Città di Valdagno – Assessorato alla Cultura Con il patrocinio della Provincia di Vicenza e della Comunità Montana Agno-Chiampo VALDAGNESI IN GUERRA 1940-1945 Valdagno – Villa Valle 23 aprile – 22 maggio 2005 Ideazione e organizzazione Maurizio Dal Lago, Alessandro Massignani, Franco Rasia, Giorgio Trivelli Coordinamento generale Franco Rasia Collegamento con le associazioni e gli enti Gianni L. Spagnolo Progetto espositivo Roberto Besco Progetto Grafico del catalogo Fabio Zoratti Traduzioni dal tedesco Flavia Paoli Disegni e collage Giuliano Piccininno Riproduzioni sonore Alberto Trivelli Riproduzioni fotografiche Franco Rasia Materiali in esposizione forniti da: Museo Storico Navale – Venezia Museo del Risorgimento e della Resistenza – Vicenza Museo Storico Aeroporto Militare «Tommaso Dal Molin» – Vicenza Museo delle Forze Armate di Montecchio Maggiore Automezzi: Giancarlo Marin Divise: Foto d’epoca:
Dario Balestro, Enzo Brunialti, Massimo Mantovan, Gian Luigi Massignan, Franco Perin Lina Bocchese, Maurizio Dal Lago, Giuliano Fin, Fortunato Fin, Beniamino Maddalena, Aldo Magnani, Alessandro Marchesini, Giannantonio Menato, Bruno Pavan, Bruno Rasia, Pietro Sandri, Manlio Soldà, Vittorio Sperman, Igino Spiller, Sergio Tamiozzo, Silvio Trentin, Elsa Visonà, Luciana Zordan. Altri materiali: Giorgio Barinelli, Pietro Benetti, Pietro Caile, Alfonso Comin, Pietro Dal Chele, Giuliano Fin, Giovanni Fongaro, Domenica Marchi, Massimo Mantovan, Vittorio Margoni, Gian Luigi Massignan, Giampietro Massignani, Franco Perin, Storti Zoilo, Quirino Traforti, Giorgio Trivelli, Giuseppe Versolato Con la collaborazione di: Associazione Nazionale Alpini – Sezione di Valdagno Associazioni Combattentistiche e d’Arma – Valdagno Comune di Valdagno – Ufficio Cultura e Ufficio Servizi Demografici Comunità Montana Agno Chiampo – Ufficio Tecnico Con il contributo di: Lions Club Valdagno
In copertina 1944. Ragazzi di Valdagno giocano con armi tedesche nei pressi di Santa Maria di Panisacco.
1940 1945 Giorgio Trivelli Franco Rasia Michael Jung Giancarlo Zorzanello Maurizio Dal Lago
Comune di Valdagno
Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica Italiana, definì la Storia «un’azione di ricostruzione lenta dei fatti che si va arricchendo di giorno in giorno di nuove testimonianze» ( 25 aprile 2002). È con questo spirito che l’Amministrazione del comune di Valdagno, in occasione del 60^ anniversario della Liberazione, presenta ai concittadini l’opera «Valdagnesi in guerra 1940-1945»: un’occasione per rivisitare con spirito critico e rigore documentario una pagina difficile, tormentata, controversa e complessa della nostra storia locale, che coinvolse, direttamente o indirettamente, tutti gli abitanti della nostra città. La rigorosa ricostruzione storica di tragici eventi, arricchita di numerose ed inedite testimonianze, probabilmente facilitata dall’ormai rilevante distacco cronologico che ci separa dagli stessi, nulla toglie al profondo coinvolgimento emotivo che ci fa condividere le vicende vissute da parenti, amici e conoscenti, comprendendone gli stati d’animo, le ansie e paure, gli ideali, lo spirito di sacrificio, il senso del dovere, la volontà di riconquistare dignità e libertà personali e collettive. Il valore inestimabile della nostra democrazia nasce anche da queste prove e assume il senso di una conquista da confermare ogni giorno operando, pur nella diversità delle idee e delle posizioni politiche, concordi nel perseguire il bene della nostra comunità civile. La storia è sempre un’eredità consegnata alle nuove generazioni: questa storia lo sia con un riaffermato spirito di riconciliazione e nella condivisione di comuni ideali di giustizia e di pace.
Alberto Neri Sindaco
Alessandro Marchesini Assessore alla Cultura
VALDAGNO, I VALDAGNESI E LA GUERRA Giorgio Trivelli e Franco Rasia 1940 Il celebre discorso con il quale il 10 giugno del 1940 Mussolini annunciava l’entrata dell’Italia nel nuovo conflitto mondiale non colse di sorpresa quasi nessuno, né a Valdagno né altrove. Ancora in gennaio il parroco di Castelvecchio don Giacomo Tonin aveva lasciato intendere, nelle pagine della sua Cronaca, di ritenere la guerra ormai imminente, mentre già da qualche tempo la stampa - tanto locale quanto nazionale - riportava con toni trionfalistici resoconti pressoché quotidiani delle vittorie militari che i tedeschi andavano conseguendo sui vari fronti dov’erano in corso i combattimenti. E nelle città come nei piccoli centri la gente assisteva a manifestazioni patriottiche nelle quali la voce del regime non mancava mai di celebrare, enfatizzandone i miti, l’antico spirito guerriero della stirpe italica. Quel lunedì pomeriggio, mentre gli altoparlanti diffondevano attraverso i microfoni dell’Eiar le bellicose parole del duce, in piazza Dante a Valdagno si erano radunati in molti, e con ogni probabilità le reazioni della folla al roboante annuncio di guerra non furono molto dissimili da quelle che si registrarono in mille altre piazze d’Italia. Ma qual era, più in generale, il clima che si respirava in quel periodo nella città laniera? La popolazione temeva soprattutto, della guerra, quello che essa avrebbe poi effettivamente comportato di più tragico per le famiglie e per le cose care che ciascuno possedeva: la fame e gli stenti, i bombardamenti aerei, il pericolo di perdere la propria casa e, per coloro che erano destinati a partire, il rischio di lasciare la vita al fronte; e non vi è dubbio, purtroppo, che alla fine del conflitto la triste conta dei caduti civili e militari, insieme al bilancio dei danni subiti, avrebbe dato ragione alle più pessimistiche di quelle previsioni. Segnali inequivocabili dei tempi duri che sarebbero presto arrivati non mancavano. Il 19 giugno le autorità confermarono le disposizioni già impartite alla popolazione in caso di allarme aereo, mentre nei seminterrati delle abitazioni e degli edifici pubblici si ricavavano rifugi secondo le direttive contenute nei manuali diffusi dall’Unpa, l’Unione nazionale di protezione antiaerea. Il giorno 22 si tennero importanti esercitazioni di tiro a segno presso il poligono di Valdagno, proprio quando giungeva notizia di uno dei primi ferimenti di soldati valdagnesi (Luigi Dal Lago della contrada Lago di Castelvecchio) sul fronte italo-francese. Nel corso dell’estate, poi, in alcune delle consuete sagre tradizionali che animavano la vita delle contrade, per la prima volta dopo molti anni non si svolsero né lotterie né pesche di beneficenza, a causa della penuria di denaro e delle preoccupazioni che rendevano tutti più cauti e parsimoniosi. Da qualche tempo, in effetti, la situazione economica nazionale si era andata rapidamente deteriorando, per un paese che del resto già si trovava alle prese con campagne di conquista – come quelle che erano in corso in Albania e nell’Africa orientale – oltremodo gravose sotto il profilo finanziario. In maggio fu introdotta un’imposta straordinaria sugli utili di congiuntura, rispetto alla quale gli industriali italiani, anche quelli più direttamente interessati alle ordinazioni militari, reagirono vivacemente dimostrandosi, così, assai poco sensibili al carattere «etico» della nuova tassa. A Valdagno la produzione industriale dei lanifici Marzotto, che nel 1939 aveva subito un drastico calo, mostrò di incontrare ulteriori e crescenti difficoltà nel corso del primo
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anno di guerra, quando i pur consistenti ordinativi di stoffa militare arrivati dal governo e destinati alle forze armate cominciarono a rappresentare non solo una quota altamente significativa dell’intera attività manifatturiera valdagnese, ma anche l’unica vera commessa che avesse ormai una qualche effettiva rilevanza economica. Lo sviluppo urbanistico della città, che negli ultimi 15-20 anni era cresciuta vistosamente soprattutto grazie alle imponenti realizzazioni della «città sociale» nella zona di Oltreagno, conobbe un brusco arresto, anche se proprio al 1940 risalgono alcuni importanti progetti messi a punto dall’architetto Francesco Bonfanti su incarico di Gaetano Marzotto, tra i quali spiccava la nuova dimora residenziale nel parco di Villa Valle-Orsini Marzotto. Ben presto toccò anche ai valdagnesi fronteggiare il grave problema di reperire i generi alimentari di prima necessità, i quali avevano già cominciato ovunque a scarseggiare drammaticamente. A ciò si aggiungeva l’obbligo di consegnare «alla patria in guerra» tutti i recipienti in rame e le cancellate in ferro, al punto che Marzotto dovette affidare allo stesso Bonfanti un apposito studio per sostituire le recinzioni in ferro di tutti i parchi e giardini delle ville da poco realizzate. A dicembre, dopo zucchero e caffè, vennero razionati anche la farina, l’olio, il riso e la pasta, che divennero per molti valdagnesi dei generi praticamente introvabili. Il pane dovette essere prodotto per almeno un quarto con farina di sorgo. A fiaccare ulteriormente il morale, insinuando nell’animo della popolazione civile una crescente paura dei bombardamenti, contribuiva il rombo sempre più frequente degli aerei in volo. Dopo che un bombardiere trimotore era precipitato nei pressi di Cerealto ai confini con Altissimo (26 settembre), causando la morte dei sei aviatori italiani che erano a bordo e i cui funerali furono celebrati solennemente a Valdagno il giorno seguente, alla fine di ottobre un apparecchio inglese sorvolò di notte la zona di Valdagno lanciando diverse bombe, che tuttavia non provocarono né feriti né danni materiali. Nel frattempo, la guerra contro la Grecia che era iniziata il 28 ottobre portava i primi lutti, i primi dispersi e le prime medaglie. L’8 novembre 1940 cadeva Osvaldo Motterle, alpino ventenne della Julia, decorato di medaglia di bronzo. Il 14 dicembre veniva dato per disperso l’alpino Guido Pavan durante un’azione sul Topojanit. Un altro alpino di vent’anni, Tullio Soldà, cadeva il 23 dicembre sulle montagne innevate dell’Albania Sul finire dell’anno l’inverno si annunciò rigido e nevoso, aggravando in tal modo le già precarie condizioni di vita dovute alla penuria di alimenti. Con appositi provvedimenti le autorità ordinarono la sorveglianza dei mulini che macinavano i cereali. Alcuni prodotti o materiali, come il cuoio che serviva a fabbricare le suole delle scarpe, erano praticamente scomparsi dalla circolazione, così come in giro per le strade si vedevano sempre meno gatti… Di un certo pessimismo montante che si andava diffondendo tra la gente dovette accorgersi lo stesso Gaetano Marzotto. Nell’incontro che l’imprenditore valdagnese ebbe con le sue maestranze riunite per lo scambio degli auguri natalizi, egli improvvisò un discorso nel quale invitava tutti, con toni di inconsueta veemenza, a confidare nella vittoria finale e a rigettare ogni forma di disfattismo, segno evidente che dopo pochi mesi di guerra l’opinione corrente, ancorché impossibilitata a manifestarlo apertamente, già non mostrava di nutrire particolari entusiasmi nei confronti dell’avventura bellica intrapresa dall’Italia. L’andamento delle operazioni sullo scenario bellico internazionale portò le forze armate italiane, nel volgere di alcuni mesi, a trovarsi impegnate su quattro grandi fronti di guerra, che andavano dall’Africa orientale alla Russia, dall’Africa settentrionale ai Balcani. E fin dagli inizi del nuovo anno 1941 incominciarono a giungere sempre più frequenti le notizie di valdagnesi feriti, caduti o fatti prigionieri nelle zone di combattimento. La
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sola contrada Lago di Castelvecchio, tanto per citare un esempio, pagò in quel periodo un alto tributo di giovani vite, prima con la perdita dell’alpino Antonio Dal Lago di Angelo (8 gennaio), ucciso sul fronte greco, e poi con la morte, avvenuta in Albania il 21 marzo, di Giuseppe Zen che lasciava la moglie e una bambina in tenera età. Altre vittime della guerra furono l’alpino Pietro Beato Reniero morto sul fronte greco l’8 marzo, Beniamino Danzo di Novale morto in aprile e Pietro Disconzi, morto a Vicenza in seguito a ferite e sepolto a Castelvecchio. Riconoscimenti al valor militare venivano intanto assegnati ai valdagnesi che si distinguevano in battaglia. Dopo che in aprile l’Italia aveva occupato la Dalmazia e il Montenegro, furono decorati con medaglia d’argento il sergente maggiore Carlo Dal Conte e con medaglia di bronzo l’alpino Pietro Guiotto. Durante l’estate, dopo che il 22 giugno era iniziata la campagna contro la Russia ad opera dei tedeschi e del corpo di spedizione italiano, si andò parallelamente intensificando l’offensiva propagandistica interna, con la quale il regime fascista mirava ad esaltare, a beneficio dell’opinione pubblica appartenente ad ogni strato sociale, lo sforzo bellico nazionale. Ciò avveniva prevalentemente attraverso campagne di informazione ben orchestrate e «addomesticate», che utilizzavano con sistematica assiduità tutti gli strumenti di diffusione di massa disponibili all’epoca. Il Teatro Impero di Valdagno divenne così un puntuale riferimento per tutta la vallata, ed anche oltre, per il cui tramite gli avvenimenti in atto sui vari fronti guerra, filmati e commentati, venivano presentati con l’intento di celebrare i successi del nostro esercito e del suo potente alleato germanico. Tra luglio e agosto vi si proiettarono (in contemporanea con tutti i principali cinema e teatri d’Italia) alcuni documentari realizzati dall’Istituto Luce, come quello intitolato Guerra ai Sovieti che fu programmato il 5 agosto, dove si raccontavano i brillanti risultati ottenuti durante l’avanzata in terra sovietica nella prima settimana dopo l’inizio dell’attacco. Mentre al vertice del comune il nuovo commissario prefettizio Luigi Rossi sostituiva il podestà Renzo Simionati, la crisi alimentare si andava facendo per la popolazione civile sempre più acuta. Il sorgo fu ben presto requisito dalle autorità e i prezzi di alcuni beni, come per esempio il burro, salirono alle stelle. Col primo di agosto la razione quotidiana di pane venne fissata a due etti per persona, ma già pochi giorni più tardi era scesa a 150 grammi, mentre la razione di carne veniva ridotta ad appena 80 grammi per persona alla settimana. In settembre tutta la produzione di patate, fagioli e piselli era da considerarsi requisita a scopi bellici. A partire dal mese di ottobre anche il vestiario fu soggetto al razionamento, ma già dalla primavera precedente per un normale paio di scarpe, quando se ne trovavano, si dovevano spendere almeno duecento lire, una cifra per i più assolutamente proibitiva, per quanto ancora lontana dalle astronomiche ottomila lire che, soltanto un anno più tardi, sempre a Valdagno, sarebbe costato un paio di scarpe di cuoio! Sulla scena internazionale l’anno si chiudeva con l’attacco giapponese alla flotta americana di stanza a Pearl Harbor (7 dicembre) e la conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti, mentre le operazioni in Africa stavano prendendo per le nostre forze armate una pessima piega, con le truppe italo-tedesche in Libia costrette a ripiegare sotto i colpi dell’offensiva britannica. 1942 Il secondo inverno di guerra portò con sé un ulteriore aggravamento della situazione economica interna e, in particolare, delle condizioni alimentari in cui si trovavano le famiglie, tanto nelle città quanto nelle aree rurali del paese. La produzione dei mulini
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venne posta sotto un regime di sorveglianza ancora più stretto e continuo, con turni sia di giorno che di notte, per evitare abusi e violazioni agli ordini di razionamento. Ai primi di febbraio alcune manifestazioni di protesta che si erano avute a Valdagno contro questo nuovo giro di vite vennero duramente represse dalle autorità locali. Vi furono anche alcuni arresti tra cui quello di Romano Nizzero di Castelvecchio, il quale fu costretto a scontare otto giorni di reclusione. In quegli stessi giorni Gaetano Marzotto si incontrava con Mussolini e informava il capo del governo dell’acquisizione, da parte delle manifatture valdagnesi, di un consistente pacchetto azionario della Chatillon, annunciando così l’ingresso della più importante impresa laniera italiana nel settore delle fibre artificiali, un settore che proprio allora era avviato verso una fase di piena e rapida espansione. Ma la crisi alimentare si aggravò ancora. In marzo la razione di pane scese a cinquanta grammi per persona al giorno, mentre intanto a Valdagno sei rivendite di prodotti alimentari venivano chiuse d’autorità per dieci giorni di seguito per avere venduto viveri a clienti che erano privi della tessera annonaria. I cereali, già scarsissimi, furono controllati ancor più severamente e non di rado requisiti. La farina bianca arrivò a costare fino a venti lire al chilo e il sorgo fino a seicento lire al quintale, mentre il cosiddetto «pane tesserato» era definito «immangiabile» dai più. Entro la fine dell’anno il nuovo podestà Ettore Crosara avrebbe preso il posto del commissario prefettizio Rossi, senza però che si vedesse attenuata la drammatica scarsità di generi alimentari. Sarebbe stato infatti razionato anche il latte (un litro al giorno doveva bastare per una famiglia di cinque persone) e il prezzo dell’olio sarebbe salito fino a ottanta lire per un comune fiasco da due litri. Intanto aumentava il numero dei caduti valdagnesi nei vari teatri di guerra. Il 29 marzo, a seguito dell’affondamento della nave Galilea silurata da un sommergibile inglese nelle acque del Mediterraneo, perdeva la vita l’alpino Giuseppe Sella appartenente al battaglione Gemona della Julia. Alla sua salma, ritrovata sulle spiagge di Phanos (Corfù), venne data pietosa sepoltura ad opera di alcuni suoi stessi concittadini della divisione Acqui. Il 29 luglio, durante i combattimenti divampati nei pressi di El Tacca in Africa settentrionale, al bersagliere Giovanni Zanuso veniva assegnata la medaglia d’argento al valor militare, mentre una medaglia di bronzo era attribuita, sempre nello scenario nordafricano, al pilota d’aviazione Renato Visonà. Con l’arrivo dell’estate la propaganda di guerra ritrovò casa al Teatro Impero con la proiezione di alcuni Wochenschau, i famosi cinegiornali tedeschi, in cui si descrivevano le vittoriose imprese africane delle truppe italo-germaniche, ovviamente prima della battaglia decisiva che le avrebbe colte completamente di sorpresa ad El Alamein. Riflessi celebrativi degli eventi di guerra si ebbero a Valdagno anche quando, sul finire di agosto, la banda musicale dei Gruppi Stukas della Luftwaffe, ospite dei lanifici Marzotto, tenne un concerto per festeggiare le conquiste africane avvenute durante la fase vittoriosa della campagna guidata da Rommel. All’evento presenziarono importanti personalità politiche e militari sia germaniche che italiane. Un analogo intento propagandistico animava in quel periodo anche le cosiddette «serate marinare» che si tenevano, sempre a Valdagno e sempre su iniziativa della Marzotto, allo scopo di proiettare filmati celebrativi e di raccogliere fondi da destinare in beneficenza. L’organizzazione di queste manifestazioni si collegava probabilmente al fatto che la regia Marina rappresentava all’epoca uno dei clienti più importanti della locale industria laniera, mentre, d’altra parte, non erano pochi i valdagnesi arruolati nelle sue file. Ma le sorti del conflitto prendevano intanto una piega tutt’altro che favorevole alle forze dell’Asse. Con la nuova stagione autunnale, infatti, si registravano in Africa i gravi
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rovesci militari che avrebbero portato, tra i mesi di ottobre e novembre, all’offensiva inglese e quindi, per il nostro esercito, al disastro di El Alamein, mentre in dicembre, con lo sfondamento da parte dei russi del fronte dell’Armir e l’accerchiamento di Stalingrado, stava per essere scritto uno dei capitoli più tragici dell’intero conflitto. 1943 Le prime settimane del nuovo anno portarono nelle famiglie italiane, già in uno stato di viva trepidazione per le sorti degli uomini schierati al fronte, alcune pessime notizie che provenivano – per quanto filtrate e «ammorbidite» dalla censura del regime - dalle zone di guerra. Le truppe italo-tedesche, dopo la caduta di Tripoli, cominciavano sotto l’incalzare degli inglesi la definitiva ritirata dalle terre africane, mentre sul fronte orientale le cose andavano, se possibile, ancora peggio, dopo che l’Armata Rossa aveva scatenato la grande offensiva a tenaglia contro le forze dell’Asse. Il 26 gennaio, proprio nel giorno in cui si svolgeva la battaglia di Nikolajewka, dove gli alpini accerchiati dai russi riuscivano ad aprirsi un varco grazie al quale sarebbero sfuggiti alla terribile «sacca», la stampa locale pubblicava un appello alla popolazione vicentina affinché chiunque ne avesse la possibilità offrisse generi di conforto per gli alpini in Russia. L’iniziativa, promossa in loco dal capitano Romeo Scomparin che comandava il battaglione Valdagno del 10^ reggimento alpini in congedo, mirava in particolare a raccogliere in quantità calze, vino e sigarette, ma era evidente che la maggior parte delle famiglie si trovava ormai allo stremo in quanto a disponibilità di beni, e fu in quegli stessi giorni che un’ordinanza delle autorità impose di consegnare anche i paioli di rame che si usavano per il bucato; all’arrivo dell’estate, perfino le maniglie in ottone di tutte le porte sarebbero state soggette a requisizione, mentre i parroci sarebbero stati invitati a tener pronta la metà delle loro campane da fondere per le necessità della guerra. La crisi valutaria fece galoppare l’inflazione al punto che a anche a Valdagno le operazioni di compravendita incominciarono a farsi sulla base di scambi «merce contro merce». Ai primi di febbraio un litro di vino all’osteria costava dieci lire, mentre ce ne volevano cento per un chilo di formaggio stagionato, la stessa cifra che si spendeva per comprare un gatto (la cui uccisione era stata vietata) e poterne utilizzare le carni per mangiare e la pelle per vestiario. Un chilo di cuoio arrivò a valere addirittura trecento lire, e un piccolo maiale da allevamento di circa 12 chili tre volte tanto. I disastrosi effetti della campagna di Russia giunsero a Valdagno sotto forma di tragici bollettini periodici che annunciavano sempre più lunghi elenchi di caduti, feriti e dispersi, come quando, tra il 13 e il 14 febbraio, fu commemorata sulla stampa locale la morte dei soldati Dino Soldà, Antonio Lora e Giovanni Faccin. Se pure fu alquanto elevato il numero delle giovani vite stroncate negli altri fronti di guerra (tra questi caduti vi furono per esempio Fortunato Randon e Fiorenzo Centomo del battaglione Val Leogra, rimasti sul terreno combattendo contro i «ribelli» in Jugoslavia, il soldato Severino Lovato morto in Tunisia e molti altri), alla fine il tributo che la città laniera dovette pagare in termini di caduti nella sola campagna di Russia (111 complessivamente fra morti e dispersi) superò di gran lunga il bilancio delle vittime sacrificate su ogni altro teatro di guerra. In particolare, le perdite subite dagli alpini, i cui reparti erano gli unici a reclutamento territoriale, lasciarono ferite così diffuse e profonde, sia in centro città che nelle contrade, che finì col risultarne sconvolto lo stesso tessuto sociale ed economico locale, oltre naturalmente al tradizionale sistema dei legami e degli affetti familiari. Su trenta decorazioni al valor militare concesse a valdagnesi che combatterono in
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Russia (2 medaglie d’argento, 12 medaglie di bronzo, 16 croci di guerra) ben 19 furono quelle assegnate alla memoria, e quando nel mese di marzo i sopravvissuti dalla ritirata cominciarono a ritornare a Valdagno, i vuoti che la guerra aveva causato tra le loro file apparvero in tutta la loro cruda vastità. Il 9 aprile questi reduci, sotto la guida di Scomparin, organizzarono il loro primo raduno, ritrovandosi in oltre 250 fra alpini della Julia (107) e altri soldati (150). Appena due giorni dopo un altro soldato originario della città laniera, Giovanni Cracco, moriva valorosamente sul suo carro armato durante una battaglia nel deserto tunisino e per questo suo estremo sacrificio gli veniva attribuita alla memoria la medaglia d’oro, l’unica mai assegnata ad un combattente valdagnese in tutto il secondo conflitto mondiale. Con l’estate del 1943 – la quarta dall’inizio della guerra - arrivò anche la fine del regime fascista, quando la drammatica seduta notturna del Gran Consiglio del 25 luglio portò com’è noto alla destituzione e all’arresto di Mussolini con la conseguente assunzione dei poteri da parte di Badoglio. Il giorno seguente la notizia fu accolta dai valdagnesi «con largo respiro», come annotò il parroco di Castelvecchio, ma la tensione politica e sociale, anche al livello dei ceti popolari, si fece altissima. La mattina del 27 un manipolo di oppositori del regime si introdusse in municipio e gettò dalle finestre i ritratti del duce pretendendo, e ottenendo, l’esposizione della bandiera tricolore sulle facciata principale. La legge marziale venne introdotta ovunque, nel timore che si verificassero disordini e si consumassero vendette. Fu anche decretato il coprifuoco e si stabilirono severe restrizioni agli orari di apertura delle osterie. Ma a Valdagno manifestazioni di qualche rilevanza non se ne registrarono e il 28 luglio, tre giorni dopo la caduta del fascismo, Gaetano Marzotto poteva osservare in una lettera dai toni soddisfatti che «le maestranze, pur non nascondendo il loro giubilo per l’avvento del nuovo Governo hanno continuato il loro lavoro senza interruzione e senza si verificasse incidente alcuno». Nelle settimane successive proseguiva con successo l’avanzata alleata al sud e il 17 agosto in Sicilia cessava definitivamente ogni resistenza, mentre le notizie provenienti dal fronte russo riferivano del procedere vittorioso dell’offensiva sovietica verso occidente. Di fronte allo sfacelo militare, l’armistizio firmato da Badoglio l’8 settembre determinò una svolta radicale nell’andamento del conflitto e nell’evolversi delle sorti dell’Italia in particolare. Esso aprì di fatto anche nella Valle dell’Agno la fase della lotta resistenziale, che vide a lungo contrapporsi, da una parte, le forze antifasciste e partigiane, e, dall’altra, i più fedeli sostenitori di quel che rimaneva del regime alleato dei nazisti; un regime che, subito dopo il blitz con il quale i tedeschi avevano liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, andava ricercando una ormai impossibile sopravvivenza costituendo la Repubblica sociale italiana (Rsi) che appunto in quel periodo si insediava a Salò, sul lago di Garda. Fin dalle primissime ore del mattino del 9 settembre, dunque, nelle strade del centro di Valdagno si potevano veder circolare automezzi blindati della Wehrmacht, mentre i valdagnesi dovettero ben presto abituarsi ai controlli cui venivano sottoposti dalle sentinelle tedesche. E proprio in quelle ore, quasi a scandire la drammaticità del momento, perdeva la vita il valdagnese Ottorino Ceola, secondo caporal maggiore in servizio sulla nave corazzata Roma che veniva centrata e affondata da bombardieri tedeschi nelle acque del Tirreno. Un primo contingente di circa 400 militari germanici, comunque, era giunto nella città laniera ancora il 20 agosto. Si era trattato di un reparto speciale per le informazioni e i controlli di volo, i cui componenti, ben riconoscibili per le divise militari di tela color kaki, si erano acquartierati nei locali della Gioventù italiana del littorio (Gil), nell’edificio
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del Ginnasio, in alcune aule dell’Istituto chimico tessile e presso case private requisite nel centro storico, mentre 14 ufficiali avevano preso alloggio all’hotel Pasubio e il comando di reparto - affidato al tenente colonnello Fritz Trippe - si era insediato nella Casa del fascio in piazza Dante. Ma fu appunto dopo l’8 settembre che i tedeschi, dopo avere facilmente disarmato il piccolo contingente militare italiano di stanza a Valdagno, assunsero senza colpo ferire il pieno controllo della città e, in particolare, dei lanifici Marzotto, ben presto dichiarati dai tedeschi stessi «fabbriche protette» e sottoposti al diretto controllo del Ministero degli armamenti e della produzione bellica. Da quel momento in avanti, e fino al termine della guerra, gli impianti tessili avrebbero dunque continuato a lavorare esclusivamente per l’esercito del Reich, producendo soprattutto tessuti per le uniformi dell’aviazione. All’indomani del giorno 10, quando i tedeschi avevano già occupato militarmente Roma e controllavano buona parte della penisola, già si registravano a Valdagno incidenti di una certa gravità legati all’occupazione tedesca, come testimoniò il parroco Tonin di Castelvecchio: «Qualche sparatoria e qualche ferito tra italiani e tedeschi. Questi ultimi hanno occupato posta-telegrafo-telefono, edifici pubblici ecc. La popolazione di Valdagno per timore di guai, si riversa fuori nei cascinali, sui monti portandosi poche robe da coprirsi e di che mangiare. La canonica di Castelvecchio rigurgita di profughi valdagnesi. Carabinieri, soldati italiani ecc. sono stati disarmati dai tedeschi in Valdagno, dove ora imperano loro». Erano trascorsi appena due giorni dall’arrivo nella Valle degli ex alleati, e proprio allora fu emanata un’ordinanza del podestà di Valdagno con cui si faceva obbligo di consegnare in municipio tutte le armi e le munizioni «da chiunque detenute», comprese quelle da caccia. Successivamente in città furono affissi i manifesti con i quali i tedeschi intendevano reclutare i soldati italiani «fuggiaschi» minacciando di deportazione in Germania coloro che non vi avessero ottemperato. Si tratta di un documento significativo che veniva a sancire, in una delle fasi più cruciali di tutta la storia della guerra, il momento preciso in cui, oltrepassata la linea di una presunta legalità che l’occupante germanico riteneva di poter imporre con la forza, incominciava per contro a prendere forma quell’attività di opposizione e di resistenza armata che, nei centri e sui monti circostanti, avrebbe contrassegnato per quasi venti mesi la storia della Valle fino ai giorni della liberazione. Ben presto infatti i primi nuclei di «ribelli» e di antifascisti avrebbero dato vita alle formazioni partigiane delle quali lo stesso parroco Tonin diede conto già a partire dal 21 settembre: «nessuno si presenta tranne pochissime eccezioni; i nostri fuggiaschi si stanno organizzando in bande armate e battono le nostre montagne vivendo alla macchia». Tra i protagonisti valdagnesi della lotta resistenziale che nasceva in quei giorni vi furono in prevalenza giovani di fede comunista, tra i quali Pietro Tovo che teneva i collegamenti con il Cln veneto, ma anche cattolici e «azionisti» come Sergio Perin e Alberto Visonà, il quale sarebbe finito ucciso dai tedeschi durante una missione a Dueville il 28 aprile del ‘45, appena tre giorni dopo la liberazione. Tra il 9 e il 24 settembre 1943 si consumava intanto, in conseguenza della nuova situazione creatasi nei rapporti fra l’Italia e la Germania di Hitler all’indomani dell’armistizio, la tragedia dei quasi diecimila soldati e ufficiali della divisione Acqui, di stanza a Cefalonia, barbaramente massacrati dai tedeschi per non aver voluto cedere le armi agli ex alleati. Nessuno dei militari valdagnesi che parteciparono allo scontro (una decina
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all’incirca) rimase coinvolto nella carneficina che ne seguì. Alla fine di settembre le sirene dell’allarme aereo cominciarono a risuonare a Valdagno praticamente tutti i giorni. La vita quotidiana e le consuetudini della gente comune ne risultarono sconvolte. Le scuole comunali non riaprirono più fino a novembre. Le osterie cessarono di essere i luoghi abituali in cui gli uomini si ritrovavano con assiduità per trascorrervi gran parte del loro tempo libero. Molte di esse chiusero nel volgere di alcune settimane, anche perché il tabacco era diventato pressoché introvabile e il prezzo del vino era salito fino a venti lire per litro, un livello inabbordabile per molti dei clienti e dei frequentatori di sempre. Dopo gli iniziali momenti di sbandamento vi furono anche a Valdagno affannosi tentativi di rinserrare le fila dei fascisti scompigliate dagli eventi successivi all’armistizio. Prima l’associazione dei combattenti (17 ottobre) e poi il fascio repubblicano valdagnese ricostituito ex novo (25 ottobre) cercarono di ristabilire, anche attraverso il parziale rinnovo degli organi dirigenti, un consenso popolare che sembrava essere entrato in una crisi ormai irreversibile. In novembre il centro laniero fu scelto per insediarvi, nei locali del palazzo della Rinascente, la direzione generale di polizia del Ministero dell’interno della Repubblica sociale, la cui campagna di reclutamento delle nuove leve stava dando risultati assai deludenti rispetto alle aspettative: su 573 giovani valdagnesi appartenenti alle classi 1923, 1924 e 1925 e soggetti agli obblighi di leva, soltanto 15 vennero di fatto avviati al distretto militare, e ciò a dispetto delle minacce delle autorità (il podestà aveva previsto «rigorose sanzioni a carico dei capifamiglia») contro i congiunti dei renitenti. In dicembre arrivò a Valdagno anche un reparto segreto di incursori dei Gamma della «Decima Mas», al comando del tenente di vascello Wolk, che si addestravano nella piscina coperta e che utilizzarono il vicino edificio del maneggio per depositarvi le attrezzature e gli esplosivi necessari alle azioni di sabotaggio. Un mese dopo a questi marinai si sarebbe aggiunto uno speciale reparto tedesco formato da una cinquantina di incursori avviati all’addestramento per azioni di sabotaggio sottomarino. Il giorno di Natale fu sferrato un violento bombardamento sulla città di Vicenza da parte dell’aviazione statunitense. Gli echi delle deflagrazioni si udirono anche nel valdagnese e dalle colline circostanti si poterono osservare le colonne di fumo che si levavano dalla città. Tre giorni dopo, una nuova incursione aerea sul capoluogo berico rese ancora una volta ben visibili da Valdagno le fasi del bombardamento. 1944 Mentre nella parte centrale della penisola gli alleati da poco sbarcati sulle coste di Anzio (22 gennaio) davano inizio alla nuova e durissima fase della battaglia per aprirsi la via verso Roma, a Valdagno le condizioni di vita di gran parte della popolazione erano peggiorate ancora, con la razione mensile di sale da cucina che proprio in gennaio venne a ridursi ad appena tre etti per persona. La lotta di resistenza al nazifascismo cresceva intanto di intensità e di asprezza. Se da una parte il commissario prefettizio prometteva una ricompensa di 1800 lire per ogni soldato anglo-americano che fosse stato catturato e consegnato ai tedeschi, dall’altra, verso la metà di febbraio, il gruppo di partigiani che si era andato organizzando a Malga Campetto (primo nucleo della brigata Stella nella Valle dell’Agno) si trovò a fronteggiare in un duro scontro a fuoco alcuni reparti di nazifascisti che tra le asperità della montagna avevano individuato e attaccato i «ribelli».
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In quello stesso periodo si preparava in tutta l’Italia settentrionale, da parte dei quadri dirigenti clandestini del Comitato di liberazione nazionale (Cln), quello che sarebbe stato il più vasto sciopero mai verificatosi nell’Europa occupata durante la seconda guerra mondiale. Ciò coincise con il tentativo tedesco di reclutare forzatamente migliaia di lavoratori nei paesi occupati, con lo scopo di sostenere la produzione industriale delle fabbriche in Germania rimaste sguarnite di manodopera a causa dell’impiego degli uomini nella guerra scatenata dal nazionalsocialismo. Verso la fine di febbraio, infatti, vennero notificate a centinaia di operai valdagnesi donne comprese - cartoline precetto con l’obbligo di presentarsi all’ufficio di collocamento per essere avviati al lavoro coatto in Germania. Il fatto suscitò un vivace moto di protesta che, nel quadro della più vasta iniziativa di agitazioni organizzata dal Cln del Veneto, si tradusse a Valdagno in uno sciopero generale dei lavoratori dei lanifici Marzotto, ai quali si aggiunsero (per la sola giornata di sabato 6) i 250 dipendenti della miniera di lignite del monte Pulli e i 100 circa della ditta Valdol che si occupava dell’estrazione del caolino. Lo sciopero agli stabilimenti Marzotto si protrasse per alcuni giorni (dal 3 al 7 marzo) e registrò soprattutto all’inizio una massiccia partecipazione delle maestranze. Alla fine tuttavia la protesta rientrò del tutto, a causa specialmente della dura reazione del comando tedesco che alla ripresa del lavoro, ottenuta dopo pesanti intimidazioni e l’occupazione armata degli stabilimenti, pur rinunciando all’idea di deportare le donne, richiese alla direzione delle manifatture una lista di 1400 operai da mandare in Germania, secondo le direttive generali sul lavoro forzato che erano state impartite direttamente da Hitler. Al termine di laboriose trattative, condotte anche con la mediazione di esponenti del clero locale come l’arciprete di Valdagno mons. Zaffonato, che di lì a pochi giorni (23 aprile) sarebbe diventato vescovo, fu compilato un elenco con i nomi di ottanta operai, per la maggior parte dipendenti delle manifatture Marzotto e tutti in età compresa fra i diciassette e i trent’anni. A ciascuno di loro, intorno alla metà di aprile, venne inviata la famigerata cartolina precetto. Una volta sottoposti alla prescritta visita medica a Vicenza, l’8 maggio gli ottanta giovani valdagnesi vennero imbarcati su un treno diretto in Germania, dove ad attenderli avrebbero trovato condizioni durissime di vita e di lavoro, ivi comprese le brucianti umiliazioni legate alla fama di «traditori» che sovente in quel periodo accompagnava gli italiani presso una parte dell’opinione pubblica delle nazioni europee. Si intensificavano intanto gli scontri e le sparatorie fra i partigiani e i nazifascisti. Questi ultimi divennero bersaglio a volte di attacchi occasionali, come accadde quando il 10 aprile un soldato tedesco rimase ferito a causa di un colpo di pistola esploso nei pressi della contrada Tomba. Per contro, andavano facendosi via via più cruenti e sistematici anche i rastrellamenti ai danni dei «ribelli» e dei loro fiancheggiatori, tanto nella zona di Valdagno quanto nei territori limitrofi. In una di queste operazioni, condotta il 27 aprile dai tedeschi e dai fascisti in seguito all’uccisione di un soldato germanico nella contrada Storti di Recoaro, furono investiti massicciamente anche i dintorni del centro laniero, ma l’impronta più barbara e distruttiva fu lasciata con l’incendio «punitivo» delle contrade recoaresi Cornale, Storti e Pace, dove più di cento famiglie si ritrovarono d’un tratto private delle loro case e dei poveri beni in esse contenuti, annientati dal fuoco nel corso di una tragica notte di terrore e di fiamme. In questo clima di violenta contrapposizione e di lotta armata senza esclusione di colpi, inutilmente i bandi di reclutamento della Repubblica di Salò venivano lanciati sopra l’abitato di Valdagno e delle sue frazioni dagli aerei tedeschi, sotto forma di volantini di propaganda carichi di minacce per i «disertori», con l’unico risultato che i giovani che si presentarono alle autorità per essere arruolati furono in tutto pochissime unità.
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La gente aveva paura delle delazioni e di possibili ritorsioni, come pure delle improvvise requisizioni che i tedeschi effettuavano brutalmente penetrando nelle abitazioni e prelevando ogni cosa. Molti si diedero a scavare buche sotto il pavimento delle case oppure nei campi, allo scopo di nascondervi viveri e masserizie. Fu soprattutto a partire dal mese di aprile che si succedettero in tutta l’alta Valle una serie di episodi di sangue e di atti di sabotaggio contro le forze di occupazione, come quelli contro le centrali elettriche della Marzotto che provocarono, intorno alla metà di giugno, la paralisi, durata alcuni giorni, della linea ferroviaria e degli stabilimenti tessili a seguito di sabotaggi messi in atto dai partigiani della brigata Stella, ai quali si affiancarono le formazioni della brigata Rosselli, il battaglione autonomo Valdagno e, marginalmente, la brigata Pasubio. La risposta dei fascisti a livello locale fu la costituzione a Valdagno, nel mese di luglio, della IV^ compagnia «A. Turcato» brigata nera comandata da Emilio Tomasi. Era quello il periodo in cui le azioni di repressione di massa e le rappresaglie da parte dei nazifascisti raggiungevano il culmine dell’efferatezza con l’eccidio di Borga di Fongara (11 giugno), dove per vendicare l’uccisione di un militare tedesco furono massacrati 17 uomini del tutto incolpevoli e bruciate le case della contrada; con la strage dei «sette martiri», fucilati il 3 luglio nel campo del tiro a segno di Valdagno in quanto oppositori del regime, in seguito ad un agguato mortale teso contro i tedeschi dai partigiani in località Ghisa; con sanguinosi rastrellamenti (in luglio) e l’incendio di intere contrade tra la Valle dell’Agno e quella del Chiampo; e infine con il feroce rastrellamento della zona di Piana del 9 settembre, nel corso del quale circa sessanta tra partigiani e civili vennero trucidati, nella consueta e tragica cornice segnata da sevizie, esecuzioni spietate e case, stalle e fienili dati alle fiamme. Appena una settimana prima era stato in visita a Valdagno padre Eusebio, un frate fascista famoso in tutta Italia per la sua arte oratoria di stampo militarista, che alle maestranze della Marzotto fatte appositamente uscire dalle fabbriche per ascoltarlo aveva gridato la necessità di una «santa crociata» che avrebbe dovuto vendicare «i templi profanati dal ferro anglosassone» e le donne «violate dall’accozzaglia barbarica nemica». Mentre con lo sbarco alleato in Normandia e la liberazione di Parigi la Germania di Hitler vedeva precludersi ormai ogni possibilità di vittoria, nell’Italia occupata dai nazisti le sanguinose rappresaglie operate dai tedeschi e dalle brigate nere continuarono anche dopo il massacro di Piana e per tutto il resto dell’anno 1944. Il 17 dicembre in località Campagna venivano passati per le armi due giovani di Valdagno, Enrico Tomasi di 18 anni e Luciano Urbani di 22, e due giorni più tardi i tedeschi fucilavano nei pressi del campo sportivo Giovanni Soldà, un altro valdagnese anch’egli ventiduenne. 1945 Tra la fine del 1944 e gli inizi del ‘45 si assistette, nel Valdagnese e nelle terre limitrofe, all’abbattimento di alcuni velivoli alleati di passaggio sopra la città e i suoi dintorni. Il 9 gennaio i tedeschi uccisero, dopo averlo incarcerato a Valdagno e torturato, il pilota americano Lee McAllister il cui bombardiere B-25J, colpito ancora il 10 dicembre ’44 dalla contraerea tedesca, era precipitato nei pressi di Campanella di Altissimo mentre McAllister si era salvato grazie al paracadute prima di essere punito come «bandito». Nella stessa azione era stato abbattuto anche un altro apparecchio della medesima squadriglia, che era andato a schiantarsi poco sopra la contrada Righi di Fongara. Il comandante Berry si paracadutava sui monti Castiglieri, vicino a contrada Lovati e veniva salvato dai partigiani della «Stella».
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Il 4 febbraio 1945 un altro aereo americano colpito da un caccia dell’aviazione italiana precipitò nei pressi di Civillina. Il pilota, che era riuscito a salvarsi gettandosi con il paracadute, fu catturato dai tedeschi in contrada Preti di Valdagno e inviato in prigionia in Germania. Il giorno 22 soltanto il caso impedì che vi fossero vittime a seguito di bombe cadute nei pressi del ponte dei Nori. Ma fu tra i mesi di marzo e aprile che la guerra dal cielo colpì duramente alcuni bersagli sensibili nella città laniera. Il 24 marzo caccia americani mitragliarono il lanificio di Valdagno e gli edifici della Gil in zona Oltreagno, sganciando anche due bombe nei pressi del ponte dei Nori. Il 4 aprile l’attacco veniva portato allo stabilimento di Maglio di Sopra e alla linea tranviaria che portava a Recoaro, provocando danni materiali di un certo rilevo. Il giorno 6 in una nuova incursione venivano colpite la fabbrica di Valdagno e la vicina stazione ferroviaria, mentre fra il 10 e l’11 aprile si ebbero i bombardamenti in assoluto più pesanti, che centrando entrambi i lanifici di Valdagno e Maglio causarono due vittime civili (Attilio Pitassi e Mario Gaiarsa) oltre a danni assai gravi agli impianti industriali e ad alcune abitazioni. Il pericolo di bombardamenti sull’abitato di Valdagno fu dunque sempre elevato, a causa della presenza delle attività manifatturiere e della linea ferroviaria Vicenza–Recoaro (oggetto a più riprese di azioni, per quanto isolate e occasionali), nonchè degli importanti uffici della Rsi e dei reparti speciali tedeschi di cui si è parlato in precedenza. Già durante il primo conflitto mondiale, del resto, il centro laniero aveva subito attacchi aerei da parte degli austriaci, tanto che in via Galliano, nelle immediate vicinanze del duomo di San Clemente, era stato scavato e attrezzato un rifugio antiaereo che poteva contenere fino a seicento persone. Da un punto di vista orografico la Valle dell’Agno costituiva uno stretto corridoio parallelo alla Valle dell’Adige, la quale, particolarmente ben difesa dalla contraerea tedesca, veniva percorsa con insistenza dai bombardieri e dai caccia alleati per le loro incursioni sul Brennero, su Innsbruck e sulla bassa Baviera. Accadde anche che alcuni ordigni sganciati a caso da bombardieri di ritorno da quelle missioni colpissero località prossime a Valdagno, come nel caso di bombe che caddero ed esplosero nelle vicinanze di contrada Marogne il 4 gennaio 1945, o ancora tra le contrade Mucchione e Massignan e infine a Marana. A volte gli aerei in volo si liberavano dei serbatoi supplementari in alluminio. Uno di essi cadde nei pressi della contrada Maso di Cerealto ed un altro a Castrazzano. I rischi legati alle incursioni aeree, divenute via via più frequenti e numerose, indussero il comune, il comando tedesco e la direzione dei lanifici ad adottare nuove e più efficaci misure di protezione in caso di allarme, allo scopo di garantire una maggiore sicurezza alle truppe, alla popolazione civile e agli operai delle manifatture, anche considerando che le uniche difese antiaeree erano assicurate da postazioni di mitragliatrici di piccolo calibro situate al Poggio Miravalle, sulla collina a nord ovest di Maglio e sul versante di contrada Meggiara Con l’obiettivo di ridurne la visibilità dall’alto, le fabbriche di Valdagno e di Maglio furono mimetizzate con colore a chiazze, reti e arbusti. Anche alcuni gruppi di abitazioni nelle vicinanze delle industrie, come ai Carmini e al Villaggio Margherita, vennero dipinte con colori mimetici le cui tracce sono ancor oggi chiaramente visibili. Negli stabilimenti Marzotto, che già da tempo erano stati dotati di speciali suonerie e sirene oltre che di rifugi e ricoveri interni, fu istituito in accordo col locale presidio militare un servizio continuativo di «vedette aziendali». Queste avevano il compito di segnalare la presenza di velivoli nemici in avvicinamento, sulla base di osservazioni dirette o di informazioni provenienti dal posto di avvistamento allestito fin dal novembre
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’44 a Castelvecchio (sullo spartiacque fra il monte Postale e Montalbieri, duecento metri a nord dell’omonimo albergo), dal presidio militare di Valdagno e dal servizio antiaereo provinciale di Vicenza. Rifugi antiaerei furono costruiti in zone diverse della città, con lavori affidati ad imprese edili locali, che realizzarono ricoveri in caverna sui versanti delle colline, completi di ingressi in cemento armato, porte interne e impianti di illuminazione. A servizio della popolazione del centro storico risultavano in funzione le seguenti strutture: - un rifugio all’inizio della strada per contrada Frassine, usato dagli abitanti dell’attuale via Primo Maggio e dai soldati tedeschi che avevano occupato due fabbricati della zona; - un rifugio in via San Rocco, composto da più locali, con accesso all’interno di un’abitazione privata; - un rifugio in via Rio, all’altezza dell’incrocio con vicolo degli Orti; - un rifugio in via Galliano, per il quale i tedeschi chiesero al comune di migliorarne l’efficienza essendo usato anche dalle suore e dai bambini dell’asilo; - un rifugio in caverna all’interno del parco di Villa Serena, residenza della famiglia Marzotto, con due accessi in cemento armato, della capacità di circa 150 persone; un secondo piccolo rifugio, con muro paraschegge in sasso lavorato a secco, probabilmente risalente alla prima guerra mondiale ma ugualmente efficace, si trovava a sud ovest della villa; - un rifugio in caverna ai Carmini, all’inizio della strada per il poggio Miravalle. Un rifugio antiaereo era stato costruito anche nella zona della Favorita, a servizio degli abitanti di Oltreagno e dei tedeschi acquartierati nella «città sociale». Per le maestranze dello stabilimento Marzotto, un rifugio esterno in galleria con una capacità di 450 posti fu predisposto in via Luigi Marzotto, mentre all’interno della fabbrica, nello scantinato della filatura, potevano trovar posto in caso di emergenza fino a 1200 persone. Nella frazione di Maglio di Sopra, infine, gli operai dello stabilimento e la popolazione civile potevano trovare riparo in un capiente rifugio che era stato ricavato nella collina verso il lato ovest della chiesa. Tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio, con la capitolazione della Germania e il suicidio di Hitler nella sua fortezza berlinese, la guerra in Europa volse all’epilogo. Il massiccio bombardamento alleato che il 20 aprile colpì la sede del comando delle forze tedesche in Italia presso le fonti di Recoaro, accelerandone la decisione di resa incondizionata, provocò una ventina di vittime italiane, tra cui vi furono otto operai valdagnesi rimasti sepolti dalle macerie. Nelle città liberate dell’Italia settentrionale, governi provvisori costituiti dai partiti antifascisti presero il posto delle deposte strutture del regime e dei comandi militari germanici. A Valdagno tra il 26 e il 27 aprile i partigiani occuparono il centro urbano e ne assunsero il controllo, mentre intanto aveva inizio un intenso movimento di truppe tedesche in ritirata verso nord. Le ostilità andarono via via cessando sui vari fronti di guerra e a Valdagno fecero ritorno i soldati che avevano risalito la penisola a fianco dell’esercito alleato, mentre successivamente rientravano i prigionieri, provenienti soprattutto dalla Germania, dalla Russia e dall’Inghilterra, come pure i valdagnesi che avevano militato con la Rsi e combattuto in Piemonte e sulla Linea Gotica. Il tributo pagato dai valdagnesi in termini di militari caduti, feriti e dispersi risultò alla fine decisamente elevato, e nel complesso ancora più grave se ad esso si aggiungono gli 80 operai deportati in Germania dopo lo sciopero del marzo ’44 e i ben 264 soldati che furono internati nei campi di concentramento in Germania e
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Polonia. Al termine del conflitto il bilancio dei caduti militari e civili risultò di 267. I loro nomi sono riportati alla fine di questo volume. La ritrovata libertà e la nuova voglia di democrazia che contraddistinsero i giorni della liberazione portavano con sé l’indicazione, come recitava il proclama del comando della brigata Stella diffuso in città il 29 aprile 1945, di una «via della concordia, seguita nella lotta suprema e nel sacrificio comune, come l’unica perché sia riconosciuta e rispettata la volontà del Popolo».
Bibliografia essenziale
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INCURSORI TEDESCHI A VALDAGNO 1944 –1945 Michael Jung
Canzone degli incursori tedeschi a Valdagno Incursori della notte Il cielo nasconde con le ombre della notte. Ma tra gli incursori si sveglia la vita. Ancora pochi minuti e si va verso il nemico. Bombe e uomini sono una sola cosa. Così aggrediamo l’obiettivo nemico - uomo dopo uomo! Heiwidiwu! Su, su incursori della notte quando il luccichio delle stelle si nasconde! Aggrediamo l’obiettivo nemico - uomo dopo uomo! Heiwidiwu! (Testo: Karl-Heinz Beckschulte, 1944)
Alla fine del 1943 la Marina Militare tedesca aveva deciso di costituire una propria formazione con piccoli mezzi da combattimento sull’efficiente modello della «Decima Mas» italiana. Si trattava prevalentemente di minisommergibili, barchini esplosivi, torpedo con un solo uomo ed incursori. Il vice-ammiraglio Hellmuth Heye divenne comandante della formazione Kleinkampf. La Marina Militare aveva studiato un’unità di questo tipo già dalla primavera del 1943, ma il fattore decisivo fu il sorprendente ed efficace attacco dei minisommergibili inglesi contro la «Tirpitz» nel dicembre del 1943 in Norvegia. L’attacco mise fuori uso la nave da battaglia per sei mesi. Per costituire la formazione Kleinkampf la Marina Militare si rifece alle molte esperienze degli incursori dell’unità italiana «Decima Mas», che nell’estate del 1943 era passata dalla parte tedesca con il suo comandante Junio Valerio Borghese, e si servì di due unità speciali del servizio segreto militare (Abwehr). La prima unità era il «reparto Küstenjäger»(Cacciatori delle coste) che faceva parte del reggimento di difesa Brandenburg ed era formata prevalentemente da mezzi d’assalto e da sbarco. Il servizio segreto aveva anche iniziato a formare all’interno del reggimento Brandenburg una propria unità di incursori, il «reparto Meeresjäger (Cacciatori del mare) Brandenburg», costituito alla fine del 1943. Il merito della nascita di questa unità va soprattutto all’austriaco Alfred von Wurzian che, partecipando alle spedizioni subacquee del ricercatore marino Hans Hass, aveva capito le possibilità d’uso militare dei respiratori ad ossigeno senza bolle. Le sue idee, esposte con determinazione e perseveranza a diversi responsabili dell’esercito, vennero infine recepite dal servizio segreto militare. I reparti Meeresjäger e Küstenjäger formarono il nucleo centrale e la base delle unità Kleinkampf della Marina Militare. La prima scuola di incursori venne fondata assieme agli incursori italiani a Valdagno nel dicembre del 1943. La scelta cadde su Valdagno per i magnifici e moderni impianti sportivi che l’industriale Gaetano Marzotto aveva costruito per i suoi operai. La scuola ebbe i numeri di posta militare (FPN) 11931 e 24879. I comandanti degli incursori erano alloggiati all’hotel Pasubio e la truppa, (in questo caso tedeschi ed italiani divisi), in piscina ed in alloggi confiscati nelle vicinanze degli impianti sportivi. Gli incursori italiani erano sottoposti al comando dell’esercito tedesco dal quale ricevevano anche la paga, ma la loro struttura interna era rimasta invariata anche dopo l’armistizio. Nonostante la vicinanza, collaborazione o scambi tra gli incursori tedeschi e quelli italiani furono solo sporadici. Le due unità rimasero ben separate nella formazione, nell’addestramento e nell’impiego. La situazione cambiò solo sull’isola di S. Giorgio in Alga dove vivevano tutti assieme in uno spazio molto ridotto e necessariamente i contatti furono più frequenti. I primi soldati tedeschi arrivarono a Valdagno per l’addestramento il 14 gennaio 1944. Si trattava di soldati della Marina Militare, del servizio segreto e del Reichssicherheitshauptamt (ufficio principale della sicurezza del Reich) delle SS. Con il primo gruppo di circa 60 soldati arrivò anche il capitano del servizio segreto Fritz Neitzert che divenne il primo comandante del «Reparto Cacciatori del Mare Brandenburg» da poco costituito. Responsabile dell’addestramento fu Alfred Wurzian, che nell’estate del 1943 aveva trascorso parecchie settimane a La Spezia per partecipare personalmente ad un corso di formazione degli incursori italiani. I singoli gruppi non potevano essere più diversi. I soldati del servizio segreto apparte-
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nevano tutti a forze speciali, erano motivati ed in seguito sarebbero stati impiegati in operazioni di sabotaggio navale. Avevano già sostenuto un’adeguata formazione speciale nel servizio segreto ed erano mentalmente preparati a pericolosi impieghi individuali. Quello che ancora mancava loro erano l’allenamento fisico adatto ad un incursore, la competenza tecnica specifica per i sabotaggi e la dimestichezza con l’attrezzatura da sub. I membri delle SS aggregati agli incursori, invece, erano una dozzina di soldati, in parte degradati, del reparto speciale per impieghi particolari Oranienburg una delle compagnie punitive delle SS che in precedenza avevano sostenuto pesanti e sanguinosi combattimenti contro i partigiani in Croazia. I soldati erano stati puniti e degradati al fronte per i motivi più diversi e si dovevano riabilitare partecipando ad azioni particolarmente pericolose. I soldati delle SS «in prova» indossavano divise della Marina ed avevano il grado di «marinaio», il grado più basso della Marina. Più tardi questi soldati «in prova» delle SS sarebbero stati coinvolti in spiacevoli incidenti. Essi furono sempre un problema perché per la disciplina non rispondevano al comandante dei «Cacciatori del Mare» Neitzert, ma direttamente allo SS-Sturmbannführer Otto Skorzeny, capo dell’Ufficio VI-S al Reichssicherheitsabteilung. Skorzeny era diventato famoso per la liberazione di Benito Mussolini il 12 settembre 1943 sul Gran Sasso in Abruzzo e comandava un proprio commando speciale SS. Un altro problema era costituito dal fatto che una parte di questi soldati «in prova» non sapeva nuotare. Uno di questi non-nuotatori era Erich Oddey che nella vita civile aveva lavorato come scenografo. Anche a Valdagno egli continuò a coltivare il suo hobby dipingendo nel tempo libero quadri ad olio di edifici e paesaggi. Alcuni dipinti sono arrivati fino a noi. Poiché anche dopo mesi Oddey non aveva acquisito una sufficiente padronanza del nuoto (probabilmente nemmeno voleva imparare), a metà del 1944 venne trasferito dal reparto incursori al reparto barchini esplosivi a Sesto Calende. A differenza delle SS, il primo gruppo di soldati di Marina che arrivò a Valdagno era costituito da circa 30 nuotatori sportivi di prim’ordine. Il reparto venne comandato dall’aspirante guardiamarina Fritz Kind e dal sottotenente Sowa. Tra loro c’erano molti nuotatori famosi. A questa sessantina di soldati che si trovavano a Valdagno nelle prime settimane del 1944 se ne aggiunsero molti altri nei mesi successivi, soprattutto volontari delle flottiglie di formazione della Marina Militare. Nel maggio del 1944 vennero aggregati anche altri 8 membri delle SS e 6 paracadutisti dello Jäger-Regiment 16 (tenente colonnello Gerhart Schirmer) che in quel periodo era di stanza ad Halberstadt. Gli arrivi si susseguirono fino all’ottobre 1944. Il numero dipendeva dai progressi nell’addestramento. A Valdagno venivano impartiti solo gli insegnamenti fondamentali e si curava l’allenamento fisico, mentre la formazione in mare si svolgeva sull’isola di San Giorgio in Alga nella laguna di Venezia. Lì l’incursore veniva istruito nella navigazione, nella conoscenza del mare e nella tecnica d’immersione, veniva addestrato a raggiungere a nuoto mete in acque aperte e veniva preparato ai compiti futuri con una dieta appropriata, sport competitivo ed informazioni biologiche sul comportamento degli squali. Come già facevano presagire la diversa provenienza e la diversa ideologia dei singoli gruppi, tra Marina Militare, Difesa e SS crebbe rapidamente una pericolosa concorrenza per il comando del nuovo gruppo di combattimento ed i contrasti per la supremazia erano molto frequenti. Alfred von Wurzian ebbe la massima libertà nell’impostare l’addestramento, ma si ispirò in gran parte ai metodi degli italiani. Anche l’attrezzatura degli incursori era del tutto identica a quella dei loro maestri italiani. Non solo la muta in tre parti e l’attrezza-
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tura per respirare sott’acqua della Pirelli, ma anche le pinne, l’orologio e la bussola erano di fabbricazione italiana. L’arma degli incursori erano ordigni esplosivi diversi a seconda dell’obiettivo dell’attacco. L’attività sportiva ai più alti livelli era il collante che spronava e teneva unita questa truppa di varia provenienza. Presto gli incursori cominciarono a definirsi scherzosamente un «club sportivo». E di sport intensivo consisteva anche la maggior parte della giornata. Per garantire la sicurezza il commando incursori venne mascherato da «centro di convalescenza» dove i soldati feriti riacquistavano vigore attraverso lo sport ed erano resi di nuovo abili per il fronte. A Valdagno gli incursori dovevano sottoscrivere una dichiarazione con valore di giuramento nella quale si impegnavano a mantenere il segreto. Più tardi sull’isola di S.Giorgio in Alga tutti avrebbero giurato pubblicamente di mantenere il segreto. Ci furono molti giorni nei quali gli incursori ebbero le pinne ai piedi più a lungo degli stivali o delle scarpe da ginnastica. I soldati dovevano allenarsi per parecchie ore in piscina, ma anche al campo sportivo. C’era la regolare ora di ginnastica mattutina ancor prima della colazione e dopo pranzo erano in programma altri tipi di sport come lancio del peso, corsa e salto in lungo. A volte c’erano anche esercizi di tiro. Lo sport divenne l’attività principale di giorni e notti e con il tempo la preparazione atletica degli incursori divenne tanto buona che furono dispiaciuti di non poterla esibire in pubblico. Si erano affrontati continuamente in singole discipline nautiche come se fossero delle sfide sportive ed avevano addirittura stabilito dei record. Per animare un po’ l’allenamento quotidiano venne organizzata una festa dello sport: nei primi giorni di marzo del 1944 in piscina si svolse una grande gara di nuoto aperta al pubblico. La manifestazione prevedeva alcune gare a stile misto e salti dal trampolino ed i partecipanti tedeschi ed italiani fecero a gara per superarsi. Il programma terminò con una vivace ed avvincente partita di pallamano. La seconda sfida sportiva pubblica si svolse alcune settimane più tardi, domenica 30 aprile: una partita di calcio tra una squadra italiana dell’industria tessile Marzotto ed una squadra mista di incursori tedeschi ed italiani Fu subito evidente che gli incursori avevano maggior familiarità con l’elemento liquido che con il prato verde perché persero 6 a 2. La partita fu certo divertente, ma procurò ai responsabili un richiamo da Berlino. Alcuni giorni dopo, infatti, il giornale «Il popolo vicentino» pubblicò un articolo con i nomi per esteso dei giocatori tedeschi. Ciò costituiva chiaramente un notevole rischio per la copertura ed ebbe come conseguenza l’ordine di proteggere ancor più rigidamente la segretezza dell’unità e dei nomi ed il divieto di comparire come squadra del «centro di recupero militare» perché i primati sportivi avrebbero fatto vacillare la copertura. Nel marzo del 1944 arrivò a Valdagno un ufficiale del servizio segreto che avrebbe avuto un ruolo importante nella storia del commando: il capitano Friedrich Hummel, un vero esperto nei sabotaggi navali ed uno dei migliori agenti del servizio segreto tedesca. Egli aveva costituito in Spagna una rete di sabotatori che attaccavano gli impianti a Gibilterra e le navi inglesi nei porti spagnoli. Dopo la capitolazione dell’Italia Friedrich Hummel trovò un altro obiettivo per i suoi sabotatori ed esperti di esplosivi: le navi italiane nei porti spagnoli. Il 1° aprile 1944 Hummel sostituì il comandante degli incursori allora in carica, il capitano Neitzert. Per motivi di sicurezza gli appartenenti al Servizio segreto erano soliti utilizzare degli pseudonimi. Seguendo la tradizione il capitano Hummel a Valdagno divenne il capitano Hellmers. A fine maggio 1944 il commando degli incursori di mare a Valdagno aveva raggiunto una forza di circa 80 persone e molti aspiranti, dopo una formazione in piscina durata nel frattempo 5 mesi, poterono iniziare l’addestramento in mare. Poiché gli edifici sull’isola
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di S. Giorgio in Alga ora erano pronti e la temperatura dell’acqua in laguna era salita, il campo di addestramento in mare venne attivato ufficialmente contemporaneamente al Lehrkommando 700. Il campo d’addestramento su S. Giorgio in Alga venne chiamato «campo d’addestramento 701» ed a metà giugno il primo gruppo venne trasferito da Valdagno all’isola. A metà giugno 1944 anche Wurzian con il quartier generale del Lehrkommando 700 si trasferì da Valdagno a S. Giorgio in Alga per l’addestramento nell’immersione in mare. Una parte del Lehrkommando 700 rimase a Valdagno e proseguì l’addestramento di base al comando del maresciallo Ivo Haas del servizio segreto. Da quel momento il campo di addestramento di Valdagno venne indicato come «campo d’addestramento 704». Comandante del campo divenne il tenente (MA) Herbert Völsch. Contemporaneamente alla costituzione del campo per l’addestramento in mare a Venezia nella primavera del 1944 venne istituita nella scuola ufficiali delle SS a Bad Tölz un’altra sede per l’addestramento propedeutico degli incursori in mare. La scuola ufficiali delle SS di Bad Tölz era una fucina per l’élite di comando dell’arma delle SS e possedeva una grande e moderna piscina con vasca d’acqua bassa ed acqua profonda. Qui, come a Valdagno, si doveva svolgere la formazione di base prima di passare all’addestramento in mare a Venezia. Il campo di formazione per gli incursori di Bad Tölz venne ufficialmente messo in funzione il 1° luglio 1944 e fu chiamato «campo d’addestramento 702». Comandante del campo divenne il sottotenente di vascello Küsgen. Come secondo campo d’addestramento per la formazione in acqua aperta venne destinato List sull’isola di Sylt. List venne indicato come «campo d’addestramento 703», ma entrò in funzione solo il 1° novembre 1944. Questo campo servì prevalentemente come acquartieramento di ripiego per i presidi abbandonati a Valdagno e Venezia. Quando il «reparto cacciatori del mare Brandenburg» entrò a far parte della formazione K della Marina Militare come Lehrkommando 700 ci fu un cambiamento anche nei vertici: alla fine di giugno 1944 il comando passò dal capitano del servizio segreto Hummel ad un ufficiale della Marina Militare. Il 21 giugno 1944 il medico dello stato maggiore della Marina dr. Armin Wandel assunse il comando del Lehrkommando 700 con il campo d’addestramento in mare di Venezia e le due scuole di preparazione di Valdagno e Bad Tölz. Wandel portava con sé importanti esperienze mediche nel campo delle immersioni e come medico della «compagnia di convalescenza» dava credibilità alla copertura del reparto. Già nell’aprile 1944 il viceammiraglio Hellmuth Heye aveva fatto visita a Valdagno accompagnato dal tenente di vascello Heinz Schomburg e dall’aiutante di questi, tenente Härting. Schomburg era comandante dello stato maggiore per l’Impiego e la Formazione Sud ed era quindi responsabile anche del commando incursori. La delegazione rimase a Valdagno quattro ore ed ispezionò l’addestramento in piscina e l’immersione con attrezzatura ad ossigeno prima di proseguire per S. Giorgio in Alga. Schomburg era molto malvisto dagli incursori tedeschi perché una volta aveva ordinato loro un servizio di scorta a protezione di un trasporto che doveva attraversare una zona partigiana del Norditalia per portare mobili, vino e generi alimentari al suo quartier generale a Sesto Calende ed a S. Giorgio. Gli incursori si erano opposti all’ordine perché pensavano che non fosse di loro competenza. Ospite abituale a Valdagno fu il capitano di cavalleria conte Erwein von Thun-Hohenstein dell’Ufficio Difesa a Roma. Il capitano aveva sostenuto il commando fin dall’inizio, quando gli incursori dipendevano dal servizio segreto, e gli rimase legato fino al suo distacco nell’autunno 1944. Alla fine di giugno 1944, dopo un incontro con Benito Mussolini al lago di Garda,
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lo Sturmbannführer delle SS Otto Scorzeny approfittò dell’occasione per far visita ai due campi d’addestramento di Valdagno e di S. Giorgio. Arrivò a Valdagno il 30 giugno, ispezionò gli edifici e fece anche un’immersione in piscina, ma c’era poco tempo e il giorno stesso Skorzeny proseguì per Venezia. All’inizio di luglio 1944 Skorzeny destinò a Valdagno Walter Schreiber, ambizioso Untersturmführer delle SS. Schreiber proveniva da una famiglia austriaca di funzionari statali ed aveva terminato un addestramento per l’élite nazionalsocialista. A Valdagno egli ebbe l’incarico di rappresentante ufficiale di Skorzeny e di ufficiale di collegamento tra la Marina Militare ed i membri SS nel Lehrkommando 700. Contemporaneamente Schreiber iniziò l’addestramento come incursore per poter partecipare personalmente alle azioni. Il 22 luglio 1944 accadde a Valdagno un tragico incidente che ebbe notevoli ripercussioni: l’omicidio dell’SS Rockstroh. Questi aveva intenzione di compiere una razzia in alcune ville di commercianti veronesi nei dintorni di Valdagno dove si erano rifugiati donne e bambini per sfuggire ai continui bombardamenti su Verona. Avendo paura di effettuare queste scorrerie da solo aveva cercato un complice nelle SS che potesse essere della partita, ma il soldato rivelò i piani di Rockstroh al comandante Wandel che lo fece arrestare il 20 luglio. Per impedirne la fuga, Wandel fece disporre due guardie davanti alla cella nella soffitta della piscina. Nella notte tra il 21 ed il 22 luglio Rockstroh venne ucciso nel sonno con due colpi alla testa da altri soldati delle SS. Queste vicende ebbero anche uno strascico giudiziario dopo la guerra, ma il processo venne archiviato perché nessuno di coloro che avevano partecipato direttamente ai fatti era più in vita. La tomba di Rockstroh, sepolto senza onori militari nei dintorni di Valdagno, non fu più ritrovata. Alla fine di settembre 1944 questo omicidio assieme ad altri contrasti portò infine alla separazione degli incursori delle SS dalla Marina Militare. Una scuola per incursori delle SS e del servizio segreto venne istituita nel bagno Diana di Vienna. L’unità di incursori si chiamò SS-Jagdkommando Donau. A metà settembre si arrivò ad un importante cambiamento per la scuola propedeutica di Valdagno. Il rapido raffreddamento atmosferico non permetteva di effettuare l’addestramento di immersione in mare e quindi per la prima volta una parte dei sommozzatori di stanza a Valdagno venne addestrata anche al servizio logistico e di fanteria. Poiché in questo periodo le industrie Marzotto non potevano riscaldare la piscina a causa della mancanza di carbone, si dovette limitare anche l’addestramento propedeutico in piscina. L’addestramento propedeutico sospeso venne sostituito dall’addestramento di fanteria. Alla fine di settembre il perdurante periodo di maltempo che aveva molto raffreddato l’acqua ed il mare mosso pregiudicarono anche l’addestramento in mare del Lehrkommando 700. Nell’alto Adriatico era arrivata anche la bora insidiosa, un vento freddo, forte e a raffiche. A causa della mutata situazione d’impiego che richiedeva operazioni di incursori sul fronte dell’invasione e ad est piuttosto che nell’ambito del Mediterraneo, il 30 novembre 1944 i due presidi italiani dei Lehrkommando di incursori, Valdagno e S. Giorgio in Alga, vennero chiusi definitivamente. Gli incursori di mare delle due località vennero trasferiti al campo di addestramento 703 di List su Sylt. In seguito gli impianti di Valdagno vennero utilizzati da altre unità della formazione K. Nel dicembre 1944 arrivò a Valdagno il «gruppo maiali Lehmann», una dozzina di soldati della Marina Militare che non utilizzavano le pinne, ma operavano a cavallo di torpedo con due uomini. Il gruppo Lehmann rimase a Valdagno fino al febbraio 1945 e si trasferì poi per l’addestramento in mare sull’isola di S. Andrea nella laguna di Venezia. Solo alcuni incursori italiani rimasero a Valdagno fino alla fine della guerra.
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DALLA MONTAGNA ALLA PIANURA La strategia del battaglione Stella di Dante e di Pino Giancarlo Zorzanello Il 12 luglio 1944 tre partigiani furono uccisi durante uno scontro a fuoco nella contrada S. Valentino di Brendola. Da dove provenivano, dove erano diretti, a quale formazione appartenevano i tre partigiani? Furono fascisti o tedeschi coloro che li uccisero? Ma, soprattutto, la loro presenza nel territorio di Brendola era un episodio casuale o, invece, la realizzazione di una consapevole e articolata strategia partigiana? Sono queste le principali domande a cui si cercherà di dar risposta in queste pagine. I primi documenti Cominciamo dalla relazione, datata 14 luglio 1944, con cui il commissario prefettizio di Brendola, Gastone Zaccaria, comunica al capo della provincia di Vicenza, Edgardo Preti, al questore Cesare Linari e al commissario federale, Innocenzo Passuello, quello che era successo a Brendola un paio di giorni prima. «Adempio il dovere di informarvi che, avuto sentore che un gruppo di ribelli si aggirava nel territorio di questo comune, ne informavo subito il locale comando germanico per l’azione repressiva. Il 12 corrente alle ore 22,30 circa riuscivo a sorprendere insieme ai soldati germanici i ribelli stessi, mentre erano di passaggio sulla strada Colombara. Ne seguiva uno scontro durante il quale rimanevano uccisi tre ribelli. Le salme non sono ancora state identificate, non essendosi trovato addosso alcun documento di riconoscimento. Si é in attesa del nullaosta dell’autorità giudiziaria per il seppellimento. Proseguono le indagini per la cattura e l’identificazione dei fuggitivi»1. É la prima relazione sull’imboscata e storicamente ha il pregio di essere scritta a due giorni dal fatto e da una persona che vi partecipò. Da essa si ricavano: la data e l’ora esatta dell’imboscata, 12 luglio 1944, ore 22,30; il numero dei partigiani uccisi, 3; i responsabili dell’azione repressiva: i tedeschi del locale presidio e Zaccaria che ne ha sollecitato l’intervento; l’esistenza di altri ribelli che sono riusciti a fuggire. Fortunatamente (dal punto di vista storico) possiamo contare su altri documenti simili al precedente, cioè scritti quasi contemporaneamente ai fatti. Ci riferiamo al diario e alle lettere di «Ermenegildo», nome di battaglia di Alfredo Rigodanzo, 22 anni, allievo del liceo classico di Valdagno fino alla chiamata alle armi della sua classe. Egli era entrato in contatto con i partigiani della montagna verso i primi di aprile e da qualche settimana era stato nominato commissario politico del distaccamento di Selva di Trissino. Il 7 luglio 1944 dal suo rifugio del Roccolo dei Righettini sul Faldo scrive a «Pino», Clemente Lampioni, commissario politico del battaglione Stella, suo diretto superiore: «L’altra sera é partita la pattuglia Ursus per vedere se sará possibile piantare le basi di un nuovo distaccamento a Perarolo».2 Queste due righe ci dicono: la data e il luogo della partenza della pattuglia che cadde nell’imboscata di Brendola, Selva di Trissino, sera del 5 luglio 1944; la meta, le colline di Perarolo; lo scopo, costituire un nuovo distaccamento. La strategia di Dante e Pino Quest’ultima informazione è importante perché consente di capire la strategia che ispirava la missione della pattuglia di «Ursus». Normalmente le pattuglie partigiane che scendevano dai monti di Recoaro avevano il
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compito di agire lungo le principali vie di comunicazione a danno di mezzi di trasporto tedeschi o contro qualche presidio fascista. Terminata la missione la pattuglia rientrava alla base presso le contrade della montagna. Di questo tipo era, per esempio, la missione della pattuglia di «Ubaldo», Mario Molon, la quale doveva intercettare automezzi tedeschi e fascisti sulla strada statale 11. Purtroppo la missione ebbe un finale tragico: il capopattuglia «Ubaldo», catturato in contrada Calpeda di Arzignano, fu fucilato a Chiampo il 5 giugno 1944 assieme ad Illido Garzara, della brigata Vicenza Di una missione analoga era stata incaricata la pattuglia di «Furia», Francesco Gasparotto, che era partita da Selva di Trissino il 28 giugno3 ed era rientrata il 2 luglio ‘44. Nell’intervallo aveva attaccato un camion tedesco nella zona della Ghisa di Montecchio Maggiore causando la morte del tenente Walter Fuhr e del maresciallo Ernst Utz del presidio tedesco di Valdagno4. Anche i tedeschi peró avevano reagito uccidendo a loro volta un partigiano, «Piccolo», Carlo Battistella, e ferendone un altro, «Remo», Giovanni Soldá. La pattuglia di «Ursus», invece, aveva un incarico molto diverso. Essa doveva costituire una base sui colli Berici simile a quelle che esistevano nelle contrade intorno a Recoaro o a quella che «Ermenegildo» aveva costituito a Selva di Trissino. Una base, cioè, dove le pattuglie partigiane avrebbero potuto trovare rifugio, vettovagliamento, protezione e finanziamento da parte dei CLN locali, sotto le cui direttive avrebbero poi dovuto effettuare azioni e sabotaggi contro le forze nazifasciste. Non era la prima volta che a una pattuglia veniva affidata una missione del genere: il 23 giugno 1944 l’intero distaccamento di «Cita», Ennio Pozza, composto di 21 uomini, dotati di 7 armi automatiche, 14 moschetti e 35 bombe a mano, si era trasferito dal monte Civillina in pianura ed era riuscito a radicarsi tra Lonigo - Montagnana - Castelbaldo costituendovi nuovi distaccamenti e iniziando nella zona la lotta armata 5. Coloro che avevano ideato questa strategia e che la attuavano erano «Dante», Luigi Pierobon, comandante e commissario del battaglione Stella e «Pino». «Dante», in una lettera allo zio prete del 9 luglio 1944, ne fa esplicito riferimento: «Ho cominciato con distaccamenti in pianura e altre pattuglie continuerò a mandarvi quanto prima. Per ora ho mandato ad esplorare la zona e a saggiare la popolazione»6. I principali motivi che spingevano «Dante» e «Pino» a mettere in atto questo collegamento montagna-pianura erano i seguenti: - disorientare i fascisti e i tedeschi, colpendoli nei luoghi più diversi, sia in montagna che in pianura; - diminuire le rappresaglie nazifasciste contro le contrade di montagna; - alleggerire il carico che dovevano sostenere le famiglie abitanti in quelle contrade per quanto riguardava il vettovagliamento e l’alloggio dei partigiani che sempre più numerosi salivano in montagna; - coinvolgere nella lotta armata i contadini della pianura, fino a quel momento piuttosto tiepidi nei riguardi dei partigiani; - ritardare la trebbiatura del frumento in pianura e ridurne la quantità da versare all’ammasso, cioè nei magazzini della Repubblica sociale italiana. L’accordo «Garemi» - Marozin La missione di «Ursus», però, aveva anche un motivo del tutto particolare per spostarsi a sud, fuori della Valle dell’Agno. Esso va ricercato nell’accordo del 24 giugno 1944 tra «Alberto» e «Sergio», responsabili della brigata A. Garemi, e «Vero», Giuseppe Marozin, comandante della brigata Vicenza7. Questo accordo, tra le altre cose, stabiliva le zone di giurisdizione delle due formazioni: al battaglione Stella, che era la formazione della
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Luigi Pierobon, «Dante»
Clemente Lampioni, «Pino»
Garemi direttamente a contatto con la brigata Vicenza, era riservata la zona nord dei Lessini, comprendente il territorio di Recoaro e Valdagno. Veniva tolta la zona sud della valle, dove si trovava il distaccamento di «Ermenegildo». In base a questo accordo, dunque, «Ermenegildo» avrebbe dovuto abbandonare la sua base di Selva. In effetti nella lettera del 7 luglio, oltre a comunicare a «Pino» la partenza della pattuglia di «Ursus», «Ermenegildo» assicura che anch’egli, assieme alla pattuglia di «Speranza», Bortolo Rossato, sarebbe partito la sera stessa. Prima di sera, però, accadde un fatto che per poco non risolveva in maniera imprevista e definitiva il problema delle zone di giurisdizione: lo scoppio accidentale di una bomba all’interno del Roccolo dei Righettini. L’esplosione, che poteva avere conseguenze tragiche, provoca solo ferite superficiali tra coloro che si trovavano all’interno del Roccolo. «Ermenegildo» riporta tre ferite alla coscia sinistra che gli impediscono di muoversi se non a fatica8. Nessuna ferita alle mani, per cui è in grado poco dopo l’incidente di informare «Pino» dell’accaduto. Naturalmente, partire in quelle condizioni era impensabile: Sono francamente spiacentissimo per non essere potuto partire per quel luogo in cui dovevo recarmi9. Tre giorni dopo l’incidente, «Pino» inviò a Selva una nuova pattuglia agli ordini «Rosso», Silvano De Vicari, di Recoaro, con la quale «Ermenegildo» avrebbe dovuto scendere in pianura, una volta ristabilitosi. Pasarono due giorni e «Pino» insistette ancora con «Ermenegildo» per la realizzazione di questa missione: «Ricevo con piacere la notizia dell’arrivo della pattuglia Rosso - gli scriveva il 12 luglio, proprio il giorno in cui la pattuglia «Ursus» cadeva nell’imboscata di contrà S. Valentino - Il compito che gli è stato affidato è di vitale importanza e pertanto è necessaria la tua presenza sul posto, perché tu conosci la zona e avrai mezzi d’informarmi rapidamente»10. Su questa missione di vitale importanza e sulla zona a cui erano destinati «Ermenegildo» e «Rosso» non è stato possibile saperne di più. Ad ogni modo cinque giorni dopo l’arrivo della pattuglia di «Rosso», «Ermenegildo», che nel frattempo era guarito dalle ferite alla gamba, era ancora fermo a Selva: «Anche questa volta ti scrivo da Selva - inizia la lettera datata 17 luglio e indirizzata sempre a «Pino» - mentre tu mi crederai in un altro luogo. Il fatto della mia non partenza lo si deve a due cause: 1º ad Aquila Nera [Teodoro Moro] che ritiene necessaria la mia presenza in Selva per il fatto del lancio; 2º a Furia che non si puó piú muovere che a gran fatica»11. Nonostante manifesti il «profondo desiderio di voler andare a provare e tentare di dare nuove basi ad un distaccamento» le giustificazioni della sua mancata partenza appaiono deboli: il lancio infatti era in quel momento una possibilità piuttosto vaga, frutto più che altro della fantasia di «Aquila Nera» e «Furia», per essere curato, non aveva certo bisogno di avere vicino «Ermenegildo». In realtà le ragioni della riluttanza di «Ermenegildo» ad allontanarsi dalla base di Selva vanno ricercate nelle sue critiche all’accordo tra la brigata Garemi e la brigata Vicenza dal quale discendeva l’impegno a smobilitare il distaccamento di Selva per lasciare posto a Marozin: «È necessario – afferma nella lettera a «Pino» citata sopra – indurre Morosin [sic] a nuove clausole di rapporti tra noi e lui, essendo le giá fatte veramente da detestarsi»12. Poche ore dopo aver inviato questa lettera «Ermenegildo» venne a conoscenza di quanto era successo alla pattuglia di «Ursus» e questo gli diede una ragione, questa volta molto forte, per non muoversi da Selva. Le notizie furono portate da «Giro» che fece una prima lacunosa relazione dei fatti.
Alfredo Rigodanzo, «Ermenegildo»
La relazione di «Ermenegildo» «Ermenegildo» si affrettò a mettere per scritto le informazioni di «Giro» e a inviarle immediatamente a «Dante». Le riportiamo integralmente dato che costituiscono la seconda relazione scritta sull’imboscata di contrà S. Valentino, redatta solo 3 giorni dopo
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quella del commissario prefettizio di Brendola. «[La] pattuglia Ursus – scrive «Ermenegildo» il 17 luglio 1944 – recatasi al luogo definito, fu a quanto pare pedinata per diverso tempo. Rimasti senza viveri e soldi furono costretti ad abbassarsi. Pervenuti in una famiglia nei pressi di Brendola, mentre alcuni stavano prendendo del vino, altri fuori sono stati attaccati da una pattuglia tedesca a distanza. La nostra pattuglia si disperse, mentre Ursus e Palmiro restarono feriti, Giro e un altro riuscirono a fatica a portarsi in salvo i due compagni. Ursus non avendo potuto proseguire il cammino fu ricoverato in un ospedale per mezzo dell’interessamento del Comitato. É grave. Palmiro si trova attualmente a Montecchio maggiore ed è curato da alcuni collaboratori che sono effettivi della Marina. Giro é qui con me. Degli altri non si sa nulla. Speriamo in bene, per quanto sia stato fatto subito un rastrellamento e delle rappresaglie. Giorni prima Ursus é stato fermo a colloquio per circa due ore con dei responsabili del Comitato e da quelli seppe che alla loro volta seppero da fonte repubblicana quanto aveva fatto dalla sua partenza alla triste avventura»13. Se confrontiamo la relazione di «Ermenegildo» con quella di Zaccaria notiamo che le informazioni per quanto riguarda la sorte dei componenti della pattuglia sono complementari: Zaccaria comunica la morte di tre ribelli, ma non conosce la sorte dei fuggitivi; «Ermenegildo» non sa nulla dei tre caduti, mentre conosce la sorte dei fuggitivi. Differente, ma non inconciliabile, è la narrazione della dinamica dell’imboscata. Secondo «Ermenegildo» «mentre alcuni stavano prendendo del vino, altri fuori sono stati attaccati da una pattuglia tedesca a distanza». Secondo Zaccaria: «riuscivo a sorprendere insieme ai soldati germanici i ribelli stessi, mentre erano di passaggio sulla strada Colombara». I componenti della pattuglia «Ursus» Ma da quanti e quali uomini era composta la pattuglia dei ribelli? La pattuglia di «Ursus» era composta da otto partigiani. La comandava «Ursus», Gino Ongaro, capopattuglia, 22 anni, originario di Recoaro, che poteva vantare un’anzianità partigiana risalente al gruppo di Malga Campetto. Ongaro aveva partecipato a importanti e rischiose azioni, come quella di Marana, (12 aprile ‘44), dove era stato ferito «Pino», e quella che aveva portato all’eliminazione del segretario politico del Pfr di Recoaro, Attilio Piccoli, il 17 maggio ‘44. Tra gli altri partigiani vi era «Giro», Giulio Vencato, di anni 30 da Campotamaso, l’unico che riuscì a tornare alla base di Selva il 17 luglio 1944. Un mese prima, sorpreso in una contrada di Recoaro assieme ad altri 6 partigiani, era stato catturato dai fascisti e condotto a Recoaro. Mentre veniva trasportato con gli altri su un camion a Valdagno era stato liberato con un’azione ben combinata dai partigiani della zona agli ordini di «Dante» e di «Marco», Giuseppe D’Ambros. C’erano inoltre «Brill», Giuseppe Bevilacqua, 19 anni, da Selva di Trissino, cugino di «Ermenegildo»; «Cocco», Florindo Aver, di anni 22, nato a Sarcedo, residente a Cornedo; «Tordo», Luigi Nardon, di anni 33, da Valdagno; «Tino», Ilario Lovato, da Campodalbero; «Vasco» da Valli di Pasubio e «Palmiro», da Torrebelvicino. La pattuglia di «Ursus» era arrivata a Selva assieme a quella di «Speranza» il 24 giugno 1944. «Ermenegildo» così descrive il loro arrivo nel suo diario: « Ero svegliato da poco, quando Muci [suo cugino] venne ad annunciare che Ursus e Speranza stavano attendendomi in cucina. In brevissimo [tempo] fui da loro. Quindi li accompagnai in una stanza appartata e lì mi dissero che erano le due pattuglie destinate a rimanere a Selva. Ero felicissimo del loro arrivo e tanto che mi arrecò un po’ di agitazione. Dopo poche parole convenevoli all’accoglienza, Ursus mi consegnò una lettera. Era di Dante. In essa mi si informava che ero stato nominato temporalmente commissario di guerra del nuovo distaccamento, mentre mi elencava in seguito i doveri che devo svolgere. Subito un lampo di gioia mi attraversò tutto, ma ciò fu per poco»14.
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Gino Ongaro, «Ursus»
I doveri di un commissario di distaccamento, specificava «Dante» nella sua lettera del 22 giugno, erano: «educazione morale degli uomini, provvedere a tutti i bisogni morali e fisici degli uomini (in pratica procurare delle buone pastasciutte e dei fiaschi neri), approvare le azioni che i capipattuglia propongono: se tu credi siano politicamente e militarmente da farsi, si facciano»15. Certamente approvate da «Ermenegildo», perciò, furono le azioni che la pattuglia «Ursus» effettuò dal suo arrivo a Selva alla sua partenza. Ricordiamo le principali: - Prelevamento ad Arzignano della «Katia», Maria Boschetti, perché ritenuta responsabile della cattura e fucilazione di «Ubaldo», di cui abbiamo parlato precedentemente. - Arresto ed eliminazione di Pietro Dal Maso, oste di Pugnello, accusato proprio dalla Katia di essere una spia dei fascisti. - Prelevamento dal Comune di Nogarole, dove era podestà lo zio di «Ermenegildo», Pietro Rigodanzo, di una macchina da scrivere. La pattuglia di «Ursus» verso la pianura A questo punto non resta che narrare quanto avvenne tra il 5 e il 12 luglio alla pattuglia di «Ursus». Purtroppo le fonti scritte si riducono alle due brevi relazioni già citate. In compenso, però, ci sono le testimonianze orali di due protagonisti, «Ursus» e «Giro», che le hanno rilasciate tra il 1975 e il 1976 contestualmente ad un sopralluogo da loro fatto nella zona dove avvenne l’imboscata. Ecco quindi la ricostruzione dei fatti come risulta dall’incrocio di tutti i dati a disposizione. La pattuglia parte da Selva di Trissino la sera del 5 luglio e ha come meta le colline di Perarolo, sui colli Berici. Lì avrebbe dovuto prendere contatto con Carlo Segato, che in questo periodo é sfollato con la famiglia nella zona di Tavernelle – Altavilla e fa parte del Comando militare provinciale16. Scende per S. Benedetto, Restena, Tezze di Arzignano, attraversa la valdagnese un po’ più a nord delle «baracche» della Marina, sale sulle colline di SS. Trinità e qui avviene il primo incontro imprevisto che sarà foriero di conseguenze, come vedremo. La pattuglia, nonostante cerchi di passare inosservata, viene avvicinata da Gelsomino Camerra che vive proprio nella contrada sopra le «baracche» della Marina e che non esita a metterla in contatto con quattro-cinque marinai del presidio al Sottosegretariato alla Marina della Rsi. «Ursus» e i suoi nel vedere le divise repubblicane si mostrano sospettosi e diffidenti: pretendono che i marinai nella casa di Gelsomino siedano senza armi e di fronte a loro, che invece le armi le tengono imbracciate pronte per essere usate. I marinai propongono ad «Ursus» nientemeno che un colpo di mano ai danni del Presidio di cui fanno parte. I primi contatti per la più clamorosa delle azioni che il battaglione Stella porterà a termine nella notte tra il 23 e il 24 luglio, sono stabiliti. Ma sul momento la proposta dei marinai non fa deviare «Ursus» dai suoi obiettivi. Gelsomino, che conosce la zona, si offre di accompagnare la pattuglia per un tratto del percorso. Da SS. Trinità si spostano verso S. Urbano, scendono in Carbonara, attraversano la statale 11 nella zona di Selva di Montecchio e già sono sulle colline di Brendola. Arrivati nella zona di Perarolo, mentre aspettano che il rappresentate del Cln si faccia vivo fanno opera di convincimento tra i contadini della zona affinché ritardino la trebbiatura del grano. Consegnano anche ricevute con i timbri della brigata A. Garemi attestanti la avvenuta requisizione di determinate quantità di frumento. Purtroppo i giorni passano senza che Carlo Segato, o alcun altro componente del Cln locale o provinciale si faccia vivo. Secondo «Ursus» nessuno si presentò a causa del timore che i partigiani fossero fascisti travestiti da partigiani, come era successo giusto un mese prima, l’8 giugno, a Grancona, dove con questo inganno sette renitenti erano stati barbaramente trucidati.
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In contrada Guarenti Il 12 luglio «Ursus» e i suoi, ormai a corto di viveri e di denaro e privi di direttive, decidono di dar per conclusa la loro missione e di far ritorno in montagna. Prima, però, pensano di mettere a segno un colpo ai danni dei fascisti. «Avevamo sentito – testimonia «Ursus» – che a Vo’ di Brendola due ufficiali fascisti visitavano quasi tutte le sere a bordo di un’automobile delle ragazze della contrada. Abbiamo pensato di disarmare i fascisti, dare una lezione alle ragazze, requisire l’automobile e con questa tornare in montagna per vie traverse». E cosí ci accingono a fare. La sera del 12 luglio «Ursus» e i suoi scendono dalle colline di Brendola e si dirigono verso Vo’. Si fermano a mezza collina nella contrada Guarenti dove Giuseppe Castegnaro con i suoi famigliari e con l’aiuto di amici e conoscenti, come si usava allora, stanno trebbiando il frumento nella corte. Il Castegnaro era padre di 12 figli e coltivava a mezzadria i campi dell’avvocato Girotto, che viveva a Vicenza. I partigiani chiedono qualcosa da mangiare e Emilia, la figlia di 19 anni del Castegnaro, li fa accomodare in cucina. Riportiamo a questo punto la sua testimonianza, rilasciataci a Brendola il 29/1/97: «Stavo preparando la cena per gli uomini che avevano trebbiato tutto il giorno, quando arrivarono i partigiani. In cucina si tolsero gli zaini, posarono le armi e si sedettero. Diedi loro pan biscotto, salame e vino nero. Erano di buon umore e scherzavano tra loro e con me. Invitarono mio padre a non consegnare all’ammasso tutto il frumento, ma di trattenerne una parte per la famiglia. Mio padre non si sbilanciò: non sapeva con chi aveva a che fare. Intanto era calata la sera e i contadini nella corte avevano fermato la trebbiatrice e smesso di lavorare. Mio padre rientrò in casa facendo capire ai partigiani che era ora di togliere il disturbo. Non se lo fecero ripetere: si alzarono e si diressero verso la contrada S. Valentino che si trova giusto sotto la nostra. Intanto - continua la testimonianza di Emilia - gli uomini che avevano trebbiato tutto il giorno si erano da poco seduti a tavola, i bambini e le donne in cucina, quando entrò in casa un tedesco, gridò qualcosa nella sua lingua e sparò tre colpi di mitra sopra la testa degli uomini che stavano cenando. I colpi si conficcarono sul quadro che aveva di fronte e che rappresentava lo zio in divisa militare (il quadro con i fori lo conserva ancora mio fratello che vive ad Alte). Mio padre capì immediatamente la situazione e ordinò a tutti di alzare le mani. I tedeschi (erano tre) si resero subito conto, dopo aver consultato il commissario prefettizio Gastone Zaccaria che li guidava, che quegli uomini con le mani alzate piene di calli non erano i partigiani che cercavano. Dopo aver chiesto informazioni, forse rendendosi conto della loro inferiorità numerica, offrono un’arma anche a Danilo Rigolon, che aveva svolto fino a quel momento l’incarico di controllore della trebbiatura, dando per scontato che fosse dalla loro parte. Il Rigolon però rifiuta. Poi presero la stessa «cavesagna» sulla quale si erano incamminati poco prima i partigiani». L’agguato I partigiani, nel frattempo, avevano raggiunto la casa di Vittorio Maran in contrada S. Valentino. «Ursus» conosceva il Maran perché in passato aveva fatto con lui un po’ di borsa nera, comperando frumento, tabacco, vino e altri generi di prima necessità che scarseggiavano nelle contrade di montagna. Maran appena li vide manifestò apertamente la sua preoccupazione per la loro presenza, ricordando quello che era accaduto appena un mese prima a Grancona. «Ursus» per tranquillizzarlo gli suggerì che se avesse avuto delle noie da parte dei fascisti avrebbe dovuto dichiarare che i partigiani erano entrati in casa con le armi in pugno.
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Giuseppe Bevilacqua, «Brill»
Ormai era diventato buio. «Giro», il più prudente della pattuglia, si offerse di fare la guardia fuori della casa. Qualcuno però uscì e lo invitò ad entrare, perché sarebbero ripartiti subito. Ebbe appena il tempo di prendere in mano un bicchiere di nero che sentì le pallottole di una raffica di mitra sibilare sopra la sua testa e vide una figura con la divisa tedesca stagliata sulla porta da dove era entrato e come prima reazione colpì la fioca luce che illuminava la stanza. La situazione divenne subito disperata per gli otto partigiani che si trovavano nella cucina di Vittorio Maran: al buio, rinchiusi in una stanza, con un soldato tedesco alla porta pronto a far fuoco di nuovo. Uno dei primi che riuscì a riprendersi dallo choc gridò: «fuori tutti» e spinse quelli che gli erano più vicini verso quella che sembrava l’unica via di salvezza, la porta che dava sulla corte. A quella porta però erano appostati gli altri due tedeschi che, non appena comparvero i partigiani, aprirono il fuoco e ne uccisero tre, «Cocco», «Tordo» e «Brill». «Ursus» fu colpito da 5 pallottole alla gamba. Anche «Palmiro» e «Tino» furono feriti. «Vasco» non era ancora uscito e poté nascondersi tra le botti della cantina. «Giro», uscendo, inciampò sui corpi dei compagni e cadde, evitando così di essere colpito. Probabilmente i tre soldati tedeschi, non sapendo quanti partigiani armati fossero rimasti nella casa e se altri si trovassero nelle vicinanze, preferirono ritirarsi, essendo troppo pochi sia per controllare la zona sia per fare un vero rastrellamento, tanto più di notte (con loro si trovava solo il commissario prefettizio di Brendola, Gastone Zaccaria). «Giro» porta in salvo i feriti «Giro», appena poté, raggiunse strisciando la rete dell’orto e, favorito dall’oscurità, si mise in salvo nei campi circostanti. Dopo un po’, ripresosi dallo choc e non vedendo altri compagni dietro di sé, né sentendo rumori particolarmente sospetti, ritornò sui suoi passi, fermandosi a prudenziale distanza dalla casa. Non tardò a udire lamenti affannosi. Si avvicinò e vide due compagni feriti: «Ursus» e «Palmiro». Uno alla volta li trasportò il più lontano possibile dalla casa, nascondendoli in mezzo ai campi di sorgo, dove passarono la notte. Giunta la mattina, alla fatica e al dolore si aggiunsero anche la preoccupazione e la paura di essere individuati, dato che per tutto il giorno passarono e ripassarono le camionette militari dei fascisti della «pattuglia della morte» di Vicenza, quegli stessi che erano stati gli autori, un mese prima, dell’uccisione dei 7 martiri di Grancona. Infatti, il reggente del fascio di Brendola, Mario Tassoni, non potendo contare che su pochi iscritti al fascio repubblicano, si era precipitato a Vicenza per chiedere l’intervento della federazione provinciale. Lo stesso Tassoni conduceva il plotone alla ricerca dei partigiani17. Alla sera, pur non avendone individuato alcuno, i fascisti scattarono una foto di gruppo nella piazza di Brendola a ricordo di quella particolare battuta di caccia. Al centro della foto risalta, perché in borghese, Gastone Zaccaria18. Intanto dei due partigiani feriti, «Ursus» e «Palmiro», particolarmente gravi si rivelavano le condizioni di «Ursus», che, febbricitante, con l’arma puntata contro «Giro», minacciò di sparargli se non si fosse allontanato immediatamente, finché era in tempo. «Giro» tentò di calmarlo e, muovendosi con ogni cautela, cercò l’aiuto di qualche contadino. Finalmente incontrò una donna che passava lì vicino. Riportiamo a questo punto le parole di «Giro». «Quando la donna mi vide, cominciò a strillare e a scappare in preda al panico. Dovevo avere infatti un aspetto terrificante: gli occhi spiritati per le fatiche e le emozioni della notte, sporco di sangue e con gli abiti strappati e infangati. – Non gridi signora – le ingiunsi – Qui vicino ci sono due giovani feriti, di cui uno grave. Se lei ha
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dei figli sotto le armi, forse anche loro in questo momento potrebbero avere bisogno di aiuto». Colpita da quelle parole la donna, Luigia D’Ambros, classe 1904, che era affittuaria della famiglia Rossi, promise che qualcosa avrebbe fatto. Infatti qualche tempo dopo riapparve con grappa mista ad alcool denaturato, delle uova e un telo per riparare i feriti dal sole. A pomeriggio inoltrato «Giro» si caricò sulle spalle «Ursus», che non riusciva più a muoversi perché la gamba si era ingrossata ed indurita, e lo portò alla villa dell’ing. Rossi sulle colline di Vo’ di Brendola. Qui, sotto il portico, lo attendevano la famiglia Rossi, due dottori di Vicenza e il parroco di Vo’, don Giovanni Buratti. «Giro» consegnò loro «Ursus» e ritornò da «Palmiro», che aveva lasciato in mezzo ai campi19. Il ritorno a Selva Un po’ sorreggendo, un po’ trascinando «Palmiro», «Giro» riprese la strada di ritorno, portandosi dietro anche le armi dei due compagni feriti. Ad un certo punto ricevette l’aiuto insperato di Carlo Segato e dei suoi uomini che, informati dell’accaduto, si erano precipitati nella zona. Con loro raggiunse la casa dei Camerra a SS. Trinità, dove, come abbiamo visto, aveva fatto sosta la pattuglia «Ursus» quando era scesa da Selva. Sappiamo che la casa era diventata punto di riferimento anche per il gruppo dei quattro-cinque marinai che complottavano contro il presidio della Marina. Per questo «Ermenegildo» comunicò a «Dante» che «Palmiro» si trovava a Montecchio M., curato da alcuni collaboratori che sono effettivi della Marina20, mentre Carlo Segato e si suoi si premurarono di inviare a SS. Trinità il dottor Molon, sfollato da Vicenza a Sovizzo, affinché si prendesse cura del ferito21. «Giro», un volta lasciato in buone mani «Palmiro», si dirige verso Selva per i sentieri che seguono il crinale delle colline sulla sinistra dell’Agno. Gli imprevisti però per lui non sono terminati. Giunto nella zona di Castelgomberto si imbatte nella pattuglia di «Capriolo», Rodolfo Peripoli, la quale si sta dirigendo dietro esplicite direttive di «Dante » e «Pino», a Noventa22. La pattuglia è inquieta, dubbiosa e poco affiatata. Sembra ad alcuni di essere pedinati da sconosciuti dai Massignani alti. I loro timori aumentano quando, per caso, incontrano un esponente o presunto tale del Cln, il quale li mette in guardia sul fatto che due o tre esponenti della polizia fascista erano riusciti ad infiltrarsi nelle file partigiane. Ad aumentare i sospetti concorre il comportamento di due nuovi aggregati, «Piuma» e «Michele», Armando Giorio, inviati in montagna dal Cln di Vicenza. Il primo si rifiuta di seguire la pattuglia in quanto si sente ingannato dato che il Comitato gli aveva promesso che nelle fila partigiane avrebbe ricoperto l’incarico di autiere; il secondo, «Michele», insiste per condurre la pattuglia per vie che solo lui conosce. Non è necessario, perciò, che Giro racconti con eccessivi particolari quello che è accaduto alla pattuglia «Ursus» a Brendola, perché «Capriolo» e i suoi decidano di non fare un ulteriore passo verso la pianura. Effettuata qualche requisizione nelle case di alcune famiglie fasciste della zona23, il 17 luglio raggiungono Selva di Trissino in compagnia di «Giro». L’arrivo di «Giro» e della pattuglia Capriolo è, come abbiamo visto, la ragione forte per rimandare ulteriormente, questa volta definitivamente, la partenza di «Ermenegildo» da Selva. Il ricovero di «Ursus» all’ospedale di Vicenza Ritorniamo ora da «Ursus» che abbiamo lasciato a Brendola nella villa Rossi alle cure di due medici. Questi sono il dottor Vasco Savegnago e il suo assistente, i quali sono arrivati dall’ospedale di Vicenza, su invito esplicito dell’ingegner Rossi. I medici, appena vedono la gamba gonfia e nera, capiscono che per evitare la cancrena è necessario trasportare il ferito in una struttura ospedaliera e operare urgentemente. Il trasporto però è
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pericoloso: non è facile far passare inosservata una macchina fra i fascisti che pattugliano le strade del paese e attraverso i posti di blocco che sono situati in gran parte delle strade che entrano a Vicenza. Se si vuole salvare il ferito però non ci sono alternative. Prima di salire sull’auto «Ursus» distrugge lettere e documenti compromettenti, consegna il binocolo all’ing. Rossi, riceve una manciata di monetine dal parroco di Vo’, forse la raccolta delle offerte della messa di quel giorno. Per strade secondarie i due medici si dirigono verso l’Ospedale di Vicenza. Alla periferia della città fanno scendere il ferito e lo depongono in un campo vicino alla strada, appoggiato ad un mucchio di fieno. Fanno uscire quindi dall’ospedale un’autoambulanza, la quale raccoglie il ferito e a sirene spiegate ritorna in ospedale. All’accettazione dell’ospedale «Ursus» dichiara di chiamarsi «Ermenegildo» Torti da Trissino e di essersi procurato le ferite cadendo da un albero. Per evitare controlli di altri sanitari, i due medici bendano immediatamente la gamba del ferito con una fasciatura così stretta che quasi provoca danni più gravi delle pallottole tedesche. Se molti di coloro che lavorano all’ospedale sono inclini a chiudere un occhio e a non far domande su quel ferito, non così il responsabile dell’accettazione, il rag. Nicolò Rizzoli, il quale decide che è suo dovere vederci chiaro, anche perché dovrà ben presentare il conto della degenza e delle cure a qualcuno. Telefona, quindi, al Comune di Trissino per saperne di più su quell’Ermenegildo Torti. Ritorna dal ferito e gli contesta che nessun Ermenegildo Torti è residente nel Comune di Trissino. Anche un infermiere commenta di fronte ad «Ursus»: «L’ho detto subito io che questo è un uomo della montagna». «Ursus» protesta, si indigna, si arrabbia, tira in ballo la sua amicizia con il dottor Vasco Savegnago. Il ragioner Rizzoli non si fa impressionare dalle parole e va diritto a parlare con il dottor Savegnago. Ritorna dopo un po’: «Mi deve scusare – dice con un tono più conciliante della voce - quelle signorine del Comune di Trissino non capiscono proprio nulla, sono delle vere incompetenti». Ma per il ragioner Nicolò Rizzoli la faccenda è solo sospesa. Infatti dopo più di un anno da questa conversazione e precisamente il 23 agosto 1945, a guerra finita, egli invierà all’ufficio stralcio della brigata Stella la seguente lettera che riportiamo integralmente, dato che è una insospettabile conferma della testimonianza orale di «Ursus», sulla quale ci basiamo per ricostruire quest’ultima parte della ricerca. «Il 13 luglio 1944 alle ore 18 venne qui ricoverato d’urgenza per ferita lacera al piede sinistro certo Ermegildo Torti, fu Luigi, classe 1922. Comunicato l’accoglimento al Municipio di Trissino, questi rispondeva non esistere in quella anagrafe nominativi di tal genere. Questo ufficio spedalità da indagini svolte venne a conoscenza che le generalità declinate dal ferito erano false e che verosimilmente il predetto doveva appartenere ad una formazione di patrioti, allora disgraziatamente considerata fuorilegge. Data la nefasta situazione di allora lo scrivente sospese ogni ulteriore indagine per il recupero della spesa di degenza. Ora però, ad avvenuta liberazione, essendo conosciute le generalità autentiche dell’infermo e cioè Ongaro Gino, della classe 1922, già appartenente a codesta brigata col nome di battaglia Ursus si prega voler cortesemente provvedere al rimborso della spesa minima di ricovero, pari a numero 23 giornate di degenza e cioè dal 13 luglio al 5 agosto 1944 alla retta giornaliera di Lire 35. L’importo ammonta a 818,80 oltre il 4% per l’imposta sull’entrata. Si rimane in attesa di un cortese riscontro in merito. Il subcommissario prefettizio, Rag. Nicolò Rizzoli». 24 Se al ragioniere Rizzoli bastò una scambio di opinioni con il dottor Savegnago per lasciare in pace «Ursus», certo questo non sarebbe bastato al poliziotto Rocco Sgorbati di Recoaro, che prestava servizio all’interno dell’ospedale. Costui, riconosciuto subito
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il compaesano, gli si avvicinò discretamente dichiarandosi disponibile a portare notizie alla famiglia. «Ursus» gli rispose a muso duro che se voleva fargli un piacere ignorasse la sua presenza in quel luogo, e stesse alla larga dal suo letto. Disposizioni a cui il poliziotto si attenne scrupolosamente. Dopo la guerra lo Sgorbati fu epurato dalla commissione delle Fonti demaniali di Recoaro perché fascista. Sarà «Ursus» a difenderlo, facendolo riassumere. Guai maggiori rispetto a quelli del ragioniere e del poliziotto avrebbe potuto procurare il dottor Batoski, medico tedesco che operava nell’ospedale di Vicenza. Costui entrò in sala operatoria proprio quando i dottor Savegnago, con l’aiuto dell’assistente, stava operando la gamba di «Ursus». Diede un’occhiata al ferito, un’occhiata ai medici e il suo silenzio fu più eloquente di mille parole. Però in ospedale «Ursus» fu visitato anche da persone ben disposte nei suoi confronti. Una di queste fu don Giuseppe Sette, professore del seminario vescovile e cappellano delle carceri. Quasi ogni mattina gli faceva visita, gli regalava un pacchetto di sigarette da 10 e diceva a voce alta: «Fai presto a guarire che la tua mamma ti aspetta!» Una mattina a bassa voce lo informò che il vescovo Carlo Zinato gli inviava una bottiglia di Barolo chinato augurandogli una pronta guarigione. La bottiglia l’aveva in consegna la suora, la quale aveva l’incarico di somministrargliene un bicchiere al giorno quasi fosse una medicina. Un’altra persona che «Ursus» mai avrebbe pensato di vedere in quel luogo fu «Dante», il proprio comandante di battaglione. Luigi Pierobon gli comunicò che qualche giorno prima i partigiani avevano effettuato una brillante azione: il disarmo del Sottosegretariato alla Marina di Montecchio Maggiore. «Vedessi quanta roba abbiamo trovato e trasportato in montagna!» fu il commento che più rimase impresso nella memoria di «Ursus». Il ritorno in montagna Nonostante il ferito non fosse completamente guarito (i medici nella fretta e per l’emozione avevano dimenticato all’interno della gamba sinistra una delle cinque pallottole che lo avevano colpito), decidono che è giunto il momento di dimetterlo. Il ritorno di «Ursus» in montagna si presenta però non meno rischioso e complesso di quanto lo fosse stato il suo ricovero, anche perché il ferito camminava ancora con difficoltà ecco come avvenne. Il mattino del 6 agosto 1944 ad attendere «Ursus» fuori dall’ospedale ci sono due giovani donne inviate dal Cln di Vicenza, una delle quali è la professoressa Maria Sartori. Montano due biciclette da uomo, mentre a «Ursus» ne consegnano una vecchia e da donna. Per strade secondarie verso le 12 i tre arrivano alla Ghisa di Montecchio, proprio all’incrocio tra la valdagnese e la strada che porta a Tezze. Poco prima dell’incrocio vi è una fermata delle Ftv che serve quasi esclusivamente al presidio della Marina. La sorte vuole che il loro arrivo coincida con l’arrivo del treno e ci sia il pericolo che tra le numerose persone che salgono e scendono e tra i marinai che bazzicano intorno alla fermata qualcuno riconosca «Ursus». D’altra parte, vestito con una maglietta tutta sbrindellata, calzando in piena estate delle soprascarpe di gomma procurategli dal Cln, e un paio di pantaloni bianchi risalenti alla prima guerra mondiale, fornitigli dalla famiglia Rossi, egli può richiamare facilmente l’attenzione e suscitare più di qualche sospetto . Le ragazze intuiscono il pericolo. Basta un’occhiata per decidere cosa fare. Simulando un incidente si buttano per terra sollevando abbondantemente le gonne. L’attenzione dei presenti è tutta su di loro, così «Ursus» approfitta per passare e imboccare la strada che porta a Tezze. Alcuni accorrono per aiutare le due ragazze, altri si offrono per condurle al pronto soccorso. Quando però le ragazze notano che il loro protetto è scomparso, reagiscono e protestano che non vogliono essere toccate. Chiedono di parlare con il militare più alto in grado: «I suoi uomini – gridano indignate – ci sono saltati addosso come ossessi.» Esigono
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Brendola: il cippo ricordo dei partigiani caduti
scuse e severe punizioni per i colpevoli. Intanto «Ursus» che ha superato il ponte della Poscola può permettersi il primo vero sospiro di sollievo da quanto è sceso dalla montagna. Mentre aspetta le due accompagnatrici mette una mano in tasca e la ritira piena delle monetine del parroco di Brendola. Adesso sa come spenderà il contributo della Chiesa alla liberazione della patria. A S. Benedetto, ormai in zona partigiana, con le due ragazze che l’hanno raggiunto entra nell’unica osteria che si trova vicino alla chiesa, piena di gente, dato che è domenica. Riconosce e saluta «Ober», Pietro De Cao del gruppo di «Ermenegildo», che sta giocando a bocce e offre una birra alle ragazze. Quando paga, l’oste rimane sorpreso per la quantità di monetine che gli mette sul tavolo. Conclusione. Con il disastro avvenuto in contrada S. Valentino (tre partigiani caduti e tre feriti su otto), la strategia di «Dante» e «Pino» subisce una comprensibile battuta d’arresto. Dubitiamo però che «Dante» e «Pino» considerassero esaurita questa strategia, anzi. «Pino», infatti, dalla metà di luglio trasferisce il suo campo d’azione quasi esclusivamente in pianura. In quanto a «Dante» egli scrive a Ermegildo ancora il 3 agosto 1944. «A Selva ci sono già forze sufficienti. Bisogna trovare altre basi» [sott. nostra] e dubitiamo che pensasse ad altre basi in montagna. Ambedue inoltre saranno catturati in pianura, dove erano scesi, oltre che per prendere contatti con gli organi politici e militari della resistenza, anche per riorganizzare le pattuglie che già vi si trovavano Certamente per «Dante» e «Pino» trasferire pattuglie dalla montagna alla pianura era di fondamentale importanza. Infatti, anche prendendo in considerazione solo l’episodio che abbiamo ricostruito, quattro sono le pattuglie inviate da loro in pianura: oltre a quella di «Ursus», c’erano quelle di «Speranza», di «Rosso» e di «Capriolo». Se pensiamo che il battaglione Stella, in questo periodo, contava 115 uomini, ci rendiamo conto che con gli uomini di Cita che già si trovavano in pianura, la maggioranza del battaglione era destinato a spostarsi in pianura. È interessante confrontare la strategia di «Dante» e «Pino» con quella del loro diretto superiore «Alberto», Nello Boscagli, commissario politico della brigata A. Garemi, a cui apparteneva il battaglione Stella. Non c’è dubbio che questi dia invece priorità all’asse est-ovest, Garda - Brenta, piuttosto che quello a nord - sud di «Dante» e «Pino». Infatti, a metà di luglio 1944, quasi nello stesso periodo dell’episodio dell’imboscata di contrada S. Valentino, «Alberto» sposta la pattuglia di «Miro», Romano Marchi, da Recoaro sul monte Baldo sopra il lago di Garda, dove formerà la brigata Avesani25, e verso metà agosto sposterà «Serra», Mario Prunas, e «Belforte», Guerrino Bonora, sull’altopiano di Asiago26. «Alberto» fino alla liberazione si batterà con pazienza, ostinazione e impegno per realizzare e difendere questa strategia, vale a dire la costituzione della zona montana Garda - Brenta. Nel novembre ‘44 a villa Rospigliosi riuscirà ad esserne nominato comandante, con l’appoggio determinante della missione inglese comandata del maggiore Wilkinson, «Freccia». Alla fine però tutti i suoi sforzi si riveleranno vani. Non solo le principali città di pianura, Verona, Vicenza, Padova, saranno affidate dal Comando militare regionale alle formazioni partigiane non comuniste, ma anche la zona montana Garda-Brenta sarà divisa in tre: zona montana Verona, zona montana Garemi, zona montana Ortigara. L’episodio dell’imboscata della contrada S. Valentino, a nostro avviso, dimostra che un’altra strategia era possibile nell’estate ‘44, e se «Alberto» l’avesse presa in considerazione almeno in maniera complementare rispetto a quella della zona montana, probabilmente avrebbe ottenuto risultati più adeguati alla forza e alle potenzialità delle sue formazioni, le brigate garibaldine A. Garemi.
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Note Archivio di Stato di Vicenza, Fondo CLNP, b. 15, fasc. 18 2 Giancarlo Zorzanello (a cura di), Brigata Stella – Archivio storico. 24 maggio – 17 settembre1944, Valdagno 1980, - d. 47, p. 140 3 Brigata Stella, cit. Diario Catone, p. 132. 4 Cfr. M. Dal Lago, 3 luglio 1944. I sette martiri, Valdagno 2002, p. 14. 5 Sulla formazione costituita da «Cita» vedi Giancarlo Zorzanello (a cura di), Che almeno qualcuno sappia questo, Valdagno 1996, pp. 311 e ss. 6 Brigata Stella, cit., d. 50, p. 143 e ss. 7 Cfr. Brigata Stella, p. 30 ss. 8 Brigata Stella, cit. d. 48, p. 141 9 Ibidem, d. 48 10 Ibidem, d. 58, p. 151 11 Ibidem d. 58, p. 151 12 Ibidem, d. 58, p. 151 13 Ibidem, d. 59, p. 153 e ss. 14 Ibidem, Diario, p. 123 15 Ibidem, d. 33, p.125 16 Questa affermazione, riportata anche nel libro di G. Sartori, Sera del Corpus domini, 1996, p. 126, ci é stata smentita da Carlo Segato il 4/3/1997. 17 Cosí è riportato nella denuncia del 1
10/12/45 in Archivio di stato di Vicenza, Fondo CLNP, b. 15, fasc. 18 18 É possibile prendere visione della foto sempre nell’Archivio di stato Vicenza, Ibidem. 19 Non è stato possibile ricostruire la sorte dell’ottavo partigiano, «Tino». Si sa che fu ricoverato all’Ospedale di Vicenza e che si salvò. Non si conosce chi lo abbia portato all’Ospedale né chi lo abbia protetto durante la degenza. 20 Brigata Stella, cit. d. 59, p. 153. 21 Test. orale di Carlo Segato del 4/3/97 22 L’incontro è confermato anche dalla relazione scritta (1946) di «Michele» (Armando Giorio). 23 Relazione scritta da «Michele» in Archivio Zorzanello. 24 Fotocopia del documento in Archivio Zorzanello. Originale presso Quirino Traforti. 25 V. R. Marchi, La resistenza nel veronese. Storia della divisione Avesani. Vangelista ed. Milano 1979. 26 Il trasferimento è narrato da Aramin in Rapporto Garemi, Vangelista ed., Milano 1969, pp. 52,53.
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La conclusione della guerra a Valdagno Maurizio Dal Lago
Nel ricostruire quanto avvenne a Valdagno nelle settimane conclusive della guerra si cercherà di individuare quali erano le forze in campo: truppe tedesche, formazioni partigiane, forze della Repubblica sociale italiana (Rsi), truppe americane. Si tenterà poi di comprendere le modalità del loro scontrarsi, o non scontrarsi, nei giorni cruciali della Liberazione. Si farà cenno, infine, ai problemi che furono affrontati immediatamente dopo la fine della guerra. Le forze in campo Dall’agosto del 1943 era acquartierata a Valdagno una unità dell’aviazione tedesca forte di circa 400 uomini, il «Reparto informazioni e controllo di volo per impieghi speciali 11», Luftnachrichten Betriebsabteilungen zur besonderen Verwendung 11. Esso aveva il compito di garantire le comunicazioni radiotelefoniche, di controllare il traffico aereo e contemporaneamente di fungere da presidio militare dal quale dipendevano tutti i distaccamenti tedeschi della Valle dell’Agno. Nell’aprile del 1945 lo comandava il tenente colonnello Ludwig Hörger, che da febbraio aveva sostituito il maggiore Ludwig Diebold. L’ufficiale comandante di presidio che teneva i collegamenti con l’Amministrazione comunale era il capitano Lorenz. L’autocentro del reparto aveva sede nel parco della villa Gaianigo di Cornedo. A Recoaro Terme, dal settembre 1944, era dislocato il Comando superiore Sud-Ovest e il Comando superiore del gruppo d’armate C, vale a dire il cervello strategico che dirigeva le azioni delle truppe tedesche combattenti in Italia. Nell’aprile del 1945 comandante supremo era il generale Heinrich von Vietinghoff-Scheel, che aveva sostituito da poco il feldmaresciallo Albert Kesselring. Nel centro termale erano acquartierati circa 1500 soldati tedeschi. Per quanto riguarda le truppe italiane erano stanziati a Valdagno gli uomini «Gamma» della Decima Mas, un reparto segreto di incursori subacquei provenienti da Livorno agli ordini del tenente di vascello Eugenio Wolk e del suo vice Luigi Ferraro. Si trattava di un’ottantina di uomini che erano arrivati tra novembre e dicembre del 1943 e si addestravano nella piscina coperta. Nei locali della Rinascente, nella «Città sociale», lavoravano trecento funzionari della Direzione generale della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno della Repubblica sociale italiana. Tra di loro c’erano il capo e gli uomini della Divisione della polizia politica, vale a dire dell’Ovra, il cui archivio era stato trasferito in larga parte da Roma a Valdagno tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944. Capo dell’Ovra era il dr. Guido Leto, che rivestiva questa carica dall’ottobre del 1938 e che era contemporaneamente vice capo della polizia della Rsi. La Direzione generale di Polizia era dotata di un centro radioricevente che raccoglieva le notizie trasmesse da radio Londra e da altre emittenti alleate. Il centro operava nei locali dell’Istituto industriale chimico-tessile. Con i funzionari erano arrivati anche 120 agenti di PS comandati dal capitano Ermanno Di Loreto e gli addetti all’autocentro che era stato sistemato in viale Regina Margherita, vicino all’incrocio con via Dalmazia. Bisogna infine conteggiare gli uomini della 4^ compagnia Antonio Turcato apparte-
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nente alla 22^ brigata nera Antonio Faggion di Vicenza, che aveva distaccamenti anche a Recoaro e a Cornedo. La comandava Emilio Tomasi, originario di S. Benedetto di Trissino, volontario nella guerra in Etiopia, già podestà del comune di Cornedo. Non è possibile stabilire con precisione quanti brigatisti partecipassero con continuità alle azioni di rappresaglia e di rastrellamento, ma si può ragionevolmente ipotizzare che il loro numero non superasse le 100 unità. Dalla parte opposta stavano le brigate partigiane Stella e Rosselli. Il primo nucleo della «Stella» era nato all’interno del «Gruppo di malga Campetto» costituitosi nel gennaio-febbraio 1944. Diventato battaglione nel maggio, fu trasformato in brigata Stella ai primi di agosto, all’interno della divisione garibaldina «Ateo Garemi». La brigata era comandata da Luigi Pierobon, «Dante», e dal commissario politico Clemente Lampioni, «Pino», che vennero fatti prigionieri e uccisi dai tedeschi a Padova alla metà del mese. Li sostituirono Armando Pagnotti, «Jura», e Alfredo Rigodanzo, «Catone». La «Rosselli», comandata da Giobatta Danda, «Vestone», con Francesco Bevilacqua, «Francesco», commissario politico, e Eugenio Zaccaria, «Argonauta», capo di stato maggiore, aveva cominciato a strutturarsi dopo i rastrellamenti tedeschi del settembre 1944 che avevano fatto scomparire la «Pasubio» di Giuseppe Marozin, «Vero», e messo in gravi difficoltà la «Stella». Molti uomini della «Rosselli», infatti, provenivano dalla «Pasubio» e, in misura minore, dalla «Stella». La convivenza delle due brigate era stata molto problematica, sia per motivi ideologici (il gruppo dirigente della «Stella», dopo la morte di Pierobon e di Lampioni, era di matrice comunista, mentre quello della «Rosselli» era di ispirazione azionista), sia per la lunga trattativa concernente la definizione delle rispettive zone di competenza. Dopo lo sbandamento causato dal rastrellamento di Piana del 9 settembre 1944, «Catone» era riuscito a ricostruire la «Stella». Nell’aprile del 1945 essa, senza contare le staffette e quanti a vario titolo aiutavano i partigiani, aveva poco più di 300 combattenti, la metà dei quali formava i battaglioni Gian Dalla Bona, Giorgio Veronese e Perseo, che agivano nelle valli del Chiampo, d’Alpone e d’Illasi; l’altra metà era suddivisa nei battaglioni Romeo, Leo e Brill che occupavano la zona tra Recoaro e Trissino. In particolare il «Romeo» operava sui monti sopra Recoaro; il «Leo» era dislocato sui monti intorno a Novale-Valdagno; il «Brill» copriva l’area Piana-Cornedo-Trissino. I battaglioni erano articolati in distaccamenti e in pattuglie di cinque/dieci uomini ciascuna. In aprile il comando della brigata Stella era posizionato a Campanella di Altissimo. La brigata Rosselli era impostata su tre battaglioni: Martiri di Arzignano, Martiri Val del Chiampo, Martiri Val dell’Agno. A metà di aprile la brigata poteva contare su circa 200-230 combattenti. Il battaglione Martiri Val dell’Agno era una formazione territoriale costituita da una quarantina di uomini, non tutti armati. Negli ultimi giorni di guerra, dunque, i partigiani combattenti nella valle dell’Agno erano intorno alle 200 unità, di cui un centinaio nel territorio del comune di Valdagno. Dopo il trasferimento in pianura, avvenuto nel settembre-ottobre del 1944, del battaglione Valdagno comandato da Gino Soldà, «Paolo», mancavano del tutto formazioni partigiane di matrice cattolica. Il nucleo politico della resistenza era rappresentato dal Cln che a Valdagno era formato da Sergio Perin (Partito d’Azione), Bruno Gavasso e Luigi Pretto (Partito comunista), Pietro Nizzero e Lino Randon (Democrazia cristiana), Nino Cestonaro (Partito socialista di Unità proletaria), Livio Zenere (Partito liberale). Tutte queste forze fecero le loro mosse conclusive in concomitanza con l’offensiva alleata che iniziò alle 19.30 del 9 aprile 1945.
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Gli attacchi aerei contro i lanifici Marzotto L’offensiva fu preceduta e accompagnata da pesanti incursioni aeree che colpivano sia le prime linee sia le retrovie. In tale contesto fu bombardata anche Valdagno. L’obiettivo era costituito dagli stabilimenti Marzotto che erano «fabbriche protette», cioè controllate dal Ministero tedesco della produzione bellica, e lavoravano per il Reich. Le principali missioni d’attacco furono affidate ai potenti caccia americani P-47 Thunderbolt del 347° Squadron appartenente al 350° Gruppo caccia USAAF che aveva la sua base nell’aeroporto di Pisa. I primi mitragliamenti dello stabilimento di Valdagno si ebbero la mattina del 24 marzo quando furono colpite anche le sedi della Gil e della piscina coperta dove si allenavano i «Gamma». Alle 23 del 4 aprile un bombardiere A-20 «Havoc», il famoso «Pippo», del 47° Gruppo di bombardamento americano, sganciò cinque bombe sulla fabbrica del Maglio di Sopra e sulla linea tramviaria, causando danni abbastanza gravi. Verso le 9 del 6 aprile una formazione di otto P-47, guidata dal ten. Cliff M. Whitehead, sorvolò il centro laniero limitandosi a localizzare i due stabilimenti di Valdagno e di Maglio di Sopra. Quel giorno fu la seconda pattuglia ad attaccare. Essa decollò alle 12.20 agli ordini del ten. Eugene C. Smith e alle 14 mitragliò lo stabilimento di Valdagno causando un principio di incendio. Furono colpite anche la stazione tramviaria e una motrice. I danni materiali furono rilevanti ma non ci fu nessuna vittima. Quattro giorni dopo, il 10 aprile, i Thunderbolt mitragliarono e bombardarono i lanifici valdagnesi con due incursioni ravvicinate. Il primo attacco fu condotto alle 8 da quattro P-47 il cui capo pattuglia Whitehead aveva già sorvolato l’obiettivo il 6 aprile. Due caccia puntarono sulla fabbrica del Maglio di Sopra, la mitragliarono a volo radente e sganciarono tre bombe da 500 libbre e razzi M.8, distruggendo la portineria e colpendo il reparto filatura pettinata, i binari della tramvia e una casa adiacente alla fabbrica. Le vittime furono due, Attilio Pitassi, 54 anni, e Sebastiano Gaiarsa, 38 anni. Gli altri due P47 mitragliarono e bombardarono il lanificio di Valdagno. Il secondo attacco fu effettuato alle 11 dalla squadriglia guidata dal ten. Joseph F. Pickerel che si concentrò sul lanificio di Valdagno. I piloti di questi quattro caccia fecero un primo passaggio per osservare i danni causati dall’attacco dei loro colleghi e poi sganciarono le otto bombe in dotazione, provocando danni particolarmente gravi al magazzino filati e scorte, ai reparti ritorcitura e assortitura, al magazzino lane dove si sviluppò un incendio di grandi proporzioni. Non ci furono vittime. Il magazzino lane bruciava ancora nel pomeriggio quando Valdagno fu sorvolata da una terza squadriglia di P-47 al comando del ten. Hirum W. Kershaw che registrò il fatto nel suo rapporto. Il giorno dopo il ten. Whitehead guidò per la terza volta i suoi caccia su Valdagno attaccando nuovamente lo stabilimento di Maglio di Sopra fra le 13 e le 14 con quattro Thunderbolt: i primi due fecero tre passaggi a volo radente mentre gli altri due ne effettuarono una decina mitragliando il magazzino centrale, un piccolo deposito di carburante e, ancora, la filatura. L’attacco provocò danni gravi e un incendio, ma nessuna vittima. Di fatto tutti questi attacchi bloccarono la produzione in entrambi gli stabilimenti così come si erano prefissi gli alleati. L’incursione dell’11 aprile fu l’ultimo attacco aereo condotto contro le fabbriche Marzotto. Il bombardamento delle Fonti di Recoaro e la resa tedesca Può apparire strano che gli americani abbiano effettuato sei missioni di bombardamento su Valdagno e nessuna su Recoaro dove l’obiettivo era ben più importante. Logica avrebbe voluto, infatti, che gli alleati bombardassero subito e pesantemente il comando
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Sud-Ovest di von Vietinghoff per interrompere i collegamenti con le truppe di prima linea e aumentarne lo sbandamento. Se ciò non avvenne lo si dovette al fatto che da più di un mese erano in atto trattative segrete tra personalità tedesche operanti in Italia e uomini dei servizi segreti alleati per concordare la resa delle truppe tedesche sul fronte italiano (operazione «Sunrise»). I contatti con Allen Dulles, responsabile dell’Office of Strategic Service in Svizzera, erano tenuti personalmente dal capo delle SS in Italia gen. Karl Wolff, appoggiato dal ministro plenipotenziario Rudolph Rahn. Agli inizi di aprile Wolff era andato a Recoaro per informare apertamente il generale von Vietinghoff delle trattative in corso e per convincerlo alla resa, ma questi rifiutò di deporre le armi perché temeva la vendetta di Hitler e perché non voleva «pugnalare alla schiena» le armate che ancora combattevano sul fronte occidentale e su quello orientale. Wolff tornò altre volte a Recoaro, l’ultima il 13 aprile, senza però mai riuscire a convincere von Vietinghoff. Visto che da Recoaro non arrivava nessun segnale di resa, il 19 aprile gli angloamericani dichiararono chiusa l’operazione «Sunrise» e il giorno dopo diciotto bombardieri B25 sganciarono sul comando di von Vietinghoff alle Fonti Centrali 135 bombe. Morirono 20 civili italiani e un numero imprecisato di soldati e ufficiali tedeschi. Di fronte a questo pesantissimo avvertimento Wolff e Rahn si precipitarono a Recoaro per salvare il salvabile. In una drammatica riunione durata tutta la domenica del 22 aprile, i due riuscirono alla fine a convincere Vietinghoff a inviare i suoi plenipotenziari presso il quartier generale alleato di Caserta per firmare la resa. I plenipotenziari partirono da Recoaro nella notte tra il 22 e il 23 aprile. Contemporaneamente gli eventi subivano una forte accelerazione. Quella notte stessa, infatti, la 10^ e la 14^ armata tedesche, dopo essere state decimate dagli attacchi alleati, cominciarono ad attraversare il Po incalzate dalla 5^ armata americana e dall’8^ armata inglese. La ritirata tedesca si stava trasformando in rotta e c’era il pericolo reale che lo stesso comando Sud-Ovest venisse fatto prigioniero prima che a Caserta fosse firmata la resa. Martedì 24 aprile, perciò, Vietinghoff diede l’ordine di abbandonare Recoaro e di arretrare il comando a Bolzano. L’operazione iniziò nella notte tra il 24 e il 25 e proseguì per tutto il giorno lungo la direttrice passo Xon, Valli del Pasubio e passo Pian delle Fugazze. I soldati della Luftwaffe del presidio di Valdagno lasciarono la città nella giornata di mercoledì 25 e seguirono von Vietinghoff sulla strada verso Bolzano senza distruggere gli stabilimenti Marzotto, peraltro già molto danneggiati dai bombardamenti alleati delle settimane precedenti. Gli alti comandi tedeschi in Italia, infatti, non dettero attuazione all’ordine di Hitler che imponeva di fare terra bruciata nei territori occupati. In questo modo essi, nel dopoguerra, poterono presentarsi come coloro che avevano «salvato» il sistema produttivo dell’Italia settentrionale. Giovedì 26 aprile I partigiani di Recoaro e di Valdagno furono presi in contropiede da queste improvvise partenze e per tutto il 25 non si mossero. Lo fecero il giorno dopo agendo ciascun battaglione, distaccamento e pattuglia in modo del tutto autonomo per quanto riguardava i tempi, i metodi e gli obiettivi. Non si hanno prove di una direzione unitaria delle azioni partigiane da parte dei comandi delle rispettive brigate. Il battaglione Romeo, comandato da Pietro Benetti, «Pompeo», scese a Recoaro il 26 mattina senza incontrare alcuna resistenza. La liberazione di Valdagno cominciò nel pomeriggio, con l’azione di alcuni distaccamenti del battaglione Leo che, inseguendo un piccolo gruppo di soldati tedeschi, «si trovarono ad occupare il paese di Novale». Di lì la pattuglia di Luigi Faccin, «Negro», proseguì «verso il Maglio di Sopra impadronendosi
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dello stabilimento Lanificio Marzotto» insieme con Italo Rossi, «Pedro» e con Dante Perlati, «Giove». Erano le 15.00: «Cominciò subito l’intercettamento di automezzi tedeschi di passaggio, dando luogo a sparatorie e alla cattura di prigionieri che furono lasciati liberi dopo il loro disarmo, in quanto - dato l’esiguo numero iniziale di patrioti presenti - costituivano un pericolo in caso di attacco tedesco». Nelle stesse ore i partigiani del battaglione Martiri Val dell’Agno comandati da Duilio Ongaro, «Jan», e da Eugenio Zaccaria, «Argonauta», presero posizione in viale Regina Margherita e inaspettatamente si trovarono a fianco gli uomini dell’autocentro della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza della Rsi che misero a disposizione armi e automezzi. Altre armi arrivarono dalla repentina scomparsa della brigata nera Turcato, mentre nessun problema venne dai «Gamma» della Decima Mas. Fu questa l’ «ora zero» di Valdagno, un breve ma densissimo tempo durante il quale, partiti i tedeschi, si registrò il collasso della brigata nera, il mutamento di campo della polizia della Rsi e il defilarsi dei «Gamma», mentre i partigiani e il Cln cercavano di organizzarsi e di far fronte ad eventi che mutavano in continuazione. Fu un momento di vuoto, la cesura che segnò il passaggio, anche per Valdagno, da un’epoca all’altra. Valdagno ora zero Gli appartenenti alla brigata nera Turcato non avevano seguito gli alleati tedeschi nella loro ritirata. Al contrario, il comandante Tomasi aveva deciso in un primo momento di trasferire la brigata a Milano e la mattina del 26 aveva fatto caricare su di un camion con rimorchio Alfa Romeo armi e documenti. Ma ormai il 2° e il 4° Corpo della 5^ armata americana avevano superato l’Adige tra Legnago e Verona e stavano tagliando ogni via di fuga in quella direzione. Cominciò allora una fase convulsa. Alcuni brigatisti, consapevoli del crollo imminente, nelle settimane precedenti avevano cercato contatti con i partigiani per arrivare a una resa concordata che salvasse loro la vita. In particolare il brigatista Narciso Grandis era entrato in contatto con il garibaldino Oreste Baruffato, «Scarpa», e con il fratello di questi, Aristide, fruttivendolo. Nella mattinata del 26 Grandis cercò di convincere il suo comandante ad arrendersi, ma prima di consegnare le armi Tomasi pretendeva ovvie garanzie di incolumità che provenissero da un comando partigiano. Grandis trasmise la richiesta a Baruffato. Si era intorno a mezzogiorno. In quel momento a Valdagno non c’era nessun comando partigiano. Oreste Baruffato, che era originario di Monteviale, decise allora di raggiungere il suo paese con una motocicletta messagli a disposizione dallo stesso Tomasi per ottenere dal comandante «Rondine», operaio alla Marzotto, un impegno scritto circa l’incolumità degli uomini della brigata nera. «Rondine», Mariano Oliviero, che comandava un distaccamento del battaglione garibaldino Ismene operante a Monteviale e sulla dorsale Leogra-Agno, firmò subito il documento richiesto. Baruffato poté tornare a Valdagno verso le 1 e mostrare l’impegno scritto a Tomasi. La riunione decisiva si tenne in casa dell’ex commissario prefettizio di Recoaro, Olinto Randon: qui Tomasi ordinò lo scioglimento della brigata e che ciascuno pensasse a se stesso dopo essersi messo in borghese. La temuta «Turcato» si dissolse di colpo, senza combattere. Una parte delle armi della brigata nera (moschetti, fucili, Mauser, pistole) passarono agli uomini del battaglione Martiri Val dell’Agno di «Jan». Poi l’Alfa Romeo 800, con l’autista e il geometra Francesco Zenere, si mosse da villa Valle-Orsini e prese la strada di Castelvecchio lungo la quale furono distribuite armi anche ai civili, come avvenne in contrada Cengia. In città erano rimasti anche i funzionari della Direzione generale di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno insieme con la compagnia agenti e gli addetti all’autocentro.
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Era rimasto soprattutto il vice capo della polizia e capo dell’Ovra, Guido Leto, che nei mesi precedenti aveva intessuto cauti rapporti sia con emissari alleati sia con esponenti del movimento partigiano. Il 24 aprile, attraverso il capitano di polizia Comotti, Guido Leto aveva assicurato Sergio Perin, Gaetano Crosara e «Jura» che, al momento opportuno, la Direzione generale di PS sarebbe stata dalla loro parte. Nella giornata di giovedì 26 Leto si mise a disposizione del Cln di Valdagno. L’archivio centrale della polizia dove erano custodite 2500 casse di cui 400, del peso di un quintale ciascuna, contenevano i fascicoli dell’Ovra, non fu distrutto ma, finita la guerra, venne riportato a Roma. Naturalmente, il mutamento di campo del vice capo della polizia fece sì che anche gli agenti passassero immediatamente dalla parte dei partigiani, i quali poterono usufruire delle armi presenti nell’autocentro in aggiunta a quelle sequestrate alla brigata nera. Infine erano rimasti a Valdagno quasi tutti i «Gamma» con il ten. Ferraro, mentre il loro comandante Wolk era partito all’alba di martedì 24 aprile diretto a Trieste con soli tre uomini. I «Gamma» non combatterono contro i partigiani né al loro fianco ma accettarono di svolgere un ruolo di mediatori nei confronti delle unità tedesche che attraversavano Valdagno dirette a nord, come avvenne quello stesso pomeriggio. Una forte colonna tedesca, infatti, si era bloccata tra lo stabilimento di Valdagno e quello del Maglio dove erano appena arrivati i partigiani del battaglione Leo bloccando la strada. I tedeschi chiesero di parlamentare. Luigi Zordan, «Malga», comandante del battaglione Leo, il tenente Ferraro e il capitano Di Loreto riuscirono a convincere il comandante della colonna a tornare indietro e a passare per Priabona. Fu l’unica colonna a invertire la marcia perché i tedeschi arrivavano ormai da tutte le parti e ingaggiavano brevi sparatorie con i partigiani che si facevano loro incontro, soprattutto lungo viale Regina Margherita dove il destino volle che la prima vittima valdagnese della liberazione fosse un bambino di otto anni, Gianni Peretto, ucciso alle sei del pomeriggio davanti a casa da un proiettile al petto. Alla sera, in località Campagna, uomini del battaglione Martiri Val dell’Agno si scontrarono con un’unità tedesca e lasciarono sul terreno Giovanni Lora, colpito al volto. Egli fu il primo combattente a cadere. Quella sera morì anche Vittorio Lucchesi, istruttore di meccanica presso le scuole di avviamento professionale. Era sceso in strada per portare un bottiglia di vino al partigiano, e suo allievo, Vittorino Urbani che era appostato con altri quattro vicino all’incrocio di Maglio di Sotto. L’arrivo improvviso di una colonna tedesca che sparava in continuazione ai lati della strada lo sorprese allo scoperto e un colpo lo raggiunse al cuore. Intanto il Cln esautorava il commissario prefettizio Rino Marchetti mentre il battaglione della «Rosselli» e quello della «Stella» cominciavano a rafforzarsi e a controllare il centro cittadino. Venerdì 27 aprile Nella notte tra il 26 e il 27 arrivarono altre colonne tedesche. Alle due del mattino un primo gruppo di autoblindo e carri armati passò velocemente sparando lungo viale Trento. All’alba una nuova colonna imboccò viale Regina Margherita e, all’altezza della Stazione vecchia, all’incrocio con via Dalmazia, investì con il fuoco di armi pesanti i pochi uomini del battaglione Martiri Val dell’Agno che, insieme con gli agenti dell’autocentro, stavano mettendo in posizione due mitragliatrici Breda 37. Colpito più volte all’addome morì Francesco Dani, mentre Ugo Zordan fu ferito gravemente e morirà due mesi dopo. La colonna tedesca riuscì a passare. Probabilmente fu questa colonna che, alle 7, incrociò al ponte dei Marchesini un’autoambulanza che trasportava all’ospedale Rita Sartori, ferita a S. Quirico dalle raffiche
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sparate da una precedente colonna tedesca. Con lei c’erano il padre, Giovanni, un vicino, Millo Bortolo Beltrame, e due partigiani della «Stella», Rino e Danilo Torrente. Alcune testimonianze riferiscono di un conflitto a fuoco tra i due partigiani e i tedeschi, altre negano che tale scontro sia avvenuto. Resta il fatto che i soldati tedeschi non fecero prigionieri ma uccisero sul posto tutti e quattro gli uomini con un colpo alla testa. Fu l’episodio più sanguinoso accaduto durante i giorni della liberazione di Valdagno. Quel giorno caddero in luoghi diversi anche l’operaio laniero Antonio Ferrari, il mugnaio Francesco Dal Lago, il manovale Vittorio Liotto, l’operaio Francesco Bicego. Francesco Novello, diciotto anni, fu colpito al collo dalla raffica di una pattuglia tedesca che passava davanti alla sua casa in via Dalmazia. Gli scontri continui consigliarono un mutamento di tattica sia ai partigiani sia ai tedeschi. I primi decisero di lasciar passare le colonne e i gruppi che si dimostrassero superiori in numero e in armamento, i secondi si fecero precedere da ostaggi civili. Ad Altissimo, quel giorno stesso, un reparto di SS prese in ostaggio una decina di uomini che, a piedi scalzi e a mani alzate, furono costretti a precedere il reparto fino a Valdagno dove vennero rilasciati in cambio di prigionieri tedeschi in mano ai partigiani. I tedeschi non arrivavano solo in colonne ancora ben armate e decise ad aprirsi la strada ad ogni costo, ma anche a piccoli gruppi, o addirittura isolatamente, a volte in abiti civili. Entravano nelle case e pretendevano da mangiare con le buone e con le cattive. Portavano via tutto ciò che serviva a muoversi, carretti, cavalli, biciclette. Altri, invece, avanzavano come «relitti umani stanchi e demoralizzati che consentono a parlamentare e chiedono di passare senza essere molestati». Molti vennero fatti prigionieri e chiusi negli scantinati del lanificio di Valdagno. Nel frattempo il 350^ reggimento di fanteria appartenente all’88^ Divisione americana riceveva l’ordine di muovere da S. Bonifacio e di entrare il più velocemente possibile a Vicenza. Da sud, lungo la strada della Riviera berica, anche i reparti della 91^ Divisione stavano puntando sul capoluogo. A Valdagno, mentre le armi ancora crepitavano, il Cln annunciò la fine della dittatura e l’inizio di una nuova stagione di libertà e di giustizia: Cittadini! In quest’ora storica, che segna il trionfo della giustizia, della libertà, della civiltà sulle iniquità e sulla barbarie naziste-fasciste, il COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE, che, da tempo costituito in Valdagno per volontà di tutti i partiti politici, ha diretto la lotta contro i tedeschi e i fascisti: in nome del popolo, assume immediatamente tutti i poteri pubblici del mandamento di Valdagno, Recoaro, Cornedo, Brogliano, Castelgomberto e Trissino. Il comitato si propone i seguenti compiti: I^ Estirpare completamente dal Paese la mala pianta del fascismo. 2^Mantenere l’ordine pubblico affinché la vita ritorni normale. 3^ Provvedere al vettovagliamento del paese. 4^ Rendere al Popolo lavoratore una vera giustizia sociale ed economica. Per il conseguimento di tali fini il Comitato si servirà, ove occorra, del Corpo Volontari della libertà. Ma soprattutto il Comitato fa affidamento sul sentimento civile e morale della popolazione, affinché collabori alla ricostruzione del paese in ordine e con serenità di spirito. Cittadini! Da voi dipende, oggi, che la patria risorga, che il Popolo Italiano abbia finalmente giustizia, libertà e pace nel lavoro. Siate degni di questo grande dovere.
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Sabato 28 aprile Ma non era ancora finita: alla Campanella di Altissimo, alle quattro del mattino del 28 aprile, un gruppo di tedeschi entrò in casa del valdagnese Marino Meneguzzo e lo portò via come ostaggio. Lo uccisero dopo essere giunti a Valli del Pasubio. Sempre ad Altissimo, qualche ora più tardi, trecento tedeschi presero in ostaggio nove donne e sette uomini, tra i quali il parroco, don Luigi Bevilacqua, il cappellano, don Vittorio Cailotto, che si offrì volontariamente, e il segretario comunale Eugenio Candiago (il patriota «Enigma»). Staffette partigiane, tra le quali anche una suora, avvisarono tutte le pattuglie di non sparare. Furono informati anche il Cln e i partigiani di Valdagno perché predisponessero la trattativa per la liberazione degli ostaggi. La colonna, comandata da un maggiore, si mise in marcia sotto una fitta pioggia. La trattativa avvenne alla Figigola e fu condotta da Andrea Marigo, un interprete della Marzotto e da due partigiani. Dopo alcuni momenti di forte tensione si giunse ad un accordo: i sedici ostaggi sarebbero stati liberati a Maglio di Sopra, dove sarebbero stati sostituiti da sei giovani di Valdagno che avrebbero preceduto i tedeschi fino a Recoaro. Durante l’attraversamento del paese porte e finestre dovevano rimanere chiuse e nessuna persona doveva trovarsi lungo il percorso. Così avvenne. A Maglio di Sopra attendevano cinque giovani. Il maggiore tedesco insisteva nel volerne sei, come convenuto. Marigo pose fine alla discussione con pacata fermezza: «Cinque o sei, signor maggiore, fa lo stesso in questo caso. Vedrete che arriverete a Recoaro senza noie». Questa, probabilmente, fu l’ultima colonna tedesca che attraversò Valdagno. Nelle stesse ore di sabato 28 aprile gli americani dell’88^ e della 91^ Divisione entravano a Vicenza. Domenica 29 aprile Domenica 29 aprile i valdagnesi, a differenza degli scledensi coinvolti nell’ultimo attacco partigiano contro i tedeschi in ritirata, fecero festa: «il tricolore sventola dalle case; sembra di vivere in un altro mondo. Tutti si sorridono, tutti si salutano, tutti sembrano liberati da un incubo. Bandierine e coccarde tricolori vengono improvvisate e distribuite; al balcone del Municipio sono esposte le bandiere alleate». Quel giorno i componenti del Cln valdagnese, scortati dal capitano Di Loreto, andarono a Vicenza per incontrare gli esponenti del Cln provinciale. Al ritorno il Cln nominò la giunta comunale: sindaco, Francesco Zanotelli; vicesindaco, Pietro Broccardo; assessori: Mirco dr. Panciera, Lino Randon, Lorenzo Carlassara, Giov. Battista Battilana, Mario Randon, Raffaele Pretto, Francesco Battistin, Costantino Parra, Agnese Battistin in Tovo. In un manifesto che fu affisso quel giorno, il comando della brigata Stella affidava al popolo la custodia della conquistata libertà, nella certezza «che saprà conservarla contro ogni tentativo di ritorno della tirannia vinta». Lunedì 30 aprile L’ultimo giorno di aprile fu denso di avvenimenti. Si riunì per la prima volta la giunta comunale, arrivarono gli americani, furono fucilati tre appartenenti alla brigata nera Turcato. La giunta discusse «della particolare situazione creatasi dopo la liberazione di Valdagno ad opera dei valorosi Patrioti» e decise di «provvedere alla requisizione dei viveri giacenti presso gli esercenti od anche privati provenienti da contrattazioni illegali od abusive. Gli accertamenti verranno operati dalle Guardie municipali, unitamente alle Guardie di Finanza e Carabinieri». Prese poi atto «delle necessità in cui è venuta a trovarsi la popolazione di alcune con-
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trade (Piana, Castelvecchio, Bernardi) a seguito delle rappresaglie compiute dalle truppe tedesche e fasciste in collaborazione, nonché dei provvedimenti già assunti per l’assistenza momentanea» e ritenne «essere particolarmente urgente mettere le popolazioni stesse nella condizione di riedificarsi la casa e rifare la dotazione di tutto il corredo necessario alle famiglie». A tal fine fu indetta una pubblica sottoscrizione alla quale il Comune partecipò con una somma di 50 mila lire. Infine la giunta comunale prese atto che lo stabilimento Marzotto riprendeva il lavoro, sia pure in misura ridotta, in attesa di riparare i danni di guerra subiti; che alle famiglie degli operai sarebbe stato distribuito un vestito e che, in quanto possibile, la distribuzione sarebbe stata estesa anche alle famiglie che non avevano lavoratori nell’industria; che nei giorni successivi sarebbe stata celebrata una funzione religiosa in suffragio dei caduti per la liberazione. Gli americani arrivarono il 30 aprile. I soldati appartenevano al 804^ battaglione anticarro, Tank Destroyer, della 91^ Divisione. Il comando scelse come propria sede la villa del conte Gaetano Marzotto. «Jura» e «Malga» accompagnarono il tenente americano nel lanificio e gli consegnarono 1.500-2.000 soldati tedeschi fatti prigionieri dai partigiani nei giorni precedenti in vari punti della valle. Poi, in piazza del municipio, tra una folla festante, l’ufficiale pose nella canna della mitragliera della sua jeep il mazzo di fiori che gli era stato offerto. Gli americani non interferirono sull’ultimo evento della giornata. Nel tardo pomeriggio, alle 18, alla stessa ora in cui erano stati uccisi i sette martiri 10 mesi prima, furono fucilati nel campo sportivo tre esponenti della brigata nera, Emilio Tomasi, Italo Caovilla, Luigi Andrighetto. Inizialmente i fascisti da fucilare dovevano essere dieci: Aldo Ponza, Sibillo Agosti, Emilio Tomasi, Narciso Grandis, Florindo Castagna, Italo Caovilla, Ederino Gavasso, Giovanni Visonà, Giovanni Righetti, Amelio Fornasa. Lo avevano comunicato al Cln «Jura» e «Catone», comandante e commissario politico della brigata Stella che li teneva prigionieri. Probabilmente ci furono pressioni dell’ultimo momento per ridurre il numero dei condannati a morte e alla fine si decise di fucilare solo coloro che erano considerati i maggiori responsabili delle azioni di rappresaglia e di rastrellamento compiute dalla brigata nera di Valdagno. La sentenza di morte contro i tre fascisti fu sottoscritta congiuntamente dal comando della brigata garibaldina e dal Cln e fu eseguita davanti ad alcune centinaia di valdagnesi. I tre condannati ebbero fino all’ultimo l’assistenza spirituale di don Francesco Regretti che il 7 aprile 1924 era stato vittima di un’aggressione fascista. Il difficile ritorno alla normalità La guerra sul fronte italiano finì alle 14 di mercoledì 2 maggio. A Fongara «fu un giubilo generale che non si può descrivere». A Castelgomberto «lo sparo dei fucili e delle mitraglie, il suono delle campane, il gaudio del popolo e il suono di mille campanelli fecero noto l’annuncio e dalle case, dai monti e dalla campagna si levarono fuochi e razzi e spari di allegria. Si cantò in quella sera il Te Deum». A Castelvecchio, invece, le campane suonarono a festa solo a mezzogiorno del 3 maggio, dopo che fu sepolto Luigi Cracco, ucciso il giorno precedente vicino alla contrada Sordo in uno scontro con una pattuglia di paracadutisti tedeschi che furono poi catturati dagli stessi paesani e sottratti a stento al linciaggio. Luigi Cracco fu l’ultima vittima della guerra in comune di Valdagno. Se la guerra mondiale era finita, e con essa anche la guerra di liberazione nazionale, non era ancora conclusa la guerra civile con i suoi regolamenti di conti. Neppure a Valdagno. Il Cln ne era consapevole e cercò di controllare la situazione: il 3 maggio preparò
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un manifesto in cui si ordinava a tutti gli iscritti all’ex partito fascista repubblicano di presentarsi alla «Casa della libertà» (ex casa del fascio) tra il 4 e il 10 maggio. Trascorso quel termine coloro che non si fossero presentati sarebbero stati considerati fuori legge. Ma proprio entro quell’arco di tempo furono passati per le armi tre fascisti. Giovanni Visonà, che era già stato compreso nell’elenco dei dieci, venne fucilato dai partigiani nel pomeriggio di venerdì 4 maggio ai Facchini di Sinistra, lo stesso luogo dove il 23 febbraio 1945, insieme con due brigatisti, aveva torturato e ucciso il partigiano dr. Gian Attilio Dalla Bona, fatto prigioniero il giorno prima durante un rastrellamento. Lunedì 7 maggio Saverio Lora, elettricista presso il lanificio, dopo un acceso interrogatorio condotto a Villa Masci da Raffaele Cucciniello del Cln, fu condotto al cimitero di Valdagno dove gli fu fatta scavare la fossa e poi fu fucilato. Giovedì 10 maggio, alle 4 del mattino, uomini appartenenti al battaglione Brill fucilarono al Ponte della Piana Girolamo Ronchi, accusato di essere una spia dei fascisti e di aver provocato la cattura e la successiva uccisione di Luciano Urbani, «Cerino», da parte della brigata nera di Valdagno. L’uccisione di «Cerino» era avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 1944 al Ponte della Piana. Lo stillicidio di queste esecuzioni preoccupò non poco le autorità provinciali e il comando alleato, che qualche giorno dopo convocarono a Vicenza il presidente del Cln del mandamento di Valdagno, Sergio Perin. Questi il 12 maggio trasmise ai comandi delle Brigate Stella e Rosselli gli ordini ricevuti nel capoluogo: « Nessuna esecuzione è giustificata. Tutti gli armati devono essere a disposizione di un comando di CC.RR. o di un Commissariato di Polizia e possono uscire armati solo per servizio. Il Comando Alleato minaccia le più gravi sanzioni contro gli inadempienti e di conseguenza contro gli organi responsabili». Inoltre a Vicenza si osservava «come le zone di Valdagno e di Thiene siano le sole che non siano ancora ritornate allo stato di normalità». Nella seconda metà del mese la situazione era tutt’altro che tornata normale e non solo perché ancora il 18 maggio nel lanificio di Valdagno rimanevano 65 prigionieri austriaci, ma soprattutto perché Sergio Perin dovette scrivere alla Compagnia agenti di PS e al comando della «Stella» per vietare «ad elementi non autorizzati di accedere alle carceri mandamentali e alle camere di sicurezza di Villa Masci» e per ammonire che «qualora degli elementi non autorizzati, siano pure Partigiani, volessero violare con la forza la consegna degli Agenti preposti alla custodia, questi ultimi sono autorizzati a far uso delle armi». In calce alla lettera, che porta la data del 28 maggio, «Catone» appose di suo pugno una nota con la quale ordinava «a tutti i C/di in indirizzo che nessuno potrà entrare nelle carceri se non autorizzato» e subito dopo con «Jura» emanò un ordine a tutti i comandi dipendenti dalla «Stella» in cui segnalava che il Cln aveva autorizzato i carabinieri e gli agenti preposti alla sorveglianza delle carceri «a far uso delle armi, qualora elementi non autorizzati -siano pure Partigiani, volessero violare la consegna. Assicurate per iscritto». Evidentemente sia Perin che Rigodanzo avevano motivo di temere che potesse accadere a Valdagno quello che era avvenuto a Recoaro nella notte tra il 21 e il 22 maggio quando erano stati uccisi il maggiore Emanuele Viaggio e il tenente Aldo Meozzi, appartenenti alla Guardia nazionale repubblicana. In seguito a questo episodio, già il 25 maggio l’Allied Military Governement di Schio aveva ordinato il trasferimento dei fascisti detenuti a Recoaro nelle carceri di Valdagno. Ma dovette intervenire il Comando alleato di Vicenza il 31 maggio perché il trasferimento avvenisse il primo giugno. Il 28 maggio i partigiani consegnarono le armi. La cerimonia ebbe luogo nel campo sportivo. I tre battaglioni della «Stella» consegnarono, tra l’altro, 563 bombe da mor-
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taio tedesco, 319 fucili Mauser, 253 fucili italiani mod. ‘91, 17 Parabellum, 3 mortai da «81», 3 mortai da «45», 26 tra fucili mitragliatori e mitraglie con 18 canne di ricambio, 4 quintali di munizioni varie, 89 carabine italiane, 8 mitra «Beretta», 23 «Panzer-Faust», 4 bazooka americani con 82 proiettili, e una mitragliera da 20m/m. Da parte sua il battaglione Martiri Val dell’Agno della brigata Rosselli informò il Comando alleato che oltre alle armi appena consegnate, c’erano anche 3 carri armati. Il primo, di tipo leggero, si trovava in piazza Dante a Valdagno, il secondo, di tipo pesante, era a Cornedo Vicentino davanti alla casa del popolo; il terzo si trovava ad Arzignano. Gli alleati riconobbero che molte armi erano state consegnate ma il capitano Baker della polizia americana, durante una riunione tenuta nel Municipio di Valdagno il 21 giugno, denunciò il fatto che «le migliori sono state nascoste». L’accordo di Vittorio Veneto Il problema più grave, tuttavia, rimaneva quello della disoccupazione. I lanifici, nonostante le assicurazioni e le speranze, erano sempre chiusi a causa dei danni subiti durante i bombardamenti alleati e per mancanza di materia prima. Il Cln aveva esautorato il direttore generale Filippo Masci e lo aveva sostituito con un triumvirato formato da Leopoldo Rausse, Franco Brunello e Lino Randon. Gaetano Marzotto aveva lasciato Caldè sul lago Maggiore, dove si era rifugiato nell’estate del 1944, e si era trasferito nella tenuta di Portogruaro. Per lui, infatti, era pericoloso rientrare a Valdagno dove, come ricorda Luigi Meneghello in Libera nos a Malo, alcuni partigiani volevano impiccarlo: «L’impiccatore di Marzotto era biondo, schivo e trasognato». Altri, invece, avrebbero preferito fucilarlo. E qualcuno lo fece, almeno in effigie, sparando a una sua foto incorniciata. Senza contare che ai primi di giugno era pervenuto al Cln provinciale un esposto che accusava Marzotto di collaborazionismo con i nazifascisti. Era un’accusa pesante che Vicenza non intendeva lasciar cadere. Di tutt’altro parere era il Cln di Valdagno che si era reso conto di come il triumvirato non fosse in grado di rimettere in moto il ciclo produttivo dei lanifici in assenza, tra le molte altre cose, anche di quelle cospicue risorse finanziarie che solo Marzotto poteva garantire. Da parte sua Marzotto capì di dover trovare in fretta un accordo con il Cln della «sua» Valdagno se voleva tornare alla testa degli stabilimenti e far fronte, da una posizione politicamente meno debole e isolata di quella in cui si trovava, alle accuse che gli venivano mosse. L’obiettiva convergenza degli interessi facilitò i contatti preliminari tra Marzotto e Cln di Valdagno, mediati in territorio neutrale dal vescovo di Vittorio Veneto Giuseppe Zaffonato, già carismatico arciprete di Valdagno. L’incontro risolutore si tenne nel castello di S. Martino a Vittorio Veneto il 20 giugno 1945. L’ing. Masci, che rappresentava Marzotto, ottenne dal Cln valdagnese l’assicurazione che nessuna azione politica sarebbe stata intrapresa ai danni del conte; il Cln, rappresentato da Bruno Gavasso (Pci), Sergio Perin (Partito d’Azione), Lino Randon (Dc), Livio Zenere (Pli) e Nino Cestonaro (Psiup), ottenne da Marzotto l’impegno a contribuire con denaro, terreni e fabbricati alla creazione di una cooperativa di operai desiderosi di avere la casa in proprietà e a versare sei milioni di lire da distribuirsi equamente tra le circa trecento famiglie sinistrate in seguito alle rappresaglie nazifasciste. Marzotto, infine, doveva facilitare la costituzione di una cooperativa operaia per la gestione dei negozi di alimentari e di abbigliamento. Il lavoro negli stabilimenti sarebbe ripreso entro una settimana. Era un compromesso nato in una logica tutta valdagnese, che permetteva al Cln di accreditarsi presso l’opinione pubblica per aver favorito la ripresa del lavoro in un contesto più «sociale» e più «democratico», e che consentiva a Marzotto di ritornare a
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Valdagno politicamente assolto e senza temere ritorsioni di sorta. Il mediatore dell’accordo di Vittorio Veneto, mons. Zaffonato, sigillò il tutto nel modo più solenne. Accolto da una grande folla il vescovo arrivò a Valdagno mercoledì 11 luglio e guidò un triduo di ringraziamento per la fine della guerra che culminò nel pellegrinaggio al santuario di Monte Berico nella notte tra venerdì e sabato. Lungo il percorso, come annotò il Bollettino parrocchiale, la gente si chiedeva se «da Valdagno si erano mosse anche le montagne».
Nota bibliografica Sulla dislocazione delle truppe italiane e tedesche a Valdagno cfr. Maurizio Dal Lago-Franco Rasia, Valdagno, marzo-giugno1944. Dallo sciopero generale all’eccidio di Borga, Valdagno 2004. Sulla Direzione generale di PS e sugli uffici dell’Ovra a Valdagno cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino 1999; Marco Borghi, Tra fascio littorio e senso dello Stato. Funzionari, apparati, ministeri nella Repubblica sociale italiana (1943-1945), Padova 2001. Per quanto concerne le formazioni partigiane nel valdagnese si veda: Giancarlo Zorzanello (a cura di), Resistenza sui Lessini: Brigata Stella. Archivio storico, 24 maggio-17settembre 1944, Valdagno 1980; Id, Che almeno qualcuno sappia questo. Archivio storico della brigata Stella . 19 settembre 1944 - 1 gennaio 1945, Valdagno 1996; Benito Gramola, La formazione del partito d’Azione vicentino. La Brigata Rosselli. Divisione partigiana «Vicenza», Valdagno 1997; Sergio Fortuna-Gianni Refosco, Tempo di guerra. Castelgomberto: avvenimenti e protagonisti del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, Schio 2001. Sull’operazione «Sunrise» cfr. Elena Aga Rossi-Bradley F. Smith, La resa tedesca in Italia, Milano 1980. Sui bombardamenti alleati vedi Giuseppe Versolato, Bombardamenti aerei degli alleati nel vicentino 1943-1945, Valdagno 2001. Per la fine della guerra nella valle dell’Agno si veda Maurizio Dal Lago-Giorgio Trivelli,
1945. La fine della guerra nella valle dell’Agno, Valdagno 1999. Sui giorni della liberazione cfr. G. Vescovi (a cura di), Brigata Rosselli - Divisione Vicenza, in «Resistenza nella Valle dell’Agno», Valdagno, s.d., (ma 1986); Mario faggion-Gianni Ghirardini (a cura di), Divisione Stella. Documenti della Liberazione, Schio 1990; Breve cronaca della liberazione di Valdagno, in «Valdagno libera», n.1, 8-9 maggio 1945. [Eugenio Candiago], La passione del Chiampo, Valdagno 1945; Gianni A. Cisotto, Guerra e resistenza nella cronaca di un parroco del vicentino (1940-1945), Valdagno 1995; Anniversario, in «Bollettino dei Lanifici Marzotto», XXI, n.4, aprile 1946; Relazione sulle operazioni svolte dalla brigata «Leo» per la liberazione dei centri industriali di Valdagno e Maglio di Sopra. Relazione dei rapporti intercorsi tra la Direzione Generale della polizia ed elementi del C.L.N. e delle formazioni dei patrioti; Relazione sul contributo dato dalla compagnia di polizia di Valdagno per la liberazione di Valdagno; Comando Distaccamento Marino Ceccon, Maglio di Sopra: relazione attività armata per la liberazione del territorio valdagnese dalle truppe nazifasciste; Fondo Eugenio Zaccaria. Le relazioni si trovano nell’Archivio comunale di Valdagno, sezione Resistenza. Sulla liberazione di Schio vedi Luca Valente, L’ultima battaglia, Schio 2002. Sul caso Marzotto si veda Maurizio Dal Lago, Epurazione e industriali. Gaetano Marzotto a Valdagno, in «Italia contemporanea», marzo 1997, n. 206, pp. 107-124.
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IMMAGINI DELLA GUERRA
«Uomini in guerra» opera di Giuliano Picininno
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1939 8 aprile: occupazione italiana dell’Albania. La Seconda Guerra Mondiale inizia alle ore 4,45 del I° settembre 1939: dopo la stipula del patto Ribbentrop- Molotov, Hitler invade la Polonia da ovest, subito seguito da Stalin da est. 2 settembre: l’Italia dichiara la sua “non belligeranza”. 3 settembre: Inghilterra e Francia dichiarano guerra alla Germania. In ottobre territori polacchi popolati da tedeschi sono incorporati nel “Grande Reich”, metà della Polonia diventa “governatorato generale”; gli ebrei vengono concentrati in grandi ghetti, la dirigenza polacca eliminata fisicamente; contemporaneamente Stalin assoggetta all’Unione Sovietica le repubbliche baltiche dell’Estonia, Lettonia e Lituania, più l’Ucraina e la Russia Bianca. In Polonia vengono avviate deportazioni e l’eliminazione degli ufficiali. 3 novembre: in deroga alla stretta neutralità precedente il congresso statunitense passa la legge “cash and carry” a favore delle potenze alleate 30 novembre: l’Unione Sovietica attacca la Finlandia. I Finlandesi resistono sulla “linea di Mannerheim”, che sbarra la Carelia. In dicembre l’Unione Sovietica viene espulsa dalla Società delle Nazioni.
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1940 12 marzo: viene firmata la pace tra Unione Sovietica e Finlandia. 9 aprile: truppe tedesche invadono la Danimarca e la Norvegia. 10 maggio: inizia la grande offensiva tedesca sul fronte occidentale: Hitler invade l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo e nelle settimane successive accerchia i Francesi a Dunkerque e sulla linea Maginot. Il premier inglese Chamberlain viene sostituito da Winston Churchill. 10 giugno: Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania. Si aprono il fronte francese e quelli africani. La Francia, governo Pétain, capitola il 22 giugno. L’Inghilterra resiste agli attacchi della Luftwaffe (fallimento dell’operazione tedesca «Leone marino»). 13 settembre: truppe italiane avanzano in Egitto fino a Sidi el Barrani 12 ottobre: una missione tedesca entra in Romania, irritazione di Mussolini 28 ottobre: l’Italia attacca la Grecia, che contrattacca penetrando in Albania (novembre). 11 novembre: aerei siluranti inglesi attaccano la flotta italiana a Taranto, affondando tre corazzate 9 dicembre: gli Inglesi attaccano sul fronte libico conquistando entro il mese Sollum.
Fronte Francese - Il Principe Umberto visita il fronte (foto Ottorino Dal Lago)
Fronte Greco Albanese - Accampamento di Fanteria italiana (foto Ugo Sperman)
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Fronte Greco Albanese - Reparto della Divisione Acqui in marcia in val Shushica (foto Bruno Rasia)
Fronte Francese - Fanteria italiana al passo Finestre Q. m 2600 (foto Ottorino Dal Lago)
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Lonate - Serg. Maggiore Pilota Cracco Ruggero
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Zainetto italiano
Distintivo delle Truppe albanesi al fianco degli italiani
Zaino da Fanteria italiano
Maschera antigas italiana
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Cappello da ufficiale della Milizia
Elmetto francese
Scudetti da braccio
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Fronte Africa orientale - soldati valdagnesi davanti ad una chiesa (foto Archivio storico comunale)
Fronte Greco Albanese - Delvino - Fanti Sergio Sperman, Bruno Rasia, Ugo Sperman e Ottorino Dal Lago
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Moschetto italiano mod. 91
Ufficiale dell’Esercito italiano
Maschera antigas italiana
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Fronte Greco Albanese - Artiglieri del gruppo Udine della Divisione Julia ( a sinistra il Sergente Gastone Menato) Tirana, Albania. Bruno Rasia e Rino Longo davanti al Comando Tappa di Tirana
Fronte Africa Orientale - Soldati Valdagnesi in Etiopia (foto Archivio storico comunale)
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1941 19 gennaio: inizia l’offensiva inglese in Eritrea. Incontro Mussolini-Hitler e fine della «guerra parallela» italiana. Febbraio: gli Inglesi conquistano Bengasi e la Cirenaica. 11 marzo: il Parlamento americano approva la legge «affitti e prestiti» per la cessione di armi all’Inghilterra. 6 aprile: Germania e Italia invadono la Jugoslavia e la Grecia. La Slovenia e la Dalmazia passano all’Italia che controlla la Croazia, il Montenegro e gran parte della Grecia. Aprile: le truppe italo tedesche (Rommel) riconquistano la Cirenaica, ma l’Italia perde l’Etiopia, la Somalia e l’Eritrea. 22 giugno: Hitler invade la Russia (operazione «Barbarossa»). 25 giugno: Mussolini manda in Russia un corpo di spedizione (Csir). Luglio: insurrezioni partigiane in Jugoslavia 14 agosto: Churchill e Roosevelt firmano la «Carta atlantica». 1 dicembre: le truppe tedesche sono fermate alle porte di Mosca. 5 dicembre inizia la controffensiva invernale sovietica anche contro le truppe italiane. 7 dicembre: attacco aereo giapponese su Pearl Harbor. 11 dicembre; Germania e Italia dichiarano guerra agli Stati Uniti. Novembre-dicembre: l’offensiva inglese in Africa settentrionale ha successo, l’Asse perde la Cirenaica.
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Fronte Greco Albanese - Due fanti italiani (foto Mario Peloso)
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Fronte Greco Albanese - Momenti di riposo (foto Bruno Rasia)
Fronte Libico - Soldati della Div. Bologna - con il casco il geniere Mario (Tonin) Sperman
65
Fronte Greco Albanese - Fanfara del 232^ Rgt. Fanteria, Divisione Brennero (foto Ottorino Dal Lago)
Atene - soldati italiani sotto il Partenone (foto Mario Peloso)
66
Fronte Libico - Genieri della Div. Bologna -( foto Tonin Sperman)
Fronte Greco Albanese - Crocerossina Gina Fin con un tenente medico
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Sx Fronte Greco Albanese - Fanteria in marcia (foto Mario Peloso) Dx Fronte Greco Albanese - Alpini e Genieri con radio da campo (foto Mario Peloso)
Fronte Greco Albanese - Momenti di riposo (foto Bruno Rasia)
68
Cappello alpino
Elmetto russo
Cassetta metallica italiana porta colpi da mortaio da 81
69
70
Carta topografica su tela dell’esercito greco
Medaglie commemorative della 9 ̂ e dell’11 ̂ armata italiana
71
1942 Gennaio: il Giappone conquista le Filippine e la Malesia. 20 gennaio: conferenza di Wannsee. I gerarchi nazisti decidono la «soluzione finale del problema ebraico» (Treblinka, Auschwitz.-Birkenau, Bergen-Belsen). Febbraio: riconquista italo-tedesca della Cirenaica. Marzo: conquista giapponese di Giava e della Birmania. Aprile: si intensifica la lotta partigiana in Jugoslavia. Maggio: riprende l’offensiva tedesca sul fronte russo. 4-6 giugno: sconfitta giapponese nella battaglia delle isole Midway. 21 giugno: gli italo-tedeschi riconquistano Tobruk e penetrano in Egitto. Luglio: l’Armir parte per la Russia. Luglio: prima battaglia ad El Alamein. Agosto: inizia la battaglia di Guadalcanal. Settembre: inizia la battaglia di Stalingrado. 23 ottobre-4 novembre: seconda battaglia ad El Alamein. Inizia la ritirata italo-tedesca dall’Egitto. 8 novembre: gli Americani sbarcano in Marocco e in Algeria. 20 novembre: gli Inglesi conquistano la Cirenaica. 19 novembre: i Russi contrattaccano sul fronte di Stalingrado e accerchiano la 6a armata tedesca. 11 dicembre: offensiva russa contro l’Armir.
73
Fronte Russo - Selenjar - Primo a sinistra Alpino Mario Albiero con gruppo di ufficiali dx Fronte Russo - Fanti italiani del CSIR (foto Beniamino Maddalena) sx Fronte Russo - Fanti italiani del CSIR (foto Bellotto )
74
Fronte Russo - Ospedale da Campo 438 al centro Cap. Medico Giuseppe Zordan
Fronte Russo - Fanti italiani (foto Archivio storico comunale)
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Fronte Russo - Prigionieri russi (foto Giuseppe Zordan)
Fronte Jugoslavo - Alpini della Div. Pusteria (foto Archivio storico comunale)
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Fronte Russo - Alpini su un carro T34 russo (foto Bellotto)
Fronte Iugoslavo - Foto ricordo di carabinieri ed alpini (foto Archivio storico comunale)
77
Fronte Russo - Fanti italiani con donne ucraine (foto Beniamino Maddalena)
Fronte Russo - Fanteria italiana in sosta presso un’isba (foto Giuseppe Zordan)
78
Manifesto italiano sulla sicurezza dei trasporti in Iugoslavia
Manifesto di propaganda fascista
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Fronte Russo - Cinque Rubli raccolti durante la ritirata dall’artigliere alpino Pietro dal Chele
Berretto russo
Distintivo del Battglione Vicenza Divisione Julia Medaglia commemorativa della campagna di Russia
Alpino della Divisione Tridentina Motocarrozzella tedesca - marca Zundapp
80
Elmetto inglese
Soldato della 78^ Div. Fanteria inglese
Casco italiano tipo Africa
Maschera antigas inglese
81
1943 13 gennaio: offensiva russa contro il corpo d’armata alpino che accerchiato si ritira. Gli Inglesi conquistano la Tripolitania. Conferenza di Casablanca. 2 febbraio: la 6a armata tedesca di von Paulus si arrende a Stalingrado; vittoria americana a Guadalcanal. Marzo: i Russi avanzano sul fronte orientale; gli Americani verso la Nuova Guinea. Aprile: ultima difesa delle truppe italo-tedesche a Enfidaville. 13 Maggio: l’Africa Korps e la Ia Armata italiana si arrendono in Tunisia. Giugno: gli alleati conquistano Pantelleria e Lampedusa. Luglio: 10, sbarco anglo-americano in Sicilia; 25, crollo del fascismo. Agosto: offensiva russa da Orel al mar d’Azov. Settembre: 3, l’Italia firma la resa senza condizioni; 8, annuncio dell’armistizio e sbarco alleato a Salerno; fuga del re e del governo; i tedeschi occupano l’Italia centro-settentrionale; massacro della divisione «Acqui» a Cefalonia; deportazione dei soldati italiani in Germania; nascita della Repubblica sociale italiana; inizio della Resistenza. 13 ottobre: il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania. 28 novembre: conferenza interalleata di Teheran. Dicembre: in Italia le truppe tedesche sono attestate sulla linea «Gustav».
83
Fronte Greco - Fanti della divisione Acqui in marcia (foto Bruno Rasia)
Fronte Greco - Cefalonia, genieri valdagnesi della divisione Acqui da destra Enzo Pancera, Pino Fongaro, Ottavio Valente, Bruno Rasia, Colombina
84
Fronte Greco - Bambini fuggono davanti alla macchina fotografica (foto Bruno Rasia) sx Fronte Greco - Cefalonia, genieri della divisione Acqui ripristinano una linea telefonica (foto Bruno Rasia) dx Caporale carrista Giovanni Cracco della divisione «Ariete» Medaglia d’Oro al V.M.
85
Fronte Greco - Corf첫 Fanti della divisione Acqui (foto Bruno Rasia)
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Fronte Libico - Carristi della divisione Ariete (foto Fortunato Fin)
Fronte Greco - Isole Ionie, Fanti ed ufficiali della divisione Acqui (foto Bruno Rasia)
87
Fronte Greco - Corf첫 , schieramento di soldati italiani durante una cerimonia di religiosi ortodossi (foto Bruno Rasia)
Fronte Libico - Soldati della Div. Bologna - (foto Tonin Sperman)
88
Manifesto di propaganda della Rsi
sx Manifesto per la cattura di prigionieri anglo americani dx Comunicato tedesco per la consegna delle armi da parte dei civili
89
Elmetto Regia Marina
Berretto da Alpenjäger tedesco
Elmetto dell’Aviazione tedesca
Fucile tedesco Mauser
Zainetto, borraccia e gavetta tedeschi
90
Cassetta metallica tedesca porta bombe a mano
Cassetta metallica tedesca porta munizioni
Prigionia in Germania - Tesserino di riconoscimento del marinaio Giovanni Fongaro, internato militare italiano IMI
Alpenjäger tedesco
Zaino dell’aviazione tedesca
91
1944 Gennaio: continua l’avanzata dell’Armata Rossa sul fronte orientale. 22 gennaio: gli Alleati sbarcano ad Anzio. 15 febbraio: bombardamento di Montecassino. 1-8 marzo: grande sciopero politico nell’Italia del Nord. 24 marzo: eccidio delle Fosse Ardeatine. 22 aprile: secondo governo Badoglio. Maggio: gli angloamericani sfondano la linea «Gustav». 4 giugno: gli alleati entrano a Roma. 6 giugno: sbarco alleato in Normandia. 22 giugno: governo Bonomi. Si intensifica la guerra partigiana. 8 luglio: gli Americani conquistano l’isola di Saipan (Marianne) 20 luglio: attentato a Hitler. 1 agosto-5 ottobre: insurrezione di Varsavia. L’esercito russo non interviene in aiuto agli insorti. Hitler ordina di radere al suolo la città. 25 agosto: le truppe alleate entrano a Parigi. Settembre: rastrellamenti nazifascisti in Italia. Strage di Marzabotto. 9-20 ottobre: conferenza a Mosca tra Stalin e Churchill, accordo su spartizione dell’Europa 19 ottobre: il generale MacArthur inizia la riconquista delle Filippine. 7 novembre: Roosevelt viene rieletto per la quarta volta. 8 dicembre: inizia offensiva sovietica su Budapest. 16 dicembre: inizio dell’offensiva tedesca nelle Ardenne.
93
Polizia della Repubblica sociale italiana (foto Ugo Sperman)
sx
Soldati dell’Artiglieria contraerea della Repubblica sociale italiana (foto Rino Marchesini) dx Marinai della X MAS e marinai tedeschi dell’LK 700 all’ingresso della piscina comunale (foto Archivio storico comunale)
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Reparto tedesco dell’LK 700 sfila di fronte all’Istituto Tecnico Industriale di Valdagno (foto Archivio storico comunale) dx Reparto tedesco dell’LK 700 schierato in piazza Dante a Valdagno (foto Archivio storico comunale)
95
sx Alfredo Rigodanzo, «Catone», commissario politico della brigata Stella dx Gino Soldà, «Paolo», Comandante partigiano del battaglione «Valdagno»
Alpini valdagnesi della Divisione «Monterosa» della Rsi. Al centro in alto Ugo Magnani
Marinai tedeschi dell’LK 700 a Valdagno sullo sfondo la chiesa di Santa Maria di Panisacco (foto Archivio storico comunale)
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Il soldato dell’LK700 E. Oddey osserva i suoi quadri esposti in piazza del Municipio nel giugno del ‘44 (foto Archivio storico comunale) Piazza Dante e il campanile di Valdagno in un dipinto di Oddey (proprietà Vittorio Margoni)
Gruppo di lavoratori valdagnesi deportati in Germania (foto Giovanni Cracco)
97
Maschera antigas italiana per la popolazione
Ufficiale pilota italiano Carta geografica su seta per piloti alleati
98
Manifesto di propaganda della Rsi per l’arruolamento nell’artiglieria contraerea Manifesto di propaganda per l’arruolamento nell’esercito della Rsi
Manifesto di propaganda della Rsi rivolto ai «Rurali d’Italia» Manifesto di propaganda per l’arruolamento nella Marina della Rsi
99
Contenitore inglese per aviolancio paracadutato sul Giocole ai partigiani della Brigata Stella Libretto di lavoro tedesco di Igino Spiller, operaio deportato in Germania
Bomba americana a farfalla per bombardamento aereo
Tanica tedesca Cartello tedesco per segnalare una zona con presenza di partigiani
100
Porta maschera antigas tedesco
Elmetto della Rsi
Bengala Americano usato per illuminare gli obiettivi da bombardare
Fucile mitragliatore MAB
101
1945 12 gennaio: l’offensiva dell’Armata rossa travolge l’esercito tedesco. Febbraio: gli Americani completano la conquista delle Filippine. 4-12 febbraio: conferenza di Yalta in Crimea. 7 marzo: gli Americani passano il Reno e arrivano sulla linea dell’Elba. 10 marzo: Kesselring viene sostituito da von Vietinghoff-Scheel quale comandante in capo in Italia. 9 aprile: inizio dell’offensiva anglo-americana contro la Linea Gotica. 12 aprile: muore improvvisamente Roosevelt. Gli subentra Truman. 16 aprile: l’Armata Rossa oltrepassa l’Oder e il Neisse e circonda Berlino. 28 aprile: uccisione di Mussolini. 29 aprile: le armate tedesche in Italia firmano la capitolazione. 30 aprile: suicidio di Hitler. 2 maggio: fine della guerra sul fronte italiano. I Russi conquistano Berlino. 7 maggio: capitolazione tedesca. 26 giugno: nascita dell’ONU a S. Francisco. 17 luglio-2 agosto: conferenza di Potsdam. 6 agosto: bomba atomica su Hiroshima. 8 agosto: l’Unione Sovietica dichiara guerra al Giappone. 9 agosto: bomba atomica su Nagasaki. 15 agosto: l’imperatore Hirohito accetta la resa senza condizioni. 2 settembre: firma della capitolazione giapponese e fine delle Seconda Guerra Mondiale.
103
Incendio del Magazzino lane della Marzotto causato dai P-47 americani il 10-11 aprile 1945 (foto Silvio Trentin)
Volantino della Marzotto per l’allarme aereo
104
Colonna di prigionieri tedeschi di fronte a villa Marzottini (foto Rino Marchesini)
Prigionieri tedeschi a Villa Valle (foto Rino Marchesini)
105
Ufficiali americani consultano una carta topografica davanti la Rinascente nuova (foto Rino Marchesini)
«Jura» e «Malga» con un ufficiale americano (foto rino Marchesini)
106
Partigiani della brigata Rosselli con il comandante «Juan» Da sinistra «Ursus», «Catone», e «Jura» della brigata Stella
107
Partigiani della «Stella» e della «Rosselli» in piazza del Comune alla fine della guerra. (foto Elsa Visonà)
sx
Partigiano dx Labaro del Btg Romeo - Brigata Stella
Mitra inglese Sten usato dai partigiani
108
Radio da campo inglese paracadutata con una missione alleata
Manifesto del Comune di Valdagno relativo al coprifuoco (4 maggio ‘45) Salvacondotto e berretto russo consegnati alla fine della prigionia all’alpino Alfonso Comin
109
Cuffia, maschera e salvagente da pilota americano
Mina anticarro americana Jeep americana
110
Elmetto da paracadutista tedesco
Elmetto da fanteria americana
Soldato dell’88^ Div. Fanteria americana
Fucile americano Garand
111
112
113
Carta topografica tedesca - novembre ‘43
114
115
Città di Valdagno Medaglia d’Argento al Valor Militare per attività partigiana Comune vessillifero della Resistenza, in una fra le più importanti e tormentate Valli alpine Valdagno condusse, nel corso di 19 mesi, tenace e irriducibile la lotta di liberazione dall’occupante nazifascista. Alla dura ed inesorabile reazione nemica, a prezzo di molto sangue e di gravi distruzioni, il sacrificio della generosa popolazione e l’audace aggressività operativa delle sue formazioni partigiane, opposero alle cruente repressioni la fierezza degli inermi ed il valore combattentistico dei suoi armati. Per il concorso di cospicuo valore alla liberazione nazionale, Valdagno ben ebbe a meritare della Patria in un triste periodo della sua storia.
8.9.1943 – 28.4.1945
MILITARI E CIVILI VALDAGNESI DECORATI AL VALOR MILITARE NEGLI ANNI 1940 - 1945
MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE Cognome
Nome
Classe
Grado
Reparto
Data
Luogo
CRACCO
Giovanni
1913
Caporale
11^ Rgt. Carristi Div. Centauro
11/4/1943
Bordy (Tunisia)
MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE Cognome
Nome
Classe
Grado
Reparto
Data
Luogo
BRENTAN
Luigi
1914
Sergente Maggiore
Btg. Vicenza Div. Julia
18/01/1943
Popowka
DAL CONTE
Carlo
Sergente maggiore
24/01/1941
Dobrej
DAL FIUME
Mario
1916
Sottotenente
225 Rgt. Ftr. Arezzo
04/04/1941
Passo dell’Uj
LIMOLI
Vito
1902
Capitano
Btg. Tagliamento, Div. Celere
21/08/1942
Tschebotarewski
ZANUSO
Giovanni
Bersagliere
29/07/1942
El Tacca
ZORDAN
Ugo
Partigiano
Brigata Rosselli
27/04/1945
Valdagno
1912
MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE Cognome
Nome
Classe
Grado
Reparto
Data
Luogo
BERLATO
Adolfo
1921
Fante
152^ Rgt. Fanteria Sassari
24/02/1942
Pasiak
CRACCO
Giovanni
1918
Cap. maggiore
Div. Julia Btg. Vicenza
18/01/1943
Popowka
CROSARA
Narciso
1907
Ten. Cappellano.
Div. Tridentina Btg. Tirano
25/11/1942
Belogorj
CROSARA
Narciso
1907
Ten. Cappellano.
Div. Tridentina Btg. Tirano
26/01/1943
Nikitwka
FOCHESATO
Vittorio
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
20/01/1943
Kopanchi
GRIGOLATO
Alvise
1914
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
14/01/1943
Iwanowka
GUIOTTO
Pietro
Alpino
Div. Julia 9 Rgt. Alpini
12/02/1941
Guri y Topit
LORENZI
Emilio
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
24/12/1942
Iwanowka
MARZOTTO
Avelino
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
21/01/1943
Nowo Postojalni
MONTAGNA
Santo
1914
Aiutante di Bat.
Div. Julia 9^ Rgt. Alp.
22/01/1943
Nowo Postolowka
MOTTERLE
Osvaldo
1920
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
8/11/1940
Sella di Messeria
POZZA
Silvio
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
21/01/1943
Nowo Postojalni
SEGATO
Gino
1921
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
24/12/1942
Iwanowka
URBANI
Ugo
Cap. maggiore
83^ Fanteria, IV Brg. Garibaldi
08/09/1943
Montenegro
VISONA’
Domenico
1915
Alpino
Div. Julia Btg. L’Aquila
21/01/1943
Lessniteranski
ZORDAN
Giuseppe
1898
Capitano Medico
Div. Ravenna
17/12/1942
Tserdochlebonha
117
CROCE DI GUERRA AL VALOR MILITARE Cognome
Nome
Classe
Grado
Reparto
Data
Luogo
ABELLI
Pietro
1917
Caporale
XXIV C.A.
11/4/1941
Valle di Ostrenik
BUSOLO
Gino
1919
Geniere
Div. Julia 3°Btg Genio
29/12/1942
Fronte del Don
CASTAGNA
Oreste
1920
Artigliere
Div. Julia
02/01/1943
Seleni Jar
CERETTA
Giuseppe
1917
Cap. maggiore
24/12/1940
M. Ckiarista
CROSARA
Narciso
1907
Ten. Cappellano.
Div.Tridentina Btg. Tirano
23/09/1942
Quota 228.0
DAL FIUME
Mario
1916
Sottotenente
64 Rgt Ftr. Dv Cagliari
25/06/1940
Termignon
DE GERONE
Annibale
1919
Sergente
15/03/1941
Alt. Di Kurvelesh
DIAN
Gino
1913
Fante
232 Fanteria
07/01/1941
Alt. Di Kurvelesh
GALLO
Guido
1919
Cap. maggiore
Div. Julia Btg. Vicenza
20/01/1943
Kopanki
GIANESIN
Luigi
2° Capo Siluranti
10/03/1945
Mediterraneo
PARRAVANO
Giovanni
1894
Ten. Colonnello
C.S.F.F.AA
10/01/1941
Pogradec
PAMATO
Mario
1915
S.Ten. Med. Alp.
Div. Tridentina Btg. V.Chiese
01/09/1942
Q. 188 Bolschoj
PERETTO
Angelo
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
21/01/1943
Fronte Russo
P0RRA
Antonio
1921
Geniere
C.A. Alpino XXX Btg Guastatori
22/01/1943
Warwarowka
POZZA
Antonio
1913
Caporale
232 Fanteria
16/01/1941
Alt. Di Kurvelesh
PRETTO
Alessandro
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
21/01/1943
Fronte Russo
PRETTO
Giordano
1919
Caporale.
Div. Julia 3^ Rgt. Art. Alp.
21/11/1940
Ponte Perati
PRETTO
Giordano
1919
Cap. maggiore.
Div. Julia 3^ Rgt. Art. Alp.
24/12/1942
Selenij Jar
ROSSI
Francesco
1916
Sottotenente
5 Art. Alpina DIV.Pusteria
02/12/1941
Pljevlje
RUARO
Aldo
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
20/01/1943
Kopanki
SOLDA’
Dino
1921
Cap. maggiore
Div. Julia Btg. Vicenza
31/12/1942
Seleni - Jar
TOVO
Albino
1921
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
19/01/1943
Popowka
TOVO
Luigi
1918
Fante
06/11/1941
Mickailowskj
URBANI
Danilo
1920
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
21/01/1943
Lessnitcianski
URBANI
Ugo
Fante
83° fanteria Div. Venezia
03/01/1944
Jugoslavia
ZANELLA
Luigi
1918
Sottotenente
3 Apini Btg. Ivrea
13/12/1942
Manra
ZOMPERO
Bruno
1922
Alpino
Div. Julia Btg. Vicenza
21/01/1943
Lessnitcianski
ZORDAN
Giuseppe
1921
Cap. maggiore
Div. Julia 3°Btg. M. Genio
05/01/1943
Fronte Russo
SALVATORE
Cesare
Fante
83° Fanteria Brg.Garibaldi
08/09/1943
Montenegro
SANSON
Antonio
Partigiano
19/04/1945
Smuka (Slovenia)
PIGNALOSA
Francesco
Av. Sc.Motorista
47° Stormo 106^ gruppo
1941-1942
Cielo della Grecia
POLETTI
Luigi
Alpino
Div. Julia 9 Rgt. Alpini
14/02/1941
Guri y Topit
1919
PROMOZIONI PER MERITO DI GUERRA Cognome
Nome
Classe
Grado
Reparto
Data
Luogo
MENATO
Gastone
1917
Sergente
Gr. Udine Div. Julia
05/11/1940
Bryaza
MONTAGNA
Santo
1914
sergente magg.
9° Rgt. Alp. Div. Julia
13/02/1941
Guri y Topit
118
119
MILITARI E CIVILI VALDAGNESI CADUTI E DISPERSI NEGLI ANNI 1940 - 1945
Abelli Pietro
Battistin Marcellino
Caovilla Italo
Cracco Carmelo
Albiero Gildo
Battistin Onelio
Carazzo Armando
Cracco Giovanni
Albiero Rodolfo
Baù Ferruccio
Carazzo Danilo
Cracco Giovanni Battista
Andrighetto Luigi
Beltrame Millo Bortolo
Carlotto Roberto
Cracco Luigi
Antoniazzi Giuseppe (1865)
Benetti Arduino Tarcisio
Castagna Bruno
Crepaldi Guido
Antoniazzi Giuseppe (1921)
Benetti Michele
Cecchi Edoardo
Crosara Paolo
Baldi Ugo
Benetti Paolo
Cecchinato Armido
Dal Cengio Emilio
Bassetto Olinto
Berlato Francesco
Ceccon Marino
Dal Lago Antonio
Battistin Alberto
Bernardi Augusto
Censi Virgilio
Dal Lago Francesco
Battistin Angelo
Bertoldi Eros
Ceola Ottorino
Dal Lago Virginio
Battistin Antonio
Bicego Narciso
Cerato Gino
Dall’Alba Olinto
Battistin Bruno
Bicego Francesco
Ceretta Giuseppe
Dalla Valle Armelindo
Battistin Giacomo
Bolcato Mario
Ciffo Lodovico
Dani Giordano
Battistin Giuseppe
Brentan Luigi
Cocco Ruggero
Dani Francesco
Battistin Luigi (1913)
Brentan Severino
Cocco Sante
Danzo Guido
Battistin Luigi (1915)
Brentan Vittorio
Corrà Vittorio
Daum Riccardo
Battistin Luigi (1923)
Busato Abramo
Cosaro Luigi
De Simon Pietro
Battistin Mario
Busolo Gino
Costa Giuseppe
Donadello Lodovico
121
D’Orlando Giulio
Gemo Sergio
Lucchesi Vittorio
Nardon Pietro
Drago Dino
Gianello Decimo
Lorenzi Mario
Negri Arrigo
Faccin Giovanni
Giberti Antonio
Lorenzi Severino
Nizzero Ampelio
Faccin Luigi
Gilberti Gaetano
Lorenzi Umberto
Nizzero Augusto
Faggion Gaetano
Grande Girolamo
Lovato Abramo
Nizzero Bortolo
Fanchin Bruna
Grendene Virgilio
Lovato Alessandro
Novella Francesco
Fanton Giuseppe
Grigolato Alvise
Lovato Arcangelo
Novello Francesco
Fanton Vincenzo
Grigolato Francesco
Lovato Severino
Onisto Antonio
Farinon Giovanni
Guiotto Antonio
Lucato Sergio
Pasquale Giovanni
Ferrari Antonio
Guiotto Attilio
Lucchesi Vittorio
Passuello Pietro
Ferrari Gino
Guiotto Giuseppe
Lupatini Nello
Pavan Guido
Filotto Abramo
Lacchin Osvaldo
Marchesini Giorgio
Peretto Angelo
Fin Giovanni
Liotto Vittorio
Marzotto Avellino
Peretto Clemente
Fioraso Gaetano
Lora Antonio
Massignan Alberto
Peretto Gianni
Fochesato Giovanni
Lora Giovanni
Massignani Bruno
Perin Pietro Paolo
Fochesato Vittorio
Lora Giuseppe
Massignani Gino
Peserico Olga
Fongaro Renato
Lora Raffaello
Menato Gastone
Pianalto Antonio
Fongaro Vittorino
Lora Saverio
Meneguzzo Marino
Pianalto Giuseppe
Fontana Giuseppe
Lorenzi Emilio
Menti Emilio
Pianegonda Luciano
Fornasa Antonio
Lorenzi Eugenio
Montagner Claudio
Piccirillo Franco
Fornasa Gaetano
Lorenzi Francesco
Motterle Osvaldo
Piccoli Valentino
Franceschi Luciano
Lorenzi Giovanni
Murari Otello
Pierobon Giuseppe
Franceschi Giovanni
Lorenzi Luigi (24.1.1921)
Muraro Giovanni
Pieropan Marcello
Gasparella Antonio
Lorenzi Luigi (14.7.1921)
Nardon Luigi
Pitassi Attilio
Gasparini Rino
Lucato Sergio
Nardon Mario
Ponza Mario
122
Poretto Massimo
Rilievo Francesco
Spiller Angelo
Visonà Domenico
Povoleri Giovanni
Rossato Silvio
Stecco Alfonso
Visonà Gelsomino
Povolo Giuseppe
Rossignoli Celestino
Succoli Rino
Visonà Giovanni
Pozza Arduino
Roviaro Giuseppe
Tecchio Allerame Antonio
Visonà Mario
Pozza Silvio
Ruaro Aldo
Tessaro Giuseppe
Visonà Riccardo
Pregrasso Luigi
Saggin Silvio
Tomasi Emilio
Visonà Severino
Preto Aldo
Sandri Emma
Tomasi Enrico
Zampiero Pietro
Preto Alessandro
Santacatterina Antonio
Torrente Danilo
Zarantonello Antonio
Preto Ampelio
Sartori Giovanni
Torrente Rino
Zarantonello Isidoro
Preto Massimiliano
Schiesaro Giovanni
Tosato Giovanni
Zarantonello Luigi
Preto Rino
Schivazappa Arderio
Toso Mario
Zaupa Antonio
Pretto Guido
Scomparin Roberto
Tovo Albino
Zen Giuseppe
Pretto Rodolfo
Segato Gino
Tovo Giovanni
Zenere Aurelio
Pretto Severino
Sella Giuseppe
Trevisan Agostino
Zonato Erminio
Pretto Silvio
Silvestrelli Eugenio
Tronchi Nicolò
Zordan Ernesto
Raizzaro Michele
Slaviero Angelo
Turcato Antonio
Zordan Giovanni
Randon Fortunato
Soldà Dino
Urbani Alessandro
Zordan Giovanni Battista
Randon Luigi
Soldà Ferruccio
Urbani Benvenuto
Zordan Luigi
Randon Marcellino
Soldà Giovanni
Urbani Danilo
Zordan Pasquale
Randon Ugo
Soldà Giuseppe
Urbani Domenico
Zordan Ugo
Refosco Antonio
Soldà Vittorio
Urbani Gaetano Bruno
Refosco Mario
Sperman Luigi
Urbani Luciano
Refosco Umberto
Sperman Onorio
Urbani Narciso
Reniero Elio
Sperman Sergio
Vencato Giovanni
Reniero Pietro
Sperman Vittorio
Venco Bortolo
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INDICE
Presentazione
p. 5
VALDAGNO, I VALDAGNESI E LA GUERRA Giorgio Trivelli e Franco Rasia
p. 7
INCURSORI TEDESCHI A VALDAGNO 1944-1945 Michael Jung
p. 21
DALLA MONTAGNA ALLA PIANURA Giancarlo Zorzanello
p. 27
LA FINE DELLA GUERRA A VALDAGNO Maurizio Dal Lago
p. 39
IMMAGINI DELLA GUERRA
p. 51
MILITARI E CIVILI VALDAGNESI DECORATI
p. 117
MILITARI E CIVILI VALDAGNESI CADUTI E DISPERSI
p. 121
125