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Ilaria Resta/Audemars Piguet
«Vogliamo essere i pionieri del tempo»
A un anno dal suo insediamento, la ceo di Audemars Piguet racconta la sua visione centrata su organizzazione e ispirazione, leadership circolare e gestione olistica dell'azienda
La sua nomina a Chief Executive Officer di Audemars Piguet, nel luglio 2023, fu accolta con un certo stupore. Perché Ilaria Resta, pur forte di un curriculum di tutto rispetto con oltre 20 anni passati nella multinazionale Procter & Gamble e un triennio nella divisione Perfumery & Ingredients di Firmenich, era un’outsider. Tra l’altro donna, la prima che avrebbe ricoperto un ruolo così apicale nel settore dei segnatempo, tradizionalmente di appannaggio maschile. Senza contare che, da non specialista degli orologi (seppur appassionata), poteva in qualche modo costituire un salto nel buio dopo la leadership carismatica e feconda di François–Henry Bennahmias, che durante i suoi quasi 30 anni al timone ha contribuito a far lievitare sensibilmente i conti del brand, oltre i 2 miliardi a fine 2023 (in base alle stime di mercato). In questo ultimo anno la napoletana Ilaria Resta, eloquio dalla chiarezza cristallina mescolato a un carattere solare ed empatico, ha cominciato a posare i primi mattoni della sua strategia: una strategia necessariamente di lungo termine, in quanto, come dice lei stessa, Audemars Piguet nutre costantemente un sogno di «perennità», pur misurandosi con un mercato e una clientela tutt’altro che invariabile. Al nostro giornale racconta gli obiettivi, le priorità, gli investimenti. Non fornisce numeri, ma spiega il “pensiero forte” che li alimenta, come una «gestione olistica del business» e un modello di leadership «circolare».
Da un anno si è insediata come ceo a Le Brassus, vicino a Ginevra. Lei proveniva da tutt’altro settore… Qual è stato il focus di questi mesi?
Da luglio 2023 fino al mio ingresso ufficiale, a gennaio 2024, ho passato quattro mesi incredibili di studio e scoperta. Audemars Piguet conta 150 anni di storia come azienda familiare e indipendente e oltre 3mila collaboratori nel mondo. La mia priorità è stata incontrare le persone: non solo gli eredi dei fondatori, ma anche gli artigiani impegnati nella manifattura. Conoscere la loro storia personale e le loro aspirazioni mi ha aiutato a mettere a punto la mission aziendale, incentrata sul garantire al marchio perennità. Di fronte a un commitment di così lunghissimo termine, calato in un contesto variabile ed esposto a continui mutamenti, sono necessarie fondamenta solide. Nel 2024 mi sono dedicata soprattutto a questo: definire le basi per tutto quello che verrà in futuro.
Il suo predecessore François–Henry Bennahmias le ha dato qualche consiglio?
Il nostro è stato un passaggio di testimone fluido, che non ha provocato terremoti all’interno della struttura aziendale. Prima di iniziare ci siamo visti in un bar e alla mia domanda di avere qualche dritta per il mio nuovo ruolo mi ha risposto: «Va bene, a condizione che mi insegni qualcosa anche tu». Lui è stato molto generoso con me, io molto rispettosa con lui.
Dunque, in che direzione sta portando Audemars Piguet?
Sono convinta sia necessario trattare le aziende come un organismo vivente, con un’evoluzione scandita da tappe. Ho preso in mano Audemars Piguet successivamente a una forte accelerazione multidimensionale: dopo anni in qualità di “master project manager” di diversi fornitori, AP è diventata una manifattura, che si è progressivamente ampliata sul fronte della capability e del savoir-faire orologiero. Poi, altro passo spartiacque, ha abbracciato il retail, trasformandosi in una direct client company e gestendo direttamente il rapporto con i consumatori. Senza contare l’importante lavoro portato avanti sul branding. Tre asset che hanno fatto da leva per la sua crescita. Siamo ancora giovani, dei teenager con tutta la vita davanti direi, ma come in tutti gli esseri umani lo sviluppo repentino può mettere un po’ in sofferenza la spina dorsale. Per questo la mia priorità è fare le mosse giuste per garantire la solidità della nostra ossatura.
In che modo? Su cosa investirà?
Sicuramente sull’innovazione. Portata avanti su tre fronti: in termini di materiali, di movimenti e complicazioni, di decorazioni. Su tutte queste aree ho accelerato gli investimenti. Va sottolineato che ho il lusso di lavorare in una realtà che non ha l’ambizione e la pressione della crescita come solo parametro. Una convinzione che condivido: penso sia pericoloso considerare l’incremento dei numeri come unico vettore per misurare il successo. La mia vuole essere una gestione olistica dell’azienda: la preservazione del suo patrimonio e degli antichi mestieri sono al primo posto.
Si dice il suo arrivo in AP abbia l’obiettivo di incrementare l’offerta per il pubblico femminile. È così?
Nei piani c’è sicuramente quello di espandere la clientela ma indipendentemente dal genere e, soprattutto, dal “mio” genere. Detto questo, è un fatto che nel mondo dell’orologeria resistano certi stereotipi, che con la mia narrativa miro a estirpare: in primis che le donne preferiscano gli orologi al quarzo, quelli di piccole dimensioni, quelli decorati, senza prestare alcuna attenzione ai meccanismi. Tutte falsità. A parte la dimensione del polso, non c’è nessun elemento genetico che spinga verso la scelta di un modello piuttosto che di un altro. Io intendo assecondare tutti i desiderata delle consumatrici, ma non credo a una genderizzazione del portafoglio. Sono comunque convinta che il primo motore di crescita dell’orologeria dei prossimi 10-20 anni saranno proprio le donne.
Al di là del genere, che cosa cercano oggi le nuove generazioni?
A differenza di chi li ha preceduti, per i giovani di oggi l’orologio non rappresenta un bene di investimento o un regalo come rito di passaggio, per esempio la laurea o il primo lavoro, ma una passione. Più che dal brand, sono attirati dalla meccanica e dal mondo che c’è dietro i segnatempo. Basti pensare che la visita alla manifattura è ambitissima da questa fascia di clienti: su di loro la componente didattica e l’edutainment esercitano un grandissimo fascino.
Non la preoccupa il fatto che il settore del lusso, compreso quello orologiero, dopo l’euforia post Covid abbia subito un rallentamento?
È indubbio che le incertezze macro-economiche e le tensioni geo-politiche impediscano una visibilità a lungo termine e che in assenza di visibilità gli acquisti frenino, anche quelli dei top client. Va però precisato che l’orologeria è sempre stato un settore ciclico. Ha resistito alle guerre, alle crisi petrolifere, alle grandi inflazioni, al Covid. E la storia dimostra che il punto di arrivo è sempre più alto di quello di partenza.
Anche a Milano, nell’ex Garage Traversi, è arrivata una AP House: sarà questo il format distributivo prioritario per il futuro?
Chiamarlo format distributivo è riduttivo. Le AP House sono piuttosto spazi di condivisione che ruotano intorno alla passione dell’orologeria e che consentono una relazione con i clienti, o semplicemente con le persone, in un ambiente non finalizzato alla transazione. La nostra affinità con il mondo dell’arte e della musica - con il programma di eventi, a volte anche spontanei, che si tengono all’interno - trasforma questi spazi in luoghi di aggregazione, dove vivere esperienze coinvolgenti ed entrare nel vero spirito della marca, grazie anche a spazi “heritage”, con orologi da collezione.
Ci saranno altre aperture? Abbiamo un programma di opening progressivo, senza espansioni verticali. Contiamo già una ventina di spazi in alcune delle città più vibranti del mondo
tra cui New York, Amsterdam, Bangkok, Hong Kong e Shanghai. Recentemente siamo sbarcati a Seoul, in una torre trasparente con un giardino sospeso svizzero, e la prossima tappa sarà Singapore, all’interno dell’Hotel Raffles. Nei piani futuri ci sono Manchester e Londra. Si tratta di progetti importanti: ogni AP House è diversa dall’altra, con un approccio “glocal”, per allinearsi al genius loci di ogni singola città.
Il wholesale non è contemplato dalla vostra rete commerciale?
Da tempo abbiamo abbracciato una logica distributiva esclusivamente retail, che ci permette di relazionarci direttamente con i consumatori. Contiamo più di un’ottantina di boutique e 22 AP House nel mondo.
Cosa serve per guidare un’azienda come Audemars Piguet?
Occhi e orecchie aperti su quello che ci circonda, visione laterale molto ampia, gambe agili per adattarsi al terreno che cambia. E saper saltare. Certo, è importante “fissarsi” degli obiettivi, ma credo sia altrettanto importante non essere “fissati”. Le strade che ci portano a destinazione non sono mai dritte. Hanno anzi mille curve, che dobbiamo saper assecondare.
Vale anche nella gestione del team?
Ho sempre creduto nell’emotional intelligence e nella self assessment. Essere se stessi è la via meno faticosa e al tempo stesso più efficace. Io sono napoletana, sono estroversa, una persona che per natura e cultura crea relazioni. Con gli anni sono passata a un modello di leadership circolare, non piramidale, autentica e approcciabile. Ci sono leader che nella loro chiusura e autarchia diventano ciechi e sordi.
Come vede Audemars Piguet tra cinque o dieci anni?
Mi piace la parola “pioniere”. Vorrei che fossimo pionieri del tempo, continuando a innovare in tutte le direzioni, per avere una visione aperta. Oltre le ore, i minuti e i secondi. ■