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gennaio 2010

Firenze Fast Forward

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La realizzazione di FFF è stata possibile grazie al generoso supporto di

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B&C Speakers spa Via Poggiomoro, 1 - Vallina 50012 Bagno a Ripoli (FI) Italia Tel. +39 055 65721 www.bcspeakers.com


Al sangue Marco Brizzi Il lettore non si allarmi, non è questo un invito al conflitto. È semmai una dedica, alla quale si aggiunge un auspicio. Il sangue è quello delle idee, delle risorse progettuali e degli sforzi visionari che si disperdono nella città di Firenze. Quanti progettisti ne hanno speso, con scarso o nullo risultato, nella volontà di tenere viva la città alla quale hanno sovente dedicato il loro più grande impegno? Quanti artisti ne hanno prodotto, come conseguenza di un rapporto intimo con i suoi ambienti e con la sua storia? “Sangue! Strano, dovrebbe star dentro”, dice Fielding Mellish, controllando una ferita, in Bananas di Woody Allen. Per quanto sia fisiologico che non tutti i progetti, nemmeno i migliori, trovino un tessuto da irrorare e spazio per realizzarsi, è probabile segno di una patologia il loro sistematico sperpero. E a Firenze, dal sangue versato dai progetti, alle idee morte sopite, a quelle uccise per soffocamento, ce ne sarebbe per un museo criminale da aggiungersi ai vari “musei” della tortura e dell’orrore che proliferano nelle sue strade. Per fortuna un semestrale, qual è FFF, è meno vicino al compito di occuparsi di fatti di cronaca. Si è così più liberi di evitare alcuni dei luoghi comuni nei quali si compie questo triste rito, che tende a sua volta a risuonare, lento e soporifero, nelle menti dei cittadini producendo una sorta di mantra letale. Una rivista come questa può tentare, invece, di offrire altre testimonianze osservando le idee nel loro insieme, cercando di descrivere la massa critica delle visioni che esse producono a contrasto con le dinamiche e con le esigenze della città. Le sue pagine intendono presentare forme di produzione creativa e di impegno progettuale dedicati a Firenze attraverso una presa diretta con gli stessi autori coinvolti, con le loro rifles-

sioni, attraversando le criticità del loro operare. FFF non è pensata come un catalogo dal quale attingere per trarre occasionali spunti, ma come un provvisorio quadro delle risorse intellettuali che potrebbero delineare alcuni possibili percorsi di un qualificato miglioramento nelle condizioni di vita della città. Tali percorsi, è bene ricordarlo, non sono mai facili né immediati. Richiedono sangue. Ogni progetto, e in particolare il progetto che riguarda la città, non si improvvisa in un giorno. Ha bisogno, per realizzarsi, di uno sguardo ampio, di tempo e di cure. E, se non sopraggiungono condizioni avverse, esso talvolta si compie. Nello stesso modo, una visione non viene fuori dal nulla, ma è espressione di un’agitazione, di una creatività sorgiva che si sviluppa di fronte a particolari condizioni, talvolta politiche, spesso sociali. Nasce in funzione delle esigenze della comunità, delle sue aspettative, delle sue necessità. Le pagine che seguono non intendono venire a capo di nulla, ma vorrebbero contribuire a promuovere uno scambio di idee, nella speranza di seminare qualcosa di buono nei solchi della sana inquietudine che pervade la città. In tal senso ci piacerebbe che, a partire dagli spunti offerti da FFF, si sviluppassero nello spazio pubblico iniziative, interventi e azioni per dare voce a queste pulsioni e per migliorare la vita di Firenze. A non cogliere il sentimento che esiste e che oggi è palpabile si rischierebbe di sprecare altro sangue prezioso.

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2 Sommario 4

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Lunatici

Margherita Hack

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Gruppo di famiglia in esterno

Urbanistica parassita

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L’organismo urbano

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L’odore della città

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Firenze e la sabbia

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La stazione di Firenze è molto bella

Memorie e riflessioni di una fiorentina

Francesco Ventura

Fare l’intellettuale a Firenze

Peppino Ortoleva Valentina Piattelli Marco Quinti Riccardo Ventrella

Orizzonti 38 Grid unlocked. La rete dell’informazione

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libererà quella dei trasporti

Carlo Ratti, Walter Nicolino, Giovanni de Niederhausern

Fatti Futuribile Fiorenza Yates Buckley

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La città pensiero

Lorenzo Brusci

Racconti 56 Benvenuti a Wonderland City

Visioni Sociolab

Giacomo Costa

Marco Vichi

Lapo Binazzi (UFO)

Daniele Lombardi

Azioni 52 Gli architetti dovrebbero stare

Alberto Breschi

dappertutto, ma non nelle botteghe

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Un Atlante fiorentino

Angelika Stepken a colloquio con Erik Göngrich e Ines Schaber

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SalottoLive

Claudio Ripoli e Paola Iafelice

Gilberto Corretti

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A tu per tu con l’arte

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Manu Lalli

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Un rinascimento a Firenze

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M.C.D. = Freeshout?! 2009

Maria Gloria Conti Bicocchi

Bill Viola

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Mariotti sulla città

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Andrea Rauch

Decenni rock. Caos sonoro a Firenze

Bruno Casini

Il teatro senza il limite

Erika Gabbani

Recite 109 L’area archeologica del quartiere

di San Lorenzo. Guida agli scavi

Alessandro Savorelli

Souvenir 112 Mappe 122 2010 Oroscopo fiorentino Illustrazioni 124 Gianluca Costantini 3


Memorie e riflessioni di una fiorentina Margherita Hack Nata a Firenze il 12 giugno 1922, Margherita Hack è una delle menti più brillanti della comunità scientifica italiana. Il suo nome è legato a doppio filo alla scienza astrofisica mondiale. Prima donna a dirigere un osservatorio astronomico in Italia, ha svolto un’importante attività di divulgazione e ha dato un considerevole contributo alla ricerca per lo studio e la classificazione spettrale di molte categorie di stelle.

Mi sono iscritta all’università, al corso di laurea in fisica nel 1940. Eravamo più di un centinaio a seguire le lezioni di analisi matematica tenute da Giovanni Sansone, in un grande stanzone a piano terreno nella sede centrale dell’università, in piazza San Marco. La gran maggioranza era composta da iscritti a ingegneria, tutti ragazzi. Solo da una decina di anni il numero di ragazze aspiranti ingegnere sta crescendo rapidamente. Un’altra trentina era rappresentata da iscritti ai corsi di laurea in fisica pura, in matematica pura e in matematica e fisica (impura?). Oggi c’è solo la laurea in fisica e quella in matematica. Di quella trentina, circa la metà erano ragazze, lievemente in maggioranza fra gli iscritti a matematica. Noi fisici eravamo una decina, di cui cinque ragazze. Molti che allora non erano ancora nati si immaginano che le donne nell’università e soprattutto nelle materie scientifiche fossero una rarità. In realtà le studentesse, fatta eccezione per ingegneria, erano abbastanza numerose, e anche negli istituti di fisica e di chimica ricordo la presenza di un certo numero di assistenti donne, anche se nessuna aveva la cattedra. Allora l’università era ancora un privilegio per pochi figli di papà, o per alcuni, come me, di famiglia piccolo borghese ma colta, in parte autodidatta, che faceva grandi sacrifici per farmi 4


studiare. Oggi, con l’università di massa, aperta a tutti i diplomati di qualsiasi scuola media superiore è purtroppo cresciuto il numero degli abbandoni; si laurea meno del 40% degli iscritti. L’università non ha saputo adattarsi alla nuova situazione, a seguire più da vicino gli studenti, e solo da pochi anni si comincia a istituire, informalmente, la figura del tutor, spesso svolta dai ricercatori. Le studentesse, che come una volta rappresentano ancora oggi la grande maggioranza nelle facoltà umanistiche, sono circa la metà nelle facoltà scientifiche, mentre le ricercatrici sono il 50%; fra i professori di seconda fascia le donne superano il 30%, mentre fra i professori di prima fascia – gli ordinari – le donne sono ancora ferme all’11%, spesso ancora frenate dalla tradizione per cui il peso delle cure familiari ricade in gran parte su di loro. Inoltre spesso le bambine ricevono un’educazione che non le rende abbastanza combattive e fiduciose nelle proprie capacità. Una scuola di vita estremamente importane è lo sport agonistico, che ci insegna ad affrontare sacrifici e fatica per avere successo, e a capire che anche affrontare il lavoro di ricerca è come una gara da vincere. Uno scienziato è come tutti, un cittadino, e come fra tutti i cittadini, fra gli scienziati ci sono quelli interessati solo al proprio lavoro e quelli più o meno fortemente interessati alla politica. Non possiamo disinteressarci di politica perché è quella che determina le nostre condizioni di vita; sta a noi col nostro voto cercare di realizzare uno Stato veramente democratico che, come stabilisce la nostra Costituzione, “riconosce e garan-

Non possiamo disinteressarci di politica perché è quella che determina le nostre condizioni di vita; sta a noi col nostro voto cercare di realizzare uno Stato veramente democratico

tisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2)”. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3)”. Credo che questi due articoli della Costituzione dovrebbero essere la nostra guida in un’epoca in cui si assiste a rozzi rigurgiti di razzismo anche da parte di forze politiche che indegnamente siedono in parlamento e fanno scandaloso uso del parlamento per evitare processi a un personaggio indagato per corruzione di giudici e testimoni, che solo la scarsa coscienza politica di gran parte dei cittadini ha permesso che ascendesse a capo del governo. La scienza deve essere neutrale, nel senso che deve battersi per la conoscenza, per indagare le leggi della natura, senza pregiudizi di ordine religioso o ideologico. Invece sono le applicazioni della scienza che non possono essere neutrali, ma volte a migliorare le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi, uomini e animali. La diffusione delle pseudoscienze, come l’astrologia, il creazionismo, i pregiudizi contro chi è diverso – sono il risultato di una grande ignoranza, che mortifica la ragione. È di questi giorni la notizia che sono stati pubblicati i resoconti di un congresso organizzato e pagato – con i soldi del contribuente – dal maggiore ente pubblico di ricerca , il Consiglio Nazionale delle Ricerche, su “Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi”. Quello che è tragico è che proprio il nostro maggiore ente di ricerca si è trovato a sostenere una tesi fondamentalista, senza alcuna base scientifica, in un convegno organizzato dal suo vicepresidente, certo Roberto De Mattei, professore associato di Storia del Cristianesimo e della Chiesa alla privata Università Europea di Roma. Si sostengono assurdità come per esempio che la Terra non avrebbe più di 4 miliardi di anni ma solo pochi milioni; tanto varrebbe tornare a sostenere che non è la Terra a orbitare attorno al Sole ma il Sole attorno alla Terra come ci insegna la Bibbia. De Mattei è stato nominato alla vicepresidenza del CNR da Silvio Berlusconi su proposta dell’allora ministro per l’istruzione Letizia Moratti, il che la dice lunga sulla cultura scientifica di questi due personaggi. Val la pena di fare il confronto con il modo di agire del ministro dell’istruzione del governo Prodi, Fabio Mussi, il quale per procedere alla nomina del presidente del CNR consultò i vari comitati di ricerca dell’ente e nominò un fisico di fama internazionale come Luciano Maiani. 5


Il nostro Paese è quello in cui si legge meno, si comprano meno giornali, l’informazione arriva alla maggioranza dei cittadini da una televisione, sia privata che pubblica, asservita al padrone, il primo ministro Silvio Berlusconi, del cui gigantesco conflitto di interessi nemmeno si parla più. Manco da Firenze dal ’54, anno in cui dall’Osservatorio di Arcetri mi trasferii a Merate, in Brianza, alla succursale dell’Osservatorio di Brera. Dal ’64, vinta la cattedra di astronomia dell’Università di Trieste, vivo in questa bella e civile città, la città italiana, ci dicono le statistiche, in cui si legge di più. Eppure mi meraviglio sempre quando penso che la maggior parte della mia vita si è svolta via da Firenze, dalla mia città, dove ho passato i miei primi 32 anni, dove ogni angolo di strada, ogni piazza, ogni viuzza, potrei dire ogni pietra, mi ricorda episodi o persone, la città che da bambina e da giovane ho girato a piedi o in bicicletta e di cui conosco anche i luoghi più anonimi e nascosti. Certo, traversando l’estrema periferia, ho l’impressione di trovarmi in un’altra città, sconosciuta: dove c’erano polverose strade di campagna oggi ci sono palazzoni e file di condomini, i giardini pubblici dove ho passato tutte le estati della mia infanzia, affollati una volta di bande di ragazzi e in cui si giocava a palla o a nascondino per ore, fino allo sfinimento, oggi sono deserti. Forse oggi si fanno solo giochi virtuali, al computer o attività organizzate dai grandi, come la palestra, la piscina o la danza. In molte città straniere, più lungimiranti di noi, anche non più grandi di Firenze, hanno conservato i tram; in Italia solo Roma e Milano hanno ancora qualche linea e ora anche a Firenze, dopo avere accuratamente tolto o ricoperto le rotaie, si comincia a rimetterle e si fanno grandi discussioni sul far passare o meno il tram da piazza del Duomo. Firenze è sempre stata città affollata di turisti, ma ora è diventato difficile anche camminare, per l’affollamento. Impensabile una volta che per entrare in Duomo si dovesse far la coda; io l’usavo come scorciatoia venendo da via Calzaioli per andare a scuola in via Martelli, al Galileo. Inimmaginabile che decine di migliaia di persone si affollassero sotto i portici degli Uffizi, là dove, in sale mezze vuote la mamma mia, miniaturista, copiava i quadri e vendeva le miniature ai pochi ma ricchi forestieri, mantenendo col suo lavoro me e il babbo che, non essendo iscritto al fascio, non aveva più avuto un lavoro stabile dal 1929. Per rendere più vivibile Firenze io credo occorra seguitare con la politica dei tram e pedonalizzare completamente il centro. Non so se ci siano già, ma un’utile soluzione possono essere piccoli autobus elettrici per un centro che in fondo va da Santa Maria Novella a Santa Croce, da piazza San Mar6

co a piazza Pitti, e metropolitane leggere di superfice come quella di Scandicci, per il viale dei Colli, Fiesole, Settignano, Careggi, Tavarnuzze, Grassina ecc., riducendo drasticamente il traffico privato e anche l’inquinamento. Ho sentito dire che si vuol spendere un bel po’ di miliardi per fare un nuovo stadio. Sono nettamente contraria. Sebbene sia sempre stata tifosa della Fiorentina, e ancora oggi guardi sempre i risultati, anche se il calcio è diventato un grande affare che ha poco di vero sport, a parte l’abilità dei giocatori, che è però ampiamente ripagata da stipendi che un premio Nobel non si sogna nemmeno, penso sarebbe molto meglio usare quei miliardi per incrementare l’università, i laboratori, i centri di ricerca scientifica fiorentini e porre le premesse per trattenere a Firenze i giovani ricercatori, senza costringerli a decenni di precariato o a emigrare all’estero.

Per rendere più vivibile Firenze io credo occorra seguitare con la politica dei tram e pedonalizzare completamente il centro

Della cucina fiorentina ricordo con nostalgia la fettunta (per i non toscani sarebbe la bruschetta), la pappa col pomodoro, la ribollita, la schiacciata all’olio, non certo la bistecca, dato che sono vegetariana fin dalla nascita, quindi senza alcun merito, perché quando sono nata i miei erano già diventati vegetariani, per rispetto di ogni forma di vita, e questo rispetto per gli animali, per la loro sofferenza, l’ho sempre avuto. Oggi poi si comincia a rendersi conto che i moderni e barbari allevamenti intensivi sono una delle maggiori fonti di inquinamento, molto più inquinanti delle auto, e fonti di indicibili sofferenze per animali come mucche e vitelli, ridotti a pure macchine da produzione di carne e latte, in condizioni di vita completamente innaturali; così pure gli allevamenti di polli, costretti a ritmi innaturali di alternanza buio/luce, per costringerli a fare più uova, costretti all’immobilità per farli ingrassare più rapidamente. Il rimedio sarebbe di tornare a un impiego più moderato della carne, com’era del resto in Italia prima della guerra, quando la maggioranza della gente la mangiava una sola volta al giorno e nemmeno tutti i giorni e certamente, oltre al portafoglio, ci guadagnava anche la salute.


Gruppo di famiglia in esterno Sociolab Sociolab lavora sulla città e sui suoi abitanti attraverso pratiche di partecipazione e mediante la ricerca sociale. Si occupa di tematiche legate allo sviluppo sociale, economico e urbanistico del territorio affiancando gli strumenti della ricerca sociale alle metodologie partecipative per esaminare i problemi e le opportunità dei luoghi insieme ai cittadini che li vivono. Sociolab svolge un’attività di ascolto delle comunità in cui lavora e si occupa di facilitare le relazioni fra gli abitanti e le Amministrazioni. Lavora per coinvolgere i cittadini nelle decisioni più sensibili o conflittuali, per individuare criticità e opportunità dello sviluppo territoriale, per stabilire insieme ai cittadini le linee guida per la riqualificazione di spazi urbani e più in generale per far emergere percezioni, opinioni e punti di vista di chi vive un territorio. Il gruppo di lavoro, guidato da Chiara Del Sordo, Silvia Givone e Barbara Imbergamo, è composto da sei giovani ricercatrici che collaborano allo sviluppo di tutte le attività.

Uno degli strumenti che utilizziamo per l’avvio di quasi tutti i nostri progetti sono le interviste in profondità, mediante le quali esploriamo opinioni, atteggiamenti, interpretazioni dei nostri interlocutori. Per questo l’invito di FFF di raccogliere delle impressioni su Firenze selezionando e incontrando una dozzina di nuclei familiari ci ha subito interessate: perché mette insieme strumenti e temi particolarmente vicini alla nostra esperienza e alla nostra sensibilità.

Nonostante il lavoro che abbiamo svolto offra una fotografia più che un’analisi, un ritratto estemporaneo più che un racconto articolato delle sensibilità presenti in città, siamo convinte che le idee che sono emerse da famiglie così varie e dislocate in quartieri diversi di Firenze possano offrire spunti interessanti per ripensare la città o per intervenire su di essa. Abbiamo scelto dodici famiglie eterogenee per età, genere, numero di membri, nazionalità, tentando di individuare per ciascun quartiere le tipologie che meglio lo rappresentano in base alla composizione del nucleo familiare. Se da una parte abbiamo cercato di dare una certa rappresentatività al nostro piccolo campione, dall’altra abbiamo voluto includere tra gli intervistati nuclei familiari magari non statisticamente rappresentativi ma con caratteristiche che consentono di esplorare bisogni, sensibilità e approcci davvero multiculturali. A loro abbiamo domandato cosa vorrebbero per la città e per

il proprio quartiere, idee e desideri, piccoli e grandi interventi. Dalle loro parole è emerso il ritratto di Firenze come una città godibile e accogliente sulla quale sarebbero però auspicabili innovazioni in ambito sociale, culturale e infrastrutturale per renderla sempre più vicina ai desideri dei suoi abitanti. Molti degli intervistati, a qualunque quartiere appartengano, rilevano come problema cruciale della città quello del traffico, della mancata ottimizzazione di un servizio pubblico di trasporto urbano e di mezzi per la mobilità sostenibile. Non pochi ritengono che le piste ciclabili andrebbero incrementate e che il servizio di bus dovrebbe essere potenziato con corse anche notturne. Il legame tra il deficit di mobilità e la recente pedonalizzazione del Duomo è ricorrente nelle parole degli intervistati che, pur apprezzando il nuovo assetto dato al nucleo centrale della città, ne rilevano le ricadute negative in termini di vivibilità per coloro che usano i mezzi pubblici. Ricorre nelle interviste anche l’idea che Firenze sia divenuta una città quasi esclusivamente a misura di turista e il desiderio conseguentemente espresso è che possa tornare a essere fruibile sopratutto dai cittadini che la vivono. Molti hanno parlato delle piazze che immaginano non come luoghi di transito, ma come luoghi di aggregazione e socialità. Accanto a questi stanno tanti altri piccoli rilievi che spaziano dal desiderio di una maggiore sperimentazione culturale e architettonica, a una migliore manutenzione dell’esistente, dall’incremento dell’offerta socioassistenziale all’attenzione alle esigenze di gruppi di cittadini specifici passando per considerazioni sullo Stadio, la Tav, il Palazzo di Giustizia e la loggia di Isozaki.

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Alessandra, studentessa fuori sede è iscritta alla Facoltà di Scienze Politiche del Polo di Novoli, ha 24 anni e da 5 anni abita a a Firenze in un appartamento del Quartiere 5 (zona Rifredi) insieme ad altri studenti. Vivo in qusta zona perché è un’ottima via di mezzo: è decentrata, ma molto vicina al Centro e ad altre zone servite come piazza Dalmazia. Inoltre è molto vicina al Polo di Novoli e quindi perfetta per le mie esigenze. Mi piace perché è un quartiere tranquillo, comodo, c’è un po’ di tutto, negozi, supermercati, ristoranti, c’è anche la stazione di Rifredi e il centro si raggiunge a piedi in 15 minuti. Firenze è una bella città ma è troppo orientata alle esigenze del turista. La pedonalizzazione del Duomo per esempio è bellissima, mi piace moltissimo, ma implica una serie di difficoltà dal punto di vista logistico: penso agli autobus, per esempio.

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Daniela 53 anni e Fabio 52, entrambi pensionati, sono ciechi e abitano nel Quartiere 2 da 15 anni. In questo quartiere ci troviamo bene soprattutto dal punto di vista dei servizi: ci sono molti negozi, farmacie, supermercati, il mercato delle Cure e ancora molte botteghe. Crediamo che Firenze sia una città nella quale si rispettano troppo poco le regole e per noi è un gran problema: una macchina parcheggiata sulle strisce pedonali, un motorino che passa sulla pista ciclabile sono motivi di scomodità e pericolo. Ma di “scomodità e problemi” di questo genere se ne possono citare numerosi. Per esempio i cartelli mobili, quelli che segnalano

Un desiderio per Firenze? Collaborare con l’Amministrazione mettendo a disposizione un punto di vista diverso che potrebbe migliorare la vita di ciascuno, cieco e non. Sogniamo di abitare in una città che rispetti il cittadino e non solo i suoi mezzi di trasporto privati: un luogo nel quale i cittadini che non usano mezzi di trasporto individuali possano muoversi comodamente anche con il contributo di un buon sistema di mezzi pubblici.

Un desiderio per il quartiere? Ci piacerebbe che nel quartiere venisse fatto rispettare di più il codice della strada per non dovere fare gimkane tra i veicoli parcheggiati sulle strisce pedonali e per garantire che i marciapiedi siano liberi da ostacoli. Inoltre, è un piccolo desiderio… ci piacerebbe comprare un tavolo da showdown, uno sport per ciechi, e metterlo a disposizione di tutti i cittadini del quartiere. Abbiamo chiesto la disponibilità di una stanza ma sebbene ci siano molti spazi vuoti non abbiamo ancora avuto nessuna risposta.

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i lavori alle strade, sono una delle principali cause di incidenti per i ciechi che spesso si graffiano il volto sbattendoci contro. Spesso i cartelli vengono lasciati abbandonati in strada per mesi e vengono spostati continuamente dai cittadini sui marciapiedi e per noi diventano ostacoli inaspettati e pericolosi. Su un altro piano è il discorso della pedonalizzazione del Duomo: la piazza è bellissima ma le linee degli autobus hanno subito degli stravolgimenti a cui nessuno era stato preparato adeguatamente. Questo comporta disagi soprattutto per chi, come noi, aveva lavorato per conoscere la struttura della rete dei bus. Adesso fare una passeggiata è

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diventata un’odissea.

Un desiderio per il quartiere Un trasporto pubblico più efficiente. Per gli studenti fuori sede è fondamentale potersi spostare con i mezzi e sarebbe molto importante che ci fosse un servizio notturno che non finisca a mezzanotte. Gioco a pallavolo in una squadra che si allena a Firenze Sud e se non avessi un passaggio da un amico che Un desiderio per Firenze abita qui vicino sarebbe un problema attraversare la città con i mezzi pubblici, dovrei cambiare tre autobus e la sera alcune Bisognerebbe pensare i servizi per i cittadini linee non passano mai. e non soltanto per i turisti. Questo non mi permette di essere indipendente anche se ho la bici, perché quando piove o fa freddo non la prendo.

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Un desiderio per la città Che Firenze venga pulita, curata. Che vengano valorizzati giardini e piazze. Che sia curato il verde e che se ne possa fruire davvero.

Marcello, 70 anni, e Monica, 58, vivono nel Quartiere 3 (Gavinana) da 5 anni. Lui fiorentino, abita a Firenze da sempre; è in pensione. Lei, tedesca di origine, ha abitato per 25 anni a Parigi e si è trasferita da 5 anni a Firenze. Hanno un cane, Tutzi, di 2 anni. Io sono nato in centro, ma ormai il centro non è più per i fiorentini. Qui si sta bene, è un quartiere vivo, la Coop è diventata un punto di ritrovo per le persone anziane, il cinema Marconi è stato risistemato e nella zona di viale Giannotti sono stati fatti investimenti anche da piccoli esercizi commerciali,. Però in generale Firenze è sporca, e non va avanti, vive del Rinascimento ma potrebbe fare molto di più. La pedonalizzazione del

Duomo fa vedere il Duomo da una prospettiva diversa, ma dal punto di vista pratico per chi usa il mezzo pubblico si è verificato un peggioramento dei servizi. Col 23 prima in 10 minuti si arrivava in centro adesso ce ne vogliono 28. Quello che c’è di buono in questa operazione non vale gli aspetti critici che la pedonalizzazione stessa ha causato. Un desiderio per il quartiere. Che ci sia maggiore cura e vitalità nelle strutture già esistenti. Per esempio il Circolo Vie Nuove è davvero poco curato e il Centro di arte contemporanea che è nato con la Coop ma che non ha mai funzionato, sarebbe una cosa importante da valorizzare.

Diana, colombiana, 37 anni, Un desiderio per Firenze responsabile marketing di un’azienda, Posso esprimerne due? Ci vorrebbe più attenvive a Firenze da quasi nove anni. zione al servizio e alla puntualità degli autobus Dopo aver abitato nel centro storico, da due anni e mezzo risiede perché la città sarebbe adatta a essere vissuta nel Quartiere 5. Sono arrivata in questo senza la macchina; inoltre le piste ciclabili spesso quartiere per una combinazione “di non sono coerenti perché si interrompono all’imscelte e coincidenze”. All’inizio non ero provviso e sarebbe bello se venissero studiate molto convinta, ma ora mi piace molto un poco meglio. Inoltre a Firenze ci sono i locali perché non è lontano dal centro ma è “fiorentini-fiorentini” e quelli per “stranierianche “un centro a sé”, è comodo e si turisti” dove i fiorentini non mettono piede: ci trova tutto con facilità, mi sembra di vivere in un piccolo paesino, però vicino sarebbe bisogno di qualche luogo di ritrovo più alla città. cosmopolita che frequentassero un poco tutti. Ho amato Firenze ogni anno di più. La sento molto adatta a me perché assomiglia molto a Cartagena, la mia città natale, piccola, con tanta storia e con ogni angolo pieno di arte, vicina alla montagna e al mare e piena di attività e di iniziative culturali. Inoltre mi sono sempre trovata bene, bene accolta. Penso che Firenze favorisca l’integrazione, è una città piena di stranieri e la gente si è abituata a questa dimensione.

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Un desiderio per il quartiere. Vorrei che ci fossero più occasioni per vivere il quartiere al suo meglio. L’altro giorno hanno chiuso piazza Dalmazia per il mercatino e mi è sembrato bellissimo: era come uscire di casa ed essere in un centro commerciale pieno di banchini e antiquariato: spero che lo facciano più spesso, perché così si può apprezzare di più il quartiere e i suoi abitanti.

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Simone, cuoco, ha 32 anni e vive in un appartamento nel Quartiere 3 (Gavinana). Vivo nel quartiere da sempre, ci sono nato. È migliorato rispetto alla mia infanzia, quando eravamo attorniati dalle fabbriche: davanti a noi troneggiava enorme la Longinotti, dietro un grande spazio della Fiat. Mi piace il Parco dell’Anconella, l’erba viene tagliata più spesso rispetto al passato e si può vivere anche d’estate grazie agli eventi che organizzano. Il CPA è un’esperienza diversa e interessante. Invece non mi piace Il Circolo Vie Nuove: è un’occasione mancata, doveva essere un grande centro di aggregazione sociale, uno dei più grandi di Firenze, e invece dentro non c’è mai un giovane. E poi non mi piace la piazza davanti alla nuova Coop di viale Giannotti: sembra una pista di atterraggio, non c’è un albero, una panchina, la gente non ci va. Se una piazza non “fa centro”, non crea aggregazione, non può dirsi una piazza. Hanno provato ad aprire un cenUn desiderio per la città tro per l’arte moderna, il Quarter, ma è durato solo La città si deve evolvere, per cui ben vengano anche iniziapochi mesi e adesso ha cambiato gestione. L’arte tive azzardate come il Palazzo di Giustizia, che mi ricorda moderna non è facile, va promossa di più… Di Fila O Conan. giapponese animato cartone del tanto Industria renze mi piace l’opportunità di parlare con persone loggia di Isozaki, che credo abbia vinto un concorso internadi paesi diversi, anche se spesso non riusciamo a zionale e andrebbe realizzata. Sarebbe sicuramente meglio vedere più in là del nostro naso, ci preoccupiamo più delle buche che del resto. dei cancelli di ghisa con i pannelli pubblicitari di adesso.

Comunque se dovessi dire una cosa da realizzare, direi di finire la tramvia. Le ferrovie hanno attraversato il mondo, la Transiberiana l’hanno fatta in dieci anni. E noi? A questo ritmo, non saremmo ancora arrivati a Pechino. A parte le grandi opere, mi piacerebbe un cambiamento di mentalità sulle piccole abitudini, come l’uso della bicicletta. Io uso spesso la bici: Firenze è così piccola. È più la percezione della distanza a fermarci, perché in realtà in dieci minuti si raggiunge l’80% dei luoghi.

Stefania 34 anni architetto e Domenico 36 anni archeologo. Lei lombarda e lui siciliano, sono entrambi arrivati a Firenze per gli studi universitari e hanno deciso di rimanerci e di mettere su famiglia. Hanno una figlia, Olga, che ha 16 mesi. Abitano nel Quartiere 4 dal 2005. Questo quartiere non l’abbiamo scelto, ma poi ci siamo trovati bene: la casa è luminosa, si affaccia sul verde, si trova parcheggio, non cè molto traffico, ci sono servizi e il Parco delle Cascine è vicino. È un quartiere residenziale, non ci sono teatri o cinema, ma si raggiungono abbastanza facilmente quelli delle altre zone. Firenze è caotica, sia per il traffico che per i turisti; il caos che si percepisce non è piacevole. Sul traffico le Amministrazioni non hanno mai avuto il coraggio di fare una vera limitazione degli ingressi in città. Hanno tutti applau-

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Un desiderio per il quartiere. Il quartiere sta finendo un ciclo e ne sta iniziando un altro: nel mio palazzo negli ultimi quattro anni sono venuti a vivere spagnoli, russi. E penso che in fondo le proposte le dovranno fare le persone che stanno arrivando adesso e che stanno portando avanti questo cambiamento.

dito la pedonalizzazione del Duomo di Renzi. Sarebbe stato meglio fare la pedonalizzazione del centro storico, è quella la frontiera: chi vuole raggiungere il centro dovrebbe andare a piedi o con i mezzi pubblici o con i mezzi ecologici. Il problema è correlato alla qualità dell’aria, che a Firenze è pessima. Per altri aspetti a Firenze si sta bene, è piccola, offre eventi culturali, le biblioteche sono fornite e anche accoglienti. Firenze offre dei servizi che consentono di vivere bene certi momenti della vita, per esempio la maternità, con la rete di assistenza degli ospedali e del post-parto. Un desiderio per il quartiere. Migliorare i servizi di trasporto pubblico, almeno fino a che non partirà la tramvia. E per far funzionare la tramvia – anche se non è nel quartiere –, un parcheggio scambiatore a Scandicci.

Un desiderio per a città Creare alternative per diminuire il traffico in città, facilitare l’uso dei mezzi pubblici, realizzare parcheggi scambiatori all’esterno della città. E poi eventi più metropolitani per tutti, si dovrebbe aprire di più a eventi contemporanei di qualità.


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Silvano, 80 anni, titolare di un’attività commerciale in pensione, abita in un appartamento nel Q2. Abito qui dal 1967. Un giorno ho visto un palazzo in costruzione, mi sono fermato e nel giro di mezz’ora ho fatto un assegno di 300.000 lire per acquistare l’appartamento. Negli anni il quartiere è cambiato molto: prima erano quasi tutte villettine, ora ci sono per lo più palazzi. Comunque si vive bene, ci sono servizi, il centro è vicino, c’è il supermercato, lo stadio… certo, se lo spostano non ci andrò più, la partita la guarderò alla televisione… Di Firenze mi piace tutto e credo che funzioni abbastanza bene da ogni punto di vista, il vero problema resta il traffico. A Firenze ci sono due autostrade, una sui viali e una in via Masaccio. Bisogna trovare il sistema di eliminare i motorini che per gli incidenti che subiscono sono anche un costo sociale. Se io fossi il Sindaco, li eliminerei tutti, perché servono solo “per arrivare presto”, andando come pazzi. È un problema anche di sicurezza, specie per i bambini. Come mai in altre città anche all’estero non esistono? Io sono stato a Un desiderio per Firenze Hong Kong e c’è un traffico pazzesco, ma Si dovrebbe imporre un massimo di velocità funziona, perché non si può andare oltre a 30 km all’ora e avere un numero maggiore i 30 km all’ora e qui invece arrivano a 80 di vigili sempre presenti. Qua c’è scritto 30 km orari. Un desiderio per il quartiere Che lo stadio resti qui con le opportune modifiche. Se lo spostano non è per la Fiorentina, ma per altri interessi economici.

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Q3 Un desiderio per la città Che si intraprendano politiche orientate al cittadino che abita nella città e che sia data più continuità alle iniziative rivolte ai cittadini stessi (progetti culturali, sociali, di sviluppo sostenibile) in modo che non siano discontinue e scollegate e che si possano migliorare nel corso del tempo.

in altri quartieri non credo che ci sia. Questo quartiere negli ultimi anni è cresciuto a dismisura, sono state costruite molte nuove abitazioni. È una zona difficile. A Peretola sembra di essere in un paese in cui tutti si conoscono e tengono al quartiere. Dal punto di vista delle infrastrutture il Comune, le Amministrazioni hanno fatto abbastanza negli ultimi tempi: giardini, hanno sistemato strade, hanno risistemato la pista ciclabile lungo l’Arno. Ci sono anche tante piccole iniziative positive: il centro Gandhi che si occupa degli stranieri, la Casa del popolo di Peretola con iniziative per i bambini e per gli adulti. Firenze è diventata invivibile, è

sempre meno a dimensione di uomo. Ha questo ruolo di città d’arte e per noi fiorentini è diventata inaccessibile. Con i bambini abbiamo provato ad andare in centro in vari modi, in autobus, in bicicletta o in treno: una famiglia per andare in centro in autobus deve comprare 10 biglietti per andare e tornare. Per questo spesso a parità di offerta di iniziative noi andiamo a Campi, perché è più comodo arrivarci.

km all’ora, ma se non si sta attenti ci falciano! Se la tramvia e l’alta velocità possono risolvere dei problemi, penso che vadano fatte.

Un desiderio per il quartiere Maggiore attenzione alle problematiche sociali per incentivare il lavoro di chi, a prescindere dalla scuola, si impegna per portare avanti un progetto di integrazione e di buona convivenza.

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Roberto, 49 anni, libero professionista e Serena, 43, insegnante di scuola dell’infanzia, vivono in un appartamento nel Quartiere 5 (Peretola) da 2 anni. Hanno tre figli: Giulia di 10 anni, Sofia di 6 e Giovanni di 4. Viviamo qui da tanti anni ci stiamo bene, anche se per certi versi è una zona di confine, è una periferia un po’ complicata. È un quartiere dove ci sono comunità diverse, problemi sociali, persone con difficoltà economiche... Il fatto che ci siano molte culture apporta un arricchimento anche per i bambini, ma nella costruzione dei rapporti con le persone adulte è un po’ più faticoso. Inoltre in questa zona c’è una concentrazione di varie tipologie di disagio che

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Un desiderio per la città Vorremmo che Firenze diventasse una città dove si fanno i lavori tenendo conto delle loro ricadute in termini di sostenibilità, questo vale per la mobilità come per l’edilizia. A Firenze negli ultimi 20 anni non è stato costruito niente meritevole di essere tramandato ai posteri, sia dal punto di vista tecnico che estetico. La città è sotto i riflettori di tutto il mondo, perciò sarebbe interessante realizzare dei progetti che inneschino un circolo virtuoso, valutando opportunamente le alternative ai megaprogetti, penso per esempio alla Tav.

Monica, 41 anni, dirige una rivista tecnica e Lorenzo, 47 anni, è fisico. Hanno due figli, Giacomo di 8 anni e Giovanni di 3. Abitano nel Quartiere 2 da 8 anni. Questa zona del quartiere più vicina a Coverciano è vivibile, tranquilla, con molti spazi verdi e vicina alle colline di Settignano e Fiesole. La vita di quartiere è ancora intensa, ci sono molti servizi legati allo sport e la ludoteca che è un punto di aggregazione per le famiglie. Firenze invece sta diventando una Disneyland, il centro storico è quasi esclusivamente dedicato a un turismo mordi e fuggi che porta una ricchezza relativa. Il problema principale di Firenze è la mobilità e il trasporto pubblico in particolare. Gli autobus dovrebbero esserci almeno fino alla chiusura dei locali, intorno alle 2 di notte.

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Inoltre il costo del biglietto è uno dei più alti d’Italia e non invoglia le famiglie a liberarsi dall’automobile. Un desiderio per il quartiere. Una gestione migliore dello stadio, in modo che non porti solo disagi e soprattutto che questi disagi non siano caricati solo sulle spalle dei residenti. Realizzare una nuova struttura sarebbe uno spreco, ma una soluzione potrebbe essere una migliore gestione delle giornate delle partite: incrementando il trasporto pubblico, utilizzando parcheggi scambiatori più lontani e imponendo il rispetto del codice della strada.

Cristiano, 38 anni, insegna italiano agli stranieri e Massimo, 42 anni, è parrucchiere. Convivono da 8 anni in un appartamento del Quartiere 1. Questa è una zona molto tranquilla, di facile accesso e ha una posizione strategica perché è a 5 minuti di bicicletta dal centro, ma vicina alla stazione e all’aeroporto. Di giorno la zona è popolata, è ben servita, mentre nella fascia serale-notturna non c’è niente. Firenze ci piace, la bellezza del centro, il suo fascino, ma ha degli aspetti critici. La città dovrebbe essere più curata anche dal punto di vista della manutenzione e non essere organizzata solo a vantaggio dei turisti. Inoltre la mobilità è un vero problema: manca la cultura dello spostamento su mezzi che non siano privati. È anche vero che il servizio pubblico non funziona. Ci spostiamo in bicicletta proprio perché prendere l’autobus è complicato, ma speriamo che la tramvia possa migliorare la fruibilità dei trasporti pubblici. Un desiderio per il quartiere Una piazza vivibile. Davanti alla nuova casa dello studente, in via Maragliano, hanno lasciato un piazzale che poteva diventare una piazza, ma non c’è una panchina, non ci sono alberi, c’è solo un prato con dei gradini. Dovrebbe essere organizzata in maniera diversa per diventare una piazza e un punto di aggregazione.

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Un desiderio per Firenze Una città aperta a iniziative culturali e di intrattenimento. Il Parco delle Cascine, Santo Spirito, sono tutti spazi che potrebbero essere sfruttati molto di più e che invece rimangono trascurati. Sarebbe bello che ci fosse una diversificazione delle offerte per permettere alla città di vivere anche un po’ più di notte. Il fatto che in alcuni giorni i ristoranti in centro mettano i tavolini per la strada è interessante, perché amplia la zona pedonale della città, è piacevole come impatto ed è un modo di riappropriarsi della città e renderla più sicura.

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Un desiderio per Firenze È una domanda difficile, vorrei che cambiasse un poco la mentalità della gente. In concreto si potrebbe sperare che funzionasse meglio l’assistenza sociale. Sarà anche un problema economico dell’Amministrazione, ma non riescono più a rispondere ai bisogni. Ho visto che organizzano dei corsi di formazione, di cucina, la sera. Per chi ha dei figli e un marito che lavora la sera non è facile frequentarli. Sarebbe bello se li facessero di giorno mentre le bambine sono a scuola. Un desiderio per Firenze Più contemporaneità in tutti sensi. Più mostre d’arte contemporanea, un bel museo di arte contemporanea, ma anche un servizio di baby sitter nelle biblioteche, per esempio alle Oblate o il wireless libero in città. Mi piacerebbe anche che le piazze diventassero dei veri posti di aggregazione. Santissima Annunziata, piazza Annigoni, sono luoghi di transito, senza verde, senza panchine, non ti accolgono, non aiutano a creare momenti di socialità. Sarebbe bello andarci coi bambini e poterci passare del tempo incontrando gli amici.

Arben 41 anni, cameriere, ed Eklarida 37 hanno due figlie, Martina di 11 anni e Giulia di 7. Sono di nazionalità albanese e vivono nel Quartiere 1. Viviamo a Firenze da più di 10 anni. Abbiamo sempre vissuto in centro. Prima abitavamo sopra un pub e di notte c’era molto rumore, e questo è uno dei problemi del centro. Ora stiamo in una casa che affaccia sull’interno e c’è più silenzio, dalle finestre vediamo anche il Duomo. Vivere in centro comporta alcuni problemi, per esempio per i trasporti. La macchina la usiamo poco, solo una volta al mese per fare la spesa, gli altri giorni giriamo in bicicletta perché trovare parcheggio è molto difficile. Ma con le strade strette anche andare in bicicletta con le bambine non è facilissimo. Inoltre le strade non sempre sono pulite e la sera in giro c’è tanta gente poco raccomandabile.

Firenze è bella, ci sentiamo a casa. È una città capace di accogliere gli stranieri, siano turisti o lavoratori. Certo c’è una minoranza di razzisti… quando sali in autobus c’è sempre qualcuno che quando sente parlare straniero si stringe la borsa sotto il braccio. In quei casi ci si sente male. Da questo punto di vista la questura lascia tanto a desiderare, il rinnovo dei permessi è sempre difficile, funziona male, malissimo. Mi è capitato di sentire dire: “torna a casa tua”. Ma al di là della maleducazione e del razzismo c’è anche un problema di semplice comprensione: basterebbero degli interpreti per rendere la comunicazione più semplice. Un desiderio per il quartiere Che i padroni dei cani pulissero dove i loro cani sporcano le strade.

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Daniela 40 anni pittrice è cilena, ha due figli, Bianca di 10 anni e Arturo di 8 anni. Vive a Firenze da 17 anni e da 3 anni nel Quartiere 1. Firenze mi piace, è una città bella da vedere. Per me che ho studiato all’Accademia d’arte è molto piacevole andare in giro e vedere tutti questi edifici rinascimentali. Dal punto di vista dell’offerta culturale mi piacciono molto il teatro e le rassegne di cinema. Vivere in centro mi piace moltissimo, ho tutto vicino, lo studio, la scuola dei bambini, il mercato per la spesa ma anche le mostre, i musei, il cinema. Giro solo in bicicletta, anche coi bambini, la macchina non la prendo mai. Certo mi piacerebbe che il centro fosse più curato, che ci fosse più manutenzione, più pulizia, che il servizio di trasporto pubblico funzionasse meglio anche all’interno del centro. Un desiderio per il quartiere Vorremmo più piste ciclabili, più rastrelliere. La raccolta differenziata in centro potrebbe essere organizzata meglio. Ci sono molti cassonetti dell’indifferenziata, tra l’altro piuttosto brutti e poche campane per la plastica e il vetro.

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Viale Guidoni Francesco Ventura 14


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Urbanistica parassita Francesco Ventura Francesco Ventura è professore ordinario di Urbanistica all’Università degli Studi di Firenze. I suoi studi si incentrano sul senso del fare architettura e urbanistica.

1. Da oltre vent’anni ci si affanna a discutere su grandi progetti per la Firenze futura (Fiat-Fondiaria a Novoli e Castello, palazzi di giustizia e universitari, scuole dei carabinieri, TAV, sottoattraversamenti ferroviari e automobilistici, nuove stazioni, piani strutturali e cittadelle calcistiche). Quel poco che di questi tormentati sogni, prossimi a inquietanti incubi, occasionalmente e a brandelli va solidificandosi in cemento lascia insoddisfatti tutti, perché non somiglia quasi in niente al già desiderato dai sostenitori e realizza comunque il non voluto dagli avversari.

Quel poco che di questi tormentati sogni... va solidificandosi in cemento lascia insoddisfatti tutti, perché non somiglia quasi in niente al già desiderato dai sostenitori e realizza comunque il non voluto dagli avversari.

Le polemiche così non si esauriscono, ma si rinfocolano, soprattutto quando – ormai il copione si ripete in molte città – entra in scena anche la magistratura. E come potrebbe essere altrimenti. La pianificazione urbanistica altro non è che incessante, caotica, spasmodica produzione di norme, ossia non è autentica pianificazione, anzi, ne è la più radicale negazione. È produzione di norme per fini particolari, dove è sistematico il perseguire – perché solo per questo possono esser al meglio utilizzate – interessi privati con atti pubblici. Dove è gioco forza che si sviluppino ingegnose tecniche elusive. E dove è normale dedicarsi alla loro violazione per poter entrare in competizione per i medesimi fini sia con coloro che hanno il potere momentaneo di produrle per sé stessi, sia con chi, in quello stesso momento, ha l’abilità di eluderle a proprio vantaggio. Una produzione di norme che è un campo di battaglia. L’urbanistica identificata alla produzione di norme locali è il pólemos della pólis del nostro tempo. Eppure l’ideologia urbanistica vuole che la pianificazione, questa cosiddetta ‘pianificazione’, sia tecnica asservita – e dunque perfettamente determinata – allo scopo primario del ‘bene della comunità’. Poi però, se si vanno a leggere i discorsi degli urbanisti, non si riesce a sapere cosa mai sia questo su-

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Si può raffigurare il piano urbanistico come il frutto di un’ibridazione tra l’arte di edificare e il diritto vigente. Uno strano connubio, se ci si pensa bene, che ha il sapore del mostruoso o che evoca forme di perversione.

premo ‘Bene’ che si vorrebbe ‘comune’ e dunque cosa effettivamente determini l’agire urbanistico, quale sia il senso autentico di questa pratica che dice di pianificare il ‘Bene’. Ognuno – e come potrebbe essere altrimenti – ha la sua idea di ciò che è ‘comune’ e di ciò che è ‘Bene’. Nella ricerca urbanistica è poco e stentatamente praticata l’indagine sullo stato dell’arte. Riflettere sullo statuto della propria disciplina probabilmente appare ai più una perdita di tempo di fronte all’urgenza di far piani per ‘trasformare’ e insieme ‘salvare’ dalla distruzione, alla quale si presuppone siano altrimenti destinate, città, territori, ecosistemi e paesaggi. Ma per cogliere indizi su come effettivamente operi l’arte pianificatrice non bisogna guardare ai grandi progetti, né lasciarsi distrarre troppo dalle polemiche che suscitano. Quasi tutti i grandi progetti nascono, crescono e si decidono fuori dalla formazione del piano ordinario. Quest’ultimo li prende su di sé giustificandoli formalmente a posteriori, perché così vuole la legge: i progetti vanno legalizzati per porli in opera, il piano ha, tra altri, questo compito. E a ben considerare, al di là della loro consistenza sognata e insieme dei timori che suscitano, i grandi progetti non costituiscono la ‘polpa’ di ciò che concretamente, nel frattempo e in sordina, si va costruendo e trasformando in base al piano e a quel profluvio di norme misto di imposizioni, elusioni e violazioni che va producendo. Nel breve e medio termine il destino urbanistico della città non è determinato dai grandi progetti, ma dalla miriade di destinazioni urbanistiche e di complicate normative che il piano sancisce (nonché dal processo di varianti a sé medesimo che inevitabilmente innesca, per far fronte a imprevisti, correggere errori, soddisfare nuovi desideri, accogliere interessi diversi e adeguarsi a fluttuazioni politiche e di mercato). Si può raffigurare il piano urbanistico come il frutto di un’ibridazione tra le concezioni dell’arte di edificare dei pianificatori di turno e il diritto vigente. Uno strano connubio, se ci si pensa bene, che ha il sapore del mostruoso o che evoca forme di perversione. Tentiamo di osservare all’opera questa ibridazione nel caso specifico del piano regolatore tuttora vigente a Firenze concepito nei primi anni novanta del secolo appena trascorso; indicando però prima quelli che a grandi linee sembrano essere i tratti comuni a molta pianificazione italiana. 2. Per lo più la redazione di un piano – dunque non solo di quello che si sta per osservare – è preceduta da varie forme di studi, analisi, letture e interpretazioni degli edifici, della città

e del territorio (nelle diverse accezioni del nostro tempo: paesaggio, ambiente, ecosistema). Queste costituiscono sempre un tentativo di ricavare lo specifico principio del divenire di quella determinata città. Quel principio o legge che, nella volontà dell’interpretante di turno, è quello buono e desiderabile, ossia il divenire benigno. Ma si sa che il divenire è tale perché è anche maligno e che lo è in maniera imprevedibile. Il divenire propriamente è l’imprevedibile. Sicché la storia della città e del territorio che ogni studio preliminare al piano interpreta è una storia di violazioni della legge benigna. La rilevazione del maligno, ossia delle violazioni della legge, è fondamentale per l’affermazione della legge medesima. Ed è fondamentale mostrare come si stia vivendo il più grande pericolo nel presente. Il nostro tempo deve apparire come tendente alla rischiosissima apoteosi della violazione; sicché il ‘piano’ si faccia innanzi come taumaturgico rimedio salvifico. Il passato dovrà invece mostrarsi come il trionfo della legge. Occorre un’interpretazione del passato idonea a illuminare tutta la potenza della legge, che consiste nel non essersi lasciata abbattere dagli accidenti imprevisti e maligni. Si deve mostrare la capacità di durata, di permanenza, di resistenza alle trasformazioni che ac-cadono sulla legge e insieme quanto essa sia il benefico sostegno delle trasformazioni medesime. Quel sostegno – o nell’attuale linguaggio quella ‘sostenibilità’ – che fa sì che le trasformazioni, ossia il divenire (altrimenti detto ‘sviluppo’), dalla legge così sostenuto, sia essenzialmente volto al ‘bene’ del singolo e della comunità e perciò ‘Bene comune’ diffuso nello spazio, declinato nei vari luoghi e solido a tempo indeterminato. La cultura urbanistica ‘pianificatoria’ va così producendo miti. È una vera e propria forma contemporanea di mitologia della città, del territorio, del paesaggio, dell’ambiente naturale e costruito. È mitologia nel duplice senso di racconto che vuole essere ascoltato e seguito per l’autorevolezza della sua parola – un’autorevolezza che non pretende ormai più di ave-

La cultura urbanistica ‘pianificatoria’... È una vera e propria forma contemporanea di mitologia della città, del territorio, del paesaggio, dell’ambiente naturale e costruito 19


In questa pagina: viale Guidoni via del Ghirlandaio via Gioberti

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re basi ‘scientifiche’, ma si promuove comunque come un sapere pratico capace quantomeno di redigere atti normativi detti ‘piani’. Insieme, e inevitabilmente, ha connaturato quell’altro tratto dell’antica mitologia messa in luce dal pensiero razionale che se ne distaccò, ossia il suo essere una credenza. Non essendo, e ormai non pretendendo nemmeno più di essere teorie scientifiche, i miti urbanistici non hanno alcun modo di strutturarsi nell’esercizio della confutazione. Non possono cioè raggiungere una qualche consistenza di previsione consapevolmente ipotetica, pronta a farsi smentire e insieme attrezzata a far fronte alle falsificazioni. Ne consegue che tale sapere pratico è incessante creazione di una molteplicità di credenze: dai miti individuali e occasionali che sorgono a ridosso di specifiche elaborazioni di piani, ai miti che riescono ad avere qualche precaria diffusione, acquistando qualche temporanea credibilità di gruppo o di scuole mobili e fragili.

attuale, la legge del mercato è quella che più di altre riesce a incidere sul divenire di città, territori, paesaggi, ambienti e ad avvalersi a fine di profitto di quegli atti normativi detti ‘piani’. Lo scopo di profitto determina un agire per sua essenza individuale, particolare. I miti urbanistici tradotti in atti normativi sono ottimi mezzi per coloro che riescono in quel momento a utilizzarli per il proprio profitto, perché conferiscono alle trasformazioni, dettate dalla dinamica del mercato secondo il senso del profitto, l’apparenza di quel divenire benigno volto al bene comune la cui legge è stata ricavata dalla mitologia urbanistica più accreditata in quel momento.

La produzione di mitologie non è per niente estranea al nostro tempo, quella urbanistica non è una singolarità, un’eccezione. La scienza stessa, almeno dopo Einstein, sa di esser fede (una forma di fede, beninteso, che non pretende di stare in relazione a verità rivelate come le religioni). Ed è proprio da questa matura consapevolezza che la scienza contemporanea trae quella potenza senza precedenti nella guida dell’agire tecnico, rendendo coerenti all’evidenza del divenire le sue teorie e i suoi esperimenti. La singolarità dell’urbanistica emerge in quella ibridazione di cui s’è detto, quando cioè i miti che va producendo vengono assunti a fonti normative, ossia fondano e informano le varie regolamentazioni edificatorie locali in forza di legge. La mitologia urbanistica su città, territori, paesaggi e ambienti, tradotta tout-court in planologia normativa è un monstrum.

Il piano di Firenze si basa su di una teoria dell’agire edificatorio e quindi del divenire di edifici, città e territori, cosiddetta ‘tipologica’. E si avverta che si tratta di una teoria tra le più strutturate, pensate e variamente praticate di quest’ultimo mezzo secolo, ossia non è – come altrimenti capita – qualcosa di costruito ad hoc secondo l’estro o le convenienze del pianificatore di turno. Insomma è un grande mito, non un mito minore e, sebbene in modi molto differenti per i più diversi ed eterodossi usi, ha conosciuto nel tempo abbastanza credito in vari settori della cultura urbanistica non solo italiana.

La mitologia urbanistica su città, territori, paesaggi e ambienti, tradotta tout-court in planologia normativa è un monstrum

Un effetto inevitabile sull’urbanistica di questo improvvido matrimonio è, non solo il definitivo annientamento della sua già debole consistenza tecnico-scientifica, ma soprattutto il più totale avvilimento del contributo culturale che le varie mitologie sono pur capaci altrimenti di dare. La traduzione delle leggi mitologiche dell’urbanistica in leggi dello stato di diritto contemporaneo, finisce per conferire alle prime quel senso metafisico di cui il diritto si è da tempo sbarazzato. Il diritto sa di essere positivo, dal latino positum, ossia ‘posto’. Il diritto è imposizione di una volontà in quel momento potente, all’altrui volontà in quel medesimo momento impotente, e ha la funzione di mantenere a favore del potente la supremazia sull’impotente il più a lungo possibile, ossia è «volontà – come dice Nietzsche – di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo». L’urbanistica mitologica, lasciando nell’inconscio la propria debolezza, va incontro al diritto invocandone la potenza, cerca nel suo potere l’inveramento futuribile del mito. Il matrimonio si risolve nel più totale asservimento della mitologia urbanistica alla potenza del diritto. A dominare e insieme a servirsi della mitologia urbanistica per il proprio potere è soprattutto il diritto di proprietà dei beni immobili, la cui forma moderna sta nell’unione indissolubile con il diritto alla libera compravendita del diritto di proprietà medesimo: un potente strumento per perseguire profitto. Sicché, allo stato

3. Vediamo ora per sommi capi qual è la specifica forma assunta da questi tratti comuni alla pianificazione urbanistica nel vigente piano regolatore di Firenze.

La teoria ‘tipologica’ pone l’esistenza di un ‘tipo’ (edilizio, urbano, territoriale) che, se pur diverso da civiltà a civiltà e da epoca a epoca, è tuttavia il concetto matrice che presiede l’agire edificatorio e di cui gli uomini hanno ‘coscienza spontanea’. Ciò significa che il ‘tipo’ così inteso non è qualcosa che l’uomo inventa, crea, produce, ma un dato antropologico indipendente dalla volontà, la cui ‘coscienza spontanea’ dà agli uomini la guida sicura per edificare le diverse forme evolutive dell’abitare. Tuttavia le civiltà nascono e muoiono, ossia divengono anch’esse. Si hanno così epoche di crisi, dove la ‘coscienza spontanea’ viene meno e dove conseguentemente l’uomo corre grandi rischi. L’edilizia prodotta dalla crisi dà luogo a edifici e urbanizzazioni con un ridotto ‘rendimento’, perché difformi dal ‘tipo’ sottrattosi alla ‘coscienza spontanea’. La nostra, ovviamente, è un’epoca di grande crisi. Ecco allora che alla ‘coscienza spontanea’ in ‘crisi’ deve venire in soccorso la ‘coscienza critica’ in grado di ricavare – questa è la missione della teoria tipologica – da pertinenti indagini sui manufatti edilizi ereditati, il ‘tipo’, ricostituendo, in modo razionalmente calcolato, la legge del divenire benigno. Applicata a Firenze in funzione del piano regolatore, l’analisi tipologica dell’edificato esistente ha prodotto una classificazione degli edifici e dei tessuti urbani secondo la riduzione del loro ‘rendimento’, ossia a misura della difformità dal mitologico ‘tipo’. Ed ecco che a questo punto, senza che ci si chieda quale senso possa mai avere tale classificazione per i diversi abitanti, proprietari e investitori e i loro differenti e conflittuali propositi, insomma senz’altra mediazione, avviene l’incontro fatale con la potenza del diritto. L’incontro fa precipitare la classificazione in norma del piano, ossia in conseguenti destinazioni urbanistiche dei diversi immobili. Risultato: tutto ciò che è classificato con ridotto ‘rendimento’ in senso tipologico si può demolire. Pare difficile negare, date le premesse, questa elementare conseguenza logica. Ma, se si può demolire l’edificio (e in linea di principio stante la teoria tipologica si ‘deve’ demolire), non è invece possibile cancellare il diritto di proprietà del suo volume. La 21


volontà di annientare la riduzione del ‘rendimento’ si risolve nella determinazione della capacità edificatoria di quell’area corrispondente al volume del ‘tipo edilizio’ incompatibile che la sta occupando. Dall’approvazione del piano il titolare del diritto di proprietà di quell’immobile non è tenuto a demolire, può continuare a godere del bene, ma non può compiere opere in contrasto con la destinazione urbanistica, e tuttavia resta libero di vendere la capacità edificatoria, vendita che può già dargli un ragguardevole profitto senza aver rischiato investimenti, oppure può costruire egli stesso un nuovo edificio al posto dell’incompatibile ‘tipo’. Il vantaggio per i proprietari interessati e capaci di operare sul mercato immobiliare a scopo di profitto è innegabile ed è conseguenza inesorabile. Ma quali vantaggi può mai portare agli abitanti questo matrimonio tra tipologia e diritto? Quand’anche si supponesse che la maggior parte degli abitanti conosca la teoria tipologica e creda fermamente nel bene che è capace di arrecare la sua adozione nell’agire edificatorio cittadino, occorrerebbe assicurarsi che chiunque progetti i nuovi edifici sia un fedele seguace della tipologia e un esperto progettista di edifici con essa compatibili – cosa altamente improbabile. Una lacuna alla quale non può certo porre rimedio alcuna elaborazione di norme cosiddette ‘tecniche’ che siano capaci di imporre a qualsiasi progettista la conformità al ‘tipo’. Ma l’ipotesi sopra esposta di fatto nemmeno si pone. L’analisi tipologica che sta alla base del piano di Firenze non dice semplicemente che ogni singolo manufatto incriminato è difforme dal ‘tipo’, ma che la maggior parte di essi è ‘incompatibile con il contesto’, perché in questo propriamente consiste la riduzione del ‘rendimento’, ossia in quei luoghi quegli edifici non avrebbero dovuto esser costruiti. Sicché, la ricostruzione di questi edifici sulla medesima area, deliberata dal piano in ossequio al diritto, non solo lascia permanere, ma rafforza l’incompatibilità dichiarata dalla mitologia tipologica. Questo significa che il ‘rendimento tipologico’ soccombe totalmente al rendimento speculativo. Si ottiene così esattamente il contrario dello scopo che la teoria tipologica si propone. D’altra parte, molti di questi manufatti, in numero considerevole, sono stati costruiti nel tempo andando a intasare aree e cortili interni agli isolati. Un’edilizia puramente utilitaristica, senza altri scopi se non quelli di ospitare svariate attività artigianali di servizio. È da escludere che se ci fosse stata diversa possibilità, anche senza saper nulla di tipologia, si sarebbe scelto di costruire in quella maniera e in quei luoghi. Non saprei in che altro modo chiamare quest’urbanistica se non ‘parassita’. È come se Firenze avesse eletto a tradizione quell’urbanistica della prima modernità, che negli anni novanta dell’Ottocento ha voluto radere al suolo le vestigia del suo centro medievale per sostituirle con un brano di centralità ottocentesca tra i meno esaltanti d’Europa. Nella seconda metà del Novecento, memore di quella pratica, l’ha assunta a modello e s’è impegnata con sistematicità, fin dove ha potuto, nella sostituzione di un cospicuo numero di edifici che erano stati eretti nell’ampliamento ottocentesco mirabilmente disegnato dal Poggi: unico brano dignitoso di urbanistica della modernità fiorentina. Oggi, col piano che ha sostituito quello partorito negli anni sessanta del secolo appena trascorso e rimasto in vigore, con una successione impressionante di varianti, fino

Non saprei in che altro modo chiamare quest’urbanistica se non ‘parassita’

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agli anni novanta, prosegue nella tradizione andando a scovare le sue vittime, ossia i corpi urbani idonei a ospitare i “parassiti”, nelle aree interne agli isolati. Il paradosso di questa sconcertante giustapposizione di eterogenee procedure di pianificazione è che ora la costruzione in quei luoghi ha il crisma formale del sapere tecnico e la legittimità del piano urbanistico e non più per tirar su qualche capannone da lavoro, ma abitazioni e, dove più conveniente, negozi. Chi mai potendo diversamente scegliere si sognerebbe di costruire case all’interno di isolati e cortili e di abitarle pure? È chiaro che ciò può interessare solo chi costruisce a scopo di profitto e non deve necessariamente abitarvi.

È come se Firenze avesse eletto a tradizione quell’urbanistica della prima modernità, che negli anni novanta dell’Ottocento ha voluto radere al suolo le vestigia del suo centro medievale per sostituirle con un brano di centralità ottocentesca tra i meno esaltanti d’Europa Il piano in vigore ha dato il via a una lucrosa attività edificatoria, forse la più consistente produzione edilizia di questi ultimi quindici anni nel territorio comunale di Firenze, nelle aree interne di ogni isolato, dal centro storico alla più recente periferia, ossia dove l’uso dei manufatti era già economico e imprenditoriale. Perché è chiaro che gli edifici, pur dichiarati incompatibili, abitati invece da decine di proprietari e ovviamente sul perimetro degli isolati affaccianti sulle vie pubbliche, non saranno mai demoliti e ricostruiti. Qui la norma tipologica è semplicemente inutile, insensata e posta solo per dar sfoggio di rigore e coerenza. E tuttavia la norma ha sui malcapitati abitanti effetti vessatori, perché ciò che è permesso a chi procede alla demolizione per scopo di lucro, ossia un incremento della superficie utile, è negato al singolo abitante di appartamento, che non può decidere per la propria comodità d’uso di chiudere, per esempio, a vetri una loggia in quanto ciò costituisce appunto un incremento della superficie utile. Postilla L’articolo è stato scritto prima che la nuova Giunta comunale deliberasse, a dicembre 2009, le norme di PRG presentate dai media come rimedio alle edificazioni nei cortili. Ma questa delibera ha modificato la precedente normativa semplicemente introducendo procedure più complicate per ottenere i permessi e alcune limitazioni alla possibilità di variare le altezze, lasciando tuttavia inalterato il diritto della proprietà di demolire e ricostruire gli edifici “incompatibili col contesto”. Sicché il problema che abbiamo rilevato ed esposto, resta tuttora irrisolto. Ed è difficile che potesse essere diversamente, perché si è in presenza, come s’è cercato di mostrare, sia di un nodo di fondo dell’istituto di piano in quanto tale, che di un’incoerenza originaria del PRG fiorentino.


Il pianificatore e l’abitante [Personaggi: Pianificatore (Pian); Abitante (Ab); Architetto (Arch)] Pian: Ma lo sa che lei sta abitando un edificio con ridotto “rendimento tipologico”? Ab: Oh i’che mi dice! Io ’un mene so’ mai accorto ho fatto tanti sacrifici pe’ comprammelo e ora mi hontento di’che c’ho. Un problema però c’è, e l’è grave. I’ cortile l’è pieno di piccioni, cahano da per tutto e a me mi fanno abbastanza schifo. L’Ufficio d’igiene dice che ’un si po’ fa nulla, ’un si possan’ammazzare, ’un si possan più porta’ via. Vorrei chiudere co’ vetri i’ balconcino, almeno un vengan più a caha qua. Pian: NOO! Ma vuole scherzare! Questo è assolutamente proibito, perché così lei consolida il cattivo ‘rendimento’, aumentando pure la superficie utile del suo appartamento. Solo se demolite l’intero palazzo allora potete aumentare la superficie utile. Ab: Ma i’ che la dice! Oh come si fa’ a demoli’ lo stabile, siam’ più di cento proprietari! E i’ndove si va a stare mentre si demolisce? (pensando tra sé) A me mi sembran’ tutti matti! Dopo qualche tempo Ab: Architetto mi scusi i’ disturbo, m’hanno detto che lei l’è nella commissione edilizia, forse mi può aiutare. Vorrei chiudere a vetri i’ balcone sul cortile che gl’è pieno di piccioni e magari anche le logge dall’altra parte, pe’ i’ rumore de’ treni che ’un se ne po’ più. M’hanno detto che ’un si potrebbe, possibile che ’un ci sia un modo? Arch: Eh! purtroppo attualmente la norma è questa. Ma se proprio non ce la fa, lo faccia abusivamente. Ab: O’architetto ’un mi diha hosì! ’Un mi voglio miha mette’ ne’ guai, c’ho pure un parente magistrato! Arch: Allora l’unica cosa che posso fare è consultare il geometra Biolli, poi le so dire qualcosa. Ab: O chi gl’è il geometra Biolli? Arch: Chiaro Biolli è un geometra dell’Ufficio Tecnico del Comune, è uno molto disponibile, ha grande dimestichezza con le norme edilizie e urbanistiche che, come lei si sarà accorto, sono piuttosto complicate, c’è bisogno di gente molto esperta per orientarsi. Può darsi che il Biolli sia in grado di suggerirci una via d’uscita.

fare delle rilevazioni ambientali, igieniche e sui livelli di rumore. Le costeranno qualcosa, ma potrebbero essere utilizzate, forse, per derogare alle norme vigenti. Ab: Va bene… anche se costano… proviamoo… Dopo un po’ di tempo Arch: Eh! purtroppo con le interpretazioni attuali delle norme anche con le analisi dell’ARPAT non ci si fa a derogare. Mi dispiace! L’unica è aspettare gli eventi. Norme e soprattutto interpretazioni sono mobili, molto mutevoli, qualcosa prima o poi accadrà, deve aver pazienza che vuole che le dica: intanto preghi! Ab: E gl’è veramente incredibile! Perché ’ntanto lo sa che stanno hostruendo hase ni’ cortile a i’ posto della falegnameria? Certo ’unn’era bella e qualche problema c’era. Ma che le sembra possibile abita’ qui sotto nella horte? Roba da terzo mondo! E che problemi di condominio verran’ fori! Di certo i’ proprietario e’ deve ave’ fatto un monte di huattrini, altro che vende’ legno! E ’unn’è finita! Qui di fronte c’è un fabbricato abbandonato, o un’ l’hanno occupato abusivamente i hlandestini! Ma diho io! I’ piano ai’che serve se ’un si sa che fine devan’ fa questi edifici pubblici e da chi devan’esse’ usati?! Passa oltre un anno Ab: Salve Architetto… la devo proprio ringraziare, ma tanto, tanto… Arch: E perché? Ab: Ma come perché! Ho avuto finalmente i’ permesso, l’aveha proprio ragione lei. Arch: Oh figuriamoci! Me n’ero anche dimenticato, anche perché non ho fatto proprio nulla. Ab: Ah ’un lo so. So solo che ho avuto i’ permesso. E, mi scusi se glielo diho, ’un so se l’è un su’ hollega, spero di non offendella. Ma a me i’ Pianificatore mi pare un gran grullo. A i’ su’ geometra Biolli, invece, bisognerebbe fa’gli un monumento!

Dopo qualche tempo Arch: Lei dovrebbe chiamare l’ARPAT, che è l’Agenzia per l’ambiente della Regione, e farsi

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L’organismo urbano Conversazione tra Gianni Sinni e Giacomo Costa Giacomo Costa nasce a Firenze nell’ottobre del 1970, studia violino fino all’età di quattordici anni. Si iscrive al liceo classico ma lo abbandona nel 1986 per dedicarsi all’attività di motocrossista e di meccanico di moto. Nel 1990, terminati gli studi da privatista, l’amore per la montagna, che ormai ha preso il sopravvento su qualsiasi altro interesse, lo allontana da Firenze per dedicarsi all’arrampicata. Nel ‘92 si trasferisce per un periodo a Courmayeur al Rifugio Torino dove inizia a fare foto di montagna. Il nascente interesse per la fotografia lo riconduce a Firenze dove apre uno studio fotografico dedicandosi prevalentemente alla ritrattistica. Nel ‘96 la sua ricerca artistica lo porta a contaminare la fotografia tradizionale con l’utilizzo delle tecnologie digitali. Nel 2002 presenta la personale “MegàloPòlis” curata da Gianluca Marziani segnando il definitivo abbandono della fotografia e il completo passaggio al 3D. Attualmente vive e lavora a Firenze e si dedica al soccorso su ambulanze.

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A fronte di un crescente interesse internazionale nei confronti del tuo lavoro d’artista, non ultima la tua partecipazione alle recenti Biennali di Venezia, qual è il rapporto che ti lega alla città dove vivi? Firenze ti è stata, insomma, più di aiuto o d’intralcio? Dipende da cosa si intende quando si parla di Firenze e più in generale di città. Per me la città non è un contenitore, ma un’entità, non è il luogo dove accadono alcune cose, ma è il motore che determina gli avvenimenti. Quando penso a Firenze, penso a un organismo di cui io sono una cellula, una parte, e un corpo funziona perfettamente quando tutti gli organi sono in buona salute. La cultura, le amicizie, le energie e gli stimoli che il vivere assieme la nostra città ci offre è ciò che permette a me di esistere ed essere, a prescindere da cosa direttamente la città fa per me. Difficilmente un atleta potrebbe esser tale se avesse un cuore malato, ma non tutti quelli che hanno un cuore sano sono degli atleti. Firenze mi ha permesso di crescere e di sentire forti stimoli, ma non mi ha dato la possibilità di esprimerli e non per cattiveria nei miei confronti, ma per mancanza di strutture, per l’assenza di un tessuto che unisse tutte le cellule creando un organo.


Questo è l’altro lato di cosa è una città. Se è vero, come dicevo prima, che la città è costituita da cellule rappresentate da cittadini, è anche vero che serve poi un collante che le tenga unite, che le faccia funzionare assieme, di questo Firenze è totalmente priva. Firenze è un brodo caldo primordiale nel quale le cellule sguazzano felici, senza però poter mai diventare qualcos’altro, senza mai potersi aggregare per costituirsi in una vera entità. Se resti nell’ambiente fiorentino è difficile trovare una dimensione fuori, non è un punto di partenza, ma un tutto auto-referenziale. L’evoluzione della tua ricerca artistica ha preso le mosse, dal punto di vista tecnico, dal foto-collage per approdare a una sorta di complessa pittura 3D. In questo percorso possiamo rintracciare anche un progressivo allontanamento dalla realtà verso una più cupa visionarietà? L’evoluzione della mia ricerca è andata di pari passo con l’evoluzione della tecnologia e la conseguente possibilità di creare un linguaggio visivo personale sempre più complesso. Prima di approdare all’uso del computer, la mia storia artistica si è formata su uno studio profondo e intenso della fotografia tradizionale. Ho mosso i miei primi passi attraverso il paesaggio in bianco e nero per poi passare al ritratto. Forte era il piacere della stampa in camera oscura e attraverso le mille tecniche di manipolazione della stampa ho iniziato a provare più piacere nel trasformare la realtà invece che documentarla. La scoperta delle tecniche digitali applicate alla fotografia tradizionale mi ha aperto un mondo che piano piano mi ha allontanato dalla necessità di confrontarmi con la realtà. La potenza dei nuovi pacchetti 3D e dei personal computer mi ha definitivamente emancipato dalla fotografia a partire dal 2002. Adesso si può dire che dipingo in qualità fotografica, libero di esplorare gli spazi della mia immaginazione, senza dovermi confrontare con il soggetto reale, sebbene in questo viaggio mentale il confronto con la fotografia tradizionale intesa come via maestra è sempre presente e forte. Grazie a questo confronto tra la fotografia reale e la fotografia immaginata le mie immagini mantengono un senso di realismo molto forte, anche quando il soggetto diviene per definizione irreale. Il soggetto dei tuoi lavori sembra essere una multiforme metropoli post-umana. Oltre a essere una potente metafora visiva è anche una presa di posizione politica, mi sembra... Come dicevo, la città non è un luogo, ma un’entità quasi organica, l’insieme dei cittadini-cellule la cui vita è la somma di tutte le funzioni organiche da essi rappresentate. Non ritraggo mai le persone nelle mie città, perché sono le città stesse la metafora degli abitanti. Ciò che rappresento nelle mie scene è una metafora di quel sentire che riguarda tutti. Con queste basi diviene evidente che il centro della mia riflessione è in buona parte legato a ciò che gli uomini fanno e quindi la componente politica è forte. La politica è la capacità di indirizzare in senso collettivo l’agire individuale. Le mie immagini servono più come monito, come avvertimento, mostrano la conseguenza di quei comportamenti che sempre più appaiono non-sostenibili. L’ansia collettiva cresce in maniera esponenziale, mentre le mie immagini divengono

sempre più cupe. Basti pensare che oramai la scienza pone limiti di non ritorno sempre più vicini e il senso di essere vicino all’irreparabile baratro sta diventando una sensazione comune a tutti, come lo era l’ansia da guerra atomica negli anni ottanta. Abituato a immaginare ambienti urbani prossimi venturi, come vedi il futuro di Firenze? Firenze non può in alcun modo sottrarsi al destino che riguarda tutto il mondo. Noi viviamo in un sistema chiuso, i comportamenti virtuosi servono a far scuola e cultura, ma poco possono singolarmente. Certo che arrestare la folle corsa che i nostri modelli di sviluppo ci stanno imponendo è cosa fondamentale e quindi gli esempi assumono grande importanza. Il futuro di Firenze, come di tutto il mondo, dipende quindi da ciò che culturalmente, socialmente e politicamente si riesce a creare. Dal punto di vista architettonico, Firenze non pare essere coinvolta in grandi cambiamenti e pare dominare la paura di toccare anche un minuscolo sassolino. Certo i tempi nei quali si costruivano ecomostri quali il Duomo, che con la sua sproporzionata cupola alterava irreparabilmente lo skyline del tempo, o il gigantesco e fuori scala palazzo Pitti, calato in una piazza con la scioltezza con cui i parigini costruirono l’immenso traliccio detto “Tour Eiffel”, sembrano assai lontani e irripetibili. E dire che adesso siamo assai fieri di ospitare quei mostri nella nostra città e grati a quegli amministratori che, infischiandosene delle numerose polemiche di allora, hanno permesso ai grandi nomi dell’architettura di costruire le loro ardimentose opere. Triste appare l’infinito dibattito sulla pensilina di Isozaki e tragico il fatto che, schiavi della mania di conservare qualsiasi cosa in maniera acritica, anche una bruttura insignificante, per il fatto stesso di esistere in Firenze, diviene vincolata e patrimonio dell’umanità. Si capisce allora perché ogni gesto e ogni segno apra un dibattito infinito, tanto da rendere possibile la costruzione del palazzo di giustizia di Ricci a Novoli quarant’anni dopo il progetto e sedici dopo la morte dello stesso architetto, consapevoli che resterà per sempre lì dov’è anche qualora non fosse più funzionale o fuori contesto, come accade per l’Archivio di stato di piazza Beccaria. Timorosi nel fare e proporre qualsiasi cosa, trasformiamo l’area ex-fiat di Novoli in un’occasione persa per riqualificare un quartiere e lasciare un segno contemporaneo di architettura, preferendo affidarci a un marasma di casermoni senza alcuna idea e senza alcun senso estetico, funzionale e progettuale con il classico metodo del “mettiamoci un po’ di tutto così qualcosa piacerà a chiunque”. Con questi esempi di storia recente, dubito che Firenze sarà nuovamente quel luogo dove si realizzano sogni impossibili grazie alla genialità endemica e tuttora viva dei suoi cittadini e alla lungimiranza dei loro governanti, dove si fa la storia e si è avanguardia. Adesso però siamo in presenza di un cambiamento di amministrazione e forse di una modifica di certi schemi che hanno caratterizzato la vita politica e culturale fiorentina di questi ultimi decenni, di strada ce n’è da fare tanta, speriamo di avere buone gambe e tanta motivazione.

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Private Garden n. 3 (part.) Giacomo Costa, 2009 26


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Consistenza n. 5 (part.) Giacomo Costa, 2008 28


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Costruzione n. 1 (part.) Giacomo Costa, 2008 30


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Atto n. 4 (part.) Giacomo Costa, 2006 33


L’odore della città Conversazione tra Gianni Sinni e Marco Vichi Marco Vichi è nato a Firenze nel 1957. Scrittore, è noto al grande pubblico per i suoi romanzi gialli, protagonista il Commissario Bordelli. Dal 2003 tiene laboratori di scrittura in varie città italiane e presso il corso di laurea in Media e Giornalismo dell’Università di Firenze. Collabora alla stesura di sceneggiature, cura antologie di letteratura, scrive su quotidiani e riviste nazionali. Nel 2005 ha organizzato e diretto il festival R(e)sistere di Sant’Anna di Stazzema. Dal 2004 lavora, assieme all’associazione Nausika, al progetto che nel 2005 è approdato alla fondazione della Scuola di Narrazioni Arturo Bandini (www.narrazioni.it).

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Nei romanzi dedicati al tuo più noto personaggio, un commissario di pubblica sicurezza ex-partigiano, c’è quasi una sorta di co-protagonista: Firenze. Come, e quanto, ti ha influenzato, nella tua attività di scrittore, l’essere nato e vissuto in questa città? Forse mi ha costretto a percepire più a fondo il Male, mi ha fatto conoscere infinite sfumature e varianti della parte negativa dell’uomo, e di conseguenza mi ha allenato alla “difesa”. Ma mi ha anche, suo malgrado, abituato ad avere sempre davanti agli occhi la Bellezza. Forse una bellezza un po’ malefica per chi ci abita, perché invoglia a non avere più voglie, per colpa della sensazione truffaldina di essere partecipe di quelle opere immortali disseminate in ogni dove e di non avere dunque da scalmanarsi troppo per dimostrare qualcosa (questione su cui si discute da molto tempo). Ma forse il vero motivo della “paralisi” creativa di Firenze è la inconscia certezza dell’impossibilità di misurarsi con il Supremo (soprattutto con quello consolidato dalla Storia): l’amarezza, la volgarità e il sarcasmo maligno che vengono messi in scena per nascondere i sentimenti “positivi” (tratti tipici del tipico fiorentino) non potrebbero appunto derivare da questa consapevolezza di non poter mai essere all’altezza del proprio passato? Una specie di vendetta contro la frustrazione irreparabile.


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Morte a Firenze

Marco Vichi, Guanda, 2009 36


La Firenze degli anni sessanta che racconti sembra quasi condurre a una facile nostalgia (gli stranieri sono i meridionali, si parcheggia ovunque, ci si conosce tutti...), ma basta poco perché la superficie apparentemente tranquilla venga spezzata da esplosioni di cruda violenza. È un modo per sottolineare che non è mai esistito un periodo dell’oro? Ovunque il Male, quando non si vede, cova sotto la cenere. Firenze non fa certo eccezioni, anzi ho come l’impressione che “nascondere” sia una prerogativa di questa città, a volte si nasconde sotto un velo sottile ma resistente, altre volte sotto tonnellate di parole inutili. Ma certamente la vera Firenze non la si può cogliere al primo sguardo, e nemmeno al secondo o al terzo. Per capire questa città – se mai è possibile – la si deve conoscere fin dalla nascita. Altrimenti si cade nel luogo comune turistico e si vedono solo le opere d’arte e l’apparente giocosità. Le bellezze tanto decantate sono state create in secoli dove imperavano l’inganno, la malignità, i tradimenti, le congiure, la violenza materiale e verbale, come ben sappiamo. Quali particolari luoghi della città indicheresti per un tuo personale itinerario sentimentale dell’esperienza di scrittore? Mi piacciono le vie strette dove la luce arriva a malapena (le rare volte che capito nella zona del Ponte Vecchio, passo in un vicolo che amo particolarmente, dove ho anche ambientato un racconto “infernale”), le volte che uniscono due edifici, gli angoli meno frequentati dei parchi, le piccole chiese che nessuno visita, alcuni bei cimiteri con sepolture antiche ed epitaffi che nessuno oggi scriverebbe più. Ma mi piace anche, come a tutti, la bellissima e semplice architettura della Basilica di San Miniato, la Cappella Pazzi (assai più bella di altre più famose e ammirate), lo Spedale degli Innocenti ecc. Però confesso che mi piacerebbe vedere tutte queste meraviglie in solitudine… cosa ovviamente impossibile.

“Non è per questo che ho combattuto”, ripete più di una volta, al pari di ogni reduce, il commissario Bordelli. Cos’è che tu non avresti mai voluto vedere? Ad esempio la pensilina della stazione. Trovo che sia l’intervento più brutto che sia stato fatto a Firenze dai tempi del Rinascimento, e quando sentii parlare del suo abbattimento ne fui felice… invece è ancora lì. O ancora, l’orda barbarica dei turisti che trasformano il centro in una “non città”. Il centro che comunque, come purtroppo in ogni altra città italiana, è un salottino provinciale da far vedere ai visitatori, e non, come dovrebbe essere, una zona “da vivere” come tutte le altre.

Saggiamente da tempo vivi in campagna, ma qual è il tuo rapporto con la città di oggi? Non scendo spesso a Firenze, ma ne percepisco l’odore. È una città che mi attira e mi respinge, come una bella donna di cui conosco la perfidia. Al di là di questa sensazione epidermica, mi stupisce la sua tronfia immobilità. È vero che ogni tanto vedo segnali incoraggianti, e ogni volta mi lascio andare alla speranza che sia davvero scoccata una nuova scintilla che farà rinascere Firenze. Troppe volte un “grande fiorentino” è stato allontanato senza essere capito, o magari anche schernito, per poi essere osannato quando fuori dalle mura ha trovato un giusto riconoscimento. 37


Grid unlocked. La rete dell’informazione libererà quella dei trasporti Carlo Ratti, Walter Nicolino, Giovanni de Niederhausern Carlo Ratti e Walter Nicolino svolgono attività professionale a Torino come titolari dello studio carlorattiassociati. Lo studio, legato all’attività di ricerca di Carlo Ratti al MIT, Massachusetts Institute of Technology, fa dell’incontro tra tecnologia digitale e architettura uno dei suoi principali temi di ricerca. Molti progetti, tra cui il Digital Water Pavilion per l’Expo 2008 nella città di Saragozza in Spagna e la nuova pensilina per la fermata degli autobus a Firenze, sono sviluppati in stretto legame con il Senseable City Lab diretto da Carlo Ratti al MIT. Nel mese di giugno 2009 lo studio è stato selezionato per la fase finale del concorso per la nuova torre Olimpica di Londra 2012. Giovanni de Niederhausern, ingegnere, dopo un periodo passato al Senseable City Lab come ricercatore, collabora dal 2009 all’attività dello studio a Torino.

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Nei primi anni novanta molti urbanisti e sociologi preconizzavano la fine delle città: si pensava che, in appena quattordici anni, lo sviluppo di Internet avrebbe portato con sé l’annullamento delle distanze e dello spazio. George Gilder considerava in quegli stessi anni le città come un inutile lascito della precedente era industriale; Nicholas Negroponte del Media Lab presso il MIT di Boston, in Being Digital (New York, 1995) scriveva: “The post-information age will remove the limitations of geography. Digital living will include less and less dependence upon being in a specific place at a specific time, and the transmission of place itself will start to become possible.” In realtà negli ultimi quindici anni le città hanno conosciuto uno sviluppo senza precedenti: la Cina, da sola, ha in cantiere più città oggi di quante ne siano mai state costruite dall’uomo in tutta la sua storia; lo scorso anno, per la prima volta in assoluto, la popolazione urbana del pianeta ha superato quella rurale. Nonostante la diffusione capillare di Internet e delle comunicazioni su scala globale, il mondo fisico ha dunque conservato la sua forza e importanza. Se la rivoluzione digitale non ha ucciso le nostre città, nemmeno però le ha lasciate inalterate: le reti non hanno contrastato ma rinforzato le strutture spaziali esistenti. Un nuovo layer digitale si è sovrapposto allo spazio esistente fondendo intimamente atomi e bits: sensori, videocamere e microcontrolli sono presenti in modo pervasivo nella città contemporanea per gestire infrastrutture urbane, ottimizzare trasporti, monitorare l’ambiente e controllare in remoto sistemi di sicurezza. Oggi il nostro ambiente costruito – città, edifici, infrastrutture – sta imparando a parlare con un nuovo linguaggio; l’elettronica è ormai miniaturizzata e distribuita in modo capillare. In gergo si parla di “smart dust”, polvere intelligente. In un certo senso si può affermare che stiamo trasformando le nostre città in enormi computer all’aria aperta. L’effetto è evidente nella diffusione dei telefoni cellulari: all’inizio del 2009 oltre quattro miliardi di telefoni cellulari erano in funzione in tutto il globo. Trasversalmente a ogni classe sociale, a Paesi e continenti, i telefoni cellulari sono ormai onnipresenti, permettono una rapida ed efficiente comunicazione e creano altresì un involontario e pervasivo sistema di rilevamento a rete che copre l’intero globo: le città hanno ora in sé la potenzialità, solo in parte espressa, di essere


monitorate e gestite in tempo reale come sistemi di flussi. I vettori di questi flussi sono gli stessi cittadini che, come dispositivi autonomi – sorta di monadi urbane, tracciano traiettorie densamente cariche di significati da interpretare. Rielaborando i dati generati in tempo reale da questi vettori umani e rendendoli accessibili in modo libero, si possono aiutare le stesse persone a prendere decisioni più accurate riguardo l’uso delle risorse pubbliche, la mobilità , l’interazione sociale. La grande disponibilità di dati – in particolare di “user generated content”, dati creati dagli utenti e condivisi sulla rete – ci permette inoltre di analizzare e studiare lo spazio urbano in modo del tutto nuovo e dinamico. I sistemi di governance a scala metropolitana spesso non rispettano le reali dinamiche del territorio: singoli Comuni esercitano il loro potere decisionale in assenza di una regia complessiva. La mappatura dei sistemi urbani attraverso le nuove tecniche digitali permette invece di capire realmente il comportamento della città, per arrivare a sistemi di governance più adeguati. È inoltre fondamentale coinvolgere i cittadini nei progetti decisionali alla scala della città. Creare sistemi di gestione delle aree urbane che non siano solo top-down, ma anche e soprattutto bottom-up. Questo feedback-loop di rilevamento, analisi e ridistribuzione dei dati in tempo reale può infine influenzare i più complessi e dinamici aspetti della città, migliorandone la sostenibilità economica, sociale e ambientale. Un automated trip planner, per esempio, basandosi su informazioni in tempo reale riguardo il trasporto pubblico urbano, i treni e la localizzazione dei taxi, così come i livelli di traffico e inquinamento, aiuta la gente non solo a impostare il percorso più breve, ma anche quello con il minore impatto a livello ambientale. Un semplice meccanismo di feedback in tempo reale tra cittadini e autorità di soccorso pubblico può inoltre evitare il ripetersi di tragici errori, come è accaduto a New Orleans prima dell’uragano Katrina nel 2005. L’Italia da questo punto di vista potrebbe correre più in fretta. Uno degli aspetti interessanti della rivoluzione digitale è che si tratta di una rivoluzione ‘soft’ : le nostre città e il nostro territorio possono adattarsi meglio agli imperativi del digitale rispetto a come avrebbero potuto fare con quelli della rivoluzione industriale. Le conseguenze per l’estetica dell’architettura sono interessanti. Per diversi anni l’architettura ha cercato di mimare in termini formali il rapido fluire di informazioni digitali. Possiamo pensare a un certo numero di edifici definiti ‘fluidi’, che una volta costruiti si sono dimostrati semplici esercizi formali congelati in acciaio e cemento. Antoine Picon, professore di storia dell’architettura e tecnologia presso l’Harvard Graduate School di Design, ha predetto che, amalgamando il digitale nella struttura fisica, l’architettura sarebbe stata inaspettatamente più rigida nelle forme. La visione di Picon è eretica. Comparando il lavoro di architetti come Zaha Hadid alle opere barocche del diciassettesimo e diciottesimo secolo, Picon sostiene che gli architetti barocchi preferirono mimare il movimento nella massa delle loro opere piuttosto che rispondere alle inedite esigenze dei fruitori di quegli spazi. Picon predice un ritorno all’approccio neoclassico dell’architettura: “We’ll see more compositions that remain voluntarily rigid in order to be functionally more efficient” e ancora “digital/minimal attitude in which unwanted agitation is suspended”.

Negli anni venti del Novecento l’architetto svizzero Le Corbusier esclamava: “La civilisation machiniste cherche et trouvera son expression architecturale”. Oggi siamo in una situazione simile – basta sostituire la parola ‘machiniste’ con ‘digitale’ e ‘biotech’. Ciò ci permette di capire meglio la città e di creare sistemi interattivi; in breve, di progettare edifici e città ‘vivi’, che rispondano meglio alle nostre esigenze. È il vecchio sogno di Michelangelo e del “perché non parli” rivolto al suo David. Proprio nella città di Firenze le nuove istanze dettate dal digitale sembrano prendere forma nel progetto di un sistema di pensiline per l’autobus in grado di parlarsi a vicenda e di interagire con i cittadini. Questi dispositivi latenti, che finora sono serviti solamente come riparo da condizioni meteo avverse, con il progetto Eyestop possono diventare delle vere e proprie interfacce in grado di captare i flussi di dati che solcano già in modo impalpabile lo spazio attorno a noi. Un touch screen di ultima generazione con mappe interattive e informazioni turistiche, e segnalazioni in tempo reale di autobus in arrivo rendono più facile e appetibile l’uso dei mezzi pubblici segnando una piccola conquista nei confronti dello strapotere dell’automobile nei nostri centri storici. “I learned to drive in order to read Los Angeles in the original”, scriveva Reyner Banham nel 1971 quando si stavano creando città a misura di automobile e l’unico modo per esperirle appieno era solcarle con mezzi a quattro ruote. Lo stesso critico inglese, in una famosa fotografia dove è ritratto in sella alla sua Moulton F-frame, sembra continuare a fornirci spunti interpretativi e soluzioni per la nostra epoca, dato che è proprio una bicicletta, in particolare un’elegante Cinelli completamente bianca, a diventare, durante il summit sull’ambiente avvenuto a Copenhagen lo scorso dicembre, l’emblema di un nuovo modo di intendere la mobilità urbana. L’innovazione risiede tutta nella ruota posteriore, la quale permette di trasformare un ordinario mezzo a due ruote in un mezzo ibrido in grado di trattenere l’energia, che di solito viene dissipata da pedalata e frenata, e restituirla quando serve. Oltre la parte meccanica, questo dispositivo contiene al proprio interno anche dei sistemi di rilevamento del traffico, dei livelli di inquinamento e di mappatura della città. Il tutto si comanda in modo semplice e intuitivo con l’Iphone che si ha nelle tasche. Questi due esempi di ‘innesti’ di alta tecnologia in sistemi tradizionali, come possono essere un centro storico e una bicicletta, raccontano bene in che modo la rivoluzione digitale possa inserirsi in una realtà complessa fatta di preesistenze, segni storici, flussi, persone in modo non invasivo e possa migliorarne la fruibilità.

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Copenhagen Wheel

sviluppata dal Senseable City Laboratory del MIT con Ducati Energia e Ministero dell’ambiente italiano. Foto di Max Tomasinelli 41


Fatti Futuribile Fiorenza Conversazione tra Marco Brizzi e Yates Buckley Yates Buckley è il cuore tecnicocreativo della unit9, nata nel ‘97 come casa di produzione digitale, premiata internazionalmente e riconosciuta nel suo settore: votata nella top 20 delle case di produzione digitali al mondo sia dalla rivista Creativity, che da Boards 2008 e 2009. Yates segue anche la parte fiorentina della unit9: una nuova iniziativa per portare avanti applicazioni di esperienze 3D a tempo reale sul web e integrare mondo reale col virtuale con macchine create ad hoc per eventi. Per esempio, il recente progetto di creazione di 8 macchine spara-palloni per un evento sportivo tra un pubblico virtuale (a casa) e uno reale di giocatori di Dodge ball (palla avvelenata).

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unit9 è una società di produzione di contenuti digitali interattivi: i nostri registi, esperti di interazione, designer e specialisti web hanno creato esperienze interattive tra le più entusiasmanti negli ultimi 10 anni. Lavoriamo con agenzie pubblicitarie internazionali per quanto riguarda la componente digitale delle loro campagne. Combiniamo tecniche videofilm, animazione e tecnologia per creare esperienze interattive innovative. Il modello creativo della unit9 offre un ambiente di lavoro in cui l’innovativo e lo sperimentale vengono realizzati e prodotti a livelli di classe premiata internazionalmente. Alla notizia della vostra intenzione di tornare a Firenze e di aprire qui una nuova base dopo avere ottenuto importanti risultati a Londra e nelle altre vostre sedi, sono rimasto felicemente sorpreso. Ma cosa significa per voi questa scelta? Quali opportunità (di produzione, business, di sviluppo?) qui, o in Italia, rispetto ad altri Paesi? “Il posto” è una domanda interessante... Come può importare il dove si lavora in un ambito virtualizzato? Però d’altro canto un posto specifico offre una cornice culturale che può amplificare o andare a inibire un certo modo di pensare. Premetto che da anni lavoro in contatto con specialisti, scienziati, artisti, musicisti... sparsi per il mondo e che, direi, nella maggior parte dei casi, non ho mai incontrato di persona. Questa realtà per me è naturale, ed è così da svariati anni: forse dal 2001. Quindi, cosa importa il dove? Al tempo stesso, il dove è assolutamente fondamentale. Non è un caso che siamo in tre fiorentini a fondare la nostra azienda nel ’97 e non è neanche un caso che il nostro principio di successo è sempre stato quello di creare lavoro di qualità buona, a confronto con il mondo. Devo dire, quasi tutti i fiorentini che lavorano, che inventano e trovano soluzioni, alla base pensano alla qualità del loro lavoro. Questo perché, secondo me, cresciamo con modelli architettonici, culturali, artistici ecc. quasi di perfezione. Da giovani ambiziosi e creativi odiamo questo maledetto Duomo, la Primavera come il Davide che ci vengono dondolati davanti un po’ come sfida... potremmo mai arrivare a creare un’opera così? Come umanamente riuscire a seguire i passi di “genitori” così eccellenti? E ci chiediamo: se non saremo mai nulla, a confronto con la cultura storica fiorentina, che senso ha la ricerca creativa? Meglio forse stare a meditare su una collinetta e occuparci di conservare a oltranza quello che è stato fatto. Il nostro contatto con Firenze segue un discorso di una certa sfida e una scoperta di opportunità. Ci troviamo circondati da persone che capiscono bene l’idea di qualità – non gli si deve

...a Firenze c’è un mondo di opportunità perché non ce ne sono per nulla

spiegare nulla in questo senso. Persone poi che sono assetate di opportunità espressive, che non si trovano facilmente nella nostra città. La sfida è di ricreare un’infrastruttura di contatti che si operi a dare le redini della città ai propri nuovi cittadini creativi. Certo, è una cosa a cui partecipiamo solo in piccolo, ma sono convinto che sono cose che cambiano velocemente, e impongono nuove soluzioni da un giorno all’altro. In un certo senso sto dicendo che a Firenze c’è un mondo di opportunità perché non ce ne sono per nulla. Ma in un suo modo, mi pare cosa logica – e nel crearle se ne creeranno altre senza neanche doverci star tanto dietro. Ho seguito molto da vicino il vostro lavoro negli ultimi anni. Ma, nonostante questo, ogni volta che mi trovo a presentarvi a qualche amico o a parlare di voi ho una certa esitazione perché mi sembra che la vostra professionalità non sia facilmente descrivibile attraverso categorie di dominio pubblico. In effetti voi offrite qualcosa di altamente specializzato a clienti molto particolari. Inoltre, benché lavoriate nella creazione di ambienti web che sono visti e usati da milioni di persone e che – un poco come gli architetti – usiate espressioni che tendono a modificare positivamente la vita della gente, il vostro ruolo non è noto ai più. Come spieghereste il vostro lavoro al cittadino della vostra Firenze? Come punto di inizio è abbastanza semplice da spiegare, anche come ci siamo incamminati in questa strada. Come nel mondo del cinema e della televisione ci sono specialisti che producono le storie di larga diffusione, così facciamo anche noi su piattaforma digitale, Internet ecc. In particolare ci guadagniamo il pane con produzione di pubblicità su Internet: che per la maggior parte delle persone vuole dire un ritaglio di pagina su un sito di un giornale con un annuncio tipo “2 per 1 offerta speciale!”. In realtà il mondo pubblicitario si propone di cercare di creare una connessione emotiva particolare tra un marchio o un prodotto e il consumatore. Dunque le nostre produzioni possono essere veramente distanti da quello che uno si aspetterebbe. Per esempio, prodotto a Firenze, una serie di macchine spara-palloni che un pubblico sul web poteva usare per sparare a un pubblico di giocatori nel mondo reale. Siamo come artigiani, creiamo delle specie di arazzi che sono 43


tessuti in un’esperienza interattiva sul web. Il lavoro che facciamo è su commissione, spesso per marchi internazionali, a volte per musei o altre realtà più piccole. La grande differenza di questa nostra arte rispetto a quella passata è la diffusione globale e come si rapporta a collegamenti tra persone sparse. È un po’ come se l’arazzo che creiamo fosse poi fatto volare come un tappeto magico a visitare persone in tutto il mondo. In queste circostanze, se si riesce a fare un lavoro di alta qualità, veniamo riconosciuti velocemente su una scala non facilmente raggiungibile altrimenti, però questi arazzi sono un po’ difficili da tessere... Il vostro lavoro vi porta spesso a inventare spazi di interazione e a ridefinire pratiche di relazione tra le persone che abitano la Rete. La città contemporanea è per voi più un modello di riferimento o un indifferente scenario? Un motore di grande entusiasmo e creatività per noi è sempre stato l’idea di spazio, navigabile, da esplorare e scoprire. Nei primi esperimenti interattivi giravamo il mercato di San Lorenzo facendo foto alle persone dal trippaio per poi montarle in una specie di esperienza gioco. Dovevamo seguire un canino che si rubava delle salsicce da un bancone, e in questo ipotetico CD-ROM l’utente avrebbe seguito il canino per imparare la sua storia, la storia di una Firenze di tutti i giorni. Dunque lo spazio reale è importante, in particolare come contribuisce a una dimensione emotiva, intellettiva. Ci aspettiamo spazi che richiedono un discorso, un utilizzo narrativo, un senso di collegamento, di flessibilità ai bisogni di interagire. La città contemporanea si sta trasformando, e ha ancora da re-inventarsi con grandi cambiamenti di qui a poco. E nel nostro lavoro saremo coinvolti in questa trasformazione. Diciamo che la città contemporanea offre simbiosi di trasformazione per il nostro lavoro. Mi aspetto che una prossima Firenze si venga a instaurare con semplicità: materiali a basso costo e flessibili, illuminazione a bassissimo consumo come i LED e informazione che si sovrappone allo spazio. Dovrà offrire nuove idee di spazio che rispondano ai criteri che cerchiamo. Forse diventa un po’ più importante il particolare momento – una situazione, sfuggevole, poetica che appare in sovraimpressione – che la fisicità della muratura. Un po’ come quando da piccolo andavo a vedere i film al Forte Belvedere... proiettati su un telone bianco che ondeggiava nella brezza, con gatti che lottavano per amore in retroscena e una pesantissima impronta di roccia scolpita dall’uomo accanto che si inteneriva in questa ambientazione. Direi, immaginate di poter proiettare qualunque cosa, in una delle nicchie inutilizza44

te, abbandonate dal loro santino, sarebbe poco ma una apertura immediata se posta nelle mani del nuovo creativo fiorentino. Come descriveresti il potenziale creativo delle persone che vivono a Firenze? Quali caratteristiche lo distinguono e come metterlo, oggi, nella condizione di esprimersi al meglio? Il potenziale creativo è altissimo, basta osservare l’utilizzo del linguaggio e il colore adottato per individuare i problemi della città. I fiorentini sono creativi più di molti, tra l’altro non hanno molti tabù e spaziano con tranquillità realtà molto diverse. Ci sono chiaramente anche dei problemi, il primo tra tutti è quello di occuparsi troppo degli ostacoli e aver paura di provare a fare, rischiando di farsi dare di bischero da tutti. Ci sono nuove opportunità che vengono da una dimensione dei servizi “virtuale” che sono un campo aperto in cui il motore sono le idee e quindi, i rischi e gli ostacoli diciamo fisici sono quasi inesistenti. La conseguenza di questo non è nuova tecnologia, come molti pensano, ma invece una trasformazione della struttura sociale. Non abbiamo più una struttura sociale organizzata intorno a chi ha, e può fare, e chi non ha, e deve seguire – ma invece una in cui appare al centro il capitale creativo di chi non ha, ma può fare con semplicità. In altre parole una barzelletta potrebbe essere più potente di un marchio di gran fama perché siamo noi come società globale a decidere più o meno a chi vogliamo credere. I fiorentini hanno solo bisogno di situazioni in cui esprimersi come cittadini. FFF potrebbe essere un buon esempio iniziale, però mancano ancora altri canali. Il canale secondo me più importante è l’espressione stessa di un’idea, che però spesso è limitata da questioni di finanziamenti. Per risolvere questo problema si richiede innovazione al settore delle banche che hanno smesso, quasi, di svolgere il loro lavoro di supporto imprenditoriale alla società che le circonda in senso locale – perché invece devono giocare sui grandi numeri dei mercati mondiali. A questo si può rimediare con semplicità, basta seguire un po’ le idee di finanziamento di micro-prestiti seguite in India come con Gramin Bank, o come Kiva.org, o kickstarter.com. Secondo me, le banche che non si occuperanno personalmente anche di questo settore di micro-finanza alla lunga chiuderanno, quindi forse dovremmo cominciare a convincere le nostre banche fiorentine, le prime al mondo, a

I fiorentini hanno solo bisogno di situazioni in cui esprimersi come cittadini


innovare prima di stare a guardare mentre vengono assorbite. Se Firenze fosse un gioco, quali sarebbero gli obiettivi da raggiungere per i giocatori? Quali insidie metteresti per superare i livelli per beginner e quali per gli advanced? Gli obiettivi del gioco sono una Firenze di cittadini consapevoli, creativi, appassionati. Una città che può trarre dal suo passato un’ispirazione di strategia futura. Una Firenze più flessibile, divertente, giocosa che si muove con una certa tranquillità e saggezza in un mondo di idee. L’aspetto più importante è la visione cittadina: che i fiorentini capiscano chi vorrebbero essere, in modo inclusivo, ragionato e bilanciato con le possibilità. Come contro-esempio vorrei che i fiorentini smettessero di pensarsi guardiani d’obbligo. I nostri monumenti e tesori culturali non sono stati creati con l’obiettivo di incatenare tutte le generazioni future, ma di dilettarle, di apportarle ispirazione – non si sono preposte di fermare il tempo in una specie di Disney-Renaissance. Le insidie, i livelli, sono tanti per chi segue le regole. Spesso sono situazioni fortunate di gran semplicità che riportano invece un blocco alla crescita. Un posto “fisso”, la casa, il vestito, l’auto, la grande tele, sono tutte belle cose, ma non misurano la nostra abilità di influenzare il nostro presente futuribile. In un certo senso certe strade ci offrono invece una distanza dalla coscienza di cittadino e uno dei pochi momenti in cui ci rendiamo conto di essere tali è quando il lavoro è tassato, e quando l’auto è bloccata nel traffico e quando la casa costa troppo. Ci dimentichiamo spesso invece dei momenti in cui essere cittadino è un principio attivo, una potenzialità di creare un futuro collettivo che “ci garba”. Per i giocatori che per bravura, o per fortuna, non seguono le regole le insidie sono più complesse. La prima da superare è quella degli occhiali da esperto: si vede il mondo tutto come fosse filtrato dalle nostre idee. Io sono vittima di questo effetto, però sono riuscito a superare l’altra grande insidia che è quella di pensare di essere esperti, di aver finito con la ricerca. Dovremmo abituarci a non aver paura di ricominciare, di entrare in un campo nuovo, di trasformarci e provare a fare nuove cose. Cosa c’è di nuovo e cosa manca a Firenze oggi? Di nuovo c’è una coscienza che si va spargendo di potenzialità e ci sono tante situazioni di innovazione che forse per un fiorentino non sono così ovvie. La varietà di formule di servizi presente a Firenze è impressionante in confronto ad altre città che conosco, per esempio Londra.

Ci mancano semplicemente modi e posti in cui esprimere in modo civile l’identità fiorentina. Senza di questi, credo, è difficile crearsi ambizioni, visioni per una Firenze futura – e senza questa visione andiamo un po’ alla deriva. In conclusione offro degli esempi che forse ci aiuterebbero: - una “banca delle ganzate” che investe in progetti diciamo un po’ rischiosi ma che portano gioia ai cittadini e senso di identità: sarebbe un servizio in cui il pubblico offre donazioni per progetti che interessano; - punto di proiezione graffiti: per incoraggiare all’espressione e anche ridurre l’interesse a scrivere sui muri fisici offriamo in certi punti fiorentini un proiettore che trasmette qualunque immagine come sfondo. Le immagini sono filtrate dai cittadini stessi con un servizio online da cui vengono proiettate; - una installazione che usa luci al led per creare un gioco che puoi fare con amici sul pavimento di una piazza poco sfruttata. Se fosse gioco sociale/strategico riusciresti a fare interagire le persone, divertirle e farle ragionare; - punti di raccolta storica in cui persone che ricordano possono registrare storie passate e altri possono ricercarle e riascoltarle; - nicchie portali: permetteremmo a studenti di creare materiale da proiettare su schermi posti nelle nicchie abbandonate dal loro santino. Il materiale dovrebbe essere filtrato secondo criteri locali: forse rappresentanti del quartiere. Le idee specifiche sono tante – gli ostacoli più difficili sono i meccanismi di investimento e di diffusione; filtri di informazione che siano di scala fiorentina – grazie a FFF cominciamo...

Ci mancano semplicemente modi e posti in cui esprimere in modo civile l’identità fiorentina. Senza di questi, credo, è difficile crearsi ambizioni, visioni per una Firenze futura...

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Dodgeball Unit9 47


Firenze e la sabbia Lapo Binazzi (UFO)

Lapo Binazzi, nato a Firenze nel 1943, si laurea in architettura nel 1971. Nel 1967 fonda gli UFO (con Foresi, Maschietto, Bachi e Cammeo), gruppo che si inserisce nel clima sperimentale dell’architettura radicale. Considerando il design come fenomeno di pura comunicazione, la sua ricerca si incentra sul tentativo di far coincidere l’esperienza artistica con la sperimentazione nel design stesso.

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Chissà perché, quando penso a Firenze, la mia città, mi torna in mente il titolo di quella canzone: “Ho scritto t’amo sulla sabbia….” , poi arriva l’onda che cancella inesorabile le fragili parole. Proprio così. Firenze continua a scrivere sulla sabbia. Lo fa da decenni. Preoccupata che qualcosa resti, che qualcosa si affermi, che rimanga nella memoria del futuro, che ‘faccia sistema’, che offra reali opportunità e non semplici passaggi. Chi ha il pallino in mano, come si diceva quando si giocava a bocce, ha il terrore di perdere il controllo della situazione, di vedere inaridirsi l’orticello dei suoi voti, di non essere alla moda, di non favorire abbastanza le ultime effimere tendenze, e perché no, di non offrire le giuste opportunità ai giovani. Ma così facendo, i teneri germogli appena nati, rapidamente avvizziscono, gli infanti non fanno in tempo a svezzarsi che sono quasi strozzati nella culla, sacrificati sull’altare del sempiterno provincialismo e su quello di una eterna e rachitica primavera. Firenze non si riconosce in se stessa, oppure vi si riconosce troppo.


Una volta fu famosa. Qui è nato il Rinascimento. La storia ce lo conferma. Ce ne riempiamo anche troppo la bocca. Poi abbiamo perso un poco la strada. Ci siamo dati degli obiettivi troppo squadrati, come quei cinesi che avevano inventato le angurie cubiche per trasportarle meglio. La sezione aurea ci ha preso alla gola come una ghigliottina. La misura e la ‘divina proportione’ sono diventate i paletti asfittici e rassegati, entro i quali convogliare le solite torme di turisti. La prospettiva si è trasformata in un marchio di fabbrica, in un artificio retorico, visibile dal cannocchiale rovesciato del cortile degli Uffizi. Firenze è un sogno di come avrebbe voluto essere. Un’araba fenice che rinasce sempre dalle ceneri del tempo e della storia. Non che non abbia diritto a un suo carattere, per carità! Basta non esagerare. Chi deve venderne il marchio dovrebbe sapere i rischi che si corrono. Per esempio a Firenze ci sono tre Ospedali degli Innocenti, ma solo il primo ci emoziona veramente, quello del Brunelleschi. Il secondo è quello di rimpetto al primo, nella piazza Santissima Annunziata, del Sangallo il Giovane, costruito dopo 70 anni. Il terzo è quello delle Leopoldine in piazza Santa Maria Novella, e guarda caso, situato di fronte alla bellissima facciata dell’Alberti. Che tra l’altro era stata realizzata per metà e poi completata per simmetria. Poi ci sono tre David di Michelangelo. L’originale alla Galleria dell’Accademia, tolto alle intemperie dell’arengario di Palazzo Vecchio, e sostituito con una copia-controfigura. Poi c’è quello di Piazzale Michelangelo realizzato in bronzo al tempo del Poggi, quindi in epoca neoclassica, e già che c’eravamo, circondato dalle copie delle statue delle Cappelle Medicee sempre in bronzo. Passando poi al capitolo urbano, le polemiche sulla ripavimentazione di piazza della Signoria, portarono a rifiutare la piazza in cotto, di epoca rinascimentale, raffigurata in un dipinto del rogo di Savonarola, che ci avrebbe in definitiva fatto capire meglio il Rinascimento stesso, vedi la piazza di Pienza del Rossellino, ma anche il legame con l’urbanistica medioevale di una città come Siena e di altre innumerevoli piazze della Toscana. Si preferì il grigio della pietra serena lorenese, ma non a “opus incertum”, perché costava troppo. Così l’immagine della città severa e gelida, battuta dalla tramontana, affilata e tagliente come gli umori dei fiorentini, probabilmente da questa influenzati, ebbe la meglio.

Quante generazioni ancora saranno sacrificate al Minotauro dell’apparato storico-artistico, della rendita di posizione, della miopia politica? Con l’alluvione, la mia generazione, quella degli Architetti Radicali, ebbe l’impressione che una stagione nuova fosse alle porte. Ci conquistammo nuovi spazi di resulta, l’architettura visionaria, gli interni, il design, ma non fummo capiti, non eravamo all’altezza. E dopo fu anche peggio. Il mondo del precariato fu la risposta di chi da sempre era abituato a soffiare il fumo alle schiacciate. Anzi c’erano quelli della finanza facile, che si specializzarono a soffiare il fumo del fumo del fumo del fumo delle schiacciate. Ma, come spesso nella storia accade, chi le produceva non contava più nulla. Ecco, forse sarebbe l’ora di riprendere alcuni di quei progetti, di confrontarli con l’oggi, di coinvolgere i più giovani in un pensiero forte, di sperimentare coraggiosamente, di fare sistema, di tenersi per mano fraternamente, lasciandosi attraversare dallo spiritello gentile e stilnovista dell’amore e dell’ironia. Appendice Sul finire del ’68 gli UFO avevano ancora un laboratorio di architetture e oggetti gonfiabili in palazzo San Clemente, sede della Facoltà di Architettura di Firenze. Gli UFO erano “tantissimi e cordialissimi”, così ben inseriti nelle lotte studentesche che tutta l’assemblea di architettura voleva entrare negli UFO. Avevamo calcolato che, con il costo di un biglietto del cinema al mese per studente, si sarebbe potuto costruire una cupola del Duomo o un Battistero o un’architettura equivalente al mese. Scegliemmo di rimanere una decina per non annacquare il portato artistico degli UFO e non scioglierci nel movimento. Questo progetto, se mai verrà realizzato, è solo un pallido risarcimento delle energie degli studenti. Da un’intervista a Lapo Binazzi (2009).

Per non parlare delle facciate delle chiese, che dopo il periodo Romanico, a parte la già citata Santa Maria Novella, sono quasi sempre incompiute o apocrife. Il Duomo, Santa Croce, Santo Spirito, San Lorenzo, il Carmine e via andare. Fiorentini troppo perfezionisti, guelfi e ghibellini, di interpretazioni ne sono state date tante, ma resta incomprensibile perché questa città non riesca a mettere la ciliegina sul dolce.

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Progetto di cupola del Brunelleschi gonfiabile, scala 1:3 UFO 1968/2000 50


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(Soluzione: USA razzista libertĂ mai vista) UFO 1968

Rebus gonfiabili all’Isolotto


Gli architetti dovrebbero stare dappertutto, ma non nelle botteghe Conversazione tra Marco Brizzi e Alberto Breschi Alberto Breschi è nato a Firenze il 15 giugno del 1943. Ha studiato alla Facoltà di Architettura di Firenze dove si è laureato, nel 1969, con relatori Leonardo Ricci e Leonardo Savioli. Attualmente è Professore Ordinario di Composizione architettonica e urbana nella Facoltà di Architettura di Firenze, città nella quale vive e lavora, unendo all’attività di insegnamento universitario un costante impegno progettuale come ricerca applicata attraverso concorsi nazionali e internazionali di architettura, progetti e realizzazioni. Sono al suo attivo numerose pubblicazioni su testi e riviste specializzate e interventi a convegni.

Si può dire qualcosa di interessante oggi su Firenze? Abbiamo cominciato con una domanda difficile che potrebbe anche essere retorica. Ma già da tempo ritengo che non dobbiamo aver paura di mostrare un certo ottimismo e avere, di conseguenza, un atteggiamento propositivo. E quindi rispondo che è sempre possibile dire delle cose interessanti. Chiariscimi piuttosto cosa si intende per interessante. In quale ambito.

Proviamo a parlare di interessante in senso ginecologico. C’è qualcosa che può costituire un elemento di “gravidanza” per la città oggi? C’è qualcosa che può far pensare a una condizione di possibile “felicità” per il progetto e far nascere il nuovo? Secondo me, ancora no. Ci sono degli interessi, dei desideri, e nel dire questo credo di dire la cosa più importante. Credo ci siano delle aspettative da parte di una generazione che oggi ha tra i trenta e i quarant’anni che mi sembra ben intenzionata a muovere le cose. E probabilmente questa generazione è il tramite giusto per le generazioni più giovani che si affacciano e si affacceranno a breve. Si sta creando una specie di movimento che sicuramente creerà le condizioni per un cambiamento. Cosa deve creare il cambiamento? Una città in cui si vive meglio. Come può essere definita una città in cui si vive meglio, in che termini l’architettura deve avere un ruolo? Una città in cui si vive meglio è una città che produce occasioni, scambi, in cui si produce cultura. Uno degli obiettivi fondamentali della politica oggi dovrebbe essere quello di incentivare tutto ciò che produce idee nuove e idee da sperimentare. Se questo è in atto, e io credo che in parte lo sia, gli architetti si muovono per dare delle forme, concretizzano queste aspet52

tative, questi desideri. L’architetto dà forma ai desideri. Senza i desideri esiste soltanto una stanca riproposizione di modi di vita, di consuetudini e quindi di architetture ormai consuete, codificate. Dove comincia il possibile campo di intervento dell’architetto? Hai parlato di una generazione di trenta-quarantenni che sta costituendo una sorta di tessuto fertile a Firenze. Ma questo tessuto è fatto soltanto dai progettisti oppure anche da altre figure, per esempio gli amministratori molto giovani che sono recentemente andati al governo della città? Spero di sì. Non li conosco direttamente. Conosco invece molti giovani architetti. La mia attività di docente mi ha dato il privilegio di vederli nascere, di assorbire anche da loro un sacco di energia. La natura ha fornito gli architetti di una particolare sensibilità. Essi hanno antenne capaci di captare il cambiamento e si muovono in grande sintonia con altre figure similari che del cambiamento ne fanno un valore. Gli architetti in fondo sono un “sismografo”. Se questi si muovono, vuol dire che qualcosa in questa società si sa muovendo. A Firenze, forse, questo sta accadendo. Abbiamo un rettore nuovo che è un giovane ingegnere, un preside della facoltà di architettura che è stato eletto in virtù di un programma innovativo. Abbiamo il Sindaco giovane e giovani assessori, abbiamo un Ordine degli architetti che è gestito da un gruppo di giovani più che da un presidente. C’è una situazione molto vivace che fa ben sperare. Vediamo cosa succederà ai primi appuntamenti, alle prime difficoltà. Dobbiamo ancora fare il passo successivo. Ma sono ottimista. Come docente hai seguito diverse generazioni di progettisti e le hai poi viste, talvolta, svolgere un ruolo nella città. Oggi gli studenti universitari e i laureati architetti sono un gran numero. Ma solo una parte completa gli studi e una ancor più piccola raggiunge la professione. Come dovrebbe cambiare l’università e come una facoltà di architettura, per esempio quella nella quale tu insegni, che volesse migliorare le condizione e il ruolo civile del progettista? Nella Facoltà già da tempo è in atto un tentativo di rinnovare e aggiornare i metodi e i contenuti della didattica. In particolare affiancando al tradizionale corso di studi quinquennale un percorso più agile e aggiornato imperniato nel 3+2. Parlarne adesso sarebbe un po’ complicato e forse non rientra nello spirito di questa intervista.


Una risposta secca alla tua domanda è la seguente: Per migliorare davvero l’insegnamento occorre innanzi tutto un luogo nuovo, un’architettura che sia essa stessa espressione dell’innovazione. Poi docenti e studenti più motivati a fare della ricerca e della sperimentazione il campo privilegiato della didattica. È un’utopia? Io non credo. Forse proprio da una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo potrebbe nascere questa figura di architetto. Quali sono secondo te le cautele da suggerire, oppure quali controindicazioni sarebbero da segnalare, con la consapevolezza delle esperienze che dagli anni sessanta ad oggi, che hanno dato la misura dei limiti, per Firenze, di pensare a un reale e qualificante sviluppo? Suggerirei nessuna cautela. I nuovi amministratori dovrebbero agire con grande coraggio, rischiando di sbagliare, ma fregandosene di tutte le mediazioni, di tutto ciò che poi è destinato a essere assorbito e compromesso. La mia esperienza mi dice questo. Mi sono collocato all’interno del movimento radicale di allora ma, al contrario dei fondatori del movimento radicale che ritenevano che l’architettura fosse arrivata a un suo esito finale e che ormai bisognasse parlare d’altro, io e il mio gruppo sostenevamo che l’architettura aveva ancora le capacità per promuovere un cambiamento. Architettura senza compromessi e mediazioni è un’architettura che non è destinata al cantiere ma a entrare nel grande circuito delle idee. E sono proprio le idee, specie se nuove, quelle che costruiscono “solide architetture”. Quindi meno mediazioni, meno cautele, più coraggio, forse più comunicazione. Noi l’avevamo teorizzata questa grande forza della comunicazione dell’immagine, del progetto, poi non abbiamo avuto gli strumenti adatti per dargli forza. Oggi c’è questa possibilità. Quindi più comunicazione, più presenza anche fisica sulle questioni. Uscire dagli studi e occupare altri spazi della città. Anzi, forse non c’è più nemmeno bisogno degli studi di architettura. Bisognerà trovare qualcosa di diverso. Gli architetti dovrebbero stare dappertutto, ma non nelle botteghe. Piuttosto là dove si discute e ci si incontra. Questo è un altro cambiamento che dovrebbe imporsi. Altrimenti finiscono per essere assorbiti da una prassi professionale limitativa e deludente. La rottura della prassi era programmatica nel vostro modo di pensare la comunicazione come risorsa per il progetto. Sì, è vero. Però non ci siamo riusciti fino in fondo.

C’è stato un momento in cui ho pensato che Firenze vivesse una grande stagione, non quando proponeva i grandi temi di architettura – stazione, nuova stazione, alta velocità, albergo di Jean Nouvel, palazzo di giustizia, Novoli – ma quando iniziò e cominciò a dare sostanza a quell’ipotesi sulle piazze della città. Poi non è andata fino in fondo come doveva andare, ma il fatto di coinvolgere tutte le energie, tutte le possibilità espressive, anche tutta la creatività che ha ancora molto da esprimersi in questo campo su questo tema urbano, credo che sia stato un momento importante. Credo che si possa ancora intervenire sul design delle strade, sul design “minimo”, sull’aspetto della viabilità, sui cantieri che si stanno costruendo oppure sulle piazze. Tutto ciò che la città offre per essere vissuta dalla gente credo che sia un terreno molto importante per un cambiamento. Mi viene in mente il tuo recente intervento sulla piazza di Sorgane. Un’occasione importante anche perché si confrontava con un tessuto sociale che si è sviluppato in conseguenza di un progetto sperimentale e di respiro ampio. Noi abbiamo lavorato con grande umiltà direi quasi a completare un progetto più ambizioso di Firenze sull’espansione della città e sulla residenza, tema su cui ci siamo sentiti molto coinvolti dal punto di vista etico, direi. Ma quello che volevo dire sulle piazze riguarda il fatto che le piazze sono tutte diverse tra di loro, questa è la cosa più importante. Credo che una città è ricca e interessante se è capace di esprimere attraverso i luoghi di incontro una pluralità di linguaggi possibili. E oggi Firenze ce l’ha questa vocazione, perché se si vanno a guardare le piazze che sono state fatte, anche le più banali, per esempio piazza Giorgini che sembra fatta con niente, sono semplicemente una riproposizione del verde con delle panchine circolari. Poi si va a vedere piazza Santa Maria Novella dove un disegno classico viene un po’ modificato con interventi contemporanei che in qualche modo fanno entrare in corto circuito. Poi abbiamo Sorgane, poi ne potremmo avere altre che ancora non ci sono ma ci potranno essere (piazza Ghiberti o piazza Brunelleschi che potrebbero diventare davvero le piazze dell’innovazione). Ognuna di queste non è codificata secondo il disegno classico delle piazze, però ciascuna esprime un modo diverso di riappropriarsi della città. Progetto di metamorfosi che nasce dalla sua storia e che vuol trovare una nuova identità. È una città per i cittadini, è una città per essere vissuta, non è una città per il turismo o per il décor. È una città che vuol avere qualcosa di nuovo da raccontare al mondo.

Come osservi le pratiche di comunicazione che oggi esistono o si cercano di realizzare per la città? Corrono il rischio di essere tutte simili tra di loro. Il medium dei mezzi informatici le sta un po’ livellando, però credo ci siano ancora molte strade da esplorare. Non bisogna accontentarsi mai, non bisogna utilizzare questi strumenti come strumenti. Bisogna utilizzare l’informatica per la sua capacità rivoluzionaria di dare ai propri messaggi un contenuto nuovo. Ogni progetto è una forma nuova anche di comunicazione. Se uno pensa che quello che è andato bene ieri, che è andato bene in un concorso, possa essere poi riprodotto con le stesse tecniche, le stesse simulazioni, gli stessi rendering, gli stessi strumenti, sbaglia perché poi viene omologato a tanti altri. Immediatamente la cosa diventa “comune”. C’è un progetto a Firenze che potrebbe essere visto, secondo te, come rivoluzionario? 53


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Piazza Istria a Sorgane Alberto Breschi 55


Benvenuti a Wonderland City Gilberto Corretti Gilberto Corretti, architetto e designer, è nato a Firenze dove vive e lavora. È stato uno dei fondatori dello studio Archizoom Associati, gruppo d’avanguardia che ha vissuto la stagione dell’Architettura Radicale. Dopo, spentisi i fuochi delle avanguardie, si è occupato d’industrial design, di ricerca e sviluppo del prodotto industriale, di editoria e giochi per l’infanzia, di promozione culturale. Insegna progettazione all’ISIA di Firenze e Roma. Ha scritto libri per ragazzi, saggi e articoli sull’architettura e il design.

“ You can dream it, you can do it”. Il motto non appartiene a una recente campagna elettorale, ma era usato da Walt Disney per descrivere un sogno personale coltivato fin dagli anni trenta e realizzato nel 1955 a quaranta chilometri da Los Angeles: Disneyland. La vicenda, sfrondata dai temi mielosi dell’agiografia di massa, svela la figura di un imprenditore attento interprete dei gusti e delle aspirazioni del ceto medio americano lavoratore, tradizionalista e politicamente conservatore. Molte altre Disneyland si sono aggiunte in seguito nel mondo, neppure la Cina ha saputo rinunciarvi. L’intrattenimento ludico svolto in scenografie da cartone animato è solo un aspetto del fascino che i parchi a tema esercitano sulle masse di coloro che li frequentano. Il parco a tema afferma una cultura pubblica fondata sull’estetica di facciata e sul controllo assoluto della paura: è il luogo dove i bambini possono anche perdersi sicuri di ricongiungersi ai loro genitori graziosamente condotti per mano dal Mickey Mouse di turno. In realtà Disney non aveva in mente solo un parco a tema, ma una città ideale depurata di tutti gli inconvenienti propri delle città reali.

Svelò la natura del suo sogno nel 1966, poco tempo prima della sua morte, quando lanciò il progetto di EPCOT. L’Experimental Prototype Community of Tomorrow doveva essere una città ideale che garantiva la sicurezza e la tranquillità dei suoi abitanti dopo averli accuratamente selezionati. Walt Disney è stato una figura della cultura popolare che ha avuto un effetto straordinario sul folklore internazionale. Interpretò più ruoli: moderna reincarnazione dei fratelli Grimm e di Andersen, uomo d’affari e spregiudicato imprenditore, ma soprattutto self-made-man che sapeva assecondare i valori della cultura del medio borghese americano, diffusasi 56


a macchia d’olio in tutto il mondo dopo la seconda guerra mondiale. Mickey Mouse, suo alter ego, nasce come topo di campagna e le sue prime avventure si svolgono nei paraggi di una non precisata fattoria del Middle West. Più tardi, inurbatosi come il suo creatore alla ricerca di successo, vivrà in una città di provincia linda e ordinata dove i cattivi, come Gambadilegno, hanno modi e costumi poco yankee. La piccola città di provincia con il suo gusto per il grazioso, il sentimentale, il familiare, dove tutti conoscono tutti, nessuno ha bisogno di chiudere a chiave la porta di casa e c’è sempre la signora della villetta accanto pronta a prestare il sale quando manca in cucina, rimarrà per sempre l’ingrediente principale delle sue favole e della sua filosofia imprenditoriale. “ Fra le colline di… lontano dallo smog di… nel villaggio residenziale x… a 20 minuti da… vendesi 2-3 vani, garage/ cantinetta... ingresso indipendente... ecc.” È l’annuncio più frequente nelle bacheche delle agenzie e nella pubblicità del settore immobiliare. È sempre posto a margine di accattivanti rendering che illustrano schiere di casette dalla modesta architettura affastellate di tetti a falde più o meno inclinate, di balconcini e verande con tende a padiglione, di portichetti mediterranei confortati da una selva d’alberi e siepi tosate d’incerta classificazione botanica. L’immagine potrebbe essere utilizzata come background di un cartone animato dei Tre Porcelli & Lupo cattivo e potete scommetterci la testa senza perderla che sull’erba dei prati all’inglese che fronteggeranno gli ingressi comparirà anche Biancaneve con i Sette Nani al seguito. Villaggi residenziali di questo tipo ne sono sorti a migliaia a ogni latitudine del pianeta, la loro diffusione e successo testimoniano che soddisfano una domanda universale che solleva più temi di riflessione. Il riferimento a Disney non è occasionale, l’immaginario fantastico espresso dalla sua produzione grafica e cinematografica esprime una mitologia metropolitana nella quale il cittadino medio, di fronte alla crescita esplosiva delle città del Novecento, ha visto una desiderabile e affascinante alternativa di vita. EPCOT, inaugurata nel 1982 dopo la morte di Disney, è un parco a tema con finalità più modeste del progetto originale che prevedeva una “comunità” senza i problemi e gli inconvenienti che affliggono le megalopoli d’ogni latitudine del mondo: né disoccupazione, né fannulloni, né criminali, né sindacati. Innovazione e creatività sarebbero state la bibbia dei suoi abitanti. Avrebbe avuto l’aspetto di una cittadina di campagna con villette circondate da prati e viali alberati che conducevano tutti immancabilmente alla piazza centrale dotata di chiesa e municipio. L’Old America a colonne e timpani imbiancati dei padri fondatori sarebbe stato il suo stile. Il progetto si è avverato in parte a Celebration, villaggio residenziale della Florida, costruito e amministrato dalla Walt Disney Company, che conta oggi circa tremila abitanti. Gli abitanti sono selezionati con cura per censo e aspirazioni di vita dalla società immobiliare che amministra il tutto e che risiede in un simulacro di municipio posto al centro della cittadina. EPCOT e Celebration sono due formule d’abile speculazione finanziaria che derivano entrambe da due prodotti sociali del tardo Novecento fra loro correlati: il turismo di massa e l’urbanizzazione totale del pianeta. Il primo, secondo le stime contabili, sarebbe oggi l’attività economica che ha il maggior fatturato del mondo. Per rendersi conto dell’estensione del secondo è sufficiente guardare le

visioni satellitari notturne della Terra: solo i deserti, gli oceani e qualche lembo di Amazzonia sono privi di luminarie da festa paesana del santo patrono. I viaggiatori sono diventati turisti alla fine dell’Ottocento. Il viaggiatore era una singola persona che viaggiava da sola, mossa da interessi personali, aveva risorse economiche e tempo a disposizione, non disprezzava il rischio, ma lo accettava come conseguenza inevitabile d’ogni avventura. Spesso, affascinato dal mondo che aveva scoperto, s’integrava assumendone usi e costumi. Il turista è un sottoprodotto del tempo libero, viaggia sempre in gruppo, ha bisogno di un’agenzia che gli garantisca l’immunità da ogni pericolo o rischio possibile, compreso quello di perdere qualcosa della propria identità di origine e di una guida che gli indichi con scrupolo dove mettere i piedi e indirizzare gli sguardi e l’obiettivo della propria fotocamera. Il turista richiede infrastrutture molto complesse che coinvolgono molti settori dell’economia del terziario, dalla rete dei trasporti alla costruzione di alberghi, villaggi residenziali e parchi giochi i quali sono diventati la forma più diffusa di edilizia residenziale nello stile di Celebration o delle bacheche delle agenzie immobiliari. Tutto questo è solo la crosta del panino che va poi farcito con l’offerta di gastronomia, esotismo, souvenir, svaghi di vario tipo compreso l’aggiornamento culturale. Una struttura così imponente per mantenersi in vita va continuamente alimentata con promozione pubblicitaria e incentivi che stimolino la gente a viaggiare oltre i propri desideri e le proprie disponibilità economiche, ma nello stesso tempo è una struttura fragile perché in balia di eventi imprevedibili e catastrofici: la minacciano instabilità politica, cicloni e terremoti, attentati terroristici, guerre ed epidemie. Il rischio e l’avventura, che prima pesavano sulle spalle del viaggiatore, oggi pesano sull’intera filiera turistica, in questo caso il rischio da correre si chiama fallimento economico. Per evitarlo bisogna aumentare la sicurezza in ogni passaggio dell’intera filiera, dall’imbarco sull’aereo fino al soggiorno nella località di destinazione rendendola impermeabile ai contatti con ogni realtà esterna imprevedibile, umana e ambientale. Problemi che saranno sempre più incompatibili con la realtà delle città storiche dove il turismo contende lo spazio con i residenti creando fastidi e incompatibilità reciproca e alimenta un’economia a scapito di altre risorse locali di maggiore affidabilità e sviluppo nel futuro. È probabile quindi che sugli oceani aumenterà il numero dei villaggi residenziali camuffati da navi da crociera, vere isole galleggianti abitate da Robinson Crusoe accuratamente isolati dal contatto con ogni Venerdì possibile, mentre sulla terra crescerà il numero delle città di vetroresina, come la Venezia di Las Vegas, nuova di zecca e priva degli inconvenienti dell’originale: monumenti e architetture concentrate in spazi adeguati all’intrattenimento, rifiniti e sottratti alla carie del tempo, assoluta assenza di brume e miasmi lagunari, mendicanti, scippatori, venditori ambulanti ecc. Tutto compreso con pagamento in comode rate.

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Fare l’intellettuale a Firenze Peppino Ortoleva Peppino Ortoleva (Napoli, 1948) è professore ordinario di Storia e teoria dei media all’Università di Torino. Ha pubblicato oltre un centinaio di lavori scientifici su storia, società e media. Tra i suoi libri si ricordano Mediastoria, net, Milano, 2002, l’Enciclopedia della radio, Garzanti, Milano, 2003 (con B. Scaramucci), Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia (con Maria T. Di Marco), Electa, Milano, 2004, Le onde del futuro. Presente e tendenze della radio in Italia (con G. Cordoni e N. Verna), Costa & Nolan, Milano, 2006, Il secolo dei media. Riti credenze abitudini, Il Saggiatore, Milano, 2009. Ha tenuto corsi e svolto periodi di ricerca a Sydney, Parigi, Lisbona. È presidente di Mediasfera, società di ricerca e produzione culturale.

Esistono ancora, oggi, gli intellettuali? La parola è impegnativa, e storicamente connotata, ma continua a sembrare indispensabile. Indica coloro per i quali la cultura è da un lato, oggetto e strumento di lavoro, dall’altro l’ambiente nel quale si muovono e del quale vivono: per così dire, l’aria che respirano. Intellettuali sono insomma le persone che lavorano in alcuni settori (l’università e l’editoria, la scuola e le attività espositive, l’organizzazione di eventi e la prestazione di servizi specializzati, per non citare che una parte), ma anche coloro che, anche al di là della loro stessa collocazione lavorativa, si ritengono investiti di un compito: l’elaborazione di idee e la loro trasmissione. Un compito a cui nelle società contemporanee è riconosciuta una funzione di interesse non solo personale ma anche collettivo: la produzione culturale è infatti dall’Ottocento in poi considerata componente indispensabile dell’opinione pubblica. I mutamenti avvenuti negli ultimi quattro decenni hanno reso il ruolo e l’esistenza stessa degli intellettuali più contraddittori ancora di quanto fossero in passato. Prima di tutto, si è moltiplicata la quantità, il numero di coloro che possono definirsi intellettuali per formazione e per competenze, ma al tempo stesso, a partire dagli anni ottanta, gli sbocchi professionali per questa categoria di persone si sono ridotti drasticamente, dando luogo a vistosi fenomeni di alienazione produttiva oltre 58

che di vera e propria esclusione. In altri termini, sempre più potenziali intellettuali, aspiranti intellettuali, sempre meno possibilità di vivere facendo, appunto, l’intellettuale come mestiere. Con una tensione crescente tra le generazioni, che produce un frequente incepparsi di uno dei meccanismi-chiave di ogni cultura: la trasmissione e lo scambio tra le generazioni. In secondo luogo, il ruolo che i “chierici”, di Chiesa o di partito, hanno detenuto per almeno un secolo e mezzo, ruolo di mediazione politica e insieme di autorità istituzionale, ha lasciato il posto a una diffusa diffidenza verso il potere loro attribuito, fino alla nascita nel nostro paese di vere e proprie forme di anti-intellettualismo. Tra le persone che “fanno” gli intellettuali, insomma, un numero crescente è a disagio con questa definizione. Intanto, la vita culturale nazionale ha subito una riorganizzazione anche geografica, polarizzandosi su Roma e Milano e riducendo rapidamente il peso di centri fino a pochi anni fa di grande importanza come Torino, Napoli. O Firenze. Questo può apparire paradossale, vista la fluidità di circolazione assunta dalle informazioni che dovrebbe, secondo un modo di pensare diffuso, portare all’“abolizione delle distanze”. Ma proprio in quest’epoca il contatto personale e il lobbying hanno visto al contrario crescere il loro peso. La vita culturale dei centri “minori” si trova in realtà a subire le conseguenze negative di entrambi i processi: troppo piccoli per entrare in concorrenza con le capitali culturali del Paese, con le loro strutture anche tecnologiche e con il loro humus professionale; inutili o quasi per tante aziende di microproduzione che possono saltare la loro intermediazione un tempo indispensabile e raggiungere direttamente partner e committenti a Roma, Milano o all’estero. La vicenda delle case editrici fiorentine in questi anni è una prova palese di questo processo. Di conseguenza, a differenza dell’intellettualità romana o milanese, che si trova in quelle città anche perché là e solo là può svolgere le proprie funzioni, quella fiorentina (salvo per alcuni casi, connessi generalmente alla realtà del patrimonio artistico) sta a Firenze come potrebbe stare a Genova o Lione,


Siena o Liverpool e sempre più spesso è costretta a un pendolarismo abbastanza continuo con le vere capitali del lavoro culturale nel nostro Paese. Con la frustrazione in più derivante dal fatto che altrove l’intellettualità fiorentina è percepita in qualche modo come privilegiata, per la sopravvalutazione diffusa della vita culturale della città: una vera e propria illusione ottica che confonde il passato artistico e letterario della città con il presente. La condizione dell’intellettuale a Firenze è stata oggetto il 3 ottobre dello scorso anno di un incontro, il primo promosso dalla Società per le idee di recente costituzione nella città: una riflessione collettiva in cui persone di generazioni e provenienze diversissime si sono messe in questione, parlando ciascuna il proprio linguaggio, ma sforzandosi prima di tutto di ascoltare, a partire non tanto da posizioni definite quanto da interrogativi comuni. Il dibattito, se questo è il termine per definirlo, può essere seguito in video sul sito www.societaperleidee.it. Qui vengono proposti alcuni interventi che danno un’idea di quel che abbiamo sentito. E chi abbia voglia di collaborare alla continuazione di questo lavoro, di scavo e di comunicazione, può dare una mano: in programma ci sono altri seminari, dedicati in particolare ai problemi delle diverse generazioni di lavoratori della cultura, una ricerca e una riflessione sulle piccole e medie imprese culturali esistenti sul territorio fiorentino, che sono tra le anime della vita culturale e tra le realtà più colpite dalla crisi, e le tante altre iniziative che su questi temi cruciali si potranno promuovere.

Valentina Piattelli Laureata in Storia Contemporanea con una tesi dal titolo Il nazismo e la “questione ebraica” attraverso le pagine di “Israel” è stata attivista di Amnesty International fino al 2002. È stata protagonista di numerose battaglie per i diritti civili (abolizione della leva obbligatoria, abolizione della pena di morte, libertà scientifica sulle cellule staminali) e si è costantemente occupata negli studi e nella vita dei diritti umani e della loro violazione.

Credo che quasi tutte le persone che sono state invitate a dire qualcosa a questo seminario si siano chieste se il termine “intellettuale” poteva essere usato nei loro confronti. La prima volta che mi sono stata sentita attribuire questa definizione è stato nell’Est Europa, e questo non certo a caso, vista la loro tradizione di intellettuali impegnati. C’era la guerra nella ex Jugoslavia e in genere questo termine veniva usato con una certa acrimonia nei nostri confronti: “voi intellettuali occidentali dovreste...”, “voi intellettuali occidentali potreste...”. Quello che non sapevano è che noi intellettuali occidentali avevamo perso non solo la voce, ma anche il diritto di parola, a cominciare da questo mancato riconoscerci nella parola stessa “intellettuale”. Essere un intellettuale, essere uno scrittore in Italia è quasi una vergogna. Lo si dice sottovoce, quasi si usurpasse chissà quale definizione. E perché mai dovrebbe essere così? Vorrei citare la defizione che dà Edward Said di “intellettuale” “In sostanza, l’intellettuale [...] non è né un pacificatore né un artefice di consenso, bensì qualcuno che ha scommesso tutta la

sua esistenza sul senso critico, la consapevolezza di non essere disposto ad accettare le formule facili, i modelli prefabbricati [...]. Una capacità che non si riflette soltanto nel rifiuto passivo, bensì nella volontà attiva di usare la parola in pubblico”. Ecco, io credo di potermi davvero riconoscere in questa definizione. Quando scelsi di studiare Storia, a 18 anni, non avevo ovviamente le idee chiare su cosa potevo farci con una laurea del genere. Qualche anno dopo, comunque, nel 1995, a 23 anni, il mio corso di studi stava per volgere al termine e avevo già trovato il mio primo lavoro come storica, una ricerca sull’antisemitismo nel periodo fascista con il professor Collotti, finanziata dalla Regione Toscana. In quell’anno avevo anche pubblicato i miei primi due libri: uno sulla guerra nell’ex Jugoslavia e uno sui diritti delle donne per Amnesty International, per cui poi ho lavorato occupandomi di pubblicazioni. In quell’anno ho avuto anche la diagnosi di sclerosi multipla, ma questa è stata solo una palla al piede che da allora mi accompagna sempre, ma che non è stata certo la fine della mia carriera. Nonostante nessuna di queste attività mi avesse portato molti soldi, pensavo ingenuamente che fosse normale e necessaria una certa “gavetta” in questo settore. Nella realtà dei fatti, quello che ho potuto vedere nella mia esperienza è che i soldi per pagare questo tipo di attività si sono via via sempre più ridotti. Altro che gavetta! Senza ripercorrere tutta la mia carriera, posso dire che dieci anni dopo, nel 2005, insegnavo all’Università per la modica cifra di 500 euro lordi all’anno. Per quella cifra dovevo creare materiale originale sufficiente a tenere un corso trimestrale, fare gli esami, i colloqui e partecipare alle varie riunioni di facoltà. Una miseria per l’impegno richiesto. Poco più di un rimborso delle spese vive. Adesso mi è giunta voce che per questa stessa attività fanno firmare contratti dove alla voce “paga” c’è un bello zero... Se non fosse vietato, immagino che sarebbe stato necessario pagare per insegnare all’Università! Dopo essere stata pagata per anni con contratti assurdi, finte borse di studio, senza un minimo di tutela, a 30 anni, decisi di aprire la Partita Iva, nonostante il volume degli affari non lo giustificasse, ma solo per poter accedere a quel minimo di tutele di cui ogni lavoratore gode. Grazie a questa scelta, ho potuto usufruire della Maternità. Perché i soldi per pagare questi lavori sono sempre meno? Le legge della domanda e dell’offerta è una legge assai ferrea, temo. E l’offerta di prodotti culturali in Italia supera di gran lunga la richiesta. Prendiamo due o tre indicatori. Per esempio la lettura dei libri pro capite. Senza pretese di statistica, mi limito a osservare che il numero dei lettori in Italia è rimasto pressoché costante nell’ultimo mezzo secolo. Nel 1963, gli italiani che leggevano almeno 59


un libro l’anno erano il 32%, nel 2007 erano il 40%. In 44 anni il numero è aumentato di soli 7 punti percentuali. E si parla di persone che leggono un libro l’anno, magari un giallo sotto l’ombrellone o le barzellette dei calciatori. In valori assoluti nel 2007 in Italia i lettori di almeno un libro l’anno sono stati 24 milioni, e in quello stesso anno sono stati stampati ben 270 milioni di libri. Ovviamente ci sono alcuni che leggono più di un libro l’anno, ma sono un’esigua minoranza e il saldo fra produzione e consumo presenta sicuramente un eccesso di produzione rispetto ai consumi. Un’offerta resa possibile da volontariato e dal lavoro gratuito o sottopagato. Un altro sbocco tradizionale di chi scrive, il giornalismo, è in grossa crisi. E a questo proposito vorrei raccontare un piccolo aneddoto che riguarda anche Raffaele Palumbo. 14 anni fa, dopo la presentazione del mio primo libro appena pubblicato, facemmo una cena con il giornalista che aveva scritto l’introduzione al mio libro, Demetrio Volcic e Raffaele Palumbo gli chiese qualche suggerimento per diventare giornalista. Volcic rispose che l’unica speranza per i giovani che volessero diventare giornalisti sarebbe stata che un serial killer si mettesse in testa di sterminare i giornalisti esistenti. Per fortuna non è stato vero, almeno per Raffaele, ma Volcic non aveva tutti torti, né tanto meno li ha ora. Io ho insegnato giornalismo all’università e mi chiedo cosa siano finiti a fare tutti quei laureati in giornalismo sfornati ogni anno a centinaia dalle nostre facoltà. I più fortunati probabilmente finiscono a fare l’unico lavoro giornalistico in ascesa e cioè l’addetto stampa o il PR. L’Università di Cardiff ha infatti calcolato che ormai il 20% delle notizie venga fabbricato negli uffici stampa. Questo è dovuto al progressivo venire meno del giornalismo cartaceo a favore dell’online e quindi il venir meno di chi poteva permettersi di pagare inchieste e approfondimenti. La crisi economica ha reso più veloce una crisi già in atto, quella per cui i giornali online stanno facendo fallire i giornali cartacei e con essi il ruolo del giornalista. Chi produce le notizie sono sempre di più gli uffici stampa dei vari enti, aziende, associazioni e gruppi. Un tipo di lavoro dove è richiesta ben poca libertà intellettuale. Quale altro sbocco resta per chi ha intrapreso un corso di studi come il mio? Le imprese private in Italia sono da sempre restie a investire in cultura e se hanno un po’ di soldi per attività voluttuarie, è più facile che finanzino una squadra di calcio che creino una borsa di studio o che chiedano il parere di un intellettuale. Nella pubblica amministrazione un grosso sbocco sarebbe l’insegnamento. Qualcuno riesce a farlo, ma l’insegnamento nella scuola e nelle università è stabilito con logiche che di fatto non premiano i migliori. Tralascio la mia esperienza con l’insegnamento all’università e faccio un altro esempio personale, visto che questa è una testimonianza. Un paio di anni fa ho cercato di iscrivermi alla cosiddetta Terza Fascia per l’insegnamento alle Superiori, le supplenze in pratica. Pensavo, ingenuamente, che avendo insegnato per qualche anno all’università e avendo pubblicato diversi libri, avessi un curriculum che mi avrebbe dato un buon punteggio. Invece ho scoperto che: - l’insegnamento all’università non vale niente o quasi, per quanto riguarda la scuola; - che, per qualche oscura logica sindacale, la pubblicazione di libri fa punteggio solo per gli insegnanti di… musica! 60

Ma la cosa che più mi ha stupito è stato l’atteggiamento di chiusura, sia dei futuri colleghi, che nei vari forum degli insegnanti mi hanno respinto con frasi tipo “ora arrivano anche dall’università a rubarci il lavoro!”, sia dei vari sindacati che in sostanza mi dicevano che era meglio che restassi al “livello superiore” e non venissi a rompere le scatole al loro. Vorrei poter chiudere questo intervento con una nota positiva, ma ahimé non sono in grado di farlo. Se prima avevo un’ulteriore difficoltà a lavorare a causa della mia condizione di malata di sclerosi multipla, ora se n’è aggiunta un’altra, non patologica, ma molto fisiologica, e cioè quella di essere diventata una mamma, da cui però – paradossalmente – non riesco a riprendermi altrettanto bene! Questa condizione infatti mi sembra che abbia reso del tutto velleitario qualsiasi tentativo di continuare a lavorare in questo settore. E così, mi ritrovo a dover ammettere che, a 37 anni suonati, non so ancora bene cosa farò da grande...

Marco Quinti Io non appartengo in senso proprio alla categoria di intellettuali. Professionalmente svolgo l’attività di idraulico, ho la terza media e provengo da una famiglia operaia. Mi sono quindi formato in un contesto nel quale occuparsi di cultura non era certamente una priorità all’ordine del giorno. Inseguendo questo mio interesse ho collaborato con associazioni come Emergency, ho seguito eventi musicali e teatrali, avendo la possibilità di entrare in contatto con ambienti lontani dal mio quotidiano e di misurarmi con realtà distanti dalla nostra. Con estrema tenacia e impegno, considerando il fatto che per otto ore al giorno, talvolta anche più, faccio l’idraulico, ho partecipato alla pubblicazione di testi, alcuni anche integralmente miei, ho pubblicato su riviste nazionali ed estere, sono stato invitato a tenere corsi di fotografia all’Università di Firenze, fino a ottenere la tessera di giornalista pubblicista e fotoreporter. Quando costituimmo

Fotografo e giornalista freelance, ha realizzato reportage all’ospedale Emergency in Cambogia e negli ospedali della Tumaini Onlus in Tanzania; ha seguito i Social Forum a Mumbai, Porto Alegre e Nairobi. Collabora con Controradio, il Manifesto, Liberazione, Diario, Carta, Galatea. Ha realizzato la parte fotografica per pubblicazioni della Soprintendenza di Firenze e per varie mostre di artisti. Ha contribuito alla realizzazione del libro I Love Rock’n’Roll di Controradio, edito da Giunti. Insegna fotografia per vari Comuni toscani e per l’Ateneo fiorentino. Svolge queste attività lavorando comunque ogni giorno da idraulico.


la Società delle Idee e qualcuno mi sollecitò a partecipare a questo specifico seminario, non capivo quale nesso potesse esserci fra me e gli intellettuali, ma quando poi mi presentai al professore, dicendo che sono un idraulico, ma anche un giornalista, egli mi fece capire che è intellettuale anche chi non “mangia” col solo lavoro della propria mente. È stata una considerazione assolutamente nuova per me, perché spesso, arrivando alle persone da idraulico, non mi viene offerta la possibilità di interagire, salvo trovare una grande disponibilità di quelle stesse persone quando, in altri contesti, mi individuano come giornalista o reporter! È questa mia posizione “ibrida”, sebbene io sia ovviamente sempre la stessa persona, che mi ha consentito di trovare un varco, un punto di accesso con altri ambienti. Chi non ha questa opportunità si trova costretto entro ambiti dai quali non ha possibilità di uscita, anche se, molto spesso, continuo ad avere la sensazione di girare intorno a dei mondi che mi interessano, ma di trovarmi sempre contro allo stesso muro. Non considerandomi quindi un intellettuale nel senso pieno del termine, voglio però insistere sulla mia riflessione e sul mio invito a porsi nei confronti di tutti con maggiore umiltà, di stimolare e motivare tutti alla partecipazione responsabile, offrendo la possibilità di riflettere sui temi del proprio valore e della propria identità. Mi sembra necessario continuare a lavorare alla realizzazione di una rete di relazioni che consenta il superamento di quella incomunicabilità, in molti casi ampiamente sedimentata, di cui ho testimoniato, anche ponendosi come esperienza pilota di collegamento con altre realtà, strutturate e non, che operano nel campo culturale e sociale in generale.

Riccardo Ventrella Riccardo Ventrella, classe 1968, fiorentino. Ha utilizzato in vari modi la sua laurea in Storia del Cinema presa al DAMS di Bologna, dalla ricerca universitaria all’organizzazione di eventi culturali. Dopo vari passaggi, tra i quali l’Istituto Stensen, il Fringe Festival e molte altre istituzioni culturali cittadine, è approdato alla Pergola che dirige dal 2007. Musicista per diletto, è Accademico d’Onore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze.

Nel fare un’operazione di autocoscienza sul tema, vorrei partire da Antonello Venditti, precisamente dalla ballata Bomba o non bomba contenuta nell’album Sotto il segno dei pesci. È la storia di un’allegra catabasi, da Bologna a Roma, tra Risorgimento e road-movie, la cui esegesi è ritenuta dai più incerta. Dopo Bologna, dove scoppia la prima bomba, Sasso Marconi, dove incontrano una ragazza, e Roncobilaccio, dove va loro incontro un vecchio, i protagonisti arrivano a Firenze. E dormono da un intellettuale. Cito testualmente: “A Firenze dormimmo da un intellettuale/la faccia giusta e tutto quanto il resto/ci disse no, compagni, amici, io disapprovo il passo/ manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto”. Oltre a dimostrare una buona padronanza della musica leggera italiana, questa citazione ancorché vecchia di trentuno anni

mi pare una buona metafora della contraddittoria condizione dell’intellettuale fiorentino, tutto preso tra il bell’aspetto e la poca iniziativa, tutto compreso in una città finita, finita nei due sensi: come completezza apparente dello spazio urbano e come ristrettezza di orizzonti anche progettuali. Rosicone. Sempre bisognoso dell’analisi, e dell’elmetto come protezione ultima. Non si sa esattamente chi fosse l’intellettuale presso cui alloggiò Venditti; né io so cosa sia esattamente un intellettuale. Tempo fa un riconosciuto esperto di musica contemporanea e musicista egli stesso ha detto in una conferenza stampa: “Sono un musicista, non un intellettuale”. Mi sono chiesto chi allora debba fregiarsi del titolo di intellettuale. Forse è l’orrore di vivere per delle idee che produce tanta confusione sulla condizione dell’intellettuale. Non musicista, allora, non pittore non scultore non scrittore: o forse sì, forse tutte queste cose insieme. Tra gli intellettuali c’è una figura che mi interessa molto perché sta insieme a monte e a valle del processo produttivo, e in qualche modo anche nel processo produttivo: è il promotore di cultura, l’organizzaTTore, suddiviso in due categorie: quello che ha organizzato il concerto di Patti Smith del 1979, e quello che c’è stato. Zelante come un propagandista medico, pronto a insinuarsi nelle pieghe delle istituzioni per sussumerne risorse indispensabili al suo stesso sostentamento. Implacabile come Romeo Benetti nel marcare assessori e consimili. Di mezz’età solitamente, ma ne esistono esemplari in età giovanile. Dominatore di tattiche, mai di strategie. Poco interessato al pubblico, più a rendersi pubblico di se stesso. Rifugge il progresso tecnologico, i vocaboli inglesi; è 1.0, è in vinile senza un reale termine di paragone con il digitale. A questo non è arrivato per colpa o dolo, ma semplicemente seguendo il clinamen fiorentino, e da questo venendo inseguito. È la città finita il suo incubo e la sua ossessione magnifica. È in una parola, alla canna del gas. Diciamocelo apertamente, c’è un’entropia notevole a Firenze nel campo dei promotori di cultura, e in quello degli intellettuali in generale, di quelli che si muovono per delle idee. Bisogna pensarla diversamente adesso. Non è questione di ricambio generazionale, il ricambio generazionale è una chimera perché l’età è nella testa, come dice Wilma de Angelis. Cominciamo dal termine: intellettuale sa di intellighenzia, di partiti, di anni settanta, di suonare il piffero per la rivoluzione. Trasformiamoci in ingegneri culturali, una definizione per il cui sdoganamento da tempo mi batto; perché il nostro compito è quello di progettare e costruire dispositivi, macchine e impianti immateriali al fine di soddisfare i bisogni umani. Bisogni umani, prima di tutto. Progettiamo strutture di lunga durata, lavoriamo sulla continuità dell’espressione, costruiamo reti e passaggi. Viviamo per delle idee, ma di morte lenta.

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La stazione di Firenze è molto bella Daniele Lombardi Chi arriva a Firenze in treno ha modo di vedere la Stazione

con le realtà

di Santa Maria Novella, un episodio architettonico degli anni

produttive

trenta tra i più belli d’Europa che nei suoi 75 anni di vita non

della città,

ha perso il fascino di una spinta modernista, peraltro a suo

conservatorio

tempo anche fortemente criticata.

in primis:

Può sembrare una delle solite battute fiorentine, ma i musici-

allora, negli

sti viaggiano molto e la conoscono bene: “prendere o perdere

ultimi trenta

il treno” è diventato un modo di affrontare, nati dopo, la

anni, cosa è

vita artistica e culturale di questa città. Ovunque nel mon-

successo per

do è possibile trovare musicisti e artisti che sentono forme

la musica

di indifferenza nei riguardi del loro lavoro e se ci voltiamo

contemporanea a Firenze? Quanti sono i musicisti fiorentini

indietro, magari non fino al “ghibellin fuggiasco”, ma soltanto

ancora vivi che sono stati invitati nelle programmazioni del

al musicista Sylvano che chiama Firenze “la bella addormen-

Teatro del Maggio?

tata”, ci si rende conto che chi ha voglia di viaggiare diventa

L’unica presenza veramente essenziale per livello e operativi-

personaggio da esportazione lontano dall’Arno d’argento, i

tà è stata quella di Luciano Berio che ha lasciato un grande

rimanenti stanno qui e se si fa loro domande è difficile trova-

vuoto, ma non era tra i 57 firmatari...

re anche un cauto ottimismo. Monsieur de La Palisse direbbe

Parlando delle nuove generazioni, oggi un giovane che vuole

che il nodo sta nella gestione della cultura e quindi delle arti.

conoscere la musica d’arte fiorentina, italiana, europea e di

Negli anni ottanta il mondo dei compositori mise per iscritto

altre parti del mondo, trova se ha fortuna e pazienza rari CD,

un canto del cigno con 57 firme e lo inviò all’allora direttore

LP, spartiti, libri: rimane la speranza nell’internet, e in questo

artistico del Teatro Comunale, lamentando un lungo periodo

senso vedremo cosa sarà successo tra dieci anni. Una delle

di disattenzione da parte del Teatro per i compositori fioren-

ragioni di preclusione di una programmazione della musi-

tini. Il destinatario di questa missiva fu una figura di gran-

ca nuova d’arte sta anche nella mancanza di audacia di chi

dissimo livello internazionale, Massimo Bogiankino, ma ciò

programma, con la motivazione del rischio di fare dei forni,

nonostante, nella dimensione di una programmazione come

di produrre serate alle quali non ci sia affluenza di pubbli-

quella del Maggio, da allora non si è evoluto un rapporto

co. Questo però dipende anche da come viene pubblicizzata

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questa programmazione, l’orario del concerto che potrebbe

vedere la stazione spesso o raramente.

benissimo coincidere con la fascia dell’happy hour, e tanti

Ritengo che il lavoro di questi appaia oggi più di ieri un

piccoli passaparola che non vengono certo favoriti da pubbli-

eroismo senza storia e, come nei film dei sottomarini dove in

cità a volte criptiche. Nel frattempo l’attuale età media degli

fondo, prima dei titoli di coda, ritornano tutti i personaggi

ascoltatori è over 50, ma di tutte queste cose si dibatte da

(ma con un atteggiamento opposto di grande speranza) ho

molto tempo, molti hanno avanzato anche ottime proposte

pensato di far vedere finalmente che faccia hanno almeno sei

e non vale la pena mettersi a fare il rabdomante per scoprire

giovani – ma non sono tutti – che o sono nati qui, o sono da

l’acqua calda.

qui andati o qui venuti, e che dimostrano di essere già pro-

La riflessione dalla quale sono partito è che chi oggi fa il me-

messe mantenute, degne di una particolare attenzione.

stiere del compositore, ed è una giovane promessa, ha tutto il diritto di una nuova visibilità – ovvero udibilità – per la quale

Infine ho rivolto loro la domanda: “Come fare, stando a Fi-

viene la curiosità di sapere se ci sono, e chi sono quelli, o sulle

renze, a non prendere e a non perdere il treno?”...

rive dell’Arno o dal fiumicel lontani, internazionalmente considerati non gli emergenti, ma gli emersi. Spingendosi nella curiosità poi, che faccia hanno, cosa pensano di Firenze e del 63


GIULIANO BACCI

lo percorro tutto, come cercando qualcuno, e scelgo un posto tra quelli a metà del vagone, lontano dalle ruote. Scrivere musica: scendere a fermate inaspettate, guardare i binari, le proprie scelte, poi prendere un treno o perderlo e andarsene a piedi. A volte a Firenze ci si incontra alla stazione.

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La stazione di Firenze è molto bella

COME FARE, STANDO A FIRENZE, A NONAlla stazione arrivo all’ultimo, giusto il tempo PRENDERE E A NON PERDEREper il giornale e salgo sul vagone più vicino. IL TRENO?Qui il treno riparte in direzione opposta così


COME FARE, STANDO A FIRENZE, A NON PRENDERE E A NON PERDERE IL TRENO?

ANDREA PORTERA

Essere compositore a Firenze non è la cosa più naturale e comoda che possa capitare a un essere umano; non si tratta certo di una sventura, ma è chiaro che questa città al momento sembra non aver bisogno dei suoi autori contemporanei. Qui è difficile riuscire a formarsi come apprendista, quasi impossibile trovare occasioni per mettersi in luce. Se osservo il mio percorso, capisco immediatamente che non puoi sbocciare a Firenze, ma devi tentare di farlo altrove e a volte questo può portarti fisicamente lontano. Così mi pongo l’inevitabile quesito: devi prima vincere decine di premi in Giappone, in USA o in Russia per poter avere l’occasione di essere ascoltato dai tuoi concittadini? Devi ottenere esecuzioni dalla Tokyo Philarmonic, la BBC Philarmonic o la Slovak Radio Symphony ecc. per poi ambire alle stagioni fiorentine? A quanto pare sembra proprio così.

Quando torni a casa con qualche frutto in mano, in effetti questa città inizia ad essere più generosa, ma sempre come una madre distratta che ti concede un breve sorriso occasionale. Del resto Firenze non è mai stata un fulcro della musica odierna e forse per questo gli ambienti artistici locali non stanno esplorando il fermento del sottosuolo creativo attuale, perdendo (o forse rimandando) l’occasione di valorizzare un proprio label contemporaneo. Se Firenze acquisisse tale identità e diventasse portavoce di un suo movimento musicale, allora da qui potrebbero partire treni importanti per tutte le categorie del settore. La mia città non è un deserto, ma per il momento resta un giardino incolto da secoli.

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COME FARE, STANDO A FIRENZE, A NON PRENDERE E A NON PERDERE IL TRENO?

ANGELO RUSSO

Viaggiare! Perdere paesi! Essere altro costantemente perché l’anima non abbia radici! (Fernando Pessoa)

Nel viaggio che feci già ben 23 anni fa da Catania a Firenze appresi come essere altro. Le magnificenze architettoniche, l’arte e la cultura che porta geneticamente con sé la città dei Medici e del Rinascimento si sono sovrapposte, in questi anni della formazione, alla luce accecante, al calore, al blu intenso del mare e al bianco vuoto del cielo sopra di me, nella terra del Barocco e della mattanza, della zagara e dei Ciclopi. La mia Sicilia. Perdere paesi o conquistare mondi? E se le nostre radici stessero nei percorsi che continuamente compiamo nel passare da un mondo all’altro?

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COME FARE, STANDO A FIRENZE, A NON PRENDERE E A NON PERDERE IL TRENO?

FRANCESCO GIOMI

Nel nostro tempo “prendere il treno” significa poterlo fare non necessariamente in maniera fisica ma attraverso i nuovi media e la rete, da Firenze come da uno sperduto paesino. L’importante per non “perdere il treno” è avere occhi e orecchie attenti verso il nuovo, esprimendo sempre la propria sensibilità creativa.

La stazione di Firenze è molto bella 67


COME FARE, STANDO A FIRENZE, A NON PRENDERE E A NON PERDERE IL TRENO?

Fare. Seguire le esigenze e la necessità del proprio scrivere, in rapporto dialettico con il presente. Distanziarsi mentalmente, fisicamente per migliorare il punto di vista, lontani dalle righe e dai titoli inutili. Intuire l’orizzonte degli eventi, “noyau infracassable de nuit" da cui scaturisce la composizione musicale, atto di libertà, prodotto dei momenti dell’esperienza. Privilegiare l’essere e il non-apparire, derivata negativa dell’odierno, declinando il reale attraverso il molteplice dell’operare. Fare.

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La stazione di Firenze è molto bella

MARCO LIGABUE


COME FARE, STANDO A FIRENZE, A NON PRENDERE E A NON PERDERE IL TRENO?

TIZIANO MANCA

Partire affranca da quella incosciente e cieca impotenza, a cui quotidiane consuetudini condannano.

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A tu per tu con l’arte Maria Gloria Conti Bicocchi Maria Gloria Bicocchi fonda nel 1972 a Firenze, in via Ricasoli 22, la galleria “art/tapes/22”, primo spazio in Europa dedicato alla produzione di video arte dove, dal 1974 al 1977 lavora come assistente tecnico l’artista statunitense Bill Viola. L’esperienza darà vita a opere di numerosi artisti internazionali che nel 1978 passeranno all’Archivio Storico delle Arti Contemporanee di Venezia. Dal 1985 al 1987 fonda, sempre a Firenze, insieme al marito Giancarlo Bicocchi, architetto, e ai figli, la casa editrice Hopefulmonster editore. Dal 1996 vive e lavora a Procida con il compagno Giovanni Barblan. Nel 2002 scrive Tra Firenze e Santa Teresa dentro le quinte dell’arte, art/tapes/22, con prefazioni di Achille Bonito Oliva, David A. Ross e Bill Viola. Nel 2005 partecipa alla fondazione a Procida dell’associazione “artefactory 41.14”. Artefactory 41.14 realizza, tra l’altro, il progetto “Il gesto” per Europa 2000, partner di Fabbrica Europa, Firenze.

Parlare di Firenze e del suo rapporto con l’arte contemporanea non mi è facile: la mia esperienza, ormai datata trenta anni fa, è stata un’esperienza dove la città, seppure invitata a partecipare, è stata assolutamente assente, è stata solo un punto di partenza dovuto al fatto che a Firenze ci abitavo, per poi espandere l’art/tapes/22 nel mondo occidentale attento all’arte del presente, New York, Berlino, Basilea, Parigi, Bruxelles, insomma ovunque esistessero musei dedicati ai giovani artisti, al contemporaneo. Dopo molto tempo Firenze si è aggiornata, è nato il museo Pecci a Prato, unica oasi dove poter vivere il nostro tempo e, pur mantenendo la nostra città alto il proprio vanto per il suo grande Rinascimento, ha in seguito tentato di guardarsi intorno con proposte interessanti, alcune di queste purtroppo apparse e sparite molto presto, come il centro Quarter nella ex Longinotti di viale Giannotti curato da Sergio Risaliti. Adesso questo centro polivalente ha appena riaperto come EX3, curato da Sergio Tossi e Arabella Natalini, sempre nello spazio industriale della ex Longinotti. Una delle realtà più interessanti e propositive della città rimane Fabbrica Europa che ha il privilegio di proporre performance, concerti e tutto il suo ampio programma interdisciplinare nella

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magnifica ex stazione Leopolda. La Fondazione, con fatica e con intelligenza, apre le porte ogni anno a gruppi sperimentali affiancandoli a nomi importanti come quelli di Peter Brook, Badara Seck, Stalker, Burkina Faso e altri. Guidato da Maurizia Settembri, Lorenzo Pallini, Andres Morte, Marina Bistolfi, Luca Dini e altri, il programma di Fabbrica Europa rappresenta sempre un’apertura coraggiosa verso il contemporaneo. Mi auguro che questi spazi abbiano continuativamente dalla città i fondi necessari per vivere e non solo per sopravvivere. Negli anni di art/tapes/22 la situazione culturale generale era interessante ma difficile, perché legata soprattutto a iniziative private, come le gallerie Schema con Alberto Moretti, Roberto Cesaroni e Raul Dominguez, Area con Bruno Corà e Michele Guidugli, Zona di Maurizio Nannucci e la mia art/ tapes/22: una grande collaborazione fra queste realtà permetteva di offrire agli artisti che arrivavano a Firenze possibilità diversificate di vivere la città e di produrre dei lavori importanti. Devo purtroppo sottolineare che di queste interessanti realtà che proponevano con coraggio e sforzi economici personali progetti di livello internazionale, la città non ne ha fruito, per disattenzione, per presunzione e anche per poca attenzione al proprio tempo; forse Firenze non si è nemmeno accorta che vi accadessero degli avvenimenti straordinari che avrebbero fatto la storia dell’arte futura e che persone come Daniel Buren, Jannis Kounellis, Giuseppe Chiari, Vito Acconci, Sol LeWitt, Bill Viola, Dan Graham, Pier Paolo Calzolari e molti altri abitassero per lunghi periodi la città, camminassero per le strade, proponessero i loro lavori alle poche persone che erano attente alla ricchissima realtà storica


deve essere numeroso per il successo economico e la risonanza dell’iniziativa, delle grandi mostre che diventano dei “must” e dei “monstre” e che personalmente ritengo sintomo del gigantismo dei tempi odierni, grandi centri commerciali, grandi mostre antologiche o tematiche, la quantità che vince sulla qualità che invece è stata, è e rimarrà sempre legata a ogni persona singola che guarderà un lavoro singolo di un artista e non a un grande numero di gente anonima. Cosa auguro a Firenze? Forse che riesca esemplarmente a dare sempre più valore e spazio a una dimensione di ricerca e a dedicare coraggiosamente energie e fondi perché questa ricerca non muoia affogata nella vanità delle “grandi mostre”. Auguro curiosità e coraggio, amore per il rischio e per la vera intelligenza. del proprio tempo; la kultura cittadina non si è accorta che l’architettura radicale degli studi Superstudio, Archizoom e Ufo nasceva proprio a Firenze per poi divenire importantissima internazionalmente, presa come era soltanto dalla prosopopea di guardare indietro. E tutto questo tanto a livello di istituzioni pubbliche, che a livello di interesse privato. Il grande pregio di quanto accadeva negli anni settanta/ ottanta era che la cultura non era scissa dalla vita: quello che accadeva nelle gallerie o nell’unico museo di arte contemporanea dell’area toscana era non solo una proposta per un pubblico molto ristretto, ma si allargava soprattutto al quotidiano, un privilegio che permetteva che gli artisti, oltre a eseguire un progetto, in realtà vivessero con tutti noi che proponevamo questi eventi; diventava allora un fatto “familiare”, una ricchezza semplice di conoscenza vera che si allargava alla persona dell’artista. Infatti non c’è separazione tra l’artista e l’opera, soprattutto nelle espressioni di quegli anni come le performance, i video tape, le installazioni, la body art ecc. Ora la mia impressione, formata solo attraverso le notizie e gli inviti che ricevo, perché da anni vivo a Procida e davvero sono coscientemente e volontariamente lontana da questo mondo (del quale mi sono rimaste per grande fortuna della vere amicizie con persone come Daniel Buren con Chantal, Jannis Kounellis con Michelle, Bill Viola con Kira, Maurizio Nannucci con Gabriele, Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Piero Frassinelli e Silvana e pochi altri) è che si sia perso il filo rosso che legava l’arte alla persona, al vero fruitore che deve essere sempre singolo. Ora si allestiscono grandi mostre che per antonomasia sono per un pubblico anonimo perché

Un ritorno al “tu per tu” è importante, permette un rapporto vero con l’artista e quindi una comprensione profonda della sua opera. Non bisogna dimenticare che Firenze è storicamente legata al contemporaneo: quando la città è stata disegnata e arricchita da opere di artisti/architetti come Brunelleschi, Giotto, Cimabue, Botticelli e tutti gli altri che formano ora il vanto della città, questi artisti erano giovani, i “contemporanei” del loro tempo, stimati dai mecenati al punto da affidare a loro la struttura stessa della città e il suo abbellimento per renderla quella che è ora. Perché ora questa attitudine è morta? Il malinteso è riconoscere l’arte valida solo storicamente, dimenticandoci che la storia non solo non è il parametro della bellezza, ma soprattutto che la storia la si costruisce ogni giorno e quindi, tanto per gli artisti visivi che per l’architettura, Firenze deve, come ha fatto nel Rinascimento, non solo tesaurizzare, ma proporre. Senza questa etica non avremmo una città così piena di capolavori di un passato che è stato esemplare. Facciamone un esempio anche per il futuro includendo l’arte del nostro presente. Non fermarsi a questo passato sarebbe il destino ideale di questa città per non cadere nel provincialismo della sola conservazione. Procida, ottobre 2009

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Un rinascimento a Firenze Bill Viola Bill Viola, videoartista newyorkese, ha collaborato dal 1974 al 1977 con la galleria/ studio art/tapes/22 di Maria Gloria Bicocchi. Nel 1977 viene chiamato a esporre alla Trobe Univerisity di Melbourne dalla allora Direttrice artistica Kira Perov con la quale inizia una fruttuosa e ricca collaborazione artistica e personale, tanto che i due si trasferiranno a New York e si sposeranno nel 1980. L’esperienza artistica di Bill Viola lo porta a collaborare con numerose istituzioni internazionali e ad esporre nei musei di tutto il mondo. Nel 1994 produce il videofilm Deserts, accompagnato dall’omonima opera musicale di Edgar Varese, che vengono presentati nel 1999 dall’orchestra filarmonica di Los Angeles condotta da Esa Pekka Salonen. Nel 2005 all’ARoS Aarhus Kunstmuseum in Danimarca espone il suo progetto più ambizioso: “Going Forth By Day”, quinta parte del ciclo di video ad Alta definizione “Fresco”. Nel 2004 Viola inizia una collaborazione con il direttore Peter Sellars e la conduttrice Esa Pekka Salonen per creare una nuova produzione dell’opera di Wagner Tristano e Isotta rappresentata all’opera nazionale di Parigi nell’aprile 2005. Viola ha ricevuto molti premi e riconoscimenti a livello internazionale.

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Si narra che a Firenze, nei primi decenni del Quattrocento, Lorenzo Ghiberti fosse solito condurre una specie di simposio serale, nel suo studio, invitando amici, altri artisti e giovani pensatori radicali per parlare, analizzare e discutere (accompagnati da vino a volontà, naturalmente) la nuova arte della prospettiva. Le novità nella scienza e nella tecnologia di quell’epoca stavano trasformando il mondo e i giovani artisti erano ispirati e tesi ad applicare queste scoperte rivoluzionarie alla pratica dell’arte. Possiamo solo immaginarci questi incontri, ma ora siamo ben consapevoli dei loro risultati. Cinquecentocinquanta anni più tardi, nei primi anni settanta, in una piccola galleria vicino a Palazzo Vecchio, un gruppo di giovani – artisti, scrittori e intellettuali, i conoscenti della nuova cultura – si riunivano ogni mercoledì sera per parlare delle idee più innovative dell’arte. L’intelligenza e l’immaginazione della proprietaria della galleria, Maria Gloria Bicocchi, fu interessata in particolare dalle discussioni sul nuovo medium: il video. Ne nacque un progetto: creare uno spazio dedicato a questa nuova forma d’arte e alle potenzialità che essa rappresentava. Ma Maria Gloria non voleva creare semplicemente un altro atelier per le mode artistiche né una boutique per oggetti morti. Voleva creare uno spazio vivo – un ambiente lavorativo e creativo riempito con presenze attive, un posto dove gli artisti sarebbero stati liberi di esplorare questa nuova tecnologia. Aveva subito capito come, con questi nuovi strumenti elettronici dell’immagine in movimento e del suono, le azioni transitorie e i gesti concettuali della nuova pratica dell’arte avrebbero potuto trovare una forma compatibile e duratura; come il video fosse il linguaggio di una nuova era. Così nacque art/tapes/22. Tutte le rivoluzioni, se durano, partono dal cuore, ed è stato in questa maniera che Maria Gloria aveva visto un nuovo futuro per l’arte. Aveva capito che la rivoluzione tecnologica, che allora si espandeva nel mondo industrializzato, era in essenza una rivoluzione culturale che, attraverso il medium elettronico del video, l’arte si sarebbe potuta liberare dal sistema insulare delle gallerie fondato sulla speculazione di oggetti fisici unici. “Il processo, non il prodotto” fu il mantra del giorno. L’espressione artistica fu resa libera di andare nel mondo, nel nuovo mondo globale del videotape, del monitor, della rete dei media, dell’informazione elettronica e della telecomunicazione, uno spazio dove l’arte e la vita ogni giorno potessero scorrere insieme. A quell’epoca solo una piccola minoranza nel mondo dell’arte aveva riconosciuto queste potenzialità e ancor meno le persone che agivano a Firenze, allora un posto fuori mano per quel che riguardava l’arte contemporanea; Maria Gloria creò una cosa, non solo unica, ma anni avanti rispetto alle altre, più conosciute, istituzioni d’arte in Europa e in America. Fu un momento esaltante, pieno di enormi possibilità e tutti lo sentivano. Oggi, questa stessa onda tecnologica/culturale riconosciuta per prima da quei giovani visionari fiorentini dei primi anni settanta e dalle loro controparti in Europa e negli Stati Uniti ci porta avanti verso l’era digitale e ancora oltre. Arrivato a Firenze nel 1974, fui invitato da Maria Gloria come primo assistente tecnico per gli artisti che venivano a produrre le opere nel suo studio. Non ero mai stato a Firenze prima e quando il taxi dalla stazione mi portò intorno al Duomo verso via Ricasoli, passando per l’Accademia con il Davide di Michelangelo e dritto fino alla porta di art/tapes/22, sentii subito di essere arrivato in un posto speciale. Il mio primo giorno di lavoro fu un presagio della mia vita futura – trascorsi la mattina a esaminare tutta la tecnologia disponibile nello studio e poi, nel pomeriggio, il mio nuovo collega Alberto Pirelli mi condusse alla chiesa di Santa Croce con gli affreschi di Giotto, i rilievi scolpiti in prospettiva da


Donatello, le tombe di Michelangelo e di Galileo. Ero in uno dei più importanti monumenti sacri dell’arte e della scienza. Descrivevo il mio lavoro allo studio art/tapes/22 così: “essere presente alla creazione”. Il video è una forma d’arte tecnologica che si concentra intorno a uno strumento industriale, la videocamera che, come uno strumento musicale, è qualcosa che gli artisti devono imparare a usare o devono trovare dei tecnici esperti come collaboratori. In quanto forme d’arte, film e video sollevano la questione, così familiare con la musica, del ruolo del compositore rispetto a quello del virtuoso, in altre parole la distinzione fra l’idea e la sua realizzazione. Gli artisti arrivavano al nostro studio con le loro idee – alcune molto precise e programmate, come nel caso dell’artista svizzero Urs Lüthi, altre improvvisate, come per l’austriaco Arnulf Rainer – e il mio ruolo era di tradurre ciò che volevano fare con il mezzo video, così che la loro visione originale e autentica fosse preservata. Certo non era un compito facile, ma mi sentivo molto privilegiato nel lavorare con alcuni degli artisti più grandi dell’epoca, nel momento in cui stavano scoprendo per la prima volta una nuova forma d’arte e mentre lavoravano all’atto essenziale di creare opere d’arte. Il video che noi usavamo ad art/tapes/22 non era il video che oggi conosciamo. Riguardando i videotape dell’epoca, si stenta a credere che questa immagine in bianco e nero, così granulosa, a bassa risoluzione fosse all’epoca una tecnologia avanzata! All’inizio, i registratori video erano tutti a bobina aperta, con il nastro che doveva essere infilato a mano, quindi facilmente esposto al danno e alla polvere. Il montaggio si faceva registrando l’immagine su una seconda macchina che doveva girare in sincronia con la prima. Tutte e due le macchine erano avviate a mano, i nastri arrotolati indietro per una quantità di tempo specifica prima del punto di montaggio. Tutto ciò era misurato in pollici e marcato sul nastro con una matita grassa. Il montaggio era un’arte manuale e l’accuratezza del fotogramma solo un ideale, essendo virtualmente impossibile da realizzare con l’attrezzatura disponibile. Le videocamere stesse usavano tubi a raggi catodici e non microchip per registrare un’immagine e di conseguenza erano estremamente sensibili alla luce, e spesso soggette all’image leg dove gli oggetti nell’immagine apparivano macchiati e offuscati quando si muoveva la macchina. I tubi erano anche suscettibili di venire bruciati, una condizione nella quale l’immagine latente di un oggetto luminoso sarebbe rimasta visibile per molto tempo, alcune volte per sempre. Una volta Sandro Chia lasciò la macchina puntata sulla fiamma di una candela mentre andavamo a cena, lasciando l’impronta immortale della sua idea su tutte le immagini registrate dopo con quella macchina, per sempre. Conoscendo tutto ciò oggi, sembra un miracolo che importanti e durature opere d’arte potessero essere prodotte con queste limitazioni e che queste opere continuino a toccare i nostri cuori e le nostre menti. Il miracolo sta nel fatto che questi difetti e ostacoli tecnici potevano essere superati dalla passione dell’artista e da una determinata volontà di seguire la loro visione. All’epoca, non si vedevano limiti – vedevamo nuove possibilità e opportunità – e l’energia vivace, sicura, contagiosa ed entusiasta di Maria Gloria fu il catalizzatore e la forza positiva dietro tutto ciò. Arrivando dall’ambiente protetto di una città universitaria con un solo museo d’arte, rimasi sorpreso e ben impressionato nel vedere che per Maria Gloria e i suoi amici l’arte era qualcosa che non richiedeva schemi artificiali né istituzioni dominanti per esistere. Era presente in tutto, costantemente, effusa in ogni angolo della vita quotidiana, evidente a cena con un bicchiere di

vino come in una lezione formale in galleria. Qui i confini fra la vita professionale e quella privata erano di conseguenza offuscati e annullati. Non fu necessario nessun permesso da nessuna persona o istituzione perché l’arte fiorisse. Anzi, non sembrava passare attimo senza che si vivesse nell’arte. Tutti sembravano avere una conoscenza implicita che l’arte sarebbe cresciuta sempre, come i fiori o l’erbaccia, secondo l’interpretazione dell’ambiente politico-sociale nel quale era radicata. Ho sempre pensato che ci fosse una ragione più profonda per spiegare perché art/tapes/22 fosse nata a Firenze e non altrove. I miei primi – pochi – mesi in città me l’hanno rivelato. Dopo una visita agli Uffizi, sentivo fortemente che i musei erano stati creati per l’arte e non l’arte per i musei, come accadeva per la scena contemporanea che avevo appena lasciato a New York. Inoltre, molte delle opere medievali e rinascimentali che ho visto in quei primi mesi a Firenze non erano neanche nei musei. Erano nella comunità, in luoghi pubblici – cattedrali, chiese, cappelle, corti, monumenti, uffici municipali, piazze e facciate di palazzi. L’atmosfera era satura di idee d’arte e di cultura. Avevo capito presto che qui la storia era veramente parte del presente e che le idee più nuove circolavano in un insieme più grande. Mi ricordo che spesso vedevo una vecchietta per la strada che veniva la mattina a mettere l’acqua fresca o dei fiori sotto un quadro della Madonna in una piccola edicola all’angolo del suo palazzo. Questo ha dato un contesto nuovo alla mia idea di apprezzamento artistico. La mia vita fu per sempre cambiata dalle mie esperienze di Firenze. Se c’è una cosa sola che possa rendere l’effetto di quegli anni incredibili ed esaltanti è la comprensione che l’arte non può essere confinata entro muri, gallerie, musei, collezioni, pagine di libri, aule universitarie o altri spazi limitati. Non può essere sradicata dall’ignoranza né ridotta al silenzio da regimi oppressivi. Al momento di lasciare Firenze sapevo, dall’esperienza e dall’esempio, che l’arte è una forza vivente che circola dentro le persone, viva e in movimento nello stesso modo in cui abitiamo le nostre case o i posti dove lavoriamo e giochiamo. Il video è semplicemente il più recente dei molti sviluppi tecnologici che permettono alle immagini di muoversi più liberamente nel mondo. Gli eventi straordinari che sono successi a Firenze negli anni settanta ad art/tapes/22 sono avvenuti proprio perché una donna straordinaria aveva visto la potenzialità del futuro, così come aveva sentito la presenza del passato crescendo in un posto speciale. So che io, insieme con tutti gli altri che lei ha incontrato, le sarò sempre grato per il modo generoso e ispiratore con cui ha condiviso gli impulsi appassionati del suo cuore. Ottobre 2002 [Traduzione Victoria Primpack] Originariamente pubblicato in art/tapes/22, Edizioni del Cavallino, 2003

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art/tapes/22

Edizioni del Cavallino, 2003. Immagini Gianni Melotti. Archivio storico art/tapes/22, Firenze 75


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Mariotti sulla città Andrea Rauch “Tutti hanno progetti nel cassetto. Quali sono i tuoi? Io non ho progetti nel cassetto, ma nel cassonetto. Mario getta qualcosa nel cassonetto; la camera panoramica sulla dea del puzzo e sfuoca.”

Mario Mariotti Nato a Montespertoli (Firenze) nel 1936. Famoso per alcune grandi performance collettive (Piazza della Palla, Fire nze, Arnò, Il Polittico di San Giovanni...) nel quartiere fiorentino d’Oltrarno. Ha disegnato, per La Nuova Italia, tutte le copertine per le collane Il Castoro e Il Castoro Cinema. I suoi libri più diffusi (Animani, Umani...) gli hanno fruttato il Premio Grafico Fiera di Bologna (1981) per l’infanzia. Tra gli altri premi ricevuti quelli dell’Art Directors Club di New York e del Festival della Pubblicità di Cannes. Muore improvvisamente a Firenze nel 1997.

L’esergo è ripreso dallo storyboard di un progetto di intervista a Mario Mariotti e la dice lunga sulla sua idea di arte, di creatività, di città. La dice lunga sul suo modo di guardare le cose, di intervenire nella realtà ambientale con sottili, a volte ‘violenti’, slittamenti semantici che diventavano opera d’arte o intervento urbano. Il cassonetto in fine via Toscanella, alla confluenza con borgo San Jacopo, non c’è più, o meglio a volte c’è, poi viene tolto, poi riappare. Molte metafore in quel contenitore di rifiuti che arriva e scompare come un miraggio. Ci si legge una città che è incerta del futuro, che non sa gettare l’occhio lontano, incapace quasi di decidere in maniera inambigua del proprio destino. La Madonna del Puzzo, la statuetta mezzobusto votiva di Mario, è comunque sempre là, in quella nicchia dove l’artista l’aveva collocata all’inizio degli anni novanta, ed è anch’essa una metafora, ma di segno opposto. La metafora di un ambiente che sceglie e rifiuta, che occupa una porzione di spazio precisamente inserita in un continuum storico accertato e accertabile e che, di quel continuum vuole ancora essere parte. Senza quel cassonetto o se volete, con un gioco di parole di cui Mario Mariotti era maestro indiscusso, senza “puzza sotto il naso”, rifiutando quindi un’aristocrazia altezzosa e arrogante (ma molto spesso poco più che bottegaia!) e riappropriandosi di quell’aristocrazia intellettuale di popolo e di idee che, nei secoli, era stata la vera griffe della città. Già. La ‘vera griffe’ della città! Ma a cosa si è ridotta la Firenze che anche Mario Mariotti sognava e progettava? “…le persone che hanno bisogno di sentirsi soggetto – rispondeva in tema Mario a una domanda di M. L. Grossi – si trovano benissimo a Firenze, come me. Quelle che hanno bisogno di “funzionare” soffrono molto di emarginazione: Firenze non è una città funzionale alla civiltà che oggi impera, perciò rischia di essere occupata da modi di fare e di pensare estranei, riducendosi a un contenitore di oggetti da museo. La civiltà dominante non può permettersi il lusso di una città intellettualmente aristocratica inutile ai fini produttivi e perciò poco interessante per alcuni ceti politici e bottegai fiorentini. Eppure, ripeto, Firenze sarebbe utile non come città esemplare ma come esempio, come modello di diversità, un’idea di soggetto sempre pronta in un mondo di consumi e di vincitori.” 77


È chiaro quindi come la riflessione artistica e ‘progettuale’ di Mario sia sempre rimasta in bilico tra pensiero storico e proiezione temporale, alla ricerca di un equilibrio che non confinasse l’arte in una specie di cantuccio ideale (un pressoché inutile ‘paese dei balocchi’), ma che la ponesse al centro di una comunità capace di ripensare se stessa in maniera creativa e autonoma. “Il paese dell’arte, problema topologico, è abitato dalla fervida popolazione degli artisti i quali si preoccupano di disegnare incessantemente i confini immaginari che lo distinguono dalle popolazioni delle regioni adiacenti, appartenenti ad altri sistemi, a volte impegnate a difendere ed estendere i confini dei loro territori che tendono a sovrapporsi gli uni con gli altri nella intricata mappa delle separazioni. Io, senza colpa o merito apparente, mi trovo qualche volta vicino ai luoghi dove i vari confini si intersecano fra di loro, in un puntino mobilissimo, per il quale, alterni, transitano distratti e affaccendati i massimi e i minimi sistemi che mi governano e nei quali ogni volta non posso che riconoscermi.”

“Gli uomini, con le donne, sono polittici ambulanti che fanno scorrere la loro vita nel polittico delle città. E anche l’arte è un polittico, che dà forma e qualità al polittico urbano”.

La riflessione succitata risale al 1980 e si colloca all’aprirsi della grande stagione delle performance urbane di Mario, appena dopo il No per il referendum sul divorzio (1974) proiettato sulla cupola di Santa Maria del Fiore (un segno quasi di dileggio provocatorio per chi, in nome di un proprio pensiero integrale, cerca di conculcare le altrui libertà, ma anche, in misura forse maggiore, un segno di riappropriazione totale di uno spazio pubblico, supporto vitale per la comunicazione delle idee. Spazio a disposizione e patrimonio della comunità tutta e non di parte di essa). C’è quindi già qui quell’idea ironica e autoironica dello spazio, ma anche il ripensamento storico, che da piazza della Palla in poi caratterizzerà tutto l’operare di Mario e che troverà in Oltrarno, a cavallo tra le pescaie dell’Arno e piazza Santo Spirito, il suo ideale habitat irrinunciabile e imprescindibile. In fondo tutte le grandi performance di Mario Mariotti nascono da un’idea di spazio, ma anche da un’idea comunitaria forte e avvolgente. Oltrarno non è soltanto vie, palazzi, chiese, pietre e mattoni. Nel Mariottipensiero Oltrarno è ‘luogo dello spirito’ dove, con pregi e difetti, vive e opera una comunità che ha i suoi studenti e i suoi artisti, i suoi bottegai e i suoi servizi, le sue grandezze e le sue miserie. Una comunità che si apre con generosità al mondo (quanti artisti di ogni paese hanno partecipato a quegli eventi?) e che proprio per il suo guardarsi le radici può riuscire a trovare la rotta per il nuovo equilibrio che postulavamo qualche rigo fa. Piazza della Palla (1980) si apriva con l’ovvio doppio senso, molto fiorentino, delle ‘Palle dei Medici’, ma anche con il contrasto postumo con le grida seicentesche che imponevano di non giocare, in piazza, con ‘palle e pallottole’, e poi, in un delirio estivo di colori, cocomero e gelati, si sostanziava nelle proiezioni sulla facciata di Santo Spirito, capolavoro incompiuto di Filippo Brunelleschi. 78

“Gli ultimi Medici sparirono così alla svelta che non fecero in tempo a finire le facciate delle chiese. E i fiorentini, ancora pieni di superbia quanto di miseria, si buttarono con entusiasmo a progettar facciate (esercizio decoroso ed economico a un tempo); non appena Firenze fu eletta a capitale dell’Italia Unita, tirarono fuori dai loro concorsi di facciata i progetti vincenti da far pagare alla Nazione e, svelti svelti, ne riuscirono a tirar su due: Santa Maria del Fiore e Santa Croce. Fortunatamente la capitale passò a Roma e le altre facciate furono risparmiate e il mio progetto di Santo Spirito fu salvo…” Gli artisti della facciata di Santo Spirito, tanti, tutti contenuti dalla silhouette nera che Mario aveva stampato e distribuito (come uno di quei vecchi album che avevano del disegno solo il contorno perché potessimo riempirlo di colore), si sono, in parte, ritrovati poi nei cenci alle finestre di Firenze (1985), grande parabola del fuoco e dell’acqua (“Chi sputa nell’acqua e piscia nel foco, bene da Dio ne avrà sempre poco…”), tante performance in una, guardate dalle finestre della piazza da quei cenci che diventavano arazzo e affresco collettivo. Oppure (ma stiamo colpevolmente tralasciando Arnò (1989), dedicato al ricordo della rivoluzione dell’ottantanove, e Al muro! (1995), con oltre trecento quadri appesi senza soluzione di continuità in un grande muro della Stazione Leopolda…) ritroveremo gli artisti amici di Mario nel grande Polittico di San Giovanni (1991), opera omnia sistemata a pelo d’acqua dai Canottieri d’Arno in onore del Santo Patrono e che, nata da un’idea spaziale ordinatamente razionale, finirà per disporsi nel fiume in maniera disordinata e anarchica. Mariotti, con l’usuale ironia, chiederà scusa: “Dichiaro al cielo, al mondo e al fiume il mio fallimento. Il polittico non si è concluso. Ma io, a onor del vero, ce l’ho messa tutta. E con me tutti quelli che lo volevano. Ma, probabilmente a ragione, si è imposta la forma dello sganasciamento reale su quella ideale di struttura. Il mio peccato, veniale, è immaginare quello che non vuole succedere…” Comunque la grande lezione che Mario Mariotti ci lascia con il polittico è intatta: “Gli uomini, con le donne, sono polittici ambulanti che fanno scorrere la loro vita nel polittico delle città. E anche l’arte è un polittico, che dà forma e qualità al polittico urbano. La sua composizione, per essere armonica e viva, ha bisogno di tutto e di tutti: del grande e del piccolo, del vecchio e del nuovo. Ha bisogno di essere conservata ma anzitutto, come ogni polittico, immaginata.” Parole che sono quasi un lascito e che riassumono l’idea di città di Mario Mariotti, ma che ci piace pensare possano anche essere profezia. Il tentativo generoso dell’arte per dare sostanza al passato e più ancora per dare speranza al futuro. Per non lasciare la città “… sempre in bilico tra l’essere a misura d’uomo e il diventare a misura di nano.”


No

Mario Mariotti, 1974 79


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Firenze

Mario Mariotti, 1985 81


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Piazza della Palla

Mario Mariotti, 1980: opera di Giuseppe Chiari 83


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Polittico di San Giovanni Mario Mariotti, 1991 85


Un Atlante fiorentino Angelika Stepken a colloquio

con Erik Göngrich e Ines Schaber Villa Romana Casa degli Artisti di Firenze è un luogo di produzione d’arte, di riflessione e di scambio. Fondata nel 1905 dal pittore tedesco Max Klinger, attraverso mostre manifestazioni e workshop, Villa Romana promuove il dialogo fra cultura tedesca e pubblico italiano e favorisce la comunicazione tra le culture dell’area mediterranea e l’Europa. Il premio Villa Romana − una borsa di studio e la possibilità di risiedere e lavorare per alcuni mesi nella Casa degli Artisti − viene assegnato annualmente a quattro artisti che vivono in Germania. La cooperazione con la realtà regionale (musei, Accademia d’arte, Università e vari partner in altri campi artistici) consente lo scambio e il collegamento tra competenze, differenze culturali. Angelika Stepken dirige Villa Romana dal novembre 2006. Erik Göngrich si colloca con i metodi di un ricercatore sul campo nelle vecchie e nuove metropoli di questo mondo. Le sue ricerche lo hanno portato tanto nei prototipi delle moderne città pianificate Brasilia e Chandigarh, quanto nelle più o meno irregolari “selvagge crescite” degli informali insediamenti di Istanbul e delle nuove “megacittà” della Cina e dell’America. Nelle sue esplorazioni di situazioni cittadine raccoglie forme e crea morfologie. Fotografa, conduce interviste e disegna progetti, edifici e carte. Il risultato sono nuovi insegnamenti di forme, che condensa nelle mostre, nei libri d’artista e nelle sculture. Dal confronto fra le sue ricerche sparse sul globo terrestre si crea un’opera di carte delle “glocalizzazioni” dei rispettivi rapporti mescolati di forme globali e locali e usi delle architetture cittadine. 86

Ines Schaber e un’artista dedita alle arti figurative che torna sempre a Berlino dai suoi amici e suoi libri. Ha studiato l’arte figurativa a Berlino, teoria dell’architettura a Princeton e Visual Culture presso il Goldsmith College di Londra. I lavori artistici di Ines Schaber girano intorno alla questione della visibilità. Quello che le interessa è il retro di quello che è (reso) visibile; nei suoi lavori esamina lo status delle cose che rimangono nascoste oppure vanno rese invisibili. Al momento lavora sulla latente attività di quadri fotografici, che a volte libera dagli archivi, e a volte reinventa.


Erik, l’anno scorso ti ho chiesto se eri interessato a soggiornare alla Villa come artista ospite. Ci affascinava il tuo modo di lavorare con lo spazio urbano, l’architettura e i monumenti pubblici e speravamo che il tuo incontro con Firenze potesse avere un riscontro qui, alla Villa. Al che ci hai proposto di venire insieme a Ines per rinnovare la vostra collaborazione. Qual è stato il motivo che vi ha spinto a trascorrere due mesi qui, “in clausura”? Ines: Per noi è stata un’occasione magnifica poter passare di nuovo un periodo insieme nello stesso posto, dopo tanti anni. A metà degli anni novanta, a Berlino, abbiamo lavorato a lungo a numerosi progetti comuni, una collaborazione che in seguito si è interrotta poiché eravamo impegnati altrove. Tuttavia sentivamo la necessità di creare di nuovo insieme. Per gli artisti esistono pochissimi spazi che lo consentono, senza essere costretti a sviluppare o sperimentare un progetto specifico. L’opportunità ci è stata offerta da voi. I nostri metodi creativi si sono differenziati nel corso degli ultimi anni e, di conseguenza, anche il modo in cui ci muoviamo nella città. Cosa intendi quando dici che un diverso metodo creativo produce movimenti diversi? Ines: Il mio ingresso a Firenze è stata l’opera di Aby Warburg. Per me significava cercare di “percorrere il suo Atlante” e le immagini che vi aveva impiegato. L’Atlante consiste di una serie di tavole che Warburg ha ordinato per temi che rispecchiano una ricerca di espressioni particolari o di gesti culturali che egli ha individuato non solo in determinate epoche, ma anche nel corso del tempo. Per esempio, Warburg ha evidenziato come certi gesti dell’antichità si fossero poi ripetuti nel Rinascimento. L’Atlante potrebbe essere definito come il tentativo di leggere e analizzare gesti culturali attraverso le immagini. Visitare i suoi “punti di riferimento” o i luoghi in cui questa forma di riflessione si è sviluppata, per me è stato molto interessante, ma ha anche comportato la scelta di una strada diversa. Nel mio caso, l’Atlante sarebbe diventato

“l’originale” e le opere d’arte i “punti di riferimento”, o i documenti. Io avrei percorso una strada del tutto differente. Warburg ha abitato qui tra il 1898 e il 1902 e tanto la sua ricerca sul Rinascimento quanto la concezione di Mnemosyne sono state profondamente plasmate dal vivere a Firenze. A Firenze rimangono tracce del suo soggiorno e delle sue ricerche? Ines: Credo che, quanto alle sue ricerche sul Rinascimento, qui non vi sia niente di importante. Ed evidentemente anche le riflessioni su musei, chiese e palazzi, su cui ha lavorato, sono di poca pregnanza. Ma ho incontrato persone qui per cui Warburg è fondamentale ed è stato molto interessante.

Tener vivo il retaggio di Warburg, a mio avviso, costituirebbe una ridefinizione radicale, se non addirittura l’annientamento della disciplina della storia dell’arte. Idea divertente nella Firenze del XXI secolo

Cosa potrebbe significare per Firenze mantenere vivo il retaggio di Warburg? Ines: Warburg era interessato soprattutto alla psiche dell’uomo rinascimentale. Per lui significava non solo studiare gli artisti e le opere d’arte, ma anche indagare il loro rapporto con le condizioni di vita economiche e private, e coi committenti. Questo emerge chiaramente in testi come il famoso saggio su Sassetti, che descrive non solo il Ghirlandaio, ma si interroga anche su quale fosse il ruolo di Sassetti – il più illustre banchiere dei Medici, di cui Warburg studiò il sepolcro – in quel processo. Con Warburg la storia si arricchisce di un ulteriore metodo di osservazione e spesso le opere d’arte diventano sia documento di un’epoca, sia il capolavoro di una personalità. Quello a me mancava nella descrizione generale della storia. Ma anche Warburg stesso si è preso gioco di quelli che aveva soprannominato i “superuomini in vacanza pasquale” – turisti istruiti con un entusiasmo acritico per l’arte. Tener vivo il retaggio di Warburg, a mio avviso, costituirebbe una ridefinizione radicale, se non addirittura l’annientamento della disciplina della storia dell’arte. Idea divertente nella Firenze del XXI secolo. 87


Erik, cosa ti aspettavi da questo soggiorno a Firenze? Erik: Il motivo principale per cui sono venuto qui è perché negli ultimi venti anni ho sempre sostenuto: Firenze è troppa storia e la cosa mi annienta, perciò non posso proprio andarci. Quindi volevo scoprire come la presenza ingombrante della storia si potesse coniugare con una produzione artistica contemporanea. Il problema, fino a oggi, si è posto per gli architetti e gli artisti all’interno della città. Avevo voglia di lasciarmi coinvolgere concretamente da una città in cui alcune famiglie ricche si erano manifestate nell’iconografia artistica e avevano cercato di scrivere la propria storia in chiese, spazi urbani e palazzi. A questo punto si allaccia un quesito: come è stata assimilata e interpretata negli ultimi secoli questa autoaffermazione? La distruzione durante la guerra dei dintorni del Ponte Vecchio ha condotto a un nuovo dibattito sul rapporto con la città?

... volevo scoprire come la presenza ingombrante della storia si potesse coniugare con una produzione artistica contemporanea

Be’, non è stato ricostruito tutto in scala 1:1. La riedificazione dei quartieri intorno all’Arno è omogenea, ma non storicizzata... Erik: Io direi invece che la riedificazione è assai storicizzata. La discussione complessiva sulla ricostruzione e la decisione di riedificare i quartieri nella zona del Ponte Vecchio “così com’erano” spinse Giovanni Michelucci a dimettersi dall’incarico di preside della Facoltà di Architettura, tanto era deluso e frustrato dallo sviluppo urbanistico conservativo del 1948. In parte, questo dibattito mi ha ricordato quello degli anni novanta sulla cosiddetta “ricostruzione critica” di Berlino che si è bloccata al classicismo storicizzato delle facciate e al dettame urbanistico dell’isolato chiuso. Come ti sei mosso attraverso la città? Erik: La ricerca per me comporta una serie di diverse attività: indagini in archivi fotografici e non solo, e allo stesso tempo muoversi e lasciarsi trascinare attraverso lo spazio urbano. Talvolta si tratta di movimenti casuali che seguo e accompagno a disegni che mettono in contatto le diverse manifestazioni con lo spazio pubblico. Il movimento attraverso la città e i segni su carta simultanei ad esso sviluppano quasi auto88

maticamente una guida reale e fittizia della città. Lo spazio urbano per me è contemporaneamente anche spazio espositivo – un luogo in cui sono presenti sia “ready-made” casuali e istantanei, sia sculture classiche. C’è un esempio interessante di ciò a Firenze: i primi due monumenti equestri della città vennero eretti da Cosimo I in piazza della Signoria e da suo figlio Ferdinando I in piazza della Santissima Annunziata. La statua del padre fu costruita affinché il figlio potesse piazzare la sua da vivo. I due cavalieri possono quindi essere letti come l’inizio di una manifestazione scultorea del potere borghese nello spazio pubblico. Questa autorappresentazione della borghesia nell’arte prosegue nelle immagini e nei monumenti di cappelle, nelle decorazioni delle chiese, ma anche nella scienza e nella ricerca – come nello studiolo privato di Francesco I a Palazzo Vecchio – e in illustrazioni provvisorie o messinscene cittadine come, per esempio, la marcia nuziale di Cristina di Lorena. Per la processione da Porta al Prato fino a Palazzo Vecchio vennero erette immagini alte come edifici e percorsi speciali. Uno dei momenti clou della festa nuziale fu l’inondazione del cortile interno di Palazzo Pitti per la rappresentazione di una battaglia navale. La conoscenza di queste messinscene transitorie teatrali, bidimensionali e sacrali, tridimensionali e urbane, oggi carica le linee di collegamento della città di un significato supplementare,

Lo spazio urbano per me è contemporaneamente anche spazio espositivo − un luogo in cui sono presenti sia “ready-made” casuali e istantanei, sia sculture classiche permette di stabilire collegamenti contenutistici che non sono così evidenti. Il motivo dell’allontanamento per Michelucci diventa essenziale. I punti di forza della sua architettura sono i percorsi che si susseguono dentro i suoi edifici, con o intorno a essi. Per esempio, nella Chiesa dell’Autostrada del Sole, uno dei percorsi doveva appunto condurre fino alla croce sul tetto della chiesa. Questa chiesa meravigliosa oggi sorge in un’impenetrabile terra di nessuno, difficilmente si trova la via d’accesso... Erik: ...come sempre, posso solo suggerire di avvicinarsi alla


chiesa in bicicletta, così è impossibile mancare la strada! La chiesa era stata pensata come un monumento per gli operai morti durante la costruzione dell’autostrada. In questa città, così densa, tutto assurge a monumento e si nasconde, come la residenza privata e lo studio dell’allievo di Michelucci, Leonardo Savioli. In qualsiasi altra città, quella casa sarebbe un oggetto da mettere in mostra, una casa-studio o un museo.

In questa città, così densa, tutto assurge a monumento e si nasconde

Avete visto il nuovo quartiere di Novoli dove è stato realizzato quell’orribile Palazzo di Giustizia al cui concorso Michelucci si rifiutò di partecipare? Erik: Sì. Andrea Aleardi della Fondazione Michelucci mi ha raccontato che l’architetto inizialmente aveva partecipato, ma dicendo sempre che il Palazzo di Giustizia dovesse restare nella città e non essere trapiantato nell’ex stabilimento Fiat. Per il bene della giurisprudenza, i cittadini dovrebbero raccogliersi in un edificio che fa parte della città e non in periferia. Poi aveva ritirato la propria partecipazione e il progetto dell’allievo Leonardo Ricci, che è stato realizzato a partire dagli anni ottanta, aveva condotto alla rottura di un’amicizia durata quarant’anni. Penso che la radicalità di Michelucci si rifletta nella Fondazione che aveva creato già otto anni prima della morte con uno scopo specifico: lo sviluppo di zone periferiche urbane, l’inserimento di gruppi sociali marginali e il loro scambio con la vita cittadina, come per esempio la controversia sulle carceri. Alla Fondazione Michelucci abbiamo trovato innanzitutto una pianta della città con suggerimenti sull’architettura del XX secolo a Firenze. L’ultima esposizione di Archizoom a Firenze è stata un’importazione da Losanna, l’archivio ha lasciato la città. L’archivio di Superstudio è conservato e arricchito privatamente in circa otto metri quadrati. Ciononostante la città non vuole più avere a che fare con la storia del XX secolo. Ines: Questa è una questione che riguarda da vicino la città di Firenze. Quale storia conservare, e quale no? A Firenze esiste un’attenzione quasi assoluta nei confronti del Rinascimento. Apparentemente, l’opera degli architetti degli anni sessanta e settanta viene considerata meno importante.

Erik: Oggi ci chiediamo perché la città si occupi così poco della sua storia durante gli anni settanta. Ma anche nella nostra percezione del Rinascimento secondo me si pone un interrogativo: quali immagini non furono create allora o non esistono più? Quali immagini, testimonianze e documenti non vennero mai realizzati e oggi ci mancano?

Quale storia conservare, e quale no? A Firenze esiste un’attenzione quasi assoluta nei confronti del Rinascimento. Apparentemente, l’opera degli architetti degli anni sessanta e settanta viene considerata meno importante

Ines: Quello che oggi possiamo vedere e studiare qui a Firenze sono gli albori di una cultura borghese e del suo potere. Cosa significa la rappresentazione, cosa sono l’azione e la negoziazione nella politica? Come recepiamo e trasmettiamo la storia oggi? Qui a Firenze ci stupiscono certe forme di rappresentazione, come pure certi metodi di comunicazione, ma questo avviene solo limitatamente. Piuttosto, a me interesserebbe molto di più rendere visibili certi spazi di negoziazione. Come emergono le cose dall’archivio e come vengono mostrate?

Erik: Per questo sarebbe necessario un rapporto attivo con gli archivi. Forse la soluzione non sta solo nella ricerca, ma anche nell’attivazione e nella trasmissione della “storia” – o meglio, il modo in cui la storia viene rappresentata.

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Designed walks. Studiolo and highway church Erik Gรถngrich, Firenze 2009 91


SalottoLive Claudio Ripoli e Paola Iafelice Claudio Ripoli. 37 anni, laureato a Firenze presso la facoltà di Scienze Politiche. Una piccola esperienza presso una radio locale del suo paese d’origine lo proietta verso il mondo musicale fin da giovanissimo. Coltiva la sua passione per il giornalismo durante l’università dando vita, insieme a un gruppo di amici, a "due righe", giornale in cui professori e studenti si confrontano sulla realtà politica di quel periodo. Oggi coltiva la sua passione per la musica attraverso la produzione di eventi musicali. Paola Iafelice. Architetto, nata in Puglia, vive a Firenze dal 1993 dove si laurea. Si avvicina al mondo musicale da quando firma un festival che per più di 10 anni la lega alla sua città di origine nel periodo estivo. Dal 2007 è ideatrice e organizzatrice, insieme a Claudio Ripoli, del progetto "SalottoLive". Nel 2009 produce un disco compilation che ripropone una selezione di artisti esibitisi proprio a SalottoLive.

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Il funzionamento di un’idea, di un progetto è determinato dal luogo e dalle condizioni in cui questa idea, questo progetto devono tramutarsi in realtà effettuale. Il nostro luogo è Firenze, le condizioni difficili. Almeno in apparenza. SalottoLive ha come concept un live unplugged nel salotto di una casa, accompagnato, prima e dopo, da un momento di aggregazione intorno al cibo e al vino. La struttura basilare di questo ‘format’ trova le radici nei concerti dei salotti tra Settecento e Ottocento in Europa e negli house concert di oggi negli Stati Uniti. Il salotto come luogo di esplicazione e assorbimento della cultura musicale da una parte e il piccolo ambiente che accoglie la sinergia tra artisti e pubblico dall’altra. Per assistere a un concerto basta registrarsi all’evento sul sito www.salottolive.com e aspettare: città e data sono noti a tutti, ma l’indirizzo della casa viene comunicato via sms qualche ora prima dell’inizio. Poi parte la musica e tutti in silenzio ad ascoltare. Il progetto è nato nel 2007 a Firenze. Ed è proprio questa città che, mettendo a disposizione decine di abitazioni, in centro e sui colli, e ospitando questo insolito modo di vivere la musica e lo stare insieme, è riuscita non solo a smentire se stessa e i luoghi comuni che la descrivono chiusa e autoreferenziale, ma anche a dimostrare che esiste davvero una ‘terza via’ alla fruizione della musica. Agli stadi, ai palazzetti, ai club, si aggiungono le case. Firenze dunque diviene il trampolino di lancio della versione italiana degli house concert. Le dimore fiorentine, spesso ville medicee o case di design di proprietà di architetti, musicisti, artisti, si trasformano in piccoli auditori. Agli eventi esclusivi, mondani, SalottoLive si contrappone con l’evento inclusivo e democratico: i biglietti sono all’incanto sul web e chiunque può acquistarli. Il numero


degli spettatori viene determinato dallo spazio fisico a disposizione. Dal febbraio di quell’anno diamo il via a un “tour” che toccherà città come Milano, Roma, Verona ma soprattutto Firenze. I media, locali e nazionali, si interessano al fenomeno e dedicano a SL ampio spazio. Nonostante il clamore, SL non è mai stato intercettato da nessuno dei protagonisti che generano contenuti nelle manifestazioni culturali fiorentine. Collaborazioni importanti nell’ambito musicale nazionale, ma di fatto alieni in casa propria. Cosa diversa invece accade sul lato, come direbbero gli informatici, ‘client’. Il fiorentino che mette a disposizione l’alloggio, il c.d. presenter, e il semplice spettatore, sono partecipi e molto attivi. Seguono con attenzione la programmazione, propongono gli artisti, si offrono come ospitanti, con entusiasmo. Durante l’evento, il pubblico si sente parte di un’unità, legato da un comune gusto musicale e, in qualche modo, fortunato (riuscire a prenotarsi è molto difficile), e questo pare spingere verso una maggiore facilità di contatto. I rapporti prima e dopo il concerto sono semplici. Nasce spontanea la propensione all’incontro e allo scambio. I social network diventano il collante di questa comunità che giorno dopo giorno, concerto dopo concerto, cresce. La popolarità di SalottoLive cresce in breve tempo e le potenzialità della rete danno un importante contributo. Non è un caso che dopo qualche mese dalla nascita abbia trovato alcuni “competitor” tra le agenzie di eventi. Consapevoli che chiunque potesse realizzare un live in casa, rafforziamo il marchio SL e ci concentriamo sulla qualità, l’unica strada che conosciamo per tutelare il progetto e conservarne una propria identità. Gli artisti ci sostengono fin dall’inizio: da Gianmaria Testa a Simone Cristicchi, da Niccolò Fabi a Syria, da Paola Turci a Riccardo Sinigallia, molti sono gli artisti interessati a sperimentare un nuovo modo di fare musica live. Tanti hanno visto nel successo di SL l’effetto della crisi economica o il cambiamento della società, il bisogno di tornare a una dimensione più intima o semplicemente un nuovo trend. Noi continuiamo a vederlo essenzialmente come un contenitore di musica che, se impreziosito, può continuare ancora a sorprenderci. SalottoLive è spesso considerato l’espressione di un fenomeno più grande, il termometro di nuove tendenze sociali e di consumo in Italia. “Studiando le nuove tendenze dei consumatori in termini di consumo e socializzazione” ci scrive un’esperta di marketing “ho notato come la casa diventi sempre più centro focale della vita di ognuno, tanto da alimentare il tentativo di riprodurre l’esperienza del “fuori casa” in casa. Questo fenomeno si sta rinforzando alla luce della crisi economica che stiamo vivendo e molte “industry” hanno rinforzato la loro parte di business dedicato all’in home”.

Insomma sembra che tutto questo, rispondendo forse a un’esigenza razionale (maggior controllo del budget ma senza rinunciare al piacere della condivisione e socializzazione) stia portando allo sviluppo di un trend in cui la casa diventa una “hyperhome” aprendo nuovi spazi a quanto, normalmente, accadeva all’esterno. A SalottoLive l’artista è il protagonista assoluto, ma lo è anche un po’ il pubblico. L’artista sceglie di esibirsi a SalottoLive principalmente per l’alta attenzione che il pubblico offre, condizione che migliora anche la sua esibizione. Poi perché ha bisogno di uno scambio di idee, di consigli, di tastare il polso del pubblico e capire cosa vuole realmente. Il rapporto diretto con il pubblico può riservare, in un contesto come questo, delle belle sorprese insomma. Per il pubblico, invece, è come avere un rapporto preferenziale con l’artista. Spesso per arrivare a un cantante, il fan si trova davanti uffici stampa, manager, produttori e quant’altro. Il cambiamento di rapporto fra artista e pubblico oggi è inevitabile e SL sembra un segnale positivo. SalottoLive si è rivelato, per noi, un interessante mezzo per mettere a fuoco tutto quello che gira attorno alla musica, dagli spazi disponibili per i concerti alle caratteristiche dell’Industria Musicale in generale (grazie alla produzione del disco compilation). In questi anni abbiamo potuto avvicinarci al mondo musicale con una sensibilità e una curiosità diversa. Per quanto riguarda gli spazi, SL non può essere considerata ovviamente un’alternativa agli stadi, vista la differenza di numeri (pubblico e profitto economico), ma un’alternativa forse agli spazi medio-piccoli. Questi ultimi, infatti, sono veramente pochi in Italia e Firenze non è da meno, anzi. È una città che, nonostante le innumerevoli iniziative culturali, offre pochissimi spazi dove ascoltare musica dal vivo in maniera costante. È un problema che ha due cause principali: la povertà del mercato e la scarsa curiosità del pubblico. Il discorso è molto ampio e ci viene da pensare che tutto sia da ricondurre alla poca attenzione e rispetto della musica come cultura. SL non può considerarsi un modello, visto che è un progetto senza fini di lucro − la musica deve avere un mercato per sopravvivere − ma senz’altro rappresenta un interessante spunto di riflessione. SL è la riprova che il piccolo può avere un suo valore se si concentrano in esso le energie di tutti: gli operatori culturali, il pubblico e gli artisti. La produzione di un disco compilation di SL nel 2009 ci ha permesso anche di conoscere più da vicino l’industria musicale e comprenderne meglio il meccanismo. Il mercato discografico fino ad oggi è stato un mercato oligopolistico, gestito da cinque grandi industrie (meglio note come Majors). L’avvento di internet e dell’era digitale ha portato a uno sconvolgimento dell’intero sistema, potenzialmente in grado di cambiare i ruoli e la struttura dei soggetti all’interno del mercato. Si parla di crisi discografica. Il mercato è quello che determina il fermento musicale? Forse sì. Il fermento musicale apre nuovi spazi alla musica live, ma anche questi a loro volta contribuiscono al fermento musicale. Così si ritorna alla musica come valore culturale che spesso viene sottovalutato. Siamo in una fase che lentamente si sta evolvendo, forse troppo lentamente. Tutti, nel nostro piccolo, diamo un contributo a questa evoluzione. Anche noi cercheremo di non dimenticarlo.

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SalottoLive

Marco Parente a SalottoLive, Firenze / Foto Angelo Trani 95


Decenni rock. Caos sonoro a Firenze Bruno Casini Bruno Casini da molti anni si occupa di comunicazione e promozione culturale nel settore dello spettacolo e di studi sulle culture giovanili in Italia. Attivo sin dal 1980 nell’ambiente teatrale e musicale fiorentino e italiano, vanta numerosissime collaborazioni con riviste e quotidiani (Westuff, di cui è fondatore, Emporio Armani Magazine, Il Manifesto), stazioni radiofoniche (Controradio e Novaradio), case editrici (Arcana, Baldini & Castoldi, Tosca, Toscana Musiche, Zona). Ha svolto e svolge il ruolo di ufficio stampa per manifestazioni musicali e festival teatrali (Best Sound di Milano, Intercity Festival, dedicato al teatro internazionale, Grey Cat in Maremma, Musica e Suoni dal Mondo a Carrara, Music Pool, Biennali dei Giovani Artisti dell’Europa Mediterranea di Valencia e Lisbona, Associazione “Toscana Musiche”). È stato direttore artistico di Independent Music Meeting, appuntamento dedicato alla discografia italiana e straniera indipendente e ha fatto parte della direzione artistica del festival “Fabbrica Europa”, appuntamento annuale presso la Stazione Leopolda di Firenze. Attualmente è direttore artistico di “On the Road Festival” di Pelago dedicato ai musicisti di strada, fa parte della giuria del Premio Ciampi e ne cura la comunicazione, svolge un seminario sulla comunicazione nello spettacolo presso lo spazio Officina Giovani a Prato ed è socio della società Eventi di Firenze dove è responsabile della comunicazione delle attività musicali e teatrali.

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Radiografare, scoprire, ascoltare, sentire, intuire, raccontare tutto quel ‘marasma’ rock che è passato da Firenze e dalla Toscana, un grande palcoscenico, un grande momento spettacolare che ancora oggi ci regala progetti, band, tribù sonore, etichette indipendenti, spazi, atmosfere, concentramenti, contaminazioni, documentazioni, memorie. Le culture rock stanno diventando storia, oggetto di studio e di analisi, si producono tesi universitarie, si sfornano progetti editoriali, escono libri che raccontano gesti eroici di quelle generazioni di decenni passati. Tutto questo, tutte quelle culture giovanili che hanno affollato passato, presente e futuro, tutto questo ‘situazionismo’ musicale, tutte queste ‘barricate’ musicali dove le posso consultare, dove le posso approfondire, dove le posso rintracciare? Non ci sono ‘archivi’, non esistono ‘centri di documentazione’, non ci sono ‘biblioteche’ specializzate. Per trovare materiali e memorabilia rock devi bussare alla porta dei collezionisti, dei singoli privati e molto spesso trovi difficoltà e chiusure nevrasteniche. Parto dalla ‘rivoluzione’ rock dello Space Electronic a Firenze. È il 27 febbraio ’69 quando viene varato questo ex garage trasformato in uno spazio ultracontemporaneo, con concessioni alla pop art, alle architetture radicali, alle filosofie sulla comunicazione di Marshall McLuhan. Lo Space Electronic è un contenitore dove la musica, il bombardamento di immagini, la psichedelia, i colori, le forme hanno un impatto sul pubblico forte e dirompente. Per Firenze è un grande segnale di cambiamento nel costume giovanile e soprattutto nel


concetto di ‘intrattenimento’; si balla con i gruppi dal vivo che propongono progressive e heavy rock, ma anche con brani di artisti come Rolling Stones, Deep Purple, Free, Led Zeppelin, James Brown. È luogo di concerti internazionali: per la prima volta atterrano a Firenze artisti mitici e amati come Van Der Graaf Generator, Atomic Rooster, Canned Heat, Jimmy Smith e Audience. Arriva il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, arriva una generazione molto ‘flower power’; si dice che sia il posto preferito da ‘freaks o hippies’. È l’anno del grande raduno americano di Woodstock. Qui nasce una generazione di musicisti e gruppi interessanti che influenzerà i decenni a venire – ricordiamo i Doc Thompson con Tony Sidney, le Madri Superiori, gli Eccentrics, i Now, i Sensations Fix di Franco Falsini, i Time Out di Paolo Tofani (proveniente dai Califfi e verso gli Area di Demetrio Stratos), Flavio Cucchi, gli Zero con Jerry Gherardi – insomma una generazione attenta a tutto quel rinnovamento musicale che era in atto in Italia e nel mondo. Dallo Space Electronic alla protesta, alla piazza, alla contestazione. A Firenze nascono formazioni attente al mondo sociale, al mondo politico; le università fiorentine vengono occupate, graffiti ovunque, assemblee chilometriche, controcultura, creatività ovunque, ‘il personale è politico’, riflessioni, autocoscienza maschile, si parte verso i festival del Proletariato Giovanile, si legge Re Nudo. A Firenze nascono esperienze musicali come il Collettivo Victor Jara e il Collettivo Cavallo Pazzo; si suona, si parla, si discute, si va alle manifestazioni, si parte per lunghi viaggi in Oriente. Il Banana Moon diventa un posto fondamentale nella notte. Qui nasce il rock fiorentino che poi esploderà negli anni ottanta. Ecco allora i Cafè Caracas con Raf al basso, Ghigo Renzulli alla chitarra e Renzo Franchi alla batteria. Qui nasce il teatro omosex, qui nasce la performance, le mostre di fotocopie, le fanzine, il free jazz, il cinema off, arriva il punk, salutiamo gli anni settanta. Gli anni ottanta arrivano al galoppo, esplodono in tutte le loro forme artistiche, a Firenze la stampa definisce il fenomeno musicale, così creativo e così mediatico, ‘Rinascimento Rock’. E infatti nei primi anni di questo blasonato decennio Firenze è un palcoscenico eruttivo, nascono le etichette indipendenti toscane che fanno gola un po’ a tutti, persino all’estero, nasce la prima mostra mercato del mondo discografico indipendente, si chiama ‘Independent Music Meeting’ e alla prima edizione fanno capolino due ‘label’ inglesi, da me mitizzate e amate, ovvero la Mute Records e la Rough Trade.

Arriva l’onda fiorentina delle band, sicuramente Litfiba, Diaframma e Neon quelle più conosciute ma mi voglio soffermare su alcuni nomi interessanti forse più nascosti. Come non citare i Pankow, sicuramente il gruppo che ha inventato una elettronica ‘tecnica’ e rigorosa, uno di quei prodotti ottimi per i mercati internazionali. E ancora i Minox di Pistoia, adorati e coccolati da Steven Brown dei californiani Tuxedomoon, che univano romanticismo, poesia e sperimentazione. I Rinf, una proposta sonora che ci riporta più a New York che a Firenze: cantavano e cantano in tedesco e la loro avventura continua tra ritmi spezzati e atmosfere post jazz. I Moda di Andrea Chimenti sono la risposta fiorentina agli Spandau Ballet e ai Duran Duran, cantano in italiano, melodie e ritmiche intelligenti. Nel 1984 a Firenze nasce il Rock Contest, organizzato, inventato e supportato dalla emittente Controradio, una di quelle ‘radio libere’ fondamentali per il sound e colonna sonora di questa città. Il Rock Contest esiste ancora oggi e si è trasformato in un appuntamento formidabile per tutte quelle band che suonano nell’underground italiano. Gli Avida di Maurizio Dami, Stefano Fuochi e Daniele Trambusti si presentano al pubblico fiorentino con il loro ‘dance cabaret’ fatto di canzoncine elettroniche ritmate, orecchiabili e spregiudicate. Lo scenario fiorentino è vasto e malleabile, dai Lightshine agli Hypodance, da Massimo Altomare a Sandro Tamburi, dagli Scudocrow ai Karnak, dai Limbo ai No Fun, caleidoscopico, colorato, imprevedibile, spiazzante. Il clubbing fiorentino diventa nomadismo notturno imitato e mitizzato, Firenze diventa zona di frontiera per qualunque tipo di ‘intrattenimento contemporaneo’, si sperimenta, ci sono club che chiudono tardissimo e locali che aprono alle prime luci dell’alba. Sigle come T.O.K.Y.O Prod. diventano passerelle ‘glamour’ per fashion people, fashion victim, fashion gay, fashion trendy, si balla con gli spot pubblicitari e con le meravigliose canzoni di Nina Simone, si balla con qualunque cosa, lo slogan è divertimento totale che molto spesso finisce intorno a mezzogiorno. È il decennio dell’eccesso, dell’apparire, delle strategie oblique, del farsi fotografare, è il decennio dell’accessorio totale. Da questo decennio i Litfiba di Piero Pelù ne escono a testa alta: gli anni ottanta finiscono e loro si piazzano nelle classifiche di vendita con il loro Pirata, l’album che li consacra al grande mercato e li fa entrare nei complicati e contaminati anni novanta. Grandi capovolgimenti in questo decennio, un melting pot di stili e modi; sono gli anni della world music, gli anni in cui i dialetti incontrano le culture rock, le barricate della musica si 97


riappropriano della parola e nascono le ‘posse italiane’, il rap, le culture hip hop, il jazz trova tantissimi nuovi percorsi, il blues è alle stelle. A Firenze, dopo la grande abbuffata indipendente degli anni ottanta, si riflette ma si va avanti, molte etichette non ci sono più, molte comunque hanno resistito. Voglio ricordare l’incontro tra la colonia fiorentina di Gianni Maroccolo (uscito dai Litfiba) e Francesco Magnelli con la colonia emiliana dei CCCP di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni e la nascita di un meraviglioso e miliare album come Epica Etica Etnica Pathos dei CCCP che subito dopo diventeranno CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti). Secondo me la rivoluzione sonora messa in atto da Ferretti e compagni passa da Firenze e dalla Toscana; nascono i ‘taccuini’ del Consorzio Produttori Indipendenti, ovvero tanti dischi di realtà informali come Massimo Altomare, Andrea Chimenti, Marco Parente, Santo Niente, Mira Spinosa, Beau Geste e tanti altri. In Toscana Gianni Maroccolo diventa un punto di riferimento importante per tutto quel mondo ‘sommerso’ della musica, diventa una infaticabile ‘factory sonora’ produttiva ed eclettica. La Toscana è terra fertile per appuntamenti e festival, da Pelago parte la carovana dei ‘busker’, i musicisti della strada, a Pistoia il ‘Pistoia Blues’, la ‘Musica dei Popoli’ a Firenze, il ‘Metarock’ a Pisa, il ‘Grey Cat Festival’ in Maremma, insomma per tutti i gusti, in estate e inverno, turismo culturale, turismo giovanile che sceglie questa magnifica regione per passare giorni felici e spensierati. È il decennio del ‘jazz man’ Stefano Bollani, un ‘enfant prodige’ della musica, fa mille cose e ne pensa il doppio, proprio in questo periodo collabora con Enrico Rava, sempre attento al nuovo e alle contaminazioni. A Firenze arrivano a metà degli anni novanta Les Negresses Vertes e Mano Negra, è l’esplosione della ‘pachtanka’, il mischiare folk, popular music e rock, ballo e divertimento, passione e ritmo. Ecco la Bandabardò, una ‘comunità sonora’ che sul palco ci regala canzoni d’autore, energia e festa; i loro concerti si trasformano subito in luoghi di riflessione e di ‘svago intelligente’. La Bandabardò decide fin dall’inizio di partire dall’underground, non vuole legami con le multinazio98


nali ed è la sua forza, in pochi anni fanno centinaia di concerti e vendono migliaia di dischi. Al Rock Contest ’93 vincono gli Strange Fruit, un quartetto rock che ha in testa un riferimento essenziale, Jimi Hendrix, questa influenza genera un sound ruvido, elettrico, potente. Massimiliamo Chiamenti, intorno al ’93, forma gli Emme, una band che esce dagli schemi tradizionali, mixano reading letterari e musica live, poesia e rock, letteratura e sonorità: a me ricordano alcune esperienze californiane legate alla ‘beat generation’. Firenze ha un ritmo culturale incredibile: la Flog al Poggetto diventa il club più affollato della città anche per i suoi prezzi popolarissimi, i centri sociali aprono in diversi quartieri, ricordiamo il CPA nel quartiere Gavinana, dove viene allestito un grande spazio per i concerti e dove passeranno gruppi internazionali come Fugazi e At The Drive In, il Tenax, tempio mitico continua la sua attività live con artisti come Air, Tricky, Zero Seven, Sigur Ross e strizza l’occhio a una nuova figura, il deejay come live set. Volevano trasformare Firenze in una coloratissima Bombay, ecco i geniali e misteriosi Govinda, tutti fiorentini, elettronica e ritmica agganciata a sonorità e melodie indiane: i loro concerti sono teatrali e misteriosi, usano maschere e immagini di divinità religiose, su di loro circolavano notizie su chi fossero realmente e da dove venissero, oggi appaiono soltanto in tantissime compilazioni internazionali edite in paesi lontanissimi. Dal Mugello ecco il ciclone Funk Off, diretti sapientemente da Dario Cecchini, una marchin’ band formata da più di quaranta musicisti, funk allo stato puro, riferimenti a James Brown e Maceo Parker, li puoi trovare spesso per le strade a Perugia durante Umbria Jazz; dal vivo sono sicuramente un grande momento spettacolare, gestualità e musica, una miscela esplosiva. Riccardo Tesi, forse più conosciuto all’estero che in Italia, è un musicista che sicuramente rappresenta la ‘world music’ più sofisticata della Toscana, tanti dischi, colonne sonore, concerti, collaborazioni, una passione e un rigore formidabile nella sua musica; attualmente è uscito un suo album dedicato a Caterina Bueno con cui ha collaborato in passato. Gli anni 2000 arrivano velocissimi, il primo decennio è al termine, è già finito. Cosa ci rimane di questo spazio, cosa ricordiamo e soprattutto cosa succederà nei prossimi anni? È il trionfo della comunicazione veloce, è il trionfo del prodotto musicale che esce e dopo qualche giorno diventa ‘archeologia’, non fai in tempo a vedere un concerto che ce ne sono altri trecento in arrivo, è il bombardamento, locali o spazi che durano mesi e poi scompaiono, un po’ come i raduni di musica

tecno, i ‘rave’: arrivano, consumano e spariscono nel nulla lasciando tracce indelebili. Nel 2004 esce il primo album solista di Gianni Maroccolo A.C.A.U. la nostra meraviglia, un lavoro eccezionale, con ospiti come Franco Battiato, Piero Pelù, Carmen Consoli, Ginevra Di Marco, Federico Fiumani, Andrea Chimenti e tanti altri. Tra le cose interessanti in questa città appare un duo, si chiamano Supernova, sono due dj musicisti, Giacomo Godi ed Emiliano Nencioni, lavorano essenzialmente su una elettronica che mette insieme durezza e melodia. Ogni tanto volano in Giappone dove sono conosciuti e hanno molti fan. Nel 2000 esplode Alexander Robotnick come deejay, è diventato uno dei più importanti esponenti della ‘electro’, viaggia continuamente, un giorno ad Amsterdam, un giorno a Seattle, tra aeroporti e jetlag, club e dance hall, nottate cortissime, albe incombenti e fughe verso gli alberghi. Dopo anni di dance music, incursioni etniche, inventore di elettronica facile, Giovanotti Mondani Meccanici, ecco l’uomo Robotnick, una sorpresa e soprattutto, in questa ultima versione, una forza extraterreste. Italian Secret Service è la risposta di Dario Cecchini e Leonardo Pieri a una ‘lounge music’ di qualità, jazz sofisticato, ritmi notturni, atmosfere estive. Il loro nuovo album Not The Same è uscito la scorsa primavera ed è consigliabile a chi deve viaggiare molto. Una delle voci più belle e più fascinose che sento è quella di Andrea Chimenti, da tanti anni si muove con sicurezza e genialità. Un percorso da solista fatto di perle sonore, la sua è sicuramente una ricerca autentica tra parola e musica, teatro e sperimentazione. Il benvenuto al nuovo millennio atterra a Firenze il 5 gennaio 2000 al Palasport con un concerto, ottomila persone assistono alle fanfare macedoni di Goran Bregovic e al Consorzio Suonatori Indipendenti di Giovanni Lindo Ferretti. Due dimensioni musicali che mettono a fuoco tutto quello che si muove nella ‘musica del mondo’, contaminazioni, influenze, atmosfere, invasioni, avvicinamenti sempre più stretti tra Oriente e Occidente. Eccolo il duemila, essere in tutto il mondo e percepire cosa succede in tutto il mondo, le musiche corrono veloci, si evolvono veloci, si trasformano veloci. Firenze sveglia come sempre. Firenze Sogna. Firenze ha troppo sognato! Firenze... on the road again!

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Il teatro Conversazione con Manu Lalli regista e autore già attiva nel teatro di prosa da moltissimi anni, con la Compagnia Venti Lucenti si è contraddistinta per allestimenti di opere classiche con compagnie di grandi proporzioni. Con queste compagnie, ricorrendo a un linguaggio fortemente simbolico ed evocativo, senza mai perdere di vista l’impegno civile e la dimensione sociale, ha rivisitato, in particolare, grandi figure della mitologia classica partecipando attivamente al Festival del Dramma Antico di Siracusa e collaborando con questi allestimenti a progetti di scambio culturale in Europa. Come naturale evoluzione del suo percorso si è avvicinata alla lirica realizzando come regista molte produzioni di opere di repertorio. Negli ultimi anni ha collaborato con l’Accademia di Santa Cecilia nell’allestimento di performance con giovani cantanti e orchestra e con la Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino realizzando progetti di promozione dell’opera lirica. Dirige Stazione Teatro Urbano.

senza il limite Manu Lalli

Manu Lalli, di mestiere fa la regista. Ma non c’è da pensare che la sua vita sia quella di correre di teatro in teatro per mezzo mondo. Infatti, se non mi sbaglio, molto lavoro si svolge qui a Firenze e in spazi non convenzionalmente deputati agli spettacoli teatrali. Perché? Perché il teatro e tutta l’attività culturale della quale mi occupo è a mio parere ancora e fondamentalmente politica e la polis è il luogo teatrale per eccellenza. La vocazione alla piazza, alla presenza sulla scena di attori variegati, bambini, ragazzi, panettieri e avvocati, parrucchieri ed elettricisti, la miscela emotiva di professionisti del teatro e imbianchini, danzatori, musici, saltimbanchi, carrozzieri, poeti, è il succo, l’essenza principale del lavoro che faccio e che facciamo con la Venti Lucenti. Il teatro è strumento, mezzo, il fine è la diffusione di buone pratiche di convivenza civile, analisi emotiva della realtà. In che modo si lavora con attori non professionisti, quali il panettiere o l’avvocato? Il filo rosso che ha legato e che lega le diverse attività di Venti

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Lucenti, siano esse spettacoli teatrali o animazioni di piazza, è da individuarsi nell’attenzione rivolta alla promozione di una cultura di pace e di tolleranza, basata sul riconoscimento delle diversità, ma anche delle grandi potenzialità di espressione e di comunicazione di tutti. In questo senso il teatro ci è apparso come lo strumento più adatto, con il quale riuscire a stimolare, attraverso percorsi non convenzionali, le infinite capacità di attori non professionisti. Sono nati così i “laboratori” nei quali il numero delle persone coinvolte non è mai un limite, ma una risorsa, sia perché permette a chiunque di calcare le scene senza temere di venire “scoperto”, sia perché trasmette agli “attori” di qualsiasi età, il senso di un lavoro epico, sempre teso alla rappresentazione simbolica dei grandi archetipi dell’immaginario collettivo (appunto), delle paure e delle speranze di tutti. Il regista che produce insieme alle persone questo tipo di teatro si comporta un po’, anche se con la necessaria e quanto mai utilissima umiltà, come il poeta tragico dell’antica Grecia, investito di un compito ideologicamente tutt’altro che neutro, quello di reinterpretare i racconti tradizionali o le storie, alla luce degli emergenti quesiti e dei valori della cultura del nostro tempo, rivisita il mito o la storia allo scopo di ridefinire il rapporto tra gli uomini e la vita, tra i cittadini e l’autorità dello stato, tra il corpo e la mente, tra interesse del singolo e bene collettivo. È così importante lavorare sulle emozioni? Perché? Produrre Teatro insieme alle persone, a queste persone, cioè bambini, ragazzi, persone di altri Paesi, uomini e donne che di teatro il più delle volte non hanno mai sentito parlare, è operazione difficile e complessa poiché deve tenere conto di moltissimi fattori, che nel teatro ufficiale sono quasi del tutto ignorati. Non bisogna fare una cattiva imitazione del teatro ufficiale. Le sottili e talora nascoste mediazioni attraverso cui si realizza questo tipo di linguaggio artistico sono e devono rimanere principalmente una sorta di “medicina”, efficace per curare le malattie sociali, per favorire cioè l’integrazione degli svantaggiati e che appaiono in difficoltà nella vita di tutti i giorni, per superare la paura della diversità propria e altrui, per lavorare sulla crescita personale di ogni individuo che produce il lavoro, che deve sentirsi sempre durante le prove e in scena assolutamente capace e indispensabile. Un bambino, come un adulto non professionista, prima di imparare una parte a memoria, sia essa recitata, mimata o danzata, deve prima capire le reali motivazioni che lo spingono a farlo, operare una crescita personale indispensabile per la sua vita, imparare a entrare in empatia con gli altri, capire qual è il processo che dal primo incontro porta a uno spettacolo finito, sapere il perché lo sta facendo e quali sono le cose che quello spettacolo particolare vuole comunicare al pubblico. Un essere umano è perfettamente capace a qualsiasi età di lavorare su questi presupposti e di investire tutte le sue competenze nella produzione di un lavoro, che non deve essere mai subito, ma sempre e soprattutto “sentito”. Come ogni educatore sa bene, è l’adulto, l’insegnante, il regista ad assumersi in pieno questa responsabilità di coinvolgimento totale, di maieuta e di

portatore di valori che quasi sempre vanno ben al di là dello spettacolo e della rappresentazione, poiché il terreno nel quale si giocano questi valori è uno dei più delicati e fragili dell’uomo: le sue emozioni. Concretamente, come organizzate il vostro lavoro? Abbiamo alcuni laboratori, aperti tutto l’anno a chiunque voglia partecipare. Ogni mese, mese e mezzo, usciamo e in una piazza fiorentina, o in un altro luogo per noi significativo, mettiamo in scena una breve performance su un tema che ha un forte legame con l’attualità, ma spesso rivisto alla luce del mito o della nostra tradizione letteraria. Per esempio mettere in scena un adattamento della Peste di Albert Camus nella discarica di Case Passerini ha senz’altro rappresentato un momento forte e importante per comunicare, mettere in comune, l’angoscia sul futuro del pianeta. Quindi, sempre on the road… No. Lo stesso lavoro lo si può fare anche dentro a un teatro. Anche prestigioso come quello del Maggio Musicale Fiorentino. L’importante è il percorso. Vede, l’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Firenze e la Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino offrono da alcuni anni, attraverso la Venti Lucenti, l’opportunità ai bambini delle scuole fiorentine di mettere in scena un’opera del cartellone del Maggio (quest’anno Il Ratto dal serraglio di Mozart e nel passato Wagner, Bizet ecc.) e io trovo bellissimo fare promozione culturale sul territorio fiorentino utilizzando l’Opera Lirica e lavorare per creare collaborazioni, reti, connessioni. Istituzioni, bambini, cantati, musicisti, macchinisti… L’anno scorso, durante la realizzazione de Il Crepuscolo degli Dei, i 250 bambini coinvolti hanno travolto le loro famiglie, insegnanti, amici in un’esperienza wagneriana collettiva che ha mobilitato migliaia di cittadini che Wagner non sapevano neppure chi fosse... molti di loro a dire la verità non erano mai neppure entrati in un teatro… È questo il fine, la condivisione della cultura: “invitare gli altri al significato”. E funziona? Guarda, cito due testi di autori ben più autorevoli di me che difendono la necessità del ricorso alla cultura e alla bellezza per coltivare la speranza. George Steiner con Una certa idea d’Europa e Romain Gary, che in Educazione europea fa dire a un suo personaggio che sta vivendo il dramma del secondo conflitto mondiale: “Non esiste un’arte disperata. La disperazione è mancanza di talento”.

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La città Pensiero Lorenzo Brusci La città pensiero La città riflessiva e compositiva, la città simbolica integralmente disponibile e dinamica, reversibile e inclusiva REAGISCE alla città che abbiamo e ai suoi tentativi di resistenza. Stato ideale Esprimere con forza di linguaggio la città illimitata, aperta, interstorica e integralmente neo/postmateriale, fatta di pensiero, della sua natura simbolica e dinamica. Il paesaggio del pensiero, che da essere virtuale manifesti la propria piena possibilità, in un positivo coordinarsi di umanità coestese, pervase e pervasive, indifese eppur possenti, progettanti in coro, inauguranti il passaggio verso le architetture nuove, architetture simboliche il cui centro fenomenologico sia la libertà dalla forma e dalla memoria materiali, dai loro conflitti e dalla pura e celebrativa rappresentazione dei loro conflitti: l’architettura temporale e dinamica del rapporto fra ogni essere illimite e il proprio limite geo-temporale; la nuova corporeità e la sua passione interstrutturale, informazionale, interidentitaria.

Il modello di bene spaziale e oggettivo a cui ispirarsi è il bene estetico, pubblicamente condiviso, un bene-cosa inclusivo abbracciato dall’etica naturale della fruizione intellettuale, intertemporale nella propria unità non-materiale infinitamente riproducibile: strappando l’arte alla parentesi del rifugio - bene e porzione del potere – restituendola alla sua piena ecologia: alludere alla terra promessa, allo spazio dinamico, all’essere mutevole e fragile, alla sua fantastica, necessaria, continua espandibilità. Lo spazio possibile rinasce tra le fitte trame solidali del tempo della cura, è un’architettura riflessiva che rispecchia, si plasma nella presenza e non tradisce la passione per la vita. ARCHITETTURA TEMPORALE. Tracce disponibili, infosovrapposizioni, piena accessibilità e reversibilità di ogni stato.

Lorenzo Brusci, compositore e sound designer, dopo aver fondato Timet e il Giardino Sonoro ha inaugurato Sound and Experience Design con base a Cracovia e a Berlino, lavorando nella direzione di un network di professionisti accomunati dall’idea di ripensare l’habitat umano attraverso forme di interaction design ambientale, composizioni di suoni e ricerche acustiche site specific. Dal 2009 è partner e direttore artistico di Architettura Sonora www. architetturasonora.com, con cui sviluppa moduli e concetti sonori applicabili a diversa scala e con diversa funzione: dal noise masking urbano all’interior sound design.

Mutazione, mutuazione, composizione e drammaturgia collettiva del vivente. Condivisione, permutabilità: ricercata, celebrata, eroticamente multicentrica, sacrale motore del vivente. Passione espansione conferma alternanza uguaglianza restituzione Passione. Sacrificare l’idea unica di materia, la sua logica resistente: perché capace di distruggere la profondità del tempo di determinare l’ossessiva saturazione del presente e dei suoi potenti nel presente.

Tracce Dov’è la città metastorica, il modello del tempo ideale, totalmente presente? La sua materia è fluida. Il suo darsi nella forma del continuo, comunitario contrappunto espressivo è orizzonte: ogni stato, ogni morte, ogni vita, permanenti. La città metastorica non sottrae, non può dimenticare, non ha spazi limitati da distribuire, chiunque è spazio, ovunque è il proprio spazio di espansione.

La città metastorica è la rete delle storie articolanti storie. Tutto è in una qualche forma simbolica. Morphing materiale del continuum proiettivo della mente. In quanto trattenente, la città ideale Restituisce, rilascia i fenomeni, li rende interrogabili, abitabili, condivisibili, trasfigurabili eppure sempre riaccessibili. Associare, riassociare, cantare assieme, vivere, morire e ancora rivivere. La città ideale sa essere rituale, spostarsi per il rito e riconfigurarsi nella persona continuamente nuova. Farsi silenzio e canto meccanico, talmente armonici che nessun posto è la negazione di un solo presente. La struttura delle costruzioni è narrativa. Ecco la città pensiero, la città ideale. Canta, canta ancora, più forte, avvolto dalla città secondaria. Divido l’idea in una città primaria che è il corpo di corpi, la sua memoria, le loro memorie e l’avvilupparsi degli infiniti piani memoria. Vi è poi una città secondaria, la vivifica ragione strumentale per le possibilità delle infinite città primarie, quindi le regole per le alternanze, il ciclo delle uguaglianze, la loro urbanizzazione.

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Progetto Necessario Progetto: come potrei vivere dentro queste infinite internità, senza l’interestensione e l’interrogazione della città secondaria? La Città Neomateriale o città pensiero è senso strade alberi facciate pavimento pareti soffitti luce suono, pensiero immanente, la neomateria, Pensiero: ecco la tecnopersona, finalmente non dissimulata, coraggiosa e responsabile, frutto dell’espressione “io corpo di corpi, mente di menti”.

Gioco, regola e solitudine. Struttura e percorsi logici. Arriverai nei tuoi corpi e sarai il piacere del dipinto nella sua luce. Alimentami e sarò un giocatore eterno.

L’attenzione è lo stato immanente della neomateria e l’immortalità è la relazione prioritaria nella città ideale, l’intreccio fra città primaria e secondaria. Ascolto in continuo movimento. Centro di continuità compositiva è la mia rappresentazione. Attenzione distrazione, attenzione distrazione. Relazione. L’attenzione come composizione è il primo ponte fra i molti. Portare attenzione/cogliere intenzione per e fuori dei miei me. Muovo cognitivamente un centro, didattico e analitico, fin quando lo sforzo ha tensione vitale per sostenersi: il reale è manifestamente critico e resistente nell’incidentalità. Dolore come coincidenza locale di volontà divergenti. Il dolore è l’interruzione della proiezione, della sua costruzione. Una ragione contro. La fiorente materialità dell’unico luogo ne è la causa. Fermare la morte. Fermare la coincidenza competitiva dei molti. La città ideale è il piano lirico e sperimentale dove rendere reversibile lo scontro fra esseri, fra materia resistente e corpo viaggiante. Ecco il senso rituale e l’autorevolezza della caduta, della distruzione materiale. Esprimono il carattere del superamento inevitabile. Lo scontro, la distonia, sono la rottura del processo di attenzione, assolutizzando la percezione del sé, l’auto-narrazione ossessiva. Modo narrazione e ascolto. Il monumento alla molteplicità. Quel giorno, come altri analoghi del resto, è trascorso nella frenesia della mobilità. Ero intimamente legato al confronto e alla sua forza. Perché. Perché un incontro diventi confronto, e una nuova passione, deve esprimersi nel movimento, nell’essere capace di arrivare dove tu sei. E lì sarò attentamente sensibile. Se mi colpirai morirò. Se mi racconterai che puoi colpirmi saprò che la stanza non ha mai avuto limiti se non le nostre reciproche menti. Tutto questo mi ricorda un film.

La presenza identitaria, coincidente e incidente di quell’unica mia persona può non essere determinata dalla forza contraria che contrasta o agevola il suo pensiero. Filante verso, filante oltre. Se quando tu sarai io fossi altro e così tu fossi ancora altrove e il tempo non esemplificasse che la coincidenza pericolosa, mortale, del sostare?

Movimento sapere, ponte, attenzione, composizione. Movimento pericolo, distacco, negazione. L’architettura materiale forza la coincindeza, è stato, è potere del luogo, nel luogo. La temporalità comune è potere, è un costrutto colpevole della propria immutabile località. Sono quella cosa pesante pensante che sa di non poter resistere alle logiche spaziali e temporali di una comunità in fuga da se stessa: la biocomunità perpetra la distruzione in forma di invasione materiale della materialità. L’architettura è il suo strumento formale e categorico. Movimento e vitalità reagiscono ad Architettura e potenza. Architettura della consapevolezza: trattenere/rilasciare; proteggere, distanziare/restituire al proprio dinamismo, in potenza relativa. L’ATTENZIONE, il primo gesto verso la propria rivoluzione nei molti. L’architettura simbolica e il suo strumento temporalmente e sensorialmente immersivo sono la proiezione dell’architettura primaria nella vastità secondaria, l’architettura nuova, il suo centro neomateriale, essa stessa pensiero e materia pensante: il mio sistema mente in proiezione e in essere incontra i sistemi mente, assolutamente-tutti-contemporanei. Inclusivo come la conoscenza, tutto il sistema ideale ed estensivo si moltiplica, masse di memoria e di conoscenza si relativizzano e si ricostruiscono nel piacere, per un incontro, milioni d’incontri, cori muscolari, di riso, gioia, vuoto e storicità insondabili. Multicoincidente come un giudizio di bellezza che muove dal centro e al centro ritorna, senza dispersione o deperimento alcuno del valore. L’attenzione è il movimento stesso privo di violenza, piena conferma, attuazione e prassi del passo simbolico, dalla città primaria alla secondaria e ritorno, ecco l’ordine del progetto. Città concentriche, biunivoco movimento. Questo siamo noi, tutti, incautamente discendenti, ascendenti, continuamente progetto e superamento, regressione, risintesi. Relazione, gruppo nel tempo è il progetto, metaluogo e il dinamismo stesso dello stato pensiero.

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La passione del progetto condiziona la comunità e la sua propria comprensione, la sua virtù e la sua apertura, quindi la propria violenza, selezione e radice di negazione. Dalla strada, all’ospedale, dal tribunale alla fabbrica, al bar. Nessun luogo deve essere una forma riduttiva del vivente. Come l’ospedale non è il luogo del dolore. Per uno spazio senza rischio, senza attacco. La sfida della contemporaneità consapevole. Innanzitutto sfibriamo il corpo implacabile.

Dobbiamo equipaggiarci di tute atto-respingenti. Neppure precipitare da un grattacielo in avaria dovrebbe ucciderci. Possibile che l’urto mi uccida? Possibile che il fuoco mi bruci? Ferirmi non dovrebbe ferirmi. Questa è l’unica architettura veteromateriale ancora plausibile, la protezione integrale dell’archiettura primaria, del corpo di corpi.

La sintesi necessaria, un’urbanità liberante. La negazione, la competizione, sono strade interrotte. Dobbiamo generare ripetizione e variazione infinite, evanescenti ed emozionanti, per immediata storica sapienza. Proliferazione di materia di materia di materia, analoga, semi analoga, parzialmente, integralmente sostituibile. Risonanze interne, esterne, interne, stanze e spazi, relativi

Le molte strade, i weekend di code accampamenti nervosi, mimiche killer, insofferenza, rabbia, autostrade ridotte, non ammettiamo che il movimento si interrompa: disagio, menti nel disagio, quelle dottrine stravaganti della corruzione per cui siamo tutti nel caos quindi siamo caos contro incontro scontro non è questa la via in espansione.

Canto, adesso sono certo che tu mi stai aspettando. Ti incamminasti, eri un termine vecchio, e mi accoccolai accanto a te. architettura sonora / giardino sonoro / architettura temporale / cura, attenzione, in un oceano di stati fluidi. Comunicare l’essenza della presenza pubblica: cura, attenzione, rispetto, attesa. No one can be left behind. Visioni e potenza. L’assieme è in divenire. Entusiasmo del futuro. Didattica del futuro. Ho in mente di realizzare parchi sonori lineari che traccino il percorso degli aerei in atterraggio e in decollo. Accadrà a firenze, nelle vicinanze dell’aeroporto di Peretola.

Acustica Visionaria Applicata, il fronte delle braccia allargate in forma di suono, che denutrisca la paura e porti l’eccesso alla propria piena infinita evidenza: un infinito cinema sonoro delle città ideali. Una reazione che non distrugga l’azione, ma la ristrutturi. Lanciandola nei suoi futuri. Questo è il principio fenomenologico dello urban noise masking: associare, espandere, virtualizzare il presente: suono articolato tendente musica vs caos mediatico e meccanico cittadino. Tensione, gruppo, società, dimensione, terrore, sostituzione, identità deboli, identità forti. Solidarietà. Condizione. La città oggi esemplifica strutturalmente la riduzione del tempo e dei luoghi alla ruota materiale delle funzioni. Il superamento del corpo limite nel luogo tecnico, logico, non può accadere attraverso una percezione riduttiva del modo, del suo tempo. La via cognitiva, conoscitiva, potenziata alla virtù - ibrido uomo-mente-protesi di conoscenza/calcolo e previsione intensificati/liberati. Ma questo uomo va condizionato. La natura umana come la conosciamo è solo sostituzione di corpi con corpi. Potente azione di superamento per omidicio. Se questa è la visione metafisica che ci fonda, la violenza guiderà la condizione. Se condizioniamo l’umanità sarà la sintesi a guidare il nuovo stato. Architettura temporale, architettura simbolica. La materia regredisce a medium. Incapace di condizionare il concetto di ricchezza, di stato, di potere, di volontà. Tutto è come adesso, ovunque è come ovunque. Ecco l’ecologia affabilmente prossima: solo l’infinito simbolico garantisce infiniti stati di soddisfazione. E una protezione integrale della vita. Perché è una irrelevanza materica, la natura, che invece è il concetto della genesi vitale e il suo linguaggio.

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Architettonicamente, sociologicamente, fisiologicamente: un corpo non dovrà affermare se stesso negando la presenza di un qualunque altro. La città non è un luogo, è la tecnologia dei luoghi primari e secondari resi possibili dalle strutture e inter-strutture narrative, in continuo movimento e ristrutturazione. Questa è la guida per la nuova materia urbana: pensiero, pensiero progettante nella sua sociorelazione. PROLIFERAZIONE? NO. CONCENTRAZIONE iperMATERIALE. Pensiero. Città Pensiero. La concentrazione e l’essenzialità della riproduzione narrativa richiedono la fine del concetto di deperimento e di inquinamento ad esso coessenziale.

L’usura è deludente. Non possiamo morire. Niente deve morire. È deformante la nostra mente, il pensiero stesso della morte deve pretendersi colore, niente più. Dopo tutti questi anni di ricomprensione e revisione della storia. Anni di cinema, e di confusione logica, fra vita e morte, fra reale e virtuale, fra visione locale e visione globale, fra essere la percezione e ritrasmetterla, adesso è tempo per una produzione sapiente della cosa sostanziale, profondamente utile, quantitativamente controllata, profondamente viva, nell’arco temporale delle vite millenarie presenti.

Violenza e sintesi, scontro e rinascita, natura e tecnologia, metafora e funzioni. Ricordo una storia. La storia. Essa stessa raccoglie la finitezza come una figlia, eppure è una ragione che trascende ogni contenuto: narrazione, la forma della conoscenza. La sua divisione, la sua integrazione naturale. Spostamenti verso.

Ora guarda, guardo attraverso le immagini che guardano e portano valanghe di sguardi, tutto come un fare di pose e bandiere, quelle che piacciono a chi guarda per la prima volta. La festa e la passione. Superba attenzione del corteo, un’avvio filante. Entusiasmante. Questo nutrirsi fra menti. Mai sottraendo entusiasmo alla parola, alla sua relazione. Alla comprensione per generazione. La città è quindi la grande macchina delle storie. La più importante unità di luogo da inventare su base simbolica. E il tempo per l’ascolto integrale nella sorda città è la vittoria che ci concede l’erotismo, il nostro pieno erotismo dell’esserci, proprio qui, ora. SORPRESA, COMPRENSIONE, SPOSTAMENTO, IMMERSIVITA’, ATTENZIONE, PRESENZA, SENSORIALMENTE ESPOSTI, ATTRAVERSATI DALLA CONOSCENZA, MOMENTUM, ARTE. Le arti simboliche. La loro mondialità contemplativa e generativa. Naturalizzazione dello stato simbolico, condiviso generativo.

Riposando sentivamo,

correndo scoprivamo inter agire è, determina la propria responsabilità. So di essere un centro.

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Gioco. Tensione naturale. Limite. Illimite. Richiedere intelligenza distribuita nelle cose, esse totalmente dotate di anima, innesto d’anima, a supporto del superamento, esso come stato. Tecno-Animismo per l’inevitabile superamento del corpo locale e della sua violenza relativa. Chicco d’uva poetico. Chicco d’uva immagine fiorente, si posa nell’azione tecnica, il gioco nel quadro dipinto per il suo ammirato osservatore, la forza e la sua resistenza, la sua eterna influenza precede e illumina. La vita morente, l’acutezza potenziale, l’arma per uccidere, la tortura auspicata: hanno già segnato la storia. Potessimo illuminare della fiducia, che futuro accresce e informa, giovani forze sorprendenti relazioni portano.

Chi ti può riconoscere? Quella volta ti sentisti presente, manifesto, solidale, eri nella forma della famiglia solidale, tu ragazzo giovane, sentisti la tua natura estesa, l’avvenimento, il distacco, la pressione, il pericolo, l’identità. Animale impaurito. Animale stanco. Animale pronto. L’identità s’informa attraverso 2 caratteri bio-spaziali: 1-la protezione dell’individuo e la mobilità delle sue infinite divisioni simboliche; 2-l’unità o compimento d’individuo nella sua coerenza spaziale e la sua conferma, la sua proiettabilità nel tempo. La comprensione per ulteriori spazio-temporali, ripete la versione della conoscenza come ricorrenza, saturazione, traslazione, rivoluzione.

L’architettura simbolica è ipotesi di coincidenza dei 2 caratteri spaziali, mobilità/incolumità e località/identità. La piena coincidenza dell’architettura primaria e secondaria. Monadi cantanti e recitanti. Esse stesse proprio pubblico e infinito altro. Videogioco, autogioco. Pornografia. Attenzione, siamo fatti della nostra assoluta impossibilità di vederci. Quindi nessun altro più dell’altro è coessenziale. Il sistema della conferma amorosa e la sua potenza genetica è violentemente competitivo. L’amore è un sistema di geopotere. Sto mettendo in discussione che l’uomo biologico possa sopportare la contemporanea realtà, i suoi numeri, il suo dolore, la sua passione vitale.

Solo l’infinito simbolico garantisce infiniti stati di soddisfazione. E una protezione integrale della vita. Eppure il suo movimento è assolutamente.

Sto mettendo in discussione che la natura dell’uomo biologico possa sopportare tutta la contemporanea incidenza, la passione vitale implicata da una materia umana in continuo movimento simbolico. Nel dolore cosa siamo, Animali centrali, assoluti. Nessuna ragione è salva di fronte al dolore.

Ordine e polizia del luogo.

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Mortali. A imitazione della propria cecità, la parziale limitata memoria della propria immagine genera istoriofobie e un assordante io simulacro ossessivamente presente: la spasmodica ricostruzione del sé, popolata di ampi esosoggetti – divi – eppur oggetti di dimenticanza, consacrazione e uccisione, lungo l’asse della memoria erotica e biologica. La risposta della città simbolica: sovraesposizione della propria muticentrica allegoria, senza dissoluzione alcuna, interdefinita dal distacco guardante/guardato eppur sé. Trasfiguriamo la città in fluida coscienza: informazione illimite e composizione coreografica di ogni puntamento, movimento, spostamento, smarrimento, ritrovamento: autoerotismo e genesi, stato poetico, la memoria radicata nella struttura del sé per il suo superamento: ancora cinema. ERMAFRODITISMO SIMBOLICO: il cinema e le arti tutte potrebbero autogenerarsi all’infinito. Località compiuta. Diffuso nella totalità sensoriale dello spazio. lo spazio pubblico ha reso consapevoli dell’infinito dimensionarsi sensibile e dell’inevitabile pericolo corporeo. È pertanto un dovere morale l’illusione dei luoghi. Dove non sono sono per illusione, imparo per illusione.

Città simbolica. La continuità simbolica. La località metaforica. Sorprendentemente mi raffigurai la pura esperienza della sollecitazione alla comprensione di uno stato. Dal nulla al tutto. La caratterizzazione di un ambiente. La sua flessibilità. La sua puntualità. Le architetture multisensoriali sono la rappresentazione dello stato simbolico continuo e la loro didattica, allenamento, allenamento al superamento. MATERIALITA’, Competizione, ATTENZIONE, sostituzione, SOTTRAZIONE per moltiplicazione dell’unico corpo. …this hybridization is already happening, indirect actioning, online banking, infogaming, infosexuality, video gaming, multiple web searching -keeping updated in real time, intelligent data retrieval… these are examples, clearly reductive, they repeat the same old material values and the same human social structures; but these states allow us to foresee believable scenarios: [11/29/09 4:35:40 PM] functions can be aestehtized, more than we think [11/29/09 4:35:46 PM] aesthetized, hybridizing Symbolic domanis with the Real [11/29/09 4:37:11 PM] the idea of time that the aesthetic perception introduces is not the one we are publicly used to, the one that the official community - the limited space war community - is used to deal with. SPAZIO LIMITATO. CORPOREITÀ in PERICOLO. Le funzioni sopravivenziali, la città oggi è la sublimazione della competizione vitale. È l’avvenire implicato dallo stato del dopo seconda guerra mondiale. L’assenza di innocenza è la sua radice logica. I corpi ancora colpevoli chiedono salvezza ai propri figli, eletti e irredimibili come i padri sopravvissuti.

if time is sharing our mentalscape needs help. We are repeating the same dialectical structure inside different typological systems. Why?

Il corpo esteso degli uomini pone valori, su quei valori è necessario fondare una prassi di forma e consapevolezza quantitativa che la mente solo biologica e il suo derivato sociale non può raggiungere. Mente umana: PARZIALE, LOCALE, CONFLITTUALE, FORMATA ALLA SOPRAVVIVENZA DEL CORPO GENETICO. CONTINUA SU > www.firenzefastforward.it/libri/art/3/

Immagni di Michel Ferra e Pietro Bologna

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L’area archeologica del quartiere di San Lorenzo. Guida agli scavi Alessandro Savorelli Personaggi: La Guida turistica, turisti americani, l’Ambulante di San Lorenzo, il barman (che non parla) Guida (ai turisti): Credo che siate stanchi di vedere Michelangelo e Leonardo: oggi perciò vi mostrerò qualcosa di speciale, un itinerario alternativo, poco noto agli stessi fiorentini: L’AREA ARCHEOLOGICA DEL QUARTIERE DI SAN LORENZO. Turisti: wow! Ambulante: (si intromette) O icche la gli racconta? qui d’archeologico c’è solo i’ssudicio... Guida: Scusi, lei faccia l’ambulante e io faccio il mio mestiere: mi lasci lavorare... Ambulante: Vada, vada libero, come non detto! Guida: Aperti di recente, gli scavi archeologici di San Lorenzo costituiscono una delle mete più affascinanti di Firenze, benché ingiustamente trascurate a petto dei più celebrati itinerari artistici medievali e rinascimentali. Tra i siti archeologici più vasti, più curati e meglio conservati del Mediterraneo, San Lorenzo si apre a nord del Duomo e offre al visitatore lo spettacolo inedito della vita e dell’aspetto di un quartiere etrusco-romano, con reperti che vanno dall’anno 1000 a.C. fino all’età imperiale. Ambulante: E sarà anche etrusco-romano, a me mi pare di più cinese ! La guardi le scritte... made in Taiwan... Guida: Cialtrone ignorante e anche razzista. (1) Dunque, la visita allo scavo comincia dall’imponente Tempio di Inefficienza e Spreco: è un’immensa struttura (14.000 mq), disposta su tre piani, con loggia aerea e finestroni: l’edificio più importante dell’area archeologica. È situato tra le attuali vie Guelfa, Panicale e Taddea. La costruzione cominciò nel 1000 a.C. circa, ma i lavori si protrassero per dieci secoli, anche nel millennio successivo, in onore alle due divinità principali dello stato antico, alle quali il tempio è dedicato: i Lucumoni, per coerente zelo religioso, decisero anzi di non terminarli mai. Ambulante: Eh, i’vvizio di non finire i lavori e’ un s’è più perso: a Firenze e siamo attaccati alla tradizione! Guida (2): Ammirate ora il Quartiere commerciale levantino: sulla via si aprono vivaci botteghe e locande, decorate di begli affreschi murali. Su una parete, al n. civico 12, è visibile la traccia di un incendio scoppiato durante uno degli splendidi banchetti notturni. Per terra non è difficile

imbattersi in reperti preziosi, come i frammenti delle coppe in cui venivano servite le bevande, che coi secoli saturarono le aperture della rete fognaria (a). Ambulante: Glienno cocci di bottiglie: si raccatteranno e ci si farà un museo. Abbia pazienza, ma che la pagano per dire queste bischerate? Guida (lo guarda con odio, ma finge indifferenza): ...Più avanti, oltrepassato l’ingresso del Tempio di Inefficienza e Spreco, al n. civico 6, si ammira la bottega detta “del ricco Barbiere” (b) (si notino l’insegna in oro, l’accesso, finemente decorato in vetro di Bisanzio e stipiti in bronzo dorato), l’esempio più elegante della zona, sorprendentemente intatto. Qua e là antiche ruote di carro deformate dalla lunga esposizione agli agenti atmosferici (c). Turisti: Wonderful! Guida (all’ambulante, minacciosa, ringhiando): Se non smette di importunare chiamo i vigili!! Ambulante: Magari! e ’un si vedan mai. Gli staranno chiusi ni’ mmuseo archeologico! Guida (3) (ostenta il sorriso): Ora torniamo un po’ indietro fino alla piazzetta, ove sorge la chiesa di San Barnaba, modesto edificio del XIV sec. d.C.: merita una visita esclusivamente per gli affreschi e le iscrizioni Vandale, risalenti al periodo delle invasioni barbariche, che ne decorano la fiancata. Si tratta di rarissime tracce dell’invasione di questi popoli, nel V sec. d.C. Non è sempre possibile ammirare questi eccezionali reperti, poiché purtroppo, periodicamente, essi vengono imbiancati da ignoti teppisti. Turisti (fotografano) Ambulante: Ecco questa la l’ha detta giusta: ma i Vandali d’allora e dovean esser più garbati di quelli d’ora! Guida (4) (con sguardo feroce): E ora – se questo importuno ce lo consente – proseguiamo per via Guelfa e, svoltando a destra in via Nazionale, entriamo nel Foro Pisciario (oggi piazza dell’Indipendenza), che prendeva il nome forse da una divinità acquatica. Turisti: Come si chiama questa divinità? Guida: Non si sa, è sconosciuta... Ambulante: Sì, sconosciuta davvero! L’è Piscia! e la si conosce, vai! Guida (guarda ancora l’Ambulante in cagnesco):... È una grande piazza rettangolare adibita a feste pubbliche in onore di Fufluns, dio etrusco del vino e della birra. Per terra (nascosti dal

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lussureggiante manto erboso della sistemazione moderna), sono visibili monete antiche... Turisti: Possiamo prenderne una come souvenir? ... Ambulante: A’ voglia, ce n’è da benedire e santificare! Turisti: C’è scritto ... heineken ... peroni (a). Guida: Sì, complimenti ! avete letto bene: è l’indicazione delle unità monetarie in lingua etrusca... Ambulante: Bah! di sicuro! Guida: Sul lato nord (b), ecco i resti di istallazioni per l’infanzia, alla quale il popolo etrusco dedicava particolare attenzione, ricoperti anch’essi da rare scritte in lingua Vandala. Al centro del Foro, sul lato est, s’innalza la Stele del Dio Sole (c), in parte purtroppo deturpata da una moderna mappa della città. Il nostro itinerario procede ora con la visita del Teatro di Apollo (5). Ambulante: La vole dire i’ccinema Apollo... Guida: Gli ignoranti come lei lo chiamano così, ma in realtà è opera del VI sec. a.C., mai terminata... Ambulante: ...nova! Guida: ...sulla facciata, in cotto e travertino, si aprono porte sulle quali gli spettatori lasciavano cumuli di offerte (a). Proseguendo per via Nazionale, all’angolo con piazza Stazione, troviamo (6) un reperto eccezionale: la Stele del Gioco del Pallone, detta erroneamente “il monolito di Odissea nello spazio” e il Tempietto di Vetro, tra le emergenze artistiche più spettacolari del quartiere. La stele fu scambiata inizialmente dagli archeologi per il “monolito” di Odissea nello Spazio... Turisti: ...wow! il film di Stanley Kubrick! Guida: In realtà Odissea nello Spazio non c’entra nulla; in seguito se n’è stabilita la vera funzione: fu costruita nel 1990 a.C., per dare informazioni ai viaggiatori sui giochi panmediterranei della palla, dedicati a Zeus, e in seguito, anche quando i giochi non si celebravano più, per la sua straordinaria bellezza, ma non fu mai rimossa. I viaggiatori vi appendevano poesie e motti, su papiro, miracolosamente conservatisi nel tempo. Ambulante: Figurati, e se s’era chiamato l’ASNU pe’ fagli levare ogni cosa! ma gl’hanno detto che unnè loro competenza, e bisogna chiedere a i’ Comitato Olimpico! Guida: Ma la smetta! incredibile vuol far portare via dalla nettezza urbana un capolavoro unico, ma lei è proprio un barbaro! Accanto, ammirate il Tempietto di Vetro, è tra i pochi edifici superstiti di tutta l’antichità costruiti con questo materiale. Magnificamente conservato, anche questo piccolo gioiello architettonico è ricoperto di frammenti di papiro. Un altro bel tempietto di Vetro dedicato, come si legge dall’iscrizione che lo sovrasta, alla dea etrusca Broda Lard, sorge, più avanti, all’angolo tra Piaz-

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za Stazione e attuale Piazza dell’Unità (a). Turisti: What does “Broda Lard” means? Ambulante: La lasci perdere... meglio non fa’ figuracce... Guida (7): Attraversata la piazza della Stazione, sul fianco est della stessa, si visita la Villa dei Papiri, il cui colonnato di marmo verde fu costruito dall’architetto Toraldus Gallicus. È uno splendido loggiato che si trovava all’inizio delle strade da cui giungevano i forestieri, i quali potevano così farsi un’idea dell’eleganza e della pulizia della città. Ambulante: Bellina, bel posto, elegante: appena uno gliarriva a Firenze e gli si dà i’ bbenvenuto! La guardi, l’unica cosa bona l’è i’cchiosco dell’ATAF tinto di viola! Turisti: Come la Villa dei Papiri di Ercolano? Guida: Sì ma questa è molto più importante, perché il luogo era frequentato da letterati e filosofi che scrivevano le loro opere su pezzi di papiro, attaccandoli alle colonne. I Lucumoni stabilirono che i papiri, in cui erano contenute tutta la saggezza e la cultura del potente stato etrusco, non si dovessero mai rimuovere. Turisti: What’s exactly “Lucumoni”? Ambulante: E sarebbero i ministri, come dire Tremonti, Brunetta, Berlusconi... Turisti: Which Berlusconi? the famous porno-star? Ambulante: Preciso! Guida: ...Al centro del colonnato sorge un’altra magnifica Stele di Bronzo (a), alla quale i mercanti appendevano i loro annunci. Al termine del loggiato, dall’altro lato, il displuvium (b), vasca con condotto di bronzo, splendidamente affrescata. (8) E ora scendiamo nel seminterrato dell’attuale Stazione (prendiamo l’ascensore situato nella biglietteria, in direzione del parcheggio), dove è possibile ammirare l’immensa sala ipostila, detta “dei geroglifici” a causa della fitta decorazione parietale che la ricopre integralmente. Non si è mai compreso esattamente a cose fosse destinata: si suppone che fosse il tempio di una setta misterica, i cui adepti vi scrivevano oracoli o formule sacre (per esempio «FUCK YOU») ... Turisti: FUCK YOU? Ma è inglese... vuol dire... Ambulante: Ragazzi, e siamo a fare cultura, unn’esageriamo... Guida: Ma no, no, è una lingua mediterranea estinta... Leggete queste delicate poesie amorose (alcuni esempi: «MANU 6 UNA BASTARDA», «DIDDI MI MANKI 1 KASINO», «CULO PIATTO»), oppure le esortazioni a entrare in contatto col dio («TU NIGERIA TIENI ‘NA KANNA») ... Ambulante: Questi professori glienno un po’ ignoranti: la lingua la si capisce benissimo: io e l’ho lette anche sull’uscio del gabinetto di’ bbar...


Guida (9): Torniamo in via Nazionale, e svoltiamo a destra in un intrico di vicoli, dove si possono osservare le cosiddette Piccole Terme. Se ne scorgono ovunque le tracce, riconoscibili dalla colorazione più scura delle pietre, attraverso poetici squarci del tessuto urbano, dove è piacevole vagare senza una meta precisa, attratti da fragranze e colori. Le piccole terme erano installazioni gratuite, diffuse su tutto il territorio, a dimostrazione della capillare organizzazione igienica della città antica: in ogni strada, senza formalità, gli abitanti potevano soddisfare i loro bisogni... Turisti (annusano estasiati) Ambulante: Sì, proprio, e ci vole la maschera antigas: la gliela faccia dare dall’agenzia turistica. Eh! noi siamo moderni, e ci s’ha una tualètte ogni 10 metri! Guida (con sguardo feroce): ...bisogni che una efficiente macchina pubblica provvedeva a rimuovere all’istante. Ambulante: Proprio! se s’aspetta l’ASNU, e diventan fossili! Guida (10): Merita una visita anche il Foro Centrale, oggi adibito a Mercato. Circondato da sontuosi portici, magnificamente pavimentati, era frequentato prevalentemente da viaggiatori, che vi spandevano spezie, profumi, balsami e erbe aromatiche: sembra che le logge del Foro e tutta l’area adiacente, a causa di questa abitudine, emanassero un odore straordinariamente intenso e a tratti stordente. Turisti: Che cosa significa la scritta etrusca sotto il loggiato? Guida: Sono affreschi inneggianti al dio Vraiter (a), in uno dei quali si legge anche il grido di guerra delle tribù Vandale («Non ci fermerà nessuno!»). Ambulante: Accidenti a loro, io gliene farei pagare a i ’ su babbo... Guida (11): Poco più oltre, in via della Stufa, sorgono le Grandi Terme, o latrina municipale, destinate ai viaggiatori stranieri: sontuosa costruzione di epoca imperiale, rutilante di marmi, bronzi, ori e maioliche originali. Ambulante: Uhm, quella di Kabul dopo i’ bombardamento la dev’esse tenuta meglio. Guida: L’eleganza dell’edificio e delle sue decorazioni murali ne fanno uno degli esempi più celebrati di questa tipologia edilizia in tutta Europa. I viaggiatori stranieri ne portavano un indelebile e suggestivo ricordo. Turisti: È vero! abbiamo spesso sentito dire da amici che c’erano stati prima di noi: «tutta la città è come una Grande Latrina»! Ambulante: La pubblicità è l’anima del commercio... Guida: L’impreziosisce, sul fianco, il grande affresco di Run-on-top (a). Turisti: Scusi, ma anche questo sembra inglese...

Guida: No, è il nome egiziano del pittore... Ambulante: Sie! Minimo gl’è di Novoli! Guida: L’affresco rappresenta il dio etrusco Vraiter, venerato nel quartiere: di notte i suoi devoti scrivevano formule magiche su tutti i muri della città. Ne sono conservate di splendide ovunque, premurosamente tutelate dalla Sovrintendenza alle Belle Arti. (12) Subito dopo, a sinistra, si apre, sulla grande via Etrusca, la necropoli Taddea, che conclude l’itinerario a fianco del Tempio di Inefficienza e Spreco, dal quale si era partiti. Eccezionale documento dell’ingegneria antica, la via etrusca, attuale via Taddea, si snoda, spettacolare e suggestiva, sul fianco meridionale del Tempio: è la meglio conservata di tutto l’antico bacino del Mediterraneo. La pavimentazione, che si fa risalire al 1000 a.C., ancora perfettamente funzionale, non ha subìto restauri per 3000 anni e non mostra, sorprendentemente, segni di degrado o di cedimento strutturali. Ambulante: State attenti in dove vu mettete i piedi, vu andate ai pronto soccorso! poi a i’ Renzi gli tocca a pagare... Guida: Sul lato sinistro della via Taddea, la necropoli omonima, coi sarcofagi “a cassonetto”, tipici dell’area (a). Turisti: Cosa sono tutti quegli oggetti fuori dei sarcofagi? Guida: La particolarità di questi sarcofagi è che le offerte votive si mettevano sia all’interno, sia all’esterno: la devozione era tale che attorno ai sarcofagi si creavano cumuli di anfore e teche preziose e altri oggetti di uso quotidiano, irrorati di profumi orientali. Data l’unicità dei reperti, si è deciso di lasciarli nello stato originario, benché la carreggiata ne risulti ingombra, per lo straordinario colpo d’occhio che offrono al visitatore. Turisti: Bye! Thanks! It was very interesting. See you later! (se ne vanno) Guida: Bye! (si sfoga coll’Ambulante) Senta, lei l’ha m’ha proprio rotto le scatole, lei la venda le sue merci, io vendo la mia: la unn’ha capito che gliè un programma dell’ufficio del turismo: hanno deciso di valorizzare tutti questi troiai, per ripianare il bilancio... Ambulante: Allora un c’è problema, e’ siamo a posto, ci se n’ha anche per Tremonti. Gli si può dire che tagli pure i trasferimenti ai’ Ccomune: tanto siamo autosufficienti! La un se la pigli: la prossima volta invece degli americani, la ci porti i’ Sindaco, vediamo se a lui quest’archeologia la gli garba. Pace, via, la venga gl’offro un caffè ... (arriva il cameriere col caffè): Quanto zucchero? Guida: Uno, stronzo! Ambulante: Grazie. A buon rendere!

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Mappe La scacchiera incidentale di Katiuscia Mari, Cosimo Lorenzo Pancini, Debora Manetti / Studio Kmzero

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450000 400000 350000 300000 1961

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Mappe Cronaca di un’estinzione di Cosimo Lorenzo Pancini / Studio Kmzero

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1981CRONACA DI UN'ESTINZIONE Q u a r ti e

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1980

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6 9 .6 8 7

1 10 .5 4 0 3 9 4 .8 18

Anno 2001 6 9 .6 10 9 0 .8 6 4 4 2 .3 3 2 6 7 .4 3 4

10 5 .3 6 8

3 7 5 .6 0 8

2005 6 7 .3 2 7

8 8 .3 7 0 4 0 .9 6 7

6 6 .5 7 6 10 3 .6 6 1

3 6 6 .9 0 1

2006 6 6 .6 6 4

8 8 .3 8 6 4 0 .7 7 4

6 6 .6 17 10 3 .5 2 5

3 6 5 .9 6 6

2007 6 6 .2 10 8 8 .1 6 5 4 0 .4 3 9

6 6 .4 7 2 10 3 .4 2 4

3 6 4 .7 10

2007

R im a s t as è d a l 1 9 o p ra le 4 5 0.0 0 0 u n it à 82 pe d e ll 'i m m in c o s t a n t e d im inu iz io r o lt re 2 0 a n n ig ra z io n i, n e, n o n e. N e l r is p et to 20 07 s i o s t a n t e la p o p o la z io n e a 25 a n r e f io l' g n i p r im a a va c o n s . Tra le is t rava n o 7 5 0 0 p p o r to p o s it ivo re n t in a id e ra t a 0 cause d la d el c o m e l d e c li n re s id e n t i in m une ne mancanza di eno o i co app ch e no n d em ogr a f ic o r ie s c e a n f ro n t i d i nu ov e a l la d im in i a b it a n fa r c o n ti u z io n e t r o b il a n c ia re d e ll e n a (fe n o m e s c it e no c o m un n el s u o c o m p le e a l P a e s e sso) da ad egua u to t a s s o m ig ra n to r io.

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Mappe Pi첫 riciclo pi첫 consumo di Franceso Canovaro/ Studio Kmzero

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M.C.D. = Freeshout?! 2009 Racconti di Erika Gabbani Anche per il 2010 la sua idea è quella di continuare a fare la curatrice d’arte contemporanea, di essere poco propensa a scrivere e a scendere a compromessi col mercato. Nata a Crespina, dopo un bel po’ di anni in giro per il mondo, ora vive e lavora nel borgo medievale di Lari, nella campagna pisana. Ha diretto uno spazio di ricerca a Roma nel quartiere Pigneto ben prima che questo diventasse alla moda. Ha fondato ed è metà di NASONERO, uno studio con base a Lari (Pi) e ramificazioni a Roma, Milano e Londra che si occupa di grafica, curatela e comunicazione. Contatti e maggiori informazioni: www.nasonero.com write@nasonero.com

Per scrivere di Firenze e arte contemporanea questa volta partiamo dal minimo comun denominatore della partecipazione a un festival, il Freeshout?!, un bellissimo cantiere dove si respira quell’aria da work in progress tipica dei posti d’avanguardia (più informazioni su www. freeshout.it, ndr), che si è tenuto a inizio ottobre 2009. È a Prato, non proprio a Firenze, ma per chi non è di queste parti dovete ammettere che è difficile capire dove finisca geograficamente l’una e cominci l’altra. Come NASONERO durante il Festival abbiamo tenuto un laboratorio per ‘far fare arte’ a 25 incredibili bambini al Centro Pecci ma questa è un’altra storia; le serate che abbiamo passato in allegra compagnia degli altri invitati all’Officina Giovani - Ex Macelli sono state una buona occasione per chiedere a cinque di loro con orizzonti internazionali delle brevi note per FFF2. Anche questa volta le riporto come le han scritte, veloci come un fast forward appunto. Ho chiesto cosa hanno fatto al Festival e un punto interrogativo su Prato e Firenze, senza vincolare troppo la forma. Nessuno di loro è toscano, uno è francese ma scrive in inglese, uno vive a Berlino... Vediamo:

Dem ________________________________________________ Artista, trentenne, lombardo di un paese vicino al Po e all’Adda. Disegna e dipinge sui muri, è un gran lavoratore e di notte è il re della festa, è robusto e deciso; non so se è un caso ma tutte le volte che ci scriviamo mi dice che è in un posto diverso d’Italia o d’Europa. A Freeshout?! 2009? “Al festival mi hanno chiamato per dipingere due pareti grandi, ho cercato di creare i miei personaggi adattandoli allo spazio e agli altri elementi architettonici presenti. I ganci pendenti da un’imponente struttura d’acciao” – quella del mattatoio degli Ex Macelli – “li ho visivamente ‘collegati’ a un animale con sei zampe legate al corpo giallo di un cavallo/mucca con la faccia umana e sull’altro muro dipinto con Alleg ho utilizzato le due nicchie a mezzaluna come metaforici occhi.” 118


Alessandro Lupi ____________________________________

Prato e Firenze? “A Prato ci sono stato due volte in vita mia, e per pochi giorni. Mi ha colpito quanto sia complesso girare in macchina e di come la comunità cinese si sia allargata dalla prima volta in cui ci sono stato nel 2001. Non sono a conoscenza di altre manifestazioni artistiche a parte Freeshout. A Firenze ci sono stato diverse volte come artista per dipingere a Pitti e un paio di volte all’Elettro+ (che ora è stato demolito). Ho visto come, a parte qualche caso isolato, gli eventi culturali d’arte contemporanea siano organizzati più da privati che non dal Comune stesso e mi sembra che per essere il capoluogo di una regione come la Toscana offra ben poco sotto questo punto di vista.”

Artista, trentaquattrenne, di Genova. A conoscerlo hai la certezza che Berlino, dove attualmente vive a lavora, gli è entrata nel cuore. L’aspetto da alpinista d’altri tempi ha il suo fascino. Crea incredibili personaggi fluttuanti giocando con la luce e con materiali all’apparenza poveri. Con lui hai la sensazione che la tecnologia per fare ologrammi potrebbe essere alla portata di tutti. A Freeshout?! 2009? “Ho portato due lavori, un baule con all’interno un corpo tridimensionale luminoso che chiamo densità fluorescente e un nuovissimo lavoro che progettavo da tempo, un albero secco di sei metri d’altezza piantato all’interno di un grande spazio la cui ombra include anche le foglie. In quest’ultimo lavoro mi ha incuriosito la reazione del pubblico toscano, sorpreso e poi curioso, condividendo insieme, anche tra persone che non si conoscevano, come fosse possibile e come fosse realizzato tecnicamente un albero secco che ha nella sua ombra la memoria di quando era vivo, inventandosi teorie di tutti i tipi.” Prato e Firenze? “Sento che a Prato vi è un tipo di energia... che è coinvolgente, è difficile spiegare... Trovo che una delle componenti più interessanti sia il lato umano; le persone che ho conosciuto... spesso volte a una forte ricerca e fusione delle passioni al di sopra di tutto. Probabilmente, come in tutte le cose, ho solo colto alcune sensazioni istintive di un posto in forte trasformazione come Prato, dove il tessuto sociale è stato stravolto da novità negli ultimi anni. Ma che secondo me sta reagendo in modo positivo investendo sulla cultura, che è il seme dell’integrazione e dello sviluppo. Riguardo al rapporto con l’arte contemporanea è molto interessante la conversione degli spazi da industriali - come Officine Giovani - Ex Macelli - a studi d’arte, design, gallerie che in molte situazioni mi ha ricordato la città Berlino.”

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Zaelia Bishop _______________________________________ Collagista e illustratore, trentenne, romano. Disseziona immagini. Indossa abiti eccentrici ed eleganti dalle atmosfere di inizio secolo. Atmosfera dark, colori pastello, conchiglie, nature morte, oggetti antichi, scatole di legno... il laboratorio sulla memoria che ha tenuto al Festival era frequentato solo da ragazze. Il taglio curioso della barba ne fa un personaggio da primi del Novecento. A Freeshout?! 2009? “Freeshout mi ha dato la possibilità di realizzare un Laboratorio, un piccolo esperimento, un tentativo di Wunderkammer. Partendo dalle vite di un gruppo di coraggiosi artisti e poeti e incisori sparsi nei secoli passati, abbiamo ricreato alcune scatole delle meraviglie, dove i partecipanti hanno immaginato finali alternativi, fantasticherie, trasfigurato immagini, inventando nuove storie, assemblando e incollando sogni, ricordi e desideri.” Prato e Firenze? “Non conoscevo Prato, strana città. Viuzze, molti bar, pochi tabaccai. Chilometri di stoffe arrotolate agli angoli della strada, ho sbirciato nei magazzini che traboccano tessuti, filamenti, passamanerie, tendaggi. Città cupa, meccanica e seducente. Firenze, la città dell’adolescenza. Bellissima e scomoda, mi legano a lei molti ricordi. In gioventù, la Serra del Giardino dell’Orticoltura, maestosa come lo scheletro di un mostro marino, mi aveva lasciato senza fiato. Sono tornato a Firenze dopo anni, alcuni giorni dopo il Festival. Sembrava ancora il 1996.”

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Remed ___________________________________________ Pittore e street artist, trentenne, francese di Lille. Usa la parola e la pittura. Linearità, gentilezza, leggerezza. Vive a Madrid, dove a sentir lui è un sogno vivere sotto il sole molti giorni l’anno. Non stentiamo a credergli dopo i racconti sui rigidi inverni di Lille e di Parigi. Il suo lavoro ha molto a che fare con l’intelligenza, lo vedi lavorare con lentezza e atmosfera allegra, ha sempre l’aria di chi sa cosa sta facendo anche se poi non è del tutto vero a sentir lui. At Freeshout?! 2009? “I create things. For Freeshout?!, I came without knowing what I was about to do. I just wait for the magic to happen, and thanks to some people of the technic staff that told me that one part of the structure I will paint look so much as a full moon by night (which I realise the night after it was more than true) I decided to write some words to the moon.


And the great thing was that the “real” full moon came on saturday to read my words and look at her small sister which I pass by riding my super bike:) I just wrote Still trying to reach you on one side, and then on the other side of the silo, I painted a half human/half wolf character holding the full moon (his utopy) in his arms. I was really happy about the result, especially while the full moon saturday night.” – seguono venti righe di complimenti allo staff di Freeshout?! che non possono che trovarci daccordo! Prato and Florence? “About my experience in Prato, it was really quick, 3 days, apart the good vibes from people, and the well organisation of the Festival... I had time to loose myself in the old city on a sunday (or saturday I don’t remember) morning. I liked the architecture, and the little bar I went in to have a juice and a coffee. Then I finally had a bike to rent and everything was even better. So thank u Prato.”

A Freeshout?! 2009? “Ho cercato di fare le foto al meglio delle mie capacità, divertendomi e condividendo il più possibile ciò che Freeshout offre. Le mie foto saranno usate per il catalogo oltre che per le pubblicazioni nella varie riviste, ho fatto le foto per Drago Lab, per il vostro laboratorio, per tutti gli artisti visivi che erano al Festival, per le performace e per i concerti e per tutto quello che di interessante succedeva. Per me Freeshout è completamente no profit.” Prato e Firenze? “Per me Prato al di fuori dei Macelli è un paradiso di archeologia industriale che spesso si ferma solo all’uso sistematico fatto da artisti e creativi, ma che dovrebbe essere messo a disposizione della città in maniera più quotidiana e fruibile. Ad esempio qualche giorno fa a Berlino sono stato in una ex-fabbrica trasformata in stabilimento termale”. Invece “Firenze? beh per me Firenze è una città-fossile che scoppia di merda (nel senso vero del termine... con tutte le fogne del ’400 c’è un puzza dappertutto) nella rivista che avrei voluto fare, avrei voluto mettere in copertina “Firenze scoppia di merda” e poi sviluppare all’interno il discorso sulle fogne del ’400...”

Lorenzo Giordano

_____________________________________ Fotografo o come dice lui “fotografo a bordo dell’arte”. Trentenne, autodidatta, ligure, si dedica anche alla poesia e al cinema. Ha vissuto in un sacco di posti fra cui Lisbona, Londra e presto vuole spostarsi a Berlino, dove ha intenzione di portarci anche una barchetta che ha in un paesino in Liguria. Focalizzato e sognatore, veloce e lento.

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2010 fiorentino

Nel segno del Marzocco Alexandra Korey e Tommaso Olivieri, cittadini

Lavoro: C’è tanto da fare se Fiorentini e turisti vogliono convivere in felicità, ma quest’anno, il Marzocco ne farà un buon inizio. Nella terza fase lunare del 2010, si scoprirà che l’offerta turistica della città non deve e non può staccarsi dalla produzione culturale locale e il suo consumo da parte dei cittadini. Se i Fiorentini esprimono interesse in eventi o mostre fresche e meno tradizionali, si può predire che lo stesso varrà per i visitatori da oltre i confini comunali. Con l’allineamento delle stelle quando il Leone andrà sotto l’influenza di Marte (a metà maggio), potrebbero manifestarsi diverse opportunità di espressione contemporanea in luoghi prima adibiti ad altre funzioni meno ludiche. Approfittate delle offerte o occasioni inusuali che vi si presenteranno. Prima della fine dell’anno, bisognerà sviluppare e comunicare con largo anticipo un allettante calendario culturale. I social media sono sul vostro orizzonte. Soldi: Le tue innegabili capacità imprenditoriali e di innovazione non saranno accompagnate da adeguate risorse monetarie per il prossimo anno. Molti soldi saranno necessari affinché un’unità di offerta culturale possa concretizzarsi. Grazie al passaggio del segno di Twitter nella costellazione di Facebook, alcuni soldi potranno essere risparmiati. Saranno invece prontamente disponibili a costo molto vicino allo zero (se non gratis) opinioni e critiche di tutti. 122

Amore: Non ti abbattere se l’amore della città non si manifesta a prima vista; la contemporaneità non è tanto indulgente con chi impone un nuovo programma culturale. Rotture tra vecchie coppie saranno probabili, ma il Marzocco può consolarsi sapendo che nuove eccitanti relazioni sono nel suo destino affinché Firenze diventi la prossima Firenze.

C’è chi ascendente Sergio Traquandi, artista Io Stadera, Ascendente Bascula, arrivando dal contado fiorentino sud e più precisamente dal paese col Leone in piazza, che accoccolato con lo scudetto fa Marzocco, il primo segno vero di città lo trovo nella rotondina giro in giostra del francese, quello che piove quasi sempre e il governo di conseguenza. Perché se vengo in treno l’ascendente è sempre guasto, il discendente invece và fra i moccoli dei cittadini del Capri-Porto giù nel sottopasso. La quadratura di Mercurio che aguzza gli spigoli del tuo segno si fa sentire soprattutto nel genere femminile che liberate dall’influenza negativa dell’Aquaio, sguazzano verso l’Extravergine e la presenza del pianeta la ritrovi molto di più nei Pesci del mercato che nei termometri. Se invece da Firenze vai A-rieti comprati il Sanguinario che ancora lo si vende ma per pochi.

Oroscopo

I Gemelli sempre presenti nelle botteghe del centro, ora son quasi soppiantati dai bottoni e il Toro taroccato si stravacca a cinghialino. Per lo Scorpione basta alsà un mattone e il Cancro invece l’è un bel granchio e và all’indietro, sempre che glielo dica il suo dottore!

Nati sotto Fabio Barluzzi, architetto Per i nati sotto il segno dell’alta velocità, infaticabili viaggiatori, si presenta un anno ricco di insidie. La prima decade è caratterizzata da indecisioni e incertezze: state attenti alle spese non previste. Nella seconda parte dell’anno l’ingresso del pianeta stadio e campo di marte nel segno porteranno notevoli benefici per tutti coloro che intenderanno fare spostamenti. Per i nati sotto il segno della ZTL abbiamo un anno ricco di grandi soddisfazioni, possibili gli allargamenti verso nuovi orizzonti, ne beneficeranno gli incontri con nuove strade e quartieri. L’ingresso nel segno della costellazione della tramvia porterà benefici e prosperità per tutta la seconda e la terza decade.


I nati sotto il segno di viale Belfiore, anche se abbandonati definitivamente dala stella Nouvel, messo in ombra negli anni precedenti da congiunture astrali negative, avranno ancora un anno caratterizzato dall’incertezza. Occhio alla forma e a non disperdere inutilmente le energie, si consigliano riposo e meditazione. I nati sotto il segno degli Uffizi anche quest’anno faranno parlare di sé. Come sempre inclini a attirare le attenzioni si metteranno in luce con l’ingresso nel segno del nuovo commissario, la costellazione Isozaki continuerà a mantenere la sua presenza anche per tutto il prossimo anno.

Complesse quadra-ture Lian Pellicanò, architetto Binari in erba: nel 2010 si inaugurerà una ricca stagione per i nati sotto il segno dei Binari in erba: con l’atteso passaggio della tramvia sul selciato fiorentino si

aprirà in primavera la stagione del nuovo verde urbano! gli sfortunati con l’ascendente nelle Cascine, che hanno affrontato un duro periodo di divisione, potranno finalmente riappropriarsi della dimensione bucolica della città passeggiando lungo la tramvia. L’estate porterà copiose quantità di grano e papaveri in prossimità delle pensiline. Per gli amanti della natura: non lasciatevi andare a prolungate soste sui binari in erba, la salute potrebbe risentirne. Nutria: Sulla scia degli anni passati, anche il 2010, per i nati sotto il segno della Nutria, prevede il tutto esaurito sulle sponde dell’Arno! Anche per la prossima estate, infatti, non si prevedono antipatiche interferenze umane sotto gli ombrelloni e le sdraio della riva. Sporadiche eccezioni potranno essere possibili per turisti dandy, che vorranno visitare il parco estivo della città. Gli astri consigliano: munitevi di Autan. Paletti e Catene: si avvia un anno difficile per il segno

Paletti e Catene, soprattutto per i nati intorno al Duomo di Firenze: a causa della pedonalizzazione in aspetto positivo si prevedono rimozioni e spostamenti per il libero passaggio dei fiorentini. Previste però favorevoli congiunture con il segno dei Marcipiedi che, grazie all’interdizione dei mezzi su gomma, godranno di una stagione di rinnovamento. Nuove leve: Il 2009 è stato un anno fortunato per i nati sotto il segno delle Nuove leve: per coloro che hanno l’ascendente in Palazzo Vecchio o negli Ordini Professionali l’anno passato, infatti, ha presentato importanti occasioni di successo. Nel nuovo anno sarà necessario trovare proficue congiunture innovative per concretizzare le buone intenzioni. Per chi non possedesse ancora nuove e costruttive visioni per la città si prospettano quadra-ture difficili.

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Gianluca Costantini Mosaicista di formazione, si è dilpomato all’Accademia di Belle Arti di Ravenna in Decorazione: proprio l’aspetto fortemente decorativo, che riprende la bidimensionalità del mosaico bizantino e l’ambientazione notturna delle scene, costituisce la sua prima cifra stilistica. Comincia a pubblicare nel 1993 su “Schizzo” dove compare una storia scritta da Scianamé, L’ultimo appuntamento. Nell’anno successivo compaiono sue illustrazioni su “Il Manifesto” e “Neural”, nonché altre due storie brevi sulla rivista allora edita dall’Arci. Da allora sue illustrazioni sono apparse in numerosissime pubblicazioni editoriali, copertine di libri, produzioni musicali e materiali editoriali. Nel 1995 inizia la collaborazione con lo sceneggiatore Giovanni Barbieri, con la storia breve Probabilità. Nel 1996 inaugura la collana “Schizzo presenta”, del Centro Fumetto Andrea Pazienza, con Animalingua. Il suo mondo è popolato di figure arcane, simbologie tratte con sciamanica casualità dalla tradizione giapponese, russa, da uccelli mitologici e da frasi evocative. Nel 1998 vince proprio per il fumetto il premio Guercino. Alterna alla propria produzione, che si muove sempre nei confini labili di arte contemporanea, fumetto e illustrazione, iniziative culturali ed editoriali. Nel 2001 fonda il collettivo inguine, inizialmente un sito di sperimentazione del fumetto in internet. La sperimentazione è subito accolta con grande attenzione proprio dal mondo dell’arte contemporanea e inguine.net viene presentato in numerose mostre, tra cui la Biennale dei Giovani Artisti di Sarajevo del 2001 e vince tra gli altri il Premio Palinsesto nel 2004. Ma è nel 2006, con la pubblicazione del diario autobiografico Vorrei incontrarti (Fernandel edizioni), che il suo stile acquista un carattere più asciutto. L’aspetto fortemente decorativo e quasi orientale lascia spazio a un segno a linea chiara, in cui

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è lasciata alla scrittura la veste di decorazione. Un segno più gestuale e innocente, che apre le porte a un mutamento anche nelle modalità di realizzazione delle tavole stesse. Il libro successivo, Diario di un qualunquista (Fernandel edizioni, 2007), raccoglie i disegni realizzati in tempo reale seguendo sulla rete gli eventi del mondo, raccogliendo con modalità di cut up immagini e parole di notizie magari passate velocemente in secondo piano, ma che sono effettivamente accadute e il cui spessore reclama una narrazione. Sempre nel 2007 pubblica, su testo di Carnoli - Colombari, Ultimo, Storia di ordinaria guerra civile. Un libro che ripercorre con taglio fiction la misteriosa uccisione di Arpinati, gerarca bolognese, dopo la liberazione. Il suo stile si libera, per modellarsi sulla base delle necessità narrative e la forma si adatta al contenuto, mostrando una molteplicità camaleontica di utilizzo delle tecniche e del segno. Nel 2008 per la comma 22 esce L’ammaestratore di Istanbul su testo di Elettra Stamboulis, diario di viaggio della coppia a Istanbul sulle tracce dell’intellettuale e pittore ottomano Osman Hamdi. Nel 2009 è uscito invece Officina del Macello (Edizioni del Vento), sulla decimazione di Santa Maria La Longa nella Prima Guerra Mondiale, il più grave episodio di rivolta e di uccisioni sommarie di cui abbiamo testimonianza nella Grande Guerra. Il progetto Sangue in Algeria è stato invece realizzato per la galleria di fumetto contemporaneo di Perugia Miomao ed è stato esposto al Salon du Dessin di Parigi nel marzo 2009. Le sue storie sono apparse in moltissime pubblicazioni all’estero, in particolare del circuito alternativo, tra cui Stripburger (Slovenia), Laikku (Finlandia), Babel (Grecia), World War III (Usa). http://www.gianlucacostantini.com


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Colophon FFF Firenze Fast Forward 2 - gennaio 2010 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 5745 del 19/11/2009 ISSN 2037-2620 Direttore editoriale Gianni Sinni Direttore responsabile Enzo Brogi Caporedattore Marco Brizzi Responsabile di redazione Emanuela Mallardi

FFF è un progetto Lcd Firenze

Progetto grafico Lcd, Firenze Illustrazioni Gianluca Costantini Produzione Franca Gori Amministrazione Valentina Rossi Distribuzione Federica Attorre Hanno collaborato a questo numero Daniele Bacci, Giuliano Bacci, Lapo Binazzi, Fabio Barluzzi, Zaelia Bishop, Alberto Breschi, Lorenzo Brusci, Yates Buckley, Francesco Canovaro, Bruno Casini, Maria Gloria Conti Bicocchi, Gilberto Corretti, Giacomo Costa, Gianluca Costantini, Dem, Giovanni de Niederhausern, Erika Gabbani, Francesco Giomi, Lorenzo Giordano, Erik Göngrich, Alexandra Korey, Margherita Hack, Paola Iafelice, Manu Lalli, Marco Ligabue, Daniele Lombardi, Alessandro Lupi, Tiziano Manca, Debora Manetti, Katiuscia Mari, Andi Mullai, Walter Nicolino, Tommaso Olivieri, Peppino Ortoleva, Cosimo Lorenzo Pancini, Lian Pellicanò, Valentina Piattelli, Andrea Portera, Marco Quinti, Carlo Ratti, Andrea Rauch, Flavia Ravenni, Remed, Claudio Ripoli, Angelo Russo, Alessandro Savorelli, Ines Schaber, Sociolab, Angelika Stepken, Sergio Traquandi, Francesco Ventura, Riccardo Ventrella, Marco Vichi, Bill Viola web www.firenzefastforward.it FFF è anche su Facebook, Twitter, Flickr e YouTube Editore Lcd Edizioni Costa de’ Magnoli 29 50125 Firenze 0550510210 lcd@lcd.it www.lcd.it Stampa TipografiaToscana - Ponte Buggianese (Pt) Carta Stampato su carta Fedrigoni Interno: Symbol Freelife Matt Plus 130 Copertina: Symbol Freelife Matt Plus 250 Caratteri Titillium, carattere open source realizzato dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Urbino nel 2009 Mattioli1885, disegnato da Luciano Perondi nel 2008 In copertina Prima: Fiorentina di Gianluca Costantini Quarta: Sticker art, Hogre

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La realizzazione di FFF è stata possibile grazie al generoso supporto di

Istituto Europeo di Design Firenze Vicolo Santa Maria Maggiore 1 50123 Firenze Tel. 055 2676311 www.ied.it

Per i lettori di FFF è disponibile uno sconto del 50% sul corso serale di Grafica per l'Editoria e una borsa di studio per il corso serale in Web Communication (Grafica per il Web), entrambi in partenza a marzo. Per scoprire le modalità invia una mail a infoflorence@ied.edu


gennaio 2010 Firenze Fast Forward

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