L'uomo dei saldi

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L’Uomo dei Saldi e... I testi di questo volumetto, scritti più di venticinque anni fa e dimenticati in una scatola di Agfa Copyproof, recentemente mi sono tornati tra le mani. Li ho riletti e non potendo ignorare le loro fatiche nel sopravvivere ad alcuni traslochi, ho deciso di premiarli e di premiare anche me per la lungimiranza dei contenuti. Sembra infatti che in venticinque anni non sia cambiato nulla (o molto poco) nelle abitudini e nelle tendenze di tutti noi: gran parte dei testi potrebbero essere stati scritti ieri.

L’Autore E’ facile parlarne quando chi scrive parla di sè stesso e quando lo stesso si è occupato almeno da quarant’anni di comunicazione spogliandola sempre più spesso delle componenti magiche che il mondo della creatività le ha spesso associato. Comunicare è un mestiere, un mestiere che va imparato come tutti gli altri mestieri e lo si impara meglio se si usa il cervello e un cervello bene allenato a percepire i segnali che gli giungono dall’esterno è di grande aiuto per capire non solo il presente ma anche l’immediato futuro. Comunicare per il presente significa infatti farlo per il passato, comunicare per il futuro comporta il rischio di errori: chi sbaglia di meno è bravo e io, per fortuna, scrivendo questi testi, ho sbagliato pochissimo.

Maurizio Frizziero - 1982-2010

Maurizio Frizziero

l’Uomo dei Saldi e altre pre-visioni

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Tutti i diritti riservati Š 1982-2007 Maurizio Frizziero Realizzazione editoriale: Roberto Barbieri

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Indice

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Prefazione di Marco Vimercati

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L’Uomo dei Saldi La Casa Comoda E le formiche si estinsero Chi legge e chi no I prati di casa nostra Il futuro assicurato L’uomo senza fantasia E il cantante inforcò i pattini La cravatta rosa La Macchina della Mediocrità Lasciapassare per meditare Il potere occulto Ama il prossimo tuo Il cibo nell’Era della Gabelle Il cielo della provincia L’uomo che vive solo La donna che vive sola La donna e il ricatto dell’istinto La donna nuova

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La verifica dell’identità Il trascorrere dei giorni I geni dispersi Il colore della libertà Il costo della sicurezza Le vittime della cultura L’arte e i suoi escrementi L’arte dello spettacolo Il diritto alla critica I valori di un saggio La conquista della libertà Nessuno fumi al cinema La fine

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Prefazione di Marco Vimercati

Non c’é quasi niente di sorprendente nel fatto che uno scriva un libro. Oggi quasi tutti lo fanno, perfino il sottoscritto. Quello che è più inconsueto è il fatto che uno scriva un libro, lo dimentichi in un cassetto e dopo venticinque anni, ritrovandolo, lo pubblichi praticamente senza rileggerlo. E potrei aggiungere che sembra scritto ieri. O forse domani. Essendo un libro che parla di contingenze dovrebbe essere estemporaneo, e invece è metastorico. Non so dire se sia bello o brutto, interessante o noioso, però è metastorico, forse profetico, come lo è il suo autore. Siccome è difficile definire sia questo libro che il suo autore, sarei tentato di scrivere qualcosa di presuntamente intelligente per introdurre qualcosa di presuntamente intelligente. Cosa che – tra l’altro – mi eviterebbe il compito di (ri)leggere il libro. Invece opto per la strada meno spettacolare: scrivere una presentazione di quanto state per leggere e scrivere anche una presentazione del suo autore. Lui mi ha assegnato il compito di scrivere la prefazione, e siccome io a tutt’oggi continuo a reputarmi un suo subalterno come fui nel 1979, obbedisco. Allora, cominciamo dal testo. L’uomo dei saldi. Un’altro buon titolo avrebbe potuto essere “Manuale delle postMarmotte”, perché riguarda quello che è successo “dopo”. Il mondo che c’era prima, quando c’erano le Giovani Marmotte, non c’è più. Bisogna infatti dire che quasi tutti i viventi contemporanei, e segnatamente quelli nati alla metà del precedente VII


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secolo, hanno assistito per la prima volta nella storia ad un fatto assai singolare, noto alle cronache con il vezzeggiativo di Apocalisse. Le nostre generazioni migliori, ovvero quelle nate prima della barbarie finale, hanno vissuto questo totale cambiamento di paradigma: sono passate da un mondo in cui tutto era ancora da fare (libertà, benessere, economia, modernità) a un mondo in cui tutto è già stato fatto (sostituzione della libertà con la permissione totale, del benessere con l’opulenza narcisistica, dell’economia con la finanza, della modernità con la centuplicazione delle opzioni) e dopo avere abbondantemente fermentato volge alla putrefazione. A pensarci bene c’è di che impazzire. Cosa che, infatti, è successa a molta gente, forse a tutti. Siamo passati dalle cose alla rappresentazione delle cose, il che è esattamente come far l’amore con una bambola gonfiabile, come vedere trasformati gli oggetti dei nostri desideri in cadaveri inorganici a causa di una specie di cancro radioattivo. Ecco quindi un taccuino postnucleare. Ma guai a pensare che sia un libro di recriminazioni o rimpianti. È un libro di adattamento. È un antidoto. È un trattato spicciolo di Environmental Anthropology, forse. O forse è un libro di consapevolezza post-newage. Un manuale di sopravvivenza per cadaveri, e anche un Nuovo Galateo. E forse qua dentro ci sono già tutte le metabolizzazioni successive ai vaffanculo dei Grillo e ai barbari di Baricco, alle prospettive futurologiche di Rifkin. L’autore giura che dalla prima stesura, quella del 1982, non è cambiato niente. E lo confermo. Lo lessi all’epoca, e c’è ancora una stampata con i fogli ingialliti e le lettere di una obsoleta margherita Olivetti. Capite, allora, la profezia? Certo, sarebbe stato meglio leggerlo allora, quando forse ancora si poteva salvare il salvabile. Ma qui vediamo che qualche margine di sopravvivenza forse è rimasto. Qualche profezia può ancora aiutare noi topi a ballare, adesso che il gatto non si vede più. E non perchè è andato via. È solo diventato enorme: è un mondo-gatto così grande che non si VIII


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Prefazione

avverte più la sua presenza, come avviene per le pulci, che percepiscono il cane come un territorio. Così i topi ballano, o credono di ballare. Balleremo fino alla fine, ma con qualche differenza tra gli uni e gli altri. Alcuni balleranno come gli imbecilli inconsapevoli di “Amused to death” di Roger Waters, altri balleranno con consapevole dignità, come l’Uomo dei Saldi. A ben pensarci non c’è molto altro da fare, e la ricetta non può essere che quella detta in queste pagine: “dimenticare le regole della nostra formazione per accettare quello che siamo divenuti, nel mondo al quale siamo giunti. C’è chi ce la fa, dimenticando i fantasmi del passato, e che è pronto a sopportare il pensiero che la nostra società stia per finire. Senza traumi, perché il discorso è il solito: una vita è lunga una vita, e alternative ad una vita in un determinato momento non ce ne sono”. È cinicamente celestiale. Per il sottoscritto è roba da guru, da profeti, da eroi mitologici. Ho sempre ammirato nei film americani quei protagonisti che scopano e festeggiano la notte prima della battaglia, quelli che quando sono sotto tiro mostrano sprezzo della morte e incalzano a male parole il loro carnefice o fanno battute sarcastiche. Io in genere le notti prima delle battaglie le passo seduto sul cesso. E non imploro i carnefici solo perché ho conosciuto Frizziero e da lui ho avuto diverse lezioni di dignità. Per affrontare le cose con dignità ci vuole distacco, e il distacco cambia il nostro punto d’unione con la realtà, (a volte forse lo sottrae del tutto) e comunque genera profezie. E tra le più accorte e utili, in queste pagine, ci sono quelle sui profili della società del denaro, sull’Era delle Gabelle, come la chiama lui. Sulla colossale truffa ai danni delle formichine. Sull’inconsistenza del denaro. Perché il denaro diventa interessante, quando a parlarne è qualcuno che ne è distaccato. Il distacco dell’autore dal denaro ne fa certamente un ottimo utilizzatore. A distanza di anni, dopo averlo definito generoso, prodigo, scialaquatore, devo rimanIX


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giarmi tutto e ammettere semplicemente il suo considerare il denaro come energia congelata, tipo una pila, una batteria o un bastoncino di pesce findus. Roba da consumare preferibilmente entro. Al giorno d’oggi forse basterebbe questa cifra a fare di un uomo un essere fuori dal comune, un mostro o un principe. Essere distaccato da una cosa per cui la gente – tutta la gente – sbava, brama e smania, gli da già una posizione regale, come di chi può solo dispensare e non può chiedere. Occorre rimarcare che questa posizione dell’autore gli consente (forse lo obbliga ad) una eccezionale autonomia di pensiero, e all’applicazione di questa autonomia in vari campi. Semiologo, uomo di marketing, pubblicitario, compratore compulsivo, imprenditore, fotografo, nottambulo (e nettambulo), antropologo, scrittore, collezionista, censore cinico, artista, guida spirituale e behavioristica: nessuno di questi termini definisce con esattezza il soggetto, ma nel cumulo si profila un po’ la figura di un’intransigente dotato di un’enorme tolleranza, pronto a perdonare qualunque – davvero qualunque – peccato, tranne l’avarizia. Ossimoro vivente, destabilizzante proprio perché non inquadrabile in definizioni precotte, solo chi non lo conosce lo definisce “un uomo pieno di contraddizioni”. C’è chi lo definisce un ottuso di larghe vedute o un genio cocciuto. Tra tutte le definizioni ossimoriche, che sono quelle che meglio definiscono l’autore, voglio ricordare quella di Gigi Miglietta: “un perdente di successo” (o un vincente senza allori). In realtà dire che Frizziero è un razzista solidale, che è un aristocratico democratico, che è un poeta razionalista o che è un ateo religioso, per coloro che lo conoscono sono solo banalità che non fanno altro che dettagliare meglio il Tao, simbolo di armonia cosmica e di pacifico convivere degli opposti. Ma per chi non lo conosce sono frasi che dicono poco o niente. Lasciamo quindi da parte le definizioni e avventuriaX


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Prefazione

moci nella lettura: si affrontano argomenti diversi, e il tutto sembra solo una collana di articoli giornalistici. Ma non lasciamoci sfuggire la cosa più interessante, la costante: il punto di vista. L’osservazione che non è quella dell’uomo della strada e neanche quella dell’upper-class. Dell’intellettuale o dell’autoemarginato meno che mai. È fuori-classe. È uno stato. Uno stato profetico e regale, dignitosamente cinico, ricco di buongusto, logica, ironia ed euristica, che vale la pena di sperimentare. Vale la pena, anche per i più idioti, di provare a seguire Frizziero nella Casa Comoda, e da lì osservare la fermentazione, scoprendo magari che qualche distillato di questa fermentazione può ancora regalarci un po’ d’ebbrezza.

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Meglio essere ottimisti e avere torto che essere pessimisti e avere ragione. ALBERT EINSTEIN


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Le stagioni, con le loro regole e i loro umori, dettano agli uomini una precisa serie di consumi. Chi produce conosce bene l’andamento della richiesta e fa programmi con parecchi mesi di anticipo. Anche chi distribuisce non può permettersi di trovarsi impreparato di fronte alla richiesta e, pur cercando di diminuire il rischio, è costretto ad acquistare o per lo meno ad ordinare la merce con almeno una stagione di anticipo. L’unico ad utilizzare il presente è il consumatore che può permettersi di entrare in un negozio, guardare scegliere con calma e alla fine decidere. Il meccanismo d’acquisto è semplice: per le cose necessarie l’acquisto è preceduto da una serie di confronti e di considerazioni oggettive, poi il passo va fatto e di conseguenza viene fatto. Per le cose non necessarie il desiderio del possesso fa nascere l’impulso d’acquisto, il bene viene valutato e si decide di destinare ad esso una cifra ben precisa, pur sapendo di poterla modificare all’ultimo momento, spendendo naturalmente di più. Tutti questi discorsi sono validi finché uno deve fare i conti con i soldi, che in teoria dovrebbero servire prima per il necessario e poi per il superfluo. Ma in momenti in cui non si è ancora deciso se il superfluo sia più necessario del necessario c’è sempre grossa indecisione sul da farsi e le regole del gioco non le stabilisce più chi fa i programmi ma chi decide gli acquisti. Proprio tra loro si annida la serpe, l’asociale che fa sballare i piani della produzione e le previsioni del dettagliante, l’individuo che di punto in bianco decide di avere pagato in passato tutti i tributi che gli spet1


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tavano, di avere contribuito in misura sufficiente al sostentamento dei Gabellieri che con perline e specchietti l’hanno allettato e vessato per anni. All’improvviso, senza alcun sintomo, costui si ammala di salute, rifiuta la persuasione e comincia ad usare il cervello: stacca la spina e si disinserisce dagli schemi tradizionali. La cosa più incredibile è che nessuno si accorge di queste deviazioni dalla norma e l’Uomo Liberato addirittura comincia a ricevere dei premi per la sua scelta. Scopre i saldi, le svendite fuori stagione, non più come fatto occasionale ma come regola d’acquisto. Vive in leggero ritardo i consumi degli altri, ma ad un prezzo che lo ripaga abbondantemente dell’attesa. Non ha fornitori abituali, perché acquista in occasioni particolari o perché ha capito che il Gabelliere tipo ha una particolare predilezione per i nuovi clienti e concede loro, in attesa di futuri e più proficui contatti, condizioni particolarmente vantaggiose. Ha scoperto nel supermercato una macchina che applica gabelle con minore soggettività o che ha tempi più lenti nell’applicare aumenti sulle giacenze. L’offerta speciale non funziona a meno che non si tratti di beni d’uso abituale che verrebbero egualmente acquistati ad un prezzo superiore. Qualche volta, di conseguenza, vive i consumi degli altri con marche diverse, meno note ma di uguale qualità. La sua Casa Comoda riflette a pieno la mutazione da Uomo Medio a Uomo Saggio: gli oggetti simbolo del passato sono stati affiancati da altri, meno costosi anche se altrettanto confortevoli, il tivucolor ha solo 16 canali e non 1400 e il modello è vecchio di un paio d’anni, la musica viene riprodotta in maniera più che decente nella gamma dell’udibile e basta una bottiglia di whisky per gli amici di passaggio. Un uomo così spende di meno e verrebbe naturale pensare che abbia minori gratificazioni, minori compensazioni. Sarebbe forse vero se la sua scelta fosse forzata, se per questioni di bilancio familiare fosse obbligato a limitarsi quoti2


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dianamente, nel necessario e nel superfluo. Con una scelta libera, una scelta che gli permette di limitare razionalmente la spesa nella fase d’acquisto, egli può trascorrere più tempo senza l’assillo del denaro, vivere con maggiore tranquillità. Questa vita diversa, individuale, costituisce un pericolo per la collettività, non si adatta alle regole di un mondo di troppi, di un sistema necessariamente impersonale e può portare, nel momento in cui questo stile individuale diventa tendenza di molti, a disastrose conseguenze. Ma qui si rientra in un vicolo cieco e si ricomincia ad indagare se sia morale lottare per raggiungere il benessere individuale quando ciò può creare danni alla collettività. Per il momento non posso impegnarmi a portare avanti questo problema, pur sapendo che solitamente ci si aspetta da chi scrive una presa di posizione: tra poco apre il negozio qui all’angolo e mi hanno detto che fa dei saldi a prezzi davvero incredibili!

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La Casa Comoda

Da qualche parte, senz’altro sopra di noi, ci sono gruppi di persone che si occupano e si preoccupano del bene della collettività. Molto probabilmente stanno lottando con coraggio per andare avanti come se non stesse succedendo niente, per assicurare a tutti noi una sopravvivenza senza scossoni eccessivi. Una fatica improba perché malgrado tutti i loro sforzi siano concentrati sulla scelta di rimedi aderenti alla realtà è la realtà stessa che sfugge loro. E se mancano rimedi globali l’individuo deve lottare e assicurarsi una vita più vicina ai suoi desideri, senza curarsi se il suo agire sia in linea con il bene e con le necessità della società cui egli appartiene. Questa sua battaglia per la sopravvivenza sopisce quotidianamente il suo istinto per la vita e la ricerca della felicità viene sostituita dalla ricerca di un tivucolor con 1400 canali. Un tivucolor privato, da non ostentare, non più simbolo di condizione sociale ma compensazione di fatiche, gratificazione personale per centinaia di giornate di sacrificio, nuova tessera di quel grosso mosaico che è la casa d’oggi, una cuccia comoda e protettiva. Un tivucolor risparmiato sottraendo momenti di vita di gruppo che di giorno in giorno diventano troppo costosi per essere assorbiti con facilità da un bilancio familiare. Si andava al cinema senza badare troppo al titolo del film, ci si immergeva in sale fumose senza protestare troppo, ci si sedeva in mezzo a sconosciuti senza che ciò ci desse fastidio. Si era in mezzo alla gente, lo si sentiva dal brusio sommesso, dagli odori stantii, dai colpi di tosse isolati. La gente 5


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addirittura applaudiva l’arrivo dei nostri o la punizione del cattivo, si commuoveva o si arrabbiava. L’intervallo tra il primo e il secondo tempo sembrava fatto apposta per guardarsi in giro, per cercare un volto noto tra i presenti, per bere una bibita o per sgranocchiare i semi di zucca. Ricordi non lontani, ma ormai sembrano secoli. Alla cassa stava solitamente il proprietario che, nelle sere magre, aspettava a dare il via all’operatore sperando in qualche ritardatario. Poi, piano piano, si scoprì che anche il cinema era cultura e venne di moda il cine-forum dove, al termine della proiezione, ciascuno poteva dire la sua o, se lo preferiva, fare delle domande. Un nuovo modo per stare in mezzo alla gente, per capire, per confrontarsi, per imparare. Poi giunsero i tempi dell’impegno e, ormai critici esperti, si tornava a discutere dell’ultimo film di Antonioni o dei primi di Godard. Si andava al cinema seguendo titoli, attori, registi, recensioni e se ne usciva continuando il discorso al bar, su una panchina, camminando. Sempre in mezzo alla gente. Costava anche del denaro, ma poco. Dopo il cinema, prima del cinema, invece del cinema c’era un altro posto tranquillo, dove andare in mezzo alla gente, il bar. La gente, parlando del bar abituale, lo indicava in maniera possessiva, lo chiamava il mio bar. Un bar costruito in maniera diversa da quelli attuali: niente registratore di cassa, niente cassiera dal trucco perfetto, niente vetrinette tavolafredda, niente tante altre cose. Un’atmosfera tranquilla, quasi casalinga, dove padrone e clienti sedevano spesso allo stesso tavolo a chiacchierare come vecchi amici. Un posto dove si passava del tempo, spendendo anche del denaro, ma poco. Lo stesso discorso per la trattoria, dove il padrone ci veniva a salutare come se fossimo ospiti, dove il cibo non si fregiava di nomi altisonanti ma aveva buoni sapori di casa. E anche qui c’era gente che pagava, volentieri, perché il conto era giusto. 6


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La Casa Comoda

Poi è arrivata l’Era delle Gabelle. La gente ha dovuto sottostare ad una lunga serie di vessazioni. lo stare insieme costa molto di più di quanto non sia ragionevole perché il Padrone Astuto ha capito che il pubblico non cerca cibo o bevande ma un posto dove comunicare con gli altri e ne ha intuito la potenzialità economica. Ha abbellito il suo bar, imbruttendolo, ha cercato di renderlo più comodo ed accogliente perché la gente, diminuita in quantità, si fermi più a lungo spendendo di più. Insoddisfatto di un listino obbligatorio e della sua oggettività, ha introdotto varianti non prevedibili per imporre costi non discutibili. Al ristorante la stessa cosa anche se con meno specchi e più oggetti di origine contadina. La bomba del rustico ha fatto centro e anche qui il Padrone Psicologo ha forzato la mano con tutte le libere associazioni verbali: rustico/buono, rustico/tradizione, rustico/genuino con la stessa fatica dell’affondare il coltello nel burro. E così, pagando la solita gabella, la gente si è ritrovata assieme senza protestare troppo, perché la scenografia tutto sommato era corretta e assomigliava molto ad una realtà già conosciuta. L’Albero delle Gabelle ha dato i suoi frutti ma ora sta diventando secco: la gente che sa fare i conti ha scoperto che, se non si possono fare i conti senza l’oste, la cosa più semplice è eliminare l’oste. Per sostituirlo magari con un tivucolor da 1400 canali. Si conclude così un ciclo artificioso e se ne inizia un altro, molto più privato; finisce l’Era delle Gabelle e inizia quella della Casa Comoda, una casa che difficilmente era esistita in passato. C’erano infatti case ricche e case povere ma tutte improntate alla funzionalità: la sala, per esempio, era per gli ospiti, la camera da letto dei ragazzi serviva esclusivamente ai ragazzi per andarci a dormire, la cantina serviva per il vino e come deposito di tutto il ciarpame che andava tenuto con cura per qualsiasi evenienza. La sala della Casa 7


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Comoda è ora il centro della vita familiare, ci si può finalmente stendere sul divano, consumarlo, schiacciarlo. Le bottiglie, una volta gelosamente chiuse a chiave, compaiono in bella vista su un mobile, la luce elettrica, ben dosata ed abbondante, non è più diretta contro il soffitto con effetti da sala d’aspetto di dentista, ma ben distribuita con zone d’ombra e di luce intensa. I quadri hanno riempito le pareti, libri e accessori rendono vissuta la stanza, amplificatore, giradischi, casse acustiche e tivucolor aumentano la vivibilità di questo locale chiave. Qui di inverno c’è un bel tepore, le finestre ormai hanno i doppi vetri perché si risparmia energia e quei fastidiosi rumori rimangono all’esterno. Dentro rumori non ce ne sono più perché la moquette ha ricoperto il vecchio pavimento di graniglia e il panno ci ha tolto anche la seccatura di chiamare ogni tanto l’imbianchino a rinfrescare le pareti. Il centro della Casa Comoda è a prova di notizia: qualsiasi cosa succeda all’esterno, per quanto grave sia, rafforza la convinzione di avere fatto un’ottima scelta nel dedicare tempo e denaro a questa vera e propria roccaforte dove non possono giungere i problemi del mondo esterno. Non entrano neppure i profumi della primavera o le notti stellate d’estate, ma qualche piccolo sacrificio bisogna pur farlo! D’altra parte se una volta era possibile incontrare gente dappertutto ora le cose non stanno più così e allora una casa comoda ti permette di stare di nuovo in mezzo ai tuoi amici. In effetti una casa comoda è molto più socializzante della Casa Funzionale che non prevedeva una vita sociale intensa. Nella casa funzionale tutto era al suo posto, in sala le cose per gli ospiti, in tinello le cose per la famiglia, in cucina le cose per il cibo. Solo i ragazzi, con la loro tendenza al disordine, creavano un po’ di scompiglio, portandosi addirittura la radio in camera da letto. L’uso dei liquori era subordinato a improvvise situazioni di necessità/emergenza o a particolari occasioni. In entrambi i casi si utilizzava un bicchierino minuscolo, 8


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La Casa Comoda

poco più di un ditale da cucito, perché, sia nell’un caso che nell’altro, non era certo la quantità a risolvere la situazione: una medicina va data con cautela e il superfluo va concesso con moderazione. Ora, nella casa comoda, si può bere tranquillamente, non c’è censura sui piccoli vizi, l’esperienza che ne deriva trasforma l’ospite in un intenditore e c’è un argomento in più per le serate conviviali. Per quando si sta zitti c’è sempre il tivucolor con 1400 canali al centro dell’attenzione pronto a sfornare migliaia di film pronti a suggerire modelli di vita e di comportamento. Battendo e ribattendo usi e consumi approdano sulle nostre rive e piano piano ci troviamo a servire un Martini al nostro vicino di casa o ad indossare la vestaglia da camera durante un’occasione galante, per non parlare d’arredamento e di accessori per la casa e tanto meno di discorsi impegnati su temi universali. È un bene o un male che questo benedetto o maledetto tivucolor ci propini film, situazioni e modelli di età variante tra i dieci e i trent’anni? Se da una parte c’è una costante riproposta di oggetti e di beni come simboli di condizione sociale, dall’altra, in film fatti vent’anni fa, da gente che allora ne aveva mediamente cinquanta, c’è un grosso aggancio con la tradizione, c’è il recupero di comportamenti corretti di cui si sono, negli anni successivi, persi i modelli. Linguaggio e maniere, a parità di contenuti, si sono deteriorati, l’educazione è rimasta privilegio di pochi, il sacrificio è ormai una terra inesplorata. L’involontaria riproposta televisiva di un mondo ormai andato ci appare ingenua, fuori moda, inutile. Scavando a fondo ci accorgiamo che invece svolge un lavoro lento, sotterraneo, su individui che, avendo fatto la scelta di casa comoda, proprio per questo si trovano ben disposti all’assimilazione dei dati che vengono loro forniti. Se le cose vanno davvero così è come se la gente leggesse tutti i giorni un giornale vecchio di dieci anni, trovandoci scritto sopra tutti i giorni qualcosa di buono ma non riuscen9


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do mai a raggiungere la realtà, ad avvicinarsi al presente. È, di conseguenza, automatico che avvenga una costante delega di responsabilità e che la fatica di preoccuparsi per il bene della collettività sia di quei pochi che hanno il coraggio di cercare di essere al passo coi tempi e di cercare rimedi aderenti alla realtà per andare avanti, senza scossoni eccessivi, come se non stesse succedendo niente. E il gatto si morde la coda perché la realtà sfugge loro e il singolo, giudicando inutile l’opera del delegato, si mette a lottare con tutte le sue forze per permettersi una casa comoda e un tivucolor a 1400 canali.

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E le formiche si estinsero

Si consumava anche una volta. Si acquistava, si seguivano le mode, si buttavano via, anche una volta, dei quattrini. Non molti, sia perché le occasioni di spenderli male erano minori, sia perché il necessario veniva prima del superfluo in un’epoca di austerità dove era facile stabilire degli ordini di priorità. Per consumo si intendeva logorio e dato che la qualità era di gran lunga superiore a quella dei nostri giorni il consumo era molto limitato. L’indumento logoro, cessata la sua funzione, difficilmente veniva gettato perché, proprio nel momento in cui veniva smesso, iniziava la sua seconda vita. Con un po’ di tempo e un pizzico di creatività il capo, smontato, rivoltato, tagliato subiva nuove e diverse destinazioni. Nella peggiore delle ipotesi finiva, piegato e ripiegato in attesa di riutilizzarlo, sotto naftalina in un vecchio mobile della soffitta o della cantina. Questi locali hanno avuto fino a pochi anni fa un’importanza strategica, pur mutando pian piano la loro destinazione, passando da dispensa a magazzino. Parecchi decenni fa ci venivano accumulati infatti cibi e vini, in cantina quelli che avevano bisogno di temperature fresche e costanti, in soffitta il resto che doveva essere fresco e aerato. Poi la casa decise di cambiarsi, di rinnovarsi: tutto ciò che veniva sostituito non andava regalato, venduto, buttato via. Veniva immagazzinato con la certezza che, prima. o poi, sarebbe servito. D’altra parte cibo e vino cominciavano a trovarsi facilmente, potevano pure essere portati a domicilio senza alcun aggravio di spesa e soprattutto non si era più obbligati a quei fasti11


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diosi salti in cantina quando mancava qualcosa. La cantina e/o la soffitta acquistano una loro vita indipendente, vengono quasi dimenticate così come viene dimenticato spesso tutto quello che contengono. L’importante era conservare, non gettare via niente. Questo schema si trasmise di padre in figlio, di madre in figlia, divenne una regola dettata dalla saggezza e dalla previdenza, un monito perché la gente fosse sempre pronta ad affrontare tempi più duri. I periodi di guerra avevano insegnato molto, avevano prodotto più formiche che cicale. Il ricordo dei tempi bui pian piano cominciò a svanire e di conseguenza l’inutilità del sacrificio si annidò nelle coscienze. Mancando il presupposto per continuare ad esistere, le formiche si estinsero. Rimase però radicato lo schema dell’accumulo delle cose inutili che porta a paradossali collezioni di oggetti usati diventati inservibili. Il trauma più grave per l’ex formica o per il suo discendente diretto, nato ed educato in tempi d’austerità, è il meccanismo, assolutamente nuovo, dell’usa-e-getta, nato da nuovi schemi economici, dettato da un salto di qualità delle filosofie di produzione, in ogni caso rottura col passato e con la tradizione. L’accendino, ormai scarico, da gettare, una lattina vuota di Coca Cola, un televisore vecchio di vent’anni, un orologio annegato durante la doccia, tutti questi oggetti – ed altri – devono essere recuperati. La più facile tra le operazioni di recupero, è l’inserimento dell’oggetto in una collezione di oggetti simili, una operazione dove un criterio oggettivo può regolare l’annessione dei nuovi pezzi. Si può invece compiere un’altra operazione, più soggettiva; rintracciare nell’oggetto ormai degradato delle componenti estetiche che ci permettano di salvarlo dalla pattumiera. Se ci poniamo il problema in questi termini avremo sicure giustificazioni nel raccogliere e nel tenere tutto, una massa di ciarpame priva di qualsiasi valore. Una fatica inutile. Come quando mettia12


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E le formiche si estinsero

mo in frigorifero gli avanzi del cibo per buttarli via dopo qualche giorno. P.S.

Comunque tranquillizzatevi, la gente ha la tendenza ad abituarsi a tutto. Le soffitte non ci sono più, ormai si butta via tutto, nessuno fa più collezioni perché ormai tutti buttano via tutto perché non c’è più niente che serva.

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Chi legge e chi no

C’è un sacco di gente che ci accusa continuamente di leggere poco. Naturalmente si tratta di un’accusa formulata su dati statistici che nella loro globalità poco ci dicono. Bisognerebbe isolare i buoni dai cattivi, scoprire perché questi ultimi non leggono, e poi trovare rimedi corretti per identificarne la tendenza negativa. Per un’analisi corretta non si dovrebbe ricorrere soltanto ai dati che gli editori ci forniscono sulle vendite del nuovo; esistono infatti un sacco di alternative per poter accedere alla carta stampata senza spendere una lira: i giornali vengono riciclati, i libri prestati, le bancarelle hanno i loro clienti affezionati. Sul nuovo ci sono altri canali che non contribuiscono ad incrementare gli indici ufficiali di lettura, negozi che ripropongono a prezzo scontatissimo le rese editoriali, spesso dovute ad eccessi/ errori di tiratura in campi di interesse abbastanza specializzati, dall’arte alla scienza dalla tecnica alla poesia. In questo caso il migliore cliente è l’Uomo dei Saldi, abituato a non farsi coinvolgere dalle correnti, dalle mode, razionale in tutte le sue scelte, parco nelle spese. Una monografia su Picasso, venduta a metà del prezzo di copertina di due o tre anni fa, costa un quarto di quanto costerebbe appena stampata. Il destinatario di un simile libro d’arte non si pone certo il problema di verificare la data di edizione o di screditare l’opera perché vecchia di un paio d’anni. Così va a finire che l’Uomo dei Saldi spenda in libri un quarto di quanto spendono gli altri oppure possiede una biblioteca quattro volte 15


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più ampia. E tutto collima perché i libri si accatastano e sottraggono spazio e tempo agli accessori della Casa Comoda che l’uomo Saggio non ama. C’è un’altra categoria di lettori che hanno trovato nel libro una stimolante compagnia, i pendolari del lavoro e dello studio. I treni sono pieni di studenti, di impiegati, di operai che quotidianamente fanno la spola tra casa e città, tutti disposti a leggere, a documentarsi, a istruirsi. Un libro riempie i tempi morti di trasferimento, il viaggio diventa talvolta un’occasione per istruirsi, per migliorare o per tenersi attaccati ad abitudini che a casa perderemmo, sopraffatti dalla tentazione di seguire, con minore fatica, i programmi del nostro tivucolor. Col tempo si vanno differenziando sempre più due razze, l’uomo che usa il mezzo pubblico e l’uomo che guida ad ogni costo. Il treno, per esempio, permette diverse soluzioni. L’individuo contemplativo viaggia senza alcun problema: può leggere, può isolarsi, può socializzare, può continuamente decidere quale di queste situazioni scegliere a seconda del proprio stato d’animo. Può in pratica mettere in atto meccanismi di autoterapia che lo fanno tornare a casa tranquillo, avendo annullato i residui di tensione nel viaggio di ritorno, su un mezzo che ormai gli è famigliare, dove la facce sono sempre le stesse e dove può scegliere la compagnia che desidera. Il fatto di essere obbligati a far divenire tutto ciò un’abitudine non è sentito come un’imposizione, ma come un’occasione per meglio approfondire, lontani dalle tentazioni della Casa Comoda, i propri interessi. Si possono così intraprendere programmi di mesi, di anni, senza avere paura che il tempo manchi, perché il tempo c’è, quello di un’andata e di un ritorno, almeno cinque giorni alla settimana. L’Uomo che Guida la Macchina, rispetto a suo fratello che va in treno, accumula così grossi ritardi di informazione e di cultura a meno di faticosi recuperi. E l’uomo che va in macchina ha un contatto più rarefatto con la realtà, 16


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Chi legge e chi no

conosce meno gente, le sue opinioni trovano raramente possibilità di confronto. Nella stessa situazione si trovano quasi tutti gli uomini politici, in viaggio non incontrano mai la gente, si incontrano sempre fra di loro, usano un linguaggio complesso maturato durante lunghe sedute che sembrano avere come unico scopo il tentativo di comprendersi, raramente dicono quello che pensano: non è che questo li porti a mentire, semplicemente aggirano i problemi. Difficile che salgano su un autobus, dove la gente non si cimenta in dialettica ma riesce spesso a farsi capire, dove gli odori e le spinte fanno anch’esse parte di un tacito linguaggio, questa volta aderente alla realtà. La realtà sfugge loro, l’abbiamo già detto in un’altra parte di questo libro ma loro spesso non cercano nemmeno di raggiungerla. Li troviamo troppo spesso intenti a verificare la loro posizione con le indicazioni che da monte arrivano loro quotidianamente; mancano di creatività perché le regole li hanno sopraffatti; sono diventati insensibili perché devono necessariamente affrontare qualsiasi situazione in maniera teorica. I tempi sono sempre lunghi e qualsiasi situazione può essere analizzata come se si trattasse di una partita a scacchi, con un atteggiamento di studio di tutte le possibili varianti. È un atteggiamento saggio questo, dettato da una buona dose di prudenza, una virtù che non dovrebbe mai mancare quando si è costretti a decidere per gli altri. È però un peccato che questi altri, con i loro desideri e le loro tendenze, siano identificati e conosciuti solo attraverso ricerche statistiche, che i loro stimoli e i loro comportamenti siano riassunti da una percentuale in una tabella. Sarebbe molto più interessante, nel momento delle decisione, ricordarsi i volti degli altri, le loro voci, i loro pareri, i loro odori; potrebbe esserci anche la sorpresa, salendo su un treno di pendolari, quella di scoprire che c’è ancora una fascia ben precisa di persone che, malgrado le grida quotidiane di allarme lanciate dagli editori, continua a leggere, ad informarsi, a documentarsi. 17


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I prati di casa nostra

Non sono ancora stato nelle regioni del Sud, mi manca il tempo per visitarle come vorrei, senza programmi fatti a tavolino, che tanto poi non rispetterei. Ogni tanto andrei a cercare tracce del passato, altre volte mi limiterei a parlare con la gente, vedere le loro facce, a verificare in che cosa siamo uguali e perché siamo diversi. La natura mi attrarrebbe molto e andrei, con la scusa di aggiungere immagini al mio archivio, in giro per valli e paesi carico di attrezzature fotografiche. Laggiù la luce del giorno è sempre abbagliante, me l’hanno detto e il cielo è cobalto. I contrasti me li immagino, li ho spesso controllati in Sardegna, dove le condizioni sono più o meno le stesse. Questo viaggio non fatto è ancora una fantasia, un desiderio che presto dovrei appagare. Il sud del nostro paese è a portata di mano, basta arrivare a Roma e poi con un’ora d’aereo scarsa si è dappertutto. E se uno non vuole volare ci sono treni e navi per tutte le destinazioni; basta volere e nel Sud ci si arriva. Prima o poi vorrò. Non vorrò invece entrare in un’Agenzia di Viaggi per prenotare un viaggio di quattordici ore per uno dei tanti paradisi perduti di cui abbonda l’Asia Meridionale. Non ce la farei mai ad impiegare, con sei mesi d’anticipo, due settimane della mia vita in luoghi dal ritorno difficile. Eppure pare che la cosa funzioni, mai come adesso il viaggio organizzato rappresenta un grosso affare, agli sportelli delle Agenzie c’è addirittura la coda, spesso ci si deve accontentare, se non ci si è prenotati con larghi mesi di anticipo, di un safari in 19


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Kenia o di una veloce scappata a Londra. Anche qui non c’è esibizione, il viaggio non è più strumentalizzato ai fini di una qualificazione sociale, non è più usato come simbolo dell’appartenenza ad un preciso stato socio-economico. Di solito chi prende una decisione di questo genere tende quasi a giustificarsi presso gli amici e i conoscenti, per motivare la scelta introduce elementi razionali che la fanno apparire vantaggiosa. In effetti, seguendo questa logica, se sommassimo al costo dei pernottamenti, dei pranzi, delle escursioni la spesa a prezzi normali del volo di trasferimento, non c’è dubbio che faremmo un grosso affare. Questo tipo di considerazioni accelerano la decisione: scoprire che due settimane in Liguria ci costa poco meno che due settimane alle Maldive/prezzo base, fa certamente pendere il piatto della bilancia dalla parte dell’Oceano Indiano, soprattutto se siamo in inverno. Il fascino dell’esotico, il richiamo dei mari dalle trasparenze uniche, l’avventura di coprire distanze insolite, tutto questo contribuisce a farci dimenticare, almeno per quest’anno, l’alternativa dei nostri mari e delle nostre coste. Per il momento sono scelte individuali fatte da pochi intorno ai quali gravita però un grosso giro d’affari: cataloghi lussuosi propongono centinaia di possibilità; ciascuna offerta è spesso acquistata, venduta, riacquistata e rivenduta al consumatore finale attraverso uno strano commercio di proprietari, tour operators, dettaglianti. Ognuno ha naturalmente il suo profitto, così come lo hanno gli alberghi base e le compagnie aeree. Seguendo questa logica dei profitti ci si meraviglia di come il costo all’origine sia basso, ma si accetta ugualmente tutto il meccanismo. Dove sta dunque lo scotto reale da pagare? Una perdita dell’identità raggiunta – con un ritorno obbligato a schemi parascolastici – con la presenza di un tutore che ci impone comportamenti, programmi, orari e luoghi dai quali ci è impossibile evadere. Lo scotto principale è la perdita della libertà o per lo meno della sensazione di essere 20


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I prati di casa nostra

liberi di muoverci come vogliamo, esattamente come in un pranzo a menù fisso dove un prezzo più basso non ci compensa della mancanza di un piatto che desideriamo. Ho finora generalizzato le mie opinioni sul tema senza tenere conto di chi non sa come muoversi, di chi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa deve fare, come deve farlo, dove può andare e quando. Costoro prendono due, tre o quattro piccioni con una fava. Gli altri, quelli che amano scegliere, che non hanno paura degli imprevisti, che hanno desideri non programmabili, ebbene, costoro non hanno bisogno di mari lontani, anzi preferiscono, anche se l’erba del vicino è sempre più verde, i prati di casa nostra. E se questi prati sono nel Sud, prima o poi mi incontreranno.

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Il futuro assicurato

Ci sono situazioni che ormai ci lascerebbero impotenti, incapaci di reagire. Ci obbligherebbero a fare lavorare in fretta il cervello per trovare soluzioni immediate. La sopravvivenza avrebbe priorità. Mangiare, un fatto che l’uomo non ha mai potuto sottovalutare, divenuto nelle società industrializzate una normale formalità, diventerebbe imperativo d’obbligo in situazioni ben diverse da quella attuale, durante una guerra, per esempio. Una guerra impossibile, insospettabile, imprevedibile, non tanto nella realtà, quanto nella testa degli individui che ne rimuovono costantemente lo spettro. La possibilità di un tale evento ci costringerebbe a modificare abitudini, a prendere in esame nuovi schemi di comportamento, a pensare più al futuro che al presente. Il presente assorbe infatti gran parte delle energie della nostra gente. Il domani verrà e difficilmente lo potremo modificare e l’unica alternativa d’oggi all’edonismo è l’ignavia. Il risparmio, per esempio, che fine ha fatto? Dove sono finiti tutti quei soldini che ogni famiglia previdente sapeva di dover mettere da parte ogni mese, ogni anno, per ogni evenienza, per superare momenti difficili, per avvicinarsi al capitale necessario, sufficiente garanzia per una vita tranquilla? Sono cambiate le cose. Si è deciso all’unanimità che il problema non esiste più, che non c’è più necessità di risparmiare, che non ci si deve più preoccupare per il futuro perché il futuro è assicurato. Abbasso le formiche, viva le cicale! Cosa succede quando la cicala comincia ad avere degli 23


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scrupoli? C’è rimedio a tutto. Basta che uno investa – lapalissiano – il denaro che ancora non ha. Dopo un certo numero di anni si troverà con una piccola cifra, versata con pazienza e costanza, ricco in valuta attualizzata. In ogni caso si tratta di risparmio, anche se forzato. Un risparmio nato più dalla credibilità delle banche e degli imprenditori finanziari che da un modello tradizionale di previdenza. Il meccanismo – si chiami fondo di investimento o con qualsiasi altro nome – è attuale, nuovo, accontenta chi è propenso ad accettarlo: niente più code agli sportelli delle banche, niente più libretti al portatore, niente più buoni postali. Aderire ad una proposta nuova dà sufficienti gratificazioni, ci dà la misura della nostra evoluzione. Sarà senz’altro avvenuto altre volte in passato, ma ora la situazione sta superando il livello di guardia. Il desiderio di possedere si sta radicando sempre di più. C’è chi possiede e chi non possiede nulla. Chi possiede cerca di incrementare il posseduto, cosa abbastanza facile per chi conosce le regole, che poi non sono tante. Chi non possiede ed è animato da un terribile desiderio di cambiare condizione prima o poi ce la farà. Qui non ci sono regole, l’improvvisazione regna incontrastata, l’unica necessità non perdere mai tempo, cogliere al volo le occasioni, di qualsiasi natura siano, purché vantaggiose. Alla fine quello più bravo, quello più fortunato, possiederà di più, ma anche gli altri la loro fettina di beni se la saranno costruita. Superata la fase iniziale comincia qualche piccola regola: vendere tutto se l’offerta è superiore al valore reale, non legarsi affettivamente a ciò che si possiede, non valutare i vantaggi soggettivi di una situazione. Vendere è l’imperativo d’obbligo se c’è qualcos’altro da acquistare vantaggiosamente. E poi continuare sulla stessa strada. Durante questi passaggi non è necessario divenire, di volta in volta, un professionista. Se si acquista un bar, un ristorante, un albergo, è sufficiente rimanere quello che si 24


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Il futuro assicurato

era, con le stesse carenze, gli stessi difetti, con gli stessi comportamenti, tanto, il giorno dopo, si rivende tutto al miglior offerente. Sarebbe tempo sprecato documentarsi, imparare, evolversi, quando la via scelta porta ad altre soluzioni, ad altri mestieri. Il possesso continua a rimanere un fine, per costoro, non un mezzo e il risultato è facilmente prevedibile: chi comincia a possedere, possiederà sempre di più. Questo meccanismo è assimilabile ad un vizio, irrimediabile come tutti i vizi. Quest’uomo in qualche recesso del suo cervello intuisce prima o poi che, prima o poi, dovrà andarsene da questo mondo. Nello stesso istante, se la natura non ha già provveduto da sola, si preoccuperà di mettere al mondo due o tre discendenti che possano continuare la sua opera, proseguendo nell’accumulo. Sarà loro facile avendo un cotal padre per modello. Arricchiranno, col greve fardello di tutte le carenze che avranno ereditato durante la loro crescita. Educazione, cultura, comportamento subiranno grosse limitazioni, ma il guaio, quello grosso, lo subiremo noi, tutti quelli che, per decisione chiara, per impostazione familiare, per l’insegnamento ricevuto, hanno scelto una via diversa. Una via diversa per noi e per i nostri figli, per tutti coloro che avranno a che fare con questa nuova generazione del possesso e che saranno costretti a subirne, ora l’ignoranza, ora l’arroganza, come minimo l’impreparazione. Quotidianamente. I politici hanno esaminato il fenomeno delle classi emergenti, hanno cercato di studiarne i progressi, le tendenze, i comportamenti statistici, li hanno divisi in gruppi e sottogruppi perché sia più facile identificarli e lottizzarli. Non si sono certo preoccupati di analizzare i grafici di mutazione degli schemi, non si sono accorti che esponenziale ed esplosivo hanno la stessa radice e che c’è anche la possibilità che questo continuo tentativo di emergere non faccia altro che imporre degli schemi di una lotta senza quartiere per impor25


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re soluzioni vantaggiose di tipo individuale che con il bene della società nulla hanno a che vedere. Quasi un paradosso: il singolo migliora (?) e la società si degrada. E tutti dicono che non succede mai niente.

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L’uomo senza fantasia

Un trattato sull’avaro non lo ha mai scritto nessuno. Molière e Goldoni hanno lavorato sul tema, Gilberto Govi ha divertito tutta Italia con le sue interpretazioni dell’avarissimo Giobatta Parodi, l’Uncle Scroogie di Dickens ha fornito a Disney il nome per il taccagno più famoso del mondo, Paperon de’ Paperoni. Paul Getty, suo fratello di sangue, non ha scucito un dollaro nemmeno davanti all’orecchio reciso del nipote rapito. Alberto Sordi è citato spesso come campione italiano di questo sport, catalogato tra i vizi capitali. L’avaro non è molto amato. Di solito perché ha di più di tutti quelli che lo circondano, gente che spesso lo invidia (uno a uno in quanto a peccati della stessa famiglia!) e vorrebbe possedere almeno quanto lui. In queste situazioni non c’è né posto né tempo per l’amore. Ma anche quei pochi disponibili, sia per abitudine che per temperamento, a voler bene al prossimo, se possono amano qualcun altro. L’avaro li allontana da sè, per essere amato sarebbe costretto, in una maniera o nell’altra, a ricambiare e questo lo terrorizza. Ci mancherebbe davvero anche questo, con tutti i problemi che ha. L’avaro è un uomo che soffre. Non c’è un attimo di tranquillità, in qualsiasi momento tutto quello che ha accumulato, tutte le sue sicurezze, potrebbe essere messo in pericolo. La svalutazione, che minaccia il suo denaro, lo obbliga ad immobilizzarlo. Aumenti rapidissimi di valore, anziché renderlo felice, lo preoccupano perché lo smobilizzo del bene si fa ovviamente più difficile e, se anche si effettua, subentra il problema di un nuovo immobilizzo. Si fa 27


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esperto di alchimie finanziarie e ogni giorno si rafforza la convinzione che la sua strada è quella giusta. Tutto quello che toglie di giorno in giorno alla famiglia, sa che le verrà restituito, quando Dio vorrà, centuplicato, e tutto questo funzionerebbe, secondo logica (?), se non fosse che un personaggio così ha solitamente una vita media di 150 anni e i suoi programmi di rimborso non funzionano più, per lo meno a favore di chi ne avrebbe diritto. L’avaro soffre. La gente non lo capisce, lo confonde con un ladro, lo addita come un lebbroso. Ma la gente, si sa, sbaglia. L’avaro è un uomo onesto, lavoratore, previdente, si può dire che abbia un sacco di pregi ormai difficili da rintracciarsi. Certo, non sa cosa vuol dire bere un gran vino, che sensazione dia sulle labbra un bicchiere di cristallo, come sia fatto un vagone ristorante e come ci si comporti in un grande albergo. I taxi e la prima classe gli sono sconosciuti, il film lo vede a casa, alla televisione, le variazioni della moda lo toccano marginalmente e la sua auto è un peccato venderla perché ha il motore praticamente nuovo. Un uomo così non è certamente un ladro, anche se possiede più degli altri. È semplicemente un uomo che consuma poco, il minimo indispensabile, un uomo che ama il denaro, che preferisce accumularlo anziché dedicarsi allo sperpero. Ma cosa ha quest’ultimo – o meglio cosa non ha quest’uomo –, in che cosa si differenzia dagli altri? Lo sappiamo benissimo. La fantasia. Non ne ha, nemmeno un briciolo, né da vendere, né da acquistare. L’uomo normale, il non avaro, vive di fantasia, acquista fantasie. Forse è solo questa la differenza. Lo sanno bene i venditori che spesso non fanno altro che assecondare le fantasie dei loro clienti. Si trovano di fronte a gente preparata a spendere, bastano pochi elementi oggettivi sui quali trattare l’acquisto e se le associazioni sono positive, se i vantaggi d’ordine psicologico sono evidenti, se la conclusione dell’affare è gratificante, ebbene, la cosa si conclude. Una casa, un’automobile, una 28


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L’uomo senza fantasia

vacanza, un oggetto di pregio di solito si acquistano e si vendono così. Di solito. Non certo ad un avaro che solitamente acquista case o cose per quello che sono, per la loro funzionalità, non certo per quello che potrebbero essere o potrebbero dare. È così che, solo perché l’avaro difetta di fantasia, lo si deride, lo si emargina, lo si accusa di colpe tremende solo perché non sente la seduzione del superfluo.

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E il cantante inforcò i pattini

L’uomo d’oggi ha bisogno di un sacco di cose – l’abbiamo già detto – e questo gli crea una grossa confusione, grossa al punto di non sapere nemmeno più riconoscere quelle poche assolutamente necessarie. Ha bisogno di compensazioni per la fatica quotidiana, per le vessazioni che riceve e per i compromessi che accetta. Ha bisogno di rimuovere quasi tutto quello che ogni giorno gli succede o che accade intorno a lui. E allora si agita, alla fine del lavoro inizia un’altra sorta di lavoro, che lo assorbe e lo impegna al di là dell’immaginabile. Già lo scegliere il nuovo impegno richiede studio, previsioni, attenzione, intuito, documentazione. Occorre infatti analizzare tutte le possibilità prima di decidersi: rischi non se ne possono correre, ne va della propria immagine e della propria dignità. Il discorso da intraprendere deve avere il carattere di attualità, non deve distaccarsi molto dall’attività primaria, la sfera sociale d’azione deve rimanere la stessa o per lo meno dello stesso tipo, per evitare non solo di qualificarsi attraverso i propri sforzi, ma addirittura di degradarsi. Nell’attività secondaria non è necessario essere dei geni, basta una dose normale di preparazione e buon senso per meritare già degli applausi, dovuti di solito più alla sorpresa che si genera piuttosto che ad una reale capacità di svolgere la doppia attività. È un po’ come quando un attore si mette a ballare o un cantante inforca i pattini. Per pigrizia di solito crediamo che un attore o un cantante non sappiano o non possano fare altro 31


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che recitare o cantare e ci stupiamo moltissimo se poi se la cavano bene nel fare dell’altro. Li riqualifichiamo immediatamente, se per caso prima non godevano della nostra stima. La seconda attività nasce all’interno delle ambizioni insoddisfatte, non realizzate. La potenzialità dell’individuo ha bisogno di sfoghi, prima che l’attività primaria, dettata di solito dalla necessità, per lo meno all’inizio, soffochi ogni aspirazione. Il piacere della scelta aumenta la disponibilità ad occuparsi di questi nuovi interessi. Interessi, perché alla base ci deve essere un obiettivo speculativo, anche se poi questa altro non è se non una giustificazione, non solo per gli altri ma anche per se stessi. Mai come ora l’uomo, anziché dipingere nel tempo libero, suonare, occuparsi dei francobolli o di farfalle, si è messo in testa di produrre del denaro per piacere personale. Se ama la fotografia, anziché mettere in piedi una camera oscura in cantina, si mette a collezionare macchine antiche, un settore che promette molto. Se è un appassionato dell’automobile va alla ricerca di modelli rari e piano piano li rimette in sesto con estrema efficienza. Alla base ci deve essere la convinzione di fare degli affari, ogni spesa va considerata un investimento. L’antico va forte, mobili, libri, orologi, tappeti, tutto va bene perché la richiesta c’è sempre e l’offerta col tempo si estingue. Basta spazzolare di volta in volta i settori che diventano di moda che l’affare è assicurato. Questi acquisti sembrano quelli che una volta venivano fatti dal collezionista, il meccanismo apparente dell’acquisizione del bene è simile, ma mentre nell’un caso è il desiderio del possesso, nell’altro è la dimostrazione palese del proprio acume e della propria esperienza specifica. Di economia e di finanza se ne parla tutti i giorni ed ecco questa fascia di doppio-lavoristi che si butta sulla borsa, sulla valuta, sui metalli industriali. La mediazione è un altro canale di produzione di denaro che attrae questi signori, creare contatti tra chi ha bisogno 32


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E il cantante inforcò i pattini

di un bene o di un servizio e chi lo produce. E se ci sono arabi o giapponesi, aperture di credito, necessità di un paio di viaggi interlocutori, il gioco si presenta ancora più interessante. Ma il fisco ha imposto regole severe e chi pensa di produrre del denaro si informa, si documenta, trascorre ore dai notai, da avvocati, da commercialisti. Mai prima d’ora sono nate tante società, che permettono di agire senza mettere allo scoperto il proprio nome, cosa che potrebbe essere in contrasto con il lavoro mattutino. Così tutti oggi sanno dell’esseerreelle, della esseenneci e della sas, cosa conviene fare per contenere le tasse entro limiti accettabili, come trasferire alla propria società una parte dei propri consumi senza compiere azioni illegali. Per muoversi con sicurezza in questo nuovo mondo c’è bisogno di una guida che giunga là dove il poco tempo a disposizione di questi nuovi affaristi non arriverebbe, che indichi loro quali sono le mode degli uomini e tra queste quali saranno le più redditizie, quelle destinate ad avere vita più lunga.

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La cravatta rosa

Va prendendo piede un linguaggio concreto. Basta dire merda una volta che la seconda diventa più facile. Si tratta poi di ripetere merda in tutte le situazioni dove non c’è problema di vergogna o di forma per essere in grado, senza vergogna, di ridire merda, al punto giusto, anche quando ci sia problema di forma. È un fatto di classe, c’è chi può permetterselo e chi no, come mangiare le patatine fritte con le mani o con la forchetta. E chi ha classe può dire merda senza essere volgare e finalmente la frase può essere più concisa, più densa di contenuto, più significante come direbbero coloro che non pronuncerebbero mai la parola incriminata. Quando si utilizza un simile linguaggio si può essere superati in concisione solo da pochi linguisti attenti e preparati. In ogni caso non si tratta di apologia di linguaggio da trivio, tutt’altro. Io, per esempio, pur usando talvolta, di frequente direi, vere e proprie parolacce per rafforzare i miei discorsi, rispetto la forma quanto un gentiluomo dell’ottocento e rimpiango spesso di non avere occasioni sufficienti in cui sfoggiare questa mia qualità. Anche in queste situazioni però non riesco a non tentare la via della provocazione, soprattutto quando il discorso si allontana dagli schemi della vuota cortesia per finire su argomenti che mi coinvolgono direttamente, nei momenti in cui entra in ballo la necessità di esporre opinioni decise, quando sono obbligato ad esprimere pareri o giudizi privi di diplomazia, quando è necessario stare da una parte o dall’altra, quando i miei interlocutori si devono accorgere 35


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senza ombra di dubbio che le mie posizioni sono nette. Ed è proprio l’aumento di attenzione dovuto ad un linguaggio insolito che rende il discorso più secco, più incisivo. La comunicazione diventa più efficace ed è così che la forma influenza moltissimo la partecipazione, è così che il contenuto acquista forza presso chi era distratto. Io mi rado, porto una camicia pulita, ci aggiungo una cravatta che spero non stoni col resto dell’abbigliamento, scelgo anche il colore dei calzini, mi lucido le scarpe. Aggiungo al tutto un orologio d’acciaio, una cintura di vitello, una penna decente e sono pronto ad incontrare il mio prossimo dimostrando con tutta questa serie di codici tradizionali non aggressivi la mia disponibilità a trattare. I miei codici usuali vengono riconosciuti da una fascia molto ampia di potenziali interlocutori, l’inizio del dialogo è automatico, le barriere e le prevenzioni di carattere formale sono praticamente inesistenti. Adesso introduciamo delle varianti minime su un abito blu, normalissima divisa da impiegato: indossiamo una camicia celeste, normalissima anche per un tranviere, poi passiamo alla cravatta, necessario complemento, e scegliamola di un bel colore rosa shocking. Se il nostro scopo era quello di creare una situazione d’attesa, di leggero sospetto, di curiosità, in tal caso ce l’abbiamo fatta. Però nello stesso tempo abbiamo limitato, sin dall’inizio, il potenziale di comunicazione. Sostituiamo ora l’orologio d’acciaio con uno di quelli superpubblicizzati – extra piatti, con un sacco di piccole viti inutili – aggiungiamo uno spruzzo di profumo, blocchiamo la cravatta con un piccolo gioiello luccicante e via così con cintura di lucertola, calzini in tinta, scarpe con vezzo. A questo punto il signorino è pronto. Si guarda allo specchio, si passa le dita fra i capelli scalati con cura ed è pronto a parlare. Con se stesso, naturalmente. Gli ornamenti che ha scelto palesano la sua posizione nei confronti del mondo esterno, degli altri, del suo prossimo. Il suo linguaggio sarà più attento, più morbido, la forma tenderà inevitabilmente a 36


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La cravatta rosa

prendere il sopravvento sul contenuto oppure il contenuto dovrà avere davvero grossa importanza per riuscire a sopravvivere. Un individuo così, forse disponibile, crea prevenzione, lo si guarda come diverso, ci obbliga a tattiche d’avvicinamento più elaborate, non spontanee, in qualche caso ci rende non disponibili nei suoi confronti. Spesso per pigrizia, perché non ce la sentiamo di affrontare le fatiche inevitabili della fase di approccio, perché non siamo certi che le nostre fatiche vengano poi ricompensate. Come esempio opposto possiamo citare una serie di particolari/barriera: barba lunga, unghie sporche, abbigliamento trascurato. Anche qui si tratta di un diverso, di uno che non rispetta le regole, da lui ci sentiamo violentati. Il fenomeno di rigetto si amplifica, la nostra disponibilità diminuisce ulteriormente. In altre parole diventiamo giudici. E fin qui tutto bene. Nell’area del nostro territorio possiamo permetterci di giudicare. Inevitabilmente però i nostri criteri di giudizio nei confronti del signorino e del barbone non saranno uniformi: saremo senz’altro meno critici nei confronti di quello che mostrerà segni di riconoscimento più vicini a quelli che noi utilizziamo normalmente. E ora facciamo compiere dei piccoli movimenti ai nostri due manichini, seguiamone la mimica, diamo loro delle posate e vediamo come le impugnano, facciamoli sedere ad un tavolo e vediamo la posizione delle braccia, aspettiamo che bevano e controlliamo come lo fanno, passiamo in poltrona e osserviamo la posizione del busto e delle gambe. Non facciamoli ancora parlare. Siamo già in grado di modificare il nostro giudizio preconcetto sulle nostre due cavie: abbiamo infatti aggiunto elementi di comportamento che meglio ci aiutano a definire l’individuo e il giudizio diventa più oggettivo. Diamo loro la parola, la comunicazione diventa verbale: in pochi minuti tutti i rispettivi limiti culturali saranno allo scoperto, ci sarà un diverso uso delle parole, un vocabolario personale di diversa ampiezza, una 37


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più forte o più debole cadenza dialettale, una maggiore o minore abitudine al dialogo, alla conversazione. Tutto questo darà vantaggi momentanei all’uno o all’altro ma non ci darà un grosso aiuto al fine di un giudizio imparziale perché avremo sempre il dubbio che una cravatta rosa sia decisamente meglio di una mano dalle unghie sporche. Ed ecco la fase della comunicazione non verbale. Non staremo attenti a tutto – perchè il microscopio non ci fa vedere l’elefante – ma ci occuperemo di una serie di dettagli non trascurabili: la disponibilità dell’uno ad ascoltare l’altro, la sua capacità di intervenire senza brusche interruzioni, il timbro della voce a seconda dell’argomento e dell’occasione, la capacità mimica di segnalare all’altro di comprendere le successive fasi del discorso. I ruoli si alterneranno e ci daranno la possibilità di confronto e finalmente saremo in grado di risolvere il nostro dubbio e di emettere il nostro verdetto. Proprio nello stesso momento i nostri due amici – e va a finire sempre così – si alzeranno e se ne andranno via insieme, dopo averci spiegato che l’uno era daltonico e il secondo era finito fuori strada con la macchina. In ogni caso, volontari o involontari che siano, i codici di prima comunicazione possono essere positivi o negativi ai fini dell’approccio. Quanto più importante è avvicinarsi al prossimo tanta maggiore attenzione va destinata all’intero problema. Poi, con estrema libertà, ciascuno di noi può vestirsi interamente di rosa o imbrattarsi le mani di merda.

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La Macchina della Mediocrità

Le pene per chi degrada il linguaggio dovrebbero essere severe. Non serve come alibi la risata di risposta di un vasto pubblico, non si accetta come giustificazione il fatto di avere confezionato un prodotto richiesto dal mercato. Già dai tempi di un famigeratissimo personaggio televisivo di nome Pappagone, il problema era evidente nella sua gravità: scemenze gratuite e mimiche insulse trovavano terreno fertile nei telespettatori di tutte le età, che già all’indomani ripetevano a scuola, al bar con gli amici, negli intervalli di lavoro tutte le perle della sera precedente. Un successo incredibile, forse nemmeno previsto dagli autori dei testi. Rari furono i casi in cui l’idiozia trionfò così a lungo. Le settimane passavano, Pappagone non mollava e la situazione andava degenerando. Per fortuna il tempo rimette le cose a posto, l’idiozia ritrova il suo andazzo normale, senza eccessi, e la vita continua. Ma ogni tanto qualcuno rimette il dito nella piaga e si ricomincia da capo. La volgarità, quella gratuita, inutile, oltraggiosa, ricompare ad ogni piè sospinto. Basta un Salce convinto di fare commedia all’italiana o un Villaggio disposto a ripetere per la milionesima volta le sue battute, che il rischio di contagio si riaffaccia prepotente. Le serate si ripopolano di imitatori di questi eroi popolari e la degradazione riaffiora. Al di là di questi pochi esempi, c’è la situazione generale articolata spesso su schemi simili a quelli descritti. Ci sono posti, posizioni di netto privilegio che andrebbero raggiunti per meriti reali. Gli uomini destinati a queste situazioni dovrebbe39


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ro essere capaci, consci dei propri limiti, responsabili. Prima ancora che critici verso il mondo dovrebbero esserlo con se stessi. In realtà questi uomini ci sono. Prendiamo un giornale, un quotidiano qualsiasi che esprime delle opinioni, un vero banco di prova per chi ha accesso alla stampa. Esprimere le proprie idee, analizzare una situazione dando dei giudizi non è il semplice resoconto di un avvenimento qualsiasi. Si tratta di un’operazione piena di rischi e di responsabilità: si ha di fronte un pubblico che non si conosce, da una parte pronto a capire, a confrontare le frasi lette con le proprie idee, pronto ad un ipotetico dibattito, dall’altra disposto a farsi condizionare, a fare propri i temi discussi nelle colonne del “suo” giornale. Chi scrive è su una torre. Sa benissimo che il dibattito non ci sarà mai e che se qualcuno vorrà uno scontro lo dovrà cercare nell’ambito del privato, lontano dall’attenzione del grosso pubblico. Se ci sarà lotta le armi saranno impari. Anche per questo il giornalista è costretto ad amministrare quotidianamente privilegi che il suo lavoro gli concede. Di solito ciò avviene con serenità, con capacità di giudizio, con onestà, con intelligenza. Ma cosa succede se manca uno di questi elementi? Se manca l’ultimo, per esempio – e così escludiamo discorsi troppo duri – chi riceve il danno maggiore? Il giornale ovviamente non si pone nemmeno il problema, altrimenti lo avrebbe risolto in partenza. L’imbecille nemmeno, anzi, molto probabilmente è estremamente sicuro di avere grosse doti. Il pubblico? Il pubblico è terreno fertile. Statisticamente ride per Pappagone, ride per Salce e per Villaggio. In mezzo al pubblico c’è però chi non ama l’idiozia, chi odia i meccanismi di scalata alle posizioni di privilegio, che non ammette in simili situazioni ci possano finire dei disonesti o degli imbecilli. Ma non c’è niente da fare, la Macchina della Mediocrità 40


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La Macchina della Mediocrità

è troppo potente, i suoi ingranaggi girano inarrestabili, pronti a stritolare chi cerchi di rallentarli. Nasce così una sensazione di impotenza che di giorno in giorno si accentua. E ogni giorno ci rattrista sempre di più l’idea che sarebbe stato meglio per tutti non piantare su un terreno fertile solo ortiche.

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Lasciapassare per meditare

Siamo divenuti più attenti. La nostra epoca ci ha dotati di un senso in più, la visione. Noi spesso non guardiamo, visioniamo. Vediamo con attenzione, estrapolando dall’immagine tutta una serie di considerazioni, operazione che pochi, prima d’ora, facevano. Nell’osservazione di un quadro, per esempio, c’era la necessità di riconoscere l’oggetto raffigurato, dava sicurezza riuscirci, tranquillizzava. Tutto ciò non ha più importanza, siamo sottoposti a bombardamenti visivi; l’occhio ci trasmette con frequenza immagini che vengono decodificate solo attraverso un commento sonoro o una didascalia. Le accettiamo ugualmente, le visioniamo, le memorizziamo, ma spesso non le vediamo, nel senso che vedere vuol dire anche avvicinarsi al reale. Vediamo il televisore, e come oggetto lo identifichiamo. Vediamo i prodotti che il televisore ci sforna, ci abituiamo alle due dimensioni dell’immagine teletrasmessa, ai suoi colori che tentano di riprodurre quelli della realtà, riconosciamo prima l’essenza di immagine televisiva che non la realtà che in essa è riprodotta. Sfogliando una rivista illustrata ci accade una cosa simile: vediamo dapprima, nella sua evidenza, il foglio di carta stampata all’interno del quale, solo in una fase immediatamente successiva riconosciamo la realtà propostaci dall’immagine fotografica. Abituati come siamo a questo processo in due tempi, lo utilizziamo liberamente anche in assenza di un mezzo di comunicazione; riusciamo sempre – immaginiamo di essere su un viottolo di campagna al tramonto – ad isolare un pezzo 43


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della realtà circostante e a memorizzarlo. Ripensando a quell’attimo riusciremo a recuperare il ricordo visivo; se saremo attenti ci accorgeremo che si tratta di un’immagine piatta dove la realtà è stata riportata alle due dimensioni che ci sono ormai abituali. Sostanzialmente non facciamo altro che fotografare la realtà, continuando ad isolarne le fette che a noi in quel momento interessano o che producono in noi precise sensazioni. Automaticamente effettuiamo una selezione delle informazioni, tratteniamo per noi quelle che ci servono e scartiamo le altre. C’è un momento della nostra vita in cui ci troviamo a nostro agio ed è quando abbiamo la macchina fotografica in mano, uno strumento per la registrazione di informazioni, coerente con il nostro metodo di assimilazione. Attraverso il mirino isoliamo senza fatica quella parte del reale che ci interessa, con un occhio solo la rendiamo piatta, la confrontiamo automaticamente con immagini simili che fanno parte della nostra cultura visiva e, schiacciando il pulsante al momento giusto, introduciamo nella fotografia la nostra identità. Questo metodo poi ci permetterà di comunicare ad altri cosa abbiamo visto e cosa abbiano cercato di evidenziare, così potremo togliere oggettività a quanto c’era da vedere e ad introdurre soggettività. Tutta questa serie di operazioni ci permette di isolarci durante la fase di ripresa, di isolarci successivamente nella fase di analisi e selezione del materiale per scegliere poi il momento migliore per rientrare in contatto con gli altri mostrando loro la fetta migliore della nostra produzione per riceverne il consenso. Rovesciamo ora il problema: ci sono momenti in cui siamo soli, sia perché lo preferiamo, sia perché siamo obbligati ad esserlo dalle circostanze. Ci accorgiamo subito, e l’abbiano già detto in altra parte di questo libro, che l’individuo solo è ansiogeno, crea negli altri un supplemento di attenzione, nei suoi confronti c’è un atteggiamento di estrema circospe44


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Lasciapassare per meditare

zione. Questo clima di sospetto prima. o poi, consciamente o meno, comincia ad agire su di noi, produce l’unica reazione possibile, la necessità, nel nostro fare niente, di crearci un alibi. Ci dobbiamo travestire, dobbiamo diventare uno che fa qualcosa: solo così potremo mimetizzarci e tornare ad essere uno dei tanti. È l’attività, anzi l’evidenza dell’attività, che ci permette di scomparire dall’attenzione dei più. Meditare, indugiare, muoversi a passi lenti, osservare, non ci è concesso in presenza d’altri, testimoni e giudici di una scelta contemplativa non autorizzata dalle regole vigenti. Una semplice attività fisica è sufficiente per scagionare un solitario: un ciclista si può anche permettere di meditare perché viene decodificato dall’osservatore come uno che va in bicicletta, uno che sta facendo qualcosa. E così un pescatore sta pescando, un guidatore sta guidando, uno che legge sta leggendo. Ciascuno di essi può anche meditare purché svolga un’attività di copertura sufficiente a creare il mimetismo necessario. La macchina fotografica diviene in quest’ottica – buffo il gioco di parole – un eccellente alibi. Basta esibirla come lasciapassare e siamo autorizzati a meditare, indugiare, a muoverci a passi lenti, ad osservare, un’attività – e questa volta la scelta diviene attività – contemplativa, necessaria e perfettamente coerente. Siamo autorizzati ad osservare, a diventare indiscreti, possiamo invadere addirittura la sfera privata degli altri senza procurare eccessive tensioni perché in fin dei conti stiamo fotografando, solo fotografando. Procurarci, seguendo questo metodo, un lasciapassare per le varie situazioni diventa facile, ci permette in ogni caso di cercare e di trovare l’alibi a noi più congeniale, quello che addirittura ci procuri piacere. È necessario però che la nostra macchina fotografica non sia verniciata di rosa perché non potremo certo trovare la scusa di essere daltonici.

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Il potere occulto

Nel luglio del 1969 l’uomo, per la prima volta, mise piede sulla luna. Un evento epico che ci tenne in piedi fino all’alba davanti al televisore che continuava a sfornare in diretta immagini incredibili, talmente incredibili da generare il dubbio che si trattasse di una sofisticata messa in scena. I giorni successivi, da un sondaggio condotto in America, risultò infatti che una fascia della popolazione era convinta che si fosse trattato di un imbroglio bello e buono. Non bastarono successivamente foto e filmati, il rientro nell’atmosfera della capsula, il suo ammaraggio, i campioni di suolo lunare a modificare le convinzioni di costoro. Ritroviamo questo schema mentale tutti i giorni nei discorsi di economia e di politica spicciola: in qualsiasi stato, in qualsiasi governo c’è un gruppo di persone che possono tutto, che manipolano la realtà e condizionano le esistenze di tutti noi. Non c’è fatto di una certa importanza che accada da noi o nel mondo, dove questi pochi occulti non abbiano lo zampino. Essi tessono tutte le trame, premeditano le mosse, ci mostrano della realtà la faccia che vogliono quando addirittura non la modificano a loro piacimento. Fanno salire e scendere il dollaro, sobillano i popoli, armano il terrorismo, decidono l’andamento della crisi, ci manca solo che organizzino terremoti ed altre catastrofi naturali. Hanno in mano il petrolio, danno armi a chi vogliono, indeboliscono altri e tutto ciò secondo piani programmati che si intersecano alla perfezione, come se fossero programmati su 47


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giganteschi calcolatori onniscenti. Possibile davvero che la gente abbia rinunciato ad osservare criticamente i fatti, a capire la spontaneità di alcune situazioni, continui ad utilizzare il senno di poi per costruire tutte le premesse logiche di quanto poi avviene? L’individuo delega costantemente le sue responsabilità ad altri ma non è poi disposto ad avallarne le azioni. E quando costoro contribuiscono ad un evento straordinario, rifiutano addirittura la possibilità che ciò sia vero. L’incredulità riappare anche quando abbiamo a che fare non con la storia dell’uomo ma con la nostra piccola storia di tutti i giorni. È proprio questo il campo dove gli occulti operano meglio, ci fanno vedere tutto quello che vogliamo, i mezzi di informazione sono pilotati in un’unica direzione e noi ne siamo le vittime. Certo che se davvero potessimo contare su uomini così potremmo stare tranquilli, scegliendoli ed affidando loro il potere, ci saremmo assicurati un futuro tranquillo. Questi potenti avrebbero il controllo totale della situazione, con il loro genio e con le loro capacità farebbero del mondo ciò che vogliono. La massa sarebbe indubbiamente usata e sfruttata da questi biechi tiranni, ma ci sarebbe anche il grosso vantaggio di sapere che le pesanti crisi e le grosse tensioni che attanagliano il mondo nient’altro sono che invenzione di pochi.

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Ama il prossimo tuo

Si guarda da parecchie parti alla plastica come se il mondo fosse sempre stato perfetto e la plastica l’avesse insozzato. In tutte queste parti si vive però in mezzo a plastiche di tutti i tipi che rendono la vita decisamente comoda. La coerenza, una volta, veniva considerata dote. Il fanatismo non ha certo bisogno di coerenza, è più facile che si basi su luoghi comuni, gli assiomi delle nuove religioni pseudo ecologiche che prevedono liturgie complesse. Il diavolo è il progresso, la comodità è una tentazione da cui fuggire, l’austerità più totale l’unica via per la salvezza. E così il mondo si salverà, la natura tornerà ad essere rispettata ed i nostri figli vivranno nuovamente felici. Questa più che la speranza la teoria. Una speranza costruita sulle fantasie per scacciare lo spauracchio del tempo in cui viviamo e degli anni a venire, un modo di fingere di partecipare senza sacrificio, senza approfondimento, senza cultura, fingendo di averne una. La storia, la geografia, l’italiano, queste sì sono discipline necessarie, fondamentali per arrivare ad altri impegni. La matematica, la chimica, la fisica sono basi altrettanto importanti per prendere in esame problemi seri. Ci vuole fatica, certo, ma il piacere della conoscenza va pagato e la conoscenza poi ci ripaga di tutte le fatiche. Il primo premio del sapere è l’essere creduti e soprattutto l’essere credibili, condizione che non si raggiunge certo arroccandosi su un cumulo di luoghi comuni, nient’altro che detriti di pseudo cultura. Il traguardo di questi nuovi profeti della catastrofe è, al di là del bene collettivo, una precisa qualificazione personale. 49


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Vogliamo da questo mondo una vita felice, senza troppi problemi, ma il mondo è quello che è, e in questi anni problemi ce ne sono per tutti. Non solo sull’italiano, ma su tutti gli uomini della terra gravano pesanti nuvole, non c’è in questi anni un attimo di tregua. Non vale allora la pena di abbandonare le utopie e di combattere per quel poco che si può fare intorno a noi, sperando che gli altri facciano altrettanto? Una specie di catena di sant’Antonio che in breve potrebbe coinvolgere tutti. Ma finché ciascuno, dopo aver risolto il problema personale della sopravvivenza, per nascondere la propria coda di paglia fa un salto di qualità eccessivo, iniziando ad occuparsi di problemi universali, a chi è destinato il compito ingrato di risolvere i piccoli problemi pratici della vita di tutti i giorni? A cosa può giovare contro la fame nel mondo, se chi lotta trascura il vicino che muore di fame? Ama il prossimo tuo come te stesso. Il prossimo tuo ti è vicino e come puoi abbandonarlo in favore di principi universali che ti imporrebbero di occuparti anche di lui? È il momento di guardare in faccia la realtà e se ad alcuno la situazione in cui ci troviamo può sembrare triste questo gli fornirà uno stimolo per lottare con maggiore alacrità. Le responsabilità esistono ed ognuno deve assumersene una fetta, indipendentemente dal fatto che ciò contrasti con il suo benessere o con le necessità individuali. E se la plastica ci sembra troppa e davvero essa insozza il nostro mondo occupiamocene, ma solo dopo aver stabilito l’ordine di priorità del nostro intervento. Può anche darsi che ci siano problemi più importanti e più urgenti da risolvere.

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Il cibo nell’Era delle Gabelle

Volessimo continuare l’argomento precedente nessun tema sarebbe così ricco come quello del titolo: il panino. Il panino imbottito si intende, con tutte le sue varianti italiane: di gusto, di preparazione, di ingredienti e anche di ingegno. Il panino, un pane tagliato a metà, sostituisce il piatto di ceramica, da noi contiene ormai lo stesso cibo che di solito ci arriva in tavola in maniera tradizionale, arrosto, bistecca, milanese, frittata e altre mille varianti. Non mancano nemmeno due foglie di insalata e le salsine piccanti. Per giunta il panino/supporto per pietanze è commestibile, non va lavato, non si rompe e costa quanto un piatto di plastica; paradosso finale, sostituisce il pane che in trattoria ci danno nel cestino. Il panino imbottito risolve il problema del pranzo per chi non vuole o non può sottostare, nell’Era delle Gabelle, alle richieste economiche dei locali produttori di cibo tradizionale. Il panino imbottito risolve il problema di chi non ha tempo, in pochi minuti uno se la cava ed ha l’impressione di avere guadagnato un’ora della sua giornata. Il panino imbottito è una scelta attuale, piena di giustificazioni, nessuno se ne vergogna più. Il Padrone Abile permette, per innaffiare il cibo asciutto, di scegliere tra vini pregiati, versati a bicchiere, che gratificano il cliente e contemporaneamente lo riscattano da una scelta di chiara economia. L’Era delle Gabelle ci ha portato a cambiare abitudini, ad assomigliare sempre di più all’americano medio che vedevamo al cinema farsi un paio di tramezzini al posto della vecchia sana bistecca. Il tutto va naturalmente a scapito della comodità. Pochi minu51


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ti in piedi o appollaiati su uno sgabello e poi via, per lasciare il posto al cliente successivo perché la macchina del panino ha tempi ristretti e spazio limitato. Una macchina efficiente, utilizzata da gente che lavora, gente che deve fare i conti col tempo o col denaro, una soluzione che funziona solo nelle grosse città, dove la gente lavora sufficientemente lontano da casa perché non le convenga ritornarci per pochi minuti. Costerebbe troppo farlo anche solo in termini di tensione. Col panino si eliminano i tempi morti dell’andata e del ritorno, i contrattempi inevitabili del caos dell’ora di punta, i piccoli problemi familiari che tornano a galla, la seccatura di dovere poi interrompere una situazione confortevole per tornare al lavoro. Col panino si rimane in mezzo alla gente, si vedono nuove facce, se ne riconoscono altre, si parla, si ride, ci si distrae. E lo stomaco? Lo stomaco si abitua, si sfatano vecchi preconcetti e ci si abitua al fatto che quello che faceva male una volta fa molto meno male oggi, che sopportiamo meglio ritmi e schemi che in passato ci avrebbero preoccupato, le nostre difese sono aumentate e siamo diventati più forti. C’è nell’aria una sensazione di precarietà che ci impedisce di prendere sul serio la possibilità di una gastrite, c’è il rischio che il futuro ci riserbi qualcosa di più grave e allora possiamo sorridere di un mucchio di precauzioni del passato che a null’altro erano servite se non a limitarci nei piccoli piaceri quotidiani. L’incertezza ci fa vivere in un clima di grandi paure che ci permettono di vincere con facilità quelle piccole: il panino tuttalpiù ci potrà far venire l’ulcera.

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Il cielo della provincia

La provincia ha ritmi diversi. Le abitudini sono decisamente più radicate che nelle grosse città, le regole più precise e più osservate. In provincia, per esempio, si va a tavola molto spesso alle 12,30, mai dopo le 13. Una consuetudine che nasce non per caso ma da una serie di particolari condizioni che altrove difficilmente si realizzano. Una città piccola, il lavoro a poche centinaia di metri, schemi di comportamento omogenei. Appena termina il lavoro si va a casa, dove è già pronto il pranzo – per la solita ora perché l’ora è sempre la solita – pronto perché nella piccola città i costi sono inferiori e spesso non c’è bisogno di lavorare in due. Appena termina il lavoro si va a casa perché la città piccola non ha strutture per il mezzogiorno: i locali/panino, con la casa a due passi, non avrebbero senso, la sosta al bar per un aperitivo inciderebbe troppo sui tempi del rientro, quattro chiacchiere ritarderebbero il pranzo dei figli che rientrano, anch’essi con tempi ristretti, dalla scuola. E allora si va a casa, una casa che non è più la casa funzionale del passato e non è nemmeno la casa comoda del presente. È una giusta via di mezzo dove parenti ed amici si trovano a proprio agio anche se il bicchiere è ancora minuscolo e se i liquori sono ancora chiusi a chiave; è un posto dove le tradizioni continuano ma non c’è nessuna preclusione per le novità che ritroviamo mescolate qua e là, senza regole precise. Ci sono mobili nuovi e mobili vecchi, senza che questo ponga problemi a nessuno, senza che i suggerimenti delle riviste d’arredamento siano troppo visibili o intuibili. Spazi 53


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L’uomo dei saldi

più ampi non costringono a forzate soluzioni di incastri e mancano leziosi accostamenti di colori e di forme. La gente delle Piccole Città si veste nello stesso modo con cui arreda le case, un po’ di funzionalità e un po’ di novità, senza preoccuparsi troppo del risultato, anche perché tutti gli altri usano schemi simili. Lo stesso abbigliamento funziona praticamente in tutte le occasioni, tranne in quelle particolari dove è di rigore un abito scuro, con camicia bianca e cravatta. Si vive comodi, insomma, senza eccessive imposizioni formali. In queste condizioni, con continue libertà, è più facile mantenere la propria identità. I tempi morti sono ridotti al minimo e ciascuno si può informare, leggere di più, fare una vita tranquilla senza sentire costantemente l’incalzare dei tempi, senza venire coinvolto dal grigiore metropolitano che si riflette persino sui volti dei bambini. In provincia l’uomo ha tempo, per se stesso e per la propria famiglia, gli impegni non sono pressanti anzi spesso possono essere rimandati senza che ciò danneggi qualcuno. In queste condizioni l’uomo può dedicarsi anche agli altri, seguire gli schemi di comportamento degli uomini che lo hanno preceduto, mantenere le cose buone del passato senza rifiutare quello che di buono può darci il presente. Qust’uomo lavora, risparmia, ogni giorno costruisce il futuro suo e dei suoi figli perché il cielo, in provincia, è ancora sereno.

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L’uomo che vive solo

Chiamiamolo scapolo, se volete, ma è un termine antiquato ed impreciso. Non è nemmeno un uomo solo, anche se in verità è solo, perchè questo termine porterebbe a compiangerlo. Può essere giovane, uno studente che vive lontano dalla famiglia, meno giovane, un divorziato per esempio, anziano, vedovo o pensionato. Di certo c’è che vive da solo, senza una donna voglio dire, e che ha dovuto inventare nuove regole per sopravvivere. Ha dovuto imparare a muoversi e a comportarsi in mezzo agli altri senza perdere l’identità, rimanendo uomo anche con un paio di sacchetti del supermercato in mano. E anche in questa situazione nuova – l’uomo della Marlboro non ha infatti i sacchetti del supermercato ad intraciargli i movimenti – non deve perdere in dignità, non deve assomigliare alla vicina della porta accanto. Ha dovuto imparare le regole del gioco, un grosso rifornimento settimanale di cibo, da scegliere con calma, guardando i prezzi, non cedendo alle trappole degli acquisti di impulso. Ha scoperto che qualche piccola gratificazione, poche cose superflue di grossa marca, hanno un grosso effetto sulle cassiere, ne attirano la simpatia, allontanano gli sguardi di tenerezza e comprensione. In questa variante agli schemi tradizionali d’acquisto, una scatoletta di caviale o una bottiglia di champagne, c’è un pieno recupero della propria condizione di uomo. Ha imparato a prepararsi il pranzo e ha scoperto che in cucina non ci sono tutti i misteri che le donne hanno sempre lasciato intuire e che il cibo si cuoce da solo. Qualche volta, 55


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L’uomo dei saldi

nel momento meno opportuno, scopre che in casa non c’è un grammo di sale o che il detersivo per lavare i piatti, lasciato su un panno umido, è diventato un blocco inutilizzabile. Non se ne dispera e fa tesoro di questa nuova esperienza. Quando invita delle gente si preoccupa molto che tutto sia in ordine, cerca di fare bella figura, di nascondere tutte le difficoltà che la vita quotidianamente gli riserva. Il suo ruolo è nuovo – l’uomo che vive solo non è mai esistito in passato oppure, se è esistito, è successo per necessità e non per scelta – e non ci sono regole collaudate da seguire. Si tratta di inventarle, ovviamente con grossa fatica. In ogni caso è solo questione di tempo e tutti, prima o poi, le imparano. Superato il tirocinio e le prove della sfera privata scatta il meccanismo dei rapporti sociali, da sempre più facili per la coppia. Verso la coppia non c’è sospetto, è un anello che si chiude. Il singolo invece non ha ancora una sua collocazione precisa, è troppo libero per comunicare tranquillità, merita maggiori attenzioni e genera un atteggiamento cauto. D’altra parte deve dimostrare estrema sicurezza, deve apparire soddisfatto della propria condizione e si procura in questo modo qualche piccola invidia. Tutto questo fa aumentare la cautela degli altri. E allora a questo punto cominciano le fatiche vere e proprie per farsi accettare, per fare dimenticare la differenza di condizione. Se vuole continuare i suoi rapporti con gli altri deve diventare disponibile, interessante, deve apparire saggio, deve insomma convincere che la sua situazione gli sta dando dei benefici. Deve soprattutto allontanare da sé la lauta dose di commiserazione che altrimenti riscuoterebbe automaticamente. E dato che la fatica di recitare costantemente questa parte lo sposserebbe, se vuole stare con gli altri li sceglie uguali a sé, uomini o donne che siano. Il dialogo diventa così più facile, le parole corrispondono sempre più al pensiero; situazioni ed emozioni, anche in virtù di un linguaggio perfettamen56


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L’uomo che vive solo

te comprensibile, si trasferiscono con estrema rapidità. È il solito discorso dell’efficienza del gruppo omogeneo che può ancora permettersi un preciso territorio di cultura, parole, azione. Il piccolo gruppo assomiglia molto all’uomo che vive solo: negli altri suscita diffidenza e cautela perché troppo evidente è la sua indisponibilità a comunicare o a scegliere schemi di comunicazione diversi da quelli ormai consueti, gli stessi che edificano la barriera con gli altri. Il Piccolo Gruppo Omogeneo, d’altra parte, è un anello, come la coppia, ma ha troppe varianti per comunicare tranquillità agli altri. Le parole talvolta diventano incomprensibili, perché usate al di fuori del loro significato usuale; il linguaggio diventa così un gergo per iniziati e l’escluso non capisce. D’altra parte il piccolo gruppo, anche se isolato, può lavorare con tranquillità, costruirsi delle regole di comportamento, seguirle con facilità con la certezza che il meccanismo funzioni. Se l’idea è corretta è poi facile ampliare graduatamente i propri progetti. Le regole del passato non funzionano più perché tutte le nostre istituzioni e le nostre leggi sono state concepite per piccoli gruppi di persone che vivevano in piccoli centri non sovraffollati, in piccoli gruppi, diciamo. Ci vogliono dunque regole nuove o qualcuno che riesca a vedere alternative dove gli altri sono ciechi. Chi vive solo ha grandi possibilità in questa direzione: con la sua posizione ha già modificato la tradizione inventando una condizione nuova, ha già fatto il primo passo di un cammino diverso. Chi vive solo dispone di tempo, dialoga con elevato rendimento con i suoi simili, non è distratto dai mille problemi della famiglia e può continuamente, in piena libertà, elaborare il materiale in suo possesso e fare continue verifiche. C’è bisogno di soluzioni nuove per debellare quella netta sensazione di precarietà che c’è nell’aria. Soluzioni per l’economia, difficili da intuire, tranquillizzerebbero senz’altro 57


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un mucchio di gente. C’è però un altro mucchio di gente che ha bisogno di cose più importanti, che ha bisogno di sapere cosa fare, come fare crescere i figli, cosa insegnare loro, gente che vive nella speranza che un giorno le cose si metteranno meglio che adesso. L’uomo che vive solo, che parla, che verifica, che elabora, che comunica, è l’uomo che lavora più degli altri perché questa speranza si avveri, perché lui, più degli altri, vive, e non solo sente, tutta l’incertezza della nostra epoca.

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La donna che vive sola

Zitelle ormai non ce ne sono più. Esistono donne non sposate, di qualsiasi età, ma non sono zitelle. Donne nubili alle quali molto spesso l’età conferisce il titolo di signora malgrado la palese assenza di maschi nelle vicinanze. Aggraziate, femminili, sole, ma non più bollate da un marchio discriminante. Attive nel lavoro che hanno scelto, pronte di fronte agli imprevisti, non facili nella scelta di un compagno, ancora meno di fronte all’avventura, mostri di razionalità di fronte alle loro madri, portano avanti la loro vita e ne affrontano i problemi con una serietà ed una costanza del tutto nuove. Sanno benissimo che il loro ruolo, così come quello dell’uomo solo, è nuovo. Ne vanno inventati gli schemi, le contrarietà devono essere superate velocemente, si deve far finta che tutto fili liscio perchè il rischio è troppo elevato. La libertà si radica nell’animo come non rinunciabile e ogni attimo di lotta per conservare lo stato raggiunto, in alcuni casi conquistato, non deve far sentire il proprio peso. Attimi di crisi ce ne sono, ma occorre vincerli in fretta e soprattutto da soli. Per la donna è ovviamente più faticoso vivere e superare questi momenti, abituata com’è per cultura e per tradizione ad appoggiarsi al maschio, ad affidare a lui le responsabilità, ad ascoltare il suo parere, il suo giudizio, a dare per scontata la sua soluzione. Ma anche la donna, vivendo questa nuova condizione, deve stare attenta a non perdere la sua identità. La zitella percorreva solitamente due strade, quella della dolcezza o quella dell’acidità. Era certamente più facile che facesse l’uncinetto piuttosto che indossasse i panni del 59


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generale. Ma anche in questo caso rimaneva una donna. La donna d’oggi, l’ex zitella, se corre un rischio, nei suoi attimi d’incertezza è quello di adottare, in mancanza di schemi collaudati e con modelli di riferimento assolutamente assenti, regole e modi tipicamente maschili. Il linguaggio subisce in questi casi sensibili modifiche; pur rimanendo il contenuto, la forma è la prima a degradarsi. Le movenze si modificano, la casa perde in ordine e pulizia, il cibo si trasforma, diventa più semplice, oppure lascia posto a scatolame di tutti i tipi o prodotti pronti della rosticceria sotto casa. Si vive lo stesso, ma con ritmi diversi. La donna, che per tradizione non sapeva nemmeno come gli uomini trascorressero il loro tempo nel loro bar preferito, la loro migliore valvola di sfogo, scopre oggi che in fin dei conti il bar è un’ottima soluzione. Ci si incontra gente, si parla, si beve qualcosa, si passa una serata e, alla fine, non c’è da rigovernare la casa. La macchina, è un’altra scoperta della donna che vive sola. Protegge in maniera decente dagli estranei (che si incontrano sul tardi al momento del rientro) e che da sempre sono stati generatori di ansie e di timori ancestrali. Qualche piccolo problema nell’attimo del parcheggio, ma subito dopo, col portone che si chiude alle spalle, tutto torna tranquillo. La macchina è segno tangibile di una indipendenza assoluta, diventa addirittura più necessaria alla donna che all’uomo, sia come funzione, sia come simbolo. Un uomo potrebbe farne a meno, non ha bisogno di mantenere la propria indipendenza, può anche rinunciarci ogni tanto senza sentirsi fragile, debole, sminuito. La donna no. Nemmeno quando un’auto procura qualche difficoltà di bilancio ma, d’altra parte, l’indipendenza in qualche modo la si deve pagare. Una donna scopre piano piano di non avere più bisogno dell’uomo. Scopre addirittura che senza uomo sta meglio, è più padrona di se stessa. Questa donna, la donna che ha preso coscienza di tutto ciò che non è più, ovviamente la zitella di una volta, la vec60


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La donna che vive sola

chia cara zia che aveva trovato nella dolcezza un facile passaporto per il contatto con gli altri, è ormai una donna forte – altro passaporto – autosufficiente che sa destreggiarsi con abilità tra i mille problemi quotidiani. Il guaio principale sta nel fatto che un uomo non è più in grado di riconoscere come donna questa donna. Gli è ormai troppo simile, se la immagina – e la identifica – come antagonista, ne ha quasi paura. L’umanità ha paura di questa donna almeno quanto ne ha dell’uomo che vive da solo: sa bene infatti che da questi suoi prodotti non ricaverà niente per il suo futuro: un mondo senza coppie, un mondo sterile, è la sicura premessa di un vero e proprio suicidio della razza.

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La donna e il ricatto dell’istinto

Difficile affrontare un discorso che coinvolga le donne, altrettanto difficile mantenere la giusta misura. Il fatto che chi scrive esprima pareri del tutto personali non lo esime da critiche perchè il terreno scotta e le cose corrette che verranno dette, difficilmente verranno condivise. Una donna di quarant’anni, valutata sulla base dell’esperienza e del comportamento, è sicuramente più vicina a mia nonna che a me che di anni ne ho quarantadue. Nella vicina di casa trentottenne riconosco una sicurezza di comportamenti che io forse non avrò mai, nel chiamarla signora ho la piena certezza di essere signorino, un ragazzo abbastanza maturo, ma molto distante dall’essere l’uomo che ciascuno di noi aspira ad essere. Dubbi ed incertezze che animano la nostra vita di tutti i giorni sembrano non essere mai esititi, se non in un lontano passato, nella nostra coetanea. Un giorno è diventata donna poi madre. All’interno della famiglia ha assunto un ruolo preciso, con grande responsabilità. Non ha battuto ciglio e si è adattata con apparente facilità al suo compito, senza paura. Una straordinaria stabilità mentale sta certo alla base del suo comportamento, l’adattamento progressivo a tutte le mutazioni del suo stato le ha assicurato taciti diritti. La Donna di Casa non ha problemi di identità, la sua posizione è ben collaudata, i modelli del passato le vengono quotidianamente in aiuto. Qualche scompenso le è consentito durante il passaggio da madre a nonna, quando le circostanze la costringono per qualche anno a momenti anche di 63


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prolungata inattività. Ma poi la vita riprende un ritmo che le è congeniale e si ritrova mamma/mamma, un secondo ruolo dove la sua esperienza la eleva al rango della saggia di casa. Ma siamo sicuri che questa donna sia sempre stata così, che la vita non le abbia riservato, in una delle sue fasi, dei privilegi che hanno accelerato il suo processo di crescita, vantaggi che il maschio non ha mai conosciuto. Dimentichiamoci per pochi momenti della Signora vicina di casa sicura ed efficiente e cerchiamo di ricordarcela quando era la ragazzina di vent’anni fa, consapevole della sua gioventù e delle sue grazie. Già allora questa certezza la poneva in una condizione di vantaggio, le consentiva taciti ricatti sui maschi che la circondavano, giovani o meno giovani che fossero. Per accedere a questo gioco, basato più sugli istinti di razza che sul desiderio di comunicare, bastano, ad una ragazza, alcuni rudimenti di carattere formale: una certa dose di educazione, un po’ di cultura scolastica, pochi precedenti, recuperabili anche da occasioni familiari, di comportamento all’interno di un gruppo. La situazione più facile, più sperimentata, dove mettere in atto, coscientemente o meno, la propria tattica, per una donna è la cena. L’ambiente rilassato, conviviale, predispone al dialogo: argomenti seri e faceti si alternano continuamente fino a che non ci si ferma su temi che coinvolgono tutti: è il momento dei pareri individuali, delle posizioni soggettive. Ed è anche il momento in cui la donna di vent’anni, coscientemente o meno, comincia a godere dei privilegi di grazia e di sesso, le viene concesso di interrompere, di riportarci sul frivolo, di aggirare il nocciolo o di dimostrarsi annoiata della piega seria che ha preso il discorso. A lei viene concesso molto di più di quanto permetteremmo ad un suo coetaneo, che non esiteremmo a definire nella stessa situazione, un bambino immaturo. 64


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La donna e il ricatto dell’istinto

Nei confronti della ragazza utilizziamo invece dosi di cortesia sufficienti a rafforzare la coscienza di aver agito e parlato nei migliore dei modi, le permettiamo, cercando premesse per altro genere di rapporti, di radicare in sé una sicurezza che forse sarebbe stato meglio che non avesse. Ci si dimentica spesso di avere al nostro tavolo un ragazzino, casualmente di sesso femminile, un bambino immaturo, al quale, in virtù di una condizione sessuale diversa, concediamo spesso troppo. Questa analisi razionale della situazione non ci permette, al momento giusto, di vedere con chiarezza il problema perchè i ricatti dell’istinto sono davvero potenti e così succede spesso di trovarci coinvolti da opinioni e da pensieri che senza la nostra benevolenza iniziale non sarebbero mai stati proferiti. Bastano perciò pochi giorni perchè questa giovane donna ai suoi primi passi acquisti certezza e sicurezza. E quando, vent’anni dopo ce la ritroviamo nelle vesti della vicina di casa quarantenne, non possiamo fare altro che sentirci, al suo confronto, dei ragazzi e non degli uomini.

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La donna nuova

Una volta c’era chi guardava la madre prima di scegliere la figlia. Era inevitabile che gli anni, con il loro lavoro lento, ma costante, lavorassero sul corpo della ragazza: un’aggiunta di grasso qua e là, un po’ di cellulite sulle cosce, centinaia di capillari frantumati, un po’ di rughe distribuite sul volto, una spinta verso il basso al seno ed ecco, dopo venti, trent’anni, la copia esatta della madre. Per arrivare a tale risultato era determinante anche la collaborazione volontaria e spesso consapevole della figlia: gli stessi abiti, lo stesso incedere, gli stessi capelli, lo stesso trucco, la stessa altezza dei tacchi. La moda, meno tiranna e meno volubile, permetteva questa immobilità, giustificava questa inerzia nel modificarsi, nell’inventare o nell’accettare qualcosa di nuovo. Il risultato era rassicurante, un modello immutabile permetteva di non sbagliare, di riconoscere sempre l’attimo giusto in cui fare una cosa, di adornarsi e di muoversi senza rischi al momento opportuno. Il tempo scorreva lento, le situazioni si ripetevano, non ci si aspettavano delle invenzioni, delle innovazioni che mutassero l’ordine stabilito delle cose. Il fidanzamento su basi concrete, il matrimonio al momento giusto, così la maternità, l’educazione dei figli, la gestione della casa, la maturità, il diritto al rispetto, senilità e senescenza confortata dall’affetto della famiglia intera. Ruoli e schemi collaudati, trasmessi tacitamente di madre in figlia, un’eredità fatta di sicurezze. Avrebbe oggi senso decidere quale donna scegliere sulla 67


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base delle foto e dei comportamenti della madre? Improbabile, direi. Una vita diversa aspetta una giovane donna dei giorni nostri: una vita più attiva e interessi molteplici la distraggono quotidianamente dalle regole quotidiane alle quali era soggetta la madre. Un’alimentazione diversa, più attenta, le impedisce di acquisire con rapidità le forme matronali, così usuali in passato. Una moda più libera, più pratica le impedisce di accentuarle. Ma è soprattutto una cultura diversa che la distacca definitivamente dagli schemi del passato, che le permette di diventare una donna nuova, mai esistita. Nessuna donna prima di lei aveva avuto le chiavi di casa, scollature profonde e gonne a metà coscia, anche se questi non sono che gli aspetti esteriori della sua diversa condizione. Più profonde sono le mutazioni sul piano della consapevolezza dei diritti personali, della dipendenza dal potere maschile. Il suo ruolo è nuovo, non ci sono appigli a cui agganciarsi, e l’unica sicurezza si costruisce sull’esperienza e non sui modelli del passato, che ormai, col mutare delle condizioni, non servono più. Più difficile diventa il rapporto con l’uomo, minore importanza assumono le istituzioni ufficiali, la maternità non è più l’unico traguardo. Diminuiscono gli obblighi, anche se in cambio ci sono meno gratificazioni, c’è maggiore libertà e lo scotto, anche se preventivato, è decisamente alto, più alto ancora di quello che legava le loro madri imprigionate da ferree regole, donne che difficilmente espressero la loro grazia e la loro femminilità al di fuori dell’ambiente familiare, donne alle quali fu permesso di essere romantiche e non civette, donne per le quali desiderio significava colpa. Gli anni hanno lavorato, la donna nuova si è emancipata al punto di essere lontana generazioni dalla donna sua madre: sicura, aggressiva, consapevole, accetta la propria condizione vivendola, considerando diritti gran parte di ciò che alla madre veniva attribuito come colpa. 68


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La donna nuova

E allora non sapremo mai come gli anni trasformeranno questa donna. Di certo c’è che essa non potrà più somigliare, nemmeno fisicamente, a sua madre.

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La verifica dell’identità

C’è un documento – lo ritiriamo all’anagrafe – che certifica la nostra identità. Dice chi siamo, come siamo, cosa facciamo. È stabilito che dopo cinque anni tutte queste dichiarazioni non valgano più. Anche se i dati rimangono gli stessi esiste una scadenza periodica che ci ricorda che qualcosa cambia. Tanto per cominciare cambia la nostra fisionomia, ma questo è solo un aspetto superficiale del problema, perchè in realtà cambia davvero anche la nostra identità. Si modifica il nostro ruolo, cambia il nostro modo di vedere le cose e forse cambiano anche le cose e di conseguenza cambiamo anche noi. Il tutto però avviene con passaggi graduali e di giorno in giorno non ce ne accorgiamo. Anche i valori in cui crediamo si modificano con noi perdendo ora di peso, acquistandone altre volte. Di volta in volta abbiamo un’identità definita, veniamo riconosciuti dagli altri per ciò che esprimiamo, per le condizioni che ci fanno agire, per le responsabilità che assumiamo. Viviamo in mezzo agli altri e non possiamo, o perlomeno non dovremmo vivere una vita diversa dalla nostra. Il nostro prossimo esiste, spesso ce lo troviamo davanti e qualche volta il nostro prossimo, quello che abbiamo incontrato, ha bisogno di noi. È il momento della verifica. Nel momento in cui decidiamo di dare, togliamo qualcosa ad altri, a noi più vicini, che sembrava avessero maggiori diritti di avere e di continuare ad avere. D’altra parte girare le spalle, dimenticare di conoscere chi abbiamo conosciuto e chiudere l’animo di fronte alle necessità, ebbene tutto questo toglierebbe a noi stessi molto di più di quel71


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lo che siamo disposti a dare. La verifica si compie e ci permette di stabilire se stiamo cambiando, in che misura lo stiamo facendo chi ci sta vicino poi capisce e si riavvicina a noi perchè una vita è lunga una vita e non mille anni e perchè il nemico è l’egoismo e non la disponibilità nei confronti del prossimo. C’è un vizio di forma in tutto questo: per ogni disponibile ci sono troppi disposti a chiedere l’intervento. Le necessità degli altri prendono il sopravvento, le loro debolezze vengono giustificate, si sottovaluta l’egoismo. Ed ecco il Disponibile sommerso da cumuli di problemi d’altri che, per incapacità d’affrontarli o per comodità, se ne scaricano con una facilità esagerata. È un problema trattato altre volte. La prudenza consiglierebbe il disinteresse, ma esso rappresenterebbe il primo passo di una lenta degradazione. Al diavolo la prudenza, il calcolo, la tranquillità: vivere senza farsi violenza, senza modificare le proprie tendenze, seguendo l’istinto di aiutare chi ha bisogno, questo è naturale, ovvio, necessario. Poi, alle solite scadenze, quando avremo nuovamente bisogno di ricodificare la nostra identità, tra le caratteristiche particolari segnalate dall’esterno, ce ne sarà una nuova: l’ingenuità. Ci sono alternative peggiori: l’avarizia, l’ignavia, l’egoismo… no, no, meglio essere ingenui.

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Il trascorrere dei giorni

C’è un momento nella vita in cui l’uomo comincia a pensare all’età che ha raggiunto. Avviene automaticamente, per lo meno questa è l’impressione dell’interessato, succede senza che sia evidente la successione dei fattori che porta, per la prima volta, a parlare di età. La coda di paglia, nascosta più o meno volontariamente, c’è. Si parla degli anni raggiunti come se si volesse anteporre un alibi per comportamenti futuri non corretti o per giustificare errori già commessi e non identificati. Questo parlare di sé è una condizione strettamente personale che non suscita l’interesse altrui, questo sbandierare la propria fragilità reclama delle coccole, delle grosse dosi d’affetto. Ma chi capisce non può esaudire la richiesta, altrimenti il gioco diventa palese e la situazione patetica. L’aiuto va dato in ogni caso, può essere tacito, ma l’appello va compreso ed è necessario trasmettere di aver capito la situazione. Proclamare l’età non è la stesura del bilancio degli anni passati, di solito è una totale accettazione degli anni trascorsi, è un sigillo che si pone sopra ciò che di male e di bene c’è stato. Accettare un’età, pur manifestandola, è pensare al presente con una visione critica della propria situazione, con una maggiore attenzione ai passi che, in una direzione o nell’altra, vanno compiuti. Vuol dire esaminare possibilità, varianti, evitare, sempre che sia possibile, mosse dettate dall’impulso. È la logica che comincia a prevalere. È il passaggio ad una nuova fase della vita. L’età della ragione comincia proprio quando oltre a parlare di ragione si parla anche di età. Il tempo assu73


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me una dimensione diversa, c’è una maggior coscienza del trascorrere dei giorni e degli anni, c’è meno margine di errore e il recupero deve necessariamente avvenire in tempi brevi. Un po’ come quando all’università, si trascorreva il tempo senza una meta precisa, con la laurea ancora distante e, senza saperlo, ogni giorno più lontana. Gli anni passavano e si imparava soprattutto a vivere senza alcun problema di identità, anche perché tutti noi ne avevamo una precisa, eravamo degli studenti. Una qualifica che ci permetteva un certo numero di piccole follie senza che nessuno ci trovasse nulla di male. Nel frattempo ci si avvicinava ai trent’anni, un vero e proprio giro di boa, dopo il quale lo studente, rimanendo tale, diventava un lazzarone. Durante questa trasformazione c’era una perdita di tutti i privilegi conseguiti in passato. Le giustificazioni non venivano più accettate, e tutte le porte aperte dalla vecchia condizione, piano piano si richiudevano. A meno che con l’età non giungesse un contemporaneo inserimento sociale che rimetteva in gara l’ex studente. Era dunque necessario anche in quella fase un recupero, di esami non dati, di rapporti trascurati, di tempi destinati all’ozio. Erano anni in cui anche alla fase di recupero si guardava con una certa tolleranza, l’importante era che fosse iniziata, tanto il tempo avrebbe poi messo a posto tutto. Ma dieci, venti, trent’anni dopo questa boa dei trenta c’è altrettanto tempo per risistemare situazioni lasciate in sospeso, per rivivere momenti importanti, per iniziare rapporti mai presi in esame. Tempo ce ne sarà sempre di meno. Sarà necessario di conseguenza agire e pensare molto più rapidamente e altrettanto veloce dovrà essere la decisione. Ma tutto questo contrasta con la necessità, sopra evidenziata, di evitare mosse d’impulso, di dover meditare, esaminare varianti, possibilità, prima di decidere per non commettere errori. 74


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Il trascorrere dei giorni

E allora ciascuno porterà avanti se stesso, con il proprio modo di agire, sapendo che nell’un caso o nell’altro potrà commettere degli errori. E così, ancor prima di muoversi, di agire o di pensare, ciascuno di noi metterà in piazza il discorso dell’età, anteponendo degli alibi per comportamenti futuri non corretti o per giustificare errori già commessi e non identificati.

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I geni dispersi

Odio la necessità di attribuirsi un colore politico per giustificare le proprie idee, come se esse avessero sempre bisogno di patrocinio. Amare la libertà, amare il prossimo è umano, è quanto di più normale possa esserci. E se le stesse cose le ha già dette qualcuno o qualche partito se ne fa vessillo, non c’è niente di male ad arrivare alle stesse conclusioni, soprattutto quando ci si arriva da soli. È una forma di viltà non prendere coscienza del proprio potenziale creativo, mantenere rapporti di dipendenza psicologica e culturale da posizioni consolidate, parlare di cose già dette affidandone la responsabilità ad altri solo perché questi altri sono arrivati prima alle stesse conclusioni. Non mi piace la gente che non ha il coraggio di rischiare, di inventare soluzioni nuove, che accetta le vecchie – anche se ricche di svantaggi – solo perché sufficientemente comode. Il cervello a costoro non serve, non serve quando c’è da far quadrare un precario bilancio familiare, quando la vessazione si fa esagerata, quando gli scherni di vita obbligano a sacrifici per premi inesistenti, quando vivere di forma diventa l’unico contenuto della loro vita, quando l’amore per il prossimo o per la libertà non è più un sentimento spontaneo ma la regola imposta e quando ci si fregia di ossequienza alle regole. E l’uomo dov’è finito? Quel motore straordinario che maneggia la storia a suo piacimento, che lascia un’impronta incancellabile, che dona alla scienza e all’arte capolavori inestimabili? Quest’uomo pare sia destinato a svanire, i suoi 77


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geni si sono dispersi, la massa ha preso il suo posto con prepotenza, con avidità, con impazienza. Criticare il processo di questa rapida evoluzione è ormai peccato storico, rifiutare una tale società perché impreparata è atto da reazionari. Solo perché parliamo di noi, perché l’argomento e la gente sono di casa nostra. Tutti però parlando del Congo – a distanza di buoni vent’anni dalla rivoluzione – lo giudicano una nazione nuova, ancora bisognosa di lezioni, di umiltà, di apprendimento. C’è bisogno di tempo, si dice. Devono crearsi il loro mondo, salendo ogni giorno un gradino verso la civiltà. Loro, perché sono africani, perché sotto quella pelle scura e quei linguaggi sibilanti non si sa che cosa si nasconde. Noi no. Noi, la nazione eletta, decorata da duemila anni di storia, possiamo fare a meno di tutte le fatiche necessarie per crescere, per evolverci, per diventare maturi. Vogliamo essere diversi dagli altri, vogliamo dimenticare come eravamo cinquanta anni fa, altrimenti non potremmo assolutamente essere quello che crediamo di essere diventati, perfetti. Da una parte i padroni, in gruppo anche loro, privi del coraggio di dimostrarsi individui nelle loro scelte e nelle loro decisioni, protetti solo dal loro denaro, finché ne avranno o finché glielo lasceranno. Dall’altra parte la massa, pronta a farsi manipolare individualmente, continuamente infiacchita dalle continue vessazioni, usurata nella sua potenzialità da schemi anch’essi logori, ma contemporaneamente collettivamente superprotetta, piena di diritti di casta, utilizzata in politica come Italia Nostra utilizza i ruderi o il WWF gli animali in via di estinzione. L’individuo non agisce più, non reagisce nemmeno, sembra ormai la vettura di testa della metropolitana che non può scegliere il percorso. Una tristezza immensa. Eppure c’è tanto da fare per l’individuo che ha capito la situazione, che vuole ancora scegliere il percorso che più gli 78


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I geni dispersi

aggrada. Quest’individuo va stimolato, va incoraggiato per poter lottare nel suo microcosmo, perché diventi un esempio per gli altri che lo possono seguire. Quest’uomo non deve perdere la coscienza del proprio stato, della propria unicità, deve portarla avanti, pur adeguandosi al mondo che lo circonda, se vuole continuare ad avere speranze per sé e per i propri figli. Lottare per un mondo migliore va fatto prima singolarmente e poi, con la collaborazione e la solidarietà degli altri, anche collettivamente. Questo desiderio di recupero del privato, questo tentativo di rientrare in possesso di un diritto pieno, è tendenza di molti, la molla si sta caricando in attesa dell’ora giusta. Ma se quest’ora coinciderà col momento del collasso delle istituzioni, allora non sarà più una libera scelta…

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Il colore della libertà

È difficilissimo parlare di libertà. Succede sempre che prima o poi si prevaricano gli altri, che le discussioni diventano aggressioni e, se l’interlocutore se ne sta, si passa subito alla rissa. Quando si analizza un concetto astratto, è inevitabile che le prese di posizione siano del tutto soggettive anche perché manca qualsiasi punto di riferimento convenuto che possa avviare un discorso meno parziale. Le frasi si trasformano con facilità in dogmi e di fronte ad un dogma non c’è difesa, si è spinti nell’angolo si è costretti a reagire. E proprio di dogmi si tratta e il discorso è un atto di fede e come al solito, per affermare la propria, si è disposti a mandare al rogo chiunque sia contrario, o a rompergli il muso nel caso sia necessario. C’è sempre chi aggredisce per primo e c’è di conseguenza chi viene aggredito: costui di solito è paziente, tranquillo, educato, pronto a concedere spazio e opinioni all’interlocutore, l’altro di solito parla di libertà, ma è il primo che ne porta avanti il vessillo. Ma c’è un limite a tutto e prima o poi, dopo la centesima provocazione di colore culturale, di colore ideologico e di colore politico, l’aggredito reagisce e proclama il bianco come re dei colori, il più bello. E come previsto scoppia la rissa. È inevitabile perché essere pazienti, tranquilli, educati e concilianti non vuol dire essere deboli e sopportare soprusi e prevaricazioni. Ci sono ideologie che per tradizione non si dichiarano, non ne hanno bisogno, non c’è rivendicazione in esse, ci sono certezze verificate, che non hanno necessità 81


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di essere proclamate, esistono e basta. La controparte è rivoluzionaria, non si accontenta di una situazione, spesso costruita sul compromesso, che permetta soluzioni costanti, che cerchi di mantenere un certo equilibrio, che faccia sì che ci possiamo muovere come se non stesse succedendo niente, niente di nuovo, niente di grave. Tinte pastello non devono esserci, la nuova tavolozza vuole solo tinte fosche. C’è gente, e tanta, che non per interesse ma per istinto ama e vuole continuare ad amare gli altri come li ha amati in passato, secondo gli schemi della tradizione, in un mondo che, checché se ne dica, continua a funzionare. Parliamo di gente che agisce, che parla, che comunica; gente che conosce il mondo e ne ha fatto una scelta di partecipazione e non di alterazione, di mutazione, gente che conosce il sacrificio, che lotta contro il dolore vicino e non per cause lontane. Gente che dai propri modelli ha assorbito il bene e rifiutato il male per portare avanti un discorso dove tradizione e innovazione coesistono con facilità. Dall’altra parte c’è gente, e tanta, che lavora, lotta, agisce, si muove, per frantumare tutti i legami col passato, per creare una società diversa, nuova, senza ricordi positivi. Gente che ha subito pressioni, angherie, vessazioni, che è passata attraverso ogni tristezza, ogni frustrazione. E allora questa gente che non può appigliarsi al passato per decidere la strada giusta da seguire, compone teorie, cerca di creare una cultura nuova della rivincita, della reazione di gruppo dimenticandosi che il proprio gruppo è troppo ampio perché generalizzare sia semplice, sia corretto e soprattutto sia giusto. Generalizzare vuol dire di nuovo teoria perché in pratica, le persone, se vogliono comunicare, devono assemblarsi in piccoli gruppi omogenei, dove un gesto o una parola abbiano lo stesso significato per tutti. Occhio per occhio, come riscatto della propria condizione, diventa violenza, presupposto errato se la meta da raggiungere è la pace. Appare di conseguenza impossibile una composizione di 82


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Il colore della libertà

una vertenza vecchia quanto il mondo, e l’unica possibile via d’uscita per cercare la libertà è la sopraffazione dell’altro. È la tipica situazione di stallo, un vicolo cieco che impone delle pause di riflessione, che ci permetterà di capire, con l’andare del tempo, se vale la pena di lottare per chi ha bisogno di noi, a due passi da noi, o per chi ha bisogno di noi – o di altri – a migliaia di chilometri da noi. Aprire gli occhi – e possibilmente anche il cervello – per capire che cosa è giusto, o per lo meno, per decidere l’ordine di priorità con cui affrontare i problemi che ci circondano, potrebbe essere la soluzione. C’è bisogno di tempo per riuscirci e non è una giustificazione sufficiente la convinzione di non averne a sufficienza. Senza il tempo si continuerà da una parte a cercare di demolire fedi preconcette e dall’altra a continuare a crederci ciecamente con l’unico risultato di affermare la libertà con la sopraffazione degli altri.

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Il costo della sicurezza

La sicurezza. Un tema che non abbiamo ancora affrontato. Una meta ambita da troppi, da tanti che cercano di sfuggire alla costante situazione di incertezza in cui tutti ci muoviamo. La precarietà è l’unica costante dei nostri tempi, emana un profumo che dà stimoli ad alcuni mentre atterrisce gli altri, crea un senso quotidiano di avventura che permette ai primi di agire e che rende immobili gli altri. L’elevato coefficiente di rischio che ci riserva il futuro, trasforma la vita in un gioco, dove l’azzardo è compensato dal premio, dove la sconfitta permette di inventare nuovi schemi di difesa. È una prova continua riservata a pochi, a quei pochi che non investono il loro tempo e i loro sforzi nella ricerca della sicurezza. Costoro sono immortali, sanno per certo che il premio va conquistato tutti i giorni, un giorno dopo l’altro; sanno che è il premio che conta, non i mezzi necessari per raggiungerlo. Sanno che dopo ogni premio ci sarà un altro giorno per un nuovo premio, e poi un altro giorno e così via. Sanno che ogni diritto va pagato con un dovere, e allora scoprono tutti i doveri del mondo ed assolvono ad essi con estrema costanza. E prendono coscienza di nuovi diritti, ma non ne abusano, perché non si divertirebbero affatto in una vita dove eccessi di vantaggi annullerebbero tutte le componenti ludiche. Il gioco, per continuare, deve avere tutti i contendenti sullo stesso piano, altrimenti un risultato costantemente previsto ne annullerebbe il piacere. C’è un altro modo per affrontare la vita, temerla, aggirar85


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ne le difficoltà, trovarsi sempre in una posizione di neutralità, con la protezione di regole ferree di non partecipazione che ci tengano distaccati ma protetti. La protezione forse è ciò che si va cercando. Una posizione dove il vantaggio della sicurezza viene quotidianamente pagato con la perdita di ogni diritto, con atti quotidiani di sottomissione. Ma l’animo umano non conosce correttezza alcuna in questo campo: si accetta un contratto perché è comodo, poi lo si rinnega quando c’è da rispettarne le clausole. Si è pronti a rimangiarci ogni parola, si critica e si maledice tutto e tutti se il vantaggio che abbiamo accettato non è massimo e ci si dimentica di rispettare i patti. La sicurezza costa, ma ci se ne accorge soltanto al momento di saldare i conti quando torna a galla il contratto di schiavitù che si è accettato. Ed ecco dunque che si opta per il rischio e il rischio genera precarietà, imprevisti, incertezza, tutti fattori che ci obbligano ad inventare una vita nuova, un giorno dopo l’altro, una vita dove la ricerca della sicurezza viene sostituita dalla ricerca della felicità.

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Le vittime della cultura

Ci sono molte malattie ad affliggere l’uomo e non tutte ne minano il corpo. Negli ultimi anni l’essere colti a tutti i costi ha fatto vittime in maniera esagerata, c’è stata un’accelerazione all’apprendimento che ha danneggiato in maniera irrecuperabile la possibilità di comunicare e di tessere nuovi rapporti. Un falso obiettivo, la conoscenza, ha mimetizzato quello vero, la qualificazione attraverso la dimostrazione pubblica di accumulo di conoscenze. Una esposizione continua di dati e di concetti, l’uso prolungato di parole dotte, costanti riferimenti a grossi nomi dell’avanguardia culturale, imprevisti paralleli e confronti tra filosofie di diversa origine, il tutto inevitabilmente e platealmente finalizzato. In queste occasioni il rischio di contagio è inesistente e se c’è un rischio è quello del rigetto. Per alcuni la scalata al sapere è cominciata una decina d’anni fa, all’epoca dei primi spinelli quando c’era chi si drogava e sapeva di drogarsi e c’era chi si drogava e per giustificarsi si atteggiava a studioso di filosofie orientali. Uno sforzo comprensibile anche se come risultato immediato c’è stata allora solo una grossa confusione. Per altri l’inizio risale addirittura a una ventina d’anni fa, quando bastava girare con l’Espressino sotto il braccio per sentirsi dei rivoluzionari. Per altri ancora l’iniziazione è avvenuta con Marcuse e per gli ultimi è bastata La Repubblica, molto spesso utilizzata a mo’ di coccarda, di simbolo della propria condizione culturale. Leggere tutto è la parola d’ordine di questo genere di malati: leggere tutto vuol dire tutto, nel senso che se acqui87


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sti un settimanale di opinione puoi tuttalpiù tralasciare le rubriche fisse. Devi sbrigarti, perché il rischio è che dopo pochi giorni esca in edicola il numero successivo e tu non abbia ancora finito di leggere il precedente. Tra i generi letterari è il saggio a fare la parte del leone perché il romanzo è una cosa da donnicciole e la fantascienza un fenomeno di moda per borghesi in cerca di evasione. Questi mostri di cultura sono terribili: non appena cominciano a parlare non li fermi più perché vogliono dirti tutto quello che hanno imparato e te lo vogliono dire, senza fornirti i codici di traduzione, con il linguaggio degli autori, molto spesso difficile e troppo specialistico. Per seguire questi monologhi ci vogliono grosse dosi di cortesia e di disponibilità. Talvolta ci troveremmo in grossa difficoltà se ci venisse chiesto un parere sull’argomento trattato ma per fortuna questo non succede mai, tanta è la foga di dimostrare i traguardi raggiunti. La comunicazione di massa, per avere credibilità, deve avere l’etichetta di impegno culturale e solo allora può venire consumata. Per tutti questi Nuovi Dottori il consumo è il padre dei vizi, è un peccato mortale da evitare a qualsiasi costo a meno che il fine non giustifichi i mezzi: il desiderio di conoscenza, si sa, merita lodi ed approvazione. Le testate specializzate si moltiplicano – le edicole ne sono piene – c’è gente che ne acquista tre, quattro, cinque al mese per riferire poi, in pubblico, dati ed opinioni ad ogni spron battuto. Mai una volta che ci sia un momento di pausa, che il discorso scivoli sulle sciocchezze, sulle amenità, sul disimpegno. Mai. Sarebbe poco serio. E così, piano piano, i Nuovi Dottori hanno perso il sorriso. E pensare che ci sarebbe un altro modo di fare cultura, portando avanti gli insegnamenti e l’educazione che abbiamo ricevuto da piccoli, con schemi forse sorpassati ma pieni di saggezza. Per il Nuovo Dottore però questa sarebbe la via dell’involuzione, un ritorno alla condizione non dottorale 88


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Le vittime della cultura

dalla quale si è liberato con grossa fatica e con lungo studio. La casa del Nuovo Dottore ha un locale in più, la biblioteca, un concreto simbolo del livello di conoscenze raggiunto, un attestato di laurea, del suo tipo di laurea. Questa montagna di sapere, se ben utilizzata, gli permette molto spesso di mimetizzarsi tra i dottori autentici, quelli che le cose le sanno davvero e se le tengono care, non le sbandierano ad ogni pie’ sospinto. Invece l’ambizione e il desiderio di vedere riconosciuto il nuovo stato mascherano spesso il Nuovo Dotto: una desinenza sbagliata, un accento fuori posto, una parola inesatta lo tradiscono malamente, senza che egli se ne accorga. Da parte dei suoi interlocutori inizia la fase di rigetto, lentamente ma inesorabilmente inizia un processo di emarginazione. È una condanna dura e irrevocabile, che rimette le cose al loro posto. Possiamo così tornare a parlare con i nostri amici di cose serie e di cose frivole senza che il fantasma della cultura sia costantemente in mezzo a noi, che ci limiti nella nostra spontaneità. Questa nuova situazione ci ridona il sorriso, una medicina sicura per il nostro spirito.

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L’arte e i suoi escrementi

Vent’anni fa si discuteva parecchio d’Arte. Ci si metteva d’accordo, prima o poi, che due erano le fasi da analizzare: quella del durante e quella del dopo. L’Arte (e non si parlava di artigianato sublime) esisteva nella fase di elaborazione, negli stimoli e nelle varianti di esecuzione. Dopo, alla fine, c’era solo il prodotto dell’Arte, il quadro, la scultura, la poesia. Esattamente come succede al grande cuoco che affida al forno la sua creazione: alla fine ne esce una pietanza che conserva solo le tracce dell’abilità che l’ha prodotta, ma che non è essa stessa l’abilità. Il quadro non è il cibo che si gusta ma solo l’escremento di un lungo processo digestivo e, se il paragone può continuare senza offese per alcuno, chi si aggira per le mostre con occhio attento altro non è se non un coprofilo. Se di escrementi non si trattasse, non si capirebbe la facilità con cui un autore si libera, anche se dietro compensi, talvolta elevati, dei suoi prodotti. L’autore ne riconosce la vera essenza, sa di avere contribuito alla loro esecuzione, ma sa anche che tutte le sensazioni e le emozioni del momento della creazione sono sue e a lui rimangono. Sono fette di esperienza che lo aiutano nella realizzazione dei suoi prodotti successivi. Sono elementi personali che a lui rimangono, che non vengono ceduti all’atto della vendita. Che senso ha discutere il valore di un artista se si esaminano solo i suoi prodotti? Che senso può avere trasformare processi di natura quasi esclusivamente commerciale in discorsi impegnati, intrisi di politica, luoghi comuni senza 91


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probabilità di affermazione duratura? Si parla spesso che l’arte sia destinata ai ricchi. I quadri forse sì, le sculture anche, la letteratura un po’ meno. Esattamente come i mobili belli, le auto di grossa cilindrata, le case nei quartieri eleganti, tutte cose che con il denaro si possono acquistare. L’Arte è nella testa degli artisti, nel loro cuore, nella loro anima. Non è cedibile, non è acquistabile. Solo delle sensazioni di seconda mano, delle emozioni mediate dalla tecnica vengono trasmesse. E chi le riceve le fa proprie, le confronta con altre già codificate, le analizza sulla base di esperienze passate e con estrema presunzione crede di aver capito tutto, di poter possedere lo spirito dell’autore. Una vita è lunga ed è difficile anche per l’artista vivere continuamente momenti magici. L’Arte che è in lui, che lo fa muovere, lottare, lavorare, ogni tanto se ne va in vacanza. L’artista, ridivenuto comune mortale, dovrebbe perdere la sua qualifica per riconquistarla successivamente al primo momento di grazia. E invece no, difficilmente rinuncia a plagiare se stesso, a riprodurre schemi ed opere dei suoi periodi felici. Il pubblico, che lo conosce solo attraverso la sua produzione, continua ad accettarlo e ad acclamarlo.

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L’arte dello spettacolo

Una ventina d’anni fa andava di moda andar per mostre. C’era nell’aria la certezza che qualcosa di grosso stava succedendo anche se non si capiva bene cosa fosse. I canoni tradizionali venivano calpestati, tecniche collaudate per secoli venivano abbandonate a favore di altre il più delle volte dettate dalla necessità di far presto, di accelerare il risultato. Uno tagliava le tele, un altro impacchettava i monumenti, un altro ancora si limitava a guardare il poliuretano espandersi in forme imprevedibili, estranee alla cultura precedente. In America altri proseguivano per strade diverse, anche se per certi versi altrettanto dissacranti: i fumetti giganti, le scatole di zuppa, le bandiere, i manichini, tutti i prodotti della Pop Art nascevano con l’intenzione di rompere con il passato. E dappertutto libri e mostre spiegavano i perché, dicevano chi era più bravo, mostravano i prodotti più richiesti ad un pubblico del tutto impreparato ad opporsi o ad applaudire, disposto solo a cercare di capire. Certo che il tumulto e la confusione non si erano generati da soli, la situazione era matura perché qualcosa accadesse. L’unico guaio fu che quei pochi che avevano le idee chiare su cosa stava succedendo all’arte e quale strada essa stava per imboccare, anziché scrivere dei libri o fare delle conferenze illuminanti sull’argomento si misero, tutti, a fare quadri o sculture. Il disastro fu inevitabile. Fu infatti facilissimo per migliaia di scoppiati mettersi a fare gli artisti, tutti alla ricerca di qualcosa che sbalordisse ma che contemporaneamente fosse di facile realizzazione. Se ne videro di tutti i colori, il caos più indicibile. Il 93


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pubblico, ancora impreparato, rimase a guardare, nella speranza, prima o poi, di capirci qualcosa. È passato molto tempo da allora e col tempo molte mode si sono trasformate, il culto della musica, la passione per le filosofie orientali, la curiosità per nuove religioni. Adesso c’è Epoca dello Spettacolo. Si è innescato un meccanismo che ci ricorda quello che vent’anni fa sconvolse il mondo delle arti visive. Gli schemi sono gli stessi. Qualcuno ha inventato qualcosa di nuovo ed in migliaia l’hanno seguito. Far spettacolo è una qualificazione, permette di salire verso l’Arte Totale, significa coinvolgere il pubblico, ottenerne l’applauso, il segno palese dell’approvazione che laurea il teatrante. Il guitto, per proporsi come attore e per nascondere la propria condizione reale, deve seguire canoni nuovi, deve inventare, deve sbalordire affinché il pubblico non capisca, si trovi a disagio. L’unica strada che il Nuovo Attore può percorrere senza mettere piede in fallo è quella della novità, anche se nemmeno lui, il più delle volte, ha le idee chiare. E il pubblico? Il pubblico subisce naturalmente. D’altra parte è inevitabile che ciò succeda: tra attori e platea c’è un abisso, i ruoli sono distinti, uno recita e l’altro paga e se pagando non capisce, nello stesso momento fa atto di sottomissione, senza divertirsi e senza protestare troppo, anche se qualche piccolo sospetto lentamente prende forma e nascono i primi dubbi sulla qualità dello spettacolo d’arte nuova. Spesso si tratta di artigianato, talvolta di buon artigianato, preso a prestito da forme di spettacolo popolari. In questi casi andrebbe riconosciuto come tale, dovrebbe essere valutato su basi corrette, riconoscendo le matrici di ciò che si osserva. Gli applausi potrebbero anche esserci, al punto giusto, per le cose giuste, purché ci sia anche la critica, non solo come diritto ma anche come dovere.

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Il diritto alla critica

Te ne vai una sera a teatro, hai il tuo posto, il tuo numero è segnato sul biglietto: una specie di lotteria. Già, perché chi hai davanti può essere alto o basso, immobile o preso dal ballo di san Vito, attento o rumoroso. Ebbene, ci sono giorni in cui sei sfortunato e ti trovi a dover contrastare, anticipare, seguire tutta una serie di movimenti che sembrano fatti apposta per provocarti. Ti rassegni e fai tutto il possibile per seguire il balletto che eri andato a vedere, anche se le condizioni in cui sei non sono le migliori. Ci provi, ogni tanto ci riesci, ogni tanto ti distrai, dai la colpa al signore davanti, ai responsabili della disposizione dei posti che non hanno provveduto, di fila in fila, ad alternarli. Poi, improvvisamente, ti dimentichi di tutte le seccature, del treno che passa dietro il palco assorbendo interamente la musica, degli aerei che con le loro lucine verdi e rosse, ammiccano dal cielo ormai scuro, e ti concentri sullo spettacolo. È solo allora che ti accorgi che, pur con musica di Prokovief, col corpo di ballo del Bolchoï, con un grande direttore d’orchestra, ti stai annoiando mortalmente. C’è sicuramente qualcosa che non va. Qualche balletto l’hai visto, musica ne senti sin da ragazzino, una discreta preparazione estetica la possiedi, malgrado tutto questo la noia ti pervade. Il racconto, Romeo e Giulietta, è ovviamente comprensibile, ma il tempo tarda a trascorrere. L’anima manca. La bravura del singolo è limitata dai fili che lo muovono, il burattinaio ha impostato male la sua coreografia. E, alla fine del primo atto, lo dici anche a quello che ti sta davanti. Ti 95


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guarda stupito ed è convinto che tu esprima il tuo malumore perché lui è alto e si è mosso troppo. Gli si dà ragione perché ha ragione, anche se non ce l’ha del tutto perché poteva starsene tranquillo, ma poi si ribadisce lo stesso parere. In ogni caso non ti crede perché lì di fronte c’è il Bolchoï che ha maggiore credibilità delle tue parole. Ma quand’è che uno diventa credibile? Quando sa tutto e conosce tutto e disquisisce di sfumature tecniche e del sesso degli angeli o quando uno con un discreto bagaglio di esperienza esprime le proprie perplessità. Per chi nasce lo spettacolo? Per una ristretta minoranza di specialisti che cercano il pelo nell’uovo analizzando tutto lo spettacolo al microscopio cercando il sublime nell’attimo intermedio di una piroetta o di un salto? Siamo d’accordo che la perfezione in uno spettacolo estremamente dinamico, non può durare delle ore e che solo i passaggi più difficili possono darci la misura delle capacità degli interpreti, ma ricordiamoci del pubblico. Il suo scopo è divertirsi, passare il tempo piacevolmente; la scelta che ha fatto non può coinvolgerlo in eccessive fatiche di critica o di confronto. A meno che non lo si annoi. Ecco che in tal caso il giudizio è automatico, la critica dura, decisa, come sentito e generoso sarebbe stato l’applauso, se esso fosse stato meritato. Il critico non ama troppo l’emozione istantanea, tra gli strumenti del suo lavoro c’è il tempo, non tanto, ma quanto basta, per meditare, per soppesare, per valutare con maggiore obiettività tutto lo spettacolo. Uno scivolone può essere citato, ma lo scivolone può diventare un dettaglio trascurabile in una serata magnifica. Ma allora chi può criticare? Il critico, giudice distaccato e competente, o il pubblico, emotivo ed istintivo? Il Bolchoï in ogni caso ha maggiore credibilità delle parole di uno spettatore comune. Per poter parlare, criticare, occorre quindi rendersi credi96


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Il diritto alla critica

bili. È una strada lunga che passa attraverso le vie più strane. Ugo Tognazzi per esempio è credibile. Gli chiedono pareri sulle partite di calcio, sulla cucina, sulle donne, su un nuovo governo e lui, che ha l’occasione, per altri impossibile, di esprimere pareri e giudizi ad un largo pubblico, parla e viene ascoltato. Ha raggiunto il successo, non importa se in un campo totalmente diverso da quello sul quale è interrogato, e di conseguenza può parlare, una specie di licenza che viene concessa all’unanimità dall’opinione pubblica. Utilizzando la logica, un’opinione di Tognazzi mi interessa: uomo intelligente, artista di notevole livello, pieno di interessi, ha vissuto una vita intensa, ha maturato esperienze notevoli. Direi che Tognazzi può parlare e dovendo scegliere ascolterei più volentieri lui di un mucchio di altre persone più dotte o più preparate. Il problema a questo punto si modifica: ciascuno è credibile. Sta a lui costruirsi questa credibilità. È ovvio che la sua fascia d’ascolto sarà più o meno ampia a seconda della sua notorietà, dell’importanza e della serietà – precisione – delle cose che starà dicendo, dell’omogeneità culturale tra lui e il suo pubblico. Il problema sopraggiunge quando numericamente e qualitativamente la fascia d’ascolto è limitata, quando l’argomento trattato meriterebbe più spazio e più attenzione. Ma un pubblico maggiore o migliore come lo si trova? E dove lo si trova se non si è Tognazzi?

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I valori di un saggio

In un piccolo paese della Sardegna un uomo un giorno ebbe in prestito un cavallo per andare ad una festa. Al ritorno mancava un ferro e lo zoccolo era rovinato e il padrone del cavallo volle del denaro per ripagarsi del danno. L’altro non volle soddisfare tale richiesta, dicendo di non avere colpa alcuna e di avere trattato la bestia con cura, come se fosse stata sua. Per superare questa situazione di stallo fu necessario ricorrere al saggio del paese che, dopo avere analizzato la situazione, stabilì che il proprietario, conosciuto da tutti per la sua trascuratezza, non aveva alcun diritto di pretendere un risarcimento poiché lui stesso da molto tempo non si era preoccupato di verificare lo stato dei ferri. Stabilì insomma chi dei due aveva torto e la sua parola venne accettata al pari della sentenza di un giudice. Solo in una piccola comunità può avvenire una delega di responsabilità e di fiducia così totale, talmente ampia da evitare di stabilire delle regole. I valori di un singolo le sostituiscono, divengono il metro con cui le cose del villaggio vengono misurate. Una situazione arcaica, dove il saggio è saggio perché è saggio e dove i pareri di un saggio sono legge, una legge che viene rispettata perché emessa costantemente per il bene della collettività. Nella situazione attuale mancano figure che ricoprano questi ruoli, la gente è troppa e le condizioni di vita troppo complicate perché si riesca a capire cosa è bene per la collettività e cosa non lo è. Il sistema non prevede sensibilità per i singoli e per le loro 99


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questioni e allora bisogna uscire dal vicolo cieco in cui siamo andati a cacciarci. La cultura attuale ci dà uno specchio della situazione, fotografa impietosamente la nostra condizione ma non ci dà soluzioni, preoccupata com’è di vedere come andrà a finire. Abituati come siamo ad analizzare le tendenze e a giudicarle irreversibili non andiamo neppure per un attimo a verificare se ciò sia vero anche nella nostra situazione e se non sia per caso possibile modificarle. Il volano gira veloce e ci vuole davvero una gran forza a contrastarlo, diventa già difficile pensare di riuscirci. Una enorme dose di impotenza ci blocca qualsiasi iniziativa, i valori, che in parecchi esistono, non vengono espressi e di conseguenza chi li possiede non ha credito, non può trasformarli in regole. Eppure ci sarebbe un gran bisogno di saggi del paese, uomini giusti, forti, responsabili, che si muovano con coraggio, consapevoli del rischio di sbagliare ma anche certi di non potersi tirare indietro perché di loro hanno bisogno tutti gli altri. Per merito loro il mondo continua a funzionare. Essi conoscono il dovere, si accollano responsabilità, con le loro fatiche tengono in piedi il sistema, con la coscienza precisa di non avere alternative. E mentre questa gente porta avanti questo discorso, c’è altra gente che fa altri discorsi, senza nessuna indulgenza per il prossimo, reclamando per sè tutti i diritti, rifiutando qualsiasi dovere. Le colpe sono degli altri, gli ospedali non funzionano, la scuola è inefficiente, il sistema è logoro. Ovviamente tra le due parti non c’è dialogo (gli ultimi non sono disponibili, i primi non ne hanno nemmeno il tempo) e se anche dialogo ci fosse, la mancanza di linguaggio comune impedirebbe loro di comunicare. Ed ecco una situazione nuova anch’essa originata dall’essere in troppi: i saggi ci sono ma nessuno li conosce e allora 100


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I valori di un saggio

si dubita della loro saggezza e non si crede nei loro valori. A questo punto ci vogliono le regole, però non ci si può piÚ lamentare del fatto che ci siano, che attraverso di loro il sistema dimostri solamente insensibilità . Per sostituirle ci vorrebbero i valori di un saggio, di chi possa essere nello stesso tempo sensibile ed imparziale, che giudichi continuando ad essere uomo, per meglio poter valutare le azioni degli altri uomini.

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La conquista della libertà

Il passato. Non c’era la sicurezza sociale che ti portava via una fetta di stipendio. Ma è poi tanto importante questa sicurezza sociale, questo intervento esterno di una volontà feroce che decide che sei incapace di provvedere a te stesso, che ti sequestra una parte del tuo per rendertelo a tempo debito, che non ti lascia mezzi per rifiutare queste imposizioni. Una vera e propria amputazione della libertà individuale compensata con premi che alcuni non vanno cercando. Chiunque viva, o meglio sopravviva, non si pone problemi perché c’è chi pensa al suo futuro, ai problemi che incontrerà. Questa certezza è costante. Non per l’individuo naturalmente. Il singolo continuerà ad accettare tutto, si sente in credito, non è mai soddisfatto, indipendentemente da quanto ha dato – per prendere dovrebbe essere necessario fare, e subire, un esame di coscienza –, protesta sempre perché vorrebbe, e gli verrebbe, di più. Bisognerebbe dargli uno scossone, fare vacillare i pilastri su cui ha basato la sua vita, dirgli di non contare più sulle garanzie, sugli aiuti, sulle certezze, dirgli che non ci sarà più pensione, assistenza, inoculargli il dubbio che questa società si estingua prima di lui. Superata l’incredulità, verrà assalito dal panico. Se ce la farà a venirne fuori sarà quello il suo momento migliore. Si ricorderà di avere delle capacità, ritornerà attivo, lotterà con tutte le sue forze per riacquistare sicurezza. La libertà va conquistata e qualsiasi fatica in questo senso è pienamente giustificata. Un uomo non deve vendere la 103


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propria vita in cambio di un mucchietto di vantaggi, chi si adagia non è più un uomo oppure, se lo è, è anche giusto che paghi con altra moneta la sua scelta. Un uomo così non può più protestare, si è preso dei compensi in anticipo, ha firmato un contratto e lo deve rispettare, se la sua condizione non gli piace può sempre rifiutarla, non è vero che non abbia scelta. Il rifiuto della propria condizione, dei propri vantaggi è duro, lui lo sa, le prospettive sono altrettanto dure, basate come sono sulle rinunce e sul sacrificio. La decisione deve essere rapida, ma poi c’è il premio. Niente di importante, solo la libertà.

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Nessuno fumi al cinema

Chi lavora deve pagare le tasse, cioè chi lavora guadagna e di conseguenza deve pagare le tasse. Poi c’è altra gente che non lavora ma guadagna e di conseguenza paga le tasse. Spero che ciò avvenga e torno ad occuparmi dei primi, quelli che producono. Da un po’ di tempo, per una parte di loro, quelli che svolgono un’attività individuale, artigiani o professionisti che siano, si sta verificando una situazione nuova. Il Fisco ha imposto delle leggi ben precise, ha studiato strategie di controllo basate su verifiche molteplici, tutte incrociate tra di loro, ha introdotto pene severe per chi infrange le regole. Le varianti sono infinite e ogni giorno viene aggiunto qualcosa di nuovo, con la conseguenza che persino un fiscalista si trova spesso in imbarazzo. Ma poi si riprende velocemente, in fin dei conti si tratta del suo lavoro ed è inevitabile che ci sia l’obbligo di un aggiornamento costante, così come avviene in altri lavori, quando entrano in ballo nuove tecnologie, per esempio. Anche una azienda ha lo stesso problema: l’ufficio contabile deve adottare con immediatezza le nuove regole, nuove abitudini devono formarsi per sostituire le precedenti, con attenzione estrema perché le pene per quelli che sbagliano diventano sempre più severe. Un’azienda che produce ha sempre chi si occupa di questi problemi, essere aggiornato fa parte dei suoi compiti. Ma un artigiano e un professionista come se la cavano? Diventa difficile per loro svolgere un’attività mista o addirittura due attività. Ma lo Stato provvede e introduce, per 105


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moderati giri d’affari, delle regole che semplificano contabilità e tassazione. Questo è solo un piccolo esempio di come a monte ci sia la volontà di separarci in piccoli gruppi omogenei per imporre leggi adatte alle singole situazioni. A valle rimane sempre la sensazione di essere abbandonati, di essere usati, di essere bastonati senza colpa. In momenti di crisi questa sensazione si acuisce, abbiamo la certezza che la nostra onestà e la nostra disponibilità possano contribuire al bene comune ma, come al solito, rifiutiamo il sacrificio. Abbiamo infatti la consapevolezza che pochi avrebbero questo coraggio. E allora per comodo, per vigliaccheria, per disonestà, cercando tutte le giustificazioni possibili, ci comportiamo come coloro che un attimo prima abbiamo criticato, ci ritiriamo dal nostro impegno civile. Impegno civile, una parola grossa. E anche qui ci areniamo, senza cercare di scoprire cosa c’è sotto una parola grossa, quale è il suo contenuto in termini pratici. Ignoriamo cioè così il significato di partecipazione, di comunione con i problemi degli altri, che poi sono anche i nostri, che vengono affrontati in piccola parte anche dagli altri. Questo agire collettivo avrebbe bisogno di spontaneità, dovrebbe divenire tendenza di molti, passare come fenomeno di moda per potersi affermare e divenire regola comune di comportamento. Un po’ come quando si va al cinema, dove nessuno fuma, perché non si può fumare, e tutti si adattano con facilità perché nessuno si sottrae alla regola e perché nessuno ha privilegi. Al cinema è facile assicurarsi che la legge sia uguale per tutti e dato che la verifica ci convince partecipiamo positivamente. In altre situazioni, dove la verifica è impossibile, preferiamo far sorgere il dubbio che le cose non siano poi tanto uguali per tutti, e cerchiamo di trasformare il dubbio in certezza per approfittarne. Non è sicuramente vero che le cose vadano benissimo ma non possiamo essere i primi a trarre vantaggio da una situazione negativa, sfruttandola ai nostri fini. 106


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Nessuno fumi al cinema

Se c’è una crisi, abbiamo detto, le cose peggiorano, abbiamo sempre di più la convinzione che qualcuno ci sguazzi con grosso tornaconto, che non ci siano solo degli inetti a governarci ma che pochi cospirino ai danni di poveracci come noi completamente inermi. Non c’è nessuno che sgombri il campo da questi luoghi comuni. Non bastano nemmeno opinioni di grossi personaggi, di uomini che contano. Fernand Braudel, storico di fama, dice che i governi, imprudentemente, senza accorgersene, si rendono responsabili degli anni ingloriosi che viviamo ogni volta che si dicono capaci di controllare la disoccupazione, l’inflazione, il deficit di bilancio, mentre in realtà questi mostri si fanno beffe di noi ed anche di loro.

Siamo impotenti, abbiamo a che fare con situazioni incontrollabili al punto che, continua Braudel, se io fossi al posto di certi politici italiani che conosco e che stimo, direi chiaro e tondo che nessun governo è responsabile della crisi più di quanto ciascuno di noi lo sia per le depressioni cicloniche che si susseguono nel Mediterraneo d’inverno. Esortarci alla pazienza, dirci che non ci sono rimedi miracolosi, che bisogna aspettare, marcare la schiena, fare buon viso al cattivo tempo. Quando la marea monta, ogni paese ha la sua parte di guai. Con il riflusso ecco il pigia pigia, i forti si riparano dietro i deboli, se ne servono, li spingono con garbo verso acque pericolose.

Se questo pensare è corretto non basta condividerne i contenuti. Bisogna “partecipare”, e partecipare significa anche aspettare, marcare la schiena, far buon viso a cattiva sorte, fare dei sacrifici. Il singolo non accetterà mai di fare propria questa linea d’azione, è troppo faticosa, la rifiuterà e il mezzo più semplice per negarla è rifiutarne i presupposti e trovare dei capri espiatori per quanto ci piove addosso. Chi paga le tasse ne pagherà meno del dovuto, chi lavora cercherà di fare il meno possibile, tutte le regole ci sembre107


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ranno delle dure vessazioni e cercheremo di aggirarle e diventeremo sempre più esperti e non ci porremo più il problema se quello che facciano sia corretto o meno perché, tanto, lo fanno tutti.

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La fine

Può darsi che la società in cui viviamo si finita. Può darsi che le forze economiche e politiche che abbiamo messo in moto siano divenute indipendenti, incontrollabili. Lo sviluppo naturale delle cose è stato inquinato da troppa teoria, ai consuntivi si sono sostituite le previsioni sulle quali abbiamo cercato di costruire un futuro migliore. È bastato che qualcosa non funzionasse – e chi poteva prevedere tutto? – che tutto andasse a rotoli. Nel peggiore dei modi, lentamente, così lentamente da far sì che il fenomeno passasse inosservato. Il male si vede ora, nella sua gravità, e tutti noi ne siamo responsabili. Chi più chi meno abbiamo tutti collaborato a rendere impossibile il recupero. Senza premeditazione alcuna, ovviamente. Si cresce, si cerca di scoprire come è giusto che un uomo viva, si imparano delle regole e, quando si è pronti finalmente ad entrare in contatto con la realtà, ci si accorge che non è questo il mondo che ci aspettavamo. Gli schemi sono cambiati e occorre di nuovo ricominciare da capo e da capo un’altra volta quando la situazione si ripete. Poi, un giorno, ci si prende l’abitudine e si rinuncia a continuare, anche se farlo è l’unica possibilità che ci rimane di capire, di avvicinarci al ritmo con cui le cose si muovono intorno a noi. Avvicinarsi per capire, rifiutare le verità del passato – vere solo nel passato –, dimenticare le regole della nostra formazione per accettare quello che siamo divenuti, nel mondo al quale siamo giunti. C’è chi ce la fa, dimenticando i fantasmi del passato, e che è pronto a sop109


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L’uomo dei saldi

portare il pensiero che la nostra società stia per finire. Senza traumi, perché il discorso è il solito: una vita è lunga una vita, e alternative ad una vita in un determinato momento non ce ne sono. Non ci sono nemmeno rimedi, tantomeno gratuiti e garantiti, possono esserci solo rinunce e sacrifici per chi desiderava e per chi possedeva. Per gli altri, una vita ne vale un’altra e questo risolve l’intero problema.

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Stampato per conto dell’autore presso


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