Firenze Fast Forward
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Un bacione a Firenze Gianni Sinni Eccoci qua con FFF. Ce l’abbiamo dunque fatta a realizzare questa rivista che agitava i nostri dormiveglia da un po’ di tempo. Rivista, questa, un po’ a modo suo, autogestita e poco finanziata, come usava un tempo; non ha nessuna ricerca di mercato, nessun ponderato progetto editoriale alle spalle se non quello che nasce dalla condivisione, tra i molti che hanno con entusiasmo dato il loro contributo, dell’urgenza di dire – un dire che è molto vicino al fare – quanto siano divenute insopportabili le condizioni in cui versa la nostra città. Perché dunque una rivista per Firenze? Pare ormai esperienza generalmente diffusa il sentirsi straniti e stranieri nella propria città. Come gli emigranti dei tempi che furono, cantati da Odoardo Spadaro, ci portiamo una Firenze nel cuore che vorremmo un giorno rivedere e rivivere. Una Firenze che è andata allontanandosi non per distanza geografica, ma piuttosto per distacco sentimentale, a mano a mano che sono andati scomparendo tutti gli spazi di socialità minuta cittadini. Anni di pubblica amministrazione volti solo alla coltivazione estensiva dei “grandi progetti” hanno fatto avvizzire quasi tutte le idee di futuro alternativo che la città porta in seno. L’aver individuato nel turismo l’unica vocazione della città – è cosa detta e ridetta – ha programmaticamente trasformato il centro storico in un parco a tema, tema rinascimentale, scacciandone di fatto gli abitanti, salvo poi stracciarsi le vesti per il degrado che vi regna. Ecco perché queste pagine vogliono dar voce a chi a Firenze coltiva, o da Firenze ha portato in giro per il mondo, proprie visioni, contributi minimali alla definizione di un futuro possibile della città. E la città è design, è filosofia, è cinema, è musica, è festa, è architettura, è accoglienza, è studio. È quello, per farla breve, che a ognuno di noi interessa. E se c’è un comune denominatore che riunisce gli interventi ospitati su FFF è quello delle piccole proposte. Nessun piano strutturale, nessuna rivoluzione epocale, nessuna trasformazione cosmica. Solo, tra virgolette, un elogio della ragionevolezza, delle buone pratiche e, soprattutto, del buon senso. Firenze è una città “pesante”, dove le regole sono state sostituite da regolamenti, puntigliosi quanto di difficile applicabilità, che sembrano avere come unico scopo l’allontamento forzoso degli abitanti, delle famiglie in primo luogo, dalla città: non sarà forse un caso se nel
centro storico la media dei componenti dei nuclei familiari è di 1,8 – manco una coppia! FFF vuole mostrare la città delle idee e delle visioni, abbiamo detto, dando la parola a chi già, queste visioni, le sta per proprio conto portando avanti. E porgendo questo contributo di pensiero, FFF vuole essere una rivista politica, non la politica del potere, politica nel senso etimologico del termine, dell’interesse verso la polis, la città. “Confido nei lunatici”, affermava Tibor Kalman, uno dei più consapevoli comunicatori dei nostri tempi, sono loro la crepa nel muro dello status quo. Fiorentini, chi per nascita, chi per elezione e chi per caso, gli autori dei testi e delle opere qui pubblicate rientrano tutti in questa categoria di visionari di professione. Qualunque sia il campo di applicazione, il design pubblico piuttosto che le sculture di carta, le feste dell’isolato piuttosto che le produzioni cinematogafiche, un Pinocchio in giapponese o un reportage sui luoghi degli stupri, si tratta di contributi che mettono in dubbio le nostre certezze e ci costringono a un diverso punto di vista. La visionarietà è forse, in definitiva, il più importante contributo alla realtà. Non importa quanto un’idea sia irrealizzabile. Parlarne la rende già possibile. Ah, come avete visto in copertina FFF sta per Firenze Fast Forward ma, se preferite, potete intenderlo anche come, nella notazione musicale, più che fortissimo. In ogni caso il significato è chiaro: procedere spediti.
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1 Sommario
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Lunatici
La creatività del dissenso Paul Ginsborg Gli ultimi giorni di Firenze Alessandro Busà Memorie di panna cotta Hans Leo Höger Abitare tra città e metropoli Francesco Ventura
«La Repubblica colpisce ancora» Lo scandalo del cantiere di Sant’Orsola Alessandro Savorelli
Orizzonti
20
78
Nati dopo Daniele Lombardi
Mobilità elementare Francesco Ricci
Racconti
30
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Accoglienze Fatos Lubonja Le dodici città ideali. Firenze 1971 Superstudio
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48
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Visioni
Rifiuti con le ali Sergio Traquandi Una casa esemplare Roberto Innocenti
Sculture di carta Ramin Razani
Azioni
86
92
80
96
104 114
Conversazione dall’altro lato della strada Switch. Foto di Piero Paolini Sovrascritture urbane zpstudio
Souvenir
Flussverfolgung Foto di Eva Sauer Cartoline Andrea Rauch e Alessandro Savorelli Mappe Ricette
Illustrazioni
116 Fupete
110 M.C.D. = l’Accademia
Erika Gabbani
Migrazioni
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Pinocchio Project Edoardo Malagigi Dall’Arno al Mar Nero Federico Bondi
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Penso che sarebbe estremamente positivo se chi vince le elezioni volesse riportare le persone nei luoghi di discussione e di decisione e se costruissimo strutture dedicate alla comunicazione avendo questo scopo in mente
La creatività del disenso Conversazione tra Gianni Sinni e Paul Ginsborg Nato a Londra nel 1945, già professore all’Università di Cambridge, dal 1992 insegna Storia dell’Europa contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. È autore di numerosissimi saggi sulla storia italiana contemporanea.
Il progetto di democrazia in Italia come processo di adeguamento alle evoluzioni della società In tutta l’Europa sono in atto sperimentazioni di nuove forme di democrazia, in particolare di democrazia partecipata. La democrazia rappresentativa e la democrazia partecipata sono due modelli che nella storia sono sempre stati in forte tensione fra loro. La democrazia partecipata ha origini nella democrazia ateniese e ovviamente non è un modello di facile applicazione in una società complessa. Però è diventato sempre più evidente che la democrazia rappresentativa da sola non basta: negli ultimi trent’anni ha creato una casta di politici di professione separata dalla società. Le strutture di questa forma di democrazia tendono a escludere i cittadini. È per questo che sono in atto sperimentazioni di democrazia partecipata, ovvero tentativi di coinvolgere i cittadini nelle decisioni delle Amministrazioni locali. Faccio un esempio: in via dei Serragli hanno fatto un lavoro molto accurato di ripristino del manto stradale. Solo che né i residenti né i negozianti sono mai stati consultati su argomenti quali le dimensioni dei marciapiedi o la decisione di far passare nella strada i grandi autobus che rischiano di distruggere nuovamente il lavoro fatto. Ovviamente non è che i cittadini automaticamente si trovino d’accordo l’uno con l’altro. Però il compito di un governo locale aperto è di avere sensibilità verso queste nuove forme di democrazia, di fare un reale tentativo di coinvolgere i cittadini nel processo decisionale. E non solo di consultarli, ma di lasciar loro veramente qualche elemento di potere. È molto pericoloso che tutti gli strumenti di potere si concentrino nelle mani dei politici-amministratori. Questa è la prima cosa che si può fare. Non è facile perché la gente è stata abituata dalla democrazia rappresentativa alla passività. Non ci si deve illudere che le masse non aspettino altro. Deve essere fatto un lavoro molto paziente e lungimirante da parte delle Amministrazioni per creare le condizioni perché ciò avvenga. Credo che in tutti gli strati della popolazione esistano elementi che accoglierebbero bene questa possibilità.
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Il design della comunicazione come un elemento determinante per la qualità della partecipazione Adesso i politici utilizzano nuovi mezzi di comunicazione come le newsletter spedite per e-mail; ma ciò non ha a che fare con la partecipazione. È una forma di comunicazione fortemente asimmetrica: è il politico che comunica cosa pensa e cosa sta facendo. I mezzi di comunicazione contemporanei offrono molte opportunità per la democrazia. Grazie a essi si può organizzare una protesta, far passare dei messaggi, pubblicizzare un incontro. Non solo, la rete offre molti mezzi per fare discussioni, approfondire gli argomenti. Tutto ciò è positivo, ma non basta. Tutti i grandi studiosi contemporanei che hanno affrontato questo argomento sono d’accordo. Senza il “faccia a faccia”, senza la discussione diretta, queste nuove forme di comunicazione rischiano di diventare sterili perché la decisione deve sempre scaturire dalla discussione. È molto più probabile che l’uso di mezzi come l’e-mail porti alla rottura o alla estremizzazione delle posizioni, che alla convergenza. Invece ci vuole mediazione, possibilmente in presenza di un coordinatore che prova a mettere insieme le persone. Le due cose vanno combinate. Per quanto riguarda il design, a me sembra che non esistano luoghi di accoglienza che siano anche architettonicamente modellati sull’idea dell’incontro fra le persone. Non si può discutere davanti a un tavolo con il pubblico davanti, ma in circolo, con un coordinatore in mezzo, senza le vecchie gerarchie di forma. Un tempo, nell’Ottocento nell’Europa del Nord (per esempio a Bruxelles) per questo scopo sono stati costruiti i Palazzi del Popolo. In questi Paesi il cittadino non sta solo a casa, ma esce e può andare in uno spazio accogliente per incontrarsi con gli altri. Questo manca completamente a Firenze. È uno scandalo per una città così ricca e piena di persone che vogliono associarsi.
presente queste esigenze, ricordo il “Laboratorio per la democrazia” e gli altri tentativi. Vorrei vedere un cambiamento radicale di atteggiamento verso l’idea di dissenso. Il dissenso dovrebbe essere percepito come elemento creativo e che potrebbe essere molto utile per la città. Non è più accettabile l’idea che “se qualcuno non è con me allora è contro di me”, tipica di questo ceto politico. In una democrazia noi cerchiamo dei cittadini dissenzienti, autonomi, critici, creativi. E hanno bisogno di luoghi di accoglienza e di una teoria della democrazia. Non so cosa verrà fuori in futuro. Al momento mi sembra che la tendenza vada più verso il populismo che verso la democrazia partecipata, cose che sono antitetiche fra di loro. Però sono convinto che in questa città esistano forze dinamiche, attive. Li ho chiamati una volta “ceti medi riflessivi”. Questi, sia a livello locale che a livello nazionale, sono in uno stato di “ibernazione disperata”, si sono chiusi in se stessi ed esprimono un cinismo e un disgusto che è difficile non condividere. Questo non è un atteggiamento sostenibile a lungo termine. Credo che i ceti medi siano disposti a provare, però devono avere stimoli, leadership, un riscontro, per rientrare nella vita pubblica. Non credo che possano rimanere a lungo tempo in questo stato di “apatia cinica”, “esuli in patria”, come li ha chiamati Ilvo Diamanti recentemente. Penso che sarebbe estremamente positivo se chi vince le elezioni volesse riportare queste persone nei luoghi di discussione e di decisione e se costruissimo le strutture dedicate alla comunicazione avendo questo scopo in mente.
Il futuro della città A me piacerebbe molto che le forze politicamente dominanti dimostrassero una maggiore sensibilità dinamica a questi temi rispetto al precedente governo della città che è durato un decennio. All’inizio di questo decennio, proprio nel 2001, molti di noi hanno fatto 5
Gli ultimi giorni di Firenze Foto di Alessandro BusĂ 6
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Gli ultimi giorni di Firenze Foto di Alessandro BusĂ 8
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Gli ultimi giorni di Firenze Un pamphlet apocalittico di Alessandro Busà. New York, dicembre 2008 Alessandro Busà è ricercatore in visita alla GSAPP della Columbia University di New York, dottorando alla TU Berlin (Center for Metropolitan Studies) e architetto. Busà investiga gli orientamenti “imprenditoriali” delle Amministrazioni locali, focalizzandosi su strategie creative di reinvenzione urbana nelle città occidentali. La sua ricerca attuale esplora la produzione e il consumo dello spazio urbano nella New York di Bloomberg, prima e dopo la crisi del 2008. Busà ha tenuto corsi a New York (Fordham University) e Berlino (Transatlantisches Graduiertenkolleg Berlin, New York), ha pubblicato su riviste internazionali e ha tenuto conferenze negli USA, in Europa e in Canada. Autore di documentari, fotografo e corrispondente per diverse riviste di architettura, è direttore della rivista online “The Urban Reinventors” Online Urban Journal.
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Quella del 1966 fu un’estate carica di temporali per Firenze e l’autunno che la seguì fu ancor più piovoso. E poi, come temuto da alcune cassandre, il 4 novembre 1966 l’Arno straripò, nascondendo la città sotto una coltre immonda di acqua, fango e merda. I fiorentini dovettero rimboccarsi le maniche e scendere per le strade a spalare. A loro si unirono gli angeli del fango, una carovana di hippy e giovani viaggiatori e che da altre città europee si riversarono come gocce d’acqua pulita sulla città d’arte sommersa dal fango. L’alllora sindaco Bargellini, la cui casa a Santa Croce era stata pure democraticamente sommersa dal fango, scese per le strade a insozzarsi assieme agli altri fiorentini alluvionati che bestemmiavano e spalavano e del suo palazzo in via delle Pinzochere fece un improvvisato centro di soccorso che smistava volontari, autorità e giornalisti. Meno insidioso del funesto Giuliani nella New York del dopo 11 settembre, il mitologico Bargellini fu acclamato a furor di popolo il “Sindaco dell’alluvione”, il capobanda di una Firenze ferita, ma unita e ansiosa di rinascere. Solo quattro anni dopo, nel 1970, un gruppo di giovani architetti della Firenze bene che portavano il vessillo della cosiddetta avanguardia radicale e si davano il nome di Superstudio, in risposta alla campagna “Salviamo il centro storico” dell’Amministrazione comunale, se ne uscì con un pamphlet polemico che visionava, ancora una volta, le sciagurate immagini di una Firenze sommersa dalle acque dell’Arno, dalle quali emergevano, timidi, soltanto la Cupola di Brunelleschi e il Campanile di Giotto. A quanto pare, erano bastati solo quattro anni dall’alluvione perché i fiorentini si richiudessero nell’amato e tradizionale vizio del cinismo. E col tempo, simili visioni apocalittiche, unite a un sottile e velenoso rancore verso l’amata e odiata Firenze, sarebbero diventati parte del corredo genetico di un popolo sempre più folto di fiorentini.
Erano bastati quattro anni a far crollare gli entusiasmi, e a guastare quel breve momento di fiducia verso il Palazzo del Potere e i suoi rappresentanti
Erano bastati quattro anni a far crollare gli entusiasmi e a guastare quel breve momento di fiducia verso il Palazzo del Potere e i suoi rappresentanti. Nelle stanze dei bottoni di Palazzo Vecchio si avvicendarono DC, PCI, PRI, PSI e infine oltre una decade di mala amministrazione dei DS (ora PD) e sempre più i fiorentini si sentivano sfiduciati, impotenti e muti. La frustrazione ronzava e la città andava di nuovo a fondo negli abissi, anche se stavolta metaforicamente. Poi a metà anni novanta in Italia si affacciò per breve tempo l’era dei sindaci creativi: erano i tempi di Bianco a Catania, Castellani e poi Chiamparino a Torino, Rutelli a Roma. Fu un momento di grandi sfide per le Amministrazioni locali italiane e per molti capoluoghi un’era di rinascita. Con risultati altalenanti, le città cercavano di rimettersi in discussione: nascevano festival e biennali, le piazze ripulite tornavano al pubblico e i cittadini affollavano i musei e le strade. Ma a Firenze, pensavano i burocrati di Palazzo Vecchio, non c’era bisogno di alcun festival: la città stessa era un festival permanente: c’erano il David, Ponte Vecchio, Santa Croce e qualche centinaio di musei e chiese, un sesto dei beni culturali del pianeta e qualche nuovo collegamento easyjet: cosa volevano di più i turisti? Fu così che i burocrati di Firenze si dimenticarono dei fiorentini, mentre dal centro cittadino scomparivano i librai, gli artigiani, i caffè e i cinema e un nuovo monstrum prendeva forma e veniva dato in pasto al peggior turismo di massa e agli amici palazzinari. Schiacciata negli anni novanta e duemila da grigie gerarchie di burocrati, Firenze sarebbe diventata col tempo l’esausto ostaggio di poteri e interessi che i fiorentini stessi stentavano a comprendere. Guidata verso il fondo da Amministrazioni cieche e impersonali, paralizzata dal groviglio dei discordanti interessi di orde di politici corrotti, affaristi e colonizzatori, Firenze continuava a chiudersi in un perverso ritorno al Medioevo. Gli anni passavano e il Maggio Musicale fu commissariato, la Stazione Leopolda venduta, la Biennale della Moda finita in fumo. Con il risultato che nel panorama dei capoluoghi culturali italiani, nel Duemila Firenze si sarebbe trovata in coda dietro Torino, dietro Genova, persino dietro la Catania del disastroso Scapagnini per capacità di innovazione e reinvenzione di se stessa. La culla del Rinascimento si sarebbe confermata come l’ultima delle destinazioni immaginabili per qualsiasi
giovane talento non incline al cilizio. Firenze veniva consegnata al Duemila come una mummia su un catafalco dorato. E turisti sempre più disinteressati e incolti, in attesa fremente del torpedone delle venti che dopo un giorno di shopping in via Calzaioli li sbatta nella prossima gloriosa città italiana, continuavano a gettarvisi sopra come avvoltoi su un cadavere. Il tono amaro può ingannare, ma chi scrive è fiorentino, un fiorentino polemico e inquieto, come molti. Ma l’orgoglio di essere fiorentino non è stato sufficiente a inchiodarmi qui: altri sogni e ambizioni, uniti a un profondo rifiuto per la strada che questa città già da troppo tempo ha imboccato, mi hanno portato da anni a starne lontano. E ogni volta, al mio ritorno, una strana malinconia m’assale. Ha la forma di un silenzio deprimente, di strade vuote e di lampioni gialli, quando la sera mi trovo alla stazione e capisco che in giro non c’è un’anima. Mancano le persone. Mancano gli autobus. In taxi attraverso le strade sulla via di casa: buio, lampioni gialli, rotonde, cordoli e gli eterni cantieri di un’odiata tramvia, deserti. E ripenso alla città in cui oggi vivo per scelta, lontana anni luce da qui: le sue luci, i colori, i bar, i caffè, le folle per le strade, il caos, la vita. O ripenso ad altre grandi città italiane che amo, in particolare a Genova e Torino. Già, Torino: la dicevano grigia e buia. Ma negli anni novanta bastò un’Amministrazione energica e creativa a trasformare le piazze storiche della città in surreali teatri di luci e ombre visionarie, finanziando le bizzarre installazioni di luce dei più grandi artisti del mondo, reinventando il centro storico e rendendo vive e affollate le sue strade. Fu uno dei primi passi della grande capitale subalpina verso la rinascita. A Firenze la vita notturna nelle piazze la si fa con il pattugliamento con volanti della municipale, l’allontanamento delle folle con gli estintori, le ordinanze antirumore e i coprifuoco notturni. Genova, la cenerentola italiana, l’eterna vecchia signora in declino, è riuscita nel corso dei due scor-
Il tono amaro può ingannare, ma chi scrive è fiorentino, un fiorentino polemico e inquieto, come molti
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si decenni ad accedere a fondi statali ed europei e trasformarli in oro: in pochi anni l’ex porto industriale è diventato Capitale Europea della Cultura, sede delle Colombiadi, dimora di prestigiose mostre di arte e architettura. Città imprenditoriale, Genova, capace di attirare continui capitali nelle casse comunali e di reinventare il suo porto e la sua immagine. E nonostante gli investimenti nello sviluppo urbano, di riconfermarsi vitale, affollata, multietnica: una piccola Marrakech sul Mediterraneo, coi Carrugi come un suk arabo e al tempo stesso modernissima. A Genova un’Amministrazione di centrosinistra è stata capace, sebbene dopo anni di controversie, di inaugurare una metropolitana le cui stazioni fanno invidia a Zurigo,
ne con pazienti morti durante l’interminabile viaggio imbucato in una stretta corsia. Dopo quattro anni il viale è stato riaperto e non c’è nessuna tramvia. Erano lavori preliminari, dicono. La città si riempie di cordoli inseriti e subito rimossi, rotonde aperte e richiuse, sottopassi progettati da geometri indegni, corredati da torrioni pseudomedievali in bugnato prefabbricato e poi centinaia di centri commerciali, Coop e Ipercoop, palazzine dozzinali e una pioggia di cemento che ricorda il sacco di Palermo e la cui qualità edilizia fa piangere persino chi, come me, è nato a Novoli – ed è di bocca buona. Roma costruiva una Città della Musica affidando il progetto a Renzo Piano, mentre Firenze si avvelena col
che dal mare ai monti attraversa pendenze da brivido, superando ostacoli geologici impressionanti. Firenze nel frattempo si è data decenni di tempo per realizzare i primi chilometri di un’inutile tramvia larga come un treno. Già, perché se a Portland o San Francisco, che hanno strade cinque volte più ampie, sono stati importati vecchi tram europei proprio per le loro piccole dimensioni, a Firenze, con le sue strade medievali, non si poteva che scegliere intelligentemente la tramvia più ingombrante possibile. Viale Morgagni è stato chiuso per quattro anni per fare la tramvia e a volte le ambulanze per Careggi sono arrivate a destinazio-
Polo Novoli del centenario architetto di regime Natalini, una pessima edilizia che le riviste di architettura serie si guardano bene dal pubblicare. Natalini, proprio uno di quei giovani radicali di Superstudio (quelli della Firenze sepolta da una seconda alluvione), con qualche decennio, qualche centinaio di commissioni e qualche connection in più. È l’evoluzione della specie: i giovani dell’avanguardia radicale sono diventati gli anziani baroni che si sono giocati tutte le partite architettoniche del territorio e hanno rifilato alla città capolavori come la pensilina della Stazione, Novoli e i Gigli, nonché il famoso cetriolo viola di Scandicci. Anche il Palazzo di
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giustizia e i suoi avvocati si trasferiranno presto nel buco nero di Novoli, come già hanno dovuto fare gli studenti di Legge e Scienze Politiche, da tempo sfrattati da piazza Santissima Annunziata per precipitare nei garage progettati da Natalini, in cui piove dentro. Nel frattempo gli Uffizi aspettano da anni una benedetta pensilina di Isozaki che mai arriverà. A Firenze i cinema d’essai chiudono, i multisala suburbani spopolano e le Coop imperano. La sciagurata Amministrazione Domenici ha ventilato l’idea di trasformare il vecchio Goldoni in parcheggio, ma anche di svuotare il Mercato centrale di San Lorenzo per trasferirne probabilmente gli esercenti nelle nuove Coop. Ma c’è di più in cantiere: i burocrati affaristi han-
in prefabbricato lungo il viale Redi, appositamente studiato per impedire che quei rompipalle di fiorentini impiccioni diano un’occhiata a ciò che vien fatto del loro fiume. Catanzaro insegna. Firenze è una città italiana tristemente nota per i parcheggi esosi, con cifre che hanno toccato gli 8 euro l’ora la mattina al Mercato di San Lorenzo. Io stesso mi trovai a sborsare 32 euro per aver malauguratamente sostato 3 ore e 2 minuti in quell’infame parcheggio. Un amico napoletano lasciò la notte di capodanno la macchina alla stazione, la ritirò il giorno dopo con una tariffa di 150 euro. Meglio avrebbe fatto a parcheggiarla sugli scalini del Duomo, in quel caso avrebbe pagato un divieto di sosta e un ritiro della macchina in
no pensato proprio a tutto e gli spazi dell’ex Meccanotessile a Careggi, che attendeva da decenni di essere trasformato in museo d’arte contemporanea, potrebbero diventare un fitness center, se le cose vanno secondo i piani. Nel frattempo nessuno ci ha spiegato cosa sta avvenendo lungo il Mugnone all’altezza di viale Redi, ove un grande tratto del fiume è stato sepolto dal cemento. Nessuno ne parla, nessuno sa cosa stia accadendo. Ma si sa, la trasparenza non è tra i tratti distintivi di questa Amministrazione. Ai cartelli che informino i cittadini sui cantieri in corso come in ogni città europea, si è preferito a Firenze un novello muro di Berlino
via dell’Arcovata per un totale probabilmente inferiore. Parcheggiare in piazza Castello a Torino costa poco più di 1 euro e nelle vicinanze di piazza Duomo a Catania, la sosta costa 80 centesimi. Le famigerate porte telematiche agli ingressi della Ztl di Firenze fanno più di mille multe al giorno, quantità che ha fatto più che raddoppiare il numero dei verbali di contravvenzione. Firenze, città inabile ad azioni imprenditoriali serie, taccheggia i suoi residenti con le multe, la preferita entrata delle casse comunali insieme all’Ici. Parcheggi a pagamento agli ospedali, alle scuole, all’università, in centro. E nel frattempo piazza della Signoria è diventa13
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ta il parcheggio gratuito a cielo aperto delle auto blu dei dipendenti comunali. Più che la tolleranza zero, è la strada della tassazione, insieme a un regime sistematico di oppressione di quello che rimaneva della vitalità urbana fiorentina, quella che i burocrati hanno riconfermato con le loro recenti “Ordinanze per il Vivere Civile”: un pacchetto di multe nuove fiammanti per chi ha panni stesi al davanzale, chi getta sigarette per la strada o per chi gioca in piazza (se si è in più di due, va richiesto un permesso: chissà quali bambini saranno pronti a compilare pastoie burocratiche per ottenerne il diritto) – subito copiate con foga in ogni provincia della peggiore Italia di questi tristi tempi e adottate con particolare zelo dalle più infami cittadine leghiste. Firenze si fortifica in un perverso ritorno al Medioevo con Ztl, pattuglie di polizia e sgomberi di piazze. Firenze è una città negata ai fiorentini dai coprifuoco notturni (la famigerata operazione cenerentola di Cioni, che d’estate nega l’ingresso al centro dopo la mezzanotte il giovedì, venerdì e sabato sera), una cittadella barricata e pattugliata da ordinanze poliziesche sempre più esose e il cui centro è stato consegnato al degrado e al vuoto. Il centro di notte è oggi una cittadella di strade vuote e pericolose: spopolato dai residenti e barricato ai visitatori per via delle ordinanze antitraffico, è un buio labirinto di pericolo, dove la microcriminalità è letteralmente esplosa. Le sciagurate famigliole che si concedono una serata in centro sono costrette a percorrere nella paura i chilometri di ritorno alla macchina, naturalmente parcheggiata fuori dalle mura cittadine, naturalmente in sosta a pagamento. Firenze è per eccellenza una città turistica largamente evitata dal turismo selettivo e desiderata dal popolo dei low-cost e delle gite in torpedone – lo stesso turismo che popola la martoriata Venezia, Disneyland e Las Vegas. I cinema storici diventano parcheggi, i bottegai e gli esercizi artigiani chiudono, mentre i fast food e gli Exchange shop dominano il centro storico; i librai scompaiono, le chiese si barricano con ingressi a pagamento, i grandi caffè hanno perduto il loro charme per i prezzi impossibili e per la bella clientela di turisti in ciabatte. La dolce vita a Firenze? Un bicchiere amaro. Che dolore questo, per una città che ha dato, e continua a dare vita, a un popolo di scrittori, romanzieri, registi, commedianti, poeti, intellettuali e artisti. Le nuove leve devono scegliere tra l’integrazione forzata in un sistema opprimente, o la via della fuga. E a guardare le statistiche demografiche, la fuga è l’unica via confermata per i giovani con qualche talento.
La dolce vita a Firenze? Un bicchiere amaro. Le nuove leve devono scegliere tra l’integrazione forzata in un sistema opprimente, o la via della fuga. E a guardare le statistiche demografiche, la fuga è l’unica via confermata per i giovani con qualche talento
Nel Lungotevere e in viale Vittorio Veneto, Roma d’estate frescheggia nell’ombra dei suoi alberi secolari. Strano che i burocrati di Firenze invece scelgano inspiegabilmente di spendere i soldi dei fiorentini per incessanti potature sempre più irragionevoli, lasciando i viali desertificati nelle torride estati come le nude steppe del west: ed è facile dimenticare che quei monconi mozzi che affollano i viali fiorentini sono in realtà platani centenari. Per alcuni anni Roma ha attirato i giovani e la classe creativa di tutto il mondo con concerti, festival e le sue celebri Notti Bianche. Mentre la gran parte dell’estate fiorentina è un vuoto di persone e idee che fa imbarazzare le parrocchie di provincia e fa rimpiangere “i’ dibattito” ai circolini Arci di Berlinguer ti voglio bene. Meglio sarebbe se i burocrati lasciassero una buona volta le piazze ai fiorentini. Trenta anni fa Firenze contava quasi mezzo milione di abitanti, oggi è scesa a 360.000 circa. E i giovani continuano, quando possono, a levarsi di torno, mentre il Comune continua a vezzeggiare un amato popolo di anziani senza paragoni in Italia, fatta eccezione per la vecchissima Trieste. Firenze emana ormai l’odore amaro di un cadavere in decomposizione, mentre le orde di turisti in sandalacci e cappellini da baseball nelle loro scorribande in torpedone assomigliano ai rapaci del deserto. Un deserto, sì, di idee e di entusiasmo: e se altre città italiane hanno scelto di rinnovarsi, i burocrati di Firenze hanno scelto di occuparsi dei loro affari, dedicando alla grande città del Rinascimento niente altro che politiche fatte di favori agli amici palazzinari. Politiche di cordoli e rotonde, cordoli e rotonde, cordoli e rotonde. Poche sono le speranze di rinascita, se si pensa al futuro super-candidato del PD, personale piccolo aiutante di fiducia di Cioni, noto per le esose spese di amministrazione in Provincia, per aver insultato una celebre oncologa, per i dibattiti religiosi con Sandro Bondi e Giuliano Ferrara e per aver vinto svariati milioni alla “Ruota della Fortuna” di Mike Bongiorno. Per concludere vorrei tornare al ricordo dell’alluvione del ’66, citando il commento di un fiorentino mio conoscente che fu presente a quegli eventi: “quei giorni mi colpì il comportamento del Bargellini, che in prima persona andò a dare una mano ai negozianti per rimettere in sesto le botteghe. Ma li immaginate oggi Domenici, col ciuffo tutto phonato, e Cioni che vanno a dare un aiuto agli alluvionati con le maniche tirate su in mezzo al fango?” No, non ce li immaginiamo. Non se li immaginano di certo gli ormai invecchiati angeli del fango, già dimenticati dalla città nell’82, quando le loro tessere onorarie di ingresso ai musei e gallerie cittadine vennero ritirate, e con esse la città si rimangiò ogni ricordo degli anni in cui era venerata dai giovani artisti e intellettuali di tutto il mondo. Ma i burocrati di Firenze delle nostre noiose lamentele non vogliono proprio saperne. Dopotutto, Firenze non appare come una perfetta cartolina dalle bifore trecentesche di Palazzo Vecchio?
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Memorie di panna cotta Hans Leo Höger Hans Leo Höger fa il pendolare. Vive a Firenze e insegna Teoria e Storia del Design e della Comunicazione alla Libera Università di Bolzano. Per nove anni ha anche insegnato alla Bocconi di Milano. Come consulente lavora per aziende, studi di progettazione e l’Amministrazione pubblica in Italia e all’estero.
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Originario di Stoccarda, sono ormai venticinque anni che vivo a Firenze. Mi ci ha portato mia moglie, fiorentina, che ho sposato nel 1986 a Fiesole, in quella chiesetta di Santa Maria Primerana le cui origini risalgono all’epoca paleocristiana e che s’innalza sopra piazza Mino – un luogo pubblico da anni oggetto di proteste per un massiccio intervento di trasformazione (il linguaggio politico parla di “risistemazione”) che non piace né ai commercianti del centro della cittadina, né agli ambientalisti. Piace invece, come quasi sempre, al committente – in questo caso il Comune di Fiesole – che raggiunge con questo progetto (ormai terminato) tre effetti principali: i parcheggi in piazza che erano utili e non davano affatto noia, ora non ci sono più; la circolazione del traffico nella strada adiacente a piazza Mino (che diventa poi via Antonio Gramsci) adesso è molto più intasata di prima (la situazione precedente snelliva lo scorrere del traffico); direttamente sotto il bel Palazzo del Comune (del XIV secolo) si affaccia adesso, su piazza Mino, in dei locali sotterranei creati ex novo, un cosiddetto “Front Office” del Comune. Ora, chi non avesse familiarità con il linguaggio delle nuove Amministrazioni pubbliche deve sapere che un “Front Office” è parte di un sofisticato sistema più ampio di organizzazione dei propri compiti nei confronti dei cittadini che si chiama “customer relationship management”. La parte centrale di questo sistema si basa sull’idea che nel ventunesimo secolo non si forniscono più semplicemente dei servizi (come se in passato il lavoro intorno a quel compito dell’Amministrazione pubblica avesse raggiunto un livello di funzionamento tale da poter essere considerato ormai risolto in quanto parte di uno standard vero e proprio). I nuovi tempi e le nuove Amministrazioni puntano invece, con nuovi linguaggi, sulla relazione con i cittadini che deve stare al centro dell’attenzione di impiegati e Amministratori della res publica. “Tutto il mondo intorno a te” direbbe un noto operatore di telefonia. Vedendo il lavoro delle pubbliche Amministrazioni sotto questa nuova luce, non è difficile intuire che il grado di complessità di compiti, mansioni, coordinamento e pianificazione a medio e lungo termine cresce in maniera notevole. Prima di tutto non sfugge il radicale avvicinamento al mondo delle imprese, con tutti gli interrogativi che sorgono in presenza di un simile slittamento. Sicuramente è utile se i nostri Comuni im-
parano qualcosa dai princìpi di una normale gestione aziendale in termini di puntualità ed efficienza. Dall’altra parte, però, sorge il fondato dubbio se l’amministrazione degli interessi pubblici possa davvero essere basata sulle stesse modalità della gestione di un’azienda privata. Basti pensare che gli obiettivi – elemento certamente non secondario in questo contesto – in un caso e nell’altro non coincidono affatto. È vero che l’Amministrazione pubblica è chiamata a non indebitarsi, ma non deve certo presentare un bilancio annuo con degli utili raggiunti grazie alla vendita di prodotti e servizi più competitivi rispetto a quelli di altri offerenti sul mercato. Se fosse diversamente, andrebbe a mancare la principale motivazione per cui tutti quanti siamo chiamati a pagare le tasse. Poi, sempre in relazione alla complessità del “customer relationship management”, esiste un’estesa manualistica su strumenti e strategie che adesso non sto né a elencare né a illustrare. Voglio soltanto sottolineare la presenza del concreto rischio – per i nostri amministratori pubblici – di avventurarsi in un campo estraneo a quello originario per il quale sono stati eletti e nominati, e quindi può succedere che si cominci a fare confusione – tra strumenti e obiettivi; tra interesse pubblico e interesse della gestione amministrativa (questioni di punti di vista, questioni di priorità); tra aspirazioni a un futuro pieno di innovazioni e reali esigenze quotidiane da parte dei cittadini (che si evolvono, sì, ma alla fine non così drasticamente, se le guardiamo con un po’ di attenzione da vicino). Credo che l’indistinto utilizzo della lingua inglese – nel nostro caso la denominazione ufficiale “Front Office” per un nuovo ufficio destinato alle relazioni con il pubblico – sia un chiaro indizio di confusione che può accadere quando ci si lascia prendere la mano dai manuali di gestione aziendale e dalle aspirazioni a un ventunesimo secolo all’insegna del progresso manageriale. Ultima domanda cruciale (e certamente non tra le meno rilevanti): in quale misura un simile progresso è
compatibile non solo con una città storica, le cui radici risalgono a duemila anni fa, ma con un’idea del vivere di carattere umanistico che si è sviluppata e radicata in Toscana durante molti secoli? Mi riferisco non solo ai mutati rapporti che si prospetteranno con i diretti interessati (già mi immagino il “vaff…” della pensionata che, chiedendo un’informazione al vigile, si sentirà rispondere: Guardi Signora, è molto semplice: vada al Front Office, al counter no. 5 [ovviamente ci vuole coerenza linguistica, a questo punto], dove troverà un operator a Sua completa disposizione per discutere della Sua practice). La “risistemazione” di piazza Mino, purtroppo, tocca anche altri aspetti fondamentali della storia vissuta di uno dei principali luoghi pubblici della città: questo intervento ha annullato di colpo e violentemente l’impostazione preesistente di una piazza la cui pendenza fungeva non solo da supporto strutturale all’intero tessuto costruttivo circostante (tanto è vero che si è dovuto provvedere a un consolidamento massiccio con sistemi di micropali e travi in cemento armato). La pendenza della piazza, il cui livello è stato abbassato di oltre 4 metri (facendolo arrivare ben al di sotto della base degli edifici del Comune e della Chiesa), ha costituito per secoli e secoli un intelligente e funzionante sistema formale in sintonia con l’architettura del Palazzo del Comune e della Chiesa di Santa Maria Primerana che fanno da sfondo teatrale alla piazza. Caratteristiche tipologiche di questo genere costituiscono una vera e propria eredità che adesso è – irrimediabilmente o comunque per molto tempo – compromessa. Ciò che si offre agli occhi dei turisti e alla memoria dei cittadini oggi è – in tutti i sensi – un appiattimento. Di cui risentirà senza dubbio anche la relazione con il pubblico.
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Abitare tra città e metropoli Francesco Ventura Francesco Ventura è ordinario di Urbanistica all’Università degli Studi di Firenze. I suoi studi s’incentrano sul senso del fare architettura e urbanistica.
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Nella millenaria tradizione della città europea è “cittadino” chi possiede una casa. Si è soliti sottolineare questo tratto peculiare di liberalità e democraticità. Avere cittadinanza non richiede, come altrove, l’appartenenza a una stirpe, ma il fatto di abitarvi, di avervi messo su casa. Per questo la città europea è considerata “aperta” ad accogliere nuovi cittadini e luogo di una “società mobile”, i cui membri sono individui liberi da legami di sangue e da altre forme di servitù. Marco Romano ritiene che nel requisito fondamentale di possedervi un’abitazione sia la causa dell’alto valore estetico delle città europee (La città come opera d’arte, Einaudi, Torino 2008). La facciata della casa è il volto con cui il singolo cittadino e la sua famiglia si mostrano alla comunità, affacciandosi sulla via e sulla piazza. A loro volta le città europee hanno gareggiato in bellezza, esprimendo tutta la loro volontà estetica nella costruzione dei luoghi e dei palazzi pubblici, che Romano chiama “temi collettivi”. Sicché, più o meno belle le singole facciate e le diverse opere pubbliche, in tutte le città europee, pur nella loro ricchissima diversità, è riconoscibile un linguaggio comune, una comune intenzione estetica, un’identica e costante intenzione che l’intera città vada prendendo forma come una consapevole opera d’arte collettiva. È questa la base delle loro rispettive identità. Ma in che senso di una qualsiasi città si può affermare il suo essere “aperta”? Non certo in senso assoluto. La città “aperta” in senso assoluto è l’impossibile, ossia una non-città. Eppure nel nostro tempo essa si manifesta, e si dice anche di volerla, “aperta” come mai prima è stata pensata. Il dire “aperta” della città europea tradizionale è sempre un dire in relazione a modi di essere di altre città, a città di altre culture e civiltà, di altre epoche e luoghi. La città europea è stata “aperta” relativamente alla sua capacità di accogliere l’individuo “libero” dall’appartenenza a una stirpe. E tuttavia, per entrarvi a far parte, chiunque doveva possedere una casa, doveva abitare concretamente la città per essere membro della civitas. Doveva perciò chiedere la cittadinanza e passare al vaglio delle autorità, alla luce dello statuto di quella determinata città. Una città, per costituirsi come tale, deve fondare la propria identità tracciando un confine. Deve recintarsi in senso spaziale e insieme sociale, stabilendo chi sta fuori e chi sta dentro. La città ha sempre e necessariamen-
te anche ospitato, ha sempre cioè abitanti temporanei, accoglie, in ogni tempo e per i più diversi fini, visitatori. Ma qui stiamo parlando degli appartenenti alla comunità, dunque nel nostro caso, nella tradizione europea (se si accetta l’interpretazione storica di cui si sta dicendo) di coloro che vi risiedono stabilmente. Come stanno le cose oggi? C’è il libero mercato e le case si comprano e si vendono, non per abitare, ma allo scopo primario di far soldi. Abitare è, invece, fine secondario. Si costruiscono palazzi a scopo di profitto. Lo Stato, quando diviene necessario, costruisce alloggi per coloro che non hanno casa e il cui reddito mai permetterebbe di accedere al mercato. E lo Stato si prefigge così fini che sono di stimolo allo sviluppo economico in regime di libero mercato e di prevenzione dai rischi di tensioni sociali, che altrimenti l’iniqua distribuzione del reddito (peraltro necessaria al perseguimento del profitto) provoca. È evidente come non sia pensabile che la costruzione privata di case a scopo di profitto e quella pubblica a scopi di welfare possa aver cura delle facciate, ossia possa dare lo spazio di un tempo all’intenzione artistica e alla volontà estetica. Se non altro perché quando si costruisce per vendere, ossia per il mercato, così come quando si costruisce per dare la casa a chi non può permettersela, non solo chi l’abiterà non è il committente, ma il futuro abitante non è ancora manifesto, se non come appartenente a una generica categoria di possibili acquirenti, un target di mercato, o anonimi utenti di case “popolari”. E il “popolo”, si sa, non ha volto, è un costrutto teorico. L’appartenenza alla città è oggi un fatto burocratico: una registrazione anagrafica della residenza, che non si identifica necessariamente con l’abitare in città, ma in un qualsiasi luogo del territorio comunale, anche sperduto, isolato e distante dal centro urbano. Si è rotto quel rapporto che noi crediamo di vedere nell’interpretazione storica tra l’intenzione estetica con la quale si costruiva l’identità individuale e insieme sociale, dando volto a ogni diversa città in un comune linguaggio europeo. Di quella grandiosa, millenaria opera collettiva permangono ancora alcune notevoli vestigia, che per lo più chiamiamo “centri storici”, “città d’arte”, “patrimonio urbano”. E le facciamo oggetto di una molteplicità di attenzioni e abbracci non sempre benefici, talvolta mortali. Quell’identità, l’identità che si vuol vedere nella città tradizionale, si è frantumata per dilatazione nell’urbano sconfinato. Quando l’espansione assume quantità inu-
sitate, chiamiamo queste realtà “metropoli”. Ma si può dire che tutte le antiche città vadano assumendo tratti metropolitani. Anche quando non crescono o crescono poco, la loro identità è dilacerata dalla metropolizzazione, che consiste nel proliferare delle identità, ossia delle istanze di cittadinanza. Ciascuna è portatrice di un proprio progetto d’identità in conflitto con gli altri. Non c’è più un dibattito, per quanto aspro, intorno alla costruzione dei “temi collettivi”, perché il linguaggio è sempre meno comune. Siamo testimoni, invece, di lotte senza fine per l’acquisizione di cittadinanze radicalmente alternative. L’esito tendenziale del lottare è la frantumazione in una molteplicità di identità giustapposte, che riducono a “metropoli” anche i più piccoli centri. Il fenomeno è tanto più vistoso quanto più una città sia eletta, come per esempio Firenze, a “città d’arte”. La tutela della sua identità storica si scontra con le istanze di mobilità, con lo sfruttamento turistico del patrimonio, con la domanda di case per i vari ceti sociali, con quelle di dar spazio allo sviluppo economico del nostro tempo, con le sollecitazioni all’innovazione, con la fame di lavoro e benessere per le masse diseredate degli immigrati dal terzo mondo. E lo stesso essere “città d’arte” catalizza questi diversi appetiti in conflitto tra loro e in opposizione alla medesima identità storica, compromettendone il futuro. La città si metropolizza in mobili aggregati di identità locali, ciascuno con la propria volontà di cittadinanza. Ognuno ha la pretesa di conferire la propria identità alla città, dominando gli altri. Ma la metropoli s’incarica di porre tutti al servizio della crescita di se stessa. Sicché, anche le vestigia dell’antica città, dell’identità “che fu”, ossia il “centro storico”, la “città d’arte”, il “patrimonio urbano”, altro non sono che uno dei molteplici luoghi della dispersione, a sua volta sottoposto alle variazioni delle differenti interpretazioni della storia, poiché il passato, il “che fu”, come Nietzsche e Gentile hanno messo in luce, è impossibile che nel pensiero del nostro tempo possa mai essere un immutabile (Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Bompiani, Milano 2005).
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Nati dopo Daniele Lombardi
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Pianista, compositore e artista visivo, di grande notorietà internazionale per il suo particolarissimo repertorio, per molti anni ha lavorato sulla musica delle avanguardie storiche degli inizi del Novecento, eseguendo in prima esecuzione moderna autori ingiustamente dimenticati. Esperto nella grafia musicale contemporanea e prassi esecutiva, Lombardi ha da sempre un profondo interesse per un’idea multimediale dell’arte: la doppia formazione di studi musicali e visuali lo ha posto in una dimensione che ingloba segno, gesto e suono in una sola idea di percezione molteplice, tra analogie, contrasti, stratificazioni e associazioni. La sua ricerca spazia tra visioni astratte interiori e l’idea di un impatto sulla quotidianità, tra il readymade e il miraggio.
* Versione definitiva di un testo pubblicato in “Firenze, Quaderni di inchiesta urbana”, a cura di Ornella De Zordo, Firenze 2008, Edizioni Unaltracittà/ Unaltromondo.
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Una facile boutade: qualche anno fa, passando nel terzo millennio, molti hanno pensato che erano nati nel secolo prima; una sensazione diametralmente opposta a quella che fa sentire l’essere nati a Firenze, perché chi è nato in questa città sente di essere nato dopo. “Je suis venu au monde très jeune dans un temps très vieux” era il famoso pensiero di Erik Satie... un passato “migliore”, un presente “difficile” e il futuro “incerto” sono un punto di vista diffuso all’ombra del campanile di Giotto. Firenze, la “culla dell’arte”, insieme a Urbino la “città dell’utopia”, è la città di chiese, conventi, palazzi, assediata da un turismo di massa “mordi e fuggi”, ma pure se è difficile morderli e fuggirli, anche la musica ha i suoi monumenti invisibili: è nata qui la musica di Landino degli organi, come qui è nato il melodramma agli inizi del Seicento e un secolo dopo, alla corte dei Medici, Bartolomeo Cristofori cominciò a costruire i suoi primi pianoforti. La distanza tra la grande arte che ci ha preceduto e la modernità ha creato diffidenza e sospetto, se non ironia, come se il lascito della storia fosse un’azione definitiva, l’ultima spiaggia. Con tutte le avanguardie novecentesche che hanno segnato poi il cammino dell’arte, il distacco tra atteggiamento conservatore e vitalità del nuovo è considerevolmente aumentato. Abitando in questa città, dove l’indimenticabile campione dei pedali Gino Bartali diceva sempre “ell’è tutto da rifare”, siamo come gli spettatori di un’alternanza tra xenofilia e xenofobia: a volte viene ignorato chi ci ha sempre vissuto, mentre prospera il trend di illustri ospiti, personalità ritenute all’altezza del passato e il fastidio per le orde dei turisti dovunque è notevole, non certo sentito dai commercianti che ci sbarcano il lunario. Venendo a parlare di quella che Ettore Pozzoli chiamò “l’arte dei suoni”, è necessaria una premessa di carattere generale sulla parola “musica”, perché comprende forme, stili e usi diversi. Tra puro intrattenimento e impegno numerosi generi: pop, rock, soul, etnica,
Un passato “migliore”, un presente “difficile” e il futuro “incerto” sono un punto di vista diffuso all’ombra del campanile di Giotto
Esiste e persiste un classismo culturale che guida le scelte, verso un consenso di grandi numeri, un successo di intrattenimento che motiva l’impegno economico, un ritorno per così dire di “immagine” sulla gestione della cultura
disco music, musique en tapisserie, e poi quella d’arte, pesante, che proviene dalla classica, quella religiosa, e via e via, nonché tutte le contaminazioni possibili, una fusion che pesca in un generalismo che bagna tutta l’arte e la cultura del contemporaneo. Questa ricchezza disorienta e, dato per scontato che ogni genere e ogni sintesi tra generi diversi possa essere bellissima, il discrimine nasce dall’uso. Ci può essere una musica “bella ma inutile” oppure, come nel caso della pubblicità, musiche commerciali, belle o brutte o banali o raffinate, ma sempre utilissime per la vendita di cosa si pubblicizza. I casi sono tanti, ma bisognerebbe riconsiderare la funzione di queste diverse musiche in rapporto al proprio tempo nella vita quotidiana. Sarebbe impossibile ascoltare uno degli ultimi quartetti di Beethoven in un negozio per il quale occore tempo di attenzione mentre si comprano dei jeans, così come ascoltare della disco music seduti in una sala da concerto con la massima concentrazione può diventare abbastanza insopportabile. Infine quella che Alberto Savinio chiamava “estranea cosa”, la “non conoscibile”, può anche prendere a tradimento, per esempio il Preludio della Traviata che si diffonde da una finestra, inaspettato, può afferrare alla gola, camminando per strada. Tornando al generalismo, si è creata una falsa prospettiva, quella che ciò che non piace, non vale; e se lo scopo primario è che ciò che si ascolta piaccia, non si fa altro che alimentare un criterio di marketing pilotando l’assuefazione con reiterati ascolti e togliendo la lucidità di un criterio di scelta. Questo fare “d’ogni erba un fascio”, lasciando che una competenza comune, sempre più abbassata a livello di un volgare strapaese, decida la hit parade e con essa l’investimento nello spettacolo musicale, temo che sia la peggiore politica culturale possibile. Qui non c’entra più tanto una cultura “di destra” o “di sinistra”, bensì una tipologia che si differenzia meglio se definita “alta” o “bassa”, ponendo l’attenzione sul dato di fatto che esiste e persiste un classismo culturale per il quale queste altre due dimensioni guidano le scelte, verso un consenso di grandi numeri, un successo di intrattenimento che motiva l’impegno economico, un ritorno per così dire di “immagine” sulla gestione della cultura. In una città di alcune centinaia di migliaia di persone come Firenze – refrain: una delle capitali del mondo per l’arte e la cultura – si dovrebbe
tener presente una visione di insieme su questi problemi e realizzare le condizioni per le quali almeno due o trecento persone intorno ai venti anni potessero sentir nascere un interesse nella facilitazione di un accesso anche alla “musica d’arte”, oltre a quella “giovanile”. Vorrei tentare di contraddire un indimenticabile amico che diceva sempre: “A Firenze o si prende il treno o si perde il treno”; la vera cosa utile che si può fare in un ipotetico dialogo con le istituzioni, affrontare un’analisi degli ultimi anni di vita artistica e culturale, non è quella di lamentarsi di una volgare e inadatta gestione; qualsiasi critica poi sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Il desiderio che sorge, invece, è quello di lanciare delle proposte concrete, attuabili, offrire un punto di vista che non ci è stato richiesto, ma che con una mentalità costruttiva può dare delle indicazioni, un punto di vista che non è quello dell’amministratore o del dirigente, ma di musicisti che vedono una diversa prospettiva del concetto di “repertorio” che è sempre contrapposto alla “marginalità”, nuove possibilità nella razionalizzazione di una gestione, assumendosi una coraggiosa e consapevole scelta nel territorio multiforme di espressioni che si chiamano tutte genericamente “musica”, senza seguire il trend attuale, invece creandone uno nuovo, aprendo un varco nell’infinita produzione di musiche del secondo Novecento. Nel primo Novecento il mondo musicale è stato molto attivo, con eventi importanti come la prima esecuzione del Pierrot lunaire di Arnold Schönberg avvenuta nel 1924 alla Sala Bianca di Palazzo Pitti che fu realizzata con la concertazione di Alfredo Casella. Dieci anni dopo, nonostante il clima culturale autarchico, il Teatro Comunale ospitò il Festival di Musica Contemporanea della SIMC ancora grazie all’infaticabile Casella che fu tra i più attivi protagonisti della diffusione della nuova musica in quegli anni. Va detto che la ricerca musicale anche negli anni bui del regime fascista passava abbastanza inosservata e questo festival ne è una prova,
Qui non c’entra più tanto una cultura “di destra” o “di sinistra”, bensì una tipologia che si differenzia meglio se definita “alta” o “bassa”
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visto che vi furono concerti con programmi di autori di varie nazioni europee, un panorama che oggi passerebbe tangente ai media nell’indifferenza di altre musiche sulle quali punta l’industria dello spettacolo musicale. Al centro della vita musicale di Firenze c’è l’attività dell’Ente Autonomo Teatro Comunale: il primo Maggio Musicale nacque come festival nel 1933, ormai ottantenne, poi ci sono anche gli Amici della Musica al Teatro della Pergola, associazione che si formò nel 1920 e che rimane il riferimento più importante per stagioni concertistiche di altissimo profilo. L’Orchestra Regionale Toscana al Teatro Verdi è l’altra principale istituzione fiorentina che una trentina di anni fa ha visto la luce sulle ceneri dell’Orchestra dell’AIDEM. Intorno a queste tre realtà, insieme alla Scuola di Musica di Fiesole che è a portata di autobus, nel corso dei decenni si sono create e sciolte varie altre iniziative, associazioni e gruppi. Con uno sguardo al passato più vicino a noi, si può citare l’eroico festival realizzato da Pietro Grossi, Vita Musicale Contemporanea, che portò a Firenze agli inizi degli anni sessanta il meglio della sperimentazione musicale internazionale di quegli anni. Grossi ha avuto anche il grande merito di aver fondato uno Studio di Fonologia Musicale (il manifesto programmatico è del 1966), che poi fu istituzionalizzato come cattedra di musica elettronica nel Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze: una delle prime in Italia. Fu un fatto importante successivamente la partenza straordinaria del Musicus Concentus, associazione che fece conoscere a Firenze un repertorio concertistico che registrava tantissime prime esecuzioni, spaziando moltissimo nella contemporaneità. Altra associazione dedicata al contemporaneo è il Gruppo Aperto Musica Oggi, il GAMO, fondato nel 1977, che per tanti anni ha vissuto senza trovare adeguati sostegni economici da parte delle istituzioni. Nel 1987 Luciano Berio ha fondato a Firenze Tempo Reale: il centro dedicato alla ricerca nel campo della sintesi digitale del suono, in tutta la vasta prospettiva che la computer music ha aperto, sia come evoluzione tecnologica che come produzione compositiva. Il centro ha prodotto una grande quantità di opere di numerosi compositori ed è presente nella realizzazione di live electronics per importanti produzioni in Europa. Ormai si sono definitivamente perse le tracce di un editore di musica fiorentino che ha avuto nel corso degli anni settanta un ruolo importantissimo in ambito europeo: Aldo Bruzzichelli, che aveva anche iniziato una etichetta discografica che si chiamava AYNA, poi distribuita da Ricordi. Nel 1978 pubblicò un catalogo cartaceo che dava un’idea delle attente scelte, vi si trovavano molte composizioni di Jean Barraqué, Bruno Bartolozzi, Arrigo Benvenuti, Sylvano Bussotti e Bruno Maderna, per fare solo alcuni nomi. Sarebbe lungo fare un elenco di tutte le altre istituzioni, come l’Accademia “Bartolomeo Cristofori” che da tanti anni produce preziose stagioni sul fortepiano e i gruppi come il Contempoartensemble, l’ensemble Nuovo Contrappunto, Nuovi Eventi Musicali e così via, la recente realtà dell’Auditorium al Duomo, ma sicuramente, se continuo con l’elenco, rischio di non citare tutto un ricco fermento di queste realtà che per anni hanno svolto attività a volte eroiche, tenendo conto dello scarso ossigeno del quale a volte potevano disporre. Il Teatro del Maggio nasceva tanti decenni fa con 22
un’incredibile spinta alle avanguardie, basta guardare i programmi dell’epoca. In pieno fascismo, in un 1934 sotto il segno dell’autarchia culturale, il Comunale di Firenze fece un festival di musica contemporanea facendo ascoltare musiche di tanti paesi europei, in collaborazione con la SIMC, Società Italiana di Musica Contemporanea, animata da Alfredo Casella, con un impegno pari a quello che dimostrò Roman Vlad trenta anni dopo, in un clima finalmente libero, con l’indimenticabile Maggio Musicale Espressionista. Il Maggio dovrebbe ritornare a essere una punta della vita musicale europea come festival di nuova musica, ma questo sarebbe possibile soltanto con un balzo in avanti rispetto a una routine che conferma la contrapposizione di marginalità e repertorio, indagando molto raramente su quanto oggi accade di veramente sperimentale; Vittorio Gui aveva avuto il merito di una lungimiranza in tal senso e nei primi decenni di attività questo coraggio aveva dato grandi risultati. Forse la presenza di Karlheinz Stockhausen, grazie a Massimo Bogiankino, è stata, con quella di Luciano Berio poi, tra i momenti più importanti e di maggior vitalità nella storia del teatro fino agli anni novanta. La funzione di indirizzare con precise linee programmatiche una visione delle cose dovrebbe concepire la storia passata non come un’evasione dal presente, bensì uno sguardo al passato dal presente. Agli inizi degli anni ottanta ci fu un tentativo da parte di 57 autori di svegliare l’attenzione del teatro su questi problemi che partì da una lettera all’allora Direttore artistico Massimo Bogianckino ma, dopo una breve fase interlocutoria, da allora sono continuati alcuni segnali che non sono bastati a indirizzare la programmazione sulla contemporaneità. Oggi la lista dei compositori che potrebbero essere presenti in futuro con prime esecuzioni è veramente molto lunga, così come potrebbe essere lunghissima la serie di composizioni anche di 50-60 anni fa in “prima esecuzione a Firenze”. Tutto questo testimonia di quanto le scelte sono vincolate troppo a circostanze editoriali, manageriali, senza una visione indipendente e coraggiosa, dunque senza un criterio che rischia sul contemporaneo, ma testimonia al tempo stesso di un mutamento profondo, un villaggio globale della musica che con un generalismo che disorienta il pubblico mette insieme generi diversi, ma non li confronta mai, anzi li impasta secondo un auditel che è un ulteriore influsso dato dal sistema televisivo: spetta a chi programma creare un orientamento che eviti di fare di ogni erba un fascio. L’affanno alla ricerca dei grandi numeri per un pubblico che comunque sembra tendere a calare, a meno che non si faccia il salto nel pop, rock, etnica o jazz, è un sintomo del regresso culturale in favore del marketing; ma il Teatro del Maggio potrebbe assumersi il gesto eroico, in controtendenza, di tornare un grande festival internazionale orientato sulla produzione attuale, con
Il Maggio dovrebbe ritornare a essere una punta della vita musicale europea come festival di nuova musica, ma questo sarebbe possibile soltanto con un balzo in avanti
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Sinfonia 1 per ventuno pianoforti
Daniele Lombardi, Firenze, via Tornabuoni, 4 luglio 1987 24
le più stimolanti e audaci proposte che possono venire da molte parti del mondo, in una “par condicio” tra i generi che mette in secondo piano gli aspetti commerciali di questi fenomeni in nome di una proposta veramente dettata da istanze culturali; allora sì che potremmo riqualificare un ente nato per questo. Certo lasciare anche spazio alla tradizione, ma dobbiamo farla convivere come cornice dentro un nuovo profilo che possa collegare sperimentazioni, poetiche e azioni con una visione comparatistica delle arti, una riflessione non discriminante sui generi che appartengono tutti al panorama conseguente dell’oggi, ma non rispondente soltanto a criteri di consenso e di mercato, creando dall’alto una linea, un profilo culturale, assumendosene poi onori e oneri. Partiamo dalla considerazione che ormai le musiche sono tante e che sostenere una “musica d’arte” e una dimensione di “contemporaneità” debba essere culturalmente giusto nella prospettiva delle nuove generazioni, anche per dare un orientamento sulla compresenza delle varie musiche. Maurizio Pollini, in un’intervista sul “Sole 24 Ore”, qualche tempo fa, esprimeva l’idea che l’entusiasmo dei ragazzi per la musica che ascoltano, a maggior ragione sarebbe vivo anche per quella artisticamente più profonda, se potessimo dare loro un giusto modo di conoscerla. È inimmaginabile la quantità di musica che potrebbe essere eseguita a Firenze per la prima volta, importanti opere che ormai possono essere considerate capolavori del nostro tempo qui non sono state mai ascoltate, molti autori che nel panorama internazionale sono figure principali non hanno avuto ancora l’attenzione che meritano. Sarebbe certamente impossibile occuparsi di tutti, ma fra il troppo e il troppo poco si dovrebbe riparare ad assenze ormai imbarazzanti. Ogni anno, prime esecuzioni assolute e prime esecuzioni a Firenze, dovrebbero essere non episodi sporadici, bensì la struttura portante del cartellone, non limitandosi a soluzioni di repertorio con la novità di allestimenti più o meno rivoluzionari. Questa coraggiosa controtendenza sarebbe l’unica formativa anche per le nuove generazioni, vittime di una non preparazione, ma nemmeno di una infarinatura, destinate ad avviarsi a un disorientato intrattenimento che omologa tutto sulla base di un impatto immediato, piacevole o travolgente, fulmineo come i messaggi pubblicitari nel linguaggio televisivo. Un pubblico giovanile per la musica d’arte nella misura di centinaia di presenze era riuscito a realizzarlo il Musicus Concentus negli anni settanta, importante realtà in una città come Firenze, che si formò grazie al trinomio Farulli-Fabbri-Pinzauti; oggi resta un esempio di campo base per qualsiasi spedizione successiva, tenendo conto però del cambiamento e delle contaminazioni irreversibili anche tra generi lontani. Vedo la possibilità di un nuovo criterio, creando una sinergia, pilotata dal Teatro del Maggio come polo di aggregazione, finalmente in una stretta collaborazione con le tante altre realtà: in primis il Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini”, gli Amici della Musica, l’ORT e la Scuola di Musica di Fiesole, poi tutte le altre, con la collaborazione anche di Tempo Reale. Chi è professionista della musica a Firenze spesso ha difficoltà di avere un quadro di ciò che accade e accadrà nei vari programmi, un cartellone unico renderebbe certamente più comprensibile e più appetibile la proposta anche
per chi si avvicina sporadicamente e senza preparazione al mondo musicale. Per far ciò necessita anche la momentanea sospensione di una inevitabile gerarchia, certamente partendo da uno standard professionale alto, ma senza discriminazioni e faziosità, non eludendo un confronto e una riflessione concreta sulla contemporaneità e questo non solo nella musica, bensì in tutte le arti. Vedo questo assai difficile ma possibile, in una città dove da secoli, dopo i Guelfi e i Ghibellini, si continua anche oggi a menarsi in piazza Santa Croce per un Calcio in Costume che contrappone i quartieri: Spes ultima dea. Sarebbe bello se finalmente con un largo anticipo programmatico si potesse sapere esattamente cosa accade, quali sono le programmazioni e di che genere di musica, dal primo di gennaio al 31 dicembre di un anno, in modo da orientare un’informazione che tutt’oggi è di difficile lettura anche per chi è un musicista professionista, figurarsi per chi non ha una preparazione specifica. Con un risparmio di risorse non indifferente si potrebbe costruire una programmazione che a 360 gradi proponesse tante musiche e finalmente fosse anche l’occasione di creare approfondimenti con incontri, mettendo in gioco una dialettica tra culture e realtà che a oggi sono tutte chiuse nel loro orticello. Questo già accade in alcune città europee ed è uno strumento essenziale per creare un pubblico stabile e una visibilità delle proposte anche a chi non è dentro la musica professionalmente, un panorama di programmi, date e luoghi che possa far maggiormente desiderare e decidere di partecipare a questi eventi. In questa nuova visione possono intervenire anche idee nuove, come per esempio la scelta di fissare l’ora di un concerto per un pubblico giovanile tra le 18.30 e le 20.00, facendolo coincidere con l’attuale diffusa moda dell’happy hour. Senza alcuna intenzione di voler pugnalare alle spalle le tradizioni, credo nello scatto culturale come possibile azione, ma dovrebbe essere sostenuto da uno zoccolo duro di presenze importanti della città, oltre al mondo musicale che ne è direttamente interessato, intellettuali e artisti, operatori di vari campi che condividono un impegno civile, per un sostegno in un dialogo con i responsabili delle istituzioni, finalmente non lasciati soli su scelte che sono determinanti per la fisionomia futura dell’offerta musicale a Firenze.
Senza alcuna intenzione di voler pugnalare alle spalle le tradizioni, credo nello scatto culturale come possibile azione, ma dovrebbe essere sostenuto da uno zoccolo duro di presenze importanti della città
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«La Repubblica colpisce ancora» Lo scandalo del cantiere di Sant’Orsola Alessandro Savorelli Alessandro Savorelli è ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e si occupa di storia della filosofia. Civetta a tempo perso con la “grafica di pubblica utilità”, scrivendo elzeviri per “SocialDesignZine”. Risiede nel quartiere di San Lorenzo ed è vicepresidente dell’Associazione “Insieme per San Lorenzo”, che si batte dal 2004 contro il degrado dell’area.
«Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana...». La vicenda del convento di Sant’Orsola nel centro di Firenze (tra via Guelfa e il Mercato centrale) pare un racconto fantasy (o horror o thriller se si vuole, dato che Sergio Givone ci ha persino ambientato un giallo), a metà tra Guerre stellari e Il signore degli anelli. «Tanto tempo fa», al «tempo degli Antichi Re», un sovrano illuminato ai margini della galassia, il Granduca di Toscana, chiude il vecchio convento delle Orsoline (dove aveva finito i suoi giorni, ai primi del XVI secolo, la donna più celebre del mondo, niente meno che Monna Lisa...) e vi costruisce (siamo all’inizio dell’Ottocento) un edificio moderno in stile post-illuminista: un unicum nella Firenze addormentata sui suoi allori rinascimentali. E che unicum: una chiarezza di forme razionali, senza orpelli, ripresa moderna di forme vagamente brunelleschiane, che è insieme un manifesto politico. Diventa la Manifattura Tabacchi, primo nucleo di una classe operaia al femminile, che per oltre un secolo sarà un pezzo della storia dell’emancipazione nella città. Nel 1940, sparito il Granducato e subentratigli Imperi più o meno fatali, la manifattura si trasferisce a piazza Puccini e l’edificio, 14.000 mq, rimane abbandonato. Ecco che arriva un nuovo Imperatore, che s’ammanta, sì, sotto il nome di “Repubblica Italiana”, ma la cui distanza dai sudditi rimane sovente, nonostante le buone intenzioni, quella di una satrapia orientale. Ci mette gli sfrattati, poi i profughi delle guerre sfortunate dell’Impero precedente: negli anni settanta ha un momento di generosità, pensa per un attimo di collocarci un pezzo d’Università (bisogna illudere gli studenti agitati), poi cambia idea, progetta di insediarvi un comando di pretoriani, uno dei tanti che possiede, la Guardia di Finanza. Spende 6 miliardi di lire e consolida l’interno, ma i pretoriani s’accorgono che l’edificio non è funzionale (come ce le portano le auto in via Guelfa?) e abbandonano tacita-
Da quel momento il tempio solare della manifattura illuminista diventa “La Morte Nera”. Una catastrofe ambientale e urbanistica, un monumento all’insipienza e allo spreco
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mente lavori e progetto. Il costruttore gli fa causa: l’immobile è sequestrato per 20 anni dal giudice, transenne e tutto, che costano al contribuente fiumi di denaro. Da quel momento il tempio solare della manifattura illuminista diventa “La Morte Nera”. Una catastrofe ambientale e urbanistica, un monumento all’insipienza e allo spreco, un bene comune di inestimabile valore, per superficie e potenzialità – collocato a 300 metri dal Duomo, a 50 dal Mercato centrale, a 500 dalla stazione – disperso nella galassia dalla Repubblica Italiana che ha ben altre cose a cui pensare. Nel 2003 i comitati di quartiere del piccolo sistema solare di San Lorenzo e della Contea di piazza Indipendenza insorgono: chiedono che l’immobile sia recuperato. Sono nanetti pelosi, una specie di ewok o hobbit, non hanno mezzi, né udienza politica: sono semplicemente inferociti. La “Morte Nera” ha divorato il loro rione: l’edificio è ricoperto da luridi stracci, come sudari, i lavori di consolidamento hanno dissestato e danneggiato decine di abitazioni nelle vie adiacenti, costringendo i residenti all’esodo. La zona è desertificata, via i residenti, via gli operatori economici, via le botteghe. Inevitabilmente, diventa un ghetto, si deprezza: fioriscono esercizi poverissimi, luogo di raccolta di emarginati, dove si spaccia, ci si ubriaca, si fa sosta selvaggia, il tutto senza regole. Se un vigile coraggioso si spinge fin lì è festeggiato dalla popolazione come un esploratore che sbarchi in un’isola remota. Quando una ditta sarà incaricata nel 2008 di togliere i ponteggi, scoprirà nell’intercapedine tra di essi e il muro, chili di sporcizia accumulatasi per 20 anni, siringhe, cumuli di portafogli e borse, avanzi di scippi gettati al di là delle recinzioni, escrementi assortiti. Accanto al perimetro, soprattutto nei primi anni del nuovo secolo, è tutto un chiamare il 118 per soccorrere disgraziati in overdose. La notte e i giorni festivi il quadrilatero è terra franca, di bande armate di coltello e di heineken, l’unico prodotto che venduto per strada, magari da negozi di parrucche o banane, che qualifichi il territorio (sotto forma di bibita e di deiezioni della medesima). Negli anni seguenti, occasionalmente vi si accampano tribù girovaghe, giorno e notte: le strade sono insieme camping, picnic, toilette, bar, ring, parking. Il Comune di Firenze, nel 2004, raccoglie il grido dei partigiani galattici e progetta di acquistare l’edificio. Il giudizio ha disposto il rilascio dell’immobile, dopo
il fallimento della ditta appaltatrice; si avvia una stima di fattibilità per negozi e residenze, da realizzare con un’operazione di leasing immobiliare. Il progetto, coraggioso, si arena attorno al 2006. La Giunta è perplessa, i costi troppo elevati, il rischio d’impresa aleatorio. Nell’estate 2007 il piano è abbandonato, ma la guerriglia degli ewok o hobbit, allo stremo, trova inopinatamente un ufficiale di riferimento: Matteo Renzi, Presidente della Provincia, che con un’operazione lampo sigla un accordo col Demanio (cioè con la manomorta della Repubblica-Impero). La Provincia comprerà il Sant’Orsola per circa 22 milioni di euro (ne serviranno poi altrettanti per ristrutturarlo), nel quadro di un accordo a quattro (Demanio-Regione-ProvinciaComune) che prevede uno scambio di immobili: Fortezza da Basso e Sant’Orsola agli enti locali, i quali cedono in cambio alla Repubblica uno spezzatino di 20 edifici (caserme, ville ecc.) di loro proprietà. I nanetti pelosi esultano. Finalmente la Repubblica gli rende un pezzo di città, usurpato per decenni. Si fanno frenetici incontri, dibattiti, mostre, tesi di laurea: la Provincia si consulta sul destino della ex-Morte Nera coi comitati, i cittadini, i commercianti, gli artigiani (i pochi superstiti), architetti, urbanisti, associazioni. Decide che metterà in primo luogo il Liceo artistico e un auditorium, poi altre strutture destinate a servizi sociali e a un progetto artistico-culturale di rilevanza cittadina. La piccola galassia respira: attorno alla ex-Morte Nera, sparirà finalmente l’accampamento, si prosciugheranno i rivoli di heineken: nuove possibilità per i giovani, per artigiani, esercizi. Il suk diventerà più “normale”, con ospiti più rispettosi. Forse torneranno i residenti. Opportunities. I mille studenti del Liceo coloreranno il quartiere. I turisti (c’è uno studio dell’Università del North Carolina), smetteranno di tapparsi il naso e fotografare il rione come fosse una discarica di Manila, per mostrare agli amici come è ridotta Firenze (tanta spoc-
La Provincia comprerà il Sant’Orsola per circa 22 milioni di euro (ne serviranno poi altrettanti per ristrutturarlo), nel quadro di un accordo a quattro
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chia rinascimentale e tanto sudicio moderno). I progetti sono entusiasmanti: l’edificio ha 4 piazze interne (gli ex-chiostri) che diverranno, messe in comunicazione con le vie adiacenti, spazi pubblici per bambini, anziani, residenti, studenti. La Morte Nera, chiusa come una fortezza, imploderà, aprendosi all’esterno. Un mostro ecologico, definito da Don Livi, priore di San Lorenzo, il “cancro del quartiere”, diventerà un progetto d’avanguardia. La data della firma del contratto è fissata al febbraio 2008. Ma il mese passa senza che nulla accada. Beh, dicono gli hobbit, sono ritardi “accettabili”, in un paese dove nel tempo che si è ricostruita Berlino, non siamo riusciti nemmeno a restaurare il cinema Apollo... abbiamo un po’ di pazienza... Intanto il Comune fa la sua parte: fa togliere gli schifosi ponteggi rugginosi, la Morte Nera rispunta a nuovo squallore restituita, insieme ai marciapiedi desaparecidos, tra gli oh! di chi era nato senza mai vedere cosa c’era sotto i tubi Innocenti: la si deve mettere in sicurezza, si tamponano le finestre con mattoni, si ripulisce alla bell’e meglio. Il quartiere ha riacquisito almeno 90 cm di carreggiata e un po’ di luce. Si brinda. Il giorno di Sant’Orsola (21 ottobre) si fa una festa (anche per stimolare la famosa firma del contratto). Qui avviene il primo scricchiolio. Gli hobbit-ewok chiedono alla Repubblica-Impero di consentire che un atelier di giovani artisti dipinga con un mural uno dei finestroni a piano terra. Un segnale a scopo sociale. La Repubblica fa sapere: a) che si doveva chiedere il permesso con congruo anticipo, almeno 6 mesi; b) che lo si chieda pure, ma probabilmente non verrà dato; c) che come disturbo all’Impero si dovranno comunque versare, come tassa di concessione, 180 euro. Gli hobbit sono fuori di sé: la Repubblica gli ha fatto un danno di 50 milioni netti di euro più interessi e mancato guadagno, più i danni materiali e morali ma, priva di faccia (o con la faccia “come il deretano”, come si dice a Firenze sulle orme dello Stilnovo), chiede 180 euro. “Ci renda piuttosto i 50 milioni e noi gli scaliamo i 180 euro!”, gridano gli ewok in coro, marciando insieme a Don Livi nel dicembre del 2008. Tutto inutile. La Repubblica colpisce ancora: manda a dire, ma per vie traverse, senza un confronto pubblico, da Impero appunto, che non meglio precisati “problemi tecnici” e adempimenti vari impediscono la sigla del 28
contratto. Quali? La Provincia ha i soldi contanti per onorare i suoi impegni, ma la Repubblica non molla, i suoi burocrati reclamano un pezzettino di sadico esercizio del potere sui sudditi, come i loro predecessori. Gli hobbit restano fregati: arriva il febbraio 2009, un anno e mezzo dalla sigla del protocollo d’intesa tra Demanio e Provincia e del contratto non si sa più nulla. Sulla Morte Nera, ridiventata tale, i writer già si esercitano in un crescendo di spraygrafie come su tutto il resto della città. La heineken scorre imperturbata come il placido Don. Il lunedì mattina i pendolari escono pe-
Perché non si firma? perché tutto si è arenato? e cosa succederà dopo le elezioni? il progetto andrà avanti? i soldi ci sono? sticciando gli avanzi di 48 ore di bivacco, come sempre. Gli hobbit scrivono al Ministro: vogliono sapere perché non si firma il contratto e se c’è qualche cavaliere Jedi fellone e perché e chi gli regge bordone. No reply. Scrivono a tutti i parlamentari toscani di tutti i colori politici. Non uno si degna di rispondere. Di fronte al Ministro imperiale delle infrastrutture Matteoli, a “Porta a Porta”, Matteo Renzi cita il Sant’Orsola come esempio di malgoverno della cosa pubblica. Ma la cosa finisce lì, triturata dallo show. Perché non si firma? perché tutto si è arenato? e cosa succederà dopo le elezioni? il progetto andrà avanti? i soldi ci sono? La Repubblica sa che ogni anno perso, significa anni di ritardo per la realizzazione del progetto? Ewok e hobbit attendono risposta, ma la Repubblica non pare gliela voglia dare. L’Imperatore troneggia sulla sua torre con l’Occhio di Sauron acceso, indifferente ai problemi dei nanetti. Gli ripete anzi, come diceva il papa-re del Belli: “io so’ io, e voi non siete un cazzo”. maggio 2009
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Accoglienze Fatos Lubonja Fatos Lubonja è nato nel 1951 a Tirana. Scrittore, giornalista, attivista dei diritti dell’uomo, exprigioniero politico. Nel 1994 ha fondato la rivista trimestrale “Perpjekja” (“Impegno”) – un impegno e uno sforzo per introdurre lo spirito critico nella cultura albanese. È autore di diversi libri di cui due pubblicati in Italia: Diario di un intellettuale in un gulag albanese, Marco Editore 1994, e Intervista sull’Albania. Dalle carceri di Enver Hoxha al liberismo selvaggio, a cura di Cladio Bazzocchi, Il Ponte 2004. Ha ricevuto numerosi premi fra cui lo “Human Rights Monitor” per il suo impegno come attivista dei diritti umani (1997); il “Premio Herder” per la letteratura (2004); e in Italia il premio giornalistico “Colomba d’oro per la pace” (1997); il “Premio Moravia” per la narrativa straniera (2002). Nel 2007 è stato insignito dell’onoreficienza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Republica Italiana.
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Il mio rapporto con Firenze è segnato da una contraddizione che, forse, difficilmente un giorno potrò risolvere. Ci sono due identità di questa città dentro di me che spesso non riesco a conciliare. Quando mi trovo in Albania, Firenze diventa per me quella della sua storia e della sua bellezza. Ai miei amici albanesi racconto della Firenze rinascimentale, del fatto che la pena di morte è stata abolita per la prima volta nella storia proprio in Toscana nel XVIII secolo o di come vivere vicino a piazza Santa Croce mi abbia fatto sembrare brutta anche una città come Vienna. Ma quando torno a Firenze, trovo un’altra città, quella della quotidianità di uno straniero che incontra tante difficoltà a sentirsi nella sua città, cominciando dall’aeroporto di Firenze dove spesso le valigie degli albanesi sono controllate anche con i cani. Quando Gianni Sinni mi ha proposto di scrivere per la rivista “FFF” qualcosa sulla città mi sono trovato in difficoltà, proprio perché mi sento diviso tra queste due identità, come se una impedisse all’altra di esprimersi. Forse, per dirla con Nietzsche, ho questa difficoltà perché, sentendomi straniero, faccio fatica a costruire una “storia critica” di Firenze che possa superare la sua “storia archeologica” e la sua “storia monumentale”. Alla fine ho deciso di dare a questa rivista una pagina del mio diario. Firenze, venerdì 30 luglio 2004 Ci siamo svegliati presto la mattina, con Debora, per andare in Questura. Adesso che sta per nascere Luna, devo fermarmi a lungo in Italia e per questo ho bisogno di un permesso di soggiorno. Strano, adesso che sto scrivendo la parola “questura” nella lingua albanese mi viene un’associazione – cosa che non mi succede quando la sento dire o lo dico in italiano – con la connotazione peggiorativa che ha questa parola in albanese, grazie a tutta una letteratura e tanti film del socio-realismo sull’occupazione italiana letti e visti durante l’infanzia e la gioventù nei quali “kuestura” e “kuestore” erano proprio il simbolo del male. Strana, questa associazione proustiana avvenuta tramite il passaggio di una parola da una lingua a un’altra! Non credo che questo abbia a che fare con l’esperienza di oggi. Ero nervoso quando siamo partiti la mattina, perché il giorno prima all’ufficio informazioni della Questura ci
era capitato un poliziotto stronzo. Dopo aver gettato uno sguardo veloce sul mio passaporto disse: “Questo visto è scaduto. Tu devi tornare immediatamente in Albania.” “Ma come è possibile?” – gli ho risposto. Avevo un visto Schengen di un anno con novanta giorni di permesso di soggiorno nei paesi Schengen. Secondo lui dal mese di maggio, quando era stato rilasciato il visto, fino a quel giorno erano passati più di novanta giorni. Gli dissi che da maggio fino al giorno che ero arrivato in Italia avevo consumato solo due viaggi di quattro giorni ciascuno in Austria. Allora lui guardò la data della mia entrata in Italia, 19 luglio, e disse che avevo infranto la legge perché avrei dovuto presentarmi in Questura entro otto giorni, mentre era già il 27 luglio. Avevo quindi oltrepassato di tre giorni il limite. Non conoscevo questa legge. Altre volte sono rimasto in Italia per brevi periodi e nessuno mi aveva informato che dovevo presentarmi in Questura entro 8 giorni dal mio arrivo. Debora intervenne dicendogli: “Aspettiamo un bambino”. “Prima il bambino deve nascere” rispose lui. Il suo comportamento cambiò quando capì che Debora era italiana e dopo che la sentì dire, con un tono fermo, che lui era un pubblico ufficiale e che aveva il dovere di darci l’informazione che cercavamo. Alla fine ci ha dato dei fogli da riempire dove erano elencati anche gli altri documenti da presentare, dicendo che dovevamo portarli in Questura la settimana successiva, di mattina. Al settore “Asia - Europa dell’Est” della Questura di Firenze abbiamo trovato, sotto il portico dell’edificio, dietro una sbarra di ferro, una lunga fila di gente che
era arrivata prima di noi. A parte gli asiatici, che ho immaginato essere per la maggior parte cinesi, ho capito dalle lingue che usavano che gli altri erano in massima parte slavi, romeni e albanesi. Tutti con quell’aria del bisognoso che aspetta con pazienza che il padrone di casa gli apra la porta. Siamo rimasti più di un’ora e mezzo in piedi in fila. Dovevamo stare in fila perché prima prendevano i passaporti e poi ti chiamavano e aveva la precedenza chi dava per primo il passaporto. Finalmente la porta si aprì. Da li uscì un poliziotto con la testa rasata e un corpo robusto, doveva avere trent’anni circa. Cominciò a gridare “i passaporti, i passaporti!” con un tono che sembrava quello di un guardiano di un carcere che ordinava ai prigionieri di raggrupparsi per l’appello. La fila dei bisognosi gli allungava i passaporti in silenzio, ma lui non smetteva di gridare. Debora si innervosì e, non appena vide il suo collega che stava prendendo in silenzio i passaporti degli altri, andò a dirgli che questo suo comportamento verso gli stranieri era brutto. Lui gli rispose che gli italiani non sono tutti uguali. “Qui devono venire gli attivisti dei diritti dell’uomo ogni giorno e prendere nota di quello che succede” – mi disse Debora. Io ero concentrato piuttosto sulla speranza di poter risolvere il problema del rilascio dei documenti il giorno stesso. La gente cominciò a entrare dopo che una persona alla porta lesse la prima lista di nomi. A noi sarebbe toccato più tardi. Finalmente anche noi siamo entrati dentro. I due poliziotti, il “testarasato” e l’altro, con il quale aveva parlato Debora, erano dietro i due sportelli. Erano loro 31
che ricevevano i documenti. Appena vide il testarasato Debora mi disse: “Da lui non ci andiamo.” “Dipende chi ci tocca” – risposi. “Io da lui non ci vado” insistette lei. Eravamo seduti sulle sedie, appoggiati al muro di fronte agli sportelli, che erano non più di due metri da noi. Cominciammo a seguire quello che succedeva. Il testarasato lavorava molto velocemente e con una concentrazione massima su quello che faceva. Controllava i documenti, timbrava, controllava, timbrava, senza scambiare una parola con la persona di fronte a lui. Sperando di capitare nell’altro sportello, cominciammo a seguire cosa succedeva lì. Di fronte all’altro poliziotto c’era una giovane ragazza. Sembrò aver terminato con lei e senza nemmeno abbassare la voce le disse: “A dirti la verità la ragazza più bella che ho incontrato qui era una iraniana. Ma anche tu come turca sei molto bella.” La ragazza abbassò la testa facendo finta di cercare qualcosa nella sua borsa. Debora rimase stupefatta. “Dimmi, dove vuoi andare, dal testarasato o da lui?” – le domandai. Ci toccò andare dal testarasato. Lui cominciò a controllare molto seriamente i documenti, impassibile, senza rivolgerci uno sguardo. Alla fine scoprì che ci mancava un documento. Si chiamava “cessione di fabbricato”. Dovevo presentarmi nella stazione di polizia del quartiere dove abitava Debora per dichiarare che abitavo da lei. Questo aveva a che fare con le leggi antimafia. “Potete venire a portarlo oggi stesso fino alle 11 e 30.” – disse il testarasato – “Se farete in tempo”. E ci restituì tutti i documenti indietro. Eravamo venuti a piedi perché la Questura non era tanto lontano da casa nostra. Partimmo con la decisione di farcela, altrimenti avremmo dovuto ricominciare da capo. Ho fatto anche una lunga corsa al ritorno per poter trovare la porta aperta alle 11 e 25. Il testarasato si trovava lì, a lavorare. L’altro se n’era andato. Uscimmo da lì liberati e partimmo per fare una cosa più piacevole: comprare la carrozzina di Luna. In Albania si dice che non è bene comprarla prima della nascita di un bambino perché porta sfortuna, ma a me sembra più normale fare come gli uccelli che preparano il loro nido. Abbiamo comprato una bella carrozzina rossa, più originale delle altre, e al ritorno ci siamo fermati a pranzare nella trattoria “La pentola dell’oro” vicino a casa nostra. Si mangia bene e non costa caro. E la sera viene lì un cuoco famoso che fa dei piatti rinascimentali tipo “piatto Brunelleschi” che noi non abbiamo ancora assaggiato.
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Pinocchio Project Edoardo Malagigi Edoardo Malagigi si occupa di design e arte, con una particolare attenzione alle emergenze sociali, solidali e sostenibili. Ha progettato arredi scolastici per l’infanzia e comunità protette, ha condotto ricerche di ecodesign, è titolare della cattedra di Design all’Accademia di Belle Arti di Firenze. È stato art director della fondazione “Bambini in Emergenza”. Ha pubblicato: Un design per la scuola, Museo Pecci, 1990, Prato; Benessere a scuola, Edicom, 1996, Udine 1; Lettere sul corpo con Adriano Sofri e Luigi Lombardi Vallauri, Morgana Edizioni, 2003, Firenze; Prishtina Kabul, Lcd edizioni, 2006, Firenze.
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La decisione dei giapponesi di implementare ulteriormente di correttivi montessoriani l’educazione nazionale è da ricercare in una situazione di difficoltà dell’infanzia, quasi da apparire come un’emergenza. Un controllo eccessivamente severo ha marcato fortemente l’educazione giapponese degli ultimi anni; la conseguenza è che i bambini vivono in certo senso nel mondo virtuale senza una conoscenza sana per orientarsi nel contesto sociale e storico. La mancanza di spontaneità potrebbe essere la causa o concausa di uno strano cortocircuito produttore di tragedie infantili, comportamenti con forti patologie. Sappiamo che il Metodo Montessori lavora sulla fiducia nel bambino e sul rispetto di ogni suo tentativo di indipendenza; rivolgersi al Montessori è quindi una decisisone strategica da molti punti di vista. Così la nostra pedagogista sembra un grandioso pretesto per proporre soluzioni pedagogiche adeguate al nostro tempo. Il progetto che abbiamo elaborato a Firenze per il gruppo congiunto Yoshikai-Spiral si inseriva in questo contesto ed è stato quasi banale non ricordarci dalla Toscana del burattino di Collodi: sappiamo che in Giappone Pinocchio è molto amato e conosciuto. Si potrebbe dire cinico, popolaresco, fiabesco e poetico Pinocchio; raffinato, popolare, scientifico e didascalico il Metodo Montessori. Ma ambedue sono diventati icone e messaggeri che si interfacciano con i bambini in tutto il mondo. Vi è una forza pedagogica e di persuasione delle due icone insieme; non ci possiamo dimenticare che Pinocchio è un campione dell’Italia Unita, ma anche Maria Montessori lo è; per molti l’Ottocento termina con la Grande Guerra e il Metodo viene messo a punto molto prima di questa tragedia. In un periodo di grandissime speranze, a distanza di pochi decenni, la letteratura fiabesca e la pedagogia scientifica partoriscono qualche cosa che sa guardare all’infanzia e che si espanderà ovunque nel mondo. Ambedue vogliono procurare influenze educative attraverso la prova dell’errore, ma con modi differenti. Ma come “praticamente” il personaggio di una favola può incontrare le geometrie perfette e colorate di un metodo pedagogico? Non è sufficiente dire che Pinocchio è di legno e il Metodo Montessori è di legno. Forse assumendo il gioco della vita che la favola di Collodi comunica,
Pinocchio per primo avrebbe giocato con le perline, le aste e le note musicali, avrebbe visto piovere piccoli volumi di legno colorato e visto strade lastricate di aste della matematica. Avrebbe tolto dai loro contenitori i singoli pezzi, li avrebbe rimescolati; nemmeno la fatina con la bacchetta magica avrebbe potuto ritrovarne la sede. Ma sarebbe arrivata Maria Montessori che, potendo tutto, avrebbe rotto l’incantesimo: tutti i pezzi sparsi sarebbero diventati realtà materiale, arredo urbano, città, strade, case, anche scuole. Pinocchio quindi personaggio perfetto per partecipare a “realtà sognate”, che hanno però il pregio di alimentare la fantasia del nostro attuale “spettatore”, quello che una volta si chiamava “lettore”. Ecco perché un burattino di legno di pino, con una propensione alla derisione molto toscana, potrebbe incontrare il Metodo Montessori e non solo per motivi quasi anagrafici, ma anche puramente materiali. Come si sa, la lavorazione che il falegname Geppetto fa del burattino è artigianale e l’estensione di quel tipo di “artigianalità” che la Montessori fa nella realizzazione degli elementi della sua pedagogia, alcuni decenni dopo, è anche contigua alle tecnologie, superfici e modi di lavorazione usati dagli artigiani per realizzare i primi burattini di serie. Oggi, la favola inventata da Collodi potrebbe essere soltanto una partenza; in molti casi come in questo il designer diventa un autore di realtà sognate. Quindi un Pinocchio che può fare di tutto, consumare tutto, mangiare tutto, prendere “sembianze” per favorire qualche messaggio, che noi ci augureremmo che fosse sempre socialmente utile. E si è pensato che favorire l’estensione del Metodo Montessori in Giappone fosse cosa molto utile. Giocare, comunicare, interfacciarsi coi bambini per coinvolgere, condizionare e raggiungere i genitori, ma più in generale gli adulti, sembra sia stato il nostro obiettivo. Una rappresentazione pubblica quindi, dentro un evento di giochi collettivi di bambini, dove sia possibile contemporaneamente riconoscere sia il burattino sia elementi del metodo inventato da Maria Montessori. La sintesi visiva, un “Pinocchio Montessoriano”. L’articolazione anatomica del burattino, la simmetria speculare del corpo e le proporzioni degli arti, anche per come gli illustratori lo hanno interpretato nel tempo e per come oggi lo conosciamo, ci sono venuti in aiuto. Abbiamo iniziato così a fare un esercizio di attribuzioni di singoli pezzi dell’armamentario del Metodo Montessori agli arti del corpo del burattino, cercando di non tralasciare nessuna famiglia di oggetti. Il corpo di Pinocchio avrebbe così dovuto avere almeno una rappresen-
tanza per ogni capitolo del catalogo Montessori, e così è stato: i piedi, le gambe, i pantaloni corti, la giacchetta coi bottoni, il bavero, il braccio, l’avambraccio, il collo, la testa, il naso e il cappello sono tutti una dilatazione, in scale differenti ma nello stesso colore, dei celebri strumenti didattici. Per esempio, attribuire alla testa e al naso i solidi geometrici, alle gambe le aste numeriche bleu e rosse, le braccia potavano essere i birilli delle frazioni, i bottoni della camicia i bottoni stessi dei telai delle allacciature, con l’accorgimento che siano sette come le note musicali. I pantaloncini corti sono diventati due cubi delle potenze di tre, mentre i piedi sono due perfette mezze uova, come peraltro nella tradizione della tornitura già usata nella produzione del primo gadget italiano, appunto il burattino di legno. La comunicazione pubblica che imponeva al burattino un’altezza di quindici metri ha comportato anche l’uso di una tecnologia leggera e una forma facilmente gestibile, quindi la scelta di usare l’aria e avere la possibilità effettiva di far diventare il gonfiaggio, da parte dei bambini, una sorta di gioco della vita coniugato al movimento della testa per i saluti (più si gonfia più alza la testa). Le spalle rigide ancorate in alto permettono di gonfiare prima tutto il corpo e per ultimo la testa ottenendo così differenziate posizioni di questa. Mentre l’enorme figura colorata viveva di vita propria e di aria al megastore di Lala Port, a nord di Tokyo, data dal movimento delle pompe azionate dai bambini, intorno a essa si sono sviluppate tante attività liberatorie di energie, dal disegno sui vetri dell’ Urban Design Center che ci ospitava, alla televisione fatta dai bambini, dal giornale, che veniva quotidianamente redatto e reso visibile su grandi box di cartone, alla radio, dal mercato alla cucina, con l’uso di cartamoneta disegnata per l’occasione. Per le centinaia di bambini coinvolti una giovane stilista ha disegnato la casacca di Pinocchio Project. Coni di carta di tre misure differenti indossati dai bambini sui loro piccoli nasi sono stati oggetto di un workshop sulle bugie ai piedi di Pinocchio. Con dei moduli di cartone è stato realizzato il mercato, dove i bambini potevano attivarsi comprando e vendendo le cose fatte da loro, disegni, fotografie, oggetti di artigianato e taglio di capelli compreso. Si sono divertiti tutti.
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Pinocchio Project Dal diario di Edoardo Malagigi [...] Appuntamento alle 8,30, Ishida mi prende in albergo, sono già completamente vestito Benetton; mi dicono che Gakken ha fatto un accordo e la sponsorizzazione comporta che io sia griffato, ogni giorno con capi diversi. La sensazione di perdere la mia libertà e sentirmi una scimmia si rafforza quando devo indussare una camicia color pistacchio e rinunciare alla mia grigia. Andiamo con il metro a visitare una materna privata montessoriana. Mai visto niente di simile, alle 8,30 le sale biglietteria dei metrò sono piene di persone che corrono, ben vestiti ma corrono, tutti corrono verso le loro destinazioni, persone di tutte le età. Ho dovuto nascondermi in un angolo per ridere, erano come formiche nere, tutte a ritmo sostenutissimo, qualcuna correva forte, ma nessuna andava piano. I biglietti si fanno alle macchinette, ma ci sono muri di macchinette lucide, non macchinette nello spazio, una macchinetta ogni 30 centimetri. Con i fotografi e il responsabile comunicazione di Gakken visito la scuola, un’architettura circolare bassa, col tetto completamente a terrazza praticabile; l’immagine è di una grande torta trasparente al centro di un quartiere di periferia, quasi campagna, con intorno altri alloggi per capre, conigli e fuori anche un grande orto.
Martedì
marzo 2007
Circa 17 sezioni per quasi 500 bambini, con i solidi montessoriani molto usati e consumati, con alcuni pezzi sostituiti dal cartone, tutti gli arredi di legno a vista non colorato. Il preside con orgoglio illustra ogni cosa, centinaia di bambini e mamme in un interno ascoltano un piccolo concerto rock, tenuto da due giovani insegnanti, mentre altri 50 bambini nella piazza interna di terriccio fanno giochi di squadra. In uno spazio vi è anche una stufa a legna, le lampadine possono essere spente dai bambini con una cordicella e gli adulti possono regolare con un cursore la quantità di luce artificiale. Mi dice il preside che ogni cosa ha valore didattico. In ogni aula vi è un contenitore di cappucci imbottiti, da indossare immediatamente in caso di terremoto. Di lato vi è anche un’enorme sabbiera, frequentata da animali; ma dicono che i genitori, assillati dalla vecchia irregimentazione della scuola sono ben contenti che i bambini finalmente si sporchino. L’architettura ingloba alcuni grandi alberi, che svettano sopra la vasta terrazza circolare. Gli suggerisco di inserire al centro un cerchio cosmico (colori, stagioni, mesi, rosa dei venti ecc.) con lo gnomone al centro, intanto i fotografi chiedono sorrisi ai bambini, non danno pausa a nessuno, anche il pasto è un pretesto per raccontare con le immagini una sfida, dove c’è Montessori c’è qualità. Sono circondato da centinaia di bambini; non so bene cosa gli stanno dicendo, ma la sensazione è che i bambini siano molto affettuosi, si abbracciano, si toccano, si lasciano abbracciare. Yoshikai segue tutte le operazioni. Molte mamme, dice il direttore, hanno fatto l’iscrizione per mandare i figli; forse non vi è posto per tutti; alla base della loro scelta vi sarebbe la consapevolezza che un modello di liberalizzazione dagli schemi dei dictat montessoriani e modelli rigidi istituzionali giapponesi è pagante e vincente. Gli suggerisco anche di spostare quei mobili che, messi vicino ai vetri esibiscono il retro, non sono belli. Bella anche, e di forte impatto, potrebbe essere una enorme torre rosa, sulla piazzola esterna alla scuola, renderebbe visibile la filosofia educativa del complesso. Al ritorno, come tutti i giapponesi, nel metrò mi addormento. La sera cena in un vecchio ristorante, con Maiko (giornalista popolare che tiene un programma di cucina alla TV), Kfui (pittore affreschista), Kazuo (fotografo e autore di un celebre libro sul tè), Hitoshi (il proprietario di quattro ristoranti a Taiwan) e Ishida. Dopo aver lasciato il metrò visitiamo i negozi che vendono e scambiano piccoli pupazzi, figurine, personaggi inventati e altri piccoli ninnoli; i ragazzi con patologie da timidezza casalinga, che oramai sono un numero altissimo, non escono di casa se non per scambiare con i loro simili questi personaggi. Ed è vero il negozio pullula di giovanotti molto speciali. Rientrando a Ginza incrociamo sciami di “mamme di Ginza”, donne che vestono costumi tradizionali, molto popolari a Tokyo, mantenute da uomini ricchi, titolari di grandi aziende (un fenomeno tutto giapponese). [...] 36
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Dal’Arno al Mar Nero Conversazione tra Gianni Sinni e Federico Bondi Nato a Firenze nel 1975, Federico Bondi si laurea in lettere per poi orientarsi verso il mondo dell’audiovisivo lavorando come operatore, quindi come aiuto regista. Dal 1995 realizza alcuni cortometraggi tra cui Ora d’aria (1998), proiettato al Sacher Festival di Nanni Moretti e all’Arcipelago Film Festival. Firma diversi documentari d’arte e di creazione (Soste, una visita dei luoghi leggendari nei deserti americani, ha ricevuto una Menzione speciale al Festival dei Popoli di Firenze). Nel 2005 firma L’uomo planetario – L’utopia di Ernesto Balducci, una riflessione sulla pace attraverso il percorso umano e intellettuale del sacerdote anticonformista. Con Mar Nero si cimenta per la prima volta con il lungometraggio di finzione e vince il primo premio al Festival di Locarno 2008.
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Dalle rive dell’Arno a quelle del Mar Nero Mar Nero è la storia di un’amicizia, di un legame molto forte che si viene a creare fra due donne costrette a vivere insieme, un’anziana fiorentina non più autosufficiente e una giovane rumena. Una vera e propria storia di amore filiale e materno tra due donne apparentemente molto diverse, lontane per generazione, cultura e carattere, ma allo stesso tempo molto vicine, perché donne sole che nella solitudine si incontrano e trovano molti punti in comune. È una storia legata a fatti autobiografici: l’anziana era mia nonna e Angela era la sua badante. La genesi del film è nella casa di mia nonna. Un giorno, uscendo da quella casa mi resi conto che lì c’era la materia umana per farne un film e che sarebbe stata una bellissima storia. Poi ho avuto l’intuizione del viaggio. All’inizio pensavo di fare un documentario, anche se davanti alla telecamera accesa si sarebbe persa quella spontaneità, quella autenticità che rendeva magico questo rapporto. Poteva essere un documentario su una donna con problemi di deambulazione e della sua badante. Sarebbe stata una registrazione fedele dell’evoluzione di un rapporto. Invece, con l’intuizione del viaggio, ho avuto modo di raccontare questa storia attraverso la fiction, che poi ha funzionato bene. Un’intuizione che credevo che fosse solo il frutto di una fantasia, una metafora: queste due donne all’apice del loro rapporto partono, nel momento in cui per Angela diventa urgente tornare in patria. In realtà sono stato contattato da due spettatrici sconosciute ed entrambe mi hanno raccontato che, in un caso la zia, nell’altro la nonna, una a 82 anni, l’altra a 79, si sono trasferite nel paese della badante. Hanno grande disponibilità di soldi, perché là si vive con molto meno e non passa sabato o domenica in cui non vadano a feste e matrimoni. Quindi in realtà non mi sono inventato nulla. La maggior parte dei dialoghi del film sono il frutto di conversazioni realmente accadute tra mia nonna e la badante. Poi, insieme a Ugo Chiti, abbiamo dato uno sviluppo drammaturgico, in un’ora e mezza, a una vicenda che in realtà raccoglie un anno di vita di queste due persone.
Il ruolo del linguaggio Non volevo rinunciare alla fiorentinità del personaggio dell’anziana, né alla sua estrazione sociale. Mi è venuta in mente Ilaria Occhini come interprete della donna anziana. Fisicamente è perfetta, è una maschera tragica, con questi occhi glaciali; alle volte sembra una statua, tanto è rigida. Però mi preoccupava, dall’altro lato, il fatto che provenisse da un ambiente sociale completamente diverso da quello del personaggio. Una donna di estrazione sociale popolare che vive nelle case popolari. La Occhini, da questo punto di vista, ricorda più una maschera tragica greca, più aristocratica che altro. A proposito del linguaggio, all’inizio era molto preoccupata, vivendo a a Roma da trent’anni, non avendo mai parlato il fiorentino arcaico, il vernacolo, e dovendo usare espressioni che neanche conosceva. Poi in realtà è riuscita. Ho sempre pensato a Gemma come a una donna che viene dalla campagna. Per esempio quando parla della mascalgia, dove si ferrano i cavalli, rimanda a un mondo rurale. Quindi ci sono anche degli insert di dialetto tipico delle campagne. L’esperienza di realizzare un film a Firenze In realtà è stato piuttosto facile. La Toscana Film Commission ha contribuito in maniera determinante a renderci la vita più semplice, non soltanto da un punto di vista logistico e tecnico, ma anche da un punto di vista produttivo ed economico. In un primo momento fu coinvolto come direttore di produzione un romano, che per far quadrare i conti voleva farmi girare gli interni a Roma. Girare a Firenze costa di più perché risulta come una trasferta. Dopo alcuni incontri, abbiano cambiato direttore di produzione, perché per noi era determinante girare a Firenze. Il
film infatti si svolge quasi esclusivamente fra le quattro mura di un appartamento, con pochissimi esterni. Ho fatto lievitare il budget, ma fino a un certo punto perché è un film in digitale, con maestranze ridotte all’osso. Abbiamo coinvolto tutto il quartiere di Gavinana, la comunità rumena, oltretutto suscitando l’entusiasmo generale delle realtà che hanno partecipato e che ci hanno dato una mano anche facendoci risparmiare. Abbiamo usato non professionisti italiani e rumeni. Quindi è possibile fare cinema a Firenze Fare cinema a Firenze è possibile. Più del 50% dei tecnici e del cast artistico del film è fiorentino o toscano. Ciò che conta sono le idee. Conosco tante persone che hanno iniziato con me che da anni si sono trasferite a Roma per fare cinema o televisione. Qualcuno ce l’ha fatta, altri no. Personalmente sono sempre stato dell’avviso che qua a Firenze, da un punto di vista professionale per lo meno, hai molta meno concorrenza. Nello specifico del cinema è chiaro che a Roma hai l’occasione di confrontarti con molte più persone e instaurare anche un dialogo che qua, in effetti, manca; non ci sono sceneggiatori, non ci sono altri registi con i quali confrontarti e quindi non è facile. Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto che la base fosse Firenze. A Roma sono stato per periodi più o meno brevi che sono serviti a confermarmi di aver fatto la scelta giusta. Non ho dubbi che la cosa fondamentale sono le idee, non conta dove sei, e crederci fermamente, perché è l’unico modo per far credere anche gli altri alla storia che vuoi raccontare.
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Mar Nero Dialoghi
GEMMA (chinandosi appena, si lamenta) Un’ c’è nulla da fare, questo ginocchio gl’è la mi’ condanna!
GEMMA L’hai chiuso il gasse?
GEMMA Ora dammi anche il trasloco!? Starei lustra! Tanto un’ ti preoccupare, vo a i’ Creatore presto anch’io… Guarda come sto!?
GEMMA Oh che s’entra in una casa e si va subito a pisciare!? Ho bell’e visto: l’è una musona!
GEMMA Guarda che carne la m’ha preso!? C’è più grasso…
GEMMA Te tu vieni!? Se c’è da parlare co’ dottori icchè tu capisci? (ansimando) Le finestre l’hai chiuse? Il gasse?
GEMMA Icchè tu fai costì impalata? Piglia una seggiola e mettiti a sedere…
GEMMA Le lenzola tu le cambi quando lo dico io. Che credi sia sudicia, io? Un’ ti riprovare più, ’ntesi? Questa l’è casa mia! GEMMA
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GEMMA Ora l’è un coso secco, ma un tempo l’è andato anche di fori. Fece più danni… (sostenendosi saldamente alla balaustra) Eran questi giorni qui, fine d’ottobre inizi novembre… (appena enfatica) Tutta Firenze sommersa… (si volta verso Angela) Un’ tu n’ha mai sentito dire dell’alluvione di Firenze!?
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Mar Nero Dialoghi
GEMMA Annacquamelo.
GEMMA Come t’ha detto si chiamano… questa specie di rinvortini?
GEMMA (allunga il volto) Certo te nini t’ha trovato la pacchia a venir qui!
GEMMA I cavalli? È un po’ e via un’ ne vedo uno… (precisa) Da i’ vivo voglio dire, sarà trent’anni… Alla televisione icchè c’entra? Ogni tanto si vedano… Ma sai alla televisione… Da bambina, davanti a casa mia a Bucine, c’era una mascalgia… (traduce) dove si ferrano i cavalli. Mi ricordo di due… Gli arrivavano sempre a coppia, gli scotevano i’ capo con quelle criniere sembravan pazzi. Eran belli… (aggrotta la fronte) Ma quando gli ferravano per me l’era un patire… Gli bruciavano lo zoccolo… Un odoraccio! E poi quei chiodi, lunghi lunghi, infilati dentro… Poere bestie… A me uguale, m’infilano i chiodi dentro… Questi dolori mi mettano in croce! (decisa) No no, io bisogna faccia i’ cortisone… Perché devo stà qui a patire!?
GEMMA Se si sta parecchio davanti a una tomba l’è perché si vole esser visti!
GEMMA Cosa!? Tu vo’ partire!? Con tutti i quattrini che s’è speso!? (sorride dal nervoso) Ma che scherzi!? Proprio perché l’hanno licenziato bisogna tu rimanga…
GEMMA (come giustificandosi) I’dottore diceva dovevo fà movimento… (sorride) E poi… l’è sempre meglio fare una cosa e pentissi, che non fare nulla e pentissi uguale!
GEMMA Comunque, dopo questo posto qui, non torno a casa. I’ mi’ figliolo vorrebbe che andassi a Trieste, a qui’ vento… (punta l’indice davanti a sé) O ne’ ricoveri… (precisa tra l’amareggiato e il fiero) Come una morta in vacanza… No no, io piglio la mi’ roba e vo via… Mi fo portà n’Umbria, sa? Un’ l’ho ma’ vista… 43
Rifiuti con le ali Due parole e due immagini di Sergio Traquandi ’50. Nasce nel ’52 a circa 500 metri da dove lo fece Masaccio. ’60-’70. Inizia, neanche quattordicenne, a frequentare attivamente il mondo dell’arte nel collettivo Arcicoda. ’80. Con il raffreddarsi del clima nazionale di attivismo artistico-sociale, fonda una cooperativa culturale che riunisce esperienze discografiche, editoriali e grafiche. ’90. Quasi per giuoco ricomincia a produrre sculture con materiali naturali recuperati e poi con oggetti meccanici assemblati. ’00. Costruisce grandi sculture in acciaio per palazzi civici, giardini e rotonde, senza abbandonare l’attività di performer e di costruttore di macchine, quasi robot, quasi nani, quasi angeli.
Ci racconti come è nata questa tua ricerca artistica?
Il genere artistico già esisteva, non mi sono inventato nulla. Anzi, tutte le volte che qualcuno mi dice – Conosco uno che fa le sculture con oggetti riciclati… – sinceramente un po’ mi indigno, perché è un po’ come se dicessero a un pittore – Conosco uno che dipinge con i colori a olio su tela. Per me la necessità di assemblare oggetti è nata in una maniera piuttosto strana. Ho cominciato sulla spiaggia con quello che la natura mi offriva: tutto quello che il mare rigettava sulla spiaggia, lo assemblavo senza colla e senza chiodi; era una specie di scommessa, perché solo quello che stava bene insieme poteva essere collegato. Poi la sera facevamo una specie di vernissage, si festeggiava e io esponevo quello che avevo fatto il pomeriggio, questo era il gioco. Poi, a casa feci un’esposizione con il falso nome di Katthy Moonray, raccontavo a tutti che era una vecchia americana alcolizzata. Ebbero successo e tutti cominciarono a giocarci su; l’aspetto ludico è importante. Allora cominciai ad assemblare anche altri oggetti, oggetti più meccanici, meno naturali, oggetti che avevano un contenuto di tecnologia, di design, di uso ormai abbandonato, superato, ma secondo me ancora vivo e ancora utilizzabile. Ho la capacità di leggere questi relitti del nostro artigianato, della nostra industria; forse è una particolare sensibilità che ho sviluppato nel tempo ma che poteva essere innata.
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Una particolare sensibilità… in cosa consiste? Da sempre ho guardato gli oggetti con occhi che, senza volere, superano l’aspetto esteriore o l’uso al quale queste cose sono destinate. Non posso esimermi dall’analizzare le forme e le geometrie di ciò che vedo, di scomporle nella loro essenza, e lì ogni volta trovo le qualità dei materiali che le compongono e gli danno carattere. Ma l’analisi continua nello scovare in oggetti qualunque l’eleganza, a volte inconsapevole, del progetto, la ricerca di semplificazione, la fatica della realizzazione, insomma l’anima che questi corpi immoti si portano dietro da quando qualcuno è stato chiamato a costruirli. Quando un oggetto a mio avviso contiene un potenziale ricco di questi valori, io lo raccolgo, lo ospito nel mio museo personale di oggetti trovati, museo riservato a me perché altri vi potrebbero vedere solo una collezione curiosa di rottami, una discarica indifferenziata.Questo museo non è però una raccolta né tanto meno una mostra, esso è un limbo dove tutte queste anime abbandonate albergano parallele; quando mi è permesso, mi trasformo da raccoglitore di naufraghi in levatrice, per aiutare la nascita di un oggetto che aveva, secondo me, già tutte le caratteristiche per poter essere già nato. Una levatrice Una levatrice, perché estendo e interpreto il design preesistente degli oggetti, “solvo et coagulo”, non Creo, faccio Risorgere. Non obbligo mai due oggetti a essere uniti se non sono già predisposti, non taglio o deformo ciò che erano, semmai, con piccole cure, ne facilito le giunzioni. Aiuto l’affratellamento dei pezzi, con metodi che rispettano il materiale e la tecnologia del tempo dell’oggetto, mi aspetto ed esigo che ognuna di queste unioni, oltre al prodotto finito, mi generi lo stupore di aver trovato quello che appare più ovvio e naturale. Tuttavia non credo più quasi nel mio ruolo maieutico. Forse questi oggetti si sarebbero assemblati da soli. Nel 2004, quando feci i miei nani da soffitta, teorizzai che si erano costruiti da soli; mi chiamavo un po’ in disparte e lasciavo che questa creazione avvenisse spontanea.
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Cherubino Cyborg Sergio Traquandi 47
Una casa esemplare Conversazione tra Andrea Rauch e Roberto Innocenti Roberto Innocenti è oggi uno dei più famosi illustratori del mondo. Tra le sue opere fondamentali si possono ricordare Pinocchio, Canto di Natale, Schiaccianoci, oltre ai due grandi libri ’politici’ Rosa Bianca e La storia di Erika. Nel 2008 ha vinto, unico italiano nella storia del premio, l’Andersen Ibby Award, una sorta di Nobel dell’illustrazione mondiale. Per l’editore americano Creative Editions Innocenti ha appena terminato The House (La Casa) che sarà disponibile a fine primavera nell’edizione inglese e a fine anno nella versione italiana. Queste pagine ne sono un’anteprima assoluta.
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La Casa è un libro che continua, per così dire, la tua ricognizione, ormai più che un dato stilistico, sul territorio, sulle sue logiche e sulla sua topografia. Ci vuoi dire come nasce? L’inizio de La Casa è in un vecchio disegno di molti anni fa. Un disegno che non era servito a niente ma che poi ha determinato, come a volte succede, il cominciare di un racconto. La casa è un rudere seicentesco a mezza costa, una colonica abbandonata ai margini di un bosco, campi angusti sostenuti da terrazzamenti di pietra. La mia casa viene “rioccupata” all’inizio del Novecento da una famiglia contadina ed è scena e attore dei fatti del secolo scorso. Davanti alle sue pietre passa la grande storia, la Prima Guerra Mondiale, il Fascismo, la Seconda Guerra e la Lotta di Liberazione, il passaggio del fronte e l’arrivo degli alleati, il nuovo abbandono e il recupero di una comunità hippie degli anni sessanta, poi il finale, che potrei dire tragicomico, con il riattamento borghese e funzionale da seconda casetta residenziale, completa di archetti tosco-goticheggianti, piscina, macchina di lusso e nani da giardino a completare una storia che si segnala, alla fine, come storia di nuova decadenza. Adesso, con il piano casa di Berlusconi, la mia casa potrà essere ampliata del 20 o del 35 per cento e si potranno costruire, che so, la sauna o la piscina coperta.
Ma la casa non scandisce solo la grande storia del Novecento. Ricorda, per chi ha o vuole avere memoria, anche le piccole storie della società. È una colonica che si pone chissà dove sulla Linea Gotica, rifugio di poveracci, di una delle tante famiglie contadine molto più ricche di bocche da sfamare che di mezzi per sfamarle. Contadini che non hanno terra buona, ma che devono strappare ai primi contrafforti della montagna un lembo di campo per piantare un filare di vite, qualche olivo. È una casa dove l’elettricità arriverà tardi, forse negli anni sessanta. C’è un nucleo familiare che fatica la vita, nel corso del tempo, e che viene tenuto insieme dalle donne, mentre gli uomini se ne vanno coscritti verso le guerre che non gli appartengono, quelle del Carso nel ’15-18, o quelle che gli appartengono, come la lotta partigiana del ’43-44. E infatti la fine sarà segnata dalla morte e dal funerale della vecchia mamma che serve da raccordo significativo per tutta una storia del secolo. Dopo la fine della vecchia famiglia contadina (i figli saranno andati in città, in fabbrica o chissà dove) la storia cambierà e potrà essere raccontata dai nuovi ricchi che ristruttureranno la casa in pacchiano look neocaliforniano. Non potrà più essere, però, la stessa storia; mancherà della continuità con il passato, perché per raccontare quell’altra storia, c’è bisogno di chi quelle vicende le ha vissute e che conosce quei luoghi, quei campi, quei boschi. Dice Stephen King che lui scrive del Maine perché, in fondo, è l’unica comunità che conosce bene, la sua.
ma estraneo, ci sono pochi contatti anche con il paese che si presume vicino, un poco più in basso, con l’altra gente che si raduna solo per le occasioni importanti, un matrimonio, la Liberazione, un funerale. È la storia di quello che si conosce e che magari si guarda senza nostalgia, ma con una sorta di epocale distacco oggettivo. Una storia locale che diventa storia esemplare. Può essere una storia esemplare. È il racconto della trasformazione di una comunità. Io sono nato a Bagno a Ripoli nel 1940. Per andare in città c’era solo il tram, il 33, e le vie intorno a quelli che oggi sono viale Giannotti e viale Europa, erano a sterro. I campi erano fuori dell’uscio di casa e passavano i barrocci tirati dai bovi. Quella Firenze è scomparsa dopo l’alluvione. I quartieri si sono dissolti, il tessuto sociale della comunità si è disgregato nelle periferie dormitorio. Dagli anni settanta Firenze non c’è più. Poteva essere salvata, forse, ma non è stata salvata. I quartieri popolari (Santa Croce, San Frediano, San Lorenzo…) che avevano composizione mista, ceti alti e bassi insieme, hanno perso ruolo, funzione, identità. Quello che c’è adesso si vede bene e non è, a mio parere, un bel vedere. Firenze ha perso l’anima e lo possiamo affermare anche senza quella nostalgia che sembrerebbe inevitabile nelle parole. Sembra di capire, dalle parole, che i tuoi disegni si pongono come un mezzo per l’analisi critica della società… Con questi disegni non credo di voler fare l’analisi critica o politica di un mondo e di una società in trasformazione costante, né spero di rifugiarmi in un “amarcord” stucchevole e fuori luogo. Si tratta però, questo sì, di un’analisi visiva e antropologica. Questo era, questo non è più. Per ricordare e riflettere.
Ecco, qui è un po’ la stessa cosa, bisogna conoscerla quella comunità per poterla raccontare, conservarne, non con nostalgia, ma con una sorta di onestà narrativa e visiva, la memoria possibile. Intorno alla casa ci sono pochi elementi costanti che ne mantengono, nel tempo, il carattere e lo “stile”. Ci sono le pietre dei muri e dei muretti, pochi mattoni rossi, il pozzo, i terrazzamenti strappati al greppo. Il mondo avvertito e conosciuto è tutto lì e c’è la certezza del racconto topografico del territorio. Il resto è vicino 49
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The House
Roberto Innocenti 51
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Le dodici città ideali
Superstudio. Quinta città. Città delle semisfere 58
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Superstudio
Superstudio (Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto Magris, Piero Frassinelli, Alessandro Magris e, dal 1970 al 1972, Alessandro Poli) ha iniziato a lavorare nel dicembre 1966. Svolge attività di ricerca teorica sulla progettazione. Lavora nel campo dell’architettura (allestimenti, costruzioni civili e industriali) e nel design (system design, oggetti, mobili, consulenze), partecipa a concorsi nazionali e internazionali, espone in mostre in Italia e all’estero, tiene corsi e conferenze in scuole e istituti, pubblica articoli, saggi, 60
storie e una propria serie di stampati. Nel 1970 ha iniziato a gestire, in collaborazione col gruppo 9999, un’organzzazione didattica di scambio di informazioni, una Scuola separata per l’Architettura Concettuale Espansa (SSPACE): Tra il 1971 e il 1973 ha lavorato nel campo della critica operativa, producendo una serie di film divulgativi sugli “atti fondamentali”, un tentativo di rifondazione filosofica e antropologica dell’architettura in una serie di processi riduttivi. Dal 1973 al 1975 ha fatto parte
(co-fondatore) della Global Tools, un sistema di laboratori per lo sviluppo della creatività collettiva. Dal 1973 il gruppo si è particolarmente dedicato alla ricerca e alla didattica insegnando nella Facoltà di Architettura di Firenze e in altre scuole: forse è per questa ragione che proprio nel 1973 cessa quasi completamente la produzione di storie e immagini… Il gruppo si scioglie nel 1986. Opere del Superstudio sono al MoMA di New York, al Centre Pompidou di Parigi, in altri musei e collezioni pubbliche e private.
Le dodici città ideali Premonizioni della Parusia urbanistica Ecco le visioni di dodici Città Ideali, traguardo supremo di ventimila anni di sangue, sudore e lacrime dell’umanità; porto definitivo dell’Uomo che possiede la Verità, finalmente privo delle contraddizioni, dei dubbi, degli equivoci, delle indecisioni; definitivamente, totalmente, immobilmente ripieno della propria PERFEZIONE
PRIMA CITTÀ Città 2000 t. 11 marzo 1971
Su prati verdeggianti, colline assolate, montagne selvose, si estende eguale e perfetta la città; sottili, altissime lame di edifici continui, intersecantisi fra di loro in maglie rigorosamente quadrate della misura di una lega. Gli edifici, o meglio l’unico ininterrotto edificio è costituito da celle cubiche aventi la dimensione di 5 cubiti; queste celle sono disposte l’una sull’altra in un unico ordine fino a un’altezza di un terzo di lega sul livello del mare, così che l’altezza relativa dell’edificio dipende dall’altitudine del terreno su cui sorge. Ogni cella ha quindi due pareti opposte confinanti con l’esterno; le pareti sono di materiale opaco ma permeabile
all’aria, rigide ma soffici. La parete orientata a nord (o, se questa è confinante con l’esterno, quella orientata a ovest), è capace di emettere immagini tridimensionali, suoni e odori. La parete opposta è occupata da un sedile, capace di aderire perfettamente a qualsiasi corpo umano fino ad avvolgerlo completamente. In questo sedile sono incorporati apparati capaci di soddisfare le necessità fisiologiche: alimentari, escretorie e sessuali. La sostanza membranosa costituente questo apparato, quando non è in funzione, si ritira insieme ai suoi accessori ricostituendo la parete attorno al sedile. Il pavimento è un simulatore di materia e può riprodurre in tutti i loro parametri sensoriali un gran numero di sostanze. È però il soffitto la parte essenziale della cella: esso è costituito da un unico schermo ricettore di impulsi cerebrali. In ogni cella alloggia un individuo le cui onde cerebrali sono continuamente captate dal pannello e ritrasmesse all’analizzatore elettronico unico le cui complesse apparecchiature sono raccolte al sommo dell’edificio sotto una volta continua semicilindrica. L’analizzatore seleziona, compara e media i desideri dei singoli, programmando attimo per attimo la vita di tutta la città mediante la parete emittente, il pavimento simulante e le azioni della parete attrezzata. In tal modo tutti i cittadini sono nelle stesse, identiche, condizioni di eguaglianza. Qui la morte non esiste più; ma capita, a volte, che qualcuno si lasci prendere da assurdi pensieri
di ribellione contro la vita perfetta ed eterna che gli viene concessa. La prima volta l’analizzatore ignora il crimine, ma se esso si ripete, la città decide di rifiutare lo spazio vitale a colui che se ne mostra tanto indegno. Il pannello del soffitto si abbassa con una spinta di 2.000 tonnellate fino a congiungersi al pavimento. È a questo punto che nella meravigliosa economia della città si determina la vita; il pannello risale fino alla sua posizione originaria e nello stesso tempo tutti gli individui che occupano celle la cui distanza è a un quarto di lega da quella vuota, cedono un ovulo od un gruppo di spermatozoi che vengono trasportati attraverso appositi canali in una folle corsa verso il sedile rimasto vuoto. Qui un ovulo è fecondato ed il sedile si trasforma in utero, proteggendo per nove mesi, fino all’alba del suo felice destino il nuovo figlio della città.
SECONDA CITTÀ Città Coclea Temporale
La città è un’enorme vite senza fine; esternamente un cilindro di 5 chilometri di diametro che ruota lentamente compiendo un giro ogni anno. Simile a un’astronave, la città 61
avanza nella litosfera alla velocità annua di 330 centimetri, pari a 0,376712 millimetri all’ora; la sua velocità angolare è di 2’28” al secondo; la velocità perimetrale è di 3584 millimetri all’ora. La sua estremità inferiore, rivolta verso il centro della Terra, è costituita da un apparato escavatore, una speciale turbina a lame che ruotando sgretola la roccia avviando i materiali verso il centro del cilindro da dove, attraverso un condotto, vengono fatti salire all’esterno. Al di sopra della turbina sono gli apparati propulsori, la centrale atomica con un’autonomia di 10.000 anni, gli impianti automatici che servono la città e gli elaboratori elettronici che la governano. La sua estremità superiore si accresce gradualmente in modo da restare costantemente al livello del suolo esterno; l’accrescimento è realizzato mediante la costruzione continua di nuovi settori della città tramite un cantiere automatico posto come un ponte fra il centro ed il perimetro; in esso vengono utilizzati come materiali da costruzione gli stessi detriti litoidi che provengono dallo scavo sul fondo. La città è composta di cellule abitative disposte in cerchi concentrici, in doppia fila; la parete di ogni cellula rivolta verso il centro del cilindro misura 280 centimetri; anche la profondità di ogni cella è di 280 centimetri. Tra due cerchi concentrici di cellule corre una via, anch’essa di 280 centimetri di larghezza. Una serie di 1440 strade radiali, larghe al minimo 280 centimetri collega fra loro le strade circolari. Ogni cella ha una sola apertura, una porta che dà verso la strada circolare contigua; le altre tre pareti, confinanti con altre celle, sono totalmente opache e afone. Il dislivello fra due piani sulla stessa verticale è di 330 centimetri. Il pavimento delle cellule è soffice; gli impianti necessari a soddisfare le esigenze vitali dell’individuo sono occultati nel soffitto e manovrabili a telecomando. Tutta la città è climatizzata a 25 gradi centigradi e al 60% di umidità, costantemente. Ogni cellula è sempre illuminata con un’intensità di 150 lux mentre le strade sono illuminate con un’intensità 62
di 500 lux. Le radiazioni luminose contengono tutta la gamma d’onda dello spettro visibile e quelle delle strade anche radiazioni ultraviolette in piccola quantità. La luce viene irradiata uniformemente da tutta la superficie dei soffitti sia delle cellule che delle strade e quindi non si hanno zone d’ombra o penombra. Le cellule non hanno alcun sistema di chiusura o schermatura delle porte. Gli abitanti della città vivono uno per ogni cellula, non possiedono né indumenti né altri oggetti perché la città provvede completamente a ogni loro bisogno; essi sono totalmente liberi di agire e organizzare la loro vita, sia singola che comunitaria: isolarsi, riunirsi, darsi leggi e regole; unica restrizione non possono uscire all’esterno perché il termine superiore delle strade circolari (che in realtà sono strade a spirale che vanno dal fondo alla superficie) è chiuso dal cantiere automatico che costruisce la città. Tra gli impianti di cui è dotata ogni cellula c’è un “ostetrico automatico” che entra in funzione a comando e applicatosi all’addome della partoriente, estrae il feto in modo del tutto indolore. Il neonato viene trasportato, attraverso condotti, in una cellula del settore appena costruito dove viene accudito e nutrito automaticamente. Solo in questa fase la cellula è chiusa da un pannello di acciaio che non può essere aperto né dall’interno né dall’esterno. Per quattro anni il bambino resta chiuso nella sua cellula-madre ed ivi apprende l’etica ed il funzionamento della città. Allo scadere del quarto giro dalla costruzione della cellula, la porta metallica scorre di fianco fino a scomparire nella parete. I materiali di cui è fatta la città possono resistere inalterati per un secolo senza manutenzione, poi cominciano lentamente a degradarsi; ciò vale anche per gli impianti e le attrezzature; fanno naturalmente eccezione le strutture portanti e gli impianti generali. Gli abitanti della città passano molto del loro tempo nelle strade attorno alla propria cellula; spesso in gruppi od isolati risalgono le strade a spirale fino alla zona dei bambini e oltre, nei quattro ultimi giri deserti e silenziosi dove vivo-
no i neonati; spesso, appoggiando le mani e le orecchie alla parete metallica, calda e vibrante del cantiere, cercano di penetrare il mistero del mondo esterno. Assai più raramente invece, qualcuno di loro discende le strade oltre le zone dell’estrema vecchiaia, nei giri del disfacimento e della putrefazione delle cose e degli uomini e più oltre ancora, nella luce incerta e nel calore, nei giri ingombri di detriti, polvere, ossa, fino alle zone oscure soffocanti e vibranti che si avvolgono su sé stesse verso profondità indefinite.
TERZA CITTÀ New York of brains
Nel punto più bruciato, sconvolto, fuso di quello spazio grigio che un tempo era stato New York, e precisamente dove fu il Central Park, circa all’altezza dell’ottantunesima strada, sorge la città. Quando gli altri si resero conto che l’esplosione aveva irrimediabilmente contaminato tutti gli abitanti di New York e che i corpi dei sopravvissuti si disgregavano e marcivano senza rimedio, si decise di costruire la nuova città. Essa è un cubo lungo, largo, alto 180 piedi, rivestito di formelle di quarzo di 10 x 10 pollici su ogni una delle quali è ricavata una lente del diametro di 8 pollici. Questo rivestimento ha la funzione di condensare la luce sullo strato fotosensibile retrostante che la trasforma in energia per il funzionamento della città. Il cubo è pieno, senza soluzione di continuità, di contenitori cubici da 10 pollici di lato formati da uno speciale polimero trasparente di stabilità indefinita; all’interno di ogni cubo è ricavata una cavità sferica, del diametro di 8 pollici, piena di liquido fisiologico, in cui vive un cervello. Nello spessore delle pareti dei contenitori sono ricavati i condotti attraverso cui
viene continuamente rinnovato il liquido fisiologico e quello che sostituisce la circolazione sanguigna. Sistemi di elettrodi, innestati nei vari punti delle masse cerebrali consentono la comunicazione diretta fra i cervelli. Al centro della città si apre un vano, lungo, largo, alto 33 piedi e 3 pollici, il cui pavimento è allo stesso livello del suolo su cui sorge la città; un corridoio, largo 3 piedi e 4 pollici, alto 6 piedi e 2 pollici e lungo 58 piedi e 4 pollici, collega il vano centrale all’esterno. Questo ambiente è in gran parte occupato dagli apparecchi filtranti e rigeneratori delle soluzioni fisiologiche e del sangue; il filtraggio, particolarmente accurato elimina tutte le tossine impedendo i processi di necrosi ed invecchiamento. Nella città vivono 10.000.456 cervelli; nella tenue luce rossa del corridoio e del vano centrale è possibile vederli, attraverso le pareti trasparenti, pulsare lentamente sprofondati nelle loro meditazioni interminabili o concentrati in muti, indefinibili, colloqui. Staccati definitivamente da ogni percezione esteriore, potranno sublimare i loro pensieri per un tempo lungo come la vita del sole; liberi di raggiungere le mete supreme della saggezza e della follia, di conseguire forse la conoscenza assoluta. Sopravviveranno all’umanità, ne riconosceranno il cammino verso la distruzione ma nulla potranno fare per ritardarlo, né per accelerarlo. E saranno finalmente soli.
QUARTA CITTÀ Città astronave
Se la città è un luogo dove un gruppo di uomini nasce, vive, muore; se la città è una madre che cura e protegge i suoi figli, li fornisce di tutto ciò di cui essi hanno bisogno e decide come debbano essere felici; se la città è tutto questo, indipendentemente dalle sue dimensioni fisiche e demografiche, allora anche l’astronave, che da secoli segue la sua rotta precisa verso il pianeta di una stella lontana migliaia di anni luce, è una città. L’astronave è una grande ruota rossa del diametro di 50 metri,
costituita: da un anello esterno con dimensione radiale di 3 metri e dimensione assiale di 6, da un nucleo sferico centrale del diametro di 8 metri e da due collegamenti radiali cilindrici fra, l’anello esterno ed il nucleo centrale, del diametro di 2 metri. Il nucleo centrale contiene il cervello elettronico che, programmato alla partenza, condurrà la nave alla sua lontana destinazione, gli organi propulsori e tutti gli impianti necessari alla vita della nave e dell’equipaggio. L’anello esterno è suddiviso in 160 cabine; cioé è spartito in ottanta settori composti ciascuno da una coppia di cabine sovrapposte. In ogni cabina dorme uno dei 156 membri dell’equipaggio; nella cabina superiore un uomo, in quella inferiore una donna. Tutto l’insieme delle cabine scorre lentamente, rispetto alla carenatura esterna dell’anello, in modo da compiere un giro in 80 anni. I membri dell’equipaggio dormono senza interruzione dalla nascita alla morte, chiusi nelle loro cabine e avviluppati dai cavi e dai condotti che regolano la loro esistenza; i loro centri cerebrali sono collegati tramite elettrodi a un “generatore di sogni”; questo apparecchio si basa su un doppio nastro perforato su cui è registrato il sogno di due vite complementari. Nel suo movimento ogni coppia di cabine percorre il nastro, facendo recepire agli abitanti il sogno della loro vita nel suo continuo evolversi; tutti i passeggeri vivono quindi lo stesso sogno in tempi diversi. Il settantanovesimo settore della carenatura esterna dell’anello non è chiuso; due aperture sovrapposte, delle stesse dimensioni delle pareti laterali delle cabine, danno nel vuoto cosmico. Questo settore è situato subito prima dell’attacco di uno dei condotti radiali all’anello. Quando una coppia di cabine, nel
suo lento movimento, supera il settantottesimo settore, la parete rivolta verso l’esterno comincia a coincidere con le aperture; non appena si determina una fessura, l’aria, sfuggendo da essa, annulla la pressione nelle cabine ma, prima ancora che per asfissia, i due passeggeri muoiono per emorragia totale: non più compensati dalla pressione esterna tutti i vasi sanguigni si rompono, il sangue trasuda attraverso tutta l’epidermide ma quasi subito è cristallizzato dal gelo cosmico. La fessura continua ad allargarsi e contemporaneamente i cavi ed i condotti che avevano tenuto in vita le due persone, si staccano dai corpi che, liberi, fluttuano lentamente, spinti dalla debole forza centrifuga, fuori, nello spazio esterno. Il lento movimento delle cabine continua, determinando il progressivo restringersi delle aperture fino alla chiusura completa delle pareti. In questo momento, dalla parte opposta, nel punto esatto dove l’estremità esterna dell’altro condotto radiale si attacca all’anello, il sogno stimola i sessi della coppia numero 40; due ovuli sono fecondati da due spermatozoi selezionati e controllati dalle macchine in modo da evitare ogni possibilità di errore nella determinazione del sesso e della perfetta salute fisica dei nascituri; subito dopo essi vengono trasportati nelle due cabine rimaste vuote, all’estremo opposto dell’anello dove sono accolti da due uteri artificiali che nove mesi dopo liberano i neonati che nascono con i terminali dei cavi e dei condotti vitali già inglobati. Così generazione dopo generazione l’astronave procede verso la méta, segnando la propria strada con spoglie imputrescibili dall’aspetto di rubino, con il suo carico di dormienti dai sogni felici; fino alla Nuova Terra dove i risvegliati fonderanno una nuova Babilonia e una nuova Gerusalemme, una nuova Atene e una nuova Roma, una nuova Mosca e una nuova New York e anche, naturalmente, una nuova Berlino, una nuova Saigon e una nuova Città del Capo. E saranno felici.
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QUINTA CITTÀ Città delle semisfere
D’àpres Magritte Quell’abbagliante piano di cristallo tra i boschi e le verdi colline è la città. Il piano è un quadrato di 183 stadi di lato ma avvicinandosi ci si rende conto che esso è formato dalle lastre di copertura di 10.044.900 sarcofaghi di materiale cristallino lunghi una tesa, larghi e profondi un terzo di tesa. Anche le pareti di separazione fra i sarcofaghi sono in materiale trasparente, il fondo viceversa è di materia bianca e lucida. Dentro ogni sarcofago giace un individuo immobile, a occhi chiusi; esso respira l’aria condizionata che viene continuamente rinnovata nel sarcofago e viene nutrito direttamente dal sangue; infatti le sue vene sono collegate con apparecchi depuratori e rigeneratori che, con l’eliminazione delle tossine e opportuni dosaggi di ormoni bloccano l’invecchiamento. Una serie di elettrodi applicata al cranio comanda un apparecchio sensorio esterno a forma emisferica del diametro di un sesto di tesa; questa semisfera di metallo argenteo è in grado di spostarsi e stazionare in aria e a terra grazie a un sistema propulsivo che non emette né gas né rumore ed ha un’autonomia illimitata; si potrebbe pensare che le centinaia di migliaia di semisfere che continuamente sciamano o sono sospese sulla città siano mosse per telecinesi. Nella parte piatta le semisfere contengono gli organi sensoriali: vista, udito, gusto, odorato, tatto; le sensazioni che essi raccolgono vengono trasmesse direttamente al cervello dell’individuo che comanda la semisfera. A volte si possono osservare delle semisfere poggiate sul sarcofago del loro padrone proprio in corrispondenza della testa: è questa la posizione della “meditazione profonda”; altre volte, specie nelle 64
giornate di sole, sono numerose le semisfere che si uniscono due a due per la parte piana: è questa la posizione dell’”amore sublime”. Queste unioni sono, ovviamente, solo spirituali e non hanno quindi il potere di creare la vita, ma ciò non è necessario in un luogo dove non passa la morte.
SESTA CITTÀ The Magnificent and Fabulous Barnum’s City
La città è sotto quell’enorme tendone da circo a righe rosse e blu; anzi, si può dire che il tendone stesso, sostenuto dalle centinaia di palloni aerostatici che lo sovrastano, tutto quello che c’è sotto, lo sterminato parcheggio che lo circonda e anche le bancarelle, i suoni da banda, le luci colorate e ammiccanti, siano la città. Il tendone, tenuto sospeso dalla trazione tra gli aerostati e le migliaia di cavi che ne ancorano il perimetro a terra, ha il diametro di 2 miglia e 205 yard; al centro di esso è posto un enorme cilindro di un miglio di diametro e 100 yard di altezza composto da lamiere chiodate e dipinto con vernice argentata. In questo cilindro è racchiuso il modello di una città in scala cinque volte minore del vero. Si tratta di una città di circa due milioni di abitanti con tutte le caratteristiche di una città moderna, ma che contiene anche le riproduzioni di tutti maggiori monumenti del mondo: dall’Empire State Building alla Tour Eiffel, dal Colosseo (ricostruito nell’aspetto originario), al Sunset Boulevard. “Ecco come potrete visitare questa favolosa città: giunti sul luogo e parcheggiata la vostra auto vi recherete alla biglietteria dove acquisterete il biglietto, pagando mezzo dollaro per ogni minuto del tempo di visita che desiderate (un dollaro se desiderate incar-
nare una delle 10.000 celebrità più richieste). Purtroppo dovremo chiedervi una cauzione, per i danni che potreste provocare durante la visita, pari a un dollaro per ogni minuto, ma in ogni caso non inferiore ai 900 dollari. Se non disponete di tale somma niente paura! potrete ottenerla dalla Banca adiacente alla biglietteria con il semplice deposito della patente e del libretto di circolazione della vostra automobile; tale prestito vi costerà solo il 5% della somma richiesta. Riceverete a questo punto la “chiave della città”; essa è in realtà una scheda elettronica che contiene i vostri dati ed il tempo della visita. Vi incanalerete con gli altri visitatori, verso gli elaboratori elettronici e raggiunto un “posto di scelta” libero inserirete la chiave nell’apposita fessura; vedrete diventare verde la spia luminosa davanti a voi e potrete chiedere al computer quale personaggio vivente o del passato volete incarnare; non avrete che da farne il nome scandendolo bene. Speriamo vivamente che il vostro “eroe” sia nell’elenco dei 100.000 personaggi disponibili, altrimenti dovrete cambiare scelta. Sullo schermo davanti a voi comparirà a questo punto la foto del personaggio (se non è nell’elenco apparirà la scritta: “absent”, se in quel momento è usato da un altro visitatore vedrete apparire la scritta: “engaged”). Effettuata la scelta attendete lo squillo del campanello e ritirate la vostra “chiave”; essa ora reca impresse anche le caratteristiche del personaggio da voi scelto. Potrete così recarvi alla zona dei box; trovatene uno libero ed inserite la vostra “chiave” nel cruscotto davanti a voi. Entro 90 secondi le guide che sono sopra di voi vi porteranno una tuta che resterà appesa ad esse tramite i cavi che partono dalle giunture degli arti e dal casco; indossatela con calma, non sarà difficile! e fissate per ultimo il casco ruotandolo da sinistra a destra. Quando sarete pronti premete il pulsante verde che è davanti a voi sul cruscotto; il pavimento scomparirà con un sistema a diaframma e vi troverete su una piastra circolare di 2 yard,1 foot e 5 inch di diametro. La piastra è ricoperta di sferette d’acciaio che
vi consentiranno qualsiasi movimento delle gambe restando sul posto: camminare, correre, fare giravolte e anche spaccate se vi riesce! Mentre osserverete queste meraviglie, dai bordi della piastra salirà un cilindro in plexiglass che si arresterà appena giunto a un’altezza pari al diametro della piastra. A questo punto una voce vi suggerirà di chiudere gli occhi per evitare capogiri; quando li riaprirete vi troverete nella città! Da questo momento ogni movimento del vostro corpo verrà trasmesso tramite la tuta, che è un modernissimo telepantografo, al robot miniaturizzato che incarna il personaggio da voi scelto e che agirà nella città secondo i vostri impulsi. Le sensazioni visive, olfattive, uditive, tattili e gustative che i suoi detectors elettronici testeranno saranno fedelmente trasmesse alle parti corrispondenti del vostro corpo. Ricordatevi che potrete fare tutto quello che vorrete ma che ogni danno che apporterete alla città od ai suoi abitanti vi sarà addebitato; ricordatevi anche che il vostro personaggio ha un piccolo bagaglio di conoscenze pratiche che vi serviranno per il “viaggio”: egli sa quale è la sua auto, la sua casa, sua moglie o la sua ragazza, si orienta per le strade della città ecc. Nella nostra città, ricordate non ci sono leggi né regole civili o morali! Potrete fare proprio tutto quello che avete sempre desiderato e non avete mai avuto il coraggio di fare! Avete mai desiderato fare all’amore con Brigitte Bardot? Spogliare nuda Sofia Loren? Avere Omar Sharif tutto per voi? Potrete finalmente farlo! tutti loro e altri 100.000 personaggi famosi girano per la città; scovateli, saltate loro addosso, anche per la strada, tanto nessuno vi riconoscerà; e non abbiate paura dei poliziotti: se non sono innocue comparse, è gente che pensa a divertirsi come voi e se qualcuno volesse fare il moralista ricordate che avete con voi una buona pistola. La troverete nella tasca destra della vostra giacca o nella borsetta se siete una donna, (salvo che non abbiate scelto di essere un detective od un killer; in tal caso sapete bene che essa è nella fondina sotto la vostra ascella sinistra!); potrete usarla
a vostro piacimento, ma ricordatevi che per ogni morto o ferito vi saranno addebitate le spese di riparazione del robot che a volte sono salate (un consiglio in un orecchio: se non volete spendere troppo sparate basso! Ün bel centro fra gli occhi dà delle soddisfazioni ma manda a pallino tutto l’impianto dei detector sensoriali: 1000 dollari di danno! mentre un bel buco nella pancia, se avrete fortuna, vi costerà solo 300 dollari). Attenzione! durante il vostro viaggio potrete, a vostra volta, essere aggredito, investito da un’auto, oggetto di uno stupro (anche se siete nei panni di un aitante giovanotto… Sapete com’è!). Avete la pistola e potete difendervi, ma ricordatevi che colpire per legittima difesa non vi esime dal risarcire i danni quindi, se proprio non volete spendere, rassegnatevi a farvi ammazzare od a farvi fare il “servizio” (in ogni caso non proverete dolore; questa sensazione è l’unica non contemplata fra quelle fornite, a meno che non abbiate scelto volontariamente uno dei 50.000 personaggi dotati di questa sensibilità). Dal momento che il vostro personaggio dovesse essere colpito a morte perderete il controllo dei suoi movimenti; entreranno infatti in funzione i simulatori di agonia con programmi diversi a seconda delle circostanze e ciò per completare il divertimento della persona a cui il vostro personaggio ha avuto la sfortuna di diventare antipatico. A questo punto il vostro viaggio non è finito; non recupererete più il controllo dei movimenti ma potrete essere protagonista di una bella corsa all’ospedale a sirene spiegate, vi godrete tutte le formalità mediche e legali che si svolgeranno attorno a voi proprio come nella realtà ed infine verrete rinchiuso in una lussuosa cassa di prima classe (omaggio dell’Organizzazione, qualsiasi cifra abbiate pagato) con rivestimento in raso imbottito e musica stereo. Con ciò il viaggio dei nostri clienti che hanno avuto la sfortuna di “morire” è finito, indipendentemente dal tempo che avevano pagato. D’altra parte, se la vita è una lotta, perché il gioco dovrebbe essere diverso? Non sta qui l’emozione? La cassa però non prosegue per un verde e tranquillo cimitero, ma
direttamente per il Laboratorio Restauro Personaggi. Ci siamo dilungati nella spiegazione del caso di morte violenta perché è quello che più spesso provoca recriminazioni e spiacevoli equivoci con i clienti. È comunque scritto a chiare lettere sul biglietto che il suo acquisto comporta l’accettazione automatica di questa e di tutte le altre clausole esposte nel depliant. Ma non pensare a questa evenienza; essa è tutto sommato rara! Pensa a tutte le soddisfazioni che potrai invece levarti con un “viaggio” nella nostra città! Non perdere tempo amico! Corri a BARNUM’S CITY! La città più libera e divertente del mondo! Ne vedrai delle belle e potrai realizzare ogni tuo desiderio!” (da depliant pubblicitario). Revisione - 1996
SETTIMA CITTÀ Città nastro a produzione continua
La città cammina; si snoda come un maestoso serpente attraverso territori sempre diversi, portando a spasso i suoi otto milioni di abitanti, attraverso valli e colline, dai monti alle rive dei mari, generazione dopo generazione. La Testa della città è la Grande Fabbrica: larga 4 miglia, come la città che in continuazione produce, spessa 1/4 di miglio e alta al centro 100 yard. La Grande Fabbrica sfrutta il terreno ed il sottosuolo su cui si muove e da esso ricava meravigliosamente tutto quanto necessita alla costruzione della città. La Grande Fabbrica divora brandelli di inutile natura e minerali informi dal suo fronte anteriore ed emette sezioni di città completamente formate e pronte per essere usate, dal suo fronte posteriore. La Grande Fabbrica si muove in avanti alla velocità di 1 feet e 2’5 in/h; la sua urbanistica è caratterizzata da una scacchiera di 65
strade perpendicolari e parallele alla Grande Fabbrica; le strade, che separano isolati quadrati di 261 yard di lato, sono larghe 29 yard. Le strade perpendicolari sono numerate progressivamente, a partire dall’asse centrale della città, aggiungendo al numero la lettera D od S a seconda che si trovino a destra o a sinistra guardando la Grande Fabbrica; le strade parallele sono invece denominate con il nome del mese e dell’anno della loro produzione. Infatti la Grande Fabbrica produce una serie di isolati ed i segmenti di strade interposti fra essi in 27 giorni e la strada parallela adiacente in 3 giorni. Dato che la produzione di questa strada è completamente automatizzata, in quei tre giorni la Grande Fabbrica è chiusa; questo intervallo festivo nell’incessante operosità della città è detto “month end” o familiarmente “street holyday"… La principale aspirazione di ogni cittadino è di trasferirsi sempre più spesso in una casa nuova perché le case prodotte vengono continuamente rinnovate e dotate delle sempre più perfezionate comodità che il Consiglio di Amministrazione della Grande Fabbrica inventa per la gioia dei cittadini. Pensate che i maggiorenti della città, le Grandi Famiglie, quelle il cui reddito glielo consente, si trasferiscono mensilmente nelle case appena completate; gli altri cittadini cercano di fare il possibile e solo i più svogliati attendono il quarto anno per cambiare casa. Fortunatamente non è infatti possibile utilizzare una casa oltre i quattro anni dalla sua costruzione perché gli oggetti, gli accessori e le stesse strutture degli edifici dopo quel periodo son concepiti per disgregarsi, diventano inutilizzabili e presto sopravvengono i crolli. Solo i rifiuti della società: individui folli o tarati osano ancora vagare fra le rovine, i detriti e le immondizie che la città si lascia alle spalle contendendole ai topi e agli altri parassiti. È proprio per evitare che i cittadini si riducano in tali deplorevoli condizioni che sin dalla più tenera età viene loro inculcato il concetto che la più grande aspirazione di ognuno deve essere sempre una nuova casa; è per questo che anche i giornali, la TV e tutti 66
gli altri mezzi di comunicazione reclamizzano continuamente le meravigliose novità delle nuove case: le innovazioni tecnologiche, le inedite comodità… Cosa c’è di più bello e rassicurante dello spettacolo di tante famiglie che giornalmente risalgono le strade perpendicolari, sui pulmini gialli messi generosamente a disposizione dal Consiglio di Amministrazione, in direzione della Grande Fabbrica verso le loro nuove case? Cosa c’è di più stimolante della continua gara fra i cittadini per abitare nelle parallele con data più recente? Quale giorno è più felice di quello del trasferimento alla nuova casa, quando il vostro Direttore vi concede un giorno di permesso pagato e vi fa le sue congratulazioni davanti a tutti? Quale ora è più bella di quella in cui entrate nella nuova casa e ne scoprite il nuovo arredamento, le nuove attrezzature, i nuovi vestiti e tutto quanto vi è stato preparato dalla Grande Fabbrica? Ammirate la città dall’alto! con la sua grande testa nera impennacchiata dal fumo di migliaia di ciminiere, con il suo corpo ordinato lungo otto miglia, con al centro la cresta grandiosa dei suoi grattacieli fiancheggiati dai grandi edifici popolari e con le distese di ville, ciascuna col suo giardinetto, ai bordi, con il suo interminabile strascico di detriti che testimonia il cammino percorso. Guardate la città perfetta che, autonoma in tutti i propri bisogni, produce nelle sue Piccole Fabbriche più di qualsiasi altra città prodotti da esportazione. Guardate le lunghe teorie di automezzi che arrivano ad essa vuoti e ne ripartono carichi per la maggiore prosperità del nostro Grande Paese. Da “Happy Birtday, Giant Factory our town is two hundred years old" A cura dell’Ufficio Pubbliche Relazioni della Città
OTTAVA CITTÀ Città cono a gradoni
La città sorge al centro di una grande pianura; circondata da un canale largo 600 piedi è formata da 500 piani circolari sovrapposti ogni uno dei quali ha un diametro di 32 piedi minore del piano sottostante; ogni piano è alto 8
piedi, quindi l’altezza totale della città, al centro è di 4000 piedi mentre il diametro del piano più basso è 16.000 piedi. Nel muro di circonferenza di ogni piano si aprono porte di 2 x 7 piedi; al piano terreno esse sono 6500; salendo, diminuiscono di 13 unità a ogni piano successivo; il cinquecentesimo piano ha solo 13 porte e sopra di esso, al centro dell’ultima terrazza di 32 piedi di diametro sorge una cupola di metallo argenteo di forma emisferica con raggio di 8 piedi. Il totale delle porte sui muri perimetrali della città è: 1.628.250; ogni porta immette in un vano delimitato dal muro esterno, da un muro interno concentrico al muro esterno e da due muri radiali; la distanza fra i due muri concentrici è di 16 piedi; la distanza massima fra i due muri radiali, così come l’altezza del vano, è di 7 piedi e mezzo. In ciascuno dei muri radiali si aprono porte di 2 x 7 piedi che collegano i vani fra loro. Tutta la città è costruita con materiale ceramico bianco, vetrificato, inalterabile ed inattaccabile. I piani non sono in alcun modo collegati fra loro, nè esiste alcuna membratura architettonica che consenta di arrampicarsi; i terrazzi che formano i gradoni fra un piano e l’altro non hanno parapetto. In ogni vano, al centro della parete che fronteggia la porta esterna, sono praticate due aperture: quella più bassa, di circa 2 piedi di diametro, è una specie di finestra che si apre verso l’interno oscuro e silenzioso del cono - un’unica cavità priva di divisioni orizzontali e verticali; la seconda apertura, posta sopra la prima, ha il diametro di un piede ed è il terminale di un condotto; in essa vengono posti i bambini appena nati. Alcuni secondi dopo che il neonato è stato introdotto nell’apertura essa, che fino ad allora era rimasta sempre aperta, si chiude con un sistema a diaframma; quando si riapre, dopo
alcune ore, il piccolo ha inserito nel cervello un “coordinatore”: Tutti gli abitanti della città hanno un “coordinatore” che si rivela all’esterno solo per una piccola placca metallica circolare al sommo del cranio. Il “coordinatore” permette a ogni cittadino di trasmettere ordini, tramite impulsi cerebrali, a un massimo di cinque abitanti contemporaneamente, del piano inferiore. Non è possibile trasmettere ordini agli abitanti di nessun altro piano compreso quello in cui si abita. Teoricamente, con uno sforzo di volontà è possibile rifiutarsi di eseguire gli ordini impartiti ma il senso di colpa, derivante da tale ribellione, è talmente forte e provoca sofferenze psichiche così intense che ben pochi riescono a sopportarle a lungo. È appunto ordinandole agli abitanti del piano inferiore, che tutti gli abitanti si procurano le cose di cui hanno bisogno. Ogni desiderio passa da “coordinatore” a “coordinatore” fino ai piani più bassi e quasi sempre fino al piano terreno, i cui abitanti coltivano la terra e procurano incessantemente materie prime per gli abitanti dei piani superiori; sono gli abitanti degli altri piani inferiori che le lavorano, anche se sempre meno man mano che si sale, per soddisfare gli ordini superiori. Due volte al giorno, a ore fisse, tutti gli abitanti della città, infilando la testa nelle aperture che immettono nello spazio centrale, possono ricevere, tramite il “coordinatore” una programmazione di immagini e suoni emessa dall’uomo che abita la cupola in cima alla città. Nessuno sa come viva l’uomo che abita la cupola, ma tutti pensano che debba essere felice perché non ordina mai nulla; si dice che possegga un meccanismo che può esaudire ogni suo desiderio e che anzi, le storie bellissime che trasmette agli abitanti della città non siano altro che brani della sua vita reale. L’aspirazione massima di ogni abitante della città è di salire ai piani superiori per diminuire il carico di ordini ricevuti tramite il “coordinatore”. Tutto il tempo libero di ognuno è praticamente dedicato a ideare od eseguire piani per raggiungere questo risultato, naturalmente gli abitan-
ti dei piani superiori tentano di sventare queste scalate con ogni mezzo ed i cadaveri che si ammucchiano qua e là testimoniano l’accanimento di queste lotte; anzi, è proprio formare mucchi di cadaveri il sistema più comune per tentare la scalata; naturalmente chi ha famiglia e vuole portarla con sé è svantaggiato. Capita anche che qualcuno per varie cause: ubriachezza, malattia, od anche solo per distrazione cada nel piano sottostante; egli diventa subito succube dei desideri dei suoi ex compagni come qualsiasi abitante del piano su cui è giunto. Gli abitanti degli ultimi piani, che sono caricati da pochissimi ordini e soprattutto quelli dell’ultimo piano, che non ne ricevono affatto, cercano in continuazione di entrare nella cupola che è apparentemente priva di ogni apertura. Si dice che, toccando un punto particolare della sua superficie, si apra per pochi secondi uno spicchio che permette al fortunato di entrare; se questo è vero nessuno è mai tornato fuori per raccontarlo agli altri. La cosa più misteriosa è che fine facciano i precedenti abitanti della cupola, quelli spodestati; sul terrazzo che la circonda non è mai stato trovato nessun cadavere.
NONA CITTÀ Ville Machine Habité
che trasforma in grigia penombra quella che altrimenti sarebbe una perenne oscurità. Gli abitanti vivono nella macchina trascinati senza sosta da nastri trasportatori a norie, da scivoli a condotti pneumatici, dal punto della nascita a quello della morte. La macchina provvede a tutto; lungo gli innumerevoli percorsi che si intersecano, si uniscono e si dividono secondo gli incomprensibili programmi della macchina, gli abitanti trovano il cibo e la paura, il sonno e la gioia, il sesso e la speranza, la morte e l’ira, a volte anche la ribellione, anche se tutti sanno bene che a cercare di uscire dai percorsi stabiliti dalla macchina si finisce immancabilmente stritolati dagli ingranaggi. La macchina è autosufficiente; prende dall’esterno solo i raggi solari, l’aria e l’acqua ricca di sali minerali del sottosuolo; con ciò provvede a tutti i bisogni dei suoi abitanti, elaborando e sintetizzando le sostanze che furono messe al principio dentro di essa. Ricrea cioè al suo interno il ciclo vitale, dalle culture vegetali agli allevamenti animali; anzi la perfezione del meccanismo fa sì che gli incrementi energetici e materiali apportati da luce, aria e acqua si trasformino in eccedenze. Ogni residuo, tutto ciò che muore, abitanti compresi, viene trasformato e la quota di esso che non serve al ciclo della macchina viene emesso all’esterno. La macchina produce concime.
DECIMA CITTÀ Città dell’Ordine
La città è una macchina; una macchina così grande che neanche i suoi abitanti hanno idea delle sue dimensioni. I suoi condotti, le serie di ingranaggi, le cinghie, le bielle, si perdono a destra e a sinistra, davanti e dietro, in alto ed in basso rispetto a qualsiasi punto la si guardi, nella penombra indistinta, grigia e fumosa, che riempie la cavità che essa occupa e di cui nessuno è mai riuscito a scorgere le pareti. In alto, un enorme sistema di lenti concentra un fascio di luce solare in un punto della macchina ed è questo
La città che stiamo esaminando sembra all’inizio una città normalissima; ha vie, piazze, giardini, case nuove e vecchie; è insomma una città come tutte le altre, potrebbe assomigliare alla vostra, la sua unica diversità è che è governata dallo stesso Sindaco da 45 anni. La ragione di un così stabile 67
governo è semplice, il Sindaco ha avuto un’idea geniale: invece di sforzarsi, come fanno tutti, di adeguare la città alle necessità degli abitanti, ha pensato di adeguare gli abitanti alla città. E ora, dopo 45 anni, le cose cominciano a funzionare veramente bene; i cittadini che passano col rosso, danneggiano le proprietà comunali, si lamentano del ritardo dell’autobus, della mancanza dell’acqua nelle ore in cui serve di più ecc. sono sempre meno. Infatti, non appena qualche cittadino commette un’infrazione, o si lamenta di qualche cosa con i pubblici poteri non viene punito o rassicurato con vane promesse; viene invece invitato in Municipio dove sarà ospite del Sindaco per una settimana. Quando il cittadino torna a casa è profondamente cambiato: preciso, ligio ai regolamenti, tranquillo, sempre sorridente, svolge i propri doveri con coscienza. In 45 anni quasi tutti i cittadini hanno visitato il Municipio e ora sono cittadini modello. Nonostante ciò può capitare qualche grave incidente; si sa, con il traffico e la vita intensa di oggi è inevitabile! Allora può capitare di vedere che i cittadini hanno, nella testa, un complesso meccanismo miniaturizzato, nel torace e nell’addome, al di sotto dei fasci muscolari, tante palline di polistirolo espanso al posto delle interiora. Nessuno ha mai saputo niente di questo perché i cittadini modello presenti all’incidente non vanno in giro a cianciare e gli altri vengono subito accompagnati in Municipio a rimettersi dallo schock. I consiglieri comunali che erano già anziani, in questi 45 anni sono morti tutti; il sindaco li ha fatti immortalare con splendide statue di plastica di dimensioni e colori naturali, che li raffigurano seduti attorno al tavolo del Consiglio nella posa che era loro caratteristica: i consiglieri di maggioranza con le loro espressioni ironiche, soddisfatte e sorridenti, quelli di opposizione aggrondati o sdegnosi, l’estremista, addirittura, mezzo sollevato dalla sedia e con l’indice puntato. Il Sindaco è molto contento di come vanno le cose; ora comincia ad avere grandi ambizioni per la sua città; sta pensando di abbel68
lirla con grandi edifici pubblici e monumentali piani urbanistici; è sicuro che tutti saranno d’accordo. Purtroppo però ieri è caduto e si è aperto perdendo tutti i pallini. Qualcuno glieli sta rimettendo.
UNDICESIMA CITTÀ Città delle Case Splendide
La città si disinteressa del paesaggio che la circonda perché rappresenta in sé tutto quello che piace ai suoi abitanti. Essa è di certo la città più bella del mondo perché i suoi cittadini tendono tutti ed in ogni momento della loro esistenza all’unico scopo di possedere la casa più bella. La città pone i suoi abitanti tutti sullo stesso piano di partenza, cioè concede a ogni nucleo familiare lo stesso spazio per costruire la casa. Infatti la città è costituita da una rete di strade ortogonali, tutte larghe 10 m che delimitano isolati di 6 m di lato; ciascuno di questi isolati di 36 mq di lato è occupato da una casa unifamiliare. La limitatezza dello spazio a disposizione di ogni famiglia ha lo scopo specifico di spingere i cittadini a riversare ogni loro sforzo nell’arricchimento estetico degli esterni della loro casa, scoraggiando ogni tentazione di comodità e di mollezza e scongiurando quindi di sopire l’anelito che deve sospingere tutti, ininterrottamente, verso l’edificazione di una casa sempre più bella, in gara continua con i vicini e gli amici. Ogni casa della città è costituita da un’unica stanza di dimensioni interne 5 x 5 m, alta 3 m con pareti in cemento armato dello spessore di 50 cm; la copertura è di vetro trasparente con una plafoniera, per l’illuminazione artificiale, al centro. Il pavimento è di plastica imbottita con una piastra calorifera al centro, le pareti sono dipinte di verdolino. Una tenda dello stesso colore, in plastica, nasconde i servizi igienici
a destra della porta d’ingresso. Verdolino è anche l’armadio metallico con serratura di sicurezza, situato a sinistra della porta, che contiene i vestiti. Non ci sono altre suppellettili; nel muro di fronte alla porta sono piazzati due rubinetti: uno per l’acqua, l’altro per il plasma nutritivo a base di clorella che costituisce l’unico alimento dei cittadini. Sopra i rubinetti, accanto all’interruttore della luce e della manopola di regolazione della piastra termica sono posti i contatori di erogazione di tutti i servizi; essi sono collegati con il calcolatore elettronico centrale della città che si occupa della retribuzione degli abitanti. Tutti gli abitanti della città lavorano negli opifici posti nelle periferie che producono ponteggi metallici, pannelli di plastica serigrafata, oggetti di abbigliamento e ornamento e altri prodotti di prima necessità. Alla fine di ogni mese ciascuno riceve dei buoni acquisto in quantità pari al proprio stipendio decurtato dalle spese di consumo di acqua, luce, riscaldamento, cibo; con questi egli corre a comprare i materiali che gli occorrono per proseguire l’abbellimento della sua casa, opera a cui ogni abitante dedica tutto il proprio tempo libero. Abbiamo lasciato per ultima la descrizione dell’aspetto esterno delle case proprio per avere più agio di descriverlo. I muri perimetrali in cemento armato del vano abitabile sono così massicci proprio per permettere il miglior ancoraggio di torri in tralicci metallici; essi sostengono pannelli serigrafati che riproducono i più disparati soggetti a colori vivaci. La scelta di cosa riprodurre sulla propria torre è affidata al gusto dei singoli; certo il soggetto più comune sono le riproduzioni di edifici storici, ma non mancano alberi, animali, opere d’arte ecc. Non c’è limite all’altezza delle torri all’infuori dell’alto costo dei materiali; le famiglie più prestigiose abitano in torri alte oltre 200 m lungo le quali si susseguono soggetti diversi. Le torri che superano i 50 m, non potendo essere più sostenute solo dal traliccio, contengono al loro interno un pallone di plastica trasparente gonfiato ad elio. Ma la passione estetica dei citta-
dini non si esaurisce solo nell’abbellimento delle case; tutti i buoni acquisto che restano sono spesi nell’acquisto di vesti e ornamenti personali; infatti gli abitanti, che nelle loro case vivono nudi, per uscire si abbigliano con vesti sfarzose e policrome e ornate da decorazioni lucenti di tutte le fogge. Oh città meravigliosa e felice!
DODICESIMA CITTÀ Città del Libro
Il Libro che tutti i cittadini portano appeso al collo mediante una catena è lo spirito della città. Esso porta scritte sulla facciata sinistra di ogni pagina le norme morali e sulla destra i comportamenti pratici su cui deve essere basata la vita degli abitanti. La città è formata da una serie di edifici paralleli alti 60 tese, larghi 180 tese e lunghi 2 parasanghe; essi sono staccati fra loro 2 tese soltanto; i vicoli che si formano in tal modo sono in terra battuta e solo pedonali; pedonali sono pure le piccole gallerie trasversali che ogni 180 tese collegano i vicoli con l’interno degli edifici. All’interno di ogniuno di essi corre infatti, per tutta la sua lunghezza, una galleria larga 60 e alta 50 tese dove avviene il traffico veicolare; le gallerie veicolari sono collegate fra loro da trasversali di eguali dimensioni ogni 500 tese. I volumi degli edifici fra i vicoli esterni e le gallerie veicolari sono occupati dalle abitazioni e a piano terra dai negozi e dagli uffici. Sia le abitazioni che gli esercizi commerciali e gli uffici sono costituiti da stanze accoppiate una delle quali si affaccia sull’esterno, l’altra nella galleria. Le gallerie interne sono completamente oscure ma ogni cittadino ha inserito dalla nascita nelle retine un dispositivo a infrarossi che gli consente di vedere perfettamente anche al buio. Il Libro è fatto in modo che le pagine sinistre, quelle dell’eti-
ca, siano leggibili solo alla luce esterna mentre quelle destre, del comportamento, solo negli interni; ogni cittadino è tenuto a comportarsi in ogni circostanza a seconda dell’indicazione che riesce a leggere nel Libro. L’etica del Libro deriva da quella cristiana integrata da principi etici e filosofici laici; le norme di comportamento sono tratte dalle tendenze comportamentali comuni nelle culture occidentali, liberate dalle pastoie moralistiche che ne frenavano il libero estrinsecarsi. Ogni cittadino è libero di vivere alla luce od al buio e di spostarsi quando e come vuole fra l’uno e l’altr,o ma in pratica la vita della città ferve solo nell’oscurità, tanto che gli abitanti stanno perdendo lentamente la capacità di leggere le pagine sinistre del libro alla fievole luce che proviene dai vicoli pedonali. Diamo qui di seguito alcuni esempi di norme tratti dal Libro: pag. 2 - La legge è uguale per tutti pag. 3 - La legge dipende dal potere dell’individuo pag. 6 - Lo Stato è al servizio del cittadino pag. 7 - Il cittadino è al servizio dello Stato pag. 28 - Non uccidere se non per legittima difesa pag. 29 - Uccidi quanto ti pare ma getta i cadaveri nelle apposite aperture (*) * Per capire la norma della pag. 29 occorre sapere che i marciapiedi delle gallerie longitudinali sono sopraelevati rispetto alla strada di 1/3 di tesa, sia per impedire ai cittadini di attraversare la strada con rischio di essere travolti dalle auto, sia perché lungo i bordi si aprono le caditoie per l’eliminazione dei cadaveri che appositi nastri trasportatori avviano all’inceneritore centralizzato. (revisione nov. 1996)
EPILOGO
(Firenze - maggio 1971) Ecco. Avete avuto dodici esempi dell’infinita congerie di sogni che il sonno della nostra cultura produce. Dodici come numero magico, propiziatorio; come omaggio di noi, genti delle metropoli, ai popoli lontani nel tempo che le città inventarono. «Se si traccia una linea dall’Egitto al Golfo Persico, tagliando sul Mediterraneo la Palestina e la Siria e scendendo poi lungo il Tigri e l’Eufrate attraverso la Mesopotamia, risulta una perfetta mezzaluna. …quel poderoso semicerchio intorno al deserto dell’Arabia, chiamato “Fertile Mezzaluna” comprendeva, come perle di una splendida collana, una moltitudine di culture e civiltà» W. Keller «Gerico può vantarsi di essere la più antica città del mondo» K. M. Kenyon «…Protoarii, già fino dall’antichità si è incrociato o addirittura sostituito al decimale un sistema duodecimale o sessagesimale quale quello in uso presso gli antichi Caldei che fondarono su di esso sia la divisione del tempo (anno di 12 mesi…) - (giorno di 12 coppie di ore) - sia la divisione dell’angolo e del cerchio.» E. de Michelis Siamo così giunti al momento di rivelare il vero significato di queste descrizioni; si tratta di un TEST, di un test non meno attendibile di quelli frequentemente pubblicati dai rotocalchi. E, come sempre, ecco qui di seguito la tabella dei risultati: LEGGETE CON ATTENZIONE E SAPRETE VERAMENTE CHI SIETE: LA RIVELAZIONE È VICINA! La domanda è: “di quante tra le dodici città di cui avete letto la descrizione, avete desiderato l’esistenza; oppure avete pensato che la loro esistenza sarebbe vantaggiosa per l’umanità?" La tabella che segue prevede sei casi. Scegliete il vostro e leggete. 69
PIÙ DI NOVE Siete un Capo di Stato o sperate di diventarlo, comunque siete adatto a diventarlo. La logica ed il meccanismo del sistema li avete assorbiti perfettamente, sono un tutt’uno con voi, sono voi. Siete solo un guscio vuoto, una spoglia umida e oscura in cui il sistema è penetrato come i viticci delle zucche nelle crepe terrose sino a riempirle totalmente. Siete un’orrenda evocazione infernale, l’orrore vi circonda. Non siete un essere umano, siete solo un maledetto ZOMBI. . «… una persona uccisa per sortilegio diventa talvolta la schiava inanimata dello stregone il quale può trasformare il suo zombi in un animale e venderne la carne sul pubblico mercato.» M. J. Herskovits TRA NOVE E SEI Siete un elemento del sistema, un ingranaggio perfettamente funzionale al complesso; lubrificato dalla logica della cultura e quindi privato di ogni attrito; girate regolare, sincrono e perfetto in sequenza con i vostri simili. Siete cioè un perfetto prodotto, plasmato dal vostro creatore; allucinante e sadico generate il terrore: siete solo un ottuso piccolo GOLEM. «…con l’argilla rossa, una statua umana, all’incirca della taglia di un ragazzo di dieci anni. Sulla fronte della statua così modellata doveva essere scritta la parola Vita. Immediatamente il golem diventava umano, respirava e poteva incominciare a muoversi e parlare. Il mago poteva impiegarlo per qualsiasi scopo, senza preoccuparsi minimamente della fatica alla quale sottoponeva il suo simulacro e senza temere la possibilità di una rivolta da parte di questi. Ma era tenuto a sorvegliarlo costantemente in quanto il golem poteva crescere con una rapidità stupefacente, fino al punto da raggiungere la statura di un gigante. La sola risorsa del mago …era quella di sostituire la parola Vita con la parola Morte sulla fronte del golem. Istantaneamente questi perdeva ogni proprietà 70
umana e crollava al suolo tentando però di schiacciare il suo creatore sotto l’enorme peso del suo corpo artificiale. Se il mago non riusciva a sostituire il motto fatale le forze del male si impadronivano del golem e si scatenavano attraverso il gigante d’argilla innaturalmente portato alla vita.» F. Ferrini TRA SEI E TRE Siete uno schiavo, un succubo. Avete ucciso i vostri dubbi per non esserne ucciso e siete egualmente morto con essi; non pensate, non volete, eseguite soltanto; di voi ormai non restano che arti e organi, niente più che parti meccaniche funzionanti per un solo uso, dalla catena di montaggio al deposito di rottami. Siete il nulla: un povero cigolante ROBOT. «Robot, (franc. pron. robò) s. m. invar. - macchina automatica capace di svolgere alcune attività proprie dell’uomo: automa.» Dizionario Garzanti della Lingua Italiana FRA TRE E UNO Voi siete una specie di verme. Avete capito e non lo volete riconoscere neanche a voi stesso; vi siete amputato braccia, gambe e denti perché avevate paura persino di fuggire e ora ve ne state nascosto negli angoli bui col grugno affondato nel fango per non vedere e non sentire. Ma lo schifo di voi è che vorreste avere meno paura solo per poter essere come gli altri. Emanate ribrezzo, siete ancora un essere umano ma è peggio che se non lo foste; non ve ne siete accorto? Siete un osceno MUTANTE. «…improvviso e non prevedibile cambiamento o straordinaria anomalia che viene a prodursi e si localizza nelle condizioni fisiche degli esseri…» F. Ferrini «…si svegliò una mattina da sogni inquietanti, si trovò trasformato nel suo letto in un gigantesco scarafaggio.» Franz Kafka
«…è soltanto un cimitero universale, soltanto la nostra terra comune; e la vita ed il moto che vi hanno i personaggi più grandi sono soltanto lo scuotersi, nelle loro tombe, di corpi sepolti a un terremoto.» John Donne NON AVETE DESIDERATO L’ESISTENZA DI NESSUNA CITTÀ Allora a questo punto vi sentirete soddisfatti ! Invece non dovete esserlo perché non avete capito niente. Non avete capito che le descrizioni non rappresentano città immaginarie, bensì la vostra città, adesso, e tutte le città del mondo. Come è possibile che non vi siate resi conto che basterà continuare a perfezionare, fino a renderla rigorosamente coerente la logica del sistema per concretizzare fantasie molto più allucinanti di quelle tentate in questi poveri villaggi da novelle infantili? State saldi, la strada è aperta; i paesi “tecnologicamente avanzati” già la percorrono speditamente, sempre più vicini alla meta, ed i “paesi in via di sviluppo” tentano ansiosamente di seguirli. Quindi la definizione che si adatta a voi è solo una: siete degli IDIOTI. «Idiozia s.f. - Infermità mentale congenita o difetto di sviluppo del cervello per malattie ereditarie o acquisite nell’infanzia: assenza od insufficienza delle facoltà sensorie, intellettuali, psichiche, inguaribile. Si accompagna ad alterazioni di tutto l’organismo: tipo infantile della faccia e sim. / Sciocchezza: “è un i. , non dire idiozie”.» Dizionario Enciclopedico Universale Sansoni AVEVATE CAPITO IL GIOCO FIN DALL’INIZIO Solo in questo caso potete sperare di salvarvi. È soltanto dall’orrore di ogni uno di noi e di ciò che ci circonda che può nascere la “rivelazione”! Salite allora al Vecchio della Montagna e siate i suoi figli; scrutate il tempo attraverso i peli della sua barba bianca e scendete, quando sarete rinati, con la
pastiglia di hashish sotto la lingua ed il coltello fra il petto e la veste, per sterminare gli spettri, i mostri, i demoni che infestano la Terra ed infine, purificati con acqua ed incenso potrete preparare le fondamenta della nuova Città dalle Bianche Mura. «Lo veglio …aveva fatto fare tra due montagne, in una valle, lo più bello giardino e ’l più grande del mondo; quivi aveva tutti frutti e li più belli palagi del mondo tutti dipinti a oro e a bestie e a uccelli. Quivi era condotti: per tale veniva acqua, per tale miele e per tale vino. Quivi era donzelli e donzelle, gli più belli del mondo e che meglio sapevano cantare e sonare e ballare; e faceva lo veglio credere a costoro che quello era lo paradiso …e in questo giardino non entrava se non colui che egli voleva fare assassino. All’entrata del giardino aveva un castello sì forte che non temeva niuno uomo del mondo… Quando gli giovani si svegliavano egli si trovavano la entro e vedevano tutte queste cose veramente si credevano essere in paradiso. …E quando il veglio vuole fare uccidere alcuna persona, egli fa torre quello, lo quale sia più vigoroso e fagli uccidere chi egli vuole; e coloro lo fanno volentieri per ritornare nel paradiso.». Marco Polo «Vedete il tempo è vicino, il compimento ci attende. Presto le strade delle città splenderanno come binche mura; come Sion, la città santa, la capitale del cielo.» Adolf Loos [Prima pubblicazione: Architectural Design n. 12, dicembre 1971]
POST SCRIPTUM
All’inizio del 1978 lo scrittore di fantascienza Robert Shekley ci chiese di poter pubblicare, in un’antologia che stava preparando, “Le dodici città ideali”; nel rileggerle prima di spedirgliele mi resi conto che l’epilogo era ormai irrimediabilmente superato dagli
eventi; in quei mesi infatti si parlava per la prima volta della bomba N (*) che mi parve subito molto più un’"idea filosofica” che un’invenzione militare; essa superava di gran lunga le descrizioni delle “dodici città” che erano ispirate a situazioni molto meno radicali di questa trovata così definitiva. Nell’antologia, apparsa poi con il titolo: “Futuropolis”, Shekley diede spazio solo alle illustrazioni, dedicando ai testi soltanto poche righe e così né l’epilogo originale né “L’ultima città” furono pubblicati. La lettera che accompagnava il materiale richiesto da Shekley era la seguente: L’epilogo originale delle “Dodici città ideali” era diverso; in sei anni molte cose sono mutate. Questi dodici esempi di utopie urbanistiche negative erano stati ideati portando al limite, come in un’operazione matematica, situazioni e comportamenti normali nelle società dell’Occidente; eliminando cioè le remore morali e sentimentali che si oppongono al perseguimento razionale e rigoroso delle teorie generative di questi fenomeni. Negli scorsi anni mi è più volte capitato di constatare che in diversi luoghi, fisici o mentali, della nostra Terra si erano verificate molte delle situazioni descritte nelle “città ideali” anzi, in alcuni casi, mi è stato fatto notare anche da altri, esse erano state addirittura superate. C’è però un avvenimento reale di questi ultimi mesi che supera, ridicolizzandola, qualsiasi utopia negativa che sia mai stata descritta ed è la messa in produzione della bomba N. Non per niente il commento di ogni turista occidentale che sia andato in vacanza fuori dal suo paese di origine al ritorno è: “I luoghi? Belli, bellissimi. - Le opere d’arte? Affascinanti. - La gente? Detestabile.” Se gli alieni che sono fra noi sembrano minacciarci, se ci infastidiscono, la bomba N è la soluzione pulita, rapida, indolore, perfetta del problema. Rossi, gialli, neri, ingombrano, sporcano, propagano epidemie. Igiene ci vuole! Disinfestiamo il pianeta, sterilizziamo i luoghi delle nostre vacanze! IL BIANCO VINCE! proprio come nella pubblicità dei detersivi. Poi quando saremo fra noi e
cominceremo ad accorgerci che alcuni di noi sono un po’ diversi? Basterà avvertire gli amici e partire tutti per il week-end; una bella bombetta al sabato e la domenica sera si rientra in città pronti per un’altra settimana di lavoro; senza rompicoglioni finalmente! Ricordate la vecchia barzelletta: «Due amici al bar parlano fra loro; uno dice: “Non vedi come vanno male le cose? Mi pare che la gente sia completamente impazzita! ormai non conosco persone sensate a parte noi due.” L’altro assente gravemente e mormora pensoso: “Hai proprio ragione” poi, dopo un attimo di silenzio aggiunge, scrutando il compagno: “Certo, però che anche tu sei un po’ strano !”.» * La bomba ai neutroni che elimina tutte le forme animali dal territorio dell’esplosione lasciando intatti i beni inanimati.
EPILOGO ’78
Questo non è l’epilogo originario delle Dodici Città Ideali; nel primo testo si spiegava che in realtà le città descritte esistevano già in qualche luogo della Terra, fuori o dentro di noi; anche se le imperfezioni e talune incongruenze rispetto al testo letterario le rendevano talvolta difficilmente riconoscibili. Questo nuovo testo si è reso necessario dopo che il precedente era stato irrimediabilmente superato dall’annuncio al mondo, avvenuto qualche mese fa, dell’esistenza della Città Ideale definitiva. Oggi dunque, le città che ho cercato di descrivere nella loro forma perfetta, liberate dalle manchevolezze, dalle incongruenze dai dubbi che le affliggono nella loro realtà quotidiana, sono dei pallidi fantasmi, delle patetiche sopravvivenze che attendono trepidanti la “parusia urbanistica”, la loro reincarnazione nell’ideale. Non potrebbe esserci quindi, epilogo migliore a queste Dodici Città Ideali che il racconto in forma romanzesca della prossima realtà, di quella realtà che finisce 71
sempre, prima o poi, con il superare ogni fantasia.
L’ULTIMA CITTÀ
(maggio 1978 - inedito) Quando fu scoperta la Bomba ci fu un po’ di disorientamento e del malumore, specie, come al solito, da parte degli esclusi; alcuni di essi fecero presenti i loro buoni diritti per possederla anche loro; gli altri, quelli che sapevano per esperienza che non avrebbero mai potuto averla, brontolarono un po’ ma presto si misero l’anima in pace, perché c’erano cose molto più interessanti da desiderare di avere. Anche il Presidente ebbe dei dubbi, temendo di scontentare il suo elettorato sempre declinante, ma, si sa, la forza del Progresso è inarrestabile e neanche un Presidente può chiudere il Vaso di Pandora una volta che è stato aperto. Così il mondo ebbe la Bomba, la bomba perfetta, la bomba che elimina le persone senza rovinare le cose; le lobby finanziarie internazionali esultavano; le azioni, dal petrolio alle società turistiche, erano alle stelle. Ci furono petizioni e marce di protesta solo da parte delle società per la protezione degli animali che paventavano il rischio di strage per milioni di bestiole innocenti; fu loro assicurato che si sarebbe fatto il possibile per ovviare all’inconveniente e si calmarono.
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Così si cominciò a usare la Bomba; per primi furono eliminati i nemici esterni; tutti i territori del mondo abitati da popoli con ideologie non omologabili a quella giusta furono “ripuliti”, come si cominciò a dire, con grandi vantaggi per il turismo che si sa, è molto danneggiato dalla presenza di persone maleducate e ostili. Poi si cominciò a far pulizia dei nemici interni: liberare quartieri e zone malfamate fu semplicissimo, ma anche l’eliminazione selettiva di partiti, gruppi, categorie sociali non allineate fu più facile di quanto si potrebbe pensare; fu sufficiente organizzare comizi, convegni, raduni, festival, … ed una piccola Bomba risolse ogni problema. Si passò in seguito a operazioni più raffinate: tutte le “persone bene” di una certa città furono invitate a una vacanza… e al loro ritorno la trovarono più accogliente e spaziosa. Dopo un po’ di tempo si era riusciti ad eliminare: i delinquenti di ogni specie, i violenti asociali, i pacifisti, i degenerati sessuali, gli impotenti, quelli rumorosi, quelli puzzolenti, i taciturni, i mangiatori di uccellini, i vegetariani, quelli bassi, gli spilungoni, quelli che non andavano in chiesa la domenica, quelli che ci andavano tutti i giorni, i grassi, quelli con la forfora, quelli che facevano rumore mangiando la minestra, quelli che usavano le bretelle ed in genere tutti quelli che in un modo o
nell’altro davano fastidio a parenti, amici, vicini, passanti ecc. L’ultimo uomo che rimase sulla terra al termine di questo bel ripulisti avrebbe potuto ben dire “la mia città è il mondo”; aveva infatti a disposizione e tutta per lui ogni città e paese del mondo, tutte le architetture e ogni altra cosa esistente sulla Terra; avrebbe potuto cogliere frutti meravigliosi nelle foreste tropicali senza alcun rischio di incontrare animali feroci, avrebbe potuto portare il suo cane a pisciare nel parco di Versailles e sarebbe stato bello anche senza il cinguettio degli uccelli, avrebbe potuto dormire nel letto di Napoleone avendo appesa di fronte a sé la Gioconda, avrebbe potuto pregare all’inginocchiatoio papale nella Cappella Sistina, avrebbe potuto conversare con la sua eco nel Campidoglio a Washington; avrebbe potuto fare queste e molte altre cose ma non fece niente perché passò tutto il resto della sua vita a cercare un posto dove appoggiare l’ultima Bomba, un posto veramente sicuro dove essa non potesse rotolare via od essere urtata magari da un fulmine o da un terremoto.
Le dodici città ideali
Dodicesima città. Città del libro
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Sculture di carta Conversazione tra Emanuela Mallardi e Ramin Razani Nato in Iran nel 1956, viene in Italia e si laurea in Architettura presso l’Università di Firenze dove collabora, dal 1984 ai corsi Arredamento, Architettura degli interni e Scenografia. Appassionato di origami, ricerca e sviluppa una personale tecnica mediante il taglio e la piegatura della carta per realizzare delle piccole sculture, geometriche astratte e figurative. Le sue ricerche sui rapporti tra architettura, musica, letteratura, matematica e geometria si concretizzano in sculture sonore, scenografie e spettacoli multimediali. Progetta per Cartiere Miliani Fabriano, Pitti Immagine, Pineider, Banca Toscana. Dal 1996 progetta e produce la collezione Zzzoolight, lampade in polipropilene a forma di animali, distribuita in tutta Europa. È cofondatore, nel 2004, di Officina Crea, un’azienda di progettazione e produzione di apparecchi di illuminazione. Pubblicazioni: Phantastische Papierarbeiten, Augustus Verlag, Augsburg, 1993, Faszinierende Grußkarten, Augustus Verlag, Augsburg, 1997. Attualmente sta lavorando a un nuovo libro.
Le tue opere sono sculture di carta, oggetti di design o origami architettonici. Meno di tutti origami architettonici perché in realtà uso una tecnica che dà dei risultati suoi, molto difficilmente ottenibili con altri mezzi. Il mio scopo è fare una ricerca di forme e spazialità nuove, nel senso di forme che non si possono ottenere disegnandole o modellandole con altri materiali, creta e così via. Vengono fuori proprio imponendo delle regole alla carta: un certo tipo di tagli, un certo tipo di piega dà un risultato che spesso non è prevedibile. Quindi la ricerca formale è legata a questo tipo di tecnica. Poi ci sono delle applicazioni nel design; volendo però le mie opere sono frutto di ricerche formali, quindi sarebbero più propriamente sculture. Non si tratta di origami architettonici, perché sono meno interessato a “riprodurre” delle forme. Quelli che si chiamano origami architettonici sono architetture riprodotte con questa tecnica. Lo faccio, ogni tanto, ma non è lo scopo della mia ricerca. Lo scopo è la progettazione delle forme. Poi, cosa possano generare queste forme, è da vedere. Le mie opere sono quindi delle sculture. Il rapporto fra la sua opera e l’arte concettuale. Entrambe danno la possibilità di creare dei multipli d’artista. Il mio lavoro non fornisce l’oggetto, la scultura stessa, bensì le istruzioni per farla, quindi in realtà dà vita a dei multipli d’artista: io ti do gli strumenti, poi te li fai da te. L’analogia è questa. Formalmente si riprendono anche certi elementi dell’arte concettuale, però l’analogia, se non è proprio casuale, comunque non è ricercata. Nel suo progetto le interessa dare uno strumento per far diventare un po’ tutti scultori. Nella fase della diffusione, sì. Nella fase della ricerca lo scopo è di trovare delle forme. È una ricerca forma-
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le, anzi spaziale. Io li chiamo spazi, perché sono forme composte di pieni e di vuoti. Ciascuno può vederle a diverse scale, possono essere immaginate come oggetti, ma anche come spazi: se uno si immagina di esservi all’interno, diventano degli spazi. Spesso c’è anche la finalità di fare fluire lo spazio interno nello spazio esterno in maniera continua. La ricerca in alcuni modelli è focalizzata su questo tema. In molti dei suoi modelli, c’è un’ambiguità legata alla scala che fa pensare al Land Art: sembrano rappresentare altro da sé, qualcosa di più grande, fatto di materiali differenti, quasi dei frammenti di paesaggio. Sì, e no. Il punto di partenza, come dicevo, non è voler “ricreare” degli oggetti, tranne quando ci sono dei riferimenti a architetture ben precise, come gli Uffizi che si vedono da questa finestra. Il punto di partenza è più geometrico, se possiamo dire così. Si tratta di operazioni geometriche fatte sulla carta, trasformazioni. Però c’è un vocabolario in questa progettazione. Ci sono alcune operazioni che danno certi risultati. Nella fase dello sviluppo, è lì che entrano le analogie. Se prendo degli archi e li ruoto, genero una forma che assomiglia a una foglia oppure a una fiamma. Lì in quel momento le analogie sono volute oppure, se non volute, ritrovate e perseguite. Però la ricerca parte sempre da quei nuclei che si ottengono attraverso operazioni geometriche. I suoi modelli sono progettati come pezzi di design. Al giorno d’oggi il design, anche quello migliore, sembra sia destinato a colonizzare il mondo tramite le discariche di rifiuti… Non sono degli oggetti di design, ma potrebbero diventarlo, quindi sono abbastanza innocui. Ho provato a farne delle lampade, perché lavoro in quel settore, a quel punto possono partecipare alla vita degli oggetti d’uso.
all’origine di disastri come la deforestazione, però se usato intelligentemente ha il vantaggio di essere usato più e più volte. Comunque queste sculture di per sé non sono oggetti, sono opere estetiche che hanno caratteristiche particolari, per esempio il fatto che siano pieghevoli. Tutto il mio “patrimonio artistico” sta in alcuni raccoglitori; non ho bisogno di un grande spazio per progettarle e viaggio con tutto il mio lavoro sotto il braccio. Per non parlare del costo. E anche questo non è di poco conto, perché permette di sperimentare forme nuove e anche di sbagliare senza ripensamenti. Sono fondamentalmente forme di ricerca, quelle che emergono da queste tecniche, e quando uno fa ricerca alcune volte non raggiunge lo scopo che si era prefisso. Il percorso è accidentato, ci possono essere scoperte entusiasmanti ma anche forti delusioni. Dopo ore e ore di lavoro magari non si è arrivati a niente. Con un materiale di questo genere uno può permettersi di farlo. La sua è una ricerca formale, anzi spaziale. Ma si ha l’impressione che poi l’opera compiuta non sia solo vettore di contenuti estetici o artistici, ma anche sociali, etici. Diciamo che è un linguaggio, che ha un proprio vocabolario. Uno lo impara, lo elabora, lo padroneggia e con quello, come con qualsiasi forma artistica, può anche trasmettere dei messaggi. Per esempio il mio editore, che è di Augusta, mi aveva chiesto di progettare un biglietto di auguri. Ho trovato interessante il fatto che ad Augusta ci siano due chiese, la chiesa protestante di S. Ulrich e la basilica cattolica di S. Ulrich e Afra, costruite direttamente una accanto all’altra, anzi inglobate una dentro l’altra. È uno spunto piuttosto attuale, e le ho scelte come simbolo di dialogo.
La scelta di compiere opere effimere contrapposta all’idea di progettare per l’eternità. Più che un vero intento programmatico, mi spingono in questa direzione delle affinità. Il materiale di per sé, la carta, è quello che si può immaginare come più naturale, più riciclabile, anche se ambientalmente può essere 75
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Incendio
di Ramin Razani taglio piega a valle piega a monte linea di riferimento
A
B
Eseguire i tagli e marcare le pieghe con una punta arrotondata. Ribaltare gli archi facendo le pieghe a valle, poi raddrizzarli un poco, fare le pieghe a monte e girare la base del modello portando il punto A sul punto B.
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Mobilità elementare Francesco Ricci Dalla fine degli anni novanta si è sviluppato, inizialmente a New York poi in Germania e nel Nord Europa, un nuovo sistema di mobilità elementare di persone e cose basato sull’utilizzo di velocipedi a tre ruote denominati comunemente “risciò a pedali”. In pochi anni questi mezzi tanto antichi e indubbiamente legati alla tradizione e alla cultura orientale sono stati rinnovati sia dal punto di vista tecnologico che
Monaco di Baviera ecc. a eccezione che in Italia, dove si parla da decenni di mobilità sostenibile, ma non siamo ancora riusciti a rendere “legali”, tanto meno a favorire, le attività di trasporto di persone e cose svolte con velocipedi. Il risciò fa sorridere le persone che lo vedono passare, fa sorridere i bambini e farebbe sorridere anche i pedalatori, i cosiddetti “riders”, se fossero messi in
dal punto di vista dell’immagine e si sono largamente diffusi anche nel mondo occidentale, forse come una risposta alle nostre città moderne tanto congestionate dal traffico delle automobili e ormai abbrutite da smog e rumori di ogni genere causati dai veicoli a motore. Il risciò inoltre si è affermato anche per l’ideale di libertà e di rispetto ambientale che esso trasmette, considerando che è un mezzo silenzioso, a emissioni zero, elementare e facile da manutenere, che ha bisogno soltanto della forza muscolare umana per muoversi e quindi è indipendente dai rifornimenti, dai meccanici, dalle tasse automobilistiche e dalle targhe! Flotte di risciò si sono affrancate nelle principali città europee, Berlino, Londra, Parigi, Barcellona, Edimburgo,
grado di utilizzare i loro velocipedi per svolgere servizi di trasporto riconosciuti e valorizzati. In Italia è Firenze la città che per prima, insieme a Torino, ha visto percorrere le proprie strade da risciò a pedali. Oggi per fortuna è affiancata anche da Roma, Milano e Bari. Nell’ultimo anno si stanno sviluppando anche in Italia alcune esperienze di persone e di imprese che provano a investire entusiasmo, risorse ed energie nello sviluppo di servizi di mobilità a emissioni zero… è un po’ come una sfida allo sviluppo economico che porta beneficio immediato, ma che probabilmente non rende il nostro mondo migliore di come l’abbiamo trovato! Firenze, vuoi per la sua conformazione fisica, vuoi per
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la sua ricchezza di turisti, ma soprattutto per l’insistente volontà e per l’inesauribile entusiasmo di alcuni suoi giovani cittadini, è certo la città italiana a oggi più vivace per quanto riguarda l’uso dei risciò a pedali per fare mobilità in città di persone e cose. Sono presenti ben due realtà, www.olimfirenze.com e www.pedicabfirenze.it, e un nutrito gruppo di giovani pedalatori volontari che insieme stanno riuscendo, non senza difficoltà, a
prio pedalatore o “rider”, in genere giovane e prestante, convinto della testimonianza di civiltà che sta dando e senza dubbio felice di poter regalare qualche minuto da sogno ai propri utenti e di potergli raccontare un po’ a modo suo Firenze, la propria città tanto amata. La notte di Firenze con i risciò a pedali – che volgarmente nel mondo anglosassone sono chiamati “pedicab” – è più ricca, forse più bella! Questi mezzi antichi
proporre al pubblico fiorentino i risciò come mezzi di trasporto nel centro storico da utilizzare sia per fare turismo, sia per fare brevi spostamenti, sia per svolgere campagne pubblicitarie. Nei fine settimana, dal tramonto fino a tarda notte, è facile potersi imbattere in un romantico risciò che senza rumore porta come in una carrozza una coppia di amanti o un rumoroso gruppo di giovani desiderosi di divertirsi nella nottata fiorentina! È veramente emozionante e bello poter salire al tramonto sopra un risciò e muoversi comodamente seduto sul divanetto posteriore, senza fatica e osservare Firenze da un punto di vista inedito e certo molto originale! Altrettanto interessante e gradevole è conoscere il pro-
ma moderni possono davvero aiutare Firenze a sentirsi più internazionale, più città in grado di accogliere anche le nuove tendenze culturali e sociali e non rimanere talvolta un po’ sterilmente chiusa nelle proprie vecchie tradizioni.
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Flussverfolgung Foto di Eva Sauer Eva Sauer, nata a Firenze nel 1973, ha vissuto in Germania dal 1985, prima a Düsseldorf e successivamente ad Amburgo dove ha studiato, diplomandosi all’Accademia delle Belle Arti (Hochschule für Bildende Künste). Tra il 1998 e il 2004 lavora nel campo del cinema, collaborando a vari cortometraggi, sia come fotografo sul set, sia come cameraman sia come regista.
Una delle cose che mi affascina dell’Italia è che la gente si dà un gran da fare a trasformare una semplice notizia in una leggenda metropolitana, che diventa subito agli occhi di tutti una realtà comprovata. Avevo già fatto un lavoro su zone diventate “off limits” per la loro storia legata a speculazioni edilizie, soldi persi nel nulla, promesse politiche mai realizzate. Questi spazi abbandonati diventavano luoghi misteriosi dove, secondo quello che diceva la gente, era pericoloso entrare per via delle “messe nere” o dei teppisti o, addirittura, come disse una signora, “perché ci sono dei buchi neri dove sono cascati diversi animali, ma anche persone”. Per cui, agli occhi della signora, il buco nero diventava pari a una voragine indomabile e quindi assolutamente da evitare. Anche il fiume mi consigliavano di evitarlo assoluta-
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mente “per via degli stupri”. Ma se poi domandavi quali stupri, nessuno sapeva dirti con esattezza cosa fosse successo, quindi ho voluto indagare. Non è stato facile avere delle informazioni esatte perché, per proteggere le vittime, la polizia oscura i dati. Dunque avevo notizie vaghe, ma sufficienti per capire che mi ero imbattuta, più che nella zona tabù, in un argomento scomodo: l’associazione Artemisia, che si occupa delle donne vittime di tali aggressioni, ha pubblicato i dati raccolti, secondo i quali l’aggressore è quasi sempre una persona vicina alla vittima, quindi nella maggior parte dei casi una persona “insospettabile”. Il che non coincide con quello che la stampa e il Governo vogliono farci credere. Chissà poi cos’è una persona “insospettabile”... Sono stata nei “luoghi del delitto”, lungo l’Arno, a Firenze, e ho fotografato ciò che ai miei occhi appariva come una metafora di quello che qui era accaduto.
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Conversazione dall’altro lato della strada Marco Brizzi parla con Switch. Foto di Pietro Paolini. Switch, Creative Social Network, è un’associazione culturale con base a Firenze che riunisce artisti, musicisti, curatori e attivisti per promuovere le potenzialità inespresse della città. Agisce come un catalizzatore sulle reti di produzione creativa per aumentare le connessioni tra le realtà operanti nell’area metropolitana. Attraverso la valorizzazione delle forme linguistiche ed espressive che si sviluppano nello spazio pubblico Switch ricerca modalità di relazione alternative in grado di individuare una dimensione condivisa e partecipata al di fuori delle logiche convenzionali.
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Muoverei subito verso il centro di uno dei temi che più vi coinvolgono. Siamo a Firenze. Dove andiamo se vogliamo trovare delle tracce di spazio abitato che esprimano una densa esperienza tra chi abita un luogo e il luogo stesso? Certamente gli ambiti fiorentini in cui permane maggiormente il rapporto tra luogo e residenti sono quelli in cui si registra un’elevata presenza di immigrati. È un dato che trova ragione nelle modalità abitative che individui sradicati dal proprio contesto d’origine ripropongono a Firenze. Ci riferiamo, per esempio, all’uso delle piazze del centro storico come luogo di ritrovo per diverse comunità, specialmente nei giorni festivi; alla differente vita che si crea in strade come via Palazzuolo, a titolo di esempio, dove lo spazio pubblico è ancora spazio sociale; ai luoghi di riferimento per la comunità di studenti fuori sede, analogamente coinvolti in una vita sociale condotta principalmente in esterni. Anche i parchi pubblici, o le poche aree verdi accessibili, in tal senso rappresentano, soprattutto d’estate, un luogo vissuto in modo “denso”: si riempiono di ogni sorta di attività auto-organizzata, da quella sportiva al semplice bivacco accompagnato da cibi e bevande. In effetti, si tratta di un modo “antico” di interpretare lo spazio urbano, meno vincolato agli schemi e ai diktat delle Amministrazioni, certamente in controtendenza rispetto al concetto di città funzionalmente polarizzata che sottende le realtà urbane contemporanee. A riprova di quanto affermato, vediamo come le aree periferiche, di recente realizzazione, incapaci di flessibilità interpretativa da parte dei residenti e spesso non progettate a misura di pedone, siano raramente luogo di esperienze abitative “dense”: la vita dei residenti si svolge principalmente in luoghi deputati, spesso chiusi e protetti, interconnessi dalla rete stradale. Quella che noi definiamo “storicizzabilità” degli spazi, margine d’interpretazione dell’uso e della forma di essi, viene spesso a coincidere con le forme comunemente chiamate “degrado” urbano, laddove per degrado s’intende appunto un uso spontaneo delle aree che si discosti anche solo parzialmente da quello previsto e consentito. Non si tratta di un’apologia dell’attitudine all’illecito, ma di una riflessione sulla validità di determinate forme di divieto come modalità di salvaguardia della vita dell’organismo urbano. Ovviamente, le cosiddette
operazioni di recupero, ad alta redditività, prevedono un’azione preliminare di distruzione dei tessuti sociali di un’area. Spesso vediamo le Amministrazioni agire in tal senso e notiamo nei cittadini la convinzione che i “repulisti” garantiscano maggiore sicurezza e decoro: La Cecla in questo senso ci fa notare che, potendo scegliere tra una strada silenziosa e vuota e una gremita di gente, persino un bambino opterebbe per la seconda, in termini di sicurezza. Strade e piazze svuotate, richiedono l’impiego di sorveglianti, mentre i loro “sorveglianti naturali” ne vengono allontanati. Come si possono attivare delle pratiche di appropriazione dello spazio? Qual è il vostro pensiero su questo punto? Innanzitutto valutando positivamente le forme di uso dello spazio definite dagli stessi residenti in autonomia, per esempio mediante l’introduzione di attrezzature adeguate. In seconda istanza, si può procedere con iniziative che riescano a riattivare dinamiche sociali latenti: è l’esempio dell’attività di Cristian Costa e Fabizio Ajello a Isola delle Femmine, dove la semplice azione di colorare i bianchissimi frangiflutti nel porto della bianchissima cittadina ha dato luogo a una partecipazione sociale che è stata anche messaggio di autodeterminazione dello spazio, capace di rimanere a simbolo di un comportamento che può essere portato avanti nel tempo. Ma non solo. Quando si parla di appropriazione viene in mente qualcosa che non è di nessuno (o di tutti); se invece parlassimo di ri-appropriazione, allora vuol dire che c’è qualcosa che è di qualcuno e sarebbe utile a qualcun altro. In questa città ci sono molti luoghi che generano conflitto, o rappresentano un conflitto già in atto. Diciamo che l’appropriazione è quella pratica quotidiana che il cittadino opera spontaneamente. Si ritrova in piazza, usa il parco, mette delle sedie a una fermata dell’autobus e così via. Si riappropria di uno spazio anche con la “violenza”, per esempio facendo in modo di buttare fuori qualcun altro con proteste o petizioni, negando una possibile integrazione. Si appropria dello spazio non-privato. Anche gruppi organizzati, partiti politici, esercizi commerciali si appropriano in maniera più o meno temporanea dello spazio.
Osservare queste pratiche è interessante per tentare di scoprire come si modificano gli spazi per far coesistere una pluralità di esigenze all’interno della città contemporanea. Bisogna osservare, studiare, ricercare, pensare. Pratiche poco diffuse e poco finanziate di questi tempi. Il punto sta in chi fa l’arbitro fra questo coro di presenze. I cittadini sono residenti, commercianti, immigrati, artisti, giovani, vecchi, turisti... Verrebbe da rispondere l’Amministrazione. Invece no. Spesso chi veramente fa l’arbitro a Firenze è una miriade confusa di agglomerati (in senso buono) di associazioni e gruppi informali più o meno organizzati che stanno sul territorio. Dare più spazio all’auto-organizzazione sarebbe come liberare delle energie capaci anche, forse, di risolvere una serie di problemi da sole. In tal senso anche i Quartieri, come livello di organizzazione già più strutturata, sono assolutamente stati depauperati, nel tempo, dall’Amministrazione comunale sia nella possibilità di fare delle scelte strategiche sul loro territorio, sia di reale agibilità: basti pensare che i Quartieri chiedono la concessione per l’occupazione di suolo pubblico al Comune. Siamo al paradosso. Questo, a nostro avviso, è una politica suicida che tende a mettere una barriera sempre più alta fra cittadino e scelte urbane. Switch Creative Social Network ha lavorato più volte in contesti nei quali il progetto di architettura risultava incompleto o errato, intervenendo in prima persona per ripristinare delle condizioni d’uso o per realizzarne di nuove, impreviste. Potete raccontare uno o più casi che ritenete di esempio per esprimere il vostro impegno? Sì. È il caso del progetto Block Party (Festa dell’isolato). Si tratta un party che si svolge in strada, in spazi pubblici e di passaggio. Riscoprire il concetto di città mediterranea, vitale, dove la strada torna a essere “teatro” , rappresentazione del vivere quotidiano. Rimettere in discussione le categorie dentro-fuori, chiuso-aperto, nel tentativo di affrontare il conflitto che si genera necessariamente in un territorio complesso come la città contemporanea, non da un punto di vista repressivo, ma attivo e propositivo. Occorre guardare l’altro lato della strada: non un parcheggio, non un flusso, non uno spazio buio e pericolo87
so, ma un luogo creatore di spazio sociale. Uno spazio potenziale, produttivo, creativo. La collaborazione con il Quartiere 2 è stata molto interessante. L’uso del sottopasso delle Cure in più occasioni è stato accolto favorevolmente da abitanti e passanti, incuriositi dalla presenza di un party in uno spazio di passaggio. Lì poi abita Totò, un’istituzione per il quartiere delle Cure, accolto dalla cittadinanza come custode del sottopasso. Permettere a Totò di curare autonomamente quello spazio l’ha reso più sicuro. È stata l’Amministrazione comunale a mettere i bastoni fra le ruote sul progetto per la “nuova” piazza Alberti all’interno del parcheggio, rinominata dagli abitanti “la zanzariera” (tanto per ritornare al concetto di appropriazione, anche lessicale!!! spontanea), che è andato in fumo a due giorni dall’evento. Spesso i progetti realizzati non vengono monitorati rispetto al loro uso reale o potenziale da parte dei cittadini. In tal senso, abbiamo condotto una piccola ricerca rilevando la presenza di molti giovani del quartiere che vivono questo nuovo spazio e che interagiscono con esso a volte lasciando segni quali tag, scritte o altro. Da un lato la presenza della casa dello studente, dall’altro le caratteristiche stesse dello spazio che prevede non solo molte sedute che favoriscono la sosta e l’incontro “protetto” dal traffico di via Lungo l’Africo, ma anche la possibilità di fare skating, pratica diffusa ormai da tempo, ma che nella nostra città trova difficoltà a trovare luoghi adatti a essere svolta. Dopo un attento sopralluogo abbiamo rilevato che un semplice intervento sui gradini presenti nella piazza permetterebbe l’uso sicuro da parte degli skaters e la protezione della pavimentazione, che non essendo stata progettata per tale uso, viene col tempo a degradarsi. Si trattava di installare semplici barre d’acciaio a L, fissate con degli stop (spesa totale poche centinaia di euro), intervento accolto in modo molto positivo dai ragazzi e osservato positivamente anche dal personale del Quartiere 2. Avevamo coinvolto molte energie: musicisti, breaker, skater, writer per il vero e proprio party, ma è arrivata una comunicazione che ha bloccato l’iniziativa, nonostante il patrocinio del Quartiere 2 e un finanziamento già stanziato per l’iniziativa circa cinque mesi prima, dichiarando la piazza inagibile al pubblico. Piazza inaugurata nel 2007, usata da Pitti pochi mesi fa per un party privato. 88
Come risulta evidente per chiunque mastichi un po’ di burocrazia, il problema non è riconducibile a una mancanza effettiva dei requisiti di sicurezza, bensì a un conflitto fra poteri cittadini e apparati dell’Amministrazione: come noto l’area pedonale di piazza Alberti è infatti al centro di un contenzioso fra Firenze Parcheggi, Firenze Mobilità e Comune di Firenze, nonché al centro di numerose polemiche da parte di abitanti ed esercenti del quartiere, come progetto mai effettivamente finito. La situazione della nuova area pedonale di piazza Alberti è un vero paradosso della burocrazia cittadina: formalmente inagibile, ma di fatto aperta al pubblico e allo stesso tempo impossibilitata a ospitare quelle iniziative che la arricchirebbero e la destinerebbero al proprio ruolo di spazio pubblico.
A passo d’uomo Quello che segue è un articolo corale, pertanto frutto di un esercizio democratico di concertazione di pareri e punti di vista, cosa assai rara, a maggior ragione quando si parla e si agisce sulla città. Le autrici materiali del testo sono, nell’ordine, Laura Gargaglia, Lucia Maiorfi e Silvia Baracani, con a fianco alcune foto realizzate da Spazi Docili nelle esplorazioni urbane effettuate insieme negli ultimi mesi. La foto in bianco e nero è di PK (Pietro Paolini). Ma il loro contributo rientra nell’immaginario di Esploratori Urbani (Urban Explorers), Spazi Docili (F. Ajello, C. Costa), Switchproject, Cartografia Resistente... e di chiunque abbia voglia di guardare, percorrere, attraversare, contaminare, ibridarsi con gli spazi in scala 1:1.
“In una cultura orientata alla produzione, pensare è generalmente concepito come fare niente. E il fare niente è difficile da fare. La via migliore per realizzarlo è di mascherarlo nel fare qualcosa, e ciò che più si avvicina al fare niente è camminare. Camminare in sé è l’atto volontario più vicino ai ritmi involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore.” Rebecca Solnit, Storia del camminare
www.spazidocili.org www.cartografiaresistente.org www.switchproject.net
Prendere coscienza dello spazio in cui si opera rappresenta il primo atto dell’abitare, l’interazione visiva e sensoriale è preliminare a ogni azione di uso e modifica dello stesso. Permettere al singolo di avvicinarsi al proprio ambito di vita senza il medium degli enti gestionali, adeguandolo, segnandolo con la propria presenza in senso fisico o simbolico vorrebbe dire, oggi, rieducare il cittadino al proprio ruolo. Si è scelto il termine “rieducare” perché un secolo di politiche gestionali sancite nelle stanze di potere ha influito ad allontanare lo sguardo del residente dal luogo in cui risiede, interferendo nel suo stesso desiderio di conoscerlo e capirne struttura e funzionamento, oltre che di intervenire su di esso. L’importanza è tutta
“Considerare la non organizzazione come un principio vitale grazie al quale ogni organizzazione si lascia attraversare dai lampi della vita.” Gilles Clément, Manifesto del terzo paesaggio “Che l’importanza stia nel tuo guardare, non nella cosa guardata”. Citiamo André Gide per focalizzare un ulteriore elemento di criticità nel rapporto tra città e endividuo, capace però di aprire ad alcune risposte. La “discultura” urbanistica del Novecento ha senza dubbio minato profondamente la conoscibilità dell’impianto urbano, ne ha anzi negato il valore, in funzione di un insieme sottoposto a costante mutazione che rappresentasse la frenesia consumistica dell’epoca contemporanea. Il tentativo di invertire questa tendenza attraverso lo strumento del corporate identity, ha portato in effetti a riconoscere l’identità di un agglomerato urbano in un insieme talmente esiguo di elementi caratterizzanti (potremmo dire “da cartolina”, per essere più chiari) da acuire il senso di mancanza di ruolo e criterio delle restanti parti di città.
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nella qualità della cosa guardata, che si considera più o meno idonea, più o meno vicina alle aspettative del marchio. André Gide ci suggerisce di porre l’accento sul guardare, prerequisito indispensabile alla fase di adeguamento/interpretazione dello spazio (momento topico dell’abitare). Il ritorno a questa semplice operazione preliminare può indicare una via d’uscita dalle problematiche di comunicazione tra città e cittadini, ammettendo che si permetta loro di rivedere l’assetto, riscrivere i contenuti, riconferire i ruoli. Quest’ultimo passaggio sembra essere il vero scoglio contro cui s’infrange qualsiasi forma di partecipazione: raramente le Amministrazioni accettano di retrocedere dal proprio ruolo gestionale, ancor meno alla luce di una cultura che è riuscita a ridurre l’urbanistica a mera disciplina economica (secondo Michel de Certeau, mentre la strategia crea il suo spazio autonomo, una tattica è una azione volontaria determinata dall’assenza di un luogo proprio. Lo spazio della tattica è “lo spazio dell’altro”. Le tattiche sono dunque azioni isolate che si avvantaggiano delle opportunità offerte dall’avversario). L’immenso patrimonio di metri quadrati e cubi di spazio vuoto e abbandonato, all’interno delle nostre città, legato alle vergognose speculazioni che nascono come funghi ai loro bordi, rappresenta la politica suicida e prepotente della rendita fondiaria. Un sistema costruito per far guadagnare pochi a scapito di molti, ma soprattutto che genera strutture urbane disegnate dall’economia e non a misura di uomo. Una visione alienata della città. Una città altra dal sé (individuo) e da un “noi” cittadini. La Disneyland rinascimentale del terzo millennio ha rinunciato a mettere “l’uomo come misura di tutte le cose”. Proviamo a riflettere su due parole chiave per il nostro futuro: Economia ed Ecologia. Hanno la stessa radice... forse vanno nella direzione opposta della rendita fondiaria e l’abbandono di immense aree dismesse (??) Forse le parole RIUSARE RICICLARE RIPARARE ci danno qualche indizio per migliorare la nostra qualità della vita (???) che cos’è lo spazio sociale? Un luogo d’incontro, relazione, crescita, scambio d’informazioni, è sicuramente un bene comune, ma cosa lo differenzia dallo spazio pubblico, cioè indiscriminatamente di tutti? Forse lo spazio sociale è uno spazio sia fisico che mentale, riguarda cioè anche il sé, il “noi”, in rapporto a ciò che ci circonda. Un’assunzione di responsabilità non passiva. Ci manca.
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Tepidario Grande
ex-Meccanotessile SantOrsola
ex-panificio militare ex scalo merci
S.Salvi
Area Castello
ex-Longinotti
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Sovrascritture urbane Marco Brizzi incontra zpstudio zpstudio è un atelier di design e architettura fondato nel 2003 da Matteo Zetti ed Eva Parigi, entrambi formatisi alla Facoltà di architettura di Firenze dove svolgono da anni attività didattica e di ricerca. La missione di zpstudio è di esplorare le potenzialità del design e del progetto contemporaneo come strumenti di comunicazione, spaziando tra scale diverse e in continuo dialogo tra pratica quotidiana e ricerca.
Matteo Zetti e Eva Parigi, zpstudio è uno studio di architettura e design che segue con una particolare passione e con impegno la vita della città di Firenze. Una città pesante, mentre il vostro atteggiamento si definisce leggero. Come ciò che voi chiamate novolume si confronta con l’inerzia delle pietre? Creando un sistema di ecostrutture non invasive che si sovrascrive alla città tradizionale, affiancandosi ad alcuni dei suoi luoghi di margine attraverso dinamiche relazionali e leggere. Questo modo di operare non si oppone solo alla staticità massiva (della città storica – e Firenze lo è per definizione), ma anche a quella delle azioni, limitate entro ambiti acquisiti e impegnate in massima parte a difendere rendite di posizione incrollabili. L’obiettivo è di suggerire spunti per rinnovare strategie di fruizione degli spazi che appaiono ormai superate e obsolete. Le vostre visioni sono frutto di un pensiero non sollecitato. Una pratica, questa, che sembra appartenere a una significativa porzione della progettualità contemporanea. Davanti a questa città si 92
tratta di un ripiego o di una strategia? Il progetto non sollecitato rappresenta in primo luogo lo sforzo da parte dell’architettura di conservare la propria autonomia artistica e un irrinunciabile rispetto per se stessa, e in questo senso non si può mai considerare un ripiego. È piuttosto un tentativo di reazione, una tattica di intervento attiva che si auto-organizza, anche in assenza di un budget, un cliente o un sito specifico, e si sente libera di suggerire nuovi scenari al di fuori dei canali obbligati, quelli che proprio in questa città hanno portato risultati deludenti. Quali sono i luoghi, gli ambienti, i temi che vi stimolano maggiormente e che costituiscono per voi occasione di più diretto confronto con questa città? Non esistono particolari zone di Firenze che ci stimolano o a cui siamo legati più di altre; esistono piuttosto ambiti densi di energia, angoli della città costruita che nonostante la loro immobilità ormai appurata e definita, ancora oggi ci trasmettono potenzialità inesplorate, forse solo perché nessuno ha mai voluto verificarne le eventuali capacità di aggregazione. Come viene usato lo spazio urbano? Come viene vissuto? Quali sono i limiti oltre i quali il vostro lavoro tende ad andare? Crediamo che la chiave di tutto sia capire la reale dimensione con cui viene vissuto lo spazio pubblico e qual è il suo valore: lo spazio pubblico, spesso ridotto a una sommatoria di “gated community” o spazi resi pubblico-privati da esigenza di decoro, rappresentatività, di tornaconto economico e prestazionale, deve tornare a essere il luogo delle relazioni, delle sperimentazioni, correndo anche il rischio di aprirsi a qualche imperfezione, cui l’architettura può provvedere con risposte convincenti. Queste risposte, nel nostro caso, si muovono entro i limiti di ciò che rimane tra la libertà del progetto non sollecitato e la consapevolezza della sua difficile realizzabilità: è in quei limiti, ovvero tra il costruire e il non costruire che può svilupparsi, per dirla con Andrea Branzi, “un’architettura che non è soltanto costruzione o pratica di cantiere, ma anche pensiero”.
Novolume Novolume è una visione progettuale ambientata a Firenze e rappresenta la filosofia operativa di zpstudio attraverso la definizione sensibile di alcuni episodi urbani. L’obiettivo di questa visione, frutto di un’azione progettuale non sollecitata, è di creare spazi che acquistano senso, prima che da un disegno di forma e volume, dalla capacità di instaurare nuove relazioni con i flussi urbani e dal rapporto inedito che si instaura tra spazio collettivo e spazio privato. Nel futuro prossimo lo spazio della città, e in particolare lo spazio pubblico, cessa di essere definito secondo le categorie tradizionali dei distretti e degli zoning funzionali, dei limiti fisici e delle molte servitù da essi derivanti, di chiusura e indeformabilità, per identificarsi come entità dinamica e relazionale, in cui le funzioni singole risultano fluidificate e interconnesse. Nell’era delle comunicazioni veloci lo spunto per ogni gesto progettuale che voglia operare sul presente parla di informatica e di ecologia, “un serbatoio inesauribile di idee che attinge dalla scienza, dalla cultura popolare e dalla natura e propone lo sviluppo di una figuratività che riprende i cambiamenti mutevoli ed evoluzionistici che si trovano in natura e il flusso interattivo dei dati nelle comunicazioni elettroniche.” (J. Wines). L’idea di spazio generata da questa visione si esprime attraverso le reti dei flussi (di mezzi, informazioni, abitanti), colonizza i luoghi delle infrastrutture, dei vuoti, dei bordi, creando sistemi dinamici, pervasivi, capaci di esprimere nuove centralità e nuovi valori. Dove il contesto urbano appare ermetico, indeformabile, generatore di congestione, l’architettura deve confrontarsi con le possibilità offerte dallo spazio interstiziale e relazionale. Novolume può prendere forma ovunque: qui è stato ambientato a Firenze, per amplificare volutamente il contrasto tra la staticità indeformabile della città storica, che non cambia per definizione, e un’azione fatta di interventi aperti e continui. Novolume propone un sistema leggero che si adatta a una poderosa sequenza di frame urbani della città di Firenze, ricostruendo attraverso fotogrammi in successione un disegno ambientale basato su pochi elementi flessibili di limitata cubatura; si affianca alle invarianti della città storica massiva, occupando con interventi deboli (non-volumi) alcuni dei suoi luoghi residuali e
spostando l’attenzione del gesto progettuale dagli elementi architettonici alle relazioni che questo instaura con l’ambiente. In questo spazio gli elementi del progetto non si definiscono come oggetti autoreferenziali ma come segnali, punti di passaggio la cui qualità si esprime nelle relazioni con l’ambiente circostante. Il sistema si basa su alcuni snodi sensibili adagiati in successione in altrettanti frammenti di contesto dei quali amplificano la funzione urbana e la vocazione ambientale, ne assimilano le energie e le riconvertono in rinnovate possibilità d’uso. Catcher in the flow appartiene alla serie degli assimilatori urbani: è un padiglione mobile che registra e immagazzina l’energia sviluppata dalla frizione continua tra le dissonanti strategie di utilizzo dello spazio urbano contemporaneo e i limiti dimensionali della città storica. Attraverso dei ricettori (antenne mobili dotate di rilevatori sensibili al movimento del vento, al rumore del traffico, alla congestione ambientale) fa proprio questo potenziale trasformandolo in energia positiva per le attività che si svolgono al suo interno, rivolte a una utenza pubblica. È un edificio che respira. zpstudio 2009 Nota: ci appassiona lavorare a Firenze, in questo ambiente pervaso da un passato pesante e in qualche modo immobile, perché obiettivamente non esiste posto migliore al mondo per dimostrare come una pratica progettuale che voglia definirsi sperimentale si debba esprimere attraverso un lavoro di ricerca asimmetrico, privo di limiti, disfunzionale.
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Cartoline I segni della cittĂ nelle foto di Andrea Rauch e Alessandro Savorelli
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Disse il cane che segnava il suo territorio: “Questo posto mi piace: quasi quasi ci caco sopra!�
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sono Melampo e mi sono liberato dalle catene solo da morto.
Mappe La città delle catene di Gianni Sinni
Il centro storico di Firenze è rinchiuso da centinaia di catene tirate agli imbocchi delle strade e intorno ai monumenti allo scopo di impedire l’accesso ai veicoli. Quintali di anelli di ferro che conferiscono alla città un’inconfondibile immagine galeotta.
Pinocchio alla catena di Melampo: “— Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi mi è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia. Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro: e la catenella era fissata nel muro”.
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I “travagli” nel Medioevo erano degli sbarramenti con catene di ferro che in occasione di sommosse o di turbolenze popolari venivano approntati attraverso le strade per impedire l’avanzata delle fazioni tumultuanti e le scorribande della cavalleria.
La veduta di Firenze detta della Catena fu disegnata da Francesco Rosselli, 1471-1482, ed è visibile (in copia) al Museo di “Firenze com’era”. “A protezione dell’area pedonale saranno altresì posizionate delle chiusure permanenti, effettuate con piolini artistici e catene (...)” Da una Delibera del Comune di Firenze, 2009.
Il Crocifisso di Cimabue nella Chiesa di S. Croce fu coperto dall’acqua e dal fango durante l’alluvione del 1966. Ora è legato a una catena che permette di sollevarlo nel caso si ripeta un simile evento. Il 5 dicembre 2008 il sindaco di Firenze pro-tempore, Leonardo Domenici, si è incatenato per un'ora e 45 minuti di fronte all’edificio che ospita la redazione romana del quotidiano «La Repubblica». Il sindaco protestava contro il giornale per come è stata trattata la vicenda politica innestata dall'inchiesta giudiziaria Fondiaria-Sai.
... in definitiva non rimane che tirare la catena.
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Mappe Alluvioni di Donatello D’Angelo
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LL’elaborazionee grafica gr dell’alluvione di Firenze nze è stata redatta sulla base della del carta pubblicata da Ugo Losacco, Los in Notizie e considerazio zioni sulle inondazioni d’Arn Arno in Firenze r , sul numero 5 de L’Un Universo r del 1967, per ciò che riguarda i livelli idrometrici ragg ggiunti dalle acque in città in seguito al catastrofico evento dell 1966. I dati relativi all’invasione turistica provengono o dalla ricerca TTracing the Visitor’s ’ Eye E per laa quale sono state utilizzatee 81 mila ffoto scattate (tra il 20006 e il 2007) dai turisti a Firenze ze e poi caricate sul portaale Flickr. Le ffoto e i relativi tag, ovveroo le meta-informazion oni riguardanti la georefe f renziazione,, il giorno e l’ora, ha hanno permesso ai ricercatori del MITT dii Boston di stimaare i comportamenti, i flussi e gli itinerari deei turisti nonchhé i luoghi di loro maggiore interesse.
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Mappe Topomarketing di Lorella Chiavacci
L’Ataf, l’azienda di trasporti pubblici di Firenze ha da tempo promosso, con il nome “Adotta la tua fermata”, un programma di sponsorizzazione commerciale delle fermate degli autobus. Le paline delle fermate riportano ora, molto più evidenti dello stesso toponimo, i nomi degli sponsor. La (s)vendita della toponomastica urbana non impedisce ai fiorentini di godere del biglietto più caro d’Italia. [Fonte: Sole24ore]
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M.C.D. = l’Accademia Racconti di Erika Gabbani Curatrice d’arte contemporanea poco propensa a scrivere e a scendere a compromessi col mercato. Nasce a Crespina nella campagna pisana, ma negli ultimi anni è un po’ girovaga (Roma, Barcellona e Città del Messico). Dal 2005 al 2006 crea e dirige uno spazio di ricerca e galleria a Roma nel quartiere Pigneto, ben prima che il quartiere raccontato da Pasolini diventasse alla moda. Nel 2009 fonda Nasonero, uno studio senza fissa dimora di grafica, curatela e comunicazione col suo compagno, l’artista d’origine livornese Fupete. Di recente sono tornati a vivere nella campagna Toscana.
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Per scrivere di Firenze e arte contemporanea ho deciso di partire da un luogo di riferimento ben preciso all’interno della città, l’Accademia di Belle Arti, e sceglierlo come minimo comun denominatore di artisti che conosco o con cui collaboro. L’Accademia perché da lì in teoria escono e lì ci si prende cura degli artisti a Firenze. Cinque tra i tanti, cinque artisti o gruppi d’arte con un bel potenziale di fare belle cose dal mio punto di vista, ci raccontano dei loro anni fiorentini. Spero che queste brevi note possano essere utili alla riflessione, le riporto come me le han scritte, veloci come un fast forward appunto. Ho chiesto cosa fanno e poi l’importanza che hanno nella loro vita gli anni trascorsi qui, senza vincolare troppo la forma. Vediamo.
Giusy Pirrotta pittrice e performer, 28 anni, di Reggio Calabria Chi? Vive a Milano e conta di trasferisti a Londra dove ha fatto domanda al Central Saint Martins College of Art & Design. È una performer dotata di grandi capacità comunicative. Mi racconta che sta spingendo molto con il video dopo aver approfondito il lavoro di artisti come Matthew Barney, Rebecca Horn e Georgina Star. Video come media stesso della performance e non come documentazione, video come arte. Sta lavorando al suo prossimo progetto “Failure” – “Questa serie è incentrata sul tema del tentativo e del fallimento” (...) “Il mio corpo diventa un oggetto autoreferente grazie all’abito e alla scenografia dove si muove. Sto cercando di valorizzare l’aspetto manuale e tessile nel mio lavoro con lo studio dell’abito, della scenografia e soprattutto della coreografia che scatta con la costrizione del vestito durante l’azione”. Gli anni fiorentini? “A Firenze ho passato 8 anni e ti dico la verità a volte penso che ho perso tempo... Questi anni mi sono serviti per capire quello che volevo e come fare per ottenerlo. È stato un percorso lento e difficile soprattutto perché a Firenze, come in tutta Italia credo, i circoli legati all’arte contemporanea sono pochi e molto ristretti... La cosa che mi è mancata durante l’Accademia è stato un diretto contatto tra l’ambiente accademico, la realtà legata all’arte contemporanea e il mercato esterno... l’Accademia è chiusa e i professori sono dentro le loro nicchie e il loro mondo; ma questo mi ha dato più forza per andare avanti, tutto quello che ho fatto l’ho fatto sempre da sola, fuori dall’ambito accademico”.
con sede nel Mitte di Berlino, dove organizzano mostre, eventi e ospitano residenze d’artista. “Artisticamente ci sembra di essere approdati a Babilonia, c’è tutto e il suo contrario; a volte, insaziabili, passiamo da una galleria all’altra per riempirci e a volte chiudiamo gli occhi per non venire troppo contaminati. Un difetto di Berlino? Fa freddo!” Gli anni fiorentini? “Sono stati i veri genitori della nostra collaborazione, intanto è lì che ci siamo conosciuti... e sicuramente è lì che abbiamo deciso, ok vogliamo fare questo lavoro. L’Accademia tramite i professori che ci hanno aperto gli occhi e gli altri amici-artisti che abbiamo conosciuto è stato un posto di produzione, ma anche e forse soprattutto un posto di relazione. Lì abbiamo costruito embrioni di senso che ora sviluppiamo nel nostro lavoro, arricchiti e limati dall’esperienza in altri posti (sia per viaggi che residenze)”.
Ovomoto pittori, trentenni, di Viareggio e di Alzano Lombardo Chi? Manuel e Tatiana vivono da due anni a Berlino. Sono una coppia nella vita e nell’arte. Sono parte di Happenstudio, un collettivo-piattaforma internazionale 111
FREeS.CO. sono in otto, designer, architetti, artisti, curatori, trentenni, sette su otto provengono dall’Accademia, quasi tutti non sono toscani, uno è argentino Chi? Vivono tra un paio di casali persi nella campagna di Montespertoli e le città di Firenze, Milano e Roma. Organizzano il festival Freeshout!?, quest’anno alla terza edizione (dal 30 settembre al 5 ottobre presso gli ex Macelli di Prato). Alcuni di loro lavorano come grafici, altri sono noti per i progetti di arredamento col riciclo: la panchina “dondolante” ricavata dalla vecchia vasca da bagno arrugginita all’ingresso della loro casa ti viene da provarla, non c’è niente da fare: è bellissima. Gli anni fiorentini? David il ligure - “Gli anni passati a Firenze hanno offerto la preziosa opportunità di creare e lavorare su di una solida rete di contatti e mi hanno dato modo di mettermi in gioco. A Firenze ho trovato la possibilità di esprimere la mia creatività e di far esprimere quella di tanti altri giovani creativi”. Matteo - “Non saprei definirlo. Mai vissuto una scena fiorentina in particolare”. Federico - “Per me Firenze è stato l’arrivo delle mie esperienze passate e l’inizio di quelle che sto vivendo oggi, diciamo un fulcro, una stazione di scambio”. David il veneto - “Firenze mi ha fatto conoscere gli amici con i quali vivo e lavoro. Il clima di lavoro tra noi funziona come in una famiglia di contadini: ognuno partecipa attivamente. La città invece è diventata solo un appuntamento per tenere contatti... per il resto riesce a offrire ben poco”.
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Sandro Bottari pittore e performer, di Livorno, 31 anni Chi? Vive di un lavoro normale (definizione sua) a Livorno. Come artista “opero prevalentemente in campo performativo ma non rinuncio al versante visivo e oggettuale della ricerca”. Il suo corpo longilineo, le sue pitture numeriche, il latte e il riso, il suonare l’ocarina, inchiostro nero che scrive sulla pelle... sinceramente assistere a una sua performance è un’esperienza interessante. “Cerco di fare-per-essere, senza affrettare i naturali tempi della vita; la visibilità a ogni costo, il successo ricercato con ogni mezzo non mi riguardano, davvero”.
Gli anni fiorentini? “Mi hanno indubbiamente offerto opportunità di crescita culturale e umana... So che per tutti non è stato così, molto dipende dalle qualità degli insegnanti con i quali si lavora e dalla loro capacità di consentirti di ricercare liberamente le direzioni a te più congeniali. Quando questo rapporto docentediscente si ruppe nel 1996, lasciai l’Accademia per rientrarvi quasi tre anni dopo. Al mio senso innato di indipendenza da impostazioni preconfezionate si è aggiunta in quegli anni la convinzione dell’importanza del lavoro delle Avanguardie del Novecento e della necessità di conservare un pur problematico rapporto con i valori che in tale lavoro si erano palesati. Può apparire antiquato ma... non mi sembra che il post-modernismo ci abbia dato di più e di meglio”.
Gli anni fiorentini? “Il clima che si respira in Accademia purtroppo non è contemporaneo ma guarda a un passato concettualista in molti casi. Non aiuta gli studenti a crescere. Da studenti ci siamo trovati sempre a dover cercare in prima persona i metodi e le tecniche, scegliere i corsi che ritenevamo più adatti secondo i nostri interessi, nessuno ci ha indirizzati. Anche la metodologia di inserimento nel mondo artistico (far conoscere il proprio lavoro alle gallerie, ai curatori ecc.) è nata dalla nostra personale esperienza e dalla voglia di far diventare un lavoro quello che era iniziato come passione. L’Accademia per noi è stata il tramite per conoscerci e iniziare, ci ha dato il “la” e noi abbiamo cercato di fare il resto”.
Anonymous Art
pittori, trentenni, di Pisa e Livorno Chi? Elena e Simone vivono a Livorno. Sono una coppia nella vita e nell’arte da dieci anni. “Siamo partiti dal digitale (video, rielaborazioni fotografiche) e dalla performance per arrivare all’attuale ricerca puramente pittorica; nel corso degli anni sono cambiati i mezzi espressivi, ma non ci siamo mai discostati troppo dai temi trattati. Adesso siamo vicini alle correnti americane degli ultimi anni (Pop Surrealism, Lowbrow) e nelle nostre opere rappresentiamo gli opposti, ciò che appare e non è... il famoso abito che non fa il monaco o che, a volte, prendendoci in giro, rappresenta proprio ciò che mostra”.
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con un calendario ben preciso nelle strade e nelle piazze della città. L’idea è quella di mettere a disposizione di tutti una pillola di bellezza. Concerti, letture, spettacoli, lezioni su argomenti diversi (con tanto di lavagne, banchi, sedie) a disposizione di chi passa.
Ricette La cucina fiorentina è semplice e abbondante. Molti i piatti tradizionali basati su pochi e selezionati ingredienti genuini e di produzione locale. Ecco le ricette suggerite da alcuni bongustai.
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Piazza margherita Daniele Bacci, regista
Presentazione. Quella che proponiamo è una ricetta semplice, dietetica e ricca di fibre, che aiuta l’organismo a stare bene. Non è un rimedio per malesseri troppo gravi, ma aiuta probabilmente a vivere un po’ più sereni nella città nella quale viviamo e parte dalla considerazione che forse è finito il tempo nel quale le strade e le piazze debbano essere soltanto attraversate, ma debbano tornare ad essere luoghi nei quali ci si sofferma, ci s’incontra e si vive. La potremmo definire una ricetta patetica. Tanto tempo fa un’amica, discendente di una nota famiglia fiorentina, dopo aver sposato un americano, mi raccontò che avrebbe partorito i propri figli a Firenze, perché pensava che anche semplicemente camminare nel centro della nostra città fosse un modo per educarli. Una ricetta quindi tradizionale, ma non per questo vecchia, anzi. Ingredienti. Alcune piazze di Firenze, buona volontà, musicisti, pittori, scrittori, attori e tanta, tanta gente curiosa. Attenzione gli ingredienti devono essere freschi e scelti con attenzione. Niente roba di marca, ma di stagione. Grado di difficoltà. Zero. Tempo di preparazione. Anni. Modo di preparazione. Prendere le piazze più belle e più brutte della città. Scegliere artisti e istituzioni culturali che normalmente lavorano nel chiuso della loro cameretta, o nelle sale e nei teatri della città e farli esibire
La cosa importante è che ci si abitui a pensare che, per esempio, tutti i venerdì in piazza della Passera, il sig. Tale tiene una lezione di storia medievale, o il quartetto Caio suona Beethowen. Note. Non ci sono controindicazioni. Evitare di far pagare e di somministrare aperitivi. L’apertivo è la malattia della contemporaneità. Niente contro il bere e il mangiare … magari dopo, con i musicisti o con gli attori si beve e si mangia e si parla. Anche molto.
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Case al radicchio di campo (ed altre verdure) Nicola Santini, architetto
In città, oltre a rimparare a cucinare, proporrei di rimparare a prodursi il cibo da soli. Ingredienti. Condomini, edifici abbandonati, edifici vecchi e nuovi in centro
e in periferia, lotti vuoti o in attesa di essere costruiti, balconi, terrazze,tetti piani. Semi (ogm free!) di lattuga, radicchio, ravanelli, zucchine, melanzane, cavolo, cavolo nero, altri vegetali locali a piacere, aglio, cipolla, menta, basilico, rosmarino, ecc. Bidoni e sistemi autocostruiti per la raccolta dell’acqua piovana. Tubo di gomma. Tempi di preparazione. Un anno. Preparazione. Prendete gli edifici abbandonati, i balconi, le terrazze i parcheggi inutilizzati e i lotti abbandonati, aggiungete un po’ di terra, e quando possibile, piccoli impianti idroponici autocostruiti completi di pannelli solari, disponete i bidoni per la raccolta dell’acqua piovana sui balconi, utilizzate l’acqua raccolta per innaffiare le piante. In mancanza di terrazze e balconi, tappate (senza farvi vedere) i tubi dei pluviali che diventeranno serbatoi d’acqua per innaffiare. Prendete poi i semi delle verdure e piantateli nella terra o sistemateli negli impianti idroponici fatti in casa. Innaffiate regolarmente, attendete qualche mese e raccogliete parte delle verdure che avete prodotto. Sbizzarritevi a combinare le verdure per creare piatti freschi e salutari. Risultato. I piatti saranno ricchissimi e le case saranno vegetali. Un gradevolissimo profumo di spezie e verdure fresche aleggerà nelle strade della città e in casa vostra. ***
stato, ritengo ingiustamente, bandito dai ricettarii più chic (a Treviso è stato addirittura proibito). Tempo di preparazione. Si prepara a crudo, non necessita di cottura o tempi d’attesa. Grado di difficoltà. Minimo. Costo. Minimo. Modo di preparazione. Prendete delle piazzette, dei canti, dei giardini, dei marciapiedi e spolverateli abbondantemente di panchine e sedute semplici. Se volete fare un figurone con i vostri ospiti aggiungeteci una pianta a lato. Non dovete fare altro. Lasciate riposare 10 minuti e sentirete sospiri di sollievo provenire da tutt’intorno: turisti esausti, famiglie che discorrono, anziani a frescheggiare, giovini a farsi una birra. Ingredienti. Panchine fresche. Evitate quei prodotti proposti di solito dalle Sovrintendenze in ghisa rococò, che fa antico, o technofolliés, che fa moderno.
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Panzanella di panchine
Stinchi (Calci negli)
Un piatto che dà il meglio di sé in estate, ma potete prepararlo in qualsiasi stagione, rinfresca e rende socievoli. Negli ultimi anni, con il prevalere della moda culinaria della “tolleranza zero” calorie, è
Quando mia nonna vedeva che a qualcuno, già provato duramente dalla vita, capitava un’altra, ennesima disgrazia, ricordava, con un’alzata di spalle, un vecchio proverbio toscano: “Agli zoppi calci negli stinchi!”, per significa-
Angela Rossi, studentessa di filosofia
Andrea Rauch, grafico
re che anche le sfortune, le jelle, le sfighe assortite, vanno sempre a colpire i predestinati e gli eletti. Gli zoppi in una parola. È un vecchio traslato di saggezza popolare che ci viene in mente ogni mattina leggendo il giornale, ogni volta che la cronaca politica ci balza incontro, sempre quando ci si accorge che tutto quel che succede arriva direttamente, come un calcio nello stinco, a accrescere i nostri dolori e a saggiare le nostre, ormai zoppicanti, capacità di sopportazione. Gli stinchi (di maiale) però, invece che essere presi a calci,
possono anche passare al forno, tirati a cottura con brodo abbondante, e spalmati, prima di essere avviati a cottura, con senape di Digione, insaporiti con sale e pepe e accompagnati da cipolline dolci (quelle piccole e bianche) messe a cuocere a crudo insieme al brodo. Se avrete cura di far asciugare la cottura a forno molto lento e per il tempo necessario, la carne si staccherà dolce e saporita dall’osso e il brodo di risulta diventerà denso, meticciato con il grasso della cotenna, come un sughetto appetitoso in cui fare scarpetta. Sempre che al momento di mettersi beatamente a tavola non arrivi qualcuno, e state certi che non mancherà, che ve ne voglia tirare un altro, di calci nello stinco. In quest’ultimo caso, mentre la cronaca scorrerà beffarda, atroce e/o stomachevole, non vi resterà che accompagnare il dolore con un bicchiere di rosso giovane. Consiglierei un rosso di Montalcino, ma fate pure voi.
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Fupete Fupete è il nome d’arte di un poliedrico artista, illustratore e grafico di origini toscane che scarabocchia tutto quello che gli passa per le mani. Ha illustrato la copertina, i personaggi e gli articoli di questo primo FFF. Per conoscere meglio il suo lavoro visita: www.fupete.com e www.nasonero.com Autobio: “Sono nato a Livorno esattamente a metà dei favolosi anni settanta: sette giorni dopo gli ultimi soldati americani scappavano da Saigon e circa sei mesi più tardi Pasolini fu ammazzato. Sono conosciuto, lavoro e spesso passo il tempo più all’estero che in Italia. Sono direttore associato dell’incredibile rivista spagnola ROJO® fin quasi dagli esordi e ho tenuto mostre personali a Barcellona, Città del Messico e Milano. Negli ultimi anni, tra le altre cose, ho creato l’immagine del progetto DriveMe per Smart; ho dipinto dal vivo al Forum D’Art Contemporain di Lussemburgo e al Museo Nazionale Reina Sofia di Madrid; ho partecipato alla collettiva Scala Mercalli all’Auditorium di Roma, alla collettiva Urban Superstar al Museo Madre di Napoli e al progetto Out per J&B a Barcellona. L’anno scorso ho pubblicato due libri: Punkie Totalista, un diario visivo degli ultimi dieci anni (edizioni ROJO®) e Animal Collective, un bestiario di animali contemporanei scritto e disegnato a quattro mani con Jacklamotta (edizioni DRAGO Arts). Quest’anno sono tornato a vivere nella campagna Toscana con la mia compagna Erika e, dopo l’esperienza romana di Studio Fupete, ho fondato lo studio senza fissa dimora di arte, comunicazione e progetto grafico Nasonero. Nella to-do-list c’è appunto nell’ordine: aprire una galleria-bottega qui a Lari, trovare il modo di farsi pagare da un cliente bastardo, trasferirsi un po’ a San Francisco e viaggiare in barcastop per la Polinesia. Vi teniamo aggiornati. Fine.”
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Colophon FFF Firenze Fast Forward 1 - luglio 2009 Numero zero in attesa di autorizzazione dal Tribunale di Firenze Direttore editoriale Gianni Sinni Direttore responsabile Maurizio Boldrini Caporedattore Marco Brizzi Responsabile di redazione Emanuela Mallardi Progetto grafico Lcd, Firenze
FFF è un progetto Lcd Firenze
Illustrazioni Fupete Produzione Franca Gori Amministrazione Valentina Rossi Hanno collaborato a questo numero Anonymous Art, Daniele Bacci, Silvia Baracani, Federico Bondi, Sandro Bottari, Alessandro Busà, Cartografia Resistente, Lorella Chiavacci, Donatello D’Angelo, Piero Frassinelli, Fres.co., Erika Gabbani, Chiara Galli, Laura Gargaglia, Paul Ginsborg, Hans Leo Höger, Roberto Innocenti, Daniele Lombardi, Fatos Lubonja, Lucia Maiorfi, Edoardo Malagigi, Ovomoto, Pietro Paolini, Eva Parigi, Giusy Pirrotta, Andrea Rauch, Flavia Ravenni, Ramin Razani, Francesco Ricci, Nicola Santini, Eva Sauer, Alessandro Savorelli, Spazi Docili, switchproject, Sergio Traquandi, Francesco Ventura, Matteo Zetti, zpstudio. web www.firenzefastforward.it FFF è anche su Facebook, Flick’r e YouTube Editore LcdEdizioni Sede legale: S. Maria Soprarno, 1 50125 Firenze Sede operativa: Costa de’ Magnoli 29 50125 Firenze 0550510210 lcd@lcd.it www.lcd.it Stampa TipografiaToscana - Ponte Buggianese (Pt) Carta Stampato su carta Fedrigoni Interno: Symbol Freelife Matt Plus 130 Copertina: Symbol Freelife Matt Plus 250 Caratteri Rockwell, Monotype 1934 Sauna, Underware 2000 In copertina Prima: Pinocchio di Fupete Quarta: Panthera Leo, Museo della Specola
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