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di Nicola Del Corno

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di Stefano Quirico

di Stefano Quirico

È finito il Sessantotto

Alle radici del ’68 italiano: il movimento beat a Milano

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di Nicola Del Corno (Università di Milano)

All’alba del 12 giugno 1967 la polizia sgomberò il campeggio beat sorto in via Ripamonti, accanto al canale Vettabbia nella periferia milanese; il blitz delle forze dell’ordine era stato da tempo richiesto da parte dell’opinione pubblica moderata cittadina, l’importante quotidiano “Corriere della sera” in testa, che mal tollerava l’instaurarsi di una «New Barbonia city»17 – per riprendere un articolo del quotidiano – alle porte della metropoli. Il campeggio era presto divenuto – secondo questa volta le parole del prefetto di Milano – un «ricettacolo di elementi oziosi e vagabondi»18 . Poco contava il fatto che i beat – «capelloni» e «sbarbine» secondo una certa stampa19 – avessero regolarmente affittato quel terreno per un periodo che andava dal 1° maggio al 31 agosto ’67; l’azione della polizia fu inesorabile, quanto spettacolare: 79 arresti, circa 200 fogli di via e soprattutto per disinfestare la zona furono usati, come riportano le cronache del tempo, 500 litri di DDT20 . Con lo sgombero dell’ «inverecondo bivacco» (per riprendere il titolo del “Corriere”), si può dire che terminò anche l’esperienza beat milanese. Inoltre l’ uscita di lì a poco del numero 5 (ma in realtà il 7, dato che i primi due furono il numero 0 e il 00) della rivista “Mondo beat” per l’editore Feltrinelli determinò una spaccatura all’interno del movimento, con alcuni “scissionisti” che risposero a tale iniziativa, considerata poco underground e molto mainstream, con la pubblicazione di un foglio alternativo (che cambiava nome ogni volta per sfuggire alle normative sulla stampa e all’obbligo del direttore responsabile usando la dizione «numero zero in attesa di autorizzazione») denominato in successione “Urlo beat” , “Grido beat” , “Urlo Grido Beat” , “Parentesi beat”21 . Sul primo di questi giornali, “Urlo beat” , l’atto d’accusa nei confronti della fine dell’indipendenza di “Mondo beat” , e pertanto l’esigenza di un nuovo giornale, chiamava esplicitamente in causa la vecchia redazione, rea di essersi seduta «comodamente sulla poltrona di pelle del baffuto signore [ossia Gian Giacomo Feltri-

Giorgio Barberis

nelli] con dieci lire in tasca», relegando di fatto in secondo piano i concreti «problemi di ragazzi che hanno lasciato una casa per correre a Milano dove avevano letto che c’era una cava, un campeggio, un giornale tutto per loro, venduto per la strada da loro»22 .

Dopo lo sgombero del campeggio, si radicalizzò ancor di più una vera e propria “caccia al capellone” , peraltro già iniziata con la prima comparsa dei primi beat nelle piazze italiane; come ebbe modo di ricordare Fernanda Pivano, «un uomo non poteva girare per le strade con i capelli lunghi senza venire insultato, sputato e magari portato in questura; tutto l’apparato benpensante, ben strutturato, dedito alla morale della produttività e alle varie morali della famiglia, della religione, dei partiti eccetera si era mobilitato con polizia, giornali, prediche e giovanotti intellettuali super impegnati a stroncare più in fretta possibile qualunque accenno a pensieri di ricerca, di apertura, di critica per non dire poi di dissacrazione e di strafottenza»23 .

Nonostante che nei mesi successivi l’informale comunità beat milanese avesse tentato in qualche modo di riorganizzarsi, spalancando e condividendo gli abbaini delle case di via San Maurilio nel quartiere Brera24 , con il 68’ alle porte iniziò un vero proprio esodo all’interno del movimento, con alcuni dei suoi esponenti che partirono per l’Oriente (soprattutto India, Afghanistan, Marocco)25 . Altri suoi esponenti preferirono allontanarsi dalle metropoli per dar vita a comuni in campagna; particolarmente nota fu quella di Ovada, dove i giovani poterono concretizzare, sia pure per breve tempo, le proprie speranze di vita alternativa al consumismo e alla massificazione caratterizzante lo status quo; come infatti asseriva un suo frequentatore: «Io ho sempre sognato un’isola fuori dalla civiltà dove vivere di caccia e di pesca»26 .

I primi beat erano comparsi nell’estate del ‘65 nelle piazze italiana; erano per lo più giovani stranieri, turisti on the road, che presto vennero affiancati da ragazzi italiani; già dal loro solo apparire (capelli lunghi, abiti trasandati, debole distinzione nell’aspetto tra i sessi) furono da subito fonte di scandalo per l’opinione pubblica, e di attenzione da parte delle forze dell’ordine. Il milieu sociale dei beat italiani appariva com-

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posito; fra di loro troviamo studenti ed ex studenti, operai spesso appena licenziati, pacifisti così come veri e propri sbandati e soprattutto molti giovani – spesso minorenni – che erano scappati da casa. Le loro fonti d’ispirazione, ribellistiche da un punto di vista comportamentale e culturale, erano i beat americani, il pop britannico, l’esistenzialismo caratterizzante la vita di quartieri come Gamla Stan a Stoccolma, e soprattutto i provos olandesi; pur non avendo un proprio programma politico, né una sicura ispirazione ideologica, si rifacevano ad un generico ethos libertario. Come spiegava un giovanissimo collaboratore nel primo numero di “Mondo Beat” ciò a cui si aspirava «soprattutto» era «la libertà, anzi la liberazione da ogni legame con un mondo precostituito» e da una «società che riesce solo a condizionare le menti degli uomini»; e per fare ciò si cerca di «udire quella voce più interna che è nascosta dalle violenze della vita quotidiana»27 .

Dalla stampa, ma più in generale dall’opinione pubblica, i giovani beat vennero apostrofati quali «sporchi capelloni», «drogati», «vagabondi», «pervertiti», «promiscui», «parassiti», «barboni», «senza Dio»; si prenda ad esempio un articolo di Paolo Bugialli sul “Corriere della sera” a proposito dei beat che si ritrovavano sulla scalinata di Trinità dei Monti – uscito già il 6 novembre 1965, ossia ai primordi del fenomeno –nel corso del quale, partendo dal presupposto che «essi sono brutti e non piacciono a noi», se ne denunciava soprattutto il look trasandato, l’ «evidente disprezzo per l’acqua e per il sapone», e il loro non far nulla, «ora gli accampati suonano la chitarra, ora si stendono lungo una balaustra e studiano le nuvole, ora affondano la testa nelle mani e immergono lo sguardo nel vuoto», se non provocare i passanti, fino ad arrivare ad una drastica soluzione per la loro eliminazione dalla piazza romana: «Andare lì, armati di civismo, di insetticida, e di forbici. O si lasciano disinfestare e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto; o reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie ed è risolto lo stesso»28 . Peraltro «capellone» fu un termine rifiutato dai giovani beat che denunciavano – come spiegava uno dei protagonisti della scena milanese, Vittorio Di Russo – come con tale denominazione riduttiva si cercasse di eludere la reale portata della contestazione beat: «Capellone è un termine coniato dalla stampa. Noi lo

Giorgio Barberis

odiamo. Il nostro è un serio movimento di protesta contro la società costituita e non si ferma certo alla pettinatura»29 .

L’attenzione spesso negativa, ma sempre spasmodica, dei media si concretizzò in una quantità immensa di articoli, inchieste, reportage – c’è chi dice circa 500 nel solo biennio ’66’6730 – affrontanti questo aspetto della prontamente nominata “questione giovanile” sotto diverse angolature; fece scalpore, ad esempio, il libro-inchiesta firmato Eleonora X, Ho vissuto un anno coi capelloni, per gli spregiudicati riferimenti alla loro disinibita sessualità31 .Anche la cinematografia si occupò del fenomeno sia pure spesso in termini “macchiettistici”; in un celebre episodio, Il mostro della domenica del film collettaneo Capriccio all’Italiana girato 1967, Totò, diretto da Steno, interpretava un signore che, odiando fino al parossismo la moda dei capelloni, riusciva con vari inganni ad attirare la loro attenzione per poi raparli a zero. Ben diverso nell’approccio e nei contenuti avrebbe dovuto risultare il film Capelli lunghi pensato da Mario Monicelli, ma poi mai girato; un road-movie, bocciato dal produttore Franco Cristaldi perché ritenuto troppo “estremista” , che avrebbe dovuto raccontare la ribellione di una coppia di giovani all’ipocrita moralismo caratterizzante la società italiana di allora32 .

Un’altra delle accuse rivolte ai beat era quella – ben esemplificata da un articolo comparso sul “Corriere della sera” di Giuliano Zincone del 12 aprile 196733 – di non aver saputo generare una propria cultura e una propria letteratura autonoma e caratterizzante. Pur non avvicinandosi, per tanti motivi, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo alla produzione americana, i beat italiani diedero invece alle stampe romanzi e poesie degni di essere ricordati, studiati e conosciuti a distanza di quasi mezzo secolo34; fra i titoli più significativi occorre sicuramente menzionare il psichedelico romanzo, ambientato ad Harar in Etiopia, Il paradiso delle Urì del milanese Andrea D’Anna35 .

Come si è già notato, sul movimento ricadde una valutazione estremamente negativa da parte di quella stampa che maggiormente influenzava l’opinione pubblica; giudizi altrettanto ostili arrivarono anche da altri contesti intellettuali, ad esempio da due noti pensatori politicamente distanti come Pier Paolo Pasolini e Julius Evola: il primo, agli inizi degli

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anni ’70 nel suo primo articolo per il “Corriere” , li accusava ancora di conformismo, di essere diventati ormai una moda non dissimile dalle altre imposte dal sistema contro cui pretendevano invece di combattere, e quindi di risultare un esempio di devianza facilmente riassorbita dal sistema: «I capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio dei segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le ‘cose’ della televisione o delle reclame dei prodotti»36; il secondo di non contare nulla nella loro banale convinzione di essere alternativi all’esistente – quando erano invece parte integrante dell’esistente – e quindi non vedeva come potessero risultare di qualsivoglia pericolosità; si comportavano solamente come dei bambini capricciosi, e come tali andavano trattati: «Quando questa gioventù pretende di non essere capita, la sola risposta da darle è che in essa non vi è proprio nulla da capire, e se esistesse un ordine normale si tratterebbe unicamente di metterla a posto per le vie brevi, come si fa con i bambini, quando la sua stupidità diviene fastidiosa, invadente e impertinente»37 . Mentre nella musica leggera fu Adriano Celentano a scagliarsi contro i beat nell’incipit recitato della canzone Tre passi avanti del 1967, denunciandone comportamenti trasgressivi di vario genere e predicandone per questo una pronta fine: «Caro Beat mi piaci tanto / sei forte perché hai portato / oltre alla musica dei bellissimi colori / che danno una nota di allegria / in questo mondo pieno di nebbia. / Però se i ragazzi che non si lavano / quelli che scappano di casa / e altri che si drogano e dimenticano Dio / fanno parte del tuo mondo / o cambi nome o presto finirai»38 .

Non tutta l’intellettualità prese però le distanze da loro; fra chi li difese, cercò di intenderne le ragioni e di giustificarne i comportamenti, si può ricordare Elsa Morante, Italo Calvino,AlbertoArbasino. La Morante denunciava come un attacco alla democrazia e alla libertà personale l’essere represso solo per la lunghezza dei capelli e la foggia dei vestiti: «Ritenevo per certo e indubitabile che in Italia, paese di civiltà democratica, ciascuno fosse libero di pettinarsi e vestirsi come meglio crede»; ricordando inoltre, a mo’di provocazione, illustri “capelloni” in Giuseppe Garibaldi, DanteAlighieri eAlbert Einstein, e altrettanto illustri “ vagabondi” giunti a Roma in Johann Wolfang Goethe e Raffaello Sanzio39 . Calvino,

Giorgio Barberis

anch’egli turbato e sdegnato per l’ondata repressiva nei confronti dei capelloni, considerava ciò «un fatto di inciviltà allarmante» dal momento che «non è il caso di scherzare quando una piccola minoranza inoffensiva e impopolare, oggetto di scherno e barzellette, viene presa a bastonate e la polizia volta le spalle e addirittura se la prende con gli aggrediti»40 . Qualche giorno prima, sempre sul “Giorno” ,Arbasino aveva notato come l’attacco indiscriminato ai beat, prescindendo dal valutare idee e comportamenti, non testimoniasse altro che una «costante» del comune atteggiamento italiano, ossia «quella mentalità protervamente nazionalistica, piccolo-borghese, furibonda, per cui l’Apparenza è Tutto, e ogni valore pensabile si compendia nel Decoro Esteriore e si esaurisce nella Lunghezza del Capello»41 .Adifesa dell’esperienza della tendopoli milanese, e a conseguente denuncia del suo violento abbattimento sull’ ultimo numero di “Mondo Beat” era uscito un manifesto di solidarietà intitolato Sono con noi, redatto per iniziativa di Gian Giacomo Feltrinelli, e firmato da importanti intellettuali quali Cesare Musatti, Elvio Fachinelli, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Luciano Berio, Dario Fo, Franca Rame, Vittorio Gregotti, Mario Spinella, Lodovico Geymonat, Arturo Schwarz, e altri ancora42 .

AMilano, i primi beat erano comparsi «timidamente» alla metà degli anni ’60 ritrovandosi dalle parti di piazzale Brescia43 , per muovere successivamente verso il centro, e divenire finalmente una presenza visibile nella città, fissando il loro punto d’incontro dapprima presso la fermata della metropolitana di Cordusio e poi in piazza Duomo sotto la statua del “pirla a cavallo” , così come veniva definito il monumento aVittorio Emanuele II nello slang beat. Nell’autunno del ’67 i beat affittarono uno scantinato in via Vicenza – presto denominato secondo suggestioni estere “la Cava” – che divenne il punto di riferimento del movimento italiano44; presso la Cava e il successivo campeggio, oltre ad una ventina di presenze stabili, si è calcolato che transitarono più di quattromila giovani, provenienti da tutta Italia, ma anche da buona parte dell’Europa occidentale.All’interno della Cava – presentata dalla stampa come un luogo vizioso e perverso – vigeva invece una certa forma di autorganizzazione, così scandita da tre divieti fondamentali: “no alla violenza, no al furto, no

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alla droga; le prime due per ragioni di coscienza, la terza per sicurezza”45 . I beat si legarono presto ai cosiddetti provos milanesi – i situazionisti dell’“Onda verde” nelle cui fila figura di riferimento èAndrea Valcarenghi, futuro fondatore dell’importante rivista controculturale “Re Nudo” – dando vita assieme ad una serie di manifestazioni pacifiche; particolarmente riuscite risultarono quella antimilitarista del 4 novembre ’66, quella del 28 novembre ’66 contro i fogli di via e la repressione poliziesca, e quella del 6 maggio ‘67 durante la quale vennero trascinate per il centro di Milano una serie di bare bianche e lunghe catene per protestare con la guerra in Vietnam. Marco Daniele, un esponente di Onda Verde Provo, sintetizzava così su “Mondo Beat” le modalità «complementari» della contestazione di beat e provos: i primi «sono ragazzi scappati di casa» che «si rifiutano di vivere come la società del benessere prescrive»; i secondi «si preoccupano di tenere alta la ‘temperatura’ sociale» affinché il movimento giovanile nel suo insieme non si tramutasse «in un vaso chiuso che la società possa facilmente isolare, ignorare e digerire»; ambedue i comportamenti erano, secondo l’autore, ugualmente «necessari»46 .

Nelle manifestazioni beat e provos s’intrecciavano tematiche esistenziali provenienti dal modello americano degli hippies a concrete battaglie politiche a favore di maggiori diritti civili; l’obiettivo non era certamente quello, per così dire, di prendere il potere, quanto quello di combattere con le armi underground della provocazione e della non violenza la società tradizionale. La way of life contro cui i beat muovevano era quella che UgoAlfassio Grimaldi e Italo Bertoni avevano definito agli inizi del decennio la società delle 3M (ossia moglie/marito, mestiere, macchina)47; una prospettiva di benessere materiale e di quieto vivere, caratterizzante l’Italia del boom economico, che ovviamente non poteva accontentare le aspirazioni di coloro che volevano radicalmente ribaltare i paradigmi sociali del presente in senso pacifista, libertario, anticapitalista e anticonformista; come rivendicavano loro stessi con orgoglio «i beat sono dei fannulloni, non lavorano. […] Noi potremo, in un mondo beat, non lavorare»48 . I capelloni finivano spesso per risultare negli ondivaghi giudizi dell’opinione pubblica – per riprendere una sarcastica definizione data

Giorgio Barberis

da uno di loro, Livio Cafici, su “Mondo beat” – «odiosamati»; odiati perché il più delle volte sporchi, brutti, drogati e irriverenti; ma a volte amati per il loro impegno a favore della pace e della fratellanza universale: «BEATI I BEATS così diversi da noi ma ai quali ci piacerebbe tanto assomigliare!», pareva all’autore un pensiero recondito in quei non pochi milanesi che consideravano l’essere beat come una «moda», come una «evasione serale»49 .

Proprio sul terreno della radicale contestazione al sistema vigente i beat milanesi intrecciarono un proficuo rapporto anche con i gruppi giovanili anarchici; questo incontro si esplicitò in una serie di assemblee congiunte, nella partecipazione dei beat ad alcuni convegni anarchici (ad esempio quello di Carrara dell’estate 1967), e a Milano nell’aiuto che gli anarchici – soprattutto nella figura di Giuseppe Pinelli – fornirono ai beat per la stampa del primo numero del giornale50 . Dai partiti, anche da quelli di sinistra, i beat avevano invece preso le distanze sin da subito, non riconoscendosi in alcuna forma di apparato, di burocrazia, di ideologia; una presa di distanza dalla politica tradizionale che si riverberava anche nel rifiuto per ogni coinvolgimento nella dialettica democratica, e quindi anche del voto. Come si scriveva sul secondo numero (il numero 00) di “Mondo Beat” , “ votare significa scegliere etichette intercambiabili, [mentre] tutto è sempre uguale”51 . In realtà, nel novembre del 1966 ci fu un tentativo da parte di alcuni esponenti del PSIUP (Partito socialista di unità proletaria) di interloquire con i giovani del movimento; nella casa veronese dell’editore Giorgio Bertani si tenne infatti un incontro, presente anche la Pivano, che però si concluse con un nulla di fatto, data l’assoluta refrattarietà dei beat nei confronti di un impegno politico, tradizionalmente inteso. A questo incontro fu presente anche il poeta beat Gianni Milano che così ha sintetizzato la reciproca incomprensione: «I politici erano ancora a letture materialiste, fuori da grandi prospettive, noi utilizzavamo filosofie orientali, saggezze indigene, sentimenti libertari. La loro era una politica asessuata, di scontro frontale. Noi eravamo convinti che occorresse tirarsi fuori dal sistema. Poche possibilità di accordo»52 . Con il partito radicale i beat condivisero invece qualche manifestazione; ad esempio la marcia della pace Milano-Vicenza dell’estate

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del ’6753 . Come ha sottolineato Silvia Casilio, il movimento beat milanese fu “apartitico” , ma non certamente “apolitico”54 , dal momento che pur non schierandosi per nessuna parte, non poteva certo essere definito qualunquista, data la contestazione radicale del presente: “Rifiutiamo la società costituita con la speranza di formarne una migliore” , rivendicavano infatti i beat55 .

Il movimento beat milanese diede vita ad un’interessante proliferazione di testate underground, fra le quali si distinsero, oltre al già citato “Mondo Beat” , “Pianeta Fresco” e “S” . Fra i 3 giornali, “Mondo beat” fu il foglio più politico; nelle sue pagine si ritrovano alcuni temi portanti delle future proteste sessantottine e degli anni seguenti quali il pacifismo, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza, il libero amore, il diritto al divorzio, all’aborto, alla pillola anticoncezionale, in un contesto di generale critica alla politica tradizionale – anche quella dei partiti di sinistra – ed una esaltazione della vita in comune per superare definitivamente gli stereotipi della famiglia, della società, della buona educazione tradizionalmente intesi. Inoltre inizia già ad emergere quella passione per l’Oriente che influenzerà le scelte esistenziali di una parte non trascurabile della gioventù del decennio successivo. “Pianeta fresco” – nato per iniziativa della ‘madrina’del beat italiano, ossia Fernanda Pivano (direttrice «responsabile» della rivista, mentre direttore «irresponsabile» risultavaAllen Ginsberg), e il cui primo numero uscì nel dicembre del ’67 – si distinse da “Mondo beat” per un tono sicuramente più controculturale, affrontando tematiche proprie dell’ underground americano quali la possibilità e la libertà di poter espandere la propria conoscenza tramite l’ uso di sostante psicoattive, e un più esplicito misticismo attento ovviamente a religioni e filosofie orientali. Da “Pianeta fresco” sparivano quei concreti problemi esistenziali presenti invece su “Mondo beat” , quali la fuga da casa, la repressione da parte del sistema, il bisogno di socializzazioni alternative, mentre si parlava in termini teorici di de-condizionamento culturale, di nuove visioni apprese tramite viaggi allucinogeni o da religioni e filosofie orientali.Ad esempio, sul primo numero della rivista, Miro Silvera, al fine di «migliorare il proprio modo di esistere», consigliava di usare «delle piante (il vegetale, la foglia, il seme,

Giorgio Barberis

il fungo), delle formule (chimiche, il minerale, la pozione, le pillole), dell’ardore ascetico e dell’estasi (le regole di vita e di cibo, essere vegetariani, le pratiche del buddismo, dello yoga, dello zen)»56 . Si abbandonava la materialità della strada dove si era formato il movimento beat, per concentrarsi, grazie anche alla traduzione di testi di Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Timothy Leary, a creare sia pure in forma elitaria –«non ho mai cercato di travestirmi da sottoproletaria o da sottocolta», rivendicava la Pivano57 – una originale intellettualità libertaria partecipe soprattutto delle istanze dell’ underground americano58 . In maniera simile, anche la situazionista “S” , il cui primo numero vide la luce nell’ottobre 1967, fece fare un salto di qualità da un punto di vista culturale al movimento underground non solo milanese, visto che fu diffuso anche in altre città italiane; nelle sue pagine, ricercate anche da un punto di vista grafico, vi era sì una ripresa di alcune tematiche protestatarie già comparse su “Mondo beat” , ma ora presentate secondo una prospettiva sicuramente meno elementarmente schematica. Tale era ad esempio l’appello ad un’opera di deculturizzazione per difendersi dalla cultura imposta dal sistema; come si leggeva, infatti, nel secondo numero della rivista, «gli essisti rifiutano l’ideologismo, puntano sulle tecniche deculturali» in modo da «ripulire i pensieri della gente dalle false idee propugnate dalla società», ossia «fare soprattutto opera di decultura contro la cultura con la ‘c’ maiuscola»59; e gli strumenti adottati in questa impresa risultavano giochi di parole, ambiguità fra accaduto e immaginato, détournement di passata consuetudine dadaista.

Nel milanese, e più propriamente a Monza nell’estate del ’66 si era inoltre consumata la breve ma intensa esperienza controculturale del Beatnik’s Clan per iniziativa di Anto Mariani e Pucci Paleari; la sede del Clan fu chiusa per un intervento della polizia quando vi si fermarono a dormire alcuni minorenni scappati da casa. Mariani indossava spesso magliette e lunghe sciarpe tramite le quali comunicava direttamente i suoi pensieri; su una di queste magliette vi era scritto ad esempio: «Io porto la zazzera x protesta contro il conformismo che opprime l’attuale società perciò viva i beats»60 . Inoltre, i beat monzesi furono gli autori di un attacco circostanziato nei confronti dei partiti politici in generale, accusati

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di voler in qualche modo assecondare subdolamente, in cambio del voto, le richieste di quei giovani prima sempre così malgiudicati: «Quando, poi, verrà il tempo di mettere una croce su certe schede che bianche rimarranno, tutti i sozzoni, i pezzenti, i parassiti, gli esibizionisti, i seminfermi, gli invertiti, gli scansafatiche diverranno tutti dei bravi figlioli, diverranno tutti dei bravi e buoni angioletti»; ma queste blandizie – concludeva l’articolo – a nulla sarebbero servite: «Lei [il partito] è duro a capire, che con noi non attacca»61 .

La rapida politicizzazione della cultura giovanile, che si imporrà in maniera repentina nel ’68, pone inevitabilmente ai margini dell’ondata protestataria l’incidenza della dimensione meramente controculturale; i beat si trovarono così a fare i conti anche con un movimento, sempre giovanile ma ben più strutturato culturalmente e ideologicamente, che li considera sostanzialmente disimpegnati e per nulla rivoluzionari62 . Con il ’68 si fa sempre più ristretto lo spazio di manovra per beat e situazionisti; un certo integralismo ideologico, legato a letture più o meno ortodosse dei classici del marxismo, mira ormai a negare legittimità politica a comportamenti scanzonati e individualistici, e perciò considerati borghesi63 . Un esempio di questa sorta di incomunicabilità che si venne a creare fra beat e giovani di sinistra la si può constatare riguardo alla guerra in Vietnam. Nel n. 1 di “Mondo beat” Valcarenghi condannava l’intervento americano bollandolo come “imperialista” , ma negava un appoggio incondizionato ai nord-vietnamiti, richiedendo l’intervento dell’Onu64; sul numero successivo una lettrice, Monica Maimone, lo accusava di mettere così sullo stesso piano aggressori e aggrediti, rivendicando la necessità di sostenere attivamente in Italia la rivoluzione armata vietnamita; ciò non significava avallare sempre l’ uso della violenza ma prendere atto che in determinati momenti non vi erano altre alternative65 .

Nonostante queste importanti differenze, una certa continuità fra movimento beat e futura contestazione sessantottesca è stata più volte messa in luce dalla storiografia; ad esempio da Alberto De Bernardi quando scrive che «con i capelloni siamo alle origini del movimento», notando come punti di contatto soprattutto la critica alla società dei consumi e

Giorgio Barberis

l’internazionalismo pacifista66 , o da Peppino Ortoleva quando afferma che, a livello americano ed europeo, «è ovvia la continuità fra linguaggio e stili di vita “ underground” con atteggiamenti ribellistici del movimento del ’68»67 . Diego Giachetti ha rilevato l’esistenza di un «collante» fra beat e sessantottini nel comune antiautoritarismo; un concetto capace di collegare fra loro esperienze esistenziali diverse: la strada dei beat, l’ università degli studenti, la fabbrica degli operai; l’autore ha però sottolineato anche una fondamentale cesura fra i due momenti: «Quella del movimento studentesco […] era una protesta che pur ponendosi per molti aspetti in continuità con quella dei capelloni e dei beat, aveva caratteristiche più marcate, tali da decretare la fine di un periodo e l’inizio di uno nuovo»68 . L’ underground beat servì sicuramente a creare anche a Milano quell’humus dove crebbe fertile il movimento di protesta studentesco. Un protagonista di quel milieu beat milanese, Gianni De Martino, ha notato che se l’esperienza dei cosiddetti cappelloni fu breve, parziale, quasi ininfluente in quegli anni di rapida modernizzazione della società nel suo complesso, risultò comunque «sintomatica di un clima di malcontento diffuso, di paura, di angoscia», punto di passaggio imprescindibile per comprendere poi la portata della ben più vasta contestazione sessantottina69 . Se pertanto risultano evidenti continuità fra beat e sessantottini –nell’abbigliamento, nella scelta dello stile di vita, nella critica alla società consumistica – non sono meno evidenti le rotture: il ’68 fu un movimento di massa e politicizzato, che non disdegnava la violenza – sia pure spesso in chiave difensiva – e non più una ridotta “banda di capelloni” , quale era il movimento beat dedito alla semplice pratica dimostrativa della provocazione e dello scandalo, tenendosi sempre lontano da qualsiasi pratica di violenza. Proprio sul tema della violenza (e il riferimento corre ai fatti romani di Valle Giulia del marzo 1968) avvenne, come ha notato la Casilio, una «prima grande rottura – seppur tacita –tra il movimento studentesco e quello beat», dato che quest’ ultimo aveva sempre agito con le sole metodologie non-violente della provocazione situazionista70 . Concretamente si può ricordare che se il terreno di via Ripamonti fu regolarmente affittato dai beat, l’anno successivo, nel novembre del ’68, l’exAlbergo Commercio di piazza Fontana fu occupato

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da studenti che vi insediarono la Casa dello studente e del lavoratore, primo esempio di occupazioni di luoghi abbandonati, o comunque disabitati, che caratterizzeranno gli anni settanta.

Lo scarto fra l’ utopia del poter vivere pacificamente ai margini della società e la concreta pratica dell’occupazione per combattere, anche tramite l’ uso dello scontro violento con le istituzioni, quella stessa società, fu sottolineato ai tempi anche da Gianni Emilio Simonetti, nella introduzione alla raccolta di testi della controcultura italiana a cavallo fra gli anni sessanta e i settanta Ma l’ amor mio non muore, quando a proposito dello sgombero della tendopoli di Via Ripamonti osservava: «Così, il primo tentativo di comune urbana muore vittima di uno scontro a cui per motivi storici e culturali non aveva saputo militarmente adeguarsi, pagando il lusso che si era presa di non considerarsi una roccaforte d’assalto del paesaggio urbano, ma una dolce, pacifica, un po’ stonata isola giovanile»71 . Questo equilibrio fra continuità e rottura tra il movimento underground e quello sessantottino fu così illustrato da uno dei protagonisti del ’68 europeo, Rudy Dutschke che lo paragonò a quello fra filosofia classica tedesca e marxismo: come Marx era partito da quella filosofia per costituire il suo paradigma, così il movimento studentesco si era abbeverato alle fonti dell’ underground, pur superandolo, per definire meglio temi e termini della sua protesta72 . E una certa continuità nel reciproco influenzarsi e contaminarsi fra controcultura e movimenti politici, destinata a continuare anche dopo il ’68, è stata notata anche da Primo Moroni, quando ha sottolineato come la componente underground – ben espressa dai beat milanesi – rimase «una costante» nei movimenti giovanili degli anni settanta; tale controcultura anche quando andò ad incontrarsi inevitabilmente con la cultura dei movimenti politici, maggiormente strutturati da un punto di vista ideologico, riuscì infatti a mantenere sempre «una sua sorprendente specificità»73 . Chi invece ha negato qualsiasi incidenza sociale e culturale al movimento beat è stato Giuseppe Carlo Marino che ha derubricato “pasolinianamente” i giovani contestatori pre-sessantotto a una «moltitudine omologata di conformisti dell’anticonformismo», le cui «elucubrazioni» non potevano certo essere passate per «idealità politiche»74 .

Giorgio Barberis

Ma che comunque rimanesse anche una certa diffidenza fra i due mondi è stato ben testimoniato proprio da un beat, Silla Ferrandini, che nel suo romanzo autobiografico sulla «beat generation milanese» scrisse: «Anche se avevamo alcune idee in comune la distanza era abissale, loro [i sessantottini] davano del borghese a noi [i beat] perché dicevano che non avevamo una vera ideologia politica, e noi davamo del borghese a loro perché di rimando dicevamo che volevano instaurare un regime altrettanto autoritario e altrettanto repressivo del capitalista»75 . .

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