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Dossier: Parole in musica
from FARCORO 2-2022
by FARCORO
Le parole prima della musica
DI MAURO ZUCCANTE, compositore
Domanda frequente, rivolta a un compositore: «Vengono prima le parole, o viene prima la musica?». Attenzione, non mi riferisco alla sofisticata disputa storica tra l’Artusi e Monteverdi, per cui si discuteva se la musica fosse serva dell’oratione, o viceversa. Mi riferisco alla più banale curiosità che molti hanno, se, all’invenzione di una melodia, fa seguito la ricerca di parole adatte; o, al contrario, se l’atto creativo del musicista consiste nello sprigionare un potenziale musicale, già insito in un testo letterario preesistente. Ogni volta che qualcuno mi rivolge una domanda del genere, rimango interdetto. Per me è ovvio: il punto di partenza è il testo. Riconosco, però, che questa non sia prassi universalmente praticata. Nella musica leggera, per esempio, esistono i parolieri, che hanno il compito di appiccicare versi a motivetti orecchiabili, già inventati da altri. A volte l’esito è demenziale: «Every day every night / Every second of my life / www mipiacitu / tu tu tu tu tu tu / i love you you love me / e mi manchi sempre più / non so che fai, chissà / ci penserai? / tu come stai? / è qualche mese che non ci sei, vedrai / mi scriverai / ma come stai […]»1 .
Giovanni Pascoli Ma anche nella musica corale capitano casi analoghi. Il compositore americano Eric Withacre racconta che il testo di Sleep, uno dei suoi brani più gettonati, altro non è che una rabberciatura, per sostituire la poesia che egli, in origine, ha utilizzato. Non si era preoccupato di ottenere il permesso di mettere in musica quella poesia. Sicché, fu raggiunto da diffida. Il compositore, però, non volle rinunciare alle effusioni armoniche del suo brano, alle quali si era ormai affezionato. Ragion per cui, chiese a un amico di accomodarci sopra altri versi2 . Ripeto, operazioni di questo tipo non mi sono congeniali. Posso capire che preservare il carattere commerciale di uno standard musicale fortunato sia un valore a cui difficilmente si rinuncia, ma rimango dell’idea che, solo quando i processi generativi si fondano su un principio di verità, nasce un’autentica opera d’arte (per dirla, all’incirca, con Adorno). Un compositore sceglie un testo letterario, o lavora volentieri ed efficacemente su un testo dato, solo se i due linguaggi - poesia e musica - s’incontrano in un univoco e insostituibile afflato espressivo, non inficiato da altri scopi. In un recente articolo, scritto a quattro mani con Valentina Posenato, dedicato a una celebre opera di Schubert, su testo di Goethe, Gesang der Geister über den Wassern, op. 167, D. 714 (1821), per coro maschile e archi, concludevamo dicendo che il capolavoro nasce da un incontro genuino, non artefatto, tra musica e poesia. E il segno di ciò è dato da una sorta di Stimmung3 che si genera tra materia sonora e significato delle parole.
1. Cfr. Gazosa, www.mipiacitu, 2001. 2. Cfr. E. Whitacre, Sleep, Eric Whitacre composer, conductor, speaker, https://ericwhitacre.com/music-catalog/sleep, 2022. 3. Disposizione d’animo, ma anche intonazione, accordatura. Termine (pressoché intraducibile) in uso nella critica letteraria tedesca e nella pratica musicale.
Pier Paolo Pasolini
Nel mio piccolo, sono fedele al principio che ho appena sopra enunciato: compongo musica su un testo preesistente; e aggiungo che - salvo qualche rara occasione - traggo ispirazione dalla grande letteratura. Non sono presuntuoso. Non reputo le mie prove compositive eccellenti e, pertanto, meritevoli di accompagnare solo testi di livello magistrale. Figuriamoci! Trattasi di ragioni più prosaiche. La mia indole mi porta a prediligere, nel quotidiano, la lettura di pagine di buona letteratura e poesia. Sono tormentato dall’ansia di sprecare il poco tempo della vita; ragion per cui, evito le letture ordinarie e dozzinali. Insomma, l’estro di tradurre le parole scritte da altri, in suoni e canti scritti da me, il più delle volte, a causa delle mie paturnie, coincide con le pagine di grandi autori. Ecco, di seguito, una carrellata di alcune mie opere corali, dove il pallino dell’ispirazione musicale è stato mosso da letteratura e poesia. Dai tempi liceali, mi sono portato dietro l’idea di mettere in musica il Cantico delle creature di San Francesco. Gli ideali di comunione e di fratellanza con il Creato nutrivano, allora, il mio immaginario. Ma quell’ardore adolescenziale non era sufficiente per esprimere uno stile musicale convincente; a maggior ragione di fronte a un testo che si presenta in una forma così particolare: enumerativa. «Laudato si’ mi’ Signore, per questo, per quello, per quest’altro, e così via». Il rischio di cadere nell’effetto filastrocca era dietro l’angolo. Solo col passare degli anni, con lo studio e con l’acquisizione consapevole di alcuni modelli musicali storici, ho avuto modo di concepire un adattamento corale del Cantico delle creature (Laudes creaturarum, 2008), a mio giudizio, valido. Nella fattispecie, ho considerato la mera natura del testo francescano, cioè di lauda monofonica tardo medievale in volgare. Quindi, la mia versione corale altro non è che un brano dall’ossatura filiforme, monodica, che si dipana con libera semplicità, salvo qualche rigonfiamento sonoro (polifonia), in corrispondenza di alcune parole chiave. Ma, in sostanza, la scrittura simula più o meno fedelmente, la continuità di un canto monodico, svincolata da schemi e figurazioni simmetriche. Sarò grato, finché campo, alle mie ‘profe’ del Liceo. Sì, perché - nonostante la negativa e rozza opinione comune - nella scuola italiana s’incontrano insegnanti assai capaci e generosi, che sanno suscitare curiosità e animare passioni negli studenti. Tutti ne abbiamo incontrato, ammettiamolo. Bene, ho ancora in orecchio la voce coinvolgente e la sincera commozione della ‘‘profe’ ’ di letteratura, quando leggeva Pascoli. Attraverso quel trasporto emotivo ho potuto cogliere quanto rilevante fosse la dimensione musicale, nei versi pascoliani. «Cerco sempre di intonare le mie liriche come se dovessero essere cantate […]», confidava Pascoli a un’amica. Perciò, più tardi, come compositore, alle prese con la trasposizione musicale dei testi poetici di Giovanni Pascoli, non credo di avere compiuto un’opera di invenzione, ma di svelamento. Mi spiego. Il flusso poetico del verso pascoliano scorre in un alveo fonico già predisposto al canto. Non è solo questione di rime e di regolarità di accentuazioni metriche. C’è una complessa sinfonia verbale di suoni ed echi, che alcuni critici hanno definito “fonosimbolismo”. C’è una corrente sotterranea di assonanze, consonanze, ripetizioni, onomatopee, che alludono alla corrispondenza tra il respiro poetico e quello musicale. Il giovane Pier Paolo Pasolini chiamava «musica delle parole» il poetare pascoliano. Fides (1995) è stato il mio primo modo di contagiare i più giovani del canto ammaliatore della poesia di Pascoli. Ma non è bastato. Ho realizzato un intero ciclo di 12 quadri per coro a cappella, che ho intitolato Calendario pascoliano (2012). Un percorso poetico-musicale agreste, scandito dallo scorrere delle stagioni (le stagioni della natura e della vita), su testi tratti dall’opera Myricae.
[…] «Ogni anno a te grido / con palpito nuovo. / Tu giungi: sorrido; / tu parti: mi trovo / due lagrime amare / di più.» […]4
Pascoli mi ha illuminato sulla successiva generazione di poeti italiani. In particolare, intorno all’ideale sinestetico; alla compenetrazione, cioè, di sfere sensoriali differenti, in cui le allusioni sonore giocano un ruolo preminente. Ecco, quindi, l’idea di una collana di pezzi, per coro e chitarra, sulle liriche di dieci poeti italiani del XX secolo:
da Pascoli, per l’appunto, a Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Trilussa, Aldo Palazzeschi, Diego Valeri, David Maria Turoldo, Pierpaolo Pasolini, per finire con Pierluigi Cappello. Il titolo, naturalmente, Novecento (2020). Componimenti brevi, alcuni fulminei, ma pienamente compiuti nel definire un preciso moto dell’animo, per concorso di parole, immagini e suoni. Una citazione, tra le altre.
[…] «Jo ti recuardi, Narcís, ti vèvis il colòur / da la sera, quand li ciampanis / a súnin di muàrt.»5
La raccolta Novecento si chiude con un brano sui versi di Pierluigi Cappello. Ho conosciuto tardi questo straordinario poeta. Appena in tempo per affezionarmi alla sua persona, alla dolcezza del suo sorriso, alla precisione dei suoi ceselli poetici, poco prima che, ahimè prematuramente, ci lasciasse. La notizia della sua morte mi ha così scosso da farmi sentire complice di un senso di colpa nei suoi confronti. Per ammenda, ho voluto mettere in musica un’intera sua raccolta, come se volessi fare giustizia del destino, che si è accanito con tanta ingenerosità sulla sua mite esistenza. Ho impiegato qualche anno, ma alla fine ho musicato tutte le poesie di Ogni goccia balla il tango (un titolo che è già musica). Ho denominato le mie composizioni Canzoni di Pierluigi Cappello (2018 - 2020), per voci e pianoforte. Sono canti su rime rivolte ai bambini, ma che stupiscono anche l’adulto, il quale coglie come, nella descrizione del microcosmo di un giardino, trapelino squarci di natura universale. «Anche un bambino capisce che la poesia non è solo un gioco con le parole, e che lì dentro c’è qualcosa di più, che ha a che fare con i suoi sensi, la sua immaginazione e la sua anima», sostiene Cappello. E infatti, dietro l’apparente leggerezza, si cela la profondità e - come già accennato - tanta musicalità: «I bambini sono molto sensibili agli aspetti sonori, e dunque ai versi ben scolpiti. Bisogna avere una cura quasi maniacale, e le rime devono essere sorprendenti e concrete», dice ancora il poeta.
«Laggiù o per di là / si sente venire / un ta-tatatà: / è il picchio ad aprire / uno strano concerto» […]6
5. Cfr. P.P. Pasolini, Il nini muart, Poesie a Casarsa (1942). (traduzione: Il fanciullo morto […] Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore / della sera, quando le campane / suonano a morto). 6. Cfr. P. Cappello, Picchio rosso, Ogni goccia balla il tango (2014). Quando ho messo mano alle canzoni di Fabrizio De André, a più riprese negli anni, per farne degli arrangiamenti per coro e pianoforte (1999 – 2019), ho avuto la sensazione di lavorare non su un materiale musicale, ma poetico. Cerco di spiegarmi. Sul piano musicale molte canzoni del cantautore genovese non fanno altro che riproporre degli standard. Tolte le parole, rimangono vuoti contenitori ai quali, francamente, si può rinunciare senza perdere granché. Diversamente, i testi vantano qualità e originalità, che superano di gran lunga il livello al quale ci hanno abituato le canzonette. Pertanto, nel rimaneggiamento corale, poco contano gli inevitabili tradimenti della veste musicale originale, perché è il testo letterario l’aspetto fondante delle canzoni di De André. E allora, da compositore, ti rendi conto che non stai semplicemente trascrivendo una ballad da un organico all’altro, ma stai lavorando su un testo tutt’altro che convenzionale; un testo personale che esige una cornice musicale altrettanto originale. Non stai arrangiando, stai componendo.
[…] «Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte / c’erano solo cani e fumo e tende capovolte / tirai una freccia in cielo / per farlo respirare / tirai una freccia al vento / per farlo sanguinare / la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek.» […]7
La mia lingua madre è il veneto. Perciò, se l’interlocutore me lo consente, mi esprimo preferibilmente in dialetto. Si sa, è questione di familiarità, praticità e immediatezza.
7. Cfr. F. De André, Fiume Sand Creek, Fabrizio De André (L’indiano) (1981).
Ma non solo. Nel proferire nella lingua madre, il suono delle parole sembra aderire più compiutamente e convincentemente al moto emozionale che intendiamo esprimere. «Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare»8. Bene, questo «nòcciolo di materia primordiale» è diventato il tema di un lavoro musicale, sui generis, per coro e strumenti, che ho realizzato proprio su testi di Luigi Meneghello. In appendice al romanzo Pomo pero (1974), lo scrittore vicentino ha pubblicato Ur Malo, una serie di 21 nonsense, affastellamenti di parole, espressioni gergali, esclamazioni, apparentemente sconnesse, ma, in realtà, raggruppate per assonanze ed equivalenze sillabiche, componimenti anche complessi. Come in una sorta di gramelot, l’orecchio coglie accenti e sonorità che determinano la qualità sonora inconfondibile della lingua veneta. «cao schèo cóa rua / bao déo pria pua / ua / spéo mua crèa scróa / pie bróa stua pao / ióa / brao bua scóa stria / fia*»9
Credo sia stata un’avventura musicale tra le più divertenti e appaganti che ho vissuto; un’avventura che mi ha permesso di apprezzare l’inscindibile legame che c’è tra espressione verbale e musica; un’avventura che mi ha insegnato come la musica non sia altro che l’amplificazione dei gemiti primari attraverso cui ci esprimiamo e comunichiamo. Ho intitolato quest’opera To Biio, ovvero A Luigi (2008), accostamento anglo-veneto in omaggio alla cittadinanza multipla di Meneghello.
8. Cfr. L. Meneghello, Libera nos a Malo (1963), cap. 5. 9. Cfr. L. Meneghello, N. 6 - Sostantivetti maschili e femminili con un aggettivo, Ur Malo, Pomo Pero (1974) - * macchina, saltuariamente automobile, costruita dalla Fabbrica ltaliana Automobili di Torino (sic!). 10. «Biio» in veneto significa Luigi.
ANDREA BASEVI E ROBERTO PIUMINI
Roberto Piumini è, tra gli autori italiani, uno dei più frequentati dai compositori. Andrea Basevi, in particolare, ha attinto più di chiunque altro alla sua opera. Per il suo tramite, abbiamo chiesto allo scrittore e poeta cosa rappresenti per lui la musica e quanto influisca nella sua opera sapere che, probabilmente, ciò che sta scrivendo assumerà anche una veste musicale.
Caro Roberto, volevo farti molte domande e tu se vuoi, puoi fare un discorso generale sul tuo rapporto con la Musica. Vorrei sapere se nel tuo cammino dove hai incontrato tanti compositori, hai agito secondo quello che ti domandavano o se hai avuto richieste specifiche, pur lasciando libera la tua vena creativa. In una mia operina sul tuo testo Totò Sapore, hai anche impersonato il Re Borbone, cantando e recitando, come ti sei trovato nel doppio ruolo di autore e cantante?
Una delle bellezze della tua poesia è che è già musicalissima e la fatica per il compositore è quella di abitarla nel modo migliore (questa non è una domanda ma una verità), quindi come vivi il fatto che i tuoi testi vengano musicati? Uno dei miei rimpianti esistenziali è non aver imparato la musica, sia come ascolto avvertito, che come possibilità espressiva. L’unica mia produzione-esecuzione musicale, durata qualche mese, fu un giro di tre accordi alla chitarra, su cui improvvisavo nenie per mio figlio Michele, divenuto poi, lui sì, un ottimo musicista dilettante. Sicché sono cresciuto ascoltando musica “da lontano”, e non praticandola, eccezion fatta per la partecipazione, in due periodi diversi, a due cori misti di discreto livello, in una modesta parte di baritono. In alcuni spettacoli con parti musicali, su testi poetici miei, mi permetto tutt’oggi di partecipare come cantante, prendendomi, naturalmente, qualche licenza poetico-tonale d’autore. Resta il fatto che, o per una forma di nostalgia operativa, o più probabilmente perché la mia formazione letteraria è stata (via racconti parentali e l’ascolto infantile della radio) di tipo orale più che libresco, la mia scrittura ha acquisito una predisposizione all’oralità, alla lettura a voce, sia nella prosa che, in modo evidentemente maggiore, nella poesia. Oltre che nei testi, questa oralità è testimoniata dalle numerosissime occasioni, in incontri, spettacoli, manifestazioni, in cui leggo i miei testi, da solo o con musicisti ed altri attori. La predisposizione orale, incrociandosi con la dimensione espressiva del
Andrea Basevi
teatro (questa invece realizzata per alcuni anni, lungo la disordinata sequenza di impegni di vita) ha fatto in modo che, quando si è presentata l’occasione di scrivere “per” la musica (originariamente una serie di canzoni di Bruno Lauzi, un progetto poi non realizzato, e più tardi in canzoni per bambini e adulti, con Giovanni Caviezel, o per la televisione e la radio, nei programmi Albero Azzurro, Radicchio e il Mattino di Zucchero) ho trovato non solo facilità metrica ed espressiva, ma anche grandissimo divertimento e grande soddisfazione. Altrettanto è accaduto quando ho scritto per altri musicisti, su loro proposta o per iniziative private, editoriali o di spettacolo. Oltre ad Andrea Basevi, al quale mi lega una collaborazione trentennale, sono una ventina i musicisti con cui ho collaborato lungo gli anni, in ambiti musicali diversi, dalla canzone al teatro, dalla classica alla corale. Come autore e lettore di pezzi narrativi, ho partecipato anche a pubblicazioni e spettacoli di jazz per ragazzi. Riguardo al metodo, nelle occasioni più creative (tolte quelle in cui la catena di montaggio musicale era stringente, come ne “L’albero azzurro”) ho quasi sempre preferito scrivere su brani musicali dati, adeguandomi al ritmo e alla melodia dei pezzi, per evitare, in un testo scritto prima della musica, i rischi della regolarità metrica. Nonostante la carenza originaria a cui accennavo all’inizio, le occasioni di incontro e gioco con la musica, i musicisti, i momenti espressivi musicali, non mi sono mancate, e hanno costituito una buona parte della mia esperienza complessiva d’autore. Alla fine di questa intervista elenco le composizioni che ho scritto su testo di Roberto Piumini ad esclusione delle molte canzoni che non fanno parte di lavori più lunghi. Molto del materiale musicale non pubblicato è reperibile sul mio sito https://sites.google. com/site/andreabasevi/home dove si può anche vedere ed ascoltare. Altro materiale è reperibile su YouTube.
Roberto Piumini
Composizioni di Andrea Basevi su testi di Roberto Piumini
Opere liriche e teatro da camera:
Il ragazzo col violino operina per voci bianche, violino e pianoforte ed. Rugginenti 2000 I capelli del diavolo operina da Grimm per voci bianche, flauto e pianoforte ed. Rugginenti 2003 Il circo di Empoli opera per bambini per voci pari, cori e orchestra, commissione Centro Busoni 2003 Il Malafiato opera per bambini per voci pari, cori e orchestra, commissione Istituto Vittadini 2004 nuova versione con flauto e piano 2011 I musicanti di Brema opera per bambini per voci bianche 8 ruoli, coro e orchestra, commissione Filarmonica Romana 2005 eseguita anche a Venezia e con il titolo “L’orquestra dels animals” a Barcelona e a Manresa. Omi e Cic operina per voci bianche e pianoforte ed. Amazom 2008 Totò Sapore opera per bambini voci, coro voci bianche, flauto, chitarra e pianoforte 2009 In tasca a Blù operina per voci bianche e pianoforte ed. Amazom 2011 Foody come natura vuole per due voci, coro voci bianche e orchestra giovanile, commissione Regione Liguria per Expo2015, ed Sillabe
Fiabe musicali:
Le sette serenate fiaba con canzoni ed. Fabbri 2003 Cappuccetto rosso fiaba per voci bianche e strumenti 2002 Cappuccetto e il lupo da Rohal Dahl, fiaba per voci bianche e strumenti 2006 Cantate il dono d’essere bambini cantata sui diritti dei bambini per voci bianche e sei strumenti, commissione Festival de Musique Sacrée de Nice 2009 Sotto lo stesso cielo per voce recitante e orchestra giovanile, commissione Ecce Gratum 2011 La ballata della Genesi per coro di voci bianche e pianoforte, commissione Torino Spiritualità 2011 Paolofischio fiaba per voce recitante, coro misto, coro voci bianche e pianoforte Commissione del Maggio Musicale Fiorentino 2012 Si fa sol in compagnia per voce recitante, voce cantante, coro voci bianche e strumenti, commissione Festival Mito 2013 L’Operina della luce per voce recitante, ballerina, flauto, clarinetto basso, marimba, commissione Gog, ed. Sillabe 2013 All’acquario con Sciolì per voce recitante, voci bianche, flauto, violino, cello e piano ed Sillabe 2015
Suono e parola tra prima e seconda pratica
DI DARIO TABBIA Docente di Formazione corale e Direzione di coro al conservatorio di Torino
“All’inizio fu la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio” Giovanni (1,1)
Se esaminiamo le fonti disponibili relative alle cosmogonie più antiche non possiamo che restare stupiti dall’incredibile concordanza delle stesse sulla creazione dell’universo. Tutte concordano nel riconoscere un evento sonoro alla base della creazione stessa e, in particolare, un suono parlato, o gridato, o cantato. Solo nel corso della creazione, il cui processo si presenta come una materializzazione progressiva dei raggi del suono primordiale, i suoni acquistano un significato preciso e rappresentano parole e frasi semanticamente determinate e, infine, cose tangibili. L’essenza di tutte le cose è quindi sonora e il mondo non appare altro che musica pietrificata. Per il poeta filosofo Anandavardhana (sec. IX) il puro suono ha un grado di essenza maggiore della parola detta e rappresenta l’anima della poesia. La frase va pronunciata correttamente, con la giusta intonazione poetica, ma essa è altresì un mezzo per dire qualcosa di più profondo, perché l’ineffabile può essere comunicato solo attraverso il tono fondamentale che pervade l’intera poesia e che desta in noi ciò cui la parola allude. Il rapporto fra suono e parola è quindi alla base stessa della creazione e pertanto anche della storia dell’uomo. Quanto esposto finora lascia anche intendere quanti siano i possibili legami che il linguaggio crea con la scienza: filosofia, linguistica, fisica, fonetica e così via. Tuttavia nessuno specialista giunge a conoscere tutto del linguaggio: le sue definizioni non sono che un semplice frammento della verità globale.
Umanesimo e Rinascimento
Per comprendere il complesso rapporto fra musica e poesia che avvenne fra il XV e il XVI secolo è necessario ricordare quali avvenimenti rivoluzionari avvennero in quel tempo. Nasce innanzitutto un nuovo concetto di scienza che affonda le sue origini non più nei testi sacri ma nel grande libro della natura. Liberi da vincoli teologici, i nuovi scienziati percorreranno strade nuove che indurranno le principali corti italiane a diventare centri innovativi per la cultura e per l’arte. Il rinnovamento culturale vedrà l’uomo al centro del progetto esistenziale, arbitro della propria vita (“Libero e sovrano artefice di se stesso” affermò Pico della Mirandola nel suo “De hominis dignitate”). Tuttavia quella che sarà la rivoluzione più importante sarà quella legata al recupero della filosofia neoplatonica e che vedrà la imitatio naturae come vera fonte di ispirazione per tutti gli artisti. In altre parole nel Rinascimento nasce la convinzione che l’arte (qualunque essa sia) debba cercare di aderire alla realtà circostante come una sorta di calco perfetto. Compito dell’artista è quello di riprodurre ciò che è estraneo alla coscienza nel modo più fedele possibile, affidando al simbolo il compito di esprimere i concetti più profondi. Questo porterà la musica a stabilire legami strettissimi con la retorica che resteranno anche nei secoli successivi. Già Guido d’Arezzo (ca. 992-1050) aveva affermato nel Micrologus l’importanza di sottolineare l’intimo legame fra testo e musica: “Sarà inoltre opportuno che l’effetto del canto vada ad imitare il senso degli avvenimenti, cosicchè i neumi siano gravi nelle cose tristi, giocondi nelle tranquille ed esultanti in quelle prospere”. Questi concetti vengono portati avanti per tutto il Quattrocento per giungere ad una autentica esplosione di trattati che esplorano i rapporti fra il testo e la sua realizzazione musicale. Fra i tanti teorici ecco la testimonianza di Niccolò Vicentino (1511-1576) ne “L’antica musica ridotta alla moderna prattica”:
“La musica fatta sopra le parole, non è fatta altro se non per esprimere il concetto, et le passioni et gli affetti di quelle con l’armonia; et se le parole parleranno di modestia, nella composizione si procederà modestamente et non infuriato; et d’allegrezza non si faccia la musica mesta; et se di mestizia non si componga allegra”. Anche Gioseffo Zarlino (1517-1590) concorda nelle sue Istitutioni armoniche:
“Non sarà lecito al Musico di accompagnare queste due cose, cioè l’Harmonia e le Parole insieme, fuor di proposito”
Sarà proprio nel madrigale cinquecentesco che musica e poesia troveranno un connubio ideale e mai più superato. L’idea di trovare un modo di tradurre in musica il testo poetico condusse inevitabilmente agli inizi a soluzioni molto semplici se non addirittura ingenue. Basti pensare alla corrispondenza delle cadenze musicali alla struttura in rima delle poesie: nell’esempio riportato si noterà come alla rima baciata scendea-sedea corrisponde la stessa cadenza in sol, mentre quella grembo-nembo viene realizzata usando la stessa armonia di do. La stessa armonia viene quindi usata per sottolineare l’assonanza della rima poetica. Allo stesso modo ecco comparire i primi disegni musicali che nei tempi moderni sono stati denominati madrigalismi. Si tratta di melodie il cui andamento grafico sul pentagramma tende a ricordare la parola in questione. Furono pertanto esplorate anche le possibilità pittoriche e figurative che i segni sul pentagramma erano in grado di offrire. Ecco così che una serie note ascendenti poteva associarsi a parole come “levarsi” o “sorge” mentre se discendenti potevano descrivere “terra”, “pianto” e così via. In un primo periodo addirittura termini come “notte” venivano realizzati annerendo le figure musicali, incuranti che l’effetto derivante fosse quello di velocizzare il passo in questione.
Es. 2a Luca Marenzio: madrigale Dolorosi martir
Es. 2b Luca Marenzio: mottetto Estote fortes
Es. 2c Cipriano De Rore: madrigale Ben qui si mostra ‘l ciel
Oltre a una melodia che si svolge per gradi congiunti (curvilinea) troviamo anche esempi di linee spezzate, come nel seguente esempio che si trova nel madrigale “Ch’io t’ami” di Claudio Monteverdi:
In realtà questo procedimento rientrava perfettamente nell’ideale estetico della imitatio naturae di cui si è accennato. Non solo musica quindi, ma anche disegno rafforzativo dell’immagine poetica stessa. Il tutto con lo scopo di coinvolgere l’esecutore al massimo grado di comprensione del testo consentendogli pertanto una immedesimazione totale con la scrittura poetico-musicale.
I testi poetici
All’inizio della sua fortuna il madrigale rinascimentale trovò il suo poeta preferito in Francesco Petrarca. La sua poesia affascinò i musicisti rinascimentali per la naturale musicalità dei suoi versi e le sue opere furono musicate innumerevoli volte. Ma fu in realtà Pietro Bembo a riproporre una lettura nuova dell’opera del poeta in una chiave che rappresentò la vera svolta nel modo in cui leggere i versi del Petrarca. Bembo si accorse che la naturale combinazione metrica unita al suono naturale di certe parole creava effetti di gravità, allegrezza, mestizia indipendentemente dal significato semantico delle parole stesse. La regolare successione di accenti tonici rendeva di per sé il verso allegro o triste, fino a intuire una sorta di fonosimbolismo del linguaggio nel quale è il suono delle parole a rendere l’immagine del testo. Basti pensare al celeberrimo “Chiare, fresche e dolc’acque” dove i suoni vocalici congiunti all’articolazione delle consonanti rievocano i suoni dello scorrere delle acque in un torrente. Chiunque in quel periodo si accingesse a scrivere versi lo faceva seguendo lo stile del Petrarca e dei suoi seguaci e questo fenomeno circolò anche fuori Italia. Tuttavia, nel corso del ‘500 i musicisti scelsero altri poeti a base delle loro composizioni. Questo si spiega con il crescente entusiasmo e del successo che i compositori ottennero nel riuscire a tradurre con artifici musicali quelli retorici del testo poetico. Il musico si sentiva pronto a nuove e sempre più appassionanti sfide: non più un semplice motivo-parola, ma una azione completa se non addirittura a una vera e propria scena rappresentativa. Ecco perché il teatro musicale nasce come esasperazione espressiva del madrigale. Il compositore necessita quindi di testi più “forti” , più intensi, più emozionanti. I nuovi poeti avranno i nomi di Ariosto, Tasso, Guarini, Rinuccini. La principale differenza fra gli argomenti e i sentimenti rinascimentali rispetto a quelli barocchi è l’intensità esasperata dei secondi rispetto ai primi. Non si tratta quindi di testi diversi, ma di maggiore intensità degli stessi: dal punto di vista compositivo questo provocherà innanzitutto una maggiore attenzione alla armonia rispetto alla melodia. Mentre quest’ultima otterrà una libertà sempre maggiore al fine di avvicinarla il più possibile alla naturale declamazione del testo, la componente armonica diventerà uno strumento formidabile per la velocità con la quale riesce a rappresentare una emozione. La melodia, nel suo sviluppo orizzontale, necessita ovviamente di un tempo maggiore rispetto al fulmineo impatto che un accordo può suscitare nelle orecchie dell’ascoltatore. È fondamentale ricordare che, al tempo, i poeti erano abituati a declamare in presenza della corte le loro opere e l’ascolto di queste letture non può non aver a sua volta
condizionato i musici presenti che, a loro volta, cercarono tecniche compositive in grado di rendere l’idea di un tono declamatorio, non privo di enfasi retoriche. L’improvviso innalzarsi o inabissarsi della melodia non sarà più associato al significato della singola parola, ma a indicare un infervorarsi del tono declamatorio o l’improvviso sussurro con il quale viene enfatizzato il verso. Allo stesso modo la scelta delle tessiture (voci che declamano in acuto o al grave) suggerirà l’enfasi oratoria con la quale leggere il testo. Nel seguente celebre madrigale di Monteverdi appare chiaramente come la tessitura delle voci suggerisca quasi non solo l’espressione ma anche il volume della declamazione stessa (vedi Es. 4).
Nel corso dei decenni questo sarà ancora più evidente quando la melodia si arricchirà di ampi intervalli, quasi a suggerire un piano subito o una esclamazione improvvisa:
Es. 5 Sigismondo D’India: madrigale “Ferir quel petto, Silvio?”
Il linguaggio usato dai compositori nel corso del XVI secolo si arricchirà di sempre più ardite soluzioni melodiche e armoniche pur di soddisfare le esigenze espressive dei testi poetici fino ad arrivare nei primi decenni del ‘600 a una grandissima libertà compositiva. Punto di svolta nella interpretazione musicale fu sicuramente l’avvento della celebre seconda prattica, così come la definì Monteverdi all’interno della famosa disputa con l’Artusi. Come è noto la rivoluzione del rapporto fra musica e testo avvenne rovesciando l’importanza fra le due forme di espressione. Se per molta parte del ‘500 fu la musica a essere protagonista delle attenzioni del compositore, ora le sue cure furono rivolte a mettere l’harmonia al servizio della parola. Nel 1600 viene dato alle stampe il trattato sotto forma di dialogo “L’Artusi overo le imperfettioni della moderna musica”. Da quello che si legge attraverso il dialogo di due gentiluomini, appare chiaro che il primo impatto con la materia sonora avvenga solo grazie alla percezione sensoriale dell’udito che la riceva e la valuta, mentre all’intelletto, attraverso l’analisi della forma e delle proporzioni, spetta il compito di confermare la bontà dell’impressione ricevuta. Ma la parte più interessante è quella dove si discute delle cosiddette imperfettioni della musica moderna:
“Heri (...) fui da alcuni Gentiluomini invitato a sentire certi madrigali nuovi (...) Fu taciuto il nome dell’autore: era la tessitura non ingrata, se bene (...) introduce nuove Regole, nuovi modi e nuova frase nel dire, sono però aspri, e all’udito poco piacevoli, né possono essere altrimenti; perché mentre si trasgrediscono le buone regole (...)”.
A questo punto vengono proposte alcune battute dei madrigali in questione a dimostrazione della avvenuta trasgressione delle buone regole fra le quali, in particolare, l’uso libero e spregiudicato delle dissonanze usate senza preparazione. Pur senza nominarlo è noto che il compositore in questione fosse Claudio Monteverdi. La risposta del compositore avvenne
per bocca del fratello Giulio Cesare Monteverdi nella “Dichiarazione della Lettera stampata nel Quinto Libro de’ Madrigali” (1603). In essa si dichiara ufficialmente:
“Prima pratica intende che sia quella che versa intorno alla perfezione dell’armonia, ciè che considera l’armonia non comandata ma comandante, e non serva ma signora dell’oratione (...): Seconda prattica (...) intende che sia quella che versa intorno alla perfezione della melodia cioè che considera l’armonia comandata e non comandante e per signora dell’armonia pone l’oratione”.
Questa nuova poetica della musica determinerà un cambiamento irreversibile nel rapporto testo-musica non solo nella forma del madrigale. L’idea veramente rivoluzionaria consiste in una nuova estetica che ribalta il concetto del “bello” in arte. Quello che sarà apprezzato a partire dai primi anni del ‘600 non sarà più l’ordine del contrappunto, l’esattezza della forma o delle proporzioni, ma ciò che più si avvicina al realismo dell’emozione umana, senza finzioni e senza ipocrisie. Non poteva che essere Monteverdi l’autore dei “Madrigali guerrieri e amorosi” celebrati nell’Ottavo Libro. Sentimenti e situazioni come odio, rancore, guerra, dolore troveranno finalmente spazio e voce e per farlo sarà necessario ricorrere a dissonanze mai udite prima, senza preparazione al fine di renderle ancora
Claudio Monteverdi, dipinto di Bernardo Strozzi, ca. 1640 più aspre ma, finalmente, vere e credibili. Quello che Monteverdi rimproverò all’Artusi non furono le critiche, ma l’aver pubblicato quegli esempi privi del testo. Sarà la situazione poetica aspra e drammatica a giustificare una scrittura musicale innovativa e spregiudicata. Senza quelle parole non ci sarebbero quelle armonie, quel ritmo, quella tensione musicale. La nuova estetica sarà “il brutto è bello” perché “bello” corrisponderà alla verità poetica, a ciò che si avvicina davvero alla realtà dei sentimenti quotidiani.
Tutto questo determinerà un cambiamento radicale nella scelta dei testi: non più solo singole liriche o componimenti sciolti ma interi passi tratti dalle Commedie o Poemi quali ad esempio, “Il Pastor fido” del Guarini o la “Gerusalemme liberata” del Tasso. Al compositore serve più spazio di quello offerto da una singola poesia: ora gli necessitano vere e proprie scene e questo nuovo tipo di letteratura ne offriva in abbondanza. Ecco allora che la scrittura tende a caricarsi di colori nuovi, la scrittura diventa più cromatica e meno diatonica al fine di rappresentare al meglio queste grandi scene liriche, quasi una sorta di “Teatro prima del teatro”. Nascono madrigali in più parti che descrivono più momenti della stessa azione fino ad arrivare a una anticipazione di una scena lirica vera e propria come avviene nel “Combattimento di Tancredi e Clorinda” nell’Ottavo libro di Monteverdi.
Gesualdo da Venosa
Al termine di questo rapido excursus sul rapporto testomusica nel madrigale cinquecentesco non è possibile ignorare l’opera di Gesualdo da Venosa. L’arditezza delle sue composizioni da moltissimo tempo infiamma e divide gli studiosi più esperti. Molti sono stati i tentavi di “spiegare” uno stile che non ebbe seguaci, né poteva averne. L’errore più grossolano consiste nel vedere nella sua opera una anticipazione della atonalità moderna, un precursore dei tempi, un geniale e folle sperimentatore che aveva già intuito la disgregazione tonale come mezzo espressivo. In realtà la tradizione sulla quale si costruisce la tecnica cromatica di Gesualdo è quella del contrappunto modale, né poteva essere diversamente. I suoi madrigali, come affermò Carl Dahlhaus, “Sono delle opere innegabilmente compiute, non dei tentativi e si pongono a conclusione di un periodo, non ai suoi inizi”1 .
Gesualdo porterà alle estreme conseguenze la tecnica di
1. Carl Dalhaus, “Il cromatismo di Gesualdo” in “Il madrigale fra Cinque e Seicento” a cura di Paolo Fabbri, Ed. Il Mulino, 1988
usare le alterazioni come intensificazione espressiva della parola stessa. I compositori già da molto tempo avevano usato i segni di diesis e bemolle in accordo con la tensione espressiva richiesta dalla parola e della tensione del tono muscolare ad essa sottinteso. Si poteva realizzare la parola “piango” con uso di bemolle a indicare una tristezza, una malinconia, un indebolimento dovuto allo sconforto, ma anche musicarlo con un diesis per sottolineare quanto bruciante fosse ancora la causa di questo pianto. Ecco allora che possiamo individuare nelle alterazioni cromatiche una anticipazione delle indicazioni dinamiche sulla partitura: con la nuova estetica legata alla teoria degli affetti e alla seconda prattica le alterazioni non indicano più solo un innalzamento o abbassamento semitonale nella melodia, ma un modo di cantarla, suggerendo all’interprete l’intensità con la quale porgere il testo. In Carlo Gesualdo il cromatismo viene spesso usato come intensificazione di un concetto per renderlo ancora più vivido e drammatico. Nell’esempio seguente tratto dal madrigale “Io pur respiro” (“Sesto libro di madrigali a 5 voci”) basta leggere il passo “O dispietato core?” privo delle alterazioni (correggendo solo il si in si bemolle) scoprendo che è perfettamente in linea con la scrittura della prima pratica. Inserendo le alterazioni di Gesualdo lo stesso frammento acquista una potenza espressiva sconvolgente perché lascia intuire il modo con il quale esso deve essere restituito all’ascoltatore.
Il rapporto fra testo e musica rimane a tutt’oggi vivo e in continua trasformazione e come ogni cosa è stato modificato dalle esigenze sociali e culturali delle varie epoche. Da sempre alla base della composizione vocale continuerà a evolversi, in una metamorfosi interminabile che non finirà mai di affascinarci ed emozionarci.
Il testo nel Canto Gregoriano
Due contributi a cura di allievi della Scuola di Canto Gregoriano – AERCO
DI ALESSIO ROMEO
Uno sguardo al Proprium Missæ
Nello studio della musica vocale, la disamina approfondita del testo impiegato va considerata premessa irrinunciabile alla comprensione dell’oggetto musicale e lo è tanto più nel caso del canto gregoriano, non solo in virtù dello stretto rapporto tra parola e musica, ma innanzitutto in considerazione della sua collocazione liturgica. Infatti, a dispetto dell’abitudine oggi assai diffusa di considerare gli inserti musicali della liturgia mero intermezzo, la mole di studi che ha seguito la renaissance gregoriana dei monaci benedettini di Solesmes ha invece messo in luce la funzione eminentemente esegetico-liturgica dei canti gregoriani. Detto altrimenti, il repertorio gregoriano – specialmente i canti del proprium missae appartenenti al cosiddetto “fondo primitivo” – non si limita ad amplificare o adornare il testo sacro, ma mira, attraverso strategie testuali, compositive e di fraseggio, a darne interpretazione. In questa prospettiva ci si rende dunque conto che lo studio dei testi impiegati e degli atteggiamenti con cui gli anonimi estensori dei canti vi hanno lavorato assume una importanza capitale poiché, come ricordano Rampi e De Lillo, «la composizione testuale equivale a una sorta di predisposizione tesa a realizzare una efficace presentazione con gli strumenti
Communio Oportet te
Oportet te fili gaudere, quia frater tuus mortus fuerat, et revixit, perierat et inventus est. propri dell’arte retorica» e «il testo biblico, considerato a partire dalla sua materialità, subisce un primo fondamentale orientamento di carattere letterario che produce ripercussioni significative – diremmo anzi decisive – in ambito compositivo» [F. Rampi-A. De Lillo, Nella mente del notatore, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2019, pag. 20]. Per tale motivo in questa sede ci si soffermerà proprio sui procedimenti di composizione testuale, esponendo in modo sintetico gli atteggiamenti fondamentali cui possono essere ricondotte le tecniche di elaborazione delle fonti del canto gregoriano. Sarà tuttavia opportuna un’ultima avvertenza preliminare. Nonostante la visione ravvicinata e assai circoscritta a cui ci si atterrà in questo contesto, ogni canto andrebbe studiato non solo a partire dalla sua specifica collocazione nella messa del giorno cui appartiene, ma anche in considerazione del suo Tempo liturgico. È sempre bene, infatti, tenere in debita considerazione il fatto che ciascun canto è posto in relazione a un progetto complessivo e che, se lo spostamento di sede di taluni canti dovuto alla plurisecolare stratificazione del rito, all’inserzione di nuove festività e alla mutata organizzazione dell’anno liturgico ne rende talvolta più arduo lo studio, è sempre necessario farvi riferimento. La fonte principale del repertorio gregoriano è il salterio; nondimeno sono presenti anche altri fonti, tanto dell’Antico quanto del Nuovo Testamento. A partire dalla fonte scelta, il progetto testuale può per semplificazione essere ricondotto a quattro tecniche fondamentali, che
Bisogna che tu gioisca, figlio, poiché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
saranno trattate in modo specifico. Tecnica assai comune è l’estrapolazione di una porzione di testo al fine di metterne in rilievo il significato. Ciò è particolarmente vero per gli estratti di parabole o narrazioni evangeliche, di cui esempio è il communio Oportet te. Un altro esempio, la cui fonte questa volta è tratta dal salterio, è un altro communio, quello della Missa ad noctem Natalis, che intona un versetto, il terzo, estrapolato dal salmo 109.
Il salmo, indirizzato al re degli ebrei, era stato interpretato fin dai primi secoli del Cristianesimo in senso cristologico, e certo la scelta di un testo già fortemente connotato da preesistenti interpretazioni pone in rilievo la lettura figurale. Non a caso la stessa porzione di testo era già stata intonata nel graduale Tecum principium, secondo la prassi della ruminatio
Missa ad noctem Natalis, versetto terzo, dal salmo 109
In splendoribus sanctorum, ex utero ante luciferum genui te. Tra gli splendori delle santità, ti ho generato dal mio ventre prima dell’alba.
tipica della lectio divina. Altra tecnica frequente è l’aggiunta o l’omissione di porzioni testuali. In molte di queste occorrenze risalta in modo ancora più evidente la funzione liturgico-esegetica del canto gregoriano. In questi casi si ha l’impressione, infatti, come notano Rampi e De Lillo, che «la liturgia stessa osi in qualche modo ‘forzare’ lo ‘sta scritto’ al fine di ottenerne una comprensione più profonda» [cit., ibidem], dal momento che tendono a chiarire il significato di una lettera altrimenti di più incerta interpretazione. Un esempio assai noto è l’antifona Quinque prudentes virgines, il cui testo è tratto da Mt. 25, 4.6. Il confronto tra la fonte e il testo renderà chiarezza della minima quanto cruciale aggiunta, messa in rilievo dal corpo in grassetto – in corsivo nella fonte le porzioni di testo estrapolate:
Antifona Quinque prudentes virgines
Quinque autem ex eis erant fatuæ, et quinque prudentes: sed quinque fatuæ, acceptis lampadibus, non sumpserunt oleum secum : prudentes vero acceperunt oleum in vasis suis cum lampadibus. Moram autem faciente sponso, dormitaverunt omnes et dormierunt. Media autem nocte clamor factus est : Ecce sponsus venit, exite obviam ei. Quinque prudentes virgines acceperunt oleum in vasis suis cum lampadibus: media autem nocte clamor factus est. Ecce sponsus venit : exite obviam
Christo Domino.
Se le omissioni sono spinte dall’esigenza di contenere la lunghezza del testo e di porre attenzione all’esempio virtuoso delle prudentes virgines, non c’è dubbio invece che l’aggiunta conclusiva di Christo Domino assuma un significato decisivo dal punto di visto esegetico, esplicitando in modo evidente l’interpretazione della parabola e la conseguente lettura: lo sposo non può che essere Cristo, e la lampada la luce della fede. Benché esuli dalle strette finalità del presente contributo, è opportuno notare come le aggiunte siano generalmente poste in grande rilievo nel contesto musicale: in questo caso per mezzo di un neuma assai articolato posto sulla seconda sillaba di Christo:
Il termine centonizzazione ha origine dal sostantivo medievale cento, -onis, usato per indicare un panno formato da pezzi di stoffe differenti cuciti insieme, ed è tradizionalmente impiegato negli studi gregoriani a proposito di tecniche modali e compositive– si pensi ai graduali in II modo sul La – non meno che testuali, al punto che non è errato affermare che tale pratica si configurasse quale vera e propria forma mentis degli estensori dei canti. Dal punto di vista testuale, la centonizzazione mira essenzialmente a ricondurre al testo musicato tutti gli aspetti fondamentali della fonte scelta. Un esempio assai evidente è il communio domenicale della quinta settimana di Quaresima, incentrato sulla resurrezione di Lazzaro, tratta da Gv 11.1-44. L’estensore del testo ha estrapolato alcuni passi tratti dai versetti 33, 35, 43, 44 e 39, riuscendo così a esporre in una sintesi di estrema efficacia gli eventi:
Communio domenicale della quinta settimana di Quaresima, alcuni passi tratti dai versetti 33, 35, 43, 44 e 39.
Populus Sion , Introito domenicale della seconda settimana di Avvento
Videns Dominus flentes sorores Lazari ad monumentum, lacrimatus est coram Iudaeis et clamabat: Lazare, veni foras.
Et prodiit ligatis manibus et pedibus, qui fuerat quatriduanus mortuus. Il Signore, vedendo le sorelle di Lazzaro piangenti vicino alla tomba, iniziò a piangere davanti ai Giudei e disse ad alta voce: “Lazzaro, vieni fuori!” E lui, che era morto da quattro giorni, uscì con le mani e i piedi legati.
L’ultima tecnica individuabile, spesso coesistente con altre già viste, è la rielaborazione della fonte. Un simile atteggiamento può per certi versi destare stupore, trattandosi di modifiche talvolta consistenti rispetto al testo sacro. Si prenda a titolo di esempio l’introito domenicale della seconda settimana di Avvento, Populus Sion, il cui testo originario è tolto da Is. 30, 19-20:
Se per economia di spazio si è omessa la trascrizione integrale del passo originario, la porzione di testo presentata è sufficiente a rendere conto del lavoro operato. La modifica stupisce soprattutto considerando che il passo originario invoca la vendetta divina contro l’Assiria in protezione di Israele, ma nel testo cantato i cambiamenti sono tali da indurre a una modifica radicale del significato. L’omissione di qualsiasi riferimento alla vendetta divina e l’inserimento di ad salvandas gentes indirizza il testo verso un messaggio di salvazione, rafforzato dall’ecumenismo di ad gentes. Al di là della vistosa virata nell’orientamento esegetico del testo, una scelta simile si spiega anche tramite una visione di insieme, rendendo opportuno il richiamo alla necessità prima accennata di accostarsi a ogni singolo canto considerandone non solo la collocazione nel giorno, ma nel Tempo: Popolus Sion è infatti l’antifona di introito della seconda domenica di avvento, e si configura quale complemento dei canti della domenica precedente, i cui testi rivolgevano a Dio a partire dagli universi qui te expectant, tutti coloro che attendono la sua venuta.
L’osservazione degli esempi proposti rende evidente, in conclusione, come nel canto gregoriano i meccanismi di selezione e le tecniche di elaborazione testuale delle fonti siano già a tutti gli effetti un atto del processo compositivo e, ancor prima, del progetto esegetico complessivo degli anonimi estensori dei canti. Lo studio degli aspetti più strettamente musicali è dunque pienamente possibile solo a partire dalla completa comprensione dei procedimenti di selezione testuale adottati, senza la quale l’intendimento dei canti si rivelerebbe irrimediabilmente incompleto.
19Popolus enim in Sion habitabit in Jerusalem: plrans neququam plorabis, miserans miserebitur tui : […] 30Et auditam faciet Dominus gloriam vocis suae, et terrorem brachii sui ostendet in combination furoris, et flamma ignis devorantis ; […] Popolus Sion, ecce Dominus veniet ad salvandas gentes; et auditam faciet Dominus gloriam vocis suae, in laetitia cordis vestri.
A proposito di Inni
Il presente contributo si configura come una sintesi delle lezioni dedicate all’innodia tenute dal prof. Angelo Corno per la Scuola di Canto Gregoriano – AERCO. I testi dell’Ufficio si basano sul Corpus Antiphonalium Officii contenente i testi dagli Antifonali medievali destinati al canto. Solo uno dei manoscritti dell’Ufficio risale all’epoca antica dei sei antifonari della messa: Compiègne (seconda metà del secolo IX) che include sia il testo della messa che quello dell’Ufficio senza notazione musicale. I volumi contengono: i codici di cursus romano; i codici di cursus monastico; i testi; le fonti e il loro riordino. L’antica tradizione ebraica comprendeva due momenti di preghiera giornaliera. La preghiera degli apostoli, corrispondeva alle ore degli olocausti mattutini e serali. Le tradizioni corrispondono nei due momenti di preghiera comunitaria quotidiana. Clemente Alessandrino parla di tre momenti di preghiera da aggiungere a quelli tradizionali. Corrispondono alla divisione della giornata di lavoro del mondo greco-romano: terza, sesta, nona; un’allusione alla Trinità. Stabilisce un rapporto tra la rinascita del giorno e una celebrazione di preghiera. Tertulliano sostituisce gli olocausti con l’orazione come sacrificio spirituale. La Traditio Apostolica giustifica le tre ore diurne in riferimento ai tre momenti della Passione di Cristo. L’ora mattutina assume un significato risurrezionale rendendo il Mistero Pasquale un’unità inscindibile. Origene parla di un’orazione continua e aggiunge alle tre ore diurne una veglia notturna. Cipriano aggiunge che l’orazione deve essere protratta anche di notte. Per anticipare la beatitudine eterna bisogna sempre rimanere nella luce di Cristo. Agostino stabilisce una stretta connessione tra sacrificium vespertinum e munus matutinum del salmo 140 con la morte e la risurrezione di Cristo. A partire dalla Traditio Apostolica si pone il valore di uno schema per ogni celebrazione per guidare i fedeli ad una piena partecipazione. Le Constitutiones Apostolorum offrono uno schema ben definito per le due ore principali: Vespro e Ufficio
Mattutino, perfettamente simmetrici. Iniziano con un salmo, seguono orazioni, monizioni, preghiera dei fedeli, benedizione e congedo. Le ore più antiche e importanti sono il Vespro e l’Ufficio Mattutino. Dalle fonti non si conoscono bene gli schemi dell’Ufficio romano antico. Il Vespro era costituito da cinque salmi, Magnificat, oratio. L’Ufficio Mattutino è costituito da Miserere, Psalmus matutinus (variabilis), Psalmus matutinus 62 e 66, Canticum V.T., salmi Laudate, Benedictus, oratio. Il Magnificat ha valore purificatorio. I tre salmi Laudate daranno il nome alle Laudes diventando la triade inseparabile dell’Ufficio Mattutino. La salmodia dei Vespri rispondeva al criterio del currente psalterio. Il tema vespertino è rappresentato dal salmo 140,2 per l’offerta dell’incenso che si compiva al tempio di sera. Il tema lucernario è preso dal salmo 109. Il Benedictus trova la propria collocazione alle Lodi, il Magnificat al Vespro, il Nunc dimittis a Compieta. San Benedetto segue il rito romano, ma la Regola non parla del Nunc dimittis. Benedetto prevede che si preghi sette volte al giorno e una volta nella notte. Introduce l’inno Deus in adiutorium che apre la preghiera delle ore, mentre sceglie il versetto Domine labia mea aperies per aprire le vigilie. Si ha l’impiego del versus, preso dal salmo del giorno, esaltandone il tema dominante, collocato dopo gli inni del Vespro e dell’Ufficio Mattutino, come conclusione del primo e secondo notturno e dopo la lettura breve delle ore minori e della Compieta. Ai versus seguono i responsoriola, che sono gli stessi versus con una risposta più estesa. Distribuisce i 150 salmi lungo l’arco di una settimana in quanto nucleo centrale della Liturgia delle Ore. Il Vespro all’epoca di Benedetto è sostanzialmente quello dell’attuale Vespro nel rito romano. Se si sostituisce il Magnificat con il Benedictus si ha lo schema delle Lodi. All’origine il versus era cantato esclusivamente dal solista con il coro che rispondeva. Più diventerà importante, più sarà ornato. Il responsorio assume il carattere di canto meditativo: la risposta viene generata dall’ascolto della Parola. Entrambe le forme richiedono una risposta, ma, se il versus ne ha bisogno per completare il senso di ciò che viene enunciato, il responsorio, non aggiunge significato, esprimendo consenso ed adesione del popolo, che si unisce al coro per cantare il responsum a latere. La cantillazione è la più antica forma melodica in cui la parola ha la preponderanza sulla musica. Il testo viene suddiviso in unità logiche e sintattiche attraverso la scrittura ecfonetica, per ricordare al cantore formule già note. Rivela la propria struttura, organizzata in incisi verbali ben definiti, assumendo una scansione ritmica adeguata e diventando “vivo”. Viene indicato il profilo melodico sul quale si regge la proclamazione del testo ed assegnate le inflessioni della voce per le cadenze. Le interpunzioni melodiche (pausationes) erano per lo più: flexa, metrum, punctum interrogationis, punctum versus. Talvolta viene associato un lungo melisma posto sulla sillaba finale della penultima distinzione logica della frase: un’antica forma di iubilus che sarà assunta dal solista nel Tractus, nei versetti del Graduale e sulla sillaba finale dell’Alleluia. La salmodia si avvale delle strutture tipiche della cantillazione codificandole in forme e stili diversi e più articolati. Nella salmodia diretta il cantore proclama il salmo dall’inizio alla fine. In alcuni manoscritti viene avvertito del passaggio dalla lettura al canto tramite hic mutas sonum. Nel repertorio della Messa vi sono forme più ornate di salmodia direttanea, senza alcun intercalare: i tractus
nelle domeniche di Quaresima e i cantica che seguono le letture della Veglia Pasquale. La salmodia responsoriale segna un’altra tappa importante dello sviluppo della musica cristiana, a partire da Atanasio (metà IV secolo); prevede l’intervento attivo del popolo nella salmodia. Benedetto usa il termine antiphona per indicare la salmodia responsoriale. La salmodia antifonica all’origine riguardava l’alternanza di timbri vocali. Le comunità monastiche alternavano i versetti dei salmi dividendosi in due cori in posizione frontale. Quando il testo del ritornello sarà ampliato e assumerà un più ricco rivestimento melodico, verrà cantato da tutto il coro soltanto all’inizio e alla fine del salmo diventando l’antifona, inizialmente composta a servizio esclusivo del salmo. La forma antifonica, nella sua forma più elaborata, si trova nei canti della Messa; il contesto celebrativo solenne impone che l’antifona prenda il sopravvento sulla salmodia, mentre nell’Ufficio è relegata ad aprire e chiudere la salmodia, parte sostanziale della celebrazione delle Ore. Il cursus planus porta un caso particolare di cadenza della salmodia. Il cursus è una successione armoniosa di parole e sillabe che i prosatori greci e latini impiegavano alla fine delle frasi per colpire gli ascoltatori. La quantità e l’accento determinano il ritmo. Tra il III e il IV secolo si abbandona progressivamente la quantità della prosodia classica per accogliere l’accento della parola. In questa fase si ha la coesistenza dei due tipi di cursus: metrico e ritmico (tonico). Gli inni ambrosiani (fine IV secolo) sono un esempio dell’innovazione compositiva e musicale introdotta dal Padre della Chiesa di Milano. Ambrogio scelse il dimetro giambico imponendosi in tutto l’occidente come una forma poetica e musicale semplice nella forma, profonda nel contenuto, maggiormente rispettosa del ritmo naturale della parola. L’accento prende il sopravvento sulla quantità. Si contano le sillabe, non le si misura più. Il ritmo riconosce due piedi: spondeo, formato da una sillaba accentata e una atona; dattilo, composto da una sillaba forte e due deboli. Ogni parola di due sillabe è considerata spondeo. Le parole che hanno l’accento sulla penultima sillaba sono parossitone. Ogni parola di tre sillabe, di cui la penultima è breve, è chiamata dattilo al quale si assimilano tre piedi con sillabe lunghe e brevi diversamente ripartite. I cursus in uso nel V-VI secolo sono: planus, tardus, trispondaicus, velox. Nell’XI e XII secolo furono ridotti a tre rimuovendo il trispondaicus. L’accento tonico ha influenzato la formazione melodica degli inni, dei recitativi liturgici, delle orazioni, dei prefazi, delle cadenze mediane e finali della salmodia semplice a uno o due accenti. Un gran numero di cadenze fu modellato sul cursus planus per la sua armoniosità e gradevolezza, fatto di due curve melodico-ritmiche distinte da una cesura, fu scelto dai compositori gregoriani per adattarlo anche alle cadenze della salmodia dell’introito e del communio. Questa cadenza viene chiamata pentasillabica. Nella salmodia prevale l’integrità del ritmo musicale, ritenuto un principio superiore alla concordanza tra testo e melodia. Ambrogio introdusse un’innovazione significativa dal punto di vista letterario, musicale e teologico per: la scelta metrica del dimetro giambico; lo stile sillabico della melodia; il costante riferimento alla Sacra Scrittura. Il dimetro giambico, ha successioni sillabiche regolari e favorisce la coincidenza dell’accento tonico con l’accento prosodico. La ritmica, dalla quantità, passa all’accento tonico. Ambrogio elabora anche uno schema poetico fisso: 8 sillabe per ogni verso, 4 versi per ogni strofa, 8 strofe per formare un inno: rimanda al giorno senza fine! Gli inni sono isostrofici, isosillabici, isoritmici. La tradizione tramanda che gli inni composti da Ambrogio siano tredici, ma solo quattro sono certamente suoi. Il contenuto è teologico, ma unito a osservazioni tratte dalla bellezza della natura e dalla concretezza della vita quotidiana. La forma innica è un elemento dell’Ufficio Divino che per sua natura esige il canto. Ambrogio fu anche autore della musica dei suoi inni e li insegnò al popolo a cui attribuiva una spirituale potenza contro le passioni. Nell’innodia l’integrità del ritmo musicale legata agli otto gruppi neumatici scelti per ogni verso è ritenuta un principio superiore all’integrità fonetica del testo e della sua legittima accentuazione.