Kosmopolis

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Kosmopolis: dialoghi con l'Europa nella pittura del Settecento veneto Catalogo a cura di Federica Spadotto e Fabrizio Dassie Autore delle schede: Federica Spadotto Fotografie: Studio Bohm ­ Venezia

Esposizione delle opere: Galleria Spazio Sant'Alessandro, Milano 12 Novembre 2013 – 14 Febbraio 2014

Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788), Macbeth e le streghe (particolare)

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INTRODUZIONE di Fabrizio Dassie

Kosmopolis: dialoghi con l’Europa nella pittura del Settecento veneto presenta una selezione di importanti dipinti ­ in gran parte inediti ­ sul tema dei vivaci interscambi culturali tra gli artisti della Serenissima e le principali scuole straniere. Viene proposta una rassegna di opere appartenenti ad alcuni fra i più noti ed apprezzati artisti di dimensione europea attivi in ambito lagunare. La loro scelta è stata curata, oltre che da chi scrive, dalla storica dell'arte Federica Spadotto (autrice di numerose pubblicazioni sul Settecento veneto, tra le quali si annoverano le fondamentali monografie di Francesco Zuccarelli e Giovan Battista Cimaroli), a cui sono molto riconoscente per avermi accompagnato in questa impresa di selezione ed analisi storico­artistica delle tele esposte. La preferenza rivolta a questa ispiratissima e fortunatissima stagione, che ha comportato da parte nostra l'obiettivo di cercare ed ottenere la disponibilità di esemplari certificati, ma allo stesso tempo estranei agli abituali circuiti di mercato, si è rivolta al secolo d'oro della Serenissima in virtù della sua eccellenza tecnica, oltre che estetica, ponendosi come uno tra i momenti più significativi ed apprezzati sia nel campo del collezionismo, sia in quello degli studi. Il criterio di selezione dei dipinti si è basato, inoltre, su altri due aspetti di estrema rilevanza, che attengono precipuamente al livello qualitativo ed al significato storico­culturale rivolto ad un panorama assai più dilatato rispetto alla Laguna. Aspetti che ci hanno spinto a scegliere un numero ridotto di esemplari a scapito della possibilità di ospitarne più numerosi, ma che, proprio in tale ottica, in molti casi avrebbero esulato dallo scopo della mostra. Attraverso la visione delle opere presentate, viene invece offerta l'opportunità di cogliere inedite sfaccettature ed esplorare nuove 2


dimensioni artistiche di alcuni fra i più ricercati ed amati artisti attivi a Venezia in tale contesto, come accade per Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 – Firenze 1788), Giovan Battista Cimaroli (Salò 1687 – Venezia, 1771), Francesco Simonini (Parma, 1686 – Venezia o Firenze, 1755 o 1753), Giovanni Battista Pittoni, (Venezia, 1687 – Venezia 1767), Pietro Antonio Rotari (Verona, 1707 – San Pietroburgo, 1762), Antonio Diziani (Venezia, 1737 – Venezia, 1797), Francesco Casanova (Londra 1727 ­ 1802 Brühl presso Vienna), Francesco Tironi (Venezia 1745 – Venezia 1797). Ne sortiscono, come illustrato nelle ricche schede di catalogo, nuovi spunti di ordine teorico­interpretativo sulla personalità dei maestri citati, che permettono di far emergere originali considerazioni, arricchendo peraltro itinerari già percorsi dalla critica: anche in questo frangente, l'occasione è sempre produttiva di interesse per quanti desiderano approfondire un determinato filone artistico ed i suoi molteplici aspetti. Non si mancherà di rivolgere l'attenzione, infine, al tessuto socio­culturale che ha innescato l'avvio della prolifica stagione artistica lagunare. Come ormai consolidato dalla storia e dal mercato dell'arte, attraverso la verve creativa di questo fortunato periodo, Venezia si conquista infatti una dimensione europea di primaria importanza. Sostanzialmente, la facies cosmopolita assunta dalla città marciana trova indubbiamente causa, soprattutto per quanto concerne il genere della veduta, da un progressivo ampliarsi di quella committenza privata, coincidente nella ricca clientela inglese che si rivolge ad investire in quella che, in chiave di modernità, si potrebbe indicare una politica di immagine per se stessi e per le proprie sontuose dimore. Proprio da tali premesse, inerenti la nascita di nuovi orizzonti “commerciali” per le opere, traggono spunto originali orientamenti artistici che, sollecitati dalle esigenze di un mercato sempre più internazionale, si muoveranno in modo attento verso la produzione di pieces che aggiungono nuove coordinate e tenderanno, pur nelle loro diversissime sfumature tematiche e stilistiche, a tracciare un personalissimo sigillo espressivo legato dal fil rouge dell'atmosfera veneziana. 3


Il Settecento è, infatti, il secolo del Grand Tour e tra i luoghi preferiti da visitare in Italia vi erano Venezia e la campagna veneta con la riviera del Brenta. Scenari che avrebbero dato luogo ad un collezionismo indirizzato ad acquistare dipinti ed incisioni “prese dai luoghi” (come recita l’omonima raccolta canalettiana), che avrebbero ricordato, al ritorno in patria, il viaggio in Italia. Accanto a questo tipo di clientela vi erano anche committenze colte e di grande prestigio, in grado di apprezzare i valori artistici e qualitativi degli autori più raffinati. Tra gli artefici di questi preziosi souvenirs emergono personalità prestigiose. A volte, sull'onda dei celeberrimi successi riscossi, gli artisti stessi si dirigevano alla volta di paesi stranieri per legittimare ancor più il proprio ruolo. Evidentemente gli stimoli esterni che sarebbero arrivati ai pittori veneti grazie al contatto con suggestioni e realtà culturali di più ampio respiro avrebbero favorito, come accaduto in molti casi, aperture verso nuove sperimentazioni artistiche. Sensibile ad accogliere tematiche di ascendenza anglosassone nel meraviglioso e museale Macbeth e le streghe (scheda n.1), Francesco Zuccarelli inserisce il soggetto shakespeariano in un paesaggio non privo di rielaborazioni di matrice nordico­riccesca ed intriso di un latente Neoclassicismo. Nella scheda al dipinto ci si soffermerà sui molteplici spunti offerti dagli elementi climatici e sui significati di un'atmosfera resa rarefatta e non per caso “in attesa”. Nel caso del grande Paesaggio campestre con figure, animali e cascatella di Giovan Battista Cimaroli (scheda n.2), opera di grande interesse collezionistico, ci troviamo invece di fronte ad un notevolissimo e manifesto esemplare di “cosmopolitismo di riflesso”. La particolare attenzione al dato reale, che tecnicamente prende atto dalla cura del dettaglio delle chiome arboree e dalla straordinaria capacità di resa della bardatura dell'asino posto in primo piano, suggerisce un humus culturale di impaginazione fiamminga, che ritroviamo spesso come motivo ricorrente nell'artista, lombardo di nascita e quindi predisposto in nuce ad un genuino naturalismo. Il filtro dell'obiettività, come sarà indicato nella 4


rispettiva scheda di catalogo, si elegge qui a motivo tipico, e convive con altri caratteri­guida che necessariamente evidenziano l'influsso di Marco Ricci e Francesco Zuccarelli. La vicenda pittorica di Francesco Simonini, autore della pregevolissima Scena di adunata militare (scheda n.3) è invece focalizzata nel comporre brani di cavalleria e si caratterizza per la maniera squisitamente veneta nell'uso del colore, che rende il maestro uno tra gli interpreti più ricercati del genere, tanto da riuscire ad entrare nell'entourage del maresciallo von der Schulenburg come il suo pittore di battaglie prediletto. Un vero e proprio “gioiello” risulta invece la Madonna della rosa (scheda n.4) di Giovan Battista Pittoni, opera di magistrale valore artistico, realizzata con una chiarezza di toni ed un equilibrio di forma a dir poco esemplare. A ciò si aggiunge l'inconsueta iconografia, desunta da un'incisione da Simon Vouet, a sottolineare ancora una volta le sollecitazioni culturali che circolavano nell' ambiente veneziano. A Pietro Rotari, protagonista di svariate peregrinazioni in tutta Europa, si deve il dipinto, di raffinata ed attraente sceneggiatura, che narra l'episodio biblico di Ester e Assuero (scheda n.5). Si accoglie inoltre il Paesaggio con coppia di figure e torre, rappresentativo dell'arte di Antonio Diziani (scheda n.6), autore attento all'elemento aneddotico di genere, che si mostra particolarmente influenzato dalla tradizione fiamminga e, nel caso dell'opera presentata, anche suggestionato dalle opere peruzziniane, come traspare dal grande albero posto in primo piano, semi­spoglio e piegato dal vento. Il “lunare” dipinto raffigurante Cosacco con cavalli all’abbeverata (scheda n.7) ­ invaso da un'avvolgente atmosfera azzurrognola, assimilabile per l'effetto dell'assieme ai moduli guardeschi ­ appartiene alla fase veneziana di Francesco Casanova, vero e proprio maestro cosmopolita, come risulta dai suoi numerosi soggiorni artistici a Parigi, Dresda e Vienna. Contraddistinte da un tipico, quanto accurato taglio compositivo, sono due interessanti esemplari di vedute di Francesco Tironi, plasmate in tela con una calma sinfonia di riflessi davvero ben riuscita: una rappresenta la 5


Veduta di San Pietro di Castello e l'altra la Veduta delle Zattere con San Giorgio Maggiore (scheda n.8). A conclusione si presenta un’ inedita coppia di tele di Francesco Zuccarelli: Paesaggio con figure e toro presso una cascatella e Paesaggio fluviale con figure (scheda n.9); un incontro tra arte e natura reso attraverso un’ impaginazione che diventa inno alla vita. Qui il paesaggio viene concepito come esperienza immanente che lega l’uomo alla sua terra interiore, in cui il rapporto con la natura si colora di sfumature preromantiche. Ne sortisce una profonda riflessione sull’interdipendenza tra oggettività e soggetto pensante, quest’ultimo non più solo spettatore ma artefice del proprio destino.

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SCHEDE DELLE OPERE a cura di Federica Spadotto

1. Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788) Macbeth e le streghe Olio su tela, 49 x 71,5 cm (fig.1) Quando, nell’ormai lontano 1959, Michael Levey pubblicava il suo fondamentale contributo su Francesco Zuccarelli in Inghilterra, scelse come immagine emblematica un’incisione di William Woollett (fig.1.a). La tavola, realizzata nel 1770, era desunta da quello che già i contemporanei definivano “ un capolavoro dell’artista ”, pur riconoscendovi l’evidente discrasia rispetto agli abituali paesaggi arcadici, sia per quanto concerneva l’ispirazione, sia sotto il profilo tecnico. La genesi del dipinto rimane ancora controversa ­ come chi scrive ha già avuto modo di evidenziare nella recente monografia sul maestro (Spadotto, 2007) ­, sebbene paia ragionevole fissarne l’inventio intorno al 1760, quando il pittore avrebbe eseguito uno studio a penna che venne acquistato da Benjamin West. La prima versione ad olio risulta, invece, confezionata su tavola, ma possiede ancora i caratteri del bozzetto (Spadotto, 2007, cat. 304), formalizzati soltanto a partire dal prototipo inciso dal Woollett, che Francesco realizzò su commissione di William Lock. Il successo dell’opera fu tale che il maestro toscano ne eseguì almeno altre due repliche, di cui quella in esame potrebbe essere la tela esposta dal suo artefice alla Society of Artists nel 1767. A suggerire siffatta conclusione giunge una serie di elementi stilistici e formali, indagati puntualmente attraverso gli esami riflettografici, che manifestano l’eccellenza d’esecuzione caratterizzante la piena maturità del maestro, pur non priva di pentimenti in fase di stesura pittorica. 7


A ciò si aggiunge una fondamentale caratteristica nella modalità esecutiva dei volti, di foggia squisitamente zuccarelliana, che vede la loro definizione “a togliere”, quasi si trattasse di una scultura; l’artista ­ come peraltro testimonia con eloquenza la sua produzione grafica (cfr. A boy smiling, Washington, National Gallery of Art) ­, traccia i contorni del viso molto ampi e rotondi, per andare poi a ridefinirli smorzandone i profili. L’eccellente stato di conservazione dell’opera permette di godere appieno dei valori cromatici ed atmosferici di questo straordinario pittore “cosmopolita”, alle prese con uno dei temi più amati della cultura letteraria anglosassone: la tragedia shakespeariana del Macbeth. Come evidenziava il Levey nel contributo citato, si tratta dell’unico “caso” in pittura dov’è rappresentato questo passaggio del dramma. Negli artisti contemporanei e romantici che affrontano il soggetto, viene infatti solitamente scelto l’epilogo della vicenda, quando Machbet, dopo aver ucciso il re e preso il suo posto, non riesce più a dormire tormentato dai fantasmi della coscienza. Francesco elegge invece a protagonista della rappresentazione il momento dell’annuncio del futuro assassinio da parte di tre streghe, che formulano la predizione in un paesaggio tempestoso di riccesca memoria (cfr. il pastore che conduce al riparo gli armenti), assai congeniale rispetto al repertorio d’elezione dell’artista. In questo modo, il Macbeth e le streghe zuccarelliano resta, essenzialmente, un brano campestre con personaggi, in cui gli umori del neoclassicismo inglese, permeato da inflessioni preromantiche, hanno modo di esplicitarsi attraverso gli alberi agitati dal vento e la forza annientatrice della natura. Il maestro toscano adottato dalla Serenissima non rinuncia, tuttavia, ad innestare, nella furia degli eventi, l’elegante e composto classicismo appreso a Roma e mai dimenticato, come testimonia la coppia maschile in primo piano, la cui leggiadra eleganza viene bilanciata dalla deformità e durezza delle streghe in un vero e proprio mosaico di suggestioni culturali. Rispetto alla riproduzione incisoria il dipinto evidenzia una maggiore leggerezza nei movimenti ed una straordinaria resa della fisionomia, soprattutto del protagonista, che reca i consueti tratti dei pastori arcadici, 8


trasfigurati, tuttavia, in una dimensione monumentale, ovvero nell’ottica del capolavoro. Alla stregua del Ritrovamento di Mosè, confezionato in occasione della nomina a socio fondatore della Royal Academy (1768), Francesco archivia la vaporosa maniera arcadica in favore di uno stile più pulito, puntuale, asciutto, votato ad un quieto accademismo palpitante di umori veneti. Dal punto di vista dei contenuti, invece, in questo fondamentale dipinto lo spirito aulico dello Zuccarelli si innesta sull’impervio territorio dell’irrazionale, alla base delle speculazioni intellettuali contemporanee, che vedevano in Shakespeare il sommo strumento di riflessione rispetto all’essenza dell’uomo ed alla sua complessità emotiva, in continuo dialogo con il macrocosmo naturale. La nostra opera prelude con innegabile chiarezza al dibattito preromantico sul rapporto uomo/natura, e su come il primo elemento della coppia ne esca inevitabilmente sconfitto rispetto alla dirompente forza degli eventi. Macbeth è in balia delle sue ambizioni e soccomberà alla propria umana debolezza, alla stregua del pastore in lontananza che nulla può opporre alla tempesta, se non cercare disperatamente di sfuggirvi, portando in salvo il bestiame. Ne sortisce un’atmosfera quasi metafisica, dove i personaggi in primo piano paiono avvolti in una sorta di limbo rispetto al concitato assieparsi di soldati e cavalli all’estrema destra: espediente per concentrare l’attenzione sul protagonista del dramma, che si rivela, tuttavia, in tutta la squisita avvenenza di quel Settecento dalle vaghe sfumature rococò, cui Francesco non vuole rinunciare, ingentilendo la cupa atmosfera burrascosa attraverso un ricco sottobosco disseminato di fiorellini colorati. Bibliografia citata: M.Levey, Francesco Zuccarelli in England, in “Italian Studies”, 1959, XIV, pp.1­20; F.Spadotto, Francesco Zuccarelli, catalogo ragionato dei dipinti, Milano, 2007.

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Fig.1 Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788) Macbeth e le streghe Olio su tela, 49 x 71,5 cm

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Fig. 1.a William Woollett Macbeth e le streghe Incisione

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2. Giovan Battista Cimaroli (Salò, 1687 ­ Venezia, 1771) Paesaggio campestre con figure, animali e cascatella Olio su tela, 140 x 77 cm (fig. 2) Nel panorama artistico veneziano all’aprirsi del XVIII secolo l’influsso della cultura nordica rappresenta la piattaforma referenziale necessaria per determinare le sorti del paesaggio veneto. Il superbo dipinto in esame illustra con eloquenza l’importanza di siffatta piattaforma, non solo sotto il profilo tematico e compositivo, ma anche dal punto di vista dell’ispirazione, che vede l’intrecciarsi di riferimenti assai diversi tra loro, rielaborati da un interprete privilegiato per cultura e formazione. L’autore della nostra opera è infatti quel Giovan Battista Cimaroli da Salò, giunto a Venezia nel 1713 dopo un alunnato bresciano presso Antonio Aureggio ed un soggiorno a Bologna nella bottega di Antonio Calza (Verona, 1653 ­ 1725), di cui sposerà la cognata, Caterina Pachman. Quest’ultima, a sua volta pittrice di nature morte, era figlia di Andrea, artefice nordeuropeo registrato alla Fraglia (cfr. Favaro, 1975, pp.155,216,222), che ha senza dubbio influito sul genero durante i primi anni in Laguna, trovando nel Cimaroli un terreno assai fertile. A partire dalle solide radice lombarde, dove la tradizione del realismo aveva determinato quell’interesse al dato naturale che sigillerà l’intero corpus di Giovan Battista, impegnato in questa sede a trasferire sulla tela un minuto paesaggio campestre guarnito di personaggi, animali, e cascatella con mulino ad acqua. In primo piano emerge in forte evidenza la figura di una fanciulla con otre, intenta a portare un cesto di vimini descritto in maniera rifinita dal minuto pennello cimaroliano, che si sofferma con attenzione lenticolare su ogni dettaglio delle vesti; per giungere alla bardatura dell’asino ­ vera e propria citazione dal repertorio nordico ­ carico di provviste, che un ben tornito viandante conduce lungo il sentiero. 12


A fargli da contrappunto si scorge, in secondo piano a sinistra, un gentiluomo a piedi, che avanza tenendo per le briglie un cavallo bianco, anch’esso carico di viveri, seguito da una donna sull’asino ­ rimando diretto agli omologhi di Nicolaes Berchem (Haarlem, 1620 ­ Amsterdam,1683), assai diffusi attraverso le incisioni ­ , in cui la pennellata si fa più sciolta e densa di luce. L’azzurro cielo solcato da nubi dilata la scatola prospettica ed invita lo spettatore a soffermarsi sull’ampia chioma del grande albero all’estremità della tela, vero e proprio topos cimaroliano, accompagnato da un arbusto spezzato, ingrediente desunto da Alessandro Magnasco (Genova, 1667 ­ 1749) ed immesso dal nostro artista in svariate composizioni degli anni Trenta (cfr. Spadotto, 2011, cat.514,14 a, 14b, 16,19,20). Di grande interesse ai fini dell’analisi stilistica si rivela lo sfondo, accompagnato dal mulino e dalle barche in lontananza, tra cui spicca l’imbarcazione al limite dell’ orizzonte cinereo: eloquente esempio di dialogo tra i colori freddi d’oltralpe e la trascolorante atmosfera della pittura veneziana. Quest’ultima si trova immersa in una straordinaria esperienza culturale fatta di stimoli, suggestioni, ricordi che i figli della Serenissima sapranno vestire di luce e vibranti emozioni sensoriali, schiarendo la tavolozza dei loro antesignani attraverso il caldo sole meridiano di una felice primavera. Bibliografia: F.Spadotto, Giovan Battista Cimaroli, catalogo dei dipinti, Rovigo, 2011, tavv.II­III, cat.18. Bibliografia citata: E.Favaro, L’arte dei pittori a Venezia e i suoi statuti, Firenze, 1975; F.Spadotto, Giovan Battista Cimaroli, catalogo dei dipinti, Rovigo, 2011.

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Fig. 2 Giovan Battista Cimaroli (Salò, 1687 ­ Venezia, 1771) Paesaggio campestre con figure, animali e cascatella Olio su tela, 140 x 77 cm

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3. Francesco Simonini (Parma, 1686 ­ Venezia o Firenze post 1755) Scena di adunata militare Olio su tela, 40 x 73 cm (fig. 3) Questa piacevolissima opera inedita di Francesco Simonini fissa sulla tela uno dei tanti momenti della vita militare che il più noto battaglista della Serenissima ha immortalato nelle sue opere, ricercate ed apprezzate dai più importanti gentiluomini dell’epoca. Molti di loro erano stranieri giunti in Laguna alla ricerca dei valori cromatici ed atmosferici che avevano reso celebre la sua pittura, riportando in patria uno o più dipinti legati ai temi alla moda, tra cui si annoverava la battaglia. In realtà Venezia non era in grado di contare su una tradizione codificata rispetto a tale genere, “importato” e reso celebre ben oltre i confini veneti da un pittore “foresto” : il parmense Francesco Simonini, appunto. Educato alla scuola di Ilario Spolverini (Parma, 1657 ­ 1734), l’abile artefice emerge ben presto nel milieu del panorama artistico contemporaneo grazie al rapporto privilegiato stretto con una personalità eccellente, quel J. Matthias von der Schulenburg (Emdem di Magdeburgo, 1661 ­ Verona, 1747), federmaresciallo del Sacro Romano Impero al servizio della Serenissima, eroe della vittoriosa difesa di Corfù (1716) ma consegnato ai posteri grazie un’impresa, forse, ancora più temeraria. Il fiero uomo d’armi trascorse, infatti, gran parte della sua esistenza a raccogliere dipinti per una galleria da allestire in Germania; il progetto, purtroppo, naufragò con la morte di quest’ultimo, anche se la sua memoria resta di fondamentale importanza per gli studi sui protagonisti del Settecento veneziano. Tra loro, un posto di primaria importanza nell’entourage dello Schulenburg è occupato senza dubbio dal nostro pittore, sia per la tecnica pittorica accattivante, sia per la tipologia del soggetto. Negli inventari della citata galleria si contano, infatti, almeno una dozzina di opere confezionate da Francesco, che nel Ritratto a cavallo del maresciallo Matthias von der Schulenburg conservato ad Hannover, esprime il rapporto di familiarità che lo legava al valoroso militare attraverso la pregnanza psicologica 15


trasmessa dal fiero volto. Altri nomi illustri si avvicendano nella biografia del Simonini, cui va il merito di aver saputo “attualizzare” il codice espressivo del genere impregnandolo di umori settecenteschi, espressi peraltro attraverso un ventaglio di situazioni dal gustoso sapore cronachistico. Tali caratteristiche si ravvisano a buon diritto nel nostro dipinto, dove la violenza dello scontro, lo scorrere del sangue, i morti sparsi sul campo ed i cavalli agonizzanti sono del tutto archiviati in favore del lento incedere dei militari, che si apprestano a convergere richiamati dalla tromba. Sullo sfondo si intravede un cordone di architetture, sovrastate dal cielo azzurro con sfumature rosate, sigillo del vezzoso Settecento di cui Francesco sa cogliere le sfaccettature più accattivanti. La tecnica pastosa, l’uso del nero per definire i corpi ed i volti, i tratti fisionomici allungati e peculiarissimi sigillano la maniera matura dell’artista, che in quest’opera mostra di saper governare la complessità compositiva alla stregua di un abile direttore d’orchestra, intento ad esprimere pittoricamente l’impalpabile armonia di un concerto, dove l’alternanza dei singoli strumenti compone la perfetta sintesi tra soggettività e coralità.

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Fig. 3 Francesco Simonini (Parma, 1686 ­ Venezia o Firenze post 1755) Scena di adunata militare Olio su tela, 40 x 73 cm

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4. Giovan Battista Pittoni (Venezia, 1687 ­ 1767) Madonna della rosa Olio su tela, 73 x 53 cm (fig. 4) Con questo straordinario dipinto di Giovan Battista Pittoni (Venezia, 1687 ­ 1767) il “cosmopolitismo” dei pittori veneti settecenteschi si rivela in una declinazione su cui vale, senza dubbio, la pena di soffermarsi. Se, infatti, l’essenza del temine citato racchiude inevitabilmente il concetto del viaggio e del contatto diretto con nuovi territori culturali, per il Pittoni va invece concepito nella sua essenza intellettuale, quasi si trattasse di un “esperimento” straniante rispetto al nostro comune immaginario. In realtà i debiti nei confronti della cultura figurativa straniera, per la maggior parte degli artisti attivi in Laguna, non provengono da peregrinazioni nei lontani paesi nordeuropei, bensì dalle tavole incise, che rivestivano il ruolo di veri e propri vettori rispetto a temi, stile e inventio all’interno di un mercato spesso desideroso di repliche dagli antichi maestri. E proprio ad un esemplare grafico stampato da Joseph Wagner a Venezia (fig.4.a) bisogna rifarsi accostandosi all’inedito esemplare in esame, che si rivela personalissima interpretazione dell’omologo confezionato dal pittore francese Simon Vouet (Parigi, 1590 ­ 1649). La questione diventa ancora più interessante se consideriamo che Giovan Battista “non lasciò mai Venezia” (De Boni, 1840, p.796) e trascorse una vita quasi del tutto priva di spostamenti, sebbene il suo lavoro risultasse molto apprezzato e richiesto all’estero. Ne deriva, quindi, un’assoluta verginità rispetto ai referenti stranieri ed alle implicazioni legate al territorio d’appartenenza, cui si somma un profondo attaccamento alla Serenissima da parte del maestro, che quindi non instaura alcun tipo di dialogo con il prototipo, ma lo rielabora “immergendolo” nell’atmosfera della città marciana. Il Pittoni, quindi, assolutamente ignaro del classicismo espresso dal Vouet, si limita ad accoglierne il tema alla stregua di accattivante spunto 18


narrativo su cui modulare l’alfabeto pittorico veneziano, che il nostro artista, qui alle soglie della maturità, esprime attraverso il chiaroscuro di matrice piazzettesca appreso durante l’alunnato presso lo zio Francesco, pittore neotenebroso. Il confronto con l’incisione appare, a tale proposito, illuminante: laddove la Madonna del Vouet veste i panni dell’elegante aristocratica, la cui noblesse viene ridimensionata soltanto dalla cuffia in capo, quella in esame è raffigurata nella semplice umiltà della popolana pervasa di affetto materno nei confronti del suo bambino. Quest’ultimo si muove con naturalezza nel tentativo di raggiungere la rosa, come si trattasse di un gioco, e non del triste presagio del sacrificio che lo attende, come invece accade nell’esemplare francese. In quest’ultimo, infatti, il Fanciullino classicamente atteggiato sembra indicare con il dito proprio il fiore­simbolo della passione di Cristo, nell’esplicita volontà di enfatizzarne il significato evangelico. A chiudere il confronto giunge il tessuto su cui è adagiato Gesù: in Simon un candido ed ampio lenzuolo; in Giovan Battista una sorta di panno dalla bordatura sfrangiata e sormontata da un filetto rosso, a ribadire la quotidianità del contesto, immortalata attraverso il filtro del quieto intimismo che caratterizza molte versioni del tema in Laguna. Il gioco chiaroscurale, condotto con la perizia dei notturni realizzati nella maturità (cfr. Adorazione dei pastori, Borgo San Marco, Montagnana, Parrocchiale), ribadisce le sfumature elegiache, domestiche del soggetto, in cui emerge con estrema evidenza il carattere­guida della fisionomia pittoniana, ovvero le mani dalle dita affusolate ed elegantemente piegate con cui l’artista connota i suoi personaggi, in un compiacimento estetico del tutto peculiare. Bibliografia citata: F.De Boni, Dizionario degli artisti, Venezia, 1840.

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Fig. 4 Giovan Battista Pittoni (Venezia, 1687 ­ 1767) Madonna della rosa Olio su tela, 73 x 53 cm

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Fig. 4.a Joseph Wagner, Incisione da Simon Vouet (particolare)

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5. Pietro Rotari (Verona, 1707 ­ San Pietroburgo, 1762) Ester e Assuero Olio su tela, 118 x 147,5 cm (fig. 5) Il soggetto dell’imponente tela in esame presenta un tema assai frequentato dal repertorio figurativo europeo tra XVII e XVIII secolo, sia per quanto concerne la pittura da cavalletto, sia rispetto ai cicli murali. La vicenda vetero­testamentaria di Ester (Libro di Ester) si rivela senza dubbio congeniale alla fantasia degli artisti, grazie all’ambientazione esotica e magnificente, accompagnata dal forte pathos della vicenda, come dimostra con eloquenza il pennello di Pietro Rotari (Verona, 1707 ­ San Pietroburgo, 1762) in questa occasione. Il nostro dipinto immortala il momento più intensamente drammatico della celebre vicenda legata alla bellissima fanciulla ebrea, figlia di Abicàil, che alla morte del padre venne affidata al cugino Mordechai. Quest’ultimo, avendo sentito che il re persiano Assuero era alla ricerca di una sposa, la fece presentare al suo cospetto insieme alle altre pretendenti; il sovrano la scelse ed Ester divenne regina. Quando Aman, primo ministro di corte, decreta lo sterminio di tutti i giudei, Mardocheo esorta Ester ad intercedere presso Assuero nell’estremo tentativo di salvare il suo popolo. Nonostante vi fosse assoluto divieto di presentarsi al cospetto del re senza essere invitati, la fanciulla, dopo tre giorni di digiuno, gli si pone innanzi chiedendo la grazia e, ormai esanime, sviene sorretta da un’ancella. I maestri della Serenissima nel suo secolo d’oro dimostrano di saper tradurre con profitto le potenzialità espressive dell’episodio biblico, privilegiando tuttavia la dimensione estetica rispetto alla vibrante carica drammatica del tema. Lo dimostra a chiare lettere l’opera in esame, dove echeggia l’eredità veronesiana filtrata attraverso la lezione di Giovan Battista Tiepolo (Venezia, 1696 ­ Madrid, 1770), autore peraltro di una raffinatissima versione del soggetto (cfr. Pedrocco, 2000, cat.223/1). 22


Alla stregua dell’illustre maestro, Pietro costruisce la composizione delimitando lo sfondo attraverso grandi colonne lisce su cui si arrotola un ampio panneggio; il campo visivo viene invece ravvicinato in favore dei due protagonisti e del magnificente trono con il bracciolo ferino. La schiera di dignitari, collocata dal Tiepolo all’estrema sinistra, è sostituita da un unico soldato dal caratteristico volto tondeggiante, che, insieme alla fanciulla alle spalle di Ester, esprime i tratti fisionomici peculiari del nostro pittore. Quest’ultimo, quasi a ribadire l’omaggio alla lezione formulata dal Veronese ( Paolo Caliari, detto il Veronese, Verona, 1528 ­ Venezia, 1588), inserisce un moretto all’estrema destra della tela, degno di particolare attenzione in quanto identico all’omologo del Trionfo di David (fig. 5.a) reso noto da Sergio Marinelli ( 2010, n.228, p.211). La grande tradizione figurativa che aveva reso celebre la città scaligera nel Cinquecento pare rivivere attraverso il pennello del Rotari, che Luigi Lanzi (1796) non esitava a chiosare con parole dense d’ammirazione:

...giunse a una grazia di volti, a una eleganza di contorni, a una vivacità di mossa e d’espressione, a una naturalezza e vivacità di panneggiamento…

Quest’ultima caratteristica rappresenta peraltro uno degli aspetti connotanti il dipinto in esame, che arriva al virtuosismo nel trattamento delle pieghe e nella consistenza del tessuto, su cui scorre una luce uniforme, del tutto estranea al chiaroscuro che connota il soggiorno napoletano dell’artista (1729 ­ 1731). La tavolozza e l’impasto pittorico si riallacciano, infatti, alla più genuina tradizione lagunare, espressa nella vibrante sintesi di luce e colore che sigilla i protagonisti della sua più celebre stagione ed accompagnerà Pietro nelle sue lunghe peregrinazioni europee (Vienna, San Pietroburgo). Sebbene quest’ultimo sia noto al grande pubblico per i ritratti di fanciulla a 23


mezzobusto e per le centinaia di “teste di carattere”, che hanno purtroppo obliterato presso i posteri la sua variegata personalità artistica, ci si augura che la comparsa di altri inediti di rilevante importanza ­ come, appunto, quello in esame ­, getti le basi per quella piattaforma referenziale di opere sacre e profane per cui il maestro veronese veniva apprezzato con toni di sincera ammirazione da parte dei suoi contemporanei. Bibl.citata: L.Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso la fine del XVIII secolo, Bassano, 1796, 3 voll.; S.Marinelli, Verona 1700 ­ 1739, in La pittura nel Veneto. Il Settecento di Terraferma, a cura di G.Pavanello, Milano, 2010; F. Pedrocco, Tiepolo, Milano, 2002.

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Fig.5 Pietro Rotari (Verona, 1707 ­ San Pietroburgo, 1762) Ester e Assuero Olio su tela, 118 x 147,5 cm

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Fig.5.a Pietro Rotari (Verona, 1707 ­ San Pietroburgo, 1762) Trionfo di David (particolare)

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6. Antonio Diziani (Venezia, 1737 ­ 1797) Paesaggio con coppia di figure e torre Olio su tela, 75 x 100 cm (fig. 6) Nonostante la scarsità di notizie documentarie relative ad Antonio Diziani (Venezia, 1737 ­ 1797), l’ultimo protagonista del paesaggismo settecentesco a Venezia, la sua figura di pittore possiede una fisionomia codificata, che consegna ai posteri un’arte di grande fascino. Formatosi presso il padre Gaspare (Belluno, 1689 ­ Venezia, 1767), noto figurista dedito, tuttavia, alla composizione di sfondi campestri d’ispirazione riccesca, Antonio dimostra una maturità precoce, presentando, alla soglia dei trent’anni (1766), il suo saggio d’ammissione all’Accademia di Venezia (Paesaggio con la Maddalena, Venezia, Gallerie dell’Accademia). Ciò significa che il nostro pittore aveva una pratica del pennello già consolidata a fianco del genitore, da cui assorbe il referente realistico legato a Marco Ricci (Belluno,1676 ­ Venezia, 1730), archiviando il modello arcadico formalizzato da Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788). Al vezzoso rococò Antonio sceglie la schiettezza del quotidiano, rappresentato nelle sue sfaccettature più realistiche, affondando le radici della propria ispirazione in un territorio quasi obsoleto alla metà del XVIII secolo, ovvero quello del tenebroso Magnasco (Genova,1667­1749), del Peruzzini (Ancona, 1643 o 1646 ­ Milano,1724), o dei maestri fiamminghi. Nel dipinto in esame, riferibile alla giovinezza di Antonio, si registra una sorta d’ “immersione” nell’alfabeto espressivo e formale dei cosiddetti pionieri, che un pennello corposo e sfrangiato recupera nelle loro caratteristiche peculiari. Di qui la presenza dell’albero peruzziniano sulla sinistra, cui si accompagna lo sfondo cinereo e la scelta di colori terrosi a 27


comporre estese zone d’ombra, dove spiccano le due figure centrali. Queste ultime sono rese con vibrante espressività e fondono la tradizione classica, rivisitata in chiave veneta (cfr. fanciulla con otre), con l’eredità nordica (cfr. figura maschile), reinterpretata e riproposta attraverso i caratteristici corpi filiformi che sigilleranno i quadri più noti di Antonio (cfr. le Stagioni del Museo Civico di Padova). Anche l’edificio rustico con torre all’estrema destra, memore della tradizione d’oltralpe, si colloca come cifra tematica del corpus dizianesco, cui il nostro artista non rinuncia neppure quando si accosta a soggetti bucolici (cfr. Scena campestre con grande albero, Venezia, Gallerie dell’Accademia), confermando quella personalissima ricetta poetica dove, come in un ricorso storico, si riaffaccia la generazione dei “cosmopoliti” giunti dalla Francia e dalle Fiandre in quella Venezia pronta ad accoglierli generosamente.

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Fig. 6 Antonio Diziani (Venezia, 1737 ­ 1797) Paesaggio con coppia di figure e torre Olio su tela, 75 x 100 cm

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7. Francesco Casanova (Londra, 1732 ­ Vorderbruhl, Vienna, 1803) Cosacco con cavalli all’abbeverata Olio su tela, 61 x 51 cm (fig. 7) La biografia artistica di Francesco Casanova (Londra, 1732 ­ Vorderbruhl, Vienna, 1803), fratello del celebre avventuriero Giacomo, rappresenta ancora oggi una sorta d’incognita per gli studiosi, in quanto non può vantare quella minima base di riferimenti cronologici certi che consentano di definirne, pur a grandi linee, le tappe essenziali. Nella sua carriera di vero e proprio cosmopolita, il pittore veneziano nato a Londra da due artisti di teatro, opera a Parigi, Dresda e Vienna, specializzandosi nel genere battaglistico ed in particolare nella raffigurazione di cavalieri ripresi singolarmente. E’ il caso, appunto, del dipinto in esame, dove si scorge con forte evidenza un soldato cosacco mentre fa abbeverare due cavalli in uno sfondo campestre con fontana e torre in lontananza. L’analisi stilistica offre importanti spunti di riflessione rispetto alla cronologia del dipinto, poiché lo ricollega alla maniera di Gian Antonio Guardi (Vienna, 1699 ­ Venezia, 1760), presso la cui bottega il giovane Francesco era stato affidato dalla madre. Le fonti tramandano, infatti, all’unanimità, la prima educazione artistica del Casanova presso “i Guardi”, da cui desume il fraseggio pittorico sfrangiato ed un impasto del tutto peculiare, oltre alla fisionomia del volto maschile. Il nostro pittore, tuttavia, si distingue per il tratto asciutto e la vocazione disegnativa ­ qui ben evidenziata dai contorni con cui vengono definiti i profili dei cavalli ­, che volge ad una maggiore scioltezza nella quinta campestre condita da architetture e delimitata da un albero di evidente matrice riccesca. Tali elementi ribadiscono la cronologia arretrata dell’opera, poiché Francesco, prima di eleggere i soggetti equestri a proprio genere esclusivo, li affianca a “scene venatorie” e “paesaggi”, come documentano i registri della prima esposizione parigina cui partecipa (1761). Di estremo interesse si rivela, infine, il gioco chiaroscurale e l’uso 30


dell’azzurro nello sfondo, sintesi tra l’importante eredità di Marco Ricci (Belluno,1676 ­ Venezia,1730) ed i vezzeggiamenti rococò della cultura francese, ribaditi peraltro dai putti sulla fontana a sinistra del dipinto. Nelle lunghe peregrinazioni europee, Francesco saprà adeguare queste suggestioni al gusto della committenza internazionale, forgiando uno stile molto più luminoso e sciolto rispetto agli inizi veneziani, senza rinunciare, tuttavia, a quella pennellata densa e veloce che sigilla la cultura figurativa della Serenissima nel suo secolo d’oro.

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Fig. 7 Francesco Casanova (Londra, 1732 ­ Vorderbruhl, Vienna, 1803) Cosacco con cavalli all’abbeverata Olio su tela, 61 x 51 cm

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8. Francesco Tironi (Venezia, 1745 ­ 1797) Veduta di San Pietro in Castello (fig. 8) Veduta delle Zattere con San Giorgio Maggiore (fig. 8.a) Olio su tela, 38 x 57 cm ciascuno

Il piacevole pendant esemplifica la sfaccettatura più nota del cosmopolitismo a Venezia, in quanto le vedute nel XVIII secolo altro non erano che un souvenir destinato ai viaggiatori del Grand Tour, desiderosi di riportare in patria il ricordo della città costruita sull’acqua. Di qui si va strutturando, nel corso del Settecento, un vero e proprio repertorio di soggetti, stilemi ed ingredienti compositivi, che attraversano quasi indenni un arco cronologico piuttosto dilatato in virtù della piacevolezza estetica, assoluto parametro per un mercato squisitamente straniero. I nostri dipinti rispettano appieno tale parametro, compiendo una sorta di “florilegio”, o contaminazione, tra i caratteri­guida dei più noti vedutisti; a partire da Johan Richter (Stoccolma, 1665 ­ Venezia, 1745), uno dei pionieri rispetto al genere, cui si deve il barcolame con fanciulle assise nel secondo dipinto, divenuto un motivo di sicuro successo da utilizzare come guarnizione alle acque lagunari. Il gentiluomo ed i rematori collocati nella medesima posizione all’interno del pendant echeggiano, invece, in modo evidente, gli stilemi canalettiani, immessi tuttavia in una gabbia prospettica del tutto peculiare e riconducibile all’ultimo, illustre rappresentante della veduta a Venezia, Francesco Tironi. Di quest’ultimo molto poco è dato sapere e l’unica fonte contemporanea (cfr. G.A. Moschini, 1806, vol.III, p.78) lo menziona in modo alquanto sommario: Qui aggiungerò che a compiangersi il nostro Francesco Tironi, che morto sia in troppo fresca età da qualche anno, perché i Porti di Venezia e le Isole disegnati da lui, ed incisi dal nostro Antonio Santi, ci fanno scorgere quant’oltre sarebbe arrivato 33


Ad oggi, nonostante la messe di dipinti riferiti al maestro veneziano che circolano sul mercato antiquario, non è ancora stato pubblicato un corpus organico di opere che ne definisca una sicura piattaforma referenziale, soprattutto rispetto alla fase della prima maturità (settimo decennio del XVIII secolo), su cui i nostri esemplari gettano senza dubbio nuova luce. In essi emerge, infatti, un’arte già codificata nelle sue linee­guida essenziali, individuabili nei tagli prospettici assai arditi, nell’intenso gioco chiaroscurale e nei tocchi di bianco apposti sulle macchiette e sugli edifici per farli risaltare rispetto allo sfondo. A ciò si aggiunge, nel secondo dei due dipinti, la facciata di San Giorgio illuminata dal sole, soggetto tra i più amati e riprodotti dal pittore con una gaiezza d’accenti luministici del tutto caratteristica, che sigilla l’autografia di Francesco ( Venezia 1745 ­ 1797) in modo inequivocabile. Le figure, pur lontane dall’esasperazione caricaturale del periodo maturo, condividono la medesima ispirazione, che le vede costruite attraverso rapidi tocchi di colore, prive di tratti fisionomici e concepite alla stregua di vibranti entità cromatiche del tutto immuni da velleità disegnative ed ambizioni didascaliche.

Bibliografia citata: G.A. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a’ nostri giorni, Venezia, 1806.

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Fig. 8 Francesco Tironi (Venezia, 1745 ­ 1797) Veduta di San Pietro in Castello Olio su tela, 38 x 57 cm

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Fig. 8.a Francesco Tironi (Venezia, 1745 ­ 1797) Veduta delle Zattere con San Giorgio Maggiore Olio su tela, 38 x 57 cm

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9. Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788) Paesaggio con figure e toro presso una cascatella (fig. 9) Paesaggio fluviale con figure (fig. 9.a) Olio su tela, 87 x 71 cm ciascuno (1770)

Tra i rari dipinti zuccarelliani di sicura cronologia, il pendant in esame occupa un posto d’assoluto rilievo, poiché documenta un felicissimo segmento della biografia artistica del Pitiglianese, approdato nell’Olimpo della pittura britannica settecentesca. La data 1770, posta sulla roccia a sinistra del Paesaggio con figure e toro nei pressi di una cascatella, identifica l’anno in cui il noto paesaggista, divenuto membro della Royal Academy (1768), espone ben cinque dipinti: due di soggetto sacro (San Giovanni nel deserto, sacra famiglia) e tre Paesaggi (Graves, 1906, p.414; Levey, 1959, p.14). Francesco, ormai approdato al riconoscimento accademico del proprio status, pare voler fissare in calce l’importanza di quel preciso momento all’interno della sua biografia artistica, anche se non si può escludere l’ipotesi che sia stato proprio il committente dei dipinti a richiederne la data, proprio in virtù della posizione del maestro toscano in quel determinato momento. Anche la specificità del soggetto sembra suffragare siffatta ipotesi, poiché il nostro artista archivia i languidi accenti arcadici in favore di una vena sentimentale squisitamente inglese. Negli ampi sfondi cinti da montagne non si intravedono, infatti, i verdeggianti ritagli di campagna assolata del periodo arcadico, quanto piuttosto isolotti che emergono dalle acque e preludono agli immaginifici orizzonti montuosi tinti di rosa e d’azzurro. Gli eterni meriggi assolati cedono il posto a banchi di nubi magistralmente trasposte sulla tela, con una sensibilità atmosferica difficilmente raggiunta altrove; le chiome arboree, rese a vibranti tocchi di pennello, alludono al Macbeth e le streghe ­ realizzato nello stesso torno d’anni ­ piuttosto che ai languidi ozi degli aedi virgiliani; i tronchi si contorcono, memori dei migliori maestri fiamminghi. Ai loro piedi non possono mancare le 37


consuete, vezzose fanciulle, rese con la maestria del consumato figurista: graziose, languide senza mai apparire stucchevoli, espressione di un idillio mai sopito, che culmina come in una sorta di climax ascendente nello straordinario toro del primo esemplare, forse il miglior esempio di pittura animalista dell’intera produzione zuccarelliana (insieme all’omologo del dipinto con Europa e il toro nelle Collezioni Reali inglesi; cfr. Spadotto, 2007, cat. 87). Mai prima d’ora il Pitiglianese è riuscito a fondere compiutamente il complesso rapporto uomo/natura ­ al centro del dibattito culturale inglese nel pieno Settecento ­ ed il proprio microcosmo poetico, dove l’elegia sconfina nel sogno. In uno scenario amabile, ma allo stesso tempo pregno di misteriosa ed ineluttabile grandezza, le figure femminili classicamente atteggiate alludono alla grazia degli antichi, colorandosi tuttavia di vividi accenti quotidiani, senza cedere al realismo didascalico, del tutto incompatibile con la sensibilità poetica dell’artista. Bibliografia citata: A.Graves, The Royal Academy of Arts. A Complete Dictionary of Contributors and their Work from its Foundation in 1769 to 1904, London, 1906, 8 voll.; M.Levey, Francesco Zuccarelli in England, in “Italian Studies”, 1959, XIV, pp.1­20; F. Spadotto, Francesco Zuccarelli, catalogo ragionato dei dipinti, Milano, 2007.

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Fig. 9 Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788) Paesaggio con figure e toro presso una cascatella Olio su tela, 87 x 71 cm

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Fig. 9.a Francesco Zuccarelli (Pitigliano, 1702 ­ Firenze, 1788) Paesaggio fluviale con figure Olio su tela, 87 x 71 cm

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

F.De Boni, Dizionario degli artisti, Venezia, 1840. E.Favaro, L’arte dei pittori a Venezia e i suoi statuti, Firenze, 1975; A.Graves, The Royal Academy of Arts. A Complete Dictionary of Contributors and their Work from its Foundation in 1769 to 1904, London, 1906, 8 voll. L.Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso la fine del XVIII secolo, 1796, Bassano, 3 voll. S.Marinelli, Verona 1700­1739, in La pittura nel Veneto. Il Settecento di Terraferma, a cura di G.Pavanello, Milano, 2010; G.A. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a’ nostri giorni, Venezia, 1806. L.Muti­D.De Sarno Prignano, Alessandro Magnasco, Faenza, 1994. R.Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, 2 voll., Milano, 1995­1996. G.Pavanello (a cura di), La pittura nel Veneto. Il Settecento di Terraferma, Milano, 2010. F. Pedrocco, Tiepolo, Milano, 2002. A.Scarpa Sonino, Marco Ricci, Milano, 1991. F.Spadotto, Francesco Zuccarelli, catalogo ragionato dei dipinti, Milano, 2007. F. Spadotto, Giovan Battista Cimaroli, catalogo dei dipinti, Rovigo, 2011. F.Spadotto, Un artista dimenticato: Giovan Battista Cimaroli, in “Saggi e Memorie di Storia dell’Arte”, 23, 1999, pp.129­187. F.Zava Boccazzi, Giovan Battista Pittoni, Milano, 1979. A.P. Zugni Tauro, Gaspare Diziani, Milano, 1971.

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INDICE

Introduzione pag. 2 Schede delle opere pag. 7 Francesco Zuccarelli, Macbeth e le streghe, pag. 7 Giovan Battista Cimaroli, Paesaggio campestre con figure, animali e cascatella, pag. 12 Francesco Simonini, Scena di adunata militare, pag. 15 Giovan Battista Pittoni, Madonna della rosa, pag. 18 Pietro Rotari, Ester e Assuero, pag. 22 Antonio Diziani, Paesaggio con coppia di figure e torre, pag. 27 Francesco Casanova, Cosacco con cavalli all’abbeverata, pag. 30 Francesco Tironi, Veduta di San Pietro in Castello e Veduta delle Zattere con San Giorgio Maggiore, pag. 33 Francesco Zuccarelli, Paesaggio con figure e toro presso una cascatella e Paesaggio fluviale con figure, pag. 37

Milano, 5 novembre 2013 Prima edizione © RIPRODUZIONE RISERVATA 42


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