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Il Pecha Kucha Night Cagliari #05, noi, voi che ci fotografate (fantastici!), le risate, poi la musica. A combattere la nebbia di quella notte. GRAZIE
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IL BIANCO. IL NERO. IN GOCCE. Redivivi. Abbiamo attraversato i bianchi, i neri e le sfumature di grigio di alcuni mesi volati pesanti, pachidermici. Infine, ecco il nuovo numero.
Voi direte: “aperiodici va bene, ma così è troppo!”, e forse avete pure ragione. Sono stati mesi intensi, tra capriole, cambiamenti in corsa e idee frenate ma mai buttate via. Infine ecco il nuovo numero. All’ultimo Pecha Kucha Night Cagliari vi abbiamo suggerito, in maniera sibillina, importanti novità; dovute e volute evoluzioni: punto primo, questo numero è scuro, l’inverno ha ceduto il passo ad una solita, noiosa, primavera satura di colori, poi l’estate e la sua mutata e ripetitiva tavolozza; noi abbiamo deciso di togliere i colori, via! All’essenziale: il bianco, il nero ed i grigi. Punto secondo, il numero non solo vede immutata la formula dell’avere con noi due ospiti e le loro fotografie ma andiamo oltre e lo completiamo con la fantasia e la grafica di un bravissimo illustratore sardo: Marjani Aresti (al secolo Gianluca Marras): gocce, nuvole, occhi,
bizzarre creature che sembran vive ma in verità essenzialmente morte. Ci piace. Volevamo con noi tratto, fantasia, tematiche e bellezza, le abbiamo trovate tutte queste caratteristiche. Siamo fortunati. Ed ora i nostri ospiti, graditissimi. Sono con noi Simone Muresu, con i suoi scatti interamente realizzati con l’app Hipstamatic (se #rinasco... rinasco in una foto Hipstamatic) e la grande street-photography di Gabriele Sanna, incorniciata in scatti che appaiono scollegati da qualsiasi posizione geografica. E infine - non possono mancare - gli sproloqui e le fotografie dei sottoscritti. Vi lasciamo al grigiore, che di colori è pieno il mondo, spesso slavati, altre volte forti e prepotentemente kitsch. Antonio e Nicola
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2 IL VIAGGIO Foto e testi di Nicola Massa
Mentre ascolto Mozart - Spotify me lo suggeriva come “Music to help you concentrate…”, quindi ho messo nella pennina tutta la discografia - cerco di mettere ordine nelle mie idee. I giorni intensi non son svaniti. Parto, devo staccare. Non sono rilassato per niente. Se solo fumassi mi fumerei un pacchetto di sigarette fino ad Abbasanta.
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Ad Abbasanta comprerei un altro pacchetto di sigarette e lo fumerei tutto fino ad Olbia ma non ho mai avuto la curiosità di sapere cosa c’è dietro il tiro di una sigaretta. Mi perdo nei pensieri e mi ritrovo in una superstrada vuota. Mi fa compagnia solo qualche albero che spunta dal costone alla mia sinistra. Potessero parlare, quegli alberi, mi fermerei entrerei in qualche piccolo bosco e chiederei loro qualche consiglio. Ma no, non sul lavoro che sto andando a svolgere. Qualche consiglio su come sciogliere questi nodi che ho in testa. Dentro la testa. Scorre lenta questa strada sotto i colpi di un’Opel Corsa svogliata. Scorre così lenta da decidere di far tappa a Sedilo, il paese dell’Ardia. Mi dirigo proprio verso il santuario di Santu Antine non tanto per vedere quel luogo, teatro di corse folli a cavallo in nome della tradizione, ma per uno scorcio che ho nella mente da anni. Da una sorta di finestra naturale si vede il panorama di un lago Omodeo spettacolare che, sul suo specchio d’acqua, riflette tutta la storia di questa terra. Terra grande, terra antica, che non si piace abbastanza. Come me in questo momento. Come me in questo tormento.
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CAMMINANDO SI IMPARA Foto e testi di Gabriele Sanna
“Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola.” (Heinrich Böll) Ogni giorno per strada a contatto con gli altri costruisci la tua realtà, il tuo mondo, la tua verità.
Per strada cammini, osservi, rifletti, attendi, parli, incontri altre persone. Ricordi i loro volti? Immagini i loro pensieri? Percepisci il loro stato d'animo o i loro sentimenti? Quanti di loro sono protagonisti dei tuoi racconti, protagonisti di quei pensieri che ti tengono compagnia nel tuo percorso verso casa o verso il lavoro? Quali incontri potrebbero diventare gli interpreti principali del tuo film o del videoclip del pezzo che passa in quel momento sul tuo lettore mp3?
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LA REALTA’ Guarda, dietro l'angolo c'è un nuovo Mr. Wolf, chissà quali problemi risolverà oggi; il signore orientale in fondo al bus nasconde qualcosa, sotto la camicia sicuramente sono celati giganteschi tatuaggi che testimoniano la sua affiliazione alla Yakuza; signora felliniana passeggia ingioiellata, truccata e impellicciata, perché quello sguardo spaesato? Forse cerca Marcello. Se Gondry avesse mai preso il bus che ti porta al lavoro mad world di Gary Jules avrebbe avuto un video completamente diverso; ecco finalmente hai scoperto dove si era rintanato Elvis...altro che morto! Qualcuno forse ti osserva, qualcuno forse si pone le stesse domande su di te, forse anche tu sei il protagonista di centinaia di film o di racconti.
no di te più di quanto tu voglia far sapere, più di quanto tu sappia di te stesso. Il modo di camminare spesso indica il carattere di una persona, un uomo senza fermezza morale ha un’andatura svogliata, molle. Un uomo poco intelligente cammina in maniera nervosa, senza rendersi conto di ciò che lo circonda, un uomo che ha intelligenza, umorismo, forza di carattere, cammina con passo elastico e disinvolto. Stando in piedi con le mani sui fianchi, invece, comunicherai prontezza nel reagire o aggressività. Se stai seduto a gambe accavallate, con i piedi che scalciano leggermente, forse ti stai annoiando. Se incroci le braccia dimostrerai vulnerabilità, è il nostro inconscio che esprime un sentimento di insicurezza, è un gesto di protezione e di amor proprio.
Ah, se solo potessi immaginare in quanti universi paralleli, in quanti mondi e in quante realFacendosi due calcoli risulta semplice immatà hai vissuto e vivi quotidianamente! ginare che potremo decidere o, almeno, inNon solo i volti degli sconosciuti, i loro occhi e fluenzare la scelta del ruolo che gli altri ci vorle loro parole daranno risposta alle tue doman- ranno assegnare nei loro quasi onirici racconde. Non solo il tuo volto, i tuoi occhi e le tue ti, oppure...vivere nella paranoia di essere parole daranno risposta alle loro domande. sempre osservati o giudicati. Il tuo corpo, il tuo modo di camminare, la tua postura, il modo in cui ti siedi, la posizione in cui aspetti o il tuo abbigliamento racconteran-
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Gabriele Sanna, psicoterapeuta e formatore. Per lavoro e per passione amo osservare le persone, studiare le dinamiche relazionali, gli scambi comunicativi, le espressioni di potere sociale. Da circa due anni ho capito che la fotografia può essere un modo per prendere appunti, appunti che raccontano storie, storie semplici, storie complesse, storie surreali, tutto ciò che incontro per strada, tutti coloro che incrocio sono espressione dell'infinita complessità dell'essere umano, il vero mistero, forse l’unico mistero, che ci circonda. La strada, gli sconosciuti sono il mio principale laboratorio e i miei attori, il mio smartphone e la mia lumix i miei fondamentali strumenti. Senza presunzione e poca, pochissima, tecnica amo scattare e condividere. Instagram: @joy_black
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ABBANDONO Foto e testi di Antonio Pintus
Abbandono è quel termine che si sposa bene con tutto: è il re della festa ai funerali - non appena si chiude un loculo - abbandonandoci al vuoto ed al silenzio, interrotto solamente dal rumore di cemento e mattoni a sfrigolare; è parola regina dopo lo scoppio di una coppia o dopo il consumarsi di
una bufera tra effimere amicizie con strascico di gossip. Graziosamente si insinua nei sentimenti e dona un meritato tocco di classe ai sensi di colpa. L'abbandono ti aspetta alla stazione, quando nessuno - d'estate - suda per te nell'attesa e lascia gli angoli al girare del vento, alle foglie secche e ai pomeriggi di fuoco del Sud, del Sud dell’Esistenza. L'abbandono ti parla di terre nere bruciate coltivate a caso e, in città, gioisce quieto e testardo ai cambi di stagione ma senza cambiarsi d'uniforme. Stoico, non si assenta mai dal suo compito di funzionario - celebra l’ufficialità - l'abbandono. Mai una giornata di ferie, né di malattia. Salute di ferro, nervi d'acciaio, sorriso d'ordinanza; come da protocollo.
L'abbandono dei pensieri, cosa alquanto grave o pericolosa; l'abbandono del fisico, del corpo; l'abbandono al destino, che il destino - poi, diciamocelo pure - non esiste, ma non raccontatelo in giro, in tanti potrebbero dubitare. Spesso ho la sensazione che questa Terra si nutra di abbandono, compagno della pigrizia. Più facile nascondere e attendere e criticare che fare e sbagliare. L'abbandono si nutre di invidia e disamistade. L'abbandono è fontana facile d'acqua zuccherata, quindi nociva. Poi, improvviso, un SMS: "Gentile signore, La informiamo che da oggi e per tutta la settimana, sulle collezioni primavera/estate di Abbandono sarà applicato uno sconto sino al 50%. La aspettiamo".
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DELENDA
CARTHAGO
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IL VUOTO - DENTRO - COME LA FINE DI UN’ ESTATE. IL VUOTO, PUZZA D’ERBA SECCA BRUCIATA IN ROGHI A SCHIARIRE SERE CALDE ANCORA; QUELLE SERE CHE INVECE - VORREBBERO SOL AMENTE E S S E R E L A S C I AT E I N PAC E , A D ADDORMENTARSI CON NINNA-NANNA FATTA DI LATRATI DI CANI LONTANI, OVINI AL PASCOLO E C AMPANACCI LIEVI, BREZZA LEGGERA E VERMENTINO A SPARECCHIARE I PIANI. IL VUOTO PORTA SILENZIO, CONDUCE CAVALLI PAZZI, NERI.
Non si svende non si svende neanche se non funziona neanche se non funziona niente saldi di speranze niente saldi di esistenze
(CCCP - Fedeli alla linea)
Ho deciso che non era ora. Ho sempre sbagliato momento, per dir la veritĂ . Ho deciso che era tardi, invece - forse - era precipitosamente presto, chissĂ ... Ho deciso che i miei ospiti eran sin troppi. Quindi ho preso la parola in mano, salutandoli; mi son scusato, ho respirato, ho avuto freddo, li ho accompagnati alla porta, son rimasto solo, con una sera ancora da affrontare. Infine il silenzio. Ne ho pianto. Piacevole spavento.
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5 NELLA SOLITUDINE MI PERDO Foto e testi di Nicola Massa
Sono fotografie che vanno guardate dal punto di vista di chi scatta, queste che sono proposte in questo capitolo. La solitudine è regalata da colui che guarda. Da colui che scatta. La decisione di andare in giro e scattare da soli, guardando panorami, strutture incomprensibili, gruppi di barche ormeggiate che si fanno compagnia.
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DESIDERARE DI ESSERE IN DUE A FARE QUESTA FOTO. A FARE QUESTO GIRO. MA IL SECONDO CHI È?
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RITROVARSI SOLI AD AFFRONTARE IL MARE. NELLA SPERANZA DI ESSERE PIÙ FELICI UNA VOLTA ARRIVATI
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SENZA IDEE Foto e testi di Antonio Pintus
Cosa vi è di peggio di un corpo decadente o di una superstizione ottusa o della convinzione della propria ragione senza mai contrapporre dubbio? E’ la totale mancanza di idee. Quelle che ti fanno dimagrire la notte, quelle che ti fanno sussultare al mattino.
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La mia stirpe è ignota, persa nei fumi del tempo e immersa nella spuma del Mare. Di quel Mare che un tempo era alto abbastanza da coprire, eppur tanto trasparente da svelare. La mia stirpe è testimoniata da fotografie di pietra e di bronzo e di massi a costruire e di vento a risuonare attraverso le rocce. La mia stirpe è in realtà meticcia e parla lingue antiche, mediterranee, senz'altro più confuse ora che allora. La mia stirpe non esiste. Non esiste più.
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Non è che questa Terra sia triste, è che semplici sono i suoi attimi di felicità. Ovvero: è in effetti triste questa Terra, perché troppo brevi risultano i suoi momenti di felicità. La scelta di stile appare doverosa, con precisazioni di sorta.
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Black - feat. Norah Jones Danger Mouse, Daniele Luppi Rome
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OUT OF TIME Foto di Simone Muresu, testi di Antonio Pintus
Non piangere tesoro, abbiamo solo esaurito il tempo e la sabbia, mica l’ossigeno. Stai tranquilla, proverò a scomparire completamente, sai quanto sono bravo in questo: mi maschero di fragilità e dolcezza - un fracasso di sensibilità -
ed il gioco presto sarà fatto. Ne usciremo puliti, liberi dalle smancerie. Come? Dici che non funzionerà così rapidamente? Hai sempre avuto così poca fiducia in me... Eppure dovresti sapere e conoscere bene la forza di cui mi nutro e che mi ha spinto sino a conoscere l’oggi: limitazioni, frustrazioni, invidia, gelosia ottusa; desideravo non tanto volare ma almeno saltare; però - lo sai - non era conforme alla tua educazione cattolica. Tu, che chiudevi ogni singola discussione dai percorsi perigliosi, con una citazione del tuo Dio, attore assente, invenzione geniale, catena e filo spinato a tracciare confini invalicabili. Per te. Mai per me.
“Ti candidi a prendere il posto di Dio? Scendi stupido” - così mi dicevi ogni volta, tesoro. Che poi dovresti capirlo prima o poi - Dio non esiste, se non dentro le tue più profonde paure che non saprai mai spiegare ed io non mi candido proprio a nulla, se non al brindare alla mia, improvvisa, sopravvenuta libertà. Inizia da oggi, da stasera, cara. Che poi, sai... l’oggi è pur sempre l’ieri invocato dal domani. Abbracciamoci. Stammi bene.
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TENSIOATTIVO
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Simone Muresu, è un appassionato di mobile-photography. In particolare sperimenta con Hipstamatic e mille i nve n z i o n i e s t ra t a g e m m i c h e rendono i suoi scatti elaborati al punto giusto da escludere completamente la post-produzione, aderendo al vero spirito instamatico. E’ possibile seguire Simone al suo account Instagram: @simokubrick 67
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JAZZ, SUL MORIRE NELL’ALTOPIANO Foto e testi di Antonio Pintus
Scrivo la notte per difendermi dal giorno.
CETERUM CENSEO CARTHAGINEM ESSE DELENDAM 70
Hai presente quel brano, caro Luca? Quel brano di Gavino Murgia, Intrighinu mi pare si chiami, dici di no? Sai… ci pensavo proprio ora, a me mette i brividi; perché mi parla davvero di Sergio Atzeni e affolla la mia mente con suggestioni vivide di sere d’estate all’aperto in campagna. Hai presente quel profumo misto di campi bruciacchiati e mietiture terminate? Sanno di salato e di Mediterraneo lontano, di terra secca che pare morta, legata stretta stretta alla polvere; hai presente quel leggero odore tutt'attorno di giallo che imbroglia? È un segreto Luca, non raccontarlo a nessuno, si dice che quel giallo, a quest'ora, imbrogli la vista, confonda il cervello e che faccia apparire figure. Figure che danzano avvolte da scialli, basse eppur agili, ma questa è tutt’altra storia. Mi immagino, dicevo, quattro amici cinque, sei, noi - se in numero dispari che importa, poi - nella tregua del calore del giorno appena ucciso, poca la luce, a respirare e sorseggiare un Torbato, vino bianco profumoso, mentre guardo finalmente cielo e Via Lattea dall’altopiano, come non facevo da tempo immemore - accidenti al lavoro, maledetto sia! - e poi, all'improvviso, mi pare di sentire un crepitio ed il battito lieve di passi antichi dei nostri antenati, uomini e donne e bimbi, forse scalzi ma vestiti di mistero, a prender la via della sera insieme a noi. A noi tutti. Che poi, le vedi quelle pietre scure all’ombra delle spighe? Si, proprio quelle, ma che te lo chiedo a fare!? E’ casa tua questa!
Luca, ne sento le voci potenti. Rispettose e, chissà, quelle stesse voci di genti attorno a quelle travi di pietra maestose sollevate, quelle magari non sono così diverse dalle nostre, ora. Voci. E storie; di genti passate leggere - scontato, eh? - genti a passeggio con la morte a trentacinque anni, che per loro era vita portata a compimento, sicuro. Un belato, un pianto, una cantilena accesa a chissà quale dio o betilo, rimuginata filastrocca, come gatto che mangia interiora. Il vino, il suo profumo, questa musica, ora vedo scritte parole sparpagliate da questo vento, che pare soffiato appena, attraverso una cannuccia, tanto è lieve. Quelle parole di Atzeni, le senti Luca? Forti, pesanti, eppur misteriose, mai totalmente svelate: se non conosci la Terra non le puoi penetrare. Vorrei queste ore non passassero, senti il rumore del silenzio... tutti loro non ridono più, quanti siamo rimasti? Magari sono già andati via. Fa buio. Anche la sera si arrende ma con gioia e tranquillità estrema, come il vino fresco in quel calice largo, amico mio. Queste cose ci vedo dentro quel brano, che ieri sera quasi non riuscivo a lavorare, ed oggi? Pure. Si grazie, versamene ancora un goccio di quel Torbato, solo un poco, per davvero. Ma Luca, lo vedi anche tu tutto quel giallo alla fine del sentiero? Laggiù, un passo prima della via oscura. Si dice che imbrogli la vista, quel giallo... Ho sentito la voce di nonno, che mi salutava, dicendo che si recava alla rupe. Sorrideva. Mi pare di veder danzare.
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10 VORREI Foto e testi di Nicola Massa
Vorrei una piccola speranza. Vorrei aggrapparmi all'idea di poter avere ancora un'occasione. Vorrei capire cosa c'è dietro ogni calcio che ricevi e dietro tutti quelli che dai. Vorrei usare qualche parola nuova per descrivere come sto.
IL MITO DELL'ETERNO RITORNO AFFERMA, PER NEGAZIONE, CHE LA VITA CHE SCOMPARE UNA VOLTA PER SEMPRE...
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...CHE NON RITORNA, È SIMILE A UN'OMBRA, È PRIVA DI PESO, È MORTA GIÀ IN PRECEDENZA...
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E CHE, SIA STATA ESSA TERRIBILE, BELLA O SPLENDIDA, QUEL TERRORE...
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Vorrei non aver detto tante di quelle puttanate che ho detto per cercare di entrare dentro un giro, una simpatia, un progetto che non mi era necessario. Vorrei non aver dato ascolto a quelle cazzo di paure che ti prendono all’improvviso solo perché sei così poco insicuro da non riuscire a controllarle. Vorrei essere riuscito a comunicare qualcosa. Ma chi se l’incula quel qualcosa che volevi comunicare? Vorrei aver avuto il coraggio di lasciar perdere quelle ansie trasmesse solo per far sentire tutto uno strano affetto impossibile da far sentire con un fottuto “Ti voglio bene”. Vorrei non aver perso tempo e vorrei non aver perso il treno, poco prima di partire per l’università. Vorrei aver scelto meglio il treno. Pausa. Vorrei non aver appena visto una persona guardare la partita inutile nella hall di un albergo di lusso. Da sola. Voglio staccare. Voglio prendere un caffè, perdere quella mostra, sporcarmi con il kebab, mollare tutto quanto, lasciare andare anche quelle ultime riserve e quel cinismo del cazzo che ha accompagnato gli ultimi decenni. Voglio guardare quella foto sorridente. Perché una foto può trasmettere anche un messaggio incoraggiante. Voglio girarmi e guardare un letto piccolo. Un letto piccolo che fino a ieri era vuoto, mi giro e adesso è pieno. Vorrei dire che vada in culo tutto a tutti quanti, che non me ne frega niente, che mi frega solo di questo felice abbandono che riesco a godermi solo adesso, quando tutto il resto è svanito in un istante, su delle scale, con una piccola mano che con un pennello ha colorato stanze grigie. E dire che queste foto sono grigie, son state pensate grigie. Sono grigie solo perché chi le sa guardare bene ci vede dentro tutto il rosso che vuole.
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...QUELLO SPLENDORE, QUELLA BELLEZZA NON SIGNIFICANO NULLA.
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RACCONTO ROSSO IN QUATTRO MOSSE Foto e testi di Antonio Pintus
Mossa prima: Mexico
“Giacu” lo chiamarono da subito gli amichetti, verso gli otto anni. D’altronde, quando hai la sfortuna di chiamarti Giovanni Giacomo, cos’altro puoi pretendere? Che ti chiamino “Gigi” e basta? Invece “Giacu” era perfetto. Perfetto per il quartiere minerario in fase di obsolescenza nel quale era nato, perfetto per quella sua periferia di città; di quello sputo di città da dominazione straniera nella quale viveva. Città che si atteggiava a moderno centro del nuovo Occidente consumista-capitalista, ma solo attorno alla grande piazza principale, dove mostrare era obbligo e sopraffina l’arte recitativa di molti dei suoi abitanti. Più ora che allora, per dir la verità, che gli anni settanta non erano solo insegne luminose in fase di espansione. Giacu spensieratamente condusse la sua infanzia attraverso quelli che ora lui - a trentacinque anni e pochi capelli - chiamava “pensieri che sanno di ruggine”, ovvero il suo vivere da bambino di corsa tra la polvere rossa della laveria della miniera, i campi aridi dai profumi minerali, i capannoni dalle pareti sfondate, la ruggine rossa - anch’essa - che avvolgeva tutti quegli ingranaggi dismessi di macchinari fossili, che a lui bambino sembravano resti di mondi antichi dopo una collisione, oppure - questo lo dico io - macerie di un rinnovato Pianeta delle Scimmie. La polvere rossa - dicevamo - quella polvere mista di piombo, zinco e ossido di ferro, scarto di lavorazioni perpetuate nei decenni, che riempiva tutto: le campagne aride, gli orti, i balconi, le piazzette interne alle case tutte uguali trasformate in stadi urlanti dai bimbi d’estate; la polvere riempiva le grondaie, i canali di scolo che attendevano l’inverno per assolvere la propria funzione, che arrivava puntuale e severo ogni anno, per mutarla in fango scrosciante dalle tonalità di un mosto di scadente qualità.
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E riempiva i polmoni, quella polvere, soprattutto quando il Maestrale decideva di svegliarsi e fare colazione di uomini: oltre la costa, in mare aperto, mangiava qualche pescatore; qui, all’interno non troppo distante, portava via qualche minatore o operaio, usando il crollo di qualche tetto come stratagemma e soffiando forte la paura dentro il respiro di chi, invece, sopravviveva. Il vento-padrone soffiava la polvere rossa che si attaccava anche ai sogni, a quelli notturni e diurni di tutti: grandi e bambini. Giacu nacque da padre e nonni minatori, gente piccola e rugosa - la miniera invecchia - fa venir su mani grosse e tozze e disegnate e porta la tosse a richiedere attenzione all’ora dei richiami e dei rimproveri. Giacu imparò presto a rispettare quelle voci rauche, tutto sommato fu un bimbo buono. La madre, straniera in casa propria, gli insegnò tanto, quel che poteva; soprattutto, gli insegnò che il mondo non finiva dopo quella rete metallica e che non era limitato a quei campi rossi a circondare quel loro fazzoletto di vita piccolo piccolo, gli insegnò che poteva iniziare a viaggiare tra le pagine di quei libri pochi, per dir la verità - che circolavano in casa, tra quelli della scuola e quelli che lo zio matto portava dai suoi viaggi. Il mondo di Giacu pareva il Messico, o almeno quel Messico che dominava l’immaginario collettivo: con quelle aride distese semidesertiche da siesta e sole a picchiare la testa d’estate, ad assopire ogni voglia di rivalsa. Nella sua cittadina, la rivalsa ardeva nel tardo pomeriggio al farsi della sera, finiva poi per addormentarsi prestissimo la notte e scomparire del tutto la mattina seguente. Ogni, mattina, seguente.
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Mossa seconda: l’immaginazione
Giacu aveva uno zio, fratello di sua madre, all’epoca trentenne scatenato. Tutti dicevano che era matto, ma non nel senso di turbe o malattie mentali, era matto in quanto vivace, post-giovane ragazzo giramondo. Emilio - questo il suo nome - non ne aveva mai voluto sapere di faticare in miniera o in fabbrica, decise quindi ai primi tocchi degli anni settanta che per lui la vita doveva essere un lavoro diverso. Lavoro che poi nessuno conosceva del tutto; misteri. Lavoro diverso dalle facce nere sporche e lontano da quelle mani rovinate, diverso dalla tosse cavernosa e da tutta quella polvere rossa; insomma lui diceva che non se ne sarebbe stato lì a diventare vecchio a trent’anni, a scalciare per conquistare una ragazza del vicinato e metter al mondo figli come missione. Se rossa la vita doveva essere che almeno fosse tinta da terre straniere. Emilio correva libero per il mondo ed adorava il Sudamerica. Accadeva che all’improvviso tornasse in città, trattenendosi al massimo per due settimane, che si facesse vedere da amici e parenti avvolgendoli con la sua allegria irriverente per poi scomparire di nuovo come la notte al mattino, di solito dopo una notte - appunto - passata a bere birra o vino con gli stessi amici, che diventavano via via sempre meno. Poi, per mesi interi, era capace di non far sapere più nulla di se. Dai suoi viaggi e dalle sue scorribande chissà dove portava regali per tutti, alla sorella e a Giacu portava soprattutto cappelli alla prima e libri al secondo. Libri scritti in spagnolo e portoghese, con foto magnifiche e suggestive di luoghi lontani, persone ed animali. Giacu adorava gli animali e, in quanto tale, anche quel suo zio matto. Strano ma simpatico, dall’umore caloroso ed irresistibile.
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Talvolta gli raccontava di viaggi in moto, in bicicletta, grazie a passaggi strappati su camion sgangherati. Gli parlava nelle sere di città, di tango, villaggi e terre sterminate, di ghiaccio, freddo ma anche tanto caldo. Giacu non riusciva a fermare l’immaginazione, che gli si installò in corpo come tenia e lo provocava dentro quasi sino a fargli tremare le mani e gli occhi. Poi, accadeva di svegliarsi al mattino e di non trovare più Emilio, nessuna risata a farne da segnaposto: partito, di nuovo. E questo non bastava poi ad uccidere il suo immaginare.
Mossa terza: crescere è comprendere
Giacu, da bimbo felice, rotolò - come tutti - lungo il pendio degli anni, crescendo. Crescere è comprendere... la vita, anche quando essa è sibillina e parla solo attraverso gesti. Il primo potente gesto, la vita, lo impugnò violentemente, portandogli via la madre. Cancro. Giacu all’epoca stava ultimando le scuole medie superiori; l’anno del diploma, traguardo importantissimo che doveva segnare una piccola, grande vittoria, per il figlio dei minatori figli dei minatori. Cancro. La madre morì a sei mesi dalla sua diagnosi. Fine. Cancro.
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Questa malattia morde - spietata - malato e parenti, figli e padri. Non si porta via solo il colpito ma strappa via anche un pezzo di carne viva dalle interiora di chi rimane. Emilio, saputo del lutto chissà come quando si trovava in qualche pianura dell’Argentina, arrivò in una sera di pochi giorni successivi al funerale. Questa volta il sorriso era diverso, era un sorriso arreso, l’unica cosa che non risparmiò fu un lungo, forte abbraccio al nipote. Ed una stretta di mano potente ma fugace al padre del ragazzo. I due non avevano mai avuto un grande rapporto - per dirla tutta - non contrastato ma parecchio indifferente, piuttosto; cordiale? Si, si può dire tiepidamente cordiale. Cancro. “Vedi Giacu, così è la vita, sembra crudele. Lo è, forse... ma non puoi ostinarti a comprenderla sino in fondo e tutto quello che puoi fare è aggrapparti ad un bel ricordo di tua mamma e farti scivolare di dosso il resto.” - Emilio parlava bene, lo tradivano però quelle mani sudate, ma nessuno se ne accorse. Crescere è comprendere, ed il percorso sarebbe stato lungo. Giacu infine si diplomò, millenovecentoeottantanove. Avrebbe dovuto scegliere cosa fare e scelse. Decise di lavorare. Operaio, nel novanta trovò lavoro in una fabbrica; non vicino alla città, che offriva solo tane scure e montagne bucherellate, ma più vicino al mare: polo industriale sulla costa. Se le miniere oramai chiudevano tutt’attorno, quel mostro di acciaio, ferro, tubi e ciminiere, nascondeva bene la decadenza anche di quel mondo portato avanti a forza di scoppi, altoforni, amianto, sbuffi e fiammelle accese a scimmiottare tramonti nelle notti senza luna. E vite, tante. Grappoli di operai, più sui cinquanta e sessanta che giovani. Grappoli di vite, scosse energicamente da turni di lavoro iterati; una grande catena umana di produzione sconveniente al mercato, utile solo a sfamare le famiglie, far studiare i figli ed attendere la pensione. Ecco il piano di sviluppo: tirare avanti in una Terra che, per scelta, null’altro aveva. Quando andava
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bene, i giovani - come Giacu - trovavano un posto da operaio in una delle decine di imprese appaltatrici che gravitavano attorno al mostro d’acciaio e di ferro. Imprese che raschiavano il fondo per pochi guadagni con lavori che nessuno voleva fare: sporchi, mal protetti, con standard di sicurezza abbattuti. I sindacati abbaiavano, poi si prendevano un osso in testa, tirato dai piani alti, una carezza e tornavano a cuccia. L’alternativa eran giovani e giovani famiglie in strada, lo sapevano bene. Il silenzio faceva comodo a tutti. L’avvelenamento delle vite e di quella Terra non contava, faceva parte del gioco. Un gioco sporchissimo.
Quindici lunghi anni passarono; Giacu - o Giovanni o Giacomo divenne uomo. Uomo, operaio, sveglio e sognatore.
Mossa quarta: Polvere
Poteva dire di aver capito tante cose della vita - a trentacinque anni e pochi capelli - ma una cosa non riuscì mai a comprenderla. Una cosa che iniziò all’improvviso come sempre, una notte qualunque di cielo limpido e di stelle affilate come spilli: Emilio tornò dal suo girovagare, senza sorriso alcuno questa volta. Non masticò nessuna parola, né dispensò calorosi saluti, di già una barba insistente cresceva sul suo volto, senza cura, quasi una scelta per nascondersi e che svelava giorni e giorni persi, travagliati o chissà passati come, in quale stato. Emilio non parlò più tanto facilmente da allora, i suoi occhi apparivano come due pozzi di miniera abbandonati, non luccicavano più. Nei mesi che seguirono, lunghi, accavallati, lenti e in metamorfosi veloce verso anni nuovi, Emilio passò i suoi giorni a far compagnia al padre di Giacomo, ormai a metà dei suoi settanta. Poche parole, alcuni lavoretti manuali, dormite, pasti frugali e vita quasi del tutto ritirata. Non un amico - se mai ne fossero rimasti - né un abbozzo di ripresa. 87
Nessuno, né Giacomo, né tantomeno suo padre, capirono mai cosa potesse essergli accaduto. E nemmeno quando, né dove. Solamente una sera di due anni dopo, sul tardi, d’estate, in una di quelle sere ventose dominate da un Maestrale-volpe, mentre Giacomo, sua moglie, il loro piccolo figlio e suo padre riposavano in quella loro veranda riparata, facendo parlare solo i pensieri, Emilio disse, improvvisamente, piano ed a voce bassa, unicamente due parole: “poteva essere”. “Poteva, essere”. Poi nulla più. Ed un rivolo di lacrime gli scavò delicatamente un solco ramificato su quel suo viso stanco barbuto, colorandosi subito di rosso; del rosso di quella solita, maledetta, polvere di piombo, zinco e ossido di ferro.
Intrighinu Gavino Murgia Deep
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CREDITS
ANTONIO PINTUS
NICOLA MASSA
è un informatico. Co-fondatore di paraimpu.com.
noto Fotografist, è un fotografo freelance e si occu-
Quando non si occupa di scrivere codice, di web e
pa di social media.
di Internet, coccola le altre sue due passioni: la
La passione per la fotografia ha fatto si che anche
scrittura e la fotografia. Quindi nel suo tempo libe-
il suo iPhone diventasse uno strumento di speri-
ro ama far credere che scriva il suo eternamente
mentazione.
incompiuto romanzo. Altrimenti, come giustificare
Snapseed - Filterstorm - VscoCam: questo il work-
la sopravvenuta Malinconia di Melpomene?
flow che, attualmente, permette la pubblicazione quasi giornaliera - delle sue foto sulla sua galleria
web: www.pintux.it twitter, instagram: @apintux
di Instagram.
Web: www.nicomassa.com twitter: @_nicomassa instagram: @nicomassafotografist lxxxix
CREDITS
GIANLUCA MARRAS (MARJANI ARESTI) è l’art director di questo numero. Marjani è un illustratore autodidatta proveniente dall'isola senza nubi, chiamata Sardegna. Nonostante lui sia una volpe, è in qualche modo in grado di disegnare (ancora con un sacco di problemi...dice), ma tutto ciò che nasce dalle sue zampe è una moltitudine di fantasmi bizzarri con gli occhi strani. Marjani ama Tarantino e i film di Takeshi Kitano, la musica elettronica, il calcio e la cultura giapponese. Il suo unico guru è Yoda. Seguitelo su: mrajani.tumblr.com xc
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