OLTRE I MURI prato.museo.shoah Mattia Fabbri
UniversitĂ degli Studi di Firenze Dipartimento di Architettura Anno Accademico 2016_2017
Oltre i muri Relatore Fabrizio Rossi Prodi Correlatore Roberto Bologna Progetto Mattia Fabbri
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“Senza memoria non c’è cultura, non ci può essere civiltà né società, senza memoria non c’è futuro ” Elie Wiesel, La notte, 1956 (9)
ritratto di Elie Wiesel, (Marmatiei 1928 - New York 2016). Archivio fotografico USHMM
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Indice
La campolmi 9 19 29
il quartiere, abitare e produrre la fabbrica, il luogo moderno della produzione il museo, dal tessuto alla cultura del tessuto
Le mura 39
PRATO
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le mura, distinguere per difendere
Il sacrificio 45
9
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8 marzo 1944, ricordare la storia
Consultazione 51
terminologia
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quattro musei dedicati alla Shoah
Oltre i muri 72 76 80 89
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incipit il verde inserimento urbano impianto
filmografia e bibliografia al termine
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IL QUARTIERE
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SANTA CHIARA Abitare e produrre. Il quartiere di Santa Chiara è situato nel cuore del centro storico, in un settore che comprende alcuni tra i più importanti monumenti della città: la chiesa e la piazza di San Francesco, la basilica e la piazza di Santa Maria delle Carceri, il castello dell’imperatore, il Cassero medievale. Lo stesso quartiere si sviluppa nella fascia urbana compresa tra il Cassero medievale, a nord, e la cerchia delle mura urbane, a sud-est. La sua configurazione morfologica risulta caratterizzata dalla compresenza di due sistemi urbani alquanto dissimili. Il primo è costituito dal tessuto minuto dell’edilizia residenziale di origine ottocentesca; il secondo dai residui capannoni industriali situati nell’area compresa tra via Santa Chiara e le mura e, soprattutto, dal complesso industriale dell’ex fabbrica Campolmi che rappresenta un elemento decisamente fuori scala rispetto all’edilizia minore dello stesso quartiere. Quest’ultima è il più grande complesso industriale di origine ottocentesca esistente entro la cinta muraria del centro storico di Prato ed è stata recentemente oggetto di un lavoro di restauro per destinarlo a sede del Museo del tessuto di Prato e dell'istituto Culturale “A. Lazzerini “. La scelta di insediare il nuovo centro culturale nell’area dell’antico opificio tessile si è dimostrata
foto aerea del centro storico. Archivio biblioteca Lazzerini, Prato
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sulla sinistra l opificio tessile ottocentesco difronte le mura trecentesche. Archivio biblioteca Lazzerini, Prato
particolarmente lungimirante dal punto di vista urbanistico, dal momento che come primo e più importante effetto indotto, ha dato impulso ad un importante processo di rinnovo urbano. La riqualificazione di questo importante settore della città è stata incentivata dall’introduzione nel tessuto residenziale del quartiere di quelle attività di carattere collettivo che hanno da sempre caratterizzato uno dei tratti distintivi del centro storico. Nei fatti, il tessuto urbano del quartiere, che fino a pochi anni fa risultava tra i più degradati, è stato investito negli ultimi anni da un marcato processo di riqualificazione indotto dal piano di recupero della Campolmi. L’ultimo passo di questo processo iniziato nel 2000 riguarda le mura trecentesche, i bastioni medicei e tutti gli elementi strutturanti il sistema difensivo della città medievale attualmente soffocati dagli addossamenti industriali. La ridefinizione morfologica del sistema di fortificazioni della città non potrà che assumere come obiettivo strategico quello di liberare da ogni tipo di occlusione gli elementi che ne testimoniano la storia, fra i primi, il bastione di Santa Chiara e l’adiacente tratto delle mura urbane. L’obiettivo finale è quello di dotare la città di un sistema unitario di percorsi pedonali, di una fascia a verde di rispetto, un sistema integrato di strutture di prestigio per la cultura e il tempo libero situate attorno alle mura trecentesche. Il recupero della fabbrica Campolmi in questo senso, nel coinvolgere l’assetto urbanistico di uno dei settori più delicati del centro storico di Prato, va ben oltre il recupero di un importante contenitore di archeologia industriale per investire direttamente le dinamiche della trasformazione urbana e, più in particolare, il processo di riqualificazione del centro antico della città.
13 Foto Aerea di Lucca, in Rosso è Indicata l’Area di Progetto
Carta topografica della città di Prato 1780 circa Biblioteca Roncioniana di Prato, manoscritto cod. 446, Q’ VIII 26, C.6
Planimtria del centro storico della città di Prato, 2017
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al centro il polo culturale della campolmi. Archivio biblioteca Lazzerini, Prato
planimetria del quartiere di Santa Chiara al centro l‘ ex opificio tessile, 2017
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LA FABBRICA
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prospettiva parallela della Campolmi
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prospettiva della corte interna
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L.CAMPOLMI&C
dettaglio del nobile coronamento superiore della ciminiera Campolmi, 2017
Il luogo moderno della produzione. L’antica cimatoria Campolmi è il più grande complesso industriale d’origine ottocentesca esistente entro la cinta muraria del centro storico. Le principali notizie relative all’area su cui si è originariamente insediato l’opificio industriale provengono dall’Atlante delle Mappe del Consorzio Cavalciotto e Gore di Prato nel 1835, da cui si rileva la presenza di un canale artificiale detto “gora”, che proviene dal castello dell’imperatore e si estende lungo questa porzione, ancora quasi del tutto inedificata, del territori pratese. La gora denominata delle “Gualchiere” o della “Romita”, scorre tutt’ora interrata tra il Cassero e la via Santa Chiara . Dallo stesso atlante delle mappe del 1835, lungo il percorso del canale, al centro dell’area, si rileva la presenza dell’antico “molino” di Santa Chiara. La posizione dell’edificio le cui tracce sono tuttora riconoscibili nelle attuali strutture della fabbrica, è quella adiacente all’ex tintoria. Alcuni libri contabili ed il Repertorio del 1834 ci forniscono notizie della proprietà “Campolmi e Vannucchi” anche se ufficialmente, come si desume dagli atti, la Ditta “Cimatoria Campolmi Leopoldo & C” si costituisce nel 1855. Nel marzo del 1863 Vincenzo Campolmi acquista il molino di Santa Chiara situato negli orti e negli appezzamenti di terreno compresi tra il soppresso convento delle Clarisse e la cinta delle mura trecentesche. E’ questo il primo atto che sancisce l‘insediamneto del primo nucleo della fabbrica nel sito posto nel quartiere di Santa Chiara. Nel 1864 la Ditta Campolmi & co è menzionata nell’elenco degli opifici pratesi tra le “cimatorie”.Nel 1870 la ditta rileva una piccola rifinitura di tessuti e pone le basi per la successiva espansione dell’attività produttiva.
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restauro architettonico, foto di cantiere. La Campolmi, Marco Mattei, Prato
A questa data possiamo far risalire, molto probabilmente, il definitivo piano di ristrutturazione produttiva dell’azienda, contraddistinto dal progetto di un edificio a quadrilatero con corte interna, con ingresso da via Santa Chiara, che sarà costruito per fasi ma la cui unitarietà è confermata dalla continuità strutturale e morfologica dell’impianto. Nel periodo tra le due guerre viene demolito il fabbricato ad un piano sulla via Santa Chiara collocato a sinistra del portale di ingresso e ricostruito su due piani. La fabbrica passa il periodo tra le due guerre senza subire i danni dei bombardamenti Nel 1950, ad est del quadrilatero otttocentesco, viene costruito il padiglione della tintoria, costituito da una struttura ad arco in cemento armato che, per la particolarità e bellezza della grande volta, costituisce uno degli elementi architettonici di maggiore interesse dell’intero complesso architettonico. Nel 1968 la ditta “Campolmi Leonardo & C” cessa l’attività industriale. Dalla metà degli anni ottanta la fabbrica risulta quasi completamente inattiva, fatta eccezione per alcune residue lavorazioni fatte nei capannoni prospicenti le mura. E’ proprio in questi anni che viene avanzata per la prima volta la proposta, destinata poi a farsi strada, di effettuare il recupero architettonico ed urbanistico dell’area dell’antico opificio, anziché procedere alla sua sostituzione edilizia come previsto dagli strumenti urbanistici del periodo. Nel settembre del 1999 il complesso industriale dell’ex fabbrica Campolmi viene acquisito dal Comune di Prato per essere destinato ad ospitare il più grande ed importante polo culturale della città. La fabbrica, sede di produzione, torna produrre. Produce cultura.
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interno del padiglione di tintoria definito “la cattedrale” per la composizione ascensionale di sapore gotico. La forma a ogiva è da ricercare nella destinazione d’uso. Archivio biblioteca Lazzerini, Prato
pianta del piano terra della campolmi, 2017
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LA FABBRICA DELLA CULTURA
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IL MUSEO E LA BIBLIOTECA
ingresso alla biblioteca, senza titolo, blocco di marmo, di Annie e Patrick Poirier. La Campolmi, Marco Mattei, Prato
Dal tessuto alla cultura del tessuto. La scelta del comune di Prato di effettuare il recupero dell’area Campolmi, oltre che costituire un’occasione esemplare d’intervento nel campo della conservazione del patrimonio dell’archeologia industriale, e dei luoghi storici del lavoro, coinvolge ed assume un rilievo di più ampio interesse progettuale, la riqualificazione del centro storico e delle aree industriali dismesse in funzione dei nuovi obiettivi di riequilibrio della città. Inserita in un contesto particolarmente degradato, in una zona caratterizzata da residenze popolari e fatiscenti capannoni industriali, l’area della vecchia fabbrica rappresenta uno dei casi più significativi di rinnovo urbano, tanto per la posizioni di centralità che la Campolmi occupa nel centro storico, quanto per la dimensione fisica, i contenuti ed il valore simbolico dell’intervento. Da semplice contenitore industriale, la Campolmi ha assunto per la città di Prato un indiscusso ruolo pubblico politico e sociale, legato alle vicende cittadine del movimento operaio e sindacale, fino a divenire un simbolo indissolubilmente congiunto alla storia civile della città, Il complesso architettonico dell’ex lanificio è stato oggetto di un primo lotto dei lavori di restauro per destinarlo a sede del Museo del Tessuto di Prato. Tale intervento ha interessato la porzione del complesso che prospetta da un lato su via Puccetti ( lato ovest del quadrilatero industriale) da un altro su via Santa Chiara (lato nord) e dal lato sud sulla piazza antistante le mura urbane. In una seconda fase dei lavori è stato effettuato il completamento delle opere di restauro del vasto complesso industriale per destinarlo a sede dell’Istituto Culturale “A. Lazzerini ”.
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corte delle sculture, 2004. Archivio biblioteca Lazzerini, Prato
Più in particolare il secondo lotto dei lavori ha interessato il recupero e il consolidamento strutturale della porzione residua del fabbricato ottocentesco, al quale si aggiungono le opere di restauro degli ulteriori volumi edilizi costituiti dal padiglione della tintoria, dall’opificio idraulico e dalla palazzina situata in via Santa Chiara In una terza fase d’esecuzione dei lavori, a completamento dell’opera, sono state realizzate le sistemazioni esterne, in particolare la corte interna con vasca e ciminiera, la corte delle sculture sul lato est del complesso e, sul lato sud, la piazza urbana compresa tra la Campolmi e le mura medievali, il cui restauro, per il tratto prospiciente la fabbrica, è appena terminato. Il nuovo polo culturale, realizzato nell’area, contribuisce a un’ulteriore definizione del paesaggio urbano, secondo linee presenti nell’immaginazione della città, arricchisce il senso di appartenenza a una storia comune e si apre all’interazione con il presente attraverso strumenti di conoscenza e di dialogo come il Museo del Tessuto e la Biblioteca. L’ex opificio si trasforma in un laboratorio di idee. Alla collezione do tessuti che potrà soddisfare il visitatore curioso o rispondere all’interesse dello studioso, si aggiunge l’osservatorio sul distretto pratese contemporaneo. In questo modo il museo si impegna a un aggiornamento continuo in coerenza con l’evoluzione del comparto industriale che vuole documentare far conoscere più che rappresentare una storia scomparsa, ancorché gloriosa.
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prospetto di una finestra ad arco ribassato, tipologia diffusa all’interno del complesso, 2017
Esploso assonometrico del complesso
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prospetto sud della Campolmi, 2017
da sinistra: ingresso al museo, caffetteria, ingresso alla biblioteca
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IL TRECENTO
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LE MURA
fronte delle mura urbane su via Pomeria, 2017
Distinguere per difendere. Dodicesimo secolo. Dopo il primo insediamento cittadino formato da Borgo al Cornio e da Borgo al Prato, che poi si riunirono per formare la città di Prato, fu necessaria la costruzione di una cinta muraria che difendesse questo nuovo borgo diventato importante per il commercio della lana. La cerchia muraria (iniziata intorno al 1175 e terminata nel 1196) era costituita da blocchi squadrati di pietra alberese, provvista di torri e bertesche e comprendeva otto porte: porta San Giovanni, situata di fronte a via Santo Stefano, porta Tiezi in via Garibaldi, porta Capo di Ponte in via Cairoli, porta Corte in via San Jacopo, porta Santa Trinita via Santa Trinita, porta Fuia in via del Pellegrino porta Gualdimare in via Cesare Guasti, porta Travaglio in via San Michele. Con l’espansione dei sobborghi fuori della seconda cerchia muraria, fu necessario provvedere a nuove fortificazioni, costruendo il primo tratto di mura che si estendeva per tutta la lunghezza della piazza Mercatale. Il secondo tratto di mura, terminato nel 1332, si estendeva sino a porta Gualdimare. Con l’espansione dei sobborghi fuori della seconda cerchia muraria, fu necessario provvedere a nuove fortificazioni, costruendo il primo tratto di mura che si estendeva per tutta la lunghezza della piazza Mercatale. Il secondo tratto di mura, terminato nel 1332, si estendeva sino a porta Gualdimare. Probabilmente la costruzione era proceduta indipendentemente dalle due estremità delle mura sul Bisenzio (lato settentrionale sino a porta Gualdimare e lato orientale sino alla Rocca Nuova). Fra il 1338 e il 1351 furono costruite le mura fra porta Gualdimare, porta Santa Trinita e una rocca nel punto in cui si attesta il Cassero.
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Dopo la peste del 1348 il Comune di Prato interruppe la costruzione del tratto di mura mancante che fu ripresa 1382 per esplicito ordine del comune di Firenze a cui Prato era sottomessa. L’ultima cinta muraria è ancora oggi completamente visibile e si estende per circa 4500 m. Nel 1934 venne effettuata una nuova apertura nelle mura tra via Pomeria e via Frascati, nella zona delle “mura del luterano”al termine di Via dei Sassoli, composta da un grande arco centrale per il passaggio dei veicoli e due laterali più piccoli pedonali, definita impropriamente porta Frascati. L’organizzazione dello spazio all’interno delle mura era anche a Prato definito originariamente dalle principali aperture della cerchia che circondava la città. Le otto porte (porta San Giovanni, porta Tiezzi, porta Capo di Ponte, porta Corte, porta Santa Trinita, porta Fuia, porta Gualdimare e porta al Travaglio) dividevano la terra in otto circoscrizioni omonime nelle quali era divisa la città. Questa suddivisione in “ottavi” rappresenta nel panorama urbano della Toscana dell’epoca una nota originale, la partizione infatti avveniva solitamente per terzieri (Siena, Volterra e Pisa), per sestieri (Firenze dal XII secolo sino al 1343) oppure per quartieri (Pistoia e Arezzo). Tuttavia, per facilitare la vita amministrativa locale fu deciso dal Comune di riunire le otto porte a due a due.
le mura urbane, fronte nord sulla piazza della cultura, 2017
45 Immagini dello Stato Attuale della Manifattura
dettaglio della cinta muraria trecentesca, 2017
restituzione 2d della cinta muraria trecentesca
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IL SACRIFICIO
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8 MARZO 1944
Ricordare l’8 marzo 1944. Diciassette operai della Campolmi vengono arrestati e deportati ad Ebensee, sotto campo del Campo di concentramento di Mauthausen. La sezione Istruttoria penale della corte d’appello di Firenze ricostruì così l’evento dopo aver notato che gli oltre 300 operai dello stabilimento Campolmi avevano scioperato: “La mattina dell’8 marzo si presentò alla fabbrica Campolmi, accompagnato da militi armati, il M.llo della GNR Vivo, che fece radunare tutti gli operai nel cortile. Costui, in base a note di presenza che aveva già o che gli furono fornite, fece l’appello degli operai e separò dalla massa 17 persone, che avevano nei giorni precedenti scioperato”. Dei diciassette operai che la mattina dell’8 marzo 1944, quando ancora era in corso lo sciopero generale proclamato dal CLN furono prelevati dal maresciallo dei carabinieri Giuseppe Vivo e i suoi militi al Lanificio Campolmi, soltanto due sopravvissero al tormento dei lager di Ebensee e tornarono a casa: Raffaello Bacci di Campi Bisenzio e Franco Franchi di Prato. Entrambi furono riconosciuti invalidi a causa della deportazione per affezioni irreversibili alle vie respiratorie; il Bacci morì qualche anno dopo il rimpatrio, il Franchi riuscì a sopravvivere fino agli anni ‘80, lasciandoci vari fogli dattiloscritti sulla tremenda esperienza vissuta nel lager ed una drammatica testimonianza registrata in occasione della ricerca effettuata per ricostruire le vicende che avevano coinvolto lui e i suoi compagni di sventura. marcia verso le camere a gas archivio USHMM, Washington.
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A Prato per tanti anni si è voluto far credere che i deportati locali erano 480 e i superstiti 17, mentre il superstite Franco Franchi e pochi altri sapevano e affermavano che i primi al massimo potevano essere 150 e i secondi erano 18. E avevano ragione perché una ricostruzione successiva del “trasporto” del bottino umano che l’8 marzo partì dalla stazione di SMN di Firenze e arrivò a Mauthausenil giorno 11 ha confermato che il numero di deportati del Pratese è superiore di meno di una decina dei 130 indicati dal Franchi. Sotto una breve descrizione di quei tragici istanti dal libro Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich di Michele di Sabato(1): “Poiché il primo pensiero delle persone in partenza fu quello d’informare i familiari della piega che aveva preso quell’assurda vicenda centinaia di biglietti furono subito scritti e buttati dal treno, alla stazione, lungo il percorso, ovunque la speranza che qualcuno potesse vederli e provvedere a recapitarli per far sapere cos’era successo. Il convoglio transitò per Prato che era buio, la stazione deserta, probabilmente sbarrata per impedire l’accesso ai curiosi e ai familiari degli arrestati: con lentezza esasperante il viaggio continuò per tutta la notte. “
Commemorazione dei deportati di guerra nells corte della fabbrica campolmi. La Campolmi, Marco Mattei, Prato
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TERMINOLOGIA
Shoah, catastrofe. E’ un termine ebraico presente in vari passi del testo biblico, che si può tradurre con “distruzione, catastrofe”. Usato in Israele fin dai primi anni del dopoguerra, e ufficializzato nel 1951 con la creazione del giorno della Shoah in memoria appunto dello sterminio nazista, esso si è diffuso in molta parte d’Europa negli anni Ottanta, dopo che il regista francese C. Lanzmann lo adottò come titolo per il suo famoso documentario, uscito nel 1985. Ma esso non è accettato ovunque. Hurban, distruzione. Preferito dagli ebrei ortodossi, nell’intento di reinserire la Shoah nella catena di persecuzioni e di lutti che hanno caratterizzato la storia ebraica. Già usato tradizionalmente per definire la distruzione del Tempio di Gerusalemme.
Olocausto, di derivazione greca e usato nella traduzione latina del Levitico a designare un sacrificio in cui la vittima viene arsa interamente. Il termine deve la sua fortuna all’attività e alle opere di E. Wiesel e in particolare al suo “La nuit”, in cui il richiamo al carattere sacrificale dello sterminio veniva esplicitato attraverso un parallelo tra il sacrificio del popolo ebraico e il sacrificio di Isacco. Uscito nel 1958 (trad. it. 1980), il libro introdusse fra l’altro, in Francia, attraverso la prefazione fattane da F. Mauriac, l’uso del termine olocausto. Alla fine degli anni Settanta del 20° sec., la fortuna di questo termine è aumentata grazie a una popolare serie televisiva statunitense, “Holocaust” (1978), diretta da M.J. Chomsky. Il suo uso ha tuttavia suscitato molte reazioni negative, non ultime quelle di B. Bettelheim e di P. Levi, proprio per il carattere sacrificale e religioso che attribuisce allo sterminio. Molto diffuso è anche l’uso del termine genocidio, un neologismo coniato nel 1944 negli Stati Uniti dal giurista ebreo polacco R. Lemkin nell’opera Axis rule in “occupied Europe” proprio prendendo a modello lo sterminio nazista allora in atto, per definire “la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico”. Termine ad ampio spettro semantico, e tale da essere usato in riferimento a molti avvenimenti della storia come anche a molte forme di persecuzione diverse dall’annientamento fisico, esso è stato contestato da quanti ritengono che rischierebbe di far perdere di vista la specificità dello sterminio degli ebrei.
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CONSULTAZIONE Quattro progetti selezionati fra gli oltre cento musei e memoriali dedicati alla Shoah presenti al mondo.
Gerusalemme
Berlino
Washington
Los Angeles
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GERUSALEMME Yad
Vashem
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Moshe
Safdie
architects
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Ferita. Una galleria di centottanta metri sospesa come una lancia e incastonata nel monte sacro sopra Gerusalemme(2). Una ferita nel cuore di Israele. Il Museo è concepito come un volume prismatico triangolare che penetra all’interno della montagna da un lato all’altro. La distribuzione è affidata ad un percorso irregolare che si comprime al centro deformando la superficie e rendendo leggermente pendente il pavimento. La percezione che si vuole dare al visitatore è quella di scendere in profondità, disorientare. Dopo la compressione il percorso si dilata e sfocia in una grande finestra su Gerusalemme. Il percorso espositivo si articola in dieci gallerie collocate lungo i due lati della struttura a prisma e risponde alla necessità di testimoniare le comunità ebraiche che esistevano prima della Shoah. Tramite una sequenza cronologica che inizia dalla presa di potere del regime nazista continua con l’emarginazione degli ebrei nei ghetti e termina quindi con il processo di sterminio. Copiosa la testimonianza di fotografie e gigantografie, filmati, lettere, documenti, frammenti di diari di bambini, teche espositive di oggetti dei deportati, bandiere e stendardi, mappe, pannelli esplicativi e reperti di grandi dimensioni come per esempio una delle barche utilizzate dai danesi per fare fuggire in Svezia gli ebrei perseguitati.
il panorama di Gerusalemme dalla copertura dello Yad Vashem, 2015
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L’illuminazione è studiata su intensi contrasti. Da una parte un grande taglio percorre tutto il prisma triangolare e illumina la galleria. Dall’altra, a contrasto con questa le stanze sono illuminate da una luce diffusa. Il materiale utilizzato è un calcestruzzo liscio che riveste sia l’esterno che l’interno. L’effetto ottenuto è di un monolite brutale nella sua chiarezza capace di fendere la montagna da una parte all’altra. Nel museo, una colonna alta 30 metri scandisce la parola “Zhkor” , “Ricorda”(7). Davanti alla porta del museo si apre il viale dedicato ai Giusti delle nazioni che passa tra circa 2000 alberi, ognuno dei quali è stato piantato a ricordo ed in onore di coloro che durante il periodo nazista rischiarono la loro vita per salvare quelle di ebrei perseguitati. Lo Yad Vashem, che prende nome da un versetto biblico nel quale Dio promette “un luogo e un nome” per il loro ricordo, comprende anche un centro di ricerche sulla Shoah e una scuola.
terminale della visita, una grande finestra inquadra Gerusalemme
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BERLINO Between
the
lines
|
studio
Libeskind
|
Vuoto. Disturbare e disorientare il visitatore è lo scopo del museo progettato da Liberskind. La pianta viene organizzata intorno a due linee, una spezzata e l’altra completamente rettilinea. La loro intersezione definisce dei vuoti verticali che interrompono la continuità del museo e attraversano tutti i livelli della struttura. Alla domanda posta dai committenti all’architetto sul perché dovessero pagare dei soldi per costruire uno spazio che non aveva alcuna apparente funzione, Liberskind risponde che non è riconducibile ad un valore economico. Questi vuoti rappresentano ciò che non può mai essere esposto quando si tratta di storia ebraica di Berlino: l’umanità ridotta in cenere. Dall’ingresso situato nel Kollegienhaus, attraverso un grande vuoto in cemento, i visitatori scendono al livello interrato: qui un passaggio connette il vecchio con il nuovo edificio che non ha altro accesso. Il passaggio interrato rende le due costruzioni apparentemente indipendenti mentre in realtà sono profondamente interconnesse.
interno della torre dell’ olocausto, spazio freddo illuminato solo da una feritoia posta in sommità, 2013
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Tre diversi assi, ognuno espressione di un tema, connettono il punto di arrivo con altrettante parti del complesso: l’Asse del Continuità conduce alle gallerie espositive e allude alla storia come continuum; l’Asse delle Emigrazione, che rappresenta l’esodo forzato dalla Germania, porta al Giardino dell’Esilio e dell’Emigrazione dove una matrice di solidi in cemento si intreccia agli alberi, ogni solido, inclinato di 12 °gradi dalla verticale, ricrea il senso di disorientamento e di instabilità sentita da coloro che sono stati esiliati. Il terzo asse conduce alla Torre dell’Olocausto; lungo il percorso si incontrano teche trasparenti contenenti oggetti appartenuti a persone vittime dei nazisti. I tre assi, anche se divergenti tra di loro si intersecano, rappresentando così i tre temi della storia ebraica in Germania. L’esterno dell’edifico è ricoperto con una pelle di zinco-titanio nella quale sono ritagliate strette fessure che creano un disegno apparentemente casuale che in realtà è l’elaborazione grafica di una vecchia mappa di Berlino(3).
rivestimento esterno in pannelli di zinco titanio Jewish museum, Berlin
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WASHINGTON United States Holocaust Memorial Museum(4) | James Ingo Freed |
Assonanza. Nel progettare l’edificio, Freed ha fatto diverse ricerche che hanno comportato non solo lo studio degli edifici della architettura tedesca della seconda guerra mondiale, ma ha visitato anche i siti dell’Olocausto in tutta Europa. Sia l’edificio del museo sia le mostre in esso contenute hanno lo scopo di evocare l’inganno, la paura, e solennità, in contrasto con il comfort e la grandezza degli edifici pubblici della capitale americana. L’esterno dell’edificio si confonde con l’architettura neoclassica georgiana e moderna di Washington DC. Entrando nel museo, le cose cambiano. Infatti ogni elemento architettonico sembra diventare un nuovo elemento di allusione alla Shoah. Il Museo ha anche due teatri, spazi per esposizioni temporanee, una grande biblioteca per la ricerca e un archivio, un centro interattivo di apprendimento, aule, uno spazio per il memoriale, e aree dedicate alla discussione. Particolare attenzione merita la Sala della Memoria.
interno del museo dell’olocausto di washington, archivio USHMM
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Di forma esagonale la Sala della Memoria è il memoriale ufficiale del museo alle vittime e ai sopravvissuti dell’Olocausto. La sala, volutamente disadorna, contiene in primo piano la fiamma eterna posta su un contenitore nero contenente le ceneri provenienti dai campi di concentramento d’Europa. Questo è il luogo della memoria, i visitatori possono partecipare alla commemorazione accendendo candele e ponendosi presso la fiamma eterna in silenziosa riflessione. La sala è sovrastata da una immensa scritta riportante un passo biblico delle Scritture Ebraiche (Vecchio Testamento) ovvero quello di Deuteronomio capitolo 30 versetto 19 che riporta le parole di Dio pronunciate da Mosè al popolo di Israele (Deuteronomio 30,19) in cui si esprime la vita come scelta.
“voi siete i miei testimoni” (8) dettaglio del museo dell’olocausto di washington Archivio USHMM.
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LOS ANGELES Museum of the Holocaust | Belzberg Architects |
Dicotomia. Il nuovo edificio per il Los Angeles Museum of the Holocaust si trova all’interno di un parco pubblico, adiacente all’esistente Los Angeles Holocaust Memorial. Fondamentale per la strategia di progettazione è l’integrazione dell’edificio nell’ambiente circostante del parco. Il museo è sommerso nel terreno permettendo al paesaggio del parco di proseguire sulla copertura della struttura. Diviene fondamentale il rapporto dicotomico tra contenuto dell’edificio e il contesto paesaggistico in cui è immerso. Attraverso il parco si giunge all’edificio. Una lunga rampa ci accompagna nella discesa verso il museo, parzialmente interrato. I suoni del parco scemano in un silenzio dove anche la luce si è fatta fioca. Quest’ultima penetra all’interno tramite delle vetrate opache poste ai lati della rampa d’accesso. Una volta entrati, il contrasto con il parco si rende evidente. Una serie di spazi isolati si sussegue. Ciascuno è saturo di immagini d’archivio fotografico. Il percorso espositivo è articolato intorno alla rampa d’accesso e termina in piccolo spazio esterno dedicato ad un monumento preesistente.
muro dedicato alle giovani vittime dell’ olocausto, dettaglio del museo dell’olocausto di Los Angeles. Archivio Jewish museum L.A
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OLTRE I MURI prato.museo.shoah
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La vita dei morti ĂŠ riposta nel ricordo dei vivi. (IX,10) Marco Tullio Cicerone, Philippicae,
oltre i muri, marzo 2017
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Incipit. Un museo della Shoah all’interno di un polo culturale. L’iniziativa di progettare un museo, sull’area dove nell’ultima decade si sono riversati gli sforzi dell’amministrazione locale per la riqualificazione(7) e la creazione di un polo culturale(8), da un lato si inserisce in continuità con le dinamiche di trasformazione che hanno coinvolto l’area e dall’altro, risponde alla necessità di rivelare e rendere viva la storia. Conoscere le tragedie del passato nei medesimi luoghi che lo hanno visto attore, affinché queste non possano ripetersi. Questa memoria come forma di legittimazione etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico. La piazza, archetipo millenario della vita pubblica, ospita un museo della Shoah, che rappresenta la misura del “male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino(11). Ogni giorno centinaia di giovani e malleabili menti attraversano, affollano e condividono la piazza. Sia Primo Levi che Elie Wiesel hanno detto: “comprendere è impossibile; conoscere è necessario”. Questo è il compito che deve assolvere il museo.
la piana del Bisenzio
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La scelta del luogo, la piazza della cultura di fronte al museo del tessuto e alla biblioteca, dove si formano le giovani menti degli studenti, non è casuale. In questo luogo si intreccia la storia moderna di Prato e la storia moderna dell’occidente. (La Shoah nell’ambito della storia moderna, non è un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua coscienza.) La storia moderna, economica e sociale, di Prato s’identifica sostanzialmente con la storia dell’industria tessile. La Campolmi è il luogo dell’identità culturale di una città che è stata una sola fabbrica, un immenso opificio che batteva giorno e notte. Allo stesso modo quella medesima fabbrica, per diciassette operai ha rappresentato il teatro della deportazione.La storia moderna dell’occidente europeo è anche e soprattutto la storia dell’industria. Lo spirito razionale, i principi di efficienza e la competenza tecnologica esaltati dalla nostra civiltà vengono messi in pratica nelle fabbriche. Quegli stessi principi sono stati usati per mettere in atto la Shoah, lo sterminio di massa. Scriveva Richard L.Rubenstein, filosofo, teologo e rabbino statunitense a proposito(10): “L’olocausto testimonia un avanzamento della civiltà in un duplice senso: con la soluzione finale il potenziale industriale e la competenza tecnologica elogiati dalla nostra civiltà hanno toccato nuovi vertici nel far fronte con successo ad un compito di dimensioni senza precedenti. E sempre con la soluzione finale il potenziale industriale della nostra società ci ha svelato una capacità fino a quel momento inaspettata. Avendo imparato a rispettare e ammirare l’efficenza tecnica e la buona progettazione, non possiamo evitare di ammettere che, nel celebrare il progresso materiale prodotto dalla nostra civiltà, abbiamo seriamente sottostimato il suo potenziale.” L’intreccio di storia e cultura rende questo luogo particolarmente denso di significato e consono ad ospitare un’opera di tale spessore.
il tessuto edilizio dentro le mura
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Il verde. Una fascia di verde protegge e isola le mura. La nuova volumetria vi si allinea e definisce uno spazio non calpestabile, un tappeto verde volutamente irraggiungibile che si comprime entrando nella piazza. La compressione genera tensione nel vuoto tra il maestoso elemento delle mura ed i volumi che su di esse si specchiano. Se da una parte il verde è utilizzato come fascia di rispetto dall’altra, si inserisce in un disegno più ampio di parco delle mura urbane, non rinunciando mai alla continuità visiva così da essere sempre il tappeto che accompagna le passeggiate lungo le mura. Così anche i cipressi, alberi che richiamano il lutto, definiscono la quinta che conduce il visitatore verso il museo e in prossimità del quale, si interrompe. Una pavimentazione prende il suo posto. Il manto della nuova piazza si inspira alla bicromia presente nell’architettura pratese: il bianco della pietra alberese e il grigio del macigno. L’accesso pedonale all’area del centro è garantito dall’esistente attraversamento delle mura urbane. Quest’ultimo mette in collegamento diretto il parcheggio d’uso pubblico di via Pomeria con il museo e la biblioteca esistenti.
planimetria del progetto
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Inserimento urbano. Oltre le mura. Lo spazio aperto di cui gode la piazza della cultura si innesta all’interno di connessioni sociali privilegiate; il passaggio oltre la cinta muraria e la posizione all’interno della matrice storica di Prato basterebbe per rendere partecipe il museo della complessità urbana. Tuttavia la nuova volumetria intende portare l’immagine del museo anche oltre le mura. Due corpi, fratelli, simili ma non uguali si specchiano di fronte alle mura. Da un lato l’ingresso, dall’altro l’uscita. Interrato un percorso museale che collega i due volumi. La premessa necessaria è la liberazione dalle superfetazioni che attualmente ostruiscono l’ingresso alla Campolmi, aggrediscono le mura e isolano la piazza della cultura. Il vuoto risultante è risolto da un volume sottile; la continuità visiva tra la piazza, il museo, la biblioteca e il tessuto circostante è stata preminente nell’impostazione dell’impianto. L’altro aspetto fondante il museo riguarda una riflessione su cosa significhi oggi ricordare la Shoah. La letteratura e non l’architettura è il medium espressivo più adatto per comunicare l’arcano senso della storia. L’architettura definisce luoghi e poi li destina a funzioni.
pianta quota strada
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Ricordare la Shoah significa superare i muri dell’indifferenza, non solo sulla storia ma anche sulle purtroppo sempre vive forme quotidiane di intolleranza. Partendo da questo presupposto i due volumi, posti al di là e al di qua delle mura, si riuniscono sotto il livello del suolo. Il diaframma che li separa inquadra le mura attraverso una sottile vetrata. Si osserva, si riflette. Un’iscrizione riporta le parole di Bauman(9): “Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno lo abbia fatto.” Si supera il mura. Inizia il percorso espositivo. L’uscita posta all’interno della piazza della cultura, difronte alla Campolmi, immerge il visitatore nel cuore del polo culturale. Si realizza così un percorso che non si limita al museo della Shoah ma che coinvolge e desidera collaborare con il Museo del tessuto. I volumi non si devono aprire al consolidato contesto residenziale eliminando i confini, piuttosto si definisce una matericità riconoscibile fatta di laterizio e acciaio che esclude l’esterno. Due edifici introversi.
Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno lo abbia fatto (9)
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Sul piano orizzontale il museo si dichiara attraverso una pavimentazione bicroma che si estende dalla Campolmi fino al limite del museo. Il bianco della pietra alberese accompagna il grigio del macigno nel rispetto dei colori presenti nell’architettura pratese. Il confine con la pavimentazione coincide con la proiezione a terra della grande trave e viene marcato da un cambio di pavimentazione. Portare il museo nella quotidianità della piazza e non rinchiuderlo in una scatola da visitare e dimenticare. Una loggia introduce alla scoperta del vuoto che denuncia la presenza del museo. La luce penetra dall’alto e illumina gli spazi sottostanti. Si scoprono le statue del Giacometti. Si legge l’insegna appesa al muro. Una sottile ringhiera in ferro chiude e protegge il vuoto. L’ incomunicabilità delle facciate e la pesantezza del mattone trasformano l’edificio in un ambiente impenetrabile e inospitale recuperando caratteristiche di luoghi fortificati e al contempo dichiarandosi come mimesi dei campi di concentramento.
pianta del livello interrato
89 Il Duomo di San Martino
SHEMÀ ASCOLTA
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L’impianto Nelle facciate risiede buona parte del messaggio che il progetto mira a trasmettere al visitatore. Avvicinandosi all’edificio dall’ingresso principale di via Pomeria, si percepisce un volume orizzontale con sviluppo longitudinale. Un filare di cipressi, un attraversamento, il volume di ingresso con le mura che lo sovrastano e la ciminiera che spunta in lontananza. Procedendo con ordine si tratterà il volume di ingresso ma si farà riferimento ad entrambi, essendo speculari. Posizionare l’ingresso in direzione sud significa portare l’immagine del museo fuori dalle mura. Il nuovo volume, scansiona lo spazio in modo costante attraverso un telaio di alluminio. Questo ritmo, alternato ai pannelli di rivestimento in alluminio spazzolato nero si interrompe con l’ingresso. I pannelli di rivestimento sono ondulati in modo che l’ombra prodotta dall’aggetto della copertura ne riproduca la geometria di base sul prospetto. Sono “graffiati” come il segno delle unghie sulle pareti delle camere a gas. Una grande trave in c.a marca l’andamento orizzontale della struttura e denuncia il solaio di chiusura. La sua ombra taglia la facciata e la incupisce. L’ingresso si dichiara attraverso un cambio di pendenza della copertura, costituita da due falde. Entrambe piegano leggermente in direzioni opposte per ritrovarsi, nel punto più basso, alla stessa quota. Tuttavia la loro direzione principale di pendenza non è quella sopra descritta ma è verso le mura. Se si considera il corpo posto dall’altro lato della cinta muraria, le coperture formano un compluvio.
Esploso assonometrico
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All’interno il museo gode di una distribuzione tanto semplice quanto evocativa. Per quanto riguarda il corpo sud, un atrio al centro distribuisce i flussi. Sulla destra l’ala amministrativa, sulla sinistra la scala per l’accesso alle gallerie. Gli altri ambienti alla quota della strada comprendono un blocco scale e un vano per la ricezione delle merci. Non c’è contaminazione tra l’interno e l’esterno, la vista è chiusa da un lungo muro che si interrompe solo per segnalare l’ingresso alla scala. La previsione di sedute all’interno del percorso permette di sostare durante la visita. Il corpo nord alla quota della Campolmi è speculare; si compone di un atrio che potrebbe funzionare anche da ingresso, un archivio, spazio di stoccaggio della collezione di libri del museo che permette anche la consultazione e lo studio e un locale tecnico indipendente e isolato rispetto al piano sottostante. La volumetria restante è occupata dagli spazi espositivi posti al piano interrato. Il livello interrato comprende un blocco di servizi igenici con spazi per il personale e dei vani per il magazzino direttamente collegati con il blocco scale.
Eran Shakine, muslim christian and jew, Judisches Museum Berlin
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La scala termina in un corridoio. Lo spazio si comprime avvicinandosi al punto in cui si attraversa le mura. Dall’alto cade la luce di un grande lucernario. Una griglia di acciaio e vetro fende la luce attraverso i suoi montanti. Sopra, le mura e il cielo in lontananza. Il percorso museale si dichiara attraverso una pavimentazione in graniglia utilizzata per la sua sensibilità alla luce e richiamo di antichi mausolei. L’interno ripropone la medesima finitura in laterizio, in questo caso rivestita di un intonaco grezzo di colore chiaro. Negli ambienti successivi, questa finitura, andrà scomparendo per lasciare spazio al laterizio faccia a vista nella sua naturale colorazione grigia. Dopo la compressione lo spazio si dilata ed ospita una galleria adatta alle esposizioni temporanee dotata di massima flessibilità per consentire i più vari progetti allestivi di mostre. Un viaggio nel presente intessuto di un pericoloso razzismo. Per questo nella galleria potrebbero trovare spazio allestimenti sul Mediterraneo, una grande fossa comune di acqua salata. Le sue acque hanno inghiottito migliaia di migranti disperati; la speranza in una vita migliore li ha resi vittime di mercanti senza scrupoli, ma spesso vittime anche della nostra indifferenza. Proseguendo lo spazio si configura come una sequenza alternata di vuoti e di pieni. Il disegno richiama l’archetipo del labirinto inteso come strumento utilizzato nell’antichità per ordinare e conoscere la realtà. Il percorso si articola attraverso quattro stanze: la stanza degli altri, dei pezzi, dei diari e del pianto. Nell’articolazione degli spazi si è deciso di affiancare agli intenti didattici, l’importanza delle emozioni.
prospetti
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ZHKOR RICORDA
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La stanza degli altri. In questa stanza trovano spazio una serie di fotografie che documentano gli altri crimini contro l’umanità accaduti dopo la Shoah. Cambogia, Ruanda, Bosnia, Kosovo, Darfur, Palestina, Afghanistan, sono diventati sinonimi di atrocità, evocano stragi e crimini anche se meno noti. La seconda galleria ospita la stanza dei pezzi, qui lo spazio si dilata fino alla copertura. Si comunica la profondità del museo e si non preclude la possibilità di ospitare anche opere di arte contemporanea di rilevanti dimensioni, superando le limitazioni dei musei di non recente costruzione. In alto una grande finestra in ferro cerato è schermata dalle mura prospicienti. Penetra una luce diffusa adatta alle esposizioni. Si rende esplicito una costante del museo; la vista è sempre sbarrata. Il richiamo ad una condizione di oppressione è evidente. Una serie di teche in vetro e ferro cerato contengono frammenti del lavoro degli internati nei campi di concentramento. La logica è di mostrare come, nei campi di concentramento, si riducessero le persone in pezzi. Stück. Un numero (volutamente lungo) accompagna le teche. Il riferimento al numero che sostitutiva in tutto e per tutto le generalità di una persona relegandola ad essere un ingranaggio della macchina nazista, è chiaro. Una parete ospita una videoproiezione che mostra le fasi di spersonalizzazione di una donna obbligata a spogliarsi, nuda davanti ai soldati che passano, ridono, disprezzano. Rasata, rapata, tatuata viene poi rivestita con una divisa a righe. Grande testa, Alberto Giacometti, 1960
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Terminale di questa sezione è la stanza dei diari. La prospettiva è forzata. Due muri inquadrano una grande vetrata scandita da una successione di montanti metallici; una finestra che sbatte su un muro. Rinchiuse all’interno della corte, le statue filiformi di Giacometti, richiamano le figure esili degli internati. Una corte mostra il trascorrere del tempo, la pioggia, le statue corrose. La stanza è profonda entra poca luce, dei leggii sparsi diffondono una tenue luce. Sono i diari degli internati a cui è dedicata la stanza; un piedistallo di ferro cerato sorregge uno schermo led che riproduce le pagine dei diari, suoni e audio filmati. L’orizzontalità della stanza viene trasmessa attraverso una controsoffittatura di alluminio riflettente. Questo trattamento ricrea un’atmosfera cupa e riflette la poca luce presente. A terra la direzionalità dello spazio è rimarcata dalle lapidi di calcestruzzo levigato che rompono la pavimentazione di graniglia. Iscritti sulle lapidi trovano spazio i nomi dei diciassette operai deportati dalla Campolmi a cui sono dedicati i diari. Proseguendo, una fessura nella parete ci mostra nuovamente le statue, un monito a non dimenticare ciò che si è appena visto, richiamo esplicito alle feritoie medievali.
the holocaust, George Segal, jewish museum, New York
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considerate se questo è un uomo Primo Levi, ShemĂ
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Particolare Costruttivo della Scuola di Danza
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L’ultima stanza ospita la stanza del pianto. Il percorso si chiude tragicamente. Lo spazio si configura come un profondo taglio nel sottosuolo. Le pareti si piegano, si contorcono. La percezione è di essere sprofondati in una fossa, richiamo alla condizione straziante in cui sono precipitati i deportati. La piena consapevolezza dello spazio viene trasmessa attraverso un volume che lega tutti i piani. Questo vano comunica la profondità del museo e permette di percepire a pieno la volumetria. Un lucernario lineare occupa tutta la superficie disponibile in copertura. Si esplicita la dissimulazione del muro a mezzo del ricoprimento in laterizio delle strutture in c.a. A terra, una luce lineare illumina il muro del pianto. Qui sono riportati i nomi dei circa centocinquanta pratesi deportati e mai più ritornati. A loro è dedicata la stanza, a loro e a tutte le vittime dei soprusi è dedicato il museo.
la vita dei vivi è riposta nel ricordo dei vivi Marco Tullio Cicerone (IX,10) Phillippicae
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Note (1) _Michele di Sabato, Il sacrificio di prato sull’ara del terzo reich, Editrice nuova fortezza, 1902 (2) _Between the line, www.libeskind.com (3) _www.yadvashem.com (4) _materiali e risorse, www.ushmm.com (5) _Comune di Prato. Prato 1944-1969: XXV anniversario della deportazione dei lavoratori della provincia di firenze nei campi di sterminio nazisti, fondazione provincia di Prato, 1998 (6) _Edeltraud Kendler, Rudolf Pekar, Mai più, Die Neue Sachlichkeit (7)_Comune di Prato, Regolamento urbanistico. Norme tecniche di attuazione (art8) (8)_Piano di recupero dell’ area ex fabbrica Campolmi, ufficio tecnico di Prato (9)_Modernità e Olocausto, Zygmunt Bauman, pg 280 (10)_Approaches to Auschwitz, L.Rubenstein (11)_la memoria e la storia difronte al male, Alberto Melloni, Repubblica 09/06/2016
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Bibliografia _Avagliano Palmieri, Gli internati militari italiani, diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, 2000
_Giacomo Becattini sotto la direzione di Fernand Braudel, Prato storia di una città, Le Monnier editore, 1990
_Brunelli Camilla. Fondazione Museo e centro della deportazione e resistenza. Luoghi della memoria toscana, Mondadori Electa editore, 1991
_Marco Mattei, Il museo del tessuto di Prato nell’ex fabbrica Campolmi, Pagliai Polistampa, 2001 _Massimo Listri, Prato , Gliori, 2004
_Comune di Prato. Prato 1944-1969: XXV anniversario della deportazione dei lavoratori della provincia di firenze nei campi di sterminio nazisti, fondazione provincia di Prato, 1998 _Edeltraud Kendler, Rudolf Pekar, Mai più, Die Neue Sachlichkeit editore, 2010
_Mauro Galantino, Pierre Louis Faloci, architettura per ricordare, Electa editore, Roma, 2005 _Michele di Sabato, Il sacrificio di prato sull’ara del terzo reich, Editrice nuova fortezza, 1902 _Milena Matteini, Pietro Porcinai. Architetto del giardino e del paesaggio, Mondadori Electa editore, 1991 _Wiesel Ellie, La Nuit , La notte, prefazione di François Mauriac, trad. Daniel Vogelmann, Firenze, Giuntina, 1980. _Wolfgang Benz, L’Olocausto, Bollati e Boringhieri, 1978 _Zygmunt Bauman, Moderità e olocausto, il Mulino editore, 1981
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Filmografia
_Cecconi Gabriele, Eppure quando guardo il cielo: La deportazione con gli occhi dei figli, 2000 _Mark Herman, Il bambino con il pigiama a righe, 2008 _Peter Kassovitz, Jakob il bugiardo, 1999 _Roberto Benigni, La vita è bella, 1997 _Roman Polaski, il pianista, 2002 _Steven Spielberg, Schindler’s List, 1993 _Oren Jacoby, My italian secret, 2014
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Ringraziamenti
per il gentile apporto nella raccolta dei documenti: a Piero Guicciardini, Marco Magni e Marco Prosperi. per gli utili consigli progettuali: a Barbara Aterini, Vittorio Frontini e Antonino Terrana per la possibilità offertami: a Valerio Barberis per i piacevoli momenti condivisi agli amici di sempre
per la dolcezza della sua continua presenza: a Beatrice per l’inesauribile sostegno: a Paola e Daniele per l affetto e la costante fiducia a Francesco, Laura e Tommaso per la pazienza, la qualità e la quantità dei suoi insegnmenti: al prof. Fabrizio Rossi Prodi
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