbers of these cells, respectively. Pure red cell aplasia, white cell aplasia and amegakaryocytosis means an almost complete absence of the involved cell line. There are many causes for these changes. • Bone marrow aplasia: Pancytopenia due to an absence of hematopoietic precursors. Causes are myelotoxins (e.g. estrogen, chemotherapeutics), immune mediated conditions, and some infectious diseases (e.g. canine ehrlichiosis). • Ineffective erythropoiesis, granulocytopoiesis, and/or megakaryocytopoiesis: This refers to the presence of peripheral cytopenias with a hyperplastic marrow (with no morphologic abnormalities) and implies intramedullary cell death. This is frequently attributed to drug, neoplastic or immune-mediated causes. • Plasmacytosis, lymphocytosis, histiocytosis, mastocytosis: Increased numbers in marrow. This could be reactive or neoplastic, but is frequently reactive for plasma cells, lymphocytes and histiocytes. • Myelodyplasia: Abnormal features in hematopoietic cells (one or more lineages). Can be neoplastic or nonneoplastic. • Neoplasia: This could be primary hematopoietic neoplasia (arising in the marrow, e.g. acute leukemia) or an infiltrative neoplasm, e.g. lymphoma, mast cell tumor.

BONE MARROW ASPIRATE EVALUATION This should always be performed by a clinical pathologist. Results are always interpreted with respect to a concurrent hemogram (so always submit hemogram results with a bone marrow request). Components of the evaluation are described below to facilitate understanding of the report and result interpretation. There are 6 components to a report: 1) Cellularity: This is estimated from an aspirate and is agedependent (older animals have more fat than cells). 2) Megakaryocyte number and morphology: These are associated with spicules and are estimated from an aspirate. Since numbers in normal marrow vary widely, numbers are judged in relation to the peripheral platelet count. 3) Myeloid to erythroid ratio (M:E ratio): This is the relative numbers of myeloid lineage cells (definition 2) to nucleated erythroid precursors. This ratio is interpreted in relation to hemogram results and marrow cellularity, e.g. a high M:E ratio (normally about 1:1) can reflect a myeloid hyperplasia, erythroid hypoplasia or both. 4) Myeloid (definition 3)/RBC maturation sequence and morphology: The maturation sequence is assessed (i.e. normal maturation should reflect the pyramid described before) and any abnormal features are noted, e.g. dysplasia. Left-shifted maturation indicates there are more immature than mature precursors whereas the term “maturation arrest” is applied if maturation does not extend beyond a certain stage, e.g. no polychromatophils are seen. 5) Iron stores: Iron is stored in macrophages in the marrow and is best assessed with a Prussian blue stain.

References Grindem CB, Neel JA, Juopperi TA. Cytology of bone marrow. Vet Clin North Am Small Anim Pract 2002;32:1313-1374. Grindem CB, Tyler RD, Cowell RL. The bone marrow. In Diagnostic Cytology of the Dog and Cat, 3rd Ed. Eds, Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH, DeNicola DB (2008) Mosby Elsiever, pp. 422-450.

Address for correspondence: Tracy Stokol Assistant Professor, Department of Population Medicine and Diagnostic Sciences College of Veterinary Medicine, Cornell University, Ithaca, USA

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Bone marrow cases Tracy Stokol DVM, BVSc, PhD, Dipl ACVP, Ithaca, USA

CASE 2 TALBOT

In this session, three cases will be presented. These cases were chosen to illustrate how bone marrow aspirate cytology is used to facilitate diagnosis and dictate a treatment plan. Brief case information (signalment, history, physical examination findings) and results of clinical pathologic tests are given below for each case.

Talbot is a 10 year old male German Shepherd dog. Approximately one week ago, Talbot had been in a dogfight and was wounded over his right scapula, which was treated by the owner with betadine soaks and rinses. Talbot had been weak and off his food for the last 24-48 hours. On examination, Talbot had pale oral mucous membranes with a normal capillary refill time (CRT). He was febrile, panting and tachycardic. The wound over his right scapula had healed. Ecchymotic hemorrhages were noted on his abdomen. A caudal abdominal mass was suspected on abdominal palpation and his prostate was enlarged on rectal examination. Only one testicle was palpated. Pertinent hematologic results are shown in the table below. Serum chemistry analysis revealed a hypoalbuminemia and hyperglobulinemia, low serum iron and low % transferrin saturation. A urinalysis (obtained by cystocentesis) revealed 1+ proteinuria, large amounts of heme protein, 20-100 RBCs/HPF, <5 WBCs/HPF and moderate numbers of bacterial rods and squamous epithelial cells.

CASE 1 TAFFY Taffy is a 4 year old female spayed Golden Retriever. She presented with a several week history of lethargy, inappetance and weakness. On physical examination, her mucous membranes were very pale and she had a grade II/VI heart murmur, tachycardia and tachypnea. No other abnormalities were noted. Pertinent hemogram results are shown below.

Test

Taffy

Reference interval

Hematocrit (L/L)

0.13 L

0.42-0.57

HB (g/L)

45 L

146-197

RBC (x 109/L)

1.9 L

6.1-8.5

MCV (fL)

73

MCH (pg)

Test

Talbot

Reference interval

63-74

Hematocrit (L/L)

0.21 L

0.42-0.57

24

21-26

Retic (%)

0.3

0.2-1.1

MCHC (g/L)

330

320-370

Absolute retics (x 10 /L)

10

10-76

Retic (%)

1.0

0.2-1.1

WBC (x 106/L)

2.3 L

6.2-14.4

19

10-76

0.1 L

3.4-9.7

0.1

0-0.1

EOS (x 10 /L)

0.1 L

0.1-2.0

PLAT (x 106/L)

15 L

179-483

6

Absolute retics (x 10 /L)

6

6

PMN (x 10 /L) BAND (x 106/L)

Taffy had a normal platelet count. She also had a leukocytosis due to a mature neutrophilia (no toxic change) with a concurrent lymphopenia and eosinopenia. The main abnormalities on a serum chemistry panel were mildly elevated liver enzymes (ALT, AST, ALP) and a hyperferremia (high serum iron) with 100% transferrin saturation. Both a direct Coombs and antinuclear antibody test were negative.

6

Blood smear exam

Moderate toxic change in neutrophils

Consider the following questions: 1. What changes may be present in Talbot’s bone marrow that would explain his hematologic abnormalities? 2. Based on the history, clinical examination and laboratory results so far, what is the most likely cause of his bone marrow disorder?

Consider the following questions: 1. What further tests are indicated? 2. What could be the cause of Taffy’s hematologic abnormalities? 231


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CASE 3 BUBBA

below. Serum chemistry revealed a hypoalbuminemia and a marked hyperglobulinemia, hypercalcemia, hyperamylasemia and hypocholesterolemia. A urinalysis (by cystocentesis) revealed a marked proteinuria (urine specific gravity of 1.025), with no other abnormalities.

Bubba is a 14 year old castrated male Domestic Shorthair cat. He presented with a 2-3 week history of inappetance, lethargy, weight loss and bilateral, intermittent epistaxis. On physical examination, he had pale mucous membranes, but a normal CRT. He had moderate tachypnea and tachycardia but was not febrile. He was mildly uncomfortable during abdominal palpation, which revealed an enlarged spleen. Hemogram results are shown in the table

Test

Bubba

Hematocrit (L/L)

0.32-0.52

0.6

0.1-0.6

Absolute retics (x 106/L)

23

8-46

6

WBC (x 10 /L)

2.7 L

5.3-16.6

PMN (x 106/L)

2.0 L

2.3-11.0

BAND (x 10 /L)

0.1

0-0.1

PLAT (x 106/L)

149 L

201-523

6

Blood smear exam

References

Reference interval

0.19 L

Retic (%)

Consider the following questions: 1. What additional tests are indicated in Bubba? 2. Based on the history, clinical examination and laboratory results so far, what is your top differential diagnosis and how should this be confirmed?

Kearns SA and Ewing P. Causes of canine pancytopenia. Comp Contin Educ Pract Vet 2006. 28:122-135. Patel RT, Caceres A, French AF, McManus PM. Multiple myeloma in 16 cats: a retrospective study. Vet Clin Pathol 2005; 34:341-352. Stokol T, Blue JT and French TW. Idiopathic pure red cell aplasia and nonregenerative immune-mediated anemia in dogs: 43 cases (19881999). J Am Vet Med Assoc 2000; 216:1429-1436 Stokol T anad Blue JT. Pure red cell aplasia in cats: 9 cases (1989-1997). J Am Vet Med Assoc 1999; 214:75-79.

Address for correspondence: Tracy Stokol Assistant Professor, Department of Population Medicine and Diagnostic SciencesCollege of Veterinary Medicine, Cornell University, Ithaca, USA

Marked rouleaux formation

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Familial renal diseases of dogs and cats (Part 1 - 2) Shelly L. Vaden DVM, PhD, Dipl ACVIM, North Carolina, USA

Renal failure occurring in a young dog or cat could be congenital, juvenile or familial. Congenital diseases are present at birth and due to either a genetic abnormality or a developmental abnormality due to the exposure to adverse factors in utero or the early neonatal period. Juvenile renal diseases are present at an early age but are not necessarily detectable at birth. Many, but not all, congenital and juvenile renal diseases are familial, or hereditary. Familial renal disease should be suspected when a group of related dogs or cats present with evidence of renal disease or when an individual animal of a particular breed presents with evidence of renal disease that is characteristic of a previously reported familial renal disease affecting that breed. Juvenile renal diseases have been reported in numerous breeds of dogs and cats, many of which a familial nature has been determined but the underlying genetic defect has been determined in only a few of the familial renal diseases. The age at presentation and rate of progression varies between the individual diseases. Furthermore, there may be considerable variation in the rate of disease progression in individual animals with the same disorder. Therapeutic interventions are usually focused on slowing the rate of progression and treating signs of uremia.

nation findings in animals with advanced disease are often similar to those found in any animal with CKD (e.g., poor body condition, pallor, dehydration, oral ulceration). Fibrous osteodystrophy is sometimes found when a skeletally immature dog has developed advanced CKD. The kidneys of affected animals may be small or large, depending upon the specific disease and the stage of that disease. Results of laboratory testing will vary with each disease. However, the familial renal diseases generally can be associated with one or more of the following abnormalities: azotemia, hyperphosphatemia, mild hypercalcemia, anemia, metabolic acidosis, decreased urine specific gravity, proteinuria or glucosuria. Ultrasonographic evaluation of the kidneys will often reveal nonspecific (e.g., loss of corticomedulary distinction, irregular cortical margins) and specific (e.g., multiple cysts of PKD) abnormalities. The various familial diseases require different tests for definitive diagnoses. Furthermore, disorders that may produce similar signs need to be excluded. Few familial renal diseases have genetic tests available (e.g., PKD); others may require evaluation of a renal biopsy specimen (e.g., hereditary nephritis) to establish a diagnosis. Specific recommendations have been made for some of the diseases to allow for screening of seemingly healthy animals that are at risk (e.g., ultrasonography or genetic testing for PKD). The practitioner must have a thorough knowledge of the familial diseases and the breeds they impact, as well as an understanding of the appropriate means to establish diagnoses.

CLINICAL PRESENTATION Most familial renal diseases in dogs and cats can be classified into 5 major categories: hereditary nephritis, amyloidosis, polycystic kidney disease (PKD), renal dysplasia and Fanconi syndrome. The clinical presentation of each of these differs. However, all of these diseases tend to be progressive leading to chronic kidney disease (CKD). Most of these diseases are characterized by an early age of onset of CKD, generally between 3 months and 3 years of age although some of these diseases can lead to CKD at a later age. For example, Dalmatians and bull terriers with hereditary nephritis have been reported to initially present with CKD as late as 7 and 10 years of age, respectively. The clinical signs for which the affected animal presents are determined by they type of disease, the stage of CKD as well as individual variation. Stunted growth, weight loss and polyuria and polydipsia are some of the more common manifestations. Other signs may be vomiting, anorexia or decreased appetite, poor hair coat, malodorous breath, and diarrhea. When a young dog develops CKD, they often seem to manifest fewer signs than would be present in an older dogs with a similar magnitude of azotemia. Physical exami-

HEREDITARY NEPHRITIS Hereditary nephritis (HN) refers to a diverse group of inherited glomerular diseases that are the result of a defect in basement membrane collagen (type IV). Defective collagen leads to premature deterioration of the GBM and progressive glomerular disease. HN is a differential diagnosis for any dog presenting with proteinuric renal disease, but particularly if the dog is young. HN has been reported in several breeds of dogs. An autosomal recessive form of disease occurs in English cocker spaniels, whereas bull terriers and Dalmatians develop an autosomal dominant form. An Xlinked dominant form of HN has been described in Samoyeds and mixed breed dogs; carrier females may have mild disease. The report in the Samoyeds is of a single kindred; the disease is not considered to be common in this breed. HN is characterized by proteinuria, renal hematuria 233


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Abyssinian cats have amyloid deposited primarily in the medulla, resulting in medullary fibrosis, papillary necrosis and chronic kidney disease. Although glomeruli can be involved, marked proteinuria is uncommon. Siamese and Oriental shorthair cats may deposit amyloid in the liver, leading to hepatic rupture and hemorrhage. Diagnosis of renal amyloidosis in cats is based on a high index of suspicion and exclusion of other diseases or by post-mortem examination; biopsy of the renal medulla is not advised. When the kidney is evaluated by conventional light microscopy, amyloid deposits in the glomeruli appear as acellular material that expands the mesangium and glomerular basement membranes and stains homogenously eosinophilic by hematoxylin eosin. Congo red staining can be used to confirm the diagnosis with conventional light microscopy. The beta-pleated sheet configuration of amyloid fibrils leads to their insolubility and resistance to proteolysis, making specific treatment historically ineffectual. In people with FMF, colchicine prevents or delays renal amyloidosis, even in patients who continued to have recurrent febrile episodes. This has led to the recommendation that colchicine be used in Shar Peis with renal amyloidosis. This drug should be administered to Shar Peis shortly after recurrent fevers and swollen hocks are noted. Colchicine administration may lead to remission of proteinuria even after the appearance of amyloid deposits. There is no evidence to support that colchicine is effective once renal failure is present.

and progressive glomerular disease. Concurrent hearing and ocular abnormalities, as described in people with HN, appear to be uncommon in affected dogs. HN result from genetic mutations or deletions in type IV collagen, which is the primary protein constituent of the GBM. The X-linked dominant disease of Samoyeds and mixed breed dogs is the result of a mutation in the COL4A5 gene encoding the α5(IV)-collagen chain. The autosomal recessive disease of English cocker spaniels is caused by a mutation in the COL4A4 gene encoding the α4(IV)-collagen chain. The exact genetic defect leading to the autosomal dominant form that has been described in bull terriers and Dalmatians has not been described but it appears that affected dogs may have a functionally defective α3-α4-α5 collagen network. The presence of defective collagen leads to premature deterioration of the GBM and progressive glomerular disease. Prior to electron micrographic studies of English cocker spaniels, the renal lesions were described as renal cortical hypoplasia, or membranoproliferative or sclerosing glomerulonephritis. Electron microscopy is required to make the diagnosis of HN. There is multilaminar splitting and fragmentation of the GBM, often with intramembranous electron-dense deposits. There is no specific treatment for affected dogs. Feeding a diet formulated for renal failure and administering angiotensin-converting enzyme inhibitors have proven beneficial in affected dogs. Early detection of HN by screening dogs of relevant breeds for microalbuminuria will allow early therapeutic intervention, which may slow disease progression. The rate of progression is predictable in Samoyeds and English cocker spaniels, with terminal renal failure generally developing before 2 years of age. However, disease progression is more variable in bull terriers and Dalmatians, with some dogs surviving for as long as 10 years.

POLYCYSTIC KIDNEY DISEASE Autosomal dominant polycystic kidney disease (PKD) has been described in adult male and female longhaired, Persian and Himalayan cats. The prevalence of PKD in Persian cats varies in different countries. PKD was reported in 16% of other breeds tested, including American Shorthairs, Siamese, American Curls, and Scottish Folds. PKD has also been reported in a number of breeds of dogs, including the bull terriers, beagle, Cairn terrier, West Highland White terriers, miniature poodle, and foxhound (single report); the diseases appears to be autosomal recessive in Cairn terriers and West Highland White terriers. This disease is characterized by progressive development of fluid filled cysts within the renal medulla and cortex, which distort the normal renal architecture leading to enlarged and irregular kidneys. Cysts can be present in other organs as well (e.g., liver); hepatic involvement is common in Cairn terriers and West Highland White terriers. The number, size, anatomic location and appearance of the renal cysts varies among affected cats and dogs. The cysts tend to be larger in older cats. In people with PKD, interstitial inflammation and ultimately fibrosis is believed to be the primary mechanism of progression to end-stage renal disease. Chronic tubulointerstitial nephritis can be widespread in affected cats. Genetic tests, which are available in the US and UK, is the best way to identify cats that carry this disease. Buccal mucosal swabs or EDTA blood can be collected from British shorthair and Persian cats as early as 8 weeks of age for this test. The next way to diagnose PKD in cats is via ultra-

AMYLOIDOSIS Amyloidosis refers to a group of diseases where there is extracellular deposition of fibrils formed by polymerization of proteins that have a beta-pleated sheet conformation. Amyloidosis is one of the most common glomerular diseases in dogs. Renal amyloidosis is familial in the Chinese Shar Pei and possibly familial in beagles and English foxhounds. Amyloidosis is relatively uncommon in cats, except for the Abyssinian and Siamese (especially the Oriental shorthair colour variant). Renal amyloidosis in Shar Peis develops at a mean age of 4.1 years, which is earlier than is seen in other dogs with amyloidosis. It is more common in females and is believed to be a recessive trait. Amyloid is usually deposited in the renal medulla. Because only 64% of Shar Peis have glomerular involvement, only 25-43% have proteinuria. Affected dogs may have signs of other organ involvement, particularly the liver. A history of recurrent fever (up to 41°C) and tibiotarsal joint swelling (called ‘Shar Pei fever’ or ‘Shar Pei hock’) may predate renal disease. Affected Shar Peis may be an animal model of Familial Mediterranean Fever (FMF) of people. 234


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MISCELLANEOUS DISORDERS

sonography, which can be used to detect cysts as early as 8 weeks of age but the test is not 98% accurate until after 10 months of age. There is a large degree of phenotypic variability with this disease. Having the genetic defect or renal cysts does not predict the age of onset of renal failure. The average age of onset of renal failure in cats is 6 years. There is not a specific genetic test for affected dogs.

A familial syndrome of protein-losing nephropathy (PLN) and protein-losing enteropathy (PLE) has been described in soft-coated wheaten terriers. The disease appears to be most common in the United States, where it has been estimated to affect upwards of 15% of the breed population although the exact prevalence in this breed remains undetermined. The mode of inheritance is unknown. The disease is slightly more common in female dogs. Disease often is not detected until middle age (4-6 years of age). Affected dogs can have either glomerular range proteinuria or evidence of PLE; many dogs have both. Renal pathologic lesions are consistent with an immune mediated glomerulonephritis. Affected dogs have a high incidence of food allergies; while it is highly possible that the intestinal inflammation associated with the food allergies is the cause of the immune mediated glomerular disease, this hypothesis remains unproven. Effective management is aimed at antiproteinuric therapy for dogs that have PLN and dietary changes with or without immunosuppressive therapy for dogs that have PLE. Dogs that have combined PLN and PLE may be very difficult to manage, particularly when they are have advanced clinical presentations. Membranoproliferative glomerulonephritis has been described in Bernese Mountain dogs and Brittany spaniels. Affected Brittany spaniels have a congenital deficiency of the third component of complement. The disease in Bernese Mountain dogs is believed to have an autosomal recessive mode of inheritance. Affected dogs are between 2 and 7 years of age at diagnosis and have signs compatable with glomerular disease. Pembroke Welsh Corgies have been described with familial renal telangiectasia characterized by hematuria developing between 2 and 8 years of age. Hematuria appears to be episodic but can be severe enough to cause anemia. Hydronephrosis can develop secondary to obstructive calculi or blood clots.

RENAL DYSPLASIA The term renal dysplasia (RD) is applied to chronic renal disease of young dogs manifested by disorganized development of the renal parenchyma suggestive of abnormal differentiation. It has been reported in at least 23 breeds of dogs as well as the Persian cat. In some, a familial basis has been established. In other situations the term RD has been applied to animals because they developed CKD at an early age. Some of these diseases may be other familial diseases that need to be classified further. Dogs with RD are often small relative to littermates or compared with the breed standards and eventually develop renal failure and uremia, with death often occurring before 2 years of age. When examined by ultrasound, the dysplastic kidney frequently has an irregular contour, dilated pelvis, hyperechoic cortex and medulla and may contain cortical cysts; the renal cortex may be thin. Kidneys may develop a “dumbbell� shape. Fetal or immature glomeruli and persistent mesenchymal tissue are the hallmark histopathologic findings supportive of RD. Dilated renal tubules, renal fibrosis, cysts and interstitial inflammation may develop secondary to chronic and progressive renal disease. A linked DNA marker may identify carrier dogs and reducing the incidence of RD in Shih Tzus and Lhasa Apsos.

FANCONI SYNDROME Fanconi syndrome can be secondary to many renal insults; however, it is familial in the Basenji and Norwegian elkhound. Shetland Sheepdogs and Schnauzers may be predisposed. The disorder is caused by a partial defect in the proximal renal tubule and is manifested by reduced reabsorption of bicarbonate, glucose and filtered proteins. Affected dogs typically present with polyuria and polydipsia and glucosuria in the face of normoglycemia. The disease is progressive, with renal failure eventually developing. A metabolic screen of the urine is used to confirm the diagnosis (http://w3.vet.upenn.edu/research/centers/penngen). The excessive loss of bicarbonate, potassium, calcium and phosphorous and the propensity to develop urinary tract infections necessitates frequent evaluations and prompt treatment of affected dogs. An apparently effective management protocol, often referred to as the Gonto protocol, has been distributed for affected Basenji dogs (http://basenjicompanions.org/health/images/Protocol2003.html).

Further Reading 1.

2.

3.

4.

DiBartola, SP; Tarr, MJ; et al. Clinicopathologic findings in dogs with renal amyloidosis: 59 cases (1976-1986). Journal of the American Veterinary Medical Association 1989;195:358-364. Eaton, KA; Biller, DS; et al. Autosomal dominant polycystic kidney disease in Persian and Persian-cross cats. Veterinary Pathololgy 1997; 34:117-126. Lees, GE;, Helman, RG; et al. New form of X-linked dominant hereditary nephritis in dogs. American Journal Veterinary Research 1999; 60:373-383. Lees, GE. Familial Renal Disease in Dogs. In: Ettinger SJ, Feldman EC, eds. Textbook of Veterinary Internal Medicine. 7th edition. St. Louis: Saunders Elsevier. 2010; 2058-2062.

Address for correspondence: North Carolina State University College of Veterinary Medicine, Raleigh, NC, USA

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Effective management of familial renal diseases in dogs and cats (Part 1 - 2) Shelly L. Vaden DVM, PhD, Dipl ACVIM, North Carolina, USA

Management of a primary disease process is paramount in the management of kidney diseases. Some of the diseases have specific treatment guidelines (e.g., antiproteinuric drugs for hereditary nephritis; the Gonto protocol for Fanconi syndrome). Unfortunately there is no cure for the familial renal diseases of dogs and cats and most will progress to having advanced chronic kidney disease (CKD) and uremia, often over a fairly compressed time period (i.e., most before 3 years of age). As with all animals with CKD, controlling those factors that are believed to slow the progression of CKD in dogs and cats is important in animals with familial renal disease. These factors are feeding a diet formulated for animals with renal disease as well as adequate control of hypertension, proteinuria and renal secondary hyperparathyroidism. In addition, early recognition and treatment of urinary tract infections, dehydration, and hypokalemia and specific treatment of the components of uremia may reduce the progression and the morbidity associated with familial renal diseases.

TABLE 1 - IRIS Classification System for Chronic Kidney Disease Stage 1 (Nonazotemic) Markers of renal disease present Creatinine Dogs <1.4 mg/dL, <125 uMOL/L; Cats <1.6 mg/dL, <140 uMOL/L Proteinuria: Classify as P, BP, NP* Hypertension: Classify as Stage 0-3** Stage 2 (Mild Renal Azotemia) Markers of renal disease present Creatinine Dogs 1.4-2 mg/dL, 125-179 uMOL/L; Cats 1.6-2.8 mg/dL, 140-249 uMOL/L Proteinuria: Classify as P, BP, NP Hypertension: Classify as Stage 0-3 Stage 3 (Moderate Renal Azotemia) Creatinine Dogs 2.2-5 mg/dL, 180-439 uMOL/L; Cats 2.8-5 mg/dL, 250-439 uMOL/L Proteinuria: Classify as P, BP, NP Hypertension: Classify as Stage 0-3

STAGING OF DOGS AND CATS WITH CHRONIC KIDNEY DISEASE The International Renal Interest Society (IRIS) formulated a staging system for dogs and cats with CKD (Table 1), which would also apply for dogs and cats whose CKD developed because a familial disease. This staging is intended to facilitate application of appropriate clinical practice guidelines for diagnosis, prognosis and treatment of CKD. The stage of CKD should be assigned based on stable serum creatinine measured at a time when prerenal and postrenal contributions to the azotemia have been eliminated. Typically, patients in stage 1 or 2 CKD do not have clinical signs of renal disease with the exception of polyuria and polydipsia. Dogs and cats in these stages may have clinical signs related to their kidney lesions (e.g., acute pyelonephritis) or other aspects of their kidney disease (e.g., proteinuria, hypertension). Nonproteinuric, nonhypertensive dogs and cats with stages 1 and 2 CKD may have stable renal function for an extended period of time. Evaluation of patients with stage 1 or 2 CKD should be aimed at identifying and providing specific treatment for their primary disease process. Renal function should be monitored for disease progression. Animals with stage 3 CKD may have clinical signs but typically do not have signs of uremia. Progression during this stage may be due to both inherent mechanisms of progression and the primary disease process. Treatment of stage

Stage 4 (Severe Renal Azotemia) Creatinine Dogs and Cats >5 mg/dL, >440 uMOL/L Proteinuria: Classify as P, BP, NP Hypertension: Classify as Stage 0-3 *P, proteinuria = Dogs UPC >0.5; Cats UPC >0.4. BP, borderline proteinuria = Dogs UPC 0.2-0.5; Cats UPC 0.2-0.4. NP, nonproteinuria = Dogs and Cats UPC <0.2. **Hypertension Stages: Stage 0 = <150/<95 mmHg (systolic/diastolic); minimal risk of organ damage Stage 1 = 150-159/95-99 mmHg; low risk of organ damage Stage 2 = 160-179/100-119 mmHg; moderate risk of organ damage Stage 3 = ≥180/≥120 mmHg; high risk of organ damage

3 CKD includes specific treatment for the primary disease process and treatment designed to slow the progression of renal disease. Dogs and cats with stage 4 CKD have severe azotemia and often have uremia. In addition to treatment provided to stage 3 CKD patients, patients with stage 4 CKD will require therapy to prevent or alleviate signs of uremia. 236


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SPECIFIC TREATMENT OF FAMILIAL RENAL DISEASES IN DOGS AND CATS

slowing the progression of disease. This would be expected to also be true in animals that have CKD secondary to a familiar disorder. Renal diets are modified as follows: restricted quantity of high quality protein, phosphorous, and sodium, enhanced omega-3: omega-6 polyunsaturated fatty acid ratio, and increased caloric density and fiber content. Dogs with stage 3 CKD that were fed a renal diet had a 70% reduction in the relative risk of developing a uremic crisis, remained free of uremic signs almost 2.5 times longer, had a slower decline in renal function and had a median survival that was three times longer than dogs with stage 3 CKD that were fed a maintenance diet. Likewise, cats fed a renal diet had a median survival time that was 2.4 times longer than cats fed a maintenance diet. Whereas renal diets are generally recommended for adult dogs and cats with stage 3 or 4 CKD, they may not be ideal for supporting growth. We generally recommend feeding a geriatric diet to dogs and cats that develop stage 3 or 4 CKD before reaching skeletal maturity.

Hereditary Nephritis: There is no specific treatment for affected dogs. Feeding a diet formulated for renal failure and administering angiotensin-converting enzyme inhibitors (ACEi) have proven beneficial. If proteinuria is not sufficiently decreased after an ACEi has been administered for a period of several months, additional drugs such as angiotensin receptor blockers (ARB) can be administered (see proteinuria section below). Early detection of HN by screening dogs of relevant breeds for microalbuminuria will allow early therapeutic intervention, which may slow disease progression. Amyloidosis: The beta-pleated sheet configuration of amyloid fibrils leads to their insolubility and resistance to proteolysis, making specific treatment historically ineffectual. In people with Familial Mediterranean Fever, for which Shar Peis affected with amyloidosis may be a model, colchicine prevents or delays renal amyloidosis, even in patients who continued to have recurrent febrile episodes. Colchicine has been recommended in Shar Peis with renal amyloidosis. This drug should be administered to Shar Peis shortly after recurrent fevers and swollen hocks are noted. Colchicine administration may lead to remission of proteinuria even after the appearance of amyloid deposits. There is no evidence to support that colchicine is effective once renal failure is present. Investigations into the use of this drug in other forms of amyloidosis are in their infancy.

PROTEINURIA Persistent renal proteinuria is associated with a greater frequency of morbidity and mortality from renal disease as well as all cause mortality in dogs and cats. Renal proteinuria can occur secondary to any renal disease in which there is functional or structural alteration of the glomeruli, tubules, or interstitium. Dogs and cats with glomerular proteinuria may eventually progress to have a urine protein: creatinine ratio >2.0 although in the early stages of disease the magnitude of proteinuria may be lower than this. Glomerular disease can develop secondary to any persistent noninfectious inflammatory, infectious or neoplastic disease. Because there of similarities between acquired glomerular disease and some of the familial glomerular diseases, persistent not renal disease that may be leading to immunecomplex formation may need to be excluded before confirming a familial disease is present in some breeds (e.g., soft coated wheaten terriers, Bernese mountain dogs). Marked proteinuria can occur in animals with familial glomerular diseases. When dogs and cats with marked renal proteinuria are treated with ACEi, the reduction in the magnitude of proteinuria is believed to be renoprotective. ACEi may reduce proteinuria and preserve renal function by several possible mechanisms. The decreased efferent glomerular arteriolar resistance effected by ACEi leads to decreased glomerular transcapillary hydraulic pressure and decreased proteinuria. Other proposed mechanisms include reduced loss of glomerular heparan sulfate, decreased size of the glomerular capillary endothelial pores, improved lipoprotein metabolism, slowed glomerular mesangial growth and proliferation, and inhibition of bradykinin degradation. ACEi therapy and appropriate monitoring are currently recommended for: 1) Dogs with CKD causing azotemia and UPC >0.5; 2) Cats with CKD causing azotemia and UPC >0.4; 3) Nonazotemic dogs or cats with persistent renal proteinuria and UPC >1.0. More study is needed to determine if there is a benefit to administering ACEi to non-azotemic animals with lower magnitudes of proteinuria. If severe hyperkalemia develops or if proteinuria is not adequately controlled with an ACEi, ARB can be substituted or added.

Polycystic Kidney Disease: No specific treatment exists for PKD although many potential treatments are being explored in people with PKD. Affected animals are treated for their CKD. Cats and dogs that are exhibiting signs of pain associated with cysts may have control of their pain following ultrasound-guided drainage and alcoholization of the incriminating cysts. Fanconi Syndrome: Dogs affected with this syndrome eventually progress to CKD and need to have therapeutic regimens designed that limit disease progression and manage clinical signs. However, additional care is needed to restore losses of bicarbonate, electrolytes, proteins, vitamins and minerals per the Gonto protocol (http://basenjicompanions.org/health/images/Protocol2003.html). This protocol recommends feeding affected dogs a meat-based maintenance dog food, unless they have advanced renal failure when they are fed a diet formulated for dogs in renal failure that is supplemented with amino acids. In addition, dogs are given calcium, phosphorus, multi-vitamin, and potassium supplements, and sodium bicarbonate. Renal dysplasia and other miscellaneous familial renal diseases: Goals of treatment of affected animals include limiting progression and control of clinical signs of uremia.

NUTRITIONAL MANAGEMENT The nutritional management of dogs and cats with stage 3 or 4 CKD of all causes has been documented to be important in reducing the signs of uremia, preventing malnutrition and 237


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promote hypercalcemia. Dogs given sevelamer at 100x the recommended dosage did not develop any apparent toxicity. However, the use of this agent in dogs and cats has not been studied and recommended doses have not been established. The agent is hygroscopic and cannot be crushed or broken before ingestion because an intact gelatinous matrix is needed for efficient phosphate binding. This raises concerns about compounding this drug. Furthermore, when exposed to moisture it expands to up to 8 times it size; administration through a feeding tube should be avoided. Low doses of calcitriol administered orally will reduce parathyroid hormone concentrations in dog with CKD. Preliminary results of a controlled clinical study suggest that calcitriol is effective in prolonging survival in dogs with stages 3 and 4 CKD; results of ongoing studies in cats have not been released. Calcitriol should not be given until hyperphosphatemia is controlled and the calcium x phosphorous product is less than 60. Parathyroid hormone concentrations should be monitored to document that renal secondary hyperparathyroidism is adequately controlled during calcitriol administration. The efficacy of calcitriol in cats with CKD has not been clearly established. Guidelines have not been established for effective management of renal secondary hyperparathyroidism in animals that have not reached skeletal maturity. This subset of patients is more likely to develop renal osteodystrophy; therefore, it would seem as though special attention for these animals is warranted. Skeletally immature animals have higher reference range for serum phosphate and the target for control of hyperphosphatemia is unclear. Furthermore, it has been suggested that they would require a higher dose of calcitriol to achieve the same effect as seen in mature animals and that they would benefit for concurrent calcium carbonate administration but neither of these hypotheses have been studied.

Combination therapy with an ACEi and an ARB may lead to a greater reduction in proteinuria than monotherapy with either an ACEi or an ARB. Losartan is the ARB that we have used most often. If an ACEi is not tolerated, an ARB can be used instead of the ACEi.

HYPERTENSION Hypertension is common in dogs and cats with CKD from all causes and systolic pressures in excess of 170-180 mmHg carry a greater risk of organ damage, including more rapid rate of progressive decline in renal function. Blood pressure control should be considered a cornerstone to appropriate management of animals with familial renal disease and hypertension. While guidelines are still being developed, the current recommendation is to use ACEi as the first line antihypertensive agents for dogs and cats with a calcium channel blocker (e.g., amlodipine besylate) as a second agent, when needed. Animals presenting with systolic pressures > 200 mmHg or with evidence of target organ damage (e.g., choroidopathy) should be given both drugs because monotherapy with an ACEi is unlikely to provide adequate blood pressure control. Both of these agents are vasodilators and can cause a decrease in GFR. If renal function worsens after initiating treatment with one of these agents, the drug should be temporarily withdrawn and reinstituted at a lower starting dose.

RENAL SECONDARY HYPERPARATHYROIDSM Animals with CKD are less able to excrete phosphates through the kidney. Phosphate retention may contribute to progression of CKD through the development of renal secondary hyperparathyroidism, nephrocalcinosis, or both. Parathyroid hormone has been described as a uremic toxin that contributes to the progression of CKD. However, increased concentrations of parathyroid hormone may simply be a marker of vitamin D deficiency, which may be a in uremia. Diet alone is unlikely to control hyperphosphatemia in many animals with stage 3 and 4 CKD. Aluminum hydroxide has been the phosphate binder of choice for many years. Calcium carbonate and calcium acetate are alternatives but both carry the risk of causing hypercalcemia; this risk may be greater with calcium carbonate. Calcium containing phosphate binders should be used with caution in dogs or cats that have a serum calcium and phosphorous product in excess of 60. Epakitin, an intestinal phosphate binder that contains chitosan, derived from crab and shrimp shells, and calcium carbonate. Epakitin appears to be effective at reducing phosphate absorption from the gut and reducing serum phosphorous concentrations. However, it has the potential to increase the calcium x phosphorous product of the patient. Furthermore, chitosan is also marketed as an intestinal fat absorber, leading to weight loss in people. The weight of any patient receiving this medication should be closely monitored. Sevelamer HCl (RenaGelÂŽ, Genzyme Corporation, Cambridge, MA) is an intestinal phosphate binder used in people with CKD. Sevelamer is a polymer that is not absorbed systemically when given to people and does not

MANAGEMENT OF ANEMIA Moderate to severe anemia may lead to weakness, lethargy, anorexia and cold intolerance. Sources of ongoing blood loss (e.g., gastrointestinal hemorrhage), infection or inflammation should be eliminated, iron deficiencies should be corrected and blood sample collection should be minimized in animals with CKD and anemia. Transfusions of whole blood or packed red blood cells may be used for short-term control of anemia but are less suited for long-term control. Animals requiring repeat transfusions in order to maintain a PCV above 20-25% may benefit from administration of recombinant human erythropoietin (rHuEPO) or darbepoetin, a synthetic form of erythropoietin. Because systemic hypertension may be exacerbated by this therapy, blood pressure should be adequately controlled before instituting therapy. Oral iron supplementation is needed to prevent the development of iron deficiency during treatment with either agent. Clinically relevant anti-rHuEPO antibodies develop in approximately 25-30% of dogs and cats weeks to months after starting rHuEPO therapy. Darbepoetin may be less antigenic and can be given less often than rHuEPO. Increased PCV from these therapies results in increased appetite, energy, weight gain, playfulness, strength and alertness. 238


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FLUID THERAPY

CONTROL OF UREMIC GASTROPATHY

The goals of fluid therapy should be to restore the patient to euvolemia and alleviate clinical signs of uremia. There is no magic number for serum urea nitrogen or creatinine that should be targeted during fluid therapy; rather attention should be given to the well being of the patient. The patient’s volume status needs to be assessed prior to initiating and during administration of fluid therapy. Volume depletion should be rapidly corrected because ongoing hypovolemia may exacerbate clinical signs and contribute to further renal damage. Some animals with stage 4 CKD, and some with advanced stage 3 CKD, subjectively appear to have fewer uremic episodes and improved appetites when given subcutaneous fluid intermittently although others do not appear to benefit from this therapy. The owners can give these fluids at home. However, fluids should be administered in the smallest volume and the lowest frequency that is needed to help the animals feel better. Because chronic sodium administration may activate the renin-angiotensin-aldosterone system, exacerbate hypertension and be harmful to the kidneys, fluids formulated for maintenance therapy should be used to minimize the amount of sodium given to these patients.

Vomiting, nausea and anorexia in dogs and cats with CKD may be signs of uremic gastropathy. The frequency of these signs may decrease when the patient consumes a renal diet. When these signs are not controlled by diet alone, histamine type 2 (H2) receptor antagonists (i.e., cimetidine, ranitidine, famotidine) are often used to reduce gastric acid secretion. Proton pump inhibitors (e.g., omeprazole) are more effective at reducing gastric acid secretion than are the H2 receptor antagonists but are also more expensive. Proton pump inhibitors should be tried in dogs and cats that have persistent signs of uremic gastropathy despite appropriate administration of a H2 receptor antagonist. If gastric ulceration is suspected, sucralfate should also be given. Centrally acting antiemetics (e.g., metoclopromide) may be needed to control vomiting during a uremic crisis.

Suggested reading 1.

2.

MANAGEMENT OF ACID BASE AND POTASSIUM DISTURBANCES

3.

Metabolic acidosis may be associated with progressive renal injury, loss of lean muscle mass and the development of osteodystrophy that can occur in association with CKD. Metabolic acidosis contributes to nausea, anorexia and lethargy in patients with CKD. Alkalinization therapy should be considered if the animal is consuming a renal diet and the TCO2 is <15 mEq/L. Sodium bicarbonate is commonly used for alkalinization therapy. However, potassium citrate may have an added advantage in cats with CKD or dogs with Fanconi syndrome that have concurrent hypokalemia.

4.

Lees GE, Brown SA, Elliot J, et al. Assessment and management of proteinuria in dogs and cats: 2004 ACVIM forum consensus statement (small animal). J Vet Intern Med 2005; 19:377-385. Lees, GE. Familial Renal Disease in Dogs. In: Ettinger SJ, Feldman EC, eds. Textbook of Veterinary Internal Medicine. 7th ed. St. Louis: Saunders Elsevier, 2010; 2058-2062. Polzin DJ, Osborne CA, Ross S. Chronic Kidney Disease. In: Ettinger SJ, Feldman EC, eds. Textbook of Veterinary Internal Medicine, 7th ed. St. Louis: Elsevier Saunders, 2010; 1900-2021. Zatelli A, D’Ippolito P, Bonfati U, and Zini E. Ultrasound-assisted drainage and alcoholization of hepatic and renal cysts: 22 cases. J Am Anim Hosp Assoc 2007; 43: 112-116.

Address for correspondence: North Carolina State University College of Veterinary Medicine Raleigh, NC, USA

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Parassitosi cardio-polmonari di cane e gatto: vediamo solo la punta dell’iceberg? Luigi Venco Med Vet, SPCA, Dipl EVPC, Pavia

I parassiti cardio-polmonari del cane e del gatto sono rappresentati In Italia e più genericamente nel bacino del mediterraneo da Nematodi con ciclo biologico indiretto (che comprende in altre parole l’intervento di un ospite intermedio). Per alcuni di loro (Dirofilaria immitis nel cane e nel gatto) la situazione epidemiologica così come la presentazione clinica, gli ausili diagnostici e terapeutici nonché la profilassi sono ben descritti in letteratura per quanto recentemente sia stato evidenziato un reclutamento di nuove aree endemiche. In linea generale si può supporre, come evidenziato da studi epidemiologici che la prevalenza nel gatto rifletta quella riscontrata nel cane attestandosi su valori pari a 10% rispetto a quelli riscontati nel reservoir del parassita1,2,3. È inoltre di recente acquisizione il fatto che gatti infestati da Dirofilaria immitis, ancorché il parassita non riesca a raggiungere lo stadio adulto hanno la tendenza a presentare alterazioni respiratorie (H.A.R.D.S.: Heartworm Associated Respiratory Disease) di difficile diagnosi (le modificazioni sono caratteristiche unicamente dal punto di vista anatomo patologico)4. Per questa specie e per il parassita in questione la profilassi con lattoni macrociclici rimane l’arma più efficace nelle mani del medico veterinario)5. Non esiste, infatti, nella pratica clinica un unico test che sia in grado di svelare lo status parassitario dei gatti colpiti. I test anticorpali dotati di buona sensibilità presentano specificità inadeguata6, al contrario dei test antigenici che altamente specifici sono in grado di rilevare infestazioni da parassiti adulti in non più del sessanta per cento dei casi. L’esame ecocardiografico, eseguito con sonde ad elevata frequenza abbina buona sensibilità e specificità. È però tecnica strettamente operatore dipendente che richiede inoltre ottima qualità dell’apparecchiatura. Gli esami radiografici per il carattere polimorfo delle alterazioni rilevabili, che rivestono inoltre carattere transitorio, pur trattandosi di parassitosi cardiopolmonare risulta invece di scarsa utilità3, come del resto la ricerca di microfilarie circolanti, che essendo il gatto ospite suscettibile ma non ideale per Dirofilaria immitis, si riscontrano molto raramente nella pratica clinica nel gatto (pur rivestendo carattere di specificità assoluta che consente la diagnosi di infestazione da parassiti adulti) Per altri (Aelurostrongylus abstrusus nel gatto), a fronte di dati epidemiologici incompleti, è ben evidente la tipologia di soggetti più inclini a contrarre l’infestazione7,8. Per quanto concerne invece Angiostrongylus vasorum nel cane, il reperimento di casi sporadici lascia intendere che il problema sia

sottostimato. Per il mantenimento del ciclo biologico del parassita è, infatti, necessario supporre un valore di prevalenza minimo nell’ospite definitivo (cane o canidi selvatici) ed una diffusione e frequenza dell’ospite intermedio (oltre ad comportamento ed attitudine predatorie ed alimentari dei soggetti colpiti). La sporadicità dei casi che vengono tuttavia segnalati sempre con maggiore frequenza in Europa (oltre che in Francia che tradizionalmente è considerata area endemica al punto da attribuire la parassita il nome “gergale” di French worm) non si correla con quelle che dal punto di vista biologico sono le conoscenze considerati basilari nell’ambito della parassitologia. In particolare la scarsa frequenza con cui l’esame copromiscopico nel cane viene eseguito con tecnica idonea a rilevare le larve del parassita (tecnica di Baermann) può rendere conto della sporadicità delle infestazioni8,9. Tale esame infatti deve essere eseguito su campione fecale fresco e presuppone il sospetto diagnostico della patologia in questione10,11. È opportuno quindi (per questa come per l’altra parassitosi) rifarsi alla regola aurea: “si trova quello che si cerca” ed a sottoporre ad esami idonei i gatti con sintomatologia proteiforme (Dirofilaria immitis) ed i cani con ipertensione polmonare da cause non identificate8,9. Si tratta in ogni caso di patologie se non emergenti “in evoluzione” per quanto concerne le nostre conoscenze sulla loro incidenza nell’ambito dei problemi sanitari del cane e del gatto e gli aspetti diagnostici, terapeutici e profilattici dovrebbero essere ben noti a chi si occupa della clinica del cane e del gatto e considerati costantemente nel diagnostico differenziale delle sindromi cardio respiratorie12,13,14. Esistono infatti, al di là delle difficoltà di diagnosi, importanti presidi profilattici o tenutici che consentono la prevenzione o la guarigione di tali parassitosi15.

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Indirizzo per la corrispondenza: Luigi Venco Ospedale veterinario Città di Pavia viale Cremona 179 - 27100 Pavia Tel 0382 571510 - Fax 0392 571513 E-mail: luigivenco@libero.it

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Valutazione della dermatite atopica in cani trattati con immunoterapia allergene specifica (ASIT) ed alimentati con mangime a base di pesce e supplementato con estratto secco di Bardana (Arctium lappa) Antonella Vercelli Med Vet, CES derm, CES oft, Torino

Luisa Cornegliani, Med Vet, Dipl ECVD, Milano Giorgia Meineri, Med Vet, Torino

INTRODUZIONE

n°289, 10-12-1996, 47-53), 22 cani (16 femmine e 6 maschi) dell’età media di 5,8 anni, con un peso compreso tra 5,5 e 63 kg e con precedente diagnosi di DA. Ai proprietari è stato richiesto di somministrare la quantità di alimento prescritta e di portare l’animale a 30, 60, 90 giorni da VI, di non effettuare cambiamenti ambientali e di mantenere l’animale sotto trattamento con antiparassitari. Il mangime, fornito gratuitamente della ditta presentava la seguente composizione chimica (sulla sostanza secca): umidità 10%, proteina grezza 22%, estratto etereo 12%, fibra grezza 2%, ceneri 6,5%, era supplementato con: vit. A 12.000 U.I, vit D3 1.200 U.I., vit. E 70 mg ed estratto secco di bardana (0,075%). I cani ammessi allo studio, erano scelti in base alla presenza di DA con prurito annuale trattata con ASIT da più di un anno ed assenza al momento dell’inclusione nel trial di piodermite e/o dermatite da Malassezia spp, otite, endo ed ectoparassitosi. Dovevano essere esclusi dal trial gli animali conviventi con cani o gatti affetti da ecto o endoparassitosi. La diagnosi di DA era stata eseguita applicando i criteri di Willemse e con l’eliminazione sistematica, mediante appropriati esami complementari, delle diagnosi differenziali. Le reazioni avverse al cibo erano state escluse, prima dei test allergologici, con un trial alimentare di 6 settimane con dieta casalinga a base di cavallo e patate e con un successivo trial alimentare con idrolisato proteico (Z/D® Hill’s ultra allergen free) per 8 settimane. L’immunoterapia (Artuvetrin® Holland) era stata allestita sulla base dei risultati dei test in vitro (Heska® pannello europeo) per il dosaggio di IgE specifiche e dei test in vivo (intradermoreazione con allergeni Artuvetrin®). Alla visita di selezione, si compilava la scheda per la raccolta dati e, per ogni animale, si indicava segnalamento, si verificava con esami complementari (raschiati, scotch test, esami citologici) l’assenza di sovrainfezioni (batteriche o da Malassezia spp), otiti, endo ed ectoparassitosi. In caso d’infezioni cutanee, l’animale era sottoposto a un periodo di wash-out con antibiotico e antimicotico sistemico per 1 mese prima della visita di inclusione (VI). Alla VI si indicava la presenza di lesioni primarie sulla scheda clinica, con la scala analogica del prurito (da 0 a 10)

La dermatite atopica (DA) è una condizione infiammatoria cronica molto comune tra la popolazione canina, in cui si stima una prevalenza di circa il 10%. Si tratta di una malattia complessa, multifattoriale di difficile trattamento nella cui patogenesi intervengono fattori sia genetici che ambientali e richiede una gestione farmacologia complessa. L’alimentazione può rappresentare un’arma importante nella cura della AD. Sono recentemente apparsi in letteratura articoli riguardanti il trattamento nutrizionale della DA, che pongono l’accento sull’uso di diete ad elevato contenuto in acidi grassi essenziali, come adiuvanti di terapie mediche. L’uso di principi fitoterapici è alla base della medicina tradizionale e recentemente sono stati prodotti alimenti industriali per cani, integrati con estratti vegetali caratterizzati da proprietà nutraceutiche e/o curative. La bardana (Arctium lappa), erba perenne della famiglia delle compositae, è comunemente utilizzata per le proprietà antiinfiammatorie e gastroprotettive degli estratti della sua radice Nella bardana sono presenti alcuni lignani quali: arctiina, arctigenina e diarctigenina; in particolare queste ultime due sono in grado di inibire il tumor necrosis factor (TNF-alfa), la produzione di ossido nitrico e la soppressione dell’attivazione del fattore di trascrizione NF-kB in macrofagi attivati e questo può spiegare il loro potenziale antinfiammatorio. Questo studio clinico è stato realizzato per valutare se la somministrazione per 90 giorni consecutivi di un mangime a base di pesce e supplementato con estratto secco di bardana,®), può migliorare alcune condizioni cutanee in corso di DA, quali il punteggio lesionale CADESI e il prurito valutato su scala analogica da 1 a 10, in soggetti in terapia di mantenimento con ASIT.

MATERIALI E METODI Sono state coinvolte nell’esecuzione della prova dietetica alimentare 3 strutture veterinarie del nord Italia. Per il trial alimentare sono stati reclutati, previo consenso informato del proprietario e secondo le “good clinical practice” (G.U. 242


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l’assunzione della dieta in prova si manteneva una riduzione significativa del prurito (1,5 ± 1,9) e del punteggio Cadesi (12,4 ± 16,4) rispetto alla visita di inclusione.

mediante valutazione soggettiva del proprietario, e si compilava la scheda CADESI (canine atopic dermatitis extension and severity index) adottata dall’ITFCAD e si consegnava al proprietario il mangime con le dosi giornaliere. Le visite di controllo sono state fatte il 30° giorno (V30), il 60° giorno (V60) ed il 90° giorno (V90). Durante queste visite si rivalutavano lesioni cutanee, scala analogica del prurito e punteggio CADESI. Durante tutta la durata della prova era richiesta una corretta conservazione del cibo e l’assoluto divieto di somministrare altri alimenti. In caso d’inottemperanza a quanto richiesto, si escludeva l’animale dallo studio. Al termine della prova (V90) con il mangime in uso, era richiesta un’opinione scritta al proprietario su appetibilità del mangime e variazioni delle condizioni cutanee osservate (odore dell’animale, lucentezza del mantello, perdita di pelo). I valori registrati sono stati quindi sottoposti ad analisi della varianza (ANOVA), usando il pacchetto statistico SPSS (v 11.5, SPSS Inc., Chicago, IL, USA) confrontando lo stato di salute medio degli animali ai quattro tempi prescelti VI, V30, V60 e V90. Le risposte dei soggetti al trattamento dietetico sono stati comparati usando il test di Duncan con un livello di significatività di P<0,05.

CONCLUSIONE Lo studio riguardante la somministrazione regolare in cani affetti da DA, per tre mesi consecutivi di un mangime bilanciato a base di pesce ed integrato con estratti di radice di bardana ha permesso di ottenere un miglioramento del prurito, del punteggio Cadesi e delle condizioni generali del mantello degli animali. Tale mangime può pertanto essere considerato un valido complemento nella complessa gestione terapeutica della DA. Ulteriori studi sono comunque necessari per verificare se dosi superiori di bardana possano ulteriormente migliorare il quadro clinico dell’AD.

Bibliografia 1.

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RISULTATI E DISCUSSIONE Sono state valutate in totale le schede di 22 cani. In 1 caso, il soggetto è stato escluso dallo studio per incremento del prurito e delle lesioni cutanee dopo pochi giorni dall’assunzione del mangime in prova per sospetta intolleranza al pesce. Gli altri 21 cani hanno completato i 90 giorni di trattamento con il mangime in prova e sono stati sottoposti ad ulteriori 90 giorni di osservazione, con visite a cadenza mensile, mentre consumavano un’alimentazione libera. Alla visita di inclusione il prurito aveva un valore medio di 3,6 ± 2,1 ed il punteggio CADESI medio era 23,1 ± 23. A V30, dopo un mese dall’assunzione del mangime Fito progres, il prurito aveva un valore medio di 1,7 ± 1,9 e il punteggio Cadesi medio era di 10,8 ± 8,7 ed erano significamente diminuiti (p<0,01%). A V60 dopo 2 mesi dall’assunzione del mangime, il prurito aveva un valore medio di 1,9 ± 2 ed il punteggio Cadesi medio era di 8,8 ± 8,6. A V90 dopo tre mesi dal-

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Indirizzo per la corrispondenza: Antonella Vercelli Ambulatorio Veterinario Associato C.so Traiano 99/d - 10135 Torino E-mail: antonella@ambulatorioveterinario.eu

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Come ottenere il massimo dalla radiologia dello scheletro appendicolare? Massimo Vignoli Med Vet, SRV, Dipl ECVDI, Bologna

La radiologia nello studio dello scheletro ed in particolare lo studio dello scheletro appendicolare è ancora oggi la modalità diagnostica principalmente utilizzata. Malgrado negli ultimi anni la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica siano decisamente più disponibili sul mercato, la radiologia la fa ancora da padrone, forte dell’ampia disponibilità, bassi costi ed elevata accuratezza diagnostica. Tuttavia in alcuni casi vi sono limitazioni tali dove la tomografia computerizzata (es. studio del gomito o del ginocchio) o la risonanza magnetica (es. studio del ginocchio) divengono necessarie. Ci sono tre momenti fondamentali per ottenere una diagnosi dal nostro studio radiografico: 1) buona tecnica radiografica 2) corretto posizionamento 3) almeno due proiezioni ortogonali 4) utilizzo di proiezioni radiografiche che non si eseguono di routine (stressate o oblique). Innanzitutto, una buona tecnica radiografica è essenziale per arrivare ad una diagnosi corretta. Ci sono molti fattori che influenzano la qualità delle radiografie incluso l’unità da raggi X, l’impostazione dei dati per una corretta esposizione radiografica, la camera oscura (sia l’ambiente che la fase di processazione delle radiografie), e la scelta di equipaggiamenti radiografici ausiliari come le proprietà delle cassette, film/schermi di rinforzo, utilizzo e proprietà della griglia. E’ quindi necessario standardizzare tutte queste variabili in modo da avere la possibilità di selezionare un’appropriata esposizione radiografica (mAs and kVp) per lo studio radiografico che vogliamo effettuare. In particolare nello scheletro noi dobbiamo utilizzare una tecnica ad alto contrasto per enfatizzare le caratteristiche già presenti nello scheletro. Per questo è necessario una tecnica con basso kilovoltaggio, mentre il milliamperaggio deve essere adeguato per raggiungere un buon annerimento (densità radiografica) della pellicola o dell’immagine digitale. Con i nuovi apparecchi digitali, piccoli errori di esposizione si possono correggere nel “post processing”. Un basso kilovoltaggio consente di ottenere una scala di grigi molto corta, ma con grosse differenze tra loro e ciò incrementa il contrasto delle varie strutture che compongono l’immagine. Personalmente per cercare di ottenere il meglio da un radiogramma seguo la legge di Sante del 1954 (Kirberger 1999).

Questa legge prevede un calcolo del kilovoltaggio molto semplice. Per il torace si calcola lo spessore in centimetri, si raddoppia e si aggiunge 50. Ad esempio eseguo uno studio radiografico del torace di un cane con uno spessore di 20 centimetri. Il calcolo sarà: (20 x 2) + 50 = totale 90 kVp Per l’addome si calcola lo spessore in centimetri, si raddoppia e si aggiunge 30. Ad esempio eseguo uno studio radiografico dell’addome di un cane con uno spessore di 20 centimetri. Il calcolo sarà: (20 x 2) + 30 = totale 70 kVp Per lo scheletro, sia esso assiale o appendicolare si calcola lo spessore in centimetri, si raddoppia e si aggiunge 40. Ad esempio eseguo uno studio radiografico del carpo di un cane con uno spessore di 4 centimetri. Il calcolo sarà: (4 x 2) + 4 = totale 48 kVp Ciò è legato al fatto che mentre per lo studio dello scheletro, come anticipato sopra, cerchiamo un alto contrasto, come pure in parte nell’addome, invece nel torace si utilizza il contrasto intrinseco del gas contenuto nei polmoni e si cerca di ampliare la scala di grigi (ampia latitudine) al fine di ottenere un maggiore dettaglio radiografico. I milliampères si utilizzano, invece, con il solo scopo di annerire adeguatamente l’immagine, influiscono cioè sull’esposizione radiografica che è data dal rapporto tra mA e tempo di esposizone calcolato in secondi (mAs). Il calcolo del milliamperaggio prevede differenze notevoli nei vari distretti. Ad esempio in torace, a causa dei movimenti respiratori è necessario utilizzare tempi brevissimi (< 1/5 sec.), per cui per ottenere un buon annerimento dell’immagine radiografica è necessario avere a disposizione un’apparecchiatura con elevati mA. Personalmente utilizzo una macchina che consente di arrivare a 420 mA e tempi di esposizione molto bassi, inferiori al decimo di secondo. Per quanto riguarda lo scheletro possiamo utilizzare tempi più elevati, per cui anche unità da rX con inferiore milliamperaggio a disposizione, consentono di ottenere buone immagini radiografiche. La valutazione della correttezza o meno dell’esposizione radiografica si esegue valutando se l’annerimento è buono o no. Se è scarso (radiografia sottoesposta) dobbiamo raddoppiare i mAs, se invece è eccessivo (radiografia sovraesposta) dobbiamo dimezzare i mAs, e così via fino ad ottenere una buona immagine. 244


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Figura 1 - L’immagine 1a rappresenta una radiografia in proiezione medio-laterale del ginocchio. L’articolazione è lasciata in posizione neutra. L’immagine 1b, invece, rappresenta l’immagine dello stesso ginocchio dopo avere eseguito l’iperflessione del piede che consente alla tibia di scivolare cranialmente rispetto al femore in presenza di rottura del legamento crociato craniale. Per questa manovra (“tibial compression test”) il soggetto deve essere sedato profondamente o meglio anestetizzato.

Una volta che i parametri riportati all’inizio (cassette, film/ schermi, sviluppo/fissaggio, griglia) sono stati standardizzati è possibile registrare le esposizioni ideali e così ci si può creare una tabella tecnica. Un corretto posizionamento del paziente è fondamentale per riprendere delle buone immagini dello scheletro appendicolare. Per questo è solitamente necessario sedare o anestetizzare il paziente. In particolare quando sia necessario ottenere proiezioni stressate o in caso il soggetto sia particolarmente agitato o addolorato, non è pensabile di ottenere immagini diagnostiche senza anestesia. Del resto, per lo studio di alcune articolazioni nella routine quotidiana (es. articolazioni coxo-femorali) non si può ottenere comunque una buona immagine radiografica senza rilassamento muscolare, in particolare in soggetti di taglia medio-grande. Nel nostro centro cerchiamo, tuttavia, di utilizzare protocolli anestesiologici (spesso combinati) che consentono una rapida eliminazione dei farmaci utilizzati, così da avere il soggetto ben sveglio al termine dello studio radiografico. L’anestesia del paziente, va ricordato, oltre a consentire l’ottenimento di immagini di buona qualità, consente anche di evitare l’esposizione del personale medico o paramedico ai raggi X con semplici accorgimenti. In particolare io utilizzo culle di gomma piuma, corde e sacchi di sabbia che mi consentono di posizionare il pazien-

te correttamente e mantenere la posizione fino a che il radiogramma sia ottenuto. Un altro fattore importante per arrivare ad una diagnosi corretta e in particolare evitare errori grossolani, ma che a volte possono diventare molto gravi, è quello di ottenere sempre almeno due proiezioni ortogonali della struttura che vogliamo studiare. Infatti, in alcuni casi, è possibile non evidenziare lesioni anche grossolane sulla base di una sola proiezione radiografica. In caso di traumi alle articolazioni o alle cartilagini di accrescimento (fisi) o in corso di particolari patologie è indicato eseguire delle proiezioni stressate. In particolare per le articolazioni si va a valutare lo stato dei tessuti molli che contengono l’articolazione come ad esempio i legamenti collaterali o il legamento crociato craniale (Fig. 1). Nelle fisi è possibile evidenziare delle fratture che altrimenti potrebbero non essere viste, con le evidenti conseguenze. Proiezioni stressate che personalmente utilizzo sono: stress articolare nel carpo o nel tarso con adduzione o abduzione della mano o del piede per verificare lo stato dei legamenti collaterali. Anche le proiezioni stressate in iperflessione e iperestensione possono essere utili per valutare i comparti dorsali e palmare/plantare. 245


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Bibliografia

Proiezione stressata per la verifica dello stato del legamento crociato craniale con iperflessione del piede che induce la tibia a scivolare cranialmente rispetto al femore (“tibial compression test”). Stessa cosa la eseguo dove sospetto traumi delle fisi e ciò mi consente di valutare se ci sia scivolamento di un moncone rispetto all’altro in caso di frattura della fisi stessa. Quando si voglia evidenziare bene i tessuti molli è indicato riprendere un’ immagine con esposizione per le ossa ed un’immagine a esposizione ridotta per evidenziare meglio una eventuale tumefazione dei tessuti molli stessi. Alcune proiezioni oblique possono essere utile nella valutazione del processo coronoideo mediale ulnare o la mancata fusione del condilo omerale, mentre nel garretto è considerata talvolta utile la sky-line in corso di osteocondrosi.

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Indirizzo per la corrispondenza: Massimo Vignoli Clinica Veterinaria dell’Orologio via Gramsci 1/4 Tel. e fax: 051-6751232 Centro Oncologico Veterinario via S. Lorenzo 1/4 Tel. e fax: 051-6751871- 40037 Sasso Marconi (BO) E-mail: maxvignoli@alice.it

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La gestione del farmaco veterinario Marco Viotti Med Vet, Torino

L’importo del farmaco ceduto viene dunque regolarmente fatturato insieme all’importo della prestazione principale: ad esempio, visita clinica più la dicitura “terapia”. Il prezzo di vendita prevede invece poi la possibilità di attenersi al prezzo di fustella (rimettendoci, però, il 10% di iva) oppure di maggiorarlo in quanto si tratta di un servizio in più: se vogliamo fare un paragone è un po’ come per l’acqua minerale al ristorante che paghiamo più del suo valore commerciale in quanto si tratta di un servizio aggiunto. Fin qui abbiamo incontrato solo l’aspetto formale e tecnico del problema con un assaggio già delle correlate insidie; tuttavia “la dispensazione del farmaco” necessita anche di un minimo di conoscenza delle tecniche di comunicazione verso la clientela, siccome presuppone, ovviamente, la disponibilità del medico veterinario a fornire spiegazioni esaustive al cliente, soprattutto laddove si deve incominciare a fornire il servizio a una clientela non avvezza. Non di meno è necessario adottare una corretta gestione del magazzino delle scorte per evitare o un eccesso di prodotto da cedere, e quindi un immobilizzo di una somma eccessiva di capitale oppure l’esatto contrario, trovandosi sprovvisti al momento del bisogno. Per ovviare a tali inconvenienti è bene che la struttura definisca quali farmaci usare, per esempio nel caso in cui per una stessa molecola esistano più prodotti commerciali, inoltre che conosca quali sono i consumi potenziali di detti farmaci, tenendo conto anche della frequenza con cui il proprio fornitore è in grado di passare presso la nostra struttura. La dispensazione deve essere effettuata dal veterinario. Secondo la legislazione vigente il responsabile del servizio addestrerà gli altri colleghi definendo le regole di cessione, ad esempio identificando una frase adatta: “Se vuole, noi effettuiamo la cessione del farmaco veterinario: così non dovrà cercare una farmacia a quest’ora e potrà iniziare subito la terapia per il suo cane…” Oppure: “Ecco la cura per il suo cane, possiamo vendergliela noi o può andare in farmacia. Il farmaco comparirà in fattura e potrà così scaricare le spese sostenute”. Questi sono solo degli esempi e molti altri possiamo crearne a nostro piacimento. Inoltre il responsabile del servizio, che sarebbe bene avere, dovrà anche definire l’elenco dei principali farmaci di cui approvvigionarsi insieme al resto dello staff. Oltre ai farmaci tradizionali in compressa, fiala, sciroppo, bisogna ricordarsi anche dei farmaci iniettabili long acting, dal costo proporzionale alla dose, sempre di cessione si trat-

L’argomento trattato è da tempo un tema ricorrente nelle conversazioni del mondo veterinario nella realtà italiana. Qualsiasi sia l’approccio che si vuole adottare, la domanda di partenza sarà comunque: “Perché cedere il farmaco veterinario?” La risposta è più complessa di quanto sembri. Le motivazioni del singolo possono essere numerose e tutte apparentemente valide. Partiamo pure dall’aspetto più attinente la nostra prestazione medica: “cedere il farmaco” a conclusione della visita rappresenta la possibilità di garantire l’inizio della terapia con migliore tempestività o la certezza che il farmaco utilizzato sia quello realmente prescritto; se invece diamo risalto all’aspetto più imprenditoriale dell’attività veterinaria, diremo che anche questo è un modo per offrire un servizio aggiuntivo sicuramente gradito alla clientela; o ancora per ricercare una nuova fonte di reddito per la struttura e adeguarsi agli standard europei. Di fatto ancora una volta l’obiettivo che abbiamo in mente sarà quello duplice e strettamente connesso di fidelizzare la clientela e aumentare i guadagni della nostra struttura; e per farlo abbiamo bisogno dunque di un “nuovo” servizio da proporre, strettamente connesso con la nostra professione. Se siamo disposti ad accettare questo dato di fatto, occorre adesso verificare di cosa si tratta analizzando sia la parte legale che quella fiscale e valutando quale sia il ricavo economico in termini percentuali. La cessione del farmaco veterinario consiste nella possibilità del medico veterinario di consegnare al cliente “il farmaco”, facente parte delle scorte della struttura, per iniziare immediatamente il trattamento terapeutico che la patologia diagnosticata nel corso della visita clinica, necessita. Questa operazione viene legalmente configurata come prestazione professionale accessoria e regolata dal decreto legislativo 193\2006 sul farmaco e dal codice deontologico FNOVI. Dal punto di vista fiscale, essendo i veterinari dei liberi professionisti ed essendo la cessione del farmaco veterinario una prestazione accessoria alla visita clinica, secondo la Fnovi e il Ministero delle Finanze, detta prestazione deve essere necessariamente legata alla prestazione principale, cioè la visita, e assorbirne sia iva sia enpav. Anche lo studio di settore che ci riguarda prevede un rigo apposito per la cessione del farmaco dove verrà indicato l’importo complessivo dei farmaci acquistati per la cessione affinché non si sommi al reddito complessivo. 247


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ta e ciascuno di noi, calcolato il costo per ogni singola dose, un tanto a millilitro di farmaco, potrà aggiungere l’utile che ritiene corretto, tenendo conto dei costi di stoccaggio (flacone multidose) e magazzino, dell’iva,dell’enpav e delle tasse e del tempo necessario alla spiegazione della novità terapeutica, non dimenticando l’efficacia che si ottiene in termini di compliance del proprietario. Il servizio di cessione del farmaco veterinario è abbastanza diffuso all’estero dove però viene regolamentato diversamente: esistono vere e proprie farmacie interne alle strutture veterinarie con un addetto, in genere infermiere, che se ne occupa. In Italia, invece, il farmaco deve essere ceduto dal solo veterinario e solamente dopo una visita

clinica, aprendo la confezione e somministrando la prima dose. Possiamo quindi concludere che, grazie al decreto 193\ 2006, siamo in grado di offrire un servizio in più alla nostra clientela, controllando anche la corretta somministrazione del farmaco ed avendo la certezza che si utilizzi il farmaco prescritto, nonché di ottenere un discreto guadagno.

Indirizzo per la corrispondenza: Marco Viotti E-mail: vet.viotti@libero.it

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Complications of using foreign materials: sutures, stents, protheses and drains Robert N. White BSc (Hons), BVetMed, MRCVS,CertVA, DSAS (soft tissue) Dipl ECVS, RCVS, Nottingham (UK)

“Surgical therapy is inherently risky. All surgeons seek to balance an operation’s potential benefit and risk with the disease being treated. The best surgeons display a combination of knowledge, technical skill, and clinical judgement. Knowledge begins with a thoughtful appraisal of the medical literature. Operative technical ability develops from an understanding of the process of surgery and comprehension of both the operation’s objectives and the steps needed to meet them. Clinical judgement may be developed individually from experience, but it is also acquired from the distilled experience of others. Surgical judgement and understanding crucially depend on a detailed reading of the surgical literature and the expertise of others” (Mulholland and Doherty 2006).

implantation of metallic orthopaedic devices due to metal iron exposure and release. Most complications fall into four general categories: bleeding and surgical complications, post-operative infection, immune response and rejection, and device failure. Bleeding and surgical complications can affect the patency of the graft, implant, or device, and may cause damage to the tissue surrounding the surgical site. For example, the most common reason for failure of a skin graft is inadequate contact with the recipient tissue bed; bleeding may cause blood to pool under the graft (haematoma), decreasing contact between the graft and the recipient’s tissue. Other complications can arise from technical limitations when the graft or implant must be placed at a difficult or suboptimal location. In some cases the recipient site is not well-vascularised, reducing the flow of needed blood and oxygen to tissue and resulting in failure of the graft or implant. As in all surgery, blood clots or thrombophlebitis may develop during or after surgery, although the risks of pulmonary embolism or stroke (cerebrovascular accident) are uncommon in small animals. Infection is a potential complication of all surgical procedures. However, risk is even greater in individuals with burns, where large sections of the air skin barrier have been breached. In individuals receiving allografts, there is a low but real possibility that the tissue transferred from another individual will cause infection or disease. An immune response to the graft, implant, or device, and subsequent rejection is also a common complication. Autografts are least likely to be rejected, since the tissue being grafted is harvested from the individual receiving the graft and the cells in the graft are still recognised by the immune system as self-cells when the tissue is moved to another place in the body. Occasionally, autograft rejections occur the unknown reasons. A study investigating tissue reaction to suture material in the linea alba of the cat (Freeman and others 1987) included the following causes for local inflammation in response to suture material; the nature of the suture material, allergic reaction to the suture material, failure to close dead space, excessive tissue handling, sutures that are too tight, or specific issues related to the inflammatory response in the cat. Allograft rejection is more common. Allograft tissue can come from either a living donor or a cadaver. The tissue is often processed in ways that help to decrease the likelihood of an immune response and rejection by the recipient. An immune response is even more likely when a xenograft (cross-species graft) is performed. Rejection also can occur

DEFINITION OF DEVICES, IMPLANTS AND GRAFTS Devices, implants, and grafts all refer to surgical placement of a man-made mechanical, synthetic implantable material or biological implantable material into the body to correct a clinical condition. Advances in technology have dramatically increased the number of surgeries performed each year for grafts, implants, and devices. Complications refer to the development of any unexpected or unwanted postoperative conditions related to the device, graft or implant. The most common type of grafts are skin grafts and bone grafts. The graft can be permanent or temporary. In the case of temporary grafts, the grafted material is gradually restored and replaced with new growth. Material to form the graft can come from a variety of natural and synthetic sources. When tissue is removed from one area of the body and grafted into another area, it is called an autograft. When material is removed from another individual of the same species (either living or a cadaver) and used in a seconded individual, the graft is an allograft. When material is removed from one species and grafted into another species (e.g., grafts of pig skin into humans), the graft is a xenograft. The majority of implants and surgical devices are synthetic. Implants and devices are commonly made of a combination of metal, ceramic, and polymer plastics. Complications vary with the type of implant or device, its location in the body, the experience of the surgeon, and health and immunological response of the individual. In man, metal sensitivity in some individuals may produce a biological response to 249


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because of sensitivity toward synthetic material used in the implant or device. Finally, devices can fail because they are improperly implanted, break down, wear out, or migrate out of position. Device failure can occur almost immediately or years after the initial surgery. In addition, implants that are intended as temporary may fail if they are not resorbed by the body as expected. Risk: Risk of complications depends on the type of procedure, the experience of the surgeon, the health of the individual and the underlying conditions that necessitate the graft, implant, or device. Risk of complications can range from minimal for implantation of, for example, a drainage device, to much higher for procedures such as knee or elbow replacement. The postoperative risk of infection and rejection of devices, implants, and grafts is generally higher than

other possible complications. Infection is the most common postoperative complication that is reported. Treatment: Treatment depends on the type of complication, the type of graft, implant, or device used, and the underlying condition that necessitated the graft or implant. Treatment can range from medications such as antibiotics to revision surgery to remove or replace the device.

References Freeman L.J., Pettit G.D., Robinette J.D., Lincoln J.D. & Pearson M.W. (1987) Tissue reaction to suture material in the feline linea alba. Vet Surg 16, 440 Mulholland M.W., Doherty G.M. (2006) Preface. In: Complications in Surgery. Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia. p xi

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Complications of gastro-intestinal surgery Robert N. White BSc (Hons), BVetMed, MRCVS,CertVA, DSAS (soft tissue) Dipl ECVS, RCVS, Nottingham (UK)

GASTROTOMY/PARTIAL GASTRECTOMY

ENTEROTOMY/ENTERECTOMY

Complications of gastrotomy/gastrectomy are considered rare in dogs and cats. Complications include haemorrhage, haematemesis, dehiscence, and peritonitis. Dehiscence is rarely a problem after gastrotomy. There are two reasons for this; the stomach has a rich arterial blood supply with extensive collateral circulation with anastomoses, and, the large reserve capacity and high distensibility mean that the stomach is less susceptible to issues such as narrow resection margins and/or postoperative stenosis.

Enterectomy is a common procedure used primarily for resection of small bowel or in combination with other gastrointestinal procedures. Enterectomy has been part of the abdominal surgeons’ repertoire for much of the history of surgery, yet the risks and complications associated with this procedure have remained constant over its recent history. Complications of enterotomy/enterectomy are commonly associated with suture line dehiscence. They include shock, leakage, ileus, dehiscence, perforation, peritonitis, stenosis, short bowel syndrome, recurrence, and death. In man, the reported leak rates for intestinal anastomosis range from 1% to 8% (Adams 2009).

GASTROPEXY (INCISIONAL AND BELT-LOOP)

Operative steps of enterectomy

Numerous gastropexy techniques have been described in the veterinary literature; of these, the most popular are the circumcostal, belt-loop and incisional techniques. Since none of these procedures enter the gastric lumen the risk of dehiscence with leakage of gastric contents is minimal. Complications of all three techniques include inadvertent penetration of the gastric lumen and recurrence of the gastric dilatation/volvulus. In fact, all three of these gastropexy techniques, when performed correctly, result in a strong -pexy that is unlikely to breakdown. An additional complication of the circumcostal gastropexy relates to the development of the muscular tunnel around the rib – penetration of the pleural cavity during this dissection will result in the development of an iatrogenic pneumothorax.

Step 1 Incision Step 2 Evaluation of small bowel from stomach/pyloric antrum to ileocaecocolic junction. Step 3 Identification of transection sites proximal and distal to diseased segment. Step 4 Creation of the anastomosis • Creating a mesenteric defect • Transection of bowel • Ligation and division of small bowel mesentery • Small bowel anastomosis • Inspection of anastomosis for bleeding • Closure of enterotomy resulting from small bowel anastomosis Step 5 Assessment of anastomosis patency by palpation Step 6 Suture closure of mesenteric defect Step 7 Closure of incision Complications can occur at any (or all!) of the operative steps described above. Complications following full-thickness small intestinal biopsy in dogs have been reviewed (Shales and others 2005). This retrospective study showed that 12% of dogs either died or were euthanased between 3 and 9 days postoperatively due to enteric wound breakdown. The study concluded that full-thickness biopsy was not a benign procedure but failed to reveal consistent predictors for the complication in the patients studied. Risk factors for leakage of intestinal anastomosis in dogs and cats have also been reviewed (Ralphs and others 2003). Results suggested that a variety of factors might be associated with development of intestinal anasto-

GASTRIC OUTFLOW PROCEDURES Gastric outflow procedures are indicated in dogs or cats suffering from congenital or acquired antral pyloric hypertrophy, and benign or malignant tumours in the region of the pylorus. Commonly performed procedures include Fredet-Ramstedt pyloromyotomy, the Heineke-Mikulicz pyloroplasty, Y-U antral advancement flap pyloroplasty, and gastroduodenostomy. Complications of such procedures include persistence of gastric outflow obstruction, dehiscence, traumatic pancreatitis, biliary obstruction and duodenal reflex. 251


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RECTAL SURGERY INCLUDING PULL-OUT & PULL-THROUGH

motic leakage in dogs. In particular, dogs with 2 or more of the following risk factors were predicted to be at high risk for developing anastomotic leakage: pre-operative peritonitis, intestinal foreign body, and serum albumin concentration (< or = 2.5 g/dL). Short bowel syndrome may occur if large segments of intestine are resected (that is, more than 70-80%). Weight loss, diarrhoea and malnutrition are the predominant clinical signs. The goal of treatment is to provide nutritional support until intestinal adaption occurs (1-2 months), and diarrhoea is controlled.

The primary indication for rectal resection is to excise a neoplastic, necrotic, traumatised (for example, prolapse, fistula, or diverticulum), or strictured segment of rectum. The rectum may be exposed using a ventral, dorsal, rectal pullthrough, lateral, or anal approach. Mucosal lesions in the caudal rectum are commonly exposed by either the anal approach (pull-out) or the rectal pull-through approach. Common complications of these procedures include faecal tenesmus, haematochezia, rectal prolapse, stricture formation, dehiscence, pelvic inflammatory disease, peri-anal abscessation, local peritonitis, and faecal incontinence (Hedlund 2002). Postoperative tenesmus and haematochezia should resolve in most animals after suture removal or absorption. Incontinence with extensive rectal resection results from loss of rectal afferent nerves or from disruption of the pelvic plexus at the peritoneal reflection. Removal of the distal 1.5 cm of rectum may cause faecal incontinence even if the external anal sphincter is preserved. Faecal incontinence is uncommon when 4 cm or less of the rectum is resected, preserving the terminal rectal cuff. Longer rectal resections (6 cm or longer) disrupt the peritoneal reflection and frequently result in incontinence.

COLOTOMY/COLECTOMY Haemorrhage and faecal contamination of the abdomen are the most common complications of large intestinal surgery. Other possible complications are shock, leakage, dehiscence, perforation, peritonitis, stenosis, incontinence, abscess formation, and death. Complications of subtotal colectomy performed for the management of idiopathic megacolon in cats includes all of the potential issues listed above. In addition, persistent diarrhoea or recurrent constipation may be seen. In cases in which the ileocaecocolic junction is excised there is a significant likelihood of persistent diarrhoea as a result of bacterial overgrowth or hypersecretion in the small intestine. Constipation after subtotal colectomy is often controllable by dietary management and/or the administration of stool softeners such as lactulose syrup.

References Adams RB (2009) Enterectomy. In: Surgical Pitfalls – Prevention and Management. Ed. Evans S. Saunders Elsevier. p 237. Hedlund CS (2002) Surgery of the digestive system. In: Small Animal Surgery. 2ndedn. Ed. Fossum TW. Mosby. p 274. Pavletic MM, Berg J (1996) Gastrointestinal Surgery. In: Complications in Small Animal Surgery. Eds. Lipowitz AJ, Caywood DD, Newton CD, Schwartz A. Williams & Wilkins, Baltimore. p 365. Ralphs SC and others (2003) Risk for leakage following intestinal anastomosis in dogs and cats: 115 cases (1991-2000). J Am Vet Med Assoc 223, 73. Shales CJ and others (2005) Complications following full-thickness small intestinal biopsy in 66 dogs: a retrospective study. J Small Anim Pract 46, 317.

COLOPEXY Colopexy is performed to create a permanent adhesion between the serosal surfaces of the colon and the abdominal wall so as to prevent caudal movement of the colon and rectum. Colopexy is most often performed as part of the management of perineal herniation and for the management of recurring rectal prolapse. Complications are predominantly related to the breakdown and failure of the -pexy.

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Complications of upper airway surgery Robert N. White BSc (Hons), BVetMed, MRCVS,CertVA, DSAS (soft tissue) Dipl ECVS, RCVS, Nottingham (UK)

DORSAL RHINOTOMY

SURGICAL MANAGEMENT OF LARYNGEAL PARALYSIS

Dorsal rhinotomy is indicated for the treatment of chronic infectious rhinitis, for removal of nasal foreign bodies, and, under certain circumstances, as a part of the treatment of nasal neoplasia. The procedure is often a major surgery and is associated with numerous potentially very serious complications. Reported complications include intra-operative and postoperative haemorrhage, subcutaneous emphysema, failure to mouth breathe (especially in cats), anorexia, pain, aspiration pneumonia, persistent nasal discharge, and recurrence/persistence of the underlying disease.

• Partial laryngectomy (partial arytenoidectomy and ventriculocordectomy) • Castellated laryngofissure • Arytenoid cartilage lateralisation procedures Complications of the surgical management of laryngeal paralysis vary depending on which surgical procedure is utilised in the management of the condition. Complications include haemorrhage, aspiration pneumonia, transverse laryngeal webbing (partial laryngectomy), tracheostomy complications (castellated laryngofissure), cartilage laceration and fracture (castellated laryngofissure), inadequate arytenoid lateralisation, arytenoid cartilage fracture, recurrence of a life-threatening stridor/respiratory obstruction. The incidence of serious complications following both partial laryngectomy and castellated laryngofissure surgery is very high. Most experienced authorities would not advocate either of the procedures for the management of idiopathic laryngeal paralysis. In experienced hands, the arytenoid lateralisation surgery results in good long-term outcome with a low incidence of postoperative complications. There is little doubt that the incidence of complications is much lower when the arytenoid lateralisation surgery is performed by the more experienced surgeon. It is very important to recognise that arytenoid lateralisation surgery is very unforgiving and complications arising from such surgery are commonly very serious and life threatening. Short-term complications include haemorrhage, poor abduction/fixation of the arytenoid cartilage, inappropriate suture placement, breaking of the suture followed by fragmentation of the arytenoid cartilage, persistence of stridor/life-threatening respiratory compromise. Probably, the most concerning long-term complication of the surgery is the increased risk/incidence of aspiration of food and/or water. Aspiration pneumonia is reported to be present in 10-15% of cases. Dogs are at risk of aspiration for the rest of their life, although the complication is most commonly observed with the first 24-48 hours postoperatively. The incidence of aspiration pneumonia is more common in bilateral laryngeal lateralisation compared to unilateral. In one study, 42% of the dogs with bilateral lateralization experienced an episode of aspiration pneumonia.

SURGICAL MANAGEMENT OF BRACHYCEPHALIC SYNDROME • • • • • • •

Rhinoplasty Tonsillectomy Soft palate resection (staphylectomy) Folded-flap palatoplasty Resection of the glosso-epiglottic (sub-epiglottic) fold Excision of everted laryngeal ventricles/saccules Arytenoid laryngoplasty (tieback) for management of stage II or III laryngeal collapse Complications following surgical management of brachycephalic syndrome are relatively common and are often potentially life-threatening. There are inherent risks with anaesthetising brachycephalic dogs and their initial recovery from an anaesthetic is often associated with episodes of complete respiratory obstruction. Postoperative swelling of the cut structures within the throat only exacerbate this problem. In severely affected cases it proves necessary to place a temporary tracheostomy tube to alleviate the obstructive issues – it is always better (and safer) to place a tracheostomy tube before the patient has reached the stage of catastrophe airway obstruction; this is better for the patient and much less stressful for the surgeon! Other complications include oral haemorrhage, regurgitation, vomiting, continued stertor and stridor, and in rare instances issues with local suture associated infection. Persistent postoperative regurgitation and/or vomiting is not uncommon and is often related to the presence of an associated sliding (type I) hiatal hernia. Such a complication is often managed medical in the first instance (feeding little and often, and oral administration of prokinetic agents and antacids). In some instances, the hernia will require surgical intervention (fundoplication and oesophagopexy). 253


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SURGICAL MANAGEMENT OF LARYNGEAL/TRACHEAL MASSES

operative mortality rate of approximately 10% in one series. Late complications include stent shortening, excessive granulation tissue formation, progressive tracheal collapse, and stent fracture.

Laryngeal and tracheal wounds heal by re-epithelialisation if mucosal edges are in apposition. Constant motion associated with breathing and head movement inhibits primary healing. Second intention healing occurs by the formation of granulation tissue prior to re-epithelialisation. This often results in the formation of granulomas, airway stenosis and/or scarring/webbing. It has been estimated that a 20% reduction in lumen diameter may reduce tracheal mucociliary clearance by more than 50%. Laryngeal and tracheal surgery may be associated with acute respiratory obstruction caused by mucosal swelling, oedema, irritation, and increased mucus production and/or laryngeal or tracheal collapse.

TRACHEOTOMY/TRACHEOSTOMY/ PERMANENT TRACHEOSTOMY Complications of tube tracheostomy have been described previously (Hedlund CS 2002). Complications of tube tracheostomy placement include obstruction or dislodgement, subcutaneous emphysema, pneumomediastinum, aspiration of fluid or foreign bodies, and pneumonia. Some animals occlude the tracheostomy tube when the neck is flexed and when they sleep with bedding. The main complication of permanent tracheostomy is stomal occlusion from accumulated mucus, skin folds, or stenosis. It should be remembered that although patients with tracheostomies and/or tracheostomy tubes appear to cough, these events are actually ineffectual. The normal cough reflex requires the patient to generate a rapid increase in lower airway pressure against a closed glottis prior to the explosive release of air following the synchronised opening of the glottis. The presence of an opening in the trachea prevents theanimal from being able to produce a sealed system and, consequently, the patient cannot generate a significant positive lower airway pressure prior to glottic opening.

SURGICAL MANAGEMENT OF TRACHEAL COLLAPSE Surgical or interventional management of tracheal collapse may be indicated in those individuals suffering from the condition that have failed aggressive medical and environmental management, and have had other potential causes of respiratory disease either treated or ruled out. The most commonly performed surgery for animals with extra-thoracic tracheal collapse is the placement of extraluminal ring prostheses. Complications of such surgery are considered relatively common and include, peri-operative death, development of iatrogenic laryngeal paralysis, the requirement of either a temporary or permanent tracheostomy, and the persistence of life-threatening respiratory signs. Recently, there have been a number of reports describing the management of the condition by placement of intra-luminal stents (Weisse 2009). The reported advantages of this technique are that it is minimally invasive and can be used to manage intrathoracic tracheal collapse. Immediate complications were typically minor although there was a reported peri-

References Hedlund CS (2002) Surgery of the upper respiratory tract. In: Small Animal Surgery. Ed. Fossum TW. Mosby, St. Louis. p 716. McCarthy RJ (1996) Surgery of the head and neck. In: Complications in Small Animal Surgery. Eds. Lipowitz AJ, Caywood DD, Newton CD, Schwartz A. p 99. Weisse C (2009) Intra-luminal tracheal stenting. University of Pennsylvania School of Veterinary Medicine website.

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Complications of ear surgery Robert N. White BSc (Hons), BVetMed, MRCVS,CertVA, DSAS (soft tissue) Dipl ECVS, RCVS, Nottingham (UK)

ed to haemorrhage from the retroglenoid vein and in a small number of cases such haemorrhage can prove fatal (Smeak and DeHoff 1986, Mason and others 1988). Post-operative complications involve soft tissue complications and neurological complications and can be further separated into acute and chronic complications (table 2). Soft tissue complications involve acute wound complications, pinna necrosis, and chronic fistulation. Neurological complications include exacerbation of pre-operative deficits, facial nerve deficits, hypoglossal nerve deficits, peripheral vestibular syndrome, and hearing loss. In many instances, these complications are temporary, and with appropriate treatment, there are no long-term sequelae to the problems. Acute wound complications are described in between 8% and 41% of reported cases; they include, acute cellulitis/ abscessation, incisional haematoma, incisional dehiscence, and extended wound drainage (Lanz and Wood 2004). The primary long-term soft tissue complication involves recurrent otitis media and the development of a draining tract. The most common underlying reason for recurrent infection is incomplete removal of the external ear canal and/or the secretory epithelium lining the tympanic bulla. Antibiotic therapy is not usually effective in the treatment for recurrence of infection, and surgical exploration of the region is generally recommended. This surgery is often very demanding and may result in a failure to resolve the infection and/or neurological complications such as damage to the facial nerve. Another chronic complication is the ongoing superficial der-

Aural haematoma is a common condition affecting the pinnae. It is often managed surgically in an attempt to drain the structure, maintain drainage and encourage healing by fibrous contraction. Complications of surgery for this condition include, cosmetic alterations, recurrence of the haematoma, and pinnal necrosis (McCarthy 1996). Lateral wall and vertical ear canal resections are often recommended as part of the management of otitis externa. Both procedures are often undertaken with the aim of improving the micro-environment of the remaining external ear canal, thereby, reducing the likelihood of progression of the disease and helping with the continued medical management of the case. Surgical complications of both of these procedures include incisional dehiscence, stenosis of the remaining horizontal ear canal, infection, and failure to alleviate aural inflammation. In addition, vertical canal resections can result in facial nerve dysfunction and cosmetic alterations in ear carriage. The incidence of a number of these complications with their source reference are listed in the following table 1. Total ear canal ablation with bulla osteotomy (TECA BO) is indicated for the surgical management of end-stage otitis externa and in many individuals suffering from otitis media. There are many complications related to TECA BO surgery. In many instances, the haemorrhage is insignificant but may hamper the surgeon’s ability to view the surgical site. Issues with this degree of haemorrhage can often be addressed by the judicial use of electrocautery and/or surgical suction. Significant intra-operative bleeding may be relat-

TABLE 1 - Complications of lateral ear canal resection and vertical ear canal resection Lateral ear canal resection

Vertical ear canal resection

Gregory

(%)

McCarthy

Tigari

(n)

(%)

Dogs receiving surgery

26

100

36

35

71

100

Dehiscence

7

26.9

7

0

7

9.9

Ear canal stenosis

7

26.9

4

3

7

9.9

Facial nerve palsy

0

0

1

0

1

1.4

Cellulitis/drainage

0

0

1

0

1

1.4

Haematoma

2

7.7

0

0

0

0

(From Complications in Small Animal Surgery, eds. Lipowitz, Caywood, Newton & Schwartz (1996). 255


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TABLE 2 - Complications of total ear canal ablation with lateral bulla osteotomy Matthiesen

Mason

Beckman

White

(n)

(%)*

Procedures

46

39

72

100

257

100

Dogs

38

30

44

71

183

100

Facial nerve palsy

20

7

3

13

43

16.7

Cellulitis/drainage

9

11

5

0

25

9.7

Dehiscence

3

6

0

11

20

7.8

Vestibular injury

2

4

3

2

11

4.3

Fistula/abscess

1

3

0

0

4

1.6

Haematoma

2

0

0

0

2

0.8

Fatal haemorrhage

1

1

0

0

2

0.8

Hypoglossal nerve injury

0

1

0

0

1

0.4

Pinna necrosis

1

0

0

0

1

0.4

Dogs with subjective decreased or absent hearing

7

23

3

2

35

19.1

* Calculated as number of complications divided by the number of procedures performed, except for hearing, which was calculated as number having decreased hearing divided by dogs receiving surgery. (From Complications in Small Animal Surgery, eds. Lipowitz, Caywood, Newton & Schwartz (1996).

References

matitis of the pinnae secondary to the primary underlying dermatological disease. The anatomical differences between the tympanic bulla of the dog and the cat (i.e., the bony separation of the cat bulla into a two, distinct compartments) have lead to the feline bulla osteotomy commonly being undertaken via a ventral approach. Complications of the ventral bulla osteotomy (VBO) in the cat are generally divided into neurological and non-neurological complications. Neurological complications are the primary complications noted with surgical intervention. Horner’s syndrome is noted commonly in the postoperative period (up to 80%) and is temporary in most cases. This condition is usually caused by the disruption of the sympathetic nerve fibres that are exposed along the promontory and ventromedial portion of the bulla. Other neurological complications include facial nerve paresis/paralysis, hypoglossal nerve paresis/paralysis, and peripheral vestibular syndrome (nystagmus, head tilt, ataxia, etc.). Non-neurological complications include recurrent otitis media/interna, pharyngeal swelling, incisional drainage, and, in the case of polypoid disease, recurrence of the polyp/s.

Beckman SL, Henry WB, Cechner P (1990) Total ear canal ablation combining bulla osteotomy and curettage in dogs with chronic otitis externa and media. J Am Vet Med Assoc 196, 84. Gregory CR, Vasseur PB (1983) Clinical results of lateral ear resection in dogs. J Am Vet Med Assoc 182, 1087. Lanz OI, Wood BC (2004) Surgery of the ear and pinna. Vet Clin Small Anim 34, 567. Mattiesen DT, Scavelli T (1990) Total ear canal ablation and lateral bulla osteotomy in 38 dogs. J Am Anim Hosp Assoc 26, 257. Mason LK, Harvey CE, Orsher RJ (1988) Total ear canal ablation combined with lateral bulla osteotomy for end-stage otitis in dogs. Results in thirty dogs. Vet Surg 17, 263. McCarthy RJ (1996) Surgery of the head and neck. In: Complications in Small Animal Surgery. Eds. Lipowitz AJ, Caywood DD, Newton CD, Schwartz A. McCarthy RJ, Caywood DD (1992) Vertical canal resection for end-stage otitis externa in dogs. J Am Anim Hosp Assoc 28, 545. Smeak DD, DeHoff WD (1986) Total ear canal ablation: clinical results in the dog and cat. Vet Surg 15, 161. Tigari M (1988) Long-term evaluation of the pull-through technique for vertical canal ablation for the treatment of otitis externa in dogs and cats. J Small Anim Pract 29, 165. White RAS, Pomeroy CJ (1990) Total ear canal ablation and lateral bulla osteotomy in the dog. J Small Anim Pract 31, 547.

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Complications of urinary tract surgery Robert N. White BSc (Hons), BVetMed, MRCVS,CertVA, DSAS (soft tissue) Dipl ECVS, RCVS, Nottingham (UK)

GENERAL COMPLICATIONS

Post-operative gross or microscopic haematuria should be expected in the post-operative period following nephrotomy. A further complication of persistent renal haemorrhage may be the development of blood clots and an associated urinary tract and structure.

It will come as no surprise that the dehiscence of a surgical incision into the lumen of an organ making, transporting or storing urine will result in the leakage of urine into the surrounding adjacent tissues. Therefore, any such dehiscence of an incision into the renal pelvis, ureter, urinary bladder or proximal urethra will result in uroabdomen and/or uroretroperitoneum (Kyles and others 1996). Clinical signs of uroabdomen include abdominal discomfort, progressive lethargy, anorexia and depression, abdominal distension and ascites, and vomiting. Dehydration will become evident leading and the inability to excrete urine will result in the development of potential life-threatening hyperkalaemia. The animal may still be able to pass small volumes of urine and the passage of some urine does not preclude the diagnosis of uroperitoneum. The following is a summary of the complications associated with some of the more common surgical procedures of the urinary tract (Kyles and others 1996).

Pyelolithotomy Pyelolithotomy is indicated for the removal of relatively large calculi from its dilated renal pelvis. Pyelolithotomy results in less renal damage and haemorrhage when compared to nephrotomy; only the relatively avascular renal pelvis and not the vascular renal parenchyma is incised. Complications of pyelolithotomy include urine leakage, urolith recurrence, and ureteral stricture.

Nephrostomy catheterisation Nephrostomy catheterisation provides the temporary diversion of urine in patients with ureteral obstruction. The catheter is passed percutaneously through the renal parenchyma so that it is positioned within the renal pelvis. Complications of this procedure in humans are common; major complications are found in 5% of patients and minor problems in up to 70% of patients (Munch 1991). Common complications associated with nephrostomy catheterisation in dogs and cats include urine leakage (intra-abdominal, retro-peritoneal, subcutaneous and/or cutaneous) and ascending infection resulted in pyelonephritis, renal abscessation and/or peritonitis.

SPECIFIC COMPLICATIONS Nephroureterectomy The potential complications of nephroureterectomy include haemorrhage, haemoperitoneum, injury to adjacent viscera, infection, and renal failure if the contra-lateral kidney is incapable of maintaining renal function. In addition, there may be more specific complications associated with the pathological process that necessitated the removal of the kidney. For example, the excision of the renal abscess might have an increased risk of post-operative infection, whereas, the removal of a renal carcinoma might be associated with the likely complication of local and metastatic tumour spread.

Renal biopsy Kidney biopsies are performed in an attempt to determine the precise cause of a patient’s renal compromise or failure. Kidney biopsies can be obtained percutaneously, laparoscopically or at open surgery. Complications of the procedure include haemorrhage and hydronephrosis. Haemorrhage is always associated with the procedure and its extent and severity depend on the technique employed to obtain the biopsy, the renal pathology that is present, the presence of concurrent issues with blood clotting and the experience/competence of the person taking the biopsy.

Nephrotomy The potential complications of nephrotomy include renal failure and haematuria. Nephrotomy has been reported to reduce renal function in the operated canine kidney by 30-50% (Gahring and others 1977, Fitzpatrick and others 1980). Signs of significant renal impairment include reduced urine output or anuria, associated with progressive azotaemia. Normal urine output is 0.5-1.0 ml/kg/hr. Urine output can be measured with the placement of an indwelling urethral catheter connected to a closed drainage system. In addition, plasma urea and creatinine concentrations should be measured for evidence of azotaemia.

Ureterotomy/ureteral resection and anastomosis Ureterotomy is indicated for the surgical removal of ureteral calculi in the dog and cat. Ureteral resection and anastomosis is indicated for ureteral trauma, stricture and neoplasia. Complications of both procedures include the intra-abdominal leakage of urine and the formation of ureteral stricture/stenosis leading to hydronephrosis and subsequent ipsilateral renal shutdown. 257


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Ureteroneocystostomy/ureterocystostomy

complications of perineal urethrostomy in male cats. The complications of prepubic urethrostomy are similar to those discussed for other urethrostomy procedures; they include urethral obstruction, peristomal skin irritation or necrosis, urinary incontinence and unresolved lower urinary tract disease (Baines and others 2001).

Ureteroneocystostomy involves ligation and division of the ureter with the re-implantation of its proximal segment into the bladder. The procedure is most commonly indicated for the treatment of extramural ureteral ectopia. Ureterocystostomy is the treatment most commonly indicated for the management of intramural ureteral ectopia where a new opening to the ureter is formed at the trigone and the submucosal ridge of intramural ureter either requires removal, ligation or to be ‘laid open’. The complications of ureteroneocystostomy and ureterocystostomy are similar and include hydronephrosis/hydroureter and urinary incontinence.

Urethral anastomosis Urethral resection and anastomosis is indicated for the treatment of urethral trauma or neoplasia. Access to the intrapelvic urethra is achieved by pubic symphysiotomy or by pubic osteotomy. Complications of urethral anastomosis include urethral stricture formation, the leakage of urine from the site of the anastomosis, urinary incontinence, recurrence of the underlying condition (neoplasia, etc.), orthopaedic issues related to the symphysiotomy/osteotomy.

Cystotomy Cystotomy in indicated for any surgery that requires access to the bladder lumen and/or mucosal surface of the bladder (for example, removal of cystic and urethral calculi, ureteral ectopia, persistent urachal remnant, excision of bladder wall tumours, etc.). Complications include the dehiscence of the cystotomy incision with resultant intra-abdominal leakage of urine, bladder/detrussor instability associated with the cystotomy incision, haematuria, and cystitis.

Urethropexy Urethropexy is indicated for the surgical management of urethral sphincter mechanism incompetence (uSMI) in the bitch and more rarely in the male dog. Complications of the surgery include failure to resolve the incontinence, postoperative urethritis/cystitis, and on rare occasions the development of dysuria and stranguria (White 2001).

Partial cystectomy Partial cystectomy is indicated for the excision of bladder neoplasia, polyps, ulcers, patent urachus, urachal diverticuli and infected urachal remnants. A return to normal function is anticipated following the excision of up to 75% of the cranial pole of the bladder; the trigone should ideally be kept intact. Complications of partial cystectomy include intra-abdominal leakage of urine, bladder/detrussor instability, haematuria, cystitis, tumour recurrence, small bladder volume.

Colposuspension Colposuspension is indicated for the surgical management of uSMI in the bitch. Complications of the surgery include failure to resolve the incontinence, postoperative urethritis/cystitis, and on rare occasions the development of dysuria and stranguria (Holt 1985).

Urethral submucosal injection of collagen

Urethrotomy is indicated in male dogs for the removal of urethral calculi that partially or completely obstruct the urethra. Complications are less likely following cystotomy when compared to urethrotomy and, therefore, it is preferable to retrograde flush urethral calculi into the bladder rather than perform a urethrotomy. Complications include haemorrhage, subcutaneous leakage of urine, urethrotomy stricture formation.

Urethral submucosal injection of collagen is indicated for the management of uSMI in the bitch and more rarely in the male dog (Barth 2005). Complications of the procedure include failure to resolve the incontinence, postoperative urethritis/cystitis, and the development of dysuria and stranguria. In the male dog, the procedure is sometimes performed via a urinary cystotomy and in such cases, additional complications associated with the cystotomy may be seen.

Urethrostomy (prescrotal, scrotal and perineal) in male dogs

References

Urethrotomy in male dogs

Urethrostomy is indicated for irreparable urethral obstruction from conditions such as urethral stricture, trauma, neoplasia, and priapism. Complications are similar to urethrotomy and include haemorrhage, subcutaneous leakage of urine, urethrostomy stoma stricture formation, urine scalding and ascending lower urine tract infection.

Baines SJ and others (2001) Prepubic urethrostomy: a long-term study in 16 cats. Vet Surg 30, 107. Barth A and others (2005) Evaluation of long-term effects of endoscopic injection of collagen into the urethral submucosa for treatment of urethral sphincter incompetence in female dogs: 40 cases (1993-2000). J Am Vet Med Assoc 226, 73. Fitzpatrick JM and others (1980) Intrarenal access: effects on renal function and morphology. Br. J Urol 52, 409. Gahring DR and others (1977) Comparative renal function studies of nephrotomy closure with and without sutures in dogs. J Am Vet Med Assoc 171, 537. Holt PE (1985) Urinary incompetence in the bitch due to sphincter mechanism incompetence: surgical treatment Vet Rec 26, 237. Kyles AE, Aronsohn M, Stone EA (1996) Urogenital surgery. In: Complications in Small Animal Surgery. Eds. Lipowitz AJ, Caywood DD, Newton CD, Schwartz A p 455. Munch LC (1991) Techniques of nephrostomy. In: Urologic Surgery. 4th edition, Glenn JF (ed), Lippincott, Philadelphia p 177. White RN (2001) Urethropexy for the management of urethral sphincter mechanism incompetence in the bitch J Small AnimPract42, 481.

Perineal urethrostomy in male cats Perineal urethrostomy may be indicated as part of the management of dysuria/stranguria associated with feline lower urinary tract disease (feline urological syndrome). Reported complications include haemorrhage, wound dehiscence, subcutaneous urine leakage, anuria, urinary/faecal incontinence, cystitis/urethritis, and urethral stricture.

Prepubic urethrostomy in male cats Prepubic urethrostomy is indicated for the treatment of urethral trauma, urethral neoplasia, and for the management of 258


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Esophageal diseases that are often misdiagnosed (inflammation, strictures, hernias) Michael Willard DVM, MS, Dipl AVCIM, Texax, USA

ESOPHAGITIS

regurgitation, consider the possibility that esophagitis has occurred secondary to the persistent vomiting. Gastrinoma (a tumor which secretes gastrin and results in massive gastric acid secretion) also causes esophagitis because of the vast and unending amounts of acid the esophagus is exposed to as the dog continually vomits. Gastroesophageal reflux may be potentiated by or even caused by esophagitis (which may be caused by reflux in the first place). Thus, there may be a positive feedback loop which can be hard to break (i.e., esophagitis causes more reflux which causes more esophagitis which causes more reflux which causes...). Rarely there can be spontaneous inflammation, as seen with eosinophilic esophagitis in dogs. Brachycephalic dogs seem to have an increased incidence of gastroesophageal reflux, esophagitis and perhaps hiatal hernia. Finally, esophageal foreign bodies typically cause varying degrees of esophagitis. The esophagus is far more susceptible to pressure necrosis from a foreign body than are the stomach or intestines. You should seek to prevent further gastroesophageal reflux by keeping the stomach as empty as possible by using prokinetics such as metoclopramide or, preferably, cisapride. Studies in people show that cisapride is clearly more effective than metoclopramide. The only real advantage of metoclopramide is that it can be given by injection; a useful fact in animals that are regurgitating profusely. In addition, gastric acid secretion should be minimized and preferably abolished. H-2 receptor antagonists (e.g., cimetidine, ranitidine, famotidine) suppress gastric acid secretion, but they do not eliminate it. This is because they are competitive inhibitors. That means that there is constantly some degree of competition between the H-2 receptor antagonists and the stimuli for acid secretion. Omeprazole, lanosprazole and pantoprazole are non-competitive inhibitors of gastric acid secretion. Therefore, these drugs can be noticeably more effective and can cause near gastric anacidity. You can try to achieve greater efficacy with the H-2 receptor antagonists by doubling or tripling their dose. Sucralfate is of uncertain value in patients with esophagitis. Unless there is some gastric acid reflux into the esophagus (which you are desperately trying to stop in the first place), it is doubtful that the sucralfate is of much use. If you use it, it should be administered as a slurry. A combination of omeprazole and cisapride seems to be the most effective medical treatment regime. Antibiotics are used to treat secondary infections, but nobody really knows if they do anything in this regard. Glucocorticoids have been thought to help retard fibrous connective tissue proliferation

Esophagitis is much more common than many clinicians are aware. The difficult partly arises from the fact that esophagitis can present with clinical signs that lead one to believe the dog is vomiting instead of regurgitating. Furthermore, mild esophagitis may only cause minor signs (mild regurgitation of mucus and phlegm) while severe esophagitis can cause so much pain that patients refuse to swallow water or even saliva. Because there can be so wide a range of clinical signs, it is easy to forget that esophagitis is a differential for a patient. It is critical to identify that esophagitis is present as delayed diagnosis can have serious clinical repercussions. Substantial inflammation of the esophageal mucosa causes muscular weakness by interrupting the reflex arcs within the esophagus and/or between the esophagus and the brain. However, this weakness is not always reflected by finding megaesophagus. Most patients have very minor esophageal distention and yet can have major signs. Likewise, barium esophagrams can have relatively minor changes and not reflect the severity of the esophagitis. Esophagoscopy typically shows an edematous, reddened, bleeding esophageal mucosa, Âą structure formation, making it the diagnostic method of choice to find esophagitis. However, in rare cases, there may be more subtle changes with thickening and discoloration (especially at the lower esophageal sphincter of cats). Adding to this problem is the fact that there is such a wide range of causes of esophagitis. Severe esophagitis may be caused by anesthetic procedures in which animals are placed in dorsal recumbency and then have gastric acid pool in their esophagus for relatively long periods of time. However, gastroesophageal reflux from any cause can be responsible. Hiatal hernias occasionally are responsible for such reflux. Rare animals ingest caustic substances (e.g., lye), and some cats will like caustic disinfectants off their fur. However, a surprisingly large number of animals are administered caustic substances by veterinarians. In particular, tetracyclines, NSAIDs, ciprofloxacin and clindamycin are recognized as having substantial potential to cause esophagitis. Pills and capsules are notorious for lodging in the esophagus of cats, and it is therefore not surprising that doxycycline is a recognized cause of esophageal stricture in cats. Esophagitis may also be secondary to any cause of protracted vomiting. In particular, parvovirus enteritis may cause such intense vomiting that esophagitis results. If a vomiting animal has the character of its vomitus change, which seems to suggest 259


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patient as you evaluate the esophageal lumen. A partial stricture will be very obvious in a 10 lb dog or cat but may not be apparent in an 85 lb animal. Balloon-dilatation or bougienage is usually effective; it is also more likely to be successful than surgery and resection of the affected area. In general, surgical resection should be a last ditch resort and only used if esophageal ballooning or bougienage has failed despite repeated dilatations. However, you must use proper esophageal balloons because Foley catheters and endotracheal tubes with inflatable cuffs will often not allow you to dilate a dense or mature stricture. More difficult cases (i.e., those with extensive strictures or with concurrent severe esophagitis) may benefit from several newer techniques. Endoscopic administration of intralesional steroids may help minimize reformation of the stricture. Typically we inject1-2 ml of triamcinolone at the site of the stricture either before or after ballooning. Special needles are used to perform injections through the endoscope without damaging the biopsy/aspiration channel. Another technique used in difficult strictures is to make 3-4 equidistant cuts into the stricture using an electrocautery device (i.e., either a snare or a knife) prior to ballooning. This helps the stricture to “break” open at multiple spots with the idea that there will be 3 or 4 smaller, less deep lacerations at the stricture site instead of one major, deep laceration which is more likely to restricture. However, you should not attempt to use electrocautery through an endoscope unless you have some training less you cause too much trauma to the tissues or destroy your endoscopic equipment. Another technique is to “paint” the site where the stricture was broken down with Mitomycin (NOT mithromycin C, there is a difference). A 5 mg bottle is reconstituted and soaked up into a gauze sponge. Then this sponge is endoscopically placed on the site where the stricture was broken up for 5 min. Then it is flushed off with 60 ml of water. Finally, for particularly difficult cases, stents may be placed in the esophagus. Depending upon the type of stent, these must sometimes be sutured in place. Stents custom made for dogs may be obtained from the Infiniti corporation (http://www.infinitimedical.com/p_stents.html). The device that allows you to suture the stent in place by means of a flexible endoscope is made by Pare Surgical Inc (http://www.infinitimedical.com/p_stents.html). The major point to remember is that if an animal starts to have problems days to weeks after anesthesia, consider strongly the possibility that an esophageal stricture has developed secondary to esophagitis.

and cicatrix, but their effectiveness is uncertain (and they might predispose to infection). Placing a PEG tube seems to have some real advantages in patients with very severe disease. First, we will then know that the cisapride and omeprazole tablets will reach the stomach. Second, we will also know that the animal will receive its caloric and protein needs, and hopefully with less irritation to the esophagus than would have occurred otherwise. If there is severe esophagitis, cicatrix may form and obstruction develop subsequently. Diagnosis of stricture is best accomplished by esophagoscopy IF the operator is familiar with such obstructions. It is surprisingly easy to pass a slender endoscope through a stricture and never recognize the stricture. It is also surprisingly easy to miss a partial obstruction due to a stricture with a barium esophagram. If you suspect a stricture and must use a barium esophagram to make the diagnosis, use barium mixed with solid food. Balloon-dilatation or bouginage is recommended if a stricture has occurred. Many animals need to have 2-6 dilatation procedures (all the while being treated for esophagitis), although some only need one procedure and some need more than 15. Do not try to resect the stricture unless you have had prior dilatation procedures fail. Hiatal hernias may be more common than suspected. They can be difficult to diagnose, and one may need to put pressure on the abdomen during film exposure to try to push the stomach through the hernia and into the chest so that it can be diagnosed radiographically. Shar Pei’s seem to have a relatively high incidence of hiatal hernias. Gastrinoma is another cause of esophagitis. Dogs with this tumor usually vomit profusely and thus burn the esophagus by the large volumes of gastric acid which pass through it. Most affected dogs have vomiting, diarrhea, and weight loss. Increased serum gastrin concentrations are necessary for diagnosis. Aggressive H-2 receptor antagonist therapy can be used, but omeprazole is preferred.

CICATRIX Cicatrix (i.e., scarring) may occur after an episode of severe esophagitis from any cause (including foreign objects). It is particularly easy to miss this problem on a barium swallow if only liquid barium is used. If radiographs using liquid barium are nonrevealing, repeat the study using barium mixed with food, which is more likely to stop at a partial obstruction. Endoscopy is very good at finding these lesions; however, you must keep in mind the size of the

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Gastrointestinal hemorrhage - ulcers, erosions and more Michael Willard DVM, MS, Dipl AVCIM, Texax, USA

When there is a substantial amount of blood being ejected from the mouth, there tend to be 3 major reasons: coagulopathy, swallowing blood from elsewhere and gastrointestinal ulceration/erosion (GUE).

Hepatic failure seems to be another important cause of GUE in the dog. Anytime a dog with hepatic disease suddenly becomes clinically worse (especially if it becomes obviously encephalopathic), you should consider the possibility of GUE. Gastric tumors, leiomyomas and leiomyosarcomas in particular may cause dramatic bleeding. This is especially important because this tumor is often curable with surgery, as opposed to lymphomas and carcinomas that are more common, have less dramatic signs, seldom cause GI blood loss and yet have a much worse prognosis. Unfortunately, it can be hard to adequately image the stomach with ultrasound, and these masses can be missed if there is blood, ingesta and/or air in the stomach. Gastrinomas are typically small pancreatic tumors which produce large quantities of gastrin, a hormone which causes gastric acid secretion. Multifocal duodenal ulceration/erosion is very suggestive of this tumor, as is a large ulcer just past the pylorus (as for mast cell tumors).

Coagulopathies: Most coagulopathies cause concomitant bleeding from the nose or accumulation of blood in body cavities or petechia. However, there are many cases in which the only sign of a systemic coagulopathies is GI bleeding. Therefore, it is always appropriate to check the platelet count and some measure of clotting factor adequacy in animals with hematemesis or GI blood loss. Ulcers and erosions: The most common causes of chronic, unresolving GUE that are also the easiest to check for are mast cell tumor, drug administration and “stress”. Drugs are still a very important cause of GUE in the dog, despite all the newer, “safe” NSAIDs. High doses of dexamethasone also have substantial potential for significant GUE. Prednisolone by itself is generally not ulcerogenic unless it is used in very high doses (e.g., > 2-3 mg/lb/day) or is administered to a patient with other “ulcerogenic” risk factors (e.g., hypoxia, poor perfusion), and even then it is not particularly bad. Combining steroids and non-steroidal drugs can be devastating. You can use ultra-low dose aspirin (0.5 mg/kg once daily) when treating IMHA dogs with steroids. There continues to be a substantial problem with the use of nonsteroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs). While the newer Cox-2 NSAIDs (e.g., carprofen, etogesic, deracoxib, meloxicam, etc) have much less potential for causing GUE than the older NSAIDs, you can still see GUE (and even perforation) due to these drugs. The problem often revolves around using inappropriately high doses (after all, the drug is so safe that...), using the drug at the wrong time (e.g., when the patient is experiencing shock or has poor perfusion to the alimentary tract), and possible using the drug too soon after stopping some other NSAID. Stress, when mentioned as a cause of ulcers, specifically refers to substantial decrease in visceral perfusion (e.g., hypovolemic shock, neurogenic shock, Systemic Inflammatory Response Syndrome) that is typically obvious from history and/or physical examination; or, it can refer to extreme exertion (e.g., sled dogs running in subzero weather for 100 miles). Mast cell tumors may look like any skin lesion. In particular, they can perfectly mimic the appearance and feel of lipomas, such that the only way to distinguish them from lipomas is by aspirate cytology.

Ingesting blood: This is a possibility that is typically forgotten. However, it is surprisingly easy to have bleeding pulmonary lesions in which the blood is coughed up, swallowed, and later vomited. Clinical approach to the patient with hematemesis or GI bleeding: There is often something in the history that is suggestive of the cause of the bleeding (e.g., use of NSAIDs, shock, etc). If that is the case, then it is often reasonable to begin appropriate therapy after requesting basic laboratory testing (e.g., CBC, serum chemistry panel) to determine the severity of the bleeding and if there are other diseases (e.g., hepatic disease, renal disease) present. Imaging (especially ultrasound) is typically appropriate but not necessarily imperative at this time. If the cause of the GI bleeding or hematemesis is not obvious, if the patient has not responded to 5-7 days of appropriate therapy, or if the bleeding is severe, then additional diagnostics are important and should be performed promptly. Diagnostic approach: First, as stated above, it is wise to first eliminate coagulopathy with a platelet count and some measure of clotting factor adequacy. I typically request PT and PTT, but a mucosal bleeding time is a very useful screening test in these patients. Sometimes there is both a mucosal defect and a coagulopathy. In particular, if ehrlichiosis is possible, one must consider the possibility that the patient has what would normally be an insignificant mucosal defect but 261


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which is bleeding because of the effects of Ehrlichia spp. upon platelet numbers and their function. After coagulopathy has been eliminated, then imaging should be done if it has not already occurred, and ultrasound is especially important as it may reveal masses that can be aspirated percutaneously, thus avoiding the need for endoscopy/surgery. If these tests have not revealed the diagnosis, then gastroduodenoscopy is generally performed next. The specific reasons to do gastroduodenoscopy in a patient with GI bleeding are to: a) determine if this is a case in which surgery can remove a defined number of ulcers (this is for cases that are bleeding and have not responded to medical management or cases that are bleeding so badly that one cannot wait on medical management). In these cases, it is important to be sure that bleeding is not due to widespread erosions that cannot be cured surgically. There is no relationship between the size of the mucosal defect and the amount of bleeding; patients with lots of small erosions often bleed as bad or worse than patients with ulcers. It is also important to determine the number and location of such ulcers as they may be hard to find during a gastrotomy. b) determine if there is a gastric tumor or some other infiltrate in a patient with GUE that is non-responsive to appropriate therapy. c) determine the cause in a patient with GUE and no apparent cause on the history, physical examination, or routine blood work. d) look for a cause of bleeding in a patient with GI blood loss of unknown cause. It is important to note that endoscopy will not generally allow one to determine if an ulcer will or will not respond to medical management. In most cases, only by treating and observing the patient will you know. It is important to not give carafate within 24-36 hr before endoscopy because it will cover the lesions and make evaluation more difficult. It is best if food has been withheld for at least 24 hours. Avoid prokinetics (e.g., metoclopramide). Endoscopy of these patients may be difficult is there is substantial blood present in the stomach. If a cause of upper GI bleeding cannot be found in the stomach or duodenum, strong consideration should be given to examining the trachea, bronchi, and choana while the patient is anesthetized. Patients with hematochezia may benefit from colonoileoscopy, but patients with hematemesis or melena rarely benefit from lower endoscopy. If there is substantial upper GI blood loss and these tests do not allow diagnosis, then exploratory surgery is the next step. However, it is very easy to not be able to find the cause of the bleeding in these patients, so warn the owner before doing the procedure.

Medical management: If the patient is not exsanguinating, the cause is known or strongly suspected, and the patient has not had 5-7 days of appropriate medical therapy, then medical therapy is often reasonable as opposed to doing a major diagnostic work up. In distinction, if the patient is exsanguinating or if the patient has not shown any appreciable response to 5-7 days of appropriate medical therapy for the ulceration, then it is usually reasonable to surgically resect the ulcerated area. If surgery will be considered, it is usually very wise to perform gastroduodenoscopy before the surgery to be sure that you find all of the sites of ulceration. It is very easy to fail to detect an ulcer at surgery, and endoscopy usually allows one to easily find all areas of ulceration. Sometimes intraoperative endoscopy is necessary to help the surgeon find the ulcer(s). If medical management is elected, first be sure to remove the cause of the GUE. If the cause is not removed, medical management tends to be far less successful. Next, be sure that the patient is well hydrated; healing of the gut requires or is at least benefitted by adequate perfusion. If there is significant gastroduodenal reflux of bile, metoclopramide or cisapride may be helpful in preventing bile from entering and/or staying in the stomach and augmenting the ulcerogenic process. H-2 receptor antagonists are commonly used. The primary value of the H-2 receptor antagonists is in treating existing ulcers and erosions. They can be helpful in preventing some types of ulcers, but this is not true with all types of ulcers (e.g., they are not effective in preventing ulcers due to NSAIDs or due to steroids). Proton pump inhibitors are the most effective antacid drugs we have. The dose of omeprazole is 0.7-1.5 mg/kg qd, although I have often used it at up to 2 mg/kg bid in patients with severe reflux esophagitis or gastrinomas. The dose of lanosprazole (Previcid) and pantoprazole (Protonix) is 1 mg/kg IV (not approved for use in dogs). It generally takes 2-5 days for a PPI to have maximal efficacy; therefore, you will sometimes start with an H-2 receptor antagonist while waiting for the PPI to attain maximal efficacy. Misoprostol (Cytotec®) is a prostaglandin E analog which was primarily designed to be a prophylactic drug used to prevent GUE due to NSAIDs. The main indications to use it appear to be a) the patient that must have NSAID’s to function, but which evidences side-effects from them (e.g., anorexia, vomiting) and b) the patient that seemingly needs to receive NSAID’s that have substantial potential for such side-effects (e.g., piroxicam). Sucralfate seems to be extremely effective in protecting those areas which are already ulcerated and helping them heal. The only common side-effect is constipation.

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Chronic vomiting in dogs and cats Michael Willard DVM, MS, Dipl AVCIM, Texax, USA

Differential diagnoses for animals that have chronic vomiting: Most patients with chronic vomiting that is not due to motion sickness have either a) alimentary tract obstruction, b) peritoneal or gastrointestinal inflammation, or c) any of several extra-alimentary tract (i.e., “systemic”) diseases. Occasionally, there are other causes such as CNS dysfunction, but these causes are rare. Gastric outlet obstruction may be caused by foreign objects, tissue proliferation, malpositioning of the stomach, or may be iatrogenic (i.e., due to poorly preformed surgery, especially pyloromyotomies). Contrary to what is suggested in some texts, you cannot diagnose or eliminate gastric outlet obstruction based upon the presence or absence of electrolyte changes. Even the so called “classic” hypokalemic, hypochloremic, metabolic alkalosis due to gastric vomiting is neither sensitive nor specific for gastric outflow obstruction. Finding such laboratory abnormalities simply means that a substantial amount of gastric fluid has been lost (or that furosemide has been administered). The specific diseases causing gastric outlet obstruction that are more difficult to diagnose or that are easy to misdiagnose include antral mucosal hypertrophy, gastric carcinoma, spontaneously resolving partial gastric dilatation-volvulus and iatrogenic obstruction due to poor surgical technique. Gastric antral mucosal hypertrophy grossly resembles an adenocarcinoma. Gastric antral mucosal hypertrophy is usually found in older, small-breed dogs – the same signalment that is so suggestive of gastric tumor. However, mucosal hypertrophy has a much better prognosis because surgery (i.e., pyloroplasty, not pyloromyotomy) is curative. It is not possible to differentiate gastric antral mucosal hypertrophy from cancer based upon gross appearance. Therefore, appropriate (i.e., deep enough and large enough) biopsy is always indicated before suggesting euthanasia, no matter how obvious the diagnosis appears. Gastric malignancies are infiltrative lesions that may be proliferative and/or ulcerative. Chow chows seem to have an inappropriately high incidence of these tumors. These lesions usually have a very poor prognosis unless they are diagnosed very early. Unfortunately, these tumors are rarely diagnosed early because the most common clinical sign of gastric tumors (and for many patients with gastric disease, for that matter) is anorexia, not vomiting. The problem is that when an older animal does not want to eat as well as it used to eat, the change in appetite is often attributed to the pet’s “getting along in years”. Subsequently, nothing much is done until the problem is severe or the animal is losing

significant amounts of weight or the animal starts vomiting. This means that these animals are often not given aggressive diagnostic work ups early in the course of the disease, which is when the clinician would have the best chance of curing the disease. However, if the tumor is at the pylorus, then obstruction may occur relatively early in the course of the disease, making early diagnosis and curative surgery more likely. Abdominal ultrasound is typically the first step in such patients, and should generally be done before endoscopy, if possible. It is easy to miss infiltrative gastric lesions with an ultrasound, but if one if found, one may attempt to diagnose it with percutaneous fine needle aspiration. While it is common to not obtain diagnostic samples due to so many tumors being scirrhous, it is a quick, safe technique that occasionally is diagnostic (especially for lymphomas). Even when endoscopy will be done, ultrasonography may find submucosal lesions that can be easy to miss endoscopically. Clinicians are often reluctant to endoscope patients that have anorexia as their only sign of disease; however, that is wrong. While it is true that most of the time you will find little or nothing when you do scope patients with unexplained anorexia, you should still recommend endoscopy because this is your best chance of finding gastric diseases (especially malignancies) while they are more likely to be treatable. However, it is also possible to make mistakes during gastroscopy. In particular, tumors which are submucosal (i.e., are not invading the mucosa) may have normal appearing mucosa overlying them and be missed if a biopsy is too superficial (something very possible with flexible endoscopy). Gastric foreign objects are common and are usually responsible for vomiting, anorexia, and/or abdominal discomfort when they are present. However, the mere presence of a foreign object in the stomach does not guarantee that it is causing that animal’s clinical signs. If there is any doubt about whether a particular foreign body is causing vomiting (e.g., some cloth that is not obstructing the pylorus or causing a liner foreign body effect) you should biopsy the gastric and duodenal mucosa while you are removing the foreign object so that you have tissue samples for histopathology in case the animal continues to vomit after you have removed the object. Bilious vomiting syndrome is a situation in which otherwise normal animals vomit bile, usually in the morning, shortly after getting up. Typically, these patients are otherwise normal. This is also a diagnosis of exclusion. It appears to be some sort of gastroduodenal reflux syndrome. Feeding 263


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the dog just before it goes to sleep, or sometimes giving a prokinetic (e.g., metoclopramide or cisapride or erythromycin) late at night before it goes to sleep usually solves the problem. Extra-alimentary tract (i.e., “systemic”) diseases that especially must be considered in dogs and cats that are vomiting are: 1) renal failure, 2) adrenal hypofunction, 3) hypercalcemia, 4) diabetic ketoacidosis, 5) acute pancreatitis, 6) hepatic inflammation/hypofunction, 7) feline hyperthyroidism, and 8) pyometra. Alimentary tract inflammation can be the most difficult of the three main categories to diagnose. You cannot rely on CBC’s or radiographs or ultrasonography; you need appropriate biopsies in order to make this diagnosis. Diagnosis of gastric Helicobacter infection is usually obtained by cytology, urease testing of gastric mucosa, and/or histopathology of gastric mucosal biopsies. Histopathology is more than adequate for diagnosis in almost all dogs and cats. Cytology (which is actually a bit more sensitive than biopsy) is performed on gastric mucosal biopsy samples or on cytology samples obtained with endoscopic brushes. Slides can be stained with new methylene blue or Diff Quick or various other techniques. Treatment in people has involved a variety of combinations of drugs. Macrolides may be the most effective antibiotics. There are anecdotal reports of erythromycin working well as a single agent in some cats and dogs. Clarithromycin and azithromycin have been used with apparently good success in infected people. The currently recommended dose of azithromycin appears to be 5 mg/kg qd for cats and 10-40 mg/kg qd to bid for dogs. Azithromycin has fewer side effects than erythromycin but is more effective. Use of omeprazole to eliminate gastric acidity seems to make antibiotics more effective. Omeprazole is, in people at least, distinctly more effective for helping to eliminate Helicobacter infections than either cimetidine or famotidine. Combinations of omeprazole, azithromycin, and metronidazole seemingly only need to be given for 7-12 days to effect a cure in people. However, because dogs and cats are infected with Helicobacter species other than H. pylori, much less aggressive therapy is typically satisfactory. Famotidine (0.5 mg/kg bid), amoxicillin (10 mg/lb bid), and metronidazole (10-15 mg/kg bid) for 12-14 days appears to be more than adequate; however, re-infection or recrudescence seems common. The fundamental question is whether we should treat animals with upper gastrointestinal signs for Helicobacter

infections. One cannot rely upon the presence or absence of gastric inflammatory infiltrates to be able to determine the clinical significance of the presence of Helicobacter. One study found that cats that were not vomiting were just a likely to have these spirochetes and gastric inflammation as were cats that were not vomiting. Because of our inability to look at a gastric biopsy and determine if the bacteria are responsible for the clinical signs, our current approach is to first determine if there are any other potential causes for the vomiting in the patient. If there is another potential cause that looks as or more likely to be causing the vomiting, we treat it first. If this treatment does not work or if there is no other identifiable cause of vomiting, then one may treat for gastric Helicobacter and see if the patient responds. It is also reasonable to treat vomiting dogs and cats for Helicobacter gastritis before proceeding with more aggressive diagnostics such as endoscopy. However, particularly ill animals should generally first have diagnostics. There is no evidence that dogs and cats are a zoonotic risk for H. pylori infection in people. Helicobacter heilmannii is distinctly less common as a human pathogen than is H. pylori, but dogs and cats may be a risk factor for human infection with this organism. At the time of this writing, it is still not clear how most people become infected with Helicobacter pylor, but dogs and cats do not appear to be involved. Focal gastritis is a potentially confusing problem. Gastric lesions may be relatively focal and yet cause major vomiting. Lesions at the lower esophageal sphincter may be especially hard to diagnose since they are only diagnosed by the retroflexed view when doing gastroscopy. Lesions of the ascending colon or ileo-colic area or cecum may also cause vomiting, especially in cats. The interesting point is the animal may have absolutely no other signs to indicate the lower intestinal involvement (e.g., diarrhea). Salivary gland disease has been associated with some clinicians as a cause of intractable gagging and vomiting. In many cases, there are no microscopic lesions in grossly enlarged salivary glands (i.e., sialoadenosis) while in some patients inflammation and/or infarction is present (i.e., sialoadenitis). At this time, cause-and-effect have not clearly been established. Furthermore, we have seen vomiting patients with large, diseased salivary glands that regressed once a gastric foreign body was removed. All that can be said at this time is that salivary gland enlargement can certainly be the effect of and may possibly be the cause of chronic gagging and vomiting.

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Chronic small bowel diarrhea IBD is NOT the most common cause Michael Willard DVM, MS, Dipl AVCIM, Texax, USA

Once parasites, protein-losing enteropathy, and maldigestion are eliminated (i.e., you have determined that the patient has a non-PLE malabsorptive disease), the question is whether to recommend therapeutic trials or a major diagnostic work up. If the patient can tolerate a possible delay of 48 weeks without undue risk, then therapeutic trials are reasonable. If therapeutic trials are performed, they must be designed such that even if they fail, useful information is obtained and the clinician is further ahead than previously. Always ask yourself: “If this therapy fails, will I really know more about what the patient probably has, or will I be as confused as I was before treating it?”. Antibiotic-responsive enteropathy (ARE) seems to be a relatively common problem in dogs. It can best be described as a syndrome in which there are substantial numbers of bacteria in the upper small intestines AND the host responds to them in such a manner as to cause intestinal dysfunction. These bacteria are not usually obligate pathogens. Rather, they can be of any species, and E. coli, Staph, Strep, and Corynebacterium are particularly common aerobic/ facultative anaerobic bacteria found in the upper small intestines, while Clostridium and Bacterioides are especially common anaerobic bacteria. These bacteria are probably commensals or they may represent contamination from ingested material which is not eliminated by normal host defense mechanisms. The signs they produce, if any, seemingly depend upon at least two factors: a) which bacteria are present and b) how the host responds to them. The relationship of ARE to IBD is unclear, but it seems very possible that bacteria could be responsible for either initiating and/or perpetuating the intestinal inflammation we call IBD. The term “dysbiosis” has been suggested as the bridge between ARE and IBD – that is to say that having bacteria that are somewhat prone to cause problems (i.e., usually enterics such as E. coli) as opposed to having overt pathogens. Antibiotic-responsive enteropathy is hard to definitively diagnose with laboratory tests. Histopathology and cytology of the intestinal mucosa are extremely insensitive at detecting ARE. Serum cobalamin and folate concentrations have been used for diagnosis, and finding both a low serum cobalamin and an increased serum folate concentration has been considered to be relatively specific for ARE. Measuring serum cobalamin and folate concentrations is relatively insensitive and non-specific for detecting ARE. There are many dogs with chronic GI disease that respond to antibiotic administration but which have normal cobalamin and/or normal folate concentrations. It would seem that treatment

for ARE is justified regardless of whether the serum cobalamin and folate concentrations are normal or abnormal, leading one to ask whether there is any benefit to measuring them to diagnose this disorder. Finding hypocobalaminemia or low serum folate levels is beneficial when looking for otherwise occult gastrointestinal disease. Supplementing cobalamin can clearly make cats feel better and diarrhea diminish. In fact, it is almost getting to the point where it is never wrong to give any sick cat cobalamin injections, regardless of blood values of the vitamin. Severe hypocobalaminemia has been suggested to be a poor prognostic signs. While the value of supplementing cobalamin to cats is clear (in fact, it is almost never wrong to give any sick cat supplemental cobalamin), the clinical value of administering cobalamin to dogs with low serum cobalamin concentrations is very uncertain. Culture of the small bowel was once considered the “gold standard”, but this test is fraught with problems. First, it is technically hard to do it correctly. Samples must be obtained without contaminating them with oral secretions. Then they must be processed correctly in an expedient manner so as not to lose any anaerobic bacteria while not allowing the numbers of aerobes to increase. Many investigators have snap frozen fluid samples to culture them later, but such freezing appears to kill large numbers of bacteria, especially anaerobic bacteria. We now know that culture only detects about 30% of the bacteria in the gut; the other 70% cannot be cultured. This makes one seriously question the value of culture unless one is searching for a specific pathogen, and even then there are culture-less methods (e.g., PCR) that may be better. Finally, as has already been said, just culturing bacteria from the small bowel does not allow one to make a diagnosis of a bacterial disease of the small intestines. Large numbers of bacteria (i.e., > 107 CFU/ml) can be present in dogs without any evidence of any clinical disease. For these reasons, we very rarely culture the small intestine of dogs with chronic GI disease. However, there are rare patients that appear to have ARE and yet are resistant to treatment with commonly used antibiotics. Seemingly, these dogs may have one or two very resistant bacteria in their GI tracts, and culture may be required to determine what antibiotic will be effective. However, we have only seen this scenario twice, and we believe it to be very rare. Because of the apparent difficulty in diagnosing ARE with lab tests, empirical antibiotic therapy is often chosen as a means to diagnosis instead of laboratory tests. The obvious drawbacks to this approach are a) clinical “response” of the 265


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patient to the administered antibiotics may be due to the antibiotics or may be due to something else, b) if the patient did not respond to the antibiotic, it may be that you used the wrong antibiotics, and c) even if the patient does have ARE, there may be yet another disease present (e.g., a tumor causing a partial intestinal obstruction) which predisposed the patient to the ARE. Because any bacteria can be present in the upper small intestine, the species of bacteria in the upper small intestine may change from week to week, and we seldom know which bacteria we are treating, broad spectrum antibiotics designed to lessen bacterial numbers seem to be indicated. You can never sterilize the GI tract. However, because clinical signs are due to a combination of large numbers plus an altered host response, simply lessening the numbers of bacteria often seems beneficial. Oral aminoglycosides were generally considered a poor choice to treat ARE because anaerobic bacteria (which have been suggested to be more of a problem) are resistant to aminoglycosides. However, this opinion is not clearly correct as there are occasional patients that clearly improve when given amikacin orally. Tetracycline is often effective; but, giving tetracycline is inconvenient. Tetracycline must be administered alone (i.e., without any food) and yet be washed down with water to ensure that the capsule to tablet does not stick in the esophagus and cause esophagitis. Tylosin powder has also been useful and is revered by many clinicians. Some clinicians like metronidazole; however, I have not been impressed with the efficacy of metronidazole for ARE. Metronidazole seems to have real benefit in many GI disorders, probably because it is so effective in eliminating many anaerobic bacteria. For patients that are EXTREMELY ill in which we need to know RIGHT NOW whether or not it will respond to antibiotics (i.e., that patient is so ill that you cannot take a chance of being 2-3 weeks from now and not having a response to therapy), I use a combination of enrofloxacin, cephalosporin and metronidazole. I did not say that I used this combination for long periods of time. I use this combination when I absolutely have to know whether or not I will have a clinical response within the next 2-3 weeks or take a chance on losing the patient. Regardless of which drug is used, such a therapeutic trial should be performed for at least 2-3 weeks before a deci-

sion is made as to its efficacy. Remember, you must not only suppress the numbers of bacteria, but you must also allow the intestinal mucosa time to heal. Finally, it appears that concurrently feeding a high quality elimination diet can substantially enhance the efficacy of the antibiotic therapy. Therefore, we now routinely use both in our therapeutic trials. If the patient appears to respond to this therapeutic trial of elimination diet and antibiotics, then it appears best to continue everything unchanged for an additional 2-4 weeks to be sure that the patient responded to this therapy (as opposed to the patient having some fortuitous, transient response to who-knows-what). If the patient is still doing well at that time, then you either a) stop the antibiotics and see if they diet alone is sufficient to control signs or b) slowly wean the antibiotics to their lowest effective dose (e.g., once a day or even once every other day). It all depends upon how frequently the clinical signs occur. If the signs occur once every 2 + months, then it obviously makes sense to only treat when the patient is symptomatic. If the signs consistently recur within a few days of stopping the antibiotics, then you are probably stuck with treating almost constantly. This latter situation is one of the two times in veterinary medicine that I am aware of in which it is reasonable to look for the lowest effective dose of an antibiotic. Some patients only need antibiotic administration every 2 to 3 days in order to maintain control. In some cases, the patient will breakthrough and re-develop clinical signs after several weeks or months, and a different antibiotic must be used. If the decision is made to stop administering the antibiotics, then the owners should be warned that it is possible that the signs are likely to recur at some point. For ARE to occur, there is probably some defect in host defense mechanisms that allowed the commensal bacteria to cause the clinical signs, and this defect is unlikely to disappear. The question is how severe is the defect (i.e., is the dog likely to have problems continually or only once in a while)?. You should warn the clients that they are likely to have to deal with this problem repeatedly and you need to explain the difference between “cure” and “control”. Other options that are becoming increasing more interesting are prebiotic and probiotic therapy. In particular, these therapies are being looked at as possible alternatives to protracted antibiotic therapy.

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Protein-losing enteropathy Michael Willard DVM, MS, Dipl AVCIM, Texax, USA

Perhaps the most important point of this discussion is that while hypoalbuminemia has repeatedly been reported to be a poor prognostic sign in patients with chronic GI disease, there may be one or more subset(s) of patients that respond well to appropriate therapy. Therefore, diagnosing PLE is not necessarily cause for despair. However, since many of these animals have severe alimentary tract disease that needs to be diagnosed promptly to maximize the chance for successful therapy, aggressive diagnostics are typically an appropriate recommendation. Although therapeutic trials can be chosen in place of classic diagnostic tests in many of the more common alimentary tract diseases (e.g., dietary allergy, dietary intolerance, antibiotic-responsive enteropathy, parasites), such an approach is generally ill-advised if the serum albumin concentration is less than 2.0 g/dl. This is true because it may be necessary to perform an antibiotic and/or dietary therapeutic trial for 3-6 weeks in order to ascertain if it is being effective, and a patient with severe PLE can become markedly worse in that time, especially if the serum albumin concentration is falling rapidly. Any GI disease can cause PLE if it is severe enough. Many acute GI disease cause PLE (e.g., parvoviral enteritis); however, these diseases typically are comparatively easier to treat than the chronic GI disease causing PLE. Therefore, the focus in this lecture is PLE in animals with chronic GI disease. The major causes of PLE in adult dogs tend to be intestinal lymphangiectasia, inflammatory bowel disease (IBD), alimentary tract lymphoma (LSA), and fungal infections (i.e., histoplasmosis and pythiosis). Other causes include alimentary tract ulceration/erosion, severe disease of intestinal crypts, antibiotic-responsive enteropathy, and parasites. The major causes of PLE in juvenile dogs tend to be parasites and chronic intussusception. Cats with PLE usually have IBD or alimentary tract lymphoma. Many dogs with PLE have hypocholesterolemia. Pets with protein-losing nephropathies usually have hypercholesterolemia, while those with hepatic insufficiency often have hypocholesterolemia. Fecal examinations for parasites are appropriate. Although parasites are an uncommon cause of PLE in adult animals, pets in select environments (e.g., confined areas where patiens can reinfect themselves) may incur substantial parasitic loads. Once PLE has been diagnosed, intestinal biopsy is usually the ultimate means of establishing a diagnosis. Biopsy can be done via laparotomy, laparoscopy, or endoscopy. Feeding a small, fatty meal (use canned food, not dry, and add in cream or corn oil) the night before the procedure might (?) make it easier to diagnose

lymphangiectasia. Flexible endoscopy, when done by someone who is trained in how to take diagnostic tissue samples and submit them is usually more than adequate to obtain diagnostic samples. However, if endoscopy will be used to biopsy the small intestines, it is preferable to first ultrasound the abdomen to make sure that there are no focal infiltrates that are out of reach of the endoscope, or which might be more easily diagnosed by ultrasound-guided fine needle aspiration. Furthermore, there are ultrasonographic changes (streaks in the submucosa) that can be diagnostic. If flexible endoscopy will be done, one should biopsy both the duodenum and ileum. Intestinal lymphangiectasia seems particularly common in Yorkshire terriers and Soft-Coated Wheaten terriers, but may occur in any breed. Sometimes these dogs have distinct ultrasonographic findings: “steaks” in the mucosa that represent dilated lymphatics. While histopathology is obviously the desired means of diagnosis, one can sometimes make a definitive diagnosis based upon grossly visible endoscopic findings (i.e., numerous, erratic, grossly engorged lacteals seen as large white blebs on the mucosa). These lesions are “fragile” and apparently may be destroyed by biopsying them (both endoscopically and surgically) if the endoscopist or surgeon is not careful. It is important to note that lymphangiectasia can be a relatively localized disease in the intestines, being present in only the ileum or only the jejunum or only the duodenum; therefore, it is important to biopsy as much of the intestinal tract as possible. Furthermore, if one biopsies the intestines and cannot find a cause of PLE, sometimes lymphangiectasia can be tentatively diagnosed by elimination (i.e., by eliminating IBD, lymphoma, parasites, intussusception, fungal infections, etc). Diagnosis by means of endoscopic biopsy is certainly possible if the endoscopist is trained in taking high quality tissue samples. However, recent work has demonstrated that poor quality mucosal biopsies (e.g., primarily villus tips or substantial “squash” artifact) makes is much more difficult or even impossible to find the lesions. If one is taking high quality tissue samples (i.e., total length of the villi plus subvillus mucosa down to the border of the mucosa and muscularis mucosa), it typically takes about 6-7 tissue samples to have 90-99% confidence in finding lymphangiectasia. However, it can take 5-7 times as many tissue samples to have the same assurance if you are obtaining poor quality tissue samples that primarily consist of villus tips. When doing endoscopy, it is important that ileal biopsies be taken in addition to the typical duodenal biopsies. We are 267


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finding that ileal biopsies often reveal lesions not found on duodenal biopsies. This is true for lymphangiectasia as well as lymphoma and other lesions. With basic training, an endoscopist should be able to obtain ileal biopsies endoscopically at least 85% + of the time. Typically, ileal biopies are often of higher quality than duodenal biopsies. Therapy for intestinal lymphangiectasia revolves around an ultra-low fat diet, preferably with anti-inflammatory therapy designed to alleviate the lipogranuloma formation that commonly occurs within the intestinal wall and/or mesentery. Supplementation with medium chain triglyceride oil (MCT) used to be recommended because MCT oil supposedly bypasses intestinal lymphatics thus preventing further rupturing of the lacteals. Pancreatic enzymes were often added to the diet to ensure digestion of the medium chain triglyceride oil. MCT oil is seldom used anymore, probably because appropriate dietary therapy is usually more than sufficient. Feeding homemade diets that are highly digestible and ultra-low in fat (e.g., white turkey meat plus potato or rice) or feeding commercial diets is often very helpful in these patients. Commerical low fat diets can be used very successfully, but they need to have the lowest possible fat content. Such a diet can be so successful that it might occasionally be appropriate to use it as a therapeutic trial. Dogs with lymphangiectasia often show a marked increase in serum albumin concentration within 7-14 days of starting such a diet. The important of lipogranulomas in the intestinal wall and mesentery is uncertain. However, it is hypothesized that some patients fail to respond to appropriate dietary therapy because of formation of very large or excessive numbers of lipogranulomas that so completely obstruct the intestinal lymphatics that even an ultra-low fat diet cannot prevent lacteal rupture. Therefore, once a diagnosis of lymphangiectasia is made (either by histology, grossly at endoscopy, or tentatively by response to an ultra-low fat diet), it seems to be appropriate to use anti-inflammatory therapy designed to prevent granuloma formation/enlargement. Prednisolone, azathioprine, and/or cyclosporin are commonly used for this purpose. I do not like prednisolone, simply because of all the side effects it has in these patients. Be aware that if you use cyclosporine, it is critical that you measure blood levels of the drug. Not

only is there a major difference between patients in how much they absorb, but the bioavailability of the same product may change as the intestine heals. If the serum albumin is very low (e.g., ≤ 1.3 gm/dl), one is often tempted to administer a plasma transfusion while waiting to see what effect the diet will have. However, it is exceedingly difficult to increase the serum albumin concentration by transfusing PLE patients with plasma because so much of the albumin is quickly lost out the gut. You would probably have to give at least two units of plasma to a 15 lb dog in order to raise the serum albumin from 1.0 gm/dl to 1.8 gm/dl, and sometimes you would have to give 3 or 4 units. If it is critical to raise the plasma oncotic pressure, then administering hetastarch may be preferred because it costs less than plasma and it stays in the intravascular compartment longer than albumin. These patients may be a increased risk for hypomagnesemia which may potentiate the problem of hypocalcemia. At this time, we do not know how important it is to supplement magnesium to patients, but severe hypomagnesemia can be resolved by a constant rate infusion of maganesium sulfate. Anecdotally, octreotide might help some patients that do not respond to more conventional therapy. Lesions of the intestinal crypts have been recognized as being associated with PLE in dogs. We have identified two different lesions of the small intestinal crypts that can cause PLE. One type is characterized by crypts (usually duodenal) that are filled and somewhat distended with proteinaceous fluid and necrotic inflammatory cells. While such dilated crypts can be found in many animals, including clinically normal dogs, finding large numbers of them in multiple tissue samples seems to be consistently associated with PLE. We do not know if this is a cause-and-effect relationship, or if the dilated crypts are simply a marker for some other process but are not causing the protein loss themselves. Several of these patients have responded to therapy with elemental diets, total parenteral nutrition, prednisolone, azathioprine, and/or metronidazole. We have seen this lesion associated with IBD as well as lymphangiectasia (especially in Yorkshire terriers). These lesions are extremely easy to miss if poor quality endoscopic biopsies are performed.

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Infiltrative intestinal disorders Michael Willard DVM, MS, Dipl AVCIM, Texax, USA

Once small intestinal disease is diagnosed, the next question is whether there is a protein-losing enteropathy (PLE) or not. Check the serum albumin concentration (NOT the total protein) to make this determination. While it is certainly possible to have PLE and a normal serum albumin concentration (i.e., the disease has not gone on long enough yet to cause hypoalbuminemia), we generally reserve using the term PLE for those dogs which have hypoalbuminemia even though this is not technically correct. If the patient has a serum albumin < 2.0 g/dl that is not caused by renal loss or hepatic insufficiency, then we typically diagnose PLE by default. Inflammatory bowel disease (IBD), depending upon how you define it, is not the most common cause of chronic small or large bowel diarrhea in dogs and may not be as common in cats as was once believed. In this discussion, we will define IBD as “idiopathic inflammation of the intestines”. This means that you cannot diagnose IBD just by histopathology. You diagnose IBD by finding intestinal inflammation and showing that it is idiopathic by eliminating diet, parasites, bacteria and fungal agents as the cause. You cannot eliminate dietary causes and bacterial causes by histopathology or blood tests; therapeutic trials are necessary. This is very important because diagnosing IBD generally results in antiinflammatory or immunosuppressive drugs being used. However, if the patient has dietary-responsive or antibioticresponsive disease, then these drugs are generally unnecessary. I stress this point because many patients have been erroneously diagnosed, improperly treated, and significantly harmed because IBD is a “fashionable” or “trendy” diagnosis. IBD is a real syndrome and is important for the veterinary practitioner to understand. However, it often degenerates into an excuse of convenience rather than a real diagnosis. More and more evidence is accumulating that shows that bacteria are probably a major source of the inflammation in dogs and cats with this disease.

If these drugs are effective, the dose may be slowly decreased (over several weeks) to the lowest effective dose to avoid iatrogenic hyperadrenocorticism. Lymphocytic plasmacytic enteritis (LPE) is primarily a disease of middle-aged to older dogs. It is rarely seen in young dogs; I am not saying that it never occurs in young dogs, simply that it is very rare in young dogs. If you receive a diagnosis of IBD in a 1 or 2 year old dog, I recommend a second opinion on the histopath slides. When severe LPE is present, it can be more difficult to treat than eosinophilic enteritis. Some canine LPE patients respond well to elimination diets, and you should always use such a diet when treating this disorder. However, high dosages of corticosteroids (i.e., 2.2-4.4 mg/kg/day) may be necessary. Metronidazole (10-15 mg/kg, q12hr) should also be used because it may be as or more useful than steroids and it usually has fewer side-effects. Azathioprine may also be needed for dogs (NOT cats) with severe disease. Occasionally oral tylosin therapy will be effective if there is concurrent ARE. Even when you are using effective therapy, you may have to wait for 2-4 weeks before seeing results. Budesonide is a steroid that has been used in people for some time. It administered orally and largely eliminated by first pass metabolism in the liver. It have been used in some cats with IBD that did not seem to respond well to more traditional therapy. It is worth noting that we have seen iatrogenic hyperadrenocorticism due to this drug (i.e., the first pass metabolism is not the silver bullet that people hoped it would be). The dose is uncertain, but approximately 3 mg/M2 daily seems like a reasonable place to start. Cyclosporin seemingly is becoming recognized as a useful therapy for canine IBD, and it may be helpful in dogs with lymphangiectasia. It does not have the side effects of steroids or azathioprine; however, it is critical to measure blood levels of the drug (can start at 7 days after starting the drug) to be sure that a particular animal is absorbing sufficient amounts of the orally-administered drug. I typically begin at 3-5 mg/kg bid. This can be very expensive in larger dogs; therefore, some people simultaneously treat with ketoconazole (3-7 mg/kg bid) to inhibit metabolism of the cyclosporin and thereby achieve higher blood levels at less cost to the client. Granulomatous enteritis is a very difficult entity to treat (especially in dogs) and has a poor prognosis. Anti-inflammatory therapy is often ineffective. Be sure that special stains were done so that histoplasmosis and other organisms are truly ruled out.

SELECT SPECIFIC SMALL INTESTINAL DISORDERS Eosinophilic gastroenteritis is usually easy to diagnose via mucosal biopsy but does not have consistent CBC changes. Many cases respond better to a strict elimination diet than to corticosteroids alone. However, if dietary therapy by itself is ineffective, then adding 2.2-4.4 mg prednisolone/kg body weight/day are used initially for 7-10 days. 269


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LYMPHOMA

while the smaller diameter endoscopes are very easy to use (i.e., it is easy to put them into small orifices and pass them through small pylori), these are the scopes with the smaller biopsy channels. It is particularly easy to obtain mediocre (or outright inadequate) tissue samples with biopsy instruments designed for scopes with a biopsy channel that is 2.2 mm in diameter. Scopes with a biopsy channel of 2.8 mm typically allow excellent tissue samples to be consistently obtained; however, these scopes are often large in diameter (e.g., ≥ 9.0 mm), making them harder to use in cats and dogs < 7 lbs. If you are practiced, you can usually get a 9.0 mm scope through the pylorus of cats > 6 lbs, but even accomplished endoscopists cannot always do this. Therefore, the clinician must make a decision based upon how often he/she will be performing endoscopy, because that usually determines how accomplished they will become and what they can afford. One should use fenestrated, ellipsoidal forceps with a serrated edge. Then, you keep taking sample after sample until you obtain good samples that encompass the full thickness of the mucosa down to and preferentially including the submucosa. If the sample fragments easily, then it is primarily villus tips and is inadequate. You may submit it, but do not count it. At least 8 good tissue samples should be obtained in hopes that at least 2 or 3 will be well oriented. Immediately after obtaining the sample, it is carefully removed from the biopsy forceps with a 25 gauge needle and gently spread out on a tissue cassette sponge such that the luminal side (i.e., the side with the villi) is oriented upwards and the sample is no longer folded. The samples are allowed to adhere to the sponge, but are not allowed to dry out. The sponge with the tissue samples is placed in formalin promptly. It is becoming apparent biopsying both the small and large intestines is useful in many patients (especially cats), even though the clinical signs suggest that only the small or large intestine is involved. It is desirable to use a flexible scope when obtaining colonic samples (in addition to the rigid scope) so that the ileo-colic valve area can be inspected and one may obtain ileal mucosal samples. We can usually enter the ileum of dogs weighing > 10-15 lbs, but it rare that the tip of the scope can be advanced into the ileum of cats. However, even in small dogs and cats, the biopsy forceps can usually be passed through the ileocolic valve and ileal tissue obtained by performing blind biopsies of the mucosa. As alluded to, there are some disadvantages to flexible endoscopy of the alimentary tract: a) it requires expensive equipment, b) it is easy to take inadequate samples, c) some lesions are out of reach of the endoscope, and d) some lesions are so dense that you cannot obtain a diagnostic biopsy of them with this equipment. Scirrhous carcinomas and pythiosis are the two major examples of such lesions.

Lymphoma of the small intestine can obliterate the mucosa and cause malabsorption and protein-losing enteropathy. There may be peripheral involvement (e.g., lymphadenopathy), but the lesion is often limited to the abdomen and does not cause palpable masses. The prognosis is poor, but rare patients live for years after therapy (e.g., surgery and/or chemotherapy). It can be very difficult to differentiate a welldifferentiated lymphoma from lymphocytic enteritis, even when you have full thickness biopsies. Some animals with “lymphoma” have been cured with dietary therapy alone, which is to say that it probably was never lymphoma in the first place (regardless of what the biopsy report said). It is common to misdiagnose the lymphoma as IBD is poor, superficial endoscopic biopsies are performed (and this is more common than many realize). Good quality endoscopic biopsies usually allow diagnosis of alimentary tract lymphoma, as long as the endoscope can reach the affected portion of the bowel.

BIOPSIES Endoscopic biopsy of the alimentary tract can utilize either a rigid scope or a flexible scope, depending upon what organ will be biopsied. In general rigid scopes routinely retrieve much better tissue samples than flexible scopes; however, they can only be used for obtaining tissue samples of the descending colon. There is almost no reason to take surgical biopsies of the descending colon; rigid forceps can obtain diagnostic samples of almost any mucosal or submucosal lesion in the descending colon. There are exceptions, but they are far and few between. The advantages of rigid colonoscopy are a) it is easy to do, b) the equipment is relatively inexpensive, and c) one may almost always obtain diagnostic samples. The only disadvantages of rigid colonoscopy are a) it is possible to perforate the colon (something that is very rare) and b) you cannot examine or sample the ascending or transverse colon. Flexible endoscopic biopsy of the alimentary tract has several advantages. It is a) quick (i.e., usually < 20 min to obtain gastric and duodenal samples), b) safe, c) of minimal stress to very ill animals and d) is typically diagnostic, if done correctly. However, flexible endoscopy is starting to get a bad reputation because of all the inaccurate diagnoses that have occurred in animals that were sampled using this technique. This centers around the comment that flexible endoscopy is typically diagnostic if done correctly. There is a lot of endoscopy that is incorrectly done, especially in regards to obtaining tissue samples. The problem is that

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La cistite interstiziale nel gatto e nella donna: un doloroso problema comune Andrea Zatelli Med Vet, Reggio Emilia

Daniele Grassi DM, Urologo, Modena

La cistite interstiziale del gatto è una FLUTD idiopatica, dove l’acronimo FLUTD (Feline Lower Urinary Tract Disease) identifica le patologie delle basse vie urinarie, generalmente suddivise in non ostruttive ed ostruttive. Le prime sono conseguenti a litiasi, difetti anatomici, neoplasie, problematiche comportamentali ed infezioni. Circa il 65% delle FLUTD non ostruttive vengono diagnosticate come idiopatiche (Graf. 1). Le FLUTD ostruttive sono determinate da uroliti, anomalie anatomiche congenite, iatrogene o traumatiche, neoplasie, e plug. Circa il 29% delle FLUTD ostruttive vengono diagnosticate come idiopatiche ed il 59% come conseguenti a plug uretrali (Graf. 2). Le FLUTD vengono classificate in base al riscontro di: 1. Infezioni - hanno incidenza bassissima: solo il 2% circa delle FLUTD. È, dunque, utile rileggere la necessità di terapia antibiotica (troppo frequentemente impostata a fronte di generici sintomi riferibili a disuria), e valutare l’importanza di una corretta tecnica di cateterismo urinario. 2. Litiasi - nelle forme non ostruttive, l’approccio terapeutico può essere basato su terapia dietetica di dissoluzione, oppure rimozione chirurgica (cistotomia o endoscopia). Nelle forme ostruttive, l’approccio conservativo è possibile

se l’uroidropulsione consente la disostruzione uretrale; altrimenti, la scelta terapeutica è chirurgica. È sempre consigliabile escludere la presenza di difetti anatomici, che potrebbero vanificare le gestioni dietetiche preventive. Elemento fondamentale è favorire il turn-over vescicale di urina, stimolando il paziente ad assumere un maggior quantitativo di liquidi. Utili, a tal fine, i “giochi” di acqua in movimento, oppure l’acqua additivata di piccoli quantitativi di brodo di pesce/pollo, o, ancora, l’introduzione di diete umide. 3. Difetti anatomici/neoplasie - quando identificati, devono essere trattati in quanto causa frequente di insuccessi terapeutici. La loro risoluzione è prevalentemente chirurgica. 4. Plug - rappresentano la più frequente causa di ostruzione uretrale nel gatto. Composti da matrice proteica (eventualmente frammisti a cristalli), possono risolversi spontaneamente in seguito a contrazioni del detrusore, oppure con semplice massaggio del pene e dell’uretra peniena; alcuni casi necessitano del “carotaggio” del plug e, più raramente, di uretrotomia. 5. Forme idiopatiche – sono le forme più rappresentate di FLUTD. Vengono diagnosticate dopo aver escluso tutte le altre cause. Il meccanismo patogenetico è complesso e coinvolge fattori ambientali, caratteriali, neurologici, vascolari e

idiopatiche litiasi

plug uretrali idiopatiche litiasi vescicali infezioni+litiasi

difetti anatomici/ neoplasie comportamento infezioni

Grafico 2. Eziologia delle FLUTD ostruttive: dominanza delle forme conseguenti a plug, seguite dalle forme idiopatiche.

Grafico 1. Eziologia delle FLUTD non ostruttive: dominanza delle forme idiopatiche. 271


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cronico si basa sulla cosiddetta “sensitizzazione centrale”: gli stimoli sensitivi provenienti dall’area pelvica vengono elaborati a livello midollare come “stimoli dolorosi” e, come tali, inviati alla corteccia. Qualora l’area pelvica sia teatro di ripetuti episodi infiammatori o infettivi, l’infiammazione può coinvolgere le fibre nervose pelviche, dando origine alla cosiddetta “infiammazione neurogenica”. Le “fibre-C” (piccole fibre nervose normalmente “silenti”) vengono attivate producendo un’alterazione quali-quantitativa delle afferenze pelviche, così che uno stimolo intrinsecamente non doloroso viene trasformato in “allodinia” (percezione dolorosa di stimoli sensitivi non dolorosi), “iperalgesia” (stimoli dolorosi lievi vengono percepiti come dolore di forte intensità), oppure “disestesia” (deboli stimoli propriocettivi generano sensazioni sgradevoli). L’infiammazione neurogenica, a sua volta, è generata e sostenuta dall’iper-attivazione dei mastociti, che liberano una grande quantità di mediatori ad attività pro-infiammatoria e pro-algica (es. citochine, istamina, triptasi, NGF – Nerve Growth Factor). L’infiammazione neurogenica è alla base della “sensitizzazione centrale”. La progressiva attivazione di fibre-C tende ad auto-mantenersi, generando un circolo vizioso che spiega il protrarsi della BPS/IC, anche molto dopo la scomparsa dell’evento/degli eventi infiammatori pelvici che l’hanno generata. Trattamento - Il trattamento è “plurimodale”, e può essere indirizzato a vari livelli della cascata di eventi che si realizzano nella BPS/IC. Trattamento dell’iper-attivazione mastocitaria: si utilizza Palmitoiletanolamide (PEA), somministrata per os a lungo termine, alla dose di 15 - 20 mg/Kg/die. Si tratta di una sostanza endogena, praticamente priva di effetti indesiderati, che, grazie alla sua azione di regolazione mastocitaria, è considerata una terapia “causale” e non solo “sintomatica”. Trattamento per il ripristino dei glicosamminogligani: nasce dal presupposto che, nella BPS/IC, lo strato di glicosamminogligani che ricopre le cellule uroteliali sia ridotto/ insufficiente. Si effettua tramite immissione diretta in vescica di Acido Jaluronico. Trattamento del dolore neurogenico: si utilizzano farmaci come: antidepressivi triciclici (amitriptilina), anti-epilettici (Gabapentin/Pregabalin), ed α-litici. Prevenzione - Fare prevenzione secondaria della BPS/IC significa diagnosticare la malattia in fase precoce, aumentando così le possibilità di una più rapida guarigione. La battaglia da combattere è quella volta ad abbattere il “muro dei sette anni”: quelli che, mediamente, trascorrono dall’inizio dei sintomi, al momento in cui viene fatta la diagnosi. Questo risultato va conquistato diffondendo le conoscenze su questa condizione, ed aumentando il livello di attenzione nei suoi confronti, per una diagnosi il più precoce possibile.

chimico-fisici. L’approccio terapeutico nei confronti delle forme acute non ostruttive è dubbio, in quanto solitamente autolimitanti (risolvono in 3-7 giorni). Da gestire, se presente, il dolore, perché determina un peggioramento della qualità di vita e spesso è causa di alterazione comportamentale (fino all’aggressività). Fondamentale è la prevenzione secondaria in caso di recidive frequenti; si basa su un approccio plurimodale, articolato in due fasi: A. identificare ed eliminare/ridurre i fattori stressanti, B. adottare misure farmacologiche: aliamidi (Palmitoiletanolamide – PEA – somministrata per os a cicli di 90 giorni da ripetersi all’occorrenza), analgesici ed antiinfiammatori, spasmolitici, antidepressivi triciclici, regolatori della secrezione dei GAG. Di grande importanza anche la diluizione delle urine (maggior assunzione di liquidi). Concludendo, il corretto iter diagnostico e l’esclusione di infezioni (urinocoltura negativa per infezioni batteriche e micotiche), neoplasie (esame citologico del sedimento urinario) e difetti anatomici (diagnostica per immagini dell’apparato urinario) consentono di pervenire a diagnosi di FLUTD idiopatica, o cistite interstiziale del gatto. Un disordine che rappresenta una sfida per il Medico Veterinario, ed il cui trattamento si basa sulla comprensione dei meccanismi patogenetici e delle problematiche comportamentali correlate (rapporto del paziente con il nucleo familiare, il territorio e gli altri animali eventualmente presenti) nonché sui protocolli terapeutici in grado di agire su componenti patogenetiche, come l’iper-attivazione dei mastociti delle basse vie urinarie.

La Sindrome del Dolore Vescicale (Bladder Pain Sindrome, BPS) / Cistite Interstiziale (Interstitial Cystitis, IC) nella donna Barbara, 41 anni: “Soffro di cistite cronica da molti anni, anche se le urinocolture risultano sempre negative. Sento in continuazione lo stimolo ad urinare … Mi sembra sempre di avere un pallone, un mattone, un peso alla vescica. Non sento bruciore mentre urino, anzi la minzione mi dà un sollievo momentaneo…”. Clinica - Nella storia di Barbara, sono presenti Sintomi del Basso Tratto Urinario – Lower Urinary Tract Symptoms – LUTS, soprattutto della fase di riempimento vescicale. La minzione viene anticipata rispetto ad uno stimolo minzionale più forte, per cercare sollievo. La paziente adotta vere e proprie modifiche comportamentali (es. “toilette mapping”, programmazione degli spostamenti in base alla disponibilità di servizi igienici), con forte impatto sulla Qualità della Vita. Tali LUTS sono caratteristici della condizione denominata Sindrome del Dolore Vescicale – Bladder Pain Syndrome – BPS. Diagnosi - Per arrivare a diagnosi di BPS/IC, è necessario assicurasi che l’urinocoltura, le citologie urinarie, la diagnostica per immagini (ed un’eventuale diagnostica endoscopica dell’Apparato Urinario) siano negative per altre patologie. Per la diagnosi di conferma, si può ricorrere ad una “cistoscopia in anestesia”. La presenza di petecchie emorragiche della mucosa vescicale (“glomerulations”) ed una “conta mastocitaria” nella biopsia vescicale maggiore di 28 mastociti/mm2 consentono di fare diagnosi di Cistite Interstiziale – Interstitial Cystitis (IC). Dolore cronico - Quello tipico della BPS/IC è un dolore cronico: un “dolore deviato”, che ha perso quello scopo di protezione dell’organismo, tipico del dolore acuto. Il dolore

Bibliografia disponibile presso gli Autori Indirizzo per la corrispondenza: Andrea Zatelli - Direttore Sanitario Clinica Veterinaria Pirani Via Vladimir Majakowski 2/L, 42100 Reggio Emilia Tel. 0522.309509, Fax 0522.1840191 az@clinicaveterinariapirani.it Daniele Grassi - Direttore del Servizio di Urologia Funzionale, Urologia Femminile/Uroginecologia e Chirurgia Ricostruttiva Pelvica, Hesperia Hospital, Via Arquà, 80/A, 41100 Modena grassi.urology@libero.it

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COMUNICAZIONI BREVI Le comunicazioni sono elencate in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.

SHORT COMMUNICATIONS Short communications are listed in alphabetical order by surname and then in chronological order of presentation.


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PERICARDITE SETTICA DA PROIETTILE A BASSA VELOCITÀ IN UN GATTO: TRATTAMENTO CHIRURGICO M. Annoni, Med Vet, M. Frati, Med Vet, S. Pozzo, Med Vet, D. Zuliani, Med Vet Liberi professionisti, Clinica Veterinaria Tibaldi, Milano, Italia Area di interesse: Chirurgia Introduzione. Le ferite da arma da fuoco derivano dalla penetrazione o dalla perforazione dei tessuti del corpo da parte di un qualsiasi tipo di proiettile, la cui forma, velocità e massa vanno a influenzare gravità e grandezza della ferita.4 Le moderne armi ad aria compressa, possono sparare proiettili a velocità simile ad armi da fuoco di piccolo calibro (da 180 a 300 m/sec)3 provocando danni anche fatali.4 Per le loro caratteristiche, i proiettili a bassa velocità decelerano rapidamente dopo aver percorso una breve distanza; rallentano ancora all’impatto con la cute e la loro penetrazione è limitata dall’ipoderma e dalla muscolatura sottostante. Ciò nonostante, se sparati da distanza ravvicinata, possono arrivare anche agli strati profondi. Queste lesioni da sparo, se toraciche, permettono inizialmente una terapia conservativa; l’esplorazione chirurgica è invece indicata in caso di emorragia profusa oppure in caso di gravi lesioni ad organi e strutture interne.4,5,6,7 Qui è riportato un caso di pericardite settica secondaria alla presenza di un proiettile in cavità toracica. La pericardite settica, spesso conseguenza di ferite da morso al torace, di migrazione di un corpo estraneo o di batteriemia, è causa di essudato purulento caratterizzato da una grande varietà di batteri aerobi e anaerobi o da miceti.1,2 Descrizione del caso. Un gatto comune europeo, femmina, sterilizzata, di otto anni, venne riferito per tamponamento cardiaco clinicamente manifesto. Adottata sette anni prima, i proprietari assicuravano che la gatta non era mai più uscita di casa da allora. Alla visita l’animale appariva dispnoico con toni cardiaci attutiti, polso superficiale e mucose leggermente pallide. Le radiografie toraciche, oltre ad un imponente versamento pericardico occupante tutta la cavità toracica, evidenziavano la presenza di un corpo estraneo radiopaco compatibile con un proiettile, localizzato nell’emitorace destro posto fra la punta del cuore e la cupola diaframmatica. Venne effettuata una pericardiocentesi eco-guidata che permise di drenare 100 millilitri di un liquido torbido e lievemente ematico. All’esame ecocardiografico venne rinvenuta un’area iperecoica, corrispondente alla zona del corpo estraneo, il cui esame citologico compatibile con essudato settico, era sovrapponibile a quello del versamento pericardio. Una toracotomia laterale a livello del settimo spazio intercostale destro, permise di rimuovere il corpo estraneo e di effettuare una pericardiectomia. All’ispezione della cavità toracica, il pericardio, nuovamente dilatato dall’accumulo di essudato, andava ad occupare quasi tutta la cavità, mentre i lobi polmonari caudale destro, medio ed accessorio apparivano diffusamente atelettasici. Più ventralmente venne visualizzata una grossa aderenza costituita dalla fusione dell’apice del lobo polmonare medio con la punta del cuore. Il proiettile, individuabile solo alla palpazione, si trovava completamente incarcerato in questo tessuto ascessuale. In primis venne drenato il versamento pericardico e poi asportato il proiettile mediante incisione dell’area interessata. La resezione “en bloc” di tutto il tessuto infetto, richiese anche una pericardiectomia sub totale subfrenica ed una lobectomia parziale a carico del lobo polmonare medio. L’esame istologico definì il tessuto asportato come nodulo piogranulomatoso con severa e diffusa pericardite linfoplasmacellulare cronica. Conclusioni. I proiettili, una volta penetrati nei tessuti, possono migrare attraverso i piani fasciali o gravitare nelle cavità toracica ed addominale; in alcuni casi possono entrare nel sistema vascolare ed embolizzare. In medicina umana sono stati documentati casi di proiettili penetrati a livello bronchiale e poi espulsi tossendo.5 È difficile stabilire con esattezza quale sia stato il percorso del proiettile. Potrebbe essere penetrato direttamente in torace, oppure la sua localizzazione toracica potrebbe essere il frutto di diverse migrazioni. Non si può nemmeno escludere che, se non si fosse instaurata la pericardite settica, il proiettile sarebbe potuto rimanere in situ per altrettanto tempo. Infatti, la presenza di proiettili, è spesso un reperto radiografico occasionale.5 Una recente mobilizzazione del corpo estraneo, piuttosto che un deficit immunitario del paziente, potrebbero essere tra le cause della manifestazione clinica. Il caso è reso particolarmente interessante per il tipo di corpo estraneo, per la sede in cui è stato rinvenuto e soprattutto per il tempo trascorso tra la sua presunta penetrazione e l’insorgenza della sintomatologia; non ultimo il fatto che a conoscenza degli autori non esistono pubblicazioni in letteratura di casi clinici similari. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Orton EC. Cardiovascular System. In: Small Animal Thoracic Surgery; 1995:177-179. Fossum TW. Chirurgia dell’apparato cardiocircolatorio. In: Chirurgia dei piccoli animali; 2004; 688-694. Slatter D. Textbook of small animal surgery 3rd ed;2003:139-140. Swaim SF and Henderson RA. Il trattamento delle ferite nei piccoli animali; 1995;67-72. Pavletic MM. Gunshot wound management. The Compendium Dec 1996;Vol.18,No.12. Pavletic MM. Gunshot wounds in veterinary medicine: projectile ballistics. Part I. Compend Contin Educ Prat Vet 8(1):47-60,1996. Pavletic MM: Atlas of small animal reconstructive surgery;1992;99-118.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Maurizio Annoni - Clinica Veterinaria Tibaldi, Viale Tibaldi 66, 20136 Milano (MI), Italia Tel. 0258106826 - E-mail: annoni.maurizio@gmail.com

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EFFETTO MIDRIATICO DEL ROCURONIO BROMIDE APPLICATO TOPICAMENTE NEL GHEPPIO (FALCO TINNUNCULUS) G. Barsotti, DVM, PhD1, A. Briganti, DVM, PhD1, J. R. Spratte, VM student1, R. Ceccherelli, DVM2, G. Breghi, DVM1 1 Dipartimento di Clinica Veterinaria-Università di Pisa, Pisa, Italia 2 C.R.U.M.A.-LIPU, Livorno, Italia Area di interesse: Animali esotici Scopo del lavoro. Lo scopo del presente lavoro è stato quello di valutare il potere midriatico di un bloccante neuromuscolare (BNM), il rocuronio bromide, applicato topicamente in entrambi gli occhi di rapaci diurni. Materiali e metodi. Nello studio sono stati inseriti dieci gheppi (Falco Tinnunculus) non affetti da patologie oftalmiche, appartenenti a entrambi i sessi, con peso tra 200 e 250 g. I soggetti sono stati sottoposti a una visita oculistica completa durante la quale la midriasi è stata ottenuta utilizzando un BNM, il rocuronio bromide (Esmeron® 10 mg/ml) applicato topicamente senza diluizione, con una pipetta. Gli uccelli hanno ricevuto una singola dose di 0.12 mg in ciascun occhio (dose totale: 0.24 mg/uccello). Durante la procedura la terza palpebra è stata trattenuta con un retrattore palpebrale per un minuto al fine di prevenirne il movimento e quindi evitare la rapida eliminazione del farmaco dalla superficie oculare. Il diametro pupillare e il riflesso pupillare diretto sono stati valutati con una fonte di luce standard prima della somministrazione del farmaco (Tbase), dopo 10 minuti e poi ogni 20 minuti fino a un tempo massimo di 290 minuti. Le variazioni del diametro pupillare sono state misurate con un gauge pupillare con approssimazione a 0.5 mm mentre il riflesso pupillare è stato valutato con una scala di 3 punti (2 normale, 1 diminuito, 0 assente). Sono stati monitorati eventuali effetti collaterali locali e sistemici. Le differenze tra i valori registrati a Tbase e tutti gli altri tempi, per ogni occhio, sono state analizzate con ANOVA ad una via per dati ripetuti con Dunnett come test Post Hoc, mentre le differenze tra i due occhi sono stati esaminate statisticamente con ANOVA a una via con test di Tukey come Post Hoc, considerando significativi valori di P < 0.05 (Graph Pad Prism4®). Risultati. La midriasi massima è stata ottenuta a T90 ed è risultata di 6.30 ± 0.42 mm per l’occhio destro e 6.35 ± 0.41 mm per l’occhio sinistro. Una differenza statistica è stata rilevata tra Tbase e tutti gli altri intervalli di valutazione per ciò che riguarda il diametro pupillare e tra Tbase e T10 fino a T110 per il riflesso fotomotore. Non sono state evidenziate differenze tra occhio destro e sinistro sia per il diametro pupillare che per il riflesso fotomotore nei vari tempi di osservazione. Nei 20 occhi trattati il grado di dilatazione pupillare ottenuto ha consentito una completa valutazione del fondo oculare che in 6/10 soggetti era già possibile a T30. Non sono stati evidenziati effetti collaterali locali e/o sistemici in nessuno degli uccelli trattati. Conclusioni. I risultati del presente lavoro suggeriscono che una singola dose di 0.12 mg di rocuronio bromide applicata topicamente in ciascun occhio di rapaci diurni consenta di ottenere una midriasi bilaterale in assenza di effetti collaterali locali o sistemici. Il rocuronio quindi sembra essere, alla dose impiegata, un BNM di sicuro impiego per indurre la midriasi nei gheppi. In passato l’efficacia midriatica di altri BNM è stata valutata in rapaci diurni della stessa specie oggetto di questo studio, con risultati variabili1. Infatti il pancuronio bromide determina una midriasi transitoria e inconsistente mentre l’alcuronio cloride è un ottimo midriatico ma causa effetti collaterali sistemici anche gravi. Soltanto il vecuronio bromide è considerato efficace in assenza di effetti collaterali, ma per determinare midriasi necessita di somministrazioni ripetute (almeno 3 ogni 15 minuti)1. È importante sottolineare che nella maggior parte delle specie aviarie nelle quali i BNM sono stati impiegati topicamente a scopo midriatico, la somministrazione è sempre stata monolaterale poiché probabilmente la dose cumulativa necessaria per indurre la dilatazione pupillare in entrambi gli occhi poteva essere pericolosa e determinare gravi effetti collaterali1-3. In uno studio recente condotto su rapaci notturni, il rocuronio si è dimostrato un efficace midriatico dopo una singola somministrazione topica determinando una dilatazione pupillare sovrapponibile a quella ottenuta con 2 somministrazioni ripetute4. Per tale motivo gli autori del presente lavoro hanno impiegato nei gheppi una singola somministrazione di farmaco ma su entrambi gli occhi, ottenendo una midriasi bilaterale contestuale. In conclusione, l’applicazione topica di rocuronio induce una buona midriasi nei gheppi e poiché non necessita di somministrazioni ripetute nel singolo occhio per ottenere la dilatazione pupillare, può essere impiegato bilateralmente offrendo notevoli vantaggi di carattere pratico. Bibliografia 1. 2. 3. 4.

Mikaelian I, Paillet I, Williams D. Comparative use of various mydriatic drugs in kestrels (Falco tinnunculus). AJVR 1994; 55: 270-272. Ramer JC, Paul-Murphy J, Brunson D, Murphy CJ. Effects of mydriatic agents in cockatoos, African gray parrots, and Blue-fronted Amazon parrots. JAVMA 1996; 208: 227-230. Loerzel SM, Smith PJ, Howe A, Samuelson DA. Vecuronium bromide, phenylephrine and atropine combinations as mydriatics in juvenile double-crested cormorants (Phalacrocorax auritus). Vet Ophthalmol 2002; 5: 149-154. Barsotti G, Briganti A, Spratte JR, Ceccherelli R, Breghi G. Mydriatic effect of topically applied rocuronium bromide in tawny owls (Strix aluco): comparison between two protocols. Vet Ophthalmol accepted on 27th January 2010 (in press).

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Giovanni Barsotti - Dipartimento di Clinica Veterinaria-Università di Pisa Via livornese lato monte snc, 56010 San Piero a Grado (PI), Italia Tel. 0502210151 - E-mail: gbarsott@vet.unipi.it

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DERMATOFITOSI ANIMALE ED AMBIENTALE: MANAGEMENT DI DECONTAMINAZIONE IN DUE REALTÀ DISTINTE: NEGOZIO ED ALLEVAMENTO M. Beccati, DVM, PhD1,2, A. Peano, DVM, PhD2 Libero professionista, Capriate San Gervasio (BG), Italia 2 Facoltà di Medicina Veterinaria, Dip. Produzione, Epidemiologia, Ecologia. Sez. Parassitologia-Micologia, Torino, Italia 1

Area di interesse: Dermatologia Scopo del lavoro. Descrivere e valutare la potenzialità infettiva di animali messi in commercio o ceduti direttamente ai proprietari e le strategie terapeutiche al fine di “sterilizzare” un ambiente contaminato da spore di funghi dermatofiti. Materiali e metodi. Realtà A) NEGOZIO DI ANIMALI: Nello spazio di vendita erano presenti 6 gattini comune europei, 12 cuccioli di coniglio, 1 cincilla. Ogni specie soggiornava in un apposito box specie specifico, tuttavia per eventuali spostamenti da gabbia a box veniva usato un singolo trasportino per animali. 4/12 gattini presentavano lesioni dermatologiche. Né i conigli né il cincillà evidenziavano lesioni dermatologiche apparenti. Per tutti gli animali sono stati eseguiti dei prelievi di pelo con strappamento e spazzolature tramite spazzolino da denti sterile e posti in coltura utilizzando piastre da contatto contenenti terreno selettivo per dermatofiti. I risultati delle colture risultavano positivi per Microsporum canis in 6/6 gatti, 2/12 conigli, 2/3 Box di stallo 1/1 gabbia di trasporto. Di conseguenza si impostava una terapia di stamping out per tutti i conigli e cincillà. I gatti venivano gestiti con Itraconazolo (5 mg/kg/die) per os con terapia continuativa ed Econazolo topico. I box venivano spostati dall’area di vendita ad un area privata con accesso consentito al solo personale, il quale effettuava giornalmente lavaggi dei box con ipoclorito di sodio. Il box di trasporto veniva eliminato così come tutti gli strumenti di toelettatura (pettini, tappeti, giochi etc. etc.). Nessuno tra i componenti del personale riferiva di lesioni cutanee riferibili a dermatofitosi. Realtà B) ALLEVAMENTO: Erano presenti 31 cuccioli di cane e 6 gatti. I cuccioli soggiornavano in due aree suddivise in box; era presente inoltre un’area di quarantena e due spazi di passaggio/lavoro (lavandini, deposito mangime e materiali di consumo.) Tutti gli animali venivano sottoposti a visita clinica. 22/31 cani presentavano lesioni cutanee rappresentate da aree alopeciche focali e multifocali, un cane risultava affetto da alopecia pruriginosa. Tra i gatti nessuno presentava lesioni cutanee evidenti, mentre in 4 si riscontrava otite ceruminosa bilaterale. Tutti gli animali venivano campionati (prelievo di pelo e spazzolino) con successive colture in terreno DTM. Risultavano positivi 22/31 cani, 6/6 gatti. Tutti i soggetti venivano trattati con Itraconazolo (Itrafungol®) 5 mg/kg/die per os in terapia continuativa e spugnati ogni due giorni con Enilconazolo (Imaverol® 20 cc/litro di acqua tiepida). L’ambiente ed i box venivano trattati con ipoclorito di sodio e due volte a settimana con Enilconazolo fumigazione (Clinafarsmoke®). Nessuno del personale riferiva di lesioni cutanee riferibili a dermatofitosi. Risultati. Dopo 10 giorni di terapia i gatti del negozio (A) permanevano positivi a colture micotiche. Le lesioni cutanee risultavano ridotte. Il box risultava negativo a più campionamenti distanziati nel tempo. Tali pazienti venivano considerati esenti da dermatofitosi dopo 25 giorni di terapia continuativa alla luce di 2 piastre colturali negative consecutive. Nell'allevamento (B), un mese circa dopo l’inizio della terapia, risultavano positivi diversi ambienti (es. pavimento, aree attigue ai box, pareti, gabbie di quarantena). Erano positivi anche diversi campioni di aria ambientale. È da sottolineare come detti ambienti fossero positivi nonostante trattamenti fumiganti con prodotti antifungini e lavaggi con candeggina eseguiti nei giorni precedenti. 22/31 cani evidenziavano miglioramento clinico tuttavia, 4/22 mantenevano positività colturale. I gatti continuavano a mantenersi esenti da lesioni ma risultavano tutti ancora coltura-positivi. Conclusioni. Lo studio eseguito dimostra, in effetti, che diversi ambienti, anche quelli non direttamente frequentati da animali, possono essere contaminati. L’aria potrebbe ad esempio essere un buon marker dello status sanitario (per ciò che concerne i dermatofiti) dell’allevamento/negozio. Lo studio dimostra anche che disinfezioni ambientali possono non bastare ad annullare completamente la carica dermatofitica. Per questi motivi, quando possibile, sarebbe ottimale effettuare dei periodi di vuoto sanitario completo per permettere disinfezioni accurate l’assenza di animali. La pratica dei campionamenti ambientali è poco diffusa ma risulta di notevole interesse perché permette un corretto inquadramento del livello di contaminazione e la localizzazione degli ambienti più “meritevoli” di un trattamento intensivo di disinfezione. Inoltre, rappresenta, come dimostrato nello studio, un ottimo metodo per verificare l’effettiva efficacia dei trattamenti ambientali intrapresi. In conclusione la decontaminazione da infezioni dermatofitiche di ambienti, animali e personale risulta a tutt’oggi una pratica difficile, dispendiosa sia in termini di tempo che di denaro; tuttavia, può essere possibile se si riesce ad ottenere una compliance da parte dei gestori/allevatori dei negozi e/o allevamenti infetti. Bibliografia Douglas J. DeBoer: Management of catteries with dermatophytosis. Atti congresso nazionale AIVPA. Modena Ottobre 2008. P. Bordeau, et al: Dermatophytosis in a dog: factors associated with post treatment persistent carriage. Atti VI° Congresso mondiale di dermatologia. Hong Kong Novembre 2008. Jenise Daigle: Pediatric dermatology. Atti congresso 24° North American Veterinary Dermatology. Savannah Aprile 2009.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Massimo Beccati - Centro Medico Veterinario Adda, Via Roma, 3, 24042 Capriate San Gervasio (BG), Italia Tel. 02/90962787 - Cell: 388 3563468 - E-mail: addavet@libero.it

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TRATTAMENTO DI 2 CASI DI COLLASSO TRACHEALE DI IV GRADO NEL CANE MEDIANTE STENT AL SILICONE TIPO DUMON D. Bertoncello, DMV, D. De lorenzi, DMV, PhD, SCMPA, DECVCP Cinica Veterinaria San Marco, Padova, Italia Area di interesse: Malattie respiratorie Introduzione. Il collasso tracheale (CT) è una patologia caratterizzata da appiattimento dorso- ventrale degli anelli tracheali, con lassità della membrana tracheale dorsale. Si ritiene che ciò possa dipendere dall’associazione di un anomalia primaria della cartilagine unita ad una o più cause secondarie aggravanti. Il CT colpisce prevalentemente cani di razze toy e di piccola taglia tra i quali lo yorkshire terrier (YT), il barboncino toy, il pinscher, il chihuahua. La tosse è il segno clinico principale: è secca, aspra, sonora a volte simile al verso di un anatra. La diagnosi di CT è essenzialmente endoscopica e vengono definiti stadi di gravità crescente (dal I al IV) a seconda della riduzione del diametro tracheale. La terapia è prevalentemente medica anche se negli stadi più gravi è necessario impiegare tecniche chirurgiche o endoscopiche per ripristinare il diametro tracheale. Attualmente in veterinaria si impiegano stents di nitinolo non ricoperti ma il loro utilizzo è vietato in medicina umana a causa degli inconvenienti gravi (rottura, occlusione da mucosa iperplastica, impossibile rimozione) che si verificano in elevata percentuale di casi nel medio-lungo termine. Al loro posto, nei pazienti umani, vengono routinariamente utilizzate protesi siliconiche, applicate sotto visione endoscopica diretta e con appositi introduttori. Lo scopo di questa presentazione è di descrivere, per la prima volta in medicina veterinaria, la nostra esperienza nel trattamento di due casi di collasso tracheale di IV grado nel cane tramite stent al silicone tipo Dumon®. Descrizione del caso. Lasty YT di 7 anni? intero e Micky YT di 4 anni? sterilizzata, sono stati portati a visita per tosse cronica e dispnea rispettivamente nel gennaio e marzo 2009. Dopo routinaria valutazione ematobiochimica e delle urine, i pazienti sono stati sottoposti a radiografie LL e VD di collo e torace e a indagine endoscopica per confermare il sospetto clinico e radiografico di CT. L’endoscopia evidenziava collasso tracheale di IV grado esteso da metà del collo a circa un terzo del tratto toracico. Al primo paziente è stato inizialmente applicato uno stent bronchiale umano (Novatech BB10 L60), che si è dislocato cranialmente in seconda giornata. Abbiamo quindi riposizionato il medesimo stent fissandolo alla trachea con un punto non assorbibile e sottocutaneo. A distanza di tre mesi, abbiamo sostituito la protesi con un nuovo stent di 2 cm più lungo (Novatech Vet 10 L80 ORX), specificamente disegnato. A Micky è stato applicato uno stent bronchiale (Novatech BB 7x8x50) subito fissato con un punto sottocutaneo. Dopo un ricovero di 24 ore i due cani sono stati dimessi in seconda giornata. Nell’immediato periodo post applicazione, i pazienti sono stati trattati a casa con butorfanolo 0.3 mg/kg bid per os, per 7 giorni. In controlli radiografici ed endoscopici, eseguiti ogni tre mesi, gli stents sono risultati ben posizionati e in grado di mantenere pervia la trachea. A distanza rispettivamente di 14 e 12 mesi i due cani mostrano scomparsa della dispnea, sporadici colpi di tosse e notevole miglioramento della qualità di vita. Conclusioni. La protesi di Dumon®, in medicina umana, è la più usata al mondo ed è costituita da silicone morbido con rilevatezze regolarmente distribuite sulla sua superficie esterna, che ne facilitano l’ancoraggio. È presente in lunghezze variabili fino a 7 cm, in diametri da 10 a 18 mm (diametro esterno) e con diversi gradi di rigidità. Gli speroni presenti sulla superficie esterna prevengono la migrazione e limitano il contatto con la mucosa respiratoria mentre la superficie interna è ricoperta da un rivestimento antiaderente per ridurre il ristagno di secrezioni. Tali protesi, rispetto alle precedenti al nitinolo non ricoperte, possono essere facilmente rimosse e riposizionate anche dopo mesi dalla loro applicazione. Le principali complicanze nell’utilizzo delle Dumon® riportate in medicina umana sono la migrazione (2.8%-18.6%), la formazione di granulomi (1%-18.9%) e l’ostruzione da secrezioni (1%-30.6%). I dati riportati in letteratura dimostrano ampie variazioni legate alla diversa tipologia di patologie trattate. Complicanze rare sono l’ostruzione da tumore, l’infezione, lo shock settico e l’afonia. Le complicanze sono più frequenti nei pazienti con stenosi benigne rispetto a quelli con patologia neoplastica. Le protesi siliconiche hanno, a differenza delle metalliche auto espandibili, un diametro fisso e pertanto possono migrare soprattutto in presenza di una mucosa liscia; in genere la migrazione, come capitato nel caso di Lasty, è un evento precoce dopo il posizionamento. La fissazione con sutura, analogamente a quanto descritto in casi selezionati in pazienti umani, rappresenta una soluzione relativamente semplice e apparentemente priva di complicazioni. Riteniamo che questo tipo di stent possa rappresentare una valida alternativa agli stents in nitinolo non ricoperti e ai gravi inconvenienti collegati a queste protesi, oggi completamente abbandonate in medicina umana. Bibliografia 1. 2.

Robert A. Mason, Lynell R. Johnson. Tracheal Collapse. In: Textbook of respiratory diseases in dogs and cats. King LG ed. Saunders 2004; 346-355. Mario Salio, Claudio Simonassi. Protesi tracheo-bronchiali. In: Pneumologia interventistica. Angelo G. Casalini ed. Springer2007; 407-424.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Diana Bertoncello - Clinica Veterinaria San Marco, Via Sorio 114/c, 35100 Padova (PD), Italia Tel. 0498561098 - E-mail: bertoncellodiana@libero.it

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EPISODIO DI PROVENTRICOLITE DILATATIVA IN DUE PAPPAGALLI CENERINI (PSITTACUS ERITHACUS ERITHACUS) DIAGNOSTICATA MEDIANTE RT-PCR PER BORNAVIRUS D. Bilato, DVM1, F. Gobbo, DVM1, A. Drago, Lab Tech Bio1, E. Rosso, DVM2, C. Terregino, DVM, PhD1, S. Catania, DVM, PhD1 1 Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, Legnaro (PD), Italy 2 Libero Professionista, Cuneo (CN), Italy Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La proventricolite dilatativa (PDD dall’inglese Proventricular Dilatation Disease) è una malattia trasmissibile infiammatoria fatale di discussa eziologia virale, descritta per la prima volta nel 1970, ed indicata in passato con vari nomi, Macaw Wasting Syndrome, dilatazione gastrica neurogena, ganglioneurite mioenterica. Questa patologia, segnalata in più di 50 specie di psittaciformi tra cui Are, Cacatua e Cenerini, si manifesta in animali di diversa età. L’Avian Bornavirus (ABV), virus ad RNA distinto in almeno sei genotipi, è stato recentemente correlato alla proventricolite dilatativa1,2. Ultimamente questo virus è stato individuato in 28 specie di psittaciformi ed in altre specie aviarie3. Il virus ha un tropismo per il tessuto nervoso, in particolare è possibile dimostrare la sua presenza a livello del sistema nervoso centrale e nei gangli nervosi dell’apparato digerente. Clinicamente la malattia è caratterizzata da abbattimento, dimagrimento, disfagia, rigurgito intermittente o continuo, rallentato svuotamento del gozzo, malassorbimento intestinale con presenza di semi indigeriti nelle deiezioni e talvolta diarrea. La sintomatologia gastroenterica, alle volte, può essere preceduta o sostituita da sintomatologia neurologica con atassia e convulsioni, tremori, incoordinazione. Dal punto di vista anatomo-patologico le lesioni riconducibili a PDD sono dilatazione del proventricolo e ventriglio con assottigliamento ed atrofia della parete e talvolta presenza di ulcere. Descrizione del caso. Nel gennaio del 2009 un esemplare di pappagallo cenerino femmina (Psittacus erithacus erithacus) di circa 17 anni di età è stato sottoposto a visita clinica in seguito a manifestazione di anoressia, tremori e diarrea. Dopo 8-10 giorni dalla comparsa della sintomatologia clinica e di terapie di supporto associate a terapia antibiotica il soggetto è deceduto. La carcassa è stata conferita presso il nostro Istituto per eseguire le indagini del caso. Il soggetto condivideva la voliera con un maschio della stessa specie che non mostrava alcuna sintomatologia e con la figlia di circa sette anni. Dopo circa un mese è deceduta improvvisamente anche la figlia presentando sintomatologia comparabile con quella della madre. In entrambe le carcasse sottoposte ad esame autoptico si è potuto rilevare presenza di abbondante materiale alimentare nell’ingluvie e una grave dilatazione del proventricolo, contenente alimento, con notevole assottigliamento della parete e presenza di ulcere. L’esame virologico da stomaco ghiandolare e cervello sia con metodica al microscopio elettronico che con tecniche di isolamento in uova embrionate e colture cellulari ha dato esito negativo. Inoltre a seguito delle recenti ipotesi eziologiche abbiamo ritenuto opportuno valutare la presenza di Avian Bornavirus. La metodica da noi utilizzata è stata una RT-PCR secondo il protocollo descritto da Kistler et. al, 20084. Tale metodica ha dimostrato la presenza di ABV da cervello e da proventricolo confermando l’ipotesi diagnostica. Sui prodotti di amplificazione è stato anche eseguito il sequenziamento che ha confermato la presenza di Avian Bornavirus. Conclusioni. I risultati da noi riportati dimostrano la presenza di ABV in soggetti deceduti con sindrome da dilatazione del proventricolo in allevamenti italiani. Tale riscontro dovrà, a nostro parere, stimolare la ricerca di tale agente patogeno negli allevamenti al fine di valutare l’effettiva diffusione del virus e correlare lo stesso alla sindrome patologica. Le metodiche biomolecolari attualmente a nostra disposizione, potranno inoltre permettere l’identificazione dei soggetti positivi al fine di contenere o limitare la diffusione della malattia. Bibliografia 1.

2. 3. 4.

Kirsi S. Honkavuori, H.L. Shivaprasad, Brent L. Williams, Phenix-Lan Quan, Mady Hornig, Craig Street, Gustavo Palacios, Stephen K. Hutchison, Monique Franca, Michael Egholm, Thomas Briese, and W. Ian Lipkin. Novel Borna Virus in Psittacine Birds with Proventricular Dilatation Disease. Emerg Infect Dis. 2008 December; 14(12): 1883–1886. Monika Rinder, Andreas Ackermann, Hermann Kempf, Bernd Kaspers, Rüdiger Korbel, and Peter Staeheli. Broad Tissue and Cell Tropism of Avian Bornavirus in Parrots with Proventricular Dilatation Disease. J Virol. 2009 June; 83(11): 5401–5407. Herbert Weissenböck, Karin Sekulin, Tamás Bakonyi, Sandra Högler, and Norbert Nowotny. Novel Avian Bornavirus in a Nonpsittacine Species (Canary; Serinus canaria) with Enteric Ganglioneuritis and Encephalitis. Journal of Virology, November 2009, p. 11367-11371, Vol. 83, No. 21. Kistler AL, Gancz A, Clubb S, Skewes-Cox P, Fischer K, Sorber K, Chiu CY, Lublin A, Mechani S, Farnoushi Y, Greninger A, Wen CC, Karlene SB, Ganem D, DeRisi JL. Recovery of divergent avian bornaviruses from cases of proventricular dilatation disease: identification of a candidate etiologic agent. J Virol. 2008 Jul 31;5:88.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Salvatore Catania - Istituto Zooprofilattico Sperimentale Delle Venezie Area Diagnostica Di Padova Struttura Territoriale Complessa 3, Viale Dell’università, 10, 35020 Legnaro (PD), Italia Tel. 0498084288 - E-mail: scatania@izsvenezie.it

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DALLA CREAZIONE DEL SITO ALLA WEB REPUTATION Bartolomeo Borgarello Med Vet, Moncalieri (TO) Area di interesse: Practice management - web marketing La nuova frontiera della comunicazione per il medico veterinario è il web 2.0. Il web nato nel 1989 si è evoluto sino ad oggi per portare ad una completa interazione tra produttori ed utenti. Il web 2.0 è caratterizzato da una grande glòobalizzazione di servizi e contenuti. Vediamo quali sono le regole per il medico veterinario che vuole apparire sul web in modo coerente e deontologicamente ineccepibile. Contenuti ed informazione corretta sono indispensabili per permettere ad un sito e alle altre applicazioni web 2.0 di soppravvivere in rete. La creazione del proprio sito deve procedere lungo un percorso che va dalla motivazione/realizzazione alla manutenzione del proprio spazio. Tutti questi passaggi devono essere conosciuti e valutati per decidere se asserirli all’esterno o all’interno della propria struttura. L’obiettivo per cui si crea un sito ed il target di persone da raggiungere influirà sulla scelta di web agency o di un web master, da ponderare attentamente tutte le soluzione fai da te o da terzi non professionisti. I contenuti, la grafica e i colori devono essere allineati con il proprio brand e vanno stravolti, la navigazione deve essere semplice e chiara. Potendo scegliere è bene creare un sito accessibile e user friendly. Un discorso a parte merita il posizionamento e le eventuali campagne pubblicitarie per lasciare il proprio sito. Budget e motivazioni sono i primi step da analizzare di questo percorso. Vi siete mai chiesti se il vostro sito è facilmente visionabile, consultabile, interrogabile da tutti allo stesso modo? Ipovedenti, persone con disabilità, anziani, giovani inesperti di Internet? Quando si pensa alla costruzione di un sito, si devono valutare una serie di parametri insieme: pubblico di riferimento, esperienza degli utenti, necessità e competenze di chi viene a visitare il vostro sito, capacità di usare il mezzo Internet, impedimenti fisici. Ognuno di essi ha un peso equivalente, da non sottovalutare. Per esempio, non servono molte informazioni se sono difficili da visionare, così come non ha senso cercare di raggiungere un pubblico molto vasto se poi si inseriscono link complessi o una navigazione oscura, pagine che si deformano con il cambiare del browser o colori confusi. La conoscenza e la padronanza dei social network, di youtube e dei blog ci permetterà di comunicare il modo coerente e attuale con i nostri utenti e fornire con esattezza le informazioni e le notizie necessarie a far conoscere la nostra attività. La teoria dei sei gradi di separazione è un ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altra persona atttraverso una catena di conoscenze con non più di 5 intermediari. Questa teoria è alla base dei comportamenti sui social. Poichè le tattiche usate dei marketers tradizionali non funzionano più, oggi servono strategie che funzionano, che costano meno, che fanno la differenza e che portano ad un visibile aumento delle “vendite”. Quest’innovazione possiamo chiamarla web marketing 2.0. In un era in cui la propria immagine e la propria e reputazione sono molto importanti ci addentriamo nelle basi della propria web-reputation: la corretta gestione della propria email è la prima azione da compiere da domani. L’utilizzo di tutti questi strumenti vi permetterà nel breve periodo di migliorare la vostra interazione con i clienti e di riportare piccoli o grandi successi sul web. Bibliografia Ester Gandini; Gianpiero Gamaleri; Universo Pubblicità. Roma, Kappa, 2008. Peter Sheridan Dodds, Roby Muhamad, Duncan J. Watts http://www.sciencemag.org/cgi/content/abstract/301/5634/827. http://www.shinynews.it/ Corbisiero F., Social Network Analysis. Tendenze, metodi e tecniche dell’analisi relazionale Milano, Franco Angeli, 2007. Salvini, A., Analisi delle reti sociali. Teorie, metodi, applicazioni, Franco Angeli, Milano, 2007.

Indirizzo per la corrispondenza: Strada Genova 174 Moncalieri TO E-mail: info@clinicaborgarello.it

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TRATTAMENTO DELLE FRATTURE DI TIBIA MEDIANTE OSTEOSINTESI MINI-INVASIVA (MIPO) CON PLACCHE A STABILITÀ ANGOLARE IN 11 CASI A Boero Baroncelli, DVM1-2, A. Esposito, DVM3, F Cappellari, DVM, Phd1, L Piras, DVM1, B Peirone DVM, Phd1 1 Dipartimento di Patologia Animale Facoltà di Medicina Veterinaria, Grugliasco (TO) 2 Clinica Albese per Animali da Compagnia, Alba (CN) 3 Clinica Veterinaria “Villa Felice”, Pozzuoli (NA) Area di interesse: Ortopedia Scopo del lavoro. Il concetto di osteosintesi “biologica” si è sviluppato negli ultimi anni con l’obiettivo di minimizzare il danno tissutale iatrogeno, ottenere una riduzione con tecnica indiretta, eseguire una fissazione stabile e promuovere un rapido utilizzo dell’arto1. Con la tecnica MIPO (Minimal Invasive Plate Osteosynthesis) viene eseguito un approccio chirurgico mini-invasivo attraverso 2 portali chirurgici (2-4 cm di estensione) distanti dal focolaio di frattura. La placca viene introdotta attraverso uno dei portali e successivamente fatta scivolare lungo un tunnel epiperiostale precedentemente creato al di sotto dei tessuti molli. Le viti che vengono inserite attraverso gli stessi portali o tramite incisioni cutanee puntiformi1,2. In traumatologia veterinaria l’applicazione della MIPO è stata descritta da Schmokel nel 2007 per il trattamento delle fratture di tibia utilizzando placche DCP standard e da Haaland nel 2009 in 4 casi trattati con placca LCP (Locking Compression Plate). Pozzi nel 2009 ha definito l’anatomia chirurgica per l’esecuzione dei portali ai quattro principali raggi ossei dello scheletro appendicolare del cane1. Scopo di questo lavoro è descrivere il trattamento delle fratture di tibia nel cane con placche a stabilità angolare utilizzando tecnica MIPO. Materiali e Metodi. Sono stati sottoposti a intervento chirurgico 9 cani di età compresa tra 8 mesi e 12 anni (media 4 anni/mediana 2 anni) di peso compreso tra i 7 e i 46 kg (media 25 kg/mediana 25 kg) e 2 gatti, trattati nel periodo compreso tra gennaio 2008 e gennaio 2010 raccogliendo follow-up clinico e radiografico fino a consolidazione della frattura. Risultati. Sono state trattate 11 fratture di cui 6 comminute, 4 semplici e 1 segmentale; 9 erano chiuse, 1 esposta di 1° e una di 2°. Sono stati utilizzati 10 supporti retti Fixin e 1 placca LCP. Per la riduzione indiretta della frattura è stato utilizzato il tavolo da trazione scheletrica in 6 casi, pinze da riduzione in 4 casi, apparato di Ilizarov in 1 caso. In 6 casi la placca non è stata modellata, mentre in 5 casi è stata applicata in seguito a modellamento. Per la fissazione temporanea sono stati utilizzati i “pinstopper” in 5 casi, fili di Kirschner in 3 casi, pinze ferma placca in 2 casi e “push-pull device” in 1 caso. In 6 casi è stato eseguito un controllo radiografico intra-operatorio per valutare l’allineamento e la riduzione della frattura. Non si sono riscontrate complicanze intra-operatorie. L’esame radiografico post-operatorio ha evidenziato: in 8 casi un allineamento adeguato, in 3 casi inadeguato. In 2 casi sono state osservate complicanze post-operatorie tra cui ritardo di consolidazione e riassorbimento osseo da protezione dell’impianto. In 8 casi è stato possibile eseguire il follow-up clinico e radiografico, che ha evidenziato recupero eccellente e consolidazione della frattura, in 2 casi è stato eseguito un follow-up telefonico in cui il proprietario riferiva il completo recupero funzionale del paziente, in un caso il recupero è stato discreto. Conclusioni. In tutti pazienti il trattamento è stato efficace, con consolidazione della frattura. Delle 11 fratture, 7 risultavano caratterizzate da un focolaio comminuto o scheggioso, indicazioni principali per l’impiego dei sistemi a stabilità angolare e per l’applicazione della tecnica MIPO. La riduzione indiretta mediante tavolo da trazione scheletrica ha permesso di ristabilire una corretta lunghezza del segmento osseo, allineando e stabilizzando i monconi durante la preparazione dei portali chirurgici e del tunnel epiperiostale. La diminuzione della perdita di riduzione primaria che si ha con l’utilizzo dei sistemi a stabilità angolare ha permesso di ottenere un allineamento adeguato anche nei casi in cui non è stato eseguito un modellamento accurato dell’impianto. L’utilizzo di strumenti per la fissazione temporanea è risultato indispensabile per ottenere la stabilizzazione dell’impianto durante l’inserimento delle prime viti a stabilità angolare e permettere di controllare e correggere facilmente riduzione e allineamento. Tra le complicanze, abbiamo osservato un ritardo di consolidazione a seguito del trattamento di una frattura trasversa con un impianto applicato con funzione di sostegno. Come descritto anche nella casistica umana, un fissatore interno non garantisce la “stabilità assoluta” necessaria alla guarigione per prima intenzione tipica di queste fratture quando messe in compressione3. Bibliografia 1. 2. 3.

Hudson CC et al: Minimally invasive plate osteosynthesis: Aplications and techniques in dogs and cats. VCOT 2009; 22: 175-182. Schmokel HG et al.: Treatment of tibial fractures with plates using minimally invasive percutaneous osteosynthesis in dogs and cats. JSAP 2007; 48: 157-160. Hazarika S et al: Minimally invasive locking plate osteosynthesis for fractures of the distal tibia - Results in 20 patients. Injury 2006; 37, 877-887.

Indirizzo per la corrispondenza: Dott. Alessandro Boero Baroncelli Clinica Albese per Animali da Compagnia via Vivaro 25 Alba (CN) Tel. 017335122 - E-mail: alessandro.boero@unito.it

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IMPIEGO DELLA PROTESI NON CEMENTATA MODELLO ZURIGO IN PAZIENTI AFFETTI DA PATOLOGIE TRAUMATICHE DELL’ANCA Fulvio Cappellari, Med Vet, dr Ric1, Lisa Adele Piras, Med Vet1, Enrico Panichi, Med Vet, Dr Ric2, Alessandro Boero Baroncelli1-3, Bruno Peirone, Med Vet, Dr Ric1 1 Dipartimento di Patologia Animale Facoltà di Medicina Veterinaria, Grugliasco (TO) 2 Libero professionista, Centro Veterinario A.V.A.P., Pinerolo (TO) 3 Clinica Albese per Animali da Compagnia, Alba (CN) Area di interesse: Ortopedia Scopo del lavoro. La protesi totale d’anca viene comunemente impiegata nel trattamento di pazienti affetti da osteoartosi secondaria a displasia. In medicina veterinaria è altresì riportato l’impiego della chirurgia protesica nel trattamento della lussazioni d’anca di origine traumatica1, 2. In questo lavoro retrospettivo vengono valutati i risultati ottenuti in nove pazienti affetti da patologie traumatiche a carico dell’articolazione coxo-femorale, trattati mediante protesi totale d’anca non cementata modello Zurigo (ZCTHR). Materiali e metodi. Nel periodo compreso tra gennaio 2004 e giugno 2007 abbiamo trattato con ZCTHR nove pazienti affetti da patologie traumatiche a carico dell’anca. Sono stati esaminati i dati relativi al segnalamento, all’anamnesi, all’esame clinico e radiografico. L’intervento chirurgico veniva eseguito seguendo la metodica descritta da Montavon3. Al termine della procedura si eseguiva il controllo radiografico per verificare il corretto posizionamento degli impianti. Nel caso 7, frattura Salter Harris tipo I prossimale di femore trattata con viti e chiodo, si era proceduto alla rimozioni degli impianti 10 giorni prima della procedura protesica. Il follow-up clinico e radiografico è stato effettuato a circa un mese dalla chirurgia, seguito da un’intervista telefonica ad almeno 6 mesi dall’intervento, seguendo il modello proposto da Olmstead4. Risultati. I dati essenziali sono riassunti nella tabella 1. Tutti i pazienti erano affetti da grave zoppia: di III° (casi 2, 4 e 8) e di IV° nei restanti sei casi. Nel caso 6, dopo l’inserimento della coppa acetabolare e dello stelo femorale, abbiamo utilizzato l’unità testa-collo extra-long. Ciononostante, durante l’esecuzione dei test intra-operatori, si verificava la lussazione cranio-dorsale; pertanto è stato necessario rimuovere gli impianti protesici e mutuare l’intervento in un’ostectomia della testa e del collo del femore. Questo paziente è stato pertanto escluso dai controlli successivi. Nel caso 8, a distanza di cinque giorni dalla chirurgia, si verificava la lussazione della coppa acetabolare. A distanza di cinque giorni, il paziente veniva sottoposto a chirurgia di revisione. Al follow-up clinico a breve termine tutti i pazienti mostravano miglioramento nel grado di zoppia. In tutti i casi il controllo radiografico a breve termine risultava normale. A distanza di 7 mesi dalla chirurgia il caso 5 presentava zoppia di IV°. Lo studio radiografico evidenziava la rottura del collo dello stelo protesico. Il paziente veniva sottoposto a chirurgia di revisione con rimozione dello stelo protesico, inserimento di un nuovo stelo e applicazione di due cerchiaggi metallici e di una placca di protezione sul versante laterale del femore. I risultati ottenuti dall’intervista telefonica sono riportati nella tabella 2.

TABELLA 1 Caso

Razza

Età

Sesso

Peso

Diagnosi

Insorgenza

1

Terranova

4 aa

F

52 kg

Lussazione

3 giorni

2

American Bulldog

3 aa

M

47 kg

Lussazione

3 mesi

3

Meticcia

2 aa

F

33 kg

Lussazione

4

Labrador

8 aa

M

44 kg

5

Dogo Argentino

15 mm

M

6

Landseer

5 aa

7

Pastore tedesco Bovaro del Bernese

8 9

Pastore tedesco

Impianti

Controllo Rx PO

Cup 26,5 Stem M Neck L

AL 50° AR 15°

Cup 26,5 Stem S Neck S

AL 50° AR 20°

21 giorni

Cup 23,5 Stem S Neck M

AL 43° AR 30°

Pregressa ostectomia

3 mesi

Cup 29,5 Stem M Neck S

AL 48° AR 17°

53 kg

Frattura testa femore

2 giorni

Cup 26,5 Stem M Neck L

AL 47° AR 22°

F

50 kg

Frattura collo

4 giorni

Cup 26,5 Stem M Neck XL

7 mm

M

34 kg

45 giorni

11 mm

M

48 kg

Malconsolidazione SH1 testa femore Malconsolidazione SH1 testa femore

8 mm

M

30 kg

Malconsolidazione SH1 testa femore

4 mesi

5 mesi

AL= Apertura Laterale della coppa; AR= Angolo di Retroversione della coppa.

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Trattamento precedente

Sutura extracpasulare

Viti e filo di Kirschner Artrotomia esplorativa

Complicanze

Rottura stelo Recidiva lussazione

Cup 23,5 Stem S Neck L Cup 26,5 Stem L Neck S

AL 38° AR 21°

Cup 23,5 Stem M Neck L

AL 43° AR 25°

AL 42° AR 15°

Lussazione coppa


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TABELLA 2 - Intervista telefonica ad almeno sei mesi dalla chirurgia Caso

Camminare

Sedersi

Alzarsi

Correre

Fare le scale

Salire in auto

Gioco/esercizio

1

1

1

1

1

1

1

1

2

2

4

1

2

1

1

2

3

1

1

2

1

1

1

1

4

1

4

1

1

1

4

1

5

3

3

3

3

3

3

3

7

3

4

3

2

1

1

2

8

1

1

1

2

1

2

2

9

1

1

1

1

1

1

1

Conclusioni. Tutti i pazienti inclusi nello studio erano affetti da grave zoppia e algia alla manipolazione dell’articolazione. Nei pazienti affetti da malconsolidazione della testa del femore e nel caso precedentemente sottoposto a ostectomia della testa del femore, la preparazione del canale femorale è risultata difficoltosa a causa della stenosi del canale conseguente alla sclerosi ossea. L’impiego di una fresa ad alta velocità ha consentito l’apertura del l’ingresso prossimale al canale femorale consentendo un agevole alesatura del canale. Il posizionamento delle componenti protesiche risultava corretto nonostante le maggiori difficoltà determinate dall’anatomia regionale alterata e dalla contrattura muscolare presenti nel 75% dei casi. Nel caso 6, unico caso in cui non siamo stati in grado di terminare la chirurgia protesica, sarebbe stato necessario evitare l’ostectomia del collo o mantenere lo stelo più sporgente rispetto alla linea di osteotomia. La lussazione della coppa avvenuta nel caso 8, è stata correlata a un’inadeguata preparazione della cavità acetabolare con conseguente scarso press-fit dell’impianto. Il cedimento dello stelo protesico riscontrato nel caso 5 è stato correlato all’indole e al peso del paziente, ma presumibilmente la maggior condizione predisponente va ricercata nell’impiego di uno stelo sottodimensionato in relazione alla taglia del paziente associato ad un’unità testa-collo long. Successivamente al trattamento di chirurgia protesica abbiamo osservato in tutti i pazienti un rapido recupero funzionale con notevole miglioramento del quadro clinico già a un mese dall’intervento. Dall’analisi dell’intervista telefonica è emersa una notevole soddisfazione da parte dei proprietari. L’unico paziente che ha mostrato uno scarso recupero funzionale è il caso 5, in cui la rottura dello stelo protesico ha richiesto una chirurgia di revisione, che ha condizionato il risultato clinico finale. In conclusione la chirurgia protesica rappresenta una valida opzione terapeutica nei pazienti affetti da patologie traumatiche a carico dell’articolazione coxo-femorale. Bibliografia 1. 2. 3. 4.

Pozzi A, Kowaleski MP, Dyce J, Johnson KA: Treatment of traumatic coxofemoral luxation by cemented total hip arthroplasty. Vet Comp Orthop Traumatol 17: 198-203, 2004. Dyce J, Wisner ER, Wang Q, Olmstead ML: Evaluation of risk factor for luxation after total hip replacement in dogs. Vet Surg 29: 524-532, 2000. Montavon PM, Tepic S: Zurich Cementless Total Hip System. Zurich, CH, Zurich Cementless Total Hip Course, Vetsuisse Faculty University of Zurich, 2006. Olmstead ML (1995): The canine cemented modular total hip prosthesis. J Am Anim Hosp Assoc 31: 109-124, 1995.

Indirizzo per la corrispondenza: fulvio.cappellari@unito.it

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UN CASO DI INFEZIONE DA CYTAUXZOON SP IN UN GATTO DELL’ITALIA CENTRALE E. Carli, DVM1,2, M. Trotta, DVM, PhD1, E. Bianchi, DVM3, T. Furlanello, DVM, DECVCP1,4, L. Solano-Gallego, DVM, PhD, DECVCP5 1 Laboratorio San Marco, Padova, Italia 2 Dipartimento di Scienze Sperimentali Veterinarie, Università degli Studi di Padova 3 Clinica veterinaria Piazza Bologna, Roma, Italia 4 Clinica veterinaria San Marco, Padova, Italia 5 Department of Pathology and Infectious Diseases, Royal Veterinary College, Londra, UK Area di interesse: Patologia clinica Introduzione. La cytauxzoonosi è una malattia emoprotozoaria sostenuta dal piroplasma Cytauxzoon felis (C. f.), che colpisce i felini selvatici e domestici, descritta principalmente negli Stati Uniti. I felini selvatici, e in particolare le linci (Lynx rufus), sono considerati i reservoir, mentre le zecche (Dermacentor variabilis, Amblyomma americanum) rappresentano i vettori del patogeno. Nel gatto l’infezione esita in una malattia febbrile acuta spesso mortale. I felini selvatici, invece, sviluppano raramente segni clinici e più spesso presentano un’eritroparassitemia subclinica. Negli ultimi anni, sono stati descritti mediante tecniche molecolari (PCR), degli organismi geneticamente simili a C. f. nei gatti di Pallas in Mongolia, nelle linci (Lynx Pardinus) e in un gatto in Spagna e in uno in Francia. In Italia la medesima infezione è stata descritta dagli autori in tre gatti nel nord-est. La diagnosi si basa sul ritrovamento del parassita alla valutazione di uno striscio ematico e/o sulla positività di un campione di sangue alla ricerca del patogeno mediante PCR. Descrizione del caso. Un gatto europeo, maschio intero di 7 mesi proveniente da una colonia, è stato portato a visita per diarrea nell’Ottobre 2009. Nell’estate precedente, la zona in cui viveva era stata interessata da una grave infestazione da zecche. Alla visita clinica, il gatto era in ottime condizioni generali e presentava una lesione corneale, probabile esito di un’ulcera. All’esame emocromocitometrico (CBC) erano presenti una lieve anemia macrocitica-ipocromica, e lievi leucocitosi e piastrinosi. Alla valutazione dello striscio, erano stati osservati sporadici piccoli piroplasmi (0,5-0,8 µm di diametro) in sede intraeritrocitaria. Erano presenti inoltre, una diminuzione del ferro sierico, un incremento dell’amiloide sierica, delle a1 e delle ß-globuline e la riduzione delle α1-globuline. All’esame coprologico erano state osservate uova di ascaridi. La PCR specifica per piroplasmi per un frammento del gene 18S ribosomiale era risultata positiva e il successivo sequenziamento aveva rivelato un’omologia del 99% per il gene 18S ribosomiale di Cytauxzoon sp (C. sp) depositata in GenBank e isolata in Mongolia, in Spagna e in Francia. L’omologia con C. f. era solo del 93%. Il gatto è stato trattato con imidocarb e doxiciclina e rivalutato a termine della terapia. L’anemia e la leucocitosi non erano più presenti, mentre la piastrinosi persisteva. Il soggetto era risultato negativo alla ricerca di piroplasmi sia mediante valutazione dello striscio di sangue che mediante PCR. Conclusioni. L’infezione da C. f. è ben nota negli Stati Uniti, mentre in Europa sono stati segnalati sporadici casi di infezioni sostenute da C. sp. Le informazioni riguardo all’epidemiologia, alle alterazioni clinico-patologiche e alla terapia delle infezioni causate da questo patogeno nei felini domestici e selvatici sono molto limitate. Nel presente lavoro, si descrive il primo caso di infezione da C. sp in un gatto proveniente dall’Italia centrale, con dati clinico-patologici, terapia e follow up. È di rilievo la differenza fra il caso descritto, che presentava segni clinici aspecifici e modeste anomalie clinico-patologiche e, almeno apparentemente, un esito positivo, e le infezioni da C. f. spesso letali ed iperacute. Le alterazioni riportate possono essere attribuite all’azione del patogeno, anche se l’ipotesi che il C. sp possa causare infezioni subcliniche oppure possa essere un protozoo opportunista resta da chiarire. Per quanto riguarda i reservoir e i vettori coinvolti nella trasmissione, i felini selvatici e le zecche presenti nel territorio italiano potrebbero giocare un ruolo importante. Saranno necessari altri studi per stabilire la prevalenza, la distribuzione, la trasmissione e i fattori di rischio associabili a questa infezione nei felini selvatici e domestici presenti in Italia. Sarà anche importante stabilire eventuali correlazioni con altre malattie infettive a localizzazione ematogena (emoparassitosi e bartonellosi). C. sp è un patogeno emergente nei gatti italiani che deve essere incluso nelle diagnosi differenziali di malattia nei soggetti che vivono in ambienti in cui sono presenti i vettori dell’infezione. Bibliografia Carli E et al. Cytauxzoon spp infection in blood from three cats in north-eastern of Italy. Atti 10th ESVCP cong, 2008: 133. Criado-Fornelio A et al. The “expanding universe” of piroplasms. Vet. Parasitol. 2004; 119: 337-345. Criado-Fornelio A et al. Hemoprotozoan of domestic animals in France: prevalence and molecular characterization. Vet. Parasitol. 2009; 159: 73-76. Greene CE et al. Cytauxzoonosis. In: Greene (Eds.), Infectious diseases of the dog and cat, 3th ed., Saunders, St. Louis, 2006; pp. 716-722.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.Ssa Erika Carli - Laboratorio San Marco, Via Sorio 114/c, 35120 Padova (PD), Italia Tel. 049/8561039 - E-mail: erikarli74@gmail.com

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INTERDIGITAL WEBBING TRANSPOSITION FLAP FOR RECONSTRUCTION IN A DOG WITH A DIGITAL MAST CELL TUMOUR 1

B. Carobbi, Med Vet, MRCVS 1 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, Padova, Italy Topic: Surgery

Introduction. Distal limb reconstruction is challenging because local tissue available for skin relaxing and stretching techniques, and rotating and advancement flaps is limited. It is even more challenging in oncology surgery because tumour excision may result in a substantial skin deficit. Lack of preoperative consideration of a reconstructive plan and fear of not being able to close the resulting deficit are often affecting the success rate of the procedure. Therefore, the reconstructive aspect of the procedure needs full consideration. Surgical options for distal limb wound reconstruction include: direct distant flaps; indirect flap (i.e. the delayed tube flap); reverse saphenous conduit flap; and skin grafts (e.g. split-thickness grafts, full-thickness meshed and unmeshed grafts). We describe an interdigital webbing transposition flap for reconstruction of a soft tissue defect in a dog requiring surgical excision of a mast cell tumour involving the medial aspect of the metacarpal and proximal phalangeal region. To author’s knowledge this technique has never been reported. Description of the case. A 5-year-old, male entire, Siberian Husky dog was referred for surgical excision of a mast cell tumour involving the medial aspect of the metacarpal and proximal phalangeal region of the right forelimb. At clinical examination the dog was bright and responsive, and temperature, pulse and respiration were within normal ranges. Routine biochemistry and haematology were within normal ranges. At palpation the mass appeared to involve the skin and subcutaneous tissues of the second digit on its medial aspect, and peritumoral oedema, bruising or erythema were not present. Distant metastasis and regional lymphnode involvement were excluded by thoracic radiography, abdominal ultrasound and lymphnode fine needle aspiration. At surgery the mass was removed with a margin of 2cm on all boundaries. In addition, second digit and metacarpal amputation were performed. The resulting defect was partially reconstructed using a 3x2cm skin flap harvested from the interdigital skin of the amputated digit, and the remaining defect was closed by primary apposition. Simple interrupter 3/0 nylon sutures were used. A slightly compressive bandage was maintained for 12 hours. A light bandage was used thereafter, and changed every 2 days during the following 7 days. The dog recovered normal weight bearing on the affected leg 24 hours after surgery. When the sutures were removed 14 days after surgery, a 2mm dehiscence of the wound was noticed caudally to the flap, close to the metacarpal pad. The resulting defect did not require intervention, and healed by second intention in 7 days. By the 21st postoperative day the flap was completely healed, although a bruising was present in the proximal part of the wound. A buster collar was applied, and 4 days later the bruising resolved. Histopathology reported a mast cell tumour of grade II, completely excised with clean margins in all directions. Conclusions. Aggressive surgical management of mast cell tumours is associated with low incidence of local recurrence. Two centimetres lateral margins and a deep margin of 1 fascial plane are suggested for complete excision of grade I and II mast cell tumours in dogs. Prolonged management and hospitalization are reported disadvantages of reconstructive surgery. Direct distant flaps are multiple step procedures. Frequent bandage replacement is required to prevent limb shifting resulting in pedicle tension, and to manage the open wound. In addition, deep sedation/anaesthesia is recommended to prevent damage to the flap. Skin grafts require frequent bandage replacement under anaesthesia. Meshed grafts require an healthy granulation tissue, and cannot be applied on a fresh wound. Split-thickness grafts may be less durable and more subject to trauma, and graft harvesting requires special and expensive equipment. Full-thickness grafts have a low survival rate unless drainage is provided. Tubed flaps is a delayed procedure with increased likelihood of surgical complications and flap necrosis. In this case, the interdigital webbing transposition flap provided a successful one step procedure for reconstruction of soft tissue defect. Advantages of pedicle flaps include: durability; resistance to trauma; short postoperative management; and quick healing. In addition, open wound management and anaesthesia during bandage replacement are not required. Although in this case a minor complication occurred and did not require intervention, major complications (i.e. flap failure) can be managed using one of the previously described techniques. This new technique should be considered as an option for reconstruction of digital soft tissue defects involving the medial and the lateral aspect of the metacarpal and metatarsal region. Bibliography Anderson D (1997) In practice Nov/Dec 1997 p. 537-545. Lascelles D, White RAS (1999) In practice April 1999 p. 163-175. Simpson AM, Ludwig LL, Newman SJ, Bergman PJ, Hootinger HA, Patnaik AK (2004) JAVMA 224; 236-240. Fowler D (2006) Vet Clin Small Anim 36; 819-845.

Corresponding Address: Dott.ssa Barbara Carobbi - Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, c/o Agripolis viale dell’Università, 16, 35020 Legnaro (PD), Italia E-mail: barbara.carobbi@unipd.it

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STENOSI PIELO-URETERALE BILATERALE ASSOCIATA A UROLITIASI DA MELAMINA IN UN GATTO L. Conti, Medico Veterinario1, F. Dondi, Medico Veterinario, PhD1, D. Casoni, Medico Veterinario, PhD1, B. Brunetti, Medico Veterinario, PhD, Dipl. ECVP2, J. Del Angel - Caraza, Medico Veterinario, PhD3,4, C.C. Pèrez Garcìa, Medico Veterinario, PhD4, L. Pisoni, Medico Veterinario, PhD1 1 Dipartimento Clinico Veterinario - Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Ozzano dell’Emilia (BO), Italia 2 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e di Patologia Animale - Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Ozzano dell’Emilia (BO), Italia 3 Ospedale Didattico Piccoli Animali - Università Autonoma dello Stato del Messico, Toluca, Messico 4 Laboratorio di Ricerca sull’Urolitiasi - Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Anatomia - Università di Leòn, Leòn, Spagna Area di interesse: Nefrologia e Urologia Introduzione. La stenosi pielo-ureterale (SPU) bilaterale è una patologia congenita o più raramente acquisita delle vie urinarie superiori. Nell’ambito delle anomalie pediatriche la SPU è di frequente riscontro ed è caratterizzata da pielectasia e idronefrosi conseguenti alla riduzione del deflusso dell’urina. A causa della stasi urinaria che si verifica a monte della giunzione pielo-ureterale, l’urolitiasi frequentemente complica la SPU nell’uomo. Le anomalie delle vie urinarie superiori sono rare nel gatto e non sono mai stati descritti casi di SPU, a conoscenza degli autori. Lo studio ne descrive le caratteristiche cliniche, clinicopatologiche e chirurgiche. Descrizione del caso. Un gatto meticcio, maschio intero, di 4 mesi, è stato presentato per ematuria macroscopica e periuria evidenti da 2 settimane. Il gatto era alimentato da 2 mesi con latte in polvere e pet food. L’esame clinico ha messo in evidenza nefromegalia bilaterale e dolore alla palpazione renale. Le indagini ematobiochimiche erano nella norma. L’analisi dell’urina ha rilevato peso specifico urinario 1012, pH 7.00, eritruria, proteinuria (30 mg/dl), associate a leucocituria e cristalluria amorfa. L’esame colturale delle urine era negativo. La diagnostica collaterale ha evidenziato alterazioni bilaterali caratterizzate da nefrolitiasi, idronefrosi con pielolitiasi e aumento di dimensioni del tratto prossimale dell’uretere. L’urografia escretoria ha confermato la presenza della SPU bilaterale evidenziando una tardiva comparsa della fase nefrografica associata ad una grave dilatazione della pelvi renale nel rene destro ed una moderata pielectasia sinistra. Gli ureteri erano moderatamente dilatati ed il tratto prossimale era caratterizzato da un andamento tortuoso. È stata effettuata una nefrectomia destra e i tessuti sono stati sottoposti ad esame anatomopatologico. È stata impostata una terapia medica con dieta di dissoluzione e aumento del consumo di acqua. I segni clinici sono migliorati rapidamente fino a scomparire completamente. A 3 settimane dalla chirurgia è stata evidenziata una riduzione dell’idronefrosi sinistra e ad oggi le condizioni cliniche del gatto sono buone. L’idronefrosi sinistra è ulteriormente diminuita, ma persiste la SPU. La valutazione macroscopica del rene ha confermato l’anomalia e in seguito a dissezione sono stati raccolti numerosi uroliti di diametro inferiore ad 1 mm dalla pelvi renale. L’esame istopatologico ha evidenziato una progressiva atrofia del parenchima ed una moderata ectasia dei segmenti tubulari distali. L’interstizio renale, la pelvi e l’uretere presentavano moderata fibrosi. Gli uroliti avevano superficie irregolare e colore giallastro. L’analisi quantitativa con spettroscopia infrarossa e microscopia elettronica a Raggi X ha evidenziato la presenza di melamina, acido urico monoidrato e apatite. Conclusioni. Il caso descritto rappresenta la prima segnalazione di SPU bilaterale nel gatto a conoscenza degli autori. Tale patologia deve essere considerata come causa di sintomi urologici nei gattini. In analogia con l’uomo, è possibile che esistano anche nel gatto forme asintomatiche di SPU per le quali sarebbero necessari studi epidemiologici ulteriori. La SPU è frequentemente associata a urolitiasi e, verosimilmente, una patogenesi correlata alla stasi urinaria ha favorito la precipitazione dei cristalli in questo gatto. I calcoli presenti nella pelvi contenevano melamina che, alla luce delle recenti conoscenze acquisite in materia, può aver favorito la comparsa di urolitiasi. Il ruolo patogenetico emergente di tale sostanza e l’epidemiologia dell’urolitiasi associata, tuttavia, non sono ancora completamente conosciuti. La presenza di forme subcliniche o reperti occasionali patologici deve condurre il Medico Veterinario a considerare la melamina tra le diagnosi differenziali di urolitiasi nella pratica clinica. Bibliografia Ping L. Zhang et al. Ureteropelvic junction obstruction: morphological and clinical studies. Pediatr Nephrol (2000) 14:820-826. Richel E. Cianciolo et al. Clinicopathologic, histologic, and toxicologic findings in 70 cats inadvertently exposed to pet food contaminated with melamine and cyanuric acid. JAVMA (2008), Vol 233, No 5, September 1. Andrew E. Kyles et al. Clinical, clinicopathologic, radiographic, and ultrasonographic abnormalities in cats with ureteral calculi: 163 cases (1984-2002). JAVMA (2005), Vol 226, No 6, March 15.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Francesco Dondi - Dipartimento Clinico Veterinario - Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Via Tolara Di Sopra n°50 40064 Ozzano dell’Emilia (BO), Italia - Tel. 051/2097317 - Cell. 3206297728 - E-mail: f.dondi@unibo.it

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REACTIVE HISTIOCYTOSIS IN A DOBERMAN PINSCHER DOG PRESENTING AS A SUB-LINGUAL MASS L. Cornegliani, DMV1, M. Gracis, DMV1, A. Vercelli, DMV2, P. Roccabianca, DMV3, S. Ferro, DMV4 1 Clinica Veterinaria S. Siro, Milano, Italia 2 Ambulatorio Veterinario Associato, Torino, Italia 3 Dipartimento di Patologia Animale Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria, Università degli Studi Milano, Milano, Italia 4 Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, Padova, Italia Topic: Dermatology Introduction. Histiocytic proliferative disorders are a group of diseases represented by cutaneous and systemic reactive histiocytosis, and neoplastic disorders such as cutaneous histiocytoma, histiocytic sarcoma and malignant histiocytosis. This case report describes an unusual presentation of reactive histiocytosis in a Doberman pinscher dog. Description of the case. A male, 8 years old, 7.5 Kg, Doberman pinscher dog was referred for evaluation of a sublingual mass. At physical examination, the dog was in good general conditions. The lingual mass was elongated, bossilated, non-ulcerated, apparently attached to the left sublingual tissues, causing slight deviation of the tongue to the right. Differential diagnosis included neoplasia, sterile pyogranuloma/granuloma, reactive histiocytosis, atypical mycobacteriosis, foreign body granuloma, ranula and sublingual trauma. Electrocardiograph examination was normal, and a three-views radiographic chest examination resulted negative for metastatic disease. Complete blood count (CBC), biochemical profile and coagulation panel resulted unremarkable. General anaesthesia was performed. The sublingual mass was 60 x 20 x 17 mm in size, with mixed consistency, raised, bossilated, covered by intact mucosa, adhering to the left ventral side of the tongue and the rostral portion of the lingual frenulum, and with a yellowish color. An intraoral radiograph of the intermandibular region showed no abnormalities. Two large incisional biopsies were taken. Fine needle aspiration and fine needle biopsy (nonaspiration technique) of the right and left mandibular lymphnodes were also performed. Histological examination of the sublingual mass showed the presence of a heterogeneous, dense, interstitial cellular population composed mostly by round to slightly fusiform histiocytic cells. Anisocytosis and anisokaryosis were moderate and mitoses were occasional. Multifocal, large lymphocytes aggregates, plasmacells and neutrophils were present. PAS and Ziehl-Nielsen stains resulted negative. A diagnosis of severe granulomatous glossitis was made. Aethiopathogenetic hypothesis included salivary duct rupture, infective diseases and reactive histiocytosis. New diagnostic test for infective diseases were done. A PCR test for Ehrlichia spp., Leishmania spp. and Rickettsia rickettsii was also performed on the blood sample and resulted negative, except that for Leishmania spp. which was positive. The dog was re-anesthetized to surgically reduce the sublingual mass and to obtain tissue samples for a PCR test for Leishmania spp. The lesion had progressed to the right side of the lingual frenulum. The mucosa covering this portion of the mass was partially ulcerated. Fine needle aspiration, fine needle biopsy and incisional biopsies of the sublingual mass were performed. Most of the abnormal tissues were surgically removed. Some cytological copy slides were sent for immunohistochemistry. PCR and immunohistochemistry for Leishmania sp. detection performed on biopsies were negative. Immunohistochemistry on cytological samples was positive for Vimentin and CD1c, slightly positive for CD18. Cells were identified as histiocytic dendritic cells presenting antigens. Histological diagnosis was reactive histiocytosis. The dog was treated with oral administration of tetracycline/niacinamide 250 mg/q8h. After one month PCR for Leishmania was still negative. CBC and biochemical exams were within normal range. The mass did not decrease in size but the animal was in good general conditions. The lesion started to decrease in size after 2 months of therapy, and totally regressed after 6 months. The dog was controlled every 30 days and CBC and biochemical profiles repeated each time. 6 months after the end of the medical treatment PCR and IFAT for Leishmania were still negative. Conclusions. In dogs lingual lesions and histiocytic disorders in particular are relatively uncommon. One case of histiocytic sarcoma was reported in a recent retrospective study performed on lingual biopsies (0.15% of malignant tumors and 0.08% of all samples). To the authors’ knowledge sub-lingual reactive histiocytosis has not been reported before. The history of this clinical case is quite unusual. The lesion had been initially diagnosed as sterile granuloma, but immunohistochemistry had not been performed on biopsies or cytological samples. Only positive CD1c and Vimentin permitted definitive histopathological diagnosis. Tetracycline plus niacinamide treatment was effective in this case. Bibliography Dennis MM, Ehrhart N, Duncan CG, Barnes AB, Ehrhart EJ: Frequency of and risk factors associated with lingual lesions in dogs: 1,196 cases (1195-2004). J Am Vet Med Assoc 228:1533-1537, 2006. Palmeiro BS, Morris DO, Goldschmidt MH, Mauldin EA: Cutaneous reactive histiocytosis in dogs: a retrospective evaluation of 32 cases. Vet Dermatol 18: 332-340, 2007. Fulmer AK, Mauldin GE: Canine histiocytosis neoplasia: an overview. Can Vet J 48: 1041-1050, 2007. Cariato L: Malignant histiocytosis in a Bernese mountain dog presenting as a mandibular mass. Can Vet J 38: 105-107, 1997.

Corresponding Address: Dott.Ssa Luisa Cornegliani - Clinica Veterinaria S. Siro, via Lampugnano 99, 20151 Milano (MI), Italia - E-mail: lcornegliani@libero.it

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COMPARAZIONE TRA 2 GRUPPI, BUPIVACAINA IPERBARICA VERSUS BUPIVACAINA IPERBAICA + MORFINA SPINALI, IN CANI SOTTOPOSTI A CHIRURGIA DEL GINOCCHIO F. Dal Lago, DVM1, C. Brugnolaro, DVM2, P. Franci, DVM3, A. Calvi, DVM4, M. Libelli, DVM5, M. Isola, DVM3, G. Pedrani, DVM4 1 Libero professionista, Vicenza, Italia 2 Libero professionista, Padova, Italia 3 Dipartimento di scienze cliniche veterinarie, Università degli studi di Padova, Legnaro (Padova), Italia 4 Clinica veterinaria Pedrani, Zugliano (Thiene - Vicenza), Italia 5 Libero professionista, Verona, Italia Area di interesse: Anestesia Scopo del lavoro. Lo scopo di questo lavoro era quello di valutare gli effetti della morfina spinale sulla qualità del blocco intraoperatorio, del risveglio e dell’analgesia nel postoperatorio, in cani sottoposti a intervento a livello dell’articolazione del ginocchio. Materiali e metodi. Dopo aver ottenuto il consenso informato alla procedura da parte del proprietario, i cani erano divisi in 2 gruppi, i primi ricevevano anestesia spinale con bupivacaina iperbarica (gruppo A), i secondi con bupivacaina iperbarica e morfina (gruppo M). Tutti i soggetti ricevevano la medesima premedicazione (medetomidina 2 mcg kg-1 e butorfanolo 0,2 mg Kg1) e tutti erano indotti con propofol a effetto. Dopo l’induzione dell’anestesia generale, i cani erano preparati per la chirurgia e l’iniezione spinale, eseguita a livello L5-L6 o L6-L7. Tramite l’utilizzo di un ago spinale di Quincke da 22 G, di lunghezza diversa in base alla taglia del soggetto, la soluzione era iniettata a una velocità di 1 ml/min. Al termine dell’iniezione erano posti due cuscini, uno sotto l’anca e l’altro sotto la regione compresa tra T8 e T12, in modo che la curvatura del rachide permettesse il deposito della soluzione iniettata nell’area da bloccare (L3-S2). L’animale era lasciato in questa posizione per 20 minuti, al fine di favorire il corretto fissaggio dell’anestetico, dopo di che il soggetto era posizionato in decubito dorsale. Quando la frequenza cardiaca e/o respiratoria superavano il 20% del valore basale, registrato prima dell’inizio della chirurgia, si somministrava fentanyl in boli da 2 mcg kg-1. Nel caso in cui il risveglio fosse agitato si somministravano IV 10 mcg kg-1 di acepromazina. Mezz’ora dopo l’estubazione e ogni ora, fino a 4,5 ore dopo, venivano testati i riflessi di entrambi gli arti pelvici, la sensibilità superficiale e profonda, la capacità di sostenere il peso su entrambi gli arti e di camminare e il livello di analgesia tramite la Short Form of the Glasgow Composite Measure Pain Scale (CMPS-SF). Se il punteggio della scala del dolore superava il 6, il soggetto riceveva un’iniezione intramuscolare di 0,3 mg kg-1 di metadone. Risultati. Nello studio sono stati inseriti 18 cani, 8 nel gruppo A e 10 nel gruppo M. Le differenze tra i due gruppi nella somministrazione intraoperatoria di fentanyl non sono risultate significative. Nonostante solo un caso nel gruppo M abbia ricevuto acepromazina al risveglio contro quattro casi nel gruppo A, non è stata raggiunta la significatività statistica. Per quanto riguarda l’efficacia della morfina nell’analgesia postoperatoria non è stata raggiunta la significatività statistica, anche se nel gruppo A quattro casi su otto hanno richiesto la somministrazione di metadone nel postoperatorio, mentre nel gruppo M in un solo caso è stato utilizzato l’oppioide. In media i tempi di recupero dei riflessi, a livello dell’arto operato, sono stati riscontrati molto simili tra i due gruppi osservati. Contrariamente, sono stati osservati tempi di recupero delle sensibilità superficiale e profonda molto diversi. Infatti, nel gruppo M, la media del tempo di attesa per il ritorno della sensibilità superficiale (minuti dopo l’estubazione) è stata più di 2,5 volte superiore a quella del gruppo A (gruppo M: media 234, deviazione standard 41,95; gruppo A: media 90, deviazione standard 32,07). Invece, la media del tempo di attesa per il ritorno della sensibilità profonda (minuti dopo l’estubazione) è stata nel gruppo M più di 1,5 volte quella del gruppo A (gruppo M: media 144, deviazione standard 71,83; gruppo A: media 82,5; deviazione standard; 21,21). Conclusioni. Questo studio preliminare suggerisce che la morfina spinale possa migliorare la qualità del risveglio e dell’analgesia nel periodo postoperatorio. Bibliografia Chambers W.A., Edstrom H.H and Scott D.B. “Effect of baricity on spinal anesthesia wiyh bupivacaine”. British Journal of Anesthesia, 53, 279, 1981. Chambers W.A., Littlewood D.G., Edstrom H.H. and Scott D.B. “Spinal anesthesia with hyperbaric bupivacaine: effect of dose and volume administered”. British Journal of anesthesia, 54, 75, 1982b. Cole P.J., Craske D.A., Wheatley R.G. “Efficacy and respiratory effects of low-dose spinal morphine for postoperative analgesia following knee arthroplasty”. Br J Anaesth 2000; 85: 233–7. Novello L., Platt S.R. “Low-dose intrathecal morphine for postoperative analgesia after cervical laminectomy”. Vet Regional Anaesth Pain Med 4:9–17, 2006 (www.isvra.org). Platt S.R., Olby N.J. “BSAVA Manual of Canine and Feline Neurology”. Third edition. 2004. Reid J., Scott M. and Nolan A. “Development of a short form of the Glasgow Composit Measure Pain (CMPS) as a measure of acute pain in dog”. In atti A.V.A. spring meeting.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.Ssa Francesca Dal Lago, Via Gessi 21, 36100 Vicenza (VI), Italia - Tel. 0444945713 - Cell. 3407960794 - E-mail: frandany@alice.it

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UN CASO DI SPIROCERCOSI ESOFAGEA NEL CANE L. Di Martino, DMV1, T. Furlanello, DMV, DECVCP2, D. De Lorenzi, DMV, PhD, SCMPA, DECVCP1 1 Clinica Veterinaria San Marco, Padova, Italia 2 Laboratori Veterinario San Marco, Padova, Italia Area di interesse: Gastroenterologia Introduzione. La Spirocercosi è causata dal nematode Spirocerca lupi che infetta il cane domestico e altri Canidi dei paesi tropicali e subtropicali. I carnivori si infestano ingerendo l’ospite intermedio oppure l’ospite paratenico e il parassita migra dalla mucosa gastrica all’aorta toracica caudale in circa 3 settimane dove continua la sua maturazione per altri 3 mesi prima di raggiungere l’esofago, qui incistandosi come parassita adulto. I segni clinici comprendono rigurgito, disfagia, perdita di peso, dispnea e morte improvvisa. A conoscenza degli autori, questa patologia non è mai stata descritta nel cane nel nostro Paese, essendo l’Italia fuori dalla zona di diffusione della Spirocerca. Scopo del presente lavoro è quello di descrivere un caso di spirocercosi nel cane ed illustrare una tecnica non precedentemente impiegata nella diagnosi di questa malattia. Descrizione del caso. Balui, una cagna intera meticcia di 2 anni di età è stata riferita per una difficoltà respiratoria insorta da una decina di giorni e per febbre. Dall’anamnesi risulta che è stata trovata alle Isole Mauritius e portata in Italia in età adulta. La cagna ha partorito da qualche settimana e presenta le mammelle turgide. Alla visita clinica l’addome si presenta dilatato, pastoso e dolente e il respiro discordante. La prova di succussione risulta positiva, il polso 155 bpm, respiro 48, MAP 135 e T 38,8C°. Una terapia con cefazolina e un’associazione tra lincomicina e spectinomicina impostata 5 giorni prima non aveva portato miglioramenti. Al momento del ricovero sono stati eseguiti gli esami ematobiochimici che hanno evidenziato un quadro infiammatorio aspecifico (neutrofilia matura, linfocitosi, monocitosi e aumento delle proteine della fase acuta), piastrinosi e ipoalbuminemia mentre le urine risultano ipostenuriche. La radiografia del torace ha evidenziato una estesa radiopacità dei tessuti molli tra la vena cava caudale e l’aorta toracica caudale e una spondilosi ventrale delle vertebre toraciche caudali. L’esame ecografico ha visualizzato una voluminosa neoformazione cistica dorso-craniale destra rispetto al fegato con compressione della vena cava caudale, di incerta collocazione anatomica (toracica vs addominale). Quindi Balui è stata sottoposta a indagine tomografica che ha evidenziato i rapporti di contiguità della massa con la parete esofagea. Per studiare il coinvolgimento esofageo è stata eseguita una esofagoscopia. L’esame endoscopico ha evidenziato due noduli di 0,5 e 1 cm e uno più grande di 2 cm peduncolato localizzato tra la base del cuore e lo sfintere esofageo inferiore. Sono state fatte delle biopsie ad ago sottile utilizzando un ago di Wang attraverso il canale di lavoro endoscopico e ottenuti sei campioni per la citologia. I vetrini ottenuti erano tutti cellulari: neutrofili non degenerati, macrofagi attivati, muco e detriti amorfi. Sparse nel vetrino erano presenti strutture ellittiche dotate di capsula spessa interpretate come uova di Spirocerca lupi. Sulla base delle immagini radiografiche, tomografiche, citopatologiche e a causa dell’area di provenienza di Balui è stata emessa una diagnosi di Spirocercosi. La cagna è stata trattata con doramectina 500µg/kg SC in due somministrazioni intervallate di 7 giorni. Il successivo follow-up a 40 giorni ha mostrato la completa remissione della sintomatologia e la scomparsa della massa in cavità toracica. Conclusioni. Una diagnosi presunta di Spirocercosi si basa sul rinvenimento radiografico di una massa nell’esofago caudale associata a spondilite delle vertebre toraciche caudali e l’esofagoscopia spesso evidenzia piccoli noduli lisci, rilevati sulla mucosa esofagea che possono avere una protuberanza a forma di capezzolo attraverso i quali le femmine depositano le uova. La conferma diagnostica si ottiene trovando le uova nelle feci ma la diagnosi di spirocercosi è molto difficile nella fase iniziale dell’infestazione. L’esame delle feci e la visualizzazione diretta delle caratteristiche uova ellissoidali embrionate sono un punto fondamentale per la diagnosi definitiva. La flottazione con una soluzione sovrasatura di zucchero è stata raccomandata ma il numero di falsi negativi è molto alto perché l’emissione delle uova è intermittente. Nel caso di Balui le uova sono state individuate dentro le lesioni esofagee tipiche della Spirocercosi indicando in questa sede una possibile e non precedentemente segnalata alternativa per la ricerca delle uova del parassita. La guarigione spontanea non è mai stata riferita mentre numerosi lavori dimostrano, come nel presente caso, l’efficacia e la sicurezza della terapia con doramectina. Questo caso suggerisce inoltre che in presenza di animali che hanno soggiornato all’estero in paesi tropicali e subtropicali e che si presentano a visita clinica con rigurgito e dispnea è opportuno considerare in diagnosi differenziale la Spirocercosi Bibliografia Van der Merwe LL, Kirberger RM, Clift S, Williams M, Keller N, Naidoo V. Spirocerca lupi infection in the dog: A review Vet J. 2008;176(3):294-309. Lobetti RG. Survey of the incidence, diagnosis, clinical manifestations and treatment of Spirocerca lupi in South Africa. J S Afr Vet Assoc. 2000; 71:43-46. De Lorenzi D. Furlanello T. What is your diagnosis? Esophageal nodules in a dog. Vet Clin Pathol. 2010; in press.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.Ssa Linda Di Martino - Clinica Veterinaria San Marco, Via Sorio 114/c, 35141 Padova (PD), Italia Tel 0498561098 - E-mail lindadima@libero.it

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RHODOCOCCOSI POLMONARE IN UN GATTO I. Di Matteo, DVM1, G. Coppola, DVM, PhD2, M. L. Marenzoni, DVM, PhD2, F. Passamonti, DVM, PhD2, M. Sforna, DVM, PhD1, E. Lepri, DVM, PhD, DECVP1 1 Sez. di Patologia ed Igiene Veterinaria, Dip. di Scienze Biopatologiche ed Igiene delle Produzioni Animali ed Alimentari, Facoltà di Medicina Veterinaria, Perugia, Italia 2 Sez. di Scienze Sperimentali e Biotecnologie Applicate, Dip. di Patologia,Diagnostica e Clinica Veterinaria, Perugia, Italia Area di interesse: Medicina felina Introduzione. Rhodococcus equi è un germe tellurico ubiquitario cocco-bastoncellare, Gram-positivo che colonizza i macrofagi. È un agente patogeno soprattutto della specie equina, in cui determina lesioni di tipo piogranulomatoso a carico dei polmoni e quadri di enterite ulcerativa con elevato tasso di mortalità, specialmente nei soggetti giovani. Il batterio è stato isolato anche in altre specie (suino, bovino, coniglio, cane, gatto e uomo) specialmente in condizioni di immunodepressione. Nei piccoli animali, a differenza di quanto avvenga negli equini, si riscontrano celluliti piogranulomatose agli arti, vaginiti, epatiti, osteomieliti, miositi, mentre rare sono le lesioni polmonari. Descrizione del caso. scopo della segnalazione è descrivere il caso di un gatto maschio sterilizzato di sei anni, regolarmente vaccinato, a vita prevalentemente indoor, che dopo aver trascorso un breve periodo in una struttura che ospitava anche cavalli, ha iniziato a presentare segni gastroenterici (vomito sporadico, febbre, anoressia, dolore addominale e diarrea) refrattari alla terapia medica intrapresa (enrofloxacin e metoclopramide). I test per FIV, FeLV e filariosi sono risultati negativi. Nei giorni successivi il soggetto ha iniziato a presentare anche una sintomatologia respiratoria, dovuta ad una grave alterazione del parenchima polmonare evidenziabile sulle radiografie toraciche, che mostravano un pattern alveolare diffuso, particolarmente visibile a livello dei lobi basali. L’animale è venuto a morte spontaneamente ed è stato sottoposto ad esame necroscopico. La cavità toracica conteneva uno scarso versamento siero emorragico; i polmoni apparivano non collassati, di colore rosa intenso con aree più congeste e focolai biancastri disseminati, con consistenza lievemente aumentata non consolidata; dalle vie aree e dal parenchima fuoriusciva abbondante materiale schiumoso torbido muco-purulento. La parete del digiuno era diffusamente ispessita ed i linfonodi meseraici megalici. Istologicamente i lumi alveolari risultavano ripieni di cellule epiteliali distaccate, detriti necrotici, ed un elevato numero di macrofagi attivati inframezzati a neutrofili, linfociti e rare plasmacellule. Il quadro era compatibile con grave broncopolmonite necrotizzante multifocale. Nell’intestino era evidente una infiltrazione di piccole cellule linfocitarie monomorfe che si estendeva dalla mucosa alla muscolare, con scarse atipie ed attività mitotica bassa, riferibile a linfoma intestinale a piccole cellule, immunofenotipizzato come linfoma T. L’esame batteriologico dal polmone ha consentito di evidenziare la crescita su agar sangue di colonie batteriche di aspetto mucoide, traslucide, a contorno irregolare, inizialmente biancastre e poi di colore rosa, ascrivibili a Rhodococcus equi, confermate da indagini biochimiche e molecolari (PCR), che hanno permesso anche l’evidenziazione del gene che codifica per la proteina di virulenza VapA. Il germe isolato è risultato maggiormente sensibile a eritromicina, azitromicina, claritromicina e rifampicina. Sulla base dei reperti anatomoistopatologici, batteriologici e biomolecolari, è stata emessa la diagnosi di rhodococcosi polmonare in soggetto affetto da linfoma addominale. Conclusioni. L’infezione da Rhodococcus equi nel gatto è piuttosto rara; l’infezione avviene di solito attraverso ferite penetranti, a differenza di quanto si verifica nella specie equina, in cui l’infezione è generalmente aerogena. Nel gatto infatti la manifestazione più comune è la formazione di lesioni piogranulomatose, in particolare a livello degli arti. Alcuni studi hanno dimostrato che il R. equi isolato da cani e gatti potrebbe derivare dai cavalli o dalle loro escrezioni. Nel caso qui descritto, non viene riportata in anamnesi l’evenienza di una ferita; si potrebbe quindi ipotizzare l’ingresso aerogeno del germe che, una volta penetrato, ha determinato la malattia in concomitanza ad uno stato di immunodepressione del soggetto dovuto probabilmente al linfoma. Il caso risulta interessante non solo perché la rhodococcosi polmonare è stata raramente riportata nel gatto, ma anche per il ruolo che questo animale potrebbe rivestire come potenziale vettore di infezioni opportunistiche patogene per l’uomo, specialmente in condizioni di immunodepressione. Bibliografia Cantor, G. H., B. A. Byrne, S. A. Hines, H. M. Richards III. 1998. VapA-negative Rhodococcus equi in a dog with necrotizing pyogranulomatous hepatitis, osteomyeletis, and myositis. J. Vet. Diagn. Invest. 10:297-300. Fairley R.A., Fairley N.M. 1999. Rhodococcus infection of cats. Vet. Dermatol. 10:43-46. Patel, A. 2002. Pyogranulomatous skin disease and cellulitis in a cat caused by Rhodococcus equi. J.S.A.P. 43:129-132. Sellon, D.C., T. E. Besser, S. L. Vivrete, R. S. McConnico. 2001. Comparison of nucleic acid amplification, serology, and microbiologic culture for diagnosis of Rhodococcus equi pneumonia in foals. J. Clin. Microbiol. 39:1289-1293. Takai, S., R. J. Martens, A. Julian, M. Garcia Ribeiro, M. Rodrigues de Farias, Y. Sasaki, K. Inuzuka, T. Kakuda, S. Tsubaki, J. F. Prescott. 2003. Virulence of Rhodococcus equi isolated from cats and dogs. J.Clin. Microbiol. 41:4468-4470. Greene, C.E. Rhodococcus equi infection. In Greene (ed). Infectious Diseases of the dog and cat. 3° ed., 2006 Saunders, Philadelphia.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Irene Di Matteo - Facoltà di Medicina Veterinaria, Via S. Costanzo 4, 06100 Perugia (PG), Italia - E-mail: irene_dimatteo@hotmail.it

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VALUTAZIONE PROSPETTICA DELL'INDUZIONE DELL’ANESTESIA GENERALE CON SOMMINISTRAZIONE AD INFUSIONE LENTA DI PROPOFOL NEL CANE: EFFETTI EMODINAMICI E QUALITÀ D’INDUZIONE G. Dravelli, DVM1, R. Rabozzi, DVM2 Clinica Veterinaria Vezzoni, Cremona, Italy 2 Clinica Veterinaria dell’Adriatico, Vasto, Italy 1

Area di interesse: Anestesia Scopo del lavoro. L’induzione dell’anestesia generale con propofol nel cane può essere accompagnata da significativa riduzione delle resistenze periferiche (ipotensione) e da depressione respiratoria (ipossia)1. Esistono inoltre evidenze che gli effetti di tossicità sul comparto cardiovascolare nel cane dipendano dalla massima concentrazione nel sito plasmatico (Cp-Max) e non dalla massima concentrazione nel sito effettore (Ce-Max)2. Successivamente ad una somministrazione rapida della dose d’induzione di propofol (30-60 sec) si consegue un rapido ottenimento della Cp-Max, seguito da un piu lento equilibrio della Cemax. Quest’ultima risulta essere però il determinante degli effetti clinici desiderati quali l’intubabilità e lo stato di anestesia generale. I protocolli di induzione dell’anestesia ad effetto clinico proposti in letteratura allo scopo di limitare il relativo sovradosaggio plasmatico non esaminano correttamente la costante di equilibrio tra plasma e biofase 3-4 e ben difficilmente riescono a raggiungere tale obiettivo. Con l’applicazione dei modelli Pk-PD del propofol pubblicati nel cane, grazie ai quali i dosaggi vengono trasformati in concentrazioni plasmatiche ed effettoriali, è possibile determinare una velocità di somministrazione limitata, in grado di minimizzare la velocità di entrata del farmaco nel sito effettore3-4. In questo modo è possibile valutare gli effetti clinici in relazione alle concentrazioni nella biofase, evitando il sovradosaggio plasmatico. L’obbiettivo del lavoro è quindi descrivere nel cane la tecnica di induzione con propofol ad infusione lenta dimostrandone l’applicabilità clinica, la sicurezza, gli effetti collaterali e valutarne l’impatto sull’emodinamica e sulla ventilazione. Materiali e metodi. Studio prospettico su cani adulti ASA1. Quaranta minuti dopo premedicazione con acepromazina (0,015 mg kg-1) e morfina (0,15 mg kg-1) IM, l’arteria metatarsale dorsale e la vena cefalica sono state cateterizzate e si è iniziato il monitoraggio ECG e pressorio. I dati sono stati registrati tramite un’interfaccia seriale ogni 5 secondi. L’induzione è stata ottenuta utilizzando una pompa a siringa guidata da un software (CCIP Hong Kong) con implementata la Pk3 e la PD4 del propofol nel cane e velocità limitata a 40 mg kg-1 h-1. L’intubazione è stata programmata quando il paziente dimostrava assenza di tono mandibolare e depressione/assenza del riflesso palpebrale. La depressione ventilatoria è stata valutata con pulsossimetria (SPO2) e valutazione dell’ETCO2 nel primo respiro dopo l’intubazione. Tutti i soggetti sono stati assegnati a ricevere un flusso libero di ossigeno per via nasale. La depressione emodinamica è stata indagata valutando la frequenza cardiaca (FC) e la pressione arteriosa invasiva (PA). È stato inoltre valutata la facilità di intubazione, la risposta diaframmatica all’intubazione e la comparsa di fenomeni eccitatori. Il tipo di distribuzione delle variabili è stato valutato con analisi delle frequenze e test di ShapiroWilk. Le variabili parametriche sono state descritte come media (deviazione standard), mentre le variabili non parametriche come mediana (range). L’analisi della varianza per gli effetti dell’induzione sulla pressione arteriosa è stata valutata con test di Friedman e analisi post-hoc di Dunns. Livello di significatività posto al 5%. Risultati. Sono stati inclusi nello studio 10 cani ASA 1; età e peso mediani di 5 (2-10) anni e 30 (27-55) kg. 1 cane obeso è stato tolto dall’analisi per non aver rispettato i criteri d’inclusione. FC e MAP preinduzione sono stati rispettivamente di 78 (5797) bpm e 92 (88-97) mmHg. FC e MAP minime sono state di 69 (53-95) bpm e 75 (73-84) mmHg. Calo mediano della MAP è stato di 14 (9-24) mmHg, che rappresenta un calo del 15% rispetto alla preinduzione. L’analisi della varianza della MAP durante induzione ha dimostrato una variazione significativa (p<0,05) rispetto al valore preinduzione. Propofol Ce e Cp mediane all’intubazione sono state rispettivamente di 3,4 (2,2-4,9) e 3,7 (2,5-5,1) mcg ml-1, corrispondenti ad un tempo d’infusione di 5,7 (3,5/9,5) minuti e 3,9 (2,4-6,3) mg Kg-1 totali di propofol. L’ETCO2 mediana post intubazione è stata di 41 mmHg (37-46), Spo2 mediana durante induzione di 95 (93-98)%; 9 soggetti su 10 hanno mantenuto una ventilazione spontanea. 1 cane ha riportato lievi segni di eccitazione; nessuna risposta diaframmatica all’intubazione. Conclusioni. L’induzione dell’anestesia generale con somministrazione ad infusione lenta a 40 mg kg-1h-1 di propofol nel cane è risultata essere una tecnica sicura e di semplice applicazione. Come dimostrano i risultati ottenuti, è infatti stato possibile ottenere una facile intubazione in assenza di ipotensione e depressione respiratoria significativa, valutando il momento corretto per la stessa, attraverso il monitoraggio clinico dell’ipnosi. Inoltre la depressione emodinamica e respiratoria sono risultate inferiori rispetto a quanto riportato in letteratura riguardo ad induzioni ottenute con infusione di propofol in 30 secondi3. Bibliografia 1. 2. 3. 4.

Dodan J.R. Textbook of small animal surgery di D. H. Slatter II vol. pag 2582. Novello L, Rabozzi R. World TIVA Congress - Venice 2007. Beths et al.Vet Rec 2001148, 198-203. Rabozzi R, Novello L, VAA 2007 34; 6: 1-16.

Indirizzo per corrispondenza: - Dott.ssa Giulia Dravelli - Clinica Veterinaria Vezzoni, Via Massarotti 60/A, 26100 Cremona (CR), Italy Tel. 3336238862 - Cell. 333/6238862 - E-mail: dgiulia@alice.it

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FERRITINEMIA NELL’EMANGIOSARCOMA M. Caldin, DMV, ECVCP Dipl., PhD. student, A. Zanella, DVM, T. Furlanello, DMV, ECVCP Dipl., PhD. student Clinica Veterinaria Privata San Marco, Padova, Italia Area di interesse: Oncologia Scopo del lavoro. La ferritina è una proteina prodotta principalmente a livello epatico ed è ubiquitaria ed altamente conservata nella maggior parte dei vertebrati. La funzione primaria è quella di legare il ferro intracellulare proteggendo la cellula dagli effetti tossici del metallo libero. A livello citoplasmatico se ne distinguono due sub unità: H ed L ciascuna di 20 Kd. Ventiquattro sub unità di ferritina si aggregano per formare la struttura dell’apoferritina, molecola di stoccaggio citoplasmatico, dal peso molecolare di 450 KD che può sequestrare fino a 4500 atomi di ferro. Una piccola quota di questa proteina è presente nel siero ed è in equilibrio dinamico con la quota tissutale. Il dosaggio di tale proteina a livello sierico è fortemente correlato con le riserve marziali organiche. Oltre alla esplorazione delle riserve marziali, la valutazione della ferritinemia viene principalmente utilizzata per lo studio delle condizioni flogistiche, in quanto proteina di fase acuta positiva e di intensità moderata. Negli ultimi anni la ferritina ha acquisito un ruolo sempre maggiore come biomarker oncologico in alcune neoplasie della specie umana. Scopo del presente lavoro è la valutazione di questa proteina di fase acuta in corso di emangiosarcoma nella specie canina. Materiali e metodi. Nel periodo compreso tra il 1 gennaio 2005 ed il 02 marzo 2010 sono stati diagnosticati, mediante esame istopatologico, 100 casi di emangiosarcoma canino (Gruppo 0). I pazienti affetti da emangiosarcoma erano costituiti da 27 Pastori tedeschi (22 maschi e 7 femmine) con prevalenza di razza 3.61%, 20 Boxer (14 maschi e 6 femmine) con prevalenza di razza 4.45%, 18 Meticci (10 maschie ed 8 Femmine) con prevalenza di razza 0.47%, 9 Labrador retriever (5 maschi e 4 femmine) con prevalenza di razza 1.54%, 3 Golden retriever (3 maschi) con prevalenza di razza 1.05%, 3 Dalmata (1 maschio e 2 femmine) con prevalenza di razza 2.48%, 3 Siberian husky (3 maschi) con prevalenza di razza 2.61% ed 1 soggetto per ciascuna delle razze a seguire: Cocker spaniel inglese, Beagle, Doberman, Setter inglese, Bovaro del bernese, Schnauzer medio Cane corso, Segugio italiano, Setter irlandese, Chow chow, Piccolo levriero italiano, Airdale terrier, Rodhesian ridgeback, Spinone italiano, Barbet. Dei pazienti rientrati nel nostro studio si disponeva di tutte le informazioni cliniche di rilievo e dei seguenti accertamenti: esame emocromocitometrico, profilo biochimico, elettroforesi, esame delle urine, profilo coagulativo, ecografia addominale/radiografie del torace in due proiezioni e/o esame tomografico multistrato. Dopo stratificazione per razza, sesso, condizione sessuale (interi-castrati) ed età, sono stati selezionati altri due gruppi controllo di 100 pazienti ciascuno, rispettivamente sani (Gruppo 1) ed ammalati (Gruppo 2). La selezioni di questi soggetti è avvenuta per estrazione casuale semplice nell’ambito degli strati prima citati con l’obiettivo di ridurre la variabilità biologica legata ai pazienti. La stratificazione di razza si è ottenuta in 88 casi su 100 (88%) nel gruppo 1 e in 100 casi su 100 (100%) nel gruppo 2. Nel gruppo 1 le razze non disponibili sono state sostituite con meticci con variazione di peso non superiori o inferiori ai 5 Kg rispetto ai soggetti appartenenti al gruppo 0. La stratificazione per età ha considerato accettabile una variazione di età non superiore ai 3 mesi. Il dosaggio della ferritinemia è stato ottenuto mediante metodo immunoturbidimetrico, validato nella specie canina. I risultati della ferritinemia sono stati sottoposti alla valutazione di normalità mediante il test di Shapiro-Wilk. Il confronto tra gruppi è stato ottenuto mediante test di Kruskal-Wallis ed il contrasto alla pari mediante il test di Bonferroni. Si è considerato significativo un valore di p < 0.05. Risultati. Il dosaggio della ferritina sierica si è rilevato molto più elevato nel Gruppo 0, rispetto ai Gruppi 1 e 2, e tale differenza è risultata statisticamente molto significativa sia nel Gruppo 1 (p< 0.0001) che nel Gruppo 2 (p< 0.0001). Conclusioni. Il dosaggio della ferritina sierica, mediante metodo immunoturbidimetrico, ha consentito di identificare, anche nella specie canina, un possibile ruolo di biomarcatore neoplastico almeno nell’emangiosarcoma. Ulteriori studi dovranno essere eseguiti per valutare la presenza di fattori di confondimento in grado di modificare i livelli sierici di questa proteina ed il comportamento della medesima in condizioni neoplastiche differenti. Bibliografia Caldin M., Furlanello T., Lubas G. - Use of an automated Ferritin assay in normal dogs and its utility in the assessment of iron status - J. Vet. Int. Med., 1999, 13: 262. Torti F. M., Torti S. V. - Regulation of ferritin genes and protein. Blood, 2002, 10:3505-3516. Newlands CE, Houston DM - Hyperferritinemia associated with malignant histiocytosis in a dog. J Am Vet Med Assoc. 1994,15;205(6):849-51.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Furlanello Tommaso - Clinica Veterinaria Privata San Marco, Via Sorio 114/c, 35141 Padova (PD), Italia Tel. 049/8561098 - E-mail tf@sanmarcovet.it

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TRATTAMENTO CON ATRACURIO BESILATO ENDOURETRALE IN 20 GATTI MASCHI CON TAPPI URETRALI F. Galluzzi, Med Vet1, F. De Rensis, Med Vet, PhD2, G. Spattini, Med Vet, PhD, DECVDI1 1 Clinica Veterinaria Castellarano, Castellarano (RE), Italia 2 Dipartimento di Salute Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Parma, Parma, Italia Area di interesse: Nefrologia e Urologia Scopo del lavoro. L’atracurio besilato (AB) è un farmaco bloccante neuromuscolare non depolarizzante che compete con l’acetilcolina e si lega ai recettori nicotinici della giunzione neuromuscolare provocando paralisi della muscolatura striata.¹ L’ipotesi del lavoro è che l’AB possa agire per via endouretrale sulla muscolatura striata uretrale. Abbiamo valutato la capacità dell’AB di ridurre lo spasmo uretrale e facilitare la rimozione meccanica dei tappi uretrali. Materiali e metodi. È stato effettuato uno studio prospettivo su gatti maschi presentati in clinica per ostruzione uretrale. Sono stati scartati i gatti che presentavano l’ostruzione sulla punta del pene e quelli con uroliti. 20 gatti, 14 castrati e 6 interi, con ostruzione da tappi uretrali, sono stati inclusi nello studio. In tutti i gatti l’anamnesi riportava anuria o stranguria presenti da 1 a 4 giorni. In tutti i pazienti è stata effettuata la palpazione vescicale transaddominale ed è stata eseguita una valuazione ecografica dell’apparato urinario. La diagnosi di ostruzione è stata confermata dall’impossibilità di cateterizzare l’uretra fino allo sbocco in vescica. 12 (60%) pazienti sono stati anestetizzati con acepromazina, butorfanolo, isoflorano e propofol (quest’ultimo solo in 2 soggetti). 8 (40%) gatti sono stati contenuti manualmente. In nessun paziente è stata eseguita una cistocentesi decompressiva. È stata utilizzata una siringa da 5 ml (Omnifix® Luer Lock) per diluire 0,2 ml di AB (Tracrium®, fiale da 10 mg/1 ml) con soluzione fisiologica fino a raggiungere un volume di 4 ml (concentrazione di principio attivo pari a 0,5 mg/ml). Con il paziente in decubito laterale è stato disinfettato il prepuzio e, dopo aver estratto il mandrino metallico, un catetere endovenoso in teflon di 3 french (Delta Ven®1), lubrificato con gel contenente lidocaina 1% (Luan®), è stato inserito in uretra fino al punto dell’ostruzione. Qualora il catetere descritto, a causa della sua lunghezza, non era in grado di raggiungere il punto dell’uretra ostruito, è stato utilizzato un catetere vescicale Buster® in polietilene di 3 French. Inizialmente è stato tentato un flushing uretrale retrogrado con una siringa da 5 ml contenente fisiologica. È stata valutata soggettivamente la resistenza incontrata dallo stantuffo della siringa ed è stato assegnato un punteggio variabile da 0 a 3: 0 esprime resistenza nulla (assenza di ostruzione), 3 esprime massima resistenza e quindi impossibilità di introdurre liquido in uretra. Subito dopo è stato irrigato il tratto di uretra a valle dell’occlusione con 0,3-0,5 ml di soluzione contenente AB, quindi, con la punta del catetere posizionata in prossimità dell’ostruzione, è stata mantenuta una lieve pressione sullo stantuffo della siringa per 5 minuti, comprimendo il prepuzio a livello di orifizio uretrale per impedire il riflusso della soluzione verso l’esterno. Trascorso tale periodo, è stata aumentata la pressione sullo stantuffo della siringa ed è stato assegnato un nuovo punteggio relativo al grado di resistenza dello stantuffo della siringa. Quando possibile, i tappi uretrali sono stati espulsi per mezzo di una leggera compressione vescicale, oppure respinti in vescica per mezzo del flushing. Il trattamento con AB è stato ripetuto, seguendo la stessa metodica, fino al ripristino della pervietà uretrale. Non più di tre irrigazioni sono state necessarie. Risultati. Il flushing retrogrado preliminare eseguito con soluzione fisiologica ha documentato 16 (80%) casi di ostruzione uretrale completa e 4 (20%) casi di ostruzione uretrale parziale. In seguito alla terapia con AB l’ostruzione uretrale è stata risolta in tutti i gatti ed i tappi uretrali sono stati rimossi facilmente in 12 (60%) pazienti con il primo trattamento, in 6 (30%) con un secondo, mentre in 2 (10%) gatti sono stati necessari tre trattamenti. Dopo il trattamento intrauretrale con AB, una lieve compressione manuale della vescica ha permesso l’espulsione esterna dei tappi in 9 (45%) gatti, mentre il flushing retrogrado ha permesso di respingere in vescica i tappi uretrali in 11 (55%) gatti. Conclusioni. Nel gatto maschio, vista la netta prevalenza della muscolatura striata rispetto a quella liscia nel tratto compreso tra uretra prostatica e peniena, i farmaci in grado di rilassare la componente muscolare striata possono risultare più efficaci nel trattamento dell’ostruzione uretrale.² Nel trial AB si è dimostrato efficace nel ristabilire la pervietà uretrale riducendo il rischio di rotture e di altre lesioni iatrogene a carico dell’uretra derivate dalle manovre dell’operatore. Il metodo descritto è semplice, economico e permette di risolvere l’ostruzione in tempi brevi. I farmaci bloccanti neuromuscolari, scarsamente liposolubili, attraversano con difficoltà le membrane lipoproteiche.¹ Perciò è necessario mantenere la soluzione di AB a contatto con l’urotelio per tempi prolungati. Questo studio ha documentato che AB è in grado di attraversare l’urotelio, raggiungere la giunzione neuromuscolare e svolgere la sua azione localmente senza provocare effetti collaterali sistemici. Bibliografia 1. 2.

Martinez EA, Keegan RD: Muscle Relaxants and Neuromuscular Blockade. In: Tranquilli WJ, Thurmon JC, Grimm KA: Veterinary Anesthesia and Analgesia. Blackwell Publishing, 2007, pp 419-437. Lane IF : Pharmacologic management of feline lower urinary tract disorders. In: Vet Clin North Am Small Anim Pract. 1996; 26(3):515-533.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Franco Galluzzi - Clinica Veterinaria Castellarano, Via Fuori Ponte 1/1, 42014 Castellarano (RE), Italia Tel. 0536/859701 - Cell. 338/5069138 - E-mail: argosclinicavet@email.it

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ALDOSTERONOMA: AN UNUSUAL CAUSE OF POTASSIUM DEPLETION MYOPATHY IN A DOG L. Golini, DMV, MS1, M. Hilbe, Dr.Med.Vet, Dipl. ECVP2, F. Steffen, PD Dr.Med.Vet., Dipl. ECVN1,4, C. Reusch, Prof. Dr.Med.Vet, Dipl. ECVIM-CA3,4 1 Neurology Service, Clinic for Small Animal Surgery, VetSuisse Faculty, University Of Zurich, Winterthurerstrasse 260, 8057 Zurich, Switzerland 2 Institute of Veterinary Pathology, VetSuisse Faculty, University of Zurich, Winterthurerstrasse 268, 8057 Zurich, Switzerland 3 Clinic for Small Animal Internal Medicine Vetsuisse Faculty, University of Zurich, Winterthurerstrasse 260, 8057 Zurich, Switzerland 4 Authors, had equally, contributed Topic: Neurology Introduction. Flexion of the neck is a clinical sign of muscular weakness frequently observed in cats1. In dogs this clinical sign is unusual, and its association with a primary adrenal gland tumor has not been previously described2-4. Description of the case. A male castrated, eleven years old, Appenzeller Sennenhund was presented due to severe lethargy, exercise intolerance, “low-carried” head and polydipsia for one day duration. The dog had normothermia, good body condition (BCS 6/9) and moderate dehydration (10%). Neurologically, the dog showed generalized muscular weakness, normal cranial nerves, normal proprioceptive/postural reactions, reduced flexor reflexes in all limbs and flexion of the neck. The neuroanatomical localization was the neuromuscular junction and/or muscles. Initially work-up included complete blood cell count, biochemistry, urine analysis and blood pressure measurement. Biochemical analysis revealed increased creatinine kinase (1018 U/L, ref. range: 51 – 191) increased AST (89 U/L, ref.range 20 - 44) and persistent marked hypokalemia (2.4±0.15 mmol/L, ref. range 4.3 – 5.3), sodium concentration was close to the upper limit of normal (158 mmol/L, ref. range 152 – 159). Chloride concentration was normal and no alkalosis was found by blood gas analysis. Urinalysis revealed hyposthenuria (urine specific gravity 1.002), urinary fractional excretion of potassium (FEk) was 116% (normal value5 < 2%) supporting massive renal loss5 of potassium. The dog showed also a borderline persistent hypertension (doppler sonographic measurements of systolic blood pressure: 160 mmHg). A rounded mass with inhomogeneous echogenicity in the cranial pole of the left adrenal gland was found during abdominal ultrasonography. Endocrine tests were performed to rule out a cortisol producing mass (urine creatine/cortisol ratio, serum cortisol determination before and after ACTH stimulation) or a pheochromocytoma (urinary catecholamines and metanephrines to creatinine ratios6). Finally, aldosterone and renin activity were assessed in the peripheral blood. Aldosterone concentration was increased (349 pg/ml, ref. range7: 2 – 96 pg/ml) and renine activity was low (< 0.05 ng/ml/h, ref. range: 0.2 – 2 ng/ml/h), supporting the presumptive diagnosis of aldosteronoma8. The dog was subsequently diagnosed as having potassium depletion myopathy due to mineralocorticoid excess. Potassium supplementation and spironolactone (0,5 mg/Kg/q24h) administration improved the clinical signs. Adrenalectomy was performed. Recovery from anesthesia was uneventful and, two days post-surgery, the dog was discharged. Urinary FEk had markedly diminished and blood pressure was normal at that time. Aldosterone and renin activity normalized within two weeks. Histologically the tumor showed extensive compression of normal adrenal architecture, consisting out of nests of different size surrounded by fine fibrovascular stroma. Near to the stroma the tumor cells show palisading. The neoplastic cells are oval to spindle shaped, have a large round nuclei sowing moderate anisokaryosis and abundant eosinophilic slightly foamy cytoplasm, cell borders are indistinct. Few mitotitic figures are visible. Histologically a neuroendocrine tumor was diagnosed, clinically compatible with an aldosteronoma. Conclusions. This unusual case illustrates that neuromuscular signs in dogs are reversible after surgical removal of an aldosterone producing neoplasm. In this situation, clinical signs together with hypertension, quantification of urine FEk and hormonal measurements will clarify the etiology of potassium depletion myopathy. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Grevel V, Opitz M, Steeb C, et al. [Myopathy due to potassium deficiency in eight cats and a dog]. Berl Munch Tierarztl Wochenschr 1993;106:20-26. Kooistra R, van Vonderen I, Mol J, et al. Aldosteronoma in a dog with polyuria as the leading symptom. Domest Anim Endocrinol 2001;20:227-240. Vite C. Myopathic disorders. In: Vite C, ed. Braund’s Clinical Neurology in Small Animals: Localization, Diagnosis and Treatment. Ithaca NY: International Veterinary Information Service (www.ivis.org); 2006. Breitschwerdt E, Meuten D, Greenfield C, et al. Idiopathic hyperaldosteronism in a dog. J Am Vet Med Assoc 1985;187:841-845. DiBartola S, de Morais H. Disorders of the potassium In: DiBartola S, ed. Fluid, electrolyte, amd acid-base disorders, 3rd ed. St. Louis (MO): Elsevier; 2006:91-121. Kook P, Grest P, Quante S, et al. Urinary catecholamine and metadrenaline to creatinine ratios in dogs with a phaeochromocytoma Vet Rec 2010;166:169-174. Nelson R, Turnwald G, Willard M. Endocrine, metabolic, and lipid disorders. In: Willard M, Tvedten H, eds. Small animal diagnosis by laboratory methods. St. Louis (MO): Saunders; 2004:163-206. Javadi S, Djajadiningrat-Laanen SC, Kooistra HS, et al. Primary hyperaldosteronism, a mediator of progressive renal disease in cats. Domest Anim Endocrinol 2005;28:85-104.

Corresponding Address: Dott. Lorenzo Golini - Neurology Service, Clinic for Small Animal Surgery, VetSuisse Faculty, University of Zurich, Winterthurerstrasse 260, 8057 Zurich, Switzerland - E-mail: lgolini@vetclinics.uzh.ch

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INFEZIONE DEL TRATTO URINARIO DA CORYNEBACTERIUM UREALYTICUM IN DUE CANI R. Isaya, Medico Veterinario1, F. Dondi, Medico Veterinario, PhD1, R. Biserni, Medico Veterinario, PhD1, S. Piva, Medico Veterinario, PhD2, M. Giunti, Medico Veterinario, PhD1 1 Dipartimento Clinico Veterinario - Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Ozzano dell’Emilia (BO), Italia 2 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e di Patologia Animale - Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Ozzano dell’Emilia (BO), Italia Area di interesse: Nefrologia e Urologia Introduzione. Il Corynebacterium urealyticum è un batterio multiresistente, Gram-positivo, ureasi-produttore, responsabile di una rara forma di infezione delle vie urinarie (Urinary Tract Infecion, UTI) nel cane e nel gatto. Esistono diversi fattori di rischio che possono predisporre all’infezione quali immunodepressione, UTI precedenti, cateterismo urinario, ospedalizzazione per lunghi periodi e terapie antibiotiche. Il C. urealyticum può causare una UTI caratterizzata da alcalinizzazione delle urine e urolitiasi da struvite e fosfato di calcio fino alla formazione di placche vescicali (cosiddetta “cistite incrostata”). Descrizione del caso. Questo studio descrive una UTI da C. urealyticum in due cani: un Lagotto Romagnolo, femmina sterilizzata di 12 anni (caso 1) e un Pastore Tedesco, maschio di 14 anni (caso 2). I due cani avevano in comune un’anamnesi con problemi neurologici al rachide, precedenti UTI trattate con terapia antibiotica, un periodo lungo di ospedalizzazione e cateterismo urinario permanente. I segni clinici principali erano riferibili a patologie delle vie urinarie inferiori. Nel caso 1, l’analisi delle urine ha mostrato ematuria macroscopica, peso specifico 1056, pH 8,5, proteinuria (100 mg/dl) ed eritruria (250 eritrociti/µl). Il sedimento era caratterizzato da leucocituria, eritruria, marcata cristalluria di struvite ed una grave batteriuria con bastoncelli Gram-positivi. I reperti urinari nel caso 2 erano ematuria macroscopica, peso specifico 1026, pH 7.0, proteinuria (30 mg/dl) ed eritruria (250 eritrociti/µl). Il sedimento urinario presentava moderata eritruria e leucocituria con numerosi bastoncelli Gram-positivi. L’esame batteriologico con antibiogramma ha permesso di isolare il C. urealyticum, sensibile ad antibatterici glicopeptidici in entrambi i casi. È stata impostata una terapia con teicoplanina (6 mg/Kg q24h) per 3 settimane. Nel caso 1, i segni clinici sono progressivamente migliorati, tuttavia dopo 14 giorni dall’inizio della terapia l’esame colturale ha evidenziato una sovrainfezione da Escherichia Coli che è stata trattata con Imipenem per 4 settimane. Nel corso dei due mesi di follow-up gli esami colturali sono risultati negativi e ad oggi il cane è clinicamente asintomatico. Nel caso 2 i segni clinici non si sono mai risolti completamente nonostante l’esito negativo del batteriologico e dopo la sospensione della terapia antibatterica il cane ha presentato una recidiva con ostruzione delle vie urinarie inferiori. L’ecografia addominale ha evidenziato un ispessimento della parete vescicale, presenza di strutture iperecogene all’interno del lume e idronefrosi bilaterale associata a dilatazione ureterale. Il cateterismo ha permesso di rimuovere un “plug” localizzato a livello di uretra peniena e di risolvere l’ostruzione; tuttavia le condizioni cliniche del soggetto sono progressivamente peggiorate a causa di una pielonefrite e conseguente sepsi. Dopo pochi giorni il cane è stato sottoposto ad eutanasia. Conclusioni. I due casi descritti presentano numerose analogie per ciò che riguarda i fattori predisponenti all’infezione, i segni clinici e clinico-patologici che si verificano in corso di infezione da C. urealyticum, in accordo con la Letteratura consultata. A conoscenza degli autori, nel cane non è stata mai descritta una ostruzione delle vie urinarie inferiori in corso di infezione da C. urealyticum come è avvenuto nel caso 2. In Medicina Umana, tale patologia è considerata una infezione nosocomiale ed in questo studio la peculiarità è data dal fatto che i due cani sono stati ospedalizzati contemporaneamente, il che potrebbe far ipotizzare una possibile trasmissione del patogeno per via indiretta. La presenza di questo microrganismo deve essere sospettata in tutti i casi in cui sia presente una alcalinizzazione delle urine con cristalluria da struvite e segni clinici di UTI. Una diagnosi precoce associata ad un trattamento antibatterico mirato sono importanti per prevenire le principali complicazioni associate quali ostruzione delle vie urinarie, infezioni ascendenti e sepsi, e conseguentemente migliorare l’outcome dei pazienti. Bibliografia Suarez M.L. et al.- Urinary tract infection caused by Corynebacterium urealyticum in a dog. Journal of Small Animal Practice. 43: 299-302, 2002. Bailiff N.L. et al.- Corynebacterium urealyticum urinary tract infection in dogs and cats: 7 cases (1996-2003). Journal of American Veterinary Medical Association. 10(226): 1676-1680, 2005. Soriano F., Tauch A.- Microbiological and clinical features of Corynebacterium urealyticum: urinary tract stones and genomics as the Rosetta Stone. Clinical Microbiology and Infection. 14: 632-643, 2008.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Francesco Dondi - Dipartimento Clinico Veterinario - Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Via Tolara Di Sopra n°50, 40064 Ozzano Dell’emilia (BO), Italia - Tel 051/2097317 - Cell 3206297728 - E-mail f.dondi@unibo.it

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LINFOMA MULTICENTRICO AD ALTO GRADO NEL CANE: ESISTONO I SUPEREROI? L. Marconato, DVM, DECVIM-CA Oncology1, D. Stefanello, DVM, PhD2, P. Valenti, DVM, Resident Medical Oncology1, U. Bonfanti, DVM, DECVCP3, S. Comazzi, DVM, DECVCP4, P. Roccabianca, DVM, DECVP4, M. Caniatti, DVM, DECVP4, G. Romanelli, DVM, DECVS5, F. Massari, DVM, Resident Surgery5, E. Zini, DVM, PhD, DECVIM6 1 Animal Oncology and Imaging Center, Hünenberg, Svizzera 2 Department of Veterinary Clinical Sciences, School of Veterinary Medicine, University of Milan, Milano, Italia 3 Clinica Veterinaria Gran Sasso, Milano, Italia 4 Department of Animal Pathology, Hygiene and Public Health, School of Veterinary Medicine, University of Milan, Milano, Italia 5 Clinica Veterinaria Nerviano, Nerviano (MI), Italia 6 Clinic for Small Animal Internal Medicine, Vetsuisse Faculty, University of Zürich, Zurigo, Svizzera Area di interesse: Oncologia Scopo del lavoro. Determinare in una popolazione di cani con linfoma multicentrico ad alto grado la frequenza dei soggetti che sopravvivono oltre 2 anni, valutare le loro caratteristiche cliniche e biologiche, ed identificare fattori associati a sopravvivenza a lungo termine. Materiali e metodi. Studio retrospettivo. Si includevano cani con linfoma multicentrico ad alto grado, completamente stadiati e trattati con chemioterapia. I cani vivi > 2 anni dopo la diagnosi erano definiti come sopravvissuti a lungo termine, gli altri servivano da controllo. Numerose variabili erano analizzate per identificare quali cani sopravvivevano >2 anni. Risultati. 127 cani erano inclusi nello studio. Di questi, 13 (10.2%) sopravviveva >2 anni con sopravvivenza mediana di 914 giorni (range, 740-2058). Il tasso di sopravvivenza a 3, 4 e 5 anni era di 3.9%, 3.1%, e 0.8%, rispettivamente. Alla diagnosi, 11 dei 13 (84.6%) sopravvissuti a lungo termine avevano peso corporeo = 10 kg, ematocrito = 35%, assenza di ipercalcemia ionizzata, linfoma centroblastico, immunofenotipo B, assenza di infiltrazione midollare, stadio clinico I-IV, e non erano stati pretrattati con corticosteroidi. La stessa combinazione di variabili si osservava in 26 di 114 (22.8%) cani che sopravvivevano meno di 2 anni. Il valore predittivo negativo per i sopravvissuti a lungo termine era del 97.8%. Quattro (66.7%) dei 6 sopravvissuti a lungo termine che morivano nel corso dello studio sviluppavano un secondo tumore maligno (osteosarcoma in 3 casi). Conclusioni. La presenza alla diagnosi di una combinazione di variabili fortunate può permettere di identificare cani con linfoma che sopravvivono oltre 2 anni. Un secondo tumore maligno (in particolare, osteosarcoma) può svilupparsi in cani con linfoma multicentrico ad alto grado che sopravvivono a lungo termine. Bibliografia Feuerstein M. Defining cancer survivorship. J Cancer Surviv 2007; 1:5-7. Haddy TB, Adde MA, McCalla J, et al. Late effects in long-term survivors of high-grade non Hodgkin’s lymphomas. J Clin Oncol 1998; 16: 2070-2079. Travis LB, Curtis RE, Glimelius B, et al. Second cancers among long-term survivors of non-Hodgkin’s lymphoma. J Natl Cancer Inst. 1993; 85: 1932-1937. Ng AK, Travis LB. Subsequent malignant neoplasms in cancer survivors.Cancer J 2008; 14: 429-434. Vail DM, Young KM. Canine lymphoma and lymphoid leukemia. In: Withrow SJ, Vail DM, eds. Withrow & MacEwen’s Small Animal Clinical Oncology, 4th ed. Philadelphia: WB Saunders Co, 2007; 699-722. Moser EC, Noordijk EM, van Leeuwen FE, et al. Risk of second cancer after treatment of aggressive non-Hodgkin’s lymphoma; an EORTC cohort study. Haematologica. 2006; 91: 1481-1488. Hawkins MM, Wilson LM, Burton HS, et al. Radiotherapy, alkylating agents, and risk of bone cancer after childhood cancer. J Natl Cancer Inst. 1996; 88:270278. Tucker MA, D’Angio GJ, Boice JD, et al. Bone sarcomas linked to radiotherapy and chemotherapy in children. N Engl J Med 1987; 317: 588-593.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Laura Marconato, Animal Oncology and Imaging Center, Rothusstrasse 2, CH-6331 Hünenberg Phone 0041417830777 - Fax 0041417830779 - E-mail: marconato@aoicenter.ch

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L’IMMUNOFENOTIPO E’ UN FATTORE PROGNOSTICO NELLE LEUCEMIE LINFOCITICHE CRONICHE NEL CANE V. Martini, DVM1, M. E. Gelain, DVM, PhD, dECVCP1, F. Riondato, DVM, PhD2, L. Marconato, DVM, dECVIM-ONC3, D. Stefanello, DVM, PhD4, M. Mortarino, DVM, PhD1, S. Comazzi, DVM; PhD, dECVCP1 1 DIPAV, Università degli Studi di Milano, Milano, Italy - 2 Dip.Pat. Anim. Università degli Studi di Torino, Torino, Italy 3 Animal Oncology and Imaging Center, Hünenberg,, Switzerland 4 Dip Scienze Cliniche Vet., Università degli Studi di Milano, Milano, Italy Area di interesse: Patologia clinica Scopo del lavoro. La leucemia linfocitica cronica (CLL) è una patologia ematologica frequente nel cane e generalmente caratterizzato da tempi di sopravvivenza piuttosto lunghi e da un decorso indolente (Helfand e Modiano, 2000; Workman e Vernau, 2003), sebbene non vi siano studi su estesa casistica che ne definiscano in modo univoco i fattori prognostici. A differenza della medicina umana, nella quale le CLL sono unicamente neoplasie delle cellule B, nel cane le cellule mostrano generalmente un fenotipo T (CD3+CD8+) o più raramente B (CD21+) (Vernau e Moore, 1999). In medicina umana sono stati identificati diversi fattori prognostici, tra quali la presenza di più del 10% di prolinfociti, anemia e trombocitopenia, l’incremento rapido del numero di linfociti, nonchè l’espressione di caratteristici markers molecolari o alterazioni citogenetiche (Binet et al., 1981; Rai et al., 1987). Nel cane, la maggior parte degli oncologi risulta concorde nel ritenere indispensabile l’approccio chemioterapico solo in presenza di sintomi clinici evidenti o di gravi anemia e leucocitosi, anche se non esistono, a tutt’oggi, linee guida a riguardo. Scopo del presente studio retrospettivo è identificare se alcuni parametri, tra i quali l’immunofenotipo citofluorimetrico delle cellule neoplastiche, possono essere considerati fattori prognostici nelle leucemie linfocitiche croniche del cane. Si è voluto inoltre verificare se l’approccio terapeutico utilizzato fosse correlate alla sopravvivenza. Materiali e metodi. Sono stati esaminati 43 cani sottoposti ad immunofenotipizzazione mediante citofluorimetria del sangue periferico. I criteri di inclusione comprendevano: una diagnosi finale di CLL ottenuta mediante valutazione ematologica ed immunofenotipica, l’esclusione di patologie confondenti quali ehrlichiosi, leishmaniosi o di altre neoplasie quali linfoma e mieloma multiplo, la disponibilità di dati clinici e di un completo follow-up, la disponibilità di almeno uno striscio ematico di buona qualità per la rivalutazione. La sopravvivenza dal momento della diagnosi è stata valutata mediante curve di Kaplan-Meier e analisi multivariata secondo Cox, sia considerando tutti i casi sia raggruppandoli per differente immunofenotipo. Sono state prese in considerazione le seguenti variabili: immunofenotipo, età alla diagnosi, ematocrito, numero assoluto di linfociti e tipo di terapia ricevuta (nessuna terapia, solo corticosteroidi, corticosteroidi + chemioterapia antineoplastica). Risultati. 43 casi soddisfacevano i criteri di inclusione: 19 cani con T-CLL (CD3+CD8+), 17 cani con B-CLL (CD21+) e 7 casi con fenotipi atipici (3 CD3-CD8+, 2 CD3+ CD4- CD8-, 1 CD3+ CD4+ CD8+ and 1 CD3+ CD21+). Tra tutte le variabili esaminate solo l’immunofenotipo è risultato correlato con la sopravvivenza. In particolare i cani con T-CLL avevano una probabilità rispettivamente circa 3 volte e 19 volte superiore di morire rispetto a quelli con B-CLL e con CLL atipiche con tempi di sopravvivenza mediana per le T-CLL, le B-CLL e le CLL atipiche rispettivamente di 930, 480 e 22 giorni. La giovane età dei soggetti (<8 anni) risultava essere correlate con una sopravvivenza più breve solo nelle B-CLL mentre la presenza di anemia era un fattore prognostico sfavorevole solo nelle T-CLL. Al contrario la presenza di prolinfociti, ed il differente approccio terapeutico non sono risultati correlate con significative variazioni della sopravvivenza dei soggetti. Conclusioni. Il presente lavoro risulta essere il primo tentativo di definire aspetti prognostici nella CLL del cane. Alcuni dei fattori prognostici identificati nell’uomo non sono risultati legati a differente sopravvivenza nel cane (Zwiebel et al., 1998) in cui il fattore maggiormente predittivo risulta essere l’immunofenotipo. A tutt’oggi nessun autore ha mai evidenziato correlazioni tra i differenti fenotipi e la sopravvivenza dei soggetti, tuttavia la distinzione tra T-CLL e CLL atipiche non è mai stata proposta ed i dati clinici e di follow-up sono sempre stati piuttosto scarsi e frammentari. Il presente lavoro evidenzia la necessità di utilizzare le più moderne indagini diagnostiche diponibili per poter definire il comportamento biologico delle neoplasie ematologiche analogamente a quanto da anni effettuato in medicina umana. Bibliografia Helfand SC, Modiano JF. Chronic lymphocytic leukemia. In: Feldman BF, Zinkl JG, Jain NC, editors. Schalm’s veterinary hematology. 5th edition. Baltimore: Lippincott Williams & Wilkins; 2000. p. 638–641. Rai KR, Sawitsky A. A review of the prognostic role of cytogenetic, phenotypic, morphologic, and immune function characteristics in chronic lymphocytic leukemia. Blood Cells. 1987;12(2):327-338. Binet JL, Auquier A, Dighiero G, et al. A new prognostic classification of chronic lymphocytic leukemia derived from a multivariate survival analysis. Cancer. 1981;48(1):198-206. Vernau W, Moore PF. An immunophenotypic study of canine leukemias and preliminary assessment of clonality by polymerase chain reaction. Vet Immunol Immunopathol. 1999; 69(2-4):145-164. Workman HC, Vernau W. Chronic lymphocytic leukemia in dogs and cats: the veterinary perspective. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2003;33(6):1379-1399. Zwiebel JA, Cheson BD.Chronic lymphocytic leukemia: staging and prognostic factors. Semin Oncol. 1998;25(1):42-59.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Stefano Comazzi - Universita’ Degli Studi Di Milano Dip. Sez. Patologia Generale, Via Celoria, 10, 20133 Milano (MI), Italy Tel. 02/50318103 - E-mail: stefano.comazzi@unimi.it

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PERICARDIECTOMIA TORACOSCOPICA IN CORSO DI VERSAMENTO PERICARDICO: 11 CASI 1

S. Mastromattei, DVM1 Clinica Veterinaria Roma Sud, Roma, Italia Area di interesse: Chirurgia

Scopo del lavoro. La pericardiectomia è considerata un trattamento definitivo per versamenti pericardici benigni o idiopatici e palliativo per versamenti pericardici maligni1. Può essere utilizzata per prelevare campioni istologici, per eseguire diagnosi che coinvolgono la cavità toracica o per eseguire una varietà d’interventi. L’introduzione della toracoscopia ha consentito lo sviluppo in campo medico e veterinario di molte tecniche mininvasive, tra cui anche la pericardiectomia transtoracoscopica (PT)2,3,4. Una riduzione del dolore post operatorio e un minor tempo di recupero sono le caratteristiche essenziali di questa tecniche. Lo scopo di questo lavoro è riportare la nostra esperienza in 11 casi di versamento pericardico trattati con PT. Materiali e metodi. Sono stati presi in esame i pazienti giunti nella nostra clinica dall’ottobre 2008 a gennaio 2010, includendo quelli in cui erano disponibili storia clinica, segni clinici, risultato delle indagini diagnostiche, descrizione della tecnica operatoria, diagnosi istologica e follow-up. Nel periodo post operatorio abbiamo valutato le condizioni del paziente con la visita clinica, radiografia toracica ed elettrocardiogramma, ogni giorno prima della dimissione; come anche, ad 1 settimana, ad 1 mese e 2 mesi e quindi ogni 6 mesi. In tutti i casi la PT è stata eseguita con approccio paraxifoideo, per l’inserimento del trocar per l’ottica e, laterale destro per i due trocar delle pinze da lavoro come descritto da Monnet5. 11 pazienti hanno rispettato questi criteri d’inclusione. 4 pastori tedeschi, 1 american bulldog, 2 meticci, 1 san bernardo, 1 bullmastiff, 1 siberian husky e 1 boxer; l’età media era 8 anni (range 2-13 anni); 6 maschi 5 femmine; peso medio 32 kg (range 25-58). I sintomi clinici comuni a tutti i pazienti sono stati, debolezza generalizzata, letargia polso rapido e debole, dilatazione delle vene periferiche, ottundimento dei tono cardiaci. Risultati. All’esame radiografico 7 cani presentavano solo l’aumento della silhouette cardiaca globulare con margini netti e 4 presentavano anche versamento pleurico. In tutti i casi è stata eseguita una pericardiocentesi in pronto soccorso per detamponare il paziente, ed effettuare esame citologico del versamento, che non ha avuto rilevanza diagnostica. Gli 11 pazienti sono stati sottoposti a pericardiectomia toracoscopica, con tempi operatori mediamente intorno ai 20 minuti. La porzione di pericardio rimossa è stata analizzata istologicamente, ed ha permesso di diagnosticare la causa del versamento. I soggetti sono stati suddivisi in base alla patologia cardiaca sottostante (neoplastica e non neoplastica), al ricovero post operatorio e al tempo di sopravvivenza. 3 cani presentavano emangiosarcoma, 1 mesotelioma e 7 pericardite cronica/fibrosa. La degenza è stata mediamente di 2 giorni, esclusi 2 casi in cui è stato necessario un ricovero di 5 e 7 giorni per cause non relative alla pericardiectomia. Il tempo di sopravvivenza post chirurgia è stato di 7, 35, 60 giorni per i cani con emagiosarcoma, 60 giorni per il paziente con mesotelioma e i restanti sono tutt’ora vivi, con tempo medio di 262 giorni. Conclusioni. La pericardiectomia è un trattamento risolutivo o palliativo, aumenta il tempo di sopravvivenza del cane indipendentemente alla patologia sottostante. Creare una finestra cardica diminuisce l’area di superficie del pericardio che produce il liquido di versamento e aumenta l’area di assorbimento dello stesso consentendo il riassorbimento mediante le pleure6. Il nostro studio ci ha permesso di valutare che la TP è una tecnica valida dal punto di vista diagnostico e curativo, in quanto, in tutti i casi è stato possibile eseguire diagnosi con tempi chirurgici e di ricovero brevi. Questi fattori, in pazienti affetti da patologie neoplastiche, con tempi di sopravvivenza limitati sono indispensabili per garantire una buona qualità di vita post chirurgica. Possiamo concludere in accordo con la letteratura attualmente disponibile che la pericardiectomia toracoscopica potrebbe essere il Gold Standar per il trattamento dei versamenti pericardici, anche se, ovviamente, cani con patologie non tumorali hanno un tempo di sopravvivenza maggiori rispetto alle patologie neoplastiche7. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Douprè GP, Corlouer JF,Bouvy B. Vet Surg 2001; 30: 21-27. Potter L, Hendrickson DA: Therapeutic video assisted thoracic surgery, in FreemanLJ (ed):Veterinary Endosurgery.St Louis, MO, Mosby, 1999,pp170187. Remedios AM, Walsh PJ, Ferguson JF: Thoracoscopic pericardiectomy in dogs: Preliminary fndings. Proceedings of International Laparoscopy Course for Veterinarians,Westtern College of Veterinary Medicine, University of Saskatchewan, Saskatoon, Canada, June 1996. Jackson J, Richter KP, Laurner DP: Thoracoscopyc partial pericardiectomy in 13 dogs. J Vet internal Med, 13:529-533, 1999. McCarthy TC, Monnet E.Diagnostic and Operative Thoracoscopy in Veterinary endoscopy for Small Animal Practitioner; 260-264. Monnet E.Surgery of the Pericardium in Textbook of small animal surgery, 3 ed. Vol 1 Slatter D;987-995. Kerstettter KK, Krahwinkel DJ Jr, Mills DL, Hahn K. Pericardiectomy in dogs: 22 cases (1978-1994). J Am vet Med Assoc. 1997 sep !5;211(6):736-40.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Silvia Mastromattei - Clinica Veterinaria Roma Sud, Via Pilade Mazza 24, 00178 Roma (RM), Italia Cell. 347/3077162 - E-mail: silvia.mastromattei@libero.it

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PYLOROGASTRIC INTUSSUSCEPTION IN A CHIHUAHUA PUPPY DOG R. Milan, DMV1,2, L. Lideo, DMV1,2, G. Bonetti, DMV1, E. Baroni, DMV, PhD1,2 1 Clinica Veterinaria Baroni, Rovigo, Italia 2 Ambulatorio Veterinario “Animabili”, Cartura (Padova), Italia Topic: Diagnostic imaging Introduction. Intussusception is strictly defined as the prolapse of one part of the intestine into the lumen of an immediately adjoining part and has been reported in both human and animals. In dogs and cats intussusceptions most commonly occur at the ileocecocolic junction where invaginations are usually in the direction of peristalsis. Occasionally invaginations against the normal direction of peristalsis (i.e., orally) have been reported within the small intestine and in other parts of the alimentary tract (i.e., gastroesophageal, pylorogastric, or duodenogastric intussusceptions). Our report describes the first case of pylorogastric intussusception in a puppy of a small-breed dog, along with its clinical, radiological, ultrasonographic, and postmortem findings. Description of the case. A three-month-old, female, 650 g body weight Chihuahua dog with acute history of abdominal pain, vomiting and hypovolemic shock was presented to our clinic. The dog’s abdomen was tense on palpation. Clinicopathological abnormalities included moderate leukocytosis, high neutrophils count and monocytosis. Serum biochemical abnormalities included hypoproteinemia, hypoalbuminemia, low calcium moderate hyponatriemia. A distension of gastric area was visible at the abdominal radiograph. Ultrasonographically, the stomach was distended and filled with fluids, the pyloric region presented a laminated appearance, while the pylorus and proximal duodenum were displaced into the pyloric antrum and fundus. In addition, multiple concentric echogenic and echolucent rings were visible. A severe hypoechoic gastric mucosal layer caused by edema was also present. A radiographic evaluation of stomach and duodenum with iodated contrast demonstrated double lines into gastric lumen, paired with an abnormal distension of the stomach. A radiograph analysis, at 45 and 120 minutes after ingestion of iodated contrast, demonstrated weak propulsion of iodated contrast and a double layer into gastric lumen. A diagnosis of pylorogastric intussusception was made and the dog was then euthanatized because of poor prognosis and owner decision. Diagnosis was subsequently confirmed at the necropsy, even though the clear causes were not found. Parasitological, serological and virologic examinations were negative, while histological examination revealed diffuse superficial erosion of gastric mucosal layer. Conclusions. The vast majority of cases of intussusceptions are of unknown origin. In young dogs, enteritis and general anesthesia, with or without an abdominal surgical procedure, have been identified as possible predisposing factors. In dogs with pylorogastric intussusception, the cause or underlying etiology is unknown. The majority of intussusceptions occurs within the small intestine in an aboral direction. In this report, the dog presented a pylorogastric intussusception in which the pylorus and proximal duodenum were invaginated in an oral (i.e. retrograde) direction into the body of the stomach. In literature, same authors sustain that diagnosis of pylorogastric intussusception is difficult to confirm without an exploratory celiotomy, while we suggest that diagnosis of pylorogastric intussusception could be confirmed at ultrasonographic and radiographic examinations. In our dog ultrasonographic and radiographic procedures confirmed the diagnosis of pylorogastric intussusception, and exploratory celiotomy was not necessary for the diagnosis itself. Furthemore, positive-contrast gastrogram and necropsy also confirmed the diagnosis. Treatment of severe pylorogastric intussusceptions is very difficult and the death post surgery is frequent. Our reported case was a 3-month-old puppy dog of a very small breed with severe pylorogastric intussusception, whose poor conditions prevented us from performing surgery. In our case histopathological evaluation of the stomach, pylorus, intestine, liver, spleen, kidney and lung demonstrated no identifiable predisposing abnormalities. However, stomach presented diffuse superficial erosion of mucosal layer. Fecal parasitological and electron microscopy virological examinations were negative. A possible etiology could be the presence of a predisposing inflammation due to a primary gastritis that can stimulate the release of inflammatory mediators and vasoactive compounds from a variety of cell types. Subsequent exfoliation of surface gastric epithelial cells and disruption of the normal mucosal barrier result in back-diffusion of gastric acid, pepsin, and gastric lipase. This inflammatory cascade stimulates further acid secretion and mucosal damage, increases cell membrane permeability, alters microvascular blood flow and gastric motility. In conclusion, pylorogastric intussusception is a very rare condition described in veterinary, whose etiology is unknown. Our case confirm gastric inflammation as a possible predisposing etiology for pylorogastric intussusceptions, the poor prognosis for this subject and ultrasounds and radiographic examinations as valid diagnostic tools. Further investigations are necessary for curative treatments. Bibliography Applewhite. AA et al.:Comp Cont Educ Pract Vet 24, 110-127, 2002. Lee H, et al.: Vet Radiol Ultrasoun 46, 317-318, 2005. Barreau, P.: Procedings 33rd WSAVA & 14th FECAVA 2008 WSAVA Cong. Lidbury JA, et al.: J Am Vet Med Assoc, 234, 1147-53, 2009.

Corresponding Address: Dott. Roberto Milan - Clinica Veterinaria Baroni - Rovigo, Via Alfieri, 21, 35023 Bagnoli Di Sopra (PD), Italia Cell: 3491202137 - E-mail: roberto.milan@clinicaveterinariabaroni.com

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GRAVE SPONDILITE IN L2-L3 DA CORPO ESTRANEO VEGETALE IN UN CANE SETTER INGLESE R. Milan, DMV1,2, L. Lideo, DMV1,2, G. Bonetti, DMV1, E. Baroni, DMV, PhD1,2 1 Clinica Veterinaria Baroni, Rovigo, Italia 2 Ambulatorio Veterinario “Animabili”, Cartura (Padova), Italia Area di interesse: Diagnostica per immagini Introduzione. I corpi estranei che vengono inalati dai cani o gatti possono creare lesioni profonde e un malessere persistente anche grave. Molto spesso sono particolarmente evidenti solo le conseguenze che i corpi estranei provocano nei vari organi; viceversa il loro ritrovamento impegna seriamente il medico veterinario nella pratica clinica. Vogliamo descrivere un caso clinico riguardante una grave spondilite a livello della seconda e terza vertebra lombare creata da un corpo estraneo, rivelatasi poi una porzione di spiga vegetale, in un cane di razza setter inglese maschio di 4 anni. Descrizione del caso. Un cane di razza setter inglese maschio di 4 anni è stato portato a visita per grave dolorabilità al movimento, letargia, disoressia e tosse lieve. Il cane presentava alla visita clinica lieve stato cifotico, moderata dolorabilità alla palpazione dell’addome e della colonna vertebrale nel settore toraco-lombare. Agli accertamenti ematologici presentava lieve neutrofilia. All’esame radiografico della colonna vertebrale si rendeva evidente una moderata-grave lisi della superficie articolare caudale della seconda vertebra lombare e della superficie articolare craniale della terza vertebra lombare. All’esame ecografico si evidenziava una grave irregolarità dei margini dorsali e laterali sinistri della seconda e terza vertebra lombare con presenza nella regione di lieve contenuto ipoecoico lievemente corpuscolato. I muscoli della colonna lombare (ileo psoas, quadrato) del lato sinistro da L2 ad L6 erano ispessiti ed ipoecoici con ampie aree ipoecoiche. Era presente una struttura composta da segmenti lineari multipli paralleli iperecoici di circa 15 mm in asse lungo e 3 mm in asse corto. L’estremità appuntita caudale di questa struttura lineare era appoggiata sulla superficie articolare craniale della terza vertebra lombare. L’esame ecografico evidenziava inoltre aree ipoecoiche anche a carico dei muscoli epassiali e vari tragitti rettilinei con megalia dei linfonodi lombari e iliaci medi e versamento retro peritoneale ipsilaterale. L’interpretazione ecografica della struttura indicava la presenza di un corpo estraneo compatibile con porzione di spiga e marcata reattività flogistica della regione lombare sinistra. Il sospetto della presenza di una eventuale porzione di spiga in regione lombare e il sintomo di tosse lieve ha reso necessario l’esecuzione di un esame tomografico sia a livello toracico che a livello lobare per lo studio ed individuazione di un eventuale tragitto fistoloso. L’esame tomografico eseguito con TC Multidetettore 16 Lightspeed della General Elettric con scansione con e senza mezzo di contrasto iodato evidenziava: pneumopatia focale multipla associata a presenza di materiale occludente endobronchiale a carico di sub segmentazioni del lobo accessorio. L’esame tomografico all’addome evidenziava miopatia dei muscoli lombari ventrali ed epassiali di sinistra con aspetti di colliquazione e versamento retro peritoneale ipsilaterale con linfadenopatia regionale. L’esame tomografico era compatibile con esito di migrazione di corpo estraneo con probabile migrazione trans diaframmatica ma non riusciva a visualizzare né il tragitto fistoloso dalla cavità toracica né permetteva di dare una conferma della localizzazione del corpo estraneo. Sulla base dei dati ottenuti si è proceduto ad intervento chirurgico sotto stretta guida ecografica che ha permesso di asportare una spiga localizzata in adiacenza a L3. Il cane già dopo una settimana riusciva a correre ed è ritornato alla sua attività normale senza presentare nessun sintomo entro le 3 settimane dall’intervento. Le vertebre maggiormente interessate dal processo flogistico hanno migliorato la loro silhouette mantenendo comunque una moderata alterazione dei margini. Conclusioni. L’esame ecografico ha fornito maggiori dettagli rispetto all’esame tomografico nella localizzazione del corpo estraneo e ha permesso una corretta visualizzazione del sito del corpo estraneo riducendo l’invasività dell’intervento. L’esame tomografico ha permesso di avere notizie utili su un eventuale tragitto fistoloso e una visione globale della regione interessata mancando però la localizzazione precisa del corpo estraneo. Il tragitto di un corpo estraneo come la spiga è altamente imprevedibile e solo una sua corretta individuazione ed asportazione permette una remissione pressoché totale dei sintomi patologici. Bibliografia Christopher p. Ober, jeryl c. Jones, martha moon larson, otto i. Lanz, stephen r. Were: comparison of ultrasound, computed tomography, and magnetic resonance imaging in detection of acute wooden foreign bodies in the canine manus. Veterinary radiology & ultrasound. Volume 49, issue 5, date: september–october 2008, pages: 411-418. Armbrust L. et al.. Ultrasonographic diagnosis of foreign bodies associated with chronic draining tracts and abscesses in dogs. Veterinary Radiology & Ultrasound Volume 44, Issue 1, Date: January 2003, Pages: 66-70.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Roberto Milan - Clinica Veterinaria Baroni - Rovigo, Via Alfieri, 21, 35023 Bagnoli Di Sopra (PD), Italia Cell 349/1202137 - E-mail roberto.milan@clinicaveterinariabaroni.com

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EFFETTI DI ASCOPHYLLUM NODOSUM SU ALITOSI E PLACCA. STUDIO CONTROLLATO NEL CANE 1

A. Miolo, Dr1, H. Persson, Dr2 CeDIS Innovet (Centro di Documentazione e Informazione Scientifica), Saccolongo (Padova), Italia 2 Buccosanté, Saint Raphael, Francia Area di interesse: Odontostomatologia

Scopo del lavoro. La malattia parodontale (gengivite, parodontite) è il problema clinico più comune del cane e del gatto1 e l’alitosi (alito cattivo) è il primo segno riferito dal proprietario2. A determinare l’alitosi è, infatti, l’eccessiva proliferazione dei batteri anaerobi Gram- della placca matura che, proporzionalmente all’entità del loro accumulo, generano composti volatili solforati (Volatile Sulfur Compounds, VSC), a partire dalle proteine di origine alimentare e salivare3. A loro volta, i VSC, come l’idrogeno solforato ed il metilmercaptano, non solo producono un alito sgradevole, ma sono direttamente implicati nella genesi e nella progressione della malattia parodontale, stante l’elevato potenziale citotossico e pro-infiammatorio4. Quando possibile, la gestione delle parodontopatie contempla una periodica profilassi professionale, affiancata da misure di igiene orale domiciliare5. Tra queste, la più consigliata è la spazzolatura quotidiana dei denti e della lingua. Due, però, sono i principali limiti intrinseci a quest’ultima pratica: il primo è l’impossibilità di rimuovere completamente la placca, che in poco tempo si mineralizza trasformandosi in tartaro; il secondo risiede nella frequente scarsa compliance del proprietario. Ascophyllum nodosum (AN) è un’alga bruna contenente polisaccaridi solfatati e non (es. fucoidano), capaci di inibire l’adesione e la crescita batterica e, così facendo, di controllare la placca e l’alitosi. Scopo del presente studio è quello di valutare gli effetti della somministrazione giornaliera di un supplemento nutrizionale [*] contenente AN sull’alitosi e sulla placca di cani, sottoposti o meno a profilassi parodontale. Materiali e metodi. Lo studio è stato condotto presso un centro di ricerca americano, specializzato nella valutazione di prodotti di “oral care” (Pennsylvania, USA). Sessanta cani Beagle sono stati suddivisi in due gruppi da 30 soggetti ciascuno. I cani del primo gruppo sono stati sottoposti a detartrasi e lucidatura dei denti al momento dell’inclusione (“clean mouth”); quelli del secondo sono entrati in studio senza profilassi parodontale (“dirty mouth”). All’interno di ciascun gruppo, 15 soggetti sono stati trattati quotidianamente con AN (330 mg/10 kg p.c.) mescolato al cibo, per un periodo di 88 giorni; gli altri 15 sono stati usati come controllo non trattato. Alitosi e placca sono state valutate all’inizio dello studio (T0) e dopo 28 (T1), 56 (T2) ed 88 (T3) giorni di trattamento. L’alitosi è stata valutata con un apparecchio misuratore (Halimeter®) specificatamente validato nel cane6. La placca è stata valutata con metodo colorimetrico (indice di Quigley-Hein modificato da Turesky)7. L’analisi statistica dei risultati si è avvalsa dello Z-test non parametrico. Ai fini statistici, P<0,05 è stato fissato come limite di significatività. Risultati. Nel gruppo “clean mouth”, il trattamento con AN manteneva stabile il grado di alitosi nell’intervallo T1-T3. Viceversa, il valore aumentava significativamente nei controlli (+37%; P<0,05). Il trattamento, inoltre, riduceva la placca del 4% alla seconda visita di controllo rispetto alla prima (T2 vs T1). Al contrario, nei cani non trattati la placca aumentava significativamente dell’1% nello stesso intervallo di tempo. Nel gruppo “dirty mouth”, i cani trattati con AN non subivano variazioni del grado di alitosi, che si manteneva costante tra T0 e T2. Nello stesso intervallo di tempo, l’alitosi aumentava significativamente (+51%. P<0,05) nei cani del gruppo di controllo corrispondente. Infine, nei cani “dirty mouth” il trattamento con AN conteneva significativamente l’aumento di placca al +6%, rispetto al +37% (P<0,05) rilevato nei controlli non trattati. Conclusioni. I risultati ottenuti nel presente studio depongono a favore di un effetto positivo di AN sul controllo dell’alitosi e della placca. Infatti, la somministrazione orale a lungo termine del supplemento a base di Ascophyllum nodosum ha determinato un significativo miglioramento degli score di alitosi e di placca rispetto ai cani non trattati. Tale effetto è da imputarsi alle attività specifiche dell’alga bruna, i cui principi funzionali vengono assorbiti a livello gastro-enterico per poi concentrarsi nella saliva, dove, attraverso l’azione sulla crescita batterica8,9, diminuiscono la produzione di VSC e, dunque, controllano l’alitosi. In conclusione, i risultati ottenuti sono indicativi dell’utilità di associare il supplemento in studio alle comuni pratiche di igiene orale del cane. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Niemec BA. Top Companion Anim Med 23(2): 72-80, 2008. Eubanks DL. J Vet Dent 26(3):192-3, 2009. Eubanks DL. J Am Anim Hosp Assoc 42(1): 77-9, 2006. Calenic B et al. J Periodontal Res 45(1): 31-7, 2010. Gorrel C, Rawlings JM. J Vet Dent 13(4): 139-43, 1996. Hennet P. Proceedings 18th ECVD, Zurich, September 10-12, 2009. Amini P et al. Braz Oral Res 23(3): 319-25, 2009. Saeki Y et al. Bull Tokyo Dent Coll. 37(2): 77-92, 1996. Nakayasu S et al. Biosci Biotechnol Biochem 73(4): 961-64, 2009.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Alda Miolo - Cedis – Centro Di Documentazione e Informazione Scientifica Innovet Italia S.R.L. Veterinary Innovation Via Einaudi 13, 35030 Saccolongo (PD), Italia - Tel. 049 80 15 583 - Cell. 346 804 57 30 - E-mail: cedis@innovet.it [*] Proden PlaqueOff Animal; in Italia Restomyl® supplemento, Innovet Italia

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POTENZIALE RIATTIVAZIONE E SITI DI SEQUESTRO DI CANDIDATUS MYCOPLASMA TURICENSIS IN GATTI CON INFEZIONE CRONICA M. Novacco, Dr. med. vet1, F. S. Boretti, Dr. med. vet, FHV, ACVIM2, B. Willi, Dr. med. vet, PhD2, G. Wolf-Jäckel, Dr1, M.L. Meli, Dr, PhD1, B. Riond, Dr. med. vet, FVH1, R. Hofmann-Lehmann, Prof. Dr. med. vet1 1 Clinical Laboratory, Vetsuisse Faculty, University of Zurich, Zurich, Switzerland 2 Clinic for Small Animal Internal Medicine, University of Zurich, Zurich, Switzerland Area di interesse: Medicina felina Scopo del lavoro. I micoplasmi emotropi, anche noti come emoplasmi, causano una patologia nota come anemia infettiva in numerose specie di mammiferi3. Nei felini sono attualmente note tre specie di emoplasmi: Mycoplasma haemofelis (Mhf), ‘Candidatus Mycoplasma haemominutum, (CMhm) e ‘Candidatus Mycoplasma turicensis, (CMt)1, 2, 7. Quest’ultimo è stato isolato da un gatto con anemia emolitica7. Nella fase cronica dell’emoplasmosi i gatti sono clinicamente sani, tuttavia, tali microrganismi possono riapparire nel sangue anche se in numero limitato. Molti aspetti della patogenesi e della cinetica dell’infezione sono, tuttavia, poco noti; soprattutto quelli riguardanti un possibile sequestro dei microrganismi nei tessuti durante la fase cronica dell’infezione e un loro successivo rilascio da questi siti. Per chiarire queste dinamiche gli scopi di questo studio sono stati: 1) dimostrare i potenziali siti di sequestro di CMt in gatti con infezione cronica e 2) provocare e investigare la riattivazione sperimentale di CMt. Materiali e metodi. Questo studio sperimentale è stato condotto su 10 gatti SPF (specific pathogen free = liberi da patogeni specifici) precedentemente infettati con CMt4. I gatti avevano superato la fase acuta dell'infezione senza ricevere alcun trattamento antibiotico. Al fine di provocare e investigare la riattivazione di CMt, cinque gatti hanno ricevuto 3 dosi di metilprednisolone acetato (10 mg/Kg) ad intervalli di una settimana (gruppo 1), mentre 5 gatti sono serviti da controllo (gruppo 2). Questo protocollo di immunosoppressione è stato scelto in quanto capace di riattivare il virus della leucemia felina in fase di latenza nel gatto5. Tutti i gatti sono stati monitorati tramite prelievi settimanali di sangue e aspirazione citologica con ago sottile di rene, fegato e ghiandole salivari prima e dopo la somministrazione di metilprednisolone. Sono stati, inoltre, raccolti tamponi buccali e campioni di midollo osseo. La presenza di CMt sia nei tessuti che nel sangue periferico è stata confermata tramite real-time Taqman PCR7. La presenza di una sufficiente quantità di DNA nei campioni prelevati è stata accertata tramite fGAPDH real-time PCR6. Risultati. Negli animali del gruppo 1 sono stati riscontrati aumenti significativi dei valori ematici di glucosio e una diminuzione del peso corporeo dopo la somministrazione di glucocorticoidi rispetto a quelli del gruppo 2. Non sono state notate differenze riguardo la presenza di CMt nei campioni di sangue periferico: tutti i campioni sono rimasti negativi in PCR durante il periodo d’osservazione, tranne per un campione una settimana dopo la terza somministrazione di metilprednisolone. Tuttavia, la presenza di CMt è stata confermata nei tessuti analizzati. Conclusioni. Questo è il primo studio a dimostrare la presenza di CMt nei tessuti felini in assenza di batteriemia, seppur a bassi livelli. Nonostante le alti dosi di metilprednisolone, non sono stati riportati livelli misurabili di CMt nel sangue periferico. Pertanto, nei gatti portatori cronici di CMt, sembra improbabile una riattivazione dell’infezione in seguito a tali condizioni di immunosoppressione. I risultati di questo studio ampliano le conoscenze riguardo alle infezioni croniche da emoplasmi e sono di importanza clinica. Infatti, i gatti con infezioni croniche da emoplasmi, pur albergando tali batteri nei loro tessuti, non sembrano poter essere fonte di infezione per altri gatti. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per chiarire se altri fattori possano intervenire in questo meccanismo. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Foley, J. E., S. Harrus, A. Poland, B. Chomel, and N. C. Pedersen. 1998. Molecular, clinical, and pathologic comparison of two distinct strains of Haemobartonella felis in domestic cats. Am J Vet Res 59:1581-1588. Foley, J. E., and N. C. Pedersen. 2001. ‘Candidatus Mycoplasma haemominutum’, a low-virulence epierythrocytic parasite of cats. Int J Syst Evol Microbiol 51:815-817. Messick, J. B. 2003. New perspectives about Hemotrophic mycoplasma (formerly, Haemobartonella and Eperythrozoon species) infections in dogs and cats. Vet Clin North Am Small Anim Pract 33:1453-1465. Museux, K., F. S. Boretti, B. Willi, B. Riond, K. Hoelzle, L. E. Hoelzle, M. M. Wittenbrink, S. Tasker, N. Wengi, C. E. Reusch, H. Lutz, and R. HofmannLehmann. 2009. In vivo transmission studies of ‘Candidatus Mycoplasma turicensis’ in the domestic cat. Vet Res 40:45. Rojko, J. L., E. A. Hoover, S. L. Quackenbush, and R. G. Olsen. 1982. Reactivation of latent feline leukaemia virus infection. Nature 298:385-388. Tandon, R., V. Cattori, A. C. Pepin, B. Riond, M. L. Meli, M. McDonald, M. G. Doherr, H. Lutz, and R. Hofmann-Lehmann. 2008. Association between endogenous feline leukemia virus loads and exogenous feline leukemia virus infection in domestic cats. Virus Res 135:136-143. Willi, B., F. S. Boretti, V. Cattori, S. Tasker, M. L. Meli, C. Reusch, H. Lutz, and R. Hofmann-Lehmann. 2005. Identification, molecular characterization, and experimental transmission of a new hemoplasma isolate from a cat with hemolytic anemia in Switzerland. J Clin Microbiol 43:2581-2585.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Marilisa Novacco - Vetsuisse Faculty, University of Zurich, Clinical Laboratory, Winterthurerstrasse 260, CH-8057 Zurich, Switzerland - Phone +41 44 635 8279 - E-mail: mnovacco@vetclinics.uzh.ch

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FATTORI PROGNOSTICI DI SOPRAVVIVENZA IN CASI DI PERSISTENZA DEL DOTTO ARTERIOSO – 99 CASI Pedro Oliveira, Med Vet, Oriol Domenech, Med Vet Dipl ECVIM; Joel Da Silva, Med Vet, Claudio Bussadori, Med Vet, Dr Ric, Dipl ECVIM-CA, Med Chir Clinica Veterinaria Gran Sasso Via Donatello 26, 20131 Milano (Italy) Area di interesse: Cardiologia Obiettivi. L’obiettivo di questo studio è testare il valore prognostico di sopravvivenza di vari parametri clinici in casi di persistenza del dotto arterioso (PDA) in cui è stata eseguita la chiusura percutanea o legatura chirurgica. Materiali e metodi. Sono stati inclusi in questo studio 99 cani con diagnosi di PDA trattati per via percutanea con dispositivo Amplatzer® Canine Duct Occluder (ACDO) (n=61), con dispositivo Amplatzer® Vascular Plug (n=2) e legatura chirurgica (n=36), presso la Clinica Veterinaria Gran Sasso dal 2004 al 2010. La informazione clinica è stata analizzata in modo retrospettivo riguardo la segnalazione, presentazione clinica, informazione radiografica, elettrocardiografica ed ecocardiografica. Un’analisi della sopravvivenza è stata eseguita ed il rischio relativo (test statistico odds ratio – OR) di morte è stato calcolato per i seguenti parametri in modo da valutare il loro valore prognostico: razza, età, presenza di sintomi clinici, edema polmonare, ascite, terapia, volume telediastolico del ventricolo sinistro indicizzato (EDVI) > 100 mL/m2, EDVI > 200 mL/m2, EDVI > 250 mL/m2, EDVI > 300 mL/m2, volume telesistolico del ventricolo sinistro indicizzato (ESVI) > 80 mL/m2, ESVI > 100 mL/m2, ESVI > 150 mL/m2, frazione di eiezione (EF) < 40%, frazione di accorciamento (FS) < 25%, aritmie ventricolari, aritmie sopraventricolari, presenza di disfunzione sistolica (ESVI > 80 mL/m2 e EF <40%). Risultati. In media, l’età di presentazione per chiusura del PDA è stata di 22 mesi (2-120 mesi) ed il peso medio di 17 kg (1 – 57). La maggior parte dei pazienti si presentava asintomatico (n=70) e la intolleranza all’esercizio (n=19) e la tosse (n=5) furono i sintomi più comuni tra i pazienti sintomatici. La presenza di edema polmonare (n=3) ed ascite (n=2) è stata individuata in 5% dei casi. I disturbi del ritmo osservati sono stati la fibrillazione atriale (n=8), bigeminismo ventricolare (n=3) ed una associazione di entrambe (n=2). La presenza di battiti ventricolari prematuri isolati è stata rilevata in 2 casi. La sopravvivenza dei soggetti in questo studio fino al momento attuale è del 91% con la morte di 9 cani. Si è verificata la morte improvvisa di 3 cani dopo 4, 210 e 240 giorni dalla procedura di chiusura percutanea con ACDO, e di 2 cani entro 6 mesi dopo la legatura chirurgica. È stata eseguita l’eutanasia di un cane presentando insufficienza cardiaca congestizia refrattaria alla terapia, dopo 2 anni dalla chiusura percutanea con ACDO. I 3 cani restanti sono morti di causa non cardiaca. Tra i vari parametri clinici testati per un eventuale valore prognostico, hanno dimostrato un valore prognostico negativo, statisticamente significativo (p < 0.05), i seguenti: la presenza di aritmie ventricolari (OR: 132), ESVI > 100 (OR: 30), età > 24 mesi (OR: 14.5), FS < 25% (OR:11), EDVI > 300 (OR: 10.9), disfunzione sistolica (OR: 7.9). Discussione. La chiusura precoce del PDA può essere curativa in cani senza segni di insufficienza cardiaca congestizia1. Inoltre, alcuni parametri come età, peso, letargia, terapia con ace-inibitori presenti al momento della legatura chirurgica, sono stati associati ad una prognosi negativa1. L’iindividuazione di tali fattori prognostici è importante, non solo per informare il cliente dei rischi della procedura e prognosi, però anche per adattare la strategia terapeutica e di monitoraggio di ogni paziente. In questo studio è stata ugualmente osservata una associazione negativa tra l’età di chiusura del PDA e la probabilità di morte. Considerando i meccanismi fisiopatologici in atto in questa patologia, la deviazione di una quota di shunt dalla aorta all’arteria polmonare, determina un sovraccarico di volume atrioventricolare sinistro e conseguente ipertrofia eccentrica del ventricolo sinistro come meccanismo compensatorio. Il risultato finale dipende ovviamente dalla gravità del sovraccarico volumetrico e capacità di compensazione, potendo verificarsi insufficienza cardiaca congestizia e/o disfunzione sistolica2. Dall’analisi dei risultati di questo studio, la presenza d’insufficienza cardiaca congestizia non sembra avere un’influenza determinante nel risultato, visto che nessuno dei cani che presentava edema polmonare, o ascite prima dell’intervento è morto, ad eccezione di un caso morto per patologia epatica. La presenza di disfunzione sistolica al momento dell’intervento, invece, ha dimostrato un valore prognostico negativo ed è naturalmente un fattore limitante importante. Alcuni parametri ecocardiografici utilizzati normalmente per la valutazione della funzione sistolica sono ad esempio il diametro ventricolare sinistro in sistole, ESVI > 80 mL/m2, EF < 40%, FS < 20-25%, indice di sfericità < 1.653. In questa patologia però, si osservano alterazioni di questi parametri e, la assenza di studi che descrivano il loro comportamento “normale” nel cane, può rendere inadeguato l’utilizzo di queste soglie per determinare la presenza o assenza di disfunzione sistolica. Per questo motivo, sono state testate varie soglie con lo scopo di identificare eventuali “cut-off” con valore prognostico negativo. Per quanto riguarda la funzione sistolica, in questo studio, ESVI > 100 mL/m2 e FS < 25% sono associati ad una prognosi negativa cosi come l’associazione tra ESVI > 80 mL/m2 ed EF < 40%. Inoltre, per quanto riguarda la gravità del sovraccarico volumetrico, un valore di EDVI superiore a 300 possiede un valore predittivo negativo. Una forte associazione negativa tra la presenza di aritmie ventricolari e morte improvvisa già riportata in uno studio preliminare su 46 pazienti inclusi in questo studio, è stata ulteriormente confermata4. Non si è osservata, al contrario di quanto precedentemente descritto1 una associazione tra peso e terapia pre-chiusura con il rischio di morte. In conclusione, la presenza di aritmie ventricolari, età > 24 mesi, ESVI > 100 mL/m2, FS < 25%, EDVI > 300 mL/m2, ESVI > 80 mL/m2 + EF < 40% sono associati ad una prognosi negativa in cani con PDA al momento della chiusura. Uno studio Holter può essere molto utile in tutti i casi di PDA, prima e dopo la chiusura, per valutare la presenza di aritmie ventricolari.

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Le difficoltà che s’incontrano nel valutare la funzione ventricolare sinistra nei cani con PDA sono dovute a vari fattori: in questa specie, a differenza di quanto osservato nell’uomo i dotti pervi sono di grandi dimensioni e provocano quadri di sovraccarico misto diastolico e sistolico molto grave e i parametri da noi utilizzati sono molto “carico-dipendenti”. Maggiori informazioni potranno essere ottenute dall’applicazione di metodiche di quantificazione diretta della funzione ventricolare comi gli indici di deformazione miocardica (Strain e Strain Rate) che sono meno carico dipendenti e quindi più adatti a studiare la funzione sistolica residua. Quest’analisi quantitativa in questi pazienti è ancora in corso è sarà oggetto di prossime comunicazioni. Bibliografia Bureau S., Monnet E., Orton EC.; Evaluation of survival rate and prognostic indicators for surgical treatment of left-to-right patent ductus arteriosus in dogs: 52 cases (1995-2003) J Am Vet Med Assoc. 2005 Dec 1;227(11):1794-9. Ettinger SJ, Feldman EC; Textbook of Veterinary Internal Medicine, 7th Edition Elsevier. Dukes-MacEwan J, Borgarelli M, Tidholm A, Vollmar AC, Häggström J; The ESVC Taskforce for Canine Dilated Cardiomyopathy. Proposed guidelines for the diagnosis of Canine Idiopathic Dilated Cardiomyopathy J Vet Cardiol. 2003 Nov; 5(2): 7-19. Oliveira P, Domenech O, Silva J, Laynez E, Bussadori C. Percutaneous closure of patent ductus arteriosus with Amplatz Canine Duct Occluder in 46 dogs: prognostic and survival factors. ECVIM Congress 2009 proceedings.

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SENSIBILITÀ AGLI ANTIMICOTICI DI MALASSEZIA PACHYDERMATIS: UNO STUDIO SUL MICONAZOLO A. Peano, DVM, PhD1, A. Montagner, Marketing Manager2, M. Beccati, DVM, PhD3, M. Pasquetti, DVM1 1 Dip. Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia, Facoltà di Medicina Veterinaria, Torino, Italia 2 Janssen Animal Health Italia, Milano, Italia 3 Libero professionista, Capriate S.Gervasio (Bg), Italia Area di interesse: Dermatologia Scopo del lavoro. Nella pratica clinica l’otite con sovracrescita del lievito Malassezia pachydermatis viene gestita con l’utilizzo di diverse molecole antifungine, soprattutto per via topica. I principi più frequentemente utilizzati sono i derivati azolici. La patologia può risultare di difficile gestione per la scarsa risposta di alcuni soggetti alla terapia specifica e per le frequenti ricadute. Ciò può essere dovuto alla difficoltà nell’eliminare i fattori predisponenti la sovracrescita del lievito ma si ipotizza anche la possibilità di ceppi di Malassezia resistenti ai farmaci tradizionalmente utilizzati. Scopo del lavoro è stato quello di verificare l’attività in-vitro del miconazolo contro ceppi di M. pachydermatis isolati da cani con otite Materiali e metodi. Sono stati utilizzati 55 ceppi del lievito isolati a partire da altrettante orecchie con otite. L’attività del principio attivo è stata testata in-vitro utilizzando un test di diluizione in micrometodo mediato dalla norma di riferimento per la valutazione della sensibilità agli antimicotici dei lieviti (reference method M27-A2, NCCLS) con adattamenti per le esigenze nutritive colturali di M.pachydermatis. Le concentrazioni finali del farmaco andavano da 16 a 0,01 µg/ml e i risultati venivano espressi come MIC (Minime Concentrazioni Inibenti la crescita del lievito). Per ogni ceppo venivano eseguite prove in triplicato per confermare il risultato e la ripetibilità della metodica. Risultati. Tutti e 55 i ceppi testati sono stati inibiti in-vitro, con i seguenti valori di MIC: 1 µg/ml (13 ceppi, 23,6%); 2 µg/ml (29 ceppi, 52,8%); 4 µg/ml (11 ceppi, 20%); 16 µg/ml (2 ceppi, 3,6%). Conclusioni. In passati lavori un certo numero di ceppi di M.pachydermatis è stata giudicato resistente al miconazolo o ad altri principi sulla base di prove in vitro analoghe a quelle utilizzate nel presente studio o con prove del tipo Kirby-Bauer (diffusione su agar a partire da dischetti con misurazione degli aloni di inibizione). In queste prove il miconazolo inibiva comunque sempre la crescita del lievito, e il giudizio su un’ipotetica resistenza veniva basato sul fatto che la MIC fosse elevata o che l’alone di inibizione fosse piccolo: il tutto utilizzando dei limiti forniti da case produttrici dei dischetti (per gli aloni) o valori di µg mediati da letteratura (peraltro spesso a partire da altri lieviti). Il concetto di resistenza fornito da questi precedenti lavori risultava quindi completamente slegato da quello che dovrebbe essere il concetto di resistenza finale in corso di utilizzo di un prodotto. In pratica si dovrebbe trasformare il giudizio in-vitro in “ceppo sensibile o resistente alla molecola studiata” in vivo, alle condizioni finali di utilizzo del prodotto. Nella fattispecie, se il principio in questione viene usato topicamente (a livello auricolare) sarebbe più corretto giudicare la possibile resistenza in-vivo sulla base di quanto principio attivo è contenuto nel farmaco commerciale e confrontandolo con le MIC ottenute in-vitro. Se il principio è contenuto nel farmaco a concentrazioni migliaia di volte superiori alla MIC non avrebbe senso considerare resistenti nemmeno i, pochi, ceppi che avevano MIC più elevate. Diverso sarebbe il concetto se si trattasse di un principio utilizzato per via orale o parenterale in cui le concentrazioni tissutali possono raggiungere livelli molto più bassi e dipendenti dalla cinetica del principio somministrato. In conclusione, per gli eventuali casi in cui si possa avere un fallimento della terapia topica antimicotica con miconazolo la causa dovrebbe essere imputata più ad una cattiva gestione dell’otite (mancata correzione fattori predisponenti, mancata pulizia auricolare, somministrazione errata del farmaco ecc.) più che all’esistenza di una vera e propria resistenza intrinseca di Malassezia al principio considerato. In ogni caso, i fattori legati all’ospite (immunità, allergia ecc.) giocano spesso un ruolo critico nel determinare la risposta clinica finale. Bibliografia Cole L.K., Luu D.H., Rajala-Schultz P.J., Meadows C., Torres A.H. (2007). In vitro activity of an ear rinse containing tromethamine, EDTA, benzyl alcohol and 0,1% ketoconazole on Malassezia organisms from dogs with otitis externa. Vet. Derm.; 18 (2): 115-119. Hammer K.A, Carson C.F, Riley T.V. (1999). In vitro activities of ketoconazole, econazole, miconazole and Melaleuca alternifolia (tea tree) oil against Malassezia species. Antimicrob. Agents Chemother; 44 (2): 467-469. Nakamura Y., Kano R., Murai T., Watanabe S., Hasegawa A. (2000). Susceptibility testing of Malassezia species using the urea broth microdilution method. Antimicrob. Agents Chemother. 44 (8): 2185-2186. Nakano Y., Wada M., Tani H., Sasai K., Baba E. (2005). Effects of ß-Thujaplicin on anti-Malassezia pachydermatis remedy for canine otitis externa. J. Vet. Med. Sci.; 67 (12): 1243-1247. Rougier S., Borell D., Pheulpin S., Woehrlé F., Boisramé B. (2005). A comparative study of two antimicrobial/anti-inflammatory formulations in the treatment of canine otitis externa.Vet. Derm.; 16 (5): 299-307. Weseler A., Geiss H.K., Saller R., Reichling J. (2002). Antifungal effect of Australian tea tree oil on Malassezia pachydermatis isolated from canines suffering from cutaneous skin disease. Schweiz Arch. Tierheilkd.; 144 (5): 215-221.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Andrea Peano - Facoltà Medicina Veterinaria, Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO), Italia E-mail: andrea.peano@unito.it

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ACCURATEZZA DIAGNOSTICA DELL’ESAME CITOLOGICO DELLE MASSE MEDIASTINICHE DEL CANE E DEL GATTO: STUDIO RETROSPETTIVO SU 55 CASI L. Pintore, Med Vet 1, W. Bertazzolo, Med Vet, Dipl ECVCP 2, U. Bonfanti, Med Vet, Dipl ECVCP 3, M.E. Gelain, Med Vet, PhD, Dipl ECVCP 4, E. Bottero, Med Vet 5 1 SPIV, Università di Padova, Italia - 2 Libero professionista, Pavia, Italia 3 Accelera S.r.l. - Nerviano Medical Sciences, Nerviano (MI), Italia 4 DIPAV, Università di Milano, Italia 5 Libero professionista, Cuneo, Italia Area di interesse: Patologia clinica Scopo del lavoro. Le neoformazioni mediastiniche rappresentano un rilievo patologico comune nel cane e nel gatto. Le manifestazioni cliniche sono estremamente variabili e correlate alla localizzazione, alla dimensione e alla natura della neoformazione, nonché alla eventuale compressione o infiltrazione delle strutture mediastiniche o toraciche adiacenti. Per meglio definire le caratteristiche di tali lesioni, il protocollo diagnostico solitamente include l’impiego di tecniche di diagnostica per immagine (esame radiografico, ecografico e/o tomografico) associate a campionamento bioptico (cito/istologico). Le tecniche di diagnostica per immagini, infatti, non consentono da sole di determinare l’esatta natura della lesione (neoplasia versus processo infiammatorio) o differenziare tra loro le diverse forme neoplastiche. L’esame citologico è un’indagine complementare di facile esecuzione utile al completamento dell’iter diagnostico. Questo lavoro si propone di valutare retrospettivamente l’accuratezza diagnostica dell’esame citologico nella classificazione di lesioni mediastiniche nel cane e nel gatto. Materiali e metodi. Sono stati inclusi nel lavoro 55 casi di neoformazioni mediastiniche per le quali erano disponibili la diagnosi citologica ed istologica. Per ciascun caso, dove possibile, sono stati valutati segnalamento, sintomi clinici ed ulteriori indagini diagnostiche (radiografie toraciche, ecografia, test sierologico per FIV-FeLV). I preparati citologici sono stati allestiti per agoinfissione o agoaspirazione alla cieca, eco-guidata o TC-guidata. La valutazione citologica è stata eseguita da tre operatori diversi (WB, EB, UB). L’esame istologico è stato considerato il gold standard diagnostico sulla base del quale sono stati calcolati, nel totale dei soggetti, i seguenti parametri di accuratezza diagnostica: veri positivi (VP), falsi positivi (FP), falsi negativi (FN), veri negativi (VN) e la sensibilità diagnostica (Se). Inoltre la concordanza tra la diagnosi citologica ed istologica è stata valutata mediante K di Cohen. Risultati. Sono stati inclusi 19 cani (età da 6 a 14 anni, mediana 8 anni) e 36 gatti (età da 1 a 18 anni, mediana 8,5 anni), di differente sesso e razza. Diciotto dei 19 casi canini e tutti i casi felini risultavano di origine neoplastica. L’esame citologico era in accordo con l’esame istologico in 47 casi totali su 55. In 7 casi (1 cane e 6 gatti) la mancata concordanza citologia/istologia era dovuta al fatto che l‘esame citologico consentiva di emettere unicamente un sospetto diagnostico, che tuttavia è sempre stato confermato all’esame istologico. L’unico caso di FP citologico riguardava una lesione granulomatosa diagnosticata erroneamente come sarcoma istiocitico. In 3 casi, la citologia, pur se suggestiva di lesione neoplastica, non era concorde con l’esame istologico: nel cane, 2 diagnosi citologiche di carcinoma e una di timoma sono risultate all’esame istologico rispettivamente un chemodectoma, un mesotelioma ed un carcinoma. Pertanto, sul totale dei casi, la Se è risultata essere dell’86% e l’accuratezza diagnostica dell’85%. Analoghe valutazioni sono state fatte separatamente per il gruppo dei cani e per quello dei gatti, nei quali la sensibilità e l’accuratezza sono risultate maggiori nel cane (rispettivamente 94% e 89%) rispetto al gatto (83% per entrambi i parametri). Inoltre, il totale delle lesioni neoplastiche è stato suddiviso in cinque gruppi secondo la classificazione istologica (linfoma, timoma, carcinoma, chemodectoma, mesotelioma) e il calcolo del K di Cohen, indice di concordanza tra le due metodiche, è risultato essere di 0,49 (concordanza moderata). Conclusioni. La valutazione citologica delle lesioni mediastiniche nel cane e nel gatto rappresenta un’indagine di facile esecuzione, a basso costo e di rapida risposta che possiede buona sensibilità e accuratezza diagnostica se confrontata con l’esame istologico. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Review of thymic pathology in 30 cats and 36 dogs. Day MJ. JSAP 1997 Diseases of the mediastinum. In Hand. Of Small Anim. Pract, Morgan RV. Rogers KS, 1992 Radiographic prediction of the nature of cranial mediastinal masses in dogs. IVRA, 7-11 / 08/2006. Roy M.E. et al. Use of radiography in combination with computed tomography for the assessment of noncardiac thoracic disease in the dog and cat. Prather A.B. Vet Rad. and Ultras. 2005, vol. 46, N2 Computed tomographic evaluation of canine and feline mediastinal masses in 14 patients. Yoon J. Vet Rad. and Ultras. N 6, 2004. Non-cardiac thoracic ultrasound in 75 feline and canine patients. Reichle JK Vet. Rad. and Ultras., 2000. Transesophageal ultrasonography of the normal canine mediastinum. St.-Vincent R.S. Vet. Rad. and Ultrasound. 1998. Diagnosis of mediastinal masses in dogs by flow cytometry. Lana S. JVIM 2006. Thymic neoplasia as represented by fine needle aspiration biopsy of anterior mediastinal masses. A pratical Approach to differential diagnosis. Shin HJC, Acta cytol 1998.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.Ssa Laura Pintore, Via San Felice, 67, 40122 Bologna (BO), Italia - Cell 333/9355255 - E-mail lpintore@hotmail.com

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TRATTAMENTO DELLE FRATTURE DISTALI DI RADIO-ULNA NEI CANI TOY CON METODICA DI ILIZAROV: STUDIO RETROSPETTIVO L.A. Piras, Med. Vet.1, A.Ferretti, Med. Vet., Dipl ECVS2, F. Cappellari, Med Vet, dr Ric1, Alessandro Boero Baroncelli1-3, Bruno Peirone, Med Vet, Dr Ric1 1 Dipartimento di Patologia Animale Facoltà di Medicina Veterinaria, Grugliasco (TO) 2 Libero professionista, Legnano (Mi) - Italy 3 Clinica Albese per Animali da Compagnia, Alba (CN) Area di interesse: Ortopedia Scopo del lavoro. Le fratture che interessano il terzo distale di radio-ulna rappresentano fra l’8.5% e il 17% di tutte le fratture dello scheletro apperndicolare. L’incidenza di tali fratture appare particolarmente elevata nei soggetti di razza toy. Tali soggetti inoltre, a causa di fattori biomeccanici e vascolari, presentano un maggiore rischio di insorgenza di pseudoartrosi. Sono state proposte differenti tecniche per il trattamento di questo tipo di fratture, con risultati variabili. A nostra conoscenza non ci sono dati riportati in letteratura relative al trattamento mediante utilizzo del fissatore esterno circolare (CESF). L’obiettivo di questo lavoro è valutare l’efficacia e l’incidenza di complicanze di questa tecnica chirurgica nel trattamento delle fratture del terzo distale di radio-ulna nei cani toy. Materiali e metodi. Le cartelle cliniche dei soggetti toy affetti da fratture del terzo distale di radio-ulna sono state analizzate in maniera retrospettiva. I criteri di inclusione erano: peso dei pazienti inferiore a cinque chilogrammi, frattura del terzo distale di radio-ulna, nessun precedente trattamento chirurgico e applicazione di un fissatore esterno circolare come unico metodo di trattamento. Per ogni paziente veniva eseguito il montaggio dell’apparecchio di Ilizarov prima della chirurgia. L’apparecchio veniva assemblato con configurazione standard, costituito da un semianello e un anello sul moncone prossimale e un anello sul moncone distale. Al fine di aumenatre la stabilità della fissazione sul moncone distale veniva applicato un terzo filo di Ilizarov o una fiches, connessi mediante una bandierina all’anello distale. Il follow-up prevedeva un primo controllo ad un mese dalla chirurgia e successivamente controlli ogni due settimane, fino alla consolidazione del focolaio di frattura, con rimozione dell’apparecchio. Risultati. Nel periodo compreso fra gennaio 2002 e febbraio 2009 sono stati trattati 20 soggetti di razza toy affetti da fratture distali di radio-ulna. Le uniche complicanze riportate sono state la frattura della porzione prossimale del radio in un caso, e gemizio sieroso dai chiodi prossimali in otto casi. Tutti i pazienti utilizzavano l’arto entro due giorni dalla chirurgia. In tutti i soggetti abbiamo osservato la consolidazione del focolaio di frattura: il tempo medio di guarigione è stato di 71 giorni (range, 30120). L’allineamento veniva giudicato eccellente in 18 casi e buono in 2 casi sul piano frontale; sul piano sagitalle veniva giudicato eccellente in 16 casi e buono in 4 casi. Conclusioni. In base ai nostri risultati possiamo affermare che la metodica di Ilizarov rappresenta una valida opzione nel trattamento delle fratture distali di radio-ulna nei cani toy, data la bassa incidenza e minima gravità delle complicanze riscontrate. Il pre-montaggio dell’apparecchio consente di ridurre i tempi dell’intervento chirurgico. Tuttavia questa metodica comporta frequenti controlli nel periodo post-operatorio per valutare la stabilità dell’apparato e l’integrità dei fili transossei, richiedendo pertanto una stretta collaborazione fra il proprietario e il Medico Veterinario. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Summer-Smith, G., Cawley, A.J: Non-union of fractures in the dog. JSAP 1970; 11: 311-325. Lappin MR, Aron DN, Herron HL: Fractures of the radius and ulna in the dog. JAAHA 1983; 19: 643-650. Muir P. Distal antebrachial fractures in toy breed dogs. Compend Contin Educ Pract Vet 1997; 19: 137-45. Larsen LJ, Roush JK, McLaughlin RM: Bone plate fixation of distal radius and ulna fractures in small- and miniature-breed dogs. JAAHA 1999; 35: 243250. Hamilton MH, Langley Hobbes SJ: Use of the AO veterinary mini ‘T’- plate for stabilisation of distal radius and ulna fractures in toy breed dogs. Vet Comp Orthop Traumatol 2005; 18: 18-25. Ferretti A. The application of the Ilizarov technique to veterinary medicine. In: Branchi-Maiocchi A, Aronson J, eds. Operative principles of Ilizarov. Milan, Italy: Med Surg Vido, 1991:551-570.

Indirizzo per corrispondenza: lisa.piras@unito.it

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UN CASO DI PORENCEFALIA IN UN PASTORE TEDESCO L. Sala DVM, G. Abbiati DVM, A. Tomba DVM Liberi professilonisti, Samarate, Italia Area di interesse: Neurologia Introduzione. La porencefalia è una malformazione congenita cerebrale che colpisce gli emisferi cerebrali e consiste in una cavitazione cistica intraparenchimale che può essere più o meno in continuità con un ventricolo laterale e che può arrivare sino alla corteccia cerebrale ed essere in comunicazione anche con lo spazio subaracnoideo. Descrizione del caso. È stato portato a consulto neurologico un pastore tedesco, femmina sterilizzata di 12 anni di nome “Peggy” per insorgenza improvvisa di testa ruotata verso sinistra, vomito ed atassia vestibolare con tendenza a girare verso sinistra durante la deambulazione, in lieve miglioramento spontaneo. In anamnesi è da segnalare solamente un intervento di ovarioisterectomia all’età di 2 anni. Peggy alla visita clinica si è presentata in buone condizioni generali e l’esame obiettivo generale è risultato normale. La visita neurologica ha evidenziato una postura a larga base d’appoggio, testa ruotata verso sinistra e nistagmo spontaneo orizzontale con fase rapida verso destra associati inoltre ad assenza della reazione al test di minaccia a carico dell’occhio sinistro. L’esame neurologico ha rillevato un deficit propriocettivo dell’arto anteriore e posteriore sinistro. I riflessi spinali a carico di tutti gli arti, il cutaneo del tronco ed il perineale erano normali. I deficit venivano localizzati al prosencefalo destro, in associazione al sistema vestibolare, o, in alternativa al sistema vestibolare centrale con componente cerebellare. La diagnosi differenziale si poneva tra una forma infiammatoria, idiopatica (sindrome vestibolare idiopatica associata ad altra lesione prosencefalica destra), vascolare, neoplastica. Sono stati eseguiti esami ematologici ed ematochimici che hanno rilevato leggera linfopenia ed un lieve aumento degli enzimi epatici; l’esame radiografico del torace non ha evidenziato alterazioni. È stata quindi eseguita una risonanza magnetica del neurocranio ottenuto mediante l’acquisizione di immagini SE T1, FSE T2 e FLAIR T2 orientate nei tre piani dello spazio ed immagini T1-pesate dopo la somministrazione di mezzo di contrasto, in cui si è osservata la presenza di una voluminosa cavità porencefalica che si estendeva dal ventricolo laterale sinistro allo spazio subaracnoideo e che sostituiva quasi interamente il parenchima cerebrale dell’emisfero cerebrale. Tali lesioni erano accompagnate da evidente rimodellamento della volta cranica. Queste lesioni non sono responsabili della sintomatologia vestibolare del soggetto, riferibile invece ad un caso di sindrome vestibolare periferica sinistra idiopatica del cane anziano. La malformazione encefalica è causa invece dei deficit di minaccia e posturali a carico degli arti del lato sinistro. A distanza di 3 mesi dalla presentazione la sintomatologia vestibolare si è quasi totalmente risolta, fatta eccezione per una lieve rotazione residua della testa verso sinistra. Conclusioni. La porencefalia è una malformazione congenita cerebrale che colpisce gli emisferi cerebrali e consiste in una cavitazione cistica intraparenchimale che può essere più o meno in continuità con un ventricolo laterale e che può arrivare sino alla corteccia cerebrale ed essere in comunicazione anche con lo spazio subaracnoideo. Le cavità porencefaliche possono essere di 2 tipi: • encefaloclastiche: monolaterale, conseguente a lesioni distruttive come occlusioni vascolari fetali o traumi • schizencefaliche: bilaterale e simmetrica, conseguente a difetto primario nella morfogenesi del neuro ectoderma Tra queste sono più frequenti le cavità di tipo 1 ed in particolare sono spesso conseguenza di vasculopatie cerebrali. A seconda del vaso colpito (arteria cerebrale rostrale, media e caudale) si può avere una differente localizzazione della cavità. Negli animali domestici sono riportate tra le cause di porencefalia le infezioni virali (Bluetongue, BVD, Cache Valley Virus, Akabane virus e Panleucopenia felina ), traumi, vasculopatie delle arterie cerebrali. Nell’uomo le cause possono essere tossiche (esposizione a cocaina, vitamina A, valproato, CO), malattie genetiche (alterazioni collagene Col4a1), vascolari, traumatiche ed infiammatorie virali. La porencefalia è una malformazione che, a causa del suo lento sviluppo, può risultare negli animali così come nell’uomo asintomatica ed essere riscontrata come reperto occasionale, tant’è che nel nostro caso l’insorgenza acuta dei sintomi vestibolari era legata ad una sindrome vestibolare periferica idiopatica del cane anziano e non alla cavità porencefalica. Bibliografia Congenital Porencephaly: MR Features and relationship to Hippocampal Sclerosis. S.S. Ho, R.I. Kuznieckyet al.; AJNR Am J Neuroradiol 1998;19:135-141. Hydranencephaly in Neonates. Jeng-Dau Tsai, Huang-Tsung Kuo, I-Ching Chou; Pediatr Neonatol 2008;49(4):154-157. Intracranial hemorrhage progressing to porencephaly as a result of congenitally acquired cytomegalovirus infection—an illustrative report. Asif Moinuddin, Robert C. McKinstry, Kimberly A. Martin and Jeffrey J. Neil; Prenat Diagn 2003; 23: 797-800. Hereditary porencephaly: clinical and MRI Wndings in two Dutch families. G.M. Mancini, I.F. de Coo et al.; Eur J Paediatr Neurol (2004) 8:45-54. Veterinary Neuroanatomy and Clinical Neurology. De Lahunta, Glass, 2009, Saunders elsevier 3rd edition.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Lorenzo Sala, Va Diaz 9, 23876 Monticello (LC), Italia - Cell. 333/4326026 - E-mail: lorevet@libero.it

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UN CASO DI MENINGOENCEFALITE DA CRIPTOCOCCO IN UN LABRADOR L. Sala DVM, G. Abbiati DVM, A. Tomba DVM Liberi professionisti, Samarate, Italia Area di interesse: Neurologia Introduzione. La Criptococcosi è una malattia fungina sistemica che colpisce prevalentemente i soggetti immunodepressi. I gatti risultano più frequentemente colpiti rispetto ai cani. Come nella specie umana anche in quella felina le malattie immunodepressanti aumentano il rischio di infezione. L’immunosoppressione nel cane invece è generalmente conseguente a somministrazione di corticosteroidi, infezioni, filariosi cardiopolmonare e neoplasie. La via di infezione principale è inalatoria a cui può seguire diffusione per via ematogena o per contiguità, ad altri organi (CNS, occhio, cute, linfonodi, polmone e cavità nasali). Descrizione del caso. È stato portato a consulto neurologico un cane labrador retriever, femmina di 1 anno per insorgenza improvvisa da circa 4 ore di tetraparesi non ambulatoria, cecità e depressione del sensorio. Alla visita clinica il cane si presentava in buone condizioni generali e l’esame obiettivo generale era normale. La visita neurologica ha evidenziato lieve depressione del sensorio, tetraparesi non ambulatoria con deficit propriocettivi a carico dei 4 arti, senza evidente lateralizzazione. I riflessi spinali a carico di tutti gli arti, il cutaneo del tronco ed il perineale erano normali. L’esame dei nervi cranici ha evidenziato un’assenza bilaterale della reazione al test di minaccia. La palpazione profonda del rachide cervicale ha evocato una lieve algia. La localizzazione neuroanatomica era prosencefalica con un possibile coinvolgimento cervicale. La diagnosi differenziale è stata posta tra malattie infiammatorie, vascolari e neoplastiche. Sono stati eseguiti esami ematologici, ematochimici e radiografici diretti del torace, risultati normali. È stata quindi effettuata una risonanza magnetica del rachide cervicale e del neurocranio, ottenuta mediante l’acquisizione di immagini SE T1, FSE T2 e STIR GFE T2-pesate orientate nei tre piani dello spazio e completata con immagini T1-pesate dopo somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto. A livello di rachide cervicale non sono state riscontrate alterazioni. Lo studio del neurocranio ha invece evidenziato la presenza di una neoformazione solida espansiva in sede di cavità nasale destra caudale, con estensione encefalica. Considerando la storia clinica del paziente e la morfologia della lesione, il sospetto diagnostico è stato in prima ipotesi di un processo infiammatorio granulomatoso esteso al neurocranio con conseguente meningoencefalite. In seconda ipotesi il sospetto è stato di neoplasia originante dalla cavità nasale (es. carcinoma, carcinoma squamocellulare, neuroblastoma). È stato effettuato nella stessa seduta il prelievo di liquido cefalorachidiano, che ha mostrato normale contenuto proteico (15 mg/dl), pleocitosi eosinofilica (cellule nucleate 65/µl) e la presenza di strutture tondeggianti basofile di aspetto granulare (10-20 micron di diametro) con alone trasparente compatibili con Criptococchi. È stata eseguita inoltre la titolazione anticorpale su siero e su LCR per Criptococcus N. che ha dato una positività rispettivamente di 1:64 e 1:128. È stata quindi impostata una terapia con Fluconazolo (10 mg/kg BID), ma a distanza di 12 ore dall’esame il cane è deceduto per arresto cardiocircolatorio. Conclusioni. I casi descritti in letteratura di meningoencefalite da Criptococco nel cane e nel gatto in Italia sono rarissimi. Nel caso in esame nell’anamnesi, sia recente che remota, non sono stati segnalati né sintomi riconducibili ad una patologia respiratoria delle alte o basse vie, né cause ad azione immunodepressante che potessero giustificare l’instaurarsi dell’infezione. La mancanza di sintomi respiratori ha inoltre impedito una diagnosi precoce e quindi di poter intervenire prima del coinvolgimento del SNC. L’origine della patologia è da attribuirsi comunque ad un processo infiammatorio granulomatoso originato dalle cavità nasali ed estesosi poi per contiguità al neurocranio, con conseguente grave meningoencefalite. I sintomi neurologici (tra cui crisi convulsive nel 60% dei casi, atassia e segni vestibolari) possono manifestarsi per periodi variabili da pochi giorni sino a diversi mesi. La prognosi in corso di meningoencefaliti di natura micotica è da considerarsi strettamente riservata quindi una diagnosi precoce diventa fondamentale per un esito terapeutico positivo, che può comunque richiedere tempi di somministrazione estremamente lunghi. Bibliografia R.W. Nelson, C.G. Couto: “Medicina interna del cane e del gatto”. Ed. Elsevier 2006. p 1321-1324. C.G. Green: “Infectious disease of the dog and cat”. Ed. Elsevier 2006. p 584-598. J. Lavely, D. Lipsitz: “Fungal infections of the CNS in the dog and cat” Cl.Tech.Sm.Anim.Pract. 2005 Nov;20(4):212-9. G. Castellà, M.L.Abarca,F.J.Cabanes: “Cryptococcosis and pets” Rev.Iberoam.Micol. 2008 Mar; 25(1):S19-24. E. Faggi, G. Gargani et al “Cryptococcosis in domestic mammals.” Mycoses. 1993 May-Jun;36(5-6):165-70. W.B. Thomas “Inflammatory diseases of CNS in dogs” Cl.Tech.Sm.Anim.Pract. 1998 Aug;13(3):167-78.

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ANESTESIA SPINALE ELETTIVA CON BUPIVACAINA 0,5% IPERBARICA E MORFINA IN 21 CANI SOTTOPOSTI A CHIRURGIA ORTOPEDICA DELL’ARTO POSTERIORE D. Sarotti DMV1,2, R. Rabozzi DMV3 Centro Veterinario Fossanese, Fossano (CN), Italia 2 Centro Veterinario Saluzzese, Saluzzo (CN), Italia 3 Clinica Veterinaria dell’Adriatico, Vasto (CH), Italia 1

Area di interesse: Anestesia Scopo del lavoro. L’anestesia spinale (AS) iperbarica in medicina umana è comunemente utilizzata nella chirurgia ortopedica dell’arto inferiore. Rispetto all’AS isobarica, l’iperbarica permette di effettuare un blocco selettivo dell’arto da sottoporre a chirurgia con riduzione dell’estensione del blocco simpatico e di ridurre il dosaggio di anestetico locale (AL). In questo studio retrospettivo di carattere descrittivo per la prima volta viene riportato nel cane, su un numero significativo di casi, la presenza/assenza di risposta cardiovascolare (RC/NRC) allo stimolo chirurgico durante l’AS elettiva iperbarica in cani sottoposti a chirurgia dell’arto posteriore e l’incidenza di effetti collaterali. Materiali e metodi. Analisi retrospettiva condotta su cartelle cliniche consecutive nel periodo 2008-2009 di pazienti sottoposti ad AS iperbarica con uso di Bupivacaina 0,5% e Morfina. L’iniezione spinale è stata effettuata utilizzando aghi di Quincke 25 G con direzione dell’ago craniale, nello spazio L5-6, in soggetti intubati e mantenuti in uno stadio superficiale di anestesia generale. I paziente dopo l’iniezione subaracnoidea sono stati mantenuti in decubito laterale, in anti-Trendelemburg con inclinazione del rachide di 10 gradi e con l’arto da operare ventrale, per 10 minuti. La scelta della dose di AL e di oppioide è avvenuta in base al peso, tenendo conto del morfotipo e della lunghezza del rachide con il cane in decubito laterale e a testa estesa, misurata dal margine caudale del processo spinoso di L7 all’osso occipitale. I soggetti con pressione arteriosa media (MAP) inferiore a 60 mmHg per più di 5 minuti sono stati classificati come casi di ipotensione, mentre quelli a cui la frequenza cardiaca o la MAP aumentavano post-stimolo in modo superiore al 20% rispetto al prestimolo come casi di RC. I pazienti nel postoperatorio sono stati valutati con la scala del dolore ogni 2 ore fino alla dimissione e a tutti è stato somministrato un FANS a fine chirurgia. Le variabili parametriche sono state descritte come media (deviazione standard), mentre le variabili non parametriche come mediana (range). Risultati. Sono state eseguite 22 punture spinali, in 21/22 (95%) la fuoriuscita di liquor era evidente ed è stato possibile iniettare l’AL. Classificazione ASA mediana II (I-III), età media 70 (46) mesi, peso mediano 13 (3,2-35) kg, lunghezza mediana della colonna L7-occipite 49 (35-84) cm, tempo dalla spinale al taglio cute 22 (15-30) minuti, durata della anestesia a partire dalla spinale 92 (60-120) minuti. I tipi di chirurgia erano così distribuiti: 3/21 (14%) lussazioni mediale di rotula, 7/21 (33%) ricostruzioni extracapsulare del legamento crociato, 2/21 (10%) TPLO, 2/21 ( 10%) artrodesi di carpo, 3/21 (14%) ostectomie della testa del femore, 3/21 (14%) osteosintesi di femore, 1/21 (5%) osteosintesi di tibia. La dose media di Bupivacaina 0,5% è stata di 0,61 mg kg-1 (0,22) e 0,12 mg cm-1 (0,03) di colonna, la dose di Morfina (10 mg ml-1) di 0,14 mg kg-1 (0,08) e 0,02 mg cm-1 (0,01). È stata registrata RC post-stimolo nella prima ora dall’esecuzione della spinale in 2/21 casi (10%) e durante la durata complessiva della chirurgia in 5/21 casi (24%). In 3/21 casi (14%) abbiamo registrato nella seconda ora di chirurgia un aumento progressivo della pressione arteriosa non accompagnato da aumento della frequenza respiratoria o della frequenza cardiaca da imputarsi probabilmente alla progressiva riduzione dell’estensione del blocco simpatico. L’incidenza di ipotensione è stata di 8/21 (38%) casi, di questi 3 sono stati trattati con efedrina a 50 mcg kg-1, 4 con efedrina a 50 mcg kg -1 e atropina a 20 mcg kg-1, 1 caso con efedrina a 50 mcg kg-1 seguito da una CRI di medetomidina a 1 mcg kg-1 h-1. L’incidenza di bradicardia è stata registrata in 4/21 (19%) casi, ritenzione urinaria in 2/21 (10%), deficit propiocettivi tra le 5 -18 ore dalla spinale in 1/21 (5%), prurito in 1/21 (5%); danni neurologici transitori o permanenti, parestesie e mortalità intraoperatorio e a 30 giorni in 0/21 (0%). I pazienti con RC intraoperatoria hanno tutti ricevuto preventivamente un oppioide a fine chirurgia, mentre i pazienti con NRC non hanno necessitato di oppioide postoperatorio. Conclusioni. L’anestesia spinale iperbarica nel cane è una tecnica di semplice esecuzione, sicura e con una accettabile frequenza di complicanze sovrapponibili a quella riportate nell’uomo.1 L’indice di fallimento procedurale (mancata fuoriuscita di liquor) è in linea con i dati pubblicati nell’uomo. La scopertura analgesica intraoperatoria nella prima ora dopo l’iniezione spinale è risultata di poco superiore rispetto a quella riportata nell’uomo2 e significativamente più bassa se paragonata a quella riportata nel cane con soluzioni isobariche in uno studio precedente.3 La durata del blocco sensitivo indotto dall’AS non si è sempre dimostrata adeguata per la chirurgia ortopedica dell’arto posteriore. È raccomandabile per chirurgie ortopediche di lunga durata o di durata non prevedibile l’uso di più alte dosi di AL o la scelta di altre tecniche loco regionali. Bibliografia 1. 2. 3.

Carpenter RL et Al. Anesthesiology 1992;76:906-916. Wresch KP. Anaesthesist 1995; 44: 580-7. Sarotti D, Rabozzi R. Comunicazioni brevi 62° Congresso Scivac, 2009.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Diego Sarotti - Cvf, Via Cuneo 29 E, 12045 Fossano (CN), Italia - Tel. 3397799642 - E-mail: diego.sarotti@libero.it

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LOCALIZZAZIONE ATIPICA DI UN CORDOMA NEL FURETTO (MUSTELA PUTORIUS FURO) 1

S. Silvetti, DVM1, M. Bielli, DVM2 Libero Professionista, Miasino (No), Italia 2 Libero Professionista, Novara, Italia Area di interesse: Animali esotici

Introduzione. Sino al 1979 erano stati descritti solo una ventina di casi di malattie tumorali nel furetto e perciò si credeva che i furetti fossero refrattari allo sviluppo neoplasie spontanee. La neoplasia di tipo endocrino è quella di maggiormente descritta (insulinoma, malattia surrenalica), seguite da linfoma, cordoma ed altre neoplasie di origine cutanea. Spesso nello stesso soggetto possono coesistere 2 o più neoplasie differenti. Il cordoma è la terza neoplasia per frequenza descritta nel furetto. Origina dai residui della notocorda embrionale a livello rachideo. La maggior parte dei cordomi si localizza all’estremità della coda, meno frequentemente alla sua base e più raramente dalla colonna cervicale e toracica. Solo in un caso sono descritte metastasi cutanee distanti. Generalmente appaiono come masse rotondeggianti, a superficie liscia che conferiscono il tipico aspetto “a mazza di tamburo”. Nell’Uomo la localizzazione più frequente è invece quella cervicale. Citologicamente si osservano cluster di cellule pleomorfiche. In medicina umana istologicamente vengono riconosciuti 3 tipi di cordoma: convenzionale, condroide, indifferenziato. Nelle sezioni appaiono suddivisi in 3 zone: ossa trabecolari con a volte elementi del midollo osseo, cartilagine, lobuli di cellule vacuolari (physaliferous cells) nello strato più esterno immerse in fasci di tessuto fibroso. Le tre zone sono spesso arrangiate concentricamente e si mescolano tra di loro gradatamente, le cellule vacuolari sono normalmente patognomoniche; sono cellule rotonde o poligonali con citoplasma vacuolizzato o vescicolare, nucleo centrale e nucleoli occasionalmente osservabili. Le figure mitotiche sono rare. Immunoistochimicamente i cordomi hanno aspetti sia epiteliali che mesenchimali. Descrizione del caso. Clyde, furetto MC, 3 anni di età, Marshall, vive con Bonnie FS, Marshall di pari età. I proprietari riferiscono la presenza di una tumefazione nella regione sinistra del collo, comparsa circa 3 giorni prima. Alla visita clinica il paziente appare vigile, senza apparente fastidio; non vengono riferiti alterazioni della normali attività o del carattere. La tumefazione, si estende dalla base del ramo della mandibola sino al bordo craniale della scapola. Dopo l’E.O.G., si esegue l’esame della regione interessata; la cute sovrastante si presenta tesa ma non infiammata, priva di lesioni primarie o secondarie. Si contiene il furetto dalla collottola e si procede con la palpazione della tumefazione che appare di consistenza dura, liscia, non particolarmente adesa ai tessuti circostanti; tutta la procedura non provoca nessun fastidio al paziente. Si esegue l’esame citologico per ago-infissione con ago da 25G. All’infissione dell’ago si avverte una consistenza molto solida, minerale. Si effettua la colorazione con Diff-Quick. Si rileva una predominanza di cellule tonde di grosse dimensioni (50-80 µm) con grosso nucleo a cromatina dispersa ed abbondante citoplasma fortemente azzurrofilo. Si procede a questo punto, all’esecuzione di una Rx, sia della regione cervicale che del torace per escludere metastasi polmonari e consigliare la terapia più adatta. L’esito dell’Rx riferisce di una neoformazione con densità ossea multilobulare apparentemente non adesa a nessuna struttura vicina; il torace sembra libero di segni indicativi metastasi polmonari. Si effettua un prelievo ematico per la valutazione dei parametri emato-biochimici prechirurgici di routine e si programma la chirurgia. La preanestesia viene eseguita con una miscela di Medetomidina 40 µg/kg, Midazolam 0,2 mg/kg, Butorfanolo 0,3 mg/kg nella stessa siringa per via intramuscolare. L’induzione tramite mask down con isofluorano 5% in O2 al 100%. Avvenuta l’intubazione e dopo la preparazione del campo chirurgico, si è proceduto con l’incisione della cute e all’asportazione della massa che appariva di consistenza dura, minerale ma friabile avvolta da una sottile capsula e non appariva ancorata alla base ossea sottostante. Il risveglio avviene senza nessun problema ed il paziente viene dimesso in serata. Conclusioni. L’esito istopatologico ha confermato essere un cordoma convenzionale. Nonostante in sede chirurgica l’asportazione della massa è apparsa completa, ad una visita di controllo eseguita dopo circa 6 mesi si è nuovamente osservata la formazione di una recidiva. Il caso è stato interessante sia per la localizzazione non tipica della neoplasia che per il diagnostico differenziale stimolato: ascesso da morso, ascesso da corpo estraneo, reazione granulomatosa da microchip. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

James G. Fox. Biology and disease of the Ferret, 1998 pp 433-435. Allison N., Rakich P. Chordoma in 2 ferrests. J Comp Pathol 1988; 98 (3); 371-4. Herron AJ, Brunnert SR, Ching SV, Dillbergerer JE, Altman NG. Immunohistochemical and morphologic features of chordomas in ferret (Mustela putorius furo). Vet Pathol 1990; 27 (4):284-6. Williams BH, Eighmy JJ, Berbert MH, Dunn DG. Cervical chordoma in two ferret. Vet Pathol 1993; 30 (2): 204-6. Veterinary Clinics of North America. Oncology. September 2004, pp 617-618. Munday S.J., Brown C.A., Richey L.J. Suspected metastatic coccygeal chordoma in a ferret (Mustela putorius furo), J. Vet. Diagn. Invest. 16:454-458 (2004). Pye G.W., Bennet A., Roberts G.D., Terrell S.P. Thoracic vertebral chordoma in a domestic ferret (Mustela putorius furo). Journal of Zoo and Wildlife Medicine 31 (1): 107-11, 2000.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Sergio Silvetti, Via Per Armeno, 1, 28010 Miasino (NO), Italy Tel. 0322/980907 - Cell. 340/1441276 - E-mail: sergio.silvetti@gmail.com 310


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APPROCCIO MULTIMODALE AI TUMORI URETRALI DEL CANE:DESCRIZIONE DI 2 CASI P. Valenti, DMV, Resident ACVIM-Oncology1, C. Leo, DMV, Resident ACVIM-Oncology1, G. Bettini, DMV, Prof2, D. Nitzl, DMV, DECVDI1, J. Buchholz, DMV, DACVR1, L. Marconato, DMV, DECVIM-Oncology1 1 Animal Oncology and Imaging Center, Hunenberg, Svizzera 2 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Università di Bologna, Ozzano Emilia, Italia La dott.ssa Buchholz e la dott.ssa Marconato hanno contribuito in maniera equivalente al lavoro.

Area di interesse: Oncologia Introduzione. I tumori uretrali nel cane sono neoplasie a prevalente origine epiteliale (carcinomi a cellule di transizione, squamocellulari), a comportamento biologico aggressivo, con tendenza a metastatizzare a linfonodi regionali e polmoni1. I pazienti presentano nella maggior parte dei casi sintomi sovrapponibili a quelli dei tumori vescicali (ematuria, stranguria, pollachiuria), spesso accompagnati da ostruzione del tratto uretrale, parziale o completo, che compromette drammaticamente il quadro clinico. Nella maggior parte dei casi i pazienti non sono candidati chirurgici a causa dell’invasività di tale procedura (diversione urinaria colica) non scevra da complicanze secondarie che possono arrivare fino al 50% dei casi. La radioterapia intra- e postoperatoria è riportata per il controllo di queste neoplasie, associata però a complicanze tardive quali fibrosi ed incontinenza. La chemioterapia rimane il trattamento principale per neoplasie non asportabili e/o metastatiche2, da sola o adiuvante a chirurgia o radioterapia, e contribuisce al miglioramento di quadro clinico con risposte parziali o malattie stabili, ma con tempi di sopravvivenza che non superano l’anno. Si descrive di seguito approccio terapeutico multimodale con radioterapia e chemioterapia adiuvante nel trattamento di 2 tumori uretrali non chirurgici. Descrizione del caso. Caso 1. Beagle, FS, di anni 10, con carcinoma transizionale uretrale e stadiazione negativa (T3N0M0), veniva trattato con Gemcitabina in monoterapia (850 mg/m2), sperimentando remissione completa dopo 7 cicli di trattamento. Dopo 10 mesi dall’inizio del trattamento e 3 mesi dopo l’interruzione della chemioterapia, il paziente ripresentava sintomatologia clinica (stranguria) con recidiva a livello uretrale in assenza di metastasi locoregionali e a distanza. Si optava per approccio terapeutico multimodale con radioterapia a megavoltaggio (3.3 Gy/frazione, 12 frazioni) seguita da carboplatino EV (240 mg/m2, 4 dosi, ogni 21 giorni). A 4.5 mesi dalla fine del protocollo radioterapico la malattia è stabile e la qualità di vita del paziente è da considerarsi ottima, in assenza di sintomatologia clinica attribuibile a neoplasia e di metastasi regionali o a distanza. Caso 2. Chihuahua, F, di anni 11, veniva riferita per carcinoma squamoso uretrale coinvolgente anche il trigono vescicale, responsabile di stranguria e pollachiuria con grave tenesmo urinario. La stadiazione risultava negativa (T3N0M0) e il paziente veniva trattato con radioterapia a megavoltaggio (3.3 Gy/frazione, 12 frazioni) e carboplatino EV (240 mg/m2, 4 dosi, ogni 21 giorni). La sintomatologia clinica, in particolare il tenesmo, si risolveva dopo la terza seduta di radioterapia e il paziente riprendeva ad urinare normalmente. A 2 mesi dalla fine della radioterapia la massa si presentava di dimensioni ridotte. A 4 mesi dalla fine della radioterapia e a 1 mese dalla fine del protocollo chemioterapico il paziente si presenta in ottime condizioni cliniche, in assenza di sintomatologia clinica e metastasi regionali o a distanza. Conclusioni. I tumori uretrali rappresentano una sfida terapeutica, dal momento che per sede anatomica la chirurgia non è indicata e la qualità di vita dei pazienti è nella maggior parte dei casi condizionata dalla sintomatologia conseguente all’ostruzione del tratto urinario inferiore. L’obiettivo principale del trattamento è la risoluzione del quadro clinico conseguente all’ostruzione, responsabile in oltre il 60% dei pazienti della morte del soggetto. Dal momento che tali neoplasie sono difficilmente aggredibili chirurgicamente, la radioterapia associata a chemioterapia può rappresentare una valida opzione terapeutica per il controllo sia locale sia distante della malattia. Alcuni studi hanno proposto l’utilizzo della radioterapia intraoperatoria con il 60% dei pazienti vivo a un anno mentre con la radioterapia con unità a megavoltaggio associata a polimeri di cisplatino come radiosensibilizzanti i tempi mediani di sopravvivenza sono intorno all’anno3. Al momento il follow-up limitato dei nostri pazienti non consente di formulare un giudizio definitivo sull’efficacia terapeutica del trattamento proposto, né di valutare la presenza di effetti collaterali tardivi conseguenti al trattamento radioterapico (fibrosi uretrale) che possano condizionare negativamente il quadro clinico; tuttavia, la rapida risoluzione della sintomatologia clinica già in corso di trattamento che permane tuttora in entrambi i pazienti a 5 mesi dalla fine del protocollo radioterapico rappresenta un dato incoraggiante per il proseguimento di un approccio multimodale di tumori la cui prognosi al momento rimane sfavorevole. Bibliografia 1. 2. 3.

Knapp D.: Tumors of the Urinary System in Withrow S., Vail D., Small Animal Clinical Oncology, ed. Saunders, 4thedition, 2007. Moore AS, Cardona A, Shapiro W et al. Cisplatin (cisdiamminedichloroplatinum) for treatment of transitional cell carcinoma of the urinary bladder or urethra. A retrospective study of 15 dogs. J Vet Intern Med, 1990 May-Jun;4(3):148-52. LaRue SM, Gillette SM, Poulson JM. Radiation therapy of thoracic and abdominal tumors. Semin Vet Med Surg (Small Anim), 1995 Aug;10(3):190-6.

Indirizzo per corrispondenza: Dott.ssa Paola Valenti - Animal Oncology and Imaging Center, Rothusstrasse 2, 6331 Hunenberg (ZG), Svizzera Tel. +41417830777 - +41417830777 - E-mail: valenti@aoicenter.ch

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PROTESI D’ANCA NON CEMENTATA NEI CANI IN ACCRESCIMENTO: MAGGIOR RISCHIO CHE NEI CANI ADULTI? L. Vezzoni, Med Vet, A. Vezzoni, Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS Clinica Veterinaria Vezzoni, Cremona Area di interesse: Ortopedia Introduzione. La protesi totale d’anca è un trattamento efficace per cani con patologie invalidanti a carico dell’articolazione coxo-femorale e molti studi ne hanno dimostrato la validità in pazienti di età variabile, ma con un’età media sempre superiore ai 3 anni. Poiché la displasia dell’anca è una patologia dello sviluppo, i segni clinici nei casi più gravi possono manifestarsi già dai 5 agli 8 mesi di età con difficoltà ad alzarsi, debolezza del treno posteriore, affaticamento, tendenza a sedersi ed andatura a coniglio. In questi casi il disagio del cucciolo è talmente evidente da richiedere al più presto possibile un intervento efficace e duraturo come la protesi totale d’anca. Non intervenendo tempestivamente, la progressiva erosione del bordo dorsale dell’acetabolo causata dalla normale attività del cucciolo riduce il supporto dorsale per la coppa acetabolare al momento poi dell’intervento; quando inoltre la sublussazione delle anche diventasse permanente potrebbe rendere difficile la riduzione della protesi ed aumentare il rischio di lussazione nell’immediato postoperatorio. Considerando che la maturità scheletrica, caratterizzata a livello radiografico dalla chiusura delle fisi di accrescimento, è generalmente raggiunta tra i 9 e gli 11 mesi di età con variazioni a seconda delle diverse razze, lo scopo di questo studio è stato quello di valutare l’incidenza di complicazioni in cani di età inferiore a 9 mesi sottoposti ad intervento di protesi d’anca non cementata (modello Kyon) tra gennaio 2002 e dicembre 2007 e compararla con l’incidenza di complicazioni osservate in cani di età maggiore operati nello stesso periodo di tempo, per poter valutare se l’intervento eseguito durante la fase di accrescimento comporta un maggior rischio di complicazioni. Materiali e metodi. Sono state valutate le cartelle cliniche dei casi di protesi d’anca effettuate tra gennaio 2002 e dicembre 2007 con il sistema Kyon Cementless presso la Clinica Veterinaria Vezzoni. Tutti gli interventi sono stati effettuati dallo stesso chirurgo e le cure postoperatorie sono state standardizzate per tutti i pazienti. I cani sono stati divisi in due gruppi: il gruppo dei cani in accrescimento, comprendente cani di età inferiore a 9 mesi, ed il gruppo dei cani adulti, comprendente cani di età superiore a 9 mesi. La maggior parte dei cani trattati erano affetti da gravi forme di displasia dell’anca; altre patologie che hanno richiesto il trattamento protesico includevano fratture di testa e collo femorali, lussazioni croniche o recidivanti e risultati insoddisfacenti di precedenti interventi come TPO, DARtroplastiche o artroplastiche escissionali. Di ogni caso sono stati valutati il numero e tipo di complicazioni in relazione alle misure ed orientamenti degli impianti usati ed alla razza e peso dei cani. Sono state considerate come complicanze a breve termine quelle occorse entro i primi 6 mesi dopo l’intervento e come complicanze a lungo termine quelle più tardive. Risultati. Il gruppo dei cani in accrescimento comprendeva 102 protesi d’anca, mentre il gruppo degli adulti comprendeva 388 protesi. In entrambi i gruppi sono state rappresentate diverse razze, le più comuni erano Pastore Tedesco, Golden Retriever, Labrador Retriever, Terranova, Rottweiler e Boxer. Nel gruppo dei cani in accrescimento l’età dei pazienti era compresa tra 4,5 e 8,5 mesi (età media 7,3 mesi). Il peso variava da 13 a 53 kg (media 26,5 kg). Nel gruppo dei cani adulti l’età era compresa tra 9 mesi ed 11 anni (età media 4,5 anni) ed il peso variava da 1,5 a 68 kg (media 35,5 kg). Le misure degli impianti protesici utilizzati sono riportate nella Tabella 1. Nel gruppo dei cani in accrescimento abbiamo riportato una o più complicanze a breve o lungo termine in 16 casi (15,6%), di cui 14 sono state revisionate con successo e 2 hanno richiesto la rimozione degli impianti, mentre nel gruppo degli adulti abbiamo registrato 36 complicanze (9,3%), 31 protesi sono state revisionate con successo, mentre 5 sono state espiantate. Il tipo e la percentuale delle diverse complicanze in entrambi i gruppi ed il numero di fallimenti che hanno richiesto l’espianto della protesi sono riportati nella Tabella 2.

Misura Stelo XX-Small X-Small Small Medium Large

N° in cani in accrescim. 7 (6,9%) 40 (39,2%) 48 (47%) 7 (6,9%)

Complicanza Lussazione Frattura femore Mobilizzazione coppa Mobilizzazione stelo Rottura coppa Rottura stelo Consumo polietilene Infezione

N° in cani adulti 2 (0,6%) 10 (2,6%) 91 (23,4%) 175 (45,1% 110 (28,3%)

N° in cani in accrescim. 6 (5,9%) 1 (0,98%) 2 (1,96%) 1 (0,98%) 5 (4,9%) 1 (0,98%)

TABELLA 1 Misura Coppa 21,5 23,5 26,5 29,5 32,5

TABELLA 2 N° in cani adulti 14 (3,6%) 6 (1,55%) 7 (1,8%) 4 (1,03%) 3 (0,77%) 1 (0,26%) -

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N° in cani in accrescim. 12 (11,8%) 62 (60,8%) 23 (22,5%) 5 (4,9%) -

Espianti in cani in accrescim. 1 1

N° in cani adulti 23 (5,9%) 150 (38,7%) 165 (42,5%) 43 (11,1%) 6 (1,55%)

Espianti in cani adulti 2 1 1 1


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Discussione. L’incidenza totale di complicanze nei cani in accrescimento (15,6%) è risultata essere più alta rispetto a quanto riscontrato nei cani adulti (9.3%). Prendendo in considerazione i singoli tipi di complicanze (Tabella 2), abbiamo riscontrato più casi di lussazione (5,9%) e di rottura dello stelo femorale (4,9%) nei casi di protesi effettuate in cani in accrescimento rispetto a quelle nei cani adulti (3,6% di lussazioni e 0,8% di cedimenti dello stelo). L’incidenza di fratture femorali, mobilizzazioni della coppa acetabolare o dello stelo femorale e di infezioni non ha evidenziato differenze significative rispetto a quanto riscontrato nella popolazione adulta. Considerando i 6 casi di lussazione riscontrati nel gruppo dei cani in accrescimento è interessante notare che 5 casi hanno riguardato cani di razza Terranova, che possiamo considerare una razza ad elevato rischio di lussazione, soprattutto in cani giovani e pesanti con anche molto lasse e zampe lunghe che comportano un maggiore braccio di leva. Alla luce di questo la maggiore incidenza di lussazioni nei cani in accrescimento andrebbe rivalutata considerando che ha riguardato quasi esclusivamente cani di razza Terranova. In 3 di questi 5 casi, inoltre, le unità testa/collo da 19 mm di diametro, progettate per ridurre l’incidenza di lussazione nei cani di taglia gigante, non erano ancora disponibili al momento del loro intervento. Escludendo i Terranova, nei cani in accrescimento la percentuale di casi di lussazione è risultata dell’1%, cioè inferiore a quanto riscontrato nel gruppo degli adulti; questa minore incidenza potrebbe essere dovuta alla maggiore velocità di guarigione della capsula articolare e dei tessuti molli nei cani in accrescimento rispetto agli adulti. La differenza più significativa (P<0.001) tra l’incidenza di complicanze nei due gruppi ha riguardato i casi di rottura dello stelo femorale: 4,9% nelle protesi d’anca effettuate in cani in accrescimento contro 0,77% negli adulti. Questa complicanza a lungo termine è stata riscontrata sempre ad una distanza superiore ai 2 anni dall’intervento ed ha riguardato 1 stelo di misura X-Small, 3 steli Small ed 1 stelo Medium. Il cedimento dello stelo è stato causato da due fattori: l’impianto di uno stelo di misura troppo piccola rispetto alla taglia del cane a fine accrescimento; e le vecchie partite di steli che non erano state sottoposte al trattamento di “micropinning”, un trattamento di superficie che ha permesso di aumentare la capacità di resistenza meccanica della lega di titanio del 20%. Considerando le misure degli impianti utilizzati, possiamo notare che nei cani in accrescimento abbiamo utilizzato steli di misura XSmall nel 6,9% dei casi e Small nel 39,2% dei casi, mentre nei cani adulti abbiamo utilizzato steli X-Small solo nel 2.6% dei casi e Small nel 23,4% dei casi. Negli anni scorsi, infatti, non eravamo a conoscenza del potenziale rischio di rottura degli steli femorali quando questi fossero risultati sottodimensionati rispetto al peso del cane da adulto e per questo non prestavamo sufficiente attenzione nell’utilizzare impianti della stessa misura che avremmo scelto per cani adulti della stessa razza e sesso. Inoltre il procedimento di “micropinning” è stato applicato agli steli prodotti a partire dal 2005 e tutti i casi di cedimento dello stelo che abbiamo registrato riguardano steli impiantati prima di quella data. A partire dai primi casi riscontrati di rottura dello stelo femorale abbiamo seguito, senza alcuna evidente controindicazione, la prassi di impiantare uno stelo della misura più grande possibile nei cani in accrescimento, con l’obbiettivo di avere impianti di dimensioni adeguate alla taglia definitiva del cane. La rottura della coppa acetabolare è stata riscontrata solo nel gruppo dei cani adulti e sembra essere una complicanza a lungo termine legata a cani iperattivi (cani da agilty e da caccia); questa complicanza, inoltre ha riguardato solo coppe delle misure più piccole (21,5 mm e 23,5 mm) suggerendo che questi impianti andrebbero utilizzati solo in cani più anziani o meno attivi. La sopravvivenza attesa degli impianti nelle protesi d’anca effettuate in cani in accrescimento è ovviamente maggiore rispetto a quando l’intervento è effettuato in cani più anziani; quando si effettua un intervento protesico in un cane in accrescimento l’obbiettivo è garantire una sopravvivenza degli impianti superiore alle aspettative di vita del cane. La resistenza degli impianti in titanio è data dalle loro dimensioni in relazione al peso del cane ed al suo livello di attività; dalla nostra esperienza si può desumere che gli impianti più piccoli del sistema di protesi d’anca Kyon, come lo stelo X-Small e la coppa da 21,5 mm di diametro andrebbero riservati per pazienti di peso non superiore a 17-18 kg ed a cani più anziani e di indole più tranquilla, e lo stelo Small andrebbe limitato a cani di peso inferiore ai 30 kg. L’utilizzo di impianti sottodimensionati in cani iperattivi o molto pesanti può portare ad un precoce fallimento meccanico. Considerando la sopravvivenza a lungo termine della protesi d’anca, il consumo del polietilene della coppa acetabolare potrebbe rappresentare un problema, soprattutto per le coppe più piccole che hanno un inserto in polietilene di spessore più sottile, ed andrebbe indagato più approfonditamente con studi a lungo termine. Conclusioni. La protesi totale d’anca non cementata Kyon è risultata un efficace trattamento per i cani in accrescimento affetti da gravi patologie a carico dell’articolazione coxo-femorale permettendo un pronto intervento nella fase precoce di maggiore dolorabilità. I tempi di guarigione e di ripresa dall’intervento sono risultati più brevi nei cani in accrescimento, richiedendo cure postoperatorie di durata inferiore. L’incidenza di complicanze nei cani in accrescimento è risultata essere leggermente più alta, ma l’individuazione dei principali fattori di rischio e delle rispettive contromisure ha permesso di ridurla nel corso dello studio fino a valori equiparabili ai cani adulti. La sopravvivenza degli impianti può essere un problema riguardante sia la resistenza meccanica del titanio, sia il consumo del polietilene. Per limitare il rischio di fallimenti meccanici, sia per quanto riguarda lo stelo femorale che per la coppa acetabolare, la scelta della misura degli impianti nei cani in accrescimento dovrebbe essere in funzione delle dimensioni del cane da adulto.

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POSTER I poster sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore. Posters are listed in alphabetical order by surname and then in chronological order of presentation.


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MASTOCITOSI SISTEMICA IN UN CANE M. Annoni, Med. Vet., W. Bertazzolo, Med. Vet.,DECVCP, C. Pacchioni, Med. Vet. Liberi professionisti, Clinica Veterinaria Tibaldi, Milano, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Il termine mastocitosi sistemica (MS) indica una forma viscerale, rara nel cane e molto più frequente nel gatto, caratterizzata dal coinvolgimento di midollo osseo, milza, fegato e sangue da parte di mastociti neoplastici.1,2,6,7 I sintomi che ne derivano sono ascrivibili al rilascio dei mediatori chimici in essi contenuti. I cani affetti da MS presentano, alla visita clinica, letargia, anoressia, vomito e perdita di peso, cui si associano riscontri clinici quali splenomegalia, epatomegalia e pallore delle mucose apparenti. In questi soggetti l’esame completo del sangue mette di solito in evidenza fenomeni di citopenia con o senza presenza di mastociti circolanti.2 Nel cane la MS è normalmente il risultato di una disseminazione sistemica di una forma aggressiva cutanea primaria, sebbene raramente possa essere presente in forma di sindrome indipendente1-7, come qui di seguito riportato. Descrizione del caso. Un cane Maltese, femmina, sterilizzata, di 14 anni, veniva riferita per abbattimento, anoressia, poliuria e feci molli presenti da qualche settimana. L’esame obbiettivo generale evidenziava algia addominale con cifosi, T 39.4°C e sensorio depresso. Tutti i linfonodi esplorabili apparivano di piccole dimensioni, nessuna neoformazione a livello cutaneo e sottocutaneo era apprezzata alla palpazione. L’esame ematochimico evidenziava mastocitemia modesta (1-2%), mentre un’esame citologico eco-guidato dimostrò un’invasione di mastociti ben differenziati anche a livello epato-splenico. Radiograficamente il torace appariva nella norma. Un aspirato midollare riportava la presenza di una discreta percentuale (8-10%) di mastociti ben differenziati. Alla luce dei riscontri clinico-patologici si emetteva diagnosi di mastocitosi sistemica, senza la presenza di evidenti mastocitomi primari in altre sedi. Si iniziava la somministrazione di prednisone ed un inibitore tirosin-chinasico (masitinib a 12,5 mg/kg/sid per os), con rapido miglioramento delle condizioni generali del cane e scomparsa di sintomi quali apatia e vomito. Ad un mese di distanza dall’inizio della terapia, nonostante il miglioramento clinico, l’esame ematochimico di controllo evidenziava una marcata anemia ed un importante incremento della fosfatasi alcalina. I mastociti circolanti apparivano notevolmente ridotti in quantità (0.2%), e l’esame ecografico riscontrava una riduzione volumetrica della milza. I puntati splenici ed epatici venivano ripetuti, evidenziando minima presenza di mastociti, quindi indicando una parziale regressione. A tutt’oggi, dopo 2 mesi dall’inizio della terapia con masitinib e prednisone, la mastocitosi continua a mantenersi in fase stazionaria. Conclusioni. Negli ultimi anni è stato dimostrato che mutazioni del protoncogene c-kit influiscono sull’eziopatogenesi dei mastocitomi canini4. Risultati incoraggianti sono stati pubblicati sull’uso degli inibitori delle chinasi nel trattamento dei mastocitomi di II e III grado non operabili o recidivanti e non metastatici, con un accertato rallentamento della crescita tumorale.5,3 A nostra conoscenza però, non sono presenti in letteratura ne pubblicazioni ne altri casi clinici riportati di cani trattati con masitinib in corso di mastocitosi sistemica, così come rarissima è anche la patologia riscontrata. La scelta di un protocollo chemioterapico a base di un inibitore selettivo della tirosina-chinasi e prednisone, si è rivelata particolarmente adatta, permettendo una remissione temporanea della malattia. Il peggioramento dell’anemia durante il trattamento potrebbe essere ascrivibile a danno midollare o ipoplasia midollare conseguente all’infiltrazione mastocitaria. Alcuni autori riportano un’incidenza di anemia emolitica del 2,5% in cani in terapia con masitinib5; nel nostro caso però, l’anemia non era emolitica. L’incremento della fosfatasi alcalina invece, a nostro avviso è riconducibile al trattamento con corticosteroidi a lungo termine. La stadiazione effettuata non ha permesso di accertare l’origine della MS. Il dubbio che la patologia possa essere sorta primariamente a livello midollare piuttosto che splenico od epatico, lascia adito a nuovi approfondimenti ed analisi. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Thamm DH and Vail DM. Mast Cell Tumors. In: Withrow S, MacEwen E. Small Animal Clinical Oncology, 4thed.; 2007:402-424. G Couto: Principali neoplasie del cane e del gatto. In:RW Nelson e CG Couto Medicina interna del cane e del gatto 2nd ed.;2002:1081-1084. Albanese F e Marconato L. Tumori rotondocellulari. In:Oncologia medica dei piccoli animali;2005:208-221. Marconato L., Bettini G et al: Clinicopathological features and Outcomes for Dogs with Mas Cell Tumors and Bone Marrow Involvement. JVIM 2008;22:1001-1007. KA Hahn, G Ogilvie Et al:Masitinib is Safe and Effective for the Treatment of Canine Mast Cell Tumors. JVIM 2008;1-9. Davies AP, Hyden DW, Klausner JS et al: Noncutaneous systemic mastocytosis and mast cell leukemia in a dog: case report and literature review, JAAHA 17:361-368, 1981. O’Keefe DA, Couto CG, Burke-Schwartz C, et al. Systemic mastocytoris in 16 dogs. JVIM 1987;1:75-80.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Maurizio Annoni - Clinica Veterinaria Tibaldi, Viale Tibaldi 66, 20136 Milano (MI), Italia Tel. 0258106826 - Cell. 3385629659 - E-mail: annoni.maurizio@gmail.com

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INVESTIGATION OF THE EFFECT OF ANESTHETIC,EUGENOL AND ETHER ON RAINBOW TROUT BLOOD GLUCOSE RATE IN RE-CIRCULATORY SYSTEM M. Behrooz, Student of veterinary medicine1, J. Mortezavi, PHD,Department of Aquatic Disease2, M. Rafie Saran, Student of Veterinary Medicine3 1 Student of veterinary medicine, Islamic Azad University, Tabriz Branch-Iran. Member of scientific association of veterinary group., Tabreez, Iran 2 Department of Aquatic Disease, Faculty of Veterinary Medicine, University of Islamic Azad, Tabriz Branch-Iran, Tabreez, Iran 3 Student of Veterinary Medicine, University of Islamic Azad, Tabriz, Iran. Member of young research Club, Tabreez, Iran Topic: Anaesthesia Introduction. Comparison of effect of super intensive breeding of fish in re-circulatory system against othersystems. Description of the case. This investigation was carried out to determine the effect of Anesthetic on 12 Rainbow Trout whilst under the influence of Eugenol and Ether and after recovery. Twelve Rainbow Trout with average weight of 250 +/- 10 gram were divided in to 4 groups. Group one was used as a controlled group and group 2 - 4 were used for testing purposed. Rainbow Trout in Group 2 - 4 were administered with 50mg lit-1, 150mg lit-1 and 250 mg lit-1 of Eugenol and then with 0.1ml lit-1, 0.3 ml lit1 and 0.6 ml lit-1 of Ether respectively. Two blood samples were taken from the group above group; one whilst under the influence of Anesthetic and the other after recovery and one blood sample was also taken from the controlled group.After separating Serum, glucose rate were measured/determine for each sample using Spectrophotometer, the result of which is shown in the below. Conclusions. Average Glucose rate was also measured for the control group to be 16.6 mg dl-1.The above statistical analysis was carried out using T-Test Analysis. In the studies, Graane et al (1963) and Schweizer et al (1967) observed that Ether has minimal effects on the blood glucose levels1,3. Holloway et al (2009) observed that fish significantly increased plasma cortisol and glucose levels after use of clove Oil and MS-222 (0/05>p)2. The Analysis of the above result shows that there is not much difference between the two sets of results using Eugenol and Ether.This also shows that the changes in Glucose rate were not significant in the Re-circulatory system. Bibliography 1. 2. 3. 4.

Greene NM.(1964) Inhalation anesthetics and carbohydrate metabolism.Postgrad Med J 40, 223. Holloway AC, Keene JL, Noakes DG et al.(2004) Effects of oil and ms-222 on blood hormone profiles in rainbow trout oncorhynchus mykiss, walbaum. Aqua Res J 35,1025-1030. Schweizer O, Howland WS, Sullivan C et al.(1967) The effect of ether and halothane on blood levels of glucose, pyruvate, lactate and metabolites of the tricarboxylic acid cycle in normotensive patients during operation. Anes J 28,814-822. Wagner GN, Singer TD, Mckinley RS.(2003) The ability of clove oil and ms-222 to minimize handling stress in rainbow trout(oncorhynchus mykiss walbaum). Aqua Res J 34,1139-1146.

Corresponding Address: Dr. Moein Behrooz, 57Th Edalat-Anahid Apartment, Gorgan/Golestan/4917846579, Iran Phone 01715530890 - Mobile 09380383500 - E-mail: moein_vet@yahoo.com

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LA PROSTATA NEL FURETTO: STUDIO ANATOMICO COMPARATIVO FRA SOGGETTI INTERI E STERILIZZATI P. Bo, dvm, spcaa1, D. Zambelli, dvm, ecar, prof ass2, N. De Sordi, Tecnico lab3, A. Grandis, dvm, ricercatrice3 1 Libero professionista, Bologna, Italia 2 Dipartimento Clinico Veterinario, Facoltà di Medicina Veterinaria, Bologna, Italia 3 Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria e Produzioni Animali, Facoltà di Medicina Veterinaria, Bologna, Italia Area di interesse: Animali esotici Scopo del lavoro. Nei Mustelidi, una delle patologie più frequenti è l’iperadrenocorticismo, o malattia surrenalica, la quale interessa in percentuale uguale sia i maschi sia le femmine. In particolare, nel maschio, poiché questa patologia determina un aumento di ormoni sessuali1, si può riscontrare in concomitanza una ipertrofia prostatica anche nei soggetti sterilizzati di oltre 2 anni di età2. La scarsità di dati riguardanti l’anatomia di questo animale e la presenza di informazioni errate riportanti addirittura l’assenza della prostata in questa specie, ha portato a sottostimare fino ai tempi più recenti le patologie prostatiche. Questo lavoro si propone quindi di svolgere uno studio anatomico macro- e microscopico della prostata in furetti interi e sterilizzati per rilevarne le loro eventuali differenze. Materiali e metodi. Per lo studio anatomico macroscopico sono stati impiegati un furetto maschio intero e quattro castrati, deceduti per patologie non riguardanti l’apparato urogenitale. Per evidenziare la topografia della prostata, su questi soggetti è stata effettuata una dissezione in decubito laterale destro con asportazione della parete laterale sinistra e dell’arto omolaterale. Tutte le osservazioni venivano documentate mediante fotocamera digitale e le immagini ottenute sono state elaborate al computer. Inoltre, sul soggetto intero e su due furetti sterilizzati, la prostata è stata immediatamente asportata e fissata in liquido di Bouin, disidratata, chiarificata, inclusa in paraffina e quindi tagliata in sezioni seriali di 10 micrometri. I vetrini così ottenuti sono stati colorati con tricromica di Masson e successivamente osservati al microscopio ottico. Risultati. L’indagine macroscopica ha consentito di evidenziare che la prostata è situata a partire dalla terminazione del collo della vescica e si estende per circa 15 mm caudalmente ad esso. Nel soggetto intero assume forma globosa, raggiungendo nel punto di massima ampiezza gli 8 mm di spessore ed i 6 mm di larghezza; nel soggetto sterilizzato presenta, invece, forma più affusolata con spessore e larghezza massimi di circa 5 mm. L’osservazione al microscopio ottico del soggetto intero ha consentito di dimostrare che la prostata compare cranialmente, in corrispondenza della superficie dorsale del collo della vescica, per espandersi poi lateralmente alla parte terminale e completarsi infine ventralmente ad essa, andando così a costituire un anello completo. Nel punto di suo massimo sviluppo risulta attraversata, nella sua parte dorsale, dalla terminazione nell’uretra dei due dotti deferenti. Più caudalmente, la ghiandola si riduce ed appare divisa in due porzioni, dorsale e ventrale, ad opera di tessuto connettivo e fasci muscolari che si dispongono lateralmente all’uretra. Si riduce poi progressivamente in senso dorso-ventrale, cosicché l’ultima porzione del parenchima si trova localizzata esclusivamente ventralmente all’uretra. Nel soggetto sterilizzato, la posizione della ghiandola, rispetto all’uretra, appare analoga a quella del soggetto intero, tuttavia il tessuto ghiandolare risulta considerevolmente ridotto anche nel punto di sua massima estensione. Conclusioni. La prostata nel soggetto intero, così come descritto da Jacob e Poddar3, risulta essere una ghiandola tubuloalveolare composta, circondata da uno stroma fibromuscolare da cui originano trabecole di diverse dimensioni che, a differenza del cane, suddividono il parenchima ghiandolare in lobuli irregolari. Non si nota, inoltre, una parte disseminata. Nel soggetto sterilizzato il tessuto ghiandolare è rappresentato da alcuni adenomeri tubuloalveolari disseminati nell’abbondante stroma fibromuscolare La maggior parte degli adenomeri mostra segni di regressione: epitelio più basso rispetto a quello del soggetto intero, lume ridotto e scarso contenuto di secreto. In conclusione, è ipotizzabile, quindi, che la limitata riduzione nel volume dalla ghiandola, osservata macroscopicamente, sia dovuta al fatto che, il tessuto ghiandolare viene sostituito, in parte, da connettivo. Bibliografia 1. 2. 3.

Brown SA - “Prostate Disease in Ferrets” Veterinary Information Network Inc, www.sciencedirect.com Accessed March 13, (2002). Lennox AM - “How I Manage Endocrine Disorders in Ferrets” in: NAVC Proceedings 2007, Internet Publisher: International Veterinary Information Service, Ithaca NY (www.ivis.org) (2007). Jacob S e Poddar S - “Morphology and histochemistry of the ferret prostate. Acta Anat 125 4: 268-273 (1986)

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Pierfrancesco Bo - Studio Veterinario Associato Dr. Bo - Dr. Genocchi, Via Della Libertà 5, 40059 Medicina (BO), Italia Tel. 051/857362 - E-mail: fraecol@libero.it

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MALASSEZIA IN CITOLOGIA AURICOLARE: PATOGENO O COMMENSALE? E. Chiavassa, DVM1, A. Vercelli, DVM1, M. Beccati, DVM, PhD2, M. Pasquetti, DVM3 M. G. Gallo, Biologo3, A. Peano, DVM, PhD3 1 Libero professionista, Torino, Italia 2 Libero professionista, Capriate S. Gervasio (Bg), Italia 3 Dip. Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia, Facoltà di Medicina Veterinaria, Torino, Italia Area di interesse: Dermatologia Scopo del lavoro. Malassezia pachydermatis è un lievito lipofilo potenziale causa secondaria/aggravante l’otite esterna nel cane, ma che può essere ritrovato anche in orecchie di animali sani. Per questo aspetto e la multifattorialità della patologia auricolare, spesso la valutazione della correlazione tra la popolazione di questo lievito e il segno clinico osservato risulta difficile. L’esame correntemente utilizzato è quello citologico, in cui si va a ricercare e conteggiare il numero di lieviti presenti per una valutazione semiquantitativa. Scopo del lavoro è stato quello di valutare il ruolo di Malassezia nell’otite esterna del cane contribuendo a validare i limiti semiquantitativi riconosciuti per attribuire un ruolo patogeno al lievito ritrovato in citologia auricolare. Materiali e metodi. Sono state valutate singolarmente orecchie (n= 136) di animali sani e orecchie (n= 150) di animali portati a visita per segni di otite. La gravità del processo patologico veniva valutata attribuendo un punteggio ad alcuni segni clinici/otoscopici (prurito, dolore, odore “cattivo”, eritema, cerume ecc.). Venivano effettuati tamponi auricolari poi rotolati su vetrini da microscopia. Questi venivano fissati alla fiamma e colorati con Hemacolor®. Si procedeva ad osservazione a 40 X per valutare il numero medio di lieviti (Malassezia) in 5 campi diversi. Veniva effettuata anche una valutazione della presenza di batteri patogeni tramite citologia e successiva coltura. Si è proceduto a valutare la presenza di Malassezia nelle due popolazioni studiate utilizzando due cut-off (5 e 10) proposti in letteratura per definire il limite di “normalità” del numero di lieviti auricolare. Per gli animali con otite è stata poi valutata la correlazione tra gravità della sovracrescita di Malassezia e i corrispondenti scores di gravità clinica. Risultati. Poche orecchie sane presentavano valori di Malassezia superiori ai limiti utilizzati: sei orecchie > 5 e tre > 10. Questi risultati conferivano alla valutazione citologica di Malassezia secondo i cut-off indicati un valore di specificità rispettivamente del 95,6 e 97,8%. Dato che Malassezia è considerata una causa secondaria di otite e che questa può dunque verificarsi (almeno inizialmente) senza una compartecipazione del lievito (o di altri agenti patogeni, come i batteri) è stato più difficile valutare quale limite presentasse anche la migliore sensibilità. Per questo calcolo abbiamo quindi valutato i cut-off in base alla risposta alla terapia specifica antimicotica in orecchie con otite e sola presenza di Malassezia (n= 52, le altre sono state escluse o perché non contenevano Malassezia o perché avevano altri agenti patogeni, considerati come fattori di confondimento dell’analisi). È stato valutato come, utilizzando il limite di 5, ci fosse una differenza statisticamente significativa nel numero di orecchie che contemporaneamente guariva clinicamente e vedeva scendere sotto il cut-off Malassezia, rispetto ad orecchie che mantenevano sia i sintomi clinici sia il lievito (Test Chi-quadro 4,79; p = 0,028). Tale significatività non era presente se il cut-off veniva spostato a 10 (Test Chi-quadro 2,60; p = 0,11). Per ciò che concerne la correlazione tra gravità della sovracrescita del lievito e gravità dei segni clinici, il test di Pearson non restituiva un esito statisticamente significativo (p = 0,17). Conclusioni. Tra i cut off studiati il migliore sembra essere quello di 5 lieviti per campo a 40X. È, infatti, un limite che permette di mantenere un’elevata specificità e sensibilità. Per la valutazione di quest’ultima si è ricorsi alla valutazione della correlazione guarigione Malassezia/ guarigione clinica. In pratica, in termini più semplici, se il cut-off passava da 5 a 10, non venivano più considerate con sovracrescita alcune (n= 6) orecchie che pure guarivano in modo correlato alla scomparsa del lievito. Questo dimostrava che anche un basso numero di lieviti (tra 5 e 10) poteva essere correlato con la patologia auricolare presente. Il possibile ruolo patogeno anche a basse cariche e la mancata correlazione tra gravità dei segni clinici e grado di sovracrescita di Malassezia stanno ad indicare che nella patogenesi di questa infezione il dato semiquantitativo è solo uno degli aspetti, e che, similmente a quanto ipotizzato in letteratura, ci può essere una ipersensibilità al lievito stesso che esita in sintomi clinici anche gravi. Per questo motivo anche il limite di 5 elementi per campo, che pure rappresenta una buona indicazione per il giudizio del clinico, dovrebbe sempre essere preso come dato indicativo ed associato a elementi clinici, anamnestici, di razza ecc. Sarebbe auspicabile in futuro provare ad applicare metodiche diagnostiche alternative a tecniche quantitative, come skintest, valutazione di IgE, di citochine infiammatorie ecc. Bibliografia Ginel PJ, Lucena R, Rodriguez JC, Ortega J. A semiquantitative cytological evaluation of normal and pathological samples from the external ear canal of dogs and cats. Veterinary Dermatology, 13, 151-156, 2002. Rosychuk RAW. Management of otitis externa. Veterinary Clinics of North America ; 24: 921–52, 1994. Rausch FE, Skinner GW. Incidence and treatment of budding yeast in canine otitis externa. Modern Veterinary Practice 59: 914-15, 1978. Scott DW, Miller WH, Griffin CE. Small Animal Dermatology, 6th edn. Philadelphia, WB Saunders Co, 2000.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Andrea Peano - Facoltà Medicina Veterinaria, Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO), Italia - E-mail: andrea.peano@unito.it

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TRANS EPIDERMAL WATER LOSS (TEWL) IN ATOPIC AND HEALTHY DOGS: A COMPARATIVE STUDY L. Cornegliani, dr. dip ECVD1, A. Vercelli, dr. dip CES Derm2, E. Sala, dr. PhD3 1 Ambulatorio veterinario associato, Torino, Italia 2 Ambulatorio veterinario associato, Torino, Italia 3 Università degli Studi di Milano, Milano, Italia Topic: Dermatology Purpose of the work. Trans epidermal water loss (TEWL) is defined as the volume of water that passes from inside to outside of the body through the epidermal layer. In people it has been used to evaluate skin barrier function in dermatological diseases. Higher is the TEWL, lower is the skin barrier function. Measurement of skin hydration is considered useful to monitorize human skin diseases, especially in eczema and allergic diseases. In canine atopic dermatitis TEWL is considered important factor of impaired barrier functions. For these reasons, the aim of this study was to compare TEWL in atopic and healthy dogs. Materials and used methods. 50 Atopic and 50 healthy dogs were included in the study. Diagnosis of atopic dermatitis was previously performed according to Willemse criteria and by exclusion of all other pruritic skin diseases. 50 atopic dogs (group A) were selected in absence of specific treatment for allergic disease; 50 healthy dogs (group B) were animal coming to our clinic for annual vaccination. Patients younger than 1 year or older than 10 years were excluded. The clinical study was done in wintertime from December 2009 to February 2010. TEWL measurements were performed on the left ear, without clipping, with a Vapometer® SWL-3 (Delfin Technologies Ltd) and they were carried out by a single operator in nonclimate-controlled room. Room condition was stable at 22-23°C ambient temperature and 45% ambient relative humidity. All the animals were acclimated at least 60 minutes. Calculations were executed with SPSS (vs 17). As the distribution of TEWL was not Normal, we used Mann-Whitney test to compare two groups and a P-value < 0.05 was considered to be significant. Kruskal -Wallis test was applied to compare dogs’ gender, breed. Outcomes. The P-value resulted 0,0000<0,05 for TEWL groups (A and B), while for gender and breed was >0,05. The means of two TEWL groups resulted: 22,47 (group A, 95% confidence interval for mean was 20,85-24,09), 8,81 (group B, 95% confidence interval for mean was 8,09-9,52). Conclusions. In humans with atopic dermatitis, TELW, as a marker of barrier function, was already four-folds increased in lesional skin, compared to normal skin. In our study we obtained similar results between groups A and B. It has been reported that TEWL varies during the day and the body side of measurements. On the other hand ears are been previously identified as the best side of the body to take data, because of low variability of measurements. Further studies are required to evaluate the importance of TEWL measurements in dogs with allergic skin diseases. The P-values <0,05 and the great difference between the two groups suggest skin hydration should be controlled in dogs with skin diseases. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5.

Oh WS, Oh TH: Measurement of trans epidermal water loss from clipped and unclipped anatomical sites on the dog. Australian Veterinary Journal, 87 (10): 409-412, 2009. Shimada K, Yoshihara T, Yamamoto M, Konno K, Momoi Y,Nishifuji K, Iwasaki T: Transepidermal water loss (TEWL) reflects skin barrier function of dog. Journal of Veterinary Medical Science 70 (8): 841-843, 2008. Proksch E, Folster-Holst R, Jensen JM: Skin barrier function, epidermal proliferation and differentiation in eczema. Journal of Dermatological Science, 43: 159-169, 2006. Yoshihara T, Shimada K, Momoi Y, Konno K, Iwasaki T: A new method of measuring the trans epidermal water loss (TEWL) in dos skin. Journal of Veterinary Medical Science 69 (3): 289-292, 2007. Lau-Gillard PJ, Hill PB, Chesney CG, Budleigh C, Immonen A: Evaluation of a hand-held evaporimeter (VapoMeter®) for the measurement of trans epidermal water loss in healthy dogs. Veterinary Dermatology 3. (on line in advance of print), 2009.

Corresponding Address: Dott.ssa Luisa Cornegliani, C.so Traiano 99/d, 10135 Torino (To), Italia - Cell. 338/8536035 - E-mail: lcornegliani@libero.it

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UN CASO DI LIPOBLASTOMA IN UN CANE R. Finotello, DVM, MRCVS1, V. Marchetti, DVM, PhD, SPCAA1, G. Baroni, DSc2, F. Dini, DVM1, S. Citi, DVM, SRV1, A. Poli, DVM, DECVP3, S. Dilollo, MD2 1 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa, Pisa, Italia 2 Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica Sezione di Anatomia Patologica, Università degli Studi di Firenze, Italia 3 Dipartimento di Patologia Animale, Profilassi e Igiene degli Alimenti, Università di Pisa, Pisa, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Il lipoblastoma è un tumore raro, benigno che origina da tessuto adiposo uniloculare embrionale, descritto in medicina umana quasi esclusivamente in neonati e bambini. L’80-90% dei casi si manifesta prima dei 3 anni di età. Presenta un’eccellente prognosi data la tendenza a non metastatizzare o invadere strutture adiacenti, mostrando però alta frazione di accrescimento e raggiungendo grandi dimensioni. Il trattamento d’elezione è una chirurgia completa ma conservativa con basso tasso di recidiva locale1. Tale patologia può presentare difficoltà diagnostiche per similitudini con liposarcoma mixoide. In medicina veterinaria esiste ad oggi una sola segnalazione in un vitello2. Descrizione del caso. Un cane meticcio di 10 anni, femmina intera, 16 kg di peso corporeo, body condition score 7/9, era riferito per distensione addominale presente da 3 mesi e ingravescente, abbattimento, anoressia, e vomito ricorrente. All’esame fisico si rilevavano polipnea, mucose anemiche e una massa addominale, dai limiti indefinibili, che ne modificava il profilo. Esame emocromocitometrico e profilo biochimico completo evidenziavano leucocitosi con leucogramma da stress, severa anemia normocitica e normocromica, iposideremia, moderata ipoglicemia e severo aumento della fosfatasi alcalina. Profilo coagulativo ed esame delle urine non mostravano alterazione alcuna. All’esame ultrasonografico dell’addome si osservava una lesione a complex mass occupante quasi interamente la cavità addominale. Si osservava idronefrosi del rene destro con dilatazione dell’uretere ipsilaterale per compressione. Il preparato citologico da biopsia eco-guidata appariva paucicellulare, con numerosi nuclei nudi, vacuoli lipidici, alcune cellule fusate talvolta multinucleate contenenti vacuoli rotondi, con moderata anisocariosi e nucleoli prominenti. Si formulava sospetto di liposarcoma. Lo studio radiografico del torace nelle 3 proiezioni standard non evidenziava anomalie. In sede laparotomica veniva asportata una massa cerebroide, di 5 kg, originante dal legamento sospensore dell’ovaio. Per aderenza tra massa e rene destro, veniva eseguita nefrectomia. Nel periodo post-operatorio le condizioni del soggetto miglioravano rapidamente e i valori emato-biochimici rientravano nei limiti di normalità. All’esame istopatologico si evidenziava proliferazione cellulare costituita prevalentemente da adipociti maturi con pleomorfismo dimensionale senza evidente atipia nucleare. A forte ingrandimento erano riconoscibili alcuni lipoblasti. La neoplasia era immersa nel contesto di sottile stroma reticolinico e mixoide, e saltuariamente sepimentata da tralci di collageno denso. Si emetteva diagnosi differenziale (DD) di liposarcoma mixoide e lipoblastoma. Poiché in termini prognostici le diagnosi possibili erano significativamente diverse, veniva eseguito un approfondimento istochimico (IC) ed immunoistochimico (IHC). Sezioni rappresentative della lesione erano sottoposte ad IC ed IHC in parallelo con sezioni di lipoma maturo e liposarcoma mixoide. Per IC si utilizzava colorazione Masson Tricromica, Van Gieson ed Alcian Blu pH 2,5. Con Masson Tricromica, e Van Gieson era confermata la presenza di tralci di collagene, con Alcian Blu si rilevavano depositi di mucopolisaccaridi acidi (AMPS) nello stroma mixoide. Lipoma maturo e liposarcoma mixoide presentavano: assenza di collagene e AMPS il primo, assenza di collagene ed abbondante e diffusa presenza di AMPS il secondo. Per l’indagine IHC veniva utilizzato un pannello comprendente l’anticorpo anti-CD31 (clone 1A10), anti-Ki67 e anti-EPO-r. Nel caso in esame, la proliferazione neoplastica era sostenuta da un ricco pattern vascolare di tipo plessiforme (anti-CD31) e indice di proliferazione (anti Ki-67) inferiore al 5% (1-2/10 HPF). Nello stroma mixoide si evidenziavano piccoli focolai di ematopoiesi extramidollare (anti-EPO-r.). Il lipoma maturo presentava piccoli capillari ematici, assenza di emopoiesi e di documentabile indice di proliferazione, mentre il liposarcoma mixoide mostrava una ricca vascolarizzazione, assenza di emopoiesi ed indice di proliferazione elevato. Le indagini IC e IHC in associazione ai dati morfologici permettevano di emettere diagnosi conclusiva di lipoblastoma. A 6 mesi dalla chirurgia il soggetto si presentava in buone condizioni generali e senza evidenza di recidiva o malattia a distanza. Conclusioni. Questo lavoro rappresenta la prima segnalazione di lipoblastoma nel cane, neoplasia benigna descritta in pazienti umani fino ai 3 anni di età. La DD di questa neoplasia è il liposarcoma mixoide, dal quale viene differenziata mediante IC e IHC. Nel nostro caso, trattandosi di paziente anziano e senza precedenti segnalazioni in letteratura, è risultato particolarmente importante l’ausilio di tecniche diagnostiche avanzate per discriminare tra 2 neoplasie con outcome sensibilmente diverso. L’importante risentimento sistemico del soggetto può essere imputato ad una diagnosi tardiva, e può riflettere un processo cronico sia per l’iposideremia che per il profilo ematologico. Ulteriori approfondimenti sarebbero opportuni per chiarire il meccanismo patogenetico responsabile dell’ipoglicemia. Bibliografia 1. 2.

Saifzadeh S et al. (2007) Congenital lipoblastoma in a neonate calf: first report in veterinary literature. Vet Dermatol, 18(2):130-3. Kok KY et al. (2010) Lipoblastoma: Clinical Features, Treatment, and Outcome. World J Surg, in press.

Indirizzo per corrispondenza: Riccardo Finotello, DVM, MRCVS - Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa, Via Livornese lato monte 56122 San Piero a Grado (Pisa) (PI), Italia - Tel. 050/2210119 - Cell. 333/9090654 - E-mail: finotello@vet.unipi.it

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DERMATOSI ATIPICA NEL CONIGLIO DA COMPAGNIA (ORYCTOLAGUS CUNICULI) S. Silvetti, DVM1, C. Gelmini, DVM2 Libero Professionista, Miasino (No), Italia 2 Libero Professionista, Amb. Veterinario Vallecamonica, Darfo Boario Terme (Bs), Italia 1

Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La dermatologia del coniglio è da sempre stata studiata, in Medicina Umana, come modello per la fisiologia e la patologia cutanea o per lo studio di test carcinogenetici, tossicologici, di fototossicità. Poco però si è fatto sinora, per lo studio della Clinica dermatologica vera e propria del coniglio da compagnia. Le patologie cutanee del coniglio sono convenzionalmente raggruppate in: comportamentali, metaboliche, traumatiche, parassitarie, infettive e neoplastiche. Spesso mute eccessive sono confuse con problemi dermatologici poiché nei conigli domestici si assiste a massicce perdite di pelo che lasciano scoperte più o meno ampie aeree di cute alopecica. Questi episodi non sono presenti nelle popolazioni di conigli selvatici e sembrano essere dovuti alla selezione delle razze e varietà presenti sul mercato. Descrizione del caso. Nel Novembre del 2007 si presenta alla visita semestrale per il richiamo vaccinale, una coniglia femmina sterilizzata, di circa 3 anni di età. Alla visita si riscontra rarefazione del pelo, poca forfora a carico delle orecchie, dorso naso e contorno occhi, non si segnala prurito; le lesioni risalivano all’Aprile precedente. Sono state trattate da un Collega con terapia topica a base di econazolo e per os con itraconazolo, non correttamente somministrato. Dopo la visita sono stati eseguiti una coltura micotica su DTM e raschiati cutanei, risultati negativi. Su sospetto di una iniziale infestazione atipica di Sarcoptes, si inizia una terapia a base di Ivermectina a 300 µg/kg ed applicazioni di Clorexydina al 4% giornaliere. Viene riferito un leggero miglioramento. A Febbraio 2008 si assiste ad un peggioramento delle lesioni con estensione delle aree in precedenza coinvolte. Si eseguono nuovi raschiati, scotch test e tricogrammi risultati negativi. Si decide di eseguire delle biopsie cutanee a livello della superficie esterna dei padiglioni auricolari, alla base delle orecchie e regione dorsale del tronco. Il referto riferisce di una dermatite cronica linfocitaria da perivascolare a interstiziale con atrofia follicolare e fibrosi, anche se non si riconosce un pattern ben definito. Viene consigliato di indagare sull’esposizione a sostanze irritanti ambientali, allergie, problemi interni quali timoma o linfoma renale. Si decide di cambiare luogo di detenzione del coniglio; viveva in gabbia e su cemento e viene spostato su una superficie tipo linoleum, le terapie vengono interrotte. Si rivede la paziente a Maggio 2008 per un aggravamento ed una estensione delle aree alopeciche che si estendono a tutto il dorso con presenza di eritema e prurito, nonostante gli esami collaterali negativi si decide di insistere con la terapia per Cheyletiella abbinando la terapia topica (Neoforactil®) con quella sistemica con Ivermectina al dosaggio di 500 µg/kg; si assiste solo ad un iniziale miglioramento. Passati circa 60 giorni e visto il continuo progredire delle lesioni, si ripetono le biopsie in diverse aree (padiglione auricolare, dorso del naso, scapola) e si esegue un prelievo ematico per un esame emocromocitometrico, emobiochimico ed elettroforetico del siero. Gli esami ematobiochimici sono risultati entro i parametri di riferimento, i risultati dell’esame elettroforetico sono di difficile interpretazione vista la scarsità di campioni analizzati in quel Laboratorio. Il referto bioptico parla di stadi evolutivi diversi, la localizzazione dell’infiltrato non è sempre la stessa e complica quindi l’interpretazione. Sembra che l’infiltrato abbia come sede preferenziale la regione media del follicolo, sede delle ghiandole sebacee dove è situata la zona istmica. La diagnosi potrebbe pertanto essere compatibile con follicolite linfocitaria dell’istmo (pseudopelade) e conseguente coinvolgimento secondario delle ghiandole o con una adenite sebacea a diversi stadi evolutivi, non si esclude inoltre possa trattarsi di una dermatite linfocitaria a causa sconosciuta suggerendo indagini collaterali che peraltro erano già state suggerite nella diagnosi precedente. Conclusioni. Questo caso vuole porre l’attenzione su un’area della medicina del coniglio domestico che spesso viene un po’ sottovalutata, credendo che i disturbi dermatologici siano sempre riconducibili ad eziologie che, anche se piuttosto frequenti, non rappresentano la totalità. Il caso conduceva ad un vasto diagnostico differenziale: dermatite micotica, dermatite parassitaria, muta anomala, adenite sebacea, sindrome paraneoplastica. L’esito delle biopsie ha evidenziato una importante flogosi linfocitaria come causa dell’alopecia. I referti però, non sono riusciti a classificare con chiarezza questa sindrome dermatologica che potrebbe non avere precedenti in letteratura. Sfortunatamente non è stato possibile seguire il caso con successivi approfondimenti o terapie (ciclosporina, cortisonici) a causa del decesso del paziente per cause traumatiche. Ringraziamenti. Si ringrazia il prof. Paola Roccabianca, il prof. Francesca Abramo, il prof. Francesco Albanese ed il Laboratorio S. Marco. Bibliografia F. Harcourt-Brown, Textbook of Rabbit Medicine, Elsevier Science, 2002. J. W. Carpenter, Exotic Animal Formulary, III Ed Elsevier Inc., 2005. J. R. Jenkins, The Veterinary Clinics of North America, Dermatology, May 2001, pp 543-565.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Sergio Silvetti, Via Per Armeno, 1, 28010 Miasino (NO), Italia Tel. 0322/980907 - Cell. 340/1441276 - E-mail: sergio.silvetti@gmail.com

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UN CASO DI DIROFILARIOSI NODULARE CUTANEA IN UN CANE IN AREA NON ENDEMICA G. Ghibaudo, Dott. Med. Vet.1, A. Vercelli, Dott. Med. Vet., Dipl. CES2, D. Falcioni, Dott. Med. Vet.3, L. Cornegliani, Dott. Med. Vet., Dipl. ECVD4 1 Libero Professionista, Fano, Italia 2 Ambulatorio Veterinario Associato, C.so Traiano 99/d, 10135, Torino, Italia 3 Ambulatorio Veterinario Dr. Gaudenzi, Via del Carso, 18, 61100, Pesaro, Italia 4 Ambulatorio Veterinario Associato, C.so Traiano 99/d, 10135, Torino, Italia Area di interesse: Dermatologia Introduzione. La dirofilariosi cutanea causata da Dirofilaria spp è occasionalmente riportata nel cane, e recentemente lo è stata in Italia centrale (Lazio, Toscana e Umbria). Nel cane, il ciclo parassitario è caratterizzato dal parassita adulto che vive nei noduli cutanei, mentre le microfilarie si trovano generalmente nel sangue periferico. Le zanzare del genere Aedes e Culex sono i principali vettori della parassitosi. Nei cani sono state riportare eruzioni pruriginose papulo-pustolari e dermatite ulcerative associate con microfilaremia cutanea. Le microfilarie si trovano sia nel sangue periferico sia nelle lesioni piogranulomatose dermiche. Gli adulti di Dirofilaria repens possono localizzarsi in modo ectopico a livello sottocutaneo e indurre lesioni nodulari. Lo scopo di questa comunicazione libera è riportare un caso di dirofilariosi nodulare cutanea in un’area non endemica dell’Italia centrale (Pesaro, Marche) in un cane. Descrizione del caso. Un cane di razza American Staffordshire Terrier, 8 anni di età, sesso femminile, è stato riferito alla visita clinica dermatologica. Il proprietario riportava la presenza di un nodulo sottocutaneo nell’area fronto-temporale della testa da circa 2 mesi. Il cane, all’esame obiettivo generale, appariva in buone condizioni cliniche. All’esame obiettivo particolare dermatologico, si evidenziava un nodulo, non dolente, ben circoscritto e di consistenza sodo-elastica delle dimensioni di 3,5 cm in diametro. Si eseguiva come primo esame complementare l’esame citologico per ago infissione. La citologia, allestita con colorazione Romanowsky modificata, evidenziava una popolazione cellulare di granulociti neutrofili e macrofagi, con alcune plasmacellule ed istiociti; in alcuni campi si evidenziavano microfilarie. Il sospetto diagnostico era di lesione nodulare sottocutanea da Dirofilaria spp. e si effettuava il test di Knott che però era negativo. Anche il test sierologico ELISA per Dirofilaria immitis (SNAP® filaria - IDEXX) era negativo. L’esame emocromocitometrico, le radiografie toraciche e l’ecocardiografia erano nei valori di riferimento. Si procedeva all’esame istopatologico della neoformazione, tramite escissione chirurgica completa della parte. Il campione, sezionato, era fissato in formalina al 10% ed inviato al laboratorio di referenza per essere allestito in ematosillina eosina. L’esame istopatologico evidenziava sezioni di un nematode adulto, compatibile con Dirofilaria spp, all’interno di una lesione piogranulomatosa; l’infiltrato dermico era principalmente caratterizzato da macrofagi, granulociti eosinofili e neutrofili, con alcuni linfociti e plasmacellule. Le colorazioni speciali, allestite con Ziehl-Neelsen e PAS non evidenziavano altri agenti patogeni. La diagnosi era di filariosi nodulare cutanea. Il cane riceveva cefalessina (ICFvet cpr, ICF) a 25 mg/kg/die per due settimane associato ad ivermectina 10 microgrammi/kg (Cardotek-30 PLUS, Merial) orale e selamectina 6 mg/kg (Strongold, Pfizer) spot on. La somministrazione degli antiparassitari veniva ripetuta mensilmente durante tutta la stagione estiva, e si indicava al proprietario di applicare la selamectina mensilmente tutto l’anno. Il cane è stato seguito per oltre un anno, dopo l’escissione chirurgica nel nodulo, e non si sono verificate recidive o nuove lesioni dermatologiche. Conclusioni. La filariosi cutanea nel cane è raramente riportata nelle Marche, anche se negli ultimi anni le segnalazioni in merito sono in aumento. Le variazioni climatiche ed i viaggi degli animali al seguito dei proprietari, rendono necessaria una maggiore sorveglianza clinica ed un trattamento farmacologico preventivo per tutti i cani in considerazione anche del rischio zoonosico di tale malattia. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Pampiglione S, Rivasi F, Angeli G, Boldorini R, Incensati RM, Pastormerlo M, Pavesi M, Ramponi A: Dirofilariasis due to Dirofilaria repens in Italy, an emergent zoonosis: report of 60 new cases. Histopathology. 38(4):344-54, 2001. Scaramozzino P, Gabrielli S, Di Paolo M, Sala M, Scholl F, Cancrini G. Dog filariosis in the Lazio region (Central Italy): first report on the presence of Dirofilaria repens. BMC Infect Dis., 26;5:75, 2005. Mortarino M, Musella V, Costa V, Genchi C, Cringoli G, Rinaldi L.: GIS modeling for canine dirofilariosis risk assessment in central Italy. Geospat Health. 2(2):253-61, 2008. Fioretti DP, Diaferia M, Grelloni V, Maresca C. Canine filariosis in Umbria: an update of the occurrence one year after the first observation of autochthonous foci. Parassitologia. 45(2):79-83, 2003. Tarello W. Dermatitis associated with Dirofilaria (Nochtiella) repens microfilariae in dogs from central Italy Acta Vet Hung. 50(1):63-78, 2002. Rossi L, Ferroglio E, Agostini A. Use of moxidectin tablets in the control of canine subcutaneous dirofilariosis. Vet Rec. 150(12):383, 2002. Cringoli G, Rinaldi L, Veneziano V, Capelli G. A prevalence survey and risk analysis of filariosis in dogs from the Mt. Vesuvius area of southern Italy. Vet Parasitol. 13;102(3):243-52, 2001.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Giovanni Ghibaudo, Via A. De Gabrielli, 19, 61032 Fano (PU), Italia - Tel. 0721-805792 - Cell. 340/1577480 - E-mail: gioghi1@alice.it

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RISULTATI DELL’INDAGINE SULL’OBESITÀ DI CANI E GATTI IN ITALIA G. Febbraio, Med Vet, Phd1; M.C., Crosta, Med Vet2; S. Giussani, Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF3; G. L. Manara, Med Vet4; P.P. Mussa, Med Vet5; M. Petazzoni Med Vet6 1 Centro Veterinario Einaudi, Bari 2 Clinica Veterinaria Gran Sasso, Milano 3 Busto Arsizio (VA) 4 Trento 5 Dipartimento di Produzioni animali, epidemiologia ed ecologia, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Torino 6 Clinica Veterinaria Milano Sud, Peschiera Borromeo, Milano, Italia Area di interesse: Medicina interna Scopo del lavoro. L’obesità è definita un incremento del peso corporeo ad un livello superiore al normale per una determinata taglia e corporatura dell’animale: un valore pari o superiore al 15% rispetto al normale è generalmente considerato indice di sovrappeso mentre si parla di obesità quando il dato supera il 20%. In base ad uno studio condotto su cani e gatti da Hill’s, emerge che in Europa il tasso di sovrappeso ed obesità fisiologica è compreso tra 25 e 45%. Nel 2008 la Pet Obesità Task Force di Hill’s Pet Nutrition ha condotto un’indagine relativa alla situazione italiana grazie alla collaborazione di 144 Medici Veterinari equamente ripartiti sul territorio. Materiali e metodi. È stato esaminato un campione di 5521 animali, il 70% composto da cani ed il 30% da gatti, condotti nelle strutture mediche in seguito ad una visita di routine. Il campione osservato è stato giudicato esente da patologie organiche alla base di obesità patologica. La condizione corporea di ogni paziente è stata valutata attraverso il sistema Body Condition Score. Inoltre, il Medico Veterinario ha raccolto numerose informazioni compilando un questionario preformato: segnalamento (con particolare riferimento alla taglia), attività gonadica (castrazione/ sterilizzazione), stile di vita (appartamento, giardino, box), alimentazione (casalinga, industriale, mista). Risultati. La specie felina mostra una maggiore propensione all’eccesso di peso rispetto alla specie canina. In particolare è sovrappeso/ obeso il 46% dei gatti visitati contro il 36% dei cani. Il 57% dei cani possiede un peso ideale e il 10% è sottopeso. Le problematiche di sovrappeso ed obesità sono correlate alla taglia dell’animale: il 40% dei cani sovrappeso/ obesi sono di taglia media e il 33% di taglia grande. A seguire, circa il 30% sono di taglia piccola, il 26% di taglia gigante e il 23% toy. La castrazione e sterilizzazione sono fattori strettamente correlati al sovrappeso e obesità dell’animale. Il 79% dei gatti sono operati e, di questi, il 53% risulta essere sovrappeso/ obeso. Solo il 29% dei cani, invece, è stato sottoposto all’intervento ma, anche di questi, il 54% mostra evidenti segni di sovrappeso/ obesità. Altro fattore di rischio per sovrappeso e obesità è lo stile di vita “domestico”: il 50% dei gatti sovrappeso vive in appartamento e il 36% in giardino. Il 39% dei cani sovrappeso vive in appartamento, contro un 33% in giardino. Il tipo di alimentazione è determinante nella prevenzione dell’obesità. L’alimentazione industriale somministrata nelle giuste dosi, aiuta a prevenire sovrappeso e obesità. Nei cani, solo il 30% dei soggetti nutriti con alimentazione industriale ha problemi di sovrappeso ed obesità (contro un 64% che mantiene un peso ideale). La percentuale di sovrappeso/ obesità sale al 40% nei soggetti nutriti con alimentazione casalinga e al 47% nei soggetti trattati con alimentazione mista. Nella specie felina, i soggetti nutriti con alimentazione industriale mostrano un dato di sovrappeso/ obesità pari al 46% e un dato pari al 45% di peso ideale, contro un 38% di sovrappeso/ obesità nei soggetti nutriti con alimentazione casalinga e ben il 22% di sottopeso. Conclusioni. L’indagine svolta dalla Pet Obesità task Force italiana di Hill’s Pet Nutrition conferma che l’obesità negli animali da compagnia è un problema che rappresenta un fenomeno in crescita. A questo proposito è necessario un importante lavoro di sensibilizzazione e di informazione da parte dei Medici Veterinari. Formulare un corretto piano di razionamento e confermarlo mediante periodiche pesate di controllo dell’animale, non è sufficiente: è necessario realizzare anche una valutazione comportamentale. Bibliografia Laflamme D. Development and validation of a body condition score system for cats. A clinical tool. Feline Pract 1997; 25 (5-6): 13-8. Harper EJ, Stack DM, Watson TD, Moxham G, Effects of feeding regimens on bodyweight, composition and condition score in cats following ovariohystérectomie. J Small Anim Pract 2001; 42 (9): 233-8. Laflamme D.P., Kuhlman G., Lawler D.F. (1997) Evaluation of weight loss protocols for dogs, Journal of the American Animal Hospital Association, 33: 253259. Kienzle E., Berglery R. (2006) Human-Animal Relationship of Owners of Normal and Overweight Cats, American Society for Nutrition J. Nutr. 136: 1947S1950S. Marchesini R. (2004) L’identità del cane, Apeiron Editoria e Comunicazione S. r. l., Bologna. Sloth C. Pratical management of obesity in dogs and cats. J Small Anim Pratct 1992; 33: 178-82.

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COLICA DA COSTIPAZIONE IN UN ELEFANTE INDIANO (ELEPHAS MAXIMUS) P. Laricchiuta, Dr1,2, M. Campolo, Dr1,2, G. Svampa, Dr2,3, K. G. Friedrich, Dr4, C. Paolo, Dr5, D. Gelli, Dr6, F. Lomonaco, Dr7, O. Lai, Dr8 1 Centro Veterinario Einaudi, Gruppo CVIT, Bari, Italia 2 Zoo di Napoli, Napoli, Italia 3 Museo Civico di Zoologia di Roma, Roma, Italia 4 Fondazione Bioparco Roma, Roma, Italia 5 Giardino Zoologico di Pistoia, Pistoia, Italia 6 Dipartimento of Scienze Cliniche Veterinarie, Università di Padova, Padova, Italia 7 Libero Professionista, Bari, Italia 8 Dipartimento di Sanità Pubblica e Zootecnia, Università di Bari, Bari, Italia Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La costipazione, intesa come ritenzione prolungata di materiale fecale nel colon e nel retto, è frequentemente causa di colica nel cavallo e nell’elefante (Plummer, 2009). Qui viene descritto un caso di costipazione del grosso intestino in una femmina adulta di elefante indiano (Elephas maximus). Descrizione del caso. Una femmina di elefante indiano, età 30 anni, peso stimato 3500 kg, viene riferita allo staff veterinario per anoressia, abbattimento alternato ad eccitazione, masticazione della proboscide, atteggiamenti compatibili con dolore colico e riduzione della produzione di feci, molto secche nei giorni precedenti e totalmente assenti nelle ultime 24 h. Sulla base dell’anamnesi e delle condizioni cliniche, viene formulata una diagnosi di colica da costipazione. Il trattamento farmacologico iniziale ha seguito il protocollo terapeutico abitualmente adottato nella pratica clinica equina: flunixin-meglumine 1.1 mg/Kg q.i.d./t.i.d., N-butilbromuro di joscina/noramidopirina metansulfonato sodico 0.2 mg/kg t.i.d., ranitidina 1 mg/kg b.i.d. iniettati in siti differenti (Fyrial & Nayreen, 2007). Il giorno seguente lo stato clinico dell’animale risultava peggiorato, per cui si è deciso sedarlo per effettuare una visita clinica accurata e il trattamento della costipazione. L’animale è stato sedato con 400 mg di xilazina e 400 mg di ketamina (Fowler & Mikota, 2006. Durante la procedura i parametri valutati sono rimasti nella norma: temperatura rettale 37°C, frequenza cardiaca 40/min, frequenza respiratoria 20/min, riempimento capillare 2 sec. e colorito roseo delle mucose. Si è proceduto quindi alla fluidoterapia con Ringer’s lattato (catetere venoso da 14 G nella vena auricolare) contemporaneamente ad un clisma di 30 l di acqua mista a paraffina. Completate le procedure, l’animale è stato risvegliato antagonizzando la xilazina con atipamezolo (atipamezolo-xilazina 1:8; Swan, 1993). 4 g di ceftiofur i.m. ogni 24 ore per 3 giorni sono stati somministrati come copertura antibiotica, mentre si sono continuati flunixin meglumine s.i.d. per altri 3 giorni e ranitidina 1 mg/kg b.i.d. per altri 10, entrambi in compresse mescolate al cibo. Il giorno successivo alla sedazione l’animale ha iniziato a mangiare foraggio fresco e frutta dopo aver espulso poche feci, con normalizzazione dell’appetito nelle 48 h seguenti, contemporaneamente all’eliminazione di quantità adeguate di feci e completa remissione dei segni di dolore colico. I parametri ematologici e urinari rientravano nella norma, mentre le feci sono risultate negative per parassiti. Conclusioni. Parassiti, problemi dentari, elevato contenuto di fibra nella dieta, scarsità d’acqua e geofagia sono tutte cause predisponenti l’insorgenza di coliche nel cavallo (White, 2006) e nell’elefante (Du Toit, 2006). Soprattutto la somministrazione di fieno di buona qualità, insieme ad un’adeguata quantità di acqua disponibile per un numero sufficiente di ore, è considerata la misura profilattica più importante nella prevenzione della costipazione dell’elefante (Hatt & Causs, 2006). Anche la scarsità di esercizio viene riconosciuto come fattore predisponente per l’insorgenza di costipazione nel cavallo e nell’elefante (White, 2006), per cui l’exhibit dovrebbe sempre consentire adeguate possibilità di movimento all’animale in cattività (Thompson, 1996). Bibliografia Du Toit JG (2006) Veterinary problems of geographical concern, Section I-Africa. “Biology, Medicine and Surgery of Elephants”, Fowler & Mikota eds. Blackwell Publishing 439-444. Firyal S & Nayreen A (2007) Elephant as Veterinary Patient. Pakistan Vet J 27(1):48-54. Fowler ME & Mikota S (2006) Chemical Restraint and General Anesthesia. “Biology, Medicine, and Surgery of Elephants” Fowler & Mikota eds, Blackwell Publishing 91-118. Hatt JM & Clauss M (2006) Feeding Asian and African elephants Elephas Maximus and Loxodonta Africana in captivity. International Zoo Yearbook ZSL 40(1), 88-95 Plummer AE (2009) Impactions of the small and large intestines. Vet Clin North Am Equine Pract 25(2): 317-27. Swan GE (1993) Drug used for the immobilization, capture, and translocation of wild animals. “The Capture and care manual” Mc Kenzie ed, Wildlife decision Support Series & South African Veterinary Foundation 2-64. Thompson KV (1996) Behavioral development and play. “Wild mammals in captivity” Kleiman, Allen, Thompson, Lumpkin eds, The University of Chicago Press 352-371. White NA (2006) Equine Colic: II. Causes and risks for colic. Proceedings of the 52 Annual Convention of the American Association of equine practitioners.

Indirizzo per corrispondenza: Dr. Pietro Laricchiuta, Via V.V.Lenoci, 70126 Bari (BA), Italia - Cell. 3394482898 - E-mail: laris@libero.it

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TUMORI RENALI PRIMITIVI NEL GATTO: NON SOLO LINFOMA…! E. Lepri, DVM, PhD, DECVP, A. Dentini, DVM, M. Sforna, DVM, PhD, C. Brachelente, DVM, PhD, DECVP, I. Di Matteo, DVM, G. Vitellozzi, DVM, Prof Ord Dipartimento di Scienze Biopatologiche ed Igiene delle Produzioni Animali ed Alimentari Sezione di Patologia e Igiene Veterinaria. Facoltà di Medicina Veterinaria, Perugia, Italia Area di interesse: Oncologia Scopo del lavoro. I tumori renali primitivi nel gatto sono rari, ad esclusione del linfoma renale extranodale; una ricerca multiistituzionale statunitense del 1999 segnala soltanto 19 tumori renali non linfomatosi in un periodo di 6 anni. I tumori renali nei piccoli animali sono considerati maligni nel 90% dei casi. I rari tumori benigni possono essere rappresentati da adenomi, fibromi o emangiomi; tra i tumori maligni, il 50-70% è di origine epiteliale, il 20% mesenchimale e il 10% embrionale. I tumori renali mesenchimali descritti nella classificazione WHO sono i tumori del tessuto fibroso (fibroma-fIbrosarcoma) e i tumori vascolari (emangioma-emangiosarcoma). La prognosi è considerata riservata in relazione all’elevato tasso metastatico, valutato intorno al 64% in generale, che sale fino al 100% per i carcinomi transizionali. I tumori mesenchimali maligni (sarcomi) sono ritenuti avere una prognosi peggiore rispetto ai carcinomi; tuttavia i casi riportati nel gatto sono troppo pochi per poter trarre indicazioni prognostiche. Scopo del lavoro è descrivere alcuni casi di tumori renali primitivi del gatto, con particolare attenzione ai tumori mesenchimali, cercando di descrivere aspetti diagnostici e biologici di questi tumori di rara segnalazione. Materiali e metodi. Sono stati riesaminati i casi di biopsie e pezzi chirurgici renali di gatto inoltrate al laboratorio nel periodo 2005-2009. Risultati. Nel periodo in esame sono stati osservati 13 tumori renali primitivi non linfomatosi, tra cui 4 tumori epiteliali (un carcinoma transizionale, un carcinoma papillifero, un adenocarcinoma misto papillifero/a cellule chiare ed un carcinoma tubulare) e nove tumori mesenchimali, rappresentati da tre tumori a cellule fusate (fibroma-fibrosarcoma), tre sarcomi anaplastici, un emangiosarcoma, un leiomiosarcoma ed un osteosarcoma extrascheletrico. La raccolta anamnestica e di follow-up è stata difficoltosa e limitata dalla natura retrospettiva dello studio. In 3 casi la presentazione clinica era aspecifica con malessere, anoressia e dolorabilità addominale; in un solo caso era presente ematuria. In 2 casi il tumore renale è stato un reperto accidentale durante visite cliniche di routine. Le masse renali erano facilmente evidenziabili alla palpazione addominale in tutti i casi, variando in dimensioni tra 3 e 10 cm di diametro, ed in tutti i casi deformavano il profilo dell’organo (stadio T2). La terapia è stata chirurgica in tutti i casi, senza terapie adiuvanti pre o post chirurgiche. Nei casi in cui sia stato possibile raccogliere informazione relative al decorso, gli animali hanno ben superato la fase post-chirurgica, con la sola eccezione del soggetto con emangiosarcoma, deceduto una settimana dopo la nefrectomia. Nei casi in cui la causa di morte sia stata determinata, essa dipendeva dal tumore primitivo in due casi (sarcoma anaplastico con infiltrazione locale e osteosarcoma con metastasi peritoneali), con un ulteriore caso rappresentato da un reperto autoptico, in cui il tumore renale rappresentava verosimilmente la causa di morte (sarcoma anaplastico con metastasi polmonari); 2 soggetti godono attualmente di buona salute dopo 6-8 mesi dall’asportazione del tumore (entrambi con tumori a cellule fusate), e due soggetti sono stati persi al follow-up. Conclusioni. Il linfoma è il tumore renale più comune nel gatto; abbiamo tuttavia scelto di escluderlo dalla casistica in quanto caratterizzato da aspetti clinici, terapeutici e prognostici peculiari e non accomunabili agli altri tumori renali. Dalla seppur esigua casistica osservata risulta una prevalenza di tumori mesenchimali rispetto agli epiteliali; questo dato potrebbe comunque essere influenzato dal basso numero di casi osservati. Tra i tumori mesenchimali osservati, il più comune (3 casi) appare il tumore a cellule fusate (fibroma-fibrosarcoma), con singoli casi di emangiosarcoma, leiomiosarcoma e di osteosarcoma extrascheletrico, tumore renale estremamente raro se non eccezionale, con una singola segnalazione nel cane e nessuna, ad oggi, nel gatto. Tre casi di sarcoma anaplastico hanno mostrato un comportamento biologico peggiore rispetto ai tumori di diverso istotipo. Dalle poche indicazioni estrapolabili dalla casistica si potrebbe dedurre che la prognosi dei tumori renali mesenchimali primitivi non è del tutto sfavorevole dopo la sola asportazione chirurgica, con tempi di sopravvivenza di 6 mesi ed oltre. Tuttavia i casi riportati sono troppo pochi per consentire considerazioni prognostiche. La raccolta prospettica di una più ampia casistica corredata di informazioni anamnestiche e di follow-up complete sarebbe necessaria per chiarire gli aspetti biologici di questi tumori. Bibliografia Henry CJ, Turnquist SE et al. Primary renal tumors in cats: 19 cases (1992-1998). J Feline Medicine and Surgery. 1999, 1: 165-170. Marconato L, Del Piero F. Oncologia Medica dei Piccoli Animali. Poletto editore, 2005. Maxie M, Newman SJ. The Urinary System. In Maxie M (ed). Jubb, Kennedy and Palmer's Pathology of Domestic Animals. Elsevier, 2007. Meuten DJ. Tumors of the Urinary System. In Meuten DJ (ed). Tumors in Domestic Animals. Iowa state press, 2002. WHO Histological classification of the tumors of the urinary system of domestic animals. AFIP, Washington D.C., 2004.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Elvio Lepri - Facoltà di Medicina Veterinaria, Via San Costanzo, 4, 06126 Perugia (PG), Italia Tel 075/5857629 - Cell 338 3149889 - E-mail: elvio.lepri@unipg.it

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PREOPERATIVE NEOADJUVANT TREATMENT OF DIFFUSE MAMMARY ADENOCARCINOMA IN DOGS WITH DOXORUBICIN AND DOCETAXEL M.N. Yakunina, PhD, E.M. Treshalina, PhD, A.A. Shimshirt, MSc, Phd student, K.V. Lisitskaya, MSc, PhD student Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, the Russian Academy of Medical Sciences, Moscow, Russia Topic: Oncology Purpose of the work. Dogs with diffuse form of mammary tumors and inflammatory carcinoma are often presented to primary inspection in inoperable state1. Neoadjuvant therapy is treatment given prior to surgery to shrink a tumor that is inoperable in its current state, and also to prevent dissemination of tumor2. Neoadjuvant chemotherapy is the standard of care in human medicine for patients with locally advanced and inflammatory breast cancer3. Recently, the combination of doxorubicin and docetaxel was used for adjuvant treatment in dogs with mammary cancer4. The aim of the study was to investigate the the efficacy of neodjuvant, preoperative treatment with combination of doxorubicin and docetaxel in dogs with diffuse form of mammary tumors and inflammatory carcinoma. Materials and used methods. A study was undertaken which comprised sixteen dogs with diffuse form of mammary tumors and inflammatory carcinoma which were presented to the Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol» during the period from November 2008 to December 2009. The inoperability of mammary tumors was estimated on the basis of the size of the primary tumor, invasion in the underlying tissues and presence of skin metastases. The patients were divided into two groups: group 1 (n=10) consisted of dogs with diffuse form of mammary cancer and group 2 (n=6) with inflammatory carcinoma. The animals in the two groups received two doses of doxorubicin at a dosage of 20 mg/m2 and docetaxel at a dosage of 20 mg/m2 given as a IV infusion 21 days apart. The response to treatment was evaluated with use of standard WHO criteria5. Complete response (CR) was estimated as complete disappearance of all detectable tumor nodes for at least 4 weeks; partial response (PR) was assessed as 25-50% reduction in measurable tumor burden with no increase in the size of the other nodes; stabilization (S) was considered in case of 25% reduction/increase of the tumor, progression (P) – increase in the size of the tumor >25% or occurrence of the new lesions. Objective response (OR) was calculated as CR+PR. Histologic response to preoperative chemotherapy was estimated according to following criteria: I grade indicated no significant changes in tumor architecture; II grade – 50-75% of tumor cell have evidence of necrotic changes; III grade – necrosis of 75-99% tumor cell; IV grade – necrosis of 100% of the tumor. Outcomes. In group 1 OR was achieved in 6/10 (60%) cases, whereas CR was registered in one (10%) dog, and PR – in 5/10 (50%) dogs. Stabilization was observed in 4/10 (40%) cases. Progression of the disease was not documented. Of the ten tumors, one (10%) had grade-III response, four (40%) had grade-II responses. Little response (grade I) were presented in 4/10 tumors. Histologic evaluation revealed no IV grade response. In all cases operability of the tumours was achieved. In group 2 OR was not documented. All dogs developed disease progression. The increase in volume of tumour and occurrence of skin metastases were noted. In all cases operability of the tumours was not reached. Conclusions. The overall response to doxorubicin and docetaxel treatment in dogs with diffuse mammary cancer was achieved in 60% cases. We operability of the tumours was reached in all cases. These results allow us to recommend a preoperative neoadjuvant treatment with combination of doxorubicin and docetaxel in dogs with diffuse mammary cancer. This combination did not lead to any response in dogs with inflammatory carcinoma. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5.

Peña L, Dolores Perez-Alenza M, Rodriguez-Bertos A, Nieto A. Canine inflammatory mammary carcinoma: histopathology, immunohistochemistry and clinical implications of 21 cases.// Breast Cancer Research and Treatment 78: 141-148, 2003. Neoadjuvant therapy// National Cancer Institute. Bear H. D., Anderson S., Brown A. et al. The effect on tumor response of adding sequential preoperative docetaxel to preoperative doxorubicin and cyclophosphamide: preliminary results from national surgical adjuvant breast and bowel project protocol b-27// J. Clin. Oncol. 2003;22: 4165-4174. Simon D, Schoenrock D, Baumgartner W, Nolte I. Postoperative adjuvant treatment of invasive malignant mammary gland tumors in dogs with doxorubicin and docetaxel.// J Vet Intern Med 2006;20:1184-1190. Miller AB, Hoogstraten B, Staquet M, Winkler A. Reporting results of cancer treatment.// Cancer 1981;47:207-14.

Corresponding Address: Ms. Ksenia Lisitskaya - Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, Krasnoholmskaya Emb., 13-1-23, 115172 Moscow, Russia - Phone 74953249629 - Mobile 79037587088 - E-mail: lisksenia@mail.ru

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COMBINATION OF SURGERY AND INTERVENTIONAL MANAGEMENTS FOR TREATMENT OF CANINE AND FELINE MULTIFOCAL LIVER TUMORS 1

I. Vilkovyskiy, MSc, PhD student1,2, S. Kusenkov, MSc1, K. Lisitskaya, MSc, Phd student1, S. Kurinnova, BSc1 Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, the Russian Academy of Medical Sciences, Moscow, Russia 2 Agricultural faculty of Peoples’ Friendship University of Russia, Moscow, Russia Topic: Oncology

Purpose of the work. Hepatobiliary tumors are uncommon in dogs and cats, and can be primary or metastatic1. Surgery is considered to be an optimal treatment modality for liver tumors in small animal practice2. However, not many tumors can be surgically treated because of multifocal diseases. In human medicine most of surgically-ineligible patients have to receive a combination of surgery and interventional treatments (p.e. cryotherapy, percutaneous ethanol injection, local ablation, chemoembolization). This combination can improve the survival rate of patients with multifocal hepatobiliary tumors3. The aim of this study was to determine outcome in dogs and cats treated with combination of surgery and interventional managements for liver tumors and compare survival times of either unilateral or multifocal operatively treated liver tumors. Materials and used methods. The study comprised 40 dogs and cats with primary and metastatic liver tumors who underwent operative treatment. The animals were presented to the veterinary clinic «Biocontrol» during the period from January 2002 till January 2010. Of the 40 cases, 5 were cats and 35 were dogs. The animals were allocated into 2 groups. Group 1 (n=21) with 1-2 affected liver lobes received liver lobe resection. Group 2 (n=19) with multifocal tumors involving more then 2 liver lobes received a combination of lobe resection and other local techniques, including sclerotherapy and cryotherapy. Sclerotherapy was made with 95% ethanol via a 21-gauge needle under ultrasonographic guidance in summary dosage of 0,5 ml/kg body weight. Cryotherapy protocol included two freeze-thaw cycles for 15 minutes each procedure. Liver tissue samples were submitted for microscopic examination. Data were analyzed to determine and compare rates of tumor control and survival time. Survival time was calculated from the time of surgery to death or termination of the study period. Kaplan-Meier survival analysis with log rank was used to compare survival in animal with 1-2 affected lobes or multiple diseases. Outcomes. The mean age at presentation for all dogs was 8.6 years (range 7 to 14 years), and for cats 14.3 years (range 8 to 16 years). Primary liver tumors were diagnosed in 23/40 cases (57.5%). From the primary liver tumors hepatocellular carcinoma was the prevalent histological type, which accounted for 12 of 44 (30%) tumors. Four hemangiomas, two cholangiocarcinomas and one fibrosarcoma accounted for 10%, 5% and 2.5% of tumors, respectively. One (2.5%) liver tumor showed mixed morphologic features. From the metastatic lesions, metastatic mammary adenocarcinoma was the most prevalent histological type. A sex predisposition has not been confirmed in dogs and cats with primary liver tumors in our study - the ratio between males and females with primary tumors is approximately 1:1, whereas male : female ratio for metastatic liver tumors was – 1:6. At the conclusion of the study period 7 dogs and 3 cats were still alive, whereas the remaining 30 had died. 21 (70%) deaths were tumor related, including 2 intraoperative deaths (5%). The most common metastatic site were the lung, observed in 18/21 patients. From the ten survivors 8 have no evidence of local recurrence or distant metastases at 72, 90, 111, 120, 240, 540, 720, and 870 days. We found no significant association between MST (mean survival time) in animals with primary (n=22) and metastatic (n=18) liver tumors. The MST for primary tumors was 255 days (range, 35 to 870 days) in comparison to 420 days (range, 105 to 740 days) for metastatic liver tumors. With Kaplan – Meier analysis, in Group 1, a median survival time (MST) of 722 days was calculated (range, 105 to 1800 days). In comparison, the MST for dogs in Group 2 was 200 days (range, 30 to 480 days). Animals in the group 1 had significantly longer MST than dogs in the group 2 (p<0.001). Neither in Group1 nor in Group 2 was recorded local tumor recurrence. Conclusions. We found no significant correlation between outcomes in animals with primary and metastatic liver tumors. Animals with 1-2 affected liver lobes had significantly (p<0.001) longer mean survival time than dogs with multiple diseases. A combination of surgery and interventional treatments can be used to achieve tumor tissue necrosis and avoid local recurrence in patients with multifocal hepatobiliary tumors. Bibliography 1. 2. 3.

Withrow SJ, Vail DM, Lipark JM. Hepatobiliary tumors incidence and risk factors. Withrow, MacEwens Small Animal Clinical Oncology, Elsevier. 2007;483-491 Martin RA, Lanz OI, Tobias KM. Liver and biliary system, in Slatter DH (ed): Textbook of Small Animal Surgery. Philadelphia,WB Saunders, 2003:708726. Guan YS, Liu Y. Interventional treatments for hepatocellular carcinoma. Hepatobiliary Pancreat Dis Int. 2006;5(4):495-500.

Corresponding Address: Ms. Ksenia Lisitskaya - Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, Krasnoholmskaya Emb., 13-1-23, 115172 Russia, Moscow, Russia - Phone 74953249629 - Mobile 79037587088 - E-mail: lisksenia@mail.ru

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DIPROSOPIA IN TRACHEMYS SP G. Lanteri, Med Vet1, F. Macrì, Med Vet2, G. Rapisarda, Med Vet3, G. Caristina, Med Vet4, G. Latella, Med Vet5, G. Mazzullo, Med Vet6 1 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 2 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 3 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 4 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 5 Dipartimento MO.BI.FI.PA., Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Messina, Messina, Italia 6 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia Area di interesse: Animali esotici Introduzione. Le malformazioni sono anomalie morfologiche macroscopiche di un singolo organo o più organi di un apparato o sistema che si verificano durante il periodo organo genetico; tali anomalie si intendono come modificazioni della forma e della struttura degli organi con deformità di alto grado; se il corpo ne risulta, invece, completamente deformato parleremo allora di mostruosità. Le malformazioni osservate nelle tartarughe possono essere suddivise in tre grandi categorie: deformità minori (non influenzano la sopravvivenza dell’animale e vengono osservate in età adulta), deformità moderate (riducono le possibilità di sopravvivenza ma, nonostante ciò, possono essere riscontrate in animali adulti in particolari condizioni), deformità letali (danno scarse probabilità di sopravvivenza e non sono stati riscontrati soggetti adulti con queste malformazioni). Scopo del presente lavoro è quello di contribuire alla conoscenza delle malformazioni dei rettili descrivendo gli aspetti morfologici e radiologici di una mostruosità osservata in una tartaruga sottoposta alla nostra osservazione. Descrizione del caso. Oggetto delle nostre osservazioni è una tartaruga d’acqua appartenente al Genere Trachemys sp. di 6 mesi d’età, importata dalla Florida (USA) ed allevata per circa 4 mesi da un amatore nella città di Palermo. Il proprietario riferiva del mancato accrescimento dell’animale e di una anomala assunzione del cibo, probabilmente in seguito ad una difettosa percezione sensoriale alla vista, pur mantenendo i normali movimenti bilaterali della testa. In seguito al decesso avvenuto spontaneamente, veniva effettuato un preliminare studio radiologico, allo scopo di valutare gli aspetti morfologici della malformazione. All’esame necroscopico, tutti gli organi celomatici venivano prelevati e fissati in formalina tamponata al 10% per la successiva inclusione in paraffina. Sezioni istologiche di 3-4µm di spessore venivano colorate con Ematossilina-Eosina (EE). L’esame radiografico in “total body”, ad eccezione della forma e delle dimensioni delle teste e del rachide cervicale, non rivelava alcuna alterazione morfo-strutturale delle restanti componenti scheletriche. Al contrario, il particolare delle teste evidenziava la fusione di queste a livello della regione iugale (zigomatica) e post-frontale dei due crani in un’unica testa “articolata” a un solo rachide, quest’ultimo malformato all’altezza della prima vertebra. Lo studio del cranio mostrava la presenza di un’unica ampia volta cranica priva di setti divisori. Esternamente, la tartaruga presentava una testa relativamente grande, con quattro cavità oculari, due laterali e due mediali, e due distinte regioni nasali con le relative aperture buccali. La cavità buccale sinistra, differiva dalla destra (normoconformata) per la presenza di un canale orofaringeo di ridotte dimensioni. Sulla faccia ventrale, le mandibole e le mascelle laterali e mediali di entrambe le teste, erano interamente sviluppate, e dotate di una normale articolazione temporo-mandibolare. Un accurato esame della testa, eseguito dopo allontanamento del carapace, metteva in evidenza una conformazione a “V” della stessa, generata dalla parziale fusione di due teste, divergenti tra loro con un angolo di circa 45°. La regione frontale appariva vasta e la calotta cranica si presentava unica sino al limite occipitale. All’apertura della scatola cranica, si evidenziava una vera e propria fusione delle ossa craniche. Il SNC purtroppo non ben mantenuto non permetteva di coglierne la morfologia; alla sua asportazione si poteva apprezzare una cavità endocranica apparentemente normostrutturata. Conclusioni. Dai rilievi radiologici e macroscopici osservati, il reperto veniva classificato, in base alla duplicazione facciale, come “Diprosopus”, secondo la classificazione di Duhamel per le malformazioni dei mammiferi.1 Le diprosopie consistono in una alterazione della porzione craniale dell’embrione, e della notocorda in particolare, risultante in una duplicazione più o meno grave ed estesa della faccia. La diprosopia rappresenta la più grave forma di malformazione facciale e, al contempo, la più semplice del quadro teratologico dei mostri doppi paralleli. Le diprosopie possono interessare tutti gli animali ed assumere diversa gravità a seconda dell’entità della divisione della faccia. Pur essendo assolutamente carente la bibliografia sull’argomento, la diprosopia nelle tartarughe sembra essere un evento abbastanza frequente, soprattutto in quelle marine, e si ritiene, anche per queste specie, che si tratti di particolari forme di gemellarità incompleta.2 Bibliografia 1. 2.

Duhamel B. (1966) - Morphogenèse Pathologique, Masson & C., Paris. Ewert, M. A. 1985. Embryology of Turtles. In: Biology of the Reptilia. Vol. 14 (Development A), C. Gans, F. Billett, and P. F. A. Maderson. eds. John Wiley and Sons.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Giuseppe Santi Rapisarda, Via Ugo Foscolo 9, 95025 Aci Sant’antonio (CT), Italia Tel. 095/7921599 - Cell. 3394174213 - E-mail: grapisarda@virgilio.it

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ARTERIAL PRESSURE AND HEART RATE VARIATIONS DURING PROPOFOL TARGET CONTROLLED INFUSION FOR SEDATION IN DOGS UNDERGOING NON-INVASIVE PROCEDURES L. Novello, Med Vet, MRCVS1, B. Carobbi, Med Vet, MRCVS2 1 Referenza Carobbi Novello, Venezia, Italia 2 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, Padova, Italia Topic: Anaesthesia Purpose of the work. Propofol Target Controlled Infusion (TCI) has been successfully used for sedation in dogs undergoing diagnostic procedures.1,2 Although haemodynamic response to propofol induction has been investigated,3 no data are currently available about cardiovascular effects of sedative doses of propofol in dogs. We report on propofol effects on arterial blood pressure (ABP) and heart rate (HR) when a TCI is used to maintain sedation in dogs undergoing non-invasive procedures. Materials and used methods. Dogs ASA I-II, Size Health And Physical Evaluation body condition scoring system C to E, were enrolled. After premedication with intramuscular acepromazine (0.02 mg kg-1) and morphine (0.15 mg kg-1), cephalic vein and dorsal pedal artery were catheterized. Monitoring of electrocardiogram (ECG) and direct ABP was instituted then, and baseline readings were obtained after a 10-minute resting period. Propofol TCI4 was administered to attain deep sedation, however predicted plasma target concentration (Cpt) and ultimate depth of sedation achieved were intentionally not standardized to more accurately reflect the variability in operator’s preference, patient response, and the differing sedation requirements for various clinical procedures. A 3.1 mcg ml-1 Cpt was initially achieved and Loss-Of-Righting-Reflex (LORR) assessed. The Cpt was set to individual predicted effect-site concentration at LORR then, and further decreased or increased to the degree of sedation providing the best conditions for the operator. Vital signs were monitored using a multiparametric monitor, and dogs were clinically assessed at regular intervals. During the procedure HR and direct ABP were collected at 5-second intervals using a proprietary software, and data and time-synchronized markers describing all events were stored on a laptop for off-line analysis. Thresholds used to treat hypotension were a systolic ABP lower than 100 mmHg or a mean ABP lower than 60 mmHg for longer than 2 minutes. Changes in HR and ABP are noted as the maximum variation recorded during the procedure compared with baseline reading. Baseline reading is expressed as the mean of absolute values collected over 60 seconds prior to propofol administration. Data are reported using descriptive statistics, and expressed as median (Range) or mean (Standard Deviation; Confidence Interval). Because of the inter-individual variability in baseline ABP and HR, absolute differences were converted into percentage changes from baseline before analysis, and significance assessed using the one-sample t-test. Outcomes. Thirteen male and 15 female dogs, 18 (8-96) months old, weighing 18.4 (5.4-45) kg, undergoing upper airway evaluation (n=22), radiographic examination (n=10) and minor procedures (n=3), were studied. Palpebral reflex was maintained in all dogs. Fentanyl bolus administration was required in 1 dog undergoing radiographic examination to treat discomfort. Although systolic and mean ABP transiently decreased below the threshold limits in 8 (29%) and 10 (35%) of 28 dogs respectively, none of them required treatment. Baseline systolic ABP and HR were 152.6 (SD 15.18, CI 146.7 to 158.5) mmHg and 85.75 (SD 21.12, CI 77.56 to 93.94) beats-per-minute, respectively. Recorded maximum variation in systolic ABP corresponded to a 32.8 (CI 28.2 to 37.3)% decrease from baseline (p<0.0001), and was associated to a 53.7 (CI 39.6 to 67.8)% increase from baseline (p<0.0001) in HR. Conclusions. Propofol TCI was effective in providing deep sedation for non-invasive procedure in the majority of dogs. Although LORR occurred in all dogs, the Cpt providing LORR in the individual patient did not provide loss of palpebral reflex. Propofol sedation caused a substantial decrease in systolic ABP, however it was associated with a significant increase in heart rate, and no dogs in the study met criteria for treating hypotension. LORR in animals is used as a surrogate end-point for loss of consciousness. In contrast with our dogs, in humans propofol caused loss of eyelash reflex at lower concentrations than those causing loss of consciousness, although other anaesthetic agents did not.5 In humans sedated with propofol systolic ABP decreased considerably compared to baseline, however HR did not change suggesting a resetting of the baroreceptor reflex set point by propofol.5 Our data do not support this theory in dogs receiving sedative doses of propofol. In addition, the resulting increase in HR may have prevented hypotension from occurring. Although anaesthetists should routinely monitor ABP and make therapeutic decision based on deviations from ‘normality’, there is no evidence of what constitutes a clinically meaningful definition of intraoperative hypotension in dogs. Therefore, in our study hypotension was addressed in accordance with ‘arbitrarily chosen thresholds’ reflecting clinical practice. In conclusion, propofol TCI sedation causes a significant decrease in ABP compared to baseline. However, the baroreceptor reflex is maintained and hypotension is unlikely. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5.

Novello L, Carobbi B, Rabozzi R (2008) Vet Surg 37, E1-E19. Novello L, Carobbi B (2009) Proceedings of the 62° Congresso SCIVAC, Rimini. p. 578. Novello L, Rabozzi R (2007) Proceedings of the 1st World Congress of TIVA-TCI, Venezia, Italy. p. 130. Beths T, Glen JB, Reid J et al. (2001) Vet Rec 148, 198-203. Vuyk J, Engebers FHM, Lemmens HJM, et al. (1992) Anesthesiology 77, 3-9.

Corresponding Address: Dott. Lorenzo Novello - Italian Society of Veterinary Regional Anaesthesia and Pain Medicine, Via Donatori di Sangue 13/c 35028 Piove di Sacco (PD), Italia - E-mail: info@isvra.org

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UN CASO DI LEIOMIOSARCOMA VESCICALE IN UN CANE M. Orioles, Medico Veterinario1, F. Mazzucato, Medico Veterinario2 A. Meneguzzo, Medico Veterinario1, S. De Cecco, Studentessa3 1 Libero Professionista, Vicenza, Italia 2 Libero Professionista, Padova, Italia 3 Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli studi di Padova, Padova, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Circa il 10% delle neoplasie della vescica è di origine mesenchimale. Tra queste, i tumori del tessuto muscolare liscio, leiomioma e leiomiosarcoma, interessano principalmente la specie canina e costituiscono il 2-5% delle neoplasie vescicali. Nonostante la sua designazione maligna, il leiomiosarcoma metastatizza raramente, anche se frequenti sono le infiltrazioni locali e le recidive dopo terapia chirurgica. Il caso descritto riguarda un caso di leiomiosarcoma vescicale in un cane. Descrizione del caso. Nel dicembre 2009 un cane di razza Meticcio, maschio castrato di 11 anni e 6 mesi, veniva visitato per due episodi di crisi convulsive avvenuti nei due giorni precedenti a distanza di 24 ore l’uno dall’altro. Tale sintomatologia, di durata di circa un minuto, veniva riferita come una crisi motoria generalizzata tonico-clonica, senza perdita di conoscenza. L’anamnesi escludeva precedenti eventi di malattia e terapie mediche; Il cane viveva prevalentemente in casa. Era alimentato con una dieta commerciale; le vaccinazioni, la profilassi nei confronti della filariosi cardio-polmonare e dei parassiti gastroenterici risultavano regolari. L’esame fisico evidenziava: peso di 25 kg (BCS 5/9), temperatura 38,6 °C, P 90 bpm, R 22 apm, TRC < 2”, lieve dolorabilità addominale nei quadranti caudali, lieve ipoelasticità cutanea e presenza di petecchie addominali con estensione focale. L’esame clinico neurologico non evidenziava anomalie. Sono stati eseguiti esami ematobiochimici ed urinari completi. L’emogramma riferiva anemia lieve normocitica ipocromica rigenerativa, microcitosi, presenza di NRBC, lieve policromasia. Il leucogramma presentava leucocitosi moderata con neutrofilia matura e monocitosi. Il piastrinogramma presentava trombocitopenia grave, con macropiastrine. Il profilo emostatico presentava aumento della concentrazione del fibrinogeno e aumento marcato dei FDPs. L’esame biochimico evidenziava un lieve aumento dell’attività dell’ALP, aumento della concentrazione delle proteine totali, lieve iperalbuminemia, lieve iperglobulinemia, aumento della CRP e aumento dell’osmolalità sierica. L’elettroforesi sierica evidenziava un aumento delle globuline alfa 2. Il campione urinario di colore giallo chiaro aveva le seguenti caratteristiche: ps 1.021, ph 7,5, WBC, RBC e proteinuria assenti, sedimento urinario silente. Le immagini radiografiche addominali mostravano la presenza di una massa a radiopacità di tessuto molle adesa alla vescica. I rilievi ecografici riferivano la presenza di una massa presumibilmente originata dallo strato sottomucoso/muscolare della parete vescicale, a margini netti, di circa 3 centimetri di diametro, caratterizzata prevalentemente da ecogenicità mista, da finemente a grossolanamente disomogenea. La mucosa e la sierosa vescicale apparivano integre e la massa sembrava sporgere verso quest’ultimo strato del viscere. Le radiografie toraciche non evidenziavano alcuna anomalia, né erano presenti rilievi ecografici indicativi di metastasi. La citologia ecoguidata della massa non forniva campioni rappresentativi. Il paziente veniva sottoposto a laparotomia e escissione chirurgica della massa, che si presentava contenuta all’interno dello strato sieroso e non invadeva il lume vescicale. L’esame istopatologico e immunoistochimico permettevano di emettere la diagnosi di leiomiosarcoma vescicale a basso grado e di confermare la completa escissione chirurgica del tumore. Esami clinici fisici ed ematobiochimici ripetuti settimanalmente hanno constatato la completa remissione delle alterazioni ecografiche e ematobiochimiche a distanza di 20 giorni dall’intervento chirurgico. A distanza di due mesi le crisi convulsive non si sono ripresentate. Conclusioni. Sporadiche sono le descrizioni di casi di leiomiosarcomi vescicali canini riportate in letteratura veterinaria. Sembra interessante notare come tale tumore possa raggiungere dimensioni notevoli senza danni apparenti alla mucosa vescicale e senza provocare sintomatologia urinaria. Nel nostro caso valutazioni cliniche complete ed il follow up post chirurgico hanno consentito di attribuire alle alterazioni cliniche, ematologiche ed emostatiche una causa comune di origine neoplastica, inquadrandole come sindromi paraneoplastiche (SPN). Le SPN hanno notevole interesse clinico, in quanto capaci sia di precedere la scoperta della neoplasia, sia di corrispondere ad una disseminazione od estensione della malattia stessa, nonché, di rappresentare un marker di recidive tumorali o di monitoraggio dell’andamento di una terapia antineoplastica. In questo contesto, le SPN del sistema nervoso centrale sono estremamente rare e rappresentate da dubbie segnalazioni in letteratura; ulteriori approfondimenti diagnostici dovranno stabilire la reale natura della sintomatologia neurologica riferita. Bibliografia Heng HG, Lowry JE, Boston S, Gabel C, Ehrhart N, Gulden SM.: Smooth muscle neoplasia of the urinary bladder wall in three dogs. Vet Radiol Ultrasound. 2006 Jan-Feb;47(1):83-6. Kapatkin AS, Mullen HS, Matthiesen DT, Patnaik AK: Leiomyosarcoma in dogs: 44 cases (1983-1988). J Am Vet Med Assoc. 1992 Oct 1;201(7):1077-9. Marconato L. ; Del Piero F.: Oncologia medica dei piccoli animali. Poletto Ed. 2005. Meuten, D. J.; Everitt, J.; Inskeep, W.: WHO Histological Classification of Tumors of the Urinary System of Domestic Animals. Charles Louis Davis, DVM Foundation, 2007.

Indirizzo per corrispondenza: Sig. Massimo Orioles, Strada S. Stefano, 2, 36100 Vicenza (VI), Italia Tel. 0444/545858 - Cell. 347/9418094 - E-mail: massimo_orioles@hotmail.it

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EFFICACIA ANTIMICOTICA DELLA CLOREXIDINA: UNO STUDIO IN VITRO TRAMITE PROVE DA CONTATTO 1

M. Pasquetti, DVM1, G. Ghibaudo, DVM2, P. Iannì, Pharmacist3, A. Peano, DVM, PhD1 Dipartimento di Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia - Facoltà di Medicina Veterinaria. Università di Torino, Torino, Italia 2 Libero Professionista, Fano, Italia - 3 Industria Chimica Fine (ICF), Cremona, Italia Area di interesse: Dermatologia

Scopo del lavoro. La clorexidina è un antisettico contenuto in numerosi prodotti per la terapia dermatologica del cane e del gatto. Passate indagini sulla sua attività antifungina hanno originato risultati spesso contrastanti sia per quanto riguarda le concentrazioni efficaci in-vitro sia per ciò che concerne l’efficacia in vivo. Scopo del lavoro è stato quello di valutare, in-vitro, l’attività di un prodotto contenente clorexidina al 4% (Clorexyderm shampoo 4%®, I.C.F.) verso i principali patogeni fungini di cane e gatto utilizzando le cosiddette prove da contatto, e valutare alcuni parametri che possono influenzare l’interpretazione delle prove di efficacia in-vitro. Materiali e metodi. Sono state eseguite 5 prove su Malassezia pachydermatis e 15 su dermatofiti (3 Microsporum gypseum; 7 Trichophyton interdigitale - ex T.mentagrophytes; 5 Microsporum canis), che sono stati testati a partire da spore ottenibili in coltura (macro e microconidi) e dalle forme in- vivo (artroconidi). La metodica utilizzata (UNI EN 1275) consiste nel valutare la diminuzione del numero di microorganismi vitali dopo contatto con l’agente antisettico. Un prodotto viene considerato efficace se determina una diminuzione delle Unità Formanti Colonia (UFC) fungine di almeno 4 unità logaritmiche (diminuzione pari al 99,99%) dopo un contatto di 15 minuti. La sospensione dei germi in esame veniva standardizzata e messa a contatto con il prodotto da testare. Dopo 15 minuti veniva effettuato un passaggio in una soluzione neutralizzante (Tween 80 al 3% e lecitina allo 0,3%) e una successiva semina delle sospensioni. Dopo incubazione a 37°C per 5 giorni (Malassezia) e a 25°C per 7-14 giorni (Dermatofiti) si procedeva alla lettura delle UFC. Tenendo conto delle diluizioni utilizzate si risaliva al numero di UFC - e quindi di microorganismi vitali – ancora presenti nelle sospensioni in esame. Risultati. Il prodotto testato si è rivelato sempre efficace nei confronti di Malassezia. Per ciò che concerne i dermatofiti si è avuta un’efficacia completa nei confronti di macro e artroconidi di M.canis e M.gypseum. Per T. interdigitale si è avuta un’efficacia del 20% (1 prova su 5) nei confronti dei microconidi e del 100% sugli artroconidi. Conclusioni. Lo studio indica che ad adeguate concentrazioni (4%) la clorexidina dimostra, in vitro, un’elevata attività antimicotica. Le prove utilizzate sono molto stringenti in quanto viene testato un tempo di contatto ben definito, ricalcando ciò che poi avviene in vivo. Secondo gli autori questa metodica ricalca meglio la realtà applicativa di un prodotto rispetto alle cosiddette prove di MIC (Minima Concentrazione Inibente), in cui il fungo è in presenza di concentrazioni costanti di un principio attivo, cosa che in vivo evidentemente non avviene. Questo potrebbe spiegare perché l’efficacia in vitro della clorexidina si abbia a concentrazioni molto basse, se testate con MIC (dell’ordine dei µg/ml), mentre in vivo l’efficacia è limitata o viene comunque ottenuta a concentrazioni notevolmente superiori. Inoltre, le prove da contatto permettono di utilizzare il prodotto finito come tale, con adiuvanti, eccipienti, ecc. e quindi di testare l’attività del prodotto nella sua interezza. Infine, la prova da contatto indica senza dubbio un’attività germicida, mentre le prove con MIC solo un’attività inibente. Per ciò che concerne i dermatofiti lo studio ha permesso di valutare l’attività del prodotto sia su forme di sporulazione ottenibili in normali condizioni di coltura (macro e microconidi) sia su artroconidi, che rappresentano la forma di invasione tissutale dei dermatofiti. Per l’attività in-vivo, dato che la concentrazione di clorexidina, così come il tempo di contatto, sembrano i fattori che più incidono sull’efficacia di questo antisettico, il problema è probabilmente legato proprio alla possibilità che si abbiano a livello cutaneo concentrazioni finali e tempi di contatto adeguati. In questo senso, per una validazione definitiva del prodotto in esame, sarebbe opportuno utilizzare condizioni di laboratorio ancora più stringenti, testando il prodotto a diluizioni progressive, e successivamente, con prove in vivo. Bibliografia Anon. Chemical disinfectants and antiseptics – Quantitative suspension test for the evaluation of basic fungicidal or basic yeasticidal activity of chemical disinfectants and antiseptics – Test method and requirements (phase 1). EN 1275. Brussels: European Committee For Standardization, 2005. Boddie R.L., Watts J.L., Nickerson S.C.: In vitro and in vivo evaluation of a 0.5% chlorhexidine gluconate teat dip. Journal of the American Veterinary Medical Association, 196, 890-893, 1990. Coelho L.M., Aquino Ferreira R., Leite Maffei C.M., Martinez-Rossi N.M.: In vitro antifungal drug susceptibilities of dermatophytes microconidia and arthroconidia. Journal of Antimicrobial Chemotherapy 62, 758-761, 2008. Moriello K.A., Verbrugge M.: Use of isolated infected spores to determine the sporocidal efficacy of two commercial antifungal rinses against Microsporum canis. Journal compilation ESVD and ACVD 18, 55-58, 2007. Odore R., Colombatti Valle V., Re G.: Efficacy of Chlorhexidine against Some Strains of Cultured and Clinically Isolated Microorganisms. Veterinary Research Communications, 24 (4): 229-238, 2000. Scott D.W., Miller W.H., Griffin C.E.: Small Animal Dermatology, 6th edn. Philadelphia, WB Saunders Co, 2000.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Mario Pasquetti - Università degli Studi di Torino - Facoltà di Medicina Veterinaria, Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO), Italia - Cell. 339/3837496 - E-mail: ma_rada@yahoo.it

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NEW DATA ON BIRD HAEMOPROTEIDS AND MICROFILARIAE IN EUROPEAN BLACKBIRD (TURDUS MERULA) IN TURKEY 1

G. Z. Pekmezci, PhD Asis 1, Y. E. Beyhan, PhD Asis 2, K. Erciyas, Ornithologist 1, S. Umur, Prof 1 Department of Parasitology, Faculty of Veterinary Medicine, University of Ondokuz Mayis, Samsun, Turkey 2 Ornithology Research Centre, University of Ondokuz Mayis, Samsun, Turkey Topic: Exotic Animals

Introduction. Blood parasites (hematozoa) are a heterogeneous group of organisms that typically live in the blood of the host during at least some of the stages of their development3. The species of Haemoproteus that infect birds are vector-transmitted intraerythrocytic parasites. They are some of the most common and widespread blood parasites of wild birds, yet their potential significance as disease agents in wild bird populations is largely unknown1. Filarioids are highly specialized nematode parasites of the tissues and tissue spaces of birds, mammals, amphibians, and reptiles. About 160 species are known from birds. Avian filarioids produce microfilariae that are either blood-borne or skin-inhabiting2. Description of the case. A European Blackbird was caught into ornithological mist nets by the Observation Station of authorities. Blood samples used for smears were collected from heart. The blood smears were air-dried, then fixed by absolute methanol, and dried again. Slides were then stained in Giemsa solution and at least 10 000 erythrocytes were examined for parasites (Trypanosoma spp., Haemoproteus spp., Plasmodium spp., Leucocytozoon spp., microfilariae) in a smear under magnification of x 10001, 2, 4. The genus and species of blood protozoa and the genus of microfilariae were determined upon their morphological traits according to Valkiunas (2005) and Bartlett (2008), respectively. Conclusions. Our findings of parasites from genus Haemoproteus morphologically matched with H. fallisi. H. fallisi is a parasite of species of the Passeriformes whose gametocytes grow along the nucleus of infected erythrocytes and never encircle the nucleus completely. Medium and fully grown gametocytes adhere both to the nucleus and envelope of erythrocytes. Dumbbellshaped gametocytes are absent or represent less than 10% of the total number of growing gametocytes. The nucleus in fully grown gametocytes is subterminal in position. Fully grown gametocytes do not fill the erythrocytes up to their poles. Pigment granules are of medium and sometimes small size, about 13 per gametocyte on average4. We identified Eufilaria spp. with its morphological characteristics. The sheath of microfilariae is absent, tail is sharply pointed and its length is =200 µm2. There were no reports in Turkey related to blood parasites which have been carried in the European Blackbird so far. H. fallisi and Eufilaria spp. are described for the first time in Turkey. Bibliography 1. 2. 3. 4.

Atkinson, CT. (2008). Haemoproteus. In, Atkinson CT, Thomas NJ, Hunter DB (Ed): Parasitic Diseases of Wild Birds. 1st ed. pp: 13–35, Blackwell Publishing. Bartlett, CM. (2008). Filarioid Nematodes. In, Atkinson CT, Thomas NJ, Hunter DB (Ed): Parasitic Diseases of Wild Birds. 1st ed. pp: 439–463, Blackwell Publishing. Hauptmanová, K., Benedikt, V., Literák, I. (2006). Blood parasites in passerine birds in Slovakian East Carpathians. Acta Protozool. 45: 105–109. Valkiunas G. (2005). Avian Malaria Parasites and Other Haemosporidia. CRC Press, Boca Raton, Florida, pp: 936.

Corresponding Address: PhD Asis Gokmen Zafer Pekmezci - University of Ondokuz Mayis Department of Parasitology, Faculty of Veterinary Medicine, Kurupelit, Samsun, 55139, Turkey - Phone +903623121919 - +903623121919 - E-mail: zpekmezci@omu.edu.tr

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VANTAGGI DELL’ELETTROCHEMIOTERAPIA NEL TRATTAMENTO DI ALCUNE NEOPLASIE ORALI DEL CANE E DEL GATTO R. Puleio, DVM1, G. Cassata, DVM1, A. Tamburello, BSc1, M. R. Schiavo, BSc1, G. R. Loria, PhD1, A. Poli, PhD2 1 Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia, Palermo, Italia 2 Dipartimento di Patologia Animale Profilassi ed Igiene degli Alimenti,Università di Pisa, Pisa, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. L’Elettrochemioterapia (ECT) può essere definita come l’applicazione locale di impulsi elettrici che rendono permeabili le cellule tumorali nei confronti dei farmaci chemioterapici. Una delle teorie più accreditate sul meccanismo dell’elettroporazione prevede che gli impulsi elettrici formino dei pori idrofillici responsabili del trasporto intracellulare del chemioterapico. I farmaci solitamente utilizzati sono la Bleomicina e il Cisplatino. Il primo, a causa delle sue dimensioni molecolari e delle caratteristiche fisico-chimiche, non riesce a diffondere attraverso la membrana cellulare se non legato ad una proteina “carrier” di membrana2. Tale meccanismo di assorbimento ha limitato ad oggi l’uso della Bleomicina. L’utilizzo in associazione all’elettroporazione facilita la sua diffusione e velocità di assorbimento1. Anche il Cisplatino dimostra una bassa capacità di penetrare la membrana cellulare; uno studio clinico ha dimostrato che l’uso di Cisplatino associato alla ECT aumenta la risposta al trattamento dal 19% al 82%3. Descrizione del caso. Sono stati selezionati 5 soggetti in cui era stata diagnosticata una neoplasia del cavo orale e in cui il trattamento chirurgico e/o chemioterapico, proposto dal veterinario curante, era stato rifiutato dal proprietario. I soggetti sono stati anestetizzati e la neoplasia misurata nei due diametri, per valutare la quantità di farmaco necessario. Quindi si procedeva all’infiltrazione, sia lungo i margini che per via intratumorale con Bleomicina (Bleomicina Nippon Kayaku 15 mg.) o Cisplatino (Cisplatino Teva 10 mg.), rispettando le norme previste per la sicurezza dell’operatore. Il volume delle neoplasie è stato valutato secondo la formula V= ab²p/6, dove “a” è il diametro maggiore del nodulo e “b” quello minore; mentre la dose di farmaco da inoculare è stata calcolata secondo la formula 0.25-1 ml/cm³, a seconda del volume della neoplasia1. Dopo cinque minuti veniva applicata l’elettroporazione, attraverso l’uso di un elettrodo (Cliniporator, Igea) costituito da una doppia fila di tre aghi distanti 4 mm. Tale elettrodo veniva inserito nella massa neoplastica e permetteva l’invio degli impulsi elettrici (scariche di 8 impulsi della durata di 100 microsecondi, 1000 volt di ampiezza e frequenza 5 kHz). Viste le dimensioni di alcuni noduli neoplastici (>1 cm³) sono state effettuate diverse applicazioni con l’elettrodo (fino a 22) per coprire l’intera superficie del tumore. La ECT è stata ripetuta ogni 14 giorni per un totale di tre trattamenti. L’efficacia del trattamento ed eventuali effetti collaterali sono stati valutati nei giorni successivi e con controlli clinici mensili. Conclusioni. I soggetti trattati con l’ECT non hanno sviluppato effetti collaterali dovuti al trattamento. L’efficacia del trattamento è stata valutata dopo quattro settimane dall’ultima ECT, in accordo alle direttive del WHO. Tutti i soggetti hanno mostrato un miglioramento dopo il primo trattamento, che si evidenziava con una migliore prensione e masticazione del cibo ed assenza di sanguinamento. Le biopsie seriali di ciascun caso, hanno evidenziato marcata risposta infiammatoria, mediata da linfociti e plasmacellule. In tutti i casi si è ottenuta una remissione parziale, corrispondente ad una riduzione dell’80-90% della neoplasia nei primi tre soggetti, mentre negli altri due la regressione del tumore è stata del 60%. L’ECT è una tecnica efficace che ha dimostrato una bassa tossicità e facilità di applicazione e che in alcuni casi selezionati potrebbe essere risolutiva, anche come unico trattamento; mentre in altri in associazione alla chirurgia pre o post ECT potrebbe ridurre la possibilità di recidiva del tumore. Nel nostro studio l’ECT ha permesso il controllo, se non l’eradicazione della neoplasia. In conclusione l’ECT rappresenta una ulteriore opzione terapeutica nel trattamento delle neoplasie orali del cane e del gatto che permette un obiettivo miglioramento della qualità di vita del paziente a fronte di limitati rischi tossicologici. Bibliografia 1.

2. 3. 4. 5.

Mir L., Sersa, Collins, Garbay, Billard, Geertsen, Z. Rudolf, O’Sullivan and M. Marty. Standard operating procedures of the electrochemotherapy: Instructions for the use of bleomycin or cisplatin administered either systemically or locally and electric pulses delivered by the CliniporatorTM by means of invasive or non-invasive electrodes. European Journal of Cancer Supplements. Volume 4, Issue 11, November 2006, Pages 14-25. Pron G, Belehradek J Jr, Orlowski S, Mir LM. Involvement of membrane bleomycin-binding sites in bleomycin cytotoxicity.. Biochem Pharmacol. 1994 Jul 19;48(2):301-10 Sersa G, Stabuc B, Cemazar M, Miklavcic D, Rudolf Z. Electrochemotherapy with Cisplatin: the systemic antitumor effectveness of Cisplatin can be potentiated locally by the application of electric pulses in the treatment of malignant melanoma skin metastates.. Melanoma Res. 2000 Aug;10(4):381-5. Spugnini EP, Baldi F, Mellone P, Feroce F, D’Avino A, Bonetto F, Vincenzi B, Citro G, Baldi A. Patterns of tumor response in canine and feline cancer patients treated with electrochemotherapy:preclinical data for the standardization of this treatment in pets and humans. J Transl Med. 2007 Oct 2;5:48. Tounekti O, Belehradek J Jr, Mir LM. Bleomicin is an antineoplastic agent capable of mimicking apoptosis.. Bull Cancer. 1994 Dec;81(12):1043-9.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Roberto Puleio - Istituto Zooprofilattico della Sicilia, Via Gino Marinuzzi 3, 90129 Palermo (PA), Italia E-mail: vetmed2001@alice.it

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CHEMOTHERAPY IN A YOUNG FEMALE DOG WITH A GENITAL TVT F. A. Rossi, DVM1, F. Cian, DVM1, F. Bassini, DVM1, A. Poli, DVM, PhD2 1 Libero professionista - Clinica Veterinaria Tergeste, Trieste, Italy 2 Dipartimento di Patologia Animale, Profilassi e Igiene degli Alimenti, UniversitĂ degli studi di Pisa, Pisa, Italy Topic: Oncology Introduction. A one-year old, entire female mixed breed dog was referred with a three weeks history of severe strangury and hematuria. The dog was previously treated with antibiotics and anti-inflammatory drugs with no response. Description of the case. The manual inspection of the internal vulva and vagina showed the presence of small multiple masses (1 to 5 cm of diameter), as confirmed by ultrasound. Using FNA transmissible venereal tumor (TVT) diagnosis was made. The subject was immediately treated with vincristine (0,75 mg/m2 iv) and gained improvement in 2 days. The dog received five more doses, once a week, until the total remission was obtained. During the treatment, clinical and ultrasound examination showed a gradual reduction in size of the lesions. Response to vincristine chemotherapy was excellent, leading to complete neoplasm regression without relapse after 5 months (the dog is still checked montly). Results of CBC, biochemical analysis, and urinalysis were normal throughout the chemotherapy and adverse effects were not detected. Conclusions. Response of TVT to vincristine chemotherapy is comparable to previously described protocols, without apparent toxicity. The improvement is very quickly achieved with satisfaction of the owner. TVT is seen more frequently in young free roaming, sexually active dogs and remains a problem in areas where mating of dogs is not under control. Therefore TVT has to be considered in differential diagnosis in case of young, not spayed, dogs arriving from kennels of the South of Italy, with genital bleeding and /or external genital lesions. Bibliography Marconato, Del Piero, Oncologia medica dei piccoli animali, Poletto Editore, 2005, 436-439. Marcos R, Santos M, Marrinhas C, Rocha E., Cutaneous transmissible venereal tumor without genital involvement in a prepubertal female dog, Vet Clin Pathol. 2006 Mar;35(1):106-9. Nak D, Nak Y, Cangul IT, Tuna B., A Clinico-pathological study on the effect of vincristine on transmissible venereal tumour in dogs., J Vet Med A Physiol Pathol Clin Med. 2005 Sep;52(7):366-70.

Corresponding Address: Dott.ssa Fulvia Ada Rossi - Clinica Veterinaria Tergeste, Via D'Alviano 86/2, 34144 Trieste (TS), Italia Tel. 040/3480845 - E-mail: fulviaadarossi@gmail.com

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DUE CASI DI LINFOMA FELINO TRATTATI CON PREDNISONE, L-ASPARAGINASI ED INTERFERONE UMANO S. Salvi, DVM, MSc Libero professionista, Terno d’Isola, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Il linfoma è la neoplasia più comune nel gatto, rappresentando il 33% di tutti i tumori. La forma più comune è quella alimentare, seguita dalle forme mediastinica, renale, multicentrica, epatica, cutanea e centrale. La terapia antineoplastica prevede solitamente la somministrazione di chemioterapici in mono o polichemioterapia. Una delle principali problematiche in questo tipo di approccio terapeutico è la scarsa compliance dei proprietari e la poca collaboratività dei pazienti felini. Descrizione del caso. Nell’ottobre 2009 venivano riferiti al consulto oncologico due gatti con diagnosi istologica di linfoma. Nerone, gatto comune europeo di 9 anni di età, manifestava da mesi algia agli arti posteriori, dimagramento e maggior sedentarietà. L’esame ecografico aveva evidenziato una grave linfoadenomegalia dei linfonodi sottolombari. La biopsia istologica, effettuata successivamente, aveva dato esito di linfoma. Nello stesso periodo, Romea, gatta femmina comune europea, di 10 anni di età, era stata valutata dai veterinari curanti per poliuria e polidipsia e, durante un esame ecografico effettuato per indagare questa problematica, era stata evidenziata una massa intestinale a livello di digiuno, associata a lieve versamento peritoneale. Romea era stata sottoposta ad enterectomia del tratto intestinale interessato dalla massa e linfadenectomia del linfonodo satellite che risultava aumentato di volume. L’esito dell’esame istologico era stato di linfoma per entrambi i campioni. Ai proprietari di entrambi i gatti è stato proposto un protocollo polichemioterapico che avrebbe richiesto una somministrazione farmacologica settimanale per almeno 6 mesi. I proprietari non hanno accettato la terapia considerando l’iter terapeutico troppo stressante per i propri animali, in particolare venivano visti con preoccupazione i viaggi in macchina settimanali per giungere alla clinica (entrambi i proprietari vivevano fuori città). È stata quindi proposta una terapia alternativa che avrebbe consentito ai proprietari di somministrare i medicinali a casa, ad eccezione di una iniezione sottocutanea mensile che sarebbe stata effettuata dalla veterinaria curante. In particolare il protocollo consisteva in: L-asparaginasi ogni 4 settimane al dosaggio di 400 UI/kg per via sottocutanea, interferone alfa 2 umano al dosaggio di 2 milioni di unità /m2 per via sottocutanea ogni giorno per due mesi e prednisone 40 mg/m2 per via orale giornalmente per poi scalare fino a cessarne la somministrazione nell’arco di cinque mesi. Dopo 2 mesi dall’inizio della terapia, i due gatti sono stati sottoposti a valutazione ecografica di controllo. Nerone risultava in remissione completa con dimensioni linfonodali ritornate normali, oltre ad una remissione completa della sintomatologia algica. Romea risultava in buone condizioni generali e l’esame ecografico dell’addome non aveva evidenziato alterazioni di nessun tipo, con mantenimento della normale stratigrafia intestinale e dimensioni linfonodali nella norma. Gli esami ematologici erano normali in entrambi i pazienti. A distanza di sei mesi dalla diagnosi, entrambi i pazienti risultavano ancora in remissione completa. Nel caso di Romea, la poliuria, probabilmente per via del prednisone, era rimasta inalterata nelle prime settimane per poi ridursi fino alla normalizzazione con la cessazione della terapia cortisonica. Conclusioni. Il linfoma è una delle neoplasie maggiormente responsive ai protocolli chemioterapici, tuttavia tali terapie risultano sempre di difficile accettazione da parte dei proprietari. L-asparaginasi è un chemioterapico ampiamento utilizzato nella terapia del linfoma ed ha il vantaggio di essere facilmente manipolabile e ben tollerato, dati gli scarsi effetti collaterali che può avere sia sull’operatore che sul paziente. L’interferone umano è stato recentemente introdotto nella terapia oncologica veterinaria per la sua attività antiangiogenetica e stimolatrice del sistema immunitario, dando dei buoni risultati sia nel cane che nel gatto. Questo protocollo terapeutico è stato efficace nel controllo della neoplasia, risultando agevole e poco stressante per proprietari e pazienti, in quanto le iniezioni sottocutanee di interferone e le pastiglie di prednisone venivano somministrate dai proprietari stessi. I protocolli polichemioterapici sono la scelta d’elezione per la terapia del linfoma, tuttavia nei casi in cui i proprietari rifiutino l’approccio terapeutico standard perché considerato troppo stressante e/o dispendioso, si potrebbe proporre un protocollo alternativo, basato su farmaci ben tollerati e di facile impiego, come quello descritto. Bibliografia A.K. LeBlanc et al. Effects of L-Asparaginase on Plasma Amino Acid Profiles and Tumor Burden in Cats with Lymphoma. J Vet Intern Med 2007;21:760–763. T. A. Cave et al.Veterinary and Comparative Oncology, 2, 2, 91–97(2004) Feline epitheliotrophic T-cell lymphoma with paraneoplastic eosinophilia immunochemotherapy with vinblastine and human recombinant interferon a2b Gastrointestinal Lymphoma in Cats. Sandra Grover, DVM Compendium october 2005. Rowan J. et al Response rates and survival times for cats with lymphoma treated with the university of winsconsin-madison chemoterapy protocol: 38 casi (19962003). JAVMA vol 227, No 7, Oct 1, 2005.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Scilla Salvi - Ambulatorio Veterinario, Via Roma, 45, 24030 Terno d’Isola (BG), Italia Tel. 035904737 - Cell. 3478890913 - E-mail: scillasalvi@yahoo.it

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UN CASO DI OSTEOSARCOMA SCHELETRICO FELINO: FORMA MULTICENTRICA O METASTATICA MULTIPLA? S. Salvi, DVM, MSc1 M. Beccati, DVM, PhD, Specializzazione patologia dei piccoli animali1,2 1 Libero professionista, Terno d’Isola, Italia 2 Facoltà di Medicina Veterinaria, Dip. Produzione, Epidemiologia, Ecologia. Sez. Parassitologia-Micologia, Torino, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. L’osteosarcoma è la neoplasia ossea più comune nel cane e nel gatto, con prevalenza della forma appendicolare. Nel gatto l’età media è 10.2 anni e sono più frequentemente colpiti gli arti posteriori. In letteratura è riportata una buona prognosi per la forma appendicolare, se trattata con la sola amputazione, con una sopravvivenza media compresa tra 16 e 64 mesi e un tasso metastatico inferiore al 10%. Le sedi metastatiche più colpite sono i polmoni, ma sia nell’uomo che nel cane, è descritta la tendenza allo sviluppo di metastasi ossee. In umana viene inoltre descritta una rarissima forma di osteosarcoma con coinvolgimento osseo multiplo. Descrizione del caso. Nel luglio 2007 una gatta femmina sterilizzata di 10 anni, di razza comune europea, viene portata alla visita clinica per una zoppia anteriore destra, associata a forte algia a livello della spalla. L’esame radiografico rivela la presenza di una massa ossea dell’epifisi prossimale dell’omero. Gli esami radiografici del torace e l’ecografia addominale non evidenziano metastasi visibili. Viene effettuata una biopsia ossea in anestesia generale, con esito istologico di osteosarcoma. Si procede all’amputazione completa di scapola ed omero. Considerando i dati favorevoli riportati in letteratura sulla prognosi di osteosarcoma appendicolare felino trattato con la sola amputazione, si decide di non procedere con terapia adiuvante. Tuttavia, dopo otto mesi la gatta viene riportata alla visita clinica per difficoltà respiratorie. Le radiografie toraciche evidenziano un pattern nodulare a carico dei lobi caudali, compatibile radiograficamente con lesioni metastatiche. Viene iniziato un protocollo palliativo in monochemioterapia con carboplatino al dosaggio di 240 mg/m2 per via endovenosa, ogni tre settimane. Dopo i primi due cicli, durante i quali la gatta sembra giovare di un miglioramento della respirazione, si evidenzia un peggioramento delle condizioni cliniche generali. In particolare la gatta appare dolorante e restia al movimento; tutti i tre arti risultano edematosi, caldi e dolenti. Vengono effettuate radiografie ossee a tutti gli arti con evidenziazione di proliferazioni periostali irregolari diffuse associate ad aree di osteolisi a carico di radio ed omero anteriori sinistri, e di tarsi e metatarsi posteriori di entrambi gli arti. I proprietari rifiutano le biopsie e, date le condizioni cliniche del paziente, richiedono l’eutanasia. Dopo la morte del paziente viene effettuato l’esame autoptico, con conferma della presenza di una massa nel lobo polmonare caudale destro, oltre a lesioni nodulari miliari diffuse ad entrambi i lobi caudali. In sede autoptica vengono prelevati campioni per l’analisi istologica dei tre arti e delle lesioni polmonari. In tutti i casi l’esito istologico è di osteosarcoma. Conclusioni. La prognosi infausta a breve termine e il comportamento biologico metastatico rendono atipico questo caso di osteosarcoma appendicolare felino. Inoltre, si tratta della prima descrizione di un coinvolgimento osseo multiplo di osteosarcoma nel gatto. In medicina umana è descritta una rara forma di osteosarcoma multicentrico con coinvolgimento osseo multiplo, non associato, almeno nelle fasi iniziali, a coinvolgimento metastatico viscerale. Questa patologia prende nome di Osteosarcoma Multicentrico, ammettendo nella definizione stessa uno sviluppo, contemporaneo o non, di lesioni multiple primarie e non di una forma metastatica secondaria ad una neoplasia primaria. Il caso in esame, per via dell’interessamento polmonare, sarebbe da considerarsi una forma metastatica multipla piuttosto che una forma multicentrica, tuttavia il coinvolgimento polmonare potrebbe anche essere successivo alle lesioni ossee multiple che non erano state valutate radiograficamente fino al momento dell’esacerbazione dei sintomi clinici.Il protocollo chemioterapico è stato ben tollerato, tuttavia è risultato poco efficace sul controllo del tumore, confermando la scarsa efficacia della terapia medica nei casi di osteosarcoma già metastatici, come già dimostrato nel cane. Da questo caso clinico si evince che l’osteosarcoma appendicolare felino, come già dimostrato nel cane e più ampiamente nell’uomo, può metastatizzare anche a livello osseo, suggerendo l’introduzione di esami radiografici e/o scintigrafici nel protocollo stadiativo di questa neoplasia. Infine, la terapia esclusivamente chirurgica si è rivelata inefficiente nel controllo della neoplasia, suggerendo anche nel gatto, come nel cane, la necessità di un approccio multimodale. Bibliografia Liu S et al. Primary and secondary bone tumours in the cat. J Sm Anim Pract 1974;15:141-56. Quigley PJ et al. Tumors involving the bone in the domestic cat: a review of fifty-eight cases. Vet Path 1983;20:670-86. Bittetto V et al. Osteosarcoma in cats: 22 cases (1974-1984). J Am Vet Med Assoc 1:91-93, 1987. Heldmann Eet al. Feline osteosarcoma: 145 cases (1990-1995). J Am Anim Hosp Assoc 36:518–521, 2000. Eileen H et al. Feline Osteosarcoma: 145 Cases (1990-1995) Am Anim Hosp Assoc 2000;36:518-21. Argyris G. et a.l Diffuse Calcification of Metastases after Intensive Multiagent Chemotherapy in Widespread Osteosarcoma Leading to Death in a 18-Year-Old Male. Medical Oncology, vol. 23, no. 4, 455-462, 2006.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Scilla Salvi - Ambulatorio Veterinario, Via Roma, 45, 24030 Terno d’Isola (BG), Italia Tel. 035904737 - Cell. 3478890913 - E-mail: scillasalvi@yahoo.it

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PYOMETRA IN GUINEA PIG (CAVIA PORCELLUS) 1

K. Sarges Silva, DVM MSc1, W. Pereira, PhD2, L. Araújo, DVM1 Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS), Ananindeua/Para, Brazil 2 Universidade Fedetal Rural da Amazônia, Belem/Para, Brazil Topic: Exotic Animals

Introduction. Pyometra is established as a result of hormonal changes. The thickened uterus with fluids secreted create an ideal environment in which bacteria can grow. Additionally, high progesterone levels inhibit the ability of the muscles in the wall of the uterus to contract (Fontbonne, 2004). Treatment should be fast and aggressive because the females may develop sepsis and endotoxemia (Johnson, 1994). In guinea pigs seems to be a low incidence of pyometra, since there is no published clinical reports of disease in this species. Subclinical presentation and rapid course of the disease difficults diagnosis in rodents (Harkness & Wagner, 1989). The animal facility of the Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS) maintains a plantel of this species for reproduction. It is the first case reported and proven of pyometra in the female group. This report aims to demonstrate the possibility of pyometra in guinea pigs and contribute to the literature on reproductive diseases that affect the species. Description of the case. A female of guinea pigs (Cavia porcellus) from animal facility of the Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS) (Ananindeua-PA-Brazil), maintained in breeding, was found in prostration and starvation, presenting abdominal areas with purple color suggesting hypostasis by prolonged decubitus. The animal was separated, supportive treatment with fluid therapy and antibiotics (oxytetracycline) was started, but the animal died less than 24 hours after the observation of symptoms. Necropsy was performed to identify the cause of death. On examination the uterus observed cornual vessels congested and distended and hyperemic horns present in the lumen contents of brownish color in small amounts, and endometrium mucosa with whitish color. The histopathological examination of the uterus demonstrated the myometrium and endometrial vessels significantly dilated by the presence of blood, the endometrial glands were reduced in number, some slightly dilated with macrophages in the lumen. The luminal epithelium was mostly destroyed presenting desquamated epithelial cells and numerous polymorphonuclear cells and bacterial colonies. In another cut of the same body, there was coagulative necrosis of most glandular epithelial cells, demonstrating necrotizing pyometra as final diagnosis. Both ovaries showed several 3rd follicles, some 1rd and 2rd follicles and some follicles with degeneration of the granular layer. Histopathology showed the vagina body with coagulative necrotic reaction of the epithelium, associated with infiltration of polymorphonuclear cells in the outermost layer of the epithelium. The vaginal lumen was large desquamation of the epithelium cells, along with filamentous debris and macrophages, colonies of bacteria, which led to the diagnosis supplementary necrotizing bacterial vaginitis. Conclusions. In female guinea pig immediate observation of behavior change is a key factor when in breeding. The pyometra in this female might have resulted from recent abortion was not observed because the animal was mated and also because was observed myometrium and endometrial vessels significantly dilated with blood. The appearance of pyometra is related to the patient’s age, number of estrous cycles, but also with ovarian changes present (Oliveira, 2007). Bacterial infection is a secondary condition in which bacteria from the vagina are the most likely sources of infection of the uterus, the cervix and ascending into the uterus during estrus (Costa et al., 2007). In guinea pigs, vaginitis is not uncommon and is usually due to accumulation of dirty and wet bed material in the vagina (Sirois, 2008). Although pyometra is a rare disease in guinea pigs, females maintained for breeding has two main implications that there may be occurrence of reproductive disorders: the mating of females in mature age and obese female pregnancy (Andrade et al., 2002; Terril et al., 2000). This report has shown that the vaginitis in guinea pigs can develop pyometra resulting in a reproductive problem to be observed in this species. Bibliography Andrade A, Pinto CP, Oliveira RS. Animais de laboratório: criação e experimentação. Rio de Janeiro, Editora Fiocruz, 2002. Costa RG, Alves ND, Nóbrega RM, Carvalho CG, Queiroz IV, Costa THM, Pereira R HM, Soares HS, Feijo FMC. Identificação dos Principais Microrganismos Anaeróbios Envolvidos em Piometras de Cadelas. Acta Scientiae Veterinariae, 35, 650-651, 2007. Fontbonne A. Patologie infettive dell’apparato riproduttivo (1a e 2a parte). Proceedings of 48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC, Rimini, 2004. p 161. Harkness JE, Wagner JE. The biology and medicine of rabbits and rodents. 3rd. Philadelphia, ed. Lea and Febiger, 1989. Johnson CA. Hiperplasia endometrial cística/piometrite. In: Nelson RW & Couto CG. Fundamentos de medicina interna veterinária de pequenos animais. Rio de Janeiro, Guanabara Koogan, 1994. Sirois, M. Medicina de Animais de Laboratório. Princípios e Procedimentos. São Paulo, Roca, 2008. Oliveira KS. Complexo Hiperplasia Endometrial Cística. Acta Scientiae Veterinariae, 35, 270-272, 2007. Terril LA, Clemons DJ, Wagner JE. Laboratory Animal Medicine and Science – Series II. Guinea pigs: Noninfectious Diseases. Seattle, American College of Laboratory Animal Medicine, 2000.

Corresponding Address: Dr. Klena Sarges - Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS), BR 316, km 07, s/n, 6703000 Ananindeua/Para, Brazil Phone 55 91 32142070 - Mobile 55 91 88077525 - E-mail: klenasilva@iec.pa.gov.br

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DERMATOSI ATIPICA NEL CONIGLIO DA COMPAGNIA (ORYCTOLAGUS CUNICULI) S. Silvetti, DVM1, C. Gelmini, DVM2 Libero Professionista, Miasino (No), Italia 2 Libero Professionista, Amb. Veterinario Vallecamonica, Darfo Boario Terme (Bs), Italia 1

Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La dermatologia del coniglio è da sempre stata studiata, in Medicina Umana, come modello per la fisiologia e la patologia cutanea o per lo studio di test carcinogenetici, tossicologici, di fototossicità. Poco però si è fatto sinora, per lo studio della Clinica dermatologica vera e propria del coniglio da compagnia. Le patologie cutanee del coniglio sono convenzionalmente raggruppate in: comportamentali, metaboliche, traumatiche, parassitarie, infettive e neoplastiche. Spesso mute eccessive sono confuse con problemi dermatologici poiché nei conigli domestici si assiste a massicce perdite di pelo che lasciano scoperte più o meno ampie aeree di cute alopecica. Questi episodi non sono presenti nelle popolazioni di conigli selvatici e sembrano essere dovuti alla selezione delle razze e varietà presenti sul mercato. Descrizione del caso. Nel Novembre del 2007 si presenta alla visita semestrale per il richiamo vaccinale, una coniglia femmina sterilizzata, di circa 3 anni di età. Alla visita si riscontra rarefazione del pelo, poca forfora a carico delle orecchie, dorso naso e contorno occhi, non si segnala prurito; le lesioni risalivano all’Aprile precedente. Sono state trattate da un Collega con terapia topica a base di econazolo e per os con itraconazolo, non correttamente somministrato. Dopo la visita sono stati eseguiti una coltura micotica su DTM e raschiati cutanei, risultati negativi. Su sospetto di una iniziale infestazione atipica di Sarcoptes, si inizia una terapia a base di Ivermectina a 300 µg/kg ed applicazioni di Clorexydina al 4% giornaliere. Viene riferito un leggero miglioramento. A Febbraio 2008 si assiste ad un peggioramento delle lesioni con estensione delle aree in precedenza coinvolte. Si eseguono nuovi raschiati, scotch test e tricogrammi risultati negativi. Si decide di eseguire delle biopsie cutanee a livello della superficie esterna dei padiglioni auricolari, alla base delle orecchie e regione dorsale del tronco. Il referto riferisce di una dermatite cronica linfocitaria da perivascolare a interstiziale con atrofia follicolare e fibrosi, anche se non si riconosce un pattern ben definito. Viene consigliato di indagare sull’esposizione a sostanze irritanti ambientali, allergie, problemi interni quali timoma o linfoma renale. Si decide di cambiare luogo di detenzione del coniglio; viveva in gabbia e su cemento e viene spostato su una superficie tipo linoleum, le terapie vengono interrotte. Si rivede la paziente a Maggio 2008 per un aggravamento ed una estensione delle aree alopeciche che si estendono a tutto il dorso con presenza di eritema e prurito, nonostante gli esami collaterali negativi si decide di insistere con la terapia per Cheyletiella abbinando la terapia topica (Neoforactil®) con quella sistemica con Ivermectina al dosaggio di 500 µg/kg; si assiste solo ad un iniziale miglioramento. Passati circa 60 giorni e visto il continuo progredire delle lesioni, si ripetono le biopsie in diverse aree (padiglione auricolare, dorso del naso, scapola) e si esegue un prelievo ematico per un esame emocromocitometrico, emobiochimico ed elettroforetico del siero. Gli esami ematobiochimici sono risultati entro i parametri di riferimento, i risultati dell’esame elettroforetico sono di difficile interpretazione vista la scarsità di campioni analizzati in quel Laboratorio. Il referto bioptico parla di stadi evolutivi diversi, la localizzazione dell’infiltrato non è sempre la stessa e complica quindi l’interpretazione. Sembra che l’infiltrato abbia come sede preferenziale la regione media del follicolo, sede delle ghiandole sebacee dove è situata la zona istmica. La diagnosi potrebbe pertanto essere compatibile con follicolite linfocitaria dell’istmo (pseudopelade) e conseguente coinvolgimento secondario delle ghiandole o con una adenite sebacea a diversi stadi evolutivi, non si esclude inoltre possa trattarsi di una dermatite linfocitaria a causa sconosciuta suggerendo indagini collaterali che peraltro erano già state suggerite nella diagnosi precedente. Conclusioni. Questo caso vuole porre l’attenzione su un’area della medicina del coniglio domestico che spesso viene un po’ sottovalutata, credendo che i disturbi dermatologici siano sempre riconducibili ad eziologie che, anche se piuttosto frequenti, non rappresentano la totalità. Il caso conduceva ad un vasto diagnostico differenziale: dermatite micotica, dermatite parassitaria, muta anomala, adenite sebacea, sindrome paraneoplastica. L’esito delle biopsie ha evidenziato una importante flogosi linfocitaria come causa dell’alopecia. I referti però, non sono riusciti a classificare con chiarezza questa sindrome dermatologica che potrebbe non avere precedenti in letteratura. Sfortunatamente non è stato possibile seguire il caso con successivi approfondimenti o terapie (ciclosporina, cortisonici) a causa del decesso del paziente per cause traumatiche. Ringraziamenti. Si ringrazia il prof. Paola Roccabianca, il prof. Francesca Abramo, il prof. Francesco Albanese ed il Laboratorio S. Marco. Bibliografia F. Harcourt-Brown, Textbook of Rabbit Medicine, Elsevier Science, 2002. J. W. Carpenter, Exotic Animal Formulary, III Ed Elsevier Inc., 2005. J. R. Jenkins, The Veterinary Clinics of North America, Dermatology, May 2001, pp 543-565.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Sergio Silvetti, Via Per Armeno, 1, 28010 Miasino (NO), Italia Tel. 0322/980907 - Cell. 340/1441276 - E-mail: sergio.silvetti@gmail.com

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POSTER I poster sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore. Posters are listed in alphabetical order by surname and then in chronological order of presentation.


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MASTOCITOSI SISTEMICA IN UN CANE M. Annoni, Med. Vet., W. Bertazzolo, Med. Vet.,DECVCP, C. Pacchioni, Med. Vet. Liberi professionisti, Clinica Veterinaria Tibaldi, Milano, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Il termine mastocitosi sistemica (MS) indica una forma viscerale, rara nel cane e molto più frequente nel gatto, caratterizzata dal coinvolgimento di midollo osseo, milza, fegato e sangue da parte di mastociti neoplastici.1,2,6,7 I sintomi che ne derivano sono ascrivibili al rilascio dei mediatori chimici in essi contenuti. I cani affetti da MS presentano, alla visita clinica, letargia, anoressia, vomito e perdita di peso, cui si associano riscontri clinici quali splenomegalia, epatomegalia e pallore delle mucose apparenti. In questi soggetti l’esame completo del sangue mette di solito in evidenza fenomeni di citopenia con o senza presenza di mastociti circolanti.2 Nel cane la MS è normalmente il risultato di una disseminazione sistemica di una forma aggressiva cutanea primaria, sebbene raramente possa essere presente in forma di sindrome indipendente1-7, come qui di seguito riportato. Descrizione del caso. Un cane Maltese, femmina, sterilizzata, di 14 anni, veniva riferita per abbattimento, anoressia, poliuria e feci molli presenti da qualche settimana. L’esame obbiettivo generale evidenziava algia addominale con cifosi, T 39.4°C e sensorio depresso. Tutti i linfonodi esplorabili apparivano di piccole dimensioni, nessuna neoformazione a livello cutaneo e sottocutaneo era apprezzata alla palpazione. L’esame ematochimico evidenziava mastocitemia modesta (1-2%), mentre un’esame citologico eco-guidato dimostrò un’invasione di mastociti ben differenziati anche a livello epato-splenico. Radiograficamente il torace appariva nella norma. Un aspirato midollare riportava la presenza di una discreta percentuale (8-10%) di mastociti ben differenziati. Alla luce dei riscontri clinico-patologici si emetteva diagnosi di mastocitosi sistemica, senza la presenza di evidenti mastocitomi primari in altre sedi. Si iniziava la somministrazione di prednisone ed un inibitore tirosin-chinasico (masitinib a 12,5 mg/kg/sid per os), con rapido miglioramento delle condizioni generali del cane e scomparsa di sintomi quali apatia e vomito. Ad un mese di distanza dall’inizio della terapia, nonostante il miglioramento clinico, l’esame ematochimico di controllo evidenziava una marcata anemia ed un importante incremento della fosfatasi alcalina. I mastociti circolanti apparivano notevolmente ridotti in quantità (0.2%), e l’esame ecografico riscontrava una riduzione volumetrica della milza. I puntati splenici ed epatici venivano ripetuti, evidenziando minima presenza di mastociti, quindi indicando una parziale regressione. A tutt’oggi, dopo 2 mesi dall’inizio della terapia con masitinib e prednisone, la mastocitosi continua a mantenersi in fase stazionaria. Conclusioni. Negli ultimi anni è stato dimostrato che mutazioni del protoncogene c-kit influiscono sull’eziopatogenesi dei mastocitomi canini4. Risultati incoraggianti sono stati pubblicati sull’uso degli inibitori delle chinasi nel trattamento dei mastocitomi di II e III grado non operabili o recidivanti e non metastatici, con un accertato rallentamento della crescita tumorale.5,3 A nostra conoscenza però, non sono presenti in letteratura ne pubblicazioni ne altri casi clinici riportati di cani trattati con masitinib in corso di mastocitosi sistemica, così come rarissima è anche la patologia riscontrata. La scelta di un protocollo chemioterapico a base di un inibitore selettivo della tirosina-chinasi e prednisone, si è rivelata particolarmente adatta, permettendo una remissione temporanea della malattia. Il peggioramento dell’anemia durante il trattamento potrebbe essere ascrivibile a danno midollare o ipoplasia midollare conseguente all’infiltrazione mastocitaria. Alcuni autori riportano un’incidenza di anemia emolitica del 2,5% in cani in terapia con masitinib5; nel nostro caso però, l’anemia non era emolitica. L’incremento della fosfatasi alcalina invece, a nostro avviso è riconducibile al trattamento con corticosteroidi a lungo termine. La stadiazione effettuata non ha permesso di accertare l’origine della MS. Il dubbio che la patologia possa essere sorta primariamente a livello midollare piuttosto che splenico od epatico, lascia adito a nuovi approfondimenti ed analisi. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Thamm DH and Vail DM. Mast Cell Tumors. In: Withrow S, MacEwen E. Small Animal Clinical Oncology, 4thed.; 2007:402-424. G Couto: Principali neoplasie del cane e del gatto. In:RW Nelson e CG Couto Medicina interna del cane e del gatto 2nd ed.;2002:1081-1084. Albanese F e Marconato L. Tumori rotondocellulari. In:Oncologia medica dei piccoli animali;2005:208-221. Marconato L., Bettini G et al: Clinicopathological features and Outcomes for Dogs with Mas Cell Tumors and Bone Marrow Involvement. JVIM 2008;22:1001-1007. KA Hahn, G Ogilvie Et al:Masitinib is Safe and Effective for the Treatment of Canine Mast Cell Tumors. JVIM 2008;1-9. Davies AP, Hyden DW, Klausner JS et al: Noncutaneous systemic mastocytosis and mast cell leukemia in a dog: case report and literature review, JAAHA 17:361-368, 1981. O’Keefe DA, Couto CG, Burke-Schwartz C, et al. Systemic mastocytoris in 16 dogs. JVIM 1987;1:75-80.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Maurizio Annoni - Clinica Veterinaria Tibaldi, Viale Tibaldi 66, 20136 Milano (MI), Italia Tel. 0258106826 - Cell. 3385629659 - E-mail: annoni.maurizio@gmail.com

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INVESTIGATION OF THE EFFECT OF ANESTHETIC,EUGENOL AND ETHER ON RAINBOW TROUT BLOOD GLUCOSE RATE IN RE-CIRCULATORY SYSTEM M. Behrooz, Student of veterinary medicine1, J. Mortezavi, PHD,Department of Aquatic Disease2, M. Rafie Saran, Student of Veterinary Medicine3 1 Student of veterinary medicine, Islamic Azad University, Tabriz Branch-Iran. Member of scientific association of veterinary group., Tabreez, Iran 2 Department of Aquatic Disease, Faculty of Veterinary Medicine, University of Islamic Azad, Tabriz Branch-Iran, Tabreez, Iran 3 Student of Veterinary Medicine, University of Islamic Azad, Tabriz, Iran. Member of young research Club, Tabreez, Iran Topic: Anaesthesia Introduction. Comparison of effect of super intensive breeding of fish in re-circulatory system against othersystems. Description of the case. This investigation was carried out to determine the effect of Anesthetic on 12 Rainbow Trout whilst under the influence of Eugenol and Ether and after recovery. Twelve Rainbow Trout with average weight of 250 +/- 10 gram were divided in to 4 groups. Group one was used as a controlled group and group 2 - 4 were used for testing purposed. Rainbow Trout in Group 2 - 4 were administered with 50mg lit-1, 150mg lit-1 and 250 mg lit-1 of Eugenol and then with 0.1ml lit-1, 0.3 ml lit1 and 0.6 ml lit-1 of Ether respectively. Two blood samples were taken from the group above group; one whilst under the influence of Anesthetic and the other after recovery and one blood sample was also taken from the controlled group.After separating Serum, glucose rate were measured/determine for each sample using Spectrophotometer, the result of which is shown in the below. Conclusions. Average Glucose rate was also measured for the control group to be 16.6 mg dl-1.The above statistical analysis was carried out using T-Test Analysis. In the studies, Graane et al (1963) and Schweizer et al (1967) observed that Ether has minimal effects on the blood glucose levels1,3. Holloway et al (2009) observed that fish significantly increased plasma cortisol and glucose levels after use of clove Oil and MS-222 (0/05>p)2. The Analysis of the above result shows that there is not much difference between the two sets of results using Eugenol and Ether.This also shows that the changes in Glucose rate were not significant in the Re-circulatory system. Bibliography 1. 2. 3. 4.

Greene NM.(1964) Inhalation anesthetics and carbohydrate metabolism.Postgrad Med J 40, 223. Holloway AC, Keene JL, Noakes DG et al.(2004) Effects of oil and ms-222 on blood hormone profiles in rainbow trout oncorhynchus mykiss, walbaum. Aqua Res J 35,1025-1030. Schweizer O, Howland WS, Sullivan C et al.(1967) The effect of ether and halothane on blood levels of glucose, pyruvate, lactate and metabolites of the tricarboxylic acid cycle in normotensive patients during operation. Anes J 28,814-822. Wagner GN, Singer TD, Mckinley RS.(2003) The ability of clove oil and ms-222 to minimize handling stress in rainbow trout(oncorhynchus mykiss walbaum). Aqua Res J 34,1139-1146.

Corresponding Address: Dr. Moein Behrooz, 57Th Edalat-Anahid Apartment, Gorgan/Golestan/4917846579, Iran Phone 01715530890 - Mobile 09380383500 - E-mail: moein_vet@yahoo.com

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LA PROSTATA NEL FURETTO: STUDIO ANATOMICO COMPARATIVO FRA SOGGETTI INTERI E STERILIZZATI P. Bo, dvm, spcaa1, D. Zambelli, dvm, ecar, prof ass2, N. De Sordi, Tecnico lab3, A. Grandis, dvm, ricercatrice3 1 Libero professionista, Bologna, Italia 2 Dipartimento Clinico Veterinario, Facoltà di Medicina Veterinaria, Bologna, Italia 3 Dipartimento di Morfofisiologia Veterinaria e Produzioni Animali, Facoltà di Medicina Veterinaria, Bologna, Italia Area di interesse: Animali esotici Scopo del lavoro. Nei Mustelidi, una delle patologie più frequenti è l’iperadrenocorticismo, o malattia surrenalica, la quale interessa in percentuale uguale sia i maschi sia le femmine. In particolare, nel maschio, poiché questa patologia determina un aumento di ormoni sessuali1, si può riscontrare in concomitanza una ipertrofia prostatica anche nei soggetti sterilizzati di oltre 2 anni di età2. La scarsità di dati riguardanti l’anatomia di questo animale e la presenza di informazioni errate riportanti addirittura l’assenza della prostata in questa specie, ha portato a sottostimare fino ai tempi più recenti le patologie prostatiche. Questo lavoro si propone quindi di svolgere uno studio anatomico macro- e microscopico della prostata in furetti interi e sterilizzati per rilevarne le loro eventuali differenze. Materiali e metodi. Per lo studio anatomico macroscopico sono stati impiegati un furetto maschio intero e quattro castrati, deceduti per patologie non riguardanti l’apparato urogenitale. Per evidenziare la topografia della prostata, su questi soggetti è stata effettuata una dissezione in decubito laterale destro con asportazione della parete laterale sinistra e dell’arto omolaterale. Tutte le osservazioni venivano documentate mediante fotocamera digitale e le immagini ottenute sono state elaborate al computer. Inoltre, sul soggetto intero e su due furetti sterilizzati, la prostata è stata immediatamente asportata e fissata in liquido di Bouin, disidratata, chiarificata, inclusa in paraffina e quindi tagliata in sezioni seriali di 10 micrometri. I vetrini così ottenuti sono stati colorati con tricromica di Masson e successivamente osservati al microscopio ottico. Risultati. L’indagine macroscopica ha consentito di evidenziare che la prostata è situata a partire dalla terminazione del collo della vescica e si estende per circa 15 mm caudalmente ad esso. Nel soggetto intero assume forma globosa, raggiungendo nel punto di massima ampiezza gli 8 mm di spessore ed i 6 mm di larghezza; nel soggetto sterilizzato presenta, invece, forma più affusolata con spessore e larghezza massimi di circa 5 mm. L’osservazione al microscopio ottico del soggetto intero ha consentito di dimostrare che la prostata compare cranialmente, in corrispondenza della superficie dorsale del collo della vescica, per espandersi poi lateralmente alla parte terminale e completarsi infine ventralmente ad essa, andando così a costituire un anello completo. Nel punto di suo massimo sviluppo risulta attraversata, nella sua parte dorsale, dalla terminazione nell’uretra dei due dotti deferenti. Più caudalmente, la ghiandola si riduce ed appare divisa in due porzioni, dorsale e ventrale, ad opera di tessuto connettivo e fasci muscolari che si dispongono lateralmente all’uretra. Si riduce poi progressivamente in senso dorso-ventrale, cosicché l’ultima porzione del parenchima si trova localizzata esclusivamente ventralmente all’uretra. Nel soggetto sterilizzato, la posizione della ghiandola, rispetto all’uretra, appare analoga a quella del soggetto intero, tuttavia il tessuto ghiandolare risulta considerevolmente ridotto anche nel punto di sua massima estensione. Conclusioni. La prostata nel soggetto intero, così come descritto da Jacob e Poddar3, risulta essere una ghiandola tubuloalveolare composta, circondata da uno stroma fibromuscolare da cui originano trabecole di diverse dimensioni che, a differenza del cane, suddividono il parenchima ghiandolare in lobuli irregolari. Non si nota, inoltre, una parte disseminata. Nel soggetto sterilizzato il tessuto ghiandolare è rappresentato da alcuni adenomeri tubuloalveolari disseminati nell’abbondante stroma fibromuscolare La maggior parte degli adenomeri mostra segni di regressione: epitelio più basso rispetto a quello del soggetto intero, lume ridotto e scarso contenuto di secreto. In conclusione, è ipotizzabile, quindi, che la limitata riduzione nel volume dalla ghiandola, osservata macroscopicamente, sia dovuta al fatto che, il tessuto ghiandolare viene sostituito, in parte, da connettivo. Bibliografia 1. 2. 3.

Brown SA - “Prostate Disease in Ferrets” Veterinary Information Network Inc, www.sciencedirect.com Accessed March 13, (2002). Lennox AM - “How I Manage Endocrine Disorders in Ferrets” in: NAVC Proceedings 2007, Internet Publisher: International Veterinary Information Service, Ithaca NY (www.ivis.org) (2007). Jacob S e Poddar S - “Morphology and histochemistry of the ferret prostate. Acta Anat 125 4: 268-273 (1986)

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Pierfrancesco Bo - Studio Veterinario Associato Dr. Bo - Dr. Genocchi, Via Della Libertà 5, 40059 Medicina (BO), Italia Tel. 051/857362 - E-mail: fraecol@libero.it

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MALASSEZIA IN CITOLOGIA AURICOLARE: PATOGENO O COMMENSALE? E. Chiavassa, DVM1, A. Vercelli, DVM1, M. Beccati, DVM, PhD2, M. Pasquetti, DVM3 M. G. Gallo, Biologo3, A. Peano, DVM, PhD3 1 Libero professionista, Torino, Italia 2 Libero professionista, Capriate S. Gervasio (Bg), Italia 3 Dip. Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia, Facoltà di Medicina Veterinaria, Torino, Italia Area di interesse: Dermatologia Scopo del lavoro. Malassezia pachydermatis è un lievito lipofilo potenziale causa secondaria/aggravante l’otite esterna nel cane, ma che può essere ritrovato anche in orecchie di animali sani. Per questo aspetto e la multifattorialità della patologia auricolare, spesso la valutazione della correlazione tra la popolazione di questo lievito e il segno clinico osservato risulta difficile. L’esame correntemente utilizzato è quello citologico, in cui si va a ricercare e conteggiare il numero di lieviti presenti per una valutazione semiquantitativa. Scopo del lavoro è stato quello di valutare il ruolo di Malassezia nell’otite esterna del cane contribuendo a validare i limiti semiquantitativi riconosciuti per attribuire un ruolo patogeno al lievito ritrovato in citologia auricolare. Materiali e metodi. Sono state valutate singolarmente orecchie (n= 136) di animali sani e orecchie (n= 150) di animali portati a visita per segni di otite. La gravità del processo patologico veniva valutata attribuendo un punteggio ad alcuni segni clinici/otoscopici (prurito, dolore, odore “cattivo”, eritema, cerume ecc.). Venivano effettuati tamponi auricolari poi rotolati su vetrini da microscopia. Questi venivano fissati alla fiamma e colorati con Hemacolor®. Si procedeva ad osservazione a 40 X per valutare il numero medio di lieviti (Malassezia) in 5 campi diversi. Veniva effettuata anche una valutazione della presenza di batteri patogeni tramite citologia e successiva coltura. Si è proceduto a valutare la presenza di Malassezia nelle due popolazioni studiate utilizzando due cut-off (5 e 10) proposti in letteratura per definire il limite di “normalità” del numero di lieviti auricolare. Per gli animali con otite è stata poi valutata la correlazione tra gravità della sovracrescita di Malassezia e i corrispondenti scores di gravità clinica. Risultati. Poche orecchie sane presentavano valori di Malassezia superiori ai limiti utilizzati: sei orecchie > 5 e tre > 10. Questi risultati conferivano alla valutazione citologica di Malassezia secondo i cut-off indicati un valore di specificità rispettivamente del 95,6 e 97,8%. Dato che Malassezia è considerata una causa secondaria di otite e che questa può dunque verificarsi (almeno inizialmente) senza una compartecipazione del lievito (o di altri agenti patogeni, come i batteri) è stato più difficile valutare quale limite presentasse anche la migliore sensibilità. Per questo calcolo abbiamo quindi valutato i cut-off in base alla risposta alla terapia specifica antimicotica in orecchie con otite e sola presenza di Malassezia (n= 52, le altre sono state escluse o perché non contenevano Malassezia o perché avevano altri agenti patogeni, considerati come fattori di confondimento dell’analisi). È stato valutato come, utilizzando il limite di 5, ci fosse una differenza statisticamente significativa nel numero di orecchie che contemporaneamente guariva clinicamente e vedeva scendere sotto il cut-off Malassezia, rispetto ad orecchie che mantenevano sia i sintomi clinici sia il lievito (Test Chi-quadro 4,79; p = 0,028). Tale significatività non era presente se il cut-off veniva spostato a 10 (Test Chi-quadro 2,60; p = 0,11). Per ciò che concerne la correlazione tra gravità della sovracrescita del lievito e gravità dei segni clinici, il test di Pearson non restituiva un esito statisticamente significativo (p = 0,17). Conclusioni. Tra i cut off studiati il migliore sembra essere quello di 5 lieviti per campo a 40X. È, infatti, un limite che permette di mantenere un’elevata specificità e sensibilità. Per la valutazione di quest’ultima si è ricorsi alla valutazione della correlazione guarigione Malassezia/ guarigione clinica. In pratica, in termini più semplici, se il cut-off passava da 5 a 10, non venivano più considerate con sovracrescita alcune (n= 6) orecchie che pure guarivano in modo correlato alla scomparsa del lievito. Questo dimostrava che anche un basso numero di lieviti (tra 5 e 10) poteva essere correlato con la patologia auricolare presente. Il possibile ruolo patogeno anche a basse cariche e la mancata correlazione tra gravità dei segni clinici e grado di sovracrescita di Malassezia stanno ad indicare che nella patogenesi di questa infezione il dato semiquantitativo è solo uno degli aspetti, e che, similmente a quanto ipotizzato in letteratura, ci può essere una ipersensibilità al lievito stesso che esita in sintomi clinici anche gravi. Per questo motivo anche il limite di 5 elementi per campo, che pure rappresenta una buona indicazione per il giudizio del clinico, dovrebbe sempre essere preso come dato indicativo ed associato a elementi clinici, anamnestici, di razza ecc. Sarebbe auspicabile in futuro provare ad applicare metodiche diagnostiche alternative a tecniche quantitative, come skintest, valutazione di IgE, di citochine infiammatorie ecc. Bibliografia Ginel PJ, Lucena R, Rodriguez JC, Ortega J. A semiquantitative cytological evaluation of normal and pathological samples from the external ear canal of dogs and cats. Veterinary Dermatology, 13, 151-156, 2002. Rosychuk RAW. Management of otitis externa. Veterinary Clinics of North America ; 24: 921–52, 1994. Rausch FE, Skinner GW. Incidence and treatment of budding yeast in canine otitis externa. Modern Veterinary Practice 59: 914-15, 1978. Scott DW, Miller WH, Griffin CE. Small Animal Dermatology, 6th edn. Philadelphia, WB Saunders Co, 2000.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Andrea Peano - Facoltà Medicina Veterinaria, Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO), Italia - E-mail: andrea.peano@unito.it

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TRANS EPIDERMAL WATER LOSS (TEWL) IN ATOPIC AND HEALTHY DOGS: A COMPARATIVE STUDY L. Cornegliani, dr. dip ECVD1, A. Vercelli, dr. dip CES Derm2, E. Sala, dr. PhD3 1 Ambulatorio veterinario associato, Torino, Italia 2 Ambulatorio veterinario associato, Torino, Italia 3 Università degli Studi di Milano, Milano, Italia Topic: Dermatology Purpose of the work. Trans epidermal water loss (TEWL) is defined as the volume of water that passes from inside to outside of the body through the epidermal layer. In people it has been used to evaluate skin barrier function in dermatological diseases. Higher is the TEWL, lower is the skin barrier function. Measurement of skin hydration is considered useful to monitorize human skin diseases, especially in eczema and allergic diseases. In canine atopic dermatitis TEWL is considered important factor of impaired barrier functions. For these reasons, the aim of this study was to compare TEWL in atopic and healthy dogs. Materials and used methods. 50 Atopic and 50 healthy dogs were included in the study. Diagnosis of atopic dermatitis was previously performed according to Willemse criteria and by exclusion of all other pruritic skin diseases. 50 atopic dogs (group A) were selected in absence of specific treatment for allergic disease; 50 healthy dogs (group B) were animal coming to our clinic for annual vaccination. Patients younger than 1 year or older than 10 years were excluded. The clinical study was done in wintertime from December 2009 to February 2010. TEWL measurements were performed on the left ear, without clipping, with a Vapometer® SWL-3 (Delfin Technologies Ltd) and they were carried out by a single operator in nonclimate-controlled room. Room condition was stable at 22-23°C ambient temperature and 45% ambient relative humidity. All the animals were acclimated at least 60 minutes. Calculations were executed with SPSS (vs 17). As the distribution of TEWL was not Normal, we used Mann-Whitney test to compare two groups and a P-value < 0.05 was considered to be significant. Kruskal -Wallis test was applied to compare dogs’ gender, breed. Outcomes. The P-value resulted 0,0000<0,05 for TEWL groups (A and B), while for gender and breed was >0,05. The means of two TEWL groups resulted: 22,47 (group A, 95% confidence interval for mean was 20,85-24,09), 8,81 (group B, 95% confidence interval for mean was 8,09-9,52). Conclusions. In humans with atopic dermatitis, TELW, as a marker of barrier function, was already four-folds increased in lesional skin, compared to normal skin. In our study we obtained similar results between groups A and B. It has been reported that TEWL varies during the day and the body side of measurements. On the other hand ears are been previously identified as the best side of the body to take data, because of low variability of measurements. Further studies are required to evaluate the importance of TEWL measurements in dogs with allergic skin diseases. The P-values <0,05 and the great difference between the two groups suggest skin hydration should be controlled in dogs with skin diseases. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5.

Oh WS, Oh TH: Measurement of trans epidermal water loss from clipped and unclipped anatomical sites on the dog. Australian Veterinary Journal, 87 (10): 409-412, 2009. Shimada K, Yoshihara T, Yamamoto M, Konno K, Momoi Y,Nishifuji K, Iwasaki T: Transepidermal water loss (TEWL) reflects skin barrier function of dog. Journal of Veterinary Medical Science 70 (8): 841-843, 2008. Proksch E, Folster-Holst R, Jensen JM: Skin barrier function, epidermal proliferation and differentiation in eczema. Journal of Dermatological Science, 43: 159-169, 2006. Yoshihara T, Shimada K, Momoi Y, Konno K, Iwasaki T: A new method of measuring the trans epidermal water loss (TEWL) in dos skin. Journal of Veterinary Medical Science 69 (3): 289-292, 2007. Lau-Gillard PJ, Hill PB, Chesney CG, Budleigh C, Immonen A: Evaluation of a hand-held evaporimeter (VapoMeter®) for the measurement of trans epidermal water loss in healthy dogs. Veterinary Dermatology 3. (on line in advance of print), 2009.

Corresponding Address: Dott.ssa Luisa Cornegliani, C.so Traiano 99/d, 10135 Torino (To), Italia - Cell. 338/8536035 - E-mail: lcornegliani@libero.it

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UN CASO DI LIPOBLASTOMA IN UN CANE R. Finotello, DVM, MRCVS1, V. Marchetti, DVM, PhD, SPCAA1, G. Baroni, DSc2, F. Dini, DVM1, S. Citi, DVM, SRV1, A. Poli, DVM, DECVP3, S. Dilollo, MD2 1 Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa, Pisa, Italia 2 Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica Sezione di Anatomia Patologica, Università degli Studi di Firenze, Italia 3 Dipartimento di Patologia Animale, Profilassi e Igiene degli Alimenti, Università di Pisa, Pisa, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Il lipoblastoma è un tumore raro, benigno che origina da tessuto adiposo uniloculare embrionale, descritto in medicina umana quasi esclusivamente in neonati e bambini. L’80-90% dei casi si manifesta prima dei 3 anni di età. Presenta un’eccellente prognosi data la tendenza a non metastatizzare o invadere strutture adiacenti, mostrando però alta frazione di accrescimento e raggiungendo grandi dimensioni. Il trattamento d’elezione è una chirurgia completa ma conservativa con basso tasso di recidiva locale1. Tale patologia può presentare difficoltà diagnostiche per similitudini con liposarcoma mixoide. In medicina veterinaria esiste ad oggi una sola segnalazione in un vitello2. Descrizione del caso. Un cane meticcio di 10 anni, femmina intera, 16 kg di peso corporeo, body condition score 7/9, era riferito per distensione addominale presente da 3 mesi e ingravescente, abbattimento, anoressia, e vomito ricorrente. All’esame fisico si rilevavano polipnea, mucose anemiche e una massa addominale, dai limiti indefinibili, che ne modificava il profilo. Esame emocromocitometrico e profilo biochimico completo evidenziavano leucocitosi con leucogramma da stress, severa anemia normocitica e normocromica, iposideremia, moderata ipoglicemia e severo aumento della fosfatasi alcalina. Profilo coagulativo ed esame delle urine non mostravano alterazione alcuna. All’esame ultrasonografico dell’addome si osservava una lesione a complex mass occupante quasi interamente la cavità addominale. Si osservava idronefrosi del rene destro con dilatazione dell’uretere ipsilaterale per compressione. Il preparato citologico da biopsia eco-guidata appariva paucicellulare, con numerosi nuclei nudi, vacuoli lipidici, alcune cellule fusate talvolta multinucleate contenenti vacuoli rotondi, con moderata anisocariosi e nucleoli prominenti. Si formulava sospetto di liposarcoma. Lo studio radiografico del torace nelle 3 proiezioni standard non evidenziava anomalie. In sede laparotomica veniva asportata una massa cerebroide, di 5 kg, originante dal legamento sospensore dell’ovaio. Per aderenza tra massa e rene destro, veniva eseguita nefrectomia. Nel periodo post-operatorio le condizioni del soggetto miglioravano rapidamente e i valori emato-biochimici rientravano nei limiti di normalità. All’esame istopatologico si evidenziava proliferazione cellulare costituita prevalentemente da adipociti maturi con pleomorfismo dimensionale senza evidente atipia nucleare. A forte ingrandimento erano riconoscibili alcuni lipoblasti. La neoplasia era immersa nel contesto di sottile stroma reticolinico e mixoide, e saltuariamente sepimentata da tralci di collageno denso. Si emetteva diagnosi differenziale (DD) di liposarcoma mixoide e lipoblastoma. Poiché in termini prognostici le diagnosi possibili erano significativamente diverse, veniva eseguito un approfondimento istochimico (IC) ed immunoistochimico (IHC). Sezioni rappresentative della lesione erano sottoposte ad IC ed IHC in parallelo con sezioni di lipoma maturo e liposarcoma mixoide. Per IC si utilizzava colorazione Masson Tricromica, Van Gieson ed Alcian Blu pH 2,5. Con Masson Tricromica, e Van Gieson era confermata la presenza di tralci di collagene, con Alcian Blu si rilevavano depositi di mucopolisaccaridi acidi (AMPS) nello stroma mixoide. Lipoma maturo e liposarcoma mixoide presentavano: assenza di collagene e AMPS il primo, assenza di collagene ed abbondante e diffusa presenza di AMPS il secondo. Per l’indagine IHC veniva utilizzato un pannello comprendente l’anticorpo anti-CD31 (clone 1A10), anti-Ki67 e anti-EPO-r. Nel caso in esame, la proliferazione neoplastica era sostenuta da un ricco pattern vascolare di tipo plessiforme (anti-CD31) e indice di proliferazione (anti Ki-67) inferiore al 5% (1-2/10 HPF). Nello stroma mixoide si evidenziavano piccoli focolai di ematopoiesi extramidollare (anti-EPO-r.). Il lipoma maturo presentava piccoli capillari ematici, assenza di emopoiesi e di documentabile indice di proliferazione, mentre il liposarcoma mixoide mostrava una ricca vascolarizzazione, assenza di emopoiesi ed indice di proliferazione elevato. Le indagini IC e IHC in associazione ai dati morfologici permettevano di emettere diagnosi conclusiva di lipoblastoma. A 6 mesi dalla chirurgia il soggetto si presentava in buone condizioni generali e senza evidenza di recidiva o malattia a distanza. Conclusioni. Questo lavoro rappresenta la prima segnalazione di lipoblastoma nel cane, neoplasia benigna descritta in pazienti umani fino ai 3 anni di età. La DD di questa neoplasia è il liposarcoma mixoide, dal quale viene differenziata mediante IC e IHC. Nel nostro caso, trattandosi di paziente anziano e senza precedenti segnalazioni in letteratura, è risultato particolarmente importante l’ausilio di tecniche diagnostiche avanzate per discriminare tra 2 neoplasie con outcome sensibilmente diverso. L’importante risentimento sistemico del soggetto può essere imputato ad una diagnosi tardiva, e può riflettere un processo cronico sia per l’iposideremia che per il profilo ematologico. Ulteriori approfondimenti sarebbero opportuni per chiarire il meccanismo patogenetico responsabile dell’ipoglicemia. Bibliografia 1. 2.

Saifzadeh S et al. (2007) Congenital lipoblastoma in a neonate calf: first report in veterinary literature. Vet Dermatol, 18(2):130-3. Kok KY et al. (2010) Lipoblastoma: Clinical Features, Treatment, and Outcome. World J Surg, in press.

Indirizzo per corrispondenza: Riccardo Finotello, DVM, MRCVS - Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa, Via Livornese lato monte 56122 San Piero a Grado (Pisa) (PI), Italia - Tel. 050/2210119 - Cell. 333/9090654 - E-mail: finotello@vet.unipi.it

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DERMATOSI ATIPICA NEL CONIGLIO DA COMPAGNIA (ORYCTOLAGUS CUNICULI) S. Silvetti, DVM1, C. Gelmini, DVM2 Libero Professionista, Miasino (No), Italia 2 Libero Professionista, Amb. Veterinario Vallecamonica, Darfo Boario Terme (Bs), Italia 1

Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La dermatologia del coniglio è da sempre stata studiata, in Medicina Umana, come modello per la fisiologia e la patologia cutanea o per lo studio di test carcinogenetici, tossicologici, di fototossicità. Poco però si è fatto sinora, per lo studio della Clinica dermatologica vera e propria del coniglio da compagnia. Le patologie cutanee del coniglio sono convenzionalmente raggruppate in: comportamentali, metaboliche, traumatiche, parassitarie, infettive e neoplastiche. Spesso mute eccessive sono confuse con problemi dermatologici poiché nei conigli domestici si assiste a massicce perdite di pelo che lasciano scoperte più o meno ampie aeree di cute alopecica. Questi episodi non sono presenti nelle popolazioni di conigli selvatici e sembrano essere dovuti alla selezione delle razze e varietà presenti sul mercato. Descrizione del caso. Nel Novembre del 2007 si presenta alla visita semestrale per il richiamo vaccinale, una coniglia femmina sterilizzata, di circa 3 anni di età. Alla visita si riscontra rarefazione del pelo, poca forfora a carico delle orecchie, dorso naso e contorno occhi, non si segnala prurito; le lesioni risalivano all’Aprile precedente. Sono state trattate da un Collega con terapia topica a base di econazolo e per os con itraconazolo, non correttamente somministrato. Dopo la visita sono stati eseguiti una coltura micotica su DTM e raschiati cutanei, risultati negativi. Su sospetto di una iniziale infestazione atipica di Sarcoptes, si inizia una terapia a base di Ivermectina a 300 µg/kg ed applicazioni di Clorexydina al 4% giornaliere. Viene riferito un leggero miglioramento. A Febbraio 2008 si assiste ad un peggioramento delle lesioni con estensione delle aree in precedenza coinvolte. Si eseguono nuovi raschiati, scotch test e tricogrammi risultati negativi. Si decide di eseguire delle biopsie cutanee a livello della superficie esterna dei padiglioni auricolari, alla base delle orecchie e regione dorsale del tronco. Il referto riferisce di una dermatite cronica linfocitaria da perivascolare a interstiziale con atrofia follicolare e fibrosi, anche se non si riconosce un pattern ben definito. Viene consigliato di indagare sull’esposizione a sostanze irritanti ambientali, allergie, problemi interni quali timoma o linfoma renale. Si decide di cambiare luogo di detenzione del coniglio; viveva in gabbia e su cemento e viene spostato su una superficie tipo linoleum, le terapie vengono interrotte. Si rivede la paziente a Maggio 2008 per un aggravamento ed una estensione delle aree alopeciche che si estendono a tutto il dorso con presenza di eritema e prurito, nonostante gli esami collaterali negativi si decide di insistere con la terapia per Cheyletiella abbinando la terapia topica (Neoforactil®) con quella sistemica con Ivermectina al dosaggio di 500 µg/kg; si assiste solo ad un iniziale miglioramento. Passati circa 60 giorni e visto il continuo progredire delle lesioni, si ripetono le biopsie in diverse aree (padiglione auricolare, dorso del naso, scapola) e si esegue un prelievo ematico per un esame emocromocitometrico, emobiochimico ed elettroforetico del siero. Gli esami ematobiochimici sono risultati entro i parametri di riferimento, i risultati dell’esame elettroforetico sono di difficile interpretazione vista la scarsità di campioni analizzati in quel Laboratorio. Il referto bioptico parla di stadi evolutivi diversi, la localizzazione dell’infiltrato non è sempre la stessa e complica quindi l’interpretazione. Sembra che l’infiltrato abbia come sede preferenziale la regione media del follicolo, sede delle ghiandole sebacee dove è situata la zona istmica. La diagnosi potrebbe pertanto essere compatibile con follicolite linfocitaria dell’istmo (pseudopelade) e conseguente coinvolgimento secondario delle ghiandole o con una adenite sebacea a diversi stadi evolutivi, non si esclude inoltre possa trattarsi di una dermatite linfocitaria a causa sconosciuta suggerendo indagini collaterali che peraltro erano già state suggerite nella diagnosi precedente. Conclusioni. Questo caso vuole porre l’attenzione su un’area della medicina del coniglio domestico che spesso viene un po’ sottovalutata, credendo che i disturbi dermatologici siano sempre riconducibili ad eziologie che, anche se piuttosto frequenti, non rappresentano la totalità. Il caso conduceva ad un vasto diagnostico differenziale: dermatite micotica, dermatite parassitaria, muta anomala, adenite sebacea, sindrome paraneoplastica. L’esito delle biopsie ha evidenziato una importante flogosi linfocitaria come causa dell’alopecia. I referti però, non sono riusciti a classificare con chiarezza questa sindrome dermatologica che potrebbe non avere precedenti in letteratura. Sfortunatamente non è stato possibile seguire il caso con successivi approfondimenti o terapie (ciclosporina, cortisonici) a causa del decesso del paziente per cause traumatiche. Ringraziamenti. Si ringrazia il prof. Paola Roccabianca, il prof. Francesca Abramo, il prof. Francesco Albanese ed il Laboratorio S. Marco. Bibliografia F. Harcourt-Brown, Textbook of Rabbit Medicine, Elsevier Science, 2002. J. W. Carpenter, Exotic Animal Formulary, III Ed Elsevier Inc., 2005. J. R. Jenkins, The Veterinary Clinics of North America, Dermatology, May 2001, pp 543-565.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Sergio Silvetti, Via Per Armeno, 1, 28010 Miasino (NO), Italia Tel. 0322/980907 - Cell. 340/1441276 - E-mail: sergio.silvetti@gmail.com

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UN CASO DI DIROFILARIOSI NODULARE CUTANEA IN UN CANE IN AREA NON ENDEMICA G. Ghibaudo, Dott. Med. Vet.1, A. Vercelli, Dott. Med. Vet., Dipl. CES2, D. Falcioni, Dott. Med. Vet.3, L. Cornegliani, Dott. Med. Vet., Dipl. ECVD4 1 Libero Professionista, Fano, Italia 2 Ambulatorio Veterinario Associato, C.so Traiano 99/d, 10135, Torino, Italia 3 Ambulatorio Veterinario Dr. Gaudenzi, Via del Carso, 18, 61100, Pesaro, Italia 4 Ambulatorio Veterinario Associato, C.so Traiano 99/d, 10135, Torino, Italia Area di interesse: Dermatologia Introduzione. La dirofilariosi cutanea causata da Dirofilaria spp è occasionalmente riportata nel cane, e recentemente lo è stata in Italia centrale (Lazio, Toscana e Umbria). Nel cane, il ciclo parassitario è caratterizzato dal parassita adulto che vive nei noduli cutanei, mentre le microfilarie si trovano generalmente nel sangue periferico. Le zanzare del genere Aedes e Culex sono i principali vettori della parassitosi. Nei cani sono state riportare eruzioni pruriginose papulo-pustolari e dermatite ulcerative associate con microfilaremia cutanea. Le microfilarie si trovano sia nel sangue periferico sia nelle lesioni piogranulomatose dermiche. Gli adulti di Dirofilaria repens possono localizzarsi in modo ectopico a livello sottocutaneo e indurre lesioni nodulari. Lo scopo di questa comunicazione libera è riportare un caso di dirofilariosi nodulare cutanea in un’area non endemica dell’Italia centrale (Pesaro, Marche) in un cane. Descrizione del caso. Un cane di razza American Staffordshire Terrier, 8 anni di età, sesso femminile, è stato riferito alla visita clinica dermatologica. Il proprietario riportava la presenza di un nodulo sottocutaneo nell’area fronto-temporale della testa da circa 2 mesi. Il cane, all’esame obiettivo generale, appariva in buone condizioni cliniche. All’esame obiettivo particolare dermatologico, si evidenziava un nodulo, non dolente, ben circoscritto e di consistenza sodo-elastica delle dimensioni di 3,5 cm in diametro. Si eseguiva come primo esame complementare l’esame citologico per ago infissione. La citologia, allestita con colorazione Romanowsky modificata, evidenziava una popolazione cellulare di granulociti neutrofili e macrofagi, con alcune plasmacellule ed istiociti; in alcuni campi si evidenziavano microfilarie. Il sospetto diagnostico era di lesione nodulare sottocutanea da Dirofilaria spp. e si effettuava il test di Knott che però era negativo. Anche il test sierologico ELISA per Dirofilaria immitis (SNAP® filaria - IDEXX) era negativo. L’esame emocromocitometrico, le radiografie toraciche e l’ecocardiografia erano nei valori di riferimento. Si procedeva all’esame istopatologico della neoformazione, tramite escissione chirurgica completa della parte. Il campione, sezionato, era fissato in formalina al 10% ed inviato al laboratorio di referenza per essere allestito in ematosillina eosina. L’esame istopatologico evidenziava sezioni di un nematode adulto, compatibile con Dirofilaria spp, all’interno di una lesione piogranulomatosa; l’infiltrato dermico era principalmente caratterizzato da macrofagi, granulociti eosinofili e neutrofili, con alcuni linfociti e plasmacellule. Le colorazioni speciali, allestite con Ziehl-Neelsen e PAS non evidenziavano altri agenti patogeni. La diagnosi era di filariosi nodulare cutanea. Il cane riceveva cefalessina (ICFvet cpr, ICF) a 25 mg/kg/die per due settimane associato ad ivermectina 10 microgrammi/kg (Cardotek-30 PLUS, Merial) orale e selamectina 6 mg/kg (Strongold, Pfizer) spot on. La somministrazione degli antiparassitari veniva ripetuta mensilmente durante tutta la stagione estiva, e si indicava al proprietario di applicare la selamectina mensilmente tutto l’anno. Il cane è stato seguito per oltre un anno, dopo l’escissione chirurgica nel nodulo, e non si sono verificate recidive o nuove lesioni dermatologiche. Conclusioni. La filariosi cutanea nel cane è raramente riportata nelle Marche, anche se negli ultimi anni le segnalazioni in merito sono in aumento. Le variazioni climatiche ed i viaggi degli animali al seguito dei proprietari, rendono necessaria una maggiore sorveglianza clinica ed un trattamento farmacologico preventivo per tutti i cani in considerazione anche del rischio zoonosico di tale malattia. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Pampiglione S, Rivasi F, Angeli G, Boldorini R, Incensati RM, Pastormerlo M, Pavesi M, Ramponi A: Dirofilariasis due to Dirofilaria repens in Italy, an emergent zoonosis: report of 60 new cases. Histopathology. 38(4):344-54, 2001. Scaramozzino P, Gabrielli S, Di Paolo M, Sala M, Scholl F, Cancrini G. Dog filariosis in the Lazio region (Central Italy): first report on the presence of Dirofilaria repens. BMC Infect Dis., 26;5:75, 2005. Mortarino M, Musella V, Costa V, Genchi C, Cringoli G, Rinaldi L.: GIS modeling for canine dirofilariosis risk assessment in central Italy. Geospat Health. 2(2):253-61, 2008. Fioretti DP, Diaferia M, Grelloni V, Maresca C. Canine filariosis in Umbria: an update of the occurrence one year after the first observation of autochthonous foci. Parassitologia. 45(2):79-83, 2003. Tarello W. Dermatitis associated with Dirofilaria (Nochtiella) repens microfilariae in dogs from central Italy Acta Vet Hung. 50(1):63-78, 2002. Rossi L, Ferroglio E, Agostini A. Use of moxidectin tablets in the control of canine subcutaneous dirofilariosis. Vet Rec. 150(12):383, 2002. Cringoli G, Rinaldi L, Veneziano V, Capelli G. A prevalence survey and risk analysis of filariosis in dogs from the Mt. Vesuvius area of southern Italy. Vet Parasitol. 13;102(3):243-52, 2001.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Giovanni Ghibaudo, Via A. De Gabrielli, 19, 61032 Fano (PU), Italia - Tel. 0721-805792 - Cell. 340/1577480 - E-mail: gioghi1@alice.it

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RISULTATI DELL’INDAGINE SULL’OBESITÀ DI CANI E GATTI IN ITALIA G. Febbraio, Med Vet, Phd1; M.C., Crosta, Med Vet2; S. Giussani, Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF3; G. L. Manara, Med Vet4; P.P. Mussa, Med Vet5; M. Petazzoni Med Vet6 1 Centro Veterinario Einaudi, Bari 2 Clinica Veterinaria Gran Sasso, Milano 3 Busto Arsizio (VA) 4 Trento 5 Dipartimento di Produzioni animali, epidemiologia ed ecologia, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Torino 6 Clinica Veterinaria Milano Sud, Peschiera Borromeo, Milano, Italia Area di interesse: Medicina interna Scopo del lavoro. L’obesità è definita un incremento del peso corporeo ad un livello superiore al normale per una determinata taglia e corporatura dell’animale: un valore pari o superiore al 15% rispetto al normale è generalmente considerato indice di sovrappeso mentre si parla di obesità quando il dato supera il 20%. In base ad uno studio condotto su cani e gatti da Hill’s, emerge che in Europa il tasso di sovrappeso ed obesità fisiologica è compreso tra 25 e 45%. Nel 2008 la Pet Obesità Task Force di Hill’s Pet Nutrition ha condotto un’indagine relativa alla situazione italiana grazie alla collaborazione di 144 Medici Veterinari equamente ripartiti sul territorio. Materiali e metodi. È stato esaminato un campione di 5521 animali, il 70% composto da cani ed il 30% da gatti, condotti nelle strutture mediche in seguito ad una visita di routine. Il campione osservato è stato giudicato esente da patologie organiche alla base di obesità patologica. La condizione corporea di ogni paziente è stata valutata attraverso il sistema Body Condition Score. Inoltre, il Medico Veterinario ha raccolto numerose informazioni compilando un questionario preformato: segnalamento (con particolare riferimento alla taglia), attività gonadica (castrazione/ sterilizzazione), stile di vita (appartamento, giardino, box), alimentazione (casalinga, industriale, mista). Risultati. La specie felina mostra una maggiore propensione all’eccesso di peso rispetto alla specie canina. In particolare è sovrappeso/ obeso il 46% dei gatti visitati contro il 36% dei cani. Il 57% dei cani possiede un peso ideale e il 10% è sottopeso. Le problematiche di sovrappeso ed obesità sono correlate alla taglia dell’animale: il 40% dei cani sovrappeso/ obesi sono di taglia media e il 33% di taglia grande. A seguire, circa il 30% sono di taglia piccola, il 26% di taglia gigante e il 23% toy. La castrazione e sterilizzazione sono fattori strettamente correlati al sovrappeso e obesità dell’animale. Il 79% dei gatti sono operati e, di questi, il 53% risulta essere sovrappeso/ obeso. Solo il 29% dei cani, invece, è stato sottoposto all’intervento ma, anche di questi, il 54% mostra evidenti segni di sovrappeso/ obesità. Altro fattore di rischio per sovrappeso e obesità è lo stile di vita “domestico”: il 50% dei gatti sovrappeso vive in appartamento e il 36% in giardino. Il 39% dei cani sovrappeso vive in appartamento, contro un 33% in giardino. Il tipo di alimentazione è determinante nella prevenzione dell’obesità. L’alimentazione industriale somministrata nelle giuste dosi, aiuta a prevenire sovrappeso e obesità. Nei cani, solo il 30% dei soggetti nutriti con alimentazione industriale ha problemi di sovrappeso ed obesità (contro un 64% che mantiene un peso ideale). La percentuale di sovrappeso/ obesità sale al 40% nei soggetti nutriti con alimentazione casalinga e al 47% nei soggetti trattati con alimentazione mista. Nella specie felina, i soggetti nutriti con alimentazione industriale mostrano un dato di sovrappeso/ obesità pari al 46% e un dato pari al 45% di peso ideale, contro un 38% di sovrappeso/ obesità nei soggetti nutriti con alimentazione casalinga e ben il 22% di sottopeso. Conclusioni. L’indagine svolta dalla Pet Obesità task Force italiana di Hill’s Pet Nutrition conferma che l’obesità negli animali da compagnia è un problema che rappresenta un fenomeno in crescita. A questo proposito è necessario un importante lavoro di sensibilizzazione e di informazione da parte dei Medici Veterinari. Formulare un corretto piano di razionamento e confermarlo mediante periodiche pesate di controllo dell’animale, non è sufficiente: è necessario realizzare anche una valutazione comportamentale. Bibliografia Laflamme D. Development and validation of a body condition score system for cats. A clinical tool. Feline Pract 1997; 25 (5-6): 13-8. Harper EJ, Stack DM, Watson TD, Moxham G, Effects of feeding regimens on bodyweight, composition and condition score in cats following ovariohystérectomie. J Small Anim Pract 2001; 42 (9): 233-8. Laflamme D.P., Kuhlman G., Lawler D.F. (1997) Evaluation of weight loss protocols for dogs, Journal of the American Animal Hospital Association, 33: 253259. Kienzle E., Berglery R. (2006) Human-Animal Relationship of Owners of Normal and Overweight Cats, American Society for Nutrition J. Nutr. 136: 1947S1950S. Marchesini R. (2004) L’identità del cane, Apeiron Editoria e Comunicazione S. r. l., Bologna. Sloth C. Pratical management of obesity in dogs and cats. J Small Anim Pratct 1992; 33: 178-82.

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COLICA DA COSTIPAZIONE IN UN ELEFANTE INDIANO (ELEPHAS MAXIMUS) P. Laricchiuta, Dr1,2, M. Campolo, Dr1,2, G. Svampa, Dr2,3, K. G. Friedrich, Dr4, C. Paolo, Dr5, D. Gelli, Dr6, F. Lomonaco, Dr7, O. Lai, Dr8 1 Centro Veterinario Einaudi, Gruppo CVIT, Bari, Italia 2 Zoo di Napoli, Napoli, Italia 3 Museo Civico di Zoologia di Roma, Roma, Italia 4 Fondazione Bioparco Roma, Roma, Italia 5 Giardino Zoologico di Pistoia, Pistoia, Italia 6 Dipartimento of Scienze Cliniche Veterinarie, Università di Padova, Padova, Italia 7 Libero Professionista, Bari, Italia 8 Dipartimento di Sanità Pubblica e Zootecnia, Università di Bari, Bari, Italia Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La costipazione, intesa come ritenzione prolungata di materiale fecale nel colon e nel retto, è frequentemente causa di colica nel cavallo e nell’elefante (Plummer, 2009). Qui viene descritto un caso di costipazione del grosso intestino in una femmina adulta di elefante indiano (Elephas maximus). Descrizione del caso. Una femmina di elefante indiano, età 30 anni, peso stimato 3500 kg, viene riferita allo staff veterinario per anoressia, abbattimento alternato ad eccitazione, masticazione della proboscide, atteggiamenti compatibili con dolore colico e riduzione della produzione di feci, molto secche nei giorni precedenti e totalmente assenti nelle ultime 24 h. Sulla base dell’anamnesi e delle condizioni cliniche, viene formulata una diagnosi di colica da costipazione. Il trattamento farmacologico iniziale ha seguito il protocollo terapeutico abitualmente adottato nella pratica clinica equina: flunixin-meglumine 1.1 mg/Kg q.i.d./t.i.d., N-butilbromuro di joscina/noramidopirina metansulfonato sodico 0.2 mg/kg t.i.d., ranitidina 1 mg/kg b.i.d. iniettati in siti differenti (Fyrial & Nayreen, 2007). Il giorno seguente lo stato clinico dell’animale risultava peggiorato, per cui si è deciso sedarlo per effettuare una visita clinica accurata e il trattamento della costipazione. L’animale è stato sedato con 400 mg di xilazina e 400 mg di ketamina (Fowler & Mikota, 2006. Durante la procedura i parametri valutati sono rimasti nella norma: temperatura rettale 37°C, frequenza cardiaca 40/min, frequenza respiratoria 20/min, riempimento capillare 2 sec. e colorito roseo delle mucose. Si è proceduto quindi alla fluidoterapia con Ringer’s lattato (catetere venoso da 14 G nella vena auricolare) contemporaneamente ad un clisma di 30 l di acqua mista a paraffina. Completate le procedure, l’animale è stato risvegliato antagonizzando la xilazina con atipamezolo (atipamezolo-xilazina 1:8; Swan, 1993). 4 g di ceftiofur i.m. ogni 24 ore per 3 giorni sono stati somministrati come copertura antibiotica, mentre si sono continuati flunixin meglumine s.i.d. per altri 3 giorni e ranitidina 1 mg/kg b.i.d. per altri 10, entrambi in compresse mescolate al cibo. Il giorno successivo alla sedazione l’animale ha iniziato a mangiare foraggio fresco e frutta dopo aver espulso poche feci, con normalizzazione dell’appetito nelle 48 h seguenti, contemporaneamente all’eliminazione di quantità adeguate di feci e completa remissione dei segni di dolore colico. I parametri ematologici e urinari rientravano nella norma, mentre le feci sono risultate negative per parassiti. Conclusioni. Parassiti, problemi dentari, elevato contenuto di fibra nella dieta, scarsità d’acqua e geofagia sono tutte cause predisponenti l’insorgenza di coliche nel cavallo (White, 2006) e nell’elefante (Du Toit, 2006). Soprattutto la somministrazione di fieno di buona qualità, insieme ad un’adeguata quantità di acqua disponibile per un numero sufficiente di ore, è considerata la misura profilattica più importante nella prevenzione della costipazione dell’elefante (Hatt & Causs, 2006). Anche la scarsità di esercizio viene riconosciuto come fattore predisponente per l’insorgenza di costipazione nel cavallo e nell’elefante (White, 2006), per cui l’exhibit dovrebbe sempre consentire adeguate possibilità di movimento all’animale in cattività (Thompson, 1996). Bibliografia Du Toit JG (2006) Veterinary problems of geographical concern, Section I-Africa. “Biology, Medicine and Surgery of Elephants”, Fowler & Mikota eds. Blackwell Publishing 439-444. Firyal S & Nayreen A (2007) Elephant as Veterinary Patient. Pakistan Vet J 27(1):48-54. Fowler ME & Mikota S (2006) Chemical Restraint and General Anesthesia. “Biology, Medicine, and Surgery of Elephants” Fowler & Mikota eds, Blackwell Publishing 91-118. Hatt JM & Clauss M (2006) Feeding Asian and African elephants Elephas Maximus and Loxodonta Africana in captivity. International Zoo Yearbook ZSL 40(1), 88-95 Plummer AE (2009) Impactions of the small and large intestines. Vet Clin North Am Equine Pract 25(2): 317-27. Swan GE (1993) Drug used for the immobilization, capture, and translocation of wild animals. “The Capture and care manual” Mc Kenzie ed, Wildlife decision Support Series & South African Veterinary Foundation 2-64. Thompson KV (1996) Behavioral development and play. “Wild mammals in captivity” Kleiman, Allen, Thompson, Lumpkin eds, The University of Chicago Press 352-371. White NA (2006) Equine Colic: II. Causes and risks for colic. Proceedings of the 52 Annual Convention of the American Association of equine practitioners.

Indirizzo per corrispondenza: Dr. Pietro Laricchiuta, Via V.V.Lenoci, 70126 Bari (BA), Italia - Cell. 3394482898 - E-mail: laris@libero.it

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TUMORI RENALI PRIMITIVI NEL GATTO: NON SOLO LINFOMA…! E. Lepri, DVM, PhD, DECVP, A. Dentini, DVM, M. Sforna, DVM, PhD, C. Brachelente, DVM, PhD, DECVP, I. Di Matteo, DVM, G. Vitellozzi, DVM, Prof Ord Dipartimento di Scienze Biopatologiche ed Igiene delle Produzioni Animali ed Alimentari Sezione di Patologia e Igiene Veterinaria. Facoltà di Medicina Veterinaria, Perugia, Italia Area di interesse: Oncologia Scopo del lavoro. I tumori renali primitivi nel gatto sono rari, ad esclusione del linfoma renale extranodale; una ricerca multiistituzionale statunitense del 1999 segnala soltanto 19 tumori renali non linfomatosi in un periodo di 6 anni. I tumori renali nei piccoli animali sono considerati maligni nel 90% dei casi. I rari tumori benigni possono essere rappresentati da adenomi, fibromi o emangiomi; tra i tumori maligni, il 50-70% è di origine epiteliale, il 20% mesenchimale e il 10% embrionale. I tumori renali mesenchimali descritti nella classificazione WHO sono i tumori del tessuto fibroso (fibroma-fIbrosarcoma) e i tumori vascolari (emangioma-emangiosarcoma). La prognosi è considerata riservata in relazione all’elevato tasso metastatico, valutato intorno al 64% in generale, che sale fino al 100% per i carcinomi transizionali. I tumori mesenchimali maligni (sarcomi) sono ritenuti avere una prognosi peggiore rispetto ai carcinomi; tuttavia i casi riportati nel gatto sono troppo pochi per poter trarre indicazioni prognostiche. Scopo del lavoro è descrivere alcuni casi di tumori renali primitivi del gatto, con particolare attenzione ai tumori mesenchimali, cercando di descrivere aspetti diagnostici e biologici di questi tumori di rara segnalazione. Materiali e metodi. Sono stati riesaminati i casi di biopsie e pezzi chirurgici renali di gatto inoltrate al laboratorio nel periodo 2005-2009. Risultati. Nel periodo in esame sono stati osservati 13 tumori renali primitivi non linfomatosi, tra cui 4 tumori epiteliali (un carcinoma transizionale, un carcinoma papillifero, un adenocarcinoma misto papillifero/a cellule chiare ed un carcinoma tubulare) e nove tumori mesenchimali, rappresentati da tre tumori a cellule fusate (fibroma-fibrosarcoma), tre sarcomi anaplastici, un emangiosarcoma, un leiomiosarcoma ed un osteosarcoma extrascheletrico. La raccolta anamnestica e di follow-up è stata difficoltosa e limitata dalla natura retrospettiva dello studio. In 3 casi la presentazione clinica era aspecifica con malessere, anoressia e dolorabilità addominale; in un solo caso era presente ematuria. In 2 casi il tumore renale è stato un reperto accidentale durante visite cliniche di routine. Le masse renali erano facilmente evidenziabili alla palpazione addominale in tutti i casi, variando in dimensioni tra 3 e 10 cm di diametro, ed in tutti i casi deformavano il profilo dell’organo (stadio T2). La terapia è stata chirurgica in tutti i casi, senza terapie adiuvanti pre o post chirurgiche. Nei casi in cui sia stato possibile raccogliere informazione relative al decorso, gli animali hanno ben superato la fase post-chirurgica, con la sola eccezione del soggetto con emangiosarcoma, deceduto una settimana dopo la nefrectomia. Nei casi in cui la causa di morte sia stata determinata, essa dipendeva dal tumore primitivo in due casi (sarcoma anaplastico con infiltrazione locale e osteosarcoma con metastasi peritoneali), con un ulteriore caso rappresentato da un reperto autoptico, in cui il tumore renale rappresentava verosimilmente la causa di morte (sarcoma anaplastico con metastasi polmonari); 2 soggetti godono attualmente di buona salute dopo 6-8 mesi dall’asportazione del tumore (entrambi con tumori a cellule fusate), e due soggetti sono stati persi al follow-up. Conclusioni. Il linfoma è il tumore renale più comune nel gatto; abbiamo tuttavia scelto di escluderlo dalla casistica in quanto caratterizzato da aspetti clinici, terapeutici e prognostici peculiari e non accomunabili agli altri tumori renali. Dalla seppur esigua casistica osservata risulta una prevalenza di tumori mesenchimali rispetto agli epiteliali; questo dato potrebbe comunque essere influenzato dal basso numero di casi osservati. Tra i tumori mesenchimali osservati, il più comune (3 casi) appare il tumore a cellule fusate (fibroma-fibrosarcoma), con singoli casi di emangiosarcoma, leiomiosarcoma e di osteosarcoma extrascheletrico, tumore renale estremamente raro se non eccezionale, con una singola segnalazione nel cane e nessuna, ad oggi, nel gatto. Tre casi di sarcoma anaplastico hanno mostrato un comportamento biologico peggiore rispetto ai tumori di diverso istotipo. Dalle poche indicazioni estrapolabili dalla casistica si potrebbe dedurre che la prognosi dei tumori renali mesenchimali primitivi non è del tutto sfavorevole dopo la sola asportazione chirurgica, con tempi di sopravvivenza di 6 mesi ed oltre. Tuttavia i casi riportati sono troppo pochi per consentire considerazioni prognostiche. La raccolta prospettica di una più ampia casistica corredata di informazioni anamnestiche e di follow-up complete sarebbe necessaria per chiarire gli aspetti biologici di questi tumori. Bibliografia Henry CJ, Turnquist SE et al. Primary renal tumors in cats: 19 cases (1992-1998). J Feline Medicine and Surgery. 1999, 1: 165-170. Marconato L, Del Piero F. Oncologia Medica dei Piccoli Animali. Poletto editore, 2005. Maxie M, Newman SJ. The Urinary System. In Maxie M (ed). Jubb, Kennedy and Palmer's Pathology of Domestic Animals. Elsevier, 2007. Meuten DJ. Tumors of the Urinary System. In Meuten DJ (ed). Tumors in Domestic Animals. Iowa state press, 2002. WHO Histological classification of the tumors of the urinary system of domestic animals. AFIP, Washington D.C., 2004.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Elvio Lepri - Facoltà di Medicina Veterinaria, Via San Costanzo, 4, 06126 Perugia (PG), Italia Tel 075/5857629 - Cell 338 3149889 - E-mail: elvio.lepri@unipg.it

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PREOPERATIVE NEOADJUVANT TREATMENT OF DIFFUSE MAMMARY ADENOCARCINOMA IN DOGS WITH DOXORUBICIN AND DOCETAXEL M.N. Yakunina, PhD, E.M. Treshalina, PhD, A.A. Shimshirt, MSc, Phd student, K.V. Lisitskaya, MSc, PhD student Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, the Russian Academy of Medical Sciences, Moscow, Russia Topic: Oncology Purpose of the work. Dogs with diffuse form of mammary tumors and inflammatory carcinoma are often presented to primary inspection in inoperable state1. Neoadjuvant therapy is treatment given prior to surgery to shrink a tumor that is inoperable in its current state, and also to prevent dissemination of tumor2. Neoadjuvant chemotherapy is the standard of care in human medicine for patients with locally advanced and inflammatory breast cancer3. Recently, the combination of doxorubicin and docetaxel was used for adjuvant treatment in dogs with mammary cancer4. The aim of the study was to investigate the the efficacy of neodjuvant, preoperative treatment with combination of doxorubicin and docetaxel in dogs with diffuse form of mammary tumors and inflammatory carcinoma. Materials and used methods. A study was undertaken which comprised sixteen dogs with diffuse form of mammary tumors and inflammatory carcinoma which were presented to the Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol» during the period from November 2008 to December 2009. The inoperability of mammary tumors was estimated on the basis of the size of the primary tumor, invasion in the underlying tissues and presence of skin metastases. The patients were divided into two groups: group 1 (n=10) consisted of dogs with diffuse form of mammary cancer and group 2 (n=6) with inflammatory carcinoma. The animals in the two groups received two doses of doxorubicin at a dosage of 20 mg/m2 and docetaxel at a dosage of 20 mg/m2 given as a IV infusion 21 days apart. The response to treatment was evaluated with use of standard WHO criteria5. Complete response (CR) was estimated as complete disappearance of all detectable tumor nodes for at least 4 weeks; partial response (PR) was assessed as 25-50% reduction in measurable tumor burden with no increase in the size of the other nodes; stabilization (S) was considered in case of 25% reduction/increase of the tumor, progression (P) – increase in the size of the tumor >25% or occurrence of the new lesions. Objective response (OR) was calculated as CR+PR. Histologic response to preoperative chemotherapy was estimated according to following criteria: I grade indicated no significant changes in tumor architecture; II grade – 50-75% of tumor cell have evidence of necrotic changes; III grade – necrosis of 75-99% tumor cell; IV grade – necrosis of 100% of the tumor. Outcomes. In group 1 OR was achieved in 6/10 (60%) cases, whereas CR was registered in one (10%) dog, and PR – in 5/10 (50%) dogs. Stabilization was observed in 4/10 (40%) cases. Progression of the disease was not documented. Of the ten tumors, one (10%) had grade-III response, four (40%) had grade-II responses. Little response (grade I) were presented in 4/10 tumors. Histologic evaluation revealed no IV grade response. In all cases operability of the tumours was achieved. In group 2 OR was not documented. All dogs developed disease progression. The increase in volume of tumour and occurrence of skin metastases were noted. In all cases operability of the tumours was not reached. Conclusions. The overall response to doxorubicin and docetaxel treatment in dogs with diffuse mammary cancer was achieved in 60% cases. We operability of the tumours was reached in all cases. These results allow us to recommend a preoperative neoadjuvant treatment with combination of doxorubicin and docetaxel in dogs with diffuse mammary cancer. This combination did not lead to any response in dogs with inflammatory carcinoma. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5.

Peña L, Dolores Perez-Alenza M, Rodriguez-Bertos A, Nieto A. Canine inflammatory mammary carcinoma: histopathology, immunohistochemistry and clinical implications of 21 cases.// Breast Cancer Research and Treatment 78: 141-148, 2003. Neoadjuvant therapy// National Cancer Institute. Bear H. D., Anderson S., Brown A. et al. The effect on tumor response of adding sequential preoperative docetaxel to preoperative doxorubicin and cyclophosphamide: preliminary results from national surgical adjuvant breast and bowel project protocol b-27// J. Clin. Oncol. 2003;22: 4165-4174. Simon D, Schoenrock D, Baumgartner W, Nolte I. Postoperative adjuvant treatment of invasive malignant mammary gland tumors in dogs with doxorubicin and docetaxel.// J Vet Intern Med 2006;20:1184-1190. Miller AB, Hoogstraten B, Staquet M, Winkler A. Reporting results of cancer treatment.// Cancer 1981;47:207-14.

Corresponding Address: Ms. Ksenia Lisitskaya - Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, Krasnoholmskaya Emb., 13-1-23, 115172 Moscow, Russia - Phone 74953249629 - Mobile 79037587088 - E-mail: lisksenia@mail.ru

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COMBINATION OF SURGERY AND INTERVENTIONAL MANAGEMENTS FOR TREATMENT OF CANINE AND FELINE MULTIFOCAL LIVER TUMORS 1

I. Vilkovyskiy, MSc, PhD student1,2, S. Kusenkov, MSc1, K. Lisitskaya, MSc, Phd student1, S. Kurinnova, BSc1 Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, the Russian Academy of Medical Sciences, Moscow, Russia 2 Agricultural faculty of Peoples’ Friendship University of Russia, Moscow, Russia Topic: Oncology

Purpose of the work. Hepatobiliary tumors are uncommon in dogs and cats, and can be primary or metastatic1. Surgery is considered to be an optimal treatment modality for liver tumors in small animal practice2. However, not many tumors can be surgically treated because of multifocal diseases. In human medicine most of surgically-ineligible patients have to receive a combination of surgery and interventional treatments (p.e. cryotherapy, percutaneous ethanol injection, local ablation, chemoembolization). This combination can improve the survival rate of patients with multifocal hepatobiliary tumors3. The aim of this study was to determine outcome in dogs and cats treated with combination of surgery and interventional managements for liver tumors and compare survival times of either unilateral or multifocal operatively treated liver tumors. Materials and used methods. The study comprised 40 dogs and cats with primary and metastatic liver tumors who underwent operative treatment. The animals were presented to the veterinary clinic «Biocontrol» during the period from January 2002 till January 2010. Of the 40 cases, 5 were cats and 35 were dogs. The animals were allocated into 2 groups. Group 1 (n=21) with 1-2 affected liver lobes received liver lobe resection. Group 2 (n=19) with multifocal tumors involving more then 2 liver lobes received a combination of lobe resection and other local techniques, including sclerotherapy and cryotherapy. Sclerotherapy was made with 95% ethanol via a 21-gauge needle under ultrasonographic guidance in summary dosage of 0,5 ml/kg body weight. Cryotherapy protocol included two freeze-thaw cycles for 15 minutes each procedure. Liver tissue samples were submitted for microscopic examination. Data were analyzed to determine and compare rates of tumor control and survival time. Survival time was calculated from the time of surgery to death or termination of the study period. Kaplan-Meier survival analysis with log rank was used to compare survival in animal with 1-2 affected lobes or multiple diseases. Outcomes. The mean age at presentation for all dogs was 8.6 years (range 7 to 14 years), and for cats 14.3 years (range 8 to 16 years). Primary liver tumors were diagnosed in 23/40 cases (57.5%). From the primary liver tumors hepatocellular carcinoma was the prevalent histological type, which accounted for 12 of 44 (30%) tumors. Four hemangiomas, two cholangiocarcinomas and one fibrosarcoma accounted for 10%, 5% and 2.5% of tumors, respectively. One (2.5%) liver tumor showed mixed morphologic features. From the metastatic lesions, metastatic mammary adenocarcinoma was the most prevalent histological type. A sex predisposition has not been confirmed in dogs and cats with primary liver tumors in our study - the ratio between males and females with primary tumors is approximately 1:1, whereas male : female ratio for metastatic liver tumors was – 1:6. At the conclusion of the study period 7 dogs and 3 cats were still alive, whereas the remaining 30 had died. 21 (70%) deaths were tumor related, including 2 intraoperative deaths (5%). The most common metastatic site were the lung, observed in 18/21 patients. From the ten survivors 8 have no evidence of local recurrence or distant metastases at 72, 90, 111, 120, 240, 540, 720, and 870 days. We found no significant association between MST (mean survival time) in animals with primary (n=22) and metastatic (n=18) liver tumors. The MST for primary tumors was 255 days (range, 35 to 870 days) in comparison to 420 days (range, 105 to 740 days) for metastatic liver tumors. With Kaplan – Meier analysis, in Group 1, a median survival time (MST) of 722 days was calculated (range, 105 to 1800 days). In comparison, the MST for dogs in Group 2 was 200 days (range, 30 to 480 days). Animals in the group 1 had significantly longer MST than dogs in the group 2 (p<0.001). Neither in Group1 nor in Group 2 was recorded local tumor recurrence. Conclusions. We found no significant correlation between outcomes in animals with primary and metastatic liver tumors. Animals with 1-2 affected liver lobes had significantly (p<0.001) longer mean survival time than dogs with multiple diseases. A combination of surgery and interventional treatments can be used to achieve tumor tissue necrosis and avoid local recurrence in patients with multifocal hepatobiliary tumors. Bibliography 1. 2. 3.

Withrow SJ, Vail DM, Lipark JM. Hepatobiliary tumors incidence and risk factors. Withrow, MacEwens Small Animal Clinical Oncology, Elsevier. 2007;483-491 Martin RA, Lanz OI, Tobias KM. Liver and biliary system, in Slatter DH (ed): Textbook of Small Animal Surgery. Philadelphia,WB Saunders, 2003:708726. Guan YS, Liu Y. Interventional treatments for hepatocellular carcinoma. Hepatobiliary Pancreat Dis Int. 2006;5(4):495-500.

Corresponding Address: Ms. Ksenia Lisitskaya - Clinic of Experimental Therapy «Biocontrol», NN Blokhin Russian Research Center for Oncology, Krasnoholmskaya Emb., 13-1-23, 115172 Russia, Moscow, Russia - Phone 74953249629 - Mobile 79037587088 - E-mail: lisksenia@mail.ru

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DIPROSOPIA IN TRACHEMYS SP G. Lanteri, Med Vet1, F. Macrì, Med Vet2, G. Rapisarda, Med Vet3, G. Caristina, Med Vet4, G. Latella, Med Vet5, G. Mazzullo, Med Vet6 1 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 2 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 3 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 4 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia 5 Dipartimento MO.BI.FI.PA., Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Messina, Messina, Italia 6 Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Facoltà degli Studi di Messina, Messina, Italia Area di interesse: Animali esotici Introduzione. Le malformazioni sono anomalie morfologiche macroscopiche di un singolo organo o più organi di un apparato o sistema che si verificano durante il periodo organo genetico; tali anomalie si intendono come modificazioni della forma e della struttura degli organi con deformità di alto grado; se il corpo ne risulta, invece, completamente deformato parleremo allora di mostruosità. Le malformazioni osservate nelle tartarughe possono essere suddivise in tre grandi categorie: deformità minori (non influenzano la sopravvivenza dell’animale e vengono osservate in età adulta), deformità moderate (riducono le possibilità di sopravvivenza ma, nonostante ciò, possono essere riscontrate in animali adulti in particolari condizioni), deformità letali (danno scarse probabilità di sopravvivenza e non sono stati riscontrati soggetti adulti con queste malformazioni). Scopo del presente lavoro è quello di contribuire alla conoscenza delle malformazioni dei rettili descrivendo gli aspetti morfologici e radiologici di una mostruosità osservata in una tartaruga sottoposta alla nostra osservazione. Descrizione del caso. Oggetto delle nostre osservazioni è una tartaruga d’acqua appartenente al Genere Trachemys sp. di 6 mesi d’età, importata dalla Florida (USA) ed allevata per circa 4 mesi da un amatore nella città di Palermo. Il proprietario riferiva del mancato accrescimento dell’animale e di una anomala assunzione del cibo, probabilmente in seguito ad una difettosa percezione sensoriale alla vista, pur mantenendo i normali movimenti bilaterali della testa. In seguito al decesso avvenuto spontaneamente, veniva effettuato un preliminare studio radiologico, allo scopo di valutare gli aspetti morfologici della malformazione. All’esame necroscopico, tutti gli organi celomatici venivano prelevati e fissati in formalina tamponata al 10% per la successiva inclusione in paraffina. Sezioni istologiche di 3-4µm di spessore venivano colorate con Ematossilina-Eosina (EE). L’esame radiografico in “total body”, ad eccezione della forma e delle dimensioni delle teste e del rachide cervicale, non rivelava alcuna alterazione morfo-strutturale delle restanti componenti scheletriche. Al contrario, il particolare delle teste evidenziava la fusione di queste a livello della regione iugale (zigomatica) e post-frontale dei due crani in un’unica testa “articolata” a un solo rachide, quest’ultimo malformato all’altezza della prima vertebra. Lo studio del cranio mostrava la presenza di un’unica ampia volta cranica priva di setti divisori. Esternamente, la tartaruga presentava una testa relativamente grande, con quattro cavità oculari, due laterali e due mediali, e due distinte regioni nasali con le relative aperture buccali. La cavità buccale sinistra, differiva dalla destra (normoconformata) per la presenza di un canale orofaringeo di ridotte dimensioni. Sulla faccia ventrale, le mandibole e le mascelle laterali e mediali di entrambe le teste, erano interamente sviluppate, e dotate di una normale articolazione temporo-mandibolare. Un accurato esame della testa, eseguito dopo allontanamento del carapace, metteva in evidenza una conformazione a “V” della stessa, generata dalla parziale fusione di due teste, divergenti tra loro con un angolo di circa 45°. La regione frontale appariva vasta e la calotta cranica si presentava unica sino al limite occipitale. All’apertura della scatola cranica, si evidenziava una vera e propria fusione delle ossa craniche. Il SNC purtroppo non ben mantenuto non permetteva di coglierne la morfologia; alla sua asportazione si poteva apprezzare una cavità endocranica apparentemente normostrutturata. Conclusioni. Dai rilievi radiologici e macroscopici osservati, il reperto veniva classificato, in base alla duplicazione facciale, come “Diprosopus”, secondo la classificazione di Duhamel per le malformazioni dei mammiferi.1 Le diprosopie consistono in una alterazione della porzione craniale dell’embrione, e della notocorda in particolare, risultante in una duplicazione più o meno grave ed estesa della faccia. La diprosopia rappresenta la più grave forma di malformazione facciale e, al contempo, la più semplice del quadro teratologico dei mostri doppi paralleli. Le diprosopie possono interessare tutti gli animali ed assumere diversa gravità a seconda dell’entità della divisione della faccia. Pur essendo assolutamente carente la bibliografia sull’argomento, la diprosopia nelle tartarughe sembra essere un evento abbastanza frequente, soprattutto in quelle marine, e si ritiene, anche per queste specie, che si tratti di particolari forme di gemellarità incompleta.2 Bibliografia 1. 2.

Duhamel B. (1966) - Morphogenèse Pathologique, Masson & C., Paris. Ewert, M. A. 1985. Embryology of Turtles. In: Biology of the Reptilia. Vol. 14 (Development A), C. Gans, F. Billett, and P. F. A. Maderson. eds. John Wiley and Sons.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Giuseppe Santi Rapisarda, Via Ugo Foscolo 9, 95025 Aci Sant’antonio (CT), Italia Tel. 095/7921599 - Cell. 3394174213 - E-mail: grapisarda@virgilio.it

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ARTERIAL PRESSURE AND HEART RATE VARIATIONS DURING PROPOFOL TARGET CONTROLLED INFUSION FOR SEDATION IN DOGS UNDERGOING NON-INVASIVE PROCEDURES L. Novello, Med Vet, MRCVS1, B. Carobbi, Med Vet, MRCVS2 1 Referenza Carobbi Novello, Venezia, Italia 2 Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria di Padova, Padova, Italia Topic: Anaesthesia Purpose of the work. Propofol Target Controlled Infusion (TCI) has been successfully used for sedation in dogs undergoing diagnostic procedures.1,2 Although haemodynamic response to propofol induction has been investigated,3 no data are currently available about cardiovascular effects of sedative doses of propofol in dogs. We report on propofol effects on arterial blood pressure (ABP) and heart rate (HR) when a TCI is used to maintain sedation in dogs undergoing non-invasive procedures. Materials and used methods. Dogs ASA I-II, Size Health And Physical Evaluation body condition scoring system C to E, were enrolled. After premedication with intramuscular acepromazine (0.02 mg kg-1) and morphine (0.15 mg kg-1), cephalic vein and dorsal pedal artery were catheterized. Monitoring of electrocardiogram (ECG) and direct ABP was instituted then, and baseline readings were obtained after a 10-minute resting period. Propofol TCI4 was administered to attain deep sedation, however predicted plasma target concentration (Cpt) and ultimate depth of sedation achieved were intentionally not standardized to more accurately reflect the variability in operator’s preference, patient response, and the differing sedation requirements for various clinical procedures. A 3.1 mcg ml-1 Cpt was initially achieved and Loss-Of-Righting-Reflex (LORR) assessed. The Cpt was set to individual predicted effect-site concentration at LORR then, and further decreased or increased to the degree of sedation providing the best conditions for the operator. Vital signs were monitored using a multiparametric monitor, and dogs were clinically assessed at regular intervals. During the procedure HR and direct ABP were collected at 5-second intervals using a proprietary software, and data and time-synchronized markers describing all events were stored on a laptop for off-line analysis. Thresholds used to treat hypotension were a systolic ABP lower than 100 mmHg or a mean ABP lower than 60 mmHg for longer than 2 minutes. Changes in HR and ABP are noted as the maximum variation recorded during the procedure compared with baseline reading. Baseline reading is expressed as the mean of absolute values collected over 60 seconds prior to propofol administration. Data are reported using descriptive statistics, and expressed as median (Range) or mean (Standard Deviation; Confidence Interval). Because of the inter-individual variability in baseline ABP and HR, absolute differences were converted into percentage changes from baseline before analysis, and significance assessed using the one-sample t-test. Outcomes. Thirteen male and 15 female dogs, 18 (8-96) months old, weighing 18.4 (5.4-45) kg, undergoing upper airway evaluation (n=22), radiographic examination (n=10) and minor procedures (n=3), were studied. Palpebral reflex was maintained in all dogs. Fentanyl bolus administration was required in 1 dog undergoing radiographic examination to treat discomfort. Although systolic and mean ABP transiently decreased below the threshold limits in 8 (29%) and 10 (35%) of 28 dogs respectively, none of them required treatment. Baseline systolic ABP and HR were 152.6 (SD 15.18, CI 146.7 to 158.5) mmHg and 85.75 (SD 21.12, CI 77.56 to 93.94) beats-per-minute, respectively. Recorded maximum variation in systolic ABP corresponded to a 32.8 (CI 28.2 to 37.3)% decrease from baseline (p<0.0001), and was associated to a 53.7 (CI 39.6 to 67.8)% increase from baseline (p<0.0001) in HR. Conclusions. Propofol TCI was effective in providing deep sedation for non-invasive procedure in the majority of dogs. Although LORR occurred in all dogs, the Cpt providing LORR in the individual patient did not provide loss of palpebral reflex. Propofol sedation caused a substantial decrease in systolic ABP, however it was associated with a significant increase in heart rate, and no dogs in the study met criteria for treating hypotension. LORR in animals is used as a surrogate end-point for loss of consciousness. In contrast with our dogs, in humans propofol caused loss of eyelash reflex at lower concentrations than those causing loss of consciousness, although other anaesthetic agents did not.5 In humans sedated with propofol systolic ABP decreased considerably compared to baseline, however HR did not change suggesting a resetting of the baroreceptor reflex set point by propofol.5 Our data do not support this theory in dogs receiving sedative doses of propofol. In addition, the resulting increase in HR may have prevented hypotension from occurring. Although anaesthetists should routinely monitor ABP and make therapeutic decision based on deviations from ‘normality’, there is no evidence of what constitutes a clinically meaningful definition of intraoperative hypotension in dogs. Therefore, in our study hypotension was addressed in accordance with ‘arbitrarily chosen thresholds’ reflecting clinical practice. In conclusion, propofol TCI sedation causes a significant decrease in ABP compared to baseline. However, the baroreceptor reflex is maintained and hypotension is unlikely. Bibliography 1. 2. 3. 4. 5.

Novello L, Carobbi B, Rabozzi R (2008) Vet Surg 37, E1-E19. Novello L, Carobbi B (2009) Proceedings of the 62° Congresso SCIVAC, Rimini. p. 578. Novello L, Rabozzi R (2007) Proceedings of the 1st World Congress of TIVA-TCI, Venezia, Italy. p. 130. Beths T, Glen JB, Reid J et al. (2001) Vet Rec 148, 198-203. Vuyk J, Engebers FHM, Lemmens HJM, et al. (1992) Anesthesiology 77, 3-9.

Corresponding Address: Dott. Lorenzo Novello - Italian Society of Veterinary Regional Anaesthesia and Pain Medicine, Via Donatori di Sangue 13/c 35028 Piove di Sacco (PD), Italia - E-mail: info@isvra.org

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UN CASO DI LEIOMIOSARCOMA VESCICALE IN UN CANE M. Orioles, Medico Veterinario1, F. Mazzucato, Medico Veterinario2 A. Meneguzzo, Medico Veterinario1, S. De Cecco, Studentessa3 1 Libero Professionista, Vicenza, Italia 2 Libero Professionista, Padova, Italia 3 Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli studi di Padova, Padova, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Circa il 10% delle neoplasie della vescica è di origine mesenchimale. Tra queste, i tumori del tessuto muscolare liscio, leiomioma e leiomiosarcoma, interessano principalmente la specie canina e costituiscono il 2-5% delle neoplasie vescicali. Nonostante la sua designazione maligna, il leiomiosarcoma metastatizza raramente, anche se frequenti sono le infiltrazioni locali e le recidive dopo terapia chirurgica. Il caso descritto riguarda un caso di leiomiosarcoma vescicale in un cane. Descrizione del caso. Nel dicembre 2009 un cane di razza Meticcio, maschio castrato di 11 anni e 6 mesi, veniva visitato per due episodi di crisi convulsive avvenuti nei due giorni precedenti a distanza di 24 ore l’uno dall’altro. Tale sintomatologia, di durata di circa un minuto, veniva riferita come una crisi motoria generalizzata tonico-clonica, senza perdita di conoscenza. L’anamnesi escludeva precedenti eventi di malattia e terapie mediche; Il cane viveva prevalentemente in casa. Era alimentato con una dieta commerciale; le vaccinazioni, la profilassi nei confronti della filariosi cardio-polmonare e dei parassiti gastroenterici risultavano regolari. L’esame fisico evidenziava: peso di 25 kg (BCS 5/9), temperatura 38,6 °C, P 90 bpm, R 22 apm, TRC < 2”, lieve dolorabilità addominale nei quadranti caudali, lieve ipoelasticità cutanea e presenza di petecchie addominali con estensione focale. L’esame clinico neurologico non evidenziava anomalie. Sono stati eseguiti esami ematobiochimici ed urinari completi. L’emogramma riferiva anemia lieve normocitica ipocromica rigenerativa, microcitosi, presenza di NRBC, lieve policromasia. Il leucogramma presentava leucocitosi moderata con neutrofilia matura e monocitosi. Il piastrinogramma presentava trombocitopenia grave, con macropiastrine. Il profilo emostatico presentava aumento della concentrazione del fibrinogeno e aumento marcato dei FDPs. L’esame biochimico evidenziava un lieve aumento dell’attività dell’ALP, aumento della concentrazione delle proteine totali, lieve iperalbuminemia, lieve iperglobulinemia, aumento della CRP e aumento dell’osmolalità sierica. L’elettroforesi sierica evidenziava un aumento delle globuline alfa 2. Il campione urinario di colore giallo chiaro aveva le seguenti caratteristiche: ps 1.021, ph 7,5, WBC, RBC e proteinuria assenti, sedimento urinario silente. Le immagini radiografiche addominali mostravano la presenza di una massa a radiopacità di tessuto molle adesa alla vescica. I rilievi ecografici riferivano la presenza di una massa presumibilmente originata dallo strato sottomucoso/muscolare della parete vescicale, a margini netti, di circa 3 centimetri di diametro, caratterizzata prevalentemente da ecogenicità mista, da finemente a grossolanamente disomogenea. La mucosa e la sierosa vescicale apparivano integre e la massa sembrava sporgere verso quest’ultimo strato del viscere. Le radiografie toraciche non evidenziavano alcuna anomalia, né erano presenti rilievi ecografici indicativi di metastasi. La citologia ecoguidata della massa non forniva campioni rappresentativi. Il paziente veniva sottoposto a laparotomia e escissione chirurgica della massa, che si presentava contenuta all’interno dello strato sieroso e non invadeva il lume vescicale. L’esame istopatologico e immunoistochimico permettevano di emettere la diagnosi di leiomiosarcoma vescicale a basso grado e di confermare la completa escissione chirurgica del tumore. Esami clinici fisici ed ematobiochimici ripetuti settimanalmente hanno constatato la completa remissione delle alterazioni ecografiche e ematobiochimiche a distanza di 20 giorni dall’intervento chirurgico. A distanza di due mesi le crisi convulsive non si sono ripresentate. Conclusioni. Sporadiche sono le descrizioni di casi di leiomiosarcomi vescicali canini riportate in letteratura veterinaria. Sembra interessante notare come tale tumore possa raggiungere dimensioni notevoli senza danni apparenti alla mucosa vescicale e senza provocare sintomatologia urinaria. Nel nostro caso valutazioni cliniche complete ed il follow up post chirurgico hanno consentito di attribuire alle alterazioni cliniche, ematologiche ed emostatiche una causa comune di origine neoplastica, inquadrandole come sindromi paraneoplastiche (SPN). Le SPN hanno notevole interesse clinico, in quanto capaci sia di precedere la scoperta della neoplasia, sia di corrispondere ad una disseminazione od estensione della malattia stessa, nonché, di rappresentare un marker di recidive tumorali o di monitoraggio dell’andamento di una terapia antineoplastica. In questo contesto, le SPN del sistema nervoso centrale sono estremamente rare e rappresentate da dubbie segnalazioni in letteratura; ulteriori approfondimenti diagnostici dovranno stabilire la reale natura della sintomatologia neurologica riferita. Bibliografia Heng HG, Lowry JE, Boston S, Gabel C, Ehrhart N, Gulden SM.: Smooth muscle neoplasia of the urinary bladder wall in three dogs. Vet Radiol Ultrasound. 2006 Jan-Feb;47(1):83-6. Kapatkin AS, Mullen HS, Matthiesen DT, Patnaik AK: Leiomyosarcoma in dogs: 44 cases (1983-1988). J Am Vet Med Assoc. 1992 Oct 1;201(7):1077-9. Marconato L. ; Del Piero F.: Oncologia medica dei piccoli animali. Poletto Ed. 2005. Meuten, D. J.; Everitt, J.; Inskeep, W.: WHO Histological Classification of Tumors of the Urinary System of Domestic Animals. Charles Louis Davis, DVM Foundation, 2007.

Indirizzo per corrispondenza: Sig. Massimo Orioles, Strada S. Stefano, 2, 36100 Vicenza (VI), Italia Tel. 0444/545858 - Cell. 347/9418094 - E-mail: massimo_orioles@hotmail.it

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EFFICACIA ANTIMICOTICA DELLA CLOREXIDINA: UNO STUDIO IN VITRO TRAMITE PROVE DA CONTATTO 1

M. Pasquetti, DVM1, G. Ghibaudo, DVM2, P. Iannì, Pharmacist3, A. Peano, DVM, PhD1 Dipartimento di Produzioni Animali, Epidemiologia ed Ecologia - Facoltà di Medicina Veterinaria. Università di Torino, Torino, Italia 2 Libero Professionista, Fano, Italia - 3 Industria Chimica Fine (ICF), Cremona, Italia Area di interesse: Dermatologia

Scopo del lavoro. La clorexidina è un antisettico contenuto in numerosi prodotti per la terapia dermatologica del cane e del gatto. Passate indagini sulla sua attività antifungina hanno originato risultati spesso contrastanti sia per quanto riguarda le concentrazioni efficaci in-vitro sia per ciò che concerne l’efficacia in vivo. Scopo del lavoro è stato quello di valutare, in-vitro, l’attività di un prodotto contenente clorexidina al 4% (Clorexyderm shampoo 4%®, I.C.F.) verso i principali patogeni fungini di cane e gatto utilizzando le cosiddette prove da contatto, e valutare alcuni parametri che possono influenzare l’interpretazione delle prove di efficacia in-vitro. Materiali e metodi. Sono state eseguite 5 prove su Malassezia pachydermatis e 15 su dermatofiti (3 Microsporum gypseum; 7 Trichophyton interdigitale - ex T.mentagrophytes; 5 Microsporum canis), che sono stati testati a partire da spore ottenibili in coltura (macro e microconidi) e dalle forme in- vivo (artroconidi). La metodica utilizzata (UNI EN 1275) consiste nel valutare la diminuzione del numero di microorganismi vitali dopo contatto con l’agente antisettico. Un prodotto viene considerato efficace se determina una diminuzione delle Unità Formanti Colonia (UFC) fungine di almeno 4 unità logaritmiche (diminuzione pari al 99,99%) dopo un contatto di 15 minuti. La sospensione dei germi in esame veniva standardizzata e messa a contatto con il prodotto da testare. Dopo 15 minuti veniva effettuato un passaggio in una soluzione neutralizzante (Tween 80 al 3% e lecitina allo 0,3%) e una successiva semina delle sospensioni. Dopo incubazione a 37°C per 5 giorni (Malassezia) e a 25°C per 7-14 giorni (Dermatofiti) si procedeva alla lettura delle UFC. Tenendo conto delle diluizioni utilizzate si risaliva al numero di UFC - e quindi di microorganismi vitali – ancora presenti nelle sospensioni in esame. Risultati. Il prodotto testato si è rivelato sempre efficace nei confronti di Malassezia. Per ciò che concerne i dermatofiti si è avuta un’efficacia completa nei confronti di macro e artroconidi di M.canis e M.gypseum. Per T. interdigitale si è avuta un’efficacia del 20% (1 prova su 5) nei confronti dei microconidi e del 100% sugli artroconidi. Conclusioni. Lo studio indica che ad adeguate concentrazioni (4%) la clorexidina dimostra, in vitro, un’elevata attività antimicotica. Le prove utilizzate sono molto stringenti in quanto viene testato un tempo di contatto ben definito, ricalcando ciò che poi avviene in vivo. Secondo gli autori questa metodica ricalca meglio la realtà applicativa di un prodotto rispetto alle cosiddette prove di MIC (Minima Concentrazione Inibente), in cui il fungo è in presenza di concentrazioni costanti di un principio attivo, cosa che in vivo evidentemente non avviene. Questo potrebbe spiegare perché l’efficacia in vitro della clorexidina si abbia a concentrazioni molto basse, se testate con MIC (dell’ordine dei µg/ml), mentre in vivo l’efficacia è limitata o viene comunque ottenuta a concentrazioni notevolmente superiori. Inoltre, le prove da contatto permettono di utilizzare il prodotto finito come tale, con adiuvanti, eccipienti, ecc. e quindi di testare l’attività del prodotto nella sua interezza. Infine, la prova da contatto indica senza dubbio un’attività germicida, mentre le prove con MIC solo un’attività inibente. Per ciò che concerne i dermatofiti lo studio ha permesso di valutare l’attività del prodotto sia su forme di sporulazione ottenibili in normali condizioni di coltura (macro e microconidi) sia su artroconidi, che rappresentano la forma di invasione tissutale dei dermatofiti. Per l’attività in-vivo, dato che la concentrazione di clorexidina, così come il tempo di contatto, sembrano i fattori che più incidono sull’efficacia di questo antisettico, il problema è probabilmente legato proprio alla possibilità che si abbiano a livello cutaneo concentrazioni finali e tempi di contatto adeguati. In questo senso, per una validazione definitiva del prodotto in esame, sarebbe opportuno utilizzare condizioni di laboratorio ancora più stringenti, testando il prodotto a diluizioni progressive, e successivamente, con prove in vivo. Bibliografia Anon. Chemical disinfectants and antiseptics – Quantitative suspension test for the evaluation of basic fungicidal or basic yeasticidal activity of chemical disinfectants and antiseptics – Test method and requirements (phase 1). EN 1275. Brussels: European Committee For Standardization, 2005. Boddie R.L., Watts J.L., Nickerson S.C.: In vitro and in vivo evaluation of a 0.5% chlorhexidine gluconate teat dip. Journal of the American Veterinary Medical Association, 196, 890-893, 1990. Coelho L.M., Aquino Ferreira R., Leite Maffei C.M., Martinez-Rossi N.M.: In vitro antifungal drug susceptibilities of dermatophytes microconidia and arthroconidia. Journal of Antimicrobial Chemotherapy 62, 758-761, 2008. Moriello K.A., Verbrugge M.: Use of isolated infected spores to determine the sporocidal efficacy of two commercial antifungal rinses against Microsporum canis. Journal compilation ESVD and ACVD 18, 55-58, 2007. Odore R., Colombatti Valle V., Re G.: Efficacy of Chlorhexidine against Some Strains of Cultured and Clinically Isolated Microorganisms. Veterinary Research Communications, 24 (4): 229-238, 2000. Scott D.W., Miller W.H., Griffin C.E.: Small Animal Dermatology, 6th edn. Philadelphia, WB Saunders Co, 2000.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Mario Pasquetti - Università degli Studi di Torino - Facoltà di Medicina Veterinaria, Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO), Italia - Cell. 339/3837496 - E-mail: ma_rada@yahoo.it

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NEW DATA ON BIRD HAEMOPROTEIDS AND MICROFILARIAE IN EUROPEAN BLACKBIRD (TURDUS MERULA) IN TURKEY 1

G. Z. Pekmezci, PhD Asis 1, Y. E. Beyhan, PhD Asis 2, K. Erciyas, Ornithologist 1, S. Umur, Prof 1 Department of Parasitology, Faculty of Veterinary Medicine, University of Ondokuz Mayis, Samsun, Turkey 2 Ornithology Research Centre, University of Ondokuz Mayis, Samsun, Turkey Topic: Exotic Animals

Introduction. Blood parasites (hematozoa) are a heterogeneous group of organisms that typically live in the blood of the host during at least some of the stages of their development3. The species of Haemoproteus that infect birds are vector-transmitted intraerythrocytic parasites. They are some of the most common and widespread blood parasites of wild birds, yet their potential significance as disease agents in wild bird populations is largely unknown1. Filarioids are highly specialized nematode parasites of the tissues and tissue spaces of birds, mammals, amphibians, and reptiles. About 160 species are known from birds. Avian filarioids produce microfilariae that are either blood-borne or skin-inhabiting2. Description of the case. A European Blackbird was caught into ornithological mist nets by the Observation Station of authorities. Blood samples used for smears were collected from heart. The blood smears were air-dried, then fixed by absolute methanol, and dried again. Slides were then stained in Giemsa solution and at least 10 000 erythrocytes were examined for parasites (Trypanosoma spp., Haemoproteus spp., Plasmodium spp., Leucocytozoon spp., microfilariae) in a smear under magnification of x 10001, 2, 4. The genus and species of blood protozoa and the genus of microfilariae were determined upon their morphological traits according to Valkiunas (2005) and Bartlett (2008), respectively. Conclusions. Our findings of parasites from genus Haemoproteus morphologically matched with H. fallisi. H. fallisi is a parasite of species of the Passeriformes whose gametocytes grow along the nucleus of infected erythrocytes and never encircle the nucleus completely. Medium and fully grown gametocytes adhere both to the nucleus and envelope of erythrocytes. Dumbbellshaped gametocytes are absent or represent less than 10% of the total number of growing gametocytes. The nucleus in fully grown gametocytes is subterminal in position. Fully grown gametocytes do not fill the erythrocytes up to their poles. Pigment granules are of medium and sometimes small size, about 13 per gametocyte on average4. We identified Eufilaria spp. with its morphological characteristics. The sheath of microfilariae is absent, tail is sharply pointed and its length is =200 µm2. There were no reports in Turkey related to blood parasites which have been carried in the European Blackbird so far. H. fallisi and Eufilaria spp. are described for the first time in Turkey. Bibliography 1. 2. 3. 4.

Atkinson, CT. (2008). Haemoproteus. In, Atkinson CT, Thomas NJ, Hunter DB (Ed): Parasitic Diseases of Wild Birds. 1st ed. pp: 13–35, Blackwell Publishing. Bartlett, CM. (2008). Filarioid Nematodes. In, Atkinson CT, Thomas NJ, Hunter DB (Ed): Parasitic Diseases of Wild Birds. 1st ed. pp: 439–463, Blackwell Publishing. Hauptmanová, K., Benedikt, V., Literák, I. (2006). Blood parasites in passerine birds in Slovakian East Carpathians. Acta Protozool. 45: 105–109. Valkiunas G. (2005). Avian Malaria Parasites and Other Haemosporidia. CRC Press, Boca Raton, Florida, pp: 936.

Corresponding Address: PhD Asis Gokmen Zafer Pekmezci - University of Ondokuz Mayis Department of Parasitology, Faculty of Veterinary Medicine, Kurupelit, Samsun, 55139, Turkey - Phone +903623121919 - +903623121919 - E-mail: zpekmezci@omu.edu.tr

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VANTAGGI DELL’ELETTROCHEMIOTERAPIA NEL TRATTAMENTO DI ALCUNE NEOPLASIE ORALI DEL CANE E DEL GATTO R. Puleio, DVM1, G. Cassata, DVM1, A. Tamburello, BSc1, M. R. Schiavo, BSc1, G. R. Loria, PhD1, A. Poli, PhD2 1 Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia, Palermo, Italia 2 Dipartimento di Patologia Animale Profilassi ed Igiene degli Alimenti,Università di Pisa, Pisa, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. L’Elettrochemioterapia (ECT) può essere definita come l’applicazione locale di impulsi elettrici che rendono permeabili le cellule tumorali nei confronti dei farmaci chemioterapici. Una delle teorie più accreditate sul meccanismo dell’elettroporazione prevede che gli impulsi elettrici formino dei pori idrofillici responsabili del trasporto intracellulare del chemioterapico. I farmaci solitamente utilizzati sono la Bleomicina e il Cisplatino. Il primo, a causa delle sue dimensioni molecolari e delle caratteristiche fisico-chimiche, non riesce a diffondere attraverso la membrana cellulare se non legato ad una proteina “carrier” di membrana2. Tale meccanismo di assorbimento ha limitato ad oggi l’uso della Bleomicina. L’utilizzo in associazione all’elettroporazione facilita la sua diffusione e velocità di assorbimento1. Anche il Cisplatino dimostra una bassa capacità di penetrare la membrana cellulare; uno studio clinico ha dimostrato che l’uso di Cisplatino associato alla ECT aumenta la risposta al trattamento dal 19% al 82%3. Descrizione del caso. Sono stati selezionati 5 soggetti in cui era stata diagnosticata una neoplasia del cavo orale e in cui il trattamento chirurgico e/o chemioterapico, proposto dal veterinario curante, era stato rifiutato dal proprietario. I soggetti sono stati anestetizzati e la neoplasia misurata nei due diametri, per valutare la quantità di farmaco necessario. Quindi si procedeva all’infiltrazione, sia lungo i margini che per via intratumorale con Bleomicina (Bleomicina Nippon Kayaku 15 mg.) o Cisplatino (Cisplatino Teva 10 mg.), rispettando le norme previste per la sicurezza dell’operatore. Il volume delle neoplasie è stato valutato secondo la formula V= ab²p/6, dove “a” è il diametro maggiore del nodulo e “b” quello minore; mentre la dose di farmaco da inoculare è stata calcolata secondo la formula 0.25-1 ml/cm³, a seconda del volume della neoplasia1. Dopo cinque minuti veniva applicata l’elettroporazione, attraverso l’uso di un elettrodo (Cliniporator, Igea) costituito da una doppia fila di tre aghi distanti 4 mm. Tale elettrodo veniva inserito nella massa neoplastica e permetteva l’invio degli impulsi elettrici (scariche di 8 impulsi della durata di 100 microsecondi, 1000 volt di ampiezza e frequenza 5 kHz). Viste le dimensioni di alcuni noduli neoplastici (>1 cm³) sono state effettuate diverse applicazioni con l’elettrodo (fino a 22) per coprire l’intera superficie del tumore. La ECT è stata ripetuta ogni 14 giorni per un totale di tre trattamenti. L’efficacia del trattamento ed eventuali effetti collaterali sono stati valutati nei giorni successivi e con controlli clinici mensili. Conclusioni. I soggetti trattati con l’ECT non hanno sviluppato effetti collaterali dovuti al trattamento. L’efficacia del trattamento è stata valutata dopo quattro settimane dall’ultima ECT, in accordo alle direttive del WHO. Tutti i soggetti hanno mostrato un miglioramento dopo il primo trattamento, che si evidenziava con una migliore prensione e masticazione del cibo ed assenza di sanguinamento. Le biopsie seriali di ciascun caso, hanno evidenziato marcata risposta infiammatoria, mediata da linfociti e plasmacellule. In tutti i casi si è ottenuta una remissione parziale, corrispondente ad una riduzione dell’80-90% della neoplasia nei primi tre soggetti, mentre negli altri due la regressione del tumore è stata del 60%. L’ECT è una tecnica efficace che ha dimostrato una bassa tossicità e facilità di applicazione e che in alcuni casi selezionati potrebbe essere risolutiva, anche come unico trattamento; mentre in altri in associazione alla chirurgia pre o post ECT potrebbe ridurre la possibilità di recidiva del tumore. Nel nostro studio l’ECT ha permesso il controllo, se non l’eradicazione della neoplasia. In conclusione l’ECT rappresenta una ulteriore opzione terapeutica nel trattamento delle neoplasie orali del cane e del gatto che permette un obiettivo miglioramento della qualità di vita del paziente a fronte di limitati rischi tossicologici. Bibliografia 1.

2. 3. 4. 5.

Mir L., Sersa, Collins, Garbay, Billard, Geertsen, Z. Rudolf, O’Sullivan and M. Marty. Standard operating procedures of the electrochemotherapy: Instructions for the use of bleomycin or cisplatin administered either systemically or locally and electric pulses delivered by the CliniporatorTM by means of invasive or non-invasive electrodes. European Journal of Cancer Supplements. Volume 4, Issue 11, November 2006, Pages 14-25. Pron G, Belehradek J Jr, Orlowski S, Mir LM. Involvement of membrane bleomycin-binding sites in bleomycin cytotoxicity.. Biochem Pharmacol. 1994 Jul 19;48(2):301-10 Sersa G, Stabuc B, Cemazar M, Miklavcic D, Rudolf Z. Electrochemotherapy with Cisplatin: the systemic antitumor effectveness of Cisplatin can be potentiated locally by the application of electric pulses in the treatment of malignant melanoma skin metastates.. Melanoma Res. 2000 Aug;10(4):381-5. Spugnini EP, Baldi F, Mellone P, Feroce F, D’Avino A, Bonetto F, Vincenzi B, Citro G, Baldi A. Patterns of tumor response in canine and feline cancer patients treated with electrochemotherapy:preclinical data for the standardization of this treatment in pets and humans. J Transl Med. 2007 Oct 2;5:48. Tounekti O, Belehradek J Jr, Mir LM. Bleomicin is an antineoplastic agent capable of mimicking apoptosis.. Bull Cancer. 1994 Dec;81(12):1043-9.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Roberto Puleio - Istituto Zooprofilattico della Sicilia, Via Gino Marinuzzi 3, 90129 Palermo (PA), Italia E-mail: vetmed2001@alice.it

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CHEMOTHERAPY IN A YOUNG FEMALE DOG WITH A GENITAL TVT F. A. Rossi, DVM1, F. Cian, DVM1, F. Bassini, DVM1, A. Poli, DVM, PhD2 1 Libero professionista - Clinica Veterinaria Tergeste, Trieste, Italy 2 Dipartimento di Patologia Animale, Profilassi e Igiene degli Alimenti, UniversitĂ degli studi di Pisa, Pisa, Italy Topic: Oncology Introduction. A one-year old, entire female mixed breed dog was referred with a three weeks history of severe strangury and hematuria. The dog was previously treated with antibiotics and anti-inflammatory drugs with no response. Description of the case. The manual inspection of the internal vulva and vagina showed the presence of small multiple masses (1 to 5 cm of diameter), as confirmed by ultrasound. Using FNA transmissible venereal tumor (TVT) diagnosis was made. The subject was immediately treated with vincristine (0,75 mg/m2 iv) and gained improvement in 2 days. The dog received five more doses, once a week, until the total remission was obtained. During the treatment, clinical and ultrasound examination showed a gradual reduction in size of the lesions. Response to vincristine chemotherapy was excellent, leading to complete neoplasm regression without relapse after 5 months (the dog is still checked montly). Results of CBC, biochemical analysis, and urinalysis were normal throughout the chemotherapy and adverse effects were not detected. Conclusions. Response of TVT to vincristine chemotherapy is comparable to previously described protocols, without apparent toxicity. The improvement is very quickly achieved with satisfaction of the owner. TVT is seen more frequently in young free roaming, sexually active dogs and remains a problem in areas where mating of dogs is not under control. Therefore TVT has to be considered in differential diagnosis in case of young, not spayed, dogs arriving from kennels of the South of Italy, with genital bleeding and /or external genital lesions. Bibliography Marconato, Del Piero, Oncologia medica dei piccoli animali, Poletto Editore, 2005, 436-439. Marcos R, Santos M, Marrinhas C, Rocha E., Cutaneous transmissible venereal tumor without genital involvement in a prepubertal female dog, Vet Clin Pathol. 2006 Mar;35(1):106-9. Nak D, Nak Y, Cangul IT, Tuna B., A Clinico-pathological study on the effect of vincristine on transmissible venereal tumour in dogs., J Vet Med A Physiol Pathol Clin Med. 2005 Sep;52(7):366-70.

Corresponding Address: Dott.ssa Fulvia Ada Rossi - Clinica Veterinaria Tergeste, Via D'Alviano 86/2, 34144 Trieste (TS), Italia Tel. 040/3480845 - E-mail: fulviaadarossi@gmail.com

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DUE CASI DI LINFOMA FELINO TRATTATI CON PREDNISONE, L-ASPARAGINASI ED INTERFERONE UMANO S. Salvi, DVM, MSc Libero professionista, Terno d’Isola, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. Il linfoma è la neoplasia più comune nel gatto, rappresentando il 33% di tutti i tumori. La forma più comune è quella alimentare, seguita dalle forme mediastinica, renale, multicentrica, epatica, cutanea e centrale. La terapia antineoplastica prevede solitamente la somministrazione di chemioterapici in mono o polichemioterapia. Una delle principali problematiche in questo tipo di approccio terapeutico è la scarsa compliance dei proprietari e la poca collaboratività dei pazienti felini. Descrizione del caso. Nell’ottobre 2009 venivano riferiti al consulto oncologico due gatti con diagnosi istologica di linfoma. Nerone, gatto comune europeo di 9 anni di età, manifestava da mesi algia agli arti posteriori, dimagramento e maggior sedentarietà. L’esame ecografico aveva evidenziato una grave linfoadenomegalia dei linfonodi sottolombari. La biopsia istologica, effettuata successivamente, aveva dato esito di linfoma. Nello stesso periodo, Romea, gatta femmina comune europea, di 10 anni di età, era stata valutata dai veterinari curanti per poliuria e polidipsia e, durante un esame ecografico effettuato per indagare questa problematica, era stata evidenziata una massa intestinale a livello di digiuno, associata a lieve versamento peritoneale. Romea era stata sottoposta ad enterectomia del tratto intestinale interessato dalla massa e linfadenectomia del linfonodo satellite che risultava aumentato di volume. L’esito dell’esame istologico era stato di linfoma per entrambi i campioni. Ai proprietari di entrambi i gatti è stato proposto un protocollo polichemioterapico che avrebbe richiesto una somministrazione farmacologica settimanale per almeno 6 mesi. I proprietari non hanno accettato la terapia considerando l’iter terapeutico troppo stressante per i propri animali, in particolare venivano visti con preoccupazione i viaggi in macchina settimanali per giungere alla clinica (entrambi i proprietari vivevano fuori città). È stata quindi proposta una terapia alternativa che avrebbe consentito ai proprietari di somministrare i medicinali a casa, ad eccezione di una iniezione sottocutanea mensile che sarebbe stata effettuata dalla veterinaria curante. In particolare il protocollo consisteva in: L-asparaginasi ogni 4 settimane al dosaggio di 400 UI/kg per via sottocutanea, interferone alfa 2 umano al dosaggio di 2 milioni di unità /m2 per via sottocutanea ogni giorno per due mesi e prednisone 40 mg/m2 per via orale giornalmente per poi scalare fino a cessarne la somministrazione nell’arco di cinque mesi. Dopo 2 mesi dall’inizio della terapia, i due gatti sono stati sottoposti a valutazione ecografica di controllo. Nerone risultava in remissione completa con dimensioni linfonodali ritornate normali, oltre ad una remissione completa della sintomatologia algica. Romea risultava in buone condizioni generali e l’esame ecografico dell’addome non aveva evidenziato alterazioni di nessun tipo, con mantenimento della normale stratigrafia intestinale e dimensioni linfonodali nella norma. Gli esami ematologici erano normali in entrambi i pazienti. A distanza di sei mesi dalla diagnosi, entrambi i pazienti risultavano ancora in remissione completa. Nel caso di Romea, la poliuria, probabilmente per via del prednisone, era rimasta inalterata nelle prime settimane per poi ridursi fino alla normalizzazione con la cessazione della terapia cortisonica. Conclusioni. Il linfoma è una delle neoplasie maggiormente responsive ai protocolli chemioterapici, tuttavia tali terapie risultano sempre di difficile accettazione da parte dei proprietari. L-asparaginasi è un chemioterapico ampiamento utilizzato nella terapia del linfoma ed ha il vantaggio di essere facilmente manipolabile e ben tollerato, dati gli scarsi effetti collaterali che può avere sia sull’operatore che sul paziente. L’interferone umano è stato recentemente introdotto nella terapia oncologica veterinaria per la sua attività antiangiogenetica e stimolatrice del sistema immunitario, dando dei buoni risultati sia nel cane che nel gatto. Questo protocollo terapeutico è stato efficace nel controllo della neoplasia, risultando agevole e poco stressante per proprietari e pazienti, in quanto le iniezioni sottocutanee di interferone e le pastiglie di prednisone venivano somministrate dai proprietari stessi. I protocolli polichemioterapici sono la scelta d’elezione per la terapia del linfoma, tuttavia nei casi in cui i proprietari rifiutino l’approccio terapeutico standard perché considerato troppo stressante e/o dispendioso, si potrebbe proporre un protocollo alternativo, basato su farmaci ben tollerati e di facile impiego, come quello descritto. Bibliografia A.K. LeBlanc et al. Effects of L-Asparaginase on Plasma Amino Acid Profiles and Tumor Burden in Cats with Lymphoma. J Vet Intern Med 2007;21:760–763. T. A. Cave et al.Veterinary and Comparative Oncology, 2, 2, 91–97(2004) Feline epitheliotrophic T-cell lymphoma with paraneoplastic eosinophilia immunochemotherapy with vinblastine and human recombinant interferon a2b Gastrointestinal Lymphoma in Cats. Sandra Grover, DVM Compendium october 2005. Rowan J. et al Response rates and survival times for cats with lymphoma treated with the university of winsconsin-madison chemoterapy protocol: 38 casi (19962003). JAVMA vol 227, No 7, Oct 1, 2005.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Scilla Salvi - Ambulatorio Veterinario, Via Roma, 45, 24030 Terno d’Isola (BG), Italia Tel. 035904737 - Cell. 3478890913 - E-mail: scillasalvi@yahoo.it

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UN CASO DI OSTEOSARCOMA SCHELETRICO FELINO: FORMA MULTICENTRICA O METASTATICA MULTIPLA? S. Salvi, DVM, MSc1 M. Beccati, DVM, PhD, Specializzazione patologia dei piccoli animali1,2 1 Libero professionista, Terno d’Isola, Italia 2 Facoltà di Medicina Veterinaria, Dip. Produzione, Epidemiologia, Ecologia. Sez. Parassitologia-Micologia, Torino, Italia Area di interesse: Oncologia Introduzione. L’osteosarcoma è la neoplasia ossea più comune nel cane e nel gatto, con prevalenza della forma appendicolare. Nel gatto l’età media è 10.2 anni e sono più frequentemente colpiti gli arti posteriori. In letteratura è riportata una buona prognosi per la forma appendicolare, se trattata con la sola amputazione, con una sopravvivenza media compresa tra 16 e 64 mesi e un tasso metastatico inferiore al 10%. Le sedi metastatiche più colpite sono i polmoni, ma sia nell’uomo che nel cane, è descritta la tendenza allo sviluppo di metastasi ossee. In umana viene inoltre descritta una rarissima forma di osteosarcoma con coinvolgimento osseo multiplo. Descrizione del caso. Nel luglio 2007 una gatta femmina sterilizzata di 10 anni, di razza comune europea, viene portata alla visita clinica per una zoppia anteriore destra, associata a forte algia a livello della spalla. L’esame radiografico rivela la presenza di una massa ossea dell’epifisi prossimale dell’omero. Gli esami radiografici del torace e l’ecografia addominale non evidenziano metastasi visibili. Viene effettuata una biopsia ossea in anestesia generale, con esito istologico di osteosarcoma. Si procede all’amputazione completa di scapola ed omero. Considerando i dati favorevoli riportati in letteratura sulla prognosi di osteosarcoma appendicolare felino trattato con la sola amputazione, si decide di non procedere con terapia adiuvante. Tuttavia, dopo otto mesi la gatta viene riportata alla visita clinica per difficoltà respiratorie. Le radiografie toraciche evidenziano un pattern nodulare a carico dei lobi caudali, compatibile radiograficamente con lesioni metastatiche. Viene iniziato un protocollo palliativo in monochemioterapia con carboplatino al dosaggio di 240 mg/m2 per via endovenosa, ogni tre settimane. Dopo i primi due cicli, durante i quali la gatta sembra giovare di un miglioramento della respirazione, si evidenzia un peggioramento delle condizioni cliniche generali. In particolare la gatta appare dolorante e restia al movimento; tutti i tre arti risultano edematosi, caldi e dolenti. Vengono effettuate radiografie ossee a tutti gli arti con evidenziazione di proliferazioni periostali irregolari diffuse associate ad aree di osteolisi a carico di radio ed omero anteriori sinistri, e di tarsi e metatarsi posteriori di entrambi gli arti. I proprietari rifiutano le biopsie e, date le condizioni cliniche del paziente, richiedono l’eutanasia. Dopo la morte del paziente viene effettuato l’esame autoptico, con conferma della presenza di una massa nel lobo polmonare caudale destro, oltre a lesioni nodulari miliari diffuse ad entrambi i lobi caudali. In sede autoptica vengono prelevati campioni per l’analisi istologica dei tre arti e delle lesioni polmonari. In tutti i casi l’esito istologico è di osteosarcoma. Conclusioni. La prognosi infausta a breve termine e il comportamento biologico metastatico rendono atipico questo caso di osteosarcoma appendicolare felino. Inoltre, si tratta della prima descrizione di un coinvolgimento osseo multiplo di osteosarcoma nel gatto. In medicina umana è descritta una rara forma di osteosarcoma multicentrico con coinvolgimento osseo multiplo, non associato, almeno nelle fasi iniziali, a coinvolgimento metastatico viscerale. Questa patologia prende nome di Osteosarcoma Multicentrico, ammettendo nella definizione stessa uno sviluppo, contemporaneo o non, di lesioni multiple primarie e non di una forma metastatica secondaria ad una neoplasia primaria. Il caso in esame, per via dell’interessamento polmonare, sarebbe da considerarsi una forma metastatica multipla piuttosto che una forma multicentrica, tuttavia il coinvolgimento polmonare potrebbe anche essere successivo alle lesioni ossee multiple che non erano state valutate radiograficamente fino al momento dell’esacerbazione dei sintomi clinici.Il protocollo chemioterapico è stato ben tollerato, tuttavia è risultato poco efficace sul controllo del tumore, confermando la scarsa efficacia della terapia medica nei casi di osteosarcoma già metastatici, come già dimostrato nel cane. Da questo caso clinico si evince che l’osteosarcoma appendicolare felino, come già dimostrato nel cane e più ampiamente nell’uomo, può metastatizzare anche a livello osseo, suggerendo l’introduzione di esami radiografici e/o scintigrafici nel protocollo stadiativo di questa neoplasia. Infine, la terapia esclusivamente chirurgica si è rivelata inefficiente nel controllo della neoplasia, suggerendo anche nel gatto, come nel cane, la necessità di un approccio multimodale. Bibliografia Liu S et al. Primary and secondary bone tumours in the cat. J Sm Anim Pract 1974;15:141-56. Quigley PJ et al. Tumors involving the bone in the domestic cat: a review of fifty-eight cases. Vet Path 1983;20:670-86. Bittetto V et al. Osteosarcoma in cats: 22 cases (1974-1984). J Am Vet Med Assoc 1:91-93, 1987. Heldmann Eet al. Feline osteosarcoma: 145 cases (1990-1995). J Am Anim Hosp Assoc 36:518–521, 2000. Eileen H et al. Feline Osteosarcoma: 145 Cases (1990-1995) Am Anim Hosp Assoc 2000;36:518-21. Argyris G. et a.l Diffuse Calcification of Metastases after Intensive Multiagent Chemotherapy in Widespread Osteosarcoma Leading to Death in a 18-Year-Old Male. Medical Oncology, vol. 23, no. 4, 455-462, 2006.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Scilla Salvi - Ambulatorio Veterinario, Via Roma, 45, 24030 Terno d’Isola (BG), Italia Tel. 035904737 - Cell. 3478890913 - E-mail: scillasalvi@yahoo.it

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PYOMETRA IN GUINEA PIG (CAVIA PORCELLUS) 1

K. Sarges Silva, DVM MSc1, W. Pereira, PhD2, L. Araújo, DVM1 Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS), Ananindeua/Para, Brazil 2 Universidade Fedetal Rural da Amazônia, Belem/Para, Brazil Topic: Exotic Animals

Introduction. Pyometra is established as a result of hormonal changes. The thickened uterus with fluids secreted create an ideal environment in which bacteria can grow. Additionally, high progesterone levels inhibit the ability of the muscles in the wall of the uterus to contract (Fontbonne, 2004). Treatment should be fast and aggressive because the females may develop sepsis and endotoxemia (Johnson, 1994). In guinea pigs seems to be a low incidence of pyometra, since there is no published clinical reports of disease in this species. Subclinical presentation and rapid course of the disease difficults diagnosis in rodents (Harkness & Wagner, 1989). The animal facility of the Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS) maintains a plantel of this species for reproduction. It is the first case reported and proven of pyometra in the female group. This report aims to demonstrate the possibility of pyometra in guinea pigs and contribute to the literature on reproductive diseases that affect the species. Description of the case. A female of guinea pigs (Cavia porcellus) from animal facility of the Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS) (Ananindeua-PA-Brazil), maintained in breeding, was found in prostration and starvation, presenting abdominal areas with purple color suggesting hypostasis by prolonged decubitus. The animal was separated, supportive treatment with fluid therapy and antibiotics (oxytetracycline) was started, but the animal died less than 24 hours after the observation of symptoms. Necropsy was performed to identify the cause of death. On examination the uterus observed cornual vessels congested and distended and hyperemic horns present in the lumen contents of brownish color in small amounts, and endometrium mucosa with whitish color. The histopathological examination of the uterus demonstrated the myometrium and endometrial vessels significantly dilated by the presence of blood, the endometrial glands were reduced in number, some slightly dilated with macrophages in the lumen. The luminal epithelium was mostly destroyed presenting desquamated epithelial cells and numerous polymorphonuclear cells and bacterial colonies. In another cut of the same body, there was coagulative necrosis of most glandular epithelial cells, demonstrating necrotizing pyometra as final diagnosis. Both ovaries showed several 3rd follicles, some 1rd and 2rd follicles and some follicles with degeneration of the granular layer. Histopathology showed the vagina body with coagulative necrotic reaction of the epithelium, associated with infiltration of polymorphonuclear cells in the outermost layer of the epithelium. The vaginal lumen was large desquamation of the epithelium cells, along with filamentous debris and macrophages, colonies of bacteria, which led to the diagnosis supplementary necrotizing bacterial vaginitis. Conclusions. In female guinea pig immediate observation of behavior change is a key factor when in breeding. The pyometra in this female might have resulted from recent abortion was not observed because the animal was mated and also because was observed myometrium and endometrial vessels significantly dilated with blood. The appearance of pyometra is related to the patient’s age, number of estrous cycles, but also with ovarian changes present (Oliveira, 2007). Bacterial infection is a secondary condition in which bacteria from the vagina are the most likely sources of infection of the uterus, the cervix and ascending into the uterus during estrus (Costa et al., 2007). In guinea pigs, vaginitis is not uncommon and is usually due to accumulation of dirty and wet bed material in the vagina (Sirois, 2008). Although pyometra is a rare disease in guinea pigs, females maintained for breeding has two main implications that there may be occurrence of reproductive disorders: the mating of females in mature age and obese female pregnancy (Andrade et al., 2002; Terril et al., 2000). This report has shown that the vaginitis in guinea pigs can develop pyometra resulting in a reproductive problem to be observed in this species. Bibliography Andrade A, Pinto CP, Oliveira RS. Animais de laboratório: criação e experimentação. Rio de Janeiro, Editora Fiocruz, 2002. Costa RG, Alves ND, Nóbrega RM, Carvalho CG, Queiroz IV, Costa THM, Pereira R HM, Soares HS, Feijo FMC. Identificação dos Principais Microrganismos Anaeróbios Envolvidos em Piometras de Cadelas. Acta Scientiae Veterinariae, 35, 650-651, 2007. Fontbonne A. Patologie infettive dell’apparato riproduttivo (1a e 2a parte). Proceedings of 48° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC, Rimini, 2004. p 161. Harkness JE, Wagner JE. The biology and medicine of rabbits and rodents. 3rd. Philadelphia, ed. Lea and Febiger, 1989. Johnson CA. Hiperplasia endometrial cística/piometrite. In: Nelson RW & Couto CG. Fundamentos de medicina interna veterinária de pequenos animais. Rio de Janeiro, Guanabara Koogan, 1994. Sirois, M. Medicina de Animais de Laboratório. Princípios e Procedimentos. São Paulo, Roca, 2008. Oliveira KS. Complexo Hiperplasia Endometrial Cística. Acta Scientiae Veterinariae, 35, 270-272, 2007. Terril LA, Clemons DJ, Wagner JE. Laboratory Animal Medicine and Science – Series II. Guinea pigs: Noninfectious Diseases. Seattle, American College of Laboratory Animal Medicine, 2000.

Corresponding Address: Dr. Klena Sarges - Evandro Chagas Institute (IEC/SVS/MS), BR 316, km 07, s/n, 6703000 Ananindeua/Para, Brazil Phone 55 91 32142070 - Mobile 55 91 88077525 - E-mail: klenasilva@iec.pa.gov.br

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DERMATOSI ATIPICA NEL CONIGLIO DA COMPAGNIA (ORYCTOLAGUS CUNICULI) S. Silvetti, DVM1, C. Gelmini, DVM2 Libero Professionista, Miasino (No), Italia 2 Libero Professionista, Amb. Veterinario Vallecamonica, Darfo Boario Terme (Bs), Italia 1

Area di interesse: Animali esotici Introduzione. La dermatologia del coniglio è da sempre stata studiata, in Medicina Umana, come modello per la fisiologia e la patologia cutanea o per lo studio di test carcinogenetici, tossicologici, di fototossicità. Poco però si è fatto sinora, per lo studio della Clinica dermatologica vera e propria del coniglio da compagnia. Le patologie cutanee del coniglio sono convenzionalmente raggruppate in: comportamentali, metaboliche, traumatiche, parassitarie, infettive e neoplastiche. Spesso mute eccessive sono confuse con problemi dermatologici poiché nei conigli domestici si assiste a massicce perdite di pelo che lasciano scoperte più o meno ampie aeree di cute alopecica. Questi episodi non sono presenti nelle popolazioni di conigli selvatici e sembrano essere dovuti alla selezione delle razze e varietà presenti sul mercato. Descrizione del caso. Nel Novembre del 2007 si presenta alla visita semestrale per il richiamo vaccinale, una coniglia femmina sterilizzata, di circa 3 anni di età. Alla visita si riscontra rarefazione del pelo, poca forfora a carico delle orecchie, dorso naso e contorno occhi, non si segnala prurito; le lesioni risalivano all’Aprile precedente. Sono state trattate da un Collega con terapia topica a base di econazolo e per os con itraconazolo, non correttamente somministrato. Dopo la visita sono stati eseguiti una coltura micotica su DTM e raschiati cutanei, risultati negativi. Su sospetto di una iniziale infestazione atipica di Sarcoptes, si inizia una terapia a base di Ivermectina a 300 µg/kg ed applicazioni di Clorexydina al 4% giornaliere. Viene riferito un leggero miglioramento. A Febbraio 2008 si assiste ad un peggioramento delle lesioni con estensione delle aree in precedenza coinvolte. Si eseguono nuovi raschiati, scotch test e tricogrammi risultati negativi. Si decide di eseguire delle biopsie cutanee a livello della superficie esterna dei padiglioni auricolari, alla base delle orecchie e regione dorsale del tronco. Il referto riferisce di una dermatite cronica linfocitaria da perivascolare a interstiziale con atrofia follicolare e fibrosi, anche se non si riconosce un pattern ben definito. Viene consigliato di indagare sull’esposizione a sostanze irritanti ambientali, allergie, problemi interni quali timoma o linfoma renale. Si decide di cambiare luogo di detenzione del coniglio; viveva in gabbia e su cemento e viene spostato su una superficie tipo linoleum, le terapie vengono interrotte. Si rivede la paziente a Maggio 2008 per un aggravamento ed una estensione delle aree alopeciche che si estendono a tutto il dorso con presenza di eritema e prurito, nonostante gli esami collaterali negativi si decide di insistere con la terapia per Cheyletiella abbinando la terapia topica (Neoforactil®) con quella sistemica con Ivermectina al dosaggio di 500 µg/kg; si assiste solo ad un iniziale miglioramento. Passati circa 60 giorni e visto il continuo progredire delle lesioni, si ripetono le biopsie in diverse aree (padiglione auricolare, dorso del naso, scapola) e si esegue un prelievo ematico per un esame emocromocitometrico, emobiochimico ed elettroforetico del siero. Gli esami ematobiochimici sono risultati entro i parametri di riferimento, i risultati dell’esame elettroforetico sono di difficile interpretazione vista la scarsità di campioni analizzati in quel Laboratorio. Il referto bioptico parla di stadi evolutivi diversi, la localizzazione dell’infiltrato non è sempre la stessa e complica quindi l’interpretazione. Sembra che l’infiltrato abbia come sede preferenziale la regione media del follicolo, sede delle ghiandole sebacee dove è situata la zona istmica. La diagnosi potrebbe pertanto essere compatibile con follicolite linfocitaria dell’istmo (pseudopelade) e conseguente coinvolgimento secondario delle ghiandole o con una adenite sebacea a diversi stadi evolutivi, non si esclude inoltre possa trattarsi di una dermatite linfocitaria a causa sconosciuta suggerendo indagini collaterali che peraltro erano già state suggerite nella diagnosi precedente. Conclusioni. Questo caso vuole porre l’attenzione su un’area della medicina del coniglio domestico che spesso viene un po’ sottovalutata, credendo che i disturbi dermatologici siano sempre riconducibili ad eziologie che, anche se piuttosto frequenti, non rappresentano la totalità. Il caso conduceva ad un vasto diagnostico differenziale: dermatite micotica, dermatite parassitaria, muta anomala, adenite sebacea, sindrome paraneoplastica. L’esito delle biopsie ha evidenziato una importante flogosi linfocitaria come causa dell’alopecia. I referti però, non sono riusciti a classificare con chiarezza questa sindrome dermatologica che potrebbe non avere precedenti in letteratura. Sfortunatamente non è stato possibile seguire il caso con successivi approfondimenti o terapie (ciclosporina, cortisonici) a causa del decesso del paziente per cause traumatiche. Ringraziamenti. Si ringrazia il prof. Paola Roccabianca, il prof. Francesca Abramo, il prof. Francesco Albanese ed il Laboratorio S. Marco. Bibliografia F. Harcourt-Brown, Textbook of Rabbit Medicine, Elsevier Science, 2002. J. W. Carpenter, Exotic Animal Formulary, III Ed Elsevier Inc., 2005. J. R. Jenkins, The Veterinary Clinics of North America, Dermatology, May 2001, pp 543-565.

Indirizzo per corrispondenza: Dott. Sergio Silvetti, Via Per Armeno, 1, 28010 Miasino (NO), Italia Tel. 0322/980907 - Cell. 340/1441276 - E-mail: sergio.silvetti@gmail.com

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