Prefazione di Raffaele Dudù La Capria
Vittorio De Seta che io considero uno dei nostri maggiori registi, un maestro del cinema, si serve del cinema come di un’arma. L’arma di un uomo impegnato e disarmato, di un uomo pacifico e non violento, ma determinato e fermissimo nel denunciare il Male dove si mostra, il Male che produce dolore e morte nei luoghi più nascosti e dimenticati del mondo, ed è tanto più efficace quanto meno se ne parla. Chi sa dov’è, esattamente, sulla carta geografica dell’Africa, l’ex colonia portoghese della Guinea-Bissau? Chi sa niente della lotta che la popolazione locale ha sostenuto contro il dominio portoghese a partire dal 1963? C’è qualcuno che sa qualcosa del massacro di Pidjguiti, avvenuto nell’agosto del 1959? C’è qualcuno che sa delle vessazioni crudeli subite dalla popolazione sotto uno dei peggiori domini coloniali – peggiore perfino di quello belga nel Congo – che è stato appunto quello portoghese in Mozambico e nella Guinea-Bissau? E della sporca guerra condotta dai portoghesi con tutti i mezzi, con elicotteri e moderne armi di sterminio, contro i ribelli? C’è qualcuno che sa come la gente è vissuta durante questa guerra di liberazione, rifugiandosi nella foresta, soffrendo la fame, le intemperie, le malattie, ed esposta a tutte le insidie di una guerriglia atroce? E come i capi di questa vera e propria guerra di liberazione africana, pur sprovveduti e sprovvisti di tutto, pur improvvisando e servendosi di mezzi rudimentali, abbiano saputo creare un’organizzazione straordinaria, ospedali da campo, medici, infermieri, collegamenti, propaganda e tutto quel che occorre per sostenere un conflitto impari e alla fine vittorioso? Qui in questo diario – condotto con la castigata scrittura di chi si fa testimone, e con l’occhio che sa vedere dove altri crede di vedere, l’occhio critico del cineasta che trova nel dettaglio e ne particolare la verità di una situazione, - c’è non solo la risposta a tutte queste domande, ma anche il sentimento che l’accompagna, di un’ingiustizia da riparare, che riguarda i portoghesi e la loro sporca guerra. Ma anche l’uomo bianco e la sua colpa incancellabile nei confronti dell’Africa tutta.
Il continente nero, visto dall’alto, è qualcosa di più che nero. È spento. Le fotografie notturne scattate dai satelliti lo spiegano meglio di mille rapporti delle Nazioni Unite sulla povertà: l’Africa di notte è soltanto Egitto, Libia, Algeria, Marocco, Sudafrica, Nigeria e un accenno di Camerun. Il resto è oscurità. Come se non ci fosse nessuno, come se non esistesse nulla. E invece, con quasi un miliardo di abitanti, più di un sesto della popolazione mondiale, l’Africa e gli africani esistono eccome! Soltanto che di notte stanno al buio. E quindi non si vedono. Producendo il 4% dell’elettricità globale, assorbita per tre quarti dai paesi sopra citati, il risultato è che, come ammette la Banca Mondiale, circa 500 milioni di africani della fascia subsahariana vivono senza “energia moderna”. Per ora, non rimane che la lampada a olio. The Economist
Viaggio nella Guinea-Bissau Appunti per un film di Vittorio De Seta 5 – 20 Agosto 1970 da Mercoledì 5 Agosto a Domenica 9 Agosto Il piccolo camion, un ABTO3ABO russo che chiamano GAZ, procede a tutta velocità sulla strada Conakry-Boké (Guinea Republica). Gli autisti africani non badano alle buche della strada, le sorvolano. Il camion prende contraccolpi micidiali; mi devo ancorare, altrimenti batto la testa contro il soffitto. Penso alla cautela con cui certi nostri autisti meridionali centellinano la strada, attenti a risparmiare la macchina. Mi viene da sorridere: una rivoluzione non si può fare con prudenza e il ritmo di questi autisti è proprio quello di una rivoluzione. Vicino a me siede Fernando Cabral, fratello minore di Amílcar e di Luíz. Avrà ventott’anni; ha studiato sette anni a Mosca da medico chirurgo ed è diretto all’ospedale di Boké. È un uomo intelligente. Mi accorgo del gravare di una vaga riserva, che noterò ancora: è come se qui tutti fossero diffidenti, gelosi, nei confronti di un Europeo che viene a interessarsi delle cose loro. La strada è tutta buche. La terra è rossastra di laterite e
argilla, la stessa con cui fabbricano i muri delle case; trattiene l’acqua, così a momenti sembra di navigare in un canale, di essere a Torcello. I colori, i verdi della savana, dell’erba, sono forti, pieni, in Kodachrome. Ogni tanto sbucano dei baobab enormi, alti fino a quaranta metri. La strada è fiancheggiata dalle payottes, che non sono veri e propri villaggi, ma piuttosto case isolate. Le donne guineane circolano fasciate nei pagnes multicolori (gialli, ocra, blu, malachite: colori che hanno infranto la soglia del buon gusto, bellissimi, coraggiosi, sempre intonati), portano turbanti di foggia orientaleggiante. Sono in eterno movimento, come quello delle formiche, sciolto, decontratto. Alcune si fermano a guardare con occhi di antilope, attoniti, fuori dal tempo. Plasticamente le trovo bellissime. Poi mi rendo conto che la gente è bella anche perché in giro non si vedono vecchi. Le case sono rotonde, con un tetto di paglia e davanti o tutt’intorno una verandina dove si svolge la vita quotidiana. Fanno pensare molto, anche troppo, a certe stampe che abbiamo visto da bambini, che parlavano di Livingstone e dei missionari. Sono una delusione, in questo senso: ci si aspetta sempre qualcosa di diverso. Siamo partiti alle due del pomeriggio. La partenza era
7 fissata per la “mattina”. Alle nove e mezzo erano venuti a prenderci in albergo. Ho capito subito (e ho pensato a Orgosolo) che qui vige una dimensione del tempo diversa: da noi, nel “nord”, per partire si stabilisce un’ora e l’azione si articola attraverso i vari responsabili: l’autista prepara il camion, fa il pieno di benzina; altri preparano i bagagli, sollecitano i ritardatari; e tutto converge ordinatamente verso un obiettivo orario prefissato. I ritardi sono ammessi, secondo le latitudini, nell’ordine di un’ora, di mezz’ora, di dieci minuti. In Africa, invece, la partenza è un processo di crescenza, sonnacchioso e placido: chi è pronto non si allarma, né s’infastidisce se altri non lo sono; a un certo punto tutti i partenti sono nel cassone del camion e ne deduci che ormai è tutto pronto; invece qualcuno si allontana a cercare qualcosa; si apre un nuovo ciclo, non si comprende che cosa manchi ancora. Alla mezza, finalmente il camion si è mosso. Nel cassone c’erano bagagli e sette-otto militanti, tra i quali Barry, il mio accompagnatore, e una donna portoghese della Guinea-Bissau. Era scontato che io salissi in cabina. Abbiamo gironzolato ancora per i sobborghi di Conakry a prelevare altri partenti. Saluti, messaggi, pacchetti da consegnare all’ “interno”ad amici e parenti; viene
sempre in mente l’Italia meridionale. E poi, finalmente, la partenza. Ogni tanto si mette a piovere. La gente, dietro, subisce i sobbalzi e la pioggia. Mi sento colpevolmente al riparo. Alle cinque del pomeriggio arriviamo al fiume Fatalà, largo due-trecento metri. Il traghetto è sull’altra sponda. Bancarelle e baracchette che fungono da ristorantini. Dappertutto gente che aspetta. Entriamo con Fernando in una delle baracche; ci servono spezzatino di pollo molto pepato, pane, caffè. Meglio non guardare l’acqua con cui sciacquano i piatti. Ho sete e bevo dell’acqua; dopo, Fernando mi dirà che non bisognava berla. Ma non poteva avvertirmi in tempo? Dall’altra parte del fiume il traghetto non dà segni di vita. Forse è guasto, non si sa. Sono arrivati altri camion, russi, che somigliano ai Fiat. Per scoprire il motore ruotano in avanti tutta la cabina. Due ore dopo, finalmente il traghetto arriva. Ha ritardato a causa della bassa marea, il cui effetto si risente fino a cinquanta chilometri a monte della foce del fiume. Un militante ha la febbre. Gli dò della nivachina. Anch’io non mi sento bene: ho mal di denti, febbre, dissenteria. A mezzanotte arriviamo a Boké; attraversiamo la cittadina, che è un grosso villaggio, e ci arrampichiamo su una collina ove sorgono tre, quattro casette a un piano: la base dei
“Portoghesi”. Un negro massiccio, coi baffi (inconsueti), in vestaglia rossa, si è alzato per riceverci. Ci offre qualcosa da mangiare: riso, pezzetti di pollo, un thermos di caffè. Ci sono due stanze da bagno, una fornita di gabinetto; grossi bidoni di alluminio dipinti, pieni d’acqua. Ci laviamo: la sera, qui, ti ritrovi una patina umidiccia attaccata addosso. Dormo con Barry in una stanzetta in cui ci sono quattro brande fornite di zanzariera. Da Giovedì 6 a Lunedì 10 Agosto rimango a Boké. Il negro coi baffi è Domingo Gómez, il responsabile militare della base. La prima colazione è più “europea” della cena: caffè, latte, zucchero cubano (melassa), pane e una frittatina di cui a ciascuno spetta un pezzetto. Mangiamo a un tavolo tondo, Barry, io, Domingo e Marcel, un responsabile del vettovagliamento. A mezzogiorno si mangia riso e circola una gamellina con dei pezzetti di pollo. Mi servo discretamente e dopo un po’ Domingo, un burbero taciturno ma simpatico, mi allunga un altro pezzetto, che secondo lui mi spetta; poi arriva il caffè. La sera, lo stesso menù. La casa è composta da un ingressosoggiorno-pranzo, da cui si accede a quattro o cinque stanze e ai due bagni. In una delle stanze dorme Domingo con la moglie incinta, in un’altra Marcel. Le altre stanze
10 sono riservate ai militanti di passaggio. Nel soggiorno c’è un grosso frigorifero che contiene bottiglie d’acqua fresca, qualche cetriolo e uova piccolissime. La cucina è più in basso. Ci sono altre case basse che fungono da magazzini e dormitori. Più in alto c’è la stazione radio, ma non l’ho visitata. Capisco che Domingo non ha avuto istruzioni precise a mio riguardo e mentalmente me la prendo con Vasco Cabral, che ha combinato il pasticcio. Comprendo anche che Barry non è un organizzatore nato: ti sta a sentire ma poi si distrae. La mattina successiva al mio arrivo parte un camion per Madina Boé, nella zona sudorientale, ma non c’è il tempo di decidere di partire: cerco di mettere a fuoco la situazione con Domingo e Barry, ma tutto naufraga nell’indeterminatezza. C’è un ponte rotto sulla strada per Kandiafarà, dove siamo diretti: bisognerà aspettare che lo aggiustino. Fino a Kandiafarà ci sono novantaquattro chilometri. Non riesco a mettere gli occhi su una carta geografica. Ogni tanto Domingo ne tira fuori una ma poi la rimette via. Non insisto per studiarla, perché penso si tratti di una carta militare: in fondo non mi conoscono bene, e non vorrei apparire indiscreto. Comunque, sentir parlare dei luoghi e delle
11 destinazioni senza sapere dove sono e a che distanza, mi provoca uno stato di malessere. Intanto cerco di “spremere” Barry più che posso. Parliamo della situazione prima della lotta. Avverto la necessità, nella storia, di dare in qualche modo il “prima”, in modo da giustificare la lotta armata. I Portoghesi avevano diviso la Guinea in regioni e in distretti; ogni distretto era affidato a uno chef de poste, cioè un funzionario amministrativo, che aveva alle sue dipendenze i cypaios, una milizia armata composta di Africani, con sottufficiali e ufficiali però Portoghesi; lo chef de poste poteva essere anche un meticcio. I cypaios vestivano una divisa kaki, un berretto chechia rosso, shorts. I Portoghesi, non so. Oggi indossano tutti divise mimetiche. Una scena tipica era la riscossione delle imposte. Lo chef de poste si recava in un villaggio con la truppa, s’insediava nella casa del capo villaggio, metteva una tavola all’aperto e poi faceva l’appello. I capofamiglia, gli homen grandes, venivano tassati in proporzione al numero delle mogli (forse anche a quello dei figli). La moneta era quella portoghese, oppure pagavano in natura, con olio di palma o d’arachidi. Le variazioni dello stato di famiglia erano denunciate dal capo
12 del villaggio. Gli insolventi spesso venivano percossi sul posto. Potevano essere condannati ai lavori forzati (spesso li inviavano a São Tomé). I lavori forzati consistevano nella costruzione e nella manutenzione delle strade e venivano eseguiti sotto la sorveglianza delle forze armate. I capi dei villaggi spesso erano dei foulas, gruppo etnico di religione musulmana, già strutturato feudalmente, che tendeva a distinguersi dagli altri gruppi, animisti. I Portoghesi, secondo una tattica tipica del colonialismo, facevano leva sulle differenze di razza e di religione. I contadini erano poverissimi e dopo l’esazione delle imposte restava loro a malapena di che vivere. I soldati razziavano animali o li prendevano in conto pagamento delle imposte; naturalmente i soprusi erano all’ordine del giorno. Un giornalista senegalese mi ha raccontato come di frequente un Portoghese, in giro per cacciare, si divertisse a sparare su un Africano arrampicato in cima a una palma per raccogliere l’olio; forse c’è un po’ d’esagerazione in questi racconti. Mi sono formato l’idea che in sostanza i Portoghesi erano un popolo sottosviluppato che ne sfruttava un altro, ancor più sottosviluppato, con un sistema coloniale
13
14 anacronistico, di rapina. Non c’era discriminazione razziale, almeno sotto il profilo sessuale, come stanno a testimoniare i numerosi meticci: gli uomini portoghesi si accoppiavano liberamente con le donne africane. Si facevano portare in caserma le donne che a loro piacevano; non so se in alcuni casi le sposassero, ma non è escluso. C’era invece una discriminazione rigidissima dal punto di vista sociale: gli “indigeni”, il 99,7% della popolazione, erano discriminati per statuto. Non potevano possedere terra, non potevano spostarsi da un luogo all’altro senza autorizzazione, venivano giudicati da un tribunale in cui il giudice era anche parte civile e pubblico ministero. Potevano diventare assimilados, cioè essere equiparati ai Portoghesi, soltanto se parlavano e scrivevano correntemente il portoghese e se possedevano mezzi di fortuna necessari al sostentamento della propria famiglia. Il che naturalmente creava un circolo vizioso: dove imparare a leggere e scrivere se non c’erano scuole? (Inoltre dovevano essersi sempre dimostrati ligi al governo, cioè aver dato prova di buona condotta.) La situazione sanitaria era disastrosa: un solo medico ogni centomila abitanti. La mortalità infantile era (è) dell’80%,
15 l’età media, credo, sui trentacinquequarant’anni. In sostanza, la Guinea portoghese era un grande campo di concentramento. La mancanza di turismo e di scambi commerciali favoriva la congiura del silenzio. E questo è durato fin quasi agli anni Sessanta. (I nazionalisti oggi scherzano dicendo che alle condizioni indispensabili per essere assimilados potrebbe soddisfare sì e no il 20% della popolazione portoghese metropolitana. Anche lì l’analfabetismo e il sottosviluppo imperversano!) In sostanza, si trattava di poveracci che sfruttavano e malversavano altri poveracci. I Portoghesi esportavano soprattutto olio d’arachidi: imponevano dunque la coltura dell’arachide a svantaggio di quella del riso, destinata soprattutto al consumo interno; per cui ai contadini non rimaneva abbastanza da mangiare. Il Partito oggi ha rimesso le cose a posto: nelle zone liberate si programma già la produzione. Le tappe fondamentali del Movimento di Liberazione nazionale sono: Settembre 1956: fondazione del Partito. 3 Agosto 1959: massacro di Pidgiguiti (la polizia sparò sui dockers di Bissau che rivendicavano miglioramenti salariali. 50 morti e molti feriti). 3 Agosto 1961: passaggio all’azione
16 diretta (sabotaggi alle strade, ai telefoni, alle poche ferrovie). Gennaio 1963: passaggio alla lotta armata. Il ’60, ’61, ’62 furono gli anni dell’incubazione rivoluzionaria. I fondatori del Partito, Amílcar Cabral in testa, si trovarono a dover affrontare una situazione del tutto atipica: non c’era una classe operaia e nemmeno una borghesia, se si esclude una piccola borghesia urbana. I rivoluzionari stessi erano piccolo-borghesi, figli di assimilados (lo dicono quasi con fierezza, oggi). La gran massa della popolazione era composta da contadini ignoranti e denutriti. Bisognava dunque agire sui contadini, superare le discriminazioni interne razziali, tribali, religiose. Cabral conosceva bene la reale situazione del Paese, avendolo perlustrato in lungo e in largo per due anni in qualità di esperto agronomo alle dipendenze dello stesso governo portoghese. Bisognava dunque mobilitare i contadini, condizione preliminare per il successo della lotta. Ai contadini non si può parlare in termini astratti di libertà, di indipendenza, di nazionalismo, altrimenti ti voltano le spalle e se ne vanno. Bisognava far leva sui loro interessi, sulle loro condizioni materiali, e nello stesso tempo liberarli dall’atavica, quasi superstiziosa paura dei bianchi.
17 Cabral e gli altri scartarono la soluzione del focusé guevariano (non so se a quell’epoca era stata ancora postulata), così come scartarono il terrorismo urbano e, fenomeno senza precedenti -credo almeno in Africa-, si dedicarono alla mobilitazione delle masse contadine. Per prima cosa formarono un nucleo d’azione composto di elementi prevalentemente urbani; poi partirono alla conquista delle campagne. E tutto questo venne realizzato, mi sembra, in modo abbastanza empirico, cioè praticamente, senza troppe complicazioni di carattere ideologico e dottrinario. Per farlo dovettero sottoporsi loro stessi a un processo di reafricanizzazione: sussisteva infatti il problema della lingua. Essendo loro stessi figli di assimilados, parlavano il portoghese e il creolo e avevano dimenticato la lingua del loro gruppo etnico originario; quindi dovettero impararla di nuovo. Poi si divisero in gruppi e cominciarono a infiltrarsi nel Paese dal Senegal e dalla Guinea Republica. In ogni gruppo, almeno uno di loro parlava la lingua locale (il balante, il mandingue, il foulas) ed era preferibilmente originario del posto. Per passare inosservati i militanti si vestivano da contadini, benché i contadini si accorgessero subito che erano stranieri. I militanti si avvicinavano a
18 un villaggio, s’informavano sulle tendenze politiche del capo e, se le informazioni erano rassicuranti, andavano a fargli visita. Si erano addestrati a lungo alla bisogna. Il capo del villaggio li invitava a mangiare, spesso offriva quello che aveva: soltanto riso. Parlavano delle condizioni economiche, dei Portoghesi che li spolpavano, e un po’ alla volta parlavano del Partito e della lotta di liberazione. I vecchi spesso nicchiavano; qualcuno diceva: “Noi non sappiamo fabbricare neppure un fiammifero e i Portoghesi hanno le armi, i mezzi.” Ma i giovani stavano a sentire. Dopodiché i militanti si ritiravano nella foresta. La gente del villaggio portava loro da mangiare e l’opera di proselitismo e di persuasione continuava. Si costituirono così dei comitati di villaggio. Intanto era cominciata la repressione. I Portoghesi ritennero di poter soffocare il movimento sul nascere col terrore. Arrestarono, deportarono, torturarono. Non sono riuscito a raccogliere molto materiale in proposito, ma pare che si attuassero le peggiori efferatezze. I corpi squartati furono esposti per giorni come monito; i villaggi furono rastrellati alla ricerca di armi, e coll’occasione saccheggiati. Le donne furono violentate; gli uomini, se si ribellavano, venivano percossi e
19 uccisi. La PIDE, la famigerata polizia politica portoghese, agiva invece soprattutto nelle città. Nel dolore, nel sacrificio, nel terrore, cominciò a formarsi lo spirito nazionale, unitario. Nel ’63 il Partito decise che ormai la situazione era matura per passare alla lotta armata; tutto il Paese ormai, il Sud soprattutto, era costellato di comitati d’azione. Il ’64 e il ’65 furono gli anni più terribili: i guerriglieri non avevano armi e dovevano strapparle al nemico. Quello fu anche il periodo delle imboscate: non disponendo di mine, scavavano delle fosse ben dissimulate; il primo mezzo del convoglio portoghese ci cadeva dentro e i militanti, con le poche armi che avevano (un mitra, tre pistole e qualche bomba a mano per ogni unità di combattimento), cominciavano a sparare. I mezzi dei Portoghesi spesso s’incendiavano. I Portoghesi chiedevano rinforzi per radio e si ritiravano, i militanti s’impadronivano delle armi. Immagine: si potrebbe descrivere l’imboscata inquadrando i volti dei guerriglieri immobili, dissimulati tra le foglie, le fronti imperlate di sudore, combattuti tra odio e paura. Si sentono i motori delle macchine che si avvicinano lentamente, e i militanti,
20 giovani contadini in gran parte, devono affrontare il momento della violenza, dell’uccisione, scuotersi di dosso un complesso di asservimento, di soggezione durato cinque secoli. Montare in parallelo il convoglio che si avvicina. Altri contadini, bianchi, atterriti anche loro, le mani strette sulle armi. Il convoglio è formato da camion Mercedes Unimog e da una jeep. Sulla jeep, oltre all’autista, c’è un capitano o un tenente, un graduato e il marconista addetto alla radio. Hanno mitra G3. Sui camion c’è una mitragliatrice bipiede (tiratore e munizionatore) puntata in avanti, altri uomini armati di mitra, qualche tiratore scelto armato di Mauser. Forse anche un bazooka. Il convoglio procede a passo d’uomo perché sospetta la trappola. Poi un dosso che bisogna superare di slancio, e proprio lì i militanti hanno scavato la fossa. La sparatoria e i Portoghesi che si ritirano, le macchine che bruciano, i guerriglieri che tolgono le armi ai caduti e la radio che continua a gracidare. Potrebbe essere anche un buon inizio, se non ci fosse la necessità di raccontare il “prima”, il “perché” di tutto. D’altra parte, una scena come quella dell’esazione delle imposte avrebbe un carattere “fabbricato”, da film fatto in tempo di pace, non in
21 tempo di guerra. Un film realizzato in tempo di guerra deve avere, mi sembra, un tono immediato, da reportage, aneddotico, più consono alla realtà ancora in atto. Bisogna trovare il giusto equilibrio tra il momento documentario e il momento della finzione, a vantaggio del primo. I militanti evitavano ed evitano azioni di guerra nelle vicinanze dei villaggi, appunto per proteggerli dalle rappresaglie. Dopo l’inizio delle ostilità la maggior parte dei villaggi che erano prossimi alle strade furono abbandonati, e la gente si trasferì in un villaggio vicino (l’ospitalità è grande), oppure si costruì un altro villaggio lontano dalla strada (sette-otto chilometri) e preferibilmente nella foresta, dal momento che già cominciava il pericolo aereo. L’esodo, l’evacuazione del villaggio, mi sembra uno dei motivi ricorrenti della lotta armata in Guinea portoghese. I villaggi sorgevano generalmente allo scoperto, vicino alle risaie. D’altra parte la foresta, specie durante la stagione delle piogge, è molto umida e oscura. Infine, e questo mi sembra interessante, la foresta prima della lotta di liberazione era un luogo tabù perché sede degli irans, gli spiriti della religione animista; entrare nella foresta per un indigeno era un’imprudenza: avrebbe potuto irritare un iran, che poi
22 si sarebbe vendicato. Gli irans, a quanto ho potuto capire, sono dei numi tutelari locali: ogni villaggio, ogni casa, ha il suo. Presso le case dei contadini sorgono delle casette quadrangolari, specie di tabernacoli coperti di paglia, alte un metro circa: le case dell’iran. Dentro non ho guardato, per discrezione. Mi hanno detto che spesso c’è una pietra: il feticcio, cioè la materializzazione dello shiran (l’iran può anche risiedere in un albero). Su uno di questi tabernacoli ho notato delle macchie di sangue: evidentemente avevano sacrificato un pollo o un agnello, nei giorni precedenti. Mi è stato assicurato che non lo mangiano, il pollo: lo offrono veramente all’iran. Gli irans non sono né buoni né cattivi: sono potenti e bisogna propiziarseli. Se un bambino si ammala, pensano che l’iran sia offeso o irritato, e allora fanno un sacrificio. Ci sono anche dei guaritori o stregoni che fungono da intermediari con gli irans. Nel caso di un bambino malato, il guaritore interviene gratis e consiglia ai genitori un’erba o un decotto. Nel confezionarlo o nel somministrarlo, pronuncia formule magiche. Se invece qualcuno va dallo stregone per vendicarsi di qualcun altro, per affatturarlo tramite un
23 maleficio, allora lo stregone si fa pagare, credo in natura. Su questi argomenti non ho avuto il tempo d’informarmi: temevo che un mio interesse troppo accentuato potesse infastidire i responsabili. Invece poi m’è sembrato di notare che di fronte a questi problemi essi assumono un atteggiamento piuttosto distaccato e realistico. Abilio Duarte mi dice che la politica del Partito nei confronti del mondo magico e della religione primitiva è quella di operare un graduale distacco della popolazione da essi, soprattutto attraverso l’incremento dell’istruzione. Nello stesso tempo però ci si propone di accertare la validità e di appropriarsi dei principi medici in possesso dei guaritori. I guaritori si tramandano gelosamente la loro scienza, di padre in figlio, e custodiscono i loro segreti, base del loro potere. Non v’è dubbio che questa scienza medica empirica, frutto di millenni di esperienza, contenga dei principi validi; naturalmente esiste anche la ciarlataneria. Il giornalista senegalese Mamless Dia, che ho incontrato a Kandiafarà, mi raccontava che nel Senegal interno, a trecento chilometri da Dakar, vive un guaritore capace di sanare una frattura complessa in un giorno; una semplice lussazione la
24 guarisce invece seduta stante. Vanno da lui anche alte personalità dello Stato. “Sono sicuro,” mi diceva, “che in qualche parte dell’Africa c’è un guaritore capace di guarire il cancro. Bisogna trovarlo, ma c’è!” Per tornare all’atteggiamento dei responsabili del Partito, questi mi sono sembrati piuttosto spregiudicati. Non hanno censure di carattere positivistico. Sono molto aperti, moderni, possibilisti e a quanto pare non hanno complessi in proposito. Bisogna ricordare che Amílcar Cabral, Abilio Duarte, Pedro Pires e molti altri sono meticci, spesso figli di assimilados, cioè a metà strada fra noi e l’uomo africano. Mentre ero a ‘Ntchintchi Darì e parlavamo di questi problemi, Abilio Duarte chiamò un militante, una specie di attendente, silenzioso, molto gentile come la maggior parte dei semplici militanti. Gli domandò del tchuru o tchouru, cioè del lamento funebre; voleva informarsi anche lui. L’attendente, proprio in quei giorni, gli aveva chiesto il permesso di recarsi in un villaggio lontano per partecipare a un tchuru in onore di un suo amico militante caduto in combattimento. Il tchuru si svolge nel villaggio d’origine del defunto, spesso qualche tempo dopo la morte, anche se la salma è stata seppellita altrove come
25
26 nel caso dei militanti. Tutti i parenti e gli amici vanno a casa del defunto a fare le condoglianze. Ognuno porta qualcosa, quello che ha: un maiale, un capretto, un paio di polli: una specie d’indennizzo per compensare la famigllia del morto della perdita; una forma di mutua, tutto sommato. Credo che venga fatto anche un banchetto. Esitavo a informarmi, sempre a causa del mio complesso di discrezione; ma Abilio sventava subito l’aura di mistero che si era creata ridendo allegramente. “Del resto,” diceva, “da noi, quando muore qualcuno, non vanno tutti a fare le condoglianze? I familiari non si vestono di nero e le donne non si coprono il capo con un velo? E non si fa la veglia funebre? E non si celebra la messa bruciando incenso e pronunciando frasi in latino?” Demitizzava allegramente. Probabilmente Abilio è cattolico. Invece l’attendente rimaneva chiuso e timido; avevo l’impressione che non gli piacesse parlare di quegli argomenti-tabù, o forse era a causa dell’affetto che lo legava all’amico morto. Tra i combattenti nascono delle amicizie che sono molto più intense di quelle che si possono riscontrare tra noi. Qualcosa di simile si poteva vedere, almeno sino a qualche tempo fa, nel sud Italia: una specie di amicizia viscerale, una vera e propria identificazione, un’unione di spiriti.
27 Ho notato spesso due militanti amici che s’incontravano. Si tenevano per mano a lungo, guardandosi negli occhi, con espressioni di vero amore. Da noi, un atteggiamento simile potrebbe far sospettare l’omosessualità; da loro, non si viene neanche sfiorati dal dubbio. Per concludere l’argomento della foresta e degli irans, vi è da dire che la lotta di liberazione ha capovolto la concezione originaria e arcaica della foresta: da luogo sacro inaccessibile e ostile è diventata il rifugio dei combattenti e della popolazione, che vi si nascondono per proteggersi soprattutto dagli attacchi aerei dei Portoghesi. Comunque, ancora oggi i vecchi scuotono il capo, meravigliandosi che i miltanti osino muoversi così impunemente nelle foreste, specialmente di notte. Sarebbe interessante approfondire come nel passato la gente dei villaggi risolvesse il problema dell’approvvigionamento di legna. Chi andava nella foresta, le donne o gli uomini? Prendevano delle precauzioni? Facevano degli scongiuri? I morti: mi è stato detto che in caso di morte naturale il morto viene esposto fuori di casa. Tutti vengono a fare le condoglianze. Mi sembra che la credenza animistica insegni che i morti vanno in un mondo migliore; dunque
28 la morte non è un fatto del tutto triste. Al cimitero (non so se gli animisti abbiano cimiteri, i musulmani li hanno) vanno soltanto gli uomini. Le donne restano a casa. Non esistono bare a quanto mi risulti. Torniamo al tema dell’esodo, dell’evacuazione dei villaggi. Dal ’63 a oggi il movimento di Cabral ha liberato i due terzi del territorio. I Portoghesi però hanno mantenuto il controllo di campi trincerati e di fortezze anche nelle zone libere, e vi si sono arroccati, facendosi rifornire per via aerea. Tutti i campi portoghesi hanno una piccola pista d’atterraggio; spesso sorgono lungo i fiumi e così possono essere raggiunti anche per via d’acqua. Le strade invece, tranne la strada dell’Est (Bissau, Bambidinca Bafatà) e poche altre, sono ormai inutilizzabili perché esposte alle imboscate dei militanti. Così sono ormai invase dalla giungla e minate (dai militanti). Ne ho vista qualcuna: sono delle specie di valli aperti nella foresta. In una ho scorto la carcassa di un camion portoghese bruciato: volevo fotografarla ma mi hanno sconsigliato a causa delle mine. Per fare un esempio, se nel Lazio la zona tra Roma e il Circeo fosse una zona liberata, rimarrebbero dei campi portoghesi a Casalpalocco, Pomezia e Latina.
29 I Portoghesi controllano lo spazio aereo e parzialmente, grazie alle motovedette e alle cannoniere, i fiumi e il mare; il Movimento di Liberazione, invece, ha il controllo della terraferma. I Portoghesi, non potendo più utilizzare le strade, non si possono servire di automezzi, anche corazzati; a piedi sarebbero troppo esposti alle imboscate. Così, in sostanza, la loro guerra è diventata soprattutto una guerra aerea. Vi sono aerei da ricognizione (mouchards) che perlustrano continuamente le zone liberate. Se vi scorgono del movimento, nei villaggi o nelle radure delle foreste, possono anche eccezionalmente intervenire subito, mitragliando e lanciando piccoli razzi; ma il più delle volte non succede niente. Dopo qualche giorno però, di sorpresa, all’alba o alle 13, cioè in momenti in cui si ritiene che militanti e popolazione possano essere colti di sorpresa, arrivano i jet o i bombardieri. I jet sono perlopiù Fiat G91, cioè cacciabombardieri subsonici. (I Fiat G91 devono essere i meno cari sul mercato e vengono forniti dalla Germania Occidentale.) I jet si avvicinano all’obiettivo mantenendo generalmente una quota di cinquecento metri e poi attaccano in picchiata con bombe (anche al napalm o al fosforo bianco) oppure con razzi e
30 mitragliatrici. Sparano su tutto ciò che si muove: militanti, popolazione, animali. Infatti nelle zone liberate, i Portoghesi non fanno distinzione tra militanti e popolazione civile. Questi attacchi avvengono di solito nella stagione secca (15 Novembre15 Maggio), dato che nella stagione delle piogge le nuvole impediscono la visibilità. Un po’ alla volta, in seguito a questi attacchi, la popolazione si è ritirata nella foresta, dove vive stabilmente in villaggi di fortuna costruiti con legno e paglia. Vi sono però alcuni gruppi etnici, per esempio i Balantes, che non si sono mai rassegnati ad abbandonare i propri abitati. Mi hanno raccontato di villaggi che sono stati ricostruiti tre-quattro volte (muri di argilla e tetti di paglia): i Balantes li ricostruiscono con la pertinacia delle formiche. Comunque, anche i Balantes, di giorno, nella stagione secca, abbandonano i villaggi e si ritirano nella foresta. Per fortuna, la stagione secca non è un periodo di grandi lavori agricoli: il riso infatti si semina a partire da Agosto e si raccoglie sino a Marzo-Aprile. Così nella stagione delle piogge si lavorano i campi. Accade talvolta, e me l’hanno raccontato a Botche Dau, che per qualche anno non bombardino un certo villaggio: allora gli
31 abitanti riprendono sicurezza e un po’ alla volta tornano a viverci. Ed è a questo punto che, spesso di sorpresa, si verifica il bombardamento o l’attacco degli elicotteri. Episodi: una volta un mouchard si mise a sparare con la mitragliatrice su un gruppo di militanti e di civili (compresi donne e bambini) che stavano attraversando un tratto scoperto di una strada ancora controllata dai Portoghesi. Un contadino rimase ferito a una gamba e fu trasportato poi con una barella improvvisata. È consuetudine, quando si attraversa una zona contesa (litigée), che i militanti accompagnino la popolazione. Quella volta i civili potevano essere quindici o venti; i militanti, una pattuglia di sette. La barella è una specie di scaletta fatta con due pali tenuti insieme da traverse fissate con liane. I feriti non si lamentano molto, per una forma di sopportazione stoica del dolore. Ma su questo torneremo. Per concludere, l’esodo dal villaggio mi sembra un tema importante. Le donne e gli uomini vanno via portando quello che possono sulla testa; poi tornano timidamente e cercano di recuperare qualcosa tra le macerie fumanti. I Portoghesi infatti incendiano tutto: nella stagione secca la paglia brucia con estrema facilità; incendiano il riso se è ammucchiato in covoni nei campi; incendiano anche
32 il riso raccolto nelle giare, per togliere ogni mezzo di sussistenza ai militanti, per fare terra bruciata. La popolazione entra nei boschi: le donne, e i bambini soprattutto, hanno paura dei boschi, un terrore atavico, specialmente di notte. Si sente il vento che agita le fronde degli alberi (un suono particolare, l’ho sentito) e loro pensano che sia il respiro, il fruscio degli irans. Possono costruirsi dei rifugi provvisori, oppure più probabilmente dormire all’addiaccio le prime notti; oppure ancora, appoggiarsi a una base di militanti. Ma questa soluzione mi sembra improbabile: i miltanti, infatti, cercano di non coinvolgere e compromettere la popolazione. Può darsi invece che una pattuglia di militanti rimanga a protezione della gente. Fuochi non se ne possono accendere, credo, altrimenti potrebbero essere individuati dall’aviazione. Dunque ristagna nell’aria un terrore misterioso, acuito dall’oscurità. A ogni rumore si tende l’orecchio. Il ritorno nella foresta mi sembra un fatto simbolico: una regressione a uno stato originario, un momento di paura e poi di presa di coscienza. Immagino che tutti parlino a bassa voce e che si raccontino storie di antiche superstizioni.
33 Infine, la gente si trova a dover vivere nei boschi. I primi tempi i Portoghesi erano forti e controllavano ancora le strade. I contadini andavano a costruirsi il villaggio nel folto della foresta; confondevano e dissimulavano i sentieri, cosÏ che neanche le guide dei Portoghesi riuscivano a raccapezzarcisi. Spesso i Portoghesi, in pattugliamento diurno, passavano vicino al nuovo villaggio senza scorgerlo. Si potrebbe inserire un episodio di un neonato che piange e che rischia di attirare l’attenzione del nemico. Quando l’incursione aerea cessava, i contadini tornavano di sera alle case per recuperare quello che potevano. Frugavano tra le macerie. C’erano forse da seppellire le vittime del bombardamento: le esequie dovevano essere sommarie, rapide. Il riso era tutto bruciato, quasi tutto. Il riso nei villaggi viene conservato in giare. Prima le giare erano grandi, costruite sul posto con argilla e pietre, alte piÚ di due metri: delle vere botti per il riso. Questo infatti si poteva spillare dal basso, oppure erano i bambini e i ragazzi a entrare nella giara e a passarlo fuori. La giara grande del riso era insieme un silo e una cassaforte, dato che il riso serviva anche da moneta, per pagare, per barattare. Se un bombardamento avveniva in Marzo-Aprile, alla fine del raccolto, la
34 situazione era drammatica: si profilava lo spettro della fame e c’era da affrontare un intero anno senza mezzi di sussistenza. Così si può immaginare la frenesia con cui gli uomini, le donne soprattutto, che di soppiatto erano tornati al villaggio incendiato la sera o alle prime luci dell’alba, rovistavano tra le macerie fumanti alla ricerca di qualche pugno di riso salvatosi dall’incendio. Stavano accoccolati, da lontano dovevano sembrare dei quadrumani. Si guardavano intorno terrorizzati, i nemici potevano tornare anche dal cielo; e alla fine strisciavano, selvaggina umana, nei loro rifugi nella foresta. La guerra pesava nella sua spietata contingenza di fame e di distruzione; eppure non credo vi fossero ripensamenti, deplorazioni, recriminazioni. Non credo vi siano stati attriti fra popolazione e militanti a causa dei bombardamenti, delle stragi, della distruzione. Mi ha colpito quanto sia dappertutto diffuso l’atteggiamento di predestinazione, di accettazione della guerra, forse anche a causa di una componente fatalistica, oppure dell’incapacità dell’uomo arcaico di concatenare gli effetti con le cause. Uomini e donne della popolazione ti mostrano piaghe e ferite come se fossero effetti di una catastrofe naturale, di un terremoto,
35 di un uragano, non opera dell’uomo. Non c’è retorica, vittimismo, accusa diretta nel loro atteggiamento, ma solo una forma di constatazione, qualcosa d’inconsapevole, di toccante, soprattutto negli umili. Eppure senti che su quel terreno arcaico germina la coscienza del proprio essere individuale sociale, nazionale. Non è esagerato affermare che la lotta non è soltanto di liberazione dall’oppressione coloniale, ma anche da un’esistenza al di fuori del tempo, preistorica: un salto brusco, un precipitarsi dall’età del Ferro verso l’era Atomica, il recupero rapido e doloroso di cinque secoli d’interruzione provocati dallo schiavismo e dal colonialismo. In una società contadina basata sul comunismo primitivo, in cui non esiste proprietà privata e accumulazione di capitale, il mutuo soccorso dev’essere qualcosa di molto diverso da come lo conosciamo noi. A Botche Dau, un villaggio che ho visitato e che fu distrutto proprio alla fine del periodo del raccolto, mi hanno raccontato che gli abitanti vissero del soccorso (sarebbe sbagliato parlare di carità) dei villaggi vicini; penso che questo sia avvenuto in maniera abbastanza semplice, naturale. Quando sono partito da Conakry con Barry, ci avevano fornito una scorta di zucchero,
36
37
38 caffè, latte, carne in scatola e sapone. Inoltre io avevo sigarette e un po’ di whisky. Non mi ci è voluto molto per comprendere che Barry non considerava quella roba “nostra”. Ogni mattina, per evitargli l’imbarazzo di chiedermele, gli davo un pacchetto di sigarette. Dopo un po’ però le finiva, perché le regalava agli amici e ai compagni. Le sigarette me le domandava senza molto imbarazzo. In ogni posto dove ci fermavamo regalava caffè, zucchero, sapone. Un pacchetto di caffè veniva aperto e poi lasciato ai compagni che ne avevano bisogno. In tutto questo non c’era alcuna previdenza, alcuna idea di “scorta”, di fabbisogno. A un certo punto fui costretto a razionare le sigarette, spiegando a Barry che non potevo privarmi di quel minimo di conforto. Non credo che abbia ben capito, o forse sono stato io a non capire. Per lui la soluzione era semplice: finché qualcosa c’era, lo si consumava, e poi in qualche modo si sarebbe provveduto. Se non c’erano più sigarette americane, si sarebbero fumate quelle russe o quelle cubane, oppure non si sarebbe fumato per niente. Ma a quel punto nessuno più avrebbe fumato, perché nessuno lì tiene niente per sé. Confesso che mi vergognavo un
39 po’ alla fine a bere una sorsatina di whisky la sera, da solo, pur considerandolo un medicinale. Altrettanto credo sia avvenuto per i contadini: bisognerebbe accertare come ha funzionato e funziona il mutuo soccorso. Col tempo i contadini si abituarono, a causa delle incursioni, a stivare il loro riso in giare più piccole, trasportabili, che nascondevano sottoterra, lontano dal villaggio, così se questo veniva incendiato il riso almeno si salvava. E a poco a poco, nelle capanne rimase solo il minimo indispensabile. A Botche Dau, nella capanna della prima moglie dell’homen grande, ho visto una cesta preparata con dentro il minimo indispensabile in caso di fuga improvvisa; era sempre lì, pronta. La conseguenza dei bombardamenti nelle zone liberate e contese, dove vige un’economia di sussistenza locale, dove cioè le famiglie possono fare assegnamento solo sul raccolto del riso e dell’olio di palma, è la fame. Non c’è moneta, non ci sono rifornimenti, l’unico modo per procurarsi del riso, oltre il mutuo soccorso, sono gli scambi in natura. Le donne allora percorrono lunghi tragitti (da Moraes a Saraa, per esempio), molti giorni di cammino per barattare merci, per esempio sale con riso. Le donne sono
40 fortissime: possono camminare sino a dodici ore al giorno senza mangiare. A Botche Dau ho provato a sollevare il pestello con cui le infermiere pulivano il riso. Era di legno duro, pesante. Non so se sarei riuscito a tenere il loro ritmo. Altra particolarità: le madri si portano sempre il bambino appresso, legato sulla schiena. In alcune tribù allattano i figli sino al terzo anno di età e li portano sempre con sé: è una questione di tradizione. Ho chiesto se possono magari affidarli a una sorella, a un’amica; mi hanno detto di no. Generi che si scambiano: sapone (sabão preto), riso, olio di palma, sale. Ho pensato alla storia di una donna, la madre del ragazzo forse, che fa uno di questi viaggi. Bisognerebbe approfondire l’inchiesta. Dove si fermano, le donne, la sera? Conoscono gente nei villaggi sulla strada? Che fanno se non conoscono nessuno? Vengono ospitate? Come? Organizzazione delle unità combattenti. Al principio i gruppi di combattimento si formavano localmente, su iniziativa del comitato di villaggio. Le reclute facevano l’addestramento nella zona stessa (insieme di villaggi) con il comandante del gruppo; non appena avevano imparato a maneggiare quel po’ di armi che c’erano, passavano alla lotta armata. Da qualche
41 tempo, invece, le unità di lotta sono state organizzate diversamente: adesso ci sono i bi-gruppi, composti da cinquantadue uomini. Il bi-gruppo deriva dalla fusione di due gruppi. Mi sembra che a ogni bigruppo siano assegnati un capo, un commissario politico, due capigruppo, forse altri graduati, e un infermiere capace di prestare le prime cure ai feriti. Questi bi-gruppi, a quanto ho capito, non sono di stanza in un luogo preciso, anche se ovviamente agiscono in un ben determinato settore. Il bi-gruppo non ha una base come l’aveva il gruppo di villaggio: si sposta continuamente, può appoggiarsi a basi già esistenti sul territorio ma non ne ha una propria. Insomma, fa leva sulla massima mobilità e la minima probabilità di essere individuato dal nemico in seguito a un’informazione, a una delazione. Il bi-gruppo è in eterno movimento; può attaccare un forte da diversi lati per poi dileguarsi; essere chiamato a unirsi ad altri bi-gruppi per compiere un’azione complessa e poi tornare al suo compito fisso, che mi sembra sia l’harcèlement di un forte. È una lotta che richede un gran dispendio di energia e grossi sacrifici, soprattutto nella stagione delle piogge, perché allora si tratta di vivere sotto la pioggia attraversando a piedi
42 fiumi e risaie, dormire all’addiaccio, restare diversi giorni a digiuno. In Guinea infatti si mangia solo quando ci si può fermare, perché solo allora si può cuocere il riso; altrimenti non si mangia niente, al massimo qualche tubero di manioca. Mi ha colpito l’estrema mobilità di ogni cosa. In Guinea tutto si muove, si sposta: non soltanto gli uomini, ma anche i villaggi, i campi-base, gli ospedali da campo, perfino i sentieri. Un campo-base dopo qualche mese al massimo si sposta. È un eterno disfare e ricostruire. Per fortuna la paglia abbonda e il legno non manca. Accade che un gruppo di militanti nella notte, pur essendo pratico dei sentieri e del posto, non riesca a trovare una base, e allora dorme sotto la pioggia, in modo da offrire il minimo bersaglio al nemico e confondere gl’informatori, che purtroppo non mancano. Un episodio dovrebbe essere incentrato sull’attività di un bi-gruppo, per dare l’idea di questo continuo errare diurno e notturno, di questo suo adattamento alle circostanze, sempre pronto a colpire non appena se ne presenti l’occasione per poi ripiegare e dileguarsi in caso di pericolo. Non so se in un’emergenza i guerriglieri si dividano in piccoli gruppi e come facciano a ritrovarsi. Comunque, la tattica
43
44 e la strategia del PAIGC sono ispirati al principio di procurare al nemico il massimo dei danni subendo il minimo delle perdite. Non potrebbe non essere così, dal momento che, nonostante la loro attuale migliore organizzazione, i guerriglieri dispongono al massimo di mortai, di cannoni senza rinculo, di mitragliatrici, di bazooka, di mitra, cioè tutte armi che si possono portare sulla testa, smontate quando sono pesanti. Non esistono infatti animali da trasporto come cavalli, muli, asini; i buoi ci sono, ma non vengono impiegati nel lavoro, neanche dai contadini. Non ho mai visto carri. Ho chiesto a Barry se un giovane combattente provasse sgomento alla prima prova del fuoco. Mi ha risposto che è improbabile: un giovane di diciott’anni conosce già la guerra: fin da ragazzo ha subito bombardamenti, mitragliamenti, eccetera. Non si può parlare dunque di battesimo del fuoco. I Portoghesi potevano imbattersi per caso in un villaggio o essere informati della sua esistenza. Attaccavano da una parte (spesso i villaggi sorgono accanto ai fiumi), sparavano, incendiavano. La gente scappava con quello che aveva addosso. I Portoghesi attaccavano (attaccano) i villaggi nella speranza di attirare i guerriglieri e d’impegnarli in combattimento. In
45 Dicembre s’incomincia a raccogliere il riso. Viene ammucchiato in covoni sui campi per farlo seccare. Pare che non si possa trasportare subito. I Portoghesi, se erano a piedi, incendiavano i covoni. Oggi possono calare con gli elicotteri e incendiare le case e il raccolto. Ricostruzione dei villaggi. I Balantes impastano argilla e foglie di riso con i piedi. Con questo materiale costruiscono le pareti. In Gennaio e Febbraio spesso si incendia l’erba che è alta due metri. S’incendia dopo il raccolto del riso, del miglio, dell’arachide. Si può incendiare per caso; oppure l’incendiano i contadini stessi per scacciare gli animali. L’incendiano anche i Portoghesi perché nell’erba la gente si nasconde bene. Un po’ d’erba viene messa da parte a seccare per fare i tetti delle case. L’erba alta si presta a spunti e situazioni drammatiche: si può inquadrare dall’alto la gente che fugge zigzagando, terrorizzata. Oppure la gente si è nascosta nell’erba e sta acquattata, immobile, gli occhi dilatati dal terrore. Si sentono le voci dei Portoghesi. Una caccia. Sparano ogni tanto, alla cieca, per fare paura. E bisogna stare fermi, mentre l’istinto sarebbe di fuggire (il neonato che si mette a piangere). Qualcosa che fa pensare alle razzie di qualche secolo addietro per fare prigionieri e schiavi. La donna che
46 è partita per barattare riso con sale può perdersi nella foresta. Le si può ammalare il bambino. Quando torna, non trova più il villaggio, che è spostato. Ora ha il sale ma non ha niente da mangiare. Nel villaggio è rimasto un vecchio (una vecchia), che non si è mai rassegnato ad abbandonarlo. Lavori nei campi. Nel sud del Paese il riso si pianta in Agosto, Settembre, agli inizi di Ottobre; il periodo della mietitura va dalla fine di Dicembre sino ai primi di Aprile. Il raccolto avviene spesso collettivamente. Tutto il villaggio, o un gruppo di famiglie, miete e raccoglie oggi nel campo di uno, domani in quello dell’altro. All’epoca del raccolto alcune risaie sono secche, altre sono ancora allagate. Oggi il Partito ha disposto che il riso, appena tagliato, venga trasportato in zona sicura, per evitare gli incendi e la distruzione. Contemporaneamente alla coltivazione del riso ci sono le coltivazioni di minor conto: manioca, miglio, patate. Dopo la raccolta del riso è consuetudine costruire o riparare i tetti delle case; la paglia necessaria viene messa da parte. La raccolta dei frutti delle palme avviene nella stagione secca, a Maggio. Ma prima se ne raccoglie un po’ per il consumo
47 quotidiano. Il frutto delle palme da olio è come un grosso istrice che contiene frutti rossastri simili a ciliegie e matura in cima all’albero. Dalla polpa si ricava un olio che s’irrancidisce facilmente. Il nocciolo invece si conserva e da esso si ricava un olio migliore, più chiaro. In cima alle palme ci si arrampica con una liana che cinge l’albero e la vita del raccoglitore. Raccogliere i frutti di palma è quasi una specializzazione. Ogni base del Movimento di Liberazione ha il proprio raccoglitore d’olio, come anche il suo cacciatore e il suo pescatore. Le unità del Movimento di Liberazione sono autonome, si sostentano localmente. Il riso viene fornito dai contadini, l’olio di palma viene raccolto. I cacciatori uccidono cinghiali, bufali, antilopi. I militanti però, in mancanza di meglio, mangiano anche carne di coccodrillo e di scimmia; pare che la carne di coccodrillo sia buonissima, a parte l’impressione. Mi hanno raccontato che i raccoglitori di frutti di palma, se vengono morsi da un serpente in cima all’albero, senza esitazione si amputano il dito ferito. Le palme di cocco danno frutti quasi tutto l’anno. I manghi maturano in Maggio – Giugno. All’inizio della stagione secca, in Maggio – Giugno, finita la fatica del raccolto, c’erano feste e si ballava. Ora ce n’è di meno, ma ci si diverte
48
49
50 ancora. Occasioni di festa possono essere nascite, matrimoni, circoncisioni. Ballano al suono del tam-tam. I tam-tam sono tamburi rivestiti di pelle. Il bombolò invece è un tronco di legno cavo che serve a trasmettere messaggi. Oggi il bombolò non si usa per trasmettere notizie di carattere militare, perché lo sentono tutti. Abilio Duarte mi diceva però che a suo avviso, per notizie o richieste generiche tipo: “Abbiamo bisogno di riso”, si potrebbe usare. Non ho potuto vedere un ballo. Pare che ce ne siano di diversi tipi. Gli spunti sono forniti dalla realtà quotidiana: un giovane può anche travestirsi da jet o da elicottero. È una specie di gara. Esistono anche balli in tondo. Spesso la coppia più brava resta al centro. Il tam-tam si sente da lontano. I Portoghesi possono sparare qualche colpo di cannone, per dispetto. Il guaritore, il mago, si chiama Diambakos. Sia gli animisti che i musulmani sono poligami. La società è patriarcale, tranne che nelle isole Bissagos dove vige il matriarcato, ma è un’eccezione. Il più delle volte i matrimoni sono combinati dai genitori, talvolta quando i figli sono ancora fanciulli e neanche si conoscono. C’è un pegno, un regalo o pagamento
51 che i genitori dello sposo fanno a quelli della sposa. Il regalo era (è) il più delle volte in natura: buoi, maiali, ecc., a seconda delle condizioni economiche. Il giorno delle nozze la sposa viene portata alla casa dello sposo. Poi si fa festa, si balla. La nuova coppia va ad abitare in una casa nuova che può essere vicina a quella del padre dello sposo. L’uomo poi può prendersi altre mogli, in genere fino a tre. La prima moglie mantiene una condizione di priorità; mi sembra che sia dispensata in una certa misura dal lavoro e che abbia un certo potere sulle altre mogli. A Botche Dau la moglie dell’homen grande (il capofamiglia) era andata la mattina a prendere dei gamberi al fiume per il suo uomo che dormiva e mangiava con lei in una capanna (piccola) separata dalla casa grande, che era in argilla, divisa in quattro-cinque stanze, e nella quale abitavano le altre due mogli e due figli di primo letto già sposati. Altri due figli di primo letto, scapoli, dormivano in una capanna separata. Ad un certo punto una delle mogli più giovani è venuta a trovare la prima moglie. Aveva con sé il bambino. Il rapporto sembrava molto civile. Le donne sfaccendavano insieme. Ci sono anche uomini che arrivano ad avere dieci mogli. Più un uomo è ricco, più mogli può prendersi.
52 Domando a Barry se le donne sono in eccesso rispetto agli uomini: non lo sa. Mi dice che molti uomini che non hanno mezzi non prendono moglie. Uno scapolo che ha un fratello sposato può vivere col fratello. Presso i Balantes e gli altri gruppi animisti la donna è più libera che presso i Musulmani. Accade frequentemente che una donna sposata se ne vada a vivere con un altro uomo, anche in un villaggio lontano. Il marito, dopo qualche tempo (anche due anni), tenta di recuperarla e generalmente ci riesce (la donna evidentemente viene considerata una specie di proprietà). La donna, riluttante, il più delle volte torna col marito. Poi magari se ne va un’altra volta, magari con un altro uomo. I figli avuti dal marito, in tutto questo andirivieni, restano col padre. Lo sposarsi dev’essere anche un fatto d’iniziativa, d’efficienza fisica. Come in tutte le civiltà contadine, le mogli e i figli lavorano, quindi rappresentano una ricchezza. Presso i Foulas e i Mandingues, musulmani, la donna è più assoggettata. Il Partito tende a far evolvere la situazione verso la monogamia. I militanti, mi è sembrato di capire, sono tutti monogami. Le donne militanti, infermiere, ecc., spesso hanno seguito corsi di perfezionamento in URSS o in Europa orientale. Evidentemente hanno acquistato coscienza e dignità
53 e non sono affatto disposte a dividere il loro uomo con un’altra. Il Partito, saggiamente, non forza la situazione dal punto di vista del costume, non impone nulla. Si prevede una conversione lenta, proporzionata alla presa di coscienza. Ho notato nel Movimento di Liberazione, specie negli ospedali, dove uomini e donne vivono spesso in promiscuità, un certo rigore nei costumi. I rapporti sono disinvolti (anche se le donne il più delle volte non parlano molto, se parlano gli uomini), ma sembrano privi d’implicazioni sentimentali, di civetteria da parte delle donne. Fraternizzano spesso, ma questo non implica niente di particolare. Certo, fanno l’amore, ma la situazione viene sempre regolarizzata dal matrimonio. Un comandante mi ha raccontato che si è sposato al maquis. Non ho poi avuto tempo di chiedergli come fosse andata la cerimonia. Certo, mi sembra che nella fase di transizione non abbiano avuto modo e tempo d’istituire uno stato civile, di effettuare un censimento, ecc. Mi sembra che non sia il caso, in un film, di presentare il contesto poligamico. Bisognerebbe andare a fondo e non ce ne sarebbe il tempo. Noi Europei, che ci meravigliamo, la plurigamia l’ammettiamo in serie, spaziata nel tempo, e non contemporanea. A rigor di
54 logica, c’è poca differenza. Il diambacos (il mago, il guaritore) può officiare un sacrificio espiatorio, propiziatorio. Per esempio, si sacrifica una gallina sulla pietra o sotto l’albero che rappresenta il feticcio; un braccialetto metallico viene intinto nel sangue della vittima e poi viene messo al braccio del malato o della persona da esorcizzare. Mi raccontano che i Portoghesi, soprattutto quando ancora potevano servirsi delle strade, facevano delle sortite dai forti per vendicarsi di un attacco subito, oppure nella speranza di sorprendere i guerriglieri, o ancora nella speranza di provocarli a un combattimento in campo aperto. In questi casi i guerriglieri spesso tentavano delle controimboscate, attendendo i Portoghesi di ritorno al campo. Approfittavano della loro maggiore conoscenza del terreno. I Portoghesi hanno tentato in alcune regioni la tattica dell’hameau stratégique, cioè evacuare forzatamente i villaggi di una certa zona e concentrare la popolazione intorno ai forti; questo per fare il vuoto intorno ai guerriglieri, per levargli l’ossigeno, l’appoggio della popolazione. Ma non sembra che questa tattica abbia dato buoni frutti. Una volta concentrata la popolazione, bisognava anche nutrirla. Ho pensato che sarebbe bello forse fare un film in cui i Portoghesi
55 non si vedono quasi mai. S’intravedono. Gli aerei e gli elicotteri si sentono, la gente guarda in alto. Sarebbe una soluzione economica e inquietante allo stesso tempo. L’idea di un nemico, di una forza ostile invisibile, misteriosa, quasi astratta. Mi viene sempre in mente la struttura a episodi di ¡Que viva Mexico! di Eisenstein. Anche qui si potrebbe iniziare con un prologo simbolico della condizione preistorica, dell’innocenza originaria, e, nello stesso tempo, anche dello sfruttamento coloniale, cioè i quattro-cinque secoli che hanno preceduto la lotta di liberazione. Un villaggio, il lavoro nei campi, la fatica umile di tutti i giorni, i bambini che vanno a pescare. Non dovrebbe essere un’immagine mitica, rousseauviana. Dovrebbe rappresentare invece già il contesto coloniale, visualizzato da un forte portoghese quieto e minaccioso. Insomma, il “prima”. Poi si vedrebbe l’esazione delle imposte, lo chef de poste, i cypaios, i contadini che pagano, gl’insolventi che vengono bastonati e condannati ai lavori forzati. Questa parte, visivamente, per necessità di sintesi, potrebbe essere rappresentata in forma ellittica, con frammenti essenziali, cioè con gli snodi indispensabili. Il connettivo potrebbe essere rappresentato
56 dalla voce di uno speaker, o da didascalie. Si potrebbe utilizzare il materiale di repertorio, fotografie se esistono, composto con materiale girato allo scopo. In bianco e nero forse. Il centro d’azione potrebbe essere già un determinato villaggio tipico, su un fiume, non lontano da un forte portoghese. Così si localizzerebbe la storia, la si situerebbe nel tempo e nello spazio. Non bisogna dimenticare infatti che la gente in Europa non sa dov’è la Guinea-Bissau. La confonde con quella ex-francese, quella exspagnola, addirittura con la Nuova Guinea, che è in Estremo Oriente. Mentre tutti sanno tutto del Vietnam, molti a suo tempo sapevano molte cose dell’Algeria, la maggior parte della gente non sa nemmeno che nelle colonie portoghesi, nelle cosiddette “province d’oltremare”, da nove, da sette anni, si combatte una guerra per l’indipendenza, per la liberazione dal giogo coloniale. Infine, sempre nella stessa forma, si potrebbe mostrare come un giorno arrivarono nei villaggi uomini nuovi, vestiti da contadini, che cominciarono a parlare, a creare una coscienza, a mobilitare. Sarebbe un pezzo di montaggio della durata di cinquedieci minuti. Non estremamente originale forse, ma esplicativo. E poi comincerebbe la storia vera e propria, con una imboscata, per esempio. A questo punto,
57 nell’insieme corale degli abitanti del villaggio e dei combattenti, si sarebbero già individuati alcuni personaggi, o una famiglia, e il film potrebbe strutturarsi in episodi, raccontando ora dell’uno ora dell’altro, con la maggiore libertà di costruzione possibile. Questo consentirebbe un certo margine d’improvvisazione durante le riprese. Forse il passaggio dalla parte informativa a quella narrativa potrebbe avvenire per gradi, quasi in modo inavvertito. Il film vero e proprio sarebbe l’elaborazione di certi motivi ricorrenti, affiorati nel corso dell’inchiesta: -l’imboscata. -il momento della repressione, la rappresaglia, il rastrellamento del villaggio alla ricerca di armi, di indizi. L’incendio del villaggio, forse. -l’esodo della popolazione nella foresta. Una famiglia dispersa. La paura della foresta. La costruzione di un nuovo villaggio. -il primo scontro a fuoco con i guerriglieri che hanno poche armi (riferimento agli anni ’64 -’65, gli anni terribili). -il tema del bambino o del ragazzo che si perde nella terra di nessuno e che viene raccolto da un gruppo di combattenti, vivendone per alcuni giorni l’esperienza. -la fame. Il ritorno dei contadini al villaggio incendiato. Frugano tra le
58 macerie. La madre cerca il figlio. La solidarietà di un villaggio vicino. -una donna parte per barattare sale con riso. -il gruppo dei militanti cade a sua volta in un’imboscata o viene attaccato dal cielo. Un guerrigliero rimane ferito. -il trasporto del ferito. Giorni di marcia portandolo sulla testa, attraversando a nuoto i fiumi. Con l’occasione, il ragazzo viene mandato nelle retrovie. -intervento d’urgenza in un ospedale da campo. Il personaggio del medico chirurgo. L’infermiera. Tanti padri e madri, adottivi, fratelli maggiori che il ragazzo incontra. -il villaggio nella foresta viene individuato e attaccato da un commando elitrasportato. Il genocidio. -una postazione antiaerea viene attaccata e distrutta. -il ragazzo intanto è stato mandato in una scuola, in un internat. Il personaggio del maestro. -la visita di un responsabile del Partito, il discorso che fa alla gente, ai militanti che si stanno addestrando nelle retrovie. Le ragioni della lotta. -e poi il momento del riflusso. Il ragazzo torna al villaggio. -il forte è stato attaccato. I Portoghesi
59 sono costretti a sgomberare. -il ragazzo ritrova la madre, la famiglia. Cominciano a ricostruire la casa. Questo è soltanto uno schema generico, che fa forse troppo arco di racconto, che è troppo strutturato, legato alla storia di un ragazzo. In realtà la storia potrebbe essere più spezzettata, più frammentata, più casuale. Una casualità simile a quella che c’è in alcuni film di Jancsó, ma senza l’idea di fondo dell’insensatezza, anzi tutto il contrario. Bisogna stare attenti anche a non cadere nella trappola del film d’azione, che può essere tentatrice. In realtà la cosa più interessante, più specifica del Movimento di Liberazione in Guinea, e i leader non si stancano di dirlo, non è tanto la lotta in sé, ma la presa di coscienza della gente, il recupero di quattro secoli di stagnazione provocata dallo schiavismo prima e dal colonialismo dopo, qualcosa che si catalizza nella lotta. La lotta, in altri termini, non è altro che il veicolo, lo strumento di questa trasformazione. L’elemento interessante è il mutamento che avviene negli animi, nelle coscienze. Che cosa avviene nell’animo di un giovane Africano che, mite, gioioso, mansueto in sé, deve imbracciare le
60
61
62 armi e uccidere altri esseri umani? Che cosa avviene nell’animo di una ragazzina che ha lasciato il villaggio, la famiglia e ha raggiunto il maquis soltanto perché le sue amiche ci erano andate, che comincia a studiare, a leggere, a scrivere, che viene mandata a Conakry per seguire un corso rapido d’istruzione e quindi a Mosca (a Praga, a Budapest), a specializzarsi come infermiera, e poi ritorna nell’“interno” e lavora, vive, si sacrifica e comprende? Questi sono gli aspetti più interessanti, più sintomatici. Purtroppo non sono riuscito ad approfondirli nel corso della mia inchiesta affrettata. La lotta, in un certo senso, è solo il contorno, la cornice. Bisogna approfondire questi aspetti, centrare alcuni personaggi-chiave, raccontare la loro trasformazione. Bisogna dunque predisporre una struttura di racconto in cui possano entrare anche elementi di racconto che non sono stati previsti. Un film girato durante una lotta in atto non può essere prefissato. Dev’essere un film in atto anch’esso. Quindi, più che una storia, bisogna predisporre una formula di racconto, aperta, da vivere, da scoprire mentre si realizza. Il senso generale, definitivo, verrà fuori soltanto al montaggio. Ci sono altri elementi che ho dimenticato di citare e che bisognerebbe introdurre al momento giusto:
63 -il momento della gioia, la festa, il ballo. -il disertore portoghese. -il mondo magico, la religione, la superstizione, la tradizione. -la lotta sui fiumi. L’attacco a una cannoniera, a una motovedetta portoghese. La danza. Ho notato che s’ingaggia una competizione tra i migliori ballerini dei diversi villaggi. I giovani ballano a torso nudo e le giovani, pare, anche. La nascita. Presso i Foulas il neonato viene battezzato una settimana dopo la nascita. Si rade la testa del bambino; si uccide un montone, una capra, una gallina; s’invita la gente; si fa festa tutto il giorno; si balla. La morte. Quando muore un vecchio di morte naturale, presso i Balantes si balla, presso i Foulas no. La salma viene avvolta in un sudario bianco. Si prega, si costruisce una barella e gli uomini la portano al cimitero. Quando muore un militante, l’unica cerimonia consiste in un breve discorso del commissario politico. Imboscate. All’inizio, per bloccare le strade tagliavano gli alberi. Ci sono alberi alti quaranta metri. Esazione delle imposte. A chi non pagava venivano sequestrati tutti gli animali che possedeva. Le punizioni corporali venivano inflitte con un randello di legno chiamato
64 palmatoria. Era una grande umiliazione per un homen grande essere battuto davanti alla famiglia e alla gente del suo villaggio. Boké. Vado all’ospedale Donkà. Tutti gli ospedali li chiamano “Donkà” perché agli inizi della lotta, quando l’organizzazione ancora non esisteva, i feriti gravi li portavano a Conakry, nel grande ospedale che si chiama appunto Donkà. Da allora, tutti gli ospedali, anche per ragioni di sicurezza, per non fare il nome dei villaggi presso i quali sono dislocati, li chiamano Donkà. L’ospedale di Boké è alla periferia della cittadina. È composto da basse case prefabbricate bianche. C’è una sentinella armata all’ingresso. Ci fermiamo un momento alla casetta dei medici. C’è una grande veranda ariosa. Ritrovo Fernando Cabral che ha già ripreso servizio e Zacarias, medico chirurgo. Ci sediamo. Arrivano due Italiani dell’Astaldi. Uno si è distorto un ginocchio che è tutto gonfio, e cammina a fatica. Sono venuti per un soccorso urgente, dato che il medico dell’impresa di costruzioni è a Kamsar. Soprattutto l’infortunato si guarda attorno ansioso. Evidentemente, il dubbio che invece di curarlo possano divorarselo gli levita nel subconscio. Scoprono con un certo sollievo che sono un connazionale. Comunque non riescono a inquadrarmi:
65 non sono dell’Astaldi, e allora che ci faccio lì? Parlano un francese maccheronico e mi adopero un po’ da interprete. Hanno fretta e non capiscono perché non ci si occupi subito di loro. Invece i medici africani si prendono il loro tempo; è una questione di ritmo. Mi sembra addirittura che ci mettano una punta di malvagità sorniona. Gl’Italiani, in fondo, non sono estremamente popolari. L’Italia fa parte della NATO, i cacciabombardieri dei Portoghesi sono Fiat G91 e Fernando mi ha fatto notare con una punta di rimprovero che l’Italia non offre borse di studio agli studenti della Guinea-Bissau. È vero che ultimamente la conferenza di solidarietà dei popoli delle colonie portoghesi si è svolta a Roma, e che molti giornalisti e cineasti democratici sono venuti a lavorare in Guinea. Finalmente decidono di prendersi cura del malato e ci portano verso l’ospedale. Me lo fanno visitare. Da un corridoio centrale aperto, si accede a stanze singole e a piccole corsie che contengono al più sei letti. I ricoverati giacciono silenziosi nei letti, mi contemplano quieti, senza vittimismo. Quelli che possono muoversi chiacchierano tra loro. Altri giocano a dama su enormi scacchiere. La dama e gli scacchi sono diffusissimi:i
66 bambini si disegnano le scacchiere per terra. Ci sono molti bambini, figli delle infermiere o dei ricoverati. Alcuni sono feriti. Mi fanno vedere la sala operatoria, che mi sembra molto efficiente, e varie altre apparecchiature per le radiografie e la riduzione delle fratture. Comincio a fotografare in bianco e nero perché c’è poca luce. C’è anche una dottoressa jugoslava che è qui da poco. Parlo con Miguel Pontes, trentanove anni, delle Isole di Capoverde, comandante di regione, ferito qualche anno fa. Uomo vivace e versatile. Sta riparando una radio infatti, e pare che se ne intenda, mentre vicino a lui un militante è alle prese con un orologio smontato. Miguel gli dà dei consigli. Non c’è rapporto gerarchico così come lo intendiamo noi. Miguel emana un’autorità naturale, cameratesca, cordiale. Mentre parliamo, una vitina minuscola dell’orologio cade per terra; la cercano pazientemente. Mai l’ombra di rimprovero, d’insofferenza, di sufficienza. Alla fine la vitina viene ritrovata e la riparazione procede. Miguel è entrato nel movimento il 5 Febbraio 1962. Passò in Guinea-Bissau dalla frontiera senegalese, con altri compagni. Il comandante generale del fronte Nord era Osvaldo. Cominciarono col fare propaganda e opera
67
68 di mobilitazione. Osvaldo era a Oiné, Miguel a Binà-Boula e ‘Ncheia. Erano vestiti da contadini (costume mandingue e foulas). A Binà c’erano anche i Balantes che erano più ospitali. I militanti si erano costruiti una capanna nella foresta, dove si ritiravano la sera. Per l’alimentazione non c’erano problemi. Compilavano la lista dei nuovi proseliti e li fotografavano. Mi spiega perché facevano le fotografie, ma ora non ricordo bene la ragione. Non erano armati; il gruppo possedeva una sola pistola. A Binà furono localizzati dai Portoghesi e il capogruppo, Fernando, fu arrestato e imprigionato. Tornarono alla frontiera e ricevettero le prime armi. Doveva essere già il 1963. Cominciò la lotta armata. I militanti avevano perlopiù venticinque-ventisei anni. C’erano anche uomini di trentanove anni (il massimo) e perfino ragazzi di quattordici. Questi ultimi restavano nelle basi, facevano scuola, istruzione militare e poi, quando erano pronti, diventavano combattenti. Miguel mi racconta che i Portoghesi, quando arrestavano qualcuno, lo legavano mani e piedi come una salsiccia e poi lo buttavano di peso in un camion. Mi racconta il caso di un contadino di quarant’anni, un certo Sambusonco, che fu denunciato da un cypaio come sospetto.
69 I soldati che andarono a cercarlo non lo conoscevano. Gli domandarono se conosceva Sambusonco. Lui ebbe la presenza di spirito di dire che sarebbe andato a cercarlo, e così riuscì a fuggire. Mi precisa che i cypaios erano una guardia repubblicana. La bassa truppa era africana. Gente brutale. Durante la repressione si verificavano abusi di ogni genere. Quando perquisivano una casa, rubavano i pochi preziosi che trovavano, orecchini, braccialetti, portavano via gli animali. I fucilieri di marina e la cavalleria, tra i soldati, erano i peggiori. Arrivavano a violentare le donne; se gli uomini reagivano, venivano percossi. Esazione delle imposte. Ogni capofamiglia, quando andava a pagare, portava del denaro in più: la percentuale personale dello chef de poste. Quando iniziò la lotta armata, ogni gruppo (27 uomini) aveva tre armi, munizioni e una cassa di granate. Le armi bisognava prenderle al nemico. Parlo con Fernando Cabral. Mi spiega com’è organizzato il soccorso sanitario del Movimento di Liberazione. Ogni bi-gruppo (cinquantadue o cinquantaquattro uomini) ha un infermiere che può prestare i primi soccorsi: fermare un’emorragia (ma non le lesioni alle arterie principali, che richedono interventi più complessi), immobilizzare un arto fratturato,
70 praticare iniezioni di antibiotici e antitetaniche e infine iniezioni analgesiche. Mi spiega che in alcuni casi il dolore forte, per gli spasmi che provoca, può portare a blocchi circolatori e anche alla morte. Poi ci sono gli ospedali da campo. Là ci sono i medici ma mancano le apparecchiature. Non è possibile fare una radiografia o conservare il sangue e il plasma per le trasfusioni. Del resto, manca la corrente elettrica. Nei casi gravi i medici sono costretti a intervenire, ma vanno a tentoni. Qualche volta mandano il ferito a un altro ospedale, dove l’attrezzatura è un po’ migliore. Per il ferito è una vera via crucis: alcune volte, ci mette anche un mese prima di essere portato a Boké. A Boké si fanno quasi tutti gli interventi. Il direttore dell’ospedale, un chirurgo jugoslavo, mi dice che fanno ogni genere d’interventi, perfino chirurgia plastica, asportazioni di reni, trapanazione del cranio, ecc. Interventi che hanno del miracoloso, tenuto conto dell’attrezzatura di cui dispongono i medici. Mi raccontano il caso di Mamadou, un comandante ferito all’addome che fu trasportato per giorni in barella fino a un ospedale da campo, operato di notte, trasportato ancora da dodici uomini che si davano il cambio portando la barella sulla testa e attraversando i fiumi a nuoto, sino
71 alla frontiera. Ma i ponti, in Guinea Republica, erano rotti, e così fu necessario trasportarlo, sempre in barella, fino a Boké, dove fu operato ancora e salvato. Ora è a Mosca. Quando lo operarono la prima volta, nell’ospedale da campo dovettero far ricorso a trasfusioni dirette, che sono pratiche difficili: il sangue passava direttamente dal braccio dei tre donatori nell’organismo del ferito. Penso che nel film si dovrebbe raccontare quest’odissea. L’ospedale di Boké c’è e funziona. Il primario jugoslavo, i suoi collaboratori africani ed europei, fanno il loro dovere, con semplicità. È gente serena. Certo, mancano molte cose; spesso viene meno l’elettricità, e i gruppi elettrogeni di cui dispongono possono guastarsi. Fernando mi racconta che spesso hanno dovuto buttare via il sangue necessario alle trasfusioni perché i frigoriferi non funzionavano più. Mi dice che occorrerebbe un frigorifero a petrolio. Certo, occorrerebbero molte cose ancora, ma l’ospedale funziona. Successivamente, da parte “europea”, italiana e francese, a Conakry ho sempre sentito parlare di quest’efficienza con cronico scetticismo, con malcelato livore. Qualche giorno fa, sulla strada Conakry-Boké, un Italiano di un’impresa di costruzioni ha avuto un grave incidente d’auto. In mancanza di meglio è stato portato all’ospedale
72
73
74 dei “ribelli” a Boké. L’hanno operato e salvato asportandogli un rene spappolato. All’ospedale non me ne hanno parlato: non se ne sono vantati. Da parte italiana e francese mi raccontano, dopo, che l’intervento era stato sbagliato, che non c’era alcun bisogno di asportare il rene, eccetera. Mi urta l’avversione, il pregiudizio nei confronti degli Africani, un complesso di superiorità insanabile che si colora di calunnia, di superstizione. A Conakry un funzionario italiano mi dice che il medico jugoslavo lavorava per l’Astaldi, e che in seguito all’intervento è stato licenziato, così lo hanno preso i “Portoghesi”, i “ribelli”. La versione è del tutto infondata. Un Italiano mi dice, a proposito della Guinea Republica: “Ma lo sa che nell’interno ci sono ancora i cannibali?” Una signora francese mi racconterà di aver visto con i suoi occhi un reportage dal quale risultava che i “ribelli” massacravano donne e bambini portoghesi. Non sa dirmi dove e come l’ha visto. Le assicuro di aver visto con i miei occhi tutto il contrario, e cioè donne e bambini africani feriti, ustionati dai proiettili, dalle bombe, dal napalm. A un certo punto rinuncio alla discussione, tanto non valgono le prove; quello che conta, che agisce, è un oscuro complesso di terrore, di preconcetto razzista.
75 Quando a Conakry scoppierà il colera, qualcuno della “colonia” italiana affermerà: “Ma lo sa che i morti li buttano nella foresta? E poi ci meravigliamo se l’epidemia si diffonde!” In Guinea Republica sono quasi tutti musulmani, e i morti li seppelliscono. Non si capisce in base a quale criterio i morti di colore dovrebbero buttarli nella foresta. Non c’è nessuna base logica, nessuna verosimiglianza. Eppure gli Europei ci credono, scuotono la testa e concludono col solito slogan che gli Africani sono dei bambini incoscienti, che da soli non sanno governarsi, ecc. Un complesso di superiorità che si traduce in disprezzo o nel migliore dei casi, in compiaciuto paternalismo. Mi vengono in mente le storielle che circolavano a Vienna nel 1945, dopo l’occupazione da parte dei Russi. “Un Russo porta una sveglia da un orologiaio e gli chiede di smontarla, di farne cinque orologi”. L’Armata Rossa veniva da Stalingrado, e ancora i Viennesi si burlavano dell’efficienza russa! Lo stesso per gli Africani! Il Movimento di Liberazione della Guinea-Bissau ha liberato i due terzi del territorio nazionale, tiene impegnati da trentacinquemila a quarantamila soldati portoghesi più alcune migliaia di mercenari. Con armi portatili tengono testa a un esercito fornito di armi pesanti, di mezzi navali e aerei
76 modernissimi. E si permettono anche il lusso di alfabetizzare il Paese, di creare un’organizzazione sanitaria, di amministrare le zone liberate, di inviare studenti a specializzarsi all’estero. Eppure, per la maggior parte degli Europei trapiantati in Africa, sono dei ribelli sanguinari, fomentati e aiutati da potenze straniere. Qualcuno mi domanda se all’“interno” ho visto i Cubani. Rispondo che ho visto un solo Cubano, un medico. Obiettano che sono tutte balle. I Cubani sono arrivati, sono stati visti all’aeroporto di Conakry e sono stati già avviati verso l’interno. Una volta c’erano anche i Cinesi! Favoleggiano a ruota libera e il più delle volte si tratta di gente che non si è mai mossa da Conakry, in sette, otto anni di permanenza, che non si è mai interessata veramente di conoscere il Paese in cui viveva, che non ha mai bevuto un sorso di acqua africana, perché anche l’acqua, minerale, arriva dall’Europa. Bacsanne Na Tom, donna della regione di Quinarà, nel nord. È una Balante. Non sa la propria età. Potrà avere venticinque, ventotto anni. Il marito è un esponente del comitato di villaggio. È sposata da poco, non sa dire esattamente da quando. È rimasta ferita nel corso di un bombardamento di jet ai primi di Giugno del ’70. Era un bel po’ che gli aerei non
77 venivano nella zona e la gente era tornata al villaggio per svolgere piccoli lavori indispensabili, come la pulitura del riso. Il bombardamento li colse di sorpresa. Vi furono sette morti (anche alcuni bambini) e molti feriti. Bacsanne fu colpita alla tibia da una scheggia di bomba. Fu operata una prima volta nell’interno e poi trasportata in barella alla frontiera. A Boké è stata operata il 9 Giugno. Il primario jugoslavo manda a prendere le radiografie e s’ingolfa in una minuziosa analisi della frattura della quale non riesco a capire molto. Intuisco che nel migliore dei casi il ginocchio rimarrà anchilosato. Il primario conclude che questo è sempre meno peggio dell’amputazione. Bacsanne è come intorpidita. Risponde sottovoce, a monosillabi. Mi guarda. Leonor Mendis, di Cobiana, un grande villaggio della regione settentrionale di Candjungu. Non sa dirmi quanti abitanti possa contare il villaggio (le nozioni quantitative, di numero, sfuggono). Non sa dirmi quanti anni ha; potrebbe averne trentotto, quarantacinque. Il suo uomo (mi omo) è un contadino e partecipa alla lotta aiutando i militanti nel vettovagliamento e nei trasporti. Ha un figlio grande (a fatica riesco a stabilire l’età: diciotto, diciannove anni) e due più piccoli. Ogni cosa resta indeterminata. Un
78 giorno gli aerei sono venuti a bombardare. A che ora, quando esattamente? La risposta tradotta da Barry è: “Dans la journée”. Insisto per sapere l’ora e accerto che erano le 17. Il giorno era il 6 Gennaio. Le date le ricordano con più facilità. Era la stagione secca. Avevano da un pezzo abbandonato il loro villaggio, incendiato nel corso di precedenti bombardamenti, e si erano rifugiati in un bosco di tara, sorta di alberi cespugliosi, bassi e molto fitti. Qui avevano costruito capannucce, ripari provvisori. Alle 17 sono arrivati gli elicotteri e hanno cominciato a sorvolarli in tondo, sparando brevi raffiche con la mitragliatrice. Erano rimasti immobili finché i nervi avevano retto e poi, pensando di essere stati ormai individuati, erano fuggiti verso il fiume, in una zona paludosa dove sapevano che gli elicotteri non avrebbero potuto atterrare. Questo almeno è ciò che Leonor mi racconta di sé e di altre tre donne, una delle quali aveva un neonato. Fu così che andarono a cadere nell’imboscata tesa dal comando portoghese, fatto sbarcare a terra dagli stessi elicotteri. Leonor correva davanti alle altre. I Portoghesi intimarono l’alt. Leonor non si fermò perché essere fatte prigioniere avrebbe significato essere interrogate, minacciate e percosse: i Portoghesi avrebbero voluto sapere dove si trovava la base dei militanti
79 (ma non c’erano militanti presso Cobiana!). Una pallottola le troncò di netto il dito medio e poi le attraversò la coscia fratturandole il femore. Leonor cadde e gridò alle altre donne di tornare indietro, di non badare a lei. Si salvarono. Il comando portoghese intanto si era ritirato e trincerato. Leonor si lamentava e piangeva. Era incinta al terzo mese e perse il bambino. I Portoghesi sentirono i suoi lamenti tutta la notte ma non uscirono per soccorrerla, forse perché pensavano che stesse morendo, forse perché temevano di cadere a loro volta in un’imboscata. All’alba vennero gli elicotteri a riprenderli e se ne andarono. Poi al villaggio tornarono i guerriglieri, ma passarono tre giorni prima che la trovassero perché Leonor era lontana, in una zona poco frequentata. Si trascinò carponi verso il villaggio e di notte si nascondeva nei cespugli. Aveva paura che tornassero i Portoghesi. Doveva essere in delirio per il dolore. Fu trasportata in barella (sei giorni di viaggio) all’ospedale di Zuighinchor; non c’era sangue per la trasfusione; la operarono lo stesso e poi la portarono a Cundarà, dove fu operata un’altra volta. Mi fanno vedere la radiografia: l’osso del femore si è saldato male, si è sovrapposto per sei, sette centimetri. Era ormai impossiblie ridurre la frattura perché
80 tutta l’estremità si era atrofizzata, anche il piede: fu necessario amputarlo. Tutte queste cose Leonor le racconta tranquillamente, senza enfasi. Le mancano i denti. Per “elicotteri” dice coptères: un neologismo creolo. Questi attacchi con gli elicotteri sono diventati negli ultimi anni una delle azioni più frequenti dei Portoghesi. I bombardamenti con i jet sono diventati ormai infruttuosi perché i villaggi il più delle volte sono vuoti. Quando un ricognitore avvista del movimento in un villaggio o in una zona, oppure quando arriva qualche informazione, mandano anche otto elicotteri. Non so quanti uomini possa portare un elicottero. Qualche volta, se il campo portoghese è vicino, gli elicotteri fanno la spola. Da quanto ho potuto capire, possono sbarcare anche duecento uomini. L’attacco spesso è facilitato da un bombardamento diversivo dei jet; così gli uomini sbarcano dagli elicotteri non visti, a qualche distanza dall’obiettivo. Gli elicotteri, una volta sbarcati gli uomini, cominciano a girare sulla zona, a duecentotrecento metri di quota. Sparano con la mitragliatrice di bordo, per “stanare” letteralmente la gente. La popolazione, specie se, come nel caso di Leonor, si tratta di un villaggio provvisorio nella foresta, cerca di nascondersi e di stare ferma.
81 Ma il dubbio di essere stati visti è angoscioso e alla fine saltano i nervi e qualche donna, qualche bambino, scappano, follemente terrorizzati. E allora li vedono. Per radio, dall’elicottero, dirigono la truppa scesa a terra. Da quanto emerge dal racconto di Leonor sparano con molta facilità su donne e bambini. Altrimenti si contentano di sparare su buoi, maiali. Sia che trovino o no combattenti o popolazione, incendiano le capanne, il raccolto, tutto ciò che c’è da distruggere. Papa Mango. Tredici anni, del gruppo etnico Mancange (o Mancanhe), dal villaggio (tabanca) di Pidinal, nel settore di Ubussec. È stato ferito nel corso di un bombardamento di jet nel Marzo-Aprile del ’70. Per sottrarsi ai bombardamenti gli abitanti avevano abbandonato il villaggio e si erano trasferiti in una piccola foresta a due ore di marcia, dove avevano costruito un villaggio provvisorio (baracas). Poi i bombardamenti erano cessati ed erano tornati al villaggio. Papa ha due fratelli più piccoli. I jet arrivarono alle 13 mentre mangiavano riso e pesce. I pesci li pescava spesso lui, con la lenza. Il padre di Papa è un contadino, che aiuta anche lui il Partito. Papa aiutava già il padre e la madre nei lavori dei campi, a fare i solchi
82 per la coltivazione del riso, usando le lunghe pale, le entchadas. Da bambino giocava col cerchio, a dama, su una scacchiera disegnata per terra. È stato a scuola. Ha imparato a leggere ma non a scrivere. C’era molta gente nel villaggio. Scapparono tutti, sparpagliandosi. Lui era solo; si buttò per terra vicino a un albero mentre cadevano le bombe. I jet erano arrivati bassi, a cinquecento metri di quota, poi avevano picchiato per bombardare. La scheggia di una bomba lo colpì alla caviglia. Sentì il colpo ma non dolore subito, e non perdeva neanche tanto sangue. Fu curato da un infermiere sul posto e la ferita si cicatrizzò. Ma camminando sentiva sempre dei dolori. Andò a piedi a Tamhalì, poi in piroga sino alla frontiera. Poi ancora tre ore di marcia per prendere il camion per Boké, dove l’hanno operato (evidentemente l’osso era stato lesionato). Ha voglia di tornare al suo villaggio, dal padre e dalla madre. Immagine: quando il villaggio viene bombardato, rallentare i fotogrammi e anche il rumore delle esplosioni, in modo che il suono s’incupisca. La fuga della gente, folle di terrore, prima è un balenio confuso, poi si ferma sullo schermo a lungo. Donne e bambini hanno i
83 volti contratti e sembra che sorridano. Spesso i commandos sbarcati dagli elicotteri lasciano mine sui sentieri. Grosse mine. Quando non hanno tempo lasciano qua e là piccole bombe che possono esplodere al minimo urto. Possono “minare” anche i morti, cioè nascondere mine sotto i morti: qualcuno va per sotterrarli e salta in aria. Nel settore di Tombalì i Portoghesi hanno minato i sentieri. Poi, prevedendo che la gente avrebbe evitato i sentieri, hanno minato anche i boschi, i rami degli alberi che la gente avrebbe potuto toccare passando. Gli attacchi degli elicotteri sono cominciati nel ’67-’68. Il Movimento di Liberazione ha formato una milizia popolare, ha armato uomini e donne della popolazione civile. La gente che interrogo non parla volentieri delle atrocità commesse dai Portoghesi. Alsau Sambò. Ventinove anni, del villaggio di Mantela, regione di Mansoa. Gruppo etnico Mansoanca (nord). Ha perso il braccio sinistro in un attacco di jet al gruppo contraereo di cui faceva parte (Secteur Frontière, villaggio di Palana). Avevano un cannone da 37mm ed erano in quattro serventi (capopezzo, tiratore, puntatore e munizionatore). Il jet ha lanciato tre bombe. Una è caduta vicino al terrapieno di protezione. Una scheggia ha attraversato lo spessore di terra
84
85
86 e gli ha colpito il braccio. Gli aerei (erano due) hanno continuato a bombardare. I due feriti si sono allontanati a piedi; gli altri due sono rimasti vicino al pezzo, che però non poteva più sparare perché danneggiato e coperto di sabbia. Poi hanno chiamato un infermiere e con barelle improvvisate li hanno portati alla frontiera. L’attacco è avvenuto alle undici di mattina, i primi di Luglio del ’70. Alsau è entrato nel Movimento a ventidue anni, agli inizi della lotta. Ha raggiunto i militanti; poi è tornato al villaggio per chiedere al padre il permesso di combattere (si tratta di una prassi frequente). Il padre gli ha dato il permesso. Alsau però soggiunge che sarebbe partito anche se il padre gli avesse detto di no. Il padre è contadino. Alsau ha due fratelli e cinque sorelle; aiutava già il padre nei campi. Una volta rimessosi in salute, chiederà il permesso al Partito di andare a trovare i suoi che non sanno nulla di lui. Ieri, quando l’ho fotografato, era triste, chiuso. Oggi, che ci siamo messi a parlare, sorride ed emana letizia da tutti i pori. Mi fa pensare a Pelé subito dopo la conquista della Coppa del Mondo, a qualcuno che abbia vinto al lotto, non a un giovane invalido. Mi dice che con un mitra AK (fabbricazione cinese)
87 si può abbattere un aereo. Riparlo con Miguel Pontes. Mi parla dell’attacco che ha diretto contro il forte portoghese di Olosato (nel Nord). Il forte sorge su un fiume non grande, affluente del Rio Farì, ma è collegato anche via terra. I fiumi piccoli sono navigabili solo con le vedette, battelli che possono portare venticinque uomini armati di mitra G3. Le cannoniere perlustrano solo i fiumi grandi. Miguel mi spiega che prima di un attacco bisogna studiare il terreno, mandare degli esploratori, informarsi con la gente del posto per sapere com’è disposta la difesa del campo. Lui aveva l’abitudine di andare a controllare personalmente. Andava alle due di pomeriggio, ora della siesta. Poi disponeva i gruppi per l’attacco. Bisogna schierare i gruppi a mezzaluna aperta, in modo da evitare di colpirsi col fuoco incrociato. Alcune zone intorno ai forti sono minate. Ci sono i sapeurs, specialisti in mine. Quella notte aprirono il fuoco a mezzanotte, al segnale del primo sparo. Sessanta, settantacinque minuti di fuoco, più diecidodici minuti di fuoco con le armi leggere per permettere alle armi pesanti (mortai e cannoni senza rinculo) di ritirarsi. Poi bisogna aspettare la reazione dei Portoghesi. Se non reagiscono, il gruppo si ritira. Se
88 i Portoghesi contrattaccano, allora si combatte ancora. L’attacco a Olosato fu fatto per contenere i Portoghesi, per evitare che dilagassero nella regione. I Portoghesi possono contrattaccare con le autoblindo. Il comandante dispone sempre una arrièregarde. Quella volta era disposta sulla strada per Bissora e Farim, per evitare sorprese alle spalle. Lunedì 10 Agosto La mattina andiamo all’impresa di costruzioni italiana. Partiamo a piedi e poco dopo otteniamo un passaggio da una Land Rover guidata da un Italiano, un fabbro, pieno di sospetto e di pregiudizi nei confronti degli Africani. Si lamenta della suscettibilità e dell’aggressività degli operai guineani. Riesco a farmi dare una bomboletta d’insetticida. Torniamo in città e col denaro che mi resta compro tre pacchetti di sigarette e mezza bottiglia di gin. Di nuovo all’ospedale, parlo prima col medico di colore. Riparliamo delle mine: tra i militanti, ormai, ci sono i sapeurs, specializzati nell’individuare le mine. Spesso i Portoghesi le chiudono in scatole di legno per eludere i controlli.
89 Poi parlo con Alsau Sambò e con Miguel Pontes. C’è anche un’infermiera carina, sorella di un amico di Barry. Miguel Pontes ci scherza un po’; non si tratta comunque della “corte” scoperta e allusiva in uso tra noi. Ci fermiamo ancora un po’ sulla veranda dei medici, poi torniamo a piedi a casa. Ci viene incontro la jeep russa che Domingo ci ha mandato incontro. Dopo pranzo cambia il tempo, si mette a piovere. Sono nervoso, inquieto: la pioggia paralizza tutto, anche il pensiero. Parlo con Barry e gli dico che se entro due giorni il ponte per Kandiafarà non verrà riparato, dovremo andare a est, magari con la jeep di Domingo. Mi dice che la jeep è troppo bassa e non può attraversare piccoli fiumi. Non riesce a concentrarsi per fare un qualsiasi programma; in realtà, non capisce la necessità di fare programmi, di predisporre l’impiego del tempo, di prevedere alternative; la mia impazienza gli riesce incomprensibile e mi guarda perplesso. Ha ragione: sono io che non riesco ad adattarmi a un mondo dal ritmo diverso, in cui la volontà dell’uomo deve fare i conti con la Natura, con la pioggia, con l’acqua, con i ponti rotti. Loro si adattano alle circostanze. Domingo passa lunghe ore alla veranda,
90 immobile, in estatica contemplazione; poi rientra in casa e si mette a raccogliere le cicche che hanno buttato per terra, mette ordine nella ghiacciaia, come una brava massaia. Ogni tanto arriva qualcuno con un foglietto, un messaggio. Domingo non si scompone mai. Ogni tanto redarguisce, richiama all’ordine, fa le paternali, ma non umilia mai nessuno, perché subito dopo scherza, chiacchiera, si rimette alla pari con gli altri. Faceva il meccanico a Bissau, ora dirige un settore importante di smistamento come quello di Boké. Intuisco lo sforzo che ha dovuto fare per organizzarsi mentalmente e lo sforzo che fa ora per organizzare gli altri. È così che nasce una nazione, liberandosi a fatica dalle oscure tenebre della spersonalizzazione, dal caos dell’inconsapevolezza. Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, e questo lo sanno, lo sentono. Nella stanza passano le donne: Quinta, la moglie di Domingo, che è incinta e non parla mai, e la moglie di Osvaldo, che abita qui col suo bambino. Le donne non mangiano con noi; non ho mai capito dove e quando mangino. Domingo gioca per un’ora di seguito col figlio di Osvaldo, lo vezzeggia, lo accarezza con manacce che diventano incredibilmente
91 delicate, lo fa giocare con la pazienza di un nonno in pensione. L’animo di questi Africani viene fuori nel rapporto coi bambini: sembra che non distinguano fra i propri e quelli degli altri. Si direbbe che si perdano, nei bambini; li tengono in braccio, li coccolano e dimenticano tutto. Domingo, ho saputo, ha una figlia di dieci anni a Bissau che non ha mai visto. Da dieci anni non ha notizie della famiglia. Sembra incredibile, perché Bissau sarà a meno di duecento chilometri in linea d’aria, eppure è il caso della maggioranza dei militanti. Non si possono mandare notizie perché si rischia di compromettere la famiglia. Julinho, che è qui da qualche giorno e a tavola ha preso il posto di Marcel, da sette anni non ha notizie della famiglia e viceversa. Non ne fanno un dramma a parlarne. Non si autocompassionano. Martedì 11 Agosto Vado al mercato a comprare limoni per il viaggio. Mi accorgo che a camminare in fretta si suda troppo. Si è detto che si sarebbe partiti nella mattinata. All’ora di pranzo il camion ancora non è pronto. Mangiamo di fretta. Parlo con Julinho. Comanda un’unità di artiglieria.
92 Ha ventinove anni, è originario delle Isole di Capo Verde, di madre ebrea e padre meticcio. Ha finito di leggere Via col vento e l’ha prestato a Barry. Si è accorto che in fondo è un libro piuttosto razzista. È partito di casa dieci anni fa per entrare nel Movimento; da allora non ha notizie dei suoi. È magrissimo, gli occhi scavati, mosta sintomi evidenti di denutrizione, di avitaminosi. È molto intelligente, spiritoso, appare animato da una grande fede. Mi dice che è materialista e animista allo stesso tempo; gli faccio notare l’incompatibilità della cosa. Ci mettiamo a parlare di filosofia e concludiamo che la vera dialettica consiste in una sintesi dei due principi. Mi racconta che spesso rimangono dieci-undici mesi di seguito alla macchia, senza rientrare a Boké o a Conakry. Questo dà un’idea del sacrificio a cui si sottopongono. Al momento di partire, Barry lascia la sua piccola valigia a Boké. È tutto quello che ha. Finalmente partiamo alle cinque del pomeriggio. Il camion, il solito GAZ, è incredibilmente in cattivo stato. Ma l’autista, Seku, è bravissimo. Manca il vetro dalla mia parte, così prendo l’impermeabile nel caso si metta a piovere. L’erba è di un verde
93 intenso, brillante; i baobab fanno pensare ai cartoni animati di Walt Disney. Seku affronta la strada con la solita baldanza trionfale. Il motore non è molto elastico: appena c’è una salitella, Seku scala in pochi istanti dalla quarta alla prima e il camion si avventa come un bufalo inferocito; sembra che nulla possa trattenerlo. Disponendo di pochi mezzi e di pochi pezzi di ricambio, mi sembra che potrebbero stare un po’ più attenti. Ci sono le solite payottes lungo la strada rossastra e la gente si volta a guardare estatica, con dignità naturale, elegante. Sta facendo buio. A una curva ci viene addosso un Caterpillar giallo, un bestione lungo dieci metri. Tenta di evitarci ma un albero ce lo ributta addosso. L’urto è violento. Scendiamo a vedere: la cabina dalla parte dell’autista è mezza sfondata, il serbatoio perde benzina da uno squarcio. Non ci sono discussioni, contestazioni, sembra di essere in Svezia. Qualcuno tura il buco con del sapone per fermare la benzina e torniamo indietro. Domingo non si scompone a vederci tornare. Subito accorrono cinque o sei meccanici giovanissimi e cominciano a riparare il camion. Smontano la portiera che è inutilizzabile, il serbatoio (ce n’è un altro sotto il sedile), e a colpi di martello
94 raddrizzano un po’ la cabina. Passano così due orette, e intanto ceniamo. Capisco che Domingo non vorrebbe farmi partire e insisto. Alle sette e mezzo ripartiamo. In fondo alla strada vedo il ponte che ci ha fatto perdere due o tre giorni: un ponticello lungo pochi metri. Si è fatto buio ormai. Sembra di navigare: il camion procede tra due baffi d’acqua, come se fosse un’autobotte che innaffia la strada. Ogni tanto Seku entra in mezzo ai prati per evitare tratti di strada insidiosi. A un certo punto ci fermiamo e tutti orinano. Nel cassone ci sono dieci, dodici militanti. Ogni tanto donnole, gatti selvatici, scoiattoli, corrono davanti ai fari. A mezzanotte arriviamo a un fiume. Bisogna aspettare le due e trenta a causa della marea, credo. Mi metto a scrivere nella capanna del traghettatore. Tutto, la capanna, il fuoco, i panchetti bassi, mi fa pensare a Orgosolo. Dimenticavo di dire che da due giorni un ferito o un malato ci aspetta a Kandiafarà per rientrare a Boké con lo stesso camion. A Boké, con Barry abbiamo deciso, se possibile, di visitare prima la regione di Kitafine, che è sul mare, al confine con la Guinea Republica. Questo perché mi sembra che fare un film nell’interno trasportando tutto il materiale sia pressoché impossibile. A Kitafine
95 invece, che è un estuario composto di tante isole e penisole, ci si potrebbe servire di un grosso battello pneumatico, forse due, e portarsi dietro tutto il materiale. Mi rendo conto che occorrono tende, lettini da campo, viveri, acqua minerale, altrimenti è impossibile resistere per due o tre mesi. Barry mi dice che la moglie di Mario de Andrade, Sarah, una negra della Martinica, ha girato un film a Yabadà, un’isola vicino al confine, in Guinea Republica. In quelle zone risiedono molti profughi della Guinea-Bissau. Così gran parte del film, forse l’ottanta per cento, si potrebbe girare in Guinea Republica senza correre rischi inutili. Alle tre e mezzo del mattino arriviamo finalmente a Kandiafarà, dopo aver percorso novantaquattro chilometri. Siamo in un accampamento nella foresta, del quale riesco a distinguere poco. Sono molto stanco: domando se è possibile avere un caffè caldo. Mi pento amaramente di non essermi portato un bollitore. Un militante va a scaldarmelo nella cucina all’aperto. Non so perché, quando il caffè è pronto, prende un tizzone ardente e ce lo spegne dentro; sul momento non ci faccio caso. Dopo un po’, bevendo, mi trovo tra i denti qualcosa di duro; sputo pensando che si tratti del solito
96
97
98 bacarozzetto e invece è un pezzo di carbonella. Libero il caffè da tutti i corpi estranei galleggianti e finalmente bevo. Di animaletti ce n’è dappertutto: basta mettersi la mano in faccia, nei capelli, e si trovano ragnetti, insetti di ogni genere, zanzare. Mi portano a dormire in una delle capanne. Mi danno un letto bello largo, la biancheria pulita, la zanzariera. Prendo un po’ di medicine per immunizzarmi contro malaria, dissenteria, ameba. Sono raffreddato, ho un po’ di febbre. C’è gente che dorme all’aperto, sotto i ripari di paglia, nelle amache. Mercoledì 12 Agosto Mi sveglio alle dieci. La base è composta da capanne ben distanziate tra loro nella foresta. Un’umidità incredibile. C’è una capanna senza pareti che serve da mensa. È tutto bagnato, pieno di pozzanghere d’acqua, la biancheria è umida. Appena esce un raggetto di sole, i militanti ne approfittano per farla asciugare, ma appena piove devi essere lesto a ritirarla. Antonio, un militante anziano con mansioni di inserviente, mi porta un secchio d’acqua sporca; capisco che è per lavarmi. Dalla sua aria soddisfatta intuisco anche che è della migliore. Mi faccio la barba e mi
99 lavo. Il caffè a letto, appena sveglio, mi manca molto. Non mi sento bene, ho un po’ di febbre. La salute qui, per chi arriva nella stagione delle piogge, all’improvviso diventa precaria. “Bene” non ci si sente mai. Piove; corro verso la capanna aperta e per evitare un paio di pozzanghere d’acqua non abbasso abbastanza la testa. Dò un colpo terribile che per poco non mi scotenna. Mi guardano con malcelata commiserazione. Finalmente il caffè caldo, ben zuccherato, che mi tonifica; anche una pappa di riso al latte. Da questo momento in poi, pane non ne vedrò più. Incontro Pedro Pires, membro dell’Ufficio Politico e del consiglio di guerra, e Tchu-Tchu, il commissario politico, scuro scuro, con la barba, riservato e timido. Pires è un militare. Ha fatto la scuola militare con i Portoghesi, era sottufficiale sotto di loro, poi è passato al Movimento. Avrà trentacinque anni, è molto intelligente, preparato su tutto. Si trova lì temporaneamente. Gli spiego quello che devo fare, i problemi relativi alla realizzazione di un film e lui mi sta a sentire attento. Partecipa alla conversazione anche Tchu-Tchu, che conosce bene la regione di Kitafine. Mi dicono che andarci subito non è facile. C’è una strada, sempre in Guinea Republica, che porta verso il mare. Poi ci sarebbe
100 un tragitto in piroga per passare la frontiera.Pires realisticamente mi dice che occorrerebbero quattro-cinque giorni per organizzare il viaggio. Non mi va di stare lì; ormai ho voglia di andare all’interno, comunque sia. La questione rimane in sospeso. C’è anche il capo della base, che si chiama Botta. Silenzioso. Molti di questi capi sono di origine contadina e non sono persone di cultura (Botta, per esempio, non è uno con cui si possa parlare di film), ma si intuisce che sanno benissimo il fatto loro, sanno comandare gli uomini, accollarsi responsabilità, combattere. Insomma, ci sono sempre gli uomini giusti al posto giusto. Barry, il mio accompagnatore, è più colto, ha l’aria di uno studentello, ma è un semplice militante, senza gradi. Poi apprenderò che non ha mai combattuto. C’è anche un giornalista senegalese, Mamless Dià, ventinove anni all’incirca. È venuto per fare un giro rapido nell’interno. Mi metto a fotografare, poi parlo con Pires e Tchu-Tchu. Se ne stanno quasi sempre nella capanna aperta, attenti alle radio a transistor; ne hanno molte. Ascoltano soprattutto Radio Conakry (c’è anche una trasmissione del PAIGC) e Radio Dakar. È l’unico modo per essere informati. Esiste anche un
101 bollettino d’informazioni, stampato, del PAIGC, quindicinale, che riporta notizie della lotta, dei rapporti con i governi degli altri Paesi, eccetera. Tchu-Tchu mi racconta che nel 1965 i Portoghesi uscirono dal forte di Bulama con battelli a motore e sbarcarono a Somba, villaggio balante, in tre punti differenti, e anche a Sancoma. Un’altra formazione portoghese era partita dalla caserma di Empade. I Portoghesi volevano attaccare il villaggio di Dar Salam, presso cui sapevano che c’era una base di combattenti, perciò partirono di notte per cogliere il villaggio di sorpresa all’alba. Il loro piano era di catturare due o tre civili per farsi condurre alla base partigiana. Una parte della forza doveva attaccare il villaggio, un’altra coprire le spalle e tendere un’imboscata a eventuali gruppi di guerriglieri che fossero sopraggiunti. Ma prima di arrivare a Dar Salam furono avvistati dalla gente del villaggio, che diede l’allarme. Tutti si ritirarono dall’abitato, che fu immediatamente incendiato dai Portoghesi. Nel frattempo, uno dei gruppi portoghesi sbarcati a Somba, prima di raggiungere il villaggio cadde in un’imboscata tesa dai guerriglieri. Le imboscate i guerriglieri le fanno servendosi di mitra, mitraglliatrici
102 bipiede, bazooka e bombe a mano. I Portoghesi subirono perdite, ma chiamarono in aiuto l’aviazione via radio; arrivarono sei cacciabombardieri che li disimpegnarono. Questo è un fatto ricorrente: i Portoghesi, quando vedono la mala parata, chiamano l’aviazione per farsi tirar fuori d’impaccio. Gli elicotteri scendono a prelevarli. Tchu-Tchu stesso venne ferito alla spalla. Il proiettile ancora non gliel’hanno potuto estrarre (la maggior parte dei guerriglieri è stata ferita). Quattro giorni prima i Portoghesi avevano attaccato il villaggio di Bisasma e avevano fatto dieci vittime. A Jador, nel Nord, hanno attaccato un convitto scolastico uccidendo sette ragazzini. A Cambajarà, sempre nel Nord, nove bambini uccisi. Ormai i villaggi hanno disposto posti di guardia e il Partito ha organizzato la milizia popolare. I Portoghesi circondano un villaggio, tendono imboscate sulle strade e sui sentieri d’accesso. Ma i civili approfittano della migliore conoscenza che hanno del terreno fuggendo attraverso la foresta. Vi è da notare ancora che la maggior parte dei villaggi, soprattutto quelli provvisori, sono stati costruiti in luoghi difficilmente accessibili. Immagine: la colonna sonora del film dovrebbe essere pervasa da un continuo
103 rumoreggiare, come una tempesta all’orizzonte, un brontolio cupo: i bombardamenti, i motori degli aerei, i cannoneggiamenti. Quando ero a Kandiafarà e ‘Nthintchi Darì ogni sera si sentiva tuonare in lontananza. Non riuscivo a distinguere se si trattasse di una tempesta o della guerra. Loro invece sì, e dicevano: “Questi sono i nostri che attaccano il campo di Catio!” Giovedì 13 Agosto Aspettiamo tutta la mattina, pronti a partire. Pedro Pires è andato a cercare la scorta. Partiamo finalmente all’una e un quarto. Così attraverseremo le paludi, allo scoperto quando già sarà buio. Risulterà poi che sarebbe stato meglio partire di mattina e riposarsi qualche ora prima di attraversare le paludi. C’è anche il giornalista senegalese e il suo accompagnatore, Anselmo Cabral, che studia all’estero ed è qui in vacanza. Ho un po’ di febbre. Per quanto riguarda le scarpe, ho deciso di mettermi quelle di tela e la scelta si rivela giusta. Infatti l’acqua, una volta entrata può uscire, e le scarpe sono leggere. Spesso piove. All’inizio, istintivamente, cerco di evitare le pozzanghere; poi mi rendo conto che non
104 fa differenza e ci cammino dentro. Passiamo vicino all’ex-postazione aerea in cui è stato ferito Alsau Sambù, il mutilato di Boké. Per un bel tratto intorno la foresta è stata abbattuta, onde consentire alla postazione di sparare basso. Per questo motivo le postazioni antiaeree sono i luoghi più pericolosi: le individuano subito. Poi i casi sono due: o le batterie colpiscono gli aerei o viceversa. C’è un cratere di bomba largo dieci-dodici metri e profondo cinque o sei. Lo fotografo. Ormai siamo nel territorio della Guinea-Bissau. Dopo qualche ora di marcia ci fermiamo alla prima embuscade (si tratta di posti di guardia fissi), composta dalle solite capannucce. Decidono di fermarsi un po’ e acconsento malvolentieri, perché appena ti fermi l’acqua piovana ti si raffredda addosso. Ogni tanto per attraversare un fiume bisogna levarsi tutta la roba di tasca e immergersi fino al petto. Alle sette ci fermiamo alle paludi. Il giornalista senegalese ha male ai reni. Ci fermiamo un po’ e poi continuiamo. Cominciamo a camminare con l’acqua a mezzobusto. C’è poca luce ed è tardi per fotografare. Bisogna tenersi dietro agli altri, che sanno dove mettere i piedi. Ogni tanto si sente un fiume, invisibile, una leggera corrente in mezzo all’acqua; è profondo. Ci sono delle travi,
105 spesso una sola, a mezzo metro di profondità. Bisogna camminarci sopra tenendosi a dei paletti che sporgono fuori ogni due metri. È quasi buio quando arriviamo dall’altra parte della palude. Avremo camminato per quattro-cinque chilometri. Un gruppo, col senegalese, è rimasto indietro. Dico a Barry che bisogna sbrigarsi, altrimenti arriviamo troppo tardi. Proseguiamo per i fatti nostri. Arriviamo a un primo villaggio: Balana. Saranno le nove di sera. Sono stanco e ho fame. Ci sediamo il tempo necessario perché Barry preghi un contadino che conosce i posti di accompagnarci. Siamo in sei. Il contadino a un certo punto ci indica la strada e torna indietro. Barry scappa avanti e i militanti, che hanno gli zaini, rimangono indietro. Devo insistere almeno dieci volte con Barry perché mantenga il passo con noialtri. Continuiamo a camminare di notte nella foresta. Le gambe ormai non me le sento più. Abbiamo mangiato un po’ di riso a mezzogiorno. Poi mi rendo conto che Barry non trova la strada, ma non lo dice. Le basi, infatti, si spostano. Attorno è tutto un intersecarsi di sentieri e s’intravedono resti di basi precedenti. Due volte torniamo sui nostri passi, riconosco l’impronta delle mie scarpe. Comincio a preoccuparmi perché sono le dieci e mezzo di sera e piove. A un certo punto mi fermo e dico
106 a Barry che ci vada lui, a cercare un campo. Rimango sotto una tettoia, una cucina, dove le braci sono ancora accese. Un militante rimane con me. Cerco di riattizzare il fuoco e decido dentro di me che devo a tutti i costi asciugarmi. Ma la paglia è bagnata e non “prende”. Barry torna dopo un quarto d’ora. Ha incontrato il cacciatore della base, Ansuman Camarà, che stava andando a caccia. Dopo dieci minuti, finalmente, siamo alla base. Sono le undici e mezzo e camminiamo da dieci ore. Si svegliano in due o tre, gentili e solleciti come sempre. C’è José Pedro Da Silva e Mané Ansuman, che tutti chiamano Ansumba. Uno dev’essere il comandante della base, l’altro è di passaggio, credo che comandi un bigruppo. Chiedo se è possibile avere un po’ di fuoco; temo di buscarmi una polmonite. Mi accendono un fuocherello e portano del caffè caldo. In poco tempo riesco ad asciugarmi. L’ultima immagine della giornata è quella di José che mi rimbocca amorevolmente la zanzariera. Venerdì 14 Agosto Ci alziamo con comodo. La base è costituita dalle solite capannucce ben distanziate tra loro, nel folto della foresta. La
107 cucina disterà cinquecento metri. Parlo con Mané Ansuman (Ansumba). Fa parte dello stato maggiore di un detachement che comprende sette o otto bi-gruppi, cioè circa quattrocento uomini. Ha ventinove anni ed è nato a Bafatà; appartiene al gruppo etnico Biafaca. Nel 1963 ha partecipato a un combattimento a Cacine, forte portoghese nella regione di Kitafine. A quell’epoca era comandante di settore. Dal capo di un villaggio ebbe l’informazione che i Portoghesi volevano avviare un’azione nella zona liberata di Kitafine. I Portoghesi uscirono dal forte in trentanove, un plotone, comandati da un sottotenente (ma mi pare che un plotone comprenda trenta uomini). Volevano attaccare un villaggio di sorpresa (Casacà, Cabnep o Calabi). Partirono alle tre del mattino e prima dell’alba si fermarono a due chilometri dal villaggio per riposarsi. Lì finiva la zona ancora controllata da loro. La sentinella dei guerriglieri sentì le voci e l’odore dei sigari. Quando i Portoghesi avanzarono, l’imboscata era stata ormai predisposta. Il plotone fu accerchiato alle spalle dai guerriglieri, che cominciarono a sparare. A quell’epoca i guerriglieri avevano poche armi. Erano in quindici e avevano due machine-pistoles e alcuni Mauser a ripetizione. I Portoghesi
108
109
110 invece avevano mitra G3, mitragliatrici e un mortaio da 60mm. Dopo dieci minuti di fuoco, lanciate le granate, i guerriglieri andarono all’assalto. I Portoghesi si ritirarono precipitosamente lasciando dei morti sul terreno. I feriti li portarono via. I guerriglieri li tallonarono e a due chilometri dal campo di Cacine tesero una controimboscata. Bottino: tre Lenfil (fucili a ripetizione), duecentocinquanta cartucce e sette bombe a mano. I Portoghesi, a causa dei feriti, si ritiravano lentamente. Si coprivano le spalle sparando col mortaio. Si trattava appunto di un piccolo gruppo che copriva la ritirata. Cadde un guerrigliero. Poi, come al solito, intervenne l’aviazione a disimpegnarli. Mentre parliamo con Ansumba passa un jet Fiat G91, basso, sotto le nuvole. Non riusciamo a vederlo attraverso la vegetazione. Ansumba racconta un’altra azione intrapresa dai Portoghesi nel 1964 contro il villaggio di Cassumba, sul fiume Cacine, sempre nella regione di Kitafine. La cannoniera Pedro Nuñez si fermò al largo e sbarcò la truppa con sette battelli. Erano le otto del mattino. Non si trattava di un attacco, ma di un’azione di rastrellamento. I Portoghesi erano una compagnia (duecentotrentatré uomini) comandata da un maggiore. Lo sbarco fu protetto dall’aviazione
111 e dalla cannoniera, che bombardavano il villaggio; erano troppo forti. Tuttavia, i guerriglieri li contrastarono come poterono, sparando contro i mezzi da sbarco per dare alla popolazione il tempo di ritirarsi. I guerriglieri erano già un po’ meglio armati, avevano anche un lanciagranate da 40mm, capace di colpire a centocentocinquanta metri di distanza. Ansumba aveva dunque dato ordine alla popolazione di evacuare il villaggio. Una donna che aveva un neonato sulla schiena tornò indietro per prendere qualcosa che aveva dimenticato. Le avanguardie dei Portoghesi, che nel frattempo avevano raggiunto il villaggio, la videro e le spararono. La donna, colpita, cadde sulla schiena schiacciando il bambino, che era stato anche lui colpito. Il marito della donna accorse per tentare di salvarla e fu ucciso. I Portoghesi cominciarono a saccheggiare il villaggio, animali, riso, e a trasportare il bottino sui battelli. Il villaggio fu incendiato. Il piano dei Portoghesi era di raggiungere il villaggio di Campeane, dove sorgevano alcune case in muratura, per insediarvi un forte. Ma contrastati dai guerriglieri, non riuscirono a raggiungere il villaggio durante il giorno, tanto
112 che furono costretti ad accamparsi all’aperto. I guerriglieri, quarantacinque in tutto, alle nove di sera li attaccarono di nuovo, per stancarli e non farli dormire. Il mattino successivo, i Portoghesi con gli elicotteri portarono altre truppe direttamente a Campeane. A questo punto, i guerriglieri rischiavano di essere presi tra due fuochi. Per fortuna, il primo gruppo, stanco per i combattimenti, non fu in grado d’intervenire e i guerriglieri riuscirono a disimpegnarsi. I Portoghesi ormai avevano concentrato le loro forze a Campeane. Ansumba però non si diede per vinto e riunite tutte le sue forze attaccò a sua volta il villaggio, per tutto il giorno. L’indomani i Portoghesi furono costretti a lasciare il campo, ritirando le truppe con gli elicotteri e con la Pedro Nuñez. La battaglia era durata tre giorni. Dal racconto molto scarno, si capisce che Ansumba dev’essere un comandante (allora aveva ventitré anni) di eccezionale perizia e ardimento. I Portoghesi lasciarono un biglietto a Campeane, firmato dal maggiore, dicendo che sarebbero tornati in forze e avrebbero riconquistato il villaggio. La ricchezza, la riserva di capitale dei contadini, è costituita in genere da uno o due bovini. Quando si trovano in
113 difficoltà vendono il bue. I bovini non lavorano nei campi, né servono da bestie da soma. Forniscono solo latte e carne. Impiantare una risaia significa costruire una diga che protegga la risaia dal flusso dell’acqua salata portata dalle maree. I Portoghesi fucilavano i buoi che non potevano portare via. Spesso ne avvelenavano la carne con iniezioni. I contadini erano costretti a sotterrare gli animali uccisi. A Campeane i Portoghesi lamentarono morti e feriti. I guerriglieri trovarono un posto di medicazione con tracce di sangue. Poi, nella stagione secca, quando i contadini bruciarono la paglia, trovarono una trasmittente radio e un cadavere. Dopo l’operazione, il maggiore portoghese diede ordine che nessun civile guineano entrasse nel forte di Cacine, per impedire che vedessero i morti. Nell’operazione di Cassumba e Campeane, oltre la donna, il marito e il loro figlioletto, morirono anche un vecchio e un uomo. Delle perdite dei guerriglieri non so nulla. Mi raccontano anche che spesso gente della popolazione, ferita, si disperde nella brousse, dove muore per mancanza di soccorsi. Ansumba mi racconta che è caduto in quattro imboscate. Non è mai stato ferito. Nel mese di Gennaio, dalle cinque alle
114 otto del mattino, si leva spesso una densa bruma prodotta dall’acqua che evapora. I Portoghesi spesso hanno dei mercenari africani con loro. Quando marciano mandano sempre gli Africani davanti. Molti Portoghesi hanno barba e baffi. I soldati portoghesi, influenzati dalla propaganda, quando cadono prigionieri sono terrorizzati. Poi si rendono conto della realtà e cambiano idea. Mangiamo riso e spezzatino di cinghiale. Sono stanco e ho le ginocchia irrigidite per l’umidità. Prendo della butanzolidina e mi passa. Camminiamo con calma per un’oretta per raggiungere l’ospedale da campo; si chiama Donkà anche questo. Le solite capanne in mezzo al bosco. Una piccola folla. L’ospedale accoglie anche i civili malati. È difficile distinguere le infermiere dalle donne della popolazione. Intravedo delle “corsie”, capanne aperte, grandi, che ospitano i letti con le zanzariere. Ci sono molti bambini. Fotografo un po’. Una bambina, nel vedermi unico bianco, si spaventa. La rassicurano, e nei giorni successivi diventa cordiale. Incontro il dottore Eloijo Sambù e il responsabile dell’ospedale, Juan Viera, un uomo anziano (di cinquantotto anni, una vera eccezione). Insieme camminiamo ancora per dieci minuti, poi ci fermiamo ad aspettare Abilio Duarte,
115 che sono andati ad avvisare del nostro arrivo. È un uomo asciutto, energico, forse di trentacinque anni. Porta gli occhiali ed è di carnagione chiara. Membro del Bureau Politique, è una delle personalità preminenti del Partito. Ero stanco, sfiduciato, ma mi rianimo perché mi rendo conto che ho trovato l’uomo che fa per me. Sta a sentire attento e inquadra subito la situazione. Saliamo insieme al Comando, una capanna più grande delle a tre, divisa in tre o quattro stanze. Nella più grande ci sono due letti, un tavolo, un lume a petrolio. Dev’essere la stanza di Abilio che più tardi, senza dar peso alla cosa, sgombrerà per lasciare il posto a me e al senegalese. Noto una Lettera 22 Olivetti azzurra. Abilio non fa parte del consiglio di guerra; dirige la regione amministrativamente, da quanto ho potuto capire. Afferra al volo i problemi, li inquadra e passa all’azione pratica. È un intellettuale: con lui si può parlare di tutto. Ha un’intelligenza, un’apertura mentale, una preparazione che ho potuto riscontrare solo in Amílcar Cabral. È originario delle isole di Capo Verde. Ha frequentato l’università a Parigi o a Berlino, poi è rientrato per partecipare alla lotta. La sera mangiamo riso e
116 spezzatino di cinghiale nella stanza grande, la nostra, con Abilio, Juan, il Senegalese e Barry. Il Senegalese, che deve ripartire domattina, intervista Abilio. S’informa sull’organizzazione sanitaria e su quella dell’istruzione. Della conversazione mi colpisce come Abilio tessa le lodi degli infermieri e delle infermiere. Gli infermieri non solo assistono i malati, ma provvedono a tutto: cucinare, lavare la biancheria (le bende, che scarseggiano, nei limiti del possibile si recuperano). Devono provvedere al riso, andarlo a cercare dai contadini e poi pulirlo. Nella stagione secca c’è il problema dell’acqua, bisogna andare a prenderla lontano. Inoltre, provvedono al trasporto dei feriti, decine e decine di chilometri da percorrere nell’acqua durante la stagione delle piogge e nell’arsura bruciante della stagione secca. Infine, quando per motivi di sicurezza l’ospedale deve spostarsi, cosa che avviene ogni quattro o cinque mesi, sono gli infermieri che costruiscono le capanne per i ricoveri, che trasportano i feriti, i malati e il materiale sanitario. Inoltre, devono andare a cercare i medicinali alle frontiere. Medicine e un po’ di petrolio è tutto ciò che viene importato, per il resto l’ospedale è autonomo. Ogni ospedale ha un cacciatore,
117 un pescatore e un raccoglitore di frutti di palma necessari per la produzione dell’olio. È difficile immaginare la quantità di lavoro e di sacrificio che richiede il funzionamento di un ospedale da campo in una zona liberata, priva di strade, di collegamenti, di energia elettrica, di acqua corrente. E a tutto questo provvedono gli infermieri. Il cacciatore dell’ospedale, ‘Nfali, tempo fa ha ucciso due bufali. Il pescatore non sempre può lavorare, perché mancano le reti. Infatti, pesci non ne ho mai visti. Parliamo sino a tardi. Poi Abilio prende un lume, un mitra, ci raccomanda di dormire vestiti (è una precauzione indispensabile, in caso di allarme o di attacco) e ci augura la buonanotte. Per terra si vedono millepiedi color rosso bruno lunghi dieci centimetri. Un po’ alla volta ci si fa l’abitudine. Prima di dormire bisogna ripulire l’interno della zanzariera dalle zanzare. Sabato 15 Agosto Il Senegalese parte alle nove e mezzo. Dovrebbe ripercorrere tutta la strada fatta l’altro ieri, deviando per di più per assistere all’attacco di un forte.
118 Mi sembra difficile che ce la faccia, e infatti arriverà tardi all’appuntamento per l’attacco e non raggiungerà Kandiafarà. Noi torniamo all’ospedale. Il dottor Eloijo Sambù e un’infermiera mi raccontano di nuovo la storia di Mamadou ‘Ndjei, il comandante di ventinove anni che fu ferito nell’Agosto del ’69 nella Zona 7, a Est, nel corso di un attacco elitrasportato. Fu ferito da una pallottola che gli entrò nello stomaco e uscì dalla regione lombare, provocando la perforazione dello stomaco e dell’intestino. Occorsero quattro giorni per trasportarlo qui all’ospedale in barella. Per sua fortuna, non aveva mangiato prima di essere ferito. Quando arrivò aveva perso molto sangue, era svenuto e in stato di choc. Niente delirio. Ci fu un consiglio sul da farsi tra il medico (Eloijo), il responsabile dell’ospedale Juan Antonio Viera e Costantino Texeira, comandante del fronte di operazioni locale. Alla fine decisero di operarlo, altrimenti di certo non sarebbe sopravvissuto. Dovevano aprirlo per sapere quali organi erano stati lesi. Andavano a tentoni, non potendo fare esami e accertamenti preliminari. L’operazione fu eseguita di notte e durò due ore e mezzo. A quanto ho capito, il chirurgo tirava fuori l’intestino e suturava man mano le lesioni delle pallottole. Ho visto la “sala operatoria”, una capanna
119 senza pareti (di giorno infatti è necessaria la luce per operare) e ho cercato d’immaginare l’operazione notturna, il ferito steso sul tavolo operatorio, gli insetti attirati dalle lampade a petrolio, i mormorii in creolo tra il medico e gli assistenti, la tensione. Il chirurgo, mi ha spiegato, temeva che dopo l’operazione si producesse un’occlusione intestinale. Lo alimentarono con siero con cui gli umettavano le labbra; evidentemente non disponevano dell’ipodermoclisi. Prima, con la sonda gli liberarono lo stomaco dagli acidi e dai gas. Non disponendo di sangue per la trasfusione, gli iniettarono semplice plasma. Il duodeno risultava perforato, così come il piloro, l’intestino tenue e il colon. Egipoplasia. La scena era illuminata da un petromax. Si tratta di operazioni che andrebbero fatte in fretta. Servirono compresse di acqua calda per evitare che l’intestino si contraesse o comprimesse. Il chirurgo procedeva a tentoni, temeva fossero stati lesi i reni o il femore. All’operazione partecipavano anche Juan, l’anestesista José Biague, due infermieri (Laurentino e Samba), due infermiere (Marietù Sambu, strumentista, e Nhali Mane). Pioveva. Appena finita l’operazione, a mezzanotte, il ferito fu evacuato alla volta di Boké. Prima durante e dopo l’operazione
120
121
122 il polso e il respiro erano bassissimi. Per trasportarlo ci vollero dodici persone, tra infermieri e militanti. Portavano la barella in due, a turno, sulla testa. Aveva piovuto molto e nelle paludi l’acqua era alta. In alcuni punti dovettero attraversare a nuoto sostenendo la barella a pelo d’acqua, sei da un lato e sei dall’altro. Attesero tre giorni il camion da Boké, a Simbalì. Alcuni medici erano venuti loro incontro a piedi, da Boké. A Boké lo operarono di nuovo per controllare se i punti avevano retto. Sì, avevano retto. Mi dicono che un uomo di quarantacinque anni non sarebbe sopravvissuto. Nelle paludi, se si è sorpresi dai jet, dagli elicotteri, ci si può nascondere tra l’erba alta. Ma qualche volta ci sono tratti di centinaia di metri allo scoperto. Fatumata Djassi (Cara), vent’anni, di Bissau, è infermiera e chiede di raccontarmi la sua storia. Ci vorrebbe molto più tempo per fare queste interviste. Non riescono a dare un ordine temporale al racconto. Cerco di ricostruire. Fatumata viveva a Bissau con la nonna. Partì per raggiungere il suo villaggio natale, Gambarà, nella regione di Quinarà (da quanto ho potuto capire, in Africa l’inurbamento non è ancora definitivo. Ogni famiglia torna ogni tanto nel suo
123 villaggio d’origine). Doveva essere il 1963, aveva cioè tredici anni. E la situazione non era come adesso, cioè non esistevano ancora le zone liberate. La gente poteva spostarsi, non so se clandestinamente o no. Il viaggio lo fecero in piroga, che è il mezzo di trasporto più usuale. Si unirono a un gruppo di militanti che raggiungeva il maquis. Non so se viaggiassero di notte, per evitare d’incontrare i Portoghesi. Viaggiarono da Bissau a Pedreagulié (“Pietre aguzze”). Una piroga grande è lunga otto-nove metri e può trasportare da venti a trenta persone; ha i remi e anche la vela. Non ne ho potute vedere. Fatumata era venuta a trovare i suoi parenti. Il villaggio era stato incendiato, la madre deportata dai Portoghesi nel corso di un rastrellamento (tattica dell’hameu stratégique). Il padre si era salvato dal rastrellamento perché assente in quel momento. Non ho capito se Famatà andò a Bissau dopo questi fatti, oppure se i fatti accaddero mentre era a Bissau; mi sembra più probabile la prima versione. Comunque, arrivata a Gambarà, aveva saputo che le sue amiche e coetanee, perfino una sua sorella minore, avevano raggiunto il maquis. E così era andata anche lei, per emulazione, per non restare sola, esclusa. A noi riesce difficile comprendere come possa accadere
124 tutto ciò, ma forse si può se si valuta quanto è sentito il Movimento di Liberazione in Guinea, che effetto di attrazione, di esaltazione, abbia sulla gente semplice, sui giovani. Sentono che è qualcosa di nuovo, che è un mezzo per ritrovare se stessi. Così raggiunse la base di Tebé. Erano in molte, forse cinquanta ragazzine. Facevano scuola e c’era un responsabile che le addestrava alle armi. Era il ’64. Un giorno un ricognitore sorvolò la base. Sospettarono di essere stati individuati. La mattina presto prepararono i bagagli per sloggiare, poi sentirono il rumore dei motori sul fiume: erano vedette (quattro) che si avvicinavano. Sopraggiunse una pattuglia di militanti che sollecitò l’evacuazione della base. Quando le ragazze arrivarono nelle grandi risaie, furono sorvolate da due jet, che probabilmente non le videro. I jet cominciarono a bombardare la base; facevano dei giri e continuavano a sorvolarle. Le ragazze erano divise in gruppi e si nascondevano tra l’erba. Il bombardamento durò tutto il giorno; evidentemente i jet si avvicendavano. Uno degli aerei fu abbattuto. Quella notte le ragazze arrivarono a Bojol. Poi Famatà frequentò per un anno l’internato di Conakry; in seguito fu mandata a Kiev, in URSS, a specializzarsi come
125 infermiera per un anno. Al suo ritorno la mandarono a Cundara, poi a Boké. Nel ’66 e ’67 accompagnò Cabral e Basil Davidson nel viaggio che fecero all’interno, nella regione di Kitafine. Un giorno, il vicino villaggio di Cassumba fu bombardato col napalm. Accorsero. Un militante addetto a una postazione antiaerea era morto, un altro era ferito, gravemente ustionato. Non aveva più abiti addosso. Famatà lo curò con mercurocromo; bisognava sventolarlo per evitare che le mosche si posassero sulle piaghe. Quasi tutto il corpo era un’unica piaga. Poi sarebbe stato necessario lavare le piaghe con soluzione fisiologica e togliere la pelle carbonizzata. Famatà gli fece un’iniezione di morfina e gli rimase accanto tutta la notte. L’ustionato da napalm perde molto plasma; bisognerebbe reintegrarglielo. Fu trasportato a Boké. Ormai i forti portoghesi non dispongono più di mezzi blindati perché le strade non sono percorribili. Il materiale lo mandano con gli aerei e lo paracadutano. Ogni forte ha una piccola pista. Spesso vicino al forte c’è un villaggio. La gente del villaggio informa i militanti. Con Abilio parliamo dei fatti dell’isola di Como, un’isola quasi attaccata alla
126 terraferma che i Portoghesi tentarono di riconquistare senza riuscirci. Avvenne di tutto: quando i militanti finirono le munizioni, i Portoghesi, non si sa perché, cessarono di attaccare. E non appena le munizioni arrivarono, i Portoghesi attaccarono di nuovo. Scherzi del caso, fortuna, destino. La popolazione rifiutò di andarsene. Con Abilio parliamo di Kitafine. Chiama Mamadou, che conosce bene la regione. Mi disegna una cartina dove indica nomi di villaggi: Campogne, Codimbra, Campon, Bacodai. La sera parliamo con Abilio sino a tardi. Anche lui non riesce ad andare a letto presto. Ho offerto a lui e a Juan del gin; ha rifiutato cortesemente dicendo che per me è indispensabile, per loro no. Abilio ha convocato il commissario politico, Brum, e Mamadou. Insieme abbiamo fatto un programma di lavoro di due giorni. Devo visitare i villaggi, vedere i contadini al lavoro nelle risaie, mi faranno vedere come funziona una scuola (è tempo di vacanza, ora) e possibilmente mi faranno sentire della musica locale e vedere dei balli. Ma è difficile, perché la gente lavora nei campi dalla mattina alla sera in questi giorni, ed è affaticata.
127 Domenica 16 Agosto Andiamo a Botche Bdau, un villaggio non lontano. Incomincio a muovermi con una certa disinvoltura nella giungla. Ho imparato che quando ci sono formiche sui sentieri, delle strisce brulicanti di formiche di tutte le dimensioni, bisogna camminare in fretta altrimenti ti si arrampicano sui pantaloni e danno morsi acutissimi. Botche Bdau vuol dire “terra di Bdau”, evidentemente dal nome del fondatore del villaggio. È vicino al villaggio di Favrat. Se non ho capito male, la terra qui non è, e non era, proprietà privata: è di chi la dissoda, di chi impianta campi e risaie. L’estensione della terra supera di gran lunga le necessità di sussistenza. La Guinea è grande come la Lombardia e un pezzo di Piemonte, e la popolazione è di sette-ottocentomila abitanti. Il villaggio è molto sparpagliato. Praticamente è composto da tre gruppi familiari. Ci fermiamo al primo gruppo di case, composto da una casa grande, d’argilla e paglia, e tre capanne più piccole. Gli uomini sono nei campi. Quattro infermiere, tra cui Amelia, una specie di Giunone possente, sono venute a pulire il riso. Mortai di legno e grossi pestelli. Battono a ritmo. Amelia lancia
128 il pestello in alto e batte le mani prima di riafferrarlo. È strano vedere la naturalezza con cui queste ragazze, che hanno viaggiato, che hanno studiato un anno o due in Europa Orientale, si reinseriscono nella vita contadina. Sono rimaste contadine e sono contente, come lontre che abbiano ritrovato l’acqua. Una delle infermiere, giovane e carina, porta il bambino legato sulla schiena. Nella casa grande c’è una bemba, cioè una grande anfora di argilla secca che serve da deposito per il riso. La popolazione qui è balante. Andiamo nelle risaie a vedere come lavorano i contadini. Troviamo l’homen grande che lavora col figlio. Con le lunghe pale di legno rinforzate di ferro in punta, scavano la terra sommersa dall’acqua e formano dei filari asciutti sui quali pianteranno il riso già germogliato nei vivai. Alla semina lavoreranno anche le donne, ma questo lavoro pesante lo fanno gli uomini, Lavorano dalla mattina alla sera, e benché le case distino due-trecento metri, non tornano a casa per mangiare. Si portano dei fagottini. Qui i contadini spesso mangiano riso condito con peperoncini e basta. Il paesaggio, un’immensa distesa palustre segnata dai disegni geometrici delle risaie, ricorderebbe l’Estremo Oriente, il Vietnam,
129 se non fosse per i torsi scuri degli uomini che sguazzano nel fango come bufali. Li fotografo e camminando guasto un po’ il loro lavoro. Non se la prendono, hanno l’antica pazienza dei contadini di tutto il mondo. Lontano vediamo il medico, Eloijo, che torna dalla visita a un ambulatorio civile. È partito presto questa mattina, e si è fatto un bel po’ di chilometri. Torniamo alle case. Mamadou mi fa vedere come coltivano la manioca. Ne mangiamo un po’, cruda. Non è male. Mangiamo. Il riso è servito in un unico scodellone, condito con olio di palma, rosso. Mi lasciano un cantuccio della scodella e mi danno un cucchiaio. L’olio di palma, un po’ rancido, irrita la gola. Dopo, vado nella capanna dell’homen grande e parlo un po’ con sua moglie. Avrà quarantacinque anni e appare segnata, sofferente. Non vuole dirmi il suo nome perché altrimenti, dice, quando lei morirà, esso resterà scritto insieme agli altri: preferisce che invece scompaia con lei. Si capisce che è intelligente, arguta, anche se fiaccata. Ha un modo dignitoso e pensoso tutto suo di stare in casa. Ha due figli grandi, una figlia è morta. Stamattina è andata al fiume a pescare granchi. Questa sera li mangeranno col riso. Mi racconta che non lontano dal villaggio c’era un campo portoghese, ora abbandonato.
130 Medjo. Un giorno vennero ad attaccare il villaggio, a piedi. La donna mi indica da dove arrivarono. Il marito e gli altri fuggirono verso la foresta, lei andò verso le risaie e si nascose. Era la stagione secca e avevano già raccolto il riso. Non sa quanti potessero essere. Lei si nascose nei manguiers o paletuviers. Era il 1964 o 1965. Nelle vicinanze c’era una base di militanti che impegnarono in combattimento i Portoghesi prima che arrivassero al villaggio, così la gente ebbe il tempo di mettersi in salvo. A quell’epoca i militanti erano male armati, e non poterono tener testa ai Portoghesi; dovettero ritirarsi. I Portoghesi incendiarono il villaggio. Presero le manducas secche, le foglie delle canne, e le misero nelle bembas in modo che il riso s’incendiasse. La donna era fuggita con quello che aveva indosso. I Portoghesi restarono tre giorni nel villaggio incendiato, costruendosi dei ripari. A quel tempo, il rapporto di forza era tutto a loro favore. La donna rimase nascosta nelle risaie sino a notte alta. Poi fuggì in un villaggio vicino, ‘Nchulba. Aveva visto le fiamme dell’incendio delle case. Il giorno dopo il marito fece un giro, andò al villaggio di Unal e lei lo raggiunse lì. Poi il marito tornò alla loro casa. Era tutto distrutto.
131 Rovistò tra i detriti fumanti cercando di salvare qualcosa; era rimasto un po’ di riso in fondo ai recipienti. Restarono tre giorni a Unal, poi tornarono a ‘Nchulba, dove rimasero tre anni. A ‘Nchulba i Portoghesi non si arrischiavano ad andare perché sorge al limitare della foresta, protetto da un piccolo fiume. Furono ospitati e nutriti dalla gente di ‘Nchulba, poi costruirono la loro casa nel villaggio. Gli abitanti li rifornirono di riso fino al nuovo raccolto. Note. A quell’epoca i militanti erano organizzati in gruppi di combattimento locali; non avevano divise, erano vestiti da contadini. Nella foresta imparavano a usare le poche armi che avevano; poi tendevano imboscate e interrompevano le strade. Quando i Portoghesi attaccarono Botche Bdau, non so se s’imbatterono per caso nei militanti, o se questi ultimi li tenevano d’occhio. Quattro o cinque anni dopo, i Portoghesi furono cacciati da Medjo. I contadini tornarono al villaggio e lo ricostruirono un po’ più diradato, con la tenacia e un attaccamento alla terra tipico dei contadini, dei Balantes in particolare. A Tombalì i contadini ricostruirono il loro villaggio distrutto due volte nella stessa
132 stagione. Le giare piccole per conservare il riso si chiamano canarì, in creolo puti. Sono fatte a mano, con l’argilla. Per cuocerle le coprono con foglie di riso. Servono a conservare riso, manioca, patate dolci, miglio. I piatti e i bicchieri sono fatti con la calebasse, sorta di zucca usata anche per recipienti, strumenti musicali, cucchiai. Con la guerra di liberazione c’è stato come un regresso alle usanze primitive. I Portoghesi gestivano degli spacci dov’era possibile comprare fiammiferi, stoffa, bicchieri, sapone; ora ci sono i magazzini del popolo, ma la merce disponibilie è scarsissima, anche a causa della sporadicità dei trasporti. Nella capanna della donna c’è anche un balé, un cesto di foglie di palma con dentro coperte, zanzariera e abiti, sempre pronto in caso di emergenza, di attacco, per fuggire. I Portoghesi attaccano spesso durante il raccolto per distruggere il riso. Sono stanco e mi addormento nella casa dell’homen grande, su un letto di stuoie intrecciate. Quando mi sveglio, la padrona di casa ha in visita tre o quattro donne di un villaggio vicino. Non sono per nulla sorprese dalla mia presenza, e continuano a parlare tranquillamente. Andiamo con Barry a visitare le altre case del villaggio, distanti un centinaio di metri. Tutti si lasciano fotografare senza
133
134 difficoltà, anzi con piacere, tranne una donna di un villaggio vicino che si allontana, poi si volta e sorride con civetteria. Noto le casette degli irans, dei feticci; è difficile distinguerle dai pollai. Torniamo al primo gruppo di case. I contadini stanno rientrando dal lavoro, stanchi, con le lunghe pale sulle spalle, e si mettono a chiacchierare davanti alle case, come tutti i contadini del mondo. C’è anche l’homen grande, si chiama Baratà Fanda. Un uomo tra i quarantacinque e i quarantotto anni. Ha un tracoma. Parlo con Brum Na Sade, il commissario politico della zona. Ha ventidue anni ed è di Portugol, un villaggio del Nord. Mi racconta di come attaccavano il campo di Medjo. All’inizio, nel ’63, quando cominciò la lotta, il campo non esisteva. C’era un villaggio abitato in parte dai Foulas. I Foulas se ne andarono, non volevano fare la guerra (i Foulas sono musulmani e più evoluti socialmente rispetto agli altri gruppi etnici. I Portoghesi hanno sempre cercato di servirsene, delegando loro qualche potere e facendone in un certo senso dei privilegiati rispetto agli altri. Per questo motivo i Foulas hanno sempre rappresentato un ostacolo alla lotta di liberazione,
135 poiché temevano di perdere i loro privilegi). Nel ’64 i Portoghesi lanciarono una controffensiva e costruirono un forte presso il villaggio di Medjo. Costruirono case in muratura che collegarono con trincee e circondarono il tutto di barbelés, spirali di filo spinato. Avevano due cannoni e tre mortai; i guerriglieri disponevano solo di pistole, machine-pistoles e bombe a mano. I Portoghesi, cento, centocinquanta uomini in tutto, cominciarono ad attaccare la popolazione per intimidirla. Il PAIGC costituì un bigruppo per attaccare il campo e contenere l’aggressività dei Portoghesi. Attaccavano di sorpresa, la notte. Poi nel ’66-’67, quando ricevettero armi, attaccarono tutte le notti. I Portoghesi lasciarono il campo all’improvviso e si ritirarono a Guileje. Avviene spesso che i Portoghesi si ritirino di nascosto. Brum mi spiega come la lotta di liberazione non cominciò alla frontiera ma il più delle volte all’interno, e poi si espanse. Torniamo alla base che è buio. Abilio ha fatto accendere un fuocherello per permettermi di asciugarmi. Seguito della storia di Fatumata Djassi (Cara). È venuta su al Comando, contenta che ci si occupi di lei. L’affettuosa attenzione di Abilio, di Juan, converge su di lei. Si
136
direbbe una di loro, una di famiglia. Cara ormai ha venti-ventun’anni, cioè in età da marito. L’anno scorso il padre venne alla base dicendo che voleva riportarsela a casa perché l’aveva promessa in matrimonio a un uomo del suo villaggio. Il padre, non bisogna dimenticarlo, ne avrebbe avuto un utile, un bue, forse qualcosa di più; era arrivato accompagnato da un anziano, amico o parente. Ci fu una riunione del Comitato di villaggio, composto da tre uomini e due donne, per discutere la questione. Alla riunione, oltre a Cara e a suo padre, intervennero anche Juan, responsabile dell’ospedale, e Brum Na Sade. La discussione fu lunga: Cara affermò che non voleva sposare un uomo che non amava e lasciare il Movimento. Il padre alla fine andò via convinto; tutto sommato, gli avevano dimostrato rispetto. Questo è un elemento determinante: il rispetto per le opinioni e le persone. Mai ho notato, nei rapporti, nella gerarchia, persino in quella militare, quell’atteggiamento autoritario, disciplinare, così ovvio, apparentemente ineliminabile, tra di noi. Tutto viene discusso sino alla noia, fin nel minimo dettaglio, finché tutti sono persuasi. AmÍlcar Cabral mi raccontava che un’équipe della televisione inglese si era meravigliata che un attacco, un’azione di guerra, fosse oggetto di interminabili
137
discussioni. E lui aveva risposto che la disciplina, che è un atteggiamento ormai acquisito per gli Europei, il portato di una tradizione, non lo è altrettanto per loro. “Il soldato inglese,” mi diceva, “è abituato a ricevere ordini e ad eseguirli senza discutere. Il nostro militante no, bisogna convincerlo ed è giusto che sia così.” Questo spiega l’assoluta mancanza di clima militaresco nel Movimento e la conseguente difficoltà di stabilire quali rapporti gerarchici esistano tra gli uomini. I capi ci sono, ma non decidono da soli. Si riuniscono, parlano, e nei casi importanti, tutti intervengono. La conseguenza è, credo, che la gerarchia si sviluppa e si afferma spontaneamente: quelli che dicono cose sensate, automaticamente acquistano potere. Il clima è quello di un dialogo continuo, di un’intesa fraterna, e ognuno trova il suo posto, la sua collocazione naturale. I più intelligenti e dotati non impongono mai il loro punto di vista, bensì cercano di convincere gli altri con infinita pazienza. Non ho mai sentito qualcuno tagliar corto e imporre la propria opinione. Il vecchio Juan, responsabile dell’ospedale, aveva qualche difettuccio tipico degli anziani: non sempre capiva ciò che si discuteva, s’intestardiva e stentava a seguire il filo del discorso. Abilio
138
gli spiegava con pazienza, con affetto e devozione filiale, pur essendogli gerarchicamente molto superiore. Bisogna pensare anche al dramma dei vecchi. La lotta di liberazione ha significato implicitamente il passaggio del potere dai vecchi ai giovani. Prima erano gli anziani che comandavano; in ogni villaggio erano gli homen grandes che si riunivano, che prendevano le decisioni. La lotta di liberazione, la dinamica della rivoluzione, per forza di cose ha portato alla ribalta i giovani, e oggi i comitati di villaggio sono costituiti da giovani. Per quanto possa apparire singolare, si direbbe che tutto ciò sia avvenuto senza lacerazioni, senza fratture. Gli anziani, mi sembra, hanno abdicato al loro potere consensualmente, hanno sentito che ciò era necessario. Non è poco. L’anziano Juan riconosce il potere di Abilio, tutti gli altri stravedono per lui e ne riconoscono spontaneamente il potere. Il caso di AmÍlcar Cabral è differente, perché ha quarantotto anni e viene quindi considerato un homen grande. Comunque è interessante notare come egli stesso cerchi di continuo di neutralizzare, di minimizzare il culto della personalità che automaticamente gli fiorisce intorno. Il popolo e i militanti ovviamente sentono il bisogno di concretizzare
139
140
l’ideale della lotta e della rivoluzione in una persona fisica; e così in molte basi e in molte scuole campeggia il ritratto di Cabral. La cosa è giustificabile, tenuto conto del fascino personale del segretario del Partito. Ma Cabral, ogni momento, quando era a Conakry, mi presentava altri esponenti del Partito, tributando loro un riconoscimento, un rispetto privi di untuosità: cercava di decentralizzare. Credo sia stato lui a infondere quest’impronta democratica nel Movimento e nel Partito. Evidentemente si tratta di una personalità eccezionale. Stiamo finendo di parlare di Cara e questa, contenta e fiduciosa, toglie un moscerino dal colletto di Abilio. È un gesto affettuoso, fraterno e filiale nello stesso tempo. Mi sfiora il dubbio che possano esservi coinvolgimenti sentimentali, ma lo scarto vergognandomene. È il loro modo di essere: vivono un momento splendido e irripetibile, un momento di fraternità, di fede: la nascita della loro nazione. Più tardi, a tavola, Juan tornerà su un argomento che è stato all’ordine del giorno in queste serate. Tre o quattro giorni fa è nato un bambino e il medico ha constatato una malformazione, un’affezione polmonare o cardiaca che non è in grado di diagnosticare. Bisognerebbe mandarlo a Boké ma la madre
141
non è in grado di camminare e nello stesso tempo non vuole lasciare il bambino. Ogni sera Juan torna sull’argomento. Comincio a capire un po’ il creolo, a seguire il senso del discorso. Juan: “Fijo de Marietu esta muito mal. Medico fala sò pa mandal pa hospital de Boké. Ma Marietu na se estado ca pode anda”. Le parole me le ha trascritte Barry. In realtà il creolo è ancora una lingua parlata, non scritta. Diventerà la lingua nazionale, ma per il momento, non esistendo dizionari, grammatiche, libri di lettura, anche nelle scuole insegnano il portoghese. Continuano a parlare del figlio di Marietu; non riescono a prendere una decisione, a conciliare il contesto clinico con quello umano, affettivo. Domani apprenderò che hanno mandato il bambino, ma non hanno potuto impedire alla madre di andare anche lei. E la donna è partita per undici ore di cammino in mezzo alle paludi, con l’acqua a mezzobusto, avendo partorito solo cinque giorni prima. La sera parliamo fino a tardi con Abilio. Parliamo dell’udienza che il Papa ha concesso recentemente ai leader dei Movimenti di Liberazione delle colonie portoghesi. S’infervora e si alza in piedi: “Che cosa vogliamo noi? Dare da mangiare agli affamati! E questo è cristianesimo! Dare una casa, l’istruzione, l’assistenza medica! E non è cristianesimo,
142
questo?” Veniamo al nazismo. Assume un tono grave, compreso: “Noi nutriamo molto rispetto per le vittime del nazifascismo in Europa. Ma quei fatti, la deportazione in massa, il genocidio, lo sterminio delle popolazioni, non ci hanno meravigliato, scandalizzato, perché da noi sono fatti correnti, usuali da quattro o cinque secoli! La differenza è che quando questi fatti succedevano e succedono in Africa, non se ne è parlato, mentre invece quando sono successi da voi (e la particolarità di Hitler è consistita in questo: aver adottato in Europa i metodi che in Africa erano correnti), allora avete aperto gli occhi e vi siete scandalizzati!” Sto leggendo il libro di Basil Davidson Madre nera: cinquanta milioni di Africani deportati (c’è chi dice cento) e le guerre, le razzie per fare prigionieri, i morti nelle interminabili marce per raggiungere la costa, le vittime della traversata atlantica, quando la “merce” veniva stipata e incatenata in ponti alti cinquanta centimetri, i metodi di certi comandanti di navi negriere che scaricavano disinvoltamente il “carico” a mare quando venivano sorpresi dalle navi antischiaviste. Chi può dar torto ad Abilio? Il Brasile, Haiti, Cuba, gli Stati Uniti d’America popolati di Africani: un’emorragia di vite umane da calcolare nell’ordine di
143
centinaia di milioni! In confronto, Auschwitz, Lidice, Oradour, Marzabotto diventano roba di poco conto! Abilio ha ragione; e ciò che sempre mi colpisce è la mansuetudine degli Africani, la loro mancanza di rancore. Tante volte mi sono sentito a disagio: com’è che non mi odiano più? In fondo non mi conoscono bene, sono arrivato quasi senza credenziali. Eppure mi trattano da amico, si fidano di me. Lunedì 17 Agosto Andiamo a ‘Ntchulba, un villaggio non lontano da Botche Bdau. Attraversiamo un ponte fatto di tronchi contorti. Dobbiamo visitare una scuola; in realtà hanno organizzato solo per me, dato che siamo in periodo di vacanze, un esempio di attività scolastica. Ma arriviamo tardi e i ragazzini si sono sparpagliati nei dintorni. Case rotonde. Ci sono donne che stanno estraendo l’olio di palma. Ci trasferiamo alla scuola. Una grande capanna senza pareti, nella foresta. Cinque, sei ragazzi e il maestro Coumba Tchouda. Comincio a intervistare un ragazzo, ma si è fatto tardi. Propongo quindi di tornare al villaggio, di mangiare e poi continuare il lavoro lì. C’è anche Brum Na Sade; mangiamo tutti
144
145
146
sotto la veranda di una casa contadina riso condito con olio di palma oppure con pollo in scatola americano. Opto di nuovo per il riso all’olio di palma, ma non riesco a mangiarne molto. Tutti si servono con le mani. Malam Sanha, quattordici anni, del villaggio di Ingassane. Ha due fratelli più piccoli. Il padre era pescatore ed è morto quando Malam era ancora piccolo. Aveva cominciato a studiare con Mamadou Da Bo all’età di dieci anni. Un giorno dell’anno scorso jet e elicotteri hanno bombardato il suo villaggio a mezzogiorno. Non avevano fatto in tempo a sentire il rumore, stavano mangiando. La madre non c’era. Era a Tchondinalu, un villaggio non lontano. Malam scappò con i fratellini, portandosi il più piccolo in braccio. Gli sembra di aver corso per un’ora, dal villaggio alla foresta. Più vicino al villaggio c’era una foresta rada che non offriva nessun riparo. Bombardarono anche i dintorni del villaggio, le risaie. Poi dagli elicotteri sbarcarono i soldati. Più tardi, verso sera, Malam tornò al villaggio; la sua casa era bruciata. Prese una valigia della madre, che non era ancora tornata, e andarono dai loro parenti in un’altra casa del villaggio rimasta intatta. Poi ricostruirono la casa. Ma di giorno, era la stagione secca, andavano nella foresta dove avevano
147
costruito dei ripari provvisori. Avevano paura di accendere il fuoco. Così mangiavano nel villaggio alle cinque, le sei di mattina, poi andavano nella foresta e la sera mangiavano quando tornavano al villaggio per dormire. Non lontano, nella foresta, c’era una base di guerriglieri. Un giorno ebbe male al ventre e andò all’ospedale di ‘Ntunau. Quando guarì tornò a studiare e poi entrò all’internato. Ora è la stagione delle piogge e quindi, anche di giorno, restano al villaggio. Malam non ha paura; entrerà nel Partito. Vuole che la guerra finisca. Vorrebbe fare l’ingegnere, riesce bene in aritmetica. Guardo il dettato che ha scritto. Ha una bella grafia ordinata e ha fatto pochi errori. Il maestro Coumba Tchouda ha ventidue anni. È nato a Bisasma (regione di Quinarà). Prima faceva parte della milizia popolare nel settore di Quinarà. Nel ’66 o ’67 è entrato nel Partito. Hanno chiesto chi sapeva leggere e scrivere e l’hanno destinato all’istruzione. In precedenza ha lavorato in altri villaggi e poi è venuto all’internato di N’Tchoulba, ma è anche responsabile dell’istruzione nel settore di Kitafine-Balane. Mi parla di Badamone Na Suma, un ragazzo che è con lui e che praticamente ha adottato. Glielo hanno affidato nel Novembre del ’69. Il ragazzo era disperso e orfano di
148
madre. La commissaria politica Carmen glielo affidò a Bulevi Samba. Dapprima Badamone era molto chiuso, non parlava se non con lui, di sera. All’inizio non voleva andare a scuola; poi cominciò ad andarci col maestro e a poco a poco vi s’interessò. C’erano altri ragazzi che costruivano la scuola (bello, questo particolare!), e Badamone un po’ alla volta si inserì nel gruppo, prese confidenza. Ora impara rapidamente ed è molto portato per il disegno. Il ragazzino è presente; si sente che è molto legato al maestro. Questi non si dà importanza per quanto ha fatto per il ragazzo, gli vuole bene e basta. Mentre parla, ancora una volta penso che la loro dimensione umana è così differente dalla nostra: qui in un certo senso tutti sono figli, fratelli, padri… Tutto si risolve, si compone nel nome di un ideale, di una fede comune. Badamone Na Suma ha dieci anni. È nato a Matu Foroba, un grande villaggio situato in una zona ancora controllata dai Portoghesi (ancora oggi in parte), vicino a Catio, dove c’è un forte portoghese. Si ricorda dei bombardamenti, dei grossi aerei che bombardavano anche la notte. Di due donne morte. Degli aerei PDV. Di sua madre morta quando era ancora piccolo. Mentre parlo con loro mi sento sempre più stimolato dall’idea
149
d’introdurre nel film la storia di un ragazzino che rimane disperso nel corso di un attacco a un villaggio, che poi viene raccolto da un gruppo di guerriglieri, segue il trasporto di un ferito, arriva a un ospedale (l’operazione chirurgica di notte) e poi arriva a un internat, dove c’è un maestro che se ne prende cura. E poi il viaggio di ritorno, il villaggio che viene liberato. Il ragazzo ritrova la madre e insieme cominciano a ricostruire la loro casa. Lungo quest’arco di racconto tenue, strutturato sulla storia del ragazzo, si potrebbero collocare tanti episodi, tanti personaggi. La storia non dovrebbe necessariamente seguire ciò che avviene al ragazzo, ma potrebbe spezzettarsi in diversi episodi anche non pertinenti tra loro, imperniati su personaggi che abbiamo incontrato. Per esempio, dopo che il ragazzo ha seguito per qualche giorno il gruppo dei guerriglieri ed è ormai all’ospedale, potremmo tornare sui guerriglieri che attaccano un forte o cadono in un’imboscata (dove muore il comandante). Mamadou Da Bo, responsabile dell’istruzione, che conosce bene la regione di Kitafine, mi racconta che nel ’64 era a Quinarà e partecipò a un attacco al campo portoghese di Tete. I guerriglieri attaccarono il forte mentre un gruppo
150
copriva loro le spalle. La popolazione cominciò a fuggire verso il campo portoghese (era presa tra due fuochi). Una donna che aveva una bambina di sei, sette anni, rimase uccisa e la bambina rimase sola. Un gruppo di guerriglieri la trovò mentre camminava sulla strada vicino a Tete. La presero con loro. Poi la consegnarono alla famiglia, che viveva nella zona liberata (la madre non era di Tete). La trovarono alle otto di sera, stava facendo buio. Mamadou mi disegna la piantina dell’operazione. La sera parlo con Abilio Duarte. Gli accenno allo schema di soggetto che sto formulando. Con molto garbo mi esprime delle riserve sull’idea del ragazzo: evidentemente teme le sdolcinature, ma poi conclude subito che la decisione spetterebbe a me. Capisco che mi servirebbe proprio un tipo come lui per realizzare il film. Una mente organizzata. A Conakry mi diranno che è un artista, compone musica, e l’inno nazionale l’ha scritto lui. Mi sembra di intuire anche che loro, coinvolti in una lotta immane, avrebbero bisogno di qualcosa di eroico, di semplice, quasi di retorico. Hanno bisogno di essere incoraggiati. Che senso ha, quindi, che un regista europeo venga qui a girare un film? Per quanto mi riguarda, sento che l’operazione può avere un senso solo come mediazione culturale. Non m’interesserebbe
151
comporre una marcetta trionfale, semplicistica, corroborante per loro; mi piacerebbe invece dare un contributo per riempire il fossato d’incomprensioni e pregiudizi che ci divide. Spiegare al mondo occidentale che è gente come noi, che vive, ama, soffre, canta come noi, meglio di noi. Può sembrare quasi ovvio, eppure tutti gli incontri che avrò con Italiani ed Europei mi confermeranno quanto quest’operazione sia opportuna: ristabilire prima di tutto la dimensione umana, la dignità, il diritto alla vita degli Africani. Martedì 18 Agosto Ci alziamo alle sei e mezza e partiamo alle nove, un tempo record. Siamo in cinque o sei e quindi i preparativi sono stati più spicciativi. Ci abbracciamo con Abilio, saluto Juan, Santa, Mamadou e poi al mio passaggio tutta la gente che bivacca sotto le capannucce. Mi sento meglio e ne approfitto per fotografare. Barry traduce le mie istruzioni: Quem qui tene maquina pa i esta perto de el!, “Chi tiene (la borsa della) macchina fotografica rimanga vicino a lui.” Li sopravanzo per inquadrarli
152
mentre vengono avanti. Barry: Bò anda perto di otro da i pode panha bos djuntos!, “Camminate vicini, in modo che vi possa riprendere insieme!” Arriviamo alle paludi a mezzogiorno e mezzo e decidiamo di non fermarci per poter fotografare la traversata. È un po’ pericoloso ma le nuvole sono basse e quindi un’incursione aerea è improbabile. Quattro o cinque bambini negri, durante una breve sosta a Balana, mi vedono da solo e scappano spaventati: mi hanno preso per un Portoghese. I guerriglieri li chiamano ma i bambini non si fidano; sensazione spiacevole. Attraversiamo le risaie. Ogni tanto un militante fa un passo falso e affonda nell’acqua fino al petto. Tutti ridono allegri e mansueti con quei finali gutturali, in falsetto, come se si trattasse di un gioco. Non ci fermiamo mai, soltanto dieci minuti qua e là per fumare una sigaretta. Un militante mi indica un serpente lungo mezzo metro, di un verde vivido, color germoglio, che si allontana. Un cobra. Ripassiamo dall’embuscade e poi vicino al grande cratere della bomba. Ormai si è fatta notte. Verso le otto e mezzo arriva una pioggia torrenziale. Non si vede quasi niente, solo l’acqua violenta che si scarica nei fossi ai lati della strada. Alle dieci di sera siamo a Kandiafarà. Pedro Pires è ancora là.
153
Mercoledì 19 Agosto C’è un’ambulanza che rientra a Boké e ne approfittiamo. Partiamo a mezzogiorno. Oltre all’autista, Agusto, c’è l’aiutante autista che non sta bene, un’infermiera malata anche lei, un bambino, Juan da Silva, Barry, io, un militante ferito al piede e un altro malato che ha la febbre (Malan Gabu). L’ambulanza è russa, quattro ruote motrici, simile a un furgone Fiat “1100”. Alle due e mezzo arriviamo al fiume, non mi ricordo come si chiama, e ci va bene. Passiamo subito col traghetto. Alle cinque e mezzo, mentre percorriamo un tratto di strada pieno d’acqua, Agusto, non si sa perché, si tiene sulla destra dove c’è una grande pozzanghera. L’ambulanza s’inclina paurosamente e rimane immersa fino ai mozzi. Cominciamo ad armeggiare, ognuno per conto suo. Chi prende un paletto, chi spinge la macchina, senza alcuna coordinazione, mentre Agusto fa slittare vorticosamente le ruote col risultato di farle affondare sempre di più. Mi consulto con Juan, che dice che è inutile tentare di sollevare l’auto col cric, dato che la melma non offre alcun punto d’appoggio. Macacu na n’tola. “Il cric affonderebbe.” Va bene, ma allora perché non spingiamo tutti insieme, anche il febbricitante e l’aiutante autista? In fondo rischiamo di passare la
154
notte qui! Si può mettere a piovere. E Ça pode pabia! E està doentes!, “Non possono. Sono malati!” I malati, infatti, si sono appartati come se la cosa non li riguardasse. La prospettiva di passare la notte all’addiaccio incombe sempre di più. Prendo da parte Barry e gli dico che bisogna abbattere un albero alto almeno sei, sette metri, e con quello far leva su un vecchio ceppo che si trova proprio accanto all’auto, per sollevarla e mettere ramaglia sotto le ruote. Troviamo l’albero e in breve lo abbattiamo. Proviamo la leva e funziona. Juan si meraviglia: non conosce la leva composta. Però anche tirando con tutte le nostre forze, non ce la facciamo nemmeno in tre. Agusto, imperterrito, continua a far slittare vorticosamente le ruote; i malati non si muovono. Mi sono spogliato e sto sguazzando in mezzo al fango da mezz’ora. A un certo punto mi fermo, sopraffatto da un senso di rassegnazione e di serenità nello stesso tempo: è inutile, non riusciremo mai a coordinare i nostri sforzi. Mi rivesto con calma e attendo. Dal fondo della strada sbucano sei militanti. Devono essere i serventi di una postazione antiaerea vicina; qualcuno li ha avvertiti. Arrivano pieni di baldanza e di entusiasmo e si mettono ad armeggiare attorno all’ambulanza, come al solito senza coordinarsi tra loro. Uno di loro, un certo Lobu,
155
fortissimo, si dà da fare più degli altri, immerso nel fango fino al collo. E intanto ridono, si scambiano informazioni, scherzano. Quello che conta per loro è essersi incontrati, parlare. Disincagliare la macchina, in fondo, non è l’obiettivo primario. Barry, con un sorriso lieto mi dice: “Se non ce la facciamo questa volta, dormiamo qui!”, ma non fa nulla personalmente. Per fortuna Lobu si dà da fare. Cu força! No’ pintcha junto!, “Forza! Spingiamo tutti insieme!” Arrivano due contadini guineani, inconsapevoli, coi loro sguardi attoniti di antilopi. “Ora passano e se ne vanno”, penso. Invece si fermano, depongono i fagotti che portavano sul capo e si mettono a spingere, a sguazzare nel fango anche loro, per un’oretta. Alla fine l’ambulanza, come sospinta da una volontà collettiva, irrazionale, esce dal fango. Sospiro di sollievo e regalo il mio coltello a serramanico a Lobu, che lo mostra a tutti, estasiato. Riprendiamo la strada che ormai si è fatto buio. Agusto ha un’irresistibile tendenza a tenersi sulla destra. Dopo un’oretta, stessa situazione: grande pozzanghera d’acqua a destra. Facendo appello a quanto so di spagnolo, grido: “A la izquierda, Agusto!” Niente da fare, l’ambulanza s’impantana un’altra volta, con la differenza che adesso è buio, che sta ricominciando a piovere e che
156
157
158
non c’è nessuno ad aiutarci. Per fortuna ci sono molte pietre sulla carreggiata. Scavando con le mani, in capo a un’ora riusciamo a sollevare i mozzi delle ruote e a ripartire. A mezzanotte siamo a Boké. Giovedì 20 Agosto Domingo e Marcel dicono che a Conakry c’è il colera, raccontano che la città è piena di animali morti: una visione apocalittica. Ripartiamo in giornata. Arriviamo alla sede del PAIGC alle 22.
25 Aprile 2006 Nel 1970 passavo un momento difficile. Avevo realizzato dieci documentari e tre film; gli ultimi due erano andati male. Raffaele La Capria m’aveva offerto di lavorare per la televisione. Senza crederci molto, avevo proposto un film ispirato a Un anno a Pietralata, di Albino Bernadini, storia di un maestro elementare nella periferia romana. Ma sembrava che la RAI non volesse
159
farne niente. Tempi infiniti correvano per l’elaborazione dei preventivi, la definizione dei contratti. Marcella Glisenti, che dirigeva la libreria Paesi Nuovi in piazza Montecitorio a Roma, mi invitò a un congresso dei Movimenti per la liberazione delle colonie portoghesi. Nel biancore accecante del Palazzo delle Esposizioni, all’EUR, incontrai AmÍlcar Cabral, leader dei PAIGC: Partito per l’indipendenza della Guinea-Bissau e isole Capo Verde. Non alto di statura, esprimeva autorità, risolutezza e quella fusione di pensiero ed azione, che dovrebb‘essere patrimonio d’ogni buon politico. Parlammo un po’, gli dissi della mia intenzione di realizzare un documentario, un film, sulla loro lotta. M’invitò ad andare. Era un’estate torrida. Avevamo, con mia moglie, una casetta al mare, vicino Torvajanica, nel cosiddetto “villaggio Tognazzi”. Gente di cinema e teatro. La spiaggia, la mattina, aveva la solenne compostezza di una colonia di trichechi. Sotto una fila d’ombrelloni le signore chiacchieravano, parlavano di gioielli, di coralli. Mia moglie, Vera, voleva starsene sotto un ombrellone, vicino alla battigia. Dovemmo scontrarci con un bagnino, un certo Eros, che voleva a tutti i costi “allinearci”.
160
Partii per l’Africa allo sbaraglio, con una macchina fotografica, senza nemmeno aver fatto tutte le vaccinazioni. Da solo. Non potevo permettermi altro. Ricordo – dal finestrino dell’aereo, all’imbrunire – la distesa rossastra del Sahara con, appena visibile, la fiammella d’un pozzo petrolifero. Arrivai a Conakry, in Guinea Republica, dominata da Sekou Touré, il despota, di cui non si conoscevano ancora le efferatezze. Raggiunsi la sede del PAIGC alla periferia di Conakry, un vasto campo fatto di casette prefabbricate. AmÌlcar Cabral purtroppo non c’era. A causa delle difficoltà di comunicazione non avevamo potuto prendere accordi precisi. I suoi collaboratori, oberati di problemi, non sapevano che farsene di un cineasta europeo che voleva visitare la zona di guerra. Dopo una settimana mi mandarono a Boké, ai confini con la Guinea-Bissau. Al ritorno infieriva il colera. Voci sinistre di contagi. Ululati d’ambulanze che raggiungevano ospedali spaventevoli. L’idea di restare contagiato mi ossessionava. Riuscii ad avere, dalla ditta Astaldi – che ringrazio ancora – medicinali, acqua minerale, una fiala di vaccino. Cabral era tornato. Lo raggiunsi alla sede del PAIGC. Era stato informato del mio viaggio. Facemmo una passeggiata. Un camion
161
cisterna, lontano, si era impantanato e due militanti non riuscivano a disincagliarlo. Cabral sorrideva dei loro sforzi. Non intervenne per dare suggerimenti. Parlammo di tutto, della situazione in Guinea-Bissau, di Basil Davidson, uno storico inglese suo amico, autore di Madre nera, un saggio sullo schiavismo. Pensavo soprattutto al film e non annotai quella conversazione, non gli feci un’intervista, nemmeno una fotografia. Al ritorno i due militanti avevano liberato la cisterna. Cabral rise compiaciuto: ce l’avevano fatta da soli! Era un suscitatore d’energie. Tre anni dopo sicari inviati dai portoghesi l’avrebbero ucciso, proprio in quei luoghi – poco prima che la Guinea-Bissau guadagnasse l’indipendenza – infliggendo un colpo mortale alla “costruzione” (non ri-costruzione) di un Paese, martoriato da quattro secoli di schiavismo e colonialismo. Fortunosamente riuscii ad arrampicarmi su un aereo cecoslovacco che atterrò a Zurigo. L’aeroporto, asettico, ultramoderno, d’acciaio, cristallo e plastica, popolato di manichini silenti, contrastava intensamente col mondo di fango, sangue, napalm, fame, indigenza ed umanita’ sofferente, che mi ero appena lasciato alle spalle. Un senso d’irrealtà, una divaricazione estrema. Stessa cosa al “villaggio Tognazzi”.
162
Era passato un mese. Le signore erano sempre sotto gli ombrelloni a parlare di coralli. Non potevo confidarmi apertamente neanche con mia moglie, per non preoccuparla con i pericoli corsi. Una dissociazione estrema. Elio Petri e Ugo Pirro s’informarono un po’, ma non riuscivo a descrivere una realtà inesprimibile. Non ho viaggiato molto. Dell’Africa ho visitato soltanto l’Algeria, la Tunisia. Eppure il mio ultimo lavoro, Lettere dal Sahara, mi ha portato proprio nel Sud del Senegal, forse a 200 chilometri dai luoghi che avevo percorso trent’anni fa. Le musiche di Toure Kunda’, cantautore della Casamance, che mettero’ nel film, sono intrise della malinconia del fado portoghese. Non ho fatto in tempo a tornare nella Guinea-Bissau. Ho sentito che se la passano male. Niente risorse, neanche un goccio di petrolio. Mi piacerebbe rivisitare quei luoghi, comprendere come un popolo – che con le unghie e i denti è riuscito a liberarsi dalla dominazione coloniale di un Paese tecnologicamente evoluto, dotato di carri armati, cannoniere, aerei – sia stato poi battuto sul piano dello sviluppo economico e sociale. Cabral sarebbe riuscito a salvarlo? Con tutto il rispetto, temo di no.
Vittorio De Seta
163
ad Amテ考car Cabral
164
165
De Seta, Palermo 1923, è un signore di ottantacinque anni. Ha occhiali spessi da miope, una giacca piena di dignità, blu. Una camicia azzurro chiaro, un orologio Tissot, di quelli che si comprano una volta sola e ti durano tutta la vita. Anche nel suo vestire c’è il segno dell’avere rispetto per gli altri, e per se stesso. Giovanni Bogani Foto Angelo Franco Aschei
166
Testi e fotografie: Vittorio De Seta Revisione Testo: Stefano Stoja Revisione Fotografie: Alberto Bortoluzzi Progetto grafico: Fabio Bellato Edizione: Angelo Franco Aschei
Š 2008
167
168