La crisi permanente L’interpretazione di Henryk Grossmann della teoria marxiana dell’accumulazione capitalistica Da International Council Correspondence, n. 2, novembre 1934, pubblicato da United Workers Party, 1604 N. California Ave., Chicago Illinois; ora riprodotto in copia anastatica in New Essays. A Quarterly Devoted to the Study of Modern Society, vol. I, 1934-1935, Greenwood Reprint Corporation, Westport, Connecticut 1970, pp. 1-20 I. Introduzione Secondo Marx, lo sviluppo delle forze produttive sociali è anche il motore dello sviluppo storico, perché attraverso l’acquisizione di nuove forze produttive gli uomini cambiano il modo di produzione e cambiando quest’ultimo, il modo cioè di procacciarsi da vivere, mutano anche tutto il complesso dei rapporti sociali. La sostituzione del filatoio e del telaio a mano da parte della filanda e del telaio automatici, così come quella della mazza del fabbro ferraio da parte del martello a vapore segnarono non soltanto la fine delle piccole botteghe individuali artigiane, cui subentrarono grandi impianti industriali con migliaia di lavoratori, ma anche il passaggio definitivo dalla società feudale a quella capitalistica. Si trattò quindi non di una mera rivoluzione materiale, ma di una vera e propria rivoluzione culturale. Come sistema economico, il capitalismo aveva la missione storica di portare le forze produttive della società ad un grado di sviluppo mai conosciuto dai precedenti sistemi. Nel capitalismo la forza motrice dello sviluppo delle forze produttive è la caccia al profitto, ma è proprio per questo motivo che questo processo di sviluppo può andare avanti soltanto finché esso è in grado di procurare questo profitto: non appena tale sviluppo entra in conflitto con l’assoluta necessità del profitto, il capitale diviene un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. (1) Marx considera le leggi della dinamica economica sempre da due punti di vista: da un lato come “un processo di storia naturale” e dall’altro nella loro specifica forma sociale. Lo sviluppo delle forze produttive come processo consistente nel continuo incremento della produttività del lavoro dovuto al miglioramento degli strumenti e dei metodi lavorativi è una caratteristica di tutti i sistemi sociali; la peculiarità del capitalismo consiste nel fatto che in esso il processo produttivo, oltre a produrre i necessari mezzi di sussistenza, produce anche valore e plusvalore, ed è proprio grazie a ciò che il capitalismo è stato capace di accelerare in un modo senza precedenti lo sviluppo delle forze produttive. Le forze produttive non consistono soltanto nelle macchine, nelle materie prime e nella forza-lavoro: anche il capitale fa parte integrante di esse e lo sviluppo dei mezzi di produzione significa espansione della produzione e riproduzione del capitale, e ciò è possibile solo quando il processo produttivo del capitale ha come suo risultato finale il plusvalore o profitto. Dall’analisi del processo di produzione del plusvalore, Marx ricava la tendenza all’insorgere di un conflitto tra le forze produttive materiali ed il loro involucro capitalistico. Quando dalla produzione risulta un plusvalore insufficiente a rendere proficuo l’“impiego” del capitale, diventa impossibile portare avanti lo sviluppo delle forze produttive: le forme capitalistiche devono dissolversi per cedere il posto ad un sistema economico e sociale superiore. Nel sistema capitalistico il lavoro salariato è necessario per la produzione di plusvalore. Acquistando la forza-lavoro, il capitalista acquista il diritto di usarla a suo beneficio; col suo lavoro