Nel momento dello scorrere di un tempo

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Nel momento dello scorrere di un tempo

LEVICE (CN) progetto giovani borghi 2010-2011


Ci auguriamo che questa raccolta sia un punto di partenza per futuri lavori riguardanti la storia del nostro paese e ringraziamo tutte le persone che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto aprendo gli album privati delle proprie famiglie.

Il gruppo del progetto “Giovani Borghi� Cocino Cristina Cocino Danilo Francone Fabio Francone Mattia Francone Sabrina Francone Sara Ratto Edoardo Vero Gabriele Vero Stefano I responsabili del progetto Delmonte Annamaria Francone Monica

Grafica e stampa: Rossano Adv - Alba (CN)


“Decisi allora di assumere come guida della mia nuova analisi l’attrattiva che provavo per certe fotografie: di quella seduzione, almeno, potevo dirmi sicuro. Come chiamarla? Fascinazione? No. Essa è piuttosto un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse? È poco. Si può sia amare o avere amato l’essere che essa ci fa riconoscere; sia restare meravigliati da ciò che si vede… questi interessi sono però vaghi, eterogenei, superficiali… E se invece m’interessa profondamente, allora vorrei sapere che cosa, in quella foto, fa fare tilt dentro di me. Mi pareva così che la parola più giusta per designare l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura.” Roland Barthes La camera chiara

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Per sviluppare il progetto “Giovani borghi” abbiamo scelto una tematica che potesse suscitare l’interesse di tutti i partecipanti, sia per età sia per interessi. Si è optato, dunque, per la fotografia perché l’immagine racchiude al suo interno molti significati: un abito, una pettinatura, una postura, un gesto, un sorriso, possono svelare tanti aspetti interessanti delle abitudini e del modo di vivere di un tempo. L’immagine dà, infatti, una percezione immediata del contesto che viene ripreso, forse molto più di un testo scritto, perché in una foto ci sono molti dettagli cha catturano e coinvolgono la nostra attenzione, lasciandoci immaginare tutto ciò che è al di fuori del riquadro. Inizialmente volevamo raccogliere tutte le foto che la gente era disposta a prestarci per poter fare una piccola storia delle varie borgate in cui il paese è diviso e che una volta, fino a 50 anni fa, erano densamente popolate. Purtroppo ciò non è stato possibile perché della maggior parte di questi agglomerati oggi è rimasto quasi nulla, le cascine sono cadute in rovina e la gente è andata via, portando con sé la propria storia e le immagini di quei luoghi. Man mano che raccoglievamo le foto ci siamo resi conto che il lavoro non sarebbe stato così facile perché alcune famiglie avevano tante vecchie fotografie mentre altre ne avevano pochissime: per noi oggi è scontato congelare i nostri momenti di svago o qualsiasi altra cose desideriamo con un click del nostro telefonino o della nostra macchina digitale mentre una volta, sino a non molto tempo fa,

la macchina fotografica era una prerogativa di poche famiglie e probabilmente molte di loro non ne possedevano una ma chiamavano appositamente un fotografo per riprendere particolari momenti. Quindi, abbiamo pensato di raccogliere quanto più materiale fosse possibile e, una volta avuta a disposizione una certa quantità di immagini, individuare delle tematiche prevalenti, seguendo cioè i momenti o le cose a cui la gente dava maggiore importanza: la caccia, la scuola, la guerra ma, soprattutto, la famiglia. Le foto di famiglia sono quelle più numerose, da cui emergono tanti interessanti particolari: la gerarchia familiare, la povertà che si cerca di mascherare indossando gli abiti probabilmente più belli (anche se oggi non ci appaiono così) oppure mettendo una coperta sullo sfondo in modo da nascondere la casa in pietra a vista, segno di povertà e di mancanza di denaro per intonacarla. Alla fine del nostro lavoro abbiamo raccolto più di 500 foto che sono state pubblicate sul sito web del Comune di Levice e sul sito dei Borghi Autentici d’Italia allo scopo di diffondere i risultati del nostro lavoro e fare conoscere un pezzetto della nostra storia. All’interno di questo volume, per motivi di spazio, abbiamo selezionato le più significative (per noi) ed in buono stato.

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Levice

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Indice Ricordi di Levice

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La famiglia di un tempo: una grande famiglia

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I bambini

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Ritratti

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Il lavoro delle donne

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La mietitura del grano

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La caccia

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Gli altri lavori

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La Grande Guerra

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Il servizio militare

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La scuola

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Momenti di festa

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La Prima Comunione e la Cresima

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La leva

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Il matrimonio

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Le prime moto e macchine

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Ricordi di Levice

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La fa miglia di un tempo: una grande fa miglia La famiglia dei nostri nonni era di tipo patriarcale – plurinucleare in quanto vivevano sotto lo stesso tetto più nuclei familiari al comando della persona più anziana che, di solito, era il nonno o il patriarca. Al nonno tutti dovevano dare del Voi e a lui spettava qualsiasi tipo di decisione. La nonna, invece, aveva la responsabilità delle donne di casa, il papà del lavoro nei campi e del mantenimento della famiglia; la mamma aiutava in campagna, faceva i lavori di casa, assisteva gli anziani ed educava i figli. I bambini, infine, aiutavano i genitori nel lavoro nei campi e, prima di andare a scuola, portavano al pascolo le greggi. (Vero Ferdinando, 1910)

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“La mamma aiutava in campagna, faceva i lavori di casa, assisteva gli anziani

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ed educava i figli

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“Al nonno tutti dovevano dare del Voi e a lui spettava qualsiasi tipo di

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decisione

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“I bambini, aiutavano i genitori nel lavoro nei campi e, prima di andare a scuola, portavano al pascolo le greggi

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“La nonna, invece, aveva la responsabilità delle

donne di casa

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“Il papà aveva la responsabilità del lavoro nei campi e del mantenimento

della famiglia

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I ba mbini I bambini avevano sempre il compito di andare in pastura. Quelli più grandi, poi, dovevano aiutare i più piccoli a vestirsi e a fare i compiti; in genere, noi più grandi non avevamo molta pazienza e allora tiravamo le orecchie ai più piccoli ma se il nonno o il papà ci vedevano allora toccava a noi ricevere qualche scapaccione. (Francone Pietro, 1922)

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Giovanni il venturino

“Nella vita grama che c’era si facevano venire i venturini perché il governo dava 5 lire d’argento se la famiglia prendeva un

orfanello

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I momenti più belli erano quando si poteva giocare un po’ a palla. Si facevano le palle con il pelo delle bestie: si striavano le bestie, i bovini, che lasciavano sulla “bristia” (la spazzola per le bestie) il pelo che poi si “gnoccava” e si adoperavano quelle per giocare perché non si avevano i soldi per comprarne altre. Poi ci si divertiva tanto ad andare sulla slitta che, però, non erano come quelle di adesso: si cercava un asse, lo si lavorava un po’ e poi si andava sulla neve; tanti usavano la cartella: se la mettevano sotto il sedere ed andavano così. (Francone Pietro, 1922)

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Ritratti

Galu, il sacrestano di Levice

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Pistulin, il cieco assistito dalle suore del paese

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Il lavoro delle donne Una delle prima fonti di reddito, cioè i primi soldini che entravano nelle case dei nostri nonni, era quella ricavata dalla vendita dei bozzoli di seta, detti “cucat”. Per ottenere i “cucat” bisognava allevare in casa il baco da seta, detto “bigat”. Questo tipo di allevamento trasformava la vita di tutta la famiglia perché bisognava imparare a convivere con questi piccoli animali: la cucina e la camera da letto venivano modificate per poter sostenere l’impalcatura, chiamata “puntà” sulla quale venivano allargati i bachi da seta fino al loro imbozzolamento. Man mano che i bruchi crescevano si dovevano aggiungere delle “puntà” e, dunque, lo spazio per vivere diminuiva. I bachi venivano nutriti con le tenere foglie dei gelsi, i “mù”, che non dovevano mai essere bagnate: le campagne erano piene di gelsi, per poter allevare i bachi. La stagione dei bachi iniziava a San Giovanni quando si acquistavano le uova, le “semenze”, vendute ad oncia, una misura molto piccola, all’incirca grande come un ditale. Alle donne della famiglia era affidato il compito della schiusa della semenza ed ognuna aveva il suo metodo e la sua tecnica: alcune la tenevano in seno, altre ai piedi del letto. Una volta schiusi, i piccoli bachi venivano allargati sulle “puntà” e nutriti con i “mù”. Bisognava averne molta cura perché sono molto piccoli e le formiche rosse rappresentavano un grosso pericolo, in grado di mandare all’aria tutto l’allevamento. Man mano che i bruchi crescevano e alternavano fasi di crescita a 48

fasi di sonno (dormivano quattro volte e, poiché la quarta volta era il sonno più lungo, si dice ancora oggi “dormire alla quarta”) le “puntà” venivano allargate. Dopo l’ultimo sonno i bruchi, ben pasciuti, iniziavano a filare attorno al loro corpo il bozzolo, il “cucat”, un sottilissimo filo di seta dentro il quale poi il bruco si doveva trasformare in farfalla. Questo era il momento più bello perché si raccoglievano i bozzoli e venivano venduti alle filande, in particolare a quella di Monesiglio che era la più vicina. Siccome in campagna fino ad allora non si erano venduti altri prodotti, il ricavato della vendita dei “cucat” poteva permettere le prime spese della famiglia. Molte donne partivano a piedi da Levice la domenica sera per raggiungere Monesiglio dove restavano l’intera settimana a lavorare nella filanda. Il lavoro era molto pesante, le donne lavoravano fino a 14 ore al giorno con le mani sempre nell’acqua e guadagnavano pure poco, sebbene anche quel poco fosse utile a far tirare avanti la famiglia. Durante la filatura i bozzoli venivano immersi in vasche di acqua bollente per fare morire il baco prima che diventasse farfalla e, uscendo dal bozzolo, rovinasse il prezioso filo di seta. La seta veniva venduta alle industri tessili che la trasformavano in tessuti preziosi che mai nessuna delle nostre donne avrebbe mai potuto indossare. (Francone Pietro, 1922)


Filare

Qui, in campagna, soldi non ne vedevano. Le donne venivano qui all’osteria, alla censa con le uova e gli uomini portavano ceste di pesche con le uova che poi questi vendevano ad Alba, ed in cambio ottenevano un “amurin”, una bottiglietta d’olio, oppure dello zucchero: era un rito veder versare lo zucchero nella carta da zucchero, o ancora il sale, ma quello fino non esisteva, solo sale grosso che sembrava ghiaia, perché costava meno, e poi lo si tritava con una bottiglia. (Renato Cappelli)

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Cucire

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Fare la pasta

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“Qui, in campagna, soldi non ne vedevano. Le donne venivano qui all’osteria, alla censa con le uova e gli uomini portavano ceste di pesche con le uova che poi questi

vendevano ad Alba

Accudire gli animali 52


Andare a prendere l’acqua “al Corn”

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La mietitura del grano Una volta la mietitura del grano era anche un’occasione per trovarsi. La campagna del grano iniziava verso la metà di giugno e finiva a fine settembre. Si partiva per andare ad aiutare quelli della vallata dove il grano matura prima e poi man mano si saliva verso la collina, fino agli ultimi che erano nella parte più alta del paese. Ci si aiutava prima a mietere, poi a trebbiare il grano. Prima ancora che inventassero le “macchine a fuoco” il grano lo battevano con il “ribat”, un rullo che veniva trainato da una mucca o da un bue e, girando sopra le spighe, faceva uscire il grano. Poi si separava il chicco dalla pula con un vallo, sempre controvento: i chicchi più pesanti cadevano nel cesto mentre la pula, più leggera, cadeva tutto intorno. I bambini li facevano stare dietro al bue con una paletta in mano per non lasciare cadere lo sterco del bue sul grano. Infatti, quando il bue o la mucca alzavano la coda bisognava stare all’occhio perché voleva dire che volevano farla e se cadeva nel grano erano guai seri!

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La campagna del grano era molto faticosa ma per certi versi era una festa: quando si trebbiava il grano in tutte le famiglie le donne facevano a gara per trattarci meglio e in ogni posto c’era una specialità diversa. Era proprio una bella festa e si dimenticavano le rivalità perché tutti avevano bisogno dell’aiuto degli altri. In particolare, quando si doveva trainare la macchina a fuoco con la trebbiatrice, servivano anche quindici coppie di buoi e tutti molto robusti. (Vero Ferdinando, 1910)

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“Era proprio una bella festa e si dimenticavano le rivalità perché tutti

avevano bisogno dell’aiuto degli altri 58


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La caccia Una volta, si andava a caccia in gruppi di 4-5 persone, in genere il nonno con i figli e i nipoti più grandi, nel periodo fra settembre e dicembre. Si partiva per la battuta appena il sole sorgeva, si cacciava due o tre ore e si tornava verso le 9.00 a casa, per andare a lavorare nei campi. Con la fine della vendemmia e della semina del grano, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, avendo più tempo, i contadini potevano, anche per più ore, dedicarsi alla caccia mentre, con l’arrivo della neve, le battute si facevano sempre più saltuarie. I cinghiali non esistevano, c’erano le lepri, le pernici e le beccacce. Tutti i contadini avevano il fucile in casa, anche per proteggere le galline dalle volpi. 60


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La lepre che si prendeva spesso si andava a venderla, non si mangiava: si portava nei ristoranti ad Alba per pagarsi con il ricavato il porto d’armi. La lepre veniva pulita dalle interiora ma lasciata con la pelle, poi la si metteva nei pozzi dove c’erano 5 o 6 gradi, per mantenerne la carne. Tante volte quando se ne prendeva una non la dividevamo, ma a turno la prendeva uno della squadra, se aveva in vista un pranzo o aveva bisogno di venderla per ricavare dei soldi. (Renato Cappelli)

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Gli altri lavori In campagna prima della semina si preparava il terreno e in certi posti non si arava neanche, si faceva passare la terra con la zappa e la vanga. Per mangiare si seminavano fave, ceci, piselli e patate; per dare da mangiare alle bestie si coltivava grano, meliga e tanta biada. Dopo il grano veniva sempre la biada, la si dava cotta alle bestie, la si macinava, serviva per le galline e la si seminava per la paglia perché la biada aveva una gamba lunga e faceva più paglia. Per le bestie veniva mescolata paglia e fieno perché di questo non ce n’era abbastanza. Per diversi mesi le bestie andavano in pastura: nei boschi, intorno alle strade, ma mai nei campi, perché si cercava di seminare dappertutto. Il bosco ci dava anche le castagne anche se era una vita grama a raccoglierle, perché lo si faceva alla fine di ottobre e a novembre, quando faceva già freddo. Ogni borgata aveva lo “scau”, dove si mettevano le castagne a seccare.

La raccolta delle ciliegie

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“Per dare da mangiare alle bestie si coltivava grano, meliga e tanta biada

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La raccolta delle nocciole

I vitellini gemelli

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La Gra nde Gu erra

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Diario di guerra di Taretto Carlo Era il giorno 4 novembre dell’anno in cui finì la seconda guerra mondiale. Mi stavo recando in paese per assistere al funerale in memoria dei caduti. Lungo la strada c’era altra gente, alcuni più indietro altri più avanti. Raggiunsi un vecchietto che mi precedeva di poco, ci salutammo: “Si va al funerale” dissi “Sì, anche per questo” rispose lui “ma devo acquistare dell’aspirina per mio figlio. E’ a letto da qualche giorno, ha febbre. E’ grama quest’influenza!” poi, dando un’occhiata al suo orologio da taschino, mi disse: “Penso che faremo ancora in tempo anche di questo passo, ci resta da fare un buon pezzo di strada ma mancano 20 minuti alle 10 ma, d’altronde, il parroco ritarda sempre un pochino”. Intendeva dire che potevamo farci compagnia. Mi trattenni volentieri con lui. Per quel poco che lo conoscevo era un tipo alla buona e sapeva dire le cose esprimendosi in modo piacevole e spiccio, senza annoiare. Gli chiesi di suo figlio. Mi disse che non era ricorso al dottore, ma pensava non fosse il caso. A suo giudizio poteva cavarsela con un po’ di aspirina e qualche decotto di erbe. Non so se parleremo ancora di questo quindi diciamo subito che poi non se la cavò. Dopo solo due giorni morì. Era un bel giovanotto abile piastrellista. Forse il buon Dio aveva un angolo di paradiso da piastrellare. Ma torniamo sul nostro cammino con quel vecchietto che ignaro di quanto doveva accadere mai poteva pensare che sarebbe tornato così presto in paese per accompagnare una bara: quella del figlio. Anzi, ricordo mi disse tra l’altro

che ci si recava meno possibile perché gli costava fatica. Infatti camminava un po’ a stento servendosi del bastone che manovrava con destrezza spostandolo in avanti a tratti alternati col piede sinistro e, questo suo modo di camminare, lo faceva sembrava più vecchio di quanto non fosse. Domandai se gli doleva la gamba e che cosa gli fosse accaduto. “Ora non mi fa male” disse “A volte sì, quando fa freddo e magari quando mi fermo, però mi è rimasta un po’ rigida. E’ stata una scheggia al ginocchio, fui colpito sull’altopiano di Asiago, sono reduce dall’altra guerra, era diversa da questa. Allora si combatteva faccia a faccia contro gli austriaci. Talvolta si andava all’assalto con la baionetta. E’ triste pensare che potevo morire trafitto da una lama appuntita. Ed è penoso il ricordo d’aver dovuto infilzare un altro (poverino!) del tutto simile a me. Se mi chiedesse perché lo abbia fatto, potrei rispondere “Altrimenti non sarei qui”. Capitava pure di dover restare giorni e giorni accovacciati in trincea. Bastava spuntare fuori il naso per sentire un fischio rasentare le orecchie e non eran mica zanzare. A me una volta che ci provai bucarono il cappello e per fortuna fu solo il cappello, altrimenti potevo restare là a sentirmi quel “requiem aeternam” che fra poco si reciterà in chiesa”. Giunti in paese guardò ancora l’ora “Siamo un pochino in anticipo” disse “ giusto in tempo per 71


acquistare l’aspirina” ed entrò in un negozio. Poco dopo lo rividi in chiesa, aveva preso posto in un banco nella navata di sinistra. Seduto o in ginocchio, teneva sempre una gamba distesa in avanti passandovi sopra leggera una mano “ Magari quando mi fermo può farmi male” mi aveva detto poc’anzi. Dopo il funerale una piccola folla si era riunita sul piazzale davanti alla chiesa per la commemorazione dei caduti. Il messo comunale ne leggeva sulla lapide i nomi e noi ad ognuno rispondevamo “Presente”. Era facile rispondere per loro e poi tornarsene a casa, ma quando era toccato loro rispondere di persone (pensavo io) che cosa gli era costato? Avevano risposto in silenzio chinando il capo, piegarono su un fianco, caddero a terra e restarono là. Un tonfo confermava la loro presenza. Avevano l’età per potersi vedere la vita davanti e avevano la morte. Non so se chi muore in quel modo possa morire del tutto. Sarà morta (se c’era) l’idea dell’odio e della vendetta contro chi li aveva condotti e costretti a morire. Sarà morta ogni speranza. Ma quel desiderio era sì forte, di rivedere la mamma, è mai possibile fosse morto? Commenti mentali superflui. Intanto l’appello finì lasciando il ricordo di un giorno di pace oppure di un figlio perduto. Una bambina di circa 10 anni che era là in compagnia del padre stava osservando ora l’uno ora l’altro cercando di capire dall’espressione del volto quale fosse il loro stato d’animo, quando vide una donna che stava asciugandosi gli occhi allontanandosi a testa un po’ china per evitare di farsi notare. “Papà” disse la piccola indicando con un 72

ditino la donna “cos’ha?”. “Uno di loro era suo figlio” rispose il padre “ aveva quello soltanto”. “Fa pena. Mi ricorda un pochino la mamma quando è triste, posso andare a dirle qualcosa?” “ Si va pure” rispose il padre e pensava: “Forse una bimba meglio di un altro riesce a distrarre chi soffre d’angoscia. Però chissà che potrà dirle”. In simili casi non son le parole che contano, un atto affettuoso può più di ogni altra cosa. Infatti bastò quella bimba che di fatto nemmeno lei sapeva cosa avrebbe detto. S’avvicinò alla donna, la prese per un lembo del vestito: “Signora ha visto mio papà? Lo sto cercando”. La donna le strinse una mano, guardò un po’ d’intorno “Eccolo là” disse “ Grazie signora, però se vuole posso restare un po’ con lei” la donna capì. “ Cara, sei tanto cara” le disse. E sorrise, aggiungendo: “ Va con papà non farti aspettare”. Non so se rimasi maggiormente colpito dall’espressione del volto angosciato di quella mamma oppure dal tenero atto di amore di quella bambina. Eppur da notare com’ella trovasse in quel volto piangente sembianza di mamma. Difatti il pianto di mamma è uno soltanto. Ormai a poco a poco la folla s’andava sciogliendo, alcuni si avviavano al camposanto in compagnia delle autorità per portare una corona di fiori al piè di un pilastro eretto in memoria ai caduti, altri si erano divisi in piccoli gruppi scambiandosi qualche parola con mesto contegno come di fronte a qualcosa di sacro. Quel giorno apparentemente dissimile agli altri (almeno per me) in quanto particolarmente adatto alla meditazione, ricordava la fine di una guerra lontana allorché un’altra era finita da poco. Se la prima era ormai solo un ricordo,


questa è ancora presente in qualcosa come le rovine e la distruzione che aveva causato. Quale delle due era la peggiore? (Della prima sapevo qualcosa per averne sentito parlare, alla seconda avevo preso parte, mio malgrado). Forse eran pari. Il peggio non esiste quando è il colmo del male. Diedi ancora uno sguardo a quei nomi incisi sul marmo, erano in molti, tutti uniti in un solo ricordo. Un lumicino ardeva a lato. Solo per quel giorno poi si sarebbe spento. Che importava il lumicino? Si poteva ricordarli lo stesso. Ebbi allora l’idea di questo mio diario, che potrebbe essere la continuazione del loro diario troncato a metà. Volendo ripetere le loro ultime frasi che pochi o nessuno udì e cercando, inoltre, di dire ciò che direbbero loro, ora che non sono più se potessero esserci ancora. Molti di loro li avevo conosciuti. Alcuni furono miei compagni durante la guerra, spartimmo il pane, ci passavamo la borraccia dell’acqua, poteva toccarmi la stessa sorte, non ero più bravo di loro, solo il destino voleva che loro morissero e io fossi salvo. E sì, prima o poi sarei dovuto anch’io morire, non da eroe ma nel più semplice dei modi come lo sanno fare tutti. “ Allora” pensavo “che si potrà dire di me dopo una vita insignificante per gli altri?” Di loro c’è molto da dire. Parlare dei caduti richiede parlare anche di guerra, sono due cose legate tra loro come lacrime e pianto. Diremo dunque qualcosa in riferimento alla seconda “mondiale” definita la grande guerra. Pur non volendo trascurare la prima ci limiteremo a parlare di questa poiché fu possibile raccogliere dati dal vero, personalmente e tramite altri che pure dovettero subirne la prova. Da quando finì

sono trascorsi giusto tre dozzine di anni. Dall’inizio quasi quattro. Fu senz’altro fra le più ricche di eccidi, massacri e crudeltà, provocata dalla Germania prima e dall’Italia poi, entrambe con il proposito di varcare i confini e dominare oltre. La Germania era comandata dal Fueher, l’Italia da quell’uomo al cui nome va legata la formazione del partito fascista, colui che persino vorremmo non aver avuto, pur di evitare il fascismo e la guerra. Detto questo senza alludere a rimproveri per chi gli diede la vita, quando nasceva pareva dovesse portare gioia nel mondo, come ogni bambino che nasce, non vi è dubbio sia stato poi educato ed istruito a modo, ma divenuto adulto, egoismo e superbia prevalsero in lui, gli parve inoltre che il popolo avesse bisogno d’un nuovo comando. “In effetti era lui a voler comandare” così con l’aiuto di pochi ma capaci “a picchiare” tentò e gli riuscì di portarsi a capo del Governo. Giunto al potere rinforzò quelle schiere che gli erano servite per la marcia su Roma e con queste organizzò la milizia per la sicurezza propria e del partito. Valendosi poi dell’ignobile diritto che la disonestà concede talvolta a chi si sente forte, costrinse presto una parte del popolo a seguirlo promettendo “pane” e lavoro a chi acconsentiva di aderire al fascismo, per chi si opponeva erano minacce e gravi punizioni. In tal modo in pochi anni assoggettò l’intero popolo forzandolo all’ubbidienza assoluta ed alla servitù. Ormai era riuscito nel suo primo intento: aveva formato il regime fascista e ne era capo assoluto, duce, così gli piacque essere chiamato ma da uomo potente quale credeva di essere e caparbio com’era poteva 73


accontentarsi di dominare l’Italia. Decise di servirsi di questa per formare l’esercito e costruire armi. Poi avrebbe conquistato altri paesi. Un quadratino d’Africa magari, l’Albania, la Yugoslavia pure e perché non una fettina di Francia. Avido com’era di gloria e di conquiste, addirittura mirava alla padronanza del mondo poi gli bastava occupare lo spazio di una tomba, ma prima della sua tomba doveva riempire di morti un cimitero di guerra dai limiti estesi pressoché in ogni dove. In egual modo si comportava Hitler, “furon pure alleati”. Ma non parliamo di lui: lasciamo che i suoi panni se li lavino i tedeschi. Parliamo del duce. Era un uomo dal volto e sopracciglia scuri, alta la fronte in avanti il petto, severo, prepotente, la sua presenza, il suo comportamento incutevano paura, le sue idee timore, ogni sua parola era un indiscutibile ordine da eseguirsi da parte del popolo, pena la galera, spesso a vita, ma breve, non amava tenere occupate a lungo le carceri. Era un giorno della prima metà di giugno quando in un suo discorso annunciava il popolo che le dichiarazioni di guerra erano state consegnate agli ambasciatori di Francia ed Inghilterra. Papà, mia sorella ed io eravamo nel campo a sorchiare il grano turco, sentimmo le campane di tutti i paesi dintorni suonare distese: non era l’Angelus e ne l’Ave Maria a quel’ora “Cos’è” chiesi a mia sorella. Neppure io lo sapevo, papà lo sapeva di certo ma finse di no “ lo sapremo da chi ha ascoltato la radio” disse. E continuò a sorchiare. E’ chiaro non voleva mentire, inquietarci nemmeno: era il segnale di allarme; s’iniziava la guerra. Per l’esattezza si combatteva già da un pezzo, contro popoli 74

disposti ad arrendersi piuttosto che combattere, ma ora venivano coinvolte le potenze più grandi del mondo: Inghilterra, America e Russia. Avendo queste capito che il nazifascismo minacciava di espandersi troppo, pur non essendo mai state d’accordo fra loro furono di comune idea che tali partiti andavano combattuti e possibilmente debellati per amore di quei popoli che venivano o già erano rimasti colpiti. Ebbe origine così almeno per quanto riguarda l’Italia quella che fu la seconda guerra mondiale. Noi non avevamo la radio: mia sorella ed io andavamo ad ascoltarla da un nostro vicino di casa, amico di papà, Amedeo. Quando giungevamo in ritardo per il bollettino e non lo capivamo ce ne dava spiegazione lui facendoci notare se qualcosa veniva omesso per via della censura. A volte intercettava trasmissioni clandestine, da queste giungevano esatte le notizie, così potevamo capire che contrariamente a quanto volevano farci credere i fanatici del fascismo, la guerra non l’avremmo vinta mai, del resto, diciamolo pure, se avessimo vinto la guerra avremmo perso la libertà, ma dunque: perché tanto disordine! Migliaia di soldati perdevano la vita sul campo di battaglia, per quale scopo? Nullo, eppure si umiliarono a tal punto. Questi gli eroi che vogliamo ricordare, anzi doppiamente eroi poiché s’immolarono combattendo per gli ideali di un uomo che mirava alla dittatura ed alla schiavitù del popolo, perciò hanno servito la patria due volte: una combattendo, una morendo. Però ha sprecato troppe giovani vite colui che volle la guerra; personalmente pur perdonandolo direi che quanto ha fatto non dovrebbe essere poco


per la sua coscienza. Io avevo 17 anni appena compiuti speravo che prima di dover partire per il servizio militare potesse tornare la pace, ma la mia speranza fu vana, due anni passarono presto, fui chiamato alle armi e la guerra infuriava più che mai. Il giorno della partenza mi è rimasto impresso nella mente e particolarmente l’atto di lasciare i miei cari. Non ho mai sentito dire che le giornate abbiamo una forma o un particolare aspetto, eppure se penso a quel giorno lo vedo come un pendaglio di stoffa bagnato che gocciola e quelle gocce gelide o scottanti ad un tempo vanno a colpire la fronte di chi mi sta attorno e la mia Papà m’aveva dato un po’ di soldi, m’aveva salutato poi era andato in cantina, era molto emotivo, non se la sentiva di restare a vedermi partire. La sorella dopo avermi salutato era salita in camera sua e dalla finestra mi seguì con lo sguardo fin quando oltrepassai una curva. Mamma volle accompagnarmi fino in fondo della scorciatoia e ci salutammo là. Era con lei mio fratello, l’unico ancora a casa, altri tre erano militari, richiamati due, trattenuto l’altro. Prima di salutarmi, mamma chiese se mi restava un attimo di tempo, feci cenno di sì:”Una cosa ti volevo dire: se ti capitasse di sentirti solo guarda il sole la sera, prima del tramonto, a quell’ora non abbaglia, lo guarderò anch’io ed i nostri sguardi si incontreranno; ci troveremo così mi dirai qualcosa, mi ascolterai, vedrai ci capiremo”. Povera mamma a che cosa s’aggrappano quando non possono altro, feci per salutarla: “Una cosa ancora: se dovessi trovarti al fronte, non puntare per primo il fucile, non hai nemici ed i tuoi avversari

avran pure una mamma” “ Dovrei forse aspettare che sparino prima loro?” pensai quasi m’avesse capito! “ Io prego per te” disse “ Non posso far altro, prega anche tu, ma non pregare soltanto, a seconda dei casi in cui ti troverai, fai del tuo meglio, pur di aver salva la vita: non voglio che tu muoia”. Abbassò il capo appoggiandolo al mio petto stringendomi a se: non piangeva per non rattristarmi ma soffriva molto. Un attimo e ci lasciammo. Seppi poi dal fratello che poco dopo era scoppiata in pianto versando tutte quelle lacrime che aveva trattenuto prima. Riprese poi il viaggio di ritorno verso casa, non era sola, ma pur sempre afflitta da un sentimento di desolazione. Erano quattro ora i suoi figli sparsi per il mondo, chissà dove, pensava, e chissà quando sarebbero tornati, o peggio, sarebbero tornati? Era la guerra e mieteva vittime ovunque, ogni giorno. Camminava lenta soffermandosi ogni tanto assorta in quei pensieri. Guardava a terra a lungo, poi di scatto in alto, come a studiare un problema che non riusciva a risolvere. Capita questo, quando qualcosa di grave, pur dovendo ancora avvenire, ha di già strappato via la pace del cuore. In quanto al mio viaggio ci sarebbe poco da dire, se non che oltre a viaggiare vagavo con il pensiero tra le immagini di quanto avevo lasciato e ciò a cui stavo andando incontro. Sul treno, osservavo dal finestrino i pali telegrafici, parevano venire all’indietro di una velocità vertiginosa: questo era in contrasto con il mio desiderio di non allontanarmi, troppo e così presto. Trascorso un breve periodo nei pressi del distretto, fui poi trasferito vicino al confine francese. Qui volevo giungere, non allora, 75


ma ora con il mio diario, per ricordare un fatto del quale , appunto allora venni a conoscenza. Eravamo l’intero battaglione accampati in una valle, quasi per intero circondata da una catena montuosa con cime coperte di neve. Luogo alquanto malinconico e triste. Visto dall’alto doveva sembrare una grande conca, le cui sponde fatte di rocce e rupi scoscese, eran solcate qua e là da rivi che andavano ad unirsi in fondo formando un torrente. Sul greto di questo avevamo piazzato le nostre tende. La ghiaia ci serviva da letto. Nelle ore di libera uscita, io ero solito fare lunghe passeggiate su per quei monti. A volte vedevo camosci, caprioli e uccelli di montagna: la loro naturalezza e la loro libertà mi facevano dimenticare, almeno un po’, la vita militare. Un pomeriggio di domenica avendo qualche ora libera in più mi ero allontanato parecchio ed ero giunto ad un varco tra due monticelli in cima alla collina. Al di là c’era la Francia: mi fermai a guardare verso di essa e pensavo che fino a poco tempo addietro era libera ed indipendente: ora era stata occupata, parte da truppe tedesche, parte da quelle italiane e come una ragazza rapita resa impotente, soffriva, pur continuando sperare di poter conservare almeno la sua purezza di spirito antifascista nell’attesa di essere liberata. Nel frattempo, ad un centinaio di passi di distanza, vidi due soldati spuntare dietro una roccia, avanzavano dietro di me. Lì per lì rimasi un po’ scosso , temevo fossero guardie di frontiere, poi capii che erano miei compagni di battaglione, d’un’altra 76

compagnia però e più anziani di me. Ci conoscevamo appena. Giunti vicino uno di loro scuotendo il capo mi disse: “ Giuvu dove stai andando? Mica in cerca di guai, speriamo” “ Spero anch’io di no – dissi – perché, a quali guai potrei andare incontro” “ Se ti trovano qui le guardie di frontiera ti rinfrescano le idee o te le riscaldano se fossero troppo fredde! Ti convien tornare indietro. E ricordalo bene, e se ti si domandasse di noi, tu qui non avrai visto nessuno, capito?” Uno di loro era caporale magazziniere, l’altro soldato semplice, pratico di quei luoghi. Prelevavano scarpe e coperte in magazzino, le scambiavano in viveri e tabacco con un contrabbandiere, ora tornavano da un appuntamento con lui avendo già concluso l’affare. S’avviarono scambiandosi qualche parola sottovoce, poi rivolto a me il caporale disse: “ Noi torniamo all’accampamento, se vuoi venire anche tu ci facciamo compagnia” . Ringraziai e mi incamminai con loro. Poco avanti, quella specie di sentiero che stavamo percorrendo si divideva in due. Il caporale disse: “Sarà meglio che prendiamo per la pineta “dei corvi”, per evitare incontri inopportuni” “Già – rispose il soldato – così potremo pure far visita ad Aldo”. Poi rivolgendosi a me: “Sai dov’è la pineta “dei corvi”?” “No – dissi – e nemmeno so chi sia Aldo”..” Era un mio caro amico – rispose lui – ora è la sotto ad un mucchio di terra. Fui io a sotterrarlo” “ Con questo, chi ne sa nulla ci capisce ancora poco, - dissi – spiegati meglio” “ Ti dirò: c’eravamo conosciuti da borghesi era di un paese vicino al mio, faceva il segantino con suo padre. A volte venivano a lavorare da noi, e così ci conoscemmo e


diventammo amici. Quando iniziò la guerra ci ritrovammo, anzi.. lo ritrovai non molto lontano da qui, mi ci imbattei per caso. Fu una sera che per l’allarme aereo dovemmo sparpagliarci tutti in cerca di un riparo. Io ero andato a finire appunto nella pineta “dei corvi”, sulla sponda di un burrone. Ad un tratto mi parve di udire un gemito giù in basso, stetti ad ascoltare, sentii gridare aiuto, scesi la ripa in fretta, in fondo trovai lui, Aldo, disteso al suolo. “ Che è stato?”– gli chiesi –“ una scheggia?” “ Una pallottola – disse – o forse due non so” “ Ti senti male?” “ Ora va meglio, spero di cavarmela, non vorrei morire qui” “ Abbracciami il collo e sali in spalla, se puoi, ti porterò sulla strada, poi troveremo un mezzo per condurti all’ospedale” Tentai di sollevarlo!... “ No, non toccarmi – disse – se muovo, mi par che qualcosa si rompa dentro il petto”. Gli sbottonai la giubba e la camicia, aveva il petto insanguinato ed una grossa ferita a sinistra dello sterno. “ Vado chiamare aiuto – dissi – ti trasporteremo con una barella senza farti del male” “ No, non lasciarmi solo, ho paura” “ Paura di che?” “Della morte forse. Ma sarà solo un incubo non sono mica tanto grave, ti pare?” “ No, non sei grave” – dissi – ma in effetti ne capivo poco. Ad ogni suo respiro su quella ferita, compariva una bolla di sangue, si gonfiava, poi o scoppiava o si ritirava indietro e se ne formava un’altra. Temevo fosse leso ad un polmone. “ Maledetti francesi – esclamai – perché t’han fatto questo? “ “Non bestemmiare i francesi – disse – non sono stati loro” “ Chi dunque?” “ Un italiano, il mio sergente” “ E come avvenne?” chiesi. Questo fu il suo racconto: “Voleva che io

andassi in cima alla collina per individuare il luogo delle postazioni francesi, dovevo segnalarlo a lui che a sua volta riferiva al comando informazioni utili per regolare il tiro dei mortai. Mi accompagnò fin qui o meglio, fin su quella pendice, poi mi diede istruzioni e avrei dovuto proseguire da solo. Sapevo che prima di me ci avevano provato altri e nessuno era tornato indietro. Mi rifiutai di andare. “ Vai avanti- mi disse – è un ordine!”. Mi dava spintoni con la canna del fucile “Andare lassù è come andare alla morte – dissi – lasciamo stare i francesi salviamoci noi”. Io ho una mamma a casa che mi attende. E’ triste pensare che mi attenderà ancora domani e domani non esserci più” “ Ad avvertire tua madre ci penserò io semmai” “ Ad avvertirla di che? Io voglio tornare da lei, lasciami ti supplico sii buono” “ La guerra non si vince con suppliche e qui conta la forza ed il coraggio non la bontà.” . Con una mano simile ad un artiglio, mi prese per i risvolti della giubba e scuotendomi mi disse: “ Obbedisci, altrimenti!...”. Cercai di liberarmi, ma egli più forte di me, mi diede uno strattone, poi mi rovesciò all’indietro, finii giù per la scarpata e rotolai fin qui. Ero mezzo tramortito, guardai in su, lo vidi con una mano tesa verso di me in segno di minaccia. Sentii scorrere il sangue nelle vene e provai desiderio di vendetta. Istintivamente impugnai il fucile. Gli avrei sparato? Certamente no, ma non avrei avuto il tempo comunque. Quell’uomo odioso, a cui il fucile già era servito a percuotermi, sparò a me colpendomi al petto. Barcollai e caddi a terra svenuto. Ciò che provai quando rinvenni, cerca di immaginarlo, o 77


te lo dirò poi, ora non ne posso più” Beh.. taci dunque – gli dissi – non affaticarti oltre” “ Temo sia giunta l’ora di dover tacere, mi sento un freddo insolito ed un forte male al cuore.”. Aveva la bocca piena di una schiuma rossiccia e gli occhi fissi nel vuoto, stette un attimo in silenzio, poi con uno sforzo estremo pronunciò ancora quel nome che è tanto caro a tutti, “Mamma” e tacque, per sempre. Era morto. Mi procurai una vanga, un badile e ciò che feci l’ho già detto prima. Sapevo che l’indomani si doveva lasciare la zona per avanzare in Francia, non potevo lasciarlo là, scoperto, in pasto ai corvi. .”Ora sai chi era Aldo – aggiunse – e questa è la pineta “dei corvi”. Infatti eravamo giunti in una pineta, l’attraversammo, giungemmo sulla sponda di un burrone, era quello di cui ci aveva parlato il soldato, discendemmo in fondo, laggiù trovammo un tumulo di terra, con sopra due pezzi di legno messi a croce ed una pietra sulla quale si leggeva il nome Aldo, miseramente inciso con la lama di un coltello. Restammo in silenzio il tempo di recitare mentalmente una preghiera, poi il caporale depose una stella alpina su quella tomba, dicendo: “ Povero Aldo!..e poveri i tuoi genitori!..Come potrà tua madre darsi pace? E tuo padre come farà a segare le travi da solo?” Poi rivolto al soldato:”Voglio che tu mi dica: fino a qual punto ti piace quel sergente così dotato di forza e di coraggio di cui ci hai parlato?” “Fino a qual punto mi dispiace, vorrei dire! A chi può piacere quell’uomo se non al diavolo? Ammesso che ci sia!”. Poi fui io a chiedergli se i genitori di Aldo fossero stati informati della perdita del 78

figlio. “ Sì – rispose – gliel’ho detto io circa sei mesi fa. Ero appena rimpatriato dalla Francia quando ricevetti una lettera da sua madre, mi chiedeva notizie di lui, dicendomi che da un pezzo non ne aveva. Ricordo una sua frase: “Almeno sapessi che vive ancora” diceva. Le feci risposta, ma l’avevo visto troppo tardi per poterle dire che viveva ancora”. Ormai si avvicinava la sera e con questa anche l’ora della ritirata. Decidemmo di rimetterci in cammino. Altro che camosci e caprioli! Non mi era mai capitato in vita mia di conoscere un’avventura di guerra così da vicino! Meditavo su quel fatto e cercavo di ricostruirlo modificandone qualcosa. Avrei voluto dargli una conclusione migliore. La stessa cosa stavano facendo i miei compagni, lo capii quando il caporale ruppe il silenzio dicendo: “ Visto ora come sono andate le cose, forse Aldo avrebbe fatto meglio ad obbedire” e dopo una breve pausa “ Magari eseguendo quel ordine non era per lui morte certa. “ E sì, la certezza di una cosa, la si ha solo a fatti compiuti” commentò il soldato “ Ma certo è che ad andare su quella collina era un forte rischio e di questo Aldo aveva l’esempio dei compagni. Non eran più tornati coloro che ci avevano provato – mi disse – inoltre detestava che o pochi o tanti francesi venissero massacrate dalle nostre artiglierie, come poteva accadere se egli avesse compiuto tale missione. Lasciamoli stare i francesi, aveva detto il sergente. Piuttosto quest’ultimo non doveva mai commettere un simile atto. Fosse pure anch’egli un subordinato ma poteva andare avanti finché non c’era pericolo, poi d’accordo con Aldo ritornare indietro dicendo ai superiori che non c’erano riusciti,


un motivo se non c’è lo si inventa. Lo avrebbero punito forse, degradato magari, ma non ne sarebbe andata di mezzo la vita di nessuno”. Io non mi pronunziai, né avevo un’idea chiara in proposito, mi accorsi che ero tipo di lasciarmi influenzare da chi dei due trattava meglio l’argomento. Solamente pensavo: “La guerra da che ha inizio non è più cosa da risolversi tra capi di stato, nemmeno da combattersi soltanto tra masse di popolo, ma può essere anche tra compagni. Però la si dovrebbe evitare, e si potrebbe. E sì, davanti un fucile a morire si fa presto, ma d’altra parte, o d’altra parte ancora, a non sparare si dovrebbe fare prima”. Giunti all’accampamento il caporale mi chiesi se avessi fame. “ Da che sono militare, il non aver fame non so più cosa sia” dissi. Estrasse una pagnotta dallo zaino me la diede, il soldato mi diede un pacchetto di sigari. Dissi che non fumavo. “Tienli lo stesso, li puoi dare al caporale di cucina ti farà la razione del rancio un po’ più grande, aggiunse: la “naia” va presa come “naia”. Ringraziai, ci salutammo e mi incamminai verso la mia tenda, parecchio distante dalla loro. Quella sera mi coricai presto, ero stanco. Però riposai poco. Essendo il mio posto primo entrando in tenda i compagni mi pestavano di continuo. Inoltre si era formato un temporale e dopo qualche ora di tuoni rimbombanti tra le rocce iniziò a piovere a dirotto, l’acqua penetrava sotto la tenda, dovemmo andare in cerca di piccozze e fare argini per deviarla. Più tardi quel torrente da quasi a secco che era, divenne in piena espandendosi per tutto l’accampamento. Fummo costretti a sgombrare. Il resto della notte lo passammo

sotto la pioggia. Al mattino piantammo le tende più a monte. A sera ci fu l’ordine di disfarle e affardellare gli zaini. Eravamo trasferiti, si partiva. Camminavamo tutta la notte e ancora un poco il giorno seguente: giungemmo in un paesetto ad una cinquantina di chilometri. Era la nostra meta. Ci portarono in un vecchio teatro di periferia, ci sistemammo là. Era ormai mezzogiorno, l’ora attesa del rancio, ma per quel giorno il rancio non ci fu, si doveva ancora sistemare la cucina. Soltanto verso sera ci dettero due mestoli di brodo con dentro tanto riso quanto non sarebbe bastato a sfamare un pettirosso, null’altro. Avevo fame ed ero stanco, pensai di cenare con la pagnotta che m’aveva regalato il caporale la sera antecedente, andai a frugare nello zaino. Amara sorpresa! La pagnotta non c’era più, nemmeno i sigari, m’avevano rubato tutto. Andai nel pagliericcio, m’addormentai. La notte sognavo papà che sfornava il pane e mamma che coceva la frittata, masticavo visioni e ingoiavo saliva. Al mattino la sveglia fu tardi, di conseguenza appena alzati tutti erano pronti per la colazione, ma prima ancora pronti per quell’azione che dall’intestino ha stimolo e poiché là di ritirate ce n’era una sola, ci trovammo in tanti davanti a questa, impazienti o meno ad aspettare ognuno il proprio turno. Eppure c’era ancora chi giunto là dentro trovava il tempo di scrivere sulle pareti frasi come queste: “Possibile tanta fretta di fare una cosa di così poco valore?” oppure “Poverine noi!” firmato: le 79


mutande. Ed altre ancora del tipo che al duce di certo non sarebbero piaciute. Quel giorno ci lasciarono gran parte del tempo liberi. Alcuni andarono a riposare all’ombra dei boschi, altri in caserma. Io preferii fare un giro per il paese. Era un bel paesetto montano sito in un luogo magnifico, tra verdi boschi e prati fioriti, ma per chi è militare, specialmente in tempo di guerra, posti piacevoli credo non ve ne siano. Dovevamo restare là un ventina di giorni, poi (correva voce) ci avrebbero spediti in Russia. Ci si poteva credere poiché ci portavano spesso su in montagna a fare manovre sulla neve, per addestrarci a combattere ed abituarci al freddo. All’idea di andare in Russia in un periodo tale, tremavo di paura, sapevo bene cosa fosse la Russia e quanto spietata la guerra! Ma a che serviva aver paura? Se questa ha una sola utilità come ogni altra cosa che esiste, ciò sarà affinché usiamo prudenza di fronte ad un’azione rischiosa, ma quando abbiamo possibilità di evitare dei guai, non in casi come questo, quando la nostra sorte dipende inevitabilmente dalle decisioni di altri. Comunque poi in Russia non andammo, però ci attendeva dell’altro non meno grave, qualche mese dopo: la prigionia in Germania. Per intanto ci riportarono vicino al distretto in un paese dove c’era un santuario mariano. Qui si pregava la madonna invocando la grazia di pace e si facevano esercitazioni con la mitraglia. Chi aveva dei soldi poteva comprarsi una birra o un surrogato di caffè, mai roba da mangiare, i generi alimentari erano tesserati. Gli anziani passavano il tempo facendo scherzi a noi reclute e noi…beh, il tempo 80

passò lo stesso. A proposito di scherzi, ne ricordo uno alquanto originale, toccato a me, di cattivo gusto non fu ma non mi tornò gradito per le sue conseguenze: un mattino appena tornati dalla consueta marcia notturna del venerdì ci portarono lungo un ruscello per dare comodità a chi avesse voluto, di rinfrescarsi i piedi. Io lo feci, poi, seduto su un ceppo di quercia abbattuta, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa fra le mani mi addormentai. Alcuni compagni, pensarono che meglio di così non poteva andare per giocarmi uno scherzo. Trovata una penna bianca, levarono la mia dal cappello e la sostituirono con quella. Poi con molta cautela servendosi di uno spillo mi fissarono una foglia di ontano sul polsino della giubba, una di felce sopra il taschino, e infine con due liane attorcigliate fecero un cerchietto e me lo infilarono sopra il nastro del cappello. Intenzione loro era quella di camuffarmi da colonnello, poi avrebbero dato l’allarme per la presenza di un ufficiale (che sarei stato io), un caporale sull’attenti mi avrebbe fatto il saluto e presentato le forze. In seguito mi avrebbero invitato a pagargli da bere se volevo evitare punizioni, per l’incomodo che m’avrebbero accusato di aver loro arrecato. Ma il destino volle che quando fui… “colonnello” sopraggiunse il Colonnello, quello vero; loro i dritti se la svignarono, egli fermatosi davanti a me mi svegliò con un calcetto facendomi scattare sull’attenti. Salutai. Mi vidi la foglia d’ontano e quella di felce ma nulla sapevo del resto. Ma lo seppi. Mi disse di porgergli il cappello ne estrasse la penna e piegatala a forma di ciambella me l’avvicinò al “muso” (come lo chiamò lui aggiungendovi, brutto) ne mollò


una delle estremità che venne a colpirmi su naso facendomi indietreggiare e socchiudere gli occhi. “Fermo sull’attenti, asino” mi gridò. Sì, aveva proprio detto asino. Se lo fossi stato davvero gli avrei restituito quel calcio! Chiamò il caporale. “Segnali due giorni di consegna – disse- così imparerà a beffarsi dei superiori”. Tentai di dirgli che non ne avevo colpa. Mi interruppe. Con voce paragonabile al ruggito di un leone “Fai silenzio – mi disse – se no ti sparo in bocca” “Segnagliene tre” ordinò al caporale e rivolgendosi a me: “Così va bene?” “Signorsì”. Se ne andò, brontolando. Tirai un lungo sospiro e andai di fretta dietro un cespuglio a fare la ….e si capisce che cosa! Per poco non m’era scappata davanti a quel grand’uomo che così bene sapeva distinguersi da un semplice soldato. Chissà se vivrà ancora. E se sì, salterà sempre in alto come allora?.... Malefica superbia, debolezza dei forti e dei potenti, ingiustamente crei l’ineguaglianza tra simili….Come al solito, poco prima di mezzogiorno, nel cortile della caserma il furiere distribuiva la posta. Quel giorno c’era un biglietto anche per me. Mi giungeva da una ragazza di un paese vicino. Ci eravamo conosciuti da poco, ma c’era tra noi una grande amicizia. O forse, qualcosa in più dell’amicizia? Mi fissava appuntamento per l’indomani pomeriggio. Lei sarebbe andata nel bosco a pascolare le pecore, se io fossi andato a funghi potevamo passare un’ora insieme. Mannaggia alla consegna! Ora non ci voleva. Più tardi all’adunata dei consegnati, mi presentai. Era di servizio il mio caporale. Bravo ragazzo, pareva

anche dispiaciuto per la mia punizione. Che fosse stato implicato nella faccenda dello scherzo? Questo non s’aveva da sapere, comunque, mi disse che se avessi voluto uscire me l’avrebbe concesso. “Per questa sera non m’importa un gran ché – gli dissi – piuttosto domani poiché è domenica se mi lasci in libertà mi fai un favore”. Ci pensò un attimo. “Beh, vada per domani, eventualmente troverò modo per giustificare la tua assenza, però non farti vedere in giro mi raccomando” “ Stai tranquillo” “ E se dovesse accadere?” “ Dirò che sono scappato, accada ciò che accada ma tu non ne avrai noie”. Annuì con un cenno del capo. L’indomani uscii. Guardingo dall’esser visto raggiunsi al più presto il posto di fermata di un trenino che partiva dalla città ove era il distretto, passava per di lì ed andava al paese della ragazza e viceversa. Salii su un vagoncino, come speravo non c’erano altri militari. Di solito questi approfittavano del trenino al suo ritorno per recarsi in città dove c’erano cinema o che so io. Allora c’erano ancora i … “che so io”. Ormai non correvo più rischi, era quasi certo. Unico timore era quello di trovare qualche mio superiore nel bosco, alla ricerca di “funghi” come stavo andando io, ma ciò non accadde. Dopo tutto ebbi un poco di fortuna nel bosco non trovai altri che Vanda, la ragazza che mi aveva fissato l’appuntamento. Stava seduta sopra un sasso con un libro tra le mani le pecore intorno brucavano l’erba, smisero per un attimo vedendo me e ripresero a brucare quando capirono che ero amico della loro padroncina. “ Che stai leggendo?” chiesi. Mi indicò il titolo in copertina “I Promessi 81


Sposi” intanto chiese a me se avessi ricevuto il biglietto “Altrimenti non sarei qui” dopo un cenno affermativo. “Mi fa piacere che tu sia venuto ma!..” con questo ma, troncò la frase abbassando tristemente il capo. Le sollevai la fronte per vederla in viso, piangeva! “Che cos’hai?” chiesi stupito. “Vedi: tu sei qui per me e io non posso rimanere devo andare a pascolare nel campo! Mi dispiace averti deluso” “ E chi ti fa andare nel campo?” “ Me l’ha detto la mamma, la c’è papà a lavorare ed è solo, potrei aiutarlo o almeno tenergli compagnia” “E se tu non andassi ti sgriderebbe la mamma?” “Non lo so” “ Non conosci tua mamma?” “ Per piccole mancanze mi consiglia senza sgridare, grossi dispiaceri non gliene ho mai procurati” “ E questo ti sembrerebbe cosa grave?” “Non mi sento di farlo”. Mi piaceva sempre di più, oltre ad essere bella era anche buona, umile e sincera. Sarei rimasto volentieri con lei non un’ora o qualche serata soltanto, ma mi sarebbe piaciuto averla per compagna tutta la vita. Radunò le pecore in un piccolo gregge e le avviò di malavoglia verso il campo. Anziché salutarmi mi disse:”Potresti venire anche tu, in quanto mio padre di già lo conosci”. Lo conoscevo infatti, ero stato altre volte ad aiutarlo nei lavori di campagna, per questo avevo avuto modo di incontrarmi con Vanda. Accettai di andare con lei. Il campo era a sinistra del bosco guardando a monte, alla cima, un po’ in alto, sorgeva la casa di Vanda ed un in piccolo appezzamento in fondo, adibito a prato, suo padre stava ammucchiando fieno. Andai da lui, ci scambiammo qualche parola e mi fermai ad aiutarlo. In meno di un’ora il lavoro fu terminato. Gli chiesi se voleva 82

portare a casa il fieno. L’avrei aiutato: “No – disse – di domenica mi dispiace attaccare i buoi, inoltre già che mi rimane il tempo darei volentieri una bagnatina all’orto. Piuttosto se riesco a prepararne un altro po’ verso metà settimana farò richiesta al tuo tenente per ottenerti il permesso, come ho già fatto altre volte, e se vieni trasporteremo questo e quell’altro”. Acconsentii felice, mi si presentava l’occasione di passare un altro bel pomeriggio. Fece una scappatina a casa e poco dopo tornò con un secchio e l’innaffiatoio. Aveva anche un pacchettino per me, conteneva grissini e zucchero a cubetti. Me lo diede, disse a Vanda di non tornare nel bosco, di non andare a casa troppo tardi (questo glielo aveva suggerito sua moglie, scommetterei una sciatica) e se ne andò nell’orto. Finalmente potevo godermi la compagnia di Vanda. Andammo a sederci sull’erba sotto la gronda in un albero. Lei leggeva ad alta voce sul suo libro, qualche brano riguardante gli amori di Renzo e Lucia e li commentavamo. Di tanto in tanto sua madre la chiamava dal fondo dell’aia e lei seccata doveva spostarsi da sotto le fronde per farsi vedere, poi tornava a sedersi accanto a me. Una volta anziché sedersi si fermo dritta di fronte molto vicino. Io la osservavo immobile. Semmai qualcosa in me s’andava muovendo questo era nascosto! Mi chiese se fossi timido. Un po’ timido lo ero davvero. Ma il suo atteggiamento metteva coraggio. M’azzardai! Me la presi a sedere sulle ginocchia. Per un poco si ostinò alla riservatezza, poi si abbandonò afflosciata tra le mie braccia. A questo punto se fossi capace a descrivere ciò che provai in me potrei dire le cose più


belle. Fino allora avevo sempre creduto che la felicità fosse solo dei ricchi ma in quel momento mi sentivo felice sicuramente alla pari del più ricco del mondo. Ci stringevamo le mani guardandoci negli occhi. Soltanto questo. Non avevamo ancora imparato a rompere l’incantesimo che rapisce in quegli attimi. Non parlavamo, ma ci capivamo lo stesso. Quelle strette di mano, i nostri sguardi, dicevano amore, affetto, con più sincerità che non a volte la lingua, e i battiti dei nostri cuori manifestavano i desiderio di ognuno di noi: quello di un amore più intimo. Non so quanto restammo così uniti, comunque non molto, poi sua madre la chiamò per l’ultima volta dicendole di portare a casa le pecore. Come mi dispiacque! “Ci rivedremo a metà settimana – disse Vanda – e ci racconteremo i nostri sogni che faremo stanotte”. S’avviò verso casa, io la guardavo. S’allontanava sempre di più. Mi fece ancora un cenno di saluto poi prese la via del bosco e scomparse dietro un folto di cespugli. Non dovevo rivederla più. Due giorni dopo, un lungo treno carico di soldati partiva da una stazione là vicina: Eravamo noi. Dove ci avrebbero portati? Non lo sapevamo. Eravamo come le bestie che quando le trasportano non sanno se andranno in una stalla migliore oppure al macello. Anche i vagoni sui quali marciavamo erano gli stessi che venivano usati a trasportare bestiame, nemmeno il giaciglio era stato cambiato, la paglia era fradicia d’urina ed intrisa di sterchi di mulo e di cavallo. Ci avevano sprangati dentro per evitare eventuali evasioni. Quando ci fecero uscire ci trovammo tra le alte e

gigantesche montagne del Brennero: le dolomiti. Il pomeriggio di quel giorno avrei dovuto recarmi da Vanda. Non era più possibile, parecchie centinaia di chilometri mi separavano da lei. Il motivo per cui ci avevano portati là si seppe poi ma per intanto si ignorava. Forse per farci vedere quelle enormi masse rocciose maestosamente erette verso il cielo? Certamente no. Piuttosto c’era da temere che la tragica battaglia della precedente guerra potesse ripetersi ed in tal caso, questa volta, i combattenti saremmo stati noi. Non erano ancora svanite, per così dire, le chiazze di sangue ivi versato fors’anche dal padre di alcuni fra noi e già si doveva versarne dell’altro? Nel modo in cui si svolgevano le cose non era da escludersi: colonne d’autocarri e carri armati giungevano dalla Germania. Alcuni si fermavano là, lungo la valle, altri proseguivano verso il centro dell’Italia. Noi avevamo l’ordine di piazzare i nostri pezzi d’artiglieria puntati su un tratto del loro percorso e restare in attesa di altri ordini. Era l’ora in cui l’Italia faceva ….., di coloro che la volevano libera e coloro che la tenevano schiava, da una ventina di anni. Questa scelta voleva dire: basta fascismo! Infatti il duce si dimetteva da capo del governo. Qui fu l’intervento della Germania: dispose un fronte armato nella zona del Brennero e sferrò l’offensiva contro di noi. Per ventiquattro ore di seguito spararono sulle nostre postazioni….e i nostri pezzi rimasero muti. Attendevamo ordini che non sarebbero giunti mai: le sedi di comando erano già state occupate dai tedeschi. Una situazione così non poteva e non doveva durare. Fu il nostro tenente a prendere una 83


decisione “Levate gli otturatori dai pezzi – ci disse – sotterrateli. Fatto questo ognuno può andarsene per proprio conto…e buona fortuna”. Ci lasciò e di lui non seppi più nulla. Noi (eravamo in cinque) tentammo la fuga in montagna, ma invano. L’unica via possibile tra le rocce veniva mitragliata ininterrottamente. Che fare? Restare là senza viveri, sotto la pioggia di bombe e di proiettili non conveniva! Alzammo una pezza bianca sulla punta dell’alpenstock perché non ci sparassero e scendemmo a valle. Ci avvicinammo all’Adige. Il fruscio delle sue acque ricordava i racconti di coloro che durante l’altra guerra erano stati catturati dagli Austriaci. Passammo il ponte aldilà, ci attendevano i tedeschi. Ma il primo ad incontrare fu il nostro colonnello: “Tirate giù quella bandiera bianca – ci disse – purtroppo lo sappiamo. E là posate le armi”. Ce n’era già un mucchio! D’ogni sorta. Buttammo moschetto, giberne, e alpenstock. I tedeschi ci fecero cenno di metterci in fila con altri che erano già là: più di un migliaio. La un autoblindo posto di fronte a noi, una cinepresa girava un film, ora puntata su di noi ora verso quelle rocce, là dove con ritmo costante scoppiavano bombe e forse qualche nostro compagno rimasto ferito gemeva. Là un altro autoblindo, una mitragliatrice a quattro canne oscillava orizzontalmente tenendoci tutti sottotiro e pronta a sparare. Era sera, il sole volgeva al tramonto. Lo guardai a lungo pensando a ciò che mi aveva detto la mamma. Anche lei lo stava guardando, ne ero certo, ma venne il tramonto e quel tenue raggio di luce disparve, sarebbe scesa la notte. Prevedevo una notte buia, anche il domani mi si 84

presentava buio, peggio della notte. L’atto di dover lasciare la patria: il paese dove si è nati, cresciuti, e lo si ha imparato ad amare è cosa dolorosa sempre, ma quando vieni rubato e vieni portato via..! Piange il cuore. Ci portarono in Germania nel lager di Krems. Per ciò che sarebbe accaduto poi… Hitler chiedeva perdono a Dio. Carlo Taretto


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Campagne d’Africa

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“Attendevamo ordini che non sarebbero giunti mai: le sedi di comando erano giĂ state occupate dai tedeschi

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nell’artiglieria alpina, 4° Reggimento della Divisione Cuneense. Destinato a Cuneo per l’addestramento, qui feci conoscenza del sottotenente medico Giovanni Antonio Aimo per il quale ho nutrito grande stima e riconoscenza per le sue eccezionali qualità di bontà e competenza e che alla fine della guerra aveva raggiunto il grado di maggiore medico.

Mi chiamo Giuseppe Negro, fu Carlo e fu Serafina Moschetti. Sono nato a Levice, frazione Santa Lucia, cascina Pianpicollo, il 29 agosto 1921, dove tuttora sono residente. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale sono stato chiamato alle armi il 9 gennaio 1941 dal distretto di Mondovì e arruolato 90

Da Cuneo fummo trasferiti a Bolzano e mai avrei immaginato che per quei valichi alpini sarebbero passate tante tradotte militari per l’infelice campagna di Russia e in seguito per le dolorose prigionie in Germania. Noi invece, con altri reparti alpini fummo trasferiti in Corsica, dove si pensava sarebbero sbarcati gli alleati e, successivamente, in Sardegna dove gli americani sarebbero poi arrivati pacificamente. Noi in Sardegna siamo giunti traghettando le Bocche di Bonifacio, lasciando a Oriente l’isola di Maddalena e Caprera, dove è sepolto Garibaldi. Proseguimmo per la costa nord occidentale per arrivare a Tempio Pausania, dove eravamo alloggiati in una chiesa sconsacrata. Di lassù potevamo scrutare il mare in lontananza. Durante la nostra sosta fummo testimoni di una eccezionale burrasca, cessata la quale mi apparve un enorme pesce che, trasportato dalle forti onde, era


finito imprigionato tra gli spuntoni rocciosi affioranti dalle acque ormai calme. Il pesce era ancora vivo ma agonizzante per la rottura di una pinna. Il generale mi disse: “Negro, l’ha trovato lei, cosa ne vuole fare?” Ed io risposi: “E’ per tutti!” Fu una festa: eravamo molto affamati, in guerra non si trovava da mangiare. Lascio a voi immaginare i preparativi per l’assalto all’enorme mostro marino di cui non conoscevamo la specie. Ci attrezzammo con robuste corde, asce, coltelli. Fu un’operazione più impegnativa che issare i nostri cannoni in montagna! Quando i primi pezzi furono disponibili i nostri cuochi ci offrirono una scorpacciata di pesce fresco. E ce ne furono disponibili per diversi giorni per compensarci dei molti digiuni precedenti. Avendo saputo che nei pressi c’era una salina, andammo a prendere sale in quantità; da una segheria ricavammo materiale per confezionare casse dove mettere i resti del pesce in salamoia per i giorni futuri. Intanto i nostri superiori avevano accertato che si trattava di un capodoglio assai giovane perché il suo scheletro era lungo “soltanto” 8 metri mentre l’adulto può arrivare anche a 20 metri. Intanto la guerra dava segnali di una prossima conclusione. Noi raggiungemmo Cagliari, dove venimmo imbarcati per Napoli, quindi trasferiti in Puglia,

dove erano già arrivate le truppe alleate e ci occuparono a preparare i lanci di materiale per i nostri combattenti impegnati nella Resistenza. Le nostre ultime tappe furono le città della Toscana e così lentamente ci avvicinammo al Nord e quindi ai nostri paesi. Io arrivai a Levice il 25 agosto 1945 (la guerra era finita ufficialmente l’8 maggio) e non so esprimere i sentimenti che provai nel riabbracciare i miei famigliari e nel rivedere gli amici, i parenti e il mio paese che ho sempre portato nel cuore. Ho salvato la pelle e ringrazio sempre il Signore per avermi protetto. (Negro Giuseppe)

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Il servizio militare

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La scuola A scuola si andava a piedi e si restava fino alle quattro del pomeriggio. Eravamo 70 alunni, non siamo stati tutti in una foto sola, hanno dovuto farne due. Le classi erano solo tre: 1°, 2°, 3° elementare. Le scuole erano solo a Levice; solo dopo il 1920 sono state costruite quelle di Ponte Levice. (Fenoglio Fedele)

A scuola si andava con le zoccole e ognuno aveva un grembiulino che “partiva dall’età che andavi a scuola e serviva fin che avevi finito, e quando eri cresciuto ti arrivava solo più alla pancia e le maniche erano dai gomiti”. Il primo dei figli andava a scuola solo quando pioveva o nevicava, altrimenti stava a casa ad aiutare o in pastura. (Gallo Ernesto)

I bambini andavano a scuola dai sei ai dieci anni. Si facevano infatti solo le elementari, dalla prima alla quarta. Poi andavano al pascolo e “a servizio”, cioè ad aiutare chi ne aveva bisogno in campagna o, per le ragazze, in casa. Si viveva di pastorizia, di campagna e ci si aggiustava come si poteva. A diciannove anni i ragazzi partivano per il militare che durava due anni. Chi è partito durante il periodo della guerra ne ha fatti di più. 96

A scuola si andava a piedi, noi bambini da soli, con gli zoccoli fatti con la suola di legno e la pelle che copriva i piedi; non esistevano ancora gli stivali, sono arrivati in commercio solo dopo la guerra. Quando nevicava ci bagnavamo tutti, a volte giocavamo anche a tirarci la neve. Ogni bambino portava un pezzo di legno per far fuoco perché non esistevano termosifoni ma solo una piccola stufa. La cartella era una borsa di stoffa, quella dei più ricchi era di cartone; dentro ci mettevano due quaderni, uno a righe ed uno a quadretti, un libro chiamato sillabario che serviva per la lettura, per l’italiano e per matematica, una penna che si bagnava nel calamaio ed un pezzo di pane per la merenda. Il pennino era delicato, se cadeva si rompeva e non andava più bene per scrivere. I genitori si arrabbiavano perché era caro e non c’erano i soldi per comprarne tanti. Le matite esistevano ma costavano troppo ed io non l’avevo anche se mi sarebbe piaciuto molto averla perché amavo disegnare. Le classi meno numerose erano composte da venti bambini con uno solo maestro. Nella mia classe eravamo trentadue, alcuni erano ripetenti, e c’era una sola maestra. Eravamo divisi in due turni: la prima e la seconda andavano a scuola al pomeriggio e la quarta al mattino. Il primo giorno di scuola ho toccato l’inchiostro con le mani e poi mi sono macchiato tutto perché non sapevo come bisognasse fare: la maestra mi sgridò e


mi disse: “sei un asino ed un imbecille”. Quando sono arrivato a casa l’ho raccontato ai miei genitori che erano nei campi con i buoi. Io non sapevo che cosa significasse ciò che aveva detto la maestra perché parlavo solo il piemontese e non capivo l’italiano. Mio papà però si arrabbiò molto e mi diede due frustate con un ramo. Non ho mai più

raccontato niente della scuola a mio papà, soltanto a mia mamma che ogni tanto mi aiutava per quel che era capace. La quinta elementare è stata introdotta nel 1940 e serviva per impiegarsi sotto lo stato; io l’ho fatta serale ed ho superato l’esame finale. (Pietro Francone)

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“Il primo dei figli andava a scuola solo quando pioveva o nevicava, altrimenti stava a casa ad aiutare o in pastura 98

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13 aprile 1955

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1949-1950

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Ponte Levice, IV-V elementare, 1950-1951

Ponte Levice 1953-1954

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1958-1959

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“Io non sapevo che cosa significasse ciò che aveva detto la maestra perché parlavo solo il piemontese e non capivo l’italiano 104


novembre 1955 luglio 1964

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Momenti di festa

Nonostante la povertà di tempo e di mezzi anche una volta c’erano momenti felici: ci si accontentava anche di poco, bastava un organetto o un giradischi ed era subito grande festa. I giovani si ritrovavano la sera soprattutto d’inverno nei granai a fare quattro salti in compagnia. Sempre in inverno, perché le sere erano molto lunghe, la gente si recava a casa dei vicini a “vegliare” magari sfogliando la meliga e mangiando le “bollite” o “frue” e raccontando ai bambini storie di “masche”. Le fiere erano anche un momento felice soprattutto per i bambini, ogni paese aveva la propria fiera; Levice ne aveva due, una in alto e l’altra a Ponte. (Sole Pietro)

Ci si accontentava di poco, la domenica a giocare al “balon a pugn” e alla sera alle carte. Le fiere, sfogliare la meliga era più un lavoro, le veglie le sere d’inverno. Avevamo la fisarmonica, era uno che veniva da Scorrone. (Fenoglio Fedele, 1911)

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Si andava a vegliare e ci si divertiva con poco. Si facevano cuocere le castagne e si cantava e si raccontavano delle storie; si giocava e con poco la compagnia si divertiva. Si giocava anche alle carte, a briscola e a “bezzecheign”: lo scopo non era quello di giocare i soldi ma di fare le penitenze. Era una cosa bella!Era poco ma quel poco ci “contentava” perché non si poteva andare a vegliare negli altri paesi, ognuno stava nella sua borgata. Era bello perché tutti erano uniti, c’era più allegria e più sincerità, c’era più affetto anche tra di noi. (Gallo Ernesto, 1922)

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Carnevale a Cortemilia, settembre 1952

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Quando si uccideva il maiale era la festa più bella dell’anno. Quando c’era Carnevale gli anziani giravano nelle famiglie e si mangiavano le Raviole tutti insieme intorno al tavolo nello stesso grande piatto, una forchetta per uno e via, poi qualcuno suonava la fisarmonica alla sua maniera e si ballava tutti insieme, bambini con gli anziani, era una festa per tutti in famiglia. Poi più avanti è arrivato il progresso, i tempi dopo la guerra sono cambiati, sono arrivate le prime macchine, i primi trattori e tutto pian piano è cambiato. I momenti di ritrovo erano tutti nelle borgate o in paese, al massimo si andava fino a Cortemilia o a Monesiglio ma bisognava andare a piedi perché non c’erano le macchine. La prima macchina che ho visto era di un dottore che abitava a Ponte. Faceva persino paura a vederla dal momento che non eravamo abituati. Come mezzo di trasporto c’era qualche cavallo, alcune famiglie avevano anche il biroccio. Quando ho visto la prima macchina avevo 10 o 11 anni. La prima radio l’ho sentita dove adesso c’è la sede degli alpini: io avevo paura, sentivo parlare dentro quell’affare. Avevo 7 o 8 anni, avevo paura perché mi dicevano che c’erano le masche. Mi sembrava di vederle li dentro. La prima televisione che ho visto sarà stata verso il 1950. So che c’era un parroco a Levice che aveva fatto un gruppo e aveva comperato una televisione: l’hanno messa in piazza e alla sera andavamo a vederla lì. Allora era divertente! (Francone Pietro, 1922)

Il gioco delle bocce 110


Inaugurazione della chiesa di Ponte Levice, 10 agosto 1954

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Corsa a Levice

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La Prima Comunione e la Cresima

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La leva

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Leva 1939

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Leva 1940

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Leva 1941


Leva 1942

Leva 1944

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Leva 1945

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Leva 1947

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Il matrimonio

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Le prime moto e macchine I momenti di ritrovo erano tutti nelle borgate o in paese, al massimo si andava fino a Cortemilia o a Monesiglio ma bisognava andare a piedi perché non c’erano le macchine. La prima macchina che ho visto era di un dottore che abitava a Ponte Levice. Faceva persino paura a vederla dal momento che non eravamo abituati. Come mezzo di trasporto c’era qualche cavallo, alcune famiglie avevano anche il biroccio. Quando ho visto la prima macchina avevo 10 o 11 anni. La prima radio l’ho sentita dove adesso c’è la sede degli alpini: io avevo paura, sentivo parlare dentro quell’affare. Avevo 7 o 8 anni, avevo paura perché mi dicevano che c’erano le “masche”. Mi sembrava di vederle li dentro. La prima televisione che ho visto sarà stata verso il 1950. So che c’era un parroco a Levice che aveva fatto un gruppo e aveva comperato una televisione: l’hanno messa in piazza e alla sera andavamo a vederla lì. Allora era divertente! (Francone Pietro, 1922) Ponte Levice, Luglio 1954

“Quando ho visto la prima macchina avevo

10 o 11 anni

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Ponte Levice, Casa Albergo Corona Grossa, 1 maggio 1954

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3 maggio 1958

4 agosto 1965

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“Giovani Borghi” è un progetto dell’Associazione Borghi Autentici d’Italia, vincitrice del bando denominato “Azioni in favore dei giovani” come da Decreto del Responsabile della Struttura di missione denominata “Dipartimento della Gioventù” n° 6/2009 del 03/06/2009. La convenzione fra il Dipartimento della Gioventù della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Borghi Autentici d’Italia, firmata il 21 giugno 2010, ha ufficializzato l’avvio del lavoro. Per i nostri Borghi Autentici si rivela indispensabile incoraggiare la permanenza dei giovani sul territorio aiutandoli a responsabilizzarsi e a partecipare attivamente alla vita pubblica e civile e favorendo lo scambio intergenerazionale e interculturale, senza necessariamente dovere abbandonare il luogo di origine. Questo progetto ha la finalità di rafforzare la coscienza della propria identità positiva intesa come primo antidoto contro l’abbandono dei borghi e contro la fine di una storia estremamente ricca nella diversità.

Comune di Levice

Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Gioventù Progetti di azioni in favore dei giovani ai sensi dell’art. 4 del D.M. 21 giugno 2007

Progetto Giovani Borghi



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