Un'assolta striscia di felicità (poesie)

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Fabrizio Cavallaro Un'assolata striscia di felicitĂ


I


I pugni chiusi, gli sguardi triti chiusi in tasche mobili, i passi lenti e lievi come lenzuoli stesi a sporcarsi al vento cittĂ ossidata di micro veleni, mostrando il lato migliore nei sorrisi acidi, circostanziati.


Amarsi è cosÏ strano, qui nel posto disastrato ch'è il respiro delle cose che lievitano attorno, rondini e colombe famelici disposti a tutto per un morso di compagnia, qualcuno che ti faccia per il meglio, con la giusta dose di veleno.


Suona l'ora dei rientri. I passi accorrono a un lume. Io guardo le facciate lucenti come occhi muti taglienti, immagino i discorsi in cucine e soggiorni, coi giusti divani. Le mani in tasca, felice.


Imbastire bugie sotto spirito, perchĂŠ mantengano l'aplomb. Fiori delle prese raggiunte. L'educazione civica nei libri.


La città è un palcoscenico di streghe e orchi, con il giusto carico di oltranze, strategie apposte, come in un gioco al piattello.


Andiamo fino in fondo, disconosciamo paure. Lo scenario di compromesso è nella linea rossastra di un tramonto che non sa mentire.


II


Il talento delle ossa, tenute strette nelle gabbie toraciche, nonostante il gelo di questo gennaio scavi i pensieri, cristallizzi lacrime.


Il marciapiede è amico di sera specialmente, alla luce calda e zigrinata dei fanali - al taglio della pioggia urlante il suo alfabeto misconosciuto.


III


Hai il viso di ieri, stessi silenzi schiamazzanti, stessi rumori sordi che intavolavano dialoghi a tratti. Volgevi lo sguardo su di me come un evento, una condanna.


Steso sul divano estivo, anche la bocca tenevi in pegno da svendere per un letto e poco da spendere, la doccia il cuscino caldo, un sonno lungo lungo quanto la tua primitiva afflizione di ragazzo malcresciuto.


Ti stavo dietro, al pericolo opponevi sogni intuibili spargevi piano polline di tradimenti, perchĂŠ quel nostro amore fosse tutto al presente, fottesse il passato.


La schiena dritta contro il mondo, tutte le mie ossessioni, le tue un piatto che spezza il respiro, quattro mura, una seggiola. Se c'è un letto, è dimora.


Cenavamo a un tavolo volante, per una stasi meritata. LĂŹ per lĂŹ la fuga, saltimbanchi nel vicolo della mondezza. Ci bastava esser vivi, laggiĂš.


L'unico viaggio insieme fu di notte. Scomodi per una fuga il sudore di trovarsi stretti a un tavolo di legno, ospitati a fronte d'una simulazione che ci riconsegnò interi alla vita.


IV


Ho scarpe strette e cospicue, falangi di deserto, occhi rugginosi, ciglia come coltelli. E il silenzio a ordinare le cose.


Entrare in un bar è amore. O anche solo guardare da fuori esistenze superiori.


Sfrecciare di automobili, come stelle filanti. Sono astronavi, omologate per quattro, comode per cinque.


I supermercati sono luna-park, lo sanno tutti. La fila alla cassa è un gioco per adulti.


Incrocio di strade, virtĂš colossali. Teniamo i pensieri nelle svolte dei pantaloni.


Le facciate dei palazzi hanno occhi curiosi. Possibile che vi siano destini orizzontali?


Coppie strette, a taglio, viatici di sopravvivenze. Fenicotteri fasciati nei cappotti, virtĂš coi baveri alzati.


Un popolo di seduti, selve di seggioline, davanti ai bar. Chi passa avverte gl'intimi disagi.


Nei parchi, la complicitĂ delle foglie a fissare le passeggiate di ieri, i dolori al fianco, sere incommensurabili da addentare, sotto le grisaglie della pioggia sottile.


Il sedile è un trono. E mi parla ancora.


Il terreno sconnesso sta lĂŹ a significare giorni battuti, fedeltĂ dei respiri.


Una panchina in ferro, semicircolare. I primi baci rubati, pomeriggi imbrattati da un macello qualunque.


La sordità della notte è negligenza che cura.


Testimoniavo per te, credevo di fare il giusto copione, sfiorando con le dita l'addome del tempo.


Il riserbo che approntavi era per me la spina cui sapevo tenermi, filo del bilico sornione al tuo sguardo beota, masticando con cura la realtĂ che servile ti ponevo sulle giovani ginocchia.


Il beneficio delle cose, una scatola di vecchie carte, la matita da temperare, la mensola che si piega al peso delle collezioni, i libri macchiati dalla polvere; e quel cigolÏo oltre la parete il legno del letto matrimoniale dove lei è tornata bambina, i suoi rossetti, le unghie rosse.


Bisogna essere grati alla solitudine, perchÊ ti rimette in conto con te stesso, in pace col mondo che ulula addosso, ti toglie il peso d'una borsa, un pacco tra le dita che apri e dentro c'è vita. Bisogna addentrarsi nella solitudine, per capirla e non farti male, è una lente astrale, ingrandisce i tuoi dolori e li rende amabili; gli amori di una volta ti danzano davanti agli occhi e ne sorridi, scorgi finalmente i veri contorni.


L'uomo cammina solo, di spalle non si volterebbe indietro nemmeno se potesse, e mentre osserva distante l'arrivo al paese delle favole come il soldato di Samarcanda, la sua figura appartiene a quel passo dondolante.


per una foto di Igor Andreev

Quel saluto ambivalente dalla poltrona che occhieggia è un arrivederci, è un benvenuto? Ma forse, per la fiaba giovane della donna in pantofole bambina quell'orografia felina sfumata è un sogno dietro le palpebre.


Amo le persone fragili perchĂŠ traversano la vita senza paura di infrangersi, hanno coraggio e un po' di sanissima incoscienza da oltrepassare bufere a muso duro, anche se a volte un po' tremanti, le facce serie, occhi appena umidi di lacrime chiuse nello scrigno delle loro piccole, enormi veritĂ , congegno della resistenza. Sanno sorridere di quasi tutto, eppure non tralasciano l'osservazione delle minime sfere. Amo le persone fragili perchĂŠ sono le uniche vere.


Chiuso nel tuo sonno sogno insieme a te, distante solo per la curva d'una notte, mi unisco al tuo risveglio in ritardo. Il giorno ha giĂ piegato le sue ali sulle tue spalle.


Il colore della sera, le promesse di grano, la seta sul corpo, lei che bussa alla parete, si appoggia al mio bracci, è ancora bambina.


E' un anello d'aria che somiglia le parole, le imita, le rappresenta nei gesti della gente che passa e osserva, a capo chino rimesta i pensieri piÚ grigi, ora che l'estate ha lasciato queste sponde urlano materie di risulta sulle rive rimane un segno, i marciapiedi pullulano di ciò che era e ritorna.


Ora è tarda sera. La notte è un gomito, una sfera. La luna una chimera che occhieggia dal buio del parato, come un tranello, un gesto rapido, un cenno di carezza. O come la pioggia di settembre che pacifica le siepi, inonda le strade. Il silenzio, poi, trascrive il resto.


E' pur sempre sangue versato, parole sciorinate, polline al vento. Le nuvole lo sanno, e pure il mare. L'aria l'ha colto e custodito, cullato e servito, depauperato. La notte l'ha preso in carico, segreto garantito nella complicitĂ del buio.


Qualcuno che, come te sapesse manipolare le certezze, facesse turni di stagione abili a manovrare compromessi, chiudere la fiducia in un cambio di stagione, nel fulcro focoso e dolente dei tuoi occhi di dinosauro che dorme di giorno, di notte tesse la tela di propositi belligeranti.



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