I Portici di Bologna: Protocollo d'Intesa per la progettazione e l'esecuzione dei Restauri.

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI INGEGNERIA

CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA EDILE ARCHITETTURA DAPT - Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale

TESI DI LAUREA in Restauro Architettonico

I PORTICI DI BOLOGNA: PROTOCOLLO D’INTESA PER LA PROGETTAZIONE E L’ESECUZIONE DEI RESTAURI

CANDIDATO Francesco Naldi

RELATORE: Chiar.mo Prof. Ing. Claudio Galli CORRELATORI Ing. Matteo Grilli Prof. Ing. Alessio Erioli

Anno Accademico 2009/10 Sessione III


“Lo speciale prodotto dell’attività umana a cui si dà il nome di opera d’arte, lo è per il fatto di un singolare riconoscimento che avviene nella coscienza.” Cesare Brandi, Teoria del Restauro

“ ... solo una felice coincidenza dà luogo a fatti urbani autentici; quando la città realizza in se stessa una propria idea della città fermandola nella pietra.” Aldo Rossi, L’architettura della città

“... io qui intendo solo affermare che il processo dinamico della città tende più all’evoluzione che alla conservazione e che nell’evoluzione i monumenti si conservano e rappresentano dei fatti propulsori dello sviluppo stesso. E questo è un fatto verificabile, lo si voglia o no” Aldo Rossi, L’architettura della città


A mio padre, a mia madre


Indice

0. Introduzione Protocollo d’Intesa 1. Analisi storica dei portici 1.1 Origine del portico 1.2 Storia della città di Bologna finalizzata alla comprensione del portico 1.3 Regolamentazione urbanistica: editti e statuti cittadini 1.4 Il tessuto urbano di Bologna. Il monumento ambiente 1.5 Riconoscimento del portico come opera d’arte 1.5.1 Le istanze brandiane nello specifico caso 1.5.2 Riconoscimento del valore: UNESCO 1.6 Conclusioni 2. Restauro Urbano 2.1 Il portico come percorso urbano 2.2. Teorie: i momenti del restauro urbano 3. Emergence o teoria dei sistemi emergenti 3.1 Sistemi emergenti. Definizioni ed esempi pratici. 3.2 I portici di Bologna come sistema emergente 4. Analisi storica delle pavimentazioni 4.1 Le pavimentazioni dei portici di Bologna. Un millennio di stratificazioni 4.2 Evoluzione e cambiamento 4.3 Tipologia di portico e pavimentazione. Non univocità del binomio. 4.4 Classificazione delle pavimentazioni originarie 4.4.1 Il battuto alla veneziana 4.4.1.1 Premessa 4.4.1.2 Origini del terrazzo alla veneziana 4.4.1.3 Il terrazzo a Veneziana


4.4.1.4 Il terrazzo a Bologna 4.4.1.5 Catalogo dei marmi e delle pietre comunemente usate 4.4.1.6 Il battuto a Venezia e a Bologna. Differenze costruttive 4.5 Classificazione delle pavimentazioni esistenti all’oggi 4.5.1 Materiali ammissibili 4.5.2 Materiali incongrui 5. Analisi generale del degrado 5.1 Individuazione delle lesioni caratteristiche 5.2. Comportamento dei materiali 5.2.1 Calci aeree 5.2.1.1 Preparazione 5.2.1.2 Malte 5.2.1.3 Proprietà meccaniche 5.2.1.4 Proprietà fisiche 5.2.1.5 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado 5.2.2 Calci idrauliche 5.2.2.1 Preparazione 5.2.2.2 Malte 5.2.2.3 Proprietà meccaniche 5.2.2.4 Proprietà fisiche e possibili meccanismi di degrado 5.2.2.5 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado 5.2.3 Cemento 5.2.3.1 Preparazione 5.2.3.2 Proprietà meccaniche e possibili meccanismi di degrado 5.2.3.3 Proprietà fisiche e possibili meccanismi di degrado 5.2.3.4 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado 5.2.4 Resine 5.2.4.1 Preparazione


5.2.4.2 Proprietà meccaniche e possibili meccanismi di degrado 5.2.4.3 Proprietà fisiche e possibili meccanismi di degrado 5.2.4.4 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado 5.3 Le possibili cause del degrado a livello macroscopico 5.3.1 Premessa 5.3.2 Subsidenza 5.3.3 Vibrazioni da traffico 5.3.3.1 Effetti delle pavimentazioni stradali 5.3.3.2 Possibili orientamenti successivi 5.3.4 Effetto antropico 5.3.5 Esposizione solare 5.3.6 Caratteristiche strutturali dei portici 5.3.7 Esecuzione dei lavori a regola d’arte 5.4 Comportamento meccanico delle pavimentazioni 5.4.1 Pavimenti monolitici e pavimenti discontinui ad elementi 5.4.2 Analogia con il modello strutturale a lastra 5.4.2.1 Brevi considerazioni sul comportamento a lastra 5.4.2.2 Lastra e piastra 5.4.2.3 Dimensioni del pavimento alla veneziana 5.4.2.4 Fessure caratteristiche del pavimento 5.4.3 Modelli strutturali di studio 5.4.3.1 Lastra mono e doppio strato. Ipotesi. 5.4.3.2 Il modello strutturale di riferimento 5.4.4 I giunti 5.5 Il degrado in relazione alle tecniche costruttive. Ieri e oggi. 5.5.1 Il degrado di origine meccanica 5.5.2 Il degrado di origine fisica 5.5.3 Il degrado di origine chimica


6. Analisi statistica 6.1 Ricognizione generalizzata per la raccolta del campione 6.2 Risultati delle queries 7. Linee guida per i restauri della pavimentazione 7.1 Analisi storico - urbanistiche generali 7.2. Premesse come risultati degli studi conseguiti 7.3 Metodologie di intervento 7.4 Analisi del degrado e individuazione delle cause 7.4.1 Individuazione del tipo di degrado 7.4.2 Cause generali responsabili del degrado 7.4.3 Lesioni caratteristiche e cause perturbatrici 7.4.4 Inquadramento sintetico del caso specifico 7.5 Sintesi del caso specifico come anticipazione del progetto 7.6 Progetto del Restauro 7.6.1 Manutenzione: intervento integrativo sull’esistente 7.6.2 Totale rifacimento 7.6.2.1 Aspetto concettuale 7.6.2.2 Aspetto tecnico 7.6.2.3 Scelta del tipo di pavimentazione 7.7 Aspetti tecnici e funzionali 7.7.1 Manutenzione 7.7.2 Totale rifacimento 8. Luce e Percezione 8.1. Premessa. Il degrado luminoso attuale 8.2 Fisiologia ottica per la comprensione 8.3 Scelta della sorgente luminosa 8.4 Analisi qualitativa dell’illuminazione. 8.5 Progetto. Concept e parametri coinvolti


8.5.1 Studio dei supporti 8.6 Metodo utilizzato per la progettazione dell’illuminazione . Ringraziamenti . Bibliografia . Allegati. Tavole progettuali


0_ INTRODUZIONE


Capitolo 0 Protocollo d’Intesa ____________________________________________________________________________

Protocollo d’Intesa Il progetto di restauro dei Portici risulta essere così strutturato: 1. Semplificazione dell’iter procedurale per il cittadino-proprietario 2. Restauro della pavimentazione 3. Progetto di un nuovo sistema di illuminazione del sottoportico Si tiene a precisare che il restauro in questo caso deve essere inteso nel senso più ampio del termine: non più, pertanto, restauro del singolo monumento, ma restauro di un tessuto organico, il centro storico di Bologna che vede articolarsi al suo interno circa 38 chilometri di Portici. Obiettivo generale Il fine ultimo di questo progetto è la restituzione storico-artistica alla città dei Portici, elementi costituenti l’ambiente monumentale del tessuto urbano di Bologna Soggetti coinvolti _ Comune di Bologna _ DAPT, Dipartimento di Architettura e di Pianificazione Territoriale della facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Bologna Formulazione del problema Il restauro di un monumento diffuso quale è il tessuto del centro storico di Bologna, agendo su scala urbana, coinvolge molteplici soggetti e conta differenti casi su cui operare. Il problema del restauro dei Portici in questo senso può essere così formulato: _ riconoscimento dei Portici come monumento attraverso le istanze brandiane per giustificare la necessità di intervento su tutti i Portici che presentano degrado, indipendentemente dal loro grado di vincolo o dal loro pregio estetico-architettonico; _ risoluzione della questione procedurale per la richiesta dei permessi

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Capitolo 0 Protocollo d’Intesa ____________________________________________________________________________

_ conoscenza del caso specifico _ scelta dei materiali ammissibili per il restauro delle pavimentazioni _ redazione di dettagli costruttivi a seconda della categoria in cui ricade lo specifico caso _ progettazione di un nuovo sistema di illuminazione

1. Semplificazione dell’iter procedurale per il cittadino - proprietario E’ di fondamentale importanza per la fattibilità del progetto provvedere alla semplificazione dell’iter procedurale per l’esecuzione dei restauri. Il progetto prevede la possibilità di poter instaurare un rapporto diretto tra soggetto richiedente il restauro e gli enti comunali prefissati attraverso una semplice richiesta della relativa scheda progettuale corrispondente al numero civico del portico in questione che sancisce l’autorizzazione a procedere. Si vuole pertanto dare un servizio ai proprietari grazie al quale essi hanno la possibilità di: _ ricevere una scheda progettuale definitiva sui restauri da effettuare per ogni caso specifico _ tempi immediati per il rilascio del permesso _ ricevere un elenco prezzi certificato _ avere la concessione gratuita del suolo pubblico necessaria ai cantieri con possibilità di affissioni pubblicitarie sulle recinzioni altresì gratuite _ garantire un’uniformità di intervento per i portici adiacenti

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Capitolo 0 Protocollo d’Intesa ____________________________________________________________________________

2. Restauro della pavimentazione L’analisi della straordinaria varietà tipologica e materica delle pavimentazioni dei portici e la comprensione della complessità di potersi ricondurre ad un’unità di stile che fosse giustificata, ha portato alla scelta di preferire una serie di regolamentazioni che non fossero di tipo prescrittivo ma piuttosto prestazionale in termini storici-estetici. Di fatto stabilire un criterio che determinasse l’applicazione di una particolare pavimentazione rispetto ad un’altra all’interno di quelle ammesse sarebbe impossibile o per lo meno forzato poichè manchevole di una forte giustificazione pratica. La percezione dell’unità stilistica dei Portici nel loro insieme, tale da costituire un “continuum” risulta, da questa analisi, indipendente dalla grammatica architettonica utilizzata; e quindi dal tipo di materiale scelto. La continuità è percepita a livello macroscopico, come sintassi del sistema architettonico nel suo insieme. Pertanto si è preferito offrire una scelta di materiali che fossero congruenti con il monumento “Portici”, non tanto in termini di originarietà ma di stratificazione storica. L'analisi storica è utile per comprendere se l’attuale stato del portico, e quindi della pavimentazione, è coerente con quella originaria del fabbricato. Da questa, unitamente all’analisi del degrado, si possono dedurre i possibili interventi: _ intervento di manutenzione _ rifacimento per incongruità tipologica e/o per degrado diffuso su tutta la superficie pavimentata Pavimentazioni ammesse: _ veneziana, nei disegni ricorrenti bolognesi _ laterizio e cotto, nelle tipologie più diffuse a Bologna _ pietra naturale, nei tipi presenti _ mista (interazione tra quelle sopra citate) La rimozione delle pavimentazioni incongrue è prevista solo se questa non risulta essere collaborante con parti strutturali del fabbricato, come per esempio il solai del piano ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 0 Protocollo d’Intesa ____________________________________________________________________________

cantinato, quando presente, al fine di evitare il danneggiamento di parti strutturali dell’edificio 2.1 Strumenti utilizzati Alla redazione di un data base per il rilievo dello stato di fatto, sembra essere opportuno associare come strumento di lettura e di controllo, che svolga quindi un feedback per l’anamnesi, un modulo pre-compilato per il proprietario in cui si dichiara: _ grado di vincolo _ epoca storica _ caratteri prevalenti del portico _ materiali utilizzati per la pavimentazione _ rilievo fotografico a testimonianza _ note su eventuali lavori eseguiti

3. Progetto di un nuovo sistema di illuminazione del sottoportico L’analisi storica ha permesso di riconoscere l’attuale illuminazione come elemento incongruo in quanto non originario; non è difficile stabilire, infatti, che i punti luce attuali sono delle aggiunte assolutamente incongruenti con il tempo storico e lo stile del monumento. Inoltre il sistema di illuminazione attuale, peraltro carente in termini di qualità e di efficienza, essendo costituito da punti luce di vario genere, non permette la percezione della continuità del Portico, che, come spiegato in precedenza, costituisce una specificità fondamentale del monumento, una caratteristica che rende il monumento stesso unico nel suo genere. Il progetto di un nuovo sistema di illuminazione che preveda il susseguirsi in tutti i portici di un’unica forma di luce che sia espressione delle variabili endogene (geometrie e proporzioni) e di quelle esogene (flusso di persone, relazione con l'esterno) potrà porsi come un forte segnale di comunicazione tra antico e moderno, un segno luminoso ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 0 Protocollo d’Intesa ____________________________________________________________________________

che evidenzia ciò che nei secoli non è mai mutato: l'uso del Portico come percorso urbano. Ecco allora che oltre ad essere qualcosa di funzionale (deve illuminare) e di simbolico (riconoscimento nei portici di una stessa identità culturale), la traccia luminosa può diventare ciò che in materia di restauro è detto "facilitazione alla lettura del monumento", un modo per evidenziare l'importanza del nostro patrimonio architettonico e per sensibilizzare l'utenza. Il progetto prevede un sistema di illuminazione con sorgenti a tecnologia a led, che, oltre ad avere un basso consumo energetico, permetterebbero di risparmiare in manutenzione in quanto la durata degli stessi è garantita 10 anni. Il nuovo sistema di illuminazione risponde chiaramente ai criteri di progettazione della materia di restauro, quali, per questo caso: _ minimo intervento _ reversibilità _ adattabilità

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1_ ANALISI STORICA PORTICI


Capitolo 1 Analisi storica dei portici ____________________________________________________________________________________

1.1 Origine del Portico Il portico (lat. porticus, gr. στοά), pur sotto forme diverse, è un elemento usato dall’architettura di tutti i tempi come ambiente di passeggio e di disimpegno. Dal punto di vista spaziale consiste di un vano a pianoterra, che, almeno dalla parte di uno dei lati lunghi, si apre con una serie di colonne o pilastri verso uno spazio aperto, in modo che al posto di una parete continua si ha una serie di aperture ravvicinate; può essere elemento decorativo nella facciata o nel fianco di palazzi, oppure luogo di passeggio o di riparo lungo le vie, intorno ai cortili, piazze e mercati. Nel portico si concretarono le varie soluzioni formali assunte tanto dalla struttura trilitica, nelle civiltà orientali e nell’arte greca, quanto dalla struttura arcuata prevalentemente nell’architettura romana e in quella dei periodi successivi. Di portici trilitici si trovano esempi estremamente imponenti nell’Egitto faraonico e nell’arte cretese-micenea, utilizzato maggiormente nei cortili. Presso i Greci, nel portico si trovano completamente realizzate già dalle epoche più remote le forme degli ordine architettonici classici rimaste poi in uso.1 L’esistenza dei portici primitivi si riscontra già nei palazzi appartenenti alla civiltà egizia, hittita ed egea; da questi lontani prototipi si sviluppa il tipo di portico grecoromano, che servirà poi da modello alle costruzioni cristiane e alle architetture del Rinascimento. Nel palazzo miceneo di Tirinto, oltre a parecchi atrî e propilei, la cui struttura è affine a quella dei portici, si riscontra un ampio cortile, che precede il megaron degli uomini, con un altare nel mezzo e, lungo i quattro lati, portici di forma embrionale, i quali disimpegnano gli ambienti aperti all’intorno. Il palazzo di Cnosso a Creta non aveva portici nel grande cortile centrale, mentre essi si vedono invece nel cortile principale del palazzo di Festo. Si suppone, inoltre, che alcuni templi greci arcaici avessero lungo i fianchi tettoie in legno, appoggiate a pali o a pilastri, per proteggere i visitatori del luogo: dal pronao e dai colonnati dell’opistodomo, congiunti tra loro per mezzo di

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Lessico Universale Italiano di Lingua Lettere Arti Scienza e Tecnica, vol.XVII, voce “portici”, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1977 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 1 Analisi storica dei portici ____________________________________________________________________________________

Fig. 1, pianta tipo di un tempio periptero.

questi portici laterali, sarebbe nata la forma del tempio periptero.2 I pubblici portici si moltiplicarono in numero, ampiezza e splendore a mano a mano che si procede dall’arte greca dei secoli più antichi all’ellenistica, e da questa all’arte romana imperiale che ne fece un larghissimo uso

impiegandovi spesso l’arco piuttosto che la piattabanda. I portici si rivelarono di grande utilità pubblica, tanto per difendere dalle piogge e dai rigori invernali nel settentrione, quanto per riparare dai cocenti raggi del sole nelle regioni meridionali e in special modo nelle città africane. L’interno di un portico poteva essere diviso in due o più navate da file mediane di colonne o pilastri interni; talvolta, come nel portico dei Corciresi in Elide e in quello di Filippo a Delo, a un muro longitudinale centrale si appoggiavano due portici aperti verso l’esterno, orientati secondo due punti cardinali diametralmente opposti. Nei portici più monumentali il tetto era a due spioventi, in modo da formare due piccoli frontoni nei lati minori; tetti a due spioventi su portici si vedono in stucchi, pitture e mosaici romani, specialmente se derivati da prototipi ellenistici, e in rappresentazioni di porti.3 Già dal inizio del sec. III a. C., Sostrato di Cnido, architetto del celebre faro di Alessandria in Egitto, aveva introdotto un secondo piano nei portici, che, in età precedente, ne aveva avuto uno solo; l’architettura ellenistica e quella romana poi seguirono questa innovazione. Esempi caratteristici di portici a due piani sono quelli di Attalo e di Eumene in Atene e quello del tempio di Atene a Pergamo. I piani potevano essere ambedue dorici oppure l’inferiore dorico e il superiore ionico. L’introduzione a Roma di portici di tipo greco-ellenistico si fa risalire al sec. II a.C. Importante è segnalare che non è possibile una distinzione netta fra i vari portici basata sulla loro funzione, poichè spesso essi servirono contemporaneamente a più usi. Così,

Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, pubblicata sotto l’alto patronato di S.M. il Re d’Italia, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. XXVIII, voce “portico”, Roma, 1935 2

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op. cit. nota 2

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per esempio, la Stoa Poikile (il “Portico Adorno” delle pitture di Polignoto), nell’Agorà di Atene, oltre a servire al passeggio dei cittadini, all’amministrazione della giustizia, era il luogo che permetteva ai filosofi di concentrarsi nelle loro conversazioni: da qui si sviluppano lo stoicismo, la dottrina dei seguaci di Zenone, i quali furono detti appunto stoici (gr. στωιχοί, propr. “quelli del portico”). E’ proprio sotto i portici, infatti, che si formano le due scuole filosofiche degli stoici e dei peripatetici, i cui nome derivano appunto dai vocaboli “stoà = portico” e “peripatos = passeggiata”. Molto probabilmente l’associazione dei portici al mondo accademico e la sua diffusione in città sedi di importanti Università, come Bologna e Padova, entrambe porticate, deriva proprio da questo uso iniziale. 1.2 Storia di Bologna finalizzata alla comprensione del portico I romani fondano la città di Bononia, parola di origine celtica che ha un significato di buon augurio, nel 189 a.C. Le strade sono tra loro parallele e perpendicolari tipiche del castrum romano, e non tengono conto di quelle del più antico insediamento etrusco, felsinea, che quindi ne risulta stravolto nel suo assetto urbanistico. La città viene posizionata in una zona centrale della pianura padana, sulla via Emilia, strada che collega Rimini con Piacenza e che tutt’oggi passa nel centro storico lungo le vie San Felice, Ugo Bassi, Rizzoli, Strada Maggiore. All’interno del perimetro quadrato, forse costituito da palificate in legno, gli isolati rettangolari continuano a svilupparsi fino alla fine dell’età antica e la città conosce due periodi di massimo sviluppo; il primo sotto l’imperatore Augusto in cui viene realizzato un efficiente sistema fognario e le strade vengono lastricate; il secondo sotto l’imperatore Nerone, durante il quale si ha un rinnovamento edilizio. Non esiste alcun portico ne alcun marciapiede; oggi di quel tessuto urbano rimangono tracce riscontrabili nelle odierne vie Clavature, via Drapperie, via Pescherie vecchie. Ma anche Bononia come tante altre città nel periodo che va dalla grande crisi che colpisce l’impero romano fino all’alto medioevo in cui sorgono i regni romano-germanici ( sec. V-VII ), conosce un periodo di forte declino e subisce un massiccio spopolamento tanto da risultare ormai troppo grande per la popolazione del tempo, che si concentra nella parte orientale della città, ancora oggi meglio conservata, compresa tra le attuali vie degli Orefici e Farini. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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La prima fortificazione di Bologna è costituita dalle mura di selenite, la cui datazione è incerta ( prima metà del V sec. oppure seconda metà del VII sec. inizio dell’ VIII sec. ), ma comunque in un periodo di relativa calma e prosperità economica. Dopo la conquista longobarda, di cui rimangono tracce nelle strade semicircolari e concentriche ad oriente delle mura, Bologna entra nello stato della chiesa e vive un lungo periodo di pace che ne favorisce la ripresa. Già a partire dall’ VIII secolo si formano i primi borghi esterni alle mura, che non riescono più a contenere la popolazione in aumento. Le mura infatti non erano tanto un costo economico ma piuttosto in termini di abitabilità urbana. E’ interessante notare che tra il X e l’XI secolo sulle vie Strada Maggiore, Via Santo Stefano e via Castiglione, che si diramano radialmente dall’antica porta ravegnana, cominciano a formarsi dei lotti rettangolari che misurano 3,5 per 7 metri di lunghezza disposti con il lato minore sulla strada. Mano a mano che le famiglie si arricchiscono i lotti si fanno sempre più lunghi in senso longitudinale. Non si sa di preciso quando siano stati costruiti i primi portici a Bologna, ma si hanno notizie documentate circa un contratto d’affitto del 1091 nel quale si menziona un portico, specificando che il suolo fa parte dell’immobile, quindi è privato, ma concesso ad uso pubblico. Nel 1115, alla morte di Matilde di Canossa, rappresentante dell’impero a Bologna, si forma il comune autonomo; i contadini delle campagne decidono di trasferirsi nelle città e fare altri lavori come muratori, artigiani, falegnami. Cominciano pertanto ad essere costruite case al di fuori delle mure di selenite e la situazione economica della città migliora sempre di più. Verso la metà del XII secolo la lotta contro Federico Barbarossa, che vuole togliere l’autonomia ai comuni, induce la popolazione a costruire la cerchia dei Torresotti. In questo periodo viene scavato il canale Navile che porta le acque del Reno e le famiglie più facoltose innalzano le torri come segno del proprio prestigio; inoltre si origina e si sviluppa lo Studium, ovvero l’università che attira numerosi giovani in vero per la maggioranza facoltosi, aggravando ulteriormente il problema delle case. Cominciano ad essere edificate case al di fuori della seconda cerchia di mura e, per difenderle, nel XIII ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 1 Analisi storica dei portici ____________________________________________________________________________________

secolo viene costruita la terza cerchia detta della Cirda, al cui interno Bologna si sviluppa addirittura fino alla fine del XIX secolo.

1.3 Regolamentazione urbanistica: editti e statuti cittadini Originatesi per la straordinaria capacità dei privati che sono stati in grado di tradurre in forma architettonica un concetto di utilità, l’intervento intelligente e lungimirante delle pubbliche autorità ha permesso ai portici di potersi sviluppare fino a costituire e partecipare al disegno urbano della città, a costituire un organismo vitale attraverso un’attenta, precisa e chiara regolamentazione urbanistica. Pare lecito pensare ai portici come a fatti urbani persistenti, originatesi come risposta ad una necessità primitiva che risponde alla ricerca dell’utilità: “Sono infatti propenso a credere che i fatti urbani persistenti si identificano con i monumenti; e che i monumenti siano persistenti nella città ed effettivamente persistano anche fisicamente. (...) questa persistenza e permanenza è data dal loro valore costitutivo; dalla storia e dall’arte, dall’essere e dalla memoria.”4 Nel XIII secolo si ha un’enorme diffusione dei portici che porta l’amministrazione a redigere una regolamentazione urbanistica, incredibilmente moderna per l’epoca storica. Il primo documento risale al 1211, un editto che sancisce la natura privata del suolo su cui deve essere costruito il portico. Oggi come allora da un punto di vista giuridico, il portico è una proprietà privata concessa ad uso pubblico e soggetta in pratica ad una servitù di uso e di passaggio. Ciò sembra ledere il diritto di proprietà privata, a vantaggio della collettività, ma in realtà, grazie a quest’obbligo, verso la metà del XIII secolo i proprietari riescono ad ampliare la loro proprietà estendendola sul suolo pubblico a condizione di lasciare un passaggio per i cittadini. Volendo fare un rapporto con lo zoning americano si può affermare che il portico è, al contrario, una proprietà privata in cui è concesso il diritto di passaggio al di fuori di esso e, molto spesso, anche a grande distanza.

4 Aldo

Rossi, L’architettura della città, Milano, 1966, pag. 98

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In quel periodo si abita generalmente nel primo piano, livello nobile della casa, mentre il piano terra, essendo particolarmente umido per le caratteristiche geologiche del terreno, viene adibito a diversi usi quali magazzino, stalla, o come spazio d’accesso all’orto retrostante. Il motivo va ricercato nel fatto che fino al XIV secolo le case sono prive di cantine, poichè, come si accennava poc’anzi il sottosuolo della città, ricco d’acqua proveniente dalle paludi e dai fiumi della zona, ne rendeva difficoltosa la costruzione. Solo quando le paludi vengono bonificate ed i fiumi arginati e controllati i flussi, si comincia a sfruttare il sottosuolo. Ancora oggi non tutti i portici sono dotati di cantina sottostante. Inizialmente i portici, come gli sporti, sono una risposta al bisogno di alloggi; le mura ,essendo molto costose da abbattere, costringono ad aumentare la densità dell’abitato all’interno delle stesse cercando di sfruttare al massimo gli spazi interni. La prima soluzione sono gli sporti, ottenuti prolungando verso la strada le travi principali del solaio del primo piano della casa e costruendovi al di sopra dei piccoli edifici in legno che sporgono verso l’esterno. Non essendoci alcuna regolamentazione, gli sporti si diffondono notevolmente e nel momento in cui la sporgenza arriva ad essere notevole, la costruzione di pilastri di legno diventa inevitabile per sorreggerli. Ecco un’ipotetica origine dei portici. Un’altra ipotesi sulla loro origine è quella che si basa sulla tettoia come sistema costruttivo. Sovente, infatti, veniva appoggiata alla casa, sorretta da colonne in legno al fine di riparare il piano terra dalle intemperie e dall’irraggiamento solare (grundarium). Successivamente questa poteva essere rinforzata in modo tale che si potesse costruire al di sopra di essa; un’apertura nel soffitto della tettoia stessa permetteva l’accesso al piano superiore da terra mediante una scala a pioli in legno. Qualunque, tra queste, sia stata l’origine esatta, la loro utilità è stata inizialmente quella di permettere agli artigiani di lavorare “en plein air”, ovvero di avere uno spazio di lavoro fuori dalla bottega; inoltre per proteggere le loro merci dalla pioggia e dalla neve, spesso si usava mettere un muretto sul lato della strada. E‘ importante affermare che molte città italiane che avevano avuto un buono sviluppo economico in età medioevale erano caratterizzate dalla presenza di vie porticate. I ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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portici per questo non sono di certo un’esclusiva bolognese. L’elemento che distingue Bologna dalle altre città e che fa dei portici l’elemento caratteristico e caratterizzante l’intero disegno urbano è la precisa e moderna regolamentazione urbanistica attuata in modo lungimirante e tempestivo dalle pubbliche autorità che ne controllano la diffusione ordinando talvolta l’abbattimento di portici abusivi costruiti su suolo pubblico. Inoltre viene incoraggiata la costruzione purché su suolo privato. Nel 1245, infatti, le autorità hanno provveduto ad effettuare ricognizioni generali sul suolo urbano, al fine di rilevare lo stato di fatto, obbligando di abbattare gli aggetti abusivi e allo stesso tempo incoraggiando la realizzazione di portici su suolo privato. Vengono inoltre introdotte alcune prescrizioni sulla dimensione minima della sede stradale: _ 8 piedi per le strade interne alla cerchia dei Toresotti _ 10 piedi per le nuove strade esterne alla cerchia Tra il 1250 e il 1259 vengono emanati i primi Statuti cittadini, ossia vengono trasformate in leggi le delibere comunali atte a regolare la vita dell’epoca, con l’intento di favorire il miglioramento del decoro urbano e dell’igiene pubblica. Si cerca di far rispettare il suolo pubblico pur riconoscendo l’utilità del portico, per il quale, nel corso degli anni, si stabiliscono regole, come l’obbligo di tenerli sgombri da qualsiasi elemento fisso o mobile che impedisse la circolazione, l’altezza minima viene fissata a un minimo di sette piedi pari 2,66 metri tale da consentire il passaggio di un uomo a cavallo. Gli statuti del 1288, con i quali viene sancito il potere del governo popolare, si occupano di vari problemi, tra cui anche la gestione urbanistica. La rubrica 52 dello statuto del 1288 rende obbligatoria la costruzione del portico. Così recita: “ ordiniamo che tutti coloro che sono sotto la giurisdizione del comune di Bologna, aventi case e aree fabbricabili senza portici in città e nei borghi suburbani, in luoghi in cui è consueto che vi siano sono obbligati a far costruire il portico se non c’è ciascuno nel proprio fronte strada; (....) se il portico già esiste, in perpetuo devono fare la manutenzione a loro spese”.5 Con questi ordini si assiste ad un’inversione circa la

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Statuto 1288, libro X, rubrica 52, Archivio di Stato

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natura del portico: da elemento di uso privato su suolo pubblico, diventa di uso pubblico su suolo privato. Lo sviluppo del portico è aiutato dalla tipologia dei lotti che caratterizzavano lo zoning della città di Bologna nel XIII e XIV secolo: i lotti gotici. Essendo, infatti, rettangolari con il lato corto sul fronte stradale, destinare in modo obbligatorio una superficie relativamente piccola al portico ha rappresentato per i privati un grande sacrificio, non essendo infatti una grave perdita in termini di spazio abitabile. Tale accorgimento, che deriva dalla geometria tipica del lotto gotico, favorisce certamente il rispetto della legge e il buon recepimento da parte dei cittadini proprietari aventi diritto. Come si può notare da questo rapporto tra portico e lottizzazione, è impossibile separare l’origine e lo sviluppo dei portici da quello del tessuto urbano. Negli statuti del 1289 vengono espresse norme specifiche riguardanti la manutenzione di gronde e scoli che devono confluire per lo svuotamento nel lato esterno del portico in modo tale da non arrecare disturbo ai passanti. Va ricordato, inoltre, che i primi portici sono costruiti in legno mentre il primo portico realizzato in mattoni di laterizio, materiale tipico e rappresentativo dell’area bolognese, viene eretto solo nel 1121 dove è ora palazzo Malvasia in Strada Maggiore 15. Nel 1363 le autorità comunali emanano un Bando che vieta la costruzione di portici lignei a causa dell’eccessivo carico statico che dovrebbero sopportare e del pericolo d’incendio e nel 1367 ordinano la sostituzione delle travi in legno usate come colonne con mattoni o conci di pietra naturale. Nonostante questo bando alcuni portici lignei sono arrivati fino ai nostri giorni: ne sono un esempio Casa Grassi in via Marsala, Casa Isolani in Strada Maggiore entrambe del XIII secolo, Casa Azzo Guidi in via San Nicolò, Casa dell’orfanotrofio in via Begatto, Casa Seracchioli in Piazza della Mercanzia, Casa Gombruti nell’omonima via e una in via Marsala. Tali normative, espresse dagli editti e dagli statuti cittadini, ha permesso che, ancora oggi, il centro storico di Bologna, considerato come l’area racchiusa della cinta murarie del XII secolo (mura della Cirda, ancora esistenti), contiene circa 38 chilometri di portici costruiti per un lasso di tempo che si avvicina a raggiungere il millennio: dal XI al XX secolo). Tale valore è già di per sè in grado di esprimere l’intimo rapporto che ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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sussiste tra portico e tessuto urbano, indicandone non solo l’incredibile grado di diffusione, ma anche l’attenzione che è stata posta nel conservarli integri ed autentici, seppur degradati, per la loro innegabile utilità urbana. Ecco allora che, risultando inscindibile tale legame, il concetto di monumento, di opera d’arte, si espandono fino ad abbracciare tutto gli elementi del centro storico fino a confondersi in esso per divenire un unico organismo architettonico. 1.4 Il tessuto urbano della città di Bologna. Il monumento ambiente. Altrove, i portici, a partire dal basso Medioevo e dal Rinascimento, sono stati distrutti o sono rimasti un elemento sporadico ed eccezionale, ma nel centro di Bologna, nonostante si sia verificato che, durante la dominazione dei Bentivoglio, le famiglie più importanti abbiano deciso di distinguersi e di porsi al di sopra delle leggi che obbligavano alla costruzione del portico, tuttavia esso si è diffuso in modo capillare, tanto da costituire e partecipare al disegno del tessuto urbano dell’intera città. E‘ un elemento che caratterizza l’architettura bolognese al punto tale che persino durante il rinnovamento urbano attuato in epoca fascista e nel secondo dopoguerra gli edifici nuovi sono stati ricostruiti con il portico come segno di continuità architettonica con il passato ma incapaci in ogni caso a rappresentarne la struttura. Si è infatti pensato che sarebbe stato sufficiente costruire edifici porticati per mantenere l’assetto del tessuto urbano tipico di Bologna. Ingenua illusione. E infatti così non è stato. “I portici, ecco i portici sono famosi, ma come portico, e non per la struttura particolare che danno alla città. Ora io dovevo, con lunghe e amorose passeggiate, rovesciare i termini della questione.”6 “Bologna non era abbastanza nota, abbastanza apprezzata e famosa, per quello che è invece il pregio singolarissimo della città, per il suo tessuto urbano, in cui entrano naturalmente anche i portici, ma con le gambe che stanno alla persona umana, né mai si è visto, che per valutarle, si debbano staccare dal busto. E il busto son le case, con le finestre, le porte, i cornicioni. E’ il tessuto urbano che conta e non i portici presi a sé. Sembra ovvio, e non è così. Tanto è vero che nelle parti rifatte o ricostruite a Bologna,

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Cesare Brandi, Terre d’Italia, Ed. Bompiani, Milano 2006, pag. 185

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diciamo dal 1888 in poi, si è creduto che, a mantenere continuità fra vecchio e nuovo, bastassero i portici. L’errore è palmare, nel senso che i portici possono esserci o non esserci”7, ciò che conta è il rapporto con il vecchio tessuto urbano. Se lo si dimentica, come lo si è dimenticato sia “nel quartiere che si apre dalla stazione per le vie Amendola e Marconi fino a via Ugo Bassi”8 sia nella costruzione di fine ottocento di via Indipendenza, “certo meno offensiva, per quanto non meno presuntuosa”9, si rischia di proporre qualcosa che nulla ha a che vedere con il disegno urbano della città di Bologna, che in questi luoghi potrebbe essere scambiata per qualunque zona porticata di qualunque altra città italiana, “che so io, di Latina o di Sabaudia”10 La peculiarità che contraddistingue Bologna non sono i monumenti singoli, seppur pregevolissimi, come la Chiesa di San Petronio o le due Torri, la Basilica di San Luca o quella di San Pietro, ma l’incredibile continuità e varietà stilistica del suo tessuto urbano che, proprio per queste caratteristiche è esso stesso monumento, nella sua interezza, la cui somma delle parti non supera di certo il valore che ha nel complesso. “(...) possa io passare per iconoclasta, ma non esito ad affermare che Bologna non possiede neppur un monumento - parlo di architettura - assolutamente imprenscindibile per la storia dell’arte italiana, come possa essere ad esempio il Palazzo Medici o il Palazzo della Cancelleria, il portico degli Innocenti o la Cappella della Sindone, ma che, in quanto a tessuto urbano, Bologna quasi non ha rivali, e si tiene sullo stesso allineamento di Firenze e di Siena, di Venezia, di Catania, di Noto, di Lecce, ossia delle più belle e continue città italiane. (...) Perché, il tessuto urbano, non implica nessun concetto di artificiosa unità stilistica, ma nello sviluppo meraviglioso dell’architettura italiana dal Rinascimento alla fine del Settecento, armonizza, nella fondamentale e unitaria concezione prospettica, Gotico e Rinascimento, Barocco, Rococò, e perfino il primo Neoclassico.”11

7

Cesare Brandi, Terre d’Italia, Ed. Bompiani, Milano 2006, pagg. 186 - 187

8

op. cit. nota 7

9

op. cit. nota 7

10

op. cit. nota 7

11Cesare

Brandi, Terre d’Italia, Ed. Bompiani, Milano 2006, pagg. 186 - 187

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Il tessuto urbano di Bologna, “tutta carne e sangue”12 , nella sua meravigliosa complessità, rappresenta lo spazio dell’opera d’arte, non essendo possibile scindere nessuna sua parte dalla poetica dell’intero. Il monumento, così come insegna il Brandi nella sua Teoria, deve essere definito, infatti, nell’ “unità che spetta all’intero, e non nell’unità che si raggiunge nel totale. Se infatti l’opera d’arte non dovesse concepirsi come un intero, dovrebbe considerarsi come un totale, e in conseguenza risultare composta di parti: da ciò si giungerebbe ad un concetto geometrico del bello, (...). Così, se l’opera d’arte risulterà composta di parti che siano ciascuna a sé un’opera d’arte,” come i portici nel tessuto urbano di Bologna, “in realtà noi dovremo concludere che o quelle parti singolarmente non sono così autonome come si vorrebbe, e la partizione ha valore di ritmo, o che, nel contesto in cui appaiono, perdono quel valore individuale per essere riassorbite nell’opera che le contiene. O l’opera d’arte è una silloge e non un’opera d’arte unitaria, oppure le opere d’arte singole attutiscono nel complesso in cui vengono inserite l’individualità che ne fa, ciascuna per sé, un’opera autonoma. Questa speciale attrazione che esercita l’opera d’arte sulle parti, quando si presenti come composta di parti, è già la negazione implicita delle parti come costitutive dell’opera d’arte.”13 I portici pertanto, devono essere riconosciuti nel loro intero che discende dalla loro incredibile varietà stilistica e tipologica, e da queste osservazioni consegue che qualsiasi intervento, anche su una solo loro parte, seppur povera o poco pregevole dal punto di vista estetico-architettonico, debba essere eseguito parimenti in valore e dignità a qualsiasi altra parte di un unico monumento riconosciuto nella sua singolarità. I portici, così come il mosaico o la costruzione a conci separati, sono “un caso che eloquentemente dimostra l’impossibilità dell’opera d’arte di essere concepita come un totale, quando invece deve realizzare un intero”14

12

op. cit. nota 11

13

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 1977, pag. 13 - 14

14

op. cit. nota 13

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Infatti “il centro storico non è luogo di monumenti e di edilizia minore ma un unico monumento da conservare e restituire nella sua totalità e complessità.”15 L’attenzione che bisogna porre ai monumenti diffusi nell’ambiente urbano e a volte, come per i portici, coincidenti con il tessuto stesso, è di primaria importanza poiché, essendo monumenti, costituiscono per loro stessa natura, una testimonianza speciale di un momento storico e di un volere forte, e, come ambiente urbano, sono la concretizzazione nella pietra di una stessa identità culturale in cui la collettività si riconosce e per questo carica di significato quel luogo che è la città: “... intendo solo affermare che il processo dinamico della città tende più all’evoluzione che alla conservazione e che nell’evoluzione i monumenti si conservano e rappresentano dei fatti propulsori dello sviluppo stesso. E questo è un fatto verificabile, lo si voglia o no.”16 1.5 Riconoscimento del Portico come opera d’arte Emerge ora, in modo evidente, che il riconoscimento dei Portici come monumento non riguarda il pregio storico o architettonico di taluni singoli casi, ma l’intero, il complesso che insieme al tessuto urbano costituiscono. Non è infatti possibile considerarli individualmente, ma solo nella complessa varietà che li caratterizza. Il riconoscimento dei portici come opera d’arte, come monumento diffuso nell’ambiente storico della città, si rende ora necessario, poiché solo con tale azione di riconoscimento è possibile farla vivere nelle coscienze collettive: “Un’opera d’arte, non importa quanto vecchia o classica, è attualmente e non solo potenzialmente un’opera d’arte quando vive in qualche esperienza individualizzata.”17 “Lo speciale prodotto dell’attività umana a cui si dà il nome di opera d’arte, lo è per il fatto di un singolare riconoscimento che avviene nella coscienza: riconoscimento doppiamente singolare, sia per il fatto di dover essere compiuto ogni volta da un

15

P. L. Cervellati, La città bella, Bologna, 1991, pag. 45

16

Aldo Rossi, L’architettura della città, Milano, 1966, pag. 58

17

John dewey, Art as exprience, New York, 1934, pag. 7

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singolo individuo, sia perché non altrimenti si può motivare che per il riconoscimento che il singolo individuo ne fa.”18 Nel riconoscimento dell’opera d’arte non si valuta “l’essenza o il processo creativo che l’ha prodotta”, ma la capacità di “entrare a far parte del mondo, del particolare essere nel mondo di ciascuno individuo”.19 Si può concludere che il riconoscimento che la coscienza ne fa come opera d’arte, eccettua il prodotto umano che si analizza in modo definitivo dalla comunanza degli altri prodotti umani. Prima di analizzare le specificità dei portici come monumento urbano, pare conveniente e stimolante proporre alcune delle numerose testimonianze che evidenziano il loro carattere unitario e che giustificano sempre la loro diffusione. Verranno ora presentate le diverse testimonianze di personaggi illustri del passato, distinte secondo il loro specifico significato. _ Riconoscimento dell’utilità. “Bologna è una città grande e bella che fa parte dei domini papa. Sorge in pianura, circondata da antiche mura, con molte torri tutte in muratura. Vi sono grandi case pure in muratura e palazzi bellissimi. Le strade principali e anche quelle secondarie sono larghe e le case che le fiancheggiano sono apoggiate su alti pilastri di pietra. Questo fa sì che, anche se dovesse piovere molto, in tutta Bologna gli abitanti possono percorrere a piedi l’intera città, indossando vestiti eleganti e senza soprabito e la pioggia non li potrà bagnare. In questi spazi coperti non ci può essere mai fango; perciò, anche se una persona gira per tutta Bologna con scarpe leganti, non la insudicia mai.”20 _ Composizione formale: unità nella varietà. “Bologna è piena di belle chiese e di belli edifizi privati [...]. Essa è tutta fabbricata, come a Padova, a portici, sotto i quali la gente passeggia al coperto. Ma invece degli infami portici che vi sono a Padova, qui trovansi larghe e lunghe strade fiancheggiate da due linee di portici, alti, ben spaziati, sostenuti da file di colonne d’ogni ordine 18

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 1977, pag.15

19

op. cit. nota 18

20

Petr Tolstoj, Memorie, 1699

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architettonico con pilastri quadrati, che si inseguono a perdita d’occhio. Per quanto il gusto delle colonne sia a volte buono e alle volte cattivo, puer l’insieme di questa uniformità produce secondo me, il più bell’effetto e il meglio inteso che si possa immaginare, tanto più che questi pilastri sostengono comunemente delle basse case, tutte fabbricate in mattoni secondo l’uso del luogo.” 21

_ L’utilità giustifica qualsiasi altra mancanza. “Si entra a Bologna attraverso dodici porte, che tutte conducono a delle vie lunghe e ampie; ornate da entrambi i lati da portici coperti ad arcate aperte; i portici sono elevati al di sopra del livello della strada e la maggior parte di essi è stata restaurata di recente in modo uniforme e appare di buona architettura, oltre che di grandissima comodità per percorrere la città al riparo del sole e della pioggia, senza temere di venire disturbati dalle vetture, dalla polvere e dal fango: quasi tutte le strade di questa città hanno lo stesso ornamento. Questi portici, d’altronde, impediscono che si goda della vista dei bei palazzi che decorano la città di Bologna, e le danno un’aria di uniformità che non hanno nulla di attraente; ma la comodità che offrono la spunta su ogni altra considerazione, e mettendovi un po’ di attenzione, ci si accorge agevolmente che questa città è una delle meglio costruite d’Italia.” 22 _ Ordine urbano. “Nell’architettura dei colonnati, che offrono un piacevole e grato riparo, può osservarsi di quando in quando, una certa capricciosa fantasia, che impiega capitelli di molte forme diverse procurando che l’una differisca dall’altra; [...]. I mattoni per le colonne sono gettati in forme tali che ciascuno presenta un segmento di cerchio, e così compongono il fusto della colonna. I pavimenti di questi portici sono fatti di piccole pietre ben preparate o di mattoni dal taglio preciso”. 23

21

Charles De Brosses, 1739

22

Jérome Richard, 1761

23

John Bell, 1817

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1.5.1 Le istanze brandiane nello specifico caso “Come prodotto dell’attività umana l’opera d’arte pone infatti una duplice istanza: l’istanza estetica che risponde al fatto basilare della sua artisticità per cui l’opera d’arte è opera d’arte; e l’istanza storica che le compete come prodotto umano attuato in un certo tempo e luogo che in un certo tempo e luogo si trova”.24 I portici, pertanto, dovranno essere valutati nella loro duplice polarità, storica ed estetica, espressioni del loro essere monumento tra noi, e monito per gli interventi futuri di restauro, i quali, come insiste il Brandi nelle sua Teoria, troveranno legittimità solo nella contemperanza delle due istanze, nella risoluzione di tale dialettica. I portici rispondono all’istanza storica come memoria di una stessa identità culturale: ciò che infatti accomuna tutti i portici di Bologna, indipendentemente dalla tipologia costruttiva, dal pregio architettonico o dall’epoca, è il riconoscimento della loro indiscutibile utilità che inizialmente ha giustificato la loro origine (risposta ad una necessità di spazio abitabile) fino a portare i portici a partecipare al disegno urbano, diventando loro stessi percorso nella città e per la città. Seppur possa sembrare che la loro ripetizione nello spazio e nel tempo crei una certa uniformità poco attraente, in realtà per la collettività questi sono oggetti architettonici che permettono il riconoscimento non solo di un determinato luogo rispetto agli altri, ma soprattutto di una stessa identità culturale, che esplicita il senso di appartenenza alla città. L’istanza estetica consiste nel riconoscimento della varietà storica e stilistica capace di creare un unico intero, un’unità urbana, in cui è impossibile distinguere gli elementi nella loro individualità senza perdere di vista tutto l’insieme. Ogni oggetto architettonico, ogni carattere del portico, seppur si distingue dagli altri per tecnica esecutiva, stile, storia, materia e colore, perde di valore se non lo si considera come parte di un intero, di un insieme urbano. Unità nella varietà e varietà nell’unità, sono le caratteristiche che rendono il portico di Bologna un unicum architettonico.

24

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 1977

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1.5.2 Riconoscimento del valore: UNESCO Nel 2006 i portici di Bologna entrano nella Tentative List (Lista di tentativo) per essere riconosciuti come patrimonio universale per l’umanità. I criteri con cui vengono valutati rispondono a il terzo, quarto e il quinto articolo del codice di valutazione dell’UNESCO, che recitano: iii) to bear a unique or at least exceptional testimony to a cultural tradition or to a civilization which is living or which has disappeared25 (traduzione: “portare una unica o per lo meno eccezionale testimonianza ad una tradizione culturale o ad una civiltà, che è ancora presente o o già scomparsa);

iv) to be an outstanding example of a type of building, architectural or technological ensemble or landscape which illustrates (a) significant stage(s) in human history26 ; (traduzione: essere un esempio di edifici di valore eccezionale e universale, dal punto di vista architettonico o tecnologico, o paesaggi naturali che dimostrano un passo significativo nella storia umana)

v) to be an outstanding example of a traditional human settlement, land-use, or sea-use which is representative of a culture (or cultures), or human interaction with the environment especially when it has become vulnerable under the impact of irreversible change27 .(traduzione: essere un esempio di ambienti urbani, costieri o dell’entroterra, che sono rappresentativi di una stessa cultura o di più culture, o di una particolare interazione con l’ambiente circostante, specialmente quando questa è vulnerabile perché vicina all’irreversabilità).

25

http://www.whc.unesco.org/en/criteria

26

op. cit. nota 25

27

op.cit. nota 25

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Capitolo 1 Analisi storica dei portici ____________________________________________________________________________________

Dalla relazione28 dell’UNESCO (cfr. allegato fine paragrafo) traspare che l’elemento discriminante che porta al riconoscimento del valore universale universale deriva proprio dagli aspetti: _ NORMATIVI E DI REGOLAMENTAZIONE URBANISTICA che hanno permesso uno sviluppo legato intimamente al tessuto urbano della città nei secoli e quindi la loro conservazione; il riconoscimento del portico come categoria; un unicum in cui ogni singola campata, anche se di basso valore estetico, è inscidibile dal suo insieme, un vitale organismo architettonico consolidato nel tempo e che, contemporaneamente, è stato in grado di evolversi senza mai perdere lo stretto legame con la città. L’unicità, pertanto, è data dalla loro incredibile diffusione e permanenza nel tempo come elementi che partecipano ad un’ambiente urbano integro ed autentico, seppur degradato. 1.6 Conclusioni Si è cercato di far emergere, in questa analisi, la monumentalità dei portici nel loro ambiente urbano che diventa esso stesso opera d’arte. E questo è un fatto che può trovare l’accordo di tutte le parti responsabili di esso come bene civico. L’impressione, però, è che i portici non riceveranno mai la tutela da parte dell’Unesco, non chiaramente per un problema di valore o di unicità del manufatto, ma per l’impietoso stato di conservazione in cui versano: sporcizia inacettabile, graffiti, fili elettrici che intralciano il passaggio, luci buie o che accecano nascondendo la bellezza della città, cartelli stradali sbagliati e troppo numerosi, luci delle vetrine spesso intollerabili per colore ed intensità luminosa. Come afferma Carla di Francesco, direttrice dei Beni Culturali della Regione EmiliaRomagna, nell’articolo pubblicato dal Corriere di Bologna il 7 Marzo 201129 , per sistemare il degrado, diffuso a tutti gli elementi costituenti e che colpisce tutte le parti in 28

http://www.whc.unesco.org/en/tentativelists/5010

29

http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2011/7-marzo-2011/centro-deturpatosporco-intasato-l-unesco-non-tutelerà-mai-bologna-190171715985.shtml ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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gioco (proprietari, commercianti, cittadini, enti comunali), più che risorse servono un piano di gestione e un’unità di intenti forte tra tutti gli enti preposti. E soprattutto buona educazione da parte degli utenti. Il progetto di restauro che si presenta in questa tesi di laurea, segue proprio questa ottica configurandosi come progetto per il restauro delle pavimentazioni e dell’illuminazione, che risulterà inefficace se non verrà affiancato da altri progetti o piani comunali, ad esempio per risolvere la questione dell’arredo urbano30, per provvedere alla pulizia dei portici, che dovrebbe essere imposta come obbligatoria per i proprietari (lo è sempre stato e non c’è motivo alcuno per cui ora non lo sia più, o non si sanzioni più la mancata ottemperanza al dovere), e per una necessaria semplificazione procedurale per gli interventi di restauro, che dovrebbero essere facilitati e incoraggiati.

30

Per approfondimenti, cfr. piano commissionato all’architetto genovese Bruno Gabrielli

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2_ RESTAURO URBANO


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2.1 Il portico come percorso urbano Dalle analisi storiche sui portici, nelle quali è emersa la relazione tra portico e tessuto urbano, è evidente che, a livello macroscopico, il portico rappresenta uno straordinario e speciale percorso urbano, che ne regola e scandisce il ritmo. “Il portico bolognese - prima ancora di essere un principio costruttivo o una regola amministrativa che sancisce l’uso pubblico di una fetta di terreno privato tangente alla pubblica strada - è un percorso urbano”1 , un cannocchiale che amplifica la dimensione urbana, un gradiente spettacolare di scatti, istantanee, viste e scorci, che, ritmate dall’alternanza dei pieni e dei vuoti tra colonna e colonna, formano l’immagine della città; un caleidoscopio per scoprirne l’anima. E’ interessante analizzare i portici, non solo per il loro significato storico e sociale, di cui si è già discusso, per le regole compositive che seguono nel relazionarsi con gli edifici, le strade, piazze, l’ambiente urbano. “Nel caso specifico di Bologna, la centuriazione si associa alla presenza di una strada consolare, la via Emilia, utile a collegare Piacenza con Rimini. Nelle mappe catastali questa è quasi sempre alberata su entrambi i lati e l’alberatura s’interrompe sovente in corrispondenza di stazioni di posta, borghi o città.”2 “Potrebbe essere lecito pensare che l’alberatura esterna sia stata trasformata all’interno della città con un passaggio coperto rappresentato dai portici.”3 Oppure, molto più probabilmente, data la storicità dei portici, è possibile che sia avvenuto il fatto opposto: ovvero che i portici si siano trasformati in filari alberati, una volta che la strada si perdeva al di fuori dei confini urbani. Si può infatti notare che “una strada alberata ha le stesse caratteristiche di prospettiva ottica, traguardo prospettico e illusione scenografica che ha la strada porticata.”4

1

P.L. Cervellati, La città Bella, Bologna, 1991, pag. 85

2

op. cit. nota 1

3

op. cit. nota 1

4 4 op.

cit. nota 1

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Così come il portico è un filtro fra il pubblico della strada e il privato della casa, anche un filare di alberi è spesso un confine, un segno di delimitazione e circoscrizione dell’intorno nei confronti dell’infinito. La ritmica alternanza dei vuoti e dei pieni della strada alberata si riproduce identicamente nelle vie porticate, ove il tronco ricco di linfa si fa colonna viva di storia millenaria. La cattura dell’infinito prospettico è il minimo comune denominatore tra i due sistemi ordinatori: uno di pietra e fatica umana, l’altro di terra e legno. Si può ora comprendere facilmente che la percezione della continuità non dipende nè dalla grammatica architettonica, né dalla tipologia di portico, ovvero dalla sintassi. All’interno della terza cerchia che racchiude il centro storico, il percorso porticato è percepito come unico e intero anche se gli elementi che lo definiscono sono diversi tra loro per forma, materia, colore e dimensione. Dal momento che i portici, così come afferma il Brandi, sono inscindibili dall’edificio cui appartengono, così come le gambe lo sono per il corpo, si ha la stessa percezione di continuità non solo percorrendo il sottoportico, ma osservando anche le facciate delle case e dei palazzi che si elevano dai colonnati. Da questa continuità percettiva emergono tre tipologie di portici: _ portici tipici, caratterizzati dall’incredibile varietà dei loro elementi costitutivi (orizzontamento, colonna e pavimentazione). Rappresentano la tipologia con cui il portico si è diffuso maggiormente, la cui forma è strettamente connessa con la lottizzazione gotica tipica dell’XII-XIII secolo. Infatti, quando le autorità hanno imposto l’obbligo di costruire con il portico sulla strada principale, questo tipo di lotto, stretto sul fronte e profondo, ha consentito un’agevole consenso della norma da parte dei privati in quanto il costo in termini di spazio era più che accettabile. La loro monumentalità è evidente nel loro insieme, nell’intero architettonico a cui tutti partecipano. Conferiscono struttura al tessuto urbano. _ portici monumentali dei palazzi più importanti, considerati come i casi eccellenti, progettati da architetti, solo per citarne alcuni, quali Aristotele Fioravanti (palazzo del Podestà, XV secolo), Jacopo Barozzi detto il Vignola (portico de’ Banchi, XVI secolo),

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Antonio Morandi, chiamato il Terribilia (chiostro del Pavaglione, XVI secolo), Antonio di Vincenzo (Logge della Mercanzia, XIV secolo). Questi, come i palazzi che si affacciano sulle piazze principali, i palazzi di pubblico impiego, quelli senatori bolognesi in genere, presentano un portico, nell’eventualità che lo presentino, che a livello percettivo si distingue molto dalla tipologia precedente: infatti l’uniformità delle loro campate che si ripetono eguali in modulo e geometria, la ricchezza dei dettagli architettonici, sono riconoscibili per la loro individualità in rapporto al tessuto urbano nonostante rimangano indiscutibilmente connessi all’intero. Solitamente sono stati utilizzati come elemento ordinatore a livello urbano e come quinta scenografica nelle grandi piazze bolognesi: “Il motivo costante dei portici, in forme diverse, da quelli rinascimentali del palazzo del Podestà ai massicci Banchi del Vignola, rilega le varie parti della piazza di S. Petronio riuscendo a cambiare ritmo senza sconnettere l’invaso”5 . La soluzione architettonica adottata caratterizza il disegno urbano di Bologna dominato da androni passanti che si aprono su ordinati portici, creando così un unico percorso urbano in cui gli spazi privati si confondono con quelli pubblici. Esemplificativo è il caso del Portico de’ banchi del Vignola: durante il processo di ristrutturazione urbanistica dei luoghi più importanti della città, attuata dal governo pontificio, nella seconda metà del XVI secolo venne edificato sul lato di levante di piazza Maggiore il suo maestoso portico. L’edificio in realtà è una grande quinta scenografica ben ordinata con cui si cercò di celare le vecchie case dall’aspetto dismesso che non reggevano il confronto con gli altri sontuosi edifici della piazza. Da palazzo de’ Banchi si origina il portico del Pavaglione che collega piazza Maggiore con via Farini. _ portici celebrativi, caratterizzati dalla ripetizione di moduli sempre identici a se stessi e solitamente vivono di vita propria, senza un legame simbiotico con l’edifico, che infatti spesso non è presente. Di solito presentano un forte carattere religioso. I primi esempi erano stati costruiti per ricoprire la funzione di tessuto connettivo, al fine di

5

Cesare Brandi, Terre d’Italia, Bompiani, Milano, 2006, pag.26

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collegare il centro storico alle nuove zone periferiche oltre porta. Per questo possono essere considerati come elementi di espansione. Nel XVI secolo il portico è visto come la soluzione, la risposta architettonica al problema di collegare la città propriamente detta con le nuove zone di espansione ancora destinate alle attività agricole. Il portico diventa così l’elemento di connessione tra città e campagna, connessione che risultando essere ritmata dalla successione delle colonne evita una discontinuità percettiva tra le due realtà ambientali. Invertendo la tendenza che aveva caratterizzato i secoli precedenti, solo dopo la costruzione del portico avviene la l’edificazione delle case e del tessuto urbano circostante. Esemplari sono il portico di San Luca che collega il Meloncello al Santuario sul colle della guardia e il portico degli Alemanni che originandosi a Porta Maggiore si sviluppa su via Mazzini per poi terminare in prossimità del Santuario di Santa Maria delle Lacrime. 2.2. Teorie: i momenti del restauro urbano “In conclusione, quale può essere il metodo d’intervento nei centri storici? E’ un metodo articolato, nel quale si susseguono momenti storico-scientifici e tecnici, momenti politici ed amministrativi. Nell’impostare il piano per un centro storico - come ha scritto Gianfranco Spagnesi - i momenti sono essenzialmente quattro: il primo è quello dell’acquisizione delle conoscenze, quindi lo studio storico della città, del suo tessuto urbano e dei suoi edifici. E’ un punto di natura culturale. Il secondo è quello dell’elaborazione del piano urbanistico vero e proprio; questo non è tanto culturale quanto più latamente politico . Il terzo è l’intervento concreto, una volta stabilito il piano; torna ad essere momento culturale, di restauro architettonico vero e proprio, secondo metodi già sperimentati e sicuri. Il quarto punto, forse il più difficile, è la gestione di tutto questo sistema ed, in più la prosecuzione nel tempo dell’iniziativa, non esclusi i problemi di manutenzione. Questo quarto punto è nuovamente politico. Intravediamo, quindi, una alternanza di momenti politici e di momenti culturali; mentre su questi ultimi il dibattito scientifico ha chiarito a sufficienza le questioni di fondo, dal punto di vista politico ed amministrativo sorgono le maggiori e spesso imprevedibili ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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difficoltà. Non si tratta soltanto di cattiva volontà o disinteresse, quanto problemi d’una complessità scoraggiante. Sia che si tratti di centri storici che soffrono, come quello di Roma, per eccesso d’uso o, nel caso opposto, di centri che si degradano per abbandono, il problema “politico” è proprio quello di riuscire a trovare funzioni, usi, strategie operative e conseguenti stimoli al finanziamento, prevalentemente privato, se si vuol essere realistici, d’una loro buona conservazione. Ma forse, ancor prima, il più valido passo da compiere sarebbe quello di favorire l’educazione ed il rispetto del patrimonio storico ed alla sua difesa.”6 Come Carbonara e Spagnesi hanno esaustivamente e puntualmente spiegato, il restauro urbano si configura come un processo assai complesso, per la stessa natura dell’oggetto su cui agisce, ovvero l’ambiente urbano, con le parti che ne usufruiscono e quelle che lo controllano, e con tutti gli elementi architettonici, monumenti e non, che gli conferiscono l’immagine. Emerge da questa riflessione che il problema principale, più che coinvolgere le metodologie analitiche e tecniche, proprie del restauro, è politico, vale a dire che qualunque intervento su scala urbana risulta assolutamente inefficace se non è affiancato parallelamente, come se andassero via, tenendosi per mano, da piani di attuazione e, successivamente di gestione, in cui la manutenzione ne è parte prevalente, i quali non solo consentono l’esecuzione degli interventi in modo organizzato, ma soprattutto coordinano l’avanzamento degli stessi. e ne permettono la conservazione. A scala urbana infatti, i parametri da tenere in considerazione sono molteplici così come i soggetti che partecipano all’uso e al funzionamento della città. A livello teorico, non ci dovrebbe essere alcun differenza nella risoluzione di un problema di restauro, qualunque sia l’oggetto di studio: dal restauro dei dipinti, a quello dei monumenti, fino ad arrivare al restauro del centro storico, la metodologia da utilizzare, così come lucidamente argomentato dal Brandi nella sua Teoria, non può che essere la stessa. La differenza principale consiste nella dimensione dello spazio dell’opera d’arte: a scala urbana, lo spazio del monumento e il monumento stesso si possono confondere, diventando l’ambiente, monumento, e il monumento, ambiente.

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G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pagg. 433-434

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Ma né le differenze in spazio né in tecnica, possono modificare gli aspetti teorici del problema. Sinteticamente si può presentare “l’impegno urbanistico” nel campo del restauro, “come di una forma di restauro preventivo atto a creare i presupposti fondamentali per la tutela dell’ambiente e dei monumenti stessi” 7 Anche nella scala della città, ancora come precisa il Brandi, il restauro è riconducibile a un atto critico - conservativo, senza escluderne a priori l’aspetto creativo - compositivo: “Non è diversa la considerazione - per usare la terminologia adottata da Giorgio Rosi (1949) - d’un insieme che non sia ambiente del monumento, ma monumento dell’ambiente: qui ancora più direttamente l’atto, conservativo e restaurativo, pur nella diversa fenomenologia dell’oggetto interessato (complesso e non elemento unitario, lettura architettonica, in genere, e non espressione d’arte, si pone come intervento sull’opera stessa (proprio come su un quadro, od un’architettura isolata) e non sul semplice suo intorno (o raccordo spaziale); ciò, tanto risulti prevalente l’istanza estetica, quanto prevalga quella storica.” 8 In ultima analisi, non si deve assimilare il moderno restauro dei monumenti alla tutela del centro storico, ma, capovolgendo la questione, si dovrebbe assimilare la tutela del centro storico al moderno restauro dei monumenti: “Espressione a prima vista paradossale, ma in realtà ben fondata: la tutela del centro antico, storicamente, non si pone, come un precedente della tutela monumentale, bensì ne costituisce un’essenziale co-estensione. Da questa dovrebbe trarre i principi informatori e la metodologia, da adattare, poi, ai peculiari caratteri dell’ambiente urbano, come opera collettiva stratificata, cronologicamente e qualitativamente, non unitaria.” 9 Concludendo, si vuole insistere che se l’ambiente urbano è riconosciuto nel suo intero e come “frutto di un processo unitario di sviluppo garantito dall’omogeneità della cultura che lo ha prodotto”10, e come opera d’arte da conservare attraverso la dialettica

7

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 431

8

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 430

9

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 428

10

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 428

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Capitolo 2 Restauro Urbano ____________________________________________________________________________________

delle due istanze fondamentali, storica ed estetica, che permetteranno il riconoscimento dei valori da tutelare, rappresentativi di un valore civico, e come monumento diffuso in esso e coincidente con esso, “non si vede perché non debba ricadere in pieno sotto i principi della teoria del restauro, proprio, quella elaborata, considerando essenzialmente la difesa degli oggetti mobili, ma non per questo riducibili ad essi 29 soltanto.” 11 Una volta stabiliti i valori che motivano l’imperativo della conservazione e il riconoscimento del tessuto urbano come monumento, nella sua interezza e complessità, il problema del restauro urbano è quello di garantirne la tutela e la conservazione, senza escludere a priori la possibilità di provvedere a “lecite modificazioni”, che devono essere giustificate attraverso un processo metodologico di tipo critico - conservativo, che sia in grado di vedere lo spazio urbano come un “giardino”12 , “viva e corale opera d’architettura in continua e lenta trasformazione.”13

11

op.cit. nota 10

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intuizione di P. Petraroia

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G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 429

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3_ EMERGENCE


Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

3.1 Sistemi emergenti. Definizioni ed esempi pratici. Un comportamento emergente (emergent behaviour) è la situazione nella quale un sistema esibisce proprietà inspiegabili sulla base delle leggi che governano le sue componenti. Esso scaturisce da semplici interazioni locali tra le componenti stesse che si rivelano capaci di formare un sistema complesso ed organizzato. Le strutture dei sistemi emergenti appaiono a diverse scale di organizzazione come ordine spontaneo. Il criterio di auto-organizzazione si manifesta frequentemente nelle città che non sono state oggetto di una pianificazione capace di predeterminare l’aspetto urbano della città. Lo studio interdisciplinare dei comportamenti emergenti non è solitamente considerato un campo omogeneo, ma vien suddiviso in base al campo di applicazione o ai domini del problema. Gli urbanisti e gli operatori che redigono piani urbanistici forse non possono prevedere tutti i percorsi urbani di un sistema complesso come quello di una città. Allo stesso tempo possono lasciare liberi gli utenti stessi di scegliere autonomamente i percorsi da loro preferiti e a loro più utili e solo allora progettare quei percorsi in modo più approfondito e dettagliato. Lo sviluppo urbano di oggi, caratterizzato da eventi che si susseguono ad una velocità temporale elevata e si manifestano spesso contemporaneamente, potrebbe essere un esempio di sistema emergente cibernetico: i patterns delle strade e di diverse aree di espansione, la creazione di indeterminabili vuoti urbani, potrebbero collaborare insieme per formare un sistema emergente la cui forma ed assetto non sono prevedibili anzitempo. Alla luce di ciò, oggi la volontà è quella di riscrivere il processo di crescita della città al fine di modificare la sua forma ed assetto attuali stabilendo una nuova metodologia di pianificazione che sia però collegata alla pratica tradizionale. I sistemi emergenti sono caratterizzati dalla proprietà che hanno i loro componenti di mostrarsi capaci di auto organizzarsi (self-organizing system): infatti, pur non seguendo ordini provenienti da un’entità autoritaria, riescono a raggiungere degli obiettivi che

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Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

superano di gran lunga la visione e la capacità di ogni singolo utente, che in quanto tale è privo di una visione globale del sistema. Tale capacità è raggiunta attraverso semplici interazioni locali tra i componenti, permettendo loro di avere una visione dell’alto dell’intero sistema. L’auto-organizzazione è, quindi, il processo in cui una struttura o un pattern appaiono nel sistema senza un’autorità centrale o una componente di intelligenza più elevata che la imponga. Questo pattern costituito da elementi coerenti e omogenei tra loro emerge dalle interazioni locali di elementi che formano il sistema; pertanto l’organizzazione globale del sistema è ottenuta in modo orizzontale (tutti gli elementi agiscono nello stesso momento) e distribuita (nessun elemento è deputato alla coordinazione). L’omeostaticità è la proprietà di un sistema, chiuso o aperto, di regolare il suo ambiente interno al fine di cercare di mantenere una condizione costante di stabilità. Le città possono raggiungere uno stato omeostatico attraverso le interazioni generate dagli utenti al livello della strada, che è il livello ideale in quanto rappresenta l’ambiente più naturale e adatto: il livello stradale è il livello che consente le connessioni e quindi gli scambi di informazioni tra i componenti del sistema; rappresenta il connettivo vitale alla città intesa come organismo. Una pianificazione che si propone di allontanare gli utenti dal livello della strada in realtà è quella che vuole distruggere la città. Infatti progettare la città senza sidewalks è come avere una cervello senza neuroni e dendriti. E’ necessario ricordare, a questo punto, che la condizione necessaria allo sviluppo di un comportamento emergente è la quantità (già di per se stessa una qualità)1 di elementi presenti nel sistema e la loro capacità di interagire a livello sistemico: un sistema caratterizzata da un basso numero di elementi non potrà mai essere un sistema emergente. Questi sistemi decentralizzati e distribuiti, infatti, non sono possibili senza un gran numero di partecipanti, nessuno dei quali conosce da solo l'intera struttura. Ognuno edita e conosce solo una parte, ma tutti hanno la sensazione di partecipare a qualcosa di più grande di loro.

1

Per approfondimenti cfr. Reiser + Umemoto, Atlas of Novel Tectonics, Princeton Architectural Press, New York, 2008 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

Per comprendere il significato e il funzionamento dei sistemi emergenti è utile procedere con qualche esempio pratico. Le muffe o altri organismi primitivi unicellulari, pur non avendo un “cluster”, ovvero un componente pensante in grado di controllare e regolare l’organismo, è in grado di sviluppare una forma di intelligenza che permette al sistema di ottenere il massimo del risultato con il minimo dello sforzo, ovvero di risultare efficiente ed efficace nel raggiungimento del suo obiettivo. Tali considerazioni sono il risultato degli studi effettuati dallo scienziato giapponese Prof. Toshiyuki Nakagaki nell’agosto del 2000, il quale, eseguendo esperimenti su organismi unicellulari (amoeba), ha riscontrato, che sono in grado di raggiungere più fonti di cibo, non solo attraverso la strada più corta ma soprattutto di raggiungerle tutte nel più efficiente dei modi.2 Un altro esempio interessante è il sistema formato dalle formiche nel costruire e gestire il termitaio. Questi insetti pur essendo intelligenti a livello individuale e soprattutto senza aver una visione globale dell’intero sistema, data la loro dimensione rispetto all’ambiente in cui vivono, sono in grado di mantenere stabile il sistema e di promuoverne uno sviluppo intelligente. Anche per le colonie di formiche, il comportamento emergente si basa sulle interazioni locali tra gli utenti, in particolare esse usano dei segnali di feromone, un ormone presente in molti organismi viventi, per comunicare non solo “one-to-one”, ma “one-to-all-to-one”, vale a dire che il segnale non è indirizzato necessariamente solo ad un’altra formica, ma a tutte le altre che sono presenti in quell’intorno. L’interazione di tutti i segnali percepiti permette ad ogni componente del sistema di avere la visione globale della colonia che altrimenti non sarebbe possibile, permettendo persino di sapere, ad esempio, quante cacciatrici sono presenti e quante sarebbero necessarie in relazione alla loro popolazione totale. Non solo. Sono anche in grado di pianificare il loro termitaio, organizzandolo in specifiche zone deputate a determinate funzioni, facendo in modo che quelle vicine non siano incompatibili tra loro e che ogni collegamento percorribile sia quello più corto ed efficiente. Si può dire che la loro intelligenza complessiva sia in grado di operare scelte finalizzate all’ottimizzazione non di un solo aspetto ma del sistema nel suo insieme.

2

Per approfondimenti cfr. Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001

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Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

“Le formiche creano colonie, gli abitanti delle città creano quartieri, semplici software di riconoscimento suggeriscono agli utenti del web quali libri comprare.”3 “La loro tendenza a crescere dal basso per creare un ordine di livello superiore è quello che viene definito emergence.”4 Sono quindi sistemi che sono in grado di trarre un comportamento intelligente da un basso livello che è costituito dalla collettività; sono sitemi complessi e adattabili la cui intelligenza emerge attraverso la semplice interazione dei loro componenti. Tutti sistemi, come quelli che sono stati appena sinteticamente presentati, che sono in grado di fare emergere un livello di ordine e di sviluppo di alto livello attraverso l’applicazione di semplici regole tra i loro componenti che operano contemporaneamente e allo stesso livello, sono detti sistemi bottom-up. In antitesi a questi ultimi per funzionamento ci sono i sistemi top-down ovvero quei sistemi che sono organizzati con una struttura piramidale, ove il vertice è rappresentato da una o più componenti del sistema che hanno potere decisionale sulle altre componenti del sistema. Il potere segue un gradiente decrescente dall’alto verso il basso. Sono ad esempio i sistemi di controllo che regolano la politica o l’economia. Si può dire che sono i più visibili alla sensibilità umana seppur solitamente sono costituiti da un basso numero di componenti in confronto ad un tipico sistema bottom-up. In sintesi si può affermare che la condizione di complessità organizzata (organized complexity) segue regole molto semplici, le cui esecuzione non è comandata da un elemento esterno che la ordina. _ INTERAZIONI LOCALI: i componenti del sistema pensano e agiscono a livello locale, nell’intorno in cui vivono, ma le loro azioni nel complesso producono effetti al sistema in senso globale: senza avere mai visto il sistema intero; portano ad una struttura globale; _ GRADIENTE: l’intensità con cui gli elementi si scambiano informazioni indica il livello di qualità dello sviluppo del sistema;

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Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 55

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Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 63

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Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

_ FREQUENZA: il numero delle interazione dei componenti nell’unità di tempo determina la velocità di crescita del sistema.5 Ciò che accomuna i diversi sistemi emergenti, che, come emerge da questa sintetica analisi, possono essere di diversa natura e forma, è il processo generativo, che può essere così schematizzato: 1_ PATTERN MATCHING: formazione di un pattern; 2_ NEGATIVE FEEDBACK: gli utenti formulano un feedback regolatore, scartando o rallentando ciò che non è utile al sistema; 3_ POSITIVE FEEDBACK: formulazione di un feedback che promuove solo ciò che è positivo ed efficace per il sistema 4_ ORDERED RANDOMNESS: gli eventi avvengono con apparente casualità 5_ DISTRIBUTED INTELLIGENCE: consolidamento di un’intelligenza globale del sistema In questo processo, la materia che lo costituisce non è rilevante nel creare un sistema emergente.6

3.2 I portici di Bologna come sistema emergente Il sistema urbano del centro storico di Bologna ha raggiunto tale condizione attraverso la costruzione e lo sviluppo del portico come percorso pedonale capace di promuovere le interazioni locali che hanno riconosciuto in esso un vantaggio in termini di utilità. I portici di Bologna possono essere considerati un esempio di sistema emergente caratterizzato da una complessità organizzata. Viene ora spiegato in questa ottica, la loro origine e il loro sviluppo, scandendolo in fasi principali:

5

Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 76

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Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag 220

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1_ AUTO-ORGANIZZAZIONE: origine e sviluppo BOTTOM-UP Il portico si è originato come risposta pratica ad una semplice necessità di quel tempo: aumentare lo spazio coperto abitabile senza ricorrere ala costruzione di nuove abitazioni, poiché la città aveva già raggiunto un alto livello di densità e l’abbattimento delle mura risultava difficoltoso e chiaramente non immediato. Prolungando così le travi dell’impalcato del primo piano si poteva aumentare la superficie interna delle abitazioni: si formano in questo modo gli sporti detti anche hedificia. Lo sviluppo di tale sistema costruttivo porta conseguentemente al pericolo per l’equilibrio statico nel momento in cui l’aggetto era troppo elevato e il restringimento della sede stradale. Si rende necessario così la costruzione di colonne verticali che, definendo un confine tra la strada pubblica e l’abitazione, portano alla formazione del portico, sidewalk per eccellenza, in cui le interazioni locali tra gli utenti, ovvero la popolazione, erano certamente favorite per la sua duplice polarità di ambiente intimo e di spazio a livello della strada (street level). Il primo favorisce la qualità della comunicazione, il secondo permette la moltiplicazione delle informazioni in numero e in frequenza poiché, a tale livello, si ha la massima presenza di utenti e la massima varietà di funzioni. Il motore dello sviluppo è infatti nelle strade, ovvero l’ambiente in cui la città vive di vita propria. Un contratto di affitto del 1091 per un casa situata in Via Santo Stefano ci rivela per la prima volta l’esistenza di un portico il cui suolo apparteneva alla casa e non alla strada. Queste prime testimonianze si trovano al di fuori della prima cerchia di mura, quella di selenite del V secolo a.C., poiché il nucleo più antico della città di origine romana era privo di portico sulla strada. In questa fase iniziale, il portico come organismo architettonico si origina, pertanto, per iniziativa privata dei singoli proprietari, ovvero degli utenti del sistema urbano locale, che agiscono tutti allo stesso livello, senza alcuna imposizione da parte di una autorità e senza alcun componente che ha più potere rispetto ad altri.

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Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

Attraverso le interazioni locali il loro sviluppo è favorito, in quanto le informazioni tecniche e costruttive, passando facilmente da utente a utente, entrano a far parte della memoria urbana permettendo a tutti gli utenti di utilizzarle e accelerando la loro applicazione pratica. L’origine e lo sviluppo dei portici, infatti, devono essere visti come fatto urbano, come quella capacità umana di memorizzare un tipo architettonico che soddisfasse le esigenze del tempo e che si adattasse al luogo. La memorizzazione del fatto in sé nella memoria collettiva ha implicitamente permesso da un lato il risparmio di tempo nella progettazione e dall’altro l’identificazione in esso di una coscienza. “La città viene vista come una grande opera, rilevabile nella forma e nello spazio, ma questa opera può essere colta attraverso i suoi brani, i suoi momenti diversi. L’unità di queste parti è data fondamentalmente dalla storia, dalla memoria che la città ha di se stessa. Queste parti risultano essere definite essenzialmente dalla loro localizzazione: esse sono la proiezione sul terreno dei fatti urbani.”7 2_ FOMAZIONE DI UN PATTERN Una volta definite le regole fondamenti del sistema, il portico, inteso come necessità architettonica, può entrare nel processo urbano. La costruzione sempre più frequente, giustificata dall’efficacia della soluzione in termini di costi e di adattabilità, porta alla formazione di un reticolo geometrico, un pattern che viene ripetuto nel tempo e nello spazio. Rappresenta il codice, il genotipo dei caratteri costituenti il sistema costruttivo. L’interazione tra questi caratteri e le proprietà locali del luogo in cui si inserirà il portico porteranno alla definitiva manifestazione del fenotipo. Per questo motivo il sistema dei portici è risolutivo, poiché si dimostra capace di adattarsi alle molteplici situazioni permettendo che partecipi intimamente allo sviluppo del tessuto urbano. Dal punto di vista urbano, tale processo ha portato alla formazione di un percorso nella città attraverso la ripetizione di un pattern che, attraverso semplici regole di aggregazione, ha portato ad una varietà stilistica e tipologica sorprendente.

7 Aldo

Rossi, L’architettura della città, Milano, 1966, pag. 88

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Capitolo 3 Emergence ____________________________________________________________________________

3_ AUTORITA’: gestione e controllo TOP-DOWN L’intervento delle autorità, una volta che il portico si è sviluppato nella città, si rende necessario come momento regolatore ed ordinatore. Infatti, la costruzione così diffusa e veloce del portico porta al restringimento di molte strade interno e l’utilizzo di spazio pubblico per fini privati anche se lo spazio del sottoportico è sempre stato di natura semi-pubblica. Con una serie di editti e statuti cittadini, che ancora oggi colpiscono per modernità, puntualità, lungimiranza e senso civico (cfr. cap. 1) gli enti comunali di contrallano permettono uno sviluppo più ordinato e controllato del portico, aumentandone l’efficienza complessiva e la connessione. Quando il processo di crescita e sviluppo BOTTOM-UP incontra un sistema di controllo e gestione di tipo TOP-DOWN, il sistema così generato può portare ad una buona e sicura crescita: si lasciano gli utenti liberi di esprimersi dal basso, ma si promuovono al tempo stesso incentivi per incoraggiare la crescita. Questa unità nella diversità è tipica delle sistemi emergenti. E’ possibile considerare i portici come un continuo sidewalk, come un percorso urbano, una traccia di feromone per scoprire l’anima della città. Sotto l’apparente disordine della città antica, in realtà ovunque il suo sistema lavora con successo; è un ordine meravigliosamente costituito per mantenere la sicurezza e la libertà della città. E’ un ordine complesso. La sua essenza è intimamente legata all’uso dei sidewalks, portando con essi una successione costante di occhi e di sguardi. “Questo ordine è costituito interamente di movimento e cambiamento. Una danza le cui sequenze non si ripetono mai al cambiare del posto perché in ognuno di essi è pieno di improvvisazione.”8

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Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 233

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4_ ANALISI STORICA PAVIMENTAZIONI


Capitolo 4 Analisi Storica delle Pavimentazioni ____________________________________________________________________________

4.1 Le pavimentazioni dei portici di Bologna. Un millennio di stratificazioni. In seguito alla caduta dei Bentivoglio, si verifica il mutamento del regime diretto dai Riformatori dello Stato della Libertà in governo misto del Legato Pontificio con il Senato. L’aristocrazia bolognese, che assume in pratica il potere e il pieno controllo della città, induce lo nascita delle Assunterie, che detengono il potere legislativo ed esecutivo. Inizialmente sono sette, ma dopo qualche anno viene formata anche l’Assunteria d’Ornato, che si occupa di decidere circa la manutenzione di strade, portici , edifici, cloache, le concessione di suolo pubblico, il traffico e rende pubbliche le sue decisioni mediante emanazioni di Bandi. Nel bando del 1567, che impone, come si è visto, di sostituire le colonne lignee con colonne in mattoni di laterizio e di conci di pietra naturale tagliata, si impone altresì di pavimentare i portici con “pietre, calcina e non di terra nè di gesso et ancora salegare le strade contro le case con sassi di fiume”, cioè codali. Il 7 Ottobre 1579 viene emesso un bando che obbliga a “provvedere che le strade della città, la maggior parte delle quali come si vede sono rotte e rovinate, siano racconcie et selicate in buona forma”1 In pratica obbliga i cittadini a rimettere in ordine le pavimentazioni dei portici prospicienti le loro abitazioni. Nel 1598 il Vicelegato Orazio Spinola ed il Gonfaloniere di Giustizia Galeazzo Poeti impongono ad alcuni cittadini di pavimentare i portici delle loro rispettive proprietà in pietre cotte e calce e lastricare la strada con sassi vivi. Nel 24 Marzo 1698 viene emanato un bando che permette di capire quali tipi di pavimentazioni sono utilizzate nei portici. In particolare, si evince che il lavoro di ripristino delle pavimentazioni delle strade deve essere eseguito con diligenza e ad arte, e consiste nel “risarcire con sassi e sabbione” le buche di minor dimensione formatesi, per quanto riguarda le pavimentazioni nuove delle vie di grande estensione, si impone di farle con sassi e calcina e sempre in piano. Per quanto riguarda le pavimentazioni dei portici, si impone di “risarcire i portici guasti saliciati”2 con pietre cotte usando come

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G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, vol. I, 1872, Bologna

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Saliciare = pavimentare

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Capitolo 4 Analisi Storica delle Pavimentazioni ____________________________________________________________________________

malta gesso e calcina3 , mentre i nuovi pavimenti devono essere fatte con pietre cotte in piano e anche di cortello in carzina” e , in caso di necessità, fare un “rizzolo” di quattro once (11 cm). Poichè in questo periodo le pavimentazioni sono “rotte e rovinate”, si obbligano i cittadini a “racconciare et selicare di codali di buona forma”4. Il Bando del 13 Aprile 1836, firmato da Vincenzo Brunetti, obbliga i frontisti proprietari a ricostruire il pavimento dei portici laddove sia “attualmente di sassi grossi, o di mattoni uniti a sassi (...) eccetto le liste che servono per la introduzione della carra, le quali potranno essere di macigno, o di piccoli sassi in calce” o di arenaria; inoltre concede la possibilità di usare il battuto alla veneziana anche nei portici. Oggi in Via de’ Gombruti 5 è presente una pavimentazione alla veneziana risalente al 1839. Talvolta i portici vengono ancora pavimentati con acciotolato, anche se, in ogni caso, il Regolamento d’Ornato del 1836 ribadisce “ la proibizione di costruire dei portici in sasso quantunque minuto, locchè sarà soltanto tollerato pe’ i marciapiedi, e dei portici delle Strade d’infima classe o di luogo remoto”. Da questo breve passaggio sulle regolamentazioni edilizie imposte alle pavimentazioni, modernissime per l’epoca, talmente moderne che oggi non sono presenti in nessun tipo di regolamento urbano comunale, si può notare l’attenzione che i proprietari e le pubbliche autorità avessero nei confronti del decoro urbano e dell’ordine pubblico. In estrema sintesi, si può affermare che dal medioevo fino alla metà del XX secolo, vengono utilizzati sassi di fiume, con pezzeture che, seppur diverse, rientrano in standard fissati. Vi sono strade fatte con ciottoli posati a secco, “salegate di sassi in sabbione”, e altre fatte utilizzando del legante, “selegate di sassi in calcina”, in quest’ultimo caso il rapporto di calce e di sabbia è di 1:3 e lo spessore complessivo è di circa 25 cm. Il Rizzoli descrive che i comuni selciati “vengono eseguiti con ciottoli ovoidali fissati su di un sottofondo di sabbia e di malta idraulica o cementizia. In questo ultimo caso i ciottoli, dopo essere stati posati su di un letto di malta, vengono battuti ad

3

Calcina = calce

4

Codali = sassi, ciottoli di fiume

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Capitolo 4 Analisi Storica delle Pavimentazioni ____________________________________________________________________________

uno ad uno col martello, colando poi dell’altra malta negli interstizi. Con altro provvedimento, si mescola a secco il legante con la sabbia del sottofondo: la miscela si unisce e fa presa allorchè si procede all’innaffiatura e battitura del selciato”5 Nella parte centrale delle strade, al fine di agevolare il transito dei carri, vengono inserite delle liste in arenaria. le pavimentazioni dei portici, invece, sono in ammattonato di pietre comuni o pietre larghe, con liste di pietre in coltello, e disposte soprattutto in filari di elementi sfalsati o a spina di pesce. 4.2 Evoluzione e cambiamento Solo in pieno ‘800 si pavimentano i portici con il ricco battuto alla veneziana anche se, in vero, il terrazzo arriva a Bologna per adornare gli eleganti salotti aristocratici e pubblici già a metà del ‘700. Il fatto che, inizialmente, era utilizzato esclusivamente come pavimento per ambienti interni non deve stupire. Il battuto alla veneziana è infatti un pavimento piuttosto delicato che si presta sicuramente ad un uso interno piuttosto che esterno. Se si guarda all’evoluzione delle pavimentazioni in senso cronologico, si può notare un continuo raffinamento non tanto delle tecniche, talmente semplici da risultare quasi invariate a oggi, ma piuttosto della materia che diventa sempre più liscia, ricca ed elegante. Si potrebbe vedere questo percorso di raffinamento e di ricerca dell’eleganza in parallelo all’evoluzione sociale ed alla funzione a cui dovevano rispondere i pavimenti dei sottoportici. Ecco che in questa ottica tutto appare più chiaro. La pavimentazione originaria dei portici medioevali era probabilmente un selciato di terra battuta o ghiaia grossa proprio perchè tutto ciò che era al di fuori delle mura domestiche non aveva importanza alcuna, non necessitava di decoro, bastava che consentisse l’esplicazione delle funzioni principale come il passaggio dei cavalli e dei carri (si ricordi, infatti, che le prime dimensioni regolamentate per i portici dovevano consentire il passaggio di un uomo a cavallo in altezza ed in larghezza); nel ‘500 si cerca di aumentare il senso di ordine e di pulizia urbana cercando di pavimentare le strade ed i portici con selciati in pietra viva a secco o in calcina in modo tale da consentire sempre

5

Rizzoli, 1927 in Marinelli, Scarpellini, L’arte muraria in Bologna in età pontificia

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l’uso del cavallo e dei carri ma evitando l’ammaloramento continuo della terra battuta e facilitando lo scolo delle acque meteoriche che potevano pericolosamente ristagnare in pozze rendendo poco salubri gli ambienti. Dai ciottoli e dai lastricati in pietra si passa velocemente all’uso dei semplici ed efficaci ammattonati in pietre cotte quali laterizi e cottiforti, materiali tipici dell’area bolognese, che venivano sapientemente posati in filari sfalsati, di coltello e a spina di pesce al fine di creare un piacevole ed economico ornamento. L’uso del cavallo è sempre possibile data la durezza e la rugosità del materiale, ma sicuramente si può affermare che non è più la funzione principale: il cavallo sta per lasciare posto alla libera e comoda passeggiata, che, con l’introduzione della veneziana nel 1836 raggiunge la sua massima espressione: si pavimentano i portici con un tipico battuto da interni proprio perchè si considera questo meraviglioso spazio, che funge da filtro urbano tra pubblico e privato, alla stregua del salotto di casa o del palazzo, percorrendo il quale si può vivere l’esperianza urbana fatta di convenevoli, scambi di informazioni e compravendite. I signori e le signore, come come riportano letterati ed artisti nei loro pernottamenti bolognesi, possono gioire di questo incredibile percorso architettonico, al riparo delle intemperie con un paio di scarpe comode, cosa che sarebbe stata impossibile con un ciottolato. Al cambiamento di qualcosa che già funziona vi è sempre uno scopo come elemento generatore del cambiamento: lo scopo era di rendere più comodo il passeggio urbano in funzione dei tempi mutati dell’ 800, in cui le interazioni sociali erano al centro della periodo storico. Nel Medioevo o nei secoli precedenti non si poteva di certo cogliere questa esigenza che lasciava spazio invece alla necessità di difendersi all’interno della propria abitazione e di spostarsi per le vie del centro più per dovere che per piacere. 4.3 Tipologia di portico e pavimentazione. Non univocità del binomio. E’ importante notare che la pavimentazione non dipende in alcun modo dalla tipologia architettonica del portico di riferimento. I pavimenti sono stati manomessi più volte nel corso dei secoli durante l’applicazione dei Bandi e l’esecuzione dei Restauri, più o meno legittimi, così come le facciate, le ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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colonne, i capitelli o altri elementi costitutivi e ornamentali, ma questi sicuramente in misura minore sia in grado sia in diffusione. Ciò è dovuto al fatto che è difficile parlare di pavimentazione originaria, ovvero della pavimentazione con cui un portico si è mostrato inizialmente, soprattutto per i portici medioevali o pre-medioevali, i quali, tra l’altro, erano privi di pavimentazione se si esclude la terra battutta o la ghiaia. In secondo luogo le pavimentazioni sono sempre state soggette ad un maggior degrado a causa della loro stessa natura e dello stesso scopo a cui devono sopperire e, in questo senso, il loro rifacimento ha seguito spesso motivi economici-funzionali piuttosto che storici-estetici. Le pavimentazioni infatti sono degli elementi d’eccezione nella composizione formale dei portici in quanto più di ogni altro sono soggette ad una rapida usura che ha costretto ad una continua sostituzione, spesso incontrollata. 4.4. Classificazione delle pavimentazioni originarie Dall’analisi storica si possono dedurre le pavimentazioni originarie, nell’accezione del termine, ovvero quelle che nel tempo hanno acquisito un’importanza storica perchè stratificatesi nella memoria o perchè diventate di utilizzo frequente. Possono essere così classificate: 1_ pavimentazioni in pietra naturale 2_pavimentazioni in pietra cotta o ammattonato 3_ pavimentazioni alla veneziana o battuto Si passeranno ora in rassegna le diverse tipologie di pavimenti per comprenderne l’uso, le tecniche costruttive dell’epoca e l’aggregazione compositiva degli elementi che portava ai disegni di decoro ricorrenti. Il battuto alla veneziana sarà chiaramente più approfondito rispetto alle altre tipologie di pavimentazioni sia per la sua incredibile diffusione sia per la maggior complessità delle tecniche esecutive.

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4.4.1 Il battuto alla veneziana 4.4.1.1 Premessa Un primo passo fondamentale necessario allo studio dei ‘pavimenti alla veneziana’ è quello di distinguere i due tipi di pavimentazioni individuati da questa denominazione: -

Battuti in COCCIOPESTO + CALCE dalla superficie rivestita di una pasta colorata (PASTELLONI);

-

Battuti la cui superficie è rivestita utilizzando marmi frantumati e pietre di fiume (TERRAZZI o SEMINATI).

Alla luce delle molteplici espressioni riscontrate, si ritiene necessario tracciare un brevissimo profilo dei tipi di pavimenti che le diverse espressioni indicano: -

BATTUTO : Un tipo di pavimento, costruito su un sottofondo (massetto) di spessore tra i 10-15 cm, formato da più strati di conglomerato di pietrisco, cocciopesto, calce e acqua. Questi strati vengono costipati e levigati per ottenere una superficie liscia e lucida resistente al logorio.

-

SEMINATO : Un pavimento battuto sulla cui superficie sono stati cosparsi frammenti lapidei lasciati cadere sia casualmente che appositamente secondo un disegno.

-

PASTELLONE : Una pavimentazione formata da strati successivi composti in proporzioni diverse da cocciopesto e pietra d’Istria frantumata. La superficie è rivestita da un impasto formato da polvere granulosa di pietra d’Istria e calce, simile ad uno stucco, steso a più mani e levigato con una cazzuola. Anche in questo caso, le operazioni di costipazione e levigatura consentono di ottenere una superficie liscia, lucida e resistente. La superficie, in alcuni casi, è anche dipinta con la tecnica dell’affresco.

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-

SMALTO : Una composizione pastosa di ghiaia o di grani di pozzolana o scarti di laterizi, con calce o cemento e acqua. Usata in passato anche per rivestimenti di muri ed oggi esclusivamente come sottofondo di pavimentazioni o impermeabilizzazioni. Usato, talvolta, come sinonimo di pastellone o terrazzo.

-

MARMORINO MACCHIATO : Un pastellone dalla superficie dipinta a chiazze colorate, che simula un pavimento seminato con scaglie marmoree.

-

TERRAZZO : Si differenzia dal pastellone per l’inserimento nell’ultimo strato di malta di scaglie marmoree colorate.

Ricordiamo, inoltre, che un qualsiasi tipo di pavimento alla veneziana può essere costruito adoperando come legante calce bianca, calce idraulica o cemento a lenta presa.6 4.4.1.2 Origini del terrazzo o pavimento alla veneziana L’origine del pavimento alla veneziana si può individuare nella Grecia ellenistica dove era già in uso un tipo di pavimento costituito da un ciottolato semplice che, successivamente, viene impreziosito da elementi decorativi. Anche secondo il Temanza7, il Sagredo8 e il Tassini9, si tratta di un’arte antica, già nota presso gli antichi romani, che deriverebbe dall’opus figinum, come attesta Vitruvio nel De Architectura10. In effetti, il procedimento descritto da Agostino Sagredo11 per eseguire un terrazzo ricalca quasi fedelmente la descrizione fornitaci dall’architetto e trattatista romano nel capitolo dedicato ai pavimenti. Va sottolineato che Vitruvio descrive dettagliatamente il procedimento di esecuzione dei vari strati che compongono un pavimento di tipo battuto, ma non fa alcun riferimento ad 6

L. Lazzarini,“I pavimenti alla veneziana”.

7

T. Temanza, “ Antica Pianta dell’inclina città di venezia”

8

A. Sagredo, “Sulle Consorterie delle arti edificative in Venezia”

9

G. Tassini, “Curiosità veneziane, ovvero origini delle denominazioini stradali di Venezia”

10

Vitruvio, “De Architectura”, Lib. VII, Cap I

11 A.

Sagredo, “Sulle Consorterie delle arti edificative in Venezia”

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una superficie seminata con scaglia marmorea come quella riportata da Agostino Sagredo in “Sulle Consorterie”. Anche nelle “Naturalis Historiae”, Plinio12 rammenta la realizzazione in Italia di pavimenti di tipo battuto (pavimenta), con l’ausilio di mazzeranghe, in origine assai semplici e rozzi, ad impasto variato, adottati per dare compattezza e resistenza ai terreni coperti (subtegulanea). Plinio non aveva dubbi che questi pavimenti fossero di invenzione ellenistica. A Olinto, in Macedonia, sono stati infatti rinvenute tracce di queste pavimentazioni databili al IV secolo a.C. . Se si intende un pastellone come un pavimento di stucco dipinto, ricordiamo che i primi esempi di pavimento in stucco dipinto si trovano in Egitto e nell’architettura minoico-micenea. Largamente diffusi a Roma fin dalla fine del III secolo a.C. , erano i pavimenti rossi, contenenti frammenti di ceramica e terracotta, stuccati superficialmente e successivamente oliati, ed i battuti bianchi, per l’abbondante impiego di calce: si tratta dell’opus testaceum, comunemente noto come cocciopesto, identificabile come progenitore del futuro pastellone. Nel II secolo a.C. il cocciopesto viene arricchito attraverso l’inserimento di ciottoli o sassolini di fiume e di torrente sparsi confusamente (opus signinum). In epoca repubblicana esistono, come varianti, quella con sassolini bianchi o neri irregolarmente seminati, a Roma, e con piccoli frammenti di terracotta, a Pompei. Ulteriore variante rintracciabile nel II secolo a.C. è quella che presenta scaglie di pietra, roccia o marmo di varia grandezza, forma e colore, inserite in un fondo battuto o di signino (opus scutulatum o segmentatum)13. Con l’umanesimo, e il rifiorire degli studi classici e filologici, si rintracciano ulteriori notizie in materia. Leon Battista Alberti, nel “De re aedificatoria”14 , attraverso lo studio degli edifici dell’antichità, si occupa a metà del Quattrocento dei pavimenti, riferendoci gli strati che lo compongono a partire dal più esterno (summa crusta). Questo è costituito sia da piccoli mattoni di terracotta (crustam testaceam) uniti a spina di pesce alla maniera tiburtina, sia da lastre di marmo più o meno grandi (lapideas crustas). Viene rilevata, inoltre, la presenza di ricoperture molto antiche (vetustae crustae) 12

Plinio Gaio Secondo, “naturali Historiae”, Lb. XXXVI, Cap LXI

13

L.Lazzarini, “I pavimenti alla veneziana”

14

L. B. Alberti, “De Re Aedificatoria”, Lib. III, Cap. XVI

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ottenute con un unico strato (ex sola materia) di un materiale consistente in un miscuglio di calce, sabbia, polvere di terracotta nella misura di un terzo per ciascuno. Dall’analisi diretta sulle antiche pavimentazioni, l’Alberti nota che queste si rivelano più resistenti laddove fosse stata aggiunta polvere di travertino o pozzolana (puteolanum pulverem) o lapillo (rapillum), nella misura di un quarto. Superfici fatte con un’unica mistura battuta con assiduità per giorni si dimostra particolarmente resistente, e se cosparse di acqua di calce e unte di olio di lino, acquistano ottime doti di resistenza alle intemperie. Gli strati sottostanti quello più esterno si rivelano essere proprio i medesimi studiati sull’opera vitruviana. Nel 1557 Daniele Barbaro 15 pubblica la traduzione del testo di Vitruvio, identificando nel pavimento battuto a calcestruzzo descritto dall’architetto romano la più antica descrizione di un ‘terrazzo’ alla veneziana. La denominazione del Barbaro di ‘terrazzo’ è dunque qui intesa non come sinonimo di ‘seminato’, ma piuttosto in analogia coi materiali e modalità d’esecuzione del sottofondo descritto da Vitruvio che, per altro, non accenna mai a superfici seminate con scaglie marmoree. Nel 1590, il Della Architettura libri dieci di Giovanni Antonio Rusconi16 , rifacendosi alla denominazione di ‘terrazzo’ del Barbaro, offre disegni e schemi che chiariscono visivamente le considerazioni-proposte di Vitruvio. Sarà il Casoni17 nel 1847, il primo ad utilizzare l’espressione ‘terrazzo’ nel significato che oggi comunemente esso ha e legandolo alla ‘semina’ di scaglie marmoree. Il ‘pavimento alla veneziana’ trova la sua compiutezza formale a Venezia, dove il 13 settembre 1586 sorge l’Arte de’ Terrazzeri. Dai documenti conservati all’Archivio di stato di Venezia risulta che la Confraternita dei Terrazzieri si costituisce, per concessione del Consiglio dei Dieci, il 9 maggio 1592. Alla fine del 1500, a fornire la prima descrizione della tecnica esecutiva di un terrazzo alla veneziana, nell’accezione di pastellone, è il Sansovino18 in Venetia città nobilissima et singulare. Operazione analoga al Sansovino è compiuta, nel 15

D. Barbaro, “I dieci di Architettura di M. Vitruvio tradotti e commentati”

16

G. A. Rusconi, “Della Architettura”

17

G. Casoni, “Informazioni intorno agli smalti veneziani comunemente denominati terrazzi”

18

F. Sansovino, “Idee elementari di architettura civile per le scuole del disegno”

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Settecento, dal Grevembroch19 . Nell’Ottocento, l’Antolini20 , lo Zambonini21

e il

Sagredo22 descrivono la modalità esecutiva di un vero e proprio ‘seminato’. Obiettivo comune di artigiani, da una parte, e trattatisti, dall’altra, è la volontà di perpetuare la tradizione radicata nell’area veneta, dando vita ad un manufatto unico nel suo genere. Nella prima metà del Novecento le trattazioni da parte del Rizzoli23 e del Castagnola24 segnano gli ultimi consistenti interventi, evidenziando l’assestamento di questa tradizione costruttiva. Negli anni Settanta l’impiego del terrazzo alla veneziana conosce una flessione poiché si tenta di soppiantarlo con surrogati industriali di basso contenuto tecnico ed estetico ma di prezzo molto accessibile. Negli anni Ottanta, si chiude questa breve parentesi, e si apre il grande periodo dei restauri. Antonio Crovato25 , architetto veneto, pubblica nel 1992 “I pavimenti alla veneziana”, raccogliendo in questa monografia l’esperienza legata alla professione svolta. Ad oggi, sul tema si riscontrano un gran numero di documenti riportati dall’editoria più o meno legata al settore delle costruzioni. Insieme ad un nuovo modo di intervenire negli edifici storici e alla riscoperta dei materiali classici dell’edilizia, gli architetti restituiscono al terrazzo alla veneziana la sua originaria dignità e importanza. I committenti, riscoperta una particolare sensibilità nel conservare le originarie strutture architettoniche, ripropongono e restaurano il terrazzo alla veneziana, riconoscendogli il suo ruolo esclusivo. Dunque, il battuto alla veneziana, oltre a costituire la rielaborazione del più antico pastellone, deriva deriva dall’opus scutulatum e, nella sua natura arcaica con semina marmorea ancora piuttosto rada, ricalca l’opus signinum ed il pavimento battuto in cocciopesto, ovvero l’opus testaceum.

19

G. Grevembroch, “Gli abiti dei veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII” 20

G. Antolini, “Idee lementari di architettura civile per le scuole del disegno”

21 A.

Zambonini, Dell’arte di fabbricare”

22 A.

Sagredo, “Sulle Consorterie delle arti edificative in Venezia”.

23

C. Rizzoli, “Manuale per l’avviamento all’arte muraria”

24 A. 25

Castagnola, “Il pavimentatore mosaicista - manuale teorico pratico”

Crovato Antonio, “I pavimenti alla veneziana”

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Allegato 1 Vitruvio, De Architectura, Lib. VII, cap. I, p. I , I sec a.C. “Se il lavoro di pavimentazione dovrà essere eseguito a pian terreno, si esamini il suolo per sapere se è in ogni parte compatto e in tal caso lo si spiani e vi si stenda sopra il battuto di pietra (rudera) con uno strato di ciottoli (statumen). Se invece il posto è interamente o in parte costituito da materiale accumulato, si proceda molto accuratamente a rassodarlo con lavori di appianamento. Quanto ai piani superiori […] una volta ultimato l’assito, si copra con felci, se ci sono, altrimenti con paglia, per proteggere il legno dai danni della calce. A questo punto, si stenda al di sopra una massicciata, fatta di ciottoli di grandezza non inferiore a quella che può riempire una mano. Una volta steso questo strato di ciottoli, si proceda a mescolare il battuto di pietre nella proporzione, se è nuovo, di tre parti per una di calce, mentre se è gia usato la proporzione nella miscela sarà di cinque parti per due di calce. Si stenda poi questo battuto, si chiamino le squadre di lavoro e lo si faccia rassodare pestando ripetutamente con mazze di legno, e una volta che sia stato pestato fino al completamento del lavoro esso abbia uno spessore non inferiore a tre quarti di piede. Sopra si stenda il nucleus, uno strato di cocciopesto mescolato con calce nella proporzione di tre parti per una, di spessore tale che il pavimento non sia inferiore a sei dita. Sopra quest’ultimo strato, si dispongano i pavimenti tirati a squadra e livella, di lastre tagliate o di tessere a cubetti. Quando questi saranno stati disposti e avranno la pendenza che è loro propria, si proceda a strofinarli, in modo tale che, se si tratta di pietre tagliate, non rimanga alcun dislivello fra le losanghe (scutula) o fra i triangoli o i quadrati o gli esagoni (sectilia o tesseris), ma le commessure nell’insieme siano allineate tra loro sullo stesso piano, e se il pavimento è fatto di tessere a cubetti, queste abbiano tutti gli angoli allo stesso livello, poiché se gli angoli non risulteranno uniformemente livellati, la lisciatura non potrà dirsi eseguita come si deve. Così anche i pavimenti a spina di pesce (opus spicatum) fatti con mattoni di Tivoli vanno accuratamente rifiniti in modo da non presentare vuoti né sporgenze ed essere invece spianai e levigati a riga. Una volta che l’operazione di lisciatura sarà stata completata ripulendo e levigando, su tutto si cosparga della polvere di marmo passata al setaccio e al di sopra si spalmi uno rivestimento di calce e sabbia. All’aria aperta poi vanno costruiti pavimenti particolarmente adeguati, poiché le travate, gonfiandosi a causa dell’umidità o restringendosi per la secchezza o cedendo per lo storcersi del legno, danneggiano i pavimenti con le loro oscillazioni, e inoltre gelate e brinate non consentono che essi rimangano intatti. Se dunque si presenta la necessità, si procederà nel modo seguente affinché subiscano meno danni possibile. Dopo aver completato l’intavolato, vi si stenda sopra trasversalmente un secondo intavolato, e venga fissato ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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con chiodi, in modo da offrire alla travata una doppia protezione. Quindi ad un battuto resco di pietre si mescoli cocciopesto equivalente a un terzo della quantità e si aggiunga calce alla miscela del mortaio, nella proporzione di due parti a cinque. Fatto lo strato di ciottoli, vi si stenda sopra questo battuto di pietra e calce, ed esso sia pestato finché non abbia uno spessore non inferiore a un piede. A questo punto, una volta steso lo strato detto nucleus secondo le modalità sopra descritte, si costruisca un pavimento con larghe tessere tagliate della dimensione di circa due dita per lato, dotato di una pendenza di due dita ogni dieci piedi: se sarà costruito osservando le debite misure e sarà lisciato come si deve, esso sarà al riparo da ogni deterioramento. Affinché poi la malta avrà le commessure non abbia a soffrire gli effetti del gelo, ogni anno prima che abbia inizio l’inverno la si imbeva di sansa: così trattata non lascerà che il gelo vi si infiltri” Plinio Gaio Secondo, Naturalis Historiae, Lib.XXXVI, cap. LXI, I secolo d.C. “I primi pavimenti ad essere allestiti credo siano stati quelli noti con il nome di stranieri ed eseguiti al coperto, che in Italia sono di terra battuta con mazzeranghe, cosa che si può arguire dal nome stesso” Leon Battista Alberti - De re aedificatoria, Lib. III, Venezia 1546, cap. XVI “Veniamo ora a trattare dei pavimenti, dal momento che partecipano delle caratteristiche delle coperture. Possono essere: a cielo aperto, a travature, non a travature. In ambedue i casi la superficie su cui si collocano dev’essere ben solida e definita nelle sue superfici. Le superfici a cielo aperto dovranno essere disposte in pendio, in modo che risultino inclinate di almeno due pollici ogni dieci piedi. In tale maniera l’acqua potrà scorrere via, raccogliendosi poi in cisterne, o incanalandosi in fogne. E se non sarà possibile farla rifluire dalle fogne nel mare o nei fiumi, converrà scavare pozzi in luoghi opportuni fino a trovare acqua corrente, riempiendo poi le buche con pietre sferiche. Se poi nemmeno questa operazione fosse attuabile, dicono di scavare fosse spaziose e d’immettervi pezzi di carbone, infine riempire il tutto di sabbia: questi materiali assorbiranno gli umori superflui facendoli scomparire. Se il piano da pavimentare consiste in un terreno di riporto, bisogna spianarlo accuratamente, e disporvi sopra dei detriti da battersi poi con la mazza. Se invece la superficie è in travi di legno, vi si attacchi sopra un’altra travatura in direzione trasversale, si ribalta la mazza e vi si spargano sopra detriti per lo spessore di un piede. Secondo alcuni sotto questi ultimi bisogna disporre uno strato di felci o di sparto, per evitare che il legno si guasti a contatto con la calcina. Se i detriti sono recenti, li si mescolerà con calcina nella misura di una parte di questa contro tre di quelli, se sono vecchi, due parti contro cinque. Dopo averli disposti, bisogna renderli compatti con ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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frequenti colpi di piccone. Sopra di essi si stende per uno spessore di sei pollici un impasto di terra cotta in frammenti misto a calce nella misura di una parte di questa contro tre di quella. Per ultimo si disporranno tessere di marmo, o mattonelle a spina di pesce, o mosaici, ben allineati e squadrati. L’opera risulterà ancora più sicura se tra i detriti pressati e l’impasto cementizio si inseriscono tegole congiunte con calce mista ad olio. Un tipo di pavimento in ambiente coperto che viene molto raccomandato perché esente da umidità, viene così descritto da Vitruvio: scava per una profondità di due piedi, e spiana in terreno battendolo, poi stendi su un fondo una pavimentazioni di detriti o di mattoni di terra cotta, badando a lasciare aperti degli spiragli attraverso cui, come per canali, si scarichino gli umori; ammucchiavi del carbone e dopo averlo ben compresso e indurito stendivi sopra uno strato costituito da una mistura di sabbione, calcina e cenere, per un’altezza di mezzo piede. Quanto si è detto finora è derivato da Plinio e specialmente da Vitruvio. Passeremo ora a riferire quanto abbiamo potuto ricavare, sempre a proposito dei pavimenti da un’osservazione esatta e accurata degli edifici dell’antichità: e possiamo asserire di aver appreso molto di più da questi contatti diretti che da quanto dicono gli autori. Cominceremo dunque dallo strato più esterno. E’ cosa molto difficile che esso sia privo di sconnessioni e di fessure: avviene infatti che, mentre è ancor umido e impregnato di rugiada, a causa del sole o dei venti diviene secco in superficie, e per conseguenza – come si vede accadere nei residui alluvionali – la sua crosta tende a restringersi e si screpola in fessure che non si possono rimarginare, perché quelle parti che in tale materiale si disseccano non si riattaccano più, per quanti sforzi si facciano, mentre le parti ancora umide cedono a quelle che si contraggono e le seguono. Ho osservato che gli antichi facevano lo strato esterno di terra cotta o di pietra. Ho notato infatti che, soprattutto là dove non vi si cammina sopra, s’impiegavano tegole che misurano in ogni verso un cubito, fissate con calce mista ad olio. Si trovano del pari piccoli mattoni, spessi un pollice e larghi due, con la lunghezza doppia della larghezza, uniti lateralmente a spina di pesce. Si può sovente trovare lo strato esterno di pietra, fatto di lastre di marmo piuttosto grandi, come pure di pezzi più piccoli e di tesserine. S’incontrano inoltre ricoperture molto antiche (cfr. vetustae crustae) ottenute con un unico strato di un materiale consistente in un miscuglio di calce, sabbia e polvere di terra cotta, nella misura di un terzo per ciascuna (così almeno suppongo). Mi risulta che tali ricoperture divengono più solide e resistenti se vi si aggiunge polvere di travertino nella misura di una quarto. Alcuni reputano particolarmente adatta a questo genere di lavori la pozzolana in polvere, che chiamano ‘lapillo’. Si può sperimentare che superfici fatte tutte con un’unica mistura, se battute con assiduità per più giorni, divengono quasi più consistenti e dure della stessa pietre. Risulta inoltre che, se vengono cosparse di acqua di calce, e unte con olio ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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di lino, acquistano una durezza paragonabile a quella del vetro e divengono inattaccabili dalle intemperie. La calce rimestata con olio – sostengono – difende i pavimenti dagli elementi dannosi. Ho notato che si usava stendere sotto la superficie uno strato composto di calcina e di piccoli frammenti di terra cotta, per uno spessore di due o tre pollici. Sotto di esse si riscontra una sorta di materiale di riempimento, consistente in un miscuglio di polvere di terra cotta e piccoli detriti pietrosi, di quelli che i marmorari fanno saltar via con lo scalpello: lo spessore è di un piede circa. Altre volte ho trovato tra quest’ultimo e la zona superiore uno strato di piccoli mattoni di terra cotta. In ultimo, sotto tutto il resto, si trova un piano costituito di pietre non più grosse d’un pugno. Le pietre che su raccolgono nei torrenti, dette ‘maschili’, come ad esempio quelle sferiche, silicee, vetrose, si può constatare che si disseccano appena estratte dall’acqua; mentre la terra cotta, il tufo e altri materiali consimili mantengono per molto tempo l’umidità onde sono impregnati. Ecco perché si sostiene da taluni che, se la pavimentazione poggia su tali pietre, gli umori che sgorgano dal terreno non arrivano a toccarne lo strato superiore. Abbiamo pure notato l’uso di piccoli pilastri alti un piede e mezzo, disposti sul terreno ogni due piedi in file quadrate e sostenenti tegole di terra cotta, su cui veniva posta la pavimentazione testè descritta. Questo tipo di pavimento, tuttavia, si adatta particolarmente alle terme, che tratteremo a suo luogo. I pavimenti ricavano beneficio se vengono costruiti in terreno umido e nell’umidità atmosferica; così come in ambiente umido e fresco si conservano più solidi e intatti. Tra i fattori ad essi nocivi cono da annoverare al primo posto un terreno poco consistente e una essiccazione troppo rapida. Difatti, a quel modo stesso onde in campagna il terreno si rassoda con le piogge continue, anche i pavimenti abbondantemente irrorati divengono compatti, solidi e duri come il ferro. Nel punto del pavimento dove cade l’acqua piovana dai canali del tetto, occorre sistemare uno strato esterno di pietra perfettamente solido e intatto per evitare che la malizia (si passi l’espressione) delle gocce cadenti in continuazione riesca a scavare l’impiantito, danneggiandolo. I pavimenti fatti su travature di legno devon esser sostenuti da ossature ben robuste e proporzionate nelle varie parti. Se ciò non avviene, se ad esempio in un punto c’è una parete o una trave molto più robusta delle altre a sostenere il pavimento, ivi quest’ultimo si screpolerà, deteriorandosi. Il legno infatti non mantiene sempre inalterata la propria struttura e la propria robustezza, bensì varia con il mutare delle condizioni atmosferiche: con l’umidità diviene tenero, con la siccità torna rigido e saldo; ed è quindi ovvio che la pavimentazione si screpoli allorché le zone più deboli del legno, compresse dal peso, si abbassano”.

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Capitolo 4 Analisi Storica delle Pavimentazioni ____________________________________________________________________________

A.Palladio, I quattro libri dell’architettura, Libro I – De pavimenti, e de soffittati, Cap. XXII “Havendo veduto le forme delle Loggie, delle Sale, e delle Stanze; e conveniente cosa che si dica dè pavimenti, e dè soffittati loro. I Pavimenti si sogliono fare ò di terrazzo, come si usa in Venetia, ò di pietre cotte, overo di pietre vive. Quei terrazzi sono eccellenti, che si fanno di coppo pesto e di ghiara minuta e di calcina di cuocili di fiume, over Padovana, e sono ben battuti: e devolsi fare nella Primavera, ò nell’Estate, acciocché si possano ben seccare”. F. Sansovino, Venetia città mobilissima et singolare, Venezia, 1592 “S’usano per le camere, e le Sale comunemente, i suoli o’ pavimenti, non di mattoni, ma di una certa materia, che si chiama terrazzo: la qual cosa dura per lungo tempo, è varissima all’occhio e polita. Ella si fa con calcina e con tegoli o mattoni ben pesti, e s’incorpora insieme. Vi si aggiunge una parte di scaglia di sasso istriano polverizzato, e quella mistura alquanto soda, si distende sul suolo di tavole ben fitto con chiodi, acciocché non si torca e resista al peso. Indi con ferri fatti apposta, si batte e calca per qualche giorno. Et spianato ogni cosa e indurito ugualmente, vi si mette di sopra un’altra mano o coperta di detta materia, nella qual si incorpora o ginepro o color rosso. Et poi che di è riposato per qualche giorno se gli dà olio di lino, col quale il terrazzo prende il lustro per si fatta maniera, che lo huomo può specchiarvisi dentro. Et ancora se questo pastume sia riputato malsano per la sua freddura, tuttavia non si vede cosa per suoli, ne più bella ne più gentile, ne più durabile di questa, conciosia che si mantengono col fregarli spesso ò con panno, ò con spugna, e chi li desidera lustri lungamente, gli cuopre con tele per non macchiarli in caminando, in guisa tale che entrando in così fatte stanze, tu diresti di entrare in bel culta e polita Chiesa di Suore, e se talhor si scorzano, ò per eccessivo freddo, ò per qualche percossa, si ripara agevolmente col sovrapporvi un’altra coperta più sottile di quella medesima composizione. Et i maestri propri e particolari di quest’arte, sono per ordinarie forlani”. G.Grevembroch, Gli abiti dei Veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, 1754 “Gli maestri proprij, e particolari dell’Arte dei Terrazieri sono di ordinario forlani. Per fare i pavimenti delle Stanze e delle Sale, si usa una certa maniera, che in Venetia chiamasi terrazzo. Essa si compone con calcina, e con mattoni, ben pesti, e incorporati, aggiungendovi scaglia di sasso Istriano. Tutto ciò si distende su suolo di tavole, ben finito con chiodi, e resistente al peso; indi con ferri, inservienti a tale professione, si batte per qualche giorno. Spianato ed indurito vi si mette sopra un'altra coperta ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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impastata di cinabro rosso. Riposato alquanto se gli dà l’oglio e di Lino, e che l’Uomo può specchiarvisi dentro per il lustro che tramanda. Ancorché questa tenace terra sia riputata mal sana nell’Inverno, per la sua freddura, tuttavia, si tolera, per essere cosa sì bella, e gentile mediante il riparo di Tapeti, o Stuore. Questi singolari Artifici hanno la loro scuola a San Paterniano sotto il titolo di San Floriano Martire, e ne solennizzavano la Festività il quarto giorno del Mese di Maggio.” Tommaso Temanza, Antica Pianta dell’inclina città di Venezia, Venezia, 1781, pp. 22-23 “E’ ben vero, che tutto grechizzava; non già perché gli Artefici fossero necessariamente, ed originalmente Greci; ma perché quello era il gusto predominante, e la moda. Tuttavia qui sussistevano, e sussistono ancora, ad esclusione di ogni altra nazione, alcune Arti ed alcuni usi, o modi, che furono sol propri dei Romani. I Pavimenti di smalto, che qui Terrazzi si chiamano; il lavoro di Mosaico, che ne’ primi tempi si è qui sempre, e prodigamente usato; e le imposte delle finestre, che sia prono al di fuori, volgarmente appellate Scuri, sono di origine, e di costumanza Romana. Gli Smalti, o siano Terrazzi, sono quell’opus figinum da Vitruvio, e da Plinio rammentato; e sono, per dir così, come fratelli del Mosaico”. Agostino Sagredo, Sulle Consorterie, 1856 “Nell’uso lo si chiama smalto, smalto battuto, battuto alla veneziana. Tanto è vero che è tutto nostro e se ora si conosce fuor delle Venezie, codesto avvenne perché noi soli conservammo codesta reliquia dell’Italia antica”. “Il Temanza nella Dissertazione sopra un’antica pianta di Venezia accenna nelle Venezie l’arte romana del mosaico essere stata fiorente sempre, e che il nostro pavimento di terrazzo era quella sorta di lavoro, fratello minore del mosaico, che Vitruvio chiama opus figinum”. “Sulle assi de’ palchi, greggie, si stende uno strato di calcinacci e ciottoli pesti che s’impastano con la calce. Poscia vi i distende sopra uno strato di mattoni pesti e di calce; l’uno strato e l’altro sono battuti a lungo prima con mazzeranghe (beccanelle), poi con certi ferri lunghi e stretti, fatti a mo’ di cazzuola, perché il primo strato serva di fondo, il secondo si amalgami al primo e formino uno sodo che resiste al tempo e al peso. Sul secondo strato s’intarsiano pezzi di marmo o pietre preziose a disegno secondo la voglia dello spendere. Poscia, asciutto che sia il pavimento, si uguaglia e si lucida con cilindri di pietra molare”.

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Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane ovvero origini delle denominazioni stradali di Venezia, Venezia, 1863 “Quest’arte, in cui tanto si distinsero i nostri, era conosciuta anche dai romani. Anch’essi, come attesta Vitruvio, formavano il terrazzo di calce con sassi, o mattoni, pesti, e polverizzati, lo indurivano mediante battitoi, lustravanlo mediante olio di lino linaceo, e mediante pomici lisciavanlo, rudus novum dicendolo se fatto con sassi, e rudus redivium se con pesti mattoni.” Giovanni Antolini, Idee elementari di architettura civile per le scuole del disegno, Milano, 1829, Società tipografica de’ Classici Italiani. “I terrazzi così detti alla Veneziana battuti, con cui si fanno i suoli negli appartamenti, nei loggiati, nelle chiese, ed in qualunque altro luogo si voglia, sono un composto di piccoli pezzi di marmo qualunque della grossezza non minore di un cece o fava, né maggiore di una noce, che prendendo figura regolare o irregolare dal caso, sotto il colpo di una mazzuola di ferro, che battendo gli stacca da pezzi di marmo più grossi, e da un intriso composto di calce, polvere di mattoni o tegoli nuovi, o di marmo, che li riunisce, lega, ed assoda sul piano che si vuol fare il pavimento, come se si volesse coll'arte rappresentare nuovi marmi e così imitare la natura. Di questi minuti pezzi si abbia cura di tener separati i vari colori, onde impiegarli a norma degli stabiliti disegni, e confusamente si lascino quando si voglia mostrare un misto di colori insieme. Indi si prepari buona calce, due sorta di polvere di mattoni o tegoli nuovi e di marmo, stacciata una parte alla grossezza del miglio, e un'altra fina ed impalpabile, passata per lo staccio, o per un fino crivello. Fatta provvisione di tali materie, appianata la volta o tassello sotto il livello del pavimento che si vuol fare, per circa 18 centimetri, si accumulino rottami di calcinaccio che si ricavano dal disfacimento delle vecchie fabbriche; e con poca calce e molt' acqua si faccia un pastone di malta magra, il quale si mescola e rimescola colla zappa o badile da muratore, sino che incorporato tutto prenda consistenza di malta dura lattiginosa. Questa si distende sul piano della volta o solaio preparato a livello, e ciò mediante il rastrello a denti di ferro, passandovi sopra di poi con un così detto rigone per appianarlo; e ciò a seconda della robustezza del tassello che lo deve sostenere: formato tale strato alto circa centimetri 12 in 15, si batte questo col mazzapicchio a mano affinché si uniscano le parti, si ristringano, e si abbassi la metà circa della sua altezza; poi si pone di nuovo a livello: questo primo strato si chiama massicciata o ghiarone, il quale secondo le stagioni si lascia riposare tre o quattro giorni, acciocché si assodi; il che si conosce dalle screpolature che si manifestano sulla sua superficie. Assodato che sia il ghiarone, si taccheggia tutta la sua superficie con la penna del martello da muratore, onde prepararlo a ricevere il secondo strato detto la cerussa. La cerussa è un impasto fatto con cemento di mattoni o tegoli ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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nuovi, pestati alla grossezza di un piccolo nocciolo, unito a buona calce grassa e tenace, formando una malta molto maneggiata. Questa malta così preparata si distende sopra il primo strato di ghiarone suindicato, all'alterra circa di tre centimetri, procurando con la cazzuola quadra di mantenere il livello; si lascia far presa per circa ore 8, ed anche più a seconda della stagione o della qualità del piano sul quale si eseguisce; poi con l'arnese detto la zanca si batte gagliardamente per ogni senso, riducendola circa un centimetro sotto al livello del pavimento finito, ed in tale stato si lascia riposare, e far presa altrettanto tempo. Frattanto con la polvere di marmo, o con quella di tegoli o mattoni, con calce grassa e gagliarda più della prima, si fa una malta liquida piuttosto che dura, che si chiama stucco. Si distende e si forma il terzo ed ultimo strato, regolato colla cazzuola a giusto e perfetto livello, il quale stucco si lascia riposare perché si stringa, due o tre ore; poi con uno stilo si disegna il compartimento che si è ideato. Fatto adunque il disegno di ciò che si vuol rappresentare, si prendono i pezzetti di marmo già preparati e si conficcano a mano nell'indicato stucco per fare i contorni delle rispettive figure che devono comparire sul pavimento; e poi fra i contorni alla rinfusa si seminano in ciascun intervallo que' pezzetti di marmo coloriti che sono destinati a tal uopo: quanto più la semina è spessa, tanto più bello e durevole riesce il pavimento. Terminato tale lavoro se lo stucco fosse alquanto indurito, si asperge di acqua tutto il medesimo; poscia si conficca nello stucco tutta la semina marmorea, mediante un cilindro di marmo del diametro almeno di 38 centimetri, lungo circa centimetri 76, il quale nei due centri delle sue basi essendovi i pollici di ferro impiombati, viene ad essere raccomandato ed unito ad un telaro di legno. Questo strumento ha un manico lungo circa metri 2, e con questo si carrucola sopra tutta la superficie seminata, sicché per la pesantezza e il moto, tutta la semina viene a conficcarsi entro allo stucco e la cerussa: e quando pel carrucolare, la semina sparisce i all'occhio, e lattiginosa diventa la superficie, allora è segno che la semina è abbastanza penetrata addentro. Alle volte succede che con il cilindro non si può operare nelle vicinanze de' muri; in tal caso si adopra il mazzapicchio col quale si fa buon opera; ma il mazzapicchio alcune volte anch'esso non è sufficiente: allora si adopra un pezzetto di legno forte ma piano, lungo centimetri 50, e largo centimetri 20, il quale con una mano accostandolo agli angoli e alle pareti della stanza, con l'altra a martello si batte: poi si rinuova per ogni dove e per ogni senso e a colpi eguali la battitura colla zanca di ferro, la quale è uno stromento lungo centimetri 90: la parte che si tiene in mano è cilindrica di tre centimetri di diametro, lunga centimetri 38, la piegatura lunga centimetri 12; la terza parte ripiega ancora, ed è lunga centimetri 56, sotto è alquanto convessa, larga centimetri 6, e grossa centimetri uno. Quando si sarà battuto ben bene il lavoro colla zanca, si lascia riposare alcuni giorni; indi verificatosi ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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che la parte lattiginosa che sopravvanza alla semina dei marmi non fosse sufficiente, vi si distende sopra una lattata di calce e polvere di marmo fina unite, o di polvere di mattoni invece di marmo se il terrazzo è ordinario: questa serve ad otturare qualche disunione della semina, rimarginandola colla cazzuola, e si lascia riposare alcuni giorni, e poi si arruota. L'arrotatura od orsatura si fa con pietra arenaria della grandezza all'incirca di centimetri 40 in quadro, che si fissa all'estremità di un'asta di legno, lunga circa metri 2, in senso contrario della lunghezza, e si continua per dieci o dodici giorni: poi si netta colla cazzuola dallo stucco superfluo tutto il battuto. Dopo di aver riposato alcuni mesi più o meno secondo il clima e le stagioni, si ripiglia l'arrotatura a secco con una similo pietra arenaria a sabbia di mare; si ripassa colla cazzuola e collo stucco, per correggere le piccole mancanze; e dopo due o tre giorni che sarà asciutto, gli si dà l'olio per lustrarlo. Per dargli l'olio, s'inzuppa un canovaccio nell'olio di lino purificato e si spreme tanto il detto canovaccio che resti quasi asciutto, o leggiermente si passa sopra il pavimento. Si lascia così un giorno, poi si ripassa col canovaccio alquanto più inzuppato d'olio di prima, e si lascia per un altro giorno. Finalmente si torna a ripassare con il canovaccio ancora più carico d'olio e si lascia un altro giorno; poi con segatura fina di legno stropicciando si asciuga, ed è terminato. Questo è il processo per aver terrazzi belli, buoni e durevoli. Si fanno anche più presto, ma non hanno le qualità che convengono, e l’esperienza ha dimostrato che sono difettosi e di pochissima durata.” Angelo Zambonini, Dell’arte di fabbricare, Bologna, 1830, Emidio dall’Olmo Lo Zambonini riprende letteralmente e approfondisce le notazioni dell’architetto G.Antolini aggiungendo i seguenti paragrafi attinenti la tinteggiatura e la lustratura del pavimento in battuto. “Quante volte però si voglia dare al battuto le tinte per distinguere o rilevare maggiormente li scompartimenti fatti, in allora appena terminato il lavoro si contornano i scompartimenti stessi con un crogiuolo di piombo, quindi si passa a dargli una tinta col pennello servendosi dei diversi colori, così detto a guazzo, misti colla calce buona di marmo, distribuendo a capriccio del terrazziere, o di chi dirige il lavoro. Dopo quattro o cinque giorni si piglia della crusca di grano, e mediante diversi canovacci, tanti, quanti sono i diversi cole dati al battuto si pulisce ben bene la sua superficie, quindi si abbandona al lungo riposo di sei in otto mesi, a seconda della grossezza del pavimento, e del piano su cui si trova e così del clima e delle stagioni nelle quali è stato eseguito. Giunto al termine di detta epoca si passa alla lustratura. Questa si effettua mediante un impasto di calce bianca e polvere di marmo fino, e dei diversi colori a guazzo che hanno servito nel primo scompartimento del battuto. Si ripassano i vari colori sui loro corrispondenti mediante pietra arenaria, che si fa girare ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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dalle braccia di un uomo fin tanto che si è incorporato bene l'impasto nel battuto. Eseguito ciò si distende regolarmente colla cazzuola questa materia, onde con molta finezza si dilati sulla sua superficie. Passati tre o quattro giorni vi si dà l'olio di lino crudo unito a poco sapone stemperato nell'acqua per mezzo della bollitura; questo si stende con un canovaccio sulla sua superficie. Asciutto che sia il battuto vi si passa sopra una seconda mano di olio mediante uno straccio di lana; in fine perchè questo pigli un perfetto lucido se le dà una terza mano di olio ben bollente misto con una doppia quantità di cera, con pari straccio di lana si confrica ben bene la ripetuta superficie del battuto, finché abbia pigliata la desiderata lustratura. Sarà cura di chi vuol conservare bene questa specie di pavimenti di ripassarli almeno ogni due mesi con uno straccio di lana inzuppato nell'olio di lino, coll'avvertenza che questo non vi rimanga sopra a qualche grossezza, altrimenti irrancidirebbe, ed invece di avere il desiderato intento, non farebbe che levare il lucido al battuto.” Carlo Rizzoli, Manuale per l’avviamento all’arte muraria, Bologna, 1927, Tipografia Neri “Pavimenti in mosaico alla veneziana: per quanto oggigiorno meno usati che non per lo passato, pur tuttavia sono ancora frequenti. Bologna stessa è ricca di tali battuti, in ispecie lungo i suoi portici. Il pavimento a mosaico (‘terrazzo’ nel veneto) si prepara distendendo dapprima uno strato di calcestruzzo di calce idraulica, sabbia grossa e cocci di mattoni (alto all’incirca 4 o 5 cm) che viene poi rassodato e battuto a dovere: su questo, e mentre sta asciugandosi, si stende un secondo strato di malta grassa di cemento, spessa circa 2 cm e mista a polvere di mattoni finissima: si infliggono poi scaglie e pezzetti di marmo a uno o più colori e si fa scorrere sopra un rullo pesante di ghisa. A costipazione ultimata si stucca con cemento e si leviga con pietra pomice, naturalmente allorché il battuto è già notevolmente indurito. Nella pratica dei lavori si distingue il mosaico seminato (fatto come sopra abbiamo detto) dal mosaico piantato (eseguito con i pezzetti predisposti secondo disegni). Questo tipo di pavimento sarebbe da proscriversi allorché si hanno solai in legno: l’elasticità di questi pregiudica grandemente la rigidità del battuto alla veneziana, cagionando lesioni e screpolature; per di più il peso complessivo del mosaico è assai notevole e bene spesso inadeguato alla robustezza dei comuni solai in legno.”

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4.4.1.3 Il terrazzo a Venezia Le invasioni barbariche, a partire dal V secolo d.C., minacciano i territori e gli abitanti dell’impero romano i quali, costretti alla fuga e alla ricerca di rifugio anche sulle isole della laguna veneta, si fanno custodi di un bagaglio ricco di conoscenze e tradizioni culturali ed artistiche. Tra queste vi è anche l’arte di fare i pavimenti in battuto: è per questo che i pavimenti in cocciopesto vengono utilizzati in contesti più umili al posto della terra battuta. Nell’XI secolo le costruzioni in muratura veneziane iniziano a presentare, anche al secondo piano, pavimenti in cocciopesto (pastòn) posati su robusti solai lignei26 e formati da un unico strato ad uguale impasto a base di calce, coccio pesto e pietra d’Istria (con allettati rari grani di marmo rosso, bianco e nero, sparsi nella superficie dal fondo rosaceo), la cui superficie era spesso spalmata alla brava in calce (anche colorata di rosso, verde o giallo) data a più mani fino a formare uno smalto. È merito degli artigiani friulani l’aver tramandato l’antica tradizione romana dell’opus signinum e segmentatum e averle reinterpretate nella pavimentazione a terrazzo che realizzavano servendosi di ciottoli di vari colori raccolti sul greto dei fiumi Meduna, Tagliamento e Cellina e che chiamavano battuto. Dal XIV secolo, continuando fino a tutto il XIX, sopra i solai in legno, al pastòn viene sostituito il pastellòn, connotato, per altro, dalla superficie particolarmente liscia. I terrazzieri friulani, attirati dalla nascente attività commerciale e dall’espansione edilizia del centro lagunare, portano il mestiere a Venezia. Nel XV secolo avviene l’incontro tra le due culture: l’abilità degli artigiani friulani nella lavorazione delle pietre e i marmi presenti a Venezia consentono l’esecuzione dei primi lavori raggiungendo livelli di magnificenza mai visti prima. Attorno alla metà del Cinquecento il pavimento alla veneziana si impone nell’architettura privata, anche in base alla sua realizzazione totalmente artigianale che rende unico ogni manufatto, mostrando di sapersi adattare ai continui cedimenti del solaio, frequenti nei fabbricati veneziani, senza provocare fessurazioni. Questi solai sono costituiti da travature di quercia o rovere di sezione varia secondo la luce

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M. Piana e altri, “Dietro i Palazzi. Tre secoli di architettura minore a Venezia 1492 - 1803)

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(normalmente 20x15 o 12x18)27: tali travature sono intervallate da spazi che variano da una volta ad una volta e mezza la larghezza della trave a costituire un solaio solido ed elastico. Questo modo di costruire i solai fu detto alla Sansovina. Alcune considerazioni sulla tecnica di costruzione del terrazzo possono essere ricavate in molti preventivi o consuntivi relativi ad alcune fabbriche veneziane (un contratto di Antonio da Ponte per i terrazzi dell’Ospedaletto del 1573; un contratto redatto da Baldassarre Longhena per le case di appartenenza della Comunità greca del 1658). Dai documenti conservati all’Archivio di Stato di Venezia risulta che la Confraternita dei Terrazzieri si costituì, per concessione del Consiglio dei Dieci, il 9 maggio 1592, mentre la ratifica dell’Arte è precedente, risalendo al 13 settembre 1586. Per accedere a quest’arte la prova che l’aspirante doveva sostenere era piuttosto severa: la perfetta riuscita del terrazzo era la miglior carta d’identità della casa veneziana, e per far questo ci volevano degli artigiani di una certa abilità. Solo verso la fine del XIX secolo il cemento comincia a sostituire la calce come legante e i primi esperimenti a Venezia vennero eseguiti dall’imprenditore Francesco Crovato28. Il cemento non fa subito concorrenza alla calce come legante per pavimenti perché la capacità di rapida presa e l’eccessivo indurimento non permette di eseguire una levigatura a mano perfetta. Negli anni Venti la nuova invenzione della levigatrice elettrica, in sostituzione del faticoso attrezzo per levigare a mano, l’orso, contribuisce a facilitare il lavoro dei terrazzieri e il cemento diventa l’incontrastato legante per i pavimenti in genere.

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E. R. Trincanato, “Venezia minore”

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F. Crovato, “ I pavimenti alla veneziana” Venezia, 1989, Ed. L’altra riva.

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Allegato 2 E. R. Trincanato, Venezia minore, pp.101-110 “La portata degli ambienti in queste architetture dovette oscillare entro certi limiti di misure fissate da quelle del legname usato in commercio, come le più economiche, cioè fra i 4,80 e i 7,20: e ciò è confermato dall’uso di travature disposte nel senso del lato più lungo dell’ambiente, per corrispondere alla misura delle travi usate in commercio, che non si volevano sciupare tagliandole. Tali travature sono intervallate da spazi che variano da una volta ad una volta e mezza la grossezza della trave, questo modo di costruire i solai fu dello alla Sansovina; e fu adoperato anche nelle sale di massima luce, dove spesso le travi sono lasciate in vista, rozze o squadrate, e dipinte; ma anche furono spesso coperte, nell’architettura aulica, e altresì nell’architettura civile di medio tono, da assiti lignei decorati variamente, o nascoste da incannucciato intonacato e decorato da stucchi. Questo tipo di solaio è solido ed elastico, e su di esso nelle stanze d’abitazione, fin dal periodo più antico e per tutto l’Ottocento, si pose il paston , pavimentazione che si costituisce disponendo, sopra le assicelle chiodate e bene aderenti una all’altra, sulle travi, una pasta ottenuta dalla mescolanza di tegoli, coccio e mattoni ben pesti uniti a calcina e sasso istriano polverizzato, con che si ottiene un pavimento elastico così da adattarsi facilmente agli eventuali cedimenti delle fabbriche, e il cui color rosso lucidabile è dovuto al cinabro mescolato al secondo strato, che è quello in vista. Più tardo è il terrazzo, ottenuto stendendo sulle assicelle un sottofondo di malta, sul quale si spargono pietruzze spaccate da pietre e marmi vari, e la cui mescolanza, ben battuta e assestata, viene stuccata e passata con un rullo quando la presa del cemento è avvenuta, fino ad avere un piano perfettamente levigato, lucidabile, di tanto più gradevole colore quanto più bello è il materiale di cui son fatte le pietruzze. E’ questo il pavimento più comunemente usato dal Quattrocento in poi”. G. Cristinelli (a cura di), Restauro e tecniche, pp.186-188 IL TERRAZZO Un elemento comune a tutte le case veneziane è il pavimento a terrazzo; è usato quasi esclusivamente nell’edilizia civile abitativa. Questo tipo di pavimento è l’unico che sa adattarsi ai continui cedimenti del solaio, tipici dei fabbricati veneziani, senza provocare fessurazioni. Nel caso si rendesse necessaria la sostituzione delle singole parti consente la facile sostituzione senza intaccare le parti circostanti. La descrizione più completa del terrazzo la troviamo nell’opera di Sansovino: “S’usano per le camere, e le Sale comunemente, i suoli o’ pavimenti, non di mattoni, ma di una certa materia, che si chiama terrazzo: la qual cosa dura per lungo tempo, è varissima all’occhio e polita. Ella si fa con calcina e con tegoli o mattoni ben pesti, e s’incorpora insieme. Vi ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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si aggiunge una parte di scaglia di sasso istriano polverizzato, e quella mistura alquanto soda, si distende sul suolo di tavole ben fitto con chiodi, acciocché non si torca e resista al peso. Indi con ferri fatti apposta, si batte e calca per qualche giorno. Et spianato ogni cosa e indurito ugualmente, vi si mette di sopra un’altra mano o coperta di detta materia, nella qual si incorpora o ginepro o color rosso. Et poi che di è riposato per qualche giorno se gli dà olio di lino, col quale il terrazzo prende il lustro per si fatta maniera, che lo huomo può specchiarvisi dentro. Et ancora se questo pastume sia riputato malsano per la sua freddura, tuttavia non si vede cosa per suoli, ne più bella ne più gentile, ne più durabile di questa, conciosia che si mantengono col fregarli spesso ò con panno, ò con spugna, e chi li desidera lustri lungamente, gli cuopre con tele per non macchiarli in caminando, in guisa tale che entrando in così fatte stanze, tu diresti di entrare in bel culta e polita Chiesa di Suore, e se talhor si scorzano, ò per eccessivo freddo, ò per qualche percossa, si ripara agevolmente col sovrapporvi un’altra coperta più sottile di quella medesima composizione. Et i maestri propri e particolari di quest’arte, sono per ordinarie forlani”. Altre considerazioni sulla tecnica di costruzione del terrazzo possono essere ricavate in molti preventivi o consuntivi relative ad alcune fabbriche veneziane […] (un contratto di Antonio da Ponte per i terrazzi dell’Ospedaletto del 1573; un contratto redatto da Baldassarre Longhena per le case di appartenenza della Comunità greca del 1658). I migliori terrazzeri erano importati dal Friuli; per accedere a quest’arte la prova che l’aspirante doveva sostenere era piuttosto severa: la perfetta riuscita del terrazzo era la miglior carta d’identità della casa veneziana, e per far questo ci volevano degli artigiani di una certa abilità. Anche i materiali erano selezionati con cura. Nel corso dei secoli le tecniche per la costruzione del terrazzo alla veneziana sono rimaste invariate. La tecnica di lavorazione è infatti unica e non consente variazioni né di materiali né di metodo; non si può quindi risalire ad una classificazione di tipi. È possibile soltanto dire che i terrazzi con pezzatura più minuta in genere presentano maggiori proprietà di adeguarsi a superfici non perfettamente orizzontali pur essendo maggiormente suscettibili a cavillature. Il terrazzo che si fa oggi, con impasto di cemento su sottofondo molto più sottile, è molto più rigido e distinguibile da un occhio esperto”. Mario Piana e altri, Dietro i Palazzi - Tre secoli di architettura minore a Venezia 1492-1803, p.34 e nota 4 p. 35 ACCORGIMENTI COSTRUTTIVI E SISTEMI STATICI DELL’ARCHITETTURA VENEZIANA

I solai, a causa dei consistenti movimenti relativi degli appoggi e per le loro notevoli inflessioni elastiche e plastiche, richiesero particolari tipi di pavimentazioni, capaci di potersi deformare senza danno. È questa una delle maggiori qualità del terrazzo, o battuto alla veneziana, pressoché l’unico tipo di pavimentazione impiegato nella città. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Direttamente derivati da analoghi suoli romani, i battuti possiedono la capacità di subire notevoli deformazioni, adattandosi incessantemente ai movimenti delle travature sottostanti, e possiedono l’indubbio vantaggio di poter essere rappezzati con facilità nel caso in cui le deformazioni siano di grandezza tale da generare nelle loro masse discontinuità o crepe. Inoltre tali pavimentazioni, costituite da una semina di marmi colorati su di un impasto di calce e frammenti di laterizio, possedendo notevole spessore, (dai 15 ai 20 cm) non solo offrono ottime caratteristiche di isolamento termico ed acustico, ma contribuiscono a svolgere anch’esse l’importante funzione statica innanzi ricordata. Periodiche imbibizioni con olii vegetali e levigature con apposite pietre calcaree sottilmente abrasive ne rinnovano la tipica lucentezza e la necessaria elasticità. I solai lignei sono tuttavia costantemente ricoperti da terrazzo, o dal suo immediato predecessore, il pastelon, anch’esso un battuto di consistente spessore, ma con semina di soli minuti grani di pietra d’Istria e laterizio, e colorato superficialmente con pigmenti. A. Crovato, I pavimenti alla veneziana, Venezia 1999, p.235 “Nelle case veneziane in muratura del XII secolo i pavimenti vengono realizzati secondo la tecnica romana, con cocciopesto, chiamato in veneziano pastòn o pastellon. Tale pavimentazione era costituita da uno strato inferiore costituito da cocci di mattoni, pietra d’Istria e calce che veniva battuto con una “becanela”, ossia un battipalo, e da uno strato superiore, spesso circa 2 cm, costituito da cotto ben triturato mescolato a calce; attraverso l’uso della cazzuola lo strato superiore veniva reso duro e resistente” 4.4.3.4 Il terrazzo a Bologna A Bologna il più antico esempio di pavimentazione in cocciopesto è attualmente conservato nella cella conventuale di San Domenico, sita nel convento omonimo, e risalente all’epoca della costruzione dello stesso, ovvero, la prima metà del secolo XIII.29 L’impiego di tale finitura pavimentale entro un’architettura conventuale povera, non esclude un suo largo impiego nell’architettura minore bolognese anche se, ad oggi, non si sono rinvenuti altri esempi di simili pavimentazioni in cocciopesto. Se il terrazzo veneziano era già ampiamente in uso nel Veneto a partire dal secolo XVI, a Bologna non se ne hanno tracce certe della sua presenza sino alla seconda metà del

29 A.

D’Amato, S. Domenico di Bologna ieri e oggi”.

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secolo XVIII quando si diffonde e viene impiegato dapprima all’interno dei palazzi nobiliari e poi nei grandi edifici ecclesiastici. In quell’epoca le pavimentazioni interne di più largo impiego, come testimonia nel suo trattato anche l’ing. A. Zambonini, erano gli ammattonati in laterizio, mentre negli esterni erano gli acciottolati30 . Le pavimentazioni interne in cotto degli edifici più prestigiosi, erano spesso rifinite con sagramature superficiali, ed impreziosite con motivi decorativi di tipo geometrico e di semplice fattura, dipinti sulla finitura esterna e di cui oggi se ne conservano scarsi esempi31. L’uso di colorare i pavimenti in cotto era una consuetudine prettamente locale, diffusa per tutto il corso del Settecento, che permetteva di dissimulare i materiali considerati meno pregiati conseguendo esiti formali altrimenti irraggiungibili. Esempio in questo senso è il pavimento della Biblioteca del Conservatorio di Musica nell’ex convento di San Giacomo che è costituito da mattoni dipinti ad imitare marmi bianchi, rossi e neri. Secondo l’architetto bolognese G. Antolini le pavimentazioni interne in cotto risultavano poco funzionali in quanto “col camminare e stropicciar dei piedi, s’alzava una polvere che consumava le tappezzerie, ed imbrattava i mobili e le vesti di chi vi si appoggiava. […]Questi danni fecero richiamar a vita l’uso dei terrazzi o battuti, ch’era rimasto nel solo Veneziano, talché si nomavano terrazzi alla Veneziana” 32. Si evidenziano quindi gli indiscussi pregi funzionali, nettamente superiori, delle pavimentazioni alla veneziana rispetto agli ammattonati in cotto. Proseguendo la peculiare tecnica tradizionale bolognese della dipintura dei pavimenti in cotto, anche i nuovi pavimenti in battuto alla veneziana verranno dipinti sulla loro superficie esterna con un tecnica definita da alcuni autori ‘a fresco’ attraverso delle tinte a tempera legate con calce spenta al fine di migliorarne la resistenza al calpestio. Nel suo trattato lo Zambonini riprende la descrizione dell’esecuzione del terrazzo alla veneziana riportata dall’Antolini, aggiungendovi i paragrafi attinenti la tinteggiatura e la

30 A.

Zambonini, “Dell’Arte di fabbricare”

31

L. Marinelli, P. Scarpellini, L’arte muraria in Bologna nell’età pontificia”.

32

G. Antolini, “Idee elementari di architettura civile per le scuole del disegno”, Milano, 1829

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lustratura del pavimento in battuto. Tali descrizioni sembrano quindi risalire ai primi tempi in cui questo tipo di pavimento era stato introdotto a Bologna33. La pavimentazione in terrazzo comprende diverse fasi che si possono riassumere: nella preparazione degli strati sovrapposti, (del sottofondo, del coprifondo, della stabilitura); nella semina del granulato marmoreo; nella cilindratura e battitura del seminato; nella stuccatura e levigatura del piano (orsatura); nella oliatura del pavimento attraverso olio di lino. Le decorazioni pavimentali delle veneziane dipinte miravano a simulare le pavimentazioni rinascimentali in tarsia marmorea e il più delle volte erano indifferenti alla configurazione del locale, privilegiando in tal modo il conseguimento di un disegno formalmente autonomo. L’uso di dipingere il battuto non è però costante a Bologna tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Come esempi di quel periodo, di terrazzi non dipinti, ci sono quelli del Palazzo Gioanetti34. Non mancano in questo stesso periodo i battuti non dipinti e più semplici,senza alcuna raffigurazione e decorazione geometrica. Sono costituiti da larghi piani che presentano mescolanze di granulati di diverso colore e sono delimitate da fascie che, in generale, sono di colore nero o verde-nero. Ne è un esempio il pavimento della chiesa di San Giovanni in Monte, datato 1824. Nella progettazione, nel disegno e nella diffusione a Bologna delle pavimentazioni in battuto ebbe un ruolo di primo piano l’architetto Angelo Venturoli (1749-1821)35. I suoi disegni, raccolti in un album acquerellato, presentano rigidi motivi geometrici, improntati su simmetrie e articolazioni gerarchiche tese a valorizzare il centro geometrico del vano, mentre i progetti più fantasiosi erano riservati agli ambienti destinati ad usi informali o all’esibizione di collezioni di oggetti desueti, quali le cineserie. Al bordo di ogni disegno è indicato, a penna, lo specifico ambiente al quale il pavimento era destinato, in edifici nuovi o ristrutturati su progetto della stesso Venturoli. Una trentina di essi sono per la sale del Palazzo Hercolani, costruito 33 A.

Zambonini, “Dell’Arte di fabbricre”

34

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna”

35

A. M. Matteucci (acura di), “Lʼarchitettura “ in “Lʼarte del Settecento Emiliano”

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nell’ultimo decennio del Settecento. I terrazzi alla veneziana di Palazzo Hercolani, quelli di Palazzo Del Turco e quelli dell’antico Palazzo Riario mostrano caratteristiche peculiari: il granulato marmoreo è minuto e la semina piuttosto rada; inoltre, i motivi decorativi sono contornati da una sottile linea nera e dipinti, come appunto insegna Zambonini36 . La tecnica del battuto alla veneziana evolve nel corso dell’Ottocento: i granulati divengono di dimensioni maggiori e più regolari (i cosiddetti ‘maltagliati alla bolognese’); le semine più fitte; si hanno disposizioni a miscuglio casuali di più colori oppure a disegno geometrico, con campi di diverso colore esclusivamente definito dal colore dei granuli marmorei accuratamente selezionati. Per tempi precedenti la fine del Settecento non si hanno indicazioni sicure sull’impiego del terrazzo alla veneziana a Bologna. Nel Santuario della Beata Vergine di San Luca, compare il battuto alla veneziana, ma in una forma curiosa: il pavimento è costituito da riquadri marmorei bianchi e grigi, con l’inserzione di un motivo a stella centrale e di fascie laterali in battuto alla veneziana. Il disegno di questo pavimento è di Carlo Francesco Dotti, architetto del santuario, ma fu eseguito da Ceccardo Pisani di Massa Carrara nel 1780, dopo la morte del Dotti37; non si sa se le parti a battuto sono state previste dal progettista o sono state invece inserite dall’esecutore. Fra le prime pavimentazioni bolognesi in battuto seminato ricordiamo anche quelle realizzate in Palazzo del Monte rappresentanti nel battuto della loggia una serie di sei figure animali (lupo, leone, giaguaro, orso, tigre, renna) realizzati con un disegno al tratto, composto dall’accostamento lineare di una serie di tesserine di marmo bianco, e recante, nel battuto del salone, la data e la firma dell’autore: Stephanus Monari, anno 1785 38. Le pavimentazioni dipinte più antiche, a cavallo del 1800, presentano una superficie in battuto con impasto omogeneo, simile al cocciopesto e priva di decorazioni impresse; inoltre tali pavimenti sono dipinti per la totalità della loro superficie. Esempi in tal senso si riscontrano nell’Oratorio della Vita e nell’aula Mezzofanti della Biblioteca Universitaria dove la pavimentazione in battuto dipinta risulta realizzata entro il 1814. 36

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna”

37 A. 38

M. Matteucci (a cura di), “L’architettura”, in L’arte del Settecento Emiliano .

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna” .

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L’Oratorio di Santa Maria della Vita presenta una pavimentazione alla veneziana dipinta, per tutta la sua superficie, ad imitare un pavimento in lastre di marmo. La superficie dipinta nasconde un battuto alla veneziana, rendendolo simile ad un pavimento di maggior costo, di più complessa lavorazione e di maggior pregio. Tale effetto è stato conseguito riproducendo un pavimento marmoreo policromo ad intarsio su tre campiture successive, organizzate secondo un disegno simmetrico a motivi geometrici, con inserti floreali. Lo strato di dipintura superficiale è coevo alla veneziana sottostante, realizzato quindi secondo i dettami costruttivi della tecnica edilizia locale39. Col tempo, si nota un affinamento della tecnica esecutiva poiché le pavimentazioni in battuto vengono ‘scompartite’ già nell’impasto mediante la semina di granulato marmoreo e di sasso. Tale disegno veniva poi ripreso e rinforzato da uno strato pittorico coprente che, in alcuni casi, si limitava a tinteggiare limitate parti decorate come le fasce perimetrali, le cornici e i motivi ornamentali. La tecnica della coloritura finale per dare risalto a particolari decorativi, in auge alla fine del Settecento, cade presto in disuso. Sussiste in un solo caso: nella Biblioteca dell’Archiginnasio dove si conserva una veneziana della prima metà dell’Ottocento, seminata a scacchiera con quadrati bianchi e rossi, rafforzata da una tinteggiatura a riquadri delimitati da un tratto nero continuo, che ricalca perfettamente i quadri della veneziana sottostante (questa prassi sembra un’eccezione nell’Ottocento avanzato). La semina del marmo risulta piuttosto rada e composta da granuli di pietra della pezzatura minuta. Nel corso dell’Ottocento le dimensioni delle veneziane si fanno sempre più grandi, poste in opera con campiture a semina fitta ed irregolare come nella chiesa dei Servi, del 1891, o secondo un preciso disegno ornamentale come nella chiesa di San Bartolomeo, progettata nel 1897 40. Nel XIX secolo, le veneziane furono usate anche negli esterni; presumibilmente, ne ipotizziamo l’impiego prima nelle pavimentazione degli androni posti al piano terra dei palazzi patrizi, spazi privati che distribuivano a pettine i vari corpi di fabbrica dell’edificio, unendoli alla via pubblica41 . In questi casi la pavimentazione in battuto era

39

G. Sassu, “L’Oratorio di Santa Maria della Vita”, Bologna, 2001, Costa.

40

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna” .

41

G. Sassu, “L’Oratorio di Santa Maria della Vita”, Bologna, 2001, Costa.

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contenuta, limitata alla realizzazione di corsie lineari che si accompagnano all’uso del selciato in ciottoli e alle corsie carraie in pietra. Progressivamente, le veneziane vennero utilizzate sempre più diffusamente nei portici, d’uso pubblico, divenendo un elemento caratteristico e tradizionale della configurazione urbana di Bologna, una peculiarità locale. Il successo del loro impiego sotto ai portici fu rilevato dallo stesso Regolamento d’Ornato della città di Bologna emanato nel 1836, che obbligava alla sostituzione degli esistenti pavimenti di sassi grossi o di mattoni misti a sassi con dei pavimenti interamente di mattoni o con “battuto così detto – alla Veneziana – eccetto le liste che servono per la introduzione delle carra, le quali potranno essere di macigno o di piccoli sassi in calce”.42

42

Bologna, Regolamento d’Ornato, 1836

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Allegato 3 Giovanni Antolini, “Idee elementari di architettura civile per le scuole del disegno”, Milano, 1829, Società tipografica de’ Classici Italiani APPENDICE - Dei Pavimenti VIII – Pavimenti né piani nobili A misura che ciinnoltriamo entro la casa, ogni luogo deve gradatamente crescere in decoro e nobiltà, e i pavimenti che vi concorrono per la loro parte. Ne’ passati tempi si poneva gran cura nella scelta dei mattoni cotti di varie figure e colori, ed in quelli di maiolica per far bei suoli negli appartamenti: ma dall’uso dei primi, col camminare e stropicciar dei piedi, s’alzava una polvere che consumava le tappezzerie, ed imbrattava i mobili e le vesti di ci vi si appoggiava; e praticando su i secondi, conveniva essere ben destro per non sdrucciolare. Questi danni fecero richiamar a vita l’uso dei terrazzi o battuti, ch’era rimasto nel solo Veneziano, talché si nomavano terrazzi alla Veneziana; e i terrazzieri che li lavorano bene sono di S. Daniele, terra del Friuli. I terrazzi, quando sono costruiti con la dovuta regola come si fa da quelli, non hanno alcuno dei sopraddetti inconvenienti, e riescono solidi, belli e degni di essere messi in pratica in ogni nobile casa. Circa il compartimento de’ disegni, né daremo l’idea che, secondo noi, la convenienza richiede, e che si debbe osservare per ogni luogo dell’appartamento; ritenendo che, in quanto alla fabbricazione, dovrà essere sempre fatta nel modo che è prescritta nel processo che si darà qui appresso. Salite le scale, si entra nella sala de’ servi; in questa conviene fare il terrazzo di una solo pasta che riempia tutta l’area. Per le anticamere si farà una fascia all’intorno di colore piuttosto carico, larga quanto è il sito che occupano i mobili addossati ai muri. La parte di mezzo sia di un colore più chiaro della fascia, ma non bianco assoluto, affinché il suolo, che è base alle pareti, mostrisi atto a sostenerle. Per le sale e le stanze di ricevimento sarà conveniente che, oltre alla fascia all’intorno su cui posano i mobili a terra , vi si faccia nel centro una figura geometrica, circolo o altro poligono con vari ornamenti intorno, o di fogliami o di meandri, che racchiudano qualche grandioso arabesco, ed un rosone nel centro; ovvero se si voglia magnifico, si potrà fare di lastre di marmo a compartimento di variati colori screziate. Il terrazzo dello Studio sia semplice, con la fascia all’intorno addossata ai muri, ed una piccola controfascia al di fuori, ed il mezzo tutto liscio, perché lo scrittoio e gli scaffali per le scritture o libri coprirebbero qualunque lavoro che si facesse. Egualmente nella camera da letto sono inutili molti lavori di ornamento, che verrebbero coperti dagli armadi (comò) e scranne, e più dalla gran massa del letto: non si ometterà però la fascia e controfascia all’intorno de muri di colore carico; e se la camera è grande, un qualunque rosone nel mezzo starà bene. Il ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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gabinetto dev’avere un pavimento più gentile; la facia sempre all’intorno e la controfascia, ed il resto scompartito in figure di rombi o di poligoni regolari a piacere sopra fondo bianco. Le figure predette si devono disegnare in nero con due ordini soltanto di tasselletti di pietra nera; e dentro ogni figura starà bene un piccolo rosone. Nelle retrocamere i pavimenti saranno appresso a poco simili a quelli del gabinetto; dovendo servire per le signore, potendosi soltanto praticarvi nel mezzo un grazioso ornamento. Nelle camere da lavoro per le ancelle o per le guardaroba si fanno semplici, senza scompartimento di alcuna sorta. Questa è solamente l’idea e non la regola con la quale noi procederemmo per i pavimenti al piano nobile, lasciando libero al genio dell’architetto di cambiare a piacer suo, con chè però osservi la debita convenienza ai vari luoghi dell’appartamento: e da questa nostr’idea non potendosi fissar regola, col suo talento potrà egli provedere a qualunque latra parte qui non nominata; ed intanto vediamo in qual modo e con quali precauzioni si debba procedere alla costruzione di questi pavimenti a terrazzo, affinché riescano ben fatti e di lunga durata. Prima di tutto è da ritenersi che è bene, per la stabilità, che si facciano sopra le volte, e queste ordinariamente ci sono sotto i pianterreni cantinati; e se non ci sono, si consiglia di farle quando si tratta di un fabbricato nuovo. Pure qualche volta occorre di doverli fare in fabbriche vecchie, ovvero anche nuove, nelle quali in qualche circostanza non si possono i pianterreni cantinare, né le camere coprirsi con volta, ma con solai di legno. A Venezia dove si amano i terrazzi forse più di ogni altro luogo, si costruiscono anche sopra impalcatura: i solai colà sono quasi d’uso nelle fabbriche pubbliche a tutti i piani, fuori che il pianterreno che in ordinario è in volta; nelle fabbriche private i solai delgi appartamenti sono costruiti con buoni materiali, e le travi con molto giudizio disposte (alla Sansovina), in modo che sopra vi sono terrazzi nobilissimi, senza che abbiano dato segno di rovina, ne tampoco fatti dè screpoli: la qual cosa sembra un fenomeno singolare, perché i legnami, generalmente parlando, non hanno mai ferma e permanente stabilità per la loro natura porosa e filamentosa, essendo soggetti ad alterarsi facilmente all’influsso dell’atmosfera, che in questa penisola italiana e quasi sempre molto variabile in ogni regione e stagione. Il Sansovino ingegnoso e sagace architetto per meglio dare stabilità e fermezza ai solai, e in conseguenza anche ai pavimenti, volle che le travi fossero di larice ed avessero per loro stesse forza e bellezza; riducendole nella sezione trasversale nella proporzione di 2 a 3, e disponendoli in modo che i lati della trave maggiori fossero perpendicolari, ed in conseguenza i minori sotto e sopra fossero orizzontali; e la distanza tra una trave e l’altra fosse uguale alle loro altezze; e sopra vi pose delle assi per il lungo, larghe da poter arrivare da un mezzo all’altro delle travi: con quest’opera riesciva un bello e sodo soffitto, ed impediva che la polvere cadesse dall’alto al basso nelle camere; e poi ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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vi faceva sopra il pavimento di mattoni, sotto al muramento dei quali si ponevano le felci per impedire il contatto della calce fresca col legno, la quale molto lo danneggia. In seguito con l’andare del tempo adottandosi l’uso dei terrazzi preferibili per la loro bellezza e qualità, superiori ai pavimenti di mattoni; e considerandosi da un altro canto che, per la qualità della materia occorrente, e modo di costruirli, ad onta di quel buon fondo sopradetto dè solai, avrebbe questo potuto incurvarsi; a prevenire un tale inconveniente, gli architetti con saggia avvedutezza ritennero la travatura alla Sansovina, ma per rassicurarla la sbadacchiarono al di sotto, incastrandovi a coda di rondine, fra un trave ad eguali distanze, alcuni coni di asssi forti, i quali produssero il pieno effetto: perché quanto più premeva il pavimento sovrappostovi, tanto più si pringevano i coni con le travi, producendo una reazione che manteneva fermo il solaio ed insieme poi il terrazzo sovrapposto. Ho voluto estendermi nella descrizione delle travature d’uso veneziano, che reggono benissimo al peso dei terrazzi e loro costruzione, affinché il giovane architetto in qualche occasione possa valersene, conoscendo da ciò che i terrazzi si possono fare tanto sulle volte, quanto sui travati solai, purché vengano sussidiati nel modo indicato. IX – Processo per fare i Terrazzi, così detti alla Veneziana, entro le stanze ed anche sotto i loggiati. “ I terrazzi così detti alla Veneziana (battuti), con cui si fanno i suoli negli appartamenti, nei loggiati, nelle chiese, ed in qualunque altro luogo si voglia, sono un composto di piccoli pezzi di marmo qualunque della grossezza non minore di un cece o fava, né maggiore di una noce, che prendendo figura regolare o irregolare dal caso, sotto il colpo di una mazzuola di ferro, che battendo gli stacca da pezzi di marmo più grossi, e da un intriso composto di calce, polvere di mattoni o tegoli nuovi, o di marmo, che li riunisce, lega, ed assoda sul piano che si vuol fare il pavimento, come se si volesse coll'arte rappresentare nuovi marmi e così imitare la natura. Di questi pavimenti non è l’invenzione propriamente de Veneziani, ma piuttosto una riproduzione fatta da essi, e tratta dalle antichità romane; e noi ne trovammo uno fra le rovine di Veleia, probabilmente del tempo di Traiano imperatore. A noi non cale di cercarne l’origine, ma dobbiamo contentarci di avere tra noi questo bello e buono ritrovamento, di cui diamo il processo per bene costruirli per nostro benefizio. Di questi minuti pezzi si abbia cura di tener separati i vari colori, onde impiegarli a norma degli stabiliti disegni, e confusamente si lascino quando si voglia mostrare un misto di colori insieme. Indi si prepari buona calce, due sorta di polvere di mattoni o tegoli nuovi e di marmo, stacciata una parte alla grossezza del miglio, e un'altra fina ed impalpabile, passata per lo staccio, o per un fino crivello. Fatta provvisione di tali materie, appianata la volta o tassello sotto il livello del pavimento che si vuol fare, per circa 18 centimetri, si ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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accumulino rottami di calcinaccio che si ricavano dal disfacimento delle vecchie fabbriche; e con poca calce e molt' acqua si faccia un pastone di malta magra, il quale si mescola e rimescola colla zappa o badile da muratore, sino che incorporato tutto prenda consistenza di malta dura lattiginosa. Questa si distende sul piano della volta o solaio preparato a livello, e ciò mediante il rastrello a denti di ferro, passandovi sopra di poi con un così detto rigone per appianarlo; e ciò a seconda della robustezza del tassello che lo deve sostenere: formato tale strato alto circa centimetri 12 in 15, si batte questo col mazzapicchio a mano affinché si uniscano le parti, si ristringano, e si abbassi la metà circa della sua altezza; poi si pone di nuovo a livello: questo primo strato si chiama massicciata o ghiarone, il quale secondo le stagioni si lascia riposare tre o quattro giorni, acciocché si assodi; il che si conosce dalle screpolature che si manifestano sulla sua superficie. Assodato che sia il ghiarone, si taccheggia tutta la sua superficie con la penna del martello da muratore, onde prepararlo a ricevere il secondo strato detto la cerussa. La cerussa è un impasto fatto con cemento di mattoni o tegoli nuovi, pestati alla grossezza di un piccolo nocciolo, unito a buona calce grassa e tenace, formando una malta molto maneggiata. Questa malta così preparata si distende sopra il primo strato di ghiarone suindicato, all'alterra circa di tre centimetri, procurando con la cazzuola quadra di mantenere il livello; si lascia far presa per circa ore 8, ed anche più a seconda della stagione o della qualità del piano sul quale si eseguisce; poi con l'arnese detto la zanca si batte gagliardamente per ogni senso, riducendola circa un centimetro sotto al livello del pavimento finito, ed in tale stato si lascia riposare, e far presa altrettanto tempo. Frattanto con la polvere di marmo, o con quella di tegoli o mattoni, con calce grassa e gagliarda più della prima, si fa una malta liquida piuttosto che dura, che si chiama stucco. Si distende e si forma il terzo ed ultimo strato, regolato colla cazzuola a giusto e perfetto livello, il quale stucco si lascia riposare perché si stringa, due o tre ore; poi con uno stilo si disegna il compartimento che si è ideato. Fatto adunque il disegno di ciò che si vuol rappresentare, si prendono i pezzetti di marmo già preparati e si conficcano a mano nell'indicato stucco per fare i contorni delle rispettive figure che devono comparire sul pavimento; e poi fra i contorni alla rinfusa si seminano in ciascun intervallo que' pezzetti di marmo coloriti che sono destinati a tal uopo: quanto più la semina è spessa, tanto più bello e durevole riesce il pavimento. Terminato tale lavoro se lo stucco fosse alquanto indurito, si asperge di acqua tutto il medesimo; poscia si conficca nello stucco tutta la semina marmorea, mediante un cilindro di marmo del diametro almeno di 38 centimetri, lungo circa centimetri 76, il quale nei due centri delle sue basi essendovi i pollici di ferro impiombati, viene ad essere raccomandato ed unito ad un telaro di legno. Questo strumento ha un manico lungo circa metri 2, e con questo si carrucola sopra tutta la ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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superficie seminata, sicché per la pesantezza e il moto, tutta la semina viene a conficcarsi entro allo stucco e la cerussa: e quando pel carrucolare, la semina sparisce i all'occhio, e lattiginosa diventa la superficie, allora è segno che la semina è abbastanza penetrata addentro. Alle volte succede che con il cilindro non si può operare nelle vicinanze de' muri; in tal caso si adopra il mazzapicchio col quale si fa buon opera; ma il mazzapicchio alcune volte anch'esso non è sufficiente: allora si adopra un pezzetto di legno forte ma piano, lungo centimetri 50, e largo centimetri 20, il quale con una mano accostandolo agli angoli e alle pareti della stanza, con l'altra a martello si batte: poi si rinuova per ogni dove e per ogni senso e a colpi eguali la battitura colla zanca di ferro, la quale è uno stromento lungo centimetri 90: la parte che si tiene in mano è cilindrica di tre centimetri di diametro, lunga centimetri 38, la piegatura lunga centimetri 12; la terza parte ripiega ancora, ed è lunga centimetri 56, sotto è alquanto convessa, larga centimetri 6, e grossa centimetri uno. Quando si sarà battuto ben bene il lavoro colla zanca, si lascia riposare alcuni giorni; indi verificatosi che la parte lattiginosa che sopravvanza alla semina dei marmi non fosse sufficiente, vi si distende sopra una lattata di calce e polvere di marmo fina unite, o di polvere di mattoni invece di marmo se il terrazzo è ordinario: questa serve ad otturare qualche disunione della semina, rimarginandola colla cazzuola, e si lascia riposare alcuni giorni, e poi si arruota. L'arrotatura od orsatura si fa con pietra arenaria della grandezza all'incirca di centimetri 40 in quadro, che si fissa all'estremità di un'asta di legno, lunga circa metri 2, in senso contrario della lunghezza, e si continua per dieci o dodici giorni: poi si netta colla cazzuola dallo stucco superfluo tutto il battuto. Dopo di aver riposato alcuni mesi più o meno secondo il clima e le stagioni, si ripiglia l'arrotatura a secco con una similo pietra arenaria a sabbia di mare; si ripassa colla cazzuola e collo stucco, per correggere le piccole mancanze; e dopo due o tre giorni che sarà asciutto, gli si dà l'olio per lustrarlo. Per dargli l'olio, s'inzuppa un canovaccio nell'olio di lino purificato e si spreme tanto il detto canovaccio che resti quasi asciutto, o leggiermente si passa sopra il pavimento. Si lascia così un giorno, poi si ripassa col canovaccio alquanto più inzuppato d'olio di prima, e si lascia per un altro giorno. Finalmente si torna a ripassare con il canovaccio ancora più carico d'olio e si lascia un altro giorno; poi con segatura fina di legno stropicciando si asciuga, ed è terminato. Questo è il processo per aver terrazzi belli, buoni e durevoli. Si fanno anche più presto, ma non hanno le qualità che convengono, e l’esperienza ha dimostrato che sono difettosi e di pochissima durata.

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Angelo Zambonini, Dell’arte di fabbricare, Bologna, 1830, Emidio dall’Olmo “I terrazzi così detti alla Veneziana battuti, con cui si fanno i suoli negli appartamenti, nei loggiati, nelle chiese, ed in qualunque altro luogo si voglia, sono un composto di piccoli pezzi di marmo qualunque della grossezza non minore di un cece o fava, né maggiore di una noce, che prendendo figura regolare o irregolare dal caso, sotto il colpo di una mazzuola di ferro, che battendo gli stacca da pezzi di marmo più grossi, e da un intriso composto di calce, polvere di mattoni o tegoli nuovi, o di marmo, che li riunisce, lega, ed assoda sul piano che si vuol fare il pavimento, come se si volesse coll'arte rappresentare nuovi marmi e così imitare la natura. Di questi minuti pezzi si abbia cura di tener separati i vari colori, onde impiegarli a norma degli stabiliti disegni, e confusamente si lascino quando si voglia mostrare un misto di colori insieme. Indi si prepari buona calce, due sorta di polvere di mattoni o tegoli nuovi e di marmo, stacciata una parte alla grossezza del miglio, e un'altra fina ed impalpabile, passata per lo staccio, o per un fino crivello. Fatta provvisione di tali materie, appianata la volta o tassello sotto il livello del pavimento che si vuol fare, per circa 18 centimetri, si accumulino rottami di calcinaccio che si ricavano dal disfacimento delle vecchie fabbriche; e con poca calce e molt' acqua si faccia un pastone di malta magra, il quale si mescola e rimescola colla zappa o badile da muratore, sino che incorporato tutto prenda consistenza di malta dura lattiginosa. Questa si distende sul piano della volta o solaio preparato a livello, e ciò mediante il rastrello a denti di ferro, passandovi sopra di poi con un così detto rigone per appianarlo; e ciò a seconda della robustezza del tassello che lo deve sostenere: formato tale strato alto circa centimetri 12 in 15, si batte questo col mazzapicchio a mano affinché si uniscano le parti, si ristringano, e si abbassi la metà circa della sua altezza; poi si pone di nuovo a livello: questo primo strato si chiama massicciata o ghiarone, il quale secondo le stagioni si lascia riposare tre o quattro giorni, acciocché si assodi; il che si conosce dalle screpolature che si manifestano sulla sua superficie. Assodato che sia il ghiarone, si taccheggia tutta la sua superficie con la penna del martello da muratore, onde prepararlo a ricevere il secondo strato detto la cerussa. La cerussa è un impasto fatto con cemento di mattoni o tegoli nuovi, pestati alla grossezza di un piccolo nocciolo, unito a buona calce grassa e tenace, formando una malta molto maneggiata. Questa malta così preparata si distende sopra il primo strato di ghiarone suindicato, all'alterra circa di tre centimetri, procurando con la cazzuola quadra di mantenere il livello; si lascia far presa per circa ore 8, ed anche più a seconda della stagione o della qualità del piano sul quale si eseguisce; poi con l'arnese detto la zanca si batte gagliardamente per ogni senso, riducendola circa un centimetro sotto al livello del pavimento finito, ed in tale stato si lascia riposare, e far presa altrettanto tempo. Frattanto con la polvere di marmo, o con ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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quella di tegoli o mattoni, con calce grassa e gagliarda più della prima, si fa una malta liquida piuttosto che dura, che si chiama stucco. Si distende e si forma il terzo ed ultimo strato, regolato colla cazzuola a giusto e perfetto livello, il quale stucco si lascia riposare perché si stringa, due o tre ore; poi con uno stilo si disegna il compartimento che si è ideato. Fatto adunque il disegno di ciò che si vuol rappresentare, si prendono i pezzetti di marmo già preparati e si conficcano a mano nell'indicato stucco per fare i contorni delle rispettive figure che devono comparire sul pavimento; e poi fra i contorni alla rinfusa si seminano in ciascun intervallo que' pezzetti di marmo coloriti che sono destinati a tal uopo: quanto più la semina è spessa, tanto più bello e durevole riesce il pavimento. Terminato tale lavoro se lo stucco fosse alquanto indurito, si asperge di acqua tutto il medesimo; poscia si conficca nello stucco tutta la semina marmorea, mediante un cilindro di marmo del diametro almeno di 38 centimetri, lungo circa centimetri 76, il quale nei due centri delle sue basi essendovi i pollici di ferro impiombati, viene ad essere raccomandato ed unito ad un telaro di legno. Questo strumento ha un manico lungo circa metri 2, e con questo si carrucola sopra tutta la superficie seminata, sicché per la pesantezza e il moto, tutta la semina viene a conficcarsi entro allo stucco e la cerussa: e quando pel carrucolare, la semina sparisce i all'occhio, e lattiginosa diventa la superficie, allora è segno che la semina è abbastanza penetrata addentro. Alle volte succede che con il cilindro non si può operare nelle vicinanze de' muri; in tal caso si adopra il mazzapicchio col quale si fa buon opera; ma il mazzapicchio alcune volte anch'esso non è sufficiente: allora si adopra un pezzetto di legno forte ma piano, lungo centimetri 50, e largo centimetri 20, il quale con una mano accostandolo agli angoli e alle pareti della stanza, con l'altra a martello si batte: poi si rinuova per ogni dove e per ogni senso e a colpi eguali la battitura colla zanca di ferro, la quale è uno stromento lungo centimetri 90: la parte che si tiene in mano è cilindrica di tre centimetri di diametro, lunga centimetri 38, la piegatura lunga centimetri 12; la terza parte ripiega ancora, ed è lunga centimetri 56, sotto è alquanto convessa, larga centimetri 6, e grossa centimetri uno. Quando si sarà battuto ben bene il lavoro colla zanca, si lascia riposare alcuni giorni; indi verificatosi che la parte lattiginosa che sopravvanza alla semina dei marmi non fosse sufficiente, vi si distende sopra una lattata di calce e polvere di marmo fina unite, o di polvere di mattoni invece di marmo se il terrazzo è ordinario: questa serve ad otturare qualche disunione della semina, rimarginandola colla cazzuola, e si lascia riposare alcuni giorni, e poi si arruota. L'arrotatura od orsatura si fa con pietra arenaria della grandezza all'incirca di centimetri 40 in quadro, che si fissa all'estremità di un'asta di legno, lunga circa metri 2, in senso contrario della lunghezza, e si continua per dieci o dodici giorni: poi si netta colla cazzuola dallo stucco superfluo tutto il battuto. Dopo di ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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aver riposato alcuni mesi più o meno secondo il clima e le stagioni, si ripiglia l'arrotatura a secco con una similo pietra arenaria a sabbia di mare; si ripassa colla cazzuola e collo stucco, per correggere le piccole mancanze; e dopo due o tre giorni che sarà asciutto, gli si dà l'olio per lustrarlo. Per dargli l'olio, s'inzuppa un canovaccio nell'olio di lino purificato e si spreme tanto il detto canovaccio che resti quasi asciutto, o leggiermente si passa sopra il pavimento. Si lascia così un giorno, poi si ripassa col canovaccio alquanto più inzuppato d'olio di prima, e si lascia per un altro giorno. Finalmente si torna a ripassare con il canovaccio ancora più carico d'olio e si lascia un altro giorno; poi con segatura fina di legno stropicciando si asciuga, ed è terminato. Questo è il processo per aver terrazzi belli, buoni e durevoli. Si fanno anche più presto, ma non hanno le qualità che convengono, e l’esperienza ha dimostrato che sono difettosi e di pochissima durata. Quante volte però si voglia dare al battuto le tinte per distinguere o rilevare maggiormente li scompartimenti fatti, in allora appena terminato il lavoro si contornano i scompartimenti stessi con un crogiuolo di piombo, quindi si passa a dargli una tinta col pennello servendosi dei diversi colori, così detto a guazzo, misti colla calce buona di marmo, distribuendo a capriccio del terrazziere, o di chi dirige il lavoro. Dopo quattro o cinque giorni si piglia della crusca di grano, e mediante diversi canovacci, tanti, quanti sono i diversi cole dati al battuto si pulisce ben bene la sua superficie, quindi si abbandona al lungo riposo di sei in otto mesi, a seconda della grossezza del pavimento, e del piano su cui si trova e così del clima e delle stagioni nelle quali è stato eseguito. Giunto al termine di detta epoca si passa alla lustratura. Questa si effettua mediante un impasto di calce bianca e polvere di marmo fino, e dei diversi colori a guazzo che hanno servito nel primo scompartimento del battuto. Si ripassano i vari colori sui loro corrispondenti mediante pietra arenaria, che si fa girare dalle braccia di un uomo fin tanto che si è incorporato bene l'impasto nel battuto. Eseguito ciò si distende regolarmente colla cazzuola questa materia, onde con molta finezza si dilati sulla sua superficie. Passati tre o quattro giorni vi si dà l'olio di lino crudo unito a poco sapone stemperato nell'acqua per mezzo della bollitura; questo si stende con un canovaccio sulla sua superficie. Asciutto che sia il battuto vi si passa sopra una seconda mano di olio mediante uno straccio di lana; in fine perchè questo pigli un perfetto lucido se le dà una terza mano di olio ben bollente misto con una doppia quantità di cera, con pari straccio di lana si confrica ben bene la ripetuta superficie del battuto, finché abbia pigliata la desiderata lustratura. Sarà cura di chi vuol conservare bene questa specie di pavimenti di ripassarli almeno ogni due mesi con uno straccio di lana inzuppato nell'olio di lino, coll'avvertenza che questo non vi rimanga sopra a qualche grossezza, altrimenti irrancidirebbe, ed invece di avere il desiderato intento, non farebbe che levare il lucido al battuto.” ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Carlo Rizzoli, “Manuale per l’avviamento all’arte muraria”, Bologna, 1927, Tipografia Neri “Pavimenti in mosaico alla veneziana” Per quanto oggigiorno meno usati che non per lo passato, pur tuttavia sono ancora frequenti. Bologna stessa è ricca di tali battuti, in ispecie lungo i suoi portici. Il pavimento a mosaico (‘terrazzo’ nel veneto) si prepara distendendo dapprima uno strato di calcestruzzo di calce idraulica, sabbia grossa e cocci di mattoni (alto all’incirca 4 o 5 cm) che viene poi rassodato e battuto a dovere: su questo, e mentre sta asciugandosi, si stende un secondo strato di malta grassa di cemento, spessa circa 2 cm e mista a polvere di mattoni finissima: si infliggono poi scaglie e pezzetti di marmo a uno o più colori e si fa scorrere sopra un rullo pesante di ghisa. A costipazione ultimata si stucca con cemento e si leviga con pietra pomice, naturalmente allorché il battuto è già notevolmente indurito. Nella pratica dei lavori si distingue il mosaico seminato (fatto come sopra abbiamo detto) dal mosaico piantato (eseguito con i pezzetti predisposti secondo disegni). Questo tipo di pavimento sarebbe da proscriversi allorché si hanno solai in legno: l’elasticità di questi pregiudica grandemente la rigidità del battuto alla veneziana, cagionando lesioni e screpolature; per di più il peso complessivo del mosaico è assai notevole e bene spesso inadeguato alla robustezza dei comuni solai in legno. Raffaella Rossi Manaresi, “Bollettino d’Arte” del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – N. 73 – Maggio-Giugno 1992, Bologna, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato. Il Pavimento alla Veneziana a Bologna Il precursore del pavimento o “terrazzo” alla veneziana è il pavimento battuto in coccio pesto, un impasto di calce e mattone triturato che a Venezia si chiama “pastellon”. Fino al Quattrocento, il battuto in coccio pesto costituiva il pavimento di molte casa veneziane. Per mancanza di sufficienti reperti, non si può dire se a Bologna fosse ugualmente diffuso; ma esiste una specifica testimonianza dell’impiego del battuto in coccio pesto in un importante complesso monumentale bolognese della prima metà del XIII secolo: la chiesa ed il convento di S. Domenico. N e i re c e n t i l a v o r i d i restauro ai pavimenti della chiesa si San Domenico, a circa 70 cm dall’attuale piano di calpestio (che risale alla ristrutturazione settecentesca del Dotti) è stato rinvenuto il pavimento della chiesa originaria (1228-1238): un battuto in coccio pesto. Inoltre, nel restauro dell’adiacente convento sono state rimesse in luce le celle dell’antico dormitorio, in particolare la cella di San Domenico dove è stato ricuperato il pavimento originario, anch’esso in coccio pesto. Le indagini svolte da Angelo Casali su tale battuto duecentesco hanno consentito di evidenziane le caratteristiche: la ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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granulometria del cocciame di mattone è compresa tra la polvere e il diametro di 3-4 cm; un primo strato di 7-8 cm è costituito dagli elementi a granulometria maggiore ed impastati con calce; su questo strato ben battuto è stato gettato un secondo strato di circa 3 cm costituito dal cotto di granulometria minore sempre impastato con calce. Stuccature con calce mescolata a polvere minuta; levigatura e rifinitura per imbibizione con una sostanza grassa, forse olio di lino. A Venezia, tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento, si comincia ad arricchire il battuto in coccio pesto “seminandovi” e conficcandovi granulati di marmi e pietre di colori diversi, elaborando così la tecnica del battuto marmoreo alla veneziana. A metà del Cinquecento, Daniele Barbaro fornisce una dettagliata descrizione della esecuzione del terrazzo alla veneziana e si costituisce l’“Arte dei Terrazzieri”, il cui statuto è datato 1586: sono queste indicazioni precise che, a Venezia, il terrazzo marmoreo battuto era già estesamente diffuso nel XVI secolo. L ’ u s o d i q u e s t o t i p o d i pavimentazione si diffonde in altre parti d’Italia ma soltanto molto più tardi , a Bologna circa due secoli dopo. Il pavimento bolognese più tradizionale era il pavimento di mattoni: lo si osserva tuttora in molte antiche fabbriche e lo testimonia Angelo Zambonini, ingegnere bolognese che nel 1830 pubblica il primo vero trattato sull’Arte di Fabbricare che abbia uno specifico e costante riferimento alle consuetudini locali. “ I mattoni di fornace erano quello che per lo addietro più comunemente usavansi nei pavimenti della fabbriche” scrive lo Zambonini e prosegue con dettagli sulle diverse forme dei mattoni utilizzati, la diversa disposizione, l’uso “di dare un certo liscio alle selciate che comunemente suol dirsi dare il selcio” lavoro che “consiste in una sagramatura”. In realtà lo straterello di finitura che si osserva su antichi pavimenti in cotto è più spesso e più compatto di quello che si forma sulle cortine di laterizio che hanno subito la sagramatura, ma la composizione è simile. Erano però di marmo i pavimenti dei monumenti più importanti. Dalle documentatissime vicende riguardanti la chiesa di San Domenico si può dedurre, per esempio, che fu costruito di “marmo rosso e nero amandorlato” il pavimento della Cappella del Santo i primi anni del Quattrocento; e che fu “salicato di marmore” il coro della chiesa quando, nei primi anni del Seicento, si rinnovò l’architettura del presbiterio. Oltre ai pavimenti di marmo, si ricorreva anche ai pavimenti di “finto marmo”, come nel caso della Biblioteca del Conservatorio di Musica (ex convento di San Giacomo) che è tuttora ben conservato ed è costituito da mattoni dipinti così da imitare un “amandorlato” di marmi rossi, neri e bianchi. Il pavimento del Conservatorio costituisce la testimonianza di una antica pratica che può forse essere messa in relazione con quella successiva di dipingere i battuti alla veneziana. Ritornando ad Angelo Zambonini, dopo la citazione che i pavimenti di mattoni erano quelli di uso più comune a Bologna, egli prosegue: “Sono ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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parecchi anni da che è stato generalmente introdotto l’uso dei battuti o terrazzi cosiddetti alla veneziana”. Come potremmo quantificare i “parecchi anni”? Sembrerebbe in non più dei quaranta o cinquant’anni che separano la data del testo dello Zambonini (1830) da quella dei pavimenti più antichi e sicuramente datati esistenti a Bologna. Per tempi precedenti la fine del Settecento non si hanno indicazioni sicure sull’impiego del terrazzo alla veneziana. In un monumento della prima metà del Settecento, il Santuario della Beata Vergine di San Luca, compare il battuto alla veneziane, ma in una forma curiosa: il pavimento è costituito da riquadri marmorei bianchi e grigi, con l’inserzione di un motivo a stella centrale e di fascie laterali in battuto alla veneziana. Il disegno di questo pavimento è di Carlo Francesco Dotti, architetto del santuario, ma fu eseguito da Ceccarco Pisani di Massa Carrara nel 1780, dopo la morte del Dotti; non possiamo sapere se la parti a battuto sono state previste dal progettista o sono state invece inserite dall’esecutore in sostituzione di marmi di diverso colore. Altre opere del Dotti non sono illuminanti per quanto riguarda il suo eventuale ricorso a pavimenti battuti alla veneziana. Così, sappiamo che nella chiesa di San Domenico, che egli ristrutturò, “viene gettato il nuovo pavimento” nel 1731-32 alzando al quota di circa 70 cm, come si è già detto; ma i documenti non precisano come fosse questo pavimento, mentre testimoniano con sicurezza quanto segue: dopo la soppressione e la manomissioni napoleoniche, il restauro generale programmato nel 1840 includeva il rifacimento di tutto il pavimento della chiesa e delle cappelle; il terrazziere Pietro Diana rifà il “magnifico battuto” di tutta la chiesa. Il pavimento di San Domenico che è giunto a noi è quindi da ritenere quello del 1840, non quello settecentesco del Dotti che, solo in via di ipotesi, si può pensare fosse già un battuto alla veneziana. Le testimonianze su un esteso ricorso al terrazzo alla veneziana negli ultimi decenni del settecento sono invece numerose. Ma prima di illustrarne le caratteristiche è opportuno ricordare che nel trattato di Angelo Zambonini sopra citato vi è una descrizione dettagliata del procedimento per costruire il terrazzo alla veneziana, procedimento che sembra quindi risalire ai primi tempi in cui questo tipo di pavimento era stato introdotto a Bologna. Il metodo dello Zambonini non differisce sostanzialmente da quelli descritti diffusamente da altri autori Ottocenteschi ma è molto più elaborato, specialmente per quanto riguarda la finitura e la lustratura. Lo stesso Zambonini riconosce che “si fanno anche più presto ma non hanno le stesse qualità che convengono, e l’esperienza ha dimostrato che sono difettosi e di pochissima durata”. La metodica operativa descritta da Zambonini è un documento molto interessante e costituisce anche una testimonianza della accuratezza delle pratiche artigianali del passato. Pertanto, si riporta integralmente questo testo in appendice. Purtroppo non si è ancora verificata la possibilità di studiare analiticamente i più ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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antichi pavimenti alla veneziana tuttora esistenti a Bologna e di controllare se il complesso procedimento descritto da Zambonini veniva seguito. Ma molte caratteristiche di questi pavimenti emergono dall’osservazione visiva e da alcuni documenti grafici. Tra i documenti grafici, grande rilevanza presente un album di Angelo Venturoli (1749-1821) contenenti una serie di disegni per pavimenti. Al bordo di ogni disegno è indicato, a penna, lo specifico ambiente al quale il pavimento era destinato, in edifici nuovi o ristrutturati su progetto della stesso Venturoli. Una trentina di essi sono per la sale del Palazzo Hercolani, costruito nell’ultimo decennio del Settecento, dove questi pavimenti sono ancora conservati. I terrazzi alla veneziana di Palazzo Hercolani, come altri della stesso periodo – per esempio quelli di Palazzo Del Turco, e quelli dell’antico Palazzo Riario, sistemato ed ammodernato per Antonio Aldini- mostrano caratteristiche peculiari: il granulato marmoreo è minuto e la semina piuttosto rada; inoltre, i motivi decorativi sono contornati da una sottili lenea nera e dipinti, come appunto insegna Zambonini. Per esemplificazione si osservi il particolare illustrato dove appare evidente che le foglie furono eseguite seminando un granulato nero ne llo stucco di coccio pestro e poi colorandole di verde: dove lo strato verde è sparito compare il colore brunastro dello stucco sottostante. La tecnica di dipingere il battuto, o parte di esso, sembra tipicamente bolognese; non ve ne è menzione nelle metodiche descritte dagli autori veneti: Daniele Barbaro, Andrea Palladio, Giuseppe Viola Zannini, né in quelle di autori di altre parti d’Italia come Federico Sancitali, e Giovanni Curioni. Fa eccezione Nicola Cavalieri San-Bertoldo, ingegnere e professore dell’Archiginnasio Romano della Sapienza, il quale conclude il paragrafo sui terrazzi alla veneziana così: “L’arte di costruire i battuti è stata raffinata a segno che se ne dipinge la superficie con vaghi scompartimenti a vari colori, con meandri ed altre maniere d’ornamenti. Tuttavia il testo del Cavalieri (1831) è un trattato generale senza alcun carattere locale: a tale proposito potrebbe riferirsi alla consuetudine bolognese. L’uso di dipingere il battuto non è però costante a Bologna, neppure in questo periodo, tra fine Settecento e primo Ottocento. Fra i numerosi esempi di battuti non dipinti si possono ricordare quelli di Palazzo Gioanetti e quelli bellissimi di Palazzo Del MonteGaudenzi. La loggia di quest’ultimo palazzo è divisa in sei scomparti, in ognuno dei quali è raffigurato un diverso animale: lupo, leone, giaguaro, orso, tigre, renna; nel salone, il battuto presenta un semplice disegno geometrico e reca l adata e la firma dell’autore: Stephanus Monari, anno 1785. Non mancano in questo stesso periodo i battuti non dipinti e più semplici, senza alcuna raffigurazione e decorazione geometrica. Sono costituiti da larghi piani che presentano mescolanze di granulati di diverso colore e cono delimitate da fascie che, in generale, sono di colore nero o verdenero. Ne è un esempio il pavimento della chiesa di San Giovanni in Monte, datato 1824. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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La tecnica del battuto alla veneziana evolve nel corso dell’Ottocento: i granulati divengono di dimensioni maggiori e più regolari; le semine più fitte; si hanno disposizioni a miscuglio casuali di più colori oppure a disegno geometrico, con campi di diverso colore esclusivamente definito dal colore dei granuli marmorei accuratamente selezionati. La tecnica della coloritura finale per dare risalto a particolari decorativi, in auge alla fine del Settecento, cade presto in disuso; sussiste in un solo caso: il pavimento a quadri bianchi e rossi dell’Archiginnasio, identico a quello della chiesa di San Domenico ed eseguito allo stesso tempo (1840-50). Ma all’Archiginnasio il colore bianco o rosso dei riquadri a battuto era stato rinforzato con una pittura molto coprente che nascondeva completamente il granulato. Questa prassi sembra un’eccezione nell’Ottocento avanzato, ma ci si può chiedere se l’antica tradizione bolognese di dipingere il pavimento di cotto, dopo aver suggerito la pratica settecentesca di dipingere le elabora decorazioni dei primi battuti alla veneziana, non sussista ancora nell’Ottocento, forse come un ritorno alle origini:affinché il battuto alla veneziana (come un tempo il pavimento di cotto) imitasse un pavimento marmoreo. Il battuto alla veneziana ha avuto a Bologna una larghissima diffusione, anche se tardiva. Nell’Ottocento e buona parte del Novecento, appartamenti, chiese, portici vengono pavimentati in prevalenza col terrazzo alla veneziana. Ancora oggi lo si usa ed ancora oggi esistono ottimi artigiani in grado di eseguirlo. Marinelli L., Scalpellini P. “L’arte muraria in Bologna nell’età pontificia”, Bologna, 1992, Ediz. Nuova Alfa Le pavimentazioni interne. Negli edifici civili, almeno in quelli di maggior prestigio, i pavimenti “furono in cotto tirato a cera, in generale a quadrati montati in diagonale o a mattone a spina di pesce” [CUPPINI 1974]. Certamente le pavimentazioni erano prevalentemente in laterizio, ma l’assortimento dei formati e del disegno era assai vasto; inoltre venivano anche eseguiti pavimenti di minor pregio per cantine, locali di servizio, strade e spazi cortilivi. Il base a due preziosi documenti del primo Cinquecento, ed al testo dello Spinelli, conosciamo ben 6 formati diversi di laterizi impiegati nella realizzazione dei pavimenti, anche se non è facile comprenderne le differenze di impiego. Gli elementi di maggior pregio, destinati a spazi monumentali e comunque importanti, erano certamente i quadri grandi (on. 8x8x1), generalmente posati in diagonale, spesso con una fascia perimetrale di incorniciamento; una versione più modesta, forse adatta per locali più piccoli, era costituita da quadri da salegar (on. 6x6x1). Leggermente più sottili erano i quadri da tassellar (on. 6x6x2/3), di non chiaro impiego, forse preferiti a quelli per fare pavimenti sopra i solai anziché sopra il terreno o sopra le volte, anche se la lieve differenza di peso non pare giustificare sufficientemente questa distinzione. Forse il pavimento più frequentemente impiegato nell’edilizia civile era quello in pietre larghe, cioè “pietre da salegar et voltar” (on. 9x5x1 e ½ ), posate “a correre sfalsati” o “a spina di pesce”, oppure quello in tavelle da salegar (on. 9x5x1), certamente le più ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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leggere, o infine l’ammattonato in pietre comuni. Queste ultime venivano anche posate di costa, formando la “slegata di pietre in coltello”, o “accoltellato”, generalmente impiegata nelle pavimentazioni esterne, in particolare per i cordoli di finitura. La superficie dei laterizi subiva diversi tipi di trattamenti: i quadri, prima della posa, venivano “sfregati”, cioè levigati, forse con l’ausilio di un mattone, ed eventualmente in parte “tagliati con la martellina su la saccomana”, cioè sagomati secondo la geometria necessaria. A questo proposito, secondo Umberto Menicali, “le dispendiose operazioni di molatura dei lati sono sovente sostituite con il taglio a spacco che, pur riducendone le dimensioni del laterizio, assicura rapidamente spigoli molto netti, ma solo su materiali di pasta dura ed omogenea. Viene eseguito con una sagoma in lamiera metallica (modine) sostenuta da un manico che permette di segnare per mezzo di una punta d’acciaio i contorni definitivi del pezzo; con la martellina si eliminano le parti in eccesso dando al mattone la forma di tronco di piramide con facce laterali inclinate verso l’interno così che, una volta accostati i diversi elementi, la malta rifluisce nel giunto e lo satura, mentre gli spigoli superiori sono accostati quasi perfettamente. Con lo stesso sistema di taglio sono anche realizzati anche pezzi quadrati, triangolari, o curvilinei per creare sull’ammattonato e delle disposizioni particolari tanto sulle fasce perimetrali che sui Campi centrali del pavimento. Nei rivestimenti orizzontali di pregio al mattone ordinario viene sostituita la pianella, di spessore inferiore ma di pasta più dura e compatta, idonea ad essere lavorata con i sistemi di taglio per ricavare sagome particolari o lati inclinati; la faccia in vista è quasi sempre sottoposta in fornace a operazioni di ribattitura e di finitura con bagno d’argilla che, insieme all’uso di impasti sottili ed omogenei, assicurano una maggiore levigatezza e una elevata resistenza all’usura provocata dal calpestio” [MENICALI 1992]. La “salegata di pietre in piano” o “in coltello” veniva “salesata, e polita”, cioè accuratamente stuccata e lisciata. Il pavimento poteva infine venire sagramato, “pel quale, come si sa, si prende del fiore di calce finissimo, mescolandolo con polvere di mattone” [ZIRONI 1903]. La “lucidatura definitiva dell’ammattonato viene eseguita dopo la levigatura su pavimenti puliti e asciutti; il trattamento più usuale consiste nello stendere a pennello o con stracci almeno due mani di olio di lino, attendendo la completa asciugatura tra una passata e l’altra. Si può ricorrere anche alla spalmatura di altre sostanze grasse vernicianti o alla impregnazione con cera d’api, sempre con ottimi risultati di brillantezza, anche se con un minore effetto impermeabilizzante.” [MENICALI 1992]. Osserva Zironi che “il fuoco, colla pavimentazione in cotto, non presenta pericoli di sorta. I tarli e l’acqua non la rodono; vantaggi questi da osservarsi e consigliarsi sempre da chiunque”. Ma sui solai in putrelle, egli sostiene, “i pavimenti in mattoni, mattonelle, tavole, pietre larghe, tavelle o anche pavimento alla foggia veneziana, rimangono solidi. Sulle costruzioni in legno talvolta si smuovono, rovinando lavori di qualche pregio” [ZIRONI 1889]. Ancora nei primi decenni del Novecento sono assai diffusi i pavimenti in laterizio tradizionale, pur nell’opinione che “gli ordinari mattoni si prestano malamente per pavimentare, sia perché si logorano facilmente, dando polvere, sia perché hanno un aspetto tutt’altro che decoroso” [RIZZOLI 1927]. Rizzoli attesta che nella sua epoca “questo tipo di pavimentazione è caduto in disuso, limitandosi il suo impiego per stalle, magazzini, ecc.”. per quanto riguarda il disegno, cioè lòa ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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disposizione degli elementi, egli precisa che “la collocazione dei mattoni può farsi in diversi modi (alternata, per diagonale, a spina di pesce, mista)”. I laterizi pavimentali posti sopra i solai venivano posati direttamente sull’assito, con un sottofondo di malta di calce idraulica, e sabbia (1:2), avente uno spessore di circa 4 cm, e giunti sottili realizzati con la stessa malta. Anche per Rizzoli i laterizi devono essere posati “sopra un etto di malta comune di calce, poiché la malta di cemento non è molto consigliabile per tale scopo” [RIZZOLI 1927]. Gli ammattonati fatti sul terreno venivano generalmente posati sopra la giarata, cioè un “materasso ghiaioso alto 15 o 20 cm” [RIZZOLI 1927] legato con calce, oppure sulla “ salegata matta fatta di rottami e sabbione”, costituita da uno strato di pezzi di mattoni e coppi mescolati a sabbia (nel rapporto di 2:1), privo di legante, ed avente uno spessore di circa 10 cm. Bisogna peraltro precisare che tanto la giarate che le salegate matte venivano talvolta impiegate come pianio di calpestio finiti, come pavimenti “poveri” ma drenandi, da posarsi “in qualsivoglia luogo”, ma specificamente idonei per locali umidi ed esposti alle intemperie. Se lo Spinelli menziona le “Giarate dè Terrazzi fatte in alto”, senza comunque che ciò escluda la presenza di una ulteriore finitura in cotto, in alcuni documenti d’epoca si parla di “salegate a terreno con una salegata matta di sotto”. Tra i pavimenti “poveri”, rigorosamente riservato però a locali interni, annoveriamo anche il terliso, formato da uno strato di gesso (di circa 2 cm) posato sull’assito del solaio. Le pavimentazioni esterne Le pavimentazioni stradali, cioè “i selciati della città”, quando esistevano, erano realizzate in ciottoli di fiume, prevalentemente estratti dal greto del Reno; le Economie distinguono l’acciottolato fatto di elementi posati a secco (la “salegata di sassi in sabbione”) da quello fatto di elementi legati (la “salegata di sassi in calcina”), attestando la compresenza delle due tecniche di posa. Il rapporto calce/sabbia, nella malta, era quello consueto di 1:3, e lo spessore complessivo era comunque di 25 cm. All’epoca del Rizzoli, “per pavimentare cortili, stalle, androni, depositi, ecc. si ricorre spesso ai comuni selciati; questi vengono eseguiti con ciottoli ovoidali fissati su un sottofondo di sabbia o di malta idraulica o cementizia. In questo ultimo caso, i ciottoli, dopo essere stati posati sul letto di malta, vengono battuti ad uno ad uno col martello, colando poi dell’altra malta negli interstizi. Con altro procedimento, si mescola a secco il cemento con la sabbia del sottofondo: la miscela si unisce e fa prese allorché si procede all’inaffiatura e a battitura del selciato” [RIZZOLI 1927]. Nella zona centrale delle strada vi erano delle liste in arenaria per rendere più agevole il transito dei carri. La Piazza Maggiore era pavimentata in mattoni anziché in acciottolato, come attestano numerose ordinanze governative rivolte ai fornaciai affinché riservassero i mattoni più cotti e resistenti (le pietre fregne) ai fraquenti e necessari interventi di manutenzione. I portici erano generalmente pavimentati in ammattonato di pietre comuni o pietre larghe, con liste di pietre in coltello, e la disposizione più frequente era quella a filari di elementi sfalsati, ed anche quella a spina di pesce. Nel corso dell’Ottocento, forse a partire dalla metà del secolo, gli ammattonati dei portici vennero progressivamente sostituiti con “battuti alla veneziana”, che all’inizio del secolo successivo sono “meno usati che per lo passato, e pur tuttavia sono ancora presenti. Bologna stessa è ricca di ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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tali battuti” [RIZZOLI 1927]. La “veneziana”, che Rizzoli definisce impropriamente “pavimento a mosaico (‘terrazzo’ nel veneto) si prepara distendendo dapprima uno strato di calcestruzzo di calce idraulica, sabbia grossa e cocci di mattoni (alto all’incirca 4 o 5 cm) che viene poi rassodato e battuto a dovere: su questo, e mentre sta asciugandosi, si stende un secondo strato di malta grassa di cemento, spessa circa 2 cm e mista a polvere di mattoni finissima: si infliggono poi scaglie e pezzetti di marmo a uno o più colori e si fa scorrere sopra un rullo pesante di ghisa. A costipazione ultimata si stucca con cemento e si leviga con pietra pomice, naturalmente allorché il battuto è già notevolmente indurito. Nella pratica dei lavori si distingue il mosaico seminato (fatto come sopra abbiamo detto) dal mosaico piantato (eseguito con i pezzetti predisposti secondo disegni). Questo tipo di pavimento sarebbe da proscriversi allorché si hanno solai in legno: l’elasticità di questi pregiudica grandemente la rigidità del battuto alla veneziana, cagionando lesioni e screpolature; per di più il peso complessivo del mosaico è assai notevole e bene spesso inadeguato alla robustezza dei comuni solai in legno” [RIZZOLI 1927].

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4.4.1.5 Catalogo dei marmi e pietre comunemente usate Pietre bianche

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Pietra d’Istria Pietra d’Aurisina Marmo Lunense (marmi di Carrara) Cogolo Madreperla

Pietre nere

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Pietre nere carniche Marmi neri assoluti Portoro

Pietre grigie

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Lumachella di San Vitale Marmo Bardiglio Lunense o di Carrara

Pietre rosse

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Porfido rosso antico (Porfido egiziano) Marmi rossi di Verona Marmo del Cattaro Rosso Linguadoca o di Francia Rosso di Levanto Diaspro tenero di Sicilia (Libeccio) Macchia vecchia di Arzo Arabescato orobico

Pietre rosa

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Breccia (Mandorlato) di Arbe, detto Pomarolo Breccia Corallina Marmo Calcidese o Fior di Pesco Marmo Africano o Luculleo

Pietre azzurre

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Lapislazzuli

Pietre violacee

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Marmo d’Ocimio o Pavonazzetto Breccia di Settebasi e Semesanto Broccatello Pavonazzetto Toscano Breccia di Serravezza Breccia Medicea

Pietre gialle

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Alabastro del Circeo Marmo Numidico o Giallo Antico Giallo Mori Giallo Torri Giallo Verona Giallo di Siena

Pietre verdi

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Verde Piave Marmo Lacedemonio o Porfido Verde Antico o Serpentino Marmo Tessalico o Verde Antico Marmo Caristio o Cipollino Verde Marmi Verdi Alpini

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4.4.1.6 Il battuto a Venezia e a Bologna. Differenze costruttive Venezia sec.XIX : _lastra di rivestimento: calce aerea grassa con cocciopesto 1,5cm _strato di adesione: calce idraulica 2-3cm _massetto: calce idraulica 10-20cm Bologna sec.XIX : _lastra di rivestimento: calce idraulica grassa 1,5cm _strato di adesione: calce aerea grassa 2-3cm _massetto: calce aerea grassa 10-20cm Bologna sec.XX : _lastra di rivestimento: calce idraulica 1,5cm _strato di adesione: calce idraulica grassa 2-3cm _massetto: cemento con rete elettrosaldata 6cm Differenze nelle lavorazioni. 1)Ogni strato nella tradizionale pavimentazione alla veneziana e sottoposto a battitura con il fer de bater, a bologna nello stesso secolo per la battitura si usano strumenti diversi quali la zanca per lo strato di adesione e il mazzapicchio per il massetto. Attualmente invece la battitura è stata eliminata come operazione. Lo scopo della battitura è l’eliminazione dell’acqua. Questo cambiamento potrebbe farsi che l’acqua residua nelle lastre di rivestimento comporti fenomeni di curling.(lastre in calce idraulica sono analoghe a quelle in cemento) 2)posa in opera troppo rapida della pavimentazione può farsi che la presa dello strato superficiale avvenga prima che sia conclusa quella del massetto. Questa disattenzione comporta un ritiro del cemento, conseguente la presa ritardato rispetto a quello dello strato superficiale.

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Capitolo 4 Analisi Storica delle Pavimentazioni ____________________________________________________________________________

4.5 Classificazione delle pavimentazioni esistenti all’oggi Verranno qui indicate, a seguito dell’analisi storica, le pavimentazioni esistenti all’oggi dei portici di Bologna, distinte nelle categorie: _ ammissibili: perché storicamente originali o storicizzate. _ incongrue: perché di basso valore architettonico e incompatibili con l’opera d’arte. 4.5.1 Materiali ammissibili Sono definiti ammissibili quelle pavimentazioni che sono definite originali o che hanno trovato riscontro nei documenti storici. Inoltre quei tipi di pavimenti che si sono stratificate nella memoria come testimonianza dell’aspetto di quel luogo. 1_ Materiale principale: _ battuto alla veneziana, nei disegni ricorrenti bolognesi _ ammattonato di pietre cotte (laterizi e cottiforti), nelle disposizioni ricorrenti _ selegate di pietre naturali diffuse in loco, in filari sfalsati o in ciottolato 2_ Materiale fascia _ veneziana _ pietre cotte _ pietre naturali comunemente diffuse L’interazione tra il materiale prevalente e la fascia collocata a bordo strada può essere la più varia. 4.5.2 Materiali incongrui Saranno distinti in base alle tecniche esecutive: 1_ Continui_ _ malte cementizie ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 4 Analisi Storica delle Pavimentazioni ____________________________________________________________________________

2_ Discontinui _ graniglie di vario genere _ piastrelle ceramiche ed in cemento _ cubetti di porfido _ plastiche industriale posate sui massetti cementizi

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5_ ANALISI DEL DEGRADO


Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

5.1 Individuazione delle lesioni caratteristiche Le fessurazioni. Il degrado di tipo meccanico si manifesta sulla pavimentazione attraverso delle fessurazioni di tipo longitudinale, trasversale e diagonale. Le fessure longitudinali si sviluppano lungo il lato parallelo alla strada, che coincide generalmente alla dimensione lunga della lastra. Possono essere più o meno profonde e lunghe, e all’interno di una lastra possono essere più di una e occupare qualsiasi posizione lungo la larghezza. Talvolta si estendono oltre la lastra di riferimento superficiale (da giunto a giunto) oltrepassando il giunto di ottone. Le fessure trasversali si formano secondo il lato corto della lastra, in posizione centrale e/o laterale. Possono essere più o meno profonde e lunghe. Le fessure diagonali sono inclinate rispetto ai lati della lastra. È stato riscontrata un’alta frequenza di fessure diagonali in presenza di bocche di lupo. Esse si diramano dagli spigoli della grata in ferro che chiude la bocca di lupo. Si trovano, comunque, anche del tipo “ad angolo”, che tagliano gli spigoli alle estremità dalla lastra. Le disgregazioni. Evoluzione delle fessurazioni. Le lesioni si evolvono sotto l’azione dei movimenti della lastra per effetto delle variazioni igrometriche, tendono ad aprirsi, a ramificarsi e a disgregarsi ai bordi. Questo tipo di ammaloramento si manifesta sottoforma di disgregazione superficiale a causa dell’impiego di aggregati gelivi, sporchi, o per eccesso di acqua nella miscela. Può prodursi anche in vicinanza dei giunti e risulta legato a cattiva esecuzione di questi, o a penetrazione di un corpo estraneo nel giunto1. Lacune. Un altro tipo di degrado sono le lacune che si manifestano indistintamente sulla superficie della pavimentazione. Si formano però più facilmente dove si hanno delle

1

Da Ferruccio Ragno,“Ammaloramenti e patologie delle sovrastrutture stradali”, L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI, n°254, da pag 48 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

concentrazioni di altri tipi di degrado o nelle zone più fragili, come ai bordi o in prossimità delle bocche di lupo. Si registra il distacco di pochi elementi della semina, ma poi la zona interessata si allarga per l’usura. Sollevamento. È presente in maggiore misura ai lati corti, in presenza del giunto, coinvolgendo tutta la lunghezza. A volte però si registra in innalzamento maggiore centrale. Un’altra forma, anche questa raramente ritrovabile, è quella dell’ingobbamento in prossimità dei contorni della lastra stessa. 5.2 Comportamento dei materiali 2 Verranno qui presentate le caratteristiche principali dei materiali utilizzati per costruzione delle pavimentazioni, sia nel passato,come le calci aeree ed idrauliche, sia oggi come le malte cementizie. L’obiettivo di questo capitolo è di presentare un quadro conoscitivo dei materiali per comprendere quanto incidano sul livello del degrado delle pavimentazioni e come eseguire gli interventi a seconda del tipo di materiale utilizzato.

5.2.1 Calci aeree 5.2.1.1 Preparazione delle calci aeree In base alla composizione chimica dei leganti, si distinguono calci grasse e calci magre: le prime si ottengono dalla cottura di calcari , le seconde dalla cottura di dolomie o di calcari dolomitici, e perciò vengono dette anche calci magnesiache. Occorre non confondere il concetto di calce grassa o magra con quello di malta grassa o magra: le malte grasse contengono infatti maggiori quantità di legante, mentre quelle magre ne hanno percentuali minori. Si possono cosi avere, ad esempio, malte grasse di calce magra, o viceversa.

2

La pavimentazione alla veneziana dei portici del centro storico di Bologna, laboratorio di Restauro Architettonico della facoltà di Ingegneria di Bologna, AA 2007/08, gruppo 4 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

La cottura per le calci aeree grasse La preparazione delle calci aeree (grasse) comincia con la cottura a 900°C di pietre calcaree. A tale temperatura il carbonato di calcio si trasforma tutto in ossido di calcio ( CaO) o calce viva , con emissione di anidride carbonica. La calce viva è un composto molto caustico, tende cioè ad idratarsi velocemente. Lo spegnimento per le calci aeree grasse Prima di essere usata deve essere spenta con acqua. Il sistema tradizionale di spegnimento consisteva nella preparazione del grassello. Le zolle di calce viva venivano messe a bagno con quantità d’acqua poco superiore a quella necessaria per idratarsi chimicamente. questa operazione dà luogo, con importante emissione di calore, alla calce spenta (Ca(OH) 2), cioè all’idrossido di calcio. Durante lo spegnimento la calce viva veniva molto impastata,oppure lasciata macerare a lungo, affinché la reazione fosse completa. Oggi sappiamo che l’idrossido di calcio ha una struttura cristallina , essendo costituito da individui di forma tabulare che esistono anche in natura, con il nome di portlandite. E interessante osservare come questo composto, a differenza della calcite di partenza e all’ossido di calcio, con una aggiunta limitata di acqua torni plastico. La calce spenta veniva conservata in fosse coperte d’acqua per proteggerla dal contatto con l’aria e per impedire la presa, per cui la quantità d’acqua presente era più del necessario e tale impasto veniva identificato col nome di grassello. Nel nostro secolo è stato introdotto un altro tipo di spegnimento, di tipo stechiometrico, cioè basato sulla combinazione di molecole di ossido di calcio e molecole di acqua, in quantità calcolate in base al peso. Non otteniamo un composto plastico quale era il grassello ma una polvere che sigillata, è facilmente commerciabile. La presa per le calci aeree grasse Durante la presa l’idrossido viene a contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera e provoca una carbonatazione , con altra emissione di calore, che causa la ricristallizzazione della calcite , di conseguenza ritorna alla durezza del calcare originario.

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

COTTURA SPEGNIMENTO

CaCO3 + 900°= CaO (calce viva o ossido di calcio) + CO2 CaO + H2O= Ca(OH) 2 (calce spenta o portlandite o idrossido di

calcio) PRESA

CaOH 2+ CO2= CaCO3(calcite) + H2O

La cottura per le calci aeree magre Analogamente alle calci aeree grasse la preparazione delle calci aeree magre ha luogo in seguito alla cottura di rocce magnesiache (calcari dolomitici o dolomite); la presenza del magnesio (sopra al 10%) dà meno plasticità e una presa più lenta al legante. Con temperatura pari a circa 900°C si ottengono ossido di calcio e ossido di magnesio (CaO e MgO), entrambi caustici, anche se il magnesio è meno aggressivo perché più lento è il suo processo di idratazione rispetto a quello del calcio. Lo spegnimento per le calci aeree magre Lo spegnimento della calce viva magra con acqua produce un grassello costituito da idrossido di calcio e idrossido di magnesio. L’idrossido di magnesio o brucite ha, analogamente alla calcite, un abito cristallino ma non è soggetto a comportamenti plastici. La presa per le calci aeree magre A contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera l’idrossido di calcio si trasforma in calcite, mentre l’idrossido di magnesio o resta tale o, più difficilmente , si trasforma in magnesite. Mantre l’idrossido di calcio non lega finchè non ha compiuto la carbonatazione, l’idrossido di magnesio, invece, è un composto già molto resistente. Ciò spiega perché le calci magnesiache fanno presa anche con poca anidride carbonica. Lo spegnimento dell’ossido di calcio e dell’ossido di magnesio avviene con emissione di molto calore, è cioè una reazione esotermica. La formazione degli idrossidi e della plasticità causa anche un notevole aumento di volume, che poi con la carbonatazione viene perso.3

3 A.Cagnana,

Archeologia dei materiali da costruzione, Mantova, Società Archeologica Padana,2000

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

COTTURA

CaMg(CO3 ) 2 + 900°= CaO + MgO+ CO2

SPEGNIMENTO

CaOMgO+ 2 H2O= Ca(OH) 2 + Mg(OH) 2

PRESA

Ca(OH) 2 + CO2= CaCO3 Mg(OH) 2 + CO2= MgCO3(magnesite)

5.2.1.2 Le malte di calce aerea L’aggregato L’aggregato che viene impastato col grassello è il componente che non reagisce e non cambia stato né volume, impedisce perciò al legante di spaccarsi durante la presa. Quest’ultima, infatti causa nel legante un ritiro di volume , e poiché avviene in tempi differenti per le parti esterne rispetto alle interne , può provocare la spaccatura del materiale. La miscela migliore è 1 parte di calce e 3-4 parti di inerte. Queste proporzioni variano però a seconda dello spessore della malta; quanto più è maggiore tanto più aumenta il ritiro ed è necessario l’aggregato. Per uno spessore maggiore di 2 cm l’aggregato deve costituire il75-80%. Fra la calce e gli inerti sono possibili legami fisici e chimici; i primi sono costituiti dalla penetrazione del legante nei pori , i secondi si stabiliscono in superficie fra i cristalli di calcite e i minerali che formano gli inerti. Questi legami hanno una resistenza più bassa di quelli interni ai cristalli stessi. Le malte si ottengono dalla miscela di grassello e inerte senza aggiunta di acqua. Le malte di calce aerea per indurire devono entrare in contatto con l’aria in tutto il loro spessore in modo che l’idrato di calcio possa reagire interamente con l’anidride carbonica. Perché ciò avvenga occorre che l’acqua lasci liberi i pori Di conseguenza l’umidità relativa dell’atmosfera deve essere bassa e non possono essere realizzati grandi spessori. 5.2.1.3 Proprietà meccaniche Carico a rottura(60gg)=1MPa Modulo elastico=2-3MPa ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

Coeff. Di dilataz.termica=5·10-6°C-1 Il carico a rottura è caratterizzato da un valore

basso perchè è probabile che la

carbonatazione a 60giorni non abbia ancora raggiunto l’interno del provino, viste le percentuali di anidride carbonica presente in aria (4%circa). 5.2.1.4 Proprietà fisiche Porosità:le malte di calce presentano notevole porosità di grandi dimensioni circa 10µm. La porosità dei materiali è fondamentale per determinare il comportamento del materiale rispetto all’acqua. Quando un materiale caratterizzato da macroporosità e idrofilo è bagnato, è raro che il volume dei pori sia totalmente riempito, poiché l’acqua tende ad aderire alle superfici del poro, mentre lo spazio interno resta libero. Questa caratteristica fa si che l’acqua penetrata all’interno dei pori non produca particolari meccanismo di degrado di tipo fisico. 4 5.2.1.5 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado 1_ Presenza di calce viva non spenta: i granuli di calce viva reagiscono con l’acqua lentamente (diverse settimane) e con aumento di volume a causa del fatto che

il

prodotto di idratazione (l’idrossido di calcio) ha un volume maggiore dell’ossido di partenza. Se il tenore di calce libera è elevato, l’effetto è microscopicamente espansivo, con formazione di rigonfiamenti e fessure. 2_ Presenza di carbonato di calcio: _meccanismo di degrado A: quando l’acqua piovana ricca di anidride carbonica non scorre ma ristagna si ha la bicarbonatazione del legante. L’acqua penetra attraverso cavillature e provoca un aumento di dimensioni perché assorbita nel legante che non ha ancora terminato la presa negli strati più profondi. CaCO3+H2CO3=Ca(HCO3) 2 (bicarbonato di calce solubile e più voluminoso) _meccanismo di degrado B: per la calce aerea il ristagno di piogge contenenti anidride solforosa ( piogge acide) porta alla formazione della cosiddetta crosta nera a base di

4

G. Torraca, Lezioni di scienza e tecnologia dei materiali per il restauro dei monumenti, Universita degli studi di Roma La Sapienza, Scuola di specializzazione in restauro dei monumenti, Roma, 2002 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

solfato che, se cristallizza all’interno, aumenta di volume e finisce per disgregare il materiale. _meccanismo di degrado C: la presenza di una corrosione a meandri infine è indice dell’azione di colonie biologiche, che attaccano la superficie dei carbonati. 5.2.2 Calci idrauliche 5.2.2.1 Preparazione delle calci idrauliche La cottura Le calci idrauliche sono leganti che fanno presa in assenza di aria . Si ottengono dalla cottura di calcare marnoso contenente argilla fra il 10-25% oppure con aggiunte ricche di silicati e alluminati. Tali aggiunte sono frammenti di laterizio o altri prodotti ceramici che conferiscono alla malta il colorito rossastro e valgono la definizione di cocciopesto. Altre sostanze contenenti silicati o alluminati sono la pozzolana, una terra di origine vulcanica. La presa La presa avviene per reazione con l’acqua. I prodotti sono : silicato idrato di calcio (noto come torbemorite) e idrato di calce (calce libera) che rende basico il materiale durante la presa. La basicità della calce indurita viene progressivamente neutralizzata dalla carbonatazione provocata dall’anidride carbonica dell’aria, la stessa reazione che costituisce la presa per le calci aeree. Anche il silicato idrato viene decomposto durante la carbonatazione formando carbonato di calcio e silice amorfa. La calce idraulica completa la presa in tempi di gran lunga brevi dai 4 ai 30gg5 .

COTTURA INDURIMENTO PRESA

CĈ+AS+1000°= C2S+A+Ĉ C2S+H= CSH+CH CSH+CH+Ĉ= CĈ+SH +H

5.2.2.2 Le malte di calce idraulica

5

Formule abbreviate SiO2=S Al2O3=A

H2 O=H

CaO=C

CO2=Ĉ

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

La quantità di inerte da usare per l’impasto delle calci idrauliche è maggiore rispetto alle calci aeree. Gli inerti per lo più usati sono sabbie silicee. La quantità d’acqua è variabile secondo il tipo di lavoro che si deve eseguire. 5.2.2.3 Proprietà meccaniche Carico a rottura(60gg)=20MPa Modulo elastico=9MPa Coeff. Di dilataz.termica=8·10-6°C-1 5.2.2.4 Proprietà fisiche e possibili meccanismi di degrado Porosità:conpresenza di micropori e macropori. Quando il materiale è bagnato i pori microscopici sono riempiti mentre nei pori grandi le superfici sono ricoperte da uno strato di acqua ma buona parte dello spazio interno è libero. I processi di degrado fisico derivanti dalla porosità del materiale sono: _meccanismo di degrado A: i materiali si dicono gelivi se sono sensibili all’azione dei cicli di gelo e disgelo. Quando la temperatura scende sotto lo zero la formazione di ghiaccio all’interno di un materiale poroso bagnato può causare tensionamenti tali da danneggiarlo. In particolare tale fenomeno risulta dannoso se il volume dell’acqua supera il 91% del volume dei pori; in tal caso non vi è spazio sufficiente per consentire la dilatazione del ghiaccio e le zone circostanti ai pori sono soggette a sollecitazioni di compressione, che producono rotture e disgregazioni. _meccanismo di degrado B:in un’atmosfera non satura di umidità l’acqua dei pori superficiali della pasta cementizia evapora;una parte dell’acqua presente nella parte interna tende a migrare verso la superficie, così da distribuirsi in modo omogeneo nella massa del conglomerato. L’acqua che evapora dalla superficie abbandona su questa le sostanze disciolte , ossia Sali solubili in genere, in forma di minuti cristalli che determinano la patina bianca nota con il nome di efflorescenza.

In caso di elevate

velocità di evaporazione, associate a tempo secco e ventoso, il velo liquido dei pori può spostarsi dalla superficie all’interno del legante, e l’evaporazione e il deposito di Sali si possono verificare nei pori;in questo caso si parla di subflorescenze. Queste ultime hanno un effetto degradante per il materiale dovuto alla pressione di cristallizzazione dei Sali all’interno dei pori. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Capitolo 5 Analisi del degrado ____________________________________________________________________________________

5.2.2.5 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado 1) Presenza di calce spenta: se la calce spenta non ha completato la presa, ed è facile che ciò avvenga negli strati più profondi allora l’anidride carbonica dell’aria è capace di penetrare nei pori della pasta e combinarsi con la calce di idrolisi. La reazione porta la formazione di carbonato di calcio. Questo fenomeno di trasformazione dell’idrossido in carbonato di calcio si chiama “carbonatazione” e provoca un modesto ritiro. 2) Presenza di carbonato di calcio: come per le calci porta la formazione di bicarbonato di calcio che è solubile o disgregazione a causa dei solfuri. 3)Presenza di calce viva non spenta (ossido di calcio): come per le calci, in presenza d’acqua comporta rigonfiamenti e fessurazioni. 4) Presenza di ossido di magnesio: può derivare da impurezze presenti nelle materie prime. La sua presenza comporta fenomeni espansivi analogamente all’ossido di calcio.6

5.2.3 Il cemento 5.2.3.1 Preparazione Il cemento viene preparato da miscele di calcare e argilla, come la calce idraulica, però aumentando la quantità di argilla e a temperatura più alta. Durante la cottura gran parte del materiale cotto fonde e, raffreddandosi improvvisamente, forma un vetro, detto clinker. Il clinker viene macinato insieme ad una certa quantità di gesso (5%)che permette di ridurre la velocità di presa quando la polvere di cemento entra in contatto con l’acqua. La temperatura di cottura più alta porta alla formazione del silicato tricalcico che è molto più reattivo del silicato bicalcico perciò la reazione del cemento con l’acqua è molto più veloce di quella della calce idraulica.

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E.Mariani, Leganti:aerei e idraulici, Milano,Casa Editrice Ambrosiani, 1976

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La presa La presa è determinata dalla formazione dei silicati idrati di calcio (CSH) e degli alluminati idrati di calcio (CAH). I granuli di clinker in una prima fase si rigonfiano formando un involucro gelatinoso intorno a sé;ad un certo punto dagli involucri esce un gran numero di fibre (almeno in parte cristalline) di CSH che, propagandosi in tutte le direzioni, determinano l’indurimento. Il gesso ritarda la reazione di presa formando ettringite che riveste i grani di clinker ostacolando la penetrazione dell’acqua.

COTTURA PRESA

CĈ+AS+1000°= C3S+ C2S+ C3A+ C4AF C3S+ C2S+ C3A+ H=CSH+CAH+CH

5.2.3.2 Proprietà meccaniche e possibili meccanismi di degrado Carico a rottura(60gg)=25MPa Modulo elastico=30MPa Coeff. Di dilataz.termica=2,9·10-6°C-1 _ meccanismo di degrado A: Studi effettuati hanno mostrato che il comportamento sotto sollecitazione meccanica del calcestruzzo è strettamente connesso con l’esistenza, la formazione e la propagazione di finissime fessure all’interfaccia fra la pasta di cemento e le particelle più grosse di aggregato. In particolare, è stata dimostrata la possibilità di applicare al cls il criterio di Griffith per la frattura. Le microfessure presenti nei materiali fragili generano delle concentrazioni di sollecitazione che portano a rottura i materiali. Nel calcestruzzo le microfessure esistono sempre; ciò è dovuto , in assenza di carico, al fatto che la pasta legante, a differenza dell’inerte, ha delle variazioni dimensionali dovute al ritiro; sono inoltre presenti piccoli ristagni d’acqua di bleeding al di sotto di elementi di aggregato che, a indurimento avvenuto, vengono a costituire delle discontinuità o fessure. L’applicazione del carico produce la crescita delle fessure e ne provoca delle altre. _ meccanismo di degrado B: un altro fenomeno di degrado del cls è l’abrasione della superficie. Essa è in genere l’effetto del rotolamento di ruote o del trascinamento di ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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materiali sulla superficie del cemento; la situazione tipica è quella delle pavimentazioni stradali o industriali . l’effetto consiste nel danneggiamento localizzato della pelle del calcestruzzo, che progredisce con l’irruvidimento e lo sgretolamento del materiale. _ meccanismo di degrado C: sottoponendo un calcestruzzo sotto carico variabile o costante si manifesta progressivamente nel tempo una deformazione detta deformazione viscosa o creep. La deformazione iniziale è elastica, poi c’è aumento del modulo elastico. Secondo la teoria di Powers: se le particelle sono a distanza fissa o sono costrette ad avvicinarsi, come avviene per effetto della sollecitazione esterna, tale pressione aumenta,causando un flusso d’acqua verso le regioni circostanti in cui la distanza tra le particelle è maggiore. Questi flussi d’acqua avvengono lentamente e comportano una ridistribuzione spaziale delle particelle di cemento che microscopicamente è rilevata come deformazione viscosa.

ANNI 1 CREEP 1

2 1

5 1,2

10 1,26

20 1,33

30 1,36

5.2.3.3 Proprietà fisiche e possibili meccanismi di degrado Porosità:è costituita sia da micropori che macropori. In particolare i pori di piccole dimensioni sono localizzati tra le particelle del gelo, si dicono pori del gelo, gli altri sono localizzati negli spazi più distanti dai granuli di cemento anidro, che non vengono riempiti dal gel, ed hanno dimensioni nettamente superiori a quelle dei pori del gelo. _ meccanismo di degrado A: quando il calcestruzzo è mantenuto costantemente in acqua o a U.R. maggiore del 95% si può verificare un aumento di volume. E’ dovuto al fatto che l’acqua assorbita dal gelo di cemento agisce contro le forze coesive e tende ad allontanare le particelle solide. _ meccanismo di degrado B: per U.R. minore del 95% si può verificare un ritiro da essiccamento che si manifesta in misura maggiore nei primi anni di vita del menufatto. Tale ritiro può causare fessurazioni. Gli elementi con superfici estese tendono a cedere all’ambiente più facilmente l’acqua; se sono presenti vincoli che ne ostacolino la contrazione, come per esempio l’attrito con altre superfici possono generarsi ritiri

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differenziali o impediti. Questi sono a loro volta causa di tensioni di trazione e quindi della comparsa di fessurazioni da ritiro. Se, a causa dei vincoli si creano fenomeni di ritiro differenziale allora ad essi si sovrappongono fenomeni di deformazione viscosa. _ meccanismo di degrado C:Il calcestruzzo è costituito da elementi (pasta di cemento e aggregati) che presentano coefficienti di dilatazione termica diversi. La pasta di cemento presenta un coefficiente di dilatazione termica pari a 9.5x10-6 °C-1, mentre gli aggregati presentano valori che possono variare da 11x10-6°C-1 se silicei, a 5x10-6°C-1 se calcarei. Una variazione di temperatura, ad esempio fra 10°C e 40°C, induce quindi uno stato di sollecitazione nell’interfaccia pasta-aggregato, soprattutto per impasti con aggregati calcarei. Tali sollecitazioni sono comunque trascurabili rispetto a quelle indotte da variazioni cicliche di temperatura intorno a 0°C in calcestruzzi saturi d’acqua. Infatti quando l’acqua congela il suo volume aumenta di circa il 9% ed è in grado di provocare una pressione capace di distruggere progressivamente il calcestruzzo, soprattutto se il fenomeno si ripete ciclicamente, per effetto di una tipica rottura a fatica. L’azione alternata dei cicli di gelo e disgelo può provocare danni molto gravi nelle strutture di opere marittime, idrauliche ed autostradali situate in climi molto rigidi. Il fenomeno di degrado si manifesta sotto forma di fessurazioni, sfaldamento e distacchi superficiali. Affinché si manifesti il degrado è necessario che il grado di saturazione superi il 91,7%. In queste condizioni l’aumento di volume dell’acqua provocato dal congelamento non è più in grado di essere contenuto all’interno dei pori non ancora saturi d’acqua. L’esperienza ormai consolidata sulle strutture in calcestruzzo esposte all’azione dei cicli di gelo e disgelo, ha evidenziato che la durabilità di queste opere è legata al rispetto dei seguenti principi : _ inglobare aria nel calcestruzzo mediante additivi aeranti; _ impiegare aggregati non gelivi; ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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_ ridurre il rapporto acqua/cemento. 5.2.3.4 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado I processi di degrado chimico sono analoghi a quelli che avvengono nelle calci idrauliche vista la composizione simile. 1_ Presenza di alluminato tricalcico: Tra gli agenti aggressivi del calcestruzzo i solfati sono indubbiamente i più pericolosi, sia per la frequenza che per le conseguenze di degrado che possono arrecare. L’attacco solfatico si manifesta attraverso il rigonfiamento esagerato del conglomerato, di entità tale che possono verificarsi fessurazioni o distacchi di materiale. Tale rigonfiamento non si esplica omogeneamente in tutta la struttura , ma si localizza essenzialmente sulle zone corticali del calcestruzzo che sono a contatto con i solfati provenienti dall’ambiente esterno. Le reazioni distruttive del calcestruzzo dovute alla presenza di solfati nell’ambiente sono fondamentalmente tre : • la formazione di gesso bi-idrato • la formazione di ettringite • la formazione di thaumasite L’idrossido di calcio (Ca(OH)2- sempre presente nel calcestruzzo in quanto prodotto dalla reazione tra l’acqua di impasto ed i silicati di calcio del cemento) in presenza di solfati, viene trasformato, con aumento di volume, in gesso bi-idrato (CaSo4(2H2O)) con conseguente fessurazione e deterioramento della struttura. La formazione di thaumasite avviene in particolari condizioni ambientali : climi freddi (0-5°C), umidi (UR >95%), e ricchi di anidride carbonica ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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(CO2). In tali condizioni l’effetto è molto devastante e decisamente più deleterio che non quello provocato dalla formazione di ettringite : la formazione di thaumasite è accompagnata dallo spappolamento del calcestruzzo che diviene un materiale incoerente mentre la formazione di ettringite dà luogo a fessurazioni e distacchi di frammenti di calcestruzzo ancora. La diagnosi dell’attacco solfatico può essere effettuata, oltre che dall’esame visivo dello stato della struttura, con una semplice analisi chimica quantitativa del contenuto di solfati nel calcestruzzo Normalmente nelle strutture in calcestruzzo è sempre presente una certa quantità di solfato, conseguente alla presenza di solfato di calcio nel cemento come regolatore di presa. Tale contenuto fisiologico varia fra 0,4% e 0,6% rispetto al peso del calcestruzzo. Se dall’analisi chimica risulta che il contenuto di solfati nel calcestruzzo è decisamente superiore allo 0,6% del peso è sintomo di un attacco solfatico in corso. 2_ Presenza di calce spenta:nella pasta di cemento è presente idrossido di calcio che è capace di reagire con la CO2 atmosferica. La carbonatazione della calce in carbonato di calcio produce un ritiro. L’entità della carbonatazione dipende dall’umidità dell’ambiente e dal grado di saturazione della pasta. Infatti, se i capillari sono vuoti l’anidride carbonica entra facilmente nel calcestruzzo ma poi la reazione con la calce , che richiede la preventiva dissoluzione dell’anidride nell’acqua con formazione di acido carbonico avviene molto lentamente. Se invece i capillari sono saturi , l’anidride può penetrare nella pasta solo per diffusione nella fase acquosa e quindi lentamente. A gradi intermedi di saturazione , si verifica la situazione più favorevole, che cioè i capillari non saturi consentono sia l’agevole penetrazione dell’anidride sia la sua reazione con la calce. Le fessure prodotte da carbonatazione si riscontrano sulle superfici facciavista di calcestruzzi a elevato dosaggio di cemento, ove assumono l’aspetto di un reticolo di fini cavillature “a carta geografica”. 3_ Presenza di carbonati : come per le calci un eventuale attacco acido porta la formazione di bicarbonato di calcio che è solubile.

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4_ Presenza di calce viva non spenta (ossido di calcio): come per le calci, in presenza d’acqua comporta rigonfiamenti e fessurazioni. 5_ Presenza di ossido di magnesio: come per le calci può derivare da impurezze presenti nelle materie prime. La sua presenza comporta fenomeni espansivi analogamente all’ossido di calcio. 6_ Presenza di aggregati contenenti silice reattiva: gli aggregati contenenti silice reattiva possono dar luogo alle reazioni alcali-silice che si manifestano in più forme: _ sulla superficie dei pavimenti industriali, ove forma il cosiddetto pop-out;un granulo di aggregato reattivo reagisce espandendosi o formando un prodotto di reazione espansivo, provocando così il distacco di una scheggia a forma di cono dalla superficie. _ si può in alternativa manifestare con la formazione di fessure parallele al lato lungo dei manufatti; questa caratteristica delle fessure ne consente il riconoscimento, e permette di distinguerle dalle fessure da ritiro idrometrico che si formano invece parallelamente al lato corto dei manufatti. Questo tipo di fessure può raggiungere aperture dell’ordine di una decina di millimetri. Un ulteriore segno di riconoscimento delle fessure causate da reazioni alcali-silice risiede nel fatto che esse si formano in genere non prima di sei mesi dall’esecuzione delle opere. La presenza di cloruro di sodio in un ambiente umido può provocare un grave peggioramento dello stato del materiale. 7_ Presenza di inerti reattivi: La loro presenza unita alla presenza di cloruri nell’ambiente può comportare fenomeni di fessurazioni. Il cloruro è presente in natura nell’acqua del mare o artificialmente nei sali disgelanti per rimuovere il ghiaccio. Le strutture che possono essere soggette all’azione di degrado prodotta dal cloruro risultano quindi le strutture marine e tutte le opere stradali, autostradali, aeroportuali e le pavimentazioni in genere.

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Anche il cloruro di calcio, al pari del cloruro di sodio, oltre a provocare la corrosione dei ferri di armatura è in grado di danneggiare gravemente il calcestruzzo. Il calcestruzzo a contatto con il cloruro di calcio tende a fessurarsi e delaminarsi a causa della disintegrazione della pasta di cemento, più specificatamente sul Ca(OH)2 in essa contenuto, per formare ossicloruro di calcio idrato.7

5.2.3.5 Approfondimento: formazione di ettringite L’ ettringite gioca più ruoli nel determinare il comportamento del calcestruzzo. A seconda delle circostanze e delle condizioni la sua formazione può essere benefica o negativa. Da un punto di vista chimico l’ettringite è un trisolfo-alluminato di calcio idrato: 3CaO•Al2O3•3CaSO4•32H2O. Tuttavia il suo comportamento ed i suoi effetti sulle prestazioni del calcestruzzo sono poco correlabili con la sua composizione chimica, quanto piuttosto con le modalità ed i tempi di formazione. IL RUOLO POSITIVO: L'ETTRINGITE PRIMARIA La formazione di ettringite svolge sicuramente un ruolo positivo nella regolazione della presa del cemento portland. Quest’ultimo è sostanzialmente costituito da due componenti: il clinker, che deriva dalla cottura delle materie prime e che contiene una miscela di silicati e alluminati (C3S, C2S, C3A e C4AF), ed il gesso (CaSO4•2H2O) che viene aggiunto, in misura di circa il 5%, nel mulino di macinazione del cemento. In assenza di gesso, il clinker (ed in particolare un suo componente molto reattivo: il C3A) provocherebbe una presa così rapida (subito dopo la miscelazione con acqua) da rendere impraticabile il trasporto del calcestruzzo. La presa rapida è associata alla trasformazione del C3A in lamine esagonali di alluminati di calcio idrati C-A-H. La 7

V.A.Rossetti, Il calcestruzzo:materiali e tecnologia, Milano, McGrawHill, 2003

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funzione del gesso è quella di reagire proprio con il C3A in presenza di acqua provocando il deposito di ettringite (in forma di una pellicola che avvolge la superficie del C3A) ed arrestando momentaneamente, o comunque ritardando fortemente, l’ulteriore idratazione del C3A e la formazione di C-A-H. Il risultato di questo processo, altamente positivo, è quello di far avvenire la presa del cemento in un tempo più lungo (almeno un’ora) e di consentire le operazioni di miscelazione, di trasporto, e di getto del calcestruzzo in tutta tranquillità. Per comodità definiremo primaria questa ettringite che si forma nella fase della presa del cemento. La formazione della pellicola di ettringite - che in realtà è assimilabile ad un feltro di minutissimi cristalli aghiformi - è però accompagnata da un aumento di volume, derivante dal fatto che l’ettringite è più voluminosa rispetto ai prodotti (C3A, acqua e gesso) che la generano. Se la formazione di ettringite è limitata e si esaurisce in breve tempo, cioè se si manifesta all’interno di un sistema deformabile (come è il calcestruzzo soprattutto nella fase plastica nelle prime ore di vita), allora l’incremento di volume, oltre ad essere modesto, non provoca sostanzialmente tensioni all’interno del materiale. Se, invece, la formazione di ettringite fosse abbondante e si protraesse per molto tempo (quando ormai il calcestruzzo è diventato molto rigido), allora l’aumento di volume potrebbe provocare pericolose tensioni con conseguenti fessurazioni dei manufatti cementizi. Questo diverso comportamento (assenza o meno di fessurazioni) è in qualche modo assimilabile a quello di un contenitore, pieno d’acqua, posto in un congelatore: la formazione di ghiaccio, anch’essa accompagnata da aumento di volume, provoca la fessurazione di un contenitore rigido in vetro, ma non di un contenitore deformabile in gomma. In pratica, per assicurare che la formazione di ettringite non provochi tensioni pericolose all’interno di un calcestruzzo rigido, occorre limitare il quantitivo di gesso aggiunto in macinazione allo stretto indispensabile, per la regolazione della presa, in modo tale che la formazione stessa di ettringite si esaurisca nel minor tempo possibile (al massimo entro un giorno) e sia comunque in quantità limitata. IL RUOLO NEGATIVO: L'ETTRINGITE SECONDARIA Ciò comporta, però, che buona parte del C3A rimanga - per difetto di gesso - al di sotto della pellicola di ettringite. Questo C3A residuo completerà successivamente, quando ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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ormai il calcestruzzo è stato messo in opera, la sua conversione in C-A-H per lenta diffusione dell’acqua attraverso la pellicola superficiale di ettringite. Il quadro ora descritto (che riguarda il controllo della presa del cemento e quindi la possibilità pratica di gettare il calcestruzzo entro tempi ragionevolmente lunghi) lascia, tuttavia, aperta una possibilità di rischio.

a) Ingresso dall'ambiente nel calcestruzzo di ioni solfatici (SO4-2); b) Reazione dello ione SO4= con la calce presente nel calcestruzzo e formazione di gesso: acqua SO4-2 + Ca(OH)2 CaSO4·2H2O + 2OH [1] ======> (Calce) (gesso) c) Reazione del gesso di neo-formazione con gli alluminati idrati del cemento (C-A-H) e produzione di ettringite secondaria: Ca SO4·2H2O + C-acqua 3CaO·Al2O3·3CaOSO4· 32H2O [2] A-H ======> Questo consiste nel fatto che la formazione di nuova ettringite, che definiremo secondaria, possa essere ri-alimentata a seguito di ulteriore gesso formato in situ per ingresso di solfati provenienti dall’ambiente. E’ questo tipo di ettringite (cioè quello formato a tempi lunghi per interazione del materiale con l’ambiente, ed in particolare tra il C-A-H del calcestruzzo in servizio con il solfato ambientale) che può provocare danni severi sotto forma di fessurazioni, delaminazioni e distacchi del calcestruzzo (Fig. 2). Questo tipo di degrado è noto con il nome di attacco solfatico ed è associato principalmente (ma non solo) con la formazione di ettringite secondaria. Semplificando, l’attacco solfatico - che porta alla formazione di ettringite secondaria - può essere schematizzato con la successione di tre eventi (a, b, e c) come è mostrato in Tabella 1. Come si può vedere, la formazione di ettringite secondaria all’interno del calcestruzzo in servizio, quando è esposto in un ambiente solfatico, richiede la sequenza di tre eventi (a,b,e c). Da un punto di vista pratico, per impedire o almeno attenuare il degrado del calcestruzzo per effetto dell’attacco solfatico, è necessario bloccare almeno uno, possibilmente due, e preferibilmente tutti e tre gli eventi che portano alla formazione di ettringite secondaria. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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SOLUZIONI a) Impedire l’ingresso del solfato Il modo più efficace per prevenire l’attacco solfatico consiste nel bloccare l’evento a, cioè nell’impedire che il solfato ambientale entri nel calcestruzzo. E’ evidente, infatti, che se il solfato non penetra nel calcestruzzo non possono verificarsi nè il secondo evento (formazione di gesso), nè tanto meno il terzo (formazione di ettringite). Ci sono due metodi (A e B), in pratica, per predisporre una barriera all’ingresso del solfato - come in qualsiasi altro agente aggressivo ambientale all’interno del calcestruzzo. A) Il primo metodo consiste nel confezionare un calcestruzzo poco poroso, o comunque caratterizzato da un sistema poroso discontinuo, che impedisca - attraverso la segmentazione dei pori - l’accesso del solfato verso l’interno del materiale: in pratica, per ridurre la porosità ed impedire l’ingresso del solfato, si ricorre all’adozione di bassi rapporti acqua/cemento (a/c) che predispongano, dopo un’accurata stagionatura umida, la formazione di una pasta cementizia impermeabile all’acqua e quindi di fatto impenetrabile dai solfati . In pratica, il vincolo nel non superare un certo rapporto a/c, e creare quindi una efficace barriera all’ingresso dei solfati, dipende dalle entità della forza motrice che sospinge i solfati dall’ambiente dentro il calcestruzzo. Questa forza motrice è tanto più intensa, quanto maggiore è la concentrazione del solfato nell’ambiente. Pertanto, la barriera all’ingresso del solfato deve essere tanto più efficace (cioè il rapporto a/c deve essere tanto più basso), quanto maggiore è la concentrazione del solfato nell’ambiente che circonda il calcestruzzo. B) Il secondo metodo di prevenzione all’ingresso del solfato consiste nel proteggere superficialmente la superficie del manufatto con un rivestimento impermeabile che impedisca l’accesso di acqua nel calcestruzzo (il solfato, anche se presente in un terreno, è comunque sempre veicolato da un mezzo acquoso): questo tipo di prevenzione, che peraltro non sempre può essere realizzato (per esempio nei getti contro terra), presenta l’inconveniente che il rivestimento protettivo può distaccarsi nel tempo a seguito delle escursioni termiche ambientali. Tuttavia, questo provvedimento si rende indispensabile - ove sia attuabile - quando l’attacco solfatico sia già iniziato per carente ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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qualità (eccessiva porosità) del calcestruzzo ormai gettato, o laddove la elevatissima concentrazione del solfato nell’ambiente (> 6000 mg/kg) richieda un trattamento di impermeabilizzazione superficiale del manufatto in aggiunta all’altro provvedimento che riguarda il rapporto a/c. b) Impedire la formazione di gesso In aggiunta - e non in alternativa - al metodo a) per impedire l’ingresso del solfato, si può tentare di ridurre la quantità di calce nel calcestruzzo. Conseguentemente diminuisce la quantità di gesso che si forma secondo il processo [1]. Questo accorgimento - comunque raccomandabile, ancorché non cogente in base alla normativa - consiste nell’impiegare cementi d’altoforno (CEM III), pozzolanici (CEM IV) o compositi (CEM V). Questi cementi - grazie alla presenza di pozzolana e/o loppa riducono significativamente la quantità di calce libera nel calcestruzzo. La diminuzione di calce, e quindi di gesso formato in situ, comporta ovviamente un minor rischio di formazione di ettringite alimentata dal gesso secondo il processo [2]. Val la pena di precisare che la semplice adozione dei cementi sopra menzionati, in luogo del cemento portland, non è in grado di assicurare la durabilità del manufatto in assenza di un ridotto rapporto a/c. c) Impedire la formazione di ettringite Per la produzione di ettringite è indispensabile che accanto al gesso - formatosi a seguito del processo [1] - sia presente la fase C-A-H. La riduzione, o la completa eliminazione del C-A-H, impedirebbe teoricamente la produzione di ettringite ancorchè il solfato sia penetrato nel calcestruzzo (evento a) ed abbia reagito con la calce (evento b). Per questo motivo, in passato, si è ritenuto di poter prevenire il degrado da attacco solfatico semplicemente impiegando un cemento povero o privo ci C3A (cemento ferrico) e quindi capace di produrre una quantità rispettivamente minima o nulla di C-AH. In realtà, anche in assenza di C3A rimangono comunque nel cemento dei componenti vulnerabili - sia pure, rispetto al C3A, in misura minore - al solfato e al gesso. Infatti, anche i prodotti di idratazione del C4AF (un altro alluminato presente nel clinker) sono suscettibili di trasformazione in ettringite, mentre i prodotti di idratazione dei silicati (CS-H) possono generare, in presenza di gesso, la formazione di thaumasite, un prodotto ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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ancor più devastante dell’ettringite. Pertanto, l’impiego di un cemento a basso tenore di C3A - spesso considerato un cemento di per sé resistente ai solfati - è una opzione raccomandabile in aggiunta agli altri più importanti accorgimenti - in particolare quello di adottare un basso rapporto a/c - per la prevenzione dell’attacco aggressivo soprattutto quando la concentrazione del solfato nell’ambiente supera una certa soglia critica (500 mg/kg per le acque e 3000 mg/kg per i terreni).

5.2.4 Le resine 5.2.4.1 Preparazione Le resine sono materiali compositi a matrice organica termoindurenti. Materiali di matrice:qualunque materiale strutturale può essere utilizzato come matrice in un composito purchè esso sia compatibile con le fibre che si intende conglobare al suo interno. Questo significa che non ci deve essere reazione chimica tra materiali di fibra e di matrice ma soprattutto che le fibre i i rinforzi particellati devono poter essere correttamente inseriti entro la matrice, senza alterazione della loro natura. In particolare, per la sistemazione delle fibre o delle particelle, la matrice deve essere allo stato più o meno fluido e solo in un secondo momento deve poter acquistare consistenza per raffreddamento , per reazione chimica , per miscelazione. Matrice organica: _ termoplastiche _ termoindurenti(resine poliesteri, epossidiche, fenoliche,…) Le resine epossidiche appartengono dunque alla categoria dei termoindurenti. Esse hanno un esteso utilizzo nel campo delle costruzioni e in particolare del ripristino. Sono ottenute miscelando in cantiere un prepolimero, prodotto in un impianto di polimerizzazione, con un componente detto indurente o, impropriamente, catalizzatore. In effetti sarebbe più corretto non riservare il nome di resina epossidica al polimero finale, ma piuttosto al prepolimero iniziale che può avere un grado di polimerizzazione n variabile.

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Come si è visto all’aumentare di n i prepolimeri epossidici diventano dei liquidi sempre più viscosi, e nei casi estremi possono diventare anche dei solidi, che per poter essere impiegati nell’ambito del sistema epossidico devono essere sciolti in un solvente. 8 5.2.4.2 proprietà meccaniche Le proprietà del sistema epossidico ottenuto dopo indurimento variano in funzione: del grado di polimerizzazione della resina epossidica di partenza ( diminuendo la lunghezza della catena del pre-polimero si ottengono dei sistemi epossidici più rigidi per la presenza di un maggior numero di legami tra la resina epossidica e l’indurente); del tipo di indurente (esiste un numero considerevole di indurenti con composizioni chimiche difeerenti); dall’eventuale aggiunta di additivi (diluenti, flessibilizzanti, acceleranti, ecc.) e di riempitivi. Le proprietà meccaniche possono essere così riassunte: deformabilità plastica praticamente nulla, fenomeni di viscoelasticità trascurabili, buone caratteristiche meccaniche anche a temperature elevate. E=590Kg/cm2 Coeff. Di dilat. termica=20 10-6/°C Carico a rottura= 350-400Kg/cm2 5.2.4.3 Proprietà fisiche 1) Impermeabilità:Una caratteristica dei sitemi epossidici è la quasi impermeabilità all’acqua; pertanto evitano la penetrazione di acqua dalla superficie a cui sono applicati. Tuttavia, impediscono anche l’evaporazione dell’acqua inizialmente contenuta del rivestimento per effetto della pressione esercitata dall’acqua evaporata. 5.2.4.4 Proprietà chimiche e possibili meccanismi di degrado Queste resine termoindurenti, introdotte sul mercato alla fine degli anni ’40,presentano una straordinaria combinazione di proprietà favorevoli, fra le quali una ottima resistenza chimica e meccanica, una buona stabilità dimensionale e soprattutto una eccellente adesione ad una vastissima gamma di substrati. 8

L.Cini, Tecnologia dei materiali e chimica applicata: i materiali metallici, la corrosione, i materiali plastici, Bologna, Cooperativa Libraria Universitaria, 1976 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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1) Resistenza agli agenti chimici:I sistemi epossidici hanno un’ottima resistenza alla maggior parte degli agenti chimici che degradano i materiali da costruzione. 2) Adesione ai materiali di fibra (vetro, metalli, ceramici,ecc.):l’adesione delle resine epossidiche di matrice al materiale di fibra risulta estremamente alta, tale da avvicinare la coesione della stessa resina : si può dire che , la resistenza del giunto può superare quella dei due materiali coinvolti.

Tabella riassuntiva: CALCE AEREA Carico a rottura a flesso-trazione (Kg/cm2) Carico a rottura a compressione (Kg/cm2) Modulo elastico (GPa) Coeff. Di dilataz. Termica (°C-1)

CALCE IDRAULICA

CEMENTO

RESINE EPOSSIDICHE

1

10-20

20-50

150

10

200

250

400

2-3·104

9·104

5·10-6

8·10-6

20-30·104 29·10-6

20·104 20·10-6

5.3 Le possibili cause del degrado a livello macroscopico 5.3.1 Premessa E’ necessario ricordare, in prima istanza, che al degrado degli elementi architettonici non partecipa quasi mai una singola causa perturbatrice, ma sono sempre più cause che portano alla lesione del materiale di cui l’elemento è costituito. In questo senso è più opportuno parlare di con-cause perturbatrici: la loro azione contemporanea infatti facilita il degrado stesso. Se infatti esiste sempre una corrispondenza biunivoca tra lesione e sollecitazione (per questo la lesione è detta caratteristica, ovvero caratteristica della sollecitazione), così non è per il rapporto che intercorre tra lesione e cause perturbatrici, le quali sono condizioni necessarie ma non sufficienti alla definizione della lesione che hanno prodotto.

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Si analizzeranno ora le possibili concause responsabili del degrado ricorrente nelle pavimentazioni dei portici. 5.3.2 Subsidenza Per subsidenza si intende ogni movimento di abbassamento verticale della superficie terrestre indipendentemente dalla causa che lo ha prodotto, dal suo sviluppo reale, velocità di esplicazione, evoluzione temporale e dalle alterazioni ambientali che ne conseguono.9 L’abbassamento del suolo può essere dovuto a cause naturali, tettonica, isostasia, carico geostatico, modifiche dello stato fisico, o legato ad attività antropiche, quali sottrazioni di carichi, applicazioni di carichi, bonifiche e vibrazioni. Dallo stato dell’arte della ricerca, in particolare dalla tesi di laurea del Dott. Ing. Marilena Gabriele, si evince che al variare dell’angolo d’incidenza che le linee di abbassamento formano con l’asse longitudinale, il grado di lesione non varia. Per questo è difficile collegare le lesioni prodotte nelle pavimentazioni dei portici al fenomeno della subsidenza in quanto risulta un fenomeno macrospico a larga scala non capace di spiegare il particolare degrado presente. Pertanto si ritiene questo tipo di causa non incisiva sul degrado delle pavimentazioni dei portici. 5.3.3 Vibrazioni da traffico In questa analisi si è ritenuto opportuno approfondire il problema dell’influenza delle vibrazioni dovute a traffico pesante che attraversa il centro storico, in quanto sembra risultare uno dei principali fattori di rottura delle pavimentazioni alla veneziana. I dati e gli aspetti tecnici, qui riportati, sono stati dedotti, e successivamente ampliati, dalle tesi di ricerca del Dott. Ing Claudio Dezi e del Dott. Ing. Claudio Lantieri, ora ricercatori presso il DISTART della facoltà di Ing. di Bologna. Le vibrazioni indotte dal traffico stradale non rappresentano, in generale, un pericolo immediato per le costruzioni, ma possono contribuire, nel tempo, al loro continuo e progressivo deterioramento. Dallo stato dell’arte della ricerca risulta che vi è una stretta correlazione tra vibrazioni da traffico e fessure longitudinali in prossimità della sede stradale: in effetti, tra tutti i

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L. Carbognin “La subsidenza indotta dall’uo,mo nel mondo. I casi più significativi. Bollettino dell’associazione mineraria Subalpina Anno XXIII, n. 4, dicembre 1986. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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portici lesionati, solo l’1,2 % non è colpito da traffico, mentre è massimo nel 48,5 % dei casi. Lo sforzo dei progettisti e dei costruttori di infrastrutture stradali è fortemente orientato verso l’individuazione di adeguati criteri progettuali e di tecnologie costruttive che possano garantire l’attenuazione di tali fenomeni vibratori indesiderati.( es. materassini anti-vibranti, isolamento edifici, trincee a tagli). Nello studio della propagazione delle vibrazioni nel terreno è utile suddividere la regione interessata in tre zone distinte: _ zona di generazione, con cui si intende il veicolo, la pavimentazione, gli strati di fondazione e una porzione del terreno circostante; _ zona di propagazione, che è costituita dal terreno che trasmette la sollecitazione agli edifici vicini; _ zona di ricezione, che comprende gli edifici nelle vicinanze della strada, le loro fondazioni ed il terreno adiacente. Introducendo il concetto di PPV (velocità di picco) si nota che all’aumentare della velocità del veicolo, così come all’aumentare dell’h e della profondità delle irregolarità, aumenta il valore PPV. E’ dall’interazione dinamica veicolo-profilo stradale che vengono generate le vibrazioni. In estrema sintesi i fattori che contribuiscono alla fessurazione delle lastre per le vibrazioni da traffico possono essere così classificate: _ tipo di traffico: si è classificato il traffico in leggero e pesante a seconda del tipo di mezzo in transito (bus, navette, vetture) e della frequenza dei viaggi; _ velocità dei mezzi: anche se la velocità dei mezzi all’interno del centro storico è limitata a basse velocità (30 km/h e 50km/h), spesso non sono rispettate. E’ un fattore direttamente proporzionale al degrado; _ tipo di pavimentazione stradale: una pavimentazione di tipo continuo, come quelle in conglomerato bituminoso, riduce gli effetti delle vibrazioni mentre quelle ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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discontinue, lastricati e ciottalati, aumentando la velocità di propagazione delle onde emesse porta ad una amplificazione degli effetti negativi sui portici; _ distanza dalla fonte: le vibrazioni che colpiscono il target di studio si attenuano all’aumentare della distanza dalla fonte. Pertanto la larghezza della caraggiata su cui transitano i veicoli pesanti e la presenza di spazi per il parcheggio e la sosta dei mezzi sono fattori determinanti per stabilire il grado di pericolo che l’effetto delle vibrazioni ha sull’elemento architettonico. _ altezza del piano del portico rispetto alla sede stradale: un pavimentazione del sottoportico che si trova in pari, ovvero sullo stesso livello della caraggiata, è più esposta rispetto a quelle che si trovano su un piano rialzato. 5.3.3.1 Tipologie di pavimentazioni stradali 1_ masselli di granito grigio e rosato costi elevati, manodopera specializzata, difficoltà a reggere il traffico pesante per via della maggiore trasmissione delle sollecitazioni dinamiche.possibile effetto leva al passaggio bus! 2_ cubetti di porfido assorbe meglio le sollecitazioni ma sempre manto discontinuo anche sotto il profilo meccanico 3_ conglomerato bituminoso costo più basso, velocità di posa superiore, maggior resistenza al traffico pesante (è più elastico) assorbe meglio le vibrazioni. A seguire si è costruita una modellazione 3D di 2 edifici significativi per andare a simulare gli effetti del passaggio di mezzo pesante su tutta la struttura ivi compresa la pavimentazione del portico. Nella simulazione sono compresi : - Il modello costitutivo del materiali - La griglia alle differenze finite - Le condizioni iniziali e al contorno Si sono rilevate le componenti e il modulo del vettore velocità di propagazione nei punti più significativi.

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In generale si è notato che a livello del piano interrato ritrovo i valori più elevati del vettore velocità e che salendo di quota tali valori. Questo è plausibile considerando un fenomeno di diffusione dell’onda attraverso il terreno a partire dalla fondazione, interrato e a salire verso i piani alti della costruzione. Si è rivelato che per una campata intermedia (lontano dall’effetto di bordo) priva di singolarità, la diffusione delle velocità di propagazione è pressoché simmetrica rispetto all’asse intermedio. La bocca di lupo rappresentando una singolarità per il piano della pavimentazione agisce da accentratore di tensioni. Si è riscontrato che in corrispondenza delle direzioni diagonali. in presenza di bocche di lupo, la velocità ha modulo circa doppio rispetto ad un punto alla stessa quota su una pavimentazione senza bocca di lupo. Successivamente si è applicata una variazione al modello della sede stradale, per valutare la possibilità o meno di abbattere tale velocità. Confronto tra pavimento in bitume e pavimento in masselli di granito : evidente il raddoppio delle velocità di picco da cui emerge la potenzialità di creare un conglomerato bituminoso, a prezzo contenuto, con elementi aggiuntivi che lo connotino anche dal punto di vista estetico. Confronto tra conglomerato bituminoso semplice e con trincea a taglio: sembra non incidere in maniera rilevante: 1_ possibile motivazione è legata all’assenza di cantina che implica che la vibrazione passa sotto la trincea evitando la barriera d’onda che quest’ultima dovrebbe creare. 2_ forse l’altezza (40cm) della barriera è insufficiente a smorzare l’onda Il problema è legato all’eventuale allungamento della trincea : difficoltà di realizzazione, costi, impossibilità di realizzarla in maniera continua lungo il fronte stradale, per la presenza di eventuali condutture, ciò implicherebbe una realizzazione di elementi discontinui su cui si andrebbe ad abbattere con più forza l’onda.

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Introduzione del materassino antivibrante per pavimentazioni in conglomerato bituminoso: non apporta benefici in termini di riduzione della velocità. Modellazione specifica potrebbe risultare non efficace. Possibili soluzioni propositive : l’introduzione di rotaie per il passaggio obbligato dei mezzi di trasporto !!! si riduce l’attrito ruota pavimentazione, in quanto vi è uno scorrimento vincolato. 5.3.3.2 Possibili orientamenti successivi Il lavoro potrebbe essere proseguito attraverso un’indagine sul posto effettuata con opportuni strumenti quali velocimetri che ci darebbero dei risultati certi riguardo alla velocità di picco riscontrabile sia in presenza di lesioni consolidate sia in punti integri dove ci aspettiamo potrebbe insorgere una nuova lesione. Prima di ogni cosa però procederemo con la redazione di un progetto di ricerca al fine di valutare il rapporto costi benefici dell’esperienza e la sua articolazione analitica attraverso fasi operative. E’ tuttavia opinione di taluni che le vibrazioni da traffico di mezzi pesanti abbiano un’incidenza molto minore rispetto ad altri fenomeni di natura meccanica o fisicochimica e che per questo non sia opportuno addentrarsi in ulteriori approfondimenti in quanto si è potuto riscontrare analoghi dissesti e problematiche anche in strade dove il traffico è quasi o del tutto assente. Altre strade da percorrere sono quelle che mirano alla sostituzione di elementi della pavimentazione stradale, introducendo materassini antivibranti e, dove possibile, creando delle trincee efficaci per dimensione e lunghezza, allo scopo di smorzare la propagazione della vibrazione. 5.3.4 Effetto antropico Un degrado comune che si può osservare a carico delle pavimentazioni è quello dovuto all’erosione per usura e per abrasione superficiale riconducibile al frequente calpestio. L’efficacia di questa causa perturbatrice dipende dalla durezza e dalla durabilità del materiale che costituisce la pavimentazione. In questo senso, si può dire che più il materiale presenta buone caratteristiche di durezza e durabilità meno questa causa ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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inciderà sul degrado presente. Pertanto le pavimentazioni in pietra offriranno una resistenza maggiore all’usura dovuta all’effetto antropico; a seguire le pavimentazioni in laterizio. Estremamente delicate sono invece le pavimentazioni in battuto alla veneziana le quali, dapprima, saranno soggette ad una perdita dello strato lucido, successivamente una asportazione parziale della pasta in cui sono annegate le diverse scaglie e/o tessere lapidee e, infine, un distacco di queste ultime con conseguente perdita della continuità dell’intero pavimento. Questo livello di degrado può portare anche a un rapido deterioramento degli strati più profondi del pavimento stesso. Nei pavimenti di cemento, inoltre, è facile che insorgano fenomeni di cavillatura del sottofondo. 5.3.5 Esposizione solare Le escursioni termiche giornaliere prodotte dall’esposizione solare possono influenzare le dilatazioni/contrazioni delle pavimentazioni. I portici entro la terza cerchia muraria della Cirda sono caratterizzati da un tessuto urbano piuttosto denso e, pertanto, difficilmente risultano soleggiati al punta tale da poter giustificare l’effetto di variazioni termiche giornaliere rilevanti. 5.3.6. Caratteristiche strutturali del portico 1_ presenza di piano cantinato Un buon numero di portici presenta una cantina al di sotto della sede stradale. Le differenze di temperatura e di umidità tra l’estradosso e l’intradosso del solaio possono essere fattori che concorrono al degrado della pavimentazione. 2_ tipo di sottofondo Lo spostamento del materiale di riempimento delle volte o dei solai a voltine, piuttosto diffusi nella cultura architettonica bolognese, o ancora lo stesso cedimento del terreno può causare dei cedimenti differenziali capaci di portare alla fessurazione della pavimentazione.

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5.3.7 Esecuzione dei lavori a regola d’arte Risulta chiaramente impossibile poter confrontare i diversi manufatti in relazione alla loro bontà di esecuzione. E’ però importante ricordare che l’esecuzione dei lavori a regola d’arte rappresenta un parametro fondamentale rispetto al degrado, la cui comparsa in tempi brevi spesso è riconducibile ad interventi di bassa tecnica costruttiva, di scarsa qualità dei materiali utilizzati e da velocità di esecuzioni eccessivamente rapide. Infatti, anche se il tipo di intervento certamente non si può ritenere complicato o di difficile esecuzione, necessita però al tempo stesso di qualche semplice accorgimento tecnico: 1_ giunti di contrazione efficaci; 2_ attesa della completa maturazione del getto di cls per il massetto di sottofondo prima di gettare il battuto alla veneziana al fine di evitare spostamenti differenziali tra strati che possono indurre a fessurazione e a sollevamento ai lembi; 3_ corretta pendenza della pavimentazione al finito per evitare il ristagno residuale delle acque meteoriche; 4- utilizzo di materiali compatibili dal punto di vista meccanico.

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5.4 Comportamento meccanico delle pavimentazioni 5.4.1 Pavimenti monolitici e pavimenti discontinui Le pavimentazioni che caratterizzano i portici, nel centro storico di Bologna, possono essere altresì distinte in base al loro comportamento meccanico che è strettamente connesso al materiale e alla dimensione degli elementi che lo compongono:

1_ PAVIMENTI MONOLITICI _ battuto di calce _ battuto di cemento _ battuto di argilla _ battuto di gesso _ terrazzo alla veneziana _ resine

I pavimenti monolitici vengono stesi sul sottofondo senza soluzione di continuità; necessitano di supporti rigidi in quanto presenta una scarsa resistenza agli assestamenti del sottofondo ed alle dilatazioni/contrazioni dovute ad escursioni termiche. Il battuto di calce veniva utilizzato in epoca romana con la denominazione di opus signinum. Oggi è costituito da due strati disposti su di un sottofondo costituito da sabbia compattata. Il primo strato è costruito da inerti miscelati con sabbia e calce; vien poi bagnato e cosparso di sabbia fine per due o tre giorni. Il secondo strato ha uno spessore minore ed è costituito da sabbia e calce in proporzione di 2:1, ma è possibile aggiungere al suo interno sostanze coloranti. La superficie viene lisciata con cazzuola e bagnata con acqua durante l’indurimento. Questo tipo di pavimento può essere utilizzato sia come sottofondo per altri tipi di pavimentazione che, dopo un’ulteriore lavoro di finitura, lasciato in vista come strato superficiale. Anche il battuto di cemento, come quello in calce, può essere utilizzato sia come sottofondo, che come pavimento vero e proprio. E’ realizzato distendendo sul fondo uno strato di calcestruzzo magro che viene poi battuto e spianato. Sopra questo, viene steso uno strato di minor spessore, costituito da malta di sabbia e cemento. Prima che ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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avvenga la presa, si sparge del cemento in polvere, in modo che sia più resistente. Entrambi questi pavimenti essendo soggetti a dilatazioni e contrazioni termiche, necessitano di giunti di dilatazione che possono essere realizzati o mediante l’inserimento di listelli di legno che, non appena il calcestruzzo o la calce hanno raggiunto una certa consistenza, vengono tolti e sostituiti da colate di cemento plastico, oppure mediante listelli di neoprene che vengono lasciati in opera. I battuti in gesso ed in argilla sono poco economici ma presentano difetti dipendenti dalla materia di cui sono costituiti, come la facile deperibilità e la scarsa resistenza all’umidità, caratteristiche non di certo convenienti per una pavimentazione. Per il loro comportamento meccanico è possibile associare a questi le forme di degrado ricorrenti: _ fessurazione _ longitudinale _ trasversale _ diagoinale _sollevamento _lacuna 2_ PAVIMENTI AD ELEMENTI _ ciottolato in sassi _ selciato in pietra naturale _ mattonato in pietre cotte _ posato in piastrelle ceramiche I pavimenti ad elementi sono sicuramente caratterizzati da un costo di posa

molto

inferiore rispetto ai battuti ed inoltre la loro realizzazione è sicuramente più semplice e quasi sempre priva di imprevisti. I diversi pezzi possono venire posati o su un getto di pulizia oppure direttamente su di uno strato di ghiaia fine, avendo cura di lasciare tra gli elementi uno spazio sufficiente per le fughe in malta. Dalla sua struttura discontinua deriva il suo comportamento meccanico: buona capacità di resistere alle deformazioni locali dovuta alla possibilità che ogni singolo pezzo ha di ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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deformarsi liberamente rispetto agli altri, grande resistenza all’usura e buona resistenza agli agenti atmosferici. Le forme di degrado tipiche di queste pavimentazioni sono la lacuna e il distacco dei materiali. E’ evidente come presentino, quindi, un livello di degrado molto più contenuto rispetto alle pavimentazioni monolitiche il cui comportamento meccanico è strettamente legato al conseguente degrado fessurativo. 5.4.2 Analogia del pavimento alla veneziana con il modello strutturale a lastra 5.4.2.1 Brevi considerazioni sul comportamento a lastra Le strutture costituite da lastre o piastre (a seconda del carico applicato su esse) sono caratterizzate dall’avere una delle dimensioni piccola rispetto alle altre due. Consideriamo, in relazione al pavimento alla veneziana, un modello strutturale del tipo “lastra piana sottile”e “piastra piana sottile” di cui riportiamo in sintesi le principali caratteristiche meccaniche10. Assumiamo una lastra piana semplicemente inflessa secondo le due direzioni ortogonali da coppie uniformemente ripartite lungo i lati della lastra. Essa si inflette in entrambe le direzioni, e il piano medio ( come pure ogni piano ad esso parallelo) diventa una superficie a doppia curvatura, che si chiama superficie elastica della lastra. La rigidezza flessionale della lastra è maggiore rispetto a quella di una trave essendo uguale a B=EJ/(1-n²). Il divisore tiene conto della contrazione trasversale della lastra, che non avviene liberamente. Per risolvere una lastra bisogna considerare le sue condizioni al contorno, al fine di individuarne le sollecitazioni interne. Caso a) Lastra rettangolare appoggiata o incastrata soltanto in corrispondenza dei due lati opposti, mentre gli altri due sono liberi. Funziona come una trave di luce uguale alla distanza degli appoggi e avente la sezione larga quanto sono lunghi i lati vincolati. Soltanto la rigidezza risulta lievemente aumentata in virtù della contrazione laterale impedita. In questo caso la lastra si inflette secondo una superficie cilindrica (salvo in prossimità dei bordi appoggiati o incastrati). 10

Il testo di riferimento è O.Belluzzi, “Scienza delle costruzioni”, capitolo XXVI “Le lastre piane”, Zanichelli, Bologna, 1947 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Caso b) Lastra rettangolare appoggiata o incastrata in corrispondenza dei quattro lati. La lastra si considera come costituita da due ordini di strisce ortogonali fra loro. Se si pensa che il carico gravi tutto sulle strisce considerate in a), le strisce dell’altro ordine, essendo anch’esse vincolate agli estremi, sostengono le prime, trasmettendo loro delle forze rivolte verso l’alto. Ciò equivale a pensare che il carico venga assorbito in parte dalle strisce di un ordine in parte dalle strisce dell’altro. Quindi ciascun ordine di strisce risulta meno affaticato. Ogni striscia è sostenuta dalla porzione di lastra compresa tra essa e l’appoggio più prossimo, mediante i momenti torcenti. Questi momenti sono successivamente trasmessi alle altre strisce, fino a scaricarsi sull’appoggio sotto forma di un aumento della reazione. I benefici,in termini di minor affaticamento, determinati dalla solidarietà tra le strisce dei casi presentati sopra, sono massimi nella lastra quadrata, mentre diminuiscono rapidamente nella lastra rettangolare al crescere del rapporto dei due lati, e diventano trascurabili quando b/a=2. 5.4.2.2 Differenza tra lastra e piastra È opportuno evidenziare che trattiamo diversamente il caso “lastra” dal caso “piastra”. Nel primo caso intendiamo una struttura bidimensionale caricata ortogonalmente al piano intermedio, nel secondo caso sempre una struttura bidimensionale però caricata parallelamente al piano intermedio. 5.4.2.3 Dimensioni del pavimento alla veneziana Le pavimentazioni alla veneziana, secondo le realizzazioni più recenti, sono costituite da un sottofondo di spessore pari a 10cm circa in cls con rete elettrosaldata, e da uno strato di battuto alla veneziana di spessore di 4 cm circa costituito da un impasto di polvere di marmo ( granulometria 30/40mm) e di cemento Portland a base di calcare con presa lenta (legante) 11. Il pavimento è un sistema continuo a forma quadrata o rettangolare. In prima ipotesi abbiamo considerato come sistema a lastra soltanto lo strato di battuto alla veneziana, volgendo quindi l’interesse allo strato superficiale in cui si manifesta il degrado 11

Tale particolare costruttivo è stato dedotto seguendo l’esecuzione di una pavimentazione alla veneziana nel mese di dicembre 2007. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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meccanico e limitando lo studio ai moduli superficiali delimitati dai giunti in ottone 12 . In seconda ipotesi abbiamo preso in esame il pacchetto sottofondo-battuto alla veneziana, considerando la sovrastruttura come un semplice rivestimento e il sottofondo come l’elemento che assume il comportamento a lastra. Nel primo caso lo spessore è di 4 cm, nel secondo di 14cm, perciò risulta comunque verificata la condizione per cui il sistema può considerarsi una lastra (lo spessore deve essere 1/20 del lato più corto). 5.4.2.4 Fessure caratteristiche del pavimento Il degrado meccanico tipico delle pavimentazioni è costituito da fessurazioni principalmente di tipo longitudinale, trasversale e diagonale. Poiché si riscontrano quasi solamente questi tipi fessurativi, essi diventano caratteristici delle pavimentazioni. Il nostro studio quindi si serve del modello a lastra per capire quali cause sollecitanti producono tali fessurazioni. 5.4.3 Modelli strutturali di studio Il seguente approccio è possibile nello studio delle lastre di pavimentazione e offre un risultato analitico. Tuttavia in questa sede si è ritenuto di procedere secondo una strada qualitativa che portasse alla definizione del sistema di forze agenti a partire dal degrado stesso. 5.4.3.1 Lastra mono e doppio- strato. Ipotesi a favore e a sfavore Le ipotesi a favore della prima semplificazione sono: 1)la presenza di aggrappante tra i due strati 2)gli strati sono costituiti dallo stesso materiale 3)gli strati sono eseguiti nello stesso momento per cui fanno presa insieme. Le ipotesi a favore del secondo modello sono 1)la presenza di sabbia interposta tra gli strati 2)gli strati sono eseguiti in momenti diversi (il battuto dopo la presa del sottofondo). Dal momento che non è possibile ancora scegliere tra mono o doppio-strato,

12

Come chiarito nel capitolo riguardante i giunti, quando si parla dei giunti in ottone superficiali in realtà non si allude ad un reale funzionamento “a giunto”come dispositivo di trasmissione del carico, ma soltanto ad una discontinuità superficiale. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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proponiamo lo studio strutturale per entrambi i casi. 5.4.3.2 Il modello strutturale di riferimento Il modello strutturale che scegliamo è una lastra rettangolare appoggiata su terreno alla Winkler, presa una volta elastica e una volta infinitamente rigida. Assumiamo la situazione intermedia tra le due come quella che rappresenta il caso in esame. Le forze esterne che applichiamo alla struttura sono in un caso normali al piano intermedio della struttura, nell’altro parallele. I risultati che otteniamo sono gli stati tensionali interni che ci permettono di individuare le direttrici in cui possono verificarsi le fessurazioni verificando che coincidano con quelle del caso in esame. Come passo successivo ci proponiamo di tramutare la cause di degrado individuate, nelle forze esterne adottate nello studio del modello strutturale. Nella realtà esistono molte varianti sia sulla forma che può essere ad esempio con lati non paralleli a due a due, sia perché può esserci all’interno della lastra la presenza di una o più discontinuità. Il modello scelto non dà risposta circa questi casi, ma è possibile comunque ipotizzare dei comportamenti di tipo qualitativo considerando delle condizioni vincolari appropriate per ogni caso, che tratteremo successivamente. 5.4.4 I giunti I giunti costituiscono un punto debole delle pavimentazione di cemento. Ma se una pavimentazione venisse costruita in modo da costituire un’unica lastra continua, inevitabilmente si formerebbero in essa un certo numero di fessurazioni, sia a causa delle sollecitazioni interne dovute alle variazioni termiche e al ritiro del cemento, sia alle differenze di cedimento, anche minime, della superficie di appoggio. Le lesioni dovute ai cedimenti differenziali del sottofondo non sono presenti nelle pavimentazioni in calce, essendo meno rigide di quello in cemento. Per questo vengono praticate delle interruzioni, dette giunti, in senso trasversale e anche lungo l’asse longitudinale. Queste interruzioni hanno la prevalente funzione di consentire gli accorciamenti dovuti alla diminuzione di temperatura e al ritiro e agli allungamenti quando la temperatura aumenta e per l’umidità. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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I giunti devono essere costruiti in modo da permettere: 1. che le lastre si contraggano e si dilatino senza subire tensioni pericolose; 2. che il manto si conservi impermeabile; 3. che non siano percepibili in superficie al passaggio; 4. che il manto non sia indebolito. I giunti si possono anche classificare per posizione in longitudinali e trasversali. Quelli longitudinali limitano la larghezza a 5 metri. Nei nostri casi non si raggiunge mai una tale larghezza di portico, ma è interessante vedere lo scopo di tali interruzioni. Infatti per larghezze superiori la differenza di temperatura tra la faccia superiore del manto e la faccia inferiore a contatto del terreno determina di giorno un incurvamento delle lastre tale da ridurre sensibilmente il contributo arrecato dal sottofondo alla resistenza delle lastre stesse, così che queste, sotto l’azione dei carichi, tendono a fessurarsi longitudinalmente. Per la loro funzione principale, i giunti possono essere classificati in: 1. di costruzione; 2. di contrazione 3. di dilatazione; 4. di isolamento; 5. di distorsione. Giunti di costruzione Sono necessari ogni volta che la lavorazione della pavimentazione viene interrotta per un periodo più lungo di 30-40 minuti. In questo caso si montano casseformi contro cui effettuare il getto di cemento. Per lastre di spessore elevato e per superficie soggette a carichi pesanti, è necessario prevedere dispositivi di trasferimento del carico, in particolare per continuare la resistenza al taglio con barre di acciaio annegate nella lastra di cemento. Il taglio meccanico, se previsto, viene effettuato con il solo scopo di realizzare una traccia per l’inserimento dei materiali di riempimento. Quindi, la necessità di esecuzione, i tempi e la profondità di questo taglio, sono del tutto ininfluenti.

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L’interruzione dei getti dovrà avvenire a distanze multiple dei giunti di contrazione e normalmente coincidere con il modulo del locale da pavimentare. Giunti di contrazione Devono essere realizzati su tutte le lastre di calcestruzzo posate su qualsiasi supporto, salvo che non vengano dichiaratamente impiegate tecniche particolari che ne rendano superflua la formazione (jointless floor). Possono essere disposti sia longitudinalmente che trasversalmente e hanno lo scopo di permettere alle lastre di contrarsi liberamente quando il volume di calcestruzzo diminuisce per effetto del ritiro, del raffreddamento termico e del prosciugamento. Sono giunti realizzati a pavimento finito con un taglio meccanico avente funzione di ridurre lo spessore in quella determinata posizione per favorirne la rottura dovuta alle tensioni da ritiro e da scorrimento impedito. Non interessano tutto lo spessore della lastra, ma solo per una profondità pari a 1/5 e una larghezza massima di 8 mm. I giunti trasversali di contrazioni sono posti generalmente ogni 4-5 m. In questo modo non sono necessari dispositivi di trasferimento del carico, in quanto è sufficiente la scabrosità delle superficie di rottura. È fondamentale decidere quanto effettuare il taglio, per non incorrere in problemi sotto gli attrezzi nel caso di cemento troppo fresco o per non agire a fessurazioni già avvenute. Giunti di dilatazione Sono giunti che lasciano tra lastra e lastra un sensibile intervallo, per permettere la dilatazione quando aumenta il volume del cemento per riscaldamento o umidità. Generalmente si fanno coincidere con quelli di costruzione, con l’avvertenza di interporre tra le lastre un materiale comprimibile il cui spessore possa consentire l’allungamento delle lastre senza che le estremità vengano a contatto. Per pavimentazioni esterne (piazzali) le variazioni di temperatura diurne e stagionali tra intradosso ed estradosso possono provocare sollevamenti (inarcamento) che possono indurre sollecitazioni tali da provocare il dissesto della piastra.

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I giunti di dilatazione devono essere tutti quelli che servono ad isolare la carreggiata dalle sedi tranviarie, dai cordoni, delle bocchette e dai basamenti entro l’area pavimentata. Si possono realizzare sostanzialmente in due modi: 1. servendosi di piattine metalliche con spessore pari alla larghezza del giunto e altezza uguale a quella della lastra. Le piattine vengono mantenute provvisoriamente fisse in posto, poi recuperato non appena il calcestruzzo ha fatto presa; 2. servendosi di spessori plastici o molto deformabili dello spessore del giunto e di altezza minore di quella della lastra. Vengono poi completati durante il getto con listelli metallici. Larghezza dei giunti di dilatazione È un particolare di molta importanza perché se la larghezza è insufficiente il manto può sollevarsi e rompersi e, se è eccessiva, il manto può, sotto l’azione del martellamento, usurarsi rapidamente in corrispondenza di ciascun giunto. Ogni giunto troppo largo rende inoltre più facile l’infiltrazione dell’acqua e richiede una sigillatura più costosa. Conoscendo il coefficiente di dilatazione termica, l’escursione della temperatura e la lunghezza della lastra (in cm), la variazione di lunghezza è calcolabile attraverso il prodotto dei tre valori.

Coefficienti di dilatazione lineare di alcuni materiali Acciaio = 0,000012 Alluminio = 0,000024 Bronzo = 0,000018 Ferro omogeneo = 0,000012 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Ghisa = 0,000011 Ottone = 0,000018 Rame = 0,000017 Conglomerato cementizio = 0,000012 Granito = 0,000009 Marmo = 0,000007 Pietra calcarea = 0,000007 Giunti ad isolamento delle strutture Gli spiccati in elevazione vengono normalmente separati, con materiale comprimibile ed impermeabile, al fine di rendere il pavimento dal punto di vista deformazione indipendente dalle strutture ad esso adiacenti in modo da assecondare gli inevitabili movimenti differenziali di natura termo-igrometrica. Giunti di distorsione Consistono in un’incisione superficiale, atta a dare alla sezione una maggiore flessibilità e quindi a permettere le deformazioni torsionali che nascono nel manto quando la differenza di temperatura tra le due facce diventa sensibile. Non devono aprirsi, quindi sono provvisti di barrette di collegamento aderenti al calcestruzzo da entrambi le parti dell’incisione, se le lastre non sono armate; se sono armate, la rete elettrosaldata presenta, a differenza di quanto avviene nei giunti di contrazione, passa sotto la fessura senza subire discontinuità. Gli altri giunti possono fungere da giunto di distorsione, mentre quello di distorsione contrasta solamente l’incurvamento delle lastre. Si inizio a parlare di questo tipo di giunto da prima del 1940, quando si mise in evidenza l’enorme importanza che agli effetti della fessurazione aveva il curling e l’impossibilità di evitare la rottura con i soli giunti di dilatazione e di contrazione. Tuttavia non sono diffusa generalmente nella pratica, tanto che si preferisce affidare ai giunti di contrazione la funzione di contrastare il ritiro e il fenomeno del curling.

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Riempimenti e sigillature I riempimenti hanno la funzione di colmare le cavità formatesi a seguito del taglio dei giunti e, con particolari materiali o accorgimenti, anche di migliorare notevolmente la resistenza dello spigolo del giunto allo sbrecciamento da urti. La sigillatura deve garantire la tenuta del giunto al passaggio di liquidi alla pressione atmosferica. Il materiale costituente la sigillatura, di tipo polimerico, deve possedere adeguata resistenza chimica nei confronti dei liquidi con i quali verrà a contatto ed essere in grado di sostenere, senza lacerarsi e senza distaccarsi dal supporto, i movimenti previsti per il giunto. Inoltre il materiale deve avere caratteristiche meccaniche tali da rimanere integro ed aderente, alle temperature di esercizio previste, anche in presenza di grandi deformazioni, comunque entro i limiti di allungamento di lavoro dello stesso. Indicazioni alla modalità costruttiva 13 “Quando la superficie da pavimentare è di notevole dimensione (sopra ai 30 mq sullo strato superiore del pavimento) verranno posizionate delle lame di ottone forate, con sezione di 25x3 mm a seconda delle necessità operative e del progetto. È buona norma ancorare al sottofondo saldandole ortogonalmente a una lamella che rimane nascosta e fissata sul fondo.” 5.5 Il degrado in relazione alle tecniche costruttive: ieri e oggi 5.5.1 Il degrado di origine meccanica 1_ la differenza sostanziale è nella sostituzione del massetto in calce idraulica con quello di cemento per una posa in opera più veloce. Il prezzo di questo risparmio di tempo è una maggiore rigidità del sottofondo. Di fatti , osservando dei diagrammi tensodeformativi, si nota che laddove sia indotta una deformazione da elementi esterni, quali ad esempio le bocche di lupo in acciaio il cemento risponda con uno stato tensionale di gran lunga superiore a quello delle calci, che potrebbe generare fessure.

13 A.

Crovato, “I pavimenti alla veneziana”, L’Altra Riva, Venezia, 1989

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2) dal confronto dei coefficienti di dilatazione termica lineare si perviene alla conclusione che a variazioni termiche di pari entità il cemento risponda con uno stato tensionale nettamente superiore. 5.5.2 Il degrado di origine fisica 1_ i fenomeni di gelo-disgelo riguardano lo strato superficiale della pavimentazione che è costituito da calce idraulica sia nei pavimenti realizzati a Venezia che a Bologna. Tale fenomeno parte dal presupposto che l’acqua abbia la possibilità di penetrare all’interno dei pori del materiale composito e successivamente che la temperatura raggiunga i 0°C. Tali circostanze sono possibili ma improbabili vista la localizzazione sotto i portici. Il degrado causato da fenomeni di gelo disgelo comporta la disgregazione del materiale composito, dunque la forma di degrado identificata come lacune. Dal rilievo effettuato si è concluso che le lacune sono comunque ristrette a porzioni limitate delle pavimentazione per cui potrebbe trattarsi di accumuli d’acqua localizzati. 2_ i fenomeni di cristallizzazione dei sali potrebbero verificarsi nello strato superficiale come nel massetto. I sali di fatti potrebbero formarsi dalla decomposizione stessa del legante a contatto con l’acqua piovana contenente acido carbonico e anidride solforosa. Nel caso in cui il sale formatosi sia bicarbonato di calcio, sopra citato, si verifica la disgregazione del materiale, essendo tale composto solubile, nel caso di anidride solforosa si formano solfati insolubili. Successivamente i Sali formatisi potrebbero penetrare nella pavimentazione e cristallizzare al suo interno con aumento di volume e , in relazione ad esso creare stati tensionali interni alla lastra. Il massetto invece, essendo a diretto contatto con il terreno potrebbe assorbire al suo interno acqua di risalita capillare, contenente sali che, analogamente a quanto accade per le lastre superficiali, cristallizzando dopo l’evaporazione aumentano di volume e tensionano il materiale. 3_ aumento di volume del massetto per assorbimento di acqua di risalita capillare dal terreno.

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5.5.3 Il degrado di origine chimica 1_ Per quanto riguarda i processi di degrado di origine chimica sono anch’essi causa per lo più di fenomeni localizzati di disgregazione delle lastre superficiali. Una prima forma può essere legata alla bicarbonatazione del legante, improbabile comunque per la limitata possibilità di contatto con l’acqua. 2_ La presenza di calce viva non spenta è possibile sia nelle calci idrauliche che nel cemento. Essa , essendo un materiale idrofilo tende ad assorbire acqua aumentando il suo volume, nel caso in cui sia di dimensioni consistenti potrebbe spiegare le fessure. 3_ La presenza di calce libera nelle calci idrauliche cosi come nel cemento , nel tempo può comportare una diminuizione complessiva del volume. Infatti , la calce idrata a contatto con l’atmosfera completa la carbonatazione riducendo il volume. È più probabile che la carbonatazione riguardi lo strato superficiale della pavimentazione per cui spiegherebbe le fessure date dallo stato tensionale del ritiro. 4_ Un altro fenomeno possibile è la formazione di ettringite per il cemento costituente il massetto per risalita capillare dell’acqua libera presente nel terreno. Questo comporterebbe un notevole aumento di volume del massetto e conseguentemente la fessurazioni dello strato superficiale. 5_ Le reazioni alcali-silice si possono ipotizzare come spiegazione alternativa alle fessure longitudinali e alle lacune, anche se questo presuppone un errore di scelta delle materie prime. 6_ Il semplice ritiro igrometrico del massetto e contemporaneamente dello strato superficiale potrebbe spiegare le fessure trasversali.

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6_ ANALISI STATISTICA


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6.1 Ricognizione generalizzata per la raccolta del campione 1 Fondamentale nel proseguimento della ricerca, l’analisi sul campo condotta attraverso il rilievo per il restauro. In particolare abbiamo deciso, conclusa la prima fase di analisi delle cause possibili del degrado e dei loro meccanismi d’azione, prima di affrontare uno o più casi di studio significatici, di realizzare una ricognizione generalizzata delle pavimentazioni dei portici del centro storico. Tra le ragioni della decisione sicuramente vi è la possibilità di calare sul campo le ipotesi fin qui formulate e rielaborate, poter osservare le molteplici casistiche disponibili e dedurre da queste le situazioni/problematiche più frequenti. Il primo problema che ci siamo trovati ad affrontare è stato quello di organizzare le attività di monitoraggio. Un rilevamento simile era già stato effettuato diversi anni fa da Marilena Gabriele e quindi studiando le sue elaborazioni, prevalentemente statistiche, integrandole con le nostre osservazioni e approfondimenti, abbiamo scelto di redigere una scheda modello per l’indagine analitica. Tale scheda necessitava una formulazione precisa per poter essere trasferita su computer e opportunamente elaborata insieme alle molte altre raccolte, attraverso un programma Access. Il primo gruppo di elementi riguarda l’identificazione univoca della lastra, e fin da subito viene richiesta la sua collocazione rispetto a un ipotetico sistema del quale essa può essere parte. Questa scelta è stata dettata da ipotesi su rotture meccaniche che possono interessare parte del sottofondo e non solo la singola lastra al di sopra. Elementi come la presenza di traffico pesante, bocche di lupo e cantina sotto la pavimentazione sono state puntualmente riprese per la loro importanza connessa a specifiche lesioni. Altri elementi di novità sono la specifica sui giunti fra lastre, alla cui efficacia è legata una gran parte dei dissesti, la presenza o meno di un materiale di discontinuità a lato

La pavimentazione alla veneziana dei portici del centro storico di Bologna, laboratorio di Restauro Architettonico della facoltà di Ingegneria di Bologna, AA 2007/08, gruppo 4 1

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strada con possibile effetto di smorzamento delle vibrazioni e la granulometria che oltre a dare indicazioni sommarie, ma in certi casi determinanti circa la incognita data di realizzazione di una pavimentazione, conferisce differenti caratteristiche al comportamenti della lastra. Infine è segnalata la dimensione della lastra in quanto la geometria potrebbe determinare delle lesioni preferenziali ed è inoltre utile conoscere rispetto alla totalità quale dimensione più frequentemente di trova nei nostri portici. Passando al secondo gruppo di dati, vi ritroviamo la descrizione analitica del degrado. In aggiunta alla classificazione ormai consolidata (fessure long. diagonali, trasversali) abbiamo inserito i sollevamenti dei giunti e la presenza di lacune, entrambi fenomeni assai frequenti nelle pavimentazioni. Inoltre per ciascuna forma di degrado è indicata la collocazione spaziale preferenziale all’interno della lastra, e l’intensità opportunamente codificata. Queste aggiunte servono a rendere più precisa l’elaborazione statistica e a ridurre, per quanto possibile, l’aleatorietà dei risultati. Inoltre spesso una medesima lesione collocata in punti differenti o con dimensioni differenti può essere originata da fenomeni diversi, che ora è possibile indagare meglio. 6.2 Risultati delle queries 1_ Caratteristiche morfologiche prevalenti Analizzando singolarmente ogni caratteristica morfologica che descrive le lastre di pavimentazione “alla veneziana”, si possono definire gli aspetti più ricorrenti, cioè la situazione statisticamente tipica tra i portici censiti. Rispetto al piano stradale, la posizione più frequente è quella che vede la lastra a pari o a pochi centimetri sopra. Considerando le lastre con fisionomia simile raccolte in sistemi, si possono raggruppare quelli con numero di elementi uguali, evidenziando che i casi più frequenti sono con 1, 2 o 3 lastre. Abbastanza spesso si riscontrano sistemi da 4 o 5 lastre. La posizione all’interno del sistema è necessariamente quella in continuità (91%), piuttosto che ad angolo o inclinata.

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La tipologia di manto della sede stradale è prevalentemente di asfalto (61%). In misura minore le lastre sono ubicate in strade con porfido (24%) o in conci di pietra (15%). Considerando la presenza o meno di traffico per bus di linea o mezzi di trasporto pesanti, si riscontra quasi un equivalenza tra le due categorie. La maggioranza dei casi censiti è priva di bocche di lupo direttamente aperte sulla superficie del portico trattata “alla veneziana” (72%). Considerando la presenza di cantina esattamente sotto alla pavimentazione del portico, i casi più frequenti registrati ne sono privi. Classificando ogni lastra per lo spessore del giunto che la distingue dalle altri contigue, si ha una maggiore presenza della dimensione minore di 5 mm, anche se la distinzione non è marcata (56% contro il 44% della dimensione maggiore). Per un’alta frequenza (85%) si registra la presenza di delimitazione della lastra sul lato strada con l’interposizione di materiale diverso (spesso pietra o mattoni in laterizio) tra le colonne del portico. La tipologia di granulometria della semina dello strato superficiale presente in molti casi è quella assortita. Tuttavia gli inerti monodimensionali e grandi (ma non tali da definire la “palladiana) sono caratteristici di pavimenti antichi e con particolare sembianze monolitiche. Un ultimo rapporto si può stendere a riguardo della dimensione della lastra rispetto al rapporto tra lato corto e lato lungo, prediligendo la forma leggermente rettangolare in senso longitudinale (3:4) e successivamente la forma quadrata (1:1).

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2_ Situazioni di degrado prevalenti Sono state censite 4268 lastre in tutta l’estensione dei portici nel centro di Bologna, caratterizzate dalla presenza di pavimentazione “alla veneziana”. Ogni elemento è stato descritto attraverso le caratteristiche morfologiche rilevanti per lo studio in oggetto e attraverso le forme, le quantità e qualitativamente le dimensioni di degrado. Come primo passo delle indagini attraverso i dati raccolti, è possibile considerare tutte le combinazioni di degrado individuabili, dalle lastre perfette senza alcun danno, a quelle che hanno fatto registrare la presenza di tutti e cinque i difetti, mantenendo come base della ricerca l’unità della lastra, come caratterizzante. Tra tutte le 4268, la maggior parte (1363 - 32%) sono senza degrado, ma tra quelle danneggiate le più frequenti (599 - 14%) hanno solamente le fessure longitudinali. Ad un livello inferiore sono le lastre caratterizzate solamente da fessure trasversali e poi quelle con longitudinali e trasversali. Sicuramente il degrado che si percepisce maggiormente, direttamente al contatto con la pavimentazione, è il sollevamento ai giunti, anche di minima entità, che però risulta essere statisticamente tra i meno frequenti, (13%, dove è registrato almeno un sollevamento). Ad un passo successivo, si può cambiare la base dell’indagine sulla totalità dei dati raccolti, considerando ora la somma generale dei degradi registrati. In questo modo si possono ottenere informazioni più precise sulla frequenza delle tipologie di degrado, indipendentemente dalle divisioni costruttive in lastre di pavimentazione. In 4268 lastre, si sono riscontrati in totale 8746 danni, quindi una media di circa 2 situazioni di degrado per lastra (è utile però considerare la presenza di 1363 - 32% di esemplari intatti). I rapporti delle singole quantità sul totale sono proporzionalmente mentenuti. Si può quindi constatare che le fessure longitudinali sono anche in questa seconda analisi le più frequenti, con una percentuale del 41%. Allo stesso modo il sollevamento ai giunti è il meno presente, come evidenziato in precedenza. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Però si ha una percentuale del sollevamento molto diversa tra le due analisi confrontate, con corrispondente aumento di quella riferita alle fessure longitudinali. Ciò significa che spesso il sollevamento è compresente alle fessure, come già si poteva individuare dall’alto numero di lastre con compresenza doppia, dal diagramma delle combinazioni di degrado.

3_ Rapporto tra degrado e presenza di bocche di lupo Si conferma l'ipotesi che correlava la presenza di diagonali con quella di bocche di lupo direttamente sulla lastra, come causa scatenante, infatti la percentuale di tale degrado è pari al 28%, frequenza maggiore solo dopo alle fessure longitudinali. In particolare si riscontra una maggioranza netta delle fessure diagonali corte (28% e 36%), localizzabili più direttamente all'elemento della bocca di lupo stessa. Interessante è anche vedere come, dopo le lastre perfette, la maggior parte sia soggetta a sole fessure diagonali, e, dal grafico delle combinazioni di degrado, sia visibile una certa prevalenza di quelle che hanno almeno questo danno (lettera D). Prevalenza che sparisce dal grafico della situazione senza bocca di lupo. Inoltre la media dei degradi presente per ogni lastra con bocca di lupo (28% del totale) è maggiore della media globale (2,5 contro 2), quasi a significare che tale presenza dell'elemento comporti un maggior degrado della pavimentazione, conclusione già spiegata nella parte teorica, in quanto luoghi di discontinuità quindi di concentrazione di tensioni. Per quanto riguarda le lastre senza bocca di lupo, la situazione ritorna normale.

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4_ Rapporto tra degrado e presenza di traffico pesante Si può procedere con l’analisi dei dati isolando le lastre che sono caratterizzate dalla presenza di traffico pesante (n° 1889) e indicando le frequenze delle tipologie di lesione e di tutte le loro possibili combinazioni. Si ricava così che la situazione tipica vede la presenza di sole lesioni longitudinali (n° 288), ad esclusione dei casi di lastre indenni che restano la maggioranza (n° 555). Più analiticamente, conteggiando tutti i degradi riscontrati (n° 3783), anche in questo caso le fessure longitudinali sono le più presenti (41%). E' rilevante il fatto che è molto frequente la presenza di materiale a lato strada tra le colonne e che, isolando quest casi (3612 - 85%) si riscontra quasi una netta mancanza di fessure a lato strada. Questo dimostra l'importanza di tale fascia non pavimentata "alla veneziana" come difesa della lastra stessa, contro i meccanismi di degrado individuabili in quella zona. 5_ Rapporto tra degrado e presenza di cantina Sul totale delle lastre analizzate (n° 4268) il 33% (n° 1399) è caratterizzato dalla presenza di cantina ubicata sotto il portico. Analizzando i dati e sommando i degradi riscontrati (n° 2633), si riscontra un leggero miglioramento del dato medio per lastra (1,8). Infatti, anche se in minima misura, la presenza di uno spazio sottostante può preservare dalle forme di degrado che si causano per il contatto diretto controterra.

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Si evidenzia però anche una piccola prevalenza, dalle combinazioni, delle situazioni con sola fessura longitudinale o sola trasversale. Questo convalida l'ipotesi di causa di tali degradi riferita alla presenza di cantina sottostante, quindi alla differenza di temperatura tra le due facce, in una o nell'altra direzione in base alla conformazione dell'intradosso della pavimentazione del portico. Tuttavia è necessario specificare che il peso generale della percentuale delle fessure longitudinali è tale da non fare apprezzare la relazione tra tali fessure e la presenza di cantina. 6_ Rapporto tra degrado e lastre datate prima del 1910 Nel totale delle lastre censite, solo per il 12% (pari a 511 casi) è stata trovata una datazione certa. Di questi, solo 73 esemplari sono antecedenti al 1910, anno considerato come inizio della diffusione dell'utilizzo del cemento. Si conferma anche in questo caso la presenza maggiore di fessure longitudinali, spesso anche accompagnate della trasversali. Mentre si riscontra quasi nullo il sollevamento ai giunti. Ciò è collegabile anche al fatto che percettivamente questi casi datati prima del 1910, suggeriscono una sensazione di monoliticità e unicità degli strati della pavimentazione, caratteristiche che potrebbero contrastare le cause di natura chimico-fisica di tale degrado. Un'altra considerazione interessante è l'incremento del valore medio di danni presente in ogni singola lastra (2,3) dal valore generale di 2. Per cui si potrebbe concludere che il deterioramento è all'incirca proporzionale con la vita della lastra, anche se nel complesso si riscontrano casi di pavimentazioni antiche non in cattivo stato, anche in raffronto all'entità dei degradi presenti.

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7_ LINEE GUIDA


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7. Premessa Le linee guida hanno lo scopo di semplificare l’iter amministrativo e procedurale che coinvolge i proprietari e gli enti comunali nell’affrontare un progetto di restauro finalizzato alla manutenzione o al rifacimento delle pavimentazioni dei portici di Bologna, nella loro duplice natura di proprietà privata e di luogo pubblico, espressione della città stessa. 7.1 Analisi storico-urbanistica generale Per redigere le seguenti linee guida, intese come strumento per definire un metodo di intervento finalizzato alla progettazione e all’esecuzione dei restauri delle pavimentazioni, è stato di fondamentale importanza avvalersi di una solida e puntuale analisi storico-urbanistica, capace di mostrare la complessità del monumento Portici in relazione al tessuto urbano di cui non è solamente elemento diffuso ma piuttosto elemento generatore che ha partecipato al disegno stesso della città storica nei secoli. 7.2 Premesse come risultati degli studi conseguiti Dalle analisi eseguiti, si sono raggiunti dei risultati utili a determinare le linee guida per definire una metodologia di intervento generale capace di risolvere ogni singolo caso specifico. Si presentano ora le premesse, in forma sintetica, come solida base necessaria a procedere allo sviluppo del progetto del restauro: 1_ Il portico è un monumento diffuso che coincide con l’ambiente urbano stesso e per questo va considerato nella sua interezza e complessità. Nel riconoscere i portici come ambiente monumentale si è associata l’istanza estetica non al pregio architettonico dei singoli casi eccellenti, già di per loro stessa natura opere d’arte, ma piuttosto all’incredibile varietà stilistica degli edifici porticati che portano alla formazione di un intero che viene percepito come unico ed eccezionale per autenticità ed integrità, il cui valore è superiore alla somma delle parti che lo costituiscono. E’ in questa ottica in cui si riconosce il monumento come ambiente e l’ambiente stesso come monumento nella sua interezza che si deve riconosce pari valore ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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e dignità a tutti i portici, da quelli che appartengono ad una edilizia storica-popolare a quelli di grande pregio architettonico, per i quali ogni singola parte che viene distratta compromette l’autenticità dell’insieme 2_ La percezione della continuità del portico non dipende dalla grammatica architettonica. Questa evidente realtà ha permesso che il degrado diffuso su tutti gli elementi della maggior parte dei portici di Bologna non fosse così tanto evidente con la conseguenza che non fosse necessario prevedere una normativa che ne regolamentasse gli interventi. Nel percorrerli, infatti piuttosto che essere attirati dalle singole caratteristiche che contraddistinguono ogni campata 3_ Generale difficoltà o più spesso impossibilità di ricondursi a macrozone omogenee dal punto di vista materico-tipologico, capaci di giustificare la scelta di una pavimentazione rispetto ad un’altra attraverso un forte giudizio di preferenza. L’incredibile varietà materica e tipologica delle pavimentazioni presenti e le seguenti manomissioni non hanno permesso il formarsi di macrozone omogenee capaci di formalizzare un’unità di stile. Sono rari infatti i casi in cui intere vie porticate ai lati strada conseguano una similitudine in termini di aggregazione materica. Certamente il battuto alla veneziana è il tipo prevalente che si ripete con maggior frequenza nei sottoportici ma le regole con cui varia sono molteplici e assolutamente non in diretta relazione con il tipo di edificio. 4_ Difficoltà di ricondursi ad una pavimentazione originaria , per ogni caso specifico, principalmente a causa delle continue e recenti manomissioni e in seconda istanza per le sostituzioni legittimate dai Bandi storici, verificabili nei documenti prodotti dalle Assunterie d’Ornato dopo la caduta dei Bentivoglio, dal 1567 fino ai primi dell’ 800. 5_ Dalla precedente constatazione si deduce che il rapporto tipologia di portico / tipologia di pavimentazione non è sempre definito in modo biunivoco: la loro continua sostituzione nel corso del tempo e, tal volta, più recentemente, la loro manomissione ha permesso che, per la maggior parte dei casi, la pavimentazione non

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corrisponda al monumento cui appartiene sia dal punto di vista stilistico sia da quello storico. 6_ Presenza di materiali incongrui, definiti già in fase di analisi. In assenza di una normativa che regolasse tutti i portici, non solo quelli vincolati dalla soprintendenza per i quali è già prevista l’applicazione del D.LGS 42 del 22 Gennaio 2004 che obbliga alla redazione di un progetto per il restauro, nel tempo si è assistito ad una rapida diffusione dell’applicazione di materiali poveri e assolutamente incongrui sia dal punto di vista storico-estetico, sia dal punto di vista tecnico-funzionale in quanto sovente incompatibili con materiali storici utilizzati, quali calci e altri materiali storici naturali. Tra questi si possono citare graniglie , piastrelle ceramiche ed in pasta di cemento, cubetti di porfido, malte cementizie utilizzate si come riempimento delle lacune sia come vera e propria pavimentazione. 7_ Comprensione del rapporto tra portico e l’edificio a cui appartiene e il rapporto tra portico e contesto urbano in cui si inserisce. E’ chiaramente impossibile prescindere da queste due relazioni per poter formulare un metodo finalizzato, in fase progettuale ed esecutiva, alla scelta di una pavimentazione rispetto ad un altra. La dialettica che intercorre tra il portico e l’edificio di pertinenza, come emerge dai punti precedenti, è per la maggior parte dei casi, ovvero per tutti quei portici che hanno conferito una struttura alla città, escludendo quindi i casi eccellenti vincolati dalla sovrintendenza, poco veritiera e per questo diventa difficile basarsi su di essa per procedere ad una scelta della pavimentazione. Per tutti quei casi comuni, e non per questo, come si è dimostrato in fase di analisi, meno pregevoli e importanti, anche se magari di non altissimo valore architettonico, la scelta della pavimentazione dialogherà piuttosto nel rapporto che vi è tra il portico che si sta analizzando e il contesto in cui si inserisce.

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7.3 Metodologie di intervento Per arrivare alla comprensione di ogni singolo caso specifico, utile alla progettazione, è risultato necessario seguire una precisa procedura che porti a definire una metodologia di intervento che, partendo da una comprensione generale del manufatto, porti alla risoluzione del singolo caso. 1_ comprensione della pavimentazione: tipologica, materica, stato del degrado. 2_ comprensione dell’edificio: caratteri rappresentativi quali, epoca, stile archiettonico, colore prevalente, materiali degli elementi costitueti. 3_ comprensione del contesto: analisi del rapporto portico-edificio e del rapporto portico-contesto urbano. 4_ individuazione del grado di vincolo: conoscenza importante per definire il tipo di intervento e per stabilire quale rapporto prevale nella dialettica. 7.4 Analisi del degrado e individuazione delle cause (cfr. tav. A15 , A16, A17) L’analisi del degrado è finalizzata alla comprensione dello statu quo in cui si presenta la pavimentazione. Tale momento di analisi è di estrema importanza in quanto determina il tipo di intervento più idoneo alla risoluzione del caso specifico. 7.4.1 Individuazione del tipo di degrado 1_ Fessurazioni. Il degrado di tipo meccanico si manifesta sulla pavimentazione attraverso delle fessurazioni di tipo longitudinale, trasversale e diagonale. Le fessure longitudinali si sviluppano lungo il lato parallelo alla strada, che coincide generalmente alla dimensione prevalente della lastra. Possono essere più o meno profonde e lunghe, e all’interno di una lastra possono essere più di una e occupare qualsiasi posizione lungo la larghezza. Talvolta si estendono oltre la lastra di riferimento superficiale (da giunto a giunto) oltrepassando il giunto di contrazione.

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Le fessure trasversali si formano secondo il lato corto della lastra, in posizione centrale e/o laterale. Possono essere più o meno profonde e lunghe. Le fessure diagonali sono inclinate rispetto ai lati della lastra. È stato riscontrata un’alta frequenza di fessure diagonali in presenza di bocche di lupo. Esse si diramano dagli spigoli della grata in ferro che chiude la bocca di lupo. Si trovano, comunque, anche del tipo “ad angolo”, che tagliano gli spigoli alle estremità dalla lastra. 2_ Lacune. Un altro tipo di degrado sono le lacune che si manifestano indistintamente sulla superficie della pavimentazione. Si formano però più facilmente dove si hanno delle concentrazioni di altri tipi di degrado o nelle zone più fragili, come ai bordi o in prossimità delle bocche di lupo. Si registra il distacco di pochi elementi della semina, ma poi la zona interessata si allarga per l’usura. 3_ Sollevamento. È presente in maggiore misura ai lati corti, in presenza del giunto, coinvolgendo tutta la lunghezza. A volte però si registra in innalzamento maggiore centrale. Un’altra forma, anche questa raramente ritrovabile, è quella dell’ingobbamento in prossimità dei contorni della lastra stessa. 4_ Disgregazione e sbriciolamento.

Le lesioni si evolvono sotto l’azione dei movimenti della lastra per effetto delle variazioni igrometriche; tendono ad aprirsi, a ramificarsi e a disgregarsi ai bordi. Questo tipo di ammaloramento si manifesta sotto forma di disgregazione superficiale a causa dell’impiego di aggregati gelivi, sporchi, o per eccesso di acqua nella miscela. Può prodursi anche in vicinanza dei giunti e risulta legato a cattiva esecuzione di questi, o a penetrazione di un corpo estraneo nel giunto1. Lo sbriciolamento può verificarsi come prodotto della somma di tutti i tipi di lesione qui presentati nel momento in cui si concentrano in un punto preciso. Può essere infatti 1

Da Ferruccio Ragno,“Ammaloramenti e patologie delle sovrastrutture stradali”, L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI, n°254, da pag 48 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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considerata, a tutti gli effetti, la risultante di una fessurazione longitudinale e di una trasversale che si intersecano in un punto nel quale potrebbe verificarsi successivamente l’azione di acque solfatiche, l’inevitabile azione antropica e la penetrazione di acqua con conseguente possibilità di cicli di gelo e disgelo e di cristallizzazione dei sali. 7.4.2 Cause generali responsabili del degrado 1_ Subsidenza Per subsidenza si intende ogni movimento di abbassamento verticale della superficie terrestre indipendentemente dalla causa che lo ha prodotto, dal suo sviluppo reale, dalla velocità di esplicazione e dall’evoluzione temporale. Dalo stato dell’arte della ricerca si può concludere che al variare dell’angolo d’incidenza che le linee di abbassamento formano con l’asse longitudinale, il grado di lesione non varia. Pertanto si può ritenere questo tipo di causa poco incisiva sul degrado delle pavimentazioni dei portici 2_ Vibrazioni indotte dal traffico Non rappresentano, in generale, un pericolo immediato per le costruzioni, ma possono contribuire, nel corso degli anni, al loro continuo deterioramento strutturale. Dallo stato dell’arte della ricerca risulta che vi è una stretta correlazione tra vibrazioni da traffico e fessure longitudinali in prossimità della sede stradale: in effetti, tra tutti i portici lesionati, solo nell‘1.2% dei casi il traffico non è affatto presente, mentre è massimo nel 48.5%. Il loro effetto è in stretta correlazione ai seguenti fattori: _ distanza dalla fonte: la larghezza della sede stradale e la presenza di parcheggi sono i parametri utili con cui poterla valutare. _ altezza del piano del portico rispetto alla strada: una pavimentazione sopraelevata rispetto alla sede stradale sicuramente risulta meno colpita dalle vibrazioni in quanto queste vengono smorzate in prossimità del muretto di contenimento. _ tipo di pavimentazione stradale: un pavimentazione discontinua come quelle in masselli di granito o quella in porfido, a causa della discontinuità degli elementi posati comporta un rotolamento delle ruote dei veicolo che causa un incremento delle ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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vibrazioni alla fonte. La pavimentazioni continue come quelle in conglomerato bituminoso riduco sicuramente il problema, nonostante il loro uso sia spesso discutibile dal punto di vista storico-estetico. 3_ esposizione solare ed escursioni termiche. Possono influenzare le dilatazioni/contrazioni delle pavimentazioni. Dall’indagine effettuata su tutti i portici entro la terza cerchia muraria risulta che, essendo il tessuto urbano piuttosto denso (cfr. rapporto larghezza stradale/altezza edifici, tavola A03), i portici risultano difficilmente soleggiati al punto tale da poter giustificare l’effetto di variazioni termiche giornalieri rilevanti. 4_ eventuale presenza di cantina. Le differenze di temperatura e di umidità tra l’estradosso e l’intradosso del solaio possono essere fattori che concorrono al degrado della pavimentazione. 5_ tipo di sottofondo Lo spostamento del materiale di riempimento delle volte o dei solai a voltine o dello stesso terreno può causare dei cedimenti differenziali. 6_ effetto antropico Deriva dalla normale usura provocata dal continuo calpestio e dell’aggressione degli agenti inquinanti. 7_ Esecuzione dei lavori a regola d’arte Pur risultando, in questa analisi, impossibile discutere sulla bontà ed accuratezza dei lavori di pavimentazione, questo fattore è di assoluta rilevanza per il mantenimento nel tempo delle prestazioni. 7.4.3 Lesioni caratteristiche e cause perturbatrici _ Fessurazioni longitudinali 1_ Vibrazioni da traffico Consideriamo le vibrazioni trasmesse da traffico pesante (autobus). Esse sono la causa della formazione di fessure longitudinali di tipo “disgregato” posizionate sul ciglio della ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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strada. Affinché si formino, tra pavimentazione e strada non deve esserci materiale interposto e la pavimentazione deve essere allo stesso livello della strada. 2_ Azione delle acque solfatiche La penetrazione delle acque solfatiche porta alla formazione di ettringite secondaria che può causare un aumento di volume dello strato. Tale dissesto può coinvolgere sia il solo strato superficiale sia il massetto di sottofondo. 3_Abbassamenti del materiale di appoggio Il pavimento può essere ad una quota superiore rispetto alla strada con probabile presenza di cantina. In questo caso il sottofondo poggia su il materiale di riempimento dell’estradosso della volta della cantina. La pressione esercitata su tale strato interposto può generare dei cedimenti del piano di riempimento per consolidamento oppure per spinta laterale verso l’esterno e cedimento della parete di contenimento laterale. Il sottofondo si deforma e provoca la fessura sullo strato superiore (battuto). 4_ Variazioni termiche Le differenza di temperatura tra l’estradosso e intradosso nel caso di cantina voltata in senso parallelo alla strada indurre uno stato di sollecitazione, dato l’alto gradi di iperstaticità della strtuttura, capace di deformare fino a lesionare sia manto di superficie sia il sottofondo. L’entità si riduce in caso di pavimentazione su terreno. 5_ Cedimento dell’elemento di contenimento La posizione nettamente superiore del livello del portico, rispetto a quello della strada comporta un possibile cedimento dell’elemento verticale di contenimento con il successivo coinvolgimento della lastra stessa. tale cedimento può favorire la formazione di cricche interne che possono portare alla completa fessurazione _ Fessurazioni trasversali 1_ Ritiro igrometrico della sottofondazione Il ritiro si sviluppa solitamente nel senso longitudinale della lastra , portando ad una ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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fessurazione lungo la perpendicolare alla direzione dello sforzo stesso. Ricordando che il rapporto dimensionale più frequente delle lastre è di 4:3 in senso longitudinale rispetto all’asse del portico, si può quindi affermare che fessurazioni trasversali sono dovute al ritiro igrometrico che causa una contrazione della lastra. Nel caso in cui non sono previsti o sono mal eseguiti i giunti di contrazione all’interno di una lastra, e nel caso in cui sono eccessivamente distanziati a metà tra i giunti trasversali2 è possibile che il ritiro generi delle autotensioni tangenziali. Lungo la direttrice ortogonale alle tensioni massime di trazione si genera la fessura. 2_ Giunti di contrazione mancanti o mal eseguiti L’errata o mancata esecuzione dei giunti di contrazione tanto nella pavimentazione quanto nel sottofondo può portare a spostamenti differenziali tra gli strati generando conseguentemente lesioni nella direzione del giunto. 3_ Variazioni termiche Nel caso in cui ci sia una cantina sotto la pavimentazione è probabile che si generi una variazione termica del tipo a farfalla lungo lo spessore del pavimento. Se il solaio è costituito da voltine disposte in senso ortogonale rispetto alla sede stradale, le sollecitazioni possono indurre uno stato sollecitante capace di fessurare in direzione trasversale la pavimentazione. E’ da notare però che la disposizione delle voltine in senso ortogonale alla strada è piuttosto raro, pertanto tale causa può essere ritenuta di lieve entità. Supponiamo che la cantina abbia una temperatura costante, mentre la superficie esposta della pavimentazione subisca un’escursione termica rilevante. Essa genera della tensioni elevate :nel caso in cui il gradiente (espresso come il rapporto tra la variazione termica DT e lo spessore del pavimento h è positivo allora si ha un ingobbamento del sottofondo verso l’alto secondo il lato più lungo della lastra. Tale sollevamento anche se lieve genera la fessura trasversale sul battuto collocata in posizione centrale rispetto alle dimensioni del sottofondo. In base alla lunghezza critica della lastra lcr ( lcr= 20 h √[α

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Da Ferruccio Ragno,“Ammaloramenti e patologie delle sovrastrutture stradali”, L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI, n°254, da pag 48 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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(∆T/h)E] 3 , dove α è il coefficiente di dilatazione termica ed E è il modulo elastico) si individuano diversi ingobbamenti. _ Fessurazioni diagonali 1_ Vibrazioni da traffico e bocche di lupo In presenza di bocche di lupo dovute ad un piano cantinato sotto il livello stradale, si ha una concentrazione di tensioni negli spigoli delle grate, inquanto rappresentano a tutti gli effetti dei punti di discontinuità. La sovrapposizione degli effetti porta ad una fessurazione che si dirama dagli spigoli inclinata a 45° rispetto alla normale. 2_ Pavimento sotto la quota stradale Nel caso il cui il pavimento si trovi sotto la quota della sede stradale, il terreno sottostante la strada per il peso del traffico genera una spinta che ha come punto di applicazione il bordo esterno longitudinale della piastra. Una piastra soggetta a sforzi tangenziali si fessura secondo le direttrici diagonali. 3_ Dilatazioni termiche lineari La deformazione dovuta alla variazione di temperatura è ∆L/L = α ∆T, α è il coefficiente di dilatazione termica. Le dilatazioni avvengono su i due lati quindi la risultante delle tensioni generate dalla dilatazione (di trazione) è inclinata. La fessura si genera lungo la direttrice ortogonale alla risultante delle tensioni di trazione. 4_ Dilatazioni differenziali tra le bocche di lupo e il battuto alla veneziana Le deformazioni sono proporzionali al coefficiente di dilatazione termica che sono proprie di ciascun materiale. Nel caso sia presente la grata di ferro della bocca di lupo si generano delle dilatazioni differenziali, cioè la grata dilatandosi di più spinge contro il battuto alla veneziana. Si generano delle tensioni di compressione, per cui le fessure si dispongono lungo la direzione della risultante delle tensioni.

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Da P.Ferrari, F.Giannini “Ingegneria stradale. Corpo stradale e pavimentazioni”, Vol. II, Isedi Milano, 1996 ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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_ Sollevamento 1_ Effetto curling4 5 Il curling è una distorsione della lastra, con incurvamento verso il basso o verso l’alto dei bordi. Il sollevamento lascia senza supporto il lato che si può rompere a causa della presenza di forti carichi. Questo fenomeno può evidenziarsi subito all’inizio del periodo della lastra, ma anche avvenire in periodi lunghi. È causato del ritiro e della contrazione differente tra parte superiore ed inferiore e il sollevamento si registra nella direzione del restringimento relativo. I cambiamenti nelle caratteristiche della lastra che possono portare al fenomeno del sollevamento curling sono collegati spesso al grado di umidità e al gradiente della temperatura all’interno della lastra stessa. Il fenomeno è più evidente ai giunti di costruzione, ma si può verificare anche lungo le crepe o i giunti eseguiti a taglio. Per l’impossibilità di trasferire i carichi applicati, lungo i giunti di costruzione risulta esserci una perdita di contatto con il sottofondo per oltre il 20% della lunghezza della lastra, ripartita ai due estremi giuntati. Un curling immediato può essere causato da un rapido asciugamento della superficie e anche dalla miscela del composto, che favorisce l’evaporazione. Il ritiro superficiale stesso è prodotto da bleeding, accentuato in lastre con polietilene o miscele superficiali applicate sopra all’elemento e dall’assenza di sottofondi assorbenti. Può essere anche causato da carbonatazione del cemento superficiale o, nei conglomerati ad alta resistenza e ricchi di cemento, l’essicazione interna quando la pasta di cemento si idrata. Lastre sottili e grande distanza tra i giunti tendono ad aumentare il fenomeno del curling. Un altro fattore che porta al fenomeno del curling è la differenza di temperatura tra la faccia superiore e quella inferiore. Durante il giorno la temperatura maggiore espande la superficie esposta causando un incurvamento verso il basso, ma durante la notte si

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NRMCA, “Curling of concrete slabs”, in “Concrete in practice”, CIP 19, USA

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NRC-CNRC, “Curling in concrete slabs on grade”, in “Construction Technology Update”, n. 44, Canada

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hanno contrazione della parte alta fredda rispetto al quella sotto più calda, incurvamento che si somma a quello causato dalla differenza di umidità. Per ridurre la potenzialità al fenomeno del curling si posso seguire le seguenti regole pratiche:

1. scegliere lo slump utilizzabile più basso ed evitare aggiunte di acqua, soprattutto nelle stagioni calde; 2. usare un aggregato di dimensioni più grandi possibili e/o il più alto contenuto di aggregati grossolani per diminuire il ritiro a secco; 3. prendere precauzioni per evitare un eccessivo bleeding. Usare un sottofondo umido ma assorbente, così da non forzare l’acqua del bleeding verso l’alto; 4. evitare di usare barriere al vapore in polietilene a meno di non coprirle con circa 5 cm di sabbia umida; 5. evitare un contenuto di cemento maggiore del necessario se il sottofondo è umido durante la lavorazione. Cemento denso e impermeabile causa maggiormente differenze di umidità al suo interno. L’uso di cenere volante è preferibile ad un alto contenuto di cemento, considerando la resistenza a 60 e a 90 giorni; 6. curare il cemento completamente, compreso giunti e bordi; 7. per pavimenti per i quali il fenomeno del curling è un problema, trattare il cemento con cera per pavimenti del tipo usata nei “terrazzi” (note: piastrelle adesive non si attaccheranno su questi materiali); 8. seguire una spaziatura dei giunti in metri pari a quaranta volte lo spessore della lastra (esempio: 1 metro ogni 2,5cm di spessore); 9. per manti superficiale sottili, pulire il solaio di base per assicurare il legame e considerare l’utilizzo di rinforzi e intelaiature ai bordi e agli angoli; 10. usare una lastra più spessa; 11. l’uso di un rinforzo alla lastra adeguatamente progettato e applicato può ridurre il fenomeno del curling.

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2_ Perdita di aderenza localizzata al giunto La perdita localizzata al giunto diventa inevitabilmente un punto di facile aggressione dagli agenti esterni: infiltrazioni d’acqua nel tempo possono portare ad un aumento di volume dovuti alla formazione di sali e a cicli di gelo/disgelo 3_ Umidità di risalita L’umidità di risalita dal terreno può causare un rigonfiamento del sottofondo in corrispondenza dei giunti. L’ipotesi è valida soprattutto per i massetti in cemento, che, come indicato nell’analisi sui materiali per le pavimentazioni, non consente una buona traspirabilità. 4_ Dilatazione termiche costanti. Deformazioni residue L’innalzamento ai giunti può essere causato dal contrasto al lembo della lastra dovuto alla dilatazione termica costante e alle deformazioni residue permanenti di ancora minore entità. _ Lacuna 1_ Azione antropica Il continuo calpestio inevitabilmente determina una deterioramente del materiale. La resistenza all’azione antropica dipende da caratteristiche del materiale quali durezza e durevolezza tipiche dei materiali lapidei e di alcuni laterizi. L’eterogeneità del battuto alla veneziana, invece, comporta una delicatezza ed una bassa resistenza all’usura del legante: dapprima si consuma lo strato di superficiale di stucco fino al consumo dello strato superficiale del leganteche porta alla perdita dei tasselli lapidei. 2_ Reazione alcali-silice La reazione tra gli inerti contenenti silice amorfa reattiva e gli alcali del legante comporta un rigonfiamento localizzato che si manifesta con fessurazioni di forma irregolare ed espulsione localizzata di legante.

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3_ Fenomeni di gelo/disgelo e cristallizzazione di sali I fenomeno del gelo e disgelo e di cristallizzazione dei sali comportano microtensioni all’interno dei pori che arrivano a disgregare il materiale. 4_ Somma degli effetti L’azione più o meno contemporanea delle cause perturbatrici, che hanno una natura tipicamente associativa, può fare in modo che la lacuna e lo sbriciolamento siano dovute alla somma delle fessurazioni longitudinali con quelle trasversali e diagonali, alle quali si possono poi associare infiltrazioni d’acqua con conseguenti cicli di gelo e disgelo, cristallizzazioni di sali, reazioni alcali-silice. 7.4.4. Inquadramento sintetico del caso specifico Una volta analizzate le possibili configurazione del degrado, è necessario inquadrare il caso specifico che si intende studiare e risolvere. Si dovrà pertanto redigere un quadro conoscitivo capace di esplicitare il rapporto che vi è tra tipo di degrado manifestatosi, attraverso le lesioni ed i dissesti presenti, e le cause che lo hanno prodotto, come premessa fondamentale per l’esecuzione del restauro, il quale certamente non potrà iniziare se non si sono risolte le ragioni dell’ammaloramento. Questa premessa progettuale è di estrema importanza in quanto sovente si sono riscontrati casi in cui si è proceduto all’esecuzione di nuove pavimentazioni, supportate anche da nuovi massetti cementizi, senza curarsi delle cause che avevano generato il degrado, con la conseguenza diretta che lo stesso degrado si è ripresentato velocemente sulla nuova pavimentazione. Il quadro conoscitivo pertanto si presenta come anamnesi del degrado presente e allo stesso tempo come diagnosi delle cause perturbatrici finalizzate alla risoluzione del caso specifico. Per la redazione del quadro in primo luogo si dovrà, pertanto, procedere al riconoscimento del tipo di degrado specifico, indicando quali lesioni interessano la superficie della pavimentazione e quali zone sono colpite; in secondo luogo sarà necessario cercare di collegare le lesioni caratteristiche del degrado alle cause o ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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concause che le hanno generate, al fine di essere in grado di evitare il ripresentarsi della stessa configurazione di ammaloramento. Il quadro conoscitivo è quindi uno strumento utile in prima istanza alla comprensione della condizione della pavimentazione e in seconda istanza si configura come momento fondamentale per formule le ipotesi progettuali e quindi le i possibili interventi utili. In sintesi, il processo che porta alla stesura del quadro conoscitivo si può così schematizzare: 1_ individuazione delle lesioni caratteristiche e del tipo di degrado presente 2_ individuazione delle cause o concause perturbatrici 3_ comprensione del rapporto che vie è tra lesione e cause generatrice 4_ formulazione dei possibili interventi atti alla rimozione delle cause 5_ scelta progettuale 7.5 Sintesi del caso specifico come anticipazione del progetto Una volta analizzato e compreso il singolo caso, sia dal punto di vista storicocontestuale sia da quello tecnico, si dovrà ora formulare una sintesi come anticipazione al progetto. Si può dire, pertanto, che tale sintesi si presenta come il progetto in differita. La sintesi può essere articolata nel modo seguente: 1_ Conoscenza del grado di vincolo del portico, ovvero sapere se l’edificio in cui si inserisce il portico, o solamente il portico stesso, sono vincolati o meno dalla soprintendenza. 2_ Identificazione del materiale della pavimentazione, ovvero riconoscere se il materiale utilizzato è tra quelli definiti in fase di analisi come ammissibile o incongruo. Nel caso in cui sia incongruo, allora si dovrà procedere obbligatoriamente alla sua sostituzione con i materiali e le tipologie ammesse, poichè riconosciuti originari o storicizzati, nelle modalità più avanti esplicitate. 3_ Tipologia di intervento, ovvero, una volta formulato il problema, si dovrà definire il tipo di intervento in relazione al degrado presente e, come detto nei punti precedenti, a seconda del tipo di pavimentazione, del materiale utilizzato e del grado di vincolo. ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Sono previste due tipologie di intervento principali: _ INTERVENTO DI MANUTENZIONE: si intendono tutti quegli interventi atti a restituire il valore e il pregio della pavimentazioni esistenti nonchè le prestazioni originarie delle stesse. Si potrà intervenire in tal modo nei casi in cui il livello del degrado non è ancora tale da far risultare necessario il totale rifacimento, e quindi nei casi in cui non sono riscontrabili delle cause perturbatrici pericolose, la cui rimozione comporterebbe la demolizione della pavimentazione. La metodologia da utilizzare è chiaramente in relazione alla tipologia di pavimentazione: _ pavimentazioni continue monolitiche: la manutenzione avverrà per lastra. _ pavimentazioni discontinue: la manutenzione avverrà per elementi. La cura di tale intervento è in relazione all’importanza che si attribuisce alla pavimentazione, ovvero se ne si riconosce il valore storico. Si possono trattare in tal modo quelle pavimentazioni caratterizzate dalla presenza di lacune più o meno diffuse, dal sollevamento ai giunti, se riparabili come descritto nelle successive schede e da fessurazioni più o meno importanti. E’ fondamentale utilizzare in tale intervento materiali compatibili e possibilmente naturali, quali calci idrauliche e inerti privi di solfati. _ INTERVENTO DI RIFACIMENTO: si intendono tutti quegli interventi che prevedono la sostituzione integrale della pavimentazione preesistente. Questo tipo di intervento è giustificabile e pertanto lecito nei seguenti casi: _ pavimentazione esistente definita incongrua _ livello del degrado importante e diffuso sull’intera pavimentazione _ cause perturbatrici pericolose, la cui rimozione comporta la demolizione della pavimentazione esistente La scelta della pavimentazione da adottare è in relazione alle seguenti considerazioni:

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_ grado di vincolo dell’edificio: nel caso in cui questo sia vincolato dalla sovrintendenza, la scelta della pavimentazione sarà maggiormente sensibile al rapporto che sussiste tra pavimentazione e tipo di edificio in termini storici e stilistici piuttosto che al contesto; viceversa per tutti quei portici la cui monumentalità è stata riconosciuta non nella loro singolarità, ma in quanta parti di un ambiente urbano riconosciuto opera d’arte, prevarrà il rapporto che vi è tra edificio e contesto. _ aspetti tecnici-funzionali: se si dovesse riscontrare una omogeneità del degrado estesa su un’area importante tale da interessare più portici adiacenti, allora è lecito per definire la scelta far prevalere gli aspetti tecnici e funzionali su quelli storici estetici o meglio ancora, se possibile, riuscire a contemperare le istanze storico-estetiche con gli aspetti tecnici finalizzati alla risoluzione del degrado. Esemplificativi, in tal senso, sono quei casi in cui si ha una stessa configurazione di degrado estesa su più pavimentazioni di portici collocati sulla stessa strada, chiaro sintomo dell’azione di una specifica causa perturbatrice. La soluzione più idonea da adottare è quella che si origina dalla dialettica tra le istanze storiche-estetiche, già spiegate in precedenza, dedotte quindi dall’analisi dei rapporti pavimentazione-edificio e edificio-contesto, e gli aspetti tecnici-funzionali come risposta alla risoluzione del degrado. Seppure sia preferibile utilizzare una pavimentazione derivante dalle istanze storicheestetiche e risolvere le cause del degrado attraverso l’applicazione degli aspetti tecnici, soprattutto per i portici vincolati dalla soprintendenza, nei casi in cui questo non sia possibile, è lecito procedere all’esecuzione di una pavimentazione la cui preferenza ricade sui soli aspetti tecnici atti ad evitare il ripresentarsi delle stesse configurazioni di degrado.

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7.6 Progetto del Restauro (cfr. tav. P20) Si può ora procedere alla formulazione di indicazioni progettuali generali che siano al tempo stesso in grado di cogliere e risolvere le specificità di ogni singolo caso. Si seguirà un metodo che parte dalla distinzione del tipo di intervento, di manutenzioneintegrazione e di rifacimento-sostituzione. Nel primo caso, l’applicazione delle metodologie di intervento sarà indipendente dal grado di vincolo dell’edificio in cui si inserisce il portico, in quanto è obbligatorio garantire la stessa cura e la stessa qualità indipendentemente dall’importanza che ha il manufatto in questione, se non altro per garantire il mantenimento nel tempo delle prestazioni di tutte le pavimentazioni, dovendo queste rispondere agli aspetti funzionali ed economici; nel secondo caso, quindi per gli interventi di rifacimento e sostituzione, come emerge dalle considerazioni formulate in precedenza, la scelta della nuova pavimentazione che sostituirà quella preesistente dipenderà dal grado di vincolo dell’edificio di riferimento. 7.6.1 Manutenzione: intervento integrativo sull’esistente Tale intervento dipenderà chiaramente dalla tipologia della pavimentazione preesistente ed è permessa per i pavimenti definiti ammissibili in fase di analisi soggetti a degrado superficiale. Si ricorda, quindi, che non ha alcun senso parlare di manutenzione dei pavimenti incongrui per i quali è prevista la diretta e totale sostituzione. In prima istanza è opportuno distinguere tra le pavimentazioni continue e monolitiche caratterizzate da un comportamento a lastra, in cui ricadono i battuti alla veneziana, e quelle costituite dalla giustapposizione di elementi più o meno regolari, quali tutte le altre pavimentazioni ammissibili, come quelle in pietre cottee (laterizi e cottiforti) e quelle in elementi in pietra naturale (ciottolati e masselli). Nel primo gruppo, data la grande sensibilità al degrado di questa tipologia, l’intervento sarà più complicato e dipenderà strettamente dalla configurazione delle lesioni caratteristiche. Per questi tipi di pavimentazioni, per evitare rattoppi inefficaci e antiestetici, si procederà alla manutenzione per lastra, intesa come quella superficie compresa tra due giunti di contrazione.

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Il secondo gruppo di pavimenti è meno soggetto a quei tipi di degrado che portano alla distruzione della materia e, per questo, è molto più longevo, sia per il suo comportamento meccanico che consente lo spostamento e le deformazioni di ogni elemento costituente, sia per le caratteristiche fisiche e meccaniche degli elementi, che per loro stessa natura sono caratterizzati da elevate caratteristiche di durezza e durevolezza. Per questi, la manutenzione agirà a livello dei singoli elementi costituenti. Si procederà pertanto alla distinzione tra le due tipologie di pavimentazioni, ognuna di questa analizzata in funzione delle lesioni caratteristiche presenti: 1_ pavimenti monolitici: comportamento a lastra: _ fessurazioni e lacune Si ritiene che la risoluzione delle fessure, longitudinali, trasversali e diagonali, sia inefficace dal punto di vista del mantenimento dell’intervento e soprattutto non accettabile dal punto di vista estetico poiché, in questo senso, aggrava la situazione piuttosto che migliorarla. L’intervento, pertanto, riguarderà l’intera lastra o le diverse lastre colpite dalle fessure, provvedendo alla rimozione dello strato superficiale del battuto ed al suo rifacimento, avendo cura di scegliere lo stesso tipo di battuto preesistente per colore e dimensione degli inerti seminati. Per le tecniche esecutive dettagliate, cfr. par. 7.7. _ sollevamento ai giunti. Per la risoluzione di tale lesione, si procede con taglio meccanico dei lembi sollevati in direzione trasversale rispetto all’asse del portico, sia dello strato superficiale che del massetto, e con successivo rifacimento della parte eliminata, provvedendo a porre due giunti in posizione adiacente alla pavimentazione preesistente. Il tipo di veneziana che sostituirà la parte eliminata potrà essere uguale oppure differente nei caratteri rappresentativi: infatti pare che scegliendo colore, aggregati e tipo di semina differenti da quelli della veneziana preesistente, rendendo quindi evidente la lavorazione effettuata, non solo si renderebbe anche riconoscibile l’intervento di restauro, cosa sempre di buona norma per tutti gli interventi sugli edifici ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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monumentali vincolati, ma si proporrebbe anche un nuovo disegno, peraltro già ricorrente nei pavimenti storici, che fungerebbe da fascia ornamentale a rappresentare la separazione tra lastra e lastra. Per le tecniche esecutive dettagliate, cfr. par. 7.7. 2_ pavimenti discontinui _ lacune e sbriciolamento. Si interverrà in tal caso con l’intenzione di riportare la pavimentazione nelle condizioni originarie in termini di continuità e di prestazioni, procedendo alla sostituzione degli elementi mancanti con elementi compatibili avendo cura di sceglierne un tipo eguale in colore e caratteristiche. 7.6.2 Totale rifacimento Si interverrà con la totale sostituzione del pavimento nei casi in cui: 1_ indipendentemente dal vincolo sul portico, ci si troverà ad individuare una pavimentazione incongrua, ovvero costituita da materiali classificati come non ammissibili in fase di analisi. 2_ dall’analisi del degrado dovesse risultare che la pavimentazione in questione presenti un livello di ammaloramento tale da dover procedere alla sua demolizione e sostituzione, al fine di poter eliminare radicalmente il ripresentarsi delle stesse cause perturbatrici, quali risalita di acqua capillare, cedimenti del sottofondo, come i materiali di riempimento delle volte del piano cantinato, e/o del terreno stesso, giunti di contrazione mal eseguiti, e altri ancora definibili pericolosi al mantenimento delle prestazioni nel tempo 3_ gli interventi di manutenzione fossero giudicati non sufficienti alla risoluzione della configurazione del degrado

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7.6.2.1 Aspetto concettuale Data l’incredibile varietà dei casi e l’impossibilità di ricondursi a zone omogee, il rifacimento della pavimentazione comporta un approccio metodologico finalizzato alla scelta della nuova tipologia che sostituisce la pavimentazione preesistente. L’intenzione è quella di evitare un restauro acritico di ripristino proprio per evitare “l’adagio nostalgico del com’era e dov’era”6 con la diretta conseguenza di ingessare lo stato di fatto o il ricondursi ad una realtà storica passata forse mai esistita, attraverso l’imposizione di normative di tipo prescrittivo. L’unica imposizione riguarda la scelta di materiali definiti ammissibili e l’utilizzo di tecniche compatibili con i materiali storici di cui i portici sono costituiti. Il momento del restauro, infatti, è il tempo presente in cui avviene il riconoscimento dell’opera d’arte, e, a livello concettuale, dovrebbe, per questo, proporre soluzioni critiche evitando di considerare il tempo reversibile che farebbe diventare “riproducibile l’opera d’arte a volontà”. 7 “L’azione del restauro inoltre, (...), non dovrà porsi come segreta e quasi fuori dal tempo, ma dare modo di essere puntualizzata come evento storico quale essa è, per il fatto di essere azione umana, e di inserirsi nel processo di trasmissione dell’opera d’arte al futuro”8 La soluzione dovrà coniugare l’aspetto concettuale, derivante dall’analisi del storica del portico e del contesto urbano, in cui il caso specifico si inserisce, a quello tecnico funzionale, per evitare il riproporsi di delle cause perturbatrici. 7.6.2.2 Aspetto tecnico Accorgimenti tecnici nell’esecuzione degli interventi: 1_ utilizzo di malte a base di calce idraulica per il massetto e il battuto alla veneziana;

6

Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, pag. 47

7

Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, pag. 33

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Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, pag. 26

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2_ costruzione di una fascia sacrificale posta sul fronte strada in pietra naturale o cotta, efficace nel ridurre il degrado e motivo di ornamento del disegno; 3_ scelta del tipo di pavimentazione, nei casi di degrado speciale, in base a parametri tecnici e funzionali. 7.6.2.3 Scelta del tipo di pavimentazione La scelta del tipo di pavimentazione che andrà a sostituire quella preesistente dipenderà da un giudizio storico-critico il cui discriminante sarà il dialogo che intercorre tra il rapporto pavimentazione-portico e il rapporto portico-contesto urbano, la prevalenza di uno dei quali è in relazione al grado di vincolo imposto dalla sovrintendenza. 1_ Portico vincolato Come prima osservazione, è necessario ricordare che qualunque tipo di intervento su monumenti vincolati deve seguire scrupolosamente il D.LGS 42 del 22 Gennaio 2004. A livello metodologico, la prima distinzione da fare è quella che riguarda il tipo di pavimentazione che deve essere riconosciuta come ammissibile o come incongrua. Verrano ora qui presentati i diversi casi possibili: 1A_ pavimentazione congrua. Si procederà ad un intervento di restauro di ripristino, in quanto si deve considerare ora quella pavimentazione come espressione della storia del monumento e allo stesso tempo del contesto, la cui variazione distrarrebbe la percezione e la continuità di quel particolare luogo e falsificherebbe l’evoluzione storica di quello specifico tessuto urbano, nel quale tutti si riconoscono e che tutti riconosco. 1B_ pavimentazione incongrua. In tal caso si rende inevitabile elaborare un giudizio di preferenza che porti a scegliere una pavimentazione rispetto ad un’altra. Poiché l’edificio porticato è già, in questo caso, monumento nella sua singolarità, pare più opportuno che la scelta sia maggiormente sbilanciata sul rapporto che sussiste tra portico e relativo edificio, ovvero sul legame che riguarda e rappresenta l’opera d’arte nella sua individualità, subordinato all’ambiente urbano circostante.

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Per questo, si può elaborare la scelta come interpolazione critica dei caratteri che definiscono l’edificio in questione quali: l’epoca, lo stile architettonico, la materia degli elementi costitutivi e il colore prevalente. Si dovrà pertanto redigere una “carta d’identità” dell’edificio che rappresentandone la storia e i caratteri fondamentali, sia in grado di portare ad una scelta per un restauro consapevole. In questo senso, infatti, non necessariamente la scelta più opportuna è quella di proporre una pavimentazione supposta originaria perché la più antica, in quanto per quell’edificio, ha più valore una pavimentazione più recente ma considerata più riconoscibile e presente nella memoria della città e in quella umana. 2_ Portico non vincolato Per i portici non soggetti a vincolo dalla soprintendenza, la dialettica tra i rapporti inizialmente descritti, portico-edificio e portico-contesto, è sicuramente più libera e la scelta potrà propendere verso l’uno o l’altro a discrezione del proprietario e/o del progettista, purché ci si avvalga di un’analisi storico-critica dell’edifico e del contesto allo stesso tempo. Questa categoria di portici, infatti, non trova il riconoscimento della suo essere opera d’arte, della sua monumentalità, nelle specificità che caratterizzano ogni singolo caso, ma nella varietà stilistica e tipologica che crea un ambiente monumentale coincidente con il tessuto urbano. La scelta definitiva, poi, dovrà essere effettuata nel ventaglio delle soluzioni proposte, definite in queste linee guida, come ammissibili. Si ritiene opportuno precisare che è vietato in ogni caso l’uso di materiali incongrui. Seguendo la stessa metodologia procedurale, la prima distinzione avverrà nel momento in cui si individua e si riconosce la congruità della materia di cui la pavimentazione è costituita: 2A_ pavimentazione congrua. In tal caso nell’intervenire col rifacimento, la scelta della nuova pavimentazione ricadrà tra quelle ammissibili, e si espliciterà nella dialettica che intercorre tra il rapporto microscopico portico-edificio e quello macroscopico-contestuale portico-tessuto urbano.

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Sarà il progettista o il proprietario stesso ad operare la scelta stabilendo quale delle due relazioni prevalga sull’altra, tenendo però presente che, in questo caso, la pavimentazione preesistente, dato che è tra quelle congrue, può avere più valore rispetto alle altre in quanto è possibile che sia entrata a far parte della memoria urbana che porta al riconoscimento di quel luogo. Ricondursi infatti ad una unità di stile forse mai esistita, negando l’importanza dello stato attuale rappresentativo di un epoca, non necessariamente è la scelta più opportuna. 2B_ pavimentazione incongrua. Si procederà alla demolizione della pavimentazione preesistente definita incongrua, sostituendola con una tra le possibili tipologie ammesse. La dialettica tra la relazione portico e contesto, ha in questa caso, molto più peso e valore, in quanto sarebbe opportuno ricostruire quell’unità di stile legata all’origine e allo sviluppo di quel contesto urbano al fine di riproporre una continuità percettiva in cui ha più importanza l’aggregato piuttosto che il singolo edificio. 7.7 Aspetti tecnici e funzionali Verranno qui ora descritti gli accorgimenti tecnici da seguire durante gli interventi di rifacimento e di manutenzione della pavimentazione. L’obiettivo di questi è di mantenere nel tempo le prestazioni dei pavimenti, di prolungarne la vita utile al fine prolungare di una più duratura conservazione nel tempo. Tali accorgimenti condizionano nel tipo la tecnica esecutiva con lo scopo di evitare il ripresentarsi dello stesso tipo di degrado che si è provveduto ad eliminare. Si procede ora a distinguerli a seconda del tipo di intervento, di manutenzione o di totale rifacimento. 7.7.1 Manutenzione _ Sollevamento ai giunti (cfr. tav. P21) _Parametri coinvolti. Il ritiro aumenta al diminuire del rapporto i/c e all’aumentare del rapporto a/c.

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Inoltre la composizione chimica del cemento, la granulometria e le caratteristiche meccaniche degli aggregati e l’ambiente di esposizione (temperatura esterna, umidità relativa, velocità dell’aria) influenzano notevolmente il ritiro igrometrico. _ Fattori che influenzano l’imbarcamento.9 _ TIPO DI SUPPORTO: evitare supporti permeabili (barriere al vapore, vecchie solette preesistenti, ...); _ QUANTITA’ ACQUA PRESENTE NEL CLS FRESCO: ridurre il rapporto a/c = 0,45 - 0,5 potrebbe ridurre l’imbarcamento solo se fosse considerato insieme alle altre variabili, come la previsione della giusta maturazione; _ SPESSORE DEL PAVIMENTO: il peso proprio del pavimento dato dallo spessore a disposizione riduce l’imbarcamento, ma solo se abbinato alle altre variabili; _ UN CLIMA CALDO E SECCO: la rapida evaporazione dalla superficie dell’acqua contenuta nell’impasto aumenta il ritiro del pavimento e di conseguenza l’imbarcamento; _ MATURAZIONE INSUFFICIENTE: il getto deve essere protetto da una rapida evaporazione, ma per la veneziana ciò può avvenire dopo le lavorazioni di finitura. _ Obiettivo dell’intervento. L’obiettivo dell’intervento è di riparare le parti di pavimentazione sollevata mantenendo quelle non degradate. Dal momento che l’intervento è visibile dal punta di vista estetico, la strategia è quella di discostarsi dalle caratteristiche fenotipiche originarie, creando il nuovo tratto di pavimento o con le stesse tecniche, ma con colori diversi, o persino con materiali e tecniche diverse al fine di proporre un nuovo disegno che si discosti intenzionalmente dall’originale. _ Prevenire l’imbarcamento. _ IMPIEGO DI CALCE O DI CEMENTO A RITIRO COMPENSATO _ AUMENTARE LO SPESSORE _ OBBLIGATORIA MATURAZIONE PROTETTA 9

R. Aicardi, Progettazione, costruzione e calcolo delle pavimentazioni industriali, 2006, Esselibri

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_ Eliminare a posteriori l’imbarcamento _ A _ Sollevamento della sola pavimentazione: l’intervento consiste in una taglio meccanico della pavimentazione con successiva stesura della parte mancante usando malte aggrappanti ed espansive. E’ possibile procedere costruendo due giunti adiacenti la pavimentazione illesa oppure con un giunto unico centrale nella posizione originaria. _ B _ Sollevamento del massetto e della pavimentazione: l’intervento

consiste

nell’eliminare scarificando quella parte di pavimento che risulta imbarcata procedendo ad eliminare dapprima i vuoti verticali per evitare possibili cedimenti, iniettando una boiacca o una resina espandente al fine di riempire il vuoto tra supporto e fondo. Successivamente si procederà a ricostruire con una malta espansiva compatibile con il materiale preesistente. E’ possibile procedere costruendo due giunti adiacenti la pavimentazione illesa oppure con un giunto unico centrale nella posizione originaria. 7.7.2 Totale rifacimento (cfr. tav. P22) All’aspetto concettuale che, come si è visto, si basa sulla dialettica tra il binomio portico-edificio e portico-contesto, è utile coniugare degli aspetti tecnici funzionali al mantenimento delle prestazioni nel tempo. Gli accorgimenti non seguiranno più il grado di vincolo del portico, ma piuttosto dipenderanno dalla sua epoca storica e da parametri che tengono conto dell’impatto che le cause perturbatrici più frequenti hanno sul degrado della pavimentazione. Per questo si è elaborato uno schema ad albero, seguendo il quale si ottiene una soluzione alle diverse possibili situazioni specifiche. Tale diagramma tiene conto dei seguenti parametri: 1_ storicità del portico e/o dell’edificio. Antico (ante 1920) e Contemporaneo (post 1940); 2_ tipo di pavimentazione stradale. Continua (asfalto bituminoso) o discontinua (cubetti di porfido o masselli di granito). 3_ Intensità del traffico veicolare pesante. Elevato o moderato. 4_ Collocazione della pavimentazione del portico rispetto alla sede stradale La soluzione del diagramma non è univoca, ma propone un ventaglio di soluzione comprese tra quelle ammissibili atte a evitare il ripresentarsi del degrado; in ogni caso la ____________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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soluzione finale tra quelle proposte dallo schema in questione, sarà sempre contemperata degli aspetti storici e concettuali. Le soluzione fungono pertanto come suggerimento, come consiglio utile ad avvisare sulle possibili conseguenze che una particolare scelta, magari risultante da considerazioni prettamente storico-estetiche, può avere sul comportamento futuro delle pavimentazioni. L’aspetto tecnico, qui presentato, può prevalere su quello concettuale solo nel caso in cui si dovesse individuare una condizione di “degrado speciale”, ovvero una condizione per cui si ha la stessa configurazione di degrado estesa a numerose pavimentazioni di diversi portici. I risultati di queste considerazioni suggeriscono che: 1_ è preferibile utilizzare malte a base di calce per tutti quei pavimenti di portici classificati come antichi. Il loro impiego porta a vantaggi indiscutibili, se si trascura l’aspetto economico e quello legato alla velocità di esecuzione. Essendo caratterizzate da un modulo elastico più basso rispetto al cemento, queste malte consentono deformazioni maggiori, evitando quindi il presentarsi delle lesioni già descritte. Inoltre, essendo meno soggette a ritiro idraulico, difficilmente provocano l’imbarcamento; consentono interventi reversibili poiché possono essere facilmente rimosse, sono compatibili dal punto di vista fisico-meccanico con i materiali tradizionali dell’edilizia storica, garantiscono la traspirabilità degli strati per le particolari caratteristiche di porosità e capillarità; 2_ le malte cementizie e le resine sono ammesse per portici relativi ad edifici di età contemporanea, dal secondo dopoguerra in poi, per cui era già pratica comune utilizzare il cemento; 3_ utilizzo di una fascia sacrificale che, dalle analisi riscontrate, risulta essere particolarmente efficace per evitare il presentarsi di fessurazioni tipiche delle vibrazioni da traffico e di altre forme di degrado dovute a cause generali, quali ad esempio l’effetto antropico. Inoltre tale fascia, già utilizzata come accorgimento storico, è un espediente estetico che funge anche da disegno della pavimentazione stessa.

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4_ nel caso di lavorazioni per il rifacimento di nuovi pavimenti su massetti già esistenti, è fondamentale utilizzare materiali compatibile dal punto di vista fisico e meccanico: se il massetto è in cemento si suggerisce di utilizzare sempre cemento per il battuto o resine per; se il massetto è in calce è d’obbligo utilizzare malte di calce naturali per le finiture superficiali.

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8_ ILLUMINAZIONE


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8.1 Premessa. Il degrado luminoso attuale. Si è ormai discusso a sufficienza sul degrado straordinariamente diffuso che permea la materia architettonica dei portici. Ma mai come in un rilievo fotografico la percezione del degrado prende forma e dimensione. La visione umana infatti tende a percepire solo ciò che vuole vedere: l’immagine che si riflette nella retina non è che l’inizio di quel calcolo cerebrale meraviglioso che comunemente viene detta percezione visiva. Infatti il senso della vista vede solo ciò che vuol vedere e quasi mai la totalità dell’immagine, ovvero quella che viene proiettata sulla retina. Ecco allora che durante una passeggiata sotto i portici quello che vediamo è solo una minima parte di ciò che realmente è presente: prestiamo più attenzione alla visione complessiva del contesto in cui siamo immersi piuttosto che al particolare. L’illuminazione rappresenta una forma di degrado complementare a quella di cui la materia è affetta: sembra infatti progettata per celare, per nascondere la materia, la monumentalità complessiva dell’opera, il pregio unico dei portici come percorso urbano. Sembra quasi che il degrado che coinvolge la stessa società civile voglia negare i fatti urbani di eccezionale valore che hanno portato all’origine del portico. In questo triste contesto si spera che sia così, perché almeno la progettazione avrebbe avuto un fine, uno scopo; e non ricadrebbe in una delle tante progettazioni casuali e confuse che stanno distruggendo il centro storico. Luci che abbagliano, luci accese del solo buio notturno, luci gialle che confondono, luci delle vetrine commerciali, luci bianche ospedaliere, luci improvvisate, luci che illuminano punti focali sconosciuti sono al servizio di quello che dovrebbe essere uno dei più pregevoli palcoscenici d’Italia, la quinta scenografica di uno, come afferma lo stesso Cesare Brandi, dei più eccellenti e continui tessuti urbani al mondo. Si dimostra facilmente la necessità di un progetto di illuminazione dei portici che si prometta di riportare-alla-luce la monumentalità persa dell’opera d’arte nel suo complesso. Da luce per nascondere a luce per rivelare, luce per scoprire: ecco che in questo senso il progetto dell’illuminazione si affianca al quello di restauro che, nelle considerazioni fatte nel momento analitico trova la giustificazione e la metodologia per operare nella materia dell’opera d’arte. _______________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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Se il restauro è il momento metodologico che ha il fine ultimo di rivelare l’autenticità e i valori umani di cui il monumento è portatore, ecco allora che il progetto di illuminazione non fa altro che seguire questa teoria altissima per rivelare in senso concreto la materia. Illuminare significa rivelare, e per questa suo significato la progettazione della luce si deve porre come facilitazione alla lettura del monumento. L’accento, pertanto non dovrà essere posta sull’illuminazione in sé, ma sulla superficie che raccoglie i raggi luminosi; non dovrà essere in questo senso grandiosa o attrattiva ma dovrà essere pura forma rivelatrice, quasi che sia naturale, quasi non si comprenda l’artificiosità della luce che la fonte emana. In fase di analisi si è riconosciuta come istanza estetica il carattere di unità dato dalla varietà. Ed è proprio questa istanza la chiave per progettare la luce. La dualità in questa fase consiste nel fatto che seppur i portici sono tutti diversi nella grammatica architettonica e nella tipologia costruttiva, nell’insieme, o meglio nell’intero come recita il Brandi, si percepiscono come un unico percorso urbano scandito dagli elementi invarianti quali le colonne, le pareti interne, le pavimentazioni e gli orizzontamenti, quattro elementi quasi come se fossero i punti cardinali del percorso stesso. Si intende esprimere l’unità attraverso un’illuminazione diffusa, indiretta qualitativamente uguale per tutti i portici, mentre la varietà verrà esaltata con un’illuminazione diretta, calda, puntuale.

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8.2 Fisiologia ottica finalizzata alla comprensione (cfr. tavola A24) Per cercare di raggiungere risultati efficaci ed efficienti in termi di illuminazione è sembrato opportuno partire dalla comprensione del funzionamento dell’occhio umano, ovvero come l’occhio reagisce agli stimoli luminosi. _ Principi di ottica applicati all’occhio Per descrivere la percezione visiva non è sufficiente rappresentare l'occhio come un sistema ottico, ma si deve spiegare anche l'interpretazione dell'immagine. Sia la psicologia della percezione che l'oggetto della percezione contribuiscono alla comprensione di elementi importanti per la progettazione illuminotecnica. La percezione effettiva, infatti, non consiste tanto nella riproduzione dell’ambiente sulla retina, quanto nell’interpretazione di questa riproduzione; nella distinzione di oggetti con caratteristiche costanti anche quando si trovano in ambienti differenti. L‘approccio per illustrare il procedimento di percezione è quello del raffronto tra l‘occhio ed una macchina fotografica: nella macchina fotografica l‘immagine inversa di un oggetto viene proiettata sulla pellicola attraverso un sistema di lenti regolabili; il diaframma regola la quantità della luce. Dopo lo sviluppo e l‘inversione dell’ingrandimento si ha un’immagine visibile e bidimensionale dell’oggetto. Allo stesso modo nell’occhio si ha la proiezione sul fondo di esso di un’immagine inversa attraverso una lente deformabile, l‘iride, con la pupilla, assume la funzione del diaframma e la retina, sensibile alla luce, assume il ruolo della pellicola. Dalla retina l’immagine viene trasportata dal nervo ottico fino al cervello dove, nella regione del cervello detta corteccia visiva, viene nuovamente raddrizzata per prenderne coscienza. Nell’occhio ci sono differenze tra l’effettiva percezione e l’immagine sulla retina. Ciò è dovuto alla distorsione dell’immagine dovuta dalla proiezione sulla superficie curva della retina e dall’aberrazione cromatica. I raggi di luce di diverse lunghezze d’onda hanno diverse rifrazioni, quindi attorno agli oggetti si formano degli anelli di colore. Questo errore viene corretto dal cervello nell’elaborazione dell’immagine. Quando vengono percepiti degli oggetti con una data disposizione nello spazio, sulla retina si formano delle immagini in prospettiva distorte. Si ha così, ad esempio, che un _______________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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rettangolo visto da una data angolazione assume un‘immagine trapezoidale sulla retina. Tale immagine potrebbe anche essere una superficie trapezoidale vista da davanti. Viene percepita però solo una forma, il rettangolo che effettivamente ha dato luogo all’immagine. Questa percezione di una forma rettangolare rimane addirittura costante quando l‘osservatore o l‘oggetto si muovono, anche se la forma dell’immagine proiettata sulla retina cambia continua. _ Densità dei recettori Sulla retina vi è un’area caratterizzata da una densità di recettori particolarmente elevata, detta fovea, situata nel punto focale del cristallino. Qui si trova un’altissima concentrazione di coni, la cui densità diminuisce spostandosi verso le zone periferiche; i bastoncelli, al contrario, sono assenti nella fovea, mentre il loro numero è elevato nelle zone più esterne. Ciascuna retina contiene circa 100.000.000 bastoncelli e 3.000.000 coni (rapporto 10:3), mentre il numero delle cellule gangliari è solo circa 1.600.000. Quindi su ogni fibra del nervo ottico convergono, in media, 60 bastoncelli e 2 coni. Esistono notevoli differenze tra la parte periferica e quella centrale della retina. Avvicinandosi alla fovea va diminuendo il numero dei bastoncelli e dei coni che convergono su ogni fibra ottica e, sia i bastoncelli sia i coni vanno facendosi più sottili. Questi due fattori fanno sì che l’acuità visiva vada progressivamente aumentando verso il centro della retina. Nella parte centrale della retina, infatti, vi sono solo coni sottili, circa 35.000, e non vi sono bastoncelli. Inoltre, il rapporto tra fibre del nervo ottico e coni è pressoché di 1:1. Questo è il principale elemento che spiega l’acuità visiva della parte centrale a confronto con quello delle zone periferiche che è assai scarsa. D’altra parte nelle zone periferiche è considerevolmente maggiore la sensibilità alla luce debole per il fatto che i bastoncelli sono circa da 30 a 300 volte più sensibili dei coni alla luce e soprattutto perché in tali zone vengono a convergere per ogni fibra del nervo ottico fino a 200 bastoncelli in modo tale che sia possibile la somma dei segnali proveniente dai bastoncelli che porterà ad una stimolazione ancora più intensa delle cellule gangliari periferiche.

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_ Coni I coni costituiscono un sistema con caratteristiche differenti, che definisce la nostra vista in presenza di maggiore intensità della luce, ossia in presenza di illuminazione diurna o artificiale. Il sistema a coni è dotato di una minore sensibilità alla luce. Permette di distinguere i colori e di vedere con nitidezza gli oggetti osservati e focalizzati la cui immagine viene indirizzata sulla fovea. _ Bastoncelli Tra i due sistemi quello che si è sviluppato per primo è quello dei bastoncelli, le cui caratteristiche consistono in un’elavata sensibilità alla luce ed una grande capacità di percezione del movimento a tutto campo. D’altra parte con i bastoncelli non è possibile distinguere i colori, la nitidizza della visione è limitata e non si può focalizzare la vista su di un oggetto. _ Luminanza La capacità di adattamento agli illuminamenti è resa possibile solo in piccola parte dalla pupilla (30:1). Le aree di diversa intensità luminosa sono percepite dai coni e dai bastoncelli; i bastoncelli sono efficaci nella visione notturna (scotopica), mentre i coni sono sensibili alla visione diurna (fotopica), entrambi collaborano nella visione intermedia mesopica. _ Tempo di adattamento Il riadattamento a situazioni più luminose avviene in modo relativamente rapido, mentre l’adattamento al buio richiede più tempo. Il fatto che i contrasti di luminanza posso essere elaborati in una data misura dall’occhio ed il fatto che l’adattamento ad un nuovo livello di illuminazione richiede del tempo hanno degli effetti nella progettazione illuminotecnica. _ Costanza dei colori Come per la percezione della luminosità, anche la percezione dei colori dipende dai colori circostanti e dal tipo di illuminazione. I colori vengono percepiti costantemente _______________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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durante la visione, al contrario di quanto accade nelle riprese fotografiche in cui il colore di un soggetto varia al variare della luce di scena. “Edwin Land, lavorando alla realizzazione della macchina fotografica Polaroid a colori, notò che, entro certi limiti, una variazione di colore della luce di illuminazione di una scena modificava la colorazione della fotografia, ma non alterava significativamente quella della scena stessa percepita dall’occhio umano. Questo fenomeno è chiamato costanza dei colori e non è ancora completamente chiarito. Si ritiene che esso possa essere spiegato nel modo seguente. Il cervello anzitutto rileva la colorazione globale dell’intero quadro visivo, a partire da tutti i colori della scena. Questo processo risulta agevolato quando alcune zone del quadro sono note al sogetto come bianche. Utilizzando questa informazione della colorazione globale, il cervello effettua poi matematicamente gli appropriati aggustamenti richiesti dalla variazione di colore della luce di illuminazione. L’esatto meccanismo nervoso con cui avviene si attua questa operazione è ancora da chiarire. A livello della corteccia visiva primaria si trovano gruppi di cellule di forma approssimativamente cilindrica, detti blob, che, quando cambia la lunghezza d’onda della luce di illuminazione, generano un’attività elettrica conforme al fenomeno della costanza dei colori. Il fenomeno della costanza dei colori ha importanza ai fini della sopravvivenza, come risulta ovvio se si considera, ad esempio, che esso permette ad un animale di continuare a discriminare, in base al colore, le piante di cui può nutrirsi da quelle che sono velenose, sia alla luce brillante del sole, sia a quella rossastra dell’alba” 1 E’ necessario ricordare, dopo questa breve spiegazione scientifica, che la costanza dei colori è valida solo a livello quantitativo, ma nulla dice riguardo alla qualità dell’immagine a seconda del colore dell’illuminazione di scena. Considerazione che sarà utilissima nel progetto di illuminotecnica.

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Guyton - Hall, Fisiologia medica, EdiSES, Napoli, 1999, pag. 658

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8.3 Scelta della sorgente luminosa (cfr. tavola A25) _ Illuminazione migliorata attraverso la visione scotopica Storicamente, i produttori di lampade hanno utilizzato gli esposimetri per determinare i lumen che sono calibrati in base alla sensibilità dell’occhio alla visione fotopica, ovvero considerando utile solo il funzionamento dei coni che, come già detto, sono presenti maggiormente nella parte centrale della retina. Gli esposimetri ignorano completamente l’effetto dei bastoncelli e quindi la visione scotopica. Come risultato, si accettava questa singolo funzionamento della sensibilità visiva perché si riteneva erroneamente che i bastoncelli si attivassero esclusivamente in presenza di un basso livello di illuminazione. _ L’esperienza di Sam Bernand, professore emerito Berkeley University2 Una sorgente di luce che tenga conto del ruolo fondamentale che i bastoncelli hanno anche nella visione diurna (fotopica) aumentando la lunghezza d’onda del blu. Il miglioramento che ne deriva provoca: _riduzione dell’apertura della pupilla _ migliore percezione della luminosità Il diametro pupillare varia sia al variare dell’intensità luminosa e sia al variare dello spettro dell’emissione luminosa. Se però non è stata trovata una correlazione tra la variazione della pupilla e l’intensità della luce, misurata con un tradizionale esposimetro, si è notato uno stretto legame tra la variazione della pupilla stessa e la variazione delle lunghezze d’onda sensibili ai bastoncelli, ovvero ciò che viene detto funzione di sensibilità spettrale dei bastoncelli o più semplicemente funzione di risposta scotopica. _ Conclusioni sintetiche Illuminazione caratterizzata da un alto rapporto scotopica/fotopica (S/P) e quindi da una elevata temperatura colore, permettono: 2

Per approfondimenti, cfr. http://www.ruudlighting.com

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_ migliore acuità visiva _ riduzione della fatica _ riduzione abbagliamento _ aumento del senso dell’orientamento _ aumento percezione della sicurezza _ aumento delle performance visive Studi recenti, iniziati circa 15 anni fa dal Dipartimento di Energia degli Stati Uniti d’America, dimostrano inequivocabilmente e in modo oggettivo che i bastoncelli non si attivano solo in presenza di una scarsa illuminazione (10E-2 - 10E-6 cd/m2), ma anche in condizioni tipiche di illuminazione artificiale degli interni. Infatti si è scoperto che i bastoncelli sono molto più sensibili dei coni alla luce blu-bianca che è caratteristica di sorgenti luminose che hanno una elevata temperatura di colore (luce fredda). Questo spiega perché ambienti illuminati da una luce bianca calda (warm white) 3000K o persino di 4100K appaiono meno luminosi rispetto ad una luce di temperatura colore superiore > 5000K a fronte di un’intensità luminosa minore. Si è pertanto dimostrato che i bastoncelli sono attivi anche nella visione fotopica tipica nella illuminazione artificiale di ambienti interni. Una tradizionale illuminazione interna non si dimostra efficiente perché, essendo basata sulle caratteristiche della sola visione fotopica, non permette l’intervento dei bastoncelli nel controllo della pupilla. Più le pupille sono ridotte e maggiore è la qualità visiva e il senso di profondità spaziale. Il solo aumento dell’intensità luminosa non migliora la qualità percettiva, ma aumenta il rischio di abbagliamento e lo spreco di energia. Infatti la sensazione di luminosità dipende da entrambi i recettori retinici, e pertanto la scelta della sorgente luminosa dovrà tenere conto del funzionamento dei coni e e dei bastoncelli, insieme. I soggetti nell’esperienza di Bernard riconoscevano come più luminosa la stanza con illuminazione scotopica migliorata, sebbene l’intensità luminosa era ridotta del

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30%.Tale risultato deriva dal fatto che l’attivazione dei bastoncelli non è misurabile dai comuni esposimetri perché non variano al variare dello spettro. _ L’esperienza di Cree (studio commissionato all’Istituto Mindware Research)3 Esperimento su un garage comunale a Raleigh, North Carolina. Obiettivo principale dello studio: determinare se, dopo la sostituzione delle lampade HID con sorgenti LED, si è registrato un significativo miglioramento della percezione complessiva del garage. I risultati: _ percezione della qualità della luce tre volte superiore _ sensazione di maggiore sicurezza _ percezione dello spazio sensibilmente migliorata _ Analisi delle sorgenti luminose4 Lo spettro dell'illuminotecnica include informazioni su grandezze illuminotecniche, sorgenti luminose e tecnica degli apparecchi. Questi argomenti supportano l'orientamento per trovare una soluzione tecnica adeguata alle esigenze di illuminazione. Verrano ora date alcune delle definizioni fondamentali dell’illuminotecnica per chiarezza di esposizione. Per quanto concerne, la comparazione delle sorgenti luminose si rimanda alla tavola A25 in allegato. _ flusso luminoso: il flusso luminoso descrive l’intera potenza della luce prodotta da una sorgente luminosa. In linea di principio si potrebbe rilevare questa potenza irradiata sotto for- ma di energia prodotta, indicandolo con l’unità di misura watt. In questo modo, tuttavia, non si descrive compiutamente l’effetto ottico di una sorgente luminosa, in quanto l’irradiazione emessa viene rilevata senza differenze nell’intero range di frequenza, senza tenere conto quindi della diversa sensibilità spettrale del3

Per approfondimenti cfr. http://www.cree.com

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Per approfondimenti, cfr. http://www.erco.com

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l’occhio umano. Se si considera anche la sensibilità spettrale del- l’occhio umano si ottiene l’unità di misura lumen. Un flusso d’irradiazione di 1W prodotto entro il limite massimo di sensibilità spettrale dell’occhio umano (fototipica, 555 nm) produce un flusso luminoso di 683 lm. Viceversa, lo stesso flusso d’irradiazione nei range di frequenza di una minore sensibilità produce flussi lumino- si proporzionalmente inferiori secondo la curva V (l). _ efficienza luminosa: L’efficienza luminosa indica il rendimento di una lampada. Viene espressa dal rapporto fra il flusso luminoso prodotto in lumen e la potenza applicata in watt. Il valore massimo teoricamente raggiungibile in caso di completa espressione dell’energia a 555 nm sarebbe 683 lm/W. L’efficienza luminosa concretamente raggiungibile varia in funzione della lampada utilizzata, ma rimane in ogni caso molto al di sotto di questo valore ideale. _ intensità luminosa: Una sorgente luminosa puntiforme ideale irradia il suo flusso luminoso uniformemente in tutte le direzioni dello spazio, ciò significa che la sua intensità luminosa è la stessa in tutte le direzioni. In pratica, tuttavia, si ottiene sempre una distribuzione spaziale disomogenea del flusso luminoso, in parte come conseguenza della struttura della lampada, in parte come effetto dell’orientamento mirato dell’apparecchio. La candela come unità di misura dell’intensità luminosa è l’unità fondamentale dell’illuminotecnica, da cui vengono derivate tutte le altre grandezze illuminotecniche. _ illuminamento: L‘illuminamento è una misura della densità del flusso luminoso su una superficie. È definito come il rapporto tra il flusso luminoso che cade su una superficie e le dimensioni di tale superficie. L‘illuminamento non è tuttavia lega- to a una superficie reale, ma può essere determinato in qualsiasi punto dell‘ambiente. L‘illumina- mento può essere ricavato dall‘in- tensità luminosa. L‘illuminamento diminuisce con il quadrato della distanza dalla sorgente luminosa (legge fotometrica della distanza).

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_ illuminazione: come quantità d‘illuminamento il prodotto è definito dall‘intensità luminosa e dalla durata dell‘illuminamento che illumi- na una superficie. La quantità d‘illuminamento svolge un ruolo soprattutto nel calcolo dei carichi d‘illuminazione sui pezzi esposti ad es. in un museo. _ luminanza: mentre l‘intensità luminosa rileva la potenza luminosa che colpisce una superficie, la luminanza descrive la luce che da questa superfici è emanata. Questa luce può essere emanata anche dalla superficie stessa (per es. dalla luminanza di lampade e diodi). La luminanza è qui definita come il rapporto tra l‘intensità luminosa e la superficie proiettata sul piano perpendicolarmente al senso di distribuzione. La luce tuttavia può anche essere riflessa o trasmessa dalla superficie. Per i materiali a riflessione dispersa (opachi) e a trasmissione dispersa (non tra- sparenti) la luminanza può essere calcolata dall’intensità luminosa e dal grado di riflessione o di trasmissione. La luminosità è in correlazione con la luminanza. L‘impressione effettiva di luminosità è comunque influenzata anche dallo stato di adattamento dell‘occhio, dai rapporti di con- trasto circostanti e dal contenuto informativo della superficie vista. _ indice di resa cromatica: per determinare la resa croma- tica di una sorgente luminosa, si calcolano gli effetti cromatici di una scala di otto colori del corpo sotto il tipo di illuminazione da valutare e sotto l‘illuminazione di riferimento e li si mette in rela- zione tra loro. La qualità di resa cromatica così calcolata è espres- sa in indici di resa cromatica che possono riferirsi sia alla resa cro- matica generale (Ra) come media, che alla resa cromatica di singoli colori. L‘indice massimo di 100 rappresenta qui la resa cromatica ideale, quale quella che si ottiene con la luce delle lampade a incan- descenza o con la luce diurna. I valori inferiori indicano una resa cromatica via via meno efficace. Gli spettri lineari indicano una buona resa cromatica, gli spettri discontinui in generale una resa peggiore. Gli spettri discontinui multipli sono composti da diversi spettri discontinui e migliorano la resa cromatica.

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_ Conclusioni sintetiche Dal confronto effettuato tra le sorgenti disponibili, apparente evidente che quelle a tecnologia LED sono preferibili rispetto alle altre in questo progetti di illuminazione complementare al restauro per i seguenti principali motivi: _ vita utile nettamente superiore, dell’ordine delle 50000 ore. Questo permette di risparmiare molto per la manutenzione che, secondo le stime, comportano una spesa di 120 euro/punto luce/anno, allo stato di fatto attuale. _ efficienza luminosa e flusso luminoso di alto livello, secondi solo alle lampade ai ioduri metallici HIT, che però hanno diversi aspetti negativi _ possibilità di essere dimmerate _ alto indice di resa cromatica _ temperatura colore estremamente variabile, da 2000K fino a 6500K: questo permette di scegliere il colore della luce più appropriata senza dovere cambiare lampada, dal bianco diurno per consentire la visione scotopica migliorata, al bianco caldo per i dettagli architettonici. _ possibilità di confondere il cavo con la sorgente luminosa 8.4 Analisi qualitativa dell’illuminazione e studio dei supporti _ Qualità della luce 5 Luce per vedere, luce per guardare, luce per osservare: sono questi i concetti fondamentali della progettazione illuminotecnica qualitativa. Negli anni '50 del secolo scorso il progettista illuminotecnico Richard Kelly ha preso spunto dalla psicologia della percezione e dall'illuminazione dei palcoscenici per creare una concezione unitaria dell'illuminazione ed ha suddiviso la luce in base alle tre funzioni fondamentali che essa può svolgere: _ ambient luminescence (luce per vedere) 5

http://www.erco.com/mainguide

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_ focal glow (luce per guardare) _ play of brilliants (luce per osservare) La luce per vedere crea l'illuminazione generale dell'ambiente. Nella progettazione illuminotecnica qualitativa la luce per vedere non è un obbiettivo, ma solamente la base di partenza per il proseguimento della progettazione. La luce per vedere soddisfa la necessità fondamentale di orientamento nell'ambiente. La luce per guardare si sovrappone all'illuminazione generale: la luce orientata accentua i punti focali e crea delle gerarchie di percezione. Vengono sottolineate le zone più significative,

mentre quelle meno importanti passano in

secondo piano. E’

un'illuminazione d'accento. Luce per osservare: effetti luminosi decora-tivi con colori, sagome e variazioni dinamiche creano l'atmosfera e la magia desiderate. A tal fine si possono utilizzare strumenti di illuminazione per effetti luminosi (ad es. proiettori), apparecchi di illuminazione decorativi (grandi lampadari) o semplicemente una candela. Il concetto di illuminazione è costituito nel complesso dalla combinazione dei tre tipi di luce, luce per vedere, luce per guardare e luce per osservare. 8.5 Progetto. Concept e parametri coinvolti. (cfr. tavola P26) I portici rappresentano un filtro spaziale tra l’ambiente esterno pubblico e l’interno delle unità private: l’intenzione è di creare un corridoio luminoso il cui colore segua il gradiente di privacy, e in cui si faccia variare il tipo di illuminazione, diretta ed indiretta. La luce diffusa, indiretta, è prodotta da una sorgente che dirige il flusso luminoso su una area estesa capace di rifletterla all’ambiente. Come effetto, se da un lato crea un’atmosfera uniforme di luce morbida, dall’altro riduce le ombre nette e l’abbagliamento. La luce indiretta rappresenterà la cucitura, il connettivo tra tutti i portici, a rappresentarne l’unità, l’intero, e, per questo, avrà sempre lo stesso colore, scelto con una temperatura di 6000K, quindi un colore freddo, per poter sfruttare la visione _______________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione

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scotopica migliorata, che comporta principalmente una migliore qualità visiva, percettiva dei colori e della materia dell’opera d’arte e un aumento della sicurezza percepita dagli utenti. L’illuminazione indiretta sarà rivolta verso gli orizzontamenti (soffitti) in quanto la loro illuminazione permette di percepire la variazione delle altezze e di comprendere inoltre la varietà tipologica dei solai nei diversi sistemi costruttivi. La luce diretta è emessa da una sorgente puntiforme e tende a focalizzare l’attenzione su un elemento. Conseguentemente, tale illuminazione promuove la spazialità tridimensionale, aumenta il livello dei dettagli architettonici, ma l’eccessivo shaping, causa la perdita di informazioni. Secondo il progetto, l’illuminazione diretta seguirà quegli oggetti che vengono qui definiti come attrattori, ovvero degli elementi, funzionali o architettonici, su cui è necessario focalizzare l’attenzione. Gli attrattori esprimono la varietà del percorso urbano formato dai portici, risaltandone i caratteri stilistici e formali, come l’incredibile varietà dei capitelli e di altri elementi ornamentali, e facilitando l’orientamento degli utenti nel percorso, grazie all’individuazione di punti chiave, quali attraversamenti pedonali, accessi privati e pubblici (androni) ed elementi di particolare suggestione. Spiegato il concept, è possibile ora passare in rassegna i parametri utilizzati nel definire l’algoritmo generativo, che verrà descritto nel paragrafo successivo, con cui si è progettata l’illuminazione dei sottoportici: _ tipo di orizzontamento: permette la percezione delle altezze; _ altezza del volume interno del portico: permette la regolazione della quantità di luce; _ luce strada e luce vetrine: permettono la regolazione del contrasto; _ attrattori architettonici e funzionali: rappresentano ed esaltano la varietà, luce calda; _ unità del percorso: luce indiretta fredda, qualità percettiva e sicurezza; _ supporti: studio dei possibili punti di attacco al fine di evitare di intaccare la materia.

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8.5.1 Studio dei supporti Lo studio dei supporti è finalizzato all’ottimizzazione dei punti luce, in modo tale che questi siano da un lato poco invasivi, non siano quindi mai in primo piano rispetto al monumento, e non intacchino, possibilmente, la materia dell’opera d’arte in nome del minimo intervento, della reversibilità e dall’adattabilità, e dall’altro permettano il raggiungimento di un’efficace illuminamento. In questo senso l’analisi tipologica dei portici è stata di grande aiuto, in quanto ha permesso di comprendere le diverse possibili configurazioni di supporto dei punti luce, che possono essere così classificati: _ catene: le catene, atte ad eliminare le spinte degli archi, ove necessario, non sono chiaramente mai presenti nei portici a trilite, mentre non lo sono sempre nei portici spingenti ad arco. Si possono presentare in diverso numero e posizione: nessuna, sugli archi longitudinali, su quelli trasversali e su entrambi. Sono molto utili come supporti poiche permettono siano l’installazione di fonti per un’illuminazione indiretta verso gli orizzontamenti, sia una diretta verso i capitelli o altri attrattori; _ colonne: le colonne offrono due tipi di supporto principale: nel fusto, a diverse altezze, nel pulvino ove si innesta l’arco sopra il capitello, e nei bordi orizzontali dei capitelli che solitamente sono sempre più larghi della base dell’arco; _ pareti: rappresentano un supporto classico già ampiamente utilizzato, spesso impropriamente. Sono utili per promuovere la luce diffuse verso le volte o i solaio piani. Da ricordare che, ciò che si è cercato di evitare in questo progetto è il rischio di abbagliamento, che come si è spiegato nella premessa, equivale a non illuminare in termini di risultato. Pertanto, l’illuminazione prevalente sarà quella indiretta, generata da luci il cui flusso sarà rivolto verso l’alto, al di sopra della linea d’orizzonte, e, nei casi in cui siano necessarie luci dirette verso il basso, a queste dovrà essere sempre garantito un angolo di diffusione che eviti l’abbagliamento.

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8.6 Metodo utilizzato per la progettazione dell’illuminazione Per il progetto dell’illuminazione si è ricorsi all’uso di algoritmi generativi, utilizzando il programma Grasshopper, plug-in del modellatore Rhinoceros di McNeel. L’obiettivo del progetto è di produrre un nuovo sistema di illuminazione che, seguendo il concept sopra descritto, e cercando di rispondere ai criteri di efficienza ed efficacia della percezione visiva, sia in grado di comprendere la natura stessa del portico come fenomeno costruttivo, come processo umano e tecnologico che è stato in grado di adattarsi al tessuto urbano, in termini di spazio e di tempo, variando le proprie caratteristiche fenotipiche ottenute attraverso le interazioni tra i geni contenuti nel genoma. Per arrivare al progetto della nuova illuminazione, descritto dai parametri che abbiamo visto, si renderà quindi necessario rappresentare il suo modello geometrico, parametro fondamentale per una corretto risultato illuminotecnico: la dimensione del volume determinerà infatti la quantità di luce e la sua forma la direzione del flusso luminoso. Il genotipo, pertanto, sarà quel codice del portico, inteso sempre come organismo nel suo insieme, e ne rappresenta i caratteri costitutivi che sono quindi invarianti come elementi: colonne, parete interna, orizzontamenti, pavimentazione. L’espressione fenotipica, ovvero quella che noi percepiamo come forma fisica reale, in altre parole ciò che vediamo, caratterizza la variazione di quegli elementi (geni) invarianti e comuni a tutti i portici. Tale variazione si esprime nella geometria di questi elementi (altezza e sezione delle colonne, tipo di orizzontamento, solaio piano o voltato, curvatura degli archi, variabile tra x = arco generico e ∞ = solaio piano, altezza del punto di chiave o altezza del solaio piano) e nella geometria globale del portico, rilevabile, come di prassi nel restauro, dalla trilaterazione, con la quale si collezionano una popolazione di punti in pianta da cui si originano gli elementi sopra citati. Il processo che ha seguito il progetto di illuminazione si può così articolare: _ definizione dei parametri lluminotecnici; _ definizione degli elementi geometrici invarianti (genotipo dell’organismo portico);

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_ rappresentazione della geometria come variazione degli elementi costitutivi (creazione di un modello); _ visualizzazione grafica del modello; _ interpolazione dei parametri illuminotecnici con quelli geometrici (adattabilità); _ rendering per la presentazione del risultato La parametrizzazione ha permesso di comprendere la varietà tipologica e formale dei portici come organismo adattabile al tessuto urbano, utile alla redazione di un progetto di illuminazione che, partendo dalla definizione dei parametri illuminotecnici, fosse in grado, facendo variare gli elementi geometrici costitutivi, di risolvere tutti i possibili casi specifici, mantenendo costante (massimo) il risultato. Lo scopo dell’algoritmo, pertanto, è duplice: da un lato quello di rappresentare la variazione del portico nello spazio urbano, dall’altro quello di massimizzare il risultato (quantitativamente variabile, qualitativamente costante) al variare di ogni singolo caso specifico. In tal modo si raggiunge l’omeostaticità del sistema portico anche per l’illuminazione: si è raggiunto un equilibrio nell’infinità varietà dei casi. Si segue, pertanto, anche in questo aspetto, l’istanza estetica con cui si è riconosciuto il portico come opera d’arte: l’unità nella varietà.

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_ RINGRAZIAMENTI


Ringraziamenti __________________________________________________________________

E’ incredibile come al destino non manchi il senso dell’umorismo. Concludo questo periodo universitario con una tesi multidisciplinare in Ingegneria che tratta nella sua parte finale di fisiologia ottica come momento di analisi e di comprensione finalizzati alla scelta progettuale per l’illuminazione dei Portici. Sapere che il mio primo anno universitario non è stato da studente di Ingegneria ma di Farmacia potrebbe stupire. E ancora più sorprendente dovrebbe essere la mia scelta, al momento del cambio di corso, di non volere rinunciare agli esami registrati nel libretto universitario. Un libretto unico per due corsi così differenti. Ricordo con stupore le diverse volte in cui, al momento della verbalizzazione di un nuovo esame, i diversi professori mi chiedessero, incuriositi, come mai fossi passato a un corso di laurea così diverso da quello di partenza, come mai potessero piacermi materie così diverse. Le prime volte rispondevo piuttosto imbarazzato come se mi dovessi giustificare di avere fondamentalmente perso un anno di studio. Poi sono persino arrivato a dire che l’intestazione del libretto che recitava Farmacia fosse solo un errore di stampa. Consideravo quel periodo come un anno perso, un anno sprecato. Solo anni dopo avrei compreso come quell’anno fosse stato fondamentale per me. In pratica privo di concrete soddisfazioni, in profondità mi aveva fatto scoprire chi fossi e chi volessi diventare. Ho sempre voluto fare l’Ingegnere; capita però alle volte che si ha bisogno di intraprendere strade diverse, magari molto lontane dall’idea di partenza, per capire cosa si vuole veramente. Può capitare che negare un’inclinazione significa in vero affermarla. Ricordo con piacere il regalo di Natale che mio padre mi portava quando ero un bambino. Una scatola di legno che che conteneva il meccano con cui insieme costruivamo delle bellissime gru metalliche che scorrevano su delle rotaie. La tecnologia mi ha sempre affascinato. Il saper pratico, il saper fare, il sapere concreto mi davano l’idea dell’utilità. Ed erano qualcosa che volevo iniziare a conoscere.

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Ringraziamenti __________________________________________________________________

Ringrazio per primi i miei genitori, mio padre Claudio e mia madre Rosa, per la pazienza e l’appoggio che mi hanno sempre dato in questi anni di studio. Insieme a loro tutta la mia famiglia, le mie sorelle Serena e Chiara, mio cognato Patrizio e il piccolo Tommaso, grande generatore di sorrisi nei momenti sconforto. Non posso non ricordare anche se lontane negli anni scolastici del liceo la Prof.ssa Mara Guizzardi per avermi insegnato a scrivere e avermi tramandato un grande amore per la letteratura; la Prof.ssa Fabris per avermi insegnato la matematica come un gioco bellissimo e nei primi anni di università il Prof. Carlo Ravaglia per avermi mostrato la matematica come filosofia. Nel percorso di redazione di questa tesi di laurea ringrazio fortemente il Prof. Ing. Claudio Galli, relatore di questa tesi di laurea, per la passione che mi ha saputo trasmettere per la materia di Restauro Architettonico, nella sua duplice polarità di teoria elevatissima e pratica ingegneristica. Il Prof. Ing. Alessio Erioli, anzitutto per aver accettato l’idea di conciliare due materie così diverse nella risoluzione del problema, ma così simili per la profondità delle premesse su cui poggiano, e per avermi introdotto all’architettura parametrica aprendomi nuovi orizzonti per la progettazione architettonica. Il Dott. Ing. Matteo Grilli per la fiducia che mi ha sempre dimostrato nell’intraprendere nuove strade analitiche e progettuali, e per avermi sempre spronato a migliorare e ad approfondire i problemi del Restauro (ma chi è Andrea Pazienza?!). Il Dott. Ing. Francesco Conserva, per il gentile supporto che mi ha sempre fornito; l’Arch. Andrea Gullì per la disponibilità al confronto in materia di urbanistica; il Dott. Ing. Marcello Bianchini per avermi aiutato nella parte riguardante i quadri fesurativi e per il grande insegnamento che mi ha dato

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Ringraziamenti __________________________________________________________________

in materia di Tecnica delle Costruzioni; il Prof. Ing. Simone del Dipartimento di Strade per la disponibilità e la cordialità. Il Prof. Emanuele Perez, del Dipartimento di Fisiologia dell’Università di Bologna, per la straordinaria disponibilità nell’approfondire gli aspetti di fisiologia ottica, sicuro valore aggiunto al progetto. Il Dott. Ing. Sergio Para, amico e grande maestro, di vita e di mestiere, per il supporto morale e conoscitivo mai negatomi e per avermi fatto amare ancora di più l’Ingegneria, in ogni suo aspetto. La Dott.ssa Ing. Anna Maria Fabbri per la gentilezza e la disponibilità in ambito lavorativo. Il Prof. Ing. Gianluca Bonini unitamente all’Arch. Emilio Rambelli per avermi insegnato a non “progettare come un geometra di provincia” (si spera) e per avermi insegnato le basi della progettazione architettonica. Il caro amico Andrea Ponzellini e tutta la Redazione di Ottagono con cui ho avuto il piacere di collaborare negli ultimi anni di corso. Il Dott. Stefano Franceschetti, amico, grande fotografo e cacciatore (a volte avvocato) per tutti gli aiuti (e i prestiti!) offertimi per la fotografia. Il Dott. Tommaso Bonetti, amico e ottimo consigliere, per l’aiuto iniziale ad inquadrare il problema per realizzare un progetto utile e fattibile per i nostri portici. Davide Padula, Orkun Kasap, Martin Daniel, Anna Penzo, Margherita Pizzetti, Nicola Mari, Filippo Nassetti, Luca Minelli, Chiara Scarpellini, Elisa Samsa, Simona Valli, Camilla De Sanctis, Eugenia Montanelli, Simone Cremona, Giacomo Damiani, Giorgio Ugolini, Jacopo Biscaglia, Luca Nazzari, Alessandro Rondina, Francesco Zucchini, Marco Mosconi, Giulia Ligi, Andrea Vannucci, Sara Corzani, Francesco Mariani, Paolo Babbi, Stefano Mondardini, Francesco Gondolini, Francesca Guidi, Matteo Bergamini, Umbero Zucchini e tutti gli altri compagni di università che mi hanno accompagnato nel corso di questi anni.

_________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione


Ringraziamenti __________________________________________________________________

Gli amici pi첫 cari, Giovanni Natali, Pietro Bonetti, Andrea Verlicchi, Federico Chiesi, e tutti gli altri, semplicemente per essere sempre stati presenti. E Federica, per avermi sostenuto e sopportato in questi ultimi nove mesi.

Bologna, Marzo 2011

_________________________________________________________________________ Materia. Luce. Percezione


_ BIBLIOGRAFIA


Bibliografia

1. Analisi storica dei portici _ Note 1

Lessico Universale Italiano di Lingua Lettere Arti Scienza e Tecnica, vol.XVII, voce

“portici”, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1977 2

Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, pubblicata sotto l’alto patronato di

S.M. il Re d’Italia, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. XXVIII, voce “portico”, Roma, 1935 3

op. cit. nota 2

4 Aldo

Rossi, L’architettura della città, Milano, 1966, pag. 98

5

Statuto 1288, libro X, rubrica 52, Archivio di Stato

6

Cesare Brandi, Terre d’Italia, Ed. Bompiani, Milano 2006, pag. 185

7

Cesare Brandi, Terre d’Italia, Ed. Bompiani, Milano 2006, pagg. 186 - 187

8

op. cit. nota 7

9

op. cit. nota 7

10

op. cit. nota 7

11Cesare

Brandi, Terre d’Italia, Ed. Bompiani, Milano 2006, pagg. 186 - 187

12

op. cit. nota 11

13

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 1977, pag. 13 - 14

14

op. cit. nota 13

15

P. L. Cervellati, La città bella, Bologna, 1991, pag. 45

16 Aldo

Rossi, L’architettura della città, Milano, 1966, pag. 58


17

John dewey, Art as exprience, New York, 1934, pag. 7

18

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 1977, pag.15

19

op. cit. nota 18

20

Petr Tolstoj, Memorie, 1699

21

Charles De Brosses, 1739

22

Jérome Richard, 1761

23

John Bell, 1817

24

Cesare Brandi, Teoria del Restauro, Einaudi, Torino, 1977

25

http://www.whc.unesco.org/en/criteria

26

op. cit. nota 25

27

op.cit. nota 25

28

http://www.whc.unesco.org/en/tentativelists/5010

29

http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2011/7-marzo-2011/

centro-deturpato-sporco-intasato-l-unesco-non-tutelerà-maibologna-190171715985.shtml 30

Per approfondimenti, cfr. piano commissionato all’architetto genovese Bruno

Gabrielli _ Altri riferimenti bibliografici _ Packard S., I portici di Bologna: origine, evoluzione e prospettive, estratto da “Il Carrobbio”, Anno VIII, 1982, Bologna _ Francesca Bocchi, Bologna e i suoi portici: storia dell’origine e dello sviluppo”, Ed. Grafis, 1990, Bologna


_ Francesca Bocchi, i portici di Bologna e l’edilizia civile medioevale. Ed. Grafis, 1990, Bologna _ Guidicini G., Cose notabili della città di Bologna, Ed. Società tipografica dei Compositori, 1872, Bologna _ Vianelli M., Bologna città di Portici, Ed. Nuova Alfa, 1988, Bologna _ Vianelli A., Le strade e i portici di Bologna, Newton e Comptor Editori, 2002, Ariccia 2. Restauro Urbano 1

P.L. Cervellati, La città Bella, Bologna, 1991, pag. 85

2

op. cit. nota 1

3

op. cit. nota 1

44

op. cit. nota 1

5

Cesare Brandi, Terre d’Italia, Bompiani, Milano, 2006, pag.26

6

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pagg.

433-434 7

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 431

8

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 430

9

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 428

10

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 428

11

op.cit. nota 10

12

Intuizioni di P. Petraroia

13

G. Carbonara, Avvicinamento al Restauro, Liguori Editori, Napoli, 1997, pag. 429


_ Altri riferimenti bibliografici _ Mario dalla Costa, problematiche del restauro della città. Alba, Chieri e Mondovì: materiali metodologici per la ricerca, Celid Ed., Torino 2004 _ P.L Cervellati e R. Scannavibi, Bologna: politica e metodologia del restauro nei centri storici, Società Editrici il Mulino, Bologna, 1973 _ Comune di Bologna, Assessorato alla programmazione e assetto urbano, Risanamento conservativo del centro storico di Bologna, Graficoop, Bologna 1979 3. Emergence 1

Per approfondimenti cfr. Reiser + Umemoto, Atlas of Novel Tectonics, Princeton

Architectural Press, New York, 2008 2

Per approfondimenti cfr. Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001

3

Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 55

4

Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 63

5

Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 76

6

Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag 220

7 Aldo 8

Rossi, L’architettura della città, Milano, 1966, pag. 88

Steven Johnson, Emergence, Scribner Ed., New York, 2001, pag. 233

4. Analisi storica delle pavimentazioni 1

G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, vol. I, 1872, Bologna

5

Rizzoli, 1927 in Marinelli, Scarpellini, L’arte muraria in Bologna in età pontificia

6

L. Lazzarini,“I pavimenti alla veneziana”.

7

T. Temanza, “ Antica Pianta dell’inclina città di venezia”

8 A.

Sagredo, “Sulle Consorterie delle arti edificative in Venezia”


9

G. Tassini, “Curiosità veneziane, ovvero origini delle denominazioini stradali di

Venezia” 10

Vitruvio, “De Architectura”, Lib. VII, Cap I

11 A.

Sagredo, “Sulle Consorterie delle arti edificative in Venezia”

12

Plinio Gaio Secondo, “naturali Historiae”, Lb. XXXVI, Cap LXI

13

L.Lazzarini, “I pavimenti alla veneziana”

14

L. B. Alberti, “De Re Aedificatoria”, Lib. III, Cap. XVI

15

D. Barbaro, “I dieci di Architettura di M. Vitruvio tradotti e commentati”

16

G. A. Rusconi, “Della Architettura”

17

G. Casoni, “Informazioni intorno agli smalti veneziani comunemente denominati

terrazzi” 18

F. Sansovino, “Idee elementari di architettura civile per le scuole del disegno”

19

G. Grevembroch, “Gli abiti dei veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e

dipinti nel secolo XVIII” 20

G. Antolini, “Idee lementari di architettura civile per le scuole del disegno”

21 A.

Zambonini, Dell’arte di fabbricare”

22 A.

Sagredo, “Sulle Consorterie delle arti edificative in Venezia”.

23

C. Rizzoli, “Manuale per l’avviamento all’arte muraria”

24 A.

Castagnola, “Il pavimentatore mosaicista - manuale teorico pratico”

25

Crovato Antonio, “I pavimenti alla veneziana”

26

M. Piana e altri, “Dietro i Palazzi. Tre secoli di architettura minore a Venezia 1492 -

1803) 27

E. R. Trincanato, “Venezia minore”


28

F. Crovato, “ I pavimenti alla veneziana” Venezia, 1989, Ed. L’altra riva.

29 A.

D’Amato, S. Domenico di Bologna ieri e oggi”.

30 A.

Zambonini, “Dell’Arte di fabbricare”

31

L. Marinelli, P. Scarpellini, L’arte muraria in Bologna nell’età pontificia”.

32

G. Antolini, “Idee elementari di architettura civile per le scuole del disegno”, Milano,

1829 33 A. 34

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna”

35 A. 36

M. Matteucci (acura di), “L’architettura “ in “L’arte del Settecento Emiliano”

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna”

37 A. 38

Zambonini, “Dell’Arte di fabbricre”

M. Matteucci (a cura di), “L’architettura”, in L’arte del Settecento Emiliano .

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna” .

39

G. Sassu, “L’Oratorio di Santa Maria della Vita”, Bologna, 2001, Costa.

40

R. Rossi Manaresi, “Il pavimento alla veneziana a Bologna” .

41

G. Sassu, “L’Oratorio di Santa Maria della Vita”, Bologna, 2001, Costa.

42

Bologna, Regolamento d’Ornato, 1836, Archivio di Stato, Bologna

5. Analisi del degrado 1

Da Ferruccio Ragno,“Ammaloramenti e patologie delle sovrastrutture stradali”,

L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI, n°254, da pag 48 2

La pavimentazione alla veneziana dei portici del centro storico di Bologna, laboratorio

di Restauro Architettonico della facoltà di Ingegneria di Bologna, AA 2007/08, gruppo 4 3 A.Cagnana, Archeologia

Padana,2000

dei materiali da costruzione, Mantova, Società Archeologica


4

G. Torraca, Lezioni di scienza e tecnologia dei materiali per il restauro dei monumenti,

Universita degli studi di Roma La Sapienza, Scuola di specializzazione in restauro dei monumenti, Roma, 2002 7

V.A.Rossetti, Il calcestruzzo:materiali e tecnologia, Milano, McGrawHill, 2003

8

L.Cini, Tecnologia dei materiali e chimica applicata: i materiali metallici, la

corrosione, i materiali plastici, Bologna, Cooperativa Libraria Universitaria, 1976 9

L. Carbognin “La subsidenza indotta dall’uo,mo nel mondo. I casi più significativi.

Bollettino dell’associazione mineraria Subalpina Anno XXIII, n. 4, dicembre 1986. 10

Il testo di riferimento è O.Belluzzi, “Scienza delle costruzioni”, capitolo XXVI “Le

lastre piane”, Zanichelli, Bologna, 1947 11

Tale particolare costruttivo è stato dedotto seguendo l’esecuzione di una

pavimentazione alla veneziana nel mese di dicembre 2007. 13 A.

Crovato, “I pavimenti alla veneziana”, L’Altra Riva, Venezia, 1989

6. Analisi Statistica 1

La pavimentazione alla veneziana dei portici del centro storico di Bologna, laboratorio

di Restauro Architettonico della facoltà di Ingegneria di Bologna, AA 2007/08, gruppo 4 7. Linee guida 1

Da Ferruccio Ragno,“Ammaloramenti e patologie delle sovrastrutture stradali”,

L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI, n°254, da pag 48 2

Da Ferruccio Ragno,“Ammaloramenti e patologie delle sovrastrutture stradali”,

L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI, n°254, da pag 56 3

Da P.Ferrari, F.Giannini “Ingegneria stradale. Corpo stradale e pavimentazioni”, Vol.

II, Isedi Milano, 1996 4

NRMCA, “Curling of concrete slabs”, in “Concrete in practice”, CIP 19, USA


5

NRC-CNRC, “Curling in concrete slabs on grade”, in “Construction Technology

Update”, n. 44, Canada 6

Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, pag. 47

7

Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, pag. 33

8

Cesare Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, Torino, pag. 26

9

R. Aicardi, Progettazione, costruzione e calcolo delle pavimentazioni industriali, 2006,

Esselibri 8. Illuminazione 1

Guyton - Hall, Fisiologia medica, EdiSES, Napoli, 1999, pag. 658

2

Per approfondimenti, cfr. http://www.ruudlighting.com

3

Per approfondimenti cfr. http://www.cree.com

4

Per approfondimenti, cfr. http://www.erco.com

5

http://www.erco.com/mainguide


_ ALLEGATI. TAVOLE PROGETTUALI


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