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Design data driven e human driven: prove tecniche di collaborazione

Valorizzare l’archivio storico, analizzare corsi e ricorsi con fini predittivi, recepire il tam tam della Rete, familiarizzare con la propria audience, mandare in produzione riducendo il rischio di overstock: l’intelligenza artificiale si sta mettendo al servizio della creatività dimostrandosi versatile. Per la moda forse è il momento di superare ogni forma di diffidenza

DI ELISABETTA FABBRI

Sempre più oggetto di sperimentazione nell’arte e nell’industria della creatività, l’intelligenza artificiale (IA o AI, all’americana) continua a dividere. Il suo impiego nel cinema è «un’oscenità umana», ha detto l’attore e regista Sean Penn al recente Festival di Cannes, manifestando il suo sostegno agli sceneggiatori e agli attori in sciopero a Hollywood, di cui l’industria cinematografica si starebbe «prendendo gioco». Più aperte le posizioni di Tom Hanks, per un uso volto a ridare vita agli attori che non ci sono più, e di Harrison Ford, ringiovanito di decenni, grazie all’AI, nelle sequenze iniziali di Indiana Jones e il quadrante del destino. Per il regista e produttore Joe Russo (tra gli altri, ha co-diretto due capitoli della saga The Avengers) le intelligenze artificiali rivoluzioneranno tutto l’intrattenimento, fino al punto che lo spettatore sarà il regista, il produttore e lo sceneggiatore di storie aperte, di cui l’AI fornirà i contorni. Nella moda questo scenario potrebbe essere più vicino di quanto si possa pensare. C’è già chi dice che con l’AI chiunque potrà diventare stilista di se stesso (forse anche “sarto”, visti i passi in avanti delle stampanati 3D). Un modello di business da tenere sotto osservazione è quello della californiana Finesse: una startup dell’abbigliamento partita ufficialmente nel 2021 con 4,5 milioni di dollari di capitali da sette investitori, diventati 16,2 milioni con il più recente fund rising, circa un anno fa. Il suo fondatore, Ramin Ahmari, l’ha definita «l’incontro fra Zara e Netflix» in un’intervista a Forbes, perché crea prodotti che piacciono al suo target - la Generazione Zeta - nel momento in cui ne hanno bisogno ed esattamente nelle quantità richieste (quindi il problema dell’overstock, in conflitto con il concetto di sostenibilità, non esiste). Lui è un giovane laureato in computer science, con esperienza in una banca di investimenti, da cui ha tratto spunto per il suo progetto di casa di moda AI-led. Infatti si è reso conto che le istituzioni finanziarie usano algoritmi Nlp-Natural language processing (elaborazione del linguaggio naturale) per analizzare un vasto numero di dati online, tra cui Twitter, e prevedere il mercato e i movimenti dei prezzi delle azioni. Applicando questo concetto alla moda, dalle interazioni nella community della Gen Z sul web (cosa fanno, indossano e desiderano) si possono estrapolare diverse informazioni in merito alle preferenze su certi prodotti e altri fattori, che possono andare a definire i trend futuri. Finesse fa leva sull’uso del deep tech in modo non convenzionale, combinando l’analisi delle serie storiche, l’Nlp, l’elaborazione dei dati visuali con gli algoritmi di machine learning (quelli che apprendono informazioni direttamente dai dati e incrementano le proprie prestazioni in modo automatico e adattivo). Dietro le proposte di moda di questo marchio non c’è uno stilista e nemmeno una musa ispiratrice, ma una sorta di distillato, derivante dalla Rete, di cosa fanno, indossano e desiderano i post-Millennials. La prototipia è solo virtuale, realizzata da un disegnatore tecnico in 3D, utilizzando tessuti digitalizzati. Ogni settimana tre outfit digitali, generati dall’analisi dei dati, vengono presentati sul sito di Finesse e sottoposti al giudizio degli utenti. Solo quello che riceverà più click diventerà un campionario fisico. Lo realizzerà un partner produttivo in Cina, per poi prepararsi alla produzione ondemand, sulla base dei pre-ordini. Questo sistema si presta a ulteriori sviluppi: il fondatore Ahmari pensa già a una maggiore interazione fra il sito e gli utenti, che porterà questi ultimi a visualizzare solo i modelli rilevanti per loro.

Con la primavera-estate 2023 la maison Anteprima ha lanciato la sua prima capsule collection creata con AiDA, assistente per il fashion design interattivo basato sull’intelligenza artificiale sviluppato da AiDLab, piattaforma di ricerca istituita dalla Hong Kong Polytechnic University con il Royal College of Art. La giapponese Izumi Ogino, fondatrice e direttrice creativa di Anteprima, racconta come è andata: «Per prima cosa abbiamo inserito in AiDA tutti i look iconici di Anteprima del passato, poi abbiamo inserito il concept della primavera-estate 2023 e i colori. Il sistema ha quindi prodotto una serie di suggerimenti per il design. Un risultato inaspettato, soprattutto per quanto riguarda i modelli: erano del tutto Anteprima, ma con una nuova prospettiva». «La tecnologia ci ha dato sicuramente più scelta tra i modelli e opzioni fuori dagli schemi ma i designerpuntualizza la stilista - devono comunque apportare le proprie competenze, oltre a imparare a utilizzare la piattaforma. Anche il primo stadio del design concept deve essere opera del creativo. Ispirato alla natura, all’arte, ai viaggi, dovrebbe nascere dall’interazione umana, dall’esperienza e dal cuore». Di positivo c’è che AiDA non genera uno stile qualsiasi, ma studia e assume i dati, per generare un prodotto da personalizzare. «La nostra filosofia è “Smart, precious, with love” da 30 anni - precisa Izumi Ogino -. Non facciamo minigonne sexy o stili folli di avanguardia. Abbiamo sempre avuto un gusto sofisticato e AiDA ha mantenuto questa filosofia». La fondatrice di Anteprima pensa che l’intelligenza artificiale ridurrà significativamente le barriere d’ingresso per i nuovi designer e darà ai veterani un modo per superare gli ostacoli creativi. Moda e AI, a suo parere possono coesistere: «L’AI può aiutare nel ridurre parti inutili del carico di lavoro, come quando genera varianti del design, anche se nulla di tecnologico potrà mai sostituire l’artigianalità umana, indispensabile per produrre articoli di lunga durata e sostenibili».

Invece cosa ne pensa del design data driven Veronica Leoni, che con il suo marchio Quira fa parte della nuova generazione di stilisti italiani indipendenti? «Non mi è mai capitato di sperimentare tecnologie di questo tipo o che mi venissero proposterisponde Leoni, sotto i riflettori come finalista all’Lvmh Prize 2023 -. La mia vita professionale è piuttosto analogica ma sono curiosa per natura e se succedesse certamente le proverei». «L’impiego che mi sembra più interessante è nello sviluppo prodotto - aggiunge -. Poter visualizzare in via preliminare è un’opportunità straordinaria, che aiuta il processo di elaborazione creativa. Essere editor di sé stessi è senza dubbio un momento cruciale, difficilissimo nel concepimento di una collezione. I livelli di realismo raggiunti dalla tecnologia, tra l’altro, sono incredibili». In merito alle potenzialità dell’AI nella previsione dei trend, la designer di Quira solleva invece dei dubbi: «I trend non esistono, o comunque non riguardano il segmento alto dell’industria. Si può certamente analizzare i consumi e i comportamenti del mercato, ma i dati saranno sempre relativi all’oggi o a un pattern riconoscibile. Il lavoro del designer riguarda invece il futuro. C’è un qualcosa di intangibile nel nostro mestiere. Si lavora attorno a qualcosa di cui il cliente è ancora inconsapevole. Lì sta la magia e la sfida più grande». Quindi non è vero che tutti, con l’AI possono diventare stilisti? «Ci sono diversi modi di praticare la professione di designer - risponde Veronica Leoni -. Di certo sarà più facile costruire una collezione che risponda a esigenze dettate dal mercato, visualizzando il tutto su uno schermo e

1. Un modello della capsule collection creata da Anteprima con AiDA, assistente per il design basato sull’AI, frutto della piattaforma di ricerca AiDLab

2. Un outfit Quira per il prossimo autunno-inverno

3. Ogni settimana Finesse propone tre modelli generati dall’AI: il più cliccato va in produzione sulla base dei pre-ordini velocizzando il lungo e travagliato processo creativo. Però non sono certa che questo possa riguardare il segmento più alto del prêt- à-porter e il lusso, dove l’artigianalità, il plusvalore artistico e l’azione della mano fanno la differenza». In merito a una possibile collaborazione proficua tra intelligenza umana e artificiale, la fondatrice di Quira dice: «Mi diverte pensare di poter amplificare la mia esperienza rispetto al rapporto con il mercato. Il successo di un progetto oggi è molto connesso al senso di community e appartenenza. Rendere accessibile e diffusa la partecipazione al brand aiuterebbe senza dubbio a creare quel legame affettivo e umano, che potrebbe in seguito indurre al desiderio e all’acquisto». Ammagamma - dinamica società di data science con sede a Modena e ad Haifa, in Israele, che conta circa 90 professionisti (dai 70 nel 2022) - collabora da anni con aziende di vari settori su diversi tipi di processi, ma l’interesse delle imprese per l’AI riguarda soprattutto applicazioni nelle vendite e nel marketing. «La moda è un settore conservatore, ostico da intercettare, poiché lascia molto alla creatività - osserva il suo sales solutions manager, Andrea Mordenti -. Invece l’intelligenza artificiale può dare un supporto al design nell’analisi delle tendenze e nel forecasting. Si può fare uno studio dei trend storici e analizzare le stagionalità: dall’esame dei dati si è visto, per esempio, che sono lunghe per gli occhiali a goccia, più brevi per il piumino. Nel caso dell’AI generativa, invece, è possibile spingersi oltre, non solo studiando lo storico, ma generando anche qualcosa di nuovo, partendo dal passato, come una montatura a goccia ma leggermente rivista. Si tratta di uno strumento di supporto a chi si occupa di design, che da solo non basta, ma necessita della creatività umana». Si possono utilizzare anche dati esterni all’azienda, dai social, dai post degli influencer, da telefonate o video. «Sono informazioni destrutturate, che possono risultare utili a chi progetta, per farsi un’idea di ciò che accade online - spiega Mordenti -. Aiutano anche a capire il sentiment di una certa fascia di età, dove mette più like, le personalità o celebrity che segue». «L’AI - continua - ha come assunto di base quello di ridurre al mini-

ANDREA MORDENTI AMMAGAMMA mo le attività a basso valore aggiunto, come nel caso della raccolta dati da fonti diverse, che viene automatizzata. I dati vengo poi sottoposti a un processo di “pulizia”, divisi in categorie, resi analizzabili e visualizzabili. La tecnologia velocizza il tutto, permettendo agli umani di concentrarsi sulle attività che fanno veramente la differenza. Dà suggerimenti quantitativi, non si sostituisce al lavoro delle persone». L’attività dell’intelligenza artificiale ha anche un aspetto green. «Permette previsioni migliori - conferma Mordenti - per far sì che a valle si posano fare scelte consapevoli a più livelli, dall’approvvigionamento della materia prima alla progettazione senza sprechi, dalla produzione fino all’invenduto: sono tutte sequenze che possono essere ottimizzate». Quanto alla possibilità che la macchina commetta errori, specie nel caso del forecasting, l’esperto di Ammagamma afferma: «L’errore c’è stato e sempre ci sarà, ma i modelli sono periodicamente “allenati” e valutati: questo fa contenere le probabilità che accada. Ridurlo a zero è impossibile, ma tendenzialmente è di entità ridotta, a meno di non trovarsi in situazioni del tutto fuori dagli schemi, come nel caso della pandemia da Covid-19».

L’intelligenza artificiale non è alla portata solo delle grandi aziende. «Noi - spiega Mordenti - lavoriamo molto con le Pmi, che possono partire con progetti di AI piccoli, per poi espanderli a moduli. Possonodecidere per soluzioni meno personalizzate e più di mercato. In Ammagamma portiamo l’AI anche nelle imprese che operano in mercati mediamente stabili, fornendo nel tempo servizi di manutenzione, per migliorare gli applicativi e riallinearli ai modelli. Prima di iniziare qualsiasi progetto, però, affianchiamo i clienti nella preparazione dei dati, che in primis vanno messi in sicurezza e poi ordinati». In merito alle competenze in azienda, in vista di un investimento in innovazione, afferma: «Avvalersi delle competenze di un team di data scientist è possibile mediante due modalità: esternalizzando a società di consulenza specializzate, oppure investendo internamente in percorsi di crescita data-driven. Quanto allo stilista, dovrebbe avere alle spalle un dipartimento IT preparato sull’integrazione delle informazioni, con dati di valore su cui ragionare. I creativi dovrebbero essere consapevoli e avere cognizione delle informazioni presenti nei sistemi aziendali. Un approccio critico al dato può fare gioco: non occorre avere competenze tecniche, ma coltivare una certa sensibilità. Grazie alle potenzialità del digitale, è fondamen-

I designer non devono avere competenze tecniche ma coltivare una certa sensibilità al dato tale saper cambiare mentalità all’occorrenza, per esempio pensando: “Ho una nuova idea per la testa, magari esistono dei dati aziendali utili per realizzarla. Quali informazioni posso estrarre da essi, che portino valore alla mia idea?”». «Oggi si fa tanto allarmismo per niente riguardo l’intelligenza artificiale - sottolinea il manager di Ammagamma -. Pensiamo soltanto alle immagini dell’automa che circolano: a nostro parere allontanano l’uomo dalla tecnologia, creano una dicotomia. Un algoritmo non può sostituire in toto il lavoro di uno stilista o del personale commerciale. La realtà è che queste figure possono lavorare meglio con l’aiuto dell’algoritmo. I più recenti allarmi su ChatGpt (vedi a pag.40) non fanno altro che ampliare ulteriormente le distanze, forse troppo».

«Il fashion design data driven al momento è un argomento di frontiera», dice Maurizio Sanarico, chief data scientist di SDG Group, società di consulenza manageriale basata sugli analytics a 360 gradi, con sede centrale a Milano. «Il lusso lo vede a fatica, il fashion intermedio lo guarda più da vicino - precisa -. Le grandi maison, che hanno già in tutto o in parte digitalizzato l’archivio, con l’AI potrebbero esplorarlo per riprendere dei concetti: valorizzerebbero il patrimonio storico, pur lasciando in capo allo stilista l’innovazione spinta». Oc- tive web per lanciare un certo prodotto sono state efficaci oppure no - risponde l’esperto di Sdg -. L’intelligenza artificiale aiuta non nel caso delle proposte stagionali e sperimentali, che non hanno uno storico, ma con i prodotti evergreen. Possono emergere delle analogie, nel tempo, per i prodotti di successo, utili all’ottimizzazione della produzione, che deve essere decisa un anno prima. Se a queste informazioni se ne aggiungono altre derivanti dall’inizio della campagna vendite, come i pre-ordini wholesale, si arriva a ridurre anche del 45% gli errori nelle quantità da realizzare».

1. L’opera in 3D Quantum Memories del Refik Anadol Studio, che indaga gli esperimenti di “supremazia quantistica” di Google Quantum AI, il machine learning e l’estetica della probabilità. Per questo progetto l’AI ha elaborato 200 milioni di immagini fra natura e di paesaggi. Inoltre Quantum Memories evolve in continuazione, perché tiene traccia dei movimenti del pubblico in tempo reale 2. Un look del marchio Besfxxk, disegnato dagli stilisti coreani Bona Kim e Jae Hyuk Lim con AiDA e presentato in dicembre a Hong Kong, al Fashion X AI 2022-2023 International Salon correrebbe però una visione più olistica, a suo parere, dove si mettono insieme il data base del design, i dati delle vendite e altri derivanti dal web. «Dai numeri delle vendite fisiche e online - spiega Sanarico - si può ricavare il profilo di acquisto del consumatore e la sua attitudine rispetto a diverse tipologie di prodotto, utili anche per organizzare l’assortimento in negozio e la logistica». Ma le analisi di dati provenienti dal web (tra cui blog e social di influencer e vip, che già indossano ciò che i marchi vorrebbero far diventare un must have), in che modo possono far prevedere una tendenza? «La raccolta di informazioni dai canali social e dai siti degli influencer non serve tanto per dare input agli stilisti, ma per capire se le inizia-

«Il creativo prescinde da tutto questo - prosegue -. Ma sarebbe bene che percepisse l’intelligenza artificiale come un aiuto, non un’imposizione. Anche una piccola realtà aziendale se ha un archivio può beneficiarne. Non è tanto un problema di investimenti ma di approccio culturale. Da parte nostra riconosciamo però che è necessario attivarsi per un linguaggio comune e per creare più sinergie, che problemi tecnologici: le tecnologie esistono, si tratta di farle percepire come un valore». In ogni caso la situazione sta migliorando e il livello di consapevolezza sta aumentando. «Oggi - osserva Sanarico - la fase di tanti brand è quella sperimentale, dell’avvio di un progetto pilota dove si identifica il problema e il livello a cui si vuole arrivare, per poi eventualmente andare avanti. A frenare sono i “silos” aziendali, dove ciascuno ha la propria area, difende il proprio territorio con scarse interazioni e vorrebbe evitare un sovraccarico di lavoro». «Si parla tanto di data mesh, un approccio moderno alla gestione dei dati attraverso un’architettura decentralizzata - conclude -. Che si concretizzi o meno è soprattutto un problema di persone».

UN’INDAGINE DI LENOVO Strategie data driven: le adotta solo il 15% delle imprese italiane

Poche aziende oggi possono definirsi data leader, cioè in grado di estrarre valore dai dati e utilizzarli per migliorare il business. In Italia si tratta del 15% appena, come emerge dal report Data for Humanity, dell’azienda informatica Lenovo, basato sulle interviste a 600 executive di società con ricavi pari o superiori a 500 milioni di dollari in cinque Paesi diversi. Le imprese data leader si basano su data management, data analytics e data security, con vantaggi che vanno dall’aumentato dei ricavi a una maggiore soddisfazione dei clienti. Il 51% delle italiane del campione dice di non possedere le competenze informatiche, in particolare quelle per condividere i dati con partner e organizzazioni esterne. Il 90% intende investire, nel giro di un anno, almeno 1 milione di euro in tecnologia e iniziative data driven. Il 55% prevede più investimenti in strumenti di archiviazione e automazione dei dati.

GENERATIVE AI

I nuovi tool irrompono nella moda Opportunità e limiti

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