Vincenzo Fato

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A CURA DI

GIACOMO LANZILOTTA


CASTELLANA GROTTE (BARI) 19 DICEMBRE 2005 – 19 FEBBRAIO 2006 CON IL PATROCINIO DI MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA

REGIONE PUGLIA PROVINCIA DI BARI CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA, ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI BARI SOPRINTENDENZA PER IL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO ED ETNOANTROPOLOGICO DELLA PUGLIA CENTRO STUDI SULLA CIVILTÀ ARTISTICA NELL’ITALIA MERIDIONALE “GIOVANNI PREVITALI” CENTRO RICERCHE DI STORIA RELIGIOSA IN PUGLIA CENTRO RICERCHE CASTELLANESE ENTE PROMOTORE E ORGANIZZATORE COMUNE DI CASTELLANA GROTTE


COMITATO SCIENTIFICO FRANCESCO ABBATE Docente di storia dell’arte - Università degli Studi di Lecce

SI RINGRAZIANO MONS. VINCENZO VITTI Arciprete di Castellana Grotte

SALVATORE ABITA Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico della Calabria già Soprintendente PSAE della Puglia

S. E. MONS. DOMENICO PADOVANO Vescovo di Conversano e Monopoli MONS. VALENTINO DI CERBO Segreteria di Stato della Città del Vaticano

NUCCIA BARBONE PUGLIESE Funzionario Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico delle province di Bari e Foggia

S. E. MONS. BENIGNO LUIGI PAPA Arcivescovo metropolita di Taranto

GIAN MARCO JACOBITTI già Soprintendente per i Beni Architettonici della Puglia

S. E. MONS. MARIO PACIELLO Vescovo di Altamura Gravina e Acquaviva delle Fonti

GIACOMO LANZILOTTA Dottore di ricerca in storia dell’arte Università degli Studi di Milano

L’Eccellentissima Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro di Napoli

MIMMA PASCULLI FERRARA Docente di storia dell’arte - Università degli Studi di Bari MARIO ALBERTO PAVONE Docente di storia dell’arte - Università degli Studi di Salerno

Il Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri di Bari La comunità benedettina dell’Abbazia di S. Maria della Scala di Noci La Parrocchia di S. Maria della Natività di Noci

NICOLA PELLEGRINO Ispettore per il patrimonio artistico Diocesi di Conversano e Monopoli

Il Santuario della Madonna del Pozzo di Capurso La Confraternita dell’Immacolata di Castellana Grotte

FRANCESCO SAVERIO PERILLO già Preside della Facoltà di Lingue - Università degli Studi di Bari

La Congrega della Natività e dolori di Maria di Martina Franca

FILOMENA SARDELLA Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico delle province di Bari e Foggia

La Biblioteca Civica “Mons. Amatulli” di Noci

UGO SORAGNI già Soprintendente regionale per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Puglia

L’Associazione “Terra Fraxi” di Frasso Telesino (Benevento)

GIOVANNA CISTERNINO Istituto Centrale del Restauro di Roma

SI RINGRAZIANO INOLTRE P. Gabriele Arganese, Nicola Campo, D. Carmine Chiarelli, Maria Gaetana Di Capua, Franco Di Masi, Emanuela Elba, Marina Esposito, D. Angelo Fanelli, P. Provinciale Nunzio Giugliano, D. Michele Gramegna, Cristiana Guarnieri, Piero Intini, D. Michele Lerario, Elisabetta Longo, P. Michelangelo Maglie, Mons. Vincenzo Muolo, D. Vito Palmisano, D. Pasquale Pirulli, Antonino Piepoli, Pietro Piepoli, D. Donato Rizzi, Mons. Giovanni Battista Romanazzi, D. Giuseppe Russo, D. Angelo Sabatelli, Tommaso Semeraro, D. Fedele Sforza, Vincenzo Simone, D. Vincenzo Togati, Angelo Totaro, Carmine Zarra, P. Pietro Zarrella

CONTRIBUTI CATALOGO Francesco Abbate, Mimma Pasculli Ferrara, Giacomo Lanzilotta, Mariella Intini, Mario Alberto Pavone, Antonella Di Turi REFERENZE FOTOGRAFICHE Mimmo Guglielmi, Pino Canelli, Giovanna Cisternino, Antonella Di Turi, Nicola Furio, Mariella Intini, Piero Intini, Pasquale Ladogana, Giacomo Lanzilotta, Archivio Giacomo Lanzilotta, Archivio Ce.Ri.Ca., Archivio Mimma Pasculli Ferrara, Archivio Mario Alberto Pavone, Archivio fotografico Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico delle province di Bari e Foggia

Il Centro Culturale “G. Albanese” di Noci

L’Istituto di Vigilanza di Castellana Grotte


Š Copyright by

Comune di Castellana Grotte tutti i diritti riservati progetto grafico e impaginazione

Ficarra&Mastrosimini snc stampa

Graphic Artist - Andria finito di stampare nel dicembre 2005 in copertina:

V. Fato, Madonna d’Ogni Bene. Castellana Grotte, Municipio (foto Giacomo Lanzilotta)


SOMMARIO

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LA PITTURA A NAPOLI AL TEMPO DEL FATO Francesco Abbate

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LA SITUAZIONE ARTISTICA IN PUGLIA NEL SETTECENTO Mimma Pasculli Ferrara

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VINCENZO FATO PITTORE: 1705 - 1788 Giacomo Lanzilotta

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CATALOGO RAGIONATO DELLE OPERE DI VINCENZO FATO Giacomo Lanzilotta

177 ADDENDA: GIORDANO, SOLIMENA, ROSSI Mariella Intini, Mario Alberto Pavone 185 CRONOLOGIA E REGESTO DEI DOCUMENTI DI VINCENZO FATO Giacomo Lanzilotta 195 SINTESI INGLESE E FRANCESE Marina Ferrero 203 BIBLIOGRAFIA



È per me un particolare motivo di soddisfazione e di orgoglio presentare, in qualità di Sindaco della città di Castellana Grotte, il catalogo della mostra retrospettiva dell’illustre concittadino settecentesco Vincenzo Fato, pittore di cui ricorre quest’anno il terzo centenario della nascita. Un evento che il Comune ha voluto celebrare con un’esposizione delle sue opere recentemente restaurate e con la presenza di alcuni dipinti ignoti al grande pubblico. Questo volume è il frutto di decenni di ricerche e documentazione, meritorio risultato delle fatiche congiunte dei nostri studiosi della storia patria, e dei professionisti del settore, storici dell’arte e ricercatori delle Università e delle Soprintendenze. I restauri intercorsi negli ultimi anni, e soprattutto la grande opera di recupero della chiesa castellanese del Purgatorio, scrigno prezioso della pinacoteca fatesca, hanno restituito alla comunità e ai cultori delle bellezze artistiche, ciò che a tutti appartiene: le testimonianze del nostro passato, la nostra memoria storica. Con lo spirito di chi vuole sottrarre tali beni al degrado, all’incuria e all’ignoranza, con la volontà di restituirne il valore, di far conoscere e divulgare il patrimonio artistico e culturale della nostra comunità, Castellana celebra il suo Artista, e con lui, la pittura del Settecento pugliese. Questo volume è una restituzione, un debito di riconoscenza di tutti i castellanesi nei confronti di Vincenzo Fato.

Dott. Simone Pinto Sindaco di Castellana Grotte



Siamo particolarmente orgogliosi di inaugurare questa retrospettiva su Vincenzo Fato. Già nel 2002 ne avevamo fatto un punto fermo del nostro programma amministrativo. Quest’iniziativa ha l’obiettivo di ricordare nella maniera migliore un artista che probabilmente molti a Castellana conoscono di sfuggita. Ci attiveremo anche per rendere fruibile la mostra alle scolaresche, proprio per far capire come anche nella sperduta Puglia del XVIII secolo, un castellanese era in grado di realizzare questi capolavori. Senza contare il valore aggiunto culturale a quello che già Castellana offre nel campo turistico e dell’intrattenimento.

Daniele Rodio Assessore alla Cultura

Produrre cultura, oggi come tre secoli fa, è un eccellente e coraggioso modo di fare impresa. La vicenda personale ed artistica di Vincenzo Fato, che il Comune di Castellana Grotte celebra con una importante mostra, ne è testimonianza. Un’esistenza votata all’arte, talento e bisogno che si intrecciano in un unico percorso, lungo una vita. Patrocinando questa mostra, la Camera di Commercio di Bari ha voluto testimoniare l’apprezzamento per tutte quelle iniziative che accendono i riflettori sui territori e non solo per promuovere le produzioni industriali, agricole o artigianali, ma anche quelle artistiche e architettoniche. La nostra terra ne vanta davvero tante. Eccellenze creative oltre che economiche. Bisognerebbe valorizzarle sempre più spesso. Promuoverle, non solo per la loro capacità di celebrare estro, armonia e bellezza ma anche per quel senso di appartenenza alla stessa comunità, che ci rende, imprese e persone, custodi di unico mondo di valori. On. dott. Luigi Farace Presidente Camera di Commercio di Bari


FRANCESCO ABBATE

LA PITTURA A NAPOLI AL TEMPO DEL FATO


1 | LA PITTURA A NAPOLI AL TEMPO DEL FATO

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In un passo citatissimo di una lettera al fratello (un “classico” ormai della letteratura relativa a Luigi Vanvitelli) il celebre architetto dà, sotto forma di una dichiarazione di preferenze culturali, un giudizio, implicito dunque ma chiarissimo, sulla pittura napoletana della prima metà del Settecento: “qua non stimano che Luca Giordano e Solimena, dei quali non curo avere quadri”. Quale fosse il giudizio di Vanvitelli sui due grandi protagonisti della pittura napoletana tra Sei e Settecento, l’architetto non può non riconoscere, sia pure sdegnosamente e come “in negativo”, un incontrovertibile dato di fatto: a Luca Giordano e Francesco Solimena non possono non guardare, e non solo durante la prima metà del XVIII secolo (la lettera del Vanvitelli data infatti al febbraio 1759) sia gli estimatori (e i collezionisti) sia, e soprattutto, gli artisti napoletani. A cominciare dal pittore che molti studiosi ritengono il reale maestro di Vincenzo Fato, vale a dire Paolo De Matteis. Da questo punto di vista poco cambierebbe se il suo apprendistato pittorico il pittore pugliese lo avesse invece condotto, come pensano altri studiosi, sotto la guida di un altro pittore pugliese, Serafino Elmo, artista non immune da suggestioni giordanesche. Quando De Matteis muore, nel 1728, Fato, nato nel 1705, è poco più che ventenne; ma la maniera del maestro gli resta indelebilmente negli occhi: e basti pensare a un dipinto come La Sacra Famiglia che appare a Santa Teresa d’Avila a Frasso Telesino, che è del 1743, o la più giovanile Annunciazione di Putignano. Anche se di De Matteis Fato fu, credo, un discepolo più ideale che effettivo, trovandosi il maestro a Roma tra 1723 e 1726, vale a dire negli anni in cui maggiormente Fato poteva materialmente approfittare del suo insegnamento; è vero che De Matteis era già presente e conosciuto in Puglia nel corso del secondo decennio del secolo, ma in quegli anni il pittore castellanese era veramente troppo piccolo per ricevere dall’opera demattesiana suggestioni decisive. La formazione pittorica e l’avvio a una prima maturità artistica di Fato avvengono infatti nel corso dell’ultimo decennio del viceregno austriaco, anni in cui i fermenti culturali, che sullo scorcio della dominazione spagnola e nei primi tempi del nuovo regime avevano segnato la speranza di una profonda palingenesi, vanno ormai spegnendosi e come “accademizzandosi”. La stessa produzione tarda di De Matteis viene temperando la gioconda luminosità arcadica, la grazia ammiccante di un incantato classicismo della sua vena migliore in un purismo raggelato e con forti accenti pietistici, forse conseguenza delle frequentazioni con l’ambiente del cardinal Orsini, arcivescovo di Benevento e poi, dal 1724, papa Benedetto XIII. Istanze classicistiche e richiami al libero pittoricismo di Luca Giordano percorrono la intera produzione di Paolo De Matteis, combinandosi a creare una “poetica” assai vicina alle istanze dell’Arcadia, nella composta impaginazione delle scene, in cui la luminosità del colore giordanesco si depura della sua sfrangiata, atmosferica, barocca instabilità per compattarsi in una nuova, più solida stesura. Ma è pur sempre la festosità coloristica a caratterizzare la pittura di De Matteis, nei suoi molteplici registri, dalla lieve, graziosa mondanità arcadica delle sue favole mitologiche o allegoriche fino al patetico rigorismo di certa sua produzione religiosa. La maniera di Paolo De Matteis è una delle principali alternative presenti

Luca Giordano, Affreschi nella volta della Cappella del Tesoro. Napoli, S. Martino

, particolare. Paolo De Matteis, Trionfo dell Immacolata


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nella pittura napoletana del primo Settecento, accanto a quella di Solimena come a quella rappresentata dal tenace persistere di una tradizione giordanesca, e in concorrenza con le istanze briosamente rococò di un gruppo di pittori, formatisi nell’entourage solimenesco ma ben presto voltisi, sviluppando con molta originalità pensieri giordaneschi, a un sottile contestazione di quelle correnti dominanti nella cultura figurativa napoletana del Settecento. La partecipazione alle istanze classicistiche trova Paolo De Matteis in anticipo sulla svolta operata in tal senso dallo stesso Solimena, svolta che caratterizzerà la produzione del maestro fino agli anni trenta del secolo, quando l’anziano caposcuola riconvertirà nuovamente la sua pittura ad una appassionata foga barocca, a quei guizzanti contrasti luministici, a quei sonanti “squilli di colore”, per dirla con Bologna, che avevano caratterizzato la sua particolare interpretazione del “barocco” di Mattia Preti e Luca Giordano, durante gli anni giovanili. Per l’intero periodo del viceregno austriaco Solimena svolge una sua particolare elaborazione della poetica classicistica, talvolta più purista e accademica, ma più spesso senza abbandonare mai del tutto le suggestioni, appunto, pretiane e giordanesche. Tanto che le stesse fonti settecentesche parlavano di Solimena come di un Mattia Preti “nobilitato”; e vorrei anche aggiungere un Luca Giordano nobilitato, specialmente negli anni successivi al ritorno del Francesco Solimena, La madonna consegna a Giordano dalla Spagna, quando il vecchio maestro esegue l’affrescatura della S. Bonaventura il Gonfalone del Santo celebre cupoletta della cappella del Tesoro nella certosa di San Martino, vero testamento figurativo che il grande caposcuola lascia in eredità alla pittura napoletana del Settecento. “Ricchezza di componimenti, grandezza nel disegno del nudo, bellezza e maestà ne’ panneggiamenti… azioni nobili”: sono queste le espressioni usate dal biografo Bernardo De Dominici per definire il nuovo classicismo solimeniano, facendo però ben attenzione a non scordare, nel contempo, la “gagliardia e Francesco Solimena, Giuditta con la testa di Oloferne . Vienna, Kunsthinstorisches tenerezza nel colorito”, la “inarrivabile freschezza di colore, e di chiaroscuro” armoniosamente accordati; vale a dire quegli elementi che rappresentavano il portato delle sue frequentazioni pittoriche giovanili. Questo allineamento di Solimena a istanze classicistiche fu certo dovuto all’influenza delle sue numerose frequentazioni culturali; ma più che la consonanza con il ritorno a suggestioni metafisiche da parte dei gruppi cartesiani napoletani, il classicismo solimeniano rappresenta piuttosto il suo personale apporto al movimento dell’Arcadia, il cui ramo napoletano, la “colonia Sebezia” aveva visto la luce nel 1703. Su una nuova base, più briosa e capricciosamente mondana (e con il decisivo apporto di altre istanze figurative, come di suggestioni arcadiche) la tradizione giordanesca si era mantenuta viva in un gruppo di artisti di grande talento (Domenico Antonio Vaccaro, Francesco Peresi, Giacomo Del Po) che rappresentano il polo più innovatore della pittura napoletana del primo Settecento, di stampo ormai chiaramente rococò. Il “gran fuoco” (l’espressione è ancora del De Dominici) delle invenzioni vaccariane, dal brio frenetico di una pennellata guizzante, gli inesauribili capricci coloristici di un Peresi, non immemori delle fantasmagorie cromatiche di un Gaulli o dei grandi decoratori genovesi, l’espandersi delle turbinose iridescenze di Giacomo Del Po sulle volte delle stanze, di rappresentanza ma

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anche più intimamente private, dei palazzi nobiliari napoletani – dell’aristocrazia napoletana Giacomo Del Po fu il pittore prediletto, ma grande fu il favore goduto anche presso la classe dirigente austriaca – le maniere di questi estrosi, e forse un po’ “eretici”, interpreti della felice, ariosa libertà pittorica di Luca Giordano (va però ricordato che Del Po, ma soprattutto Vaccaro, furono tutt’altro che estranei all’ambiente di Solimena) portarono a livelli assai alti, anche a riportarli a una dimensione europea, la poetica rococò. Per un lungo tratto del Settecento si mantenne comunque viva, accanto alle interpretazioni più divaganti ed eterodosse, anche una più tradizionalmente ortodossa pittura di derivazione giordanesca. Sappiamo dalle fonti che Giordano ebbe una pletora innumerevole di allievi, seguaci e imitatori, la gran parte di assai modesto livello; altri, come Giuseppe Simonelli, ma soprattutto Nicola Malinconico (morto nel 1727) furono invece tra i protagonisti delle vicende pittoriche regnicole durante i primi decenni del secolo. Discepolo di Giordano fu anche Giovan Battista Lama, con il quale la Pasculli ha ipotizzato essere venuto a contatto, durante i suoi anni napoletani, lo stesso Fato. Pittore di grande originalità, Lama si era volto a condividere con De Matteis esiti di un delicato classicismo arcadico, pur con una sostanziale fedeltà ad un intenso pittoricismo di stampo giordanesco, per avvicinarsi poi a Solimena, interpretato però con una vena di forte intensità sentimentale. La frase di Luigi Vanvitelli citata all’inizio indica una preferenza culturale che non appartenne soltanto all’architetto della reggia di Caserta, ma è presente anche negli orientamenti della nuova corte borbonica, al potere nel regno di Napoli a partire, come noto, dal 1734. Preferenze e orientamenti ben visibili nel successo arriso al capofila della cultura pittorica neoclassica, Anton Raphael Mengs, nonostante le iniziali diffidenze dello stesso Vanvitelli nei confronti del pittore tedesco, ma anche ad altri pittori di tendenza classicistica, come Batoni e Conca. La cultura neoclassica resterà, nonostante tanto autorevoli protettori, pur sempre minoritaria nel novero della pittura napoletana, perché la tradizione solimenesca (come anche i sotterranei, ma non poi tanto, fermenti giordaneschi) impronterà ancora di sé la produzione regnicola ben oltre la metà del secolo. Il più rappresentativo tra gli allievi di Solimena fu Francesco De Mura, principale punto di riferimento sia per la più specifica cultura figurativa di ambito solimenesco sia per la generazione dei più giovani pittori (Diana e Bardellino in primis) venuti alla ribalta specialmente nel corso del settimo decennio del secolo, quando Fato ha ormai lasciato Napoli per far ritorno nella nativa Puglia, pur mantenendo presumibilmente i contatti con l’ambiente napoletano. Nel quale tra resistenze solimenesche, sopravvivenze di classicismo arcadico (con non trascurabili tangenze con il melodramma metastasiano), riprese della libera fantasia della “triade” rococò, innesti di cultura neoclassica, le vere grandi novità sono rappresentate da un lato dal rientro nella capitale borbonica, nel 1762, di Corrado Giaquinto (che dunque Fato poté vedere direttamente all’opera, prima di lasciare Napoli) dall’altro dal “riemergere” di una pittura naturalistica che definire “di genere” è probabilmente assai riduttivo, specie per il suo più accreditato rappresentante, quel Gaspare Traversi, il cui percorso artistico si svolse certo prevalentemente a Roma, ma del quale sicuramente si ebbe anche a Napoli una precisa conoscenza.

Giovan Battista Lama, Agar nel deserto. Vienna, Kunsthinstorisches Museum


MIMMA PASCULLI FERRARA

LA SITUAZIONE ARTISTICA IN PUGLIA NEL SETTECENTO


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Tra le voci da me elaborate per il Dizionario Biografico degli Italiani (per i pugliesi Vincenzo De Mita e Serafino Elmo, per i napoletani Alessio D’Elia e i Fumo) particolarmente interessante è quella dedicata al pittore Vincenzo Fato (1995), perché mi ha permesso di esaltare la figura di artista trait-union tra la Puglia e Napoli, in quanto nativo di Castellana in provincia di Bari, operoso a Napoli in luoghi prestigiosi (come la Sagrestia del Tesoro di S. Gennaro nel 1742), di ritorno in Puglia con bottega in loco, alla stregua dei grandi esempi seicenteschi quale il bitontino Carlo Rosa, sicuramente più affermato nella storia degli studi critici più recenti. Dunque ben venga questo Catalogo e la relativa Mostra a rendere omaggio nella natia Castellana all’operato di Vincenzo Fato, grazie ai recenti studi di Giacomo Lanzilotta e alla sensibilità della Civica Amministrazione. Le Mostre che hanno segnato la storia artistica dell’età moderna in Puglia per la loro grande problematica sono poche, ma fondamentali. Ne segnalo alcune a cominciare dalla mitica Mostra dell’arte in Puglia dal tardo antico al rococò del 1964 (il cui catalogo è a cura di Michele D’Elia) con uno sguardo panoramico sulla Puglia con importante apertura al barocco, a continuare con Restauri in Puglia 1981-83 e Giaquinto del 1993 (cataloghi a cura della Soprintendenza), a Confraternite arte e devozione in Puglia dal ‘400 al ‘700 del 1994 (catalogo a cura di C. Gelao, promossa dal Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia) al Barocco a Lecce e nel Salento del 1995 (catalogo a cura di A. Cassiano) a Foggia Capitale. La festa delle Arti nel Settecento del 1998 (catalogo a cura di M. Pasculli Ferrara, V. Pugliese, N. Tomaioli). Già dalla voce dedicata alla Puglia nel Dizionario della pittura e dei pittori (1993, Einaudi editore) sottolineavo l’importanza dei pittori napoletani Luca Giordano e Francesco Solimena, ma ignoravo per esempio l’esistenza di un interessante Francesco Giordano comparso recentemente, ad aprile 2005, in una Mostra a Andria, come firmatario di una Annunciazione del 1726 per Minervino Murge. Del grande Luca Giordano la prima opera che arriva in Puglia è il San Giovanni Capestrano che appare a san Pietro d’Alcantara di Santa Teresa a Bari ma già della distrutta S. Pietro delle fosse (ora in Pinacoteca). È datata e firmata 1692 e costituisce il primo grande esempio di pittura barocca nella regione. Seguono, coevo all’incirca, Pan e Siringa di Putignano, un più tardo San Benedetto nel convento di San Pasquale a Taranto (attribuiti da Vincenzo Pugliese). Nel 1703, firmata, per la chiesa di San Francesco a Otranto (ora in Episcopio) giunge la Madonna e santi caratterizzata da una misurata eleganza compositiva e da spunti classicisti, di ascendenza solimenesca, e da me resa nota nel primo quaderno Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia a cura di Luisa Mortari. Di Francesco Solimena, il figlio del meno famoso Angelo (che al seguito del Guarino aveva lasciato a Gravina, nella chiesa del Purgatorio l’Annunciazione e la Madonna e santi del 1667 e nel convento delle domenicane il Paradiso) arrivano in Puglia, sul finire del secolo, la Madonna in gloria con i santi Pietro e Paolo nell’Episcopio di Nardò, databile al 1690-95, l’Apparizione del Crocifisso a san Pietro d’Alcantara, commissionata intorno al '94, nell’Episcopio di Troia, il San Francesco della Cattedrale di Lucera e la Madonna col Bambino e i santi Gennaro e Francesco nella chiesa madre di

Paolo De Matteis, Adorazione dei pastori .

Paolo De Matteis, Gloria di S. Cataldo .


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Giuseppe Mastroleo, SS.ma Trinit Taranto, S. Domenico

Giovan Battista Lama, Immacolata e

Cutrofiano. Col Giordano e col Solimena e soprattutto attraverso i loro discepoli si apre per la Puglia la grande stagione barocca. Primo fra tutti il De Matteis che invia una serie di dipinti a Lecce (San Gregorio taumaturgo in gloria, 1696), a Barletta (La vittoria di Lepanto e un’Adorazione dei pastori), a Monopoli (Madonna delle anime) e molti, firmati e datati, a Bari (San Giacomo), a Taranto (Istituto San Luigi, Carmine) e in provincia (Grottaglie, Laterza). La permanenza del pittore è documentata a Taranto, quando è chiamato dal vescovo Giovan Battista Stella (insediatosi nel dicembre 1713) per la lavorazione ad affresco della cupola del cappellone di San Cataldo da lui vistosamente firmata e da me esaltata nel saggio sulla grande decorazione barocca nell’Atlante del Barocco in Italia.Terra di Bari e Capitanata (1996). La cupola di Paolo de Matteis viene un decennio dopo la volta della Certosa a Napoli (1704), con la quale Luca Giordano - col suo grande cielo dispiegato - apriva il secolo alle ventate di novità rococò. C’è una consapevolezza - da parte del de Matteis - di creare qualcosa di notevole, perché si firma in un grande cartiglio rococò, all’imposta della cupola con tutti intorno i simboli della pittura e di fronte allo stemma del vescovo committente sorretto da putti in volo. e Vergine . Grande scalpore destò tale esecuzione. Dalla Vita di S. Cataldo vescovo di Taranto, scritta nel 1717 dal Cassinelli, apprendiamo che “ultimamente Monsignore Giovanni Stella nel governo della nostra chiesa succeduto al preditto Francesco Cardinale Pignatelli, per segnalarsi anch’egli nella devozione verso il nostro Glorioso S. Cataldo… ha più compito ciò che la magnificenza di D. Tommaso Caracciolo aveva felicemente incominciato; mentre con non S. S. minore spesa che di quattromila, e cinquecento ducati ha fatto dipingere dall’eccellente pennello di Paolo de Matteis, tanto rinomato, la cupola della Cappella del Santo”. Anche l’Ughelli (1721) scrivendo di Stella, suo contemporaneo, afferma che “ab egregio viro Paulo de Mattheis propriis quattuor sumptibus supra mille ducatorum pingendam curavit” la cupola, precisando che pur essendo il vescovo stato nominato il 30 agosto 1713, “possessionem iniit die 18 octobris, die vero 16. Decembris eiusdem anni Tarentum advenit” (lo Stella si trasferiva allora a Taranto, reggendo la sede fino al 1725, anno della sua morte). Giusta dunque la risonanza di tale avvenimento sia per la notevole somma spesa, sia per la presenza operativa di un grande maestro, diffusore nella nostra terra dell’ultima moda. Paolo de Matteis introduce in Puglia la grande decorazione barocca con la prima imponente cupola affrescata a cielo aperto, frutto della frequentazione dell’ambiente giordanesco e delle precedenti esperienze a Napoli, ma anche del viaggio in Francia, dove dal 1702 al 1705 dipinge vari ambienti. Prima di lui, pochi episodi importanti in Puglia: ricordiamo a Conversano la volta dei SS. Cosma e Damiano (1650), affrescata da Paolo Finoglio e Cesare Fracanzano, per i potenti Acquaviva d’Aragona (di cui troneggiano gli enormi stemmi agli angoli) o la cupola ribassata nella chiesa delle Benedettine, retta dalle famose abbadesse del “monstrum Apuliae”. Ma si trattava di composizioni ancora suddivise per singoli episodi da ampie cornici, quasi un corrispettivo in affresco delle grandi decorazioni lignee a cassettoni. Diversamente più

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moderne e di chiara derivazione napoletana sono nei SS. Cosma e Damiano le eleganti cornici in stucco, con motivi ornamentali dorati (che delimitano le otto Storie dei santi Medici), arricchite da festosi puttini volanti e angeli reggistemma (paragonabili per la qualità ad opere disegnate da Lorenzo Vaccaro) e tutti convergenti verso l’episodio centrale de La gloria celeste dei Santi Medici. Di ben più ampio respiro si presenta la Gloria di san Cataldo del de Matteis in un unico sfavillante cielo che si dispiega in un vorticoso turbinio di angeli e affastellamento di santi lungo la cupola, mentre le Storie della vita e dei miracoli di san Cataldo scendono nel tamburo in riquadri singoli inframmezzati dalle finestre, frutto probabilmente di collaborazione col discepolo Giuseppe Mastroleo (già al suo seguito in Francia) allora poco conosciuto. Dunque sempre a Taranto nella vicina chiesa di San Domenico si conserva un bel dipinto di Giuseppe Mastroleo la Santissima Trinità e la Vergine, datata 1740, mentre a Gallipoli un Compianto di Cristo Morto. Di altro allievo, nonché parente, Giovan Battista Lama sono da ricordare le giordanesche Madonna in gloria e santi in Sant’Andrea a Barletta e Immacolata del 1708 in Santa Chiara a Rutigliano, la Santissima Trinità e santi e San Michele e sant’Eudocia, in Santa Teresa a Monopoli, commissionate nel 1715, il ciclo di Alliste eseguito dopo il 1719 (segnalato da Lucio Galante) e a Lecce le più tarde Natività (1730) in Santa Croce, dalle forme delicatamente rococò, e Vergine con i santi Nicolò e Cataldo e San Benedetto, san Bernardo e santa Francesca romana in Santi Niccolò e Cataldo, di impronta chiaramente classicista. Di questi allievi unico pugliese è Nicola De Filippis che decora il soffitto di Santa Maria Veterana a Triggiano. E’ erede, in chiave provinciale, della grande lezione dematteisiana e soprattutto della sua grande decorazione. Allievo - a detta del De Dominici - di Paolo de Matteis a Napoli, e comunque unico, finora documentato, discepolo pugliese del maestro. Per certi versi assimilabile ad Andrea Miglionico, altro diffusore del verbo giordanesco in Puglia, Nicola de Filippis, è attivo nella decorazione ad affresco della cupola del Crocefisso a Bitonto, insieme ai decoratori locali Domenico e Francesco Storace, Stefano Troisi (attenendosi ai cartoni di Carlo Rosa, anche architetto della chiesa), subentrando allo zio Vito Antonio De Filippis, anziano allievo del Rosa. A Bitritto esegue, per la parete di fondo del Purgatorio, un grandissimo telone con La gloria dell’Immacolata, santi e anime purganti, con puntuali rimandi alla Madonna del Purgatorio di Paolo de Matteis nel Purgatorio di Monopoli, soprattutto nelle concitate figure delle anime purganti e nell’atmosfera dorata vibrante su cui si stagliano, in una luce memore del Cappellone di S. Cataldo. L’enorme telone è firmato in basso a sinistra con una sigla da sciogliersi in N. De Filippis ed una data 1736 (le ultime due cifre non sono chiaramente leggibili). Un artista meno noto del De Filippis, ma decisamente superiore, è quel Nicola Lersotti che segue l’affresco nella cupola e sui pennacchi della chiesa di Gesù e Maria a Foggia (la firma e la data 1754 sono sul pennacchio con l’immagine di S. Marco) e appare vicino al De Matteis, ma sensibile anche alla lezione del De Mura e Solimena. Probabilmente napoletano, è a noi noto solo attraverso le inedite tele dipinte per la Chiesa Madre di S. Giovanni ad Angri: il Banchetto di Erode, la Decapitazione del Battista, la Nascita del Battista e la Visitazione molto rovinata (durante il restauro operato da Veronica Hartmann è

Nicola Malinconico, Storie della vita di S. Agata. Gallipoli, Cattedrale

Francesco De Mura, Sacrificio di Isacco. Monopoli, Cattedrale


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venuta fuori la firma N. Lersotti 1747 con le iniziali intrecciate). Giordaneschi di qualità sono i napoletani Gerolamo Cenatiempo (San Gerolamo penitente e la Maddalena, 1711, nella Trinità a San Severo, studiati da Mariella Basile, il soffitto in Santa Maria delle Grazie a Manfredonia, del 1717, i quadri della cappella di San Giuseppe in Cattedrale a Barletta, del 1741) e Andrea Miglionico che dal natio Cilento si trasferisce a Bari tra il 1706 e il 1711, ove tiene bottega. Molte sue opere sono nel capoluogo pugliese (in San Nicola Scene della vita di Maria, in San Gregorio Madonna e santo vescovo, in Sant’Anna Sant’Anna e san Gioacchino, in Santa Teresa dei Maschi la grande Apoteosi di santa Teresa del 1710-11, in Pinacoteca la Madonna del Rosario) e in tutta la provincia, a Castellana, a Conversano, a Monopoli, a Bitonto, a Modugno, a Rutigliano, a Putignano, a Gravina (le cinque piccole tele eseguite nel 1735 per la cornice lignea intorno alla Madonna del Purgatorio del Guarino, 1651, nella “ducal chiesa” degli Orsini), tutte indifferentemente testimonianza del favore riscosso grazie all’amabilità dei colori e alla facilità del ductus narrativo. Ancora un allievo del Giordano, Nicola Malinconico (1663-1727), già famoso a Napoli, viene chiamato in Puglia dal vescovo di Gallipoli a completare la decorazione della Cattedrale. Dal 1707 al 1735 l’impresa ha luogo attraverso l’operato di Nicola aiutato dal più modesto figlio Carlo (che continuerà qui a lavorare dopo la morte del padre). E’ da ricordare l’episodio (studiato da Pavone) relativo al telone del soffitto del presbiterio con il Martirio di S. Agata (firmato da Nicola nel 1712) circa la sosta forzata per 10 anni nella chiesa messinese di S. Francesco di Paola, dove era giunta a seguito di un fermo del bastimento napoletano in viaggio verso la Puglia. E così alle opere già presenti del Coppola e del Catalano, si aggiungono i grandi teloni della controfacciata, del coro, del transetto, della navata centrale con le Storie della vita di sant’Agata, creando un precedente di decorazione totale che sarà seguita dal pittore Liborio Riccio nella parrocchiale del vicino paese natio, Muro Leccese. Più folta la schiera dei pugliesi allievi del Solimena a Napoli. Notevoli le figure di Leonardo Antonio Olivieri e di Oronzo Tiso, il primo nativo di Martina Franca, il secondo di Lecce, ai quali ho dedicato un saggio e un libro, a cui rimando, non senza sottolineare l’importanza dell’illustre mecenatismo dei Caracciolo di Martina Franca e di Airola per Olivieri (che muore nel 1752) e la carriera ecclesiastica intrapresa dal Tiso, che vive dal 1726 al 1800, diffondendo le sue opere in tutto il Salento. Massiccia è la presenza nella regione di opere di Francesco De Mura che lascerà una determinante impronta sull’ambiente e sul gusto pugliese, dalla giovanile Assunta di Gallipoli (1737) alle tele di Monopoli (1755) e di Barletta, all’Addolorata di Lucera (1759), alla Moltiplicazione dei pani di Foggia (1771), alla tarda Assunta di Bari. Sulla scia del De Mura sono i dipinti del napoletano Alessio D’Elia in Santa Maria dei Miracoli ad Andria (1755) e nella chiesa madre di Turi (Assunta), mentre un diretto solimenismo rivelano le opere giovanili, l’Assunta di Sansevero e il San Giorgio e il drago di Chieuti, databile al 1746. Di stretta ascendenza demuriana (tele) e solimenesca (bozzetti) è il pugliese Andrea Giannico nella chiesa madre di Laterza. Seguono, inferiori per qua-

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lità, i foggiani Nicola Menzele e Vincenzo De Mita che ripetono spesso, in un frasario ormai acquisito, formule scontate dal Maestro. Chi solleva la pittura pugliese a gloria internazionale è il molfettese Corrado Giaquinto. Poche tuttavia le sue opere in Puglia: la Natività di Terlizzi, il Tobiolo e l’angelo e l’Assunta di Molfetta, la Natività del Battista e il Sogno di San Giuseppe di Taranto (ora Bari, Pinacoteca, ove è anche esposto il Miracolo di S. Nicola) e il grandioso Transito di san Giuseppe ad Ascoli Satriano, ma soprattutto il ciclo delle Metamorfosi in collezione De Luca a Molfetta, discendenti del marchese De Luca mecenate dell’artista. Attiva in ambito locale la sua scuola, attraverso la famiglia dei Porta. Di Nicolò Porta (1710-1874) mi piace segnalare il recente restauro di una pregevole immensa tela (815x540) del Trionfo dell’Eucarestia (un tempo collocata nella volta della cattedrale di Bisceglie) caratterizzata dall’adozione di modelli di repertorio dal Giaquinto. Nella chiesa di S. Chiara a Trani, una Conversione di S. Chiara è affrescata nella navata, circondata da cornici in stucco, firmata da Giovan Battista Calò (e datata 1767), allievo molfettese a sua volta dei Porta e stanco imitatore delle grandi composizioni napoletane. Un rococò di matrice giaquintesca, ma di formazione locale, esercita soprattutto nel Salento il migliore dei Carella, Domenico. Ricordiamo la pregevole decorazione parietale dei Saloni di Palazzo ducale a Martina Franca, emblema del rococò pugliese e del prospettivismo illusionistico. Continuano comunque ancora ad arrivare in Puglia, da Napoli, per tutto il Settecento altri dipinti (pochi esemplari, testimoni di isolate scelte della committenza): di Paolo De Maio a Bitonto (1739) e a Foggia (1741), di Giuseppe Bonito a Barletta (1737), di Filippo Falciatore a Trani (1768), di Fedele Fischetti a Mola (17..) e infine di Pietro Bardellino (che sul finire del secolo XVIII continuava ancora a muoversi nella tradizione giordanesca aggiornandola in chiave rococò) a Gravina (1774) e a Monopoli. E’ interessante ricordare che il Bardellino eseguì un grande dipinto per il Cappellone sopraelevato della Madonna della Madia nella cattedrale di Monopoli, L’arrivo dell’icona della Madonna della Madia nel porto di Monopoli, che andava a sostituire proprio quello già eseguito da Vincenzo Fato (ora sullo Scalone di accesso al Cappellone). E’ l’ultima opera dell’artista (a cui era stato commissionato anche un pendant mai eseguito per la morte sopravvenuta) da considerarsi quasi un presago commiato attraverso la dettagliata iscrizione “Vincentius Fato pinxit, anno aetatis suae 83, A.D. 1788”.


GIACOMO LANZILOTTA

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Il nome del pittore castellanese Vincenzo Fato è ancor oggi familiare solo ai pochi addetti ai lavori: storici dell’arte, conoscitori e studiosi delle patrie memorie. A parte le affettuose attestazioni di stima dei suoi contemporanei, di cui si parlerà in seguito, la critica non gli ha dedicato finora molta considerazione. Esistono insomma numerose testimonianze a livello locale, più alcuni sporadici studi di carattere critico sull’opera del pittore. Il primo documento che offre un giudizio sulla sua pittura risale al 1809: si tratta degli atti di soppressione dei monasteri maschili castellanesi di S. Francesco d’Assisi e S. Francesco di Paola per opera dei napoleonici di Gioacchino Murat. L’anonimo incaricato di redigere l’inventario dei beni stimò essere “di buona mano” i dipinti del S. Paolo e dell’Annunciazione1, ancor oggi conservati nella sagrestia della chiesa dei Conventuali. Del 1853 è la testimonianza del Pacifico, il quale riporta come due importanti pale d’altare, l’Immacolata con S. Pasquale e la Madonna degli Angeli con S. Francesco e S. Pietro di Alcantara, nel Santuario della Madonna del Pozzo a Capurso, furono molto lodate dai frati per la nobile composizione2. Nella sua Guida sacra di Napoli del 1872 il Galante inserisce il Fato come autore di varie opere nella cappella di S. Francesca Romana nella chiesa olivetana di S. Anna dei Lombardi3. Si deve attendere quasi un secolo, sino al 1968, per un nuovo contributo, ben più rilevante: è un articolo del Lanera, che traccia un primo approssimativo profilo biografico sull’artista4. Giusto vent’anni dopo, in occasione del bicentenario della morte, lo studioso pubblica un nuovo saggio, più ampio e ricco di informazioni anche dettagliate sulle sue vicende5. Tuttavia il Lanera si muove con gli strumenti che gli sono consueti, quelli dello storico, senza mettersi nei panni del critico, mestiere per il quale non si sente punto portato. Senz’altro gli va riconosciuto il merito di aver avviato le ricerche sull’opera di Vincenzo Fato, pubblicando preziosissimi documenti e redigendo un primo inventario delle opere conosciute. Si sono avuti comunque diversi contributi critici, tra 1978 e 2003, ad opera del Di Mizio6 e della Senesi Albanese7, riguardanti alcune particolari tele del pittore. Dal 1993 al 1998 si hanno una serie di importanti studi sull’opera del Fato da parte del Pellegrino, che per primo avanza l’ipotesi – effettivamente fondata – di un alunnato del pittore nella bottega di Paolo De Matteis8. Nel 1995 il nostro artista è salito a maggior fama, essendo stata inserita la sua vita nel Dizionario Biografico degli Italiani. La voce è stata curata dalla Pasculli Ferrara: lo scritto è prodigo di informazioni dettagliate, e fa il punto sulla situazione della critica fatesca fino a quella data9. Da ultimo in ordine di tempo, ho contribuito alle ricerche con una serie di studi dal 1999 al 2005, e in questa sede riporto ulteriori aggiornamenti10. Vincenzo Fato nasce nel 1705, dal castellanese Giampietro e da Francesca Alfarano11; l’anno di nascita si ricava indirettamente dalle sue opere estreme (Madonna del Carmine e anime purganti, al Purgatorio di Castellana; L’arrivo

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della Madia, alla cattedrale di Monopoli), nelle quali il pittore volle indicare la sua età, oltre la firma e la data: Opus Vincentii Fato da Castellana; A.D. 1785 Aetatis Suae A.80, così si legge in basso nella pala del Purgatorio. Il suo nome non risulta nel registro dei battezzati di S. Leone di Castellana, né in quell’anno né in quelli vicini, né il registro sembra presentarsi incompleto o menomato; non è improbabile allora che sia nato altrove, forse in un’altra città della Terra di Bari, dove la sua famiglia si trovava in quel momento. Del resto il primo documento in cui viene menzionato a Castellana è del 1734. Dove abbia trascorso la sua infanzia e gioventù è ancora da chiarire. Certo è che sia presto andato a bottega da qualche rinomato pittore, intorno ai 13 o 14 anni. Una prima ipotesi fu adombrata dalla Pasculli, secondo la quale il suo probabile maestro deve essere stato Serafino Elmo di Lecce12, pittore di gusto giordanesco. Non molto dissimile nella sostanza è, di qualche anno più tardi, l’affermazione del Pellegrino13, condivisa dalla Cisternino14 ed accolta da chi scrive, che il Fato sia stato allievo di Paolo De Matteis15, conosciuto durante il soggiorno di questi in Puglia, negli anni 1713-171916. E non è escluso, anzi è molto probabile, che abbia seguito il maestro al suo ritorno a Napoli, e nella capitale si sia stabilito qualche anno, all’incirca tra 1719 e 1729. La sua prima opera datata e firmata è del 1732, una Natività di Maria in S. Maria Amalfitana a Monopoli17; ma sicuramente molto prima di questa data il Fato avrà operato come pittore autonomo18. Da un’attenta analisi stilistica si evince come una o due pale d’altare in S. Domenico a Putignano si possano datare all’incirca tra 1729 e 1732. Nella chiesa dei domenicani sono conservate ben 13 tele del nostro di cui una firmata e non datata, l’Annunciazione. Due anni dopo è per la prima volta documentato a Castellana: si tratta di un contratto stipulato tra la Confraternita dell’Immacolata Concezione ed il frate scultore Luca Principino, per la realizzazione di un altare in pietra in S. Francesco d’Assisi19. Lo scultore avrebbe provveduto altresì a colorire la statua della Vergine; era previsto che in caso di morte di fra’ Luca, il Fato gli sarebbe subentrato20. Il pittore ha la casa in via del Gelso, nei pressi della piazza, corrispondente all’attuale via Cesare Battisti21. Del 1738 è il S. Francesco Borgia, primo lavoro di una lunga serie per la chiesa castellanese della confraternita del Purgatorio. Nel 1741 esegue una Circoncisione per la chiesa dei domenicani di Rutigliano, commissionata dalla nobile Agnese Pappalepore Troiani; realizza anche un disegno, oggi perduto (da cui nel 1791 è stata ricavata un’incisione)22, che rappresenta la copia della statua rinascimentale della Madonna della Consolazione di Aurelio Persio in S. Leone. In questo periodo la Pasculli inserisce la pala della Madonna d’Ogni Bene, conservata nel municipio castellanese23, per le analogie compositive con una pala del Veronese, dal Bellifemine attribuita a tale Francesco Siculo24, la Madonna con quattro Santi, proveniente da S. Francesco d’Assisi in Monopoli ed affidata al Fato per un restauro. È possibile però che l’allogazione avvenisse in anni più tardi25, intorno al 1760-61, e forse da quella data si potrebbe meglio collocare la Madonna della biblioteca. Dei primi anni quaranta è l’Immacolata nella chiesa matrice di Mola, ese-


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Vincenzo Fato, S. Caterina de Ricci particolare. Putignano, S. Domenico

guita probabilmente in occasione dell’erezione dell’oratorio omonimo, per commissione delle famiglie patrocinanti Zuccarino e Martinelli26. Tra la seconda metà del 1741 e l’aprile del 1752 il pittore risiede stabilmente a Napoli; prende casa e bottega in via dell’Avvocata al Mercatello, in quello che all’epoca era il rione degli artisti27. Degli anni 1742-43 sono gli otto dipinti raffiguranti Storie dell’infanzia e miracoli di Cristo del Tesoro di S. Gennaro nel Duomo di Napoli. Si tratta della commissione più importante della sua carriera artistica, ancorché avvenuta in circostanze non del tutto chiare: dall’Archivio del Tesoro sono emersi una serie di documenti che si riferiscono al trasporto di alcuni di questi quadri e alla loro incorniciatura, alle mance per il facchino, mentre si tace dell’onorario corrisposto all’artista o dell’origine dell’allogazione28. Un pur tenue raggio di luce su quest’ultima questione può ricavarsi dalla recente scoperta di quattro piccoli bozzetti dei miracoli di Cristo del Tesoro29 in collezione privata, provenienti dal palazzo Giampietro di Castellana. Hanno la medesima origine pure altri dipinti, ereditati dal casato estinto dei de Giorgio30, un ovale del Fato raffigurante una Mater Domini e un S. Giuseppe con Bambino ora in due diverse raccolte private, tanto da suggerirci una loro in, estasi peculiare predilezione nei suoi riguardi31: è plausibile insomma che i de Giorgio, signori di provincia con possedimenti tra Napoli e il sud-est barese, furono i primi ‘protettori’ dell’artista, e che forse intervennero in suo favore segnalandolo - potremmo dire raccomandandolo - alla Deputazione; le capacità artistiche del nostro poi fecero il resto. Vivere a Napoli costituiva per un artista la migliore occasione per affermarsi. La capitale del Mezzogiorno era già all’epoca una metropoli con oltre trecentomila abitanti, centro artistico di prim’ordine ed arsenale delle migliori e più moderne energie intellettuali; basti ricordare i nomi di Vico, Giannone (pugliese come il Fato) per la prima metà del secolo, poi quelli di Filangieri e Genovesi, che faranno della Napoli del secondo ’700 il baluardo del giurisdizionalismo e grande centro dell’illuminismo italiano32. Per quanto riguarda le arti, un clero pletorico, ricchissimo, costituiva la fonte primaria di committenza e patrocinio: monasteri d’ogni ordine, compresi quelli mendicanti, santuari, alti prelati, confraternite, congregazioni d’ogni genere e parrocchie si contendevano pittori, scultori, marmorari, orefici e stuccatori per decorare i propri edifici, sacri e non solo. Continuatrici della maniera giordanesca, le scuole del Solimena e del De Matteis dominavano la scena pittorica; e in quest’ambito il giovane Vincenzo Fato incominciava a muoversi in autonomia, alla ricerca di una propria affermazione professionale. Certo che nella città partenopea c’era molto lavoro ma la concorrenza doveva essere spietata; per questo a un certo punto, dall’aprile 1752, il nostro decide di stabilirsi definitivamente a Castellana. Nel decennio di permanenza della capitale, il Fato mette su famiglia. Il 17 ottobre 1743, nella parrocchia dell’Avvocata, sposa la napoletana Antonia Picardi33. Del medesimo anno sono la pala d'altare con La Sacra famiglia che appare a S. Teresa d’Avila in estasi, nella chiesa di S. Maria del Soccorso34 a Frasso Telesino, ed una piccola tela raffigurante l’Addolorata, della Pinacoteca Civica di Manfredonia35. Nel 1744 esegue una Madonna e anime purganti per S. Giuseppe a

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Castellaneta, la chiesa privata dei conti Sarapo di Taranto. Nel giugno 1745 nasce il primo figlio, battezzato col nome del nonno paterno, Giovan Pietro36. Sempre a Napoli il Fato firma nel 1747 due dipinti polilobati per la chiesa olivetana di S. Anna dei Lombardi, nella cappella di S. Francesca Romana: una S. Francesca adolescente, e un Angelo che difende S. Francesca dalle percosse del demonio37. Nell’aprile 1752 lo troviamo in viaggio con tutta la famiglia verso Castellana, ed in compagnia dell’amico prete Giannantonio Cardone, suo compaesano38; durante il tragitto è costretto a sostare alla Taverna d’Orta, in Capitanata39, ove la moglie partorisce la terza figlia, Maria Saveria. Doveva essere successo qualcosa di grave se, con la moglie in avanzato stato di gravidanza, si era deciso ad intraprendere un viaggio così lungo e faticoso: può darsi, come ipotizza il Pellegrino, che le cause di questo improvviso spostamento stiano forse in una lite accesa, o nella mancanza di lavoro, o in un dissesto economico tale da non potergli permettere ulteriormente la vita in città40. Lo stesso anno o il seguente, in occasione del completamento dei lavori di rifacimento della cappella del SS. Sacramento nella chiesa matrice di Mola, dipinge un Padreterno, cimasa del nuovo altare. Un’altra figlia, Grazia Maria, gli nasce nel 175441. In questi anni è alle prese con una serie di quattro ovali per la chiesa conventuale di S. Francesco d’Assisi a Monopoli, e con una pala per la chiesetta della confraternita del Purgatorio nella stessa città42: il primo dei quattro ovali è datato 1755, l’ultimo 1761. I frati, vista la buona mano del nostro, pensarono allora di commissionargli il restauro della tela del Veronese, di cui si è accennato prima. Il risultato però deluse le aspettative iniziali. Scrive fra’ Giuseppe Maria Bruni, cronista del convento: Dimandò il suddetto quadro, prima di collocarlo al medesimo altare, in Castellana a Vincenzo Fato pittore per accomodarlo, perché dal tempo stavano toccate alcune figure, ma gli intenti non lo lodarono, che il pregio più singolare di quella pittura stava nella prima uscita dalle mani e del pennello del proprio autore Veronese43.

Nello stesso anno 1761 nasce Marianna, la quinta figlia44. Come è evidente, la famiglia del Fato era piuttosto numerosa: oltre le cinque figlie, risultano due figli maschi: il già noto Giovan Pietro45 (che morì nel 1775) e Francesco46 (che morì nel 1783)47. Nei documenti compare come convivente don Paolo Fato48, prete, fratello del pittore. Possiamo intuire come la sua vita professionale fosse non certo facile, costretto spesso dal bisogno alla ricerca di commissioni, anche a condizioni per lui umilianti, per la sussistenza di “una famiglia di dieci persone”, come ebbe a dire nella lettera del 1768, che è riportata più avanti. Come risulta dal testamento, tutte le figlie entrarono in monastero: due in S. Benedetto a Massafra, due nello Spirito Santo a Casalnovo (l’odierna Manduria, in Salento) ed una in S. Chiara a Conversano. E’ stato calcolato dal Lanera che per la dote della monacazione delle figlie (perché in quel tempo era uso, anche per prendere i voti, portare una ‘dote’) il nostro pittore avrà speso non meno di 1500

Vincenzo Fato, La Sacra Famiglia appare a S. Teresa in estasi , particolare. Frasso Telesino, S. Maria del Soccorso


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Vincenzo Fato, S. Francesco Borgia , particolare.

ducati49. Le sue condizioni economiche, oltre che per queste ingenti uscite, peggiorarono sensibilmente col passare degli anni, per varie cause, che si possono facilmente scorgere: innanzitutto, la difficoltà di ottenere commissioni, per l’affermarsi nel clero locale di un gusto più orientato verso il disegno facile e i toni dolciastri di un Carella50, suo concorrente, o di un più modesto ed economico Tatulli51. Del resto le poche commissioni ottenute (la splendida Madonna e S. Simone Stock, ed altre due tele, per il Convento Grande di Putignano) non furono sufficienti: la carestia del 1764, e la scarsità dei raccolti nei suoi piccoli fondi, non permisero al Fato un adeguato sostentamento della sua famiglia52; tanto che, a partire dal 1767, il pittore non fu più in grado di rispettare regolarmente il pagamento del censo. Il 25 gennaio 1767 il Capitolo di S. Leone concede al Fato una dilazione nel pagamento, su sua richiesta, fino al mese di aprile53. In quest’anno dipinge per la chiesa dei carmelitani di Putignano una pala con S. Teresa. Il 25 agosto il cappellano del Caroseno a Castellana gli commissiona due quadri per le nicchie dell’altare maggiore54, un S. Pietro e un S. Giovanni. Lo stesso cappellano, stimandolo e nominandolo nei documenti “Vincenzo Fato professore di pittura”, chiederà il 17 luglio dell’anno seguente un suo consulto circa i migliori colori da adottare per la decorazione del coro ligneo55. E’ probabile che intorno alla metà degli anni ’60, il pittore decida di stabilirsi con la sua famiglia definitivamente a Castellana, e dal 1764 in poi non si rechi più a Napoli. Tuttavia vengono mantenuti i contatti con la capitale, da dove si fa inviare le tele ‘imprimite’. In questo periodo si suppone il suo ingresso nella confraternita del Purgatorio, nella cui chiesa egli dipingerà numerose tele, grandi e piccole56. Il bisogno di lavorare e le necessità impellenti costringevano spesso il Fato a dover mercanteggiare coi committenti sul prezzo delle sue opere; cosa fastidiosissima per lui, che giustamente si sentiva un galantuomo e si considerava superiore a queste meschinità. Ma una sua lettera del 24 gennaio 1768 testimonia vivamente questo stato di cose, ed è tra l’altro un documento notevole che fa luce sulla sua personalità: si ricava il profilo di un uomo mite, abituato da tempo a tollerare le amarezze e le delusioni per la sua professione, a moderare nel contempo i moti dell’animo e la consapevolezza orgogliosa del proprio valore artistico. L’epistola è indirizzata ad un certo don Michele (identificato dal Lanera in don Michele Manuzzi57), procuratore del monastero di S. Benedetto a Conversano. Si trattava di due opere che le monache volevano pagare a poco prezzo, perché non stimavano che il lavoro valesse oltre; e lo fanno sapere al pittore senza mezzi termini, in maniera piuttosto offensiva per il nostro. Scrive infatti il Fato a don Michele, nel chiedergli una sua mediazione nella trattativa: Mio Signore e Padrone colendissimo. Non potei rispondere subito alla sua stimatissima per l’affare delle due pinture da farsi. Ma Signor D. Michele mio carissimo Padrone, è tropp’ingiusta la offerta delle Signore Monache, che appena basterebbe per uno solo di quei quadri; né bisognava ponere la condizione del purchè siano buone le pitture58, perché io son un uomo che non tanto fò l’opere per l’utile, quanto per l’onore, imperciochè

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quel poco lucro subito si consuma, ma l’onore perpetuamente dura; e questa è forse la mia pazzia. Non mi basterebbe l’animo di poter ringraziare V. S. di quanto ha detto in mio favore, non avendo io tal merito presso la dignissima sua persona; ma Iddio che sa il tutto lo rimunerà (sic) a misura del suo buon cuore. Io compatisco le Signore Monache, e benchè tutte Signore, inesperte però di queste cose, e perciò stimano assai il denaro e poco la virtù. Onde chi più intende deve illuminare chi allo buio delle cose si trova, perché le cose buone non si ponno avere a vil prezzo. V. S. da vero amico mi consulta che in questa prima occasione sagrificassi la mia fatiga, ma, Padron mio carissimo, è troppo, è troppo; almeno s’aggiungesse all’offerti docati venticinque la spesa delle tele e colori, le quali penzerei farle venire da Napoli tutte imprimute, e ciascuna d’un sol pezo59. Queste con tutta la condotta qui, includendovi anche la spesa dei telari (che bisognano per tirare dette tele, e poter dipingere), detta spesa potrebbe ascendere a docati cinque; e venticinque che per bontà m’offeriscono60, faranno l’esito di docati trenta. Il più della mia fatiga io ce lo dono di cuore. E le dette pitture non permetterò giammai di ponerle nelle loro nicchie, se non stimerò poterci stare con decoro e stima; e per avere l’intento farò prima li disegni in carta61 e li manderò a vedere e se piacciono, farò le macchiecolorite62, e quelle anche farò considerare da V. S. alle Signore Monache, e se avrò la sorte di sodisfare al loro buon gusto, si faranno in grande per il determinato luogo. Non credo che daranno indietro per questa bagattella da me richiesta tanto giustamente, perché alla pur fine che importerà mai al Monastero di S. Benedetto? ed a me importa molto per essere un povero galantuomo che deve dar pane ad una famiglia di dieci persone. Onde s’adopra V. S. con ogni calore e me ne dia subito l’aviso acciò si commettono le tele in Napoli e possano per i nostri vaticali qui portarsi. In conclusione altro non desidero che si faccia adesso, che la spesa delle tele e colori, e se danno dubbio della mia onestà e non vorranno contribuirmi nulla per caparra, avrò la pazienza sinchè Iddio me la farà compire, e con genio e piacere di tutti; ed allora mi daranno la promessa mercede ed una grossa spasa di dolci per le mie figliole. Circa degli affari venturi, Dio sa se io ci sarò. Attendo frattanto la mia favorevole risposta assieme con l’onore de’ suoi comandamenti. Divotamente mi raffermo Di V. S. Castellana, li 24 gennaio 1768 Devotissimo et obligatissimo Servitore Vincenzo Fato Se per sorte si conchiude l’affare, avrà la bontà V. S. far prendere le misure esatte delle nicchie e della figura del dintorno di esse, per poterne formare li disegni come ho detto sopra63.

La mediazione del Manuzzi portò le cose a buon fine; nel corso del 1768 il Fato consegnò alle monache le due opere pattuite: due allegorie, una Speranza e una Carità, entrambe attualmente nei depositi di S. Benedetto64. Scrive il D’Elia che nella chiesa benedettina si conserva anche un’Immacolata, dallo studioso attribuita al Fato65. In realtà si tratta di opera di Carlo Rosa, pittore di cui si conservano altre tele nella stessa chiesa66. Sempre del 1768 è la tela dell’Adorazione dei pastori nella chiesa della Natività di Noci, eseguita su commissione del beneficiato Francesco Antonio Longo, primicerio di S. Leone di Castellana, attraverso Vittoria Lenti di Noci, sua madre67. Ormai anziano, il Fato intraprende nell’ottavo e nono decennio del secolo la fase più intensa e difficile della sua carriera, oltre che della sua vita: malfermo nella salute, ridotto per ragioni non chiare in miseria, continua tenacemente a dipingere, per sostenere sé e la sua famiglia, e per pagare i debiti contratti. Tra 1770 e 1788 si contano oltre dieci pale d’altare di grandi dimensioni,

Vincenzo Fato, Tobiolo e l Angelo , particolare. Putignano, S. Domenico


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ed altrettante opere di minori misure, nelle quali affiora un impegno, un’energia creativa e una laboriosità frenetica fatta di continui ripensamenti, pentimenti e correzioni, un tratto ancora energico e sicuro e una sorprendente freschezza cromatica, espressione di un artista giunto al limite della vita ma fermamente determinato ad affermarsi, contro le ristrettezze del momento e per la gloria presso i posteri, per quell’onore tanto anelato che “perpetuamente dura”. Del 22 luglio 1770 è una toccante lettera, che il Fato scrive al Capitolo di S. Leone, ed attestante le sue gravi difficoltà economiche: Reverendi Signori Vincenzo Fato umilissimo oratore delle Signorie loro Reverende, riverentemente loro espone come, ritrovandosi possedere sin dall’anno 1742 un sottano di questo Reverendo Capitolo ad interim, ora essendo il supplicante (come è notissimo) caduto in una compassionevole, e lagrimevole povertà, perciò si è reso impotentissimo alla sodisfazione dell’annuo censo; si mette a piedi delle Signorie Loro Reverende supplicandogli per amor dell’Altissimo Dio, e dell’Immacolata Vergine sua degnissima Madre, a voler compiacersi ripigliarsi il sottano; non per giustizia, ma per quella cristiana pietà, e carità, che regna negli ecclesiastici a sollievo dei poveri infelici uomini; senza che si esponga l’angustie dell’infelice supplicante, senza beni, e senza potersi prevalere della persona; e con l’obbligo d’alimentare una numerosa famiglia di otto persone68, con le sole fatighe delle sue mani, che oggimai per l’età pressochè decrepita, sono quasi impotenti a reggere gl’istrumenti della di lui nobile professione […]69

Lo stesso anno una figlia fa professione di fede nel monastero di Massafra; per quella chiesa dipinge il Miracolo di S. Mauro. Per il convento dei domenicani di Putignano esegue un S. Vincenzo Ferreri. Gli affari sembrano migliorare nel 1771: riportano tale data diversi grandi quadri, una Madonna di Costantinopoli con S. S. Donato e Biagio ed una Trinità con S. S. Lucia, Giuseppe Calasanzio, Vincenzo Ferreri e Caterina d'Alessandria per la chiesa di S. Leone a Castellana, un’Immacolata con S. Pasquale Baylon per il Santuario di S. Maria del Pozzo a Capurso (per cui realizza nel 1773 il pendant S. Pietro d’Alcantara). Di questo periodo è altresì la Madonna Pastora, forse il bozzetto per una pala d’altare ancora ignota; il bozzetto, che apparteneva ai Conti Sava di Santeramo, è oggi presso l’Istituto dei Padri Monfortani, nella stessa città. Il quadro è firmato e datato 1771. Ancora difficoltà economiche si registrano nel 1774: del 15 settembre è la sua richiesta al Capitolo di S. Leone di un prestito di 180 ducati al 5% di interesse, che servirà parte per i propri bisogni, parte per coprire precedenti debiti70. Nel 1776 è impegnato nelle tre tele per la minuscola chiesa confraternale di S. Maria di Costantinopoli a Putignano. Due anni dopo realizza per la Confraternita del Purgatorio di Conversano la Madonna del Carmine con anime purganti, opera che firma e data. E’ datato 1779 un piccolo ovale raffigurante S. Giacomo Minore, ora in collezione privata. Un documento datato 26 marzo 1780 ne attesta nuovamente le ristrettezze: il Fato è inserito nell’elenco dei debitori del Capitolo per i mancati pagamenti dei censi delle annate precedenti. Il debito, riferito al 1779, ammonta a 3

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ducati e 60 grana71. E’ nominato però tra i “galantuomini rispettati in questo paese”: il suo nome è preceduto dal Don spagnolesco, titolo di recente introduzione, che “allora si concedeva soltanto ai ‘dottori’ e ai ‘galantuomini’ di antica stirpe, mentre quelli di estrazione più recente dovevano contentarsi (guarda caso!) del più antico e italico Signore” (Lanera)72. Del 1781 è l’Annunciazione del Purgatorio di Castellana; a questi anni, fino al 1786 circa, si possono datare presumibilmente le cimase degli altari della chiesa: il Riposo durante la fuga in Egitto, il Padreterno, il S. Francesco Saverio morente. Contemporaneamente è impegnato nell’esecuzione su rame della Mater Domini della chiesa del Caroseno, sempre a Castellana. E’ stato trovato in proposito un documento interessante, con data 1 maggio 1783: il cappellano del Caroseno comunica al Capitolo che ha trovato una ricevuta del pittore di 6 ducati – una probabile caparra – “per fare il quadro nuovo della Vergine, stante il vecchio assai maltrattato”73. L’opera piacque davvero ai reverendi padri; un documento capitolare del 13 luglio 1786 riporta che il sacerdote Oronzo Montanaro definisce “eccellenti pitture” i quadri fateschi del Caroseno74. Nel 1785, a 80 anni, conclude e firma la pala dell’altare maggiore del Purgatorio castellanese, la Madonna del Carmine con anime purganti. L’opera è piena di ripensamenti, di pentimenti, di rapide coperture ed istintive correzioni, visibili anche ad occhio nudo; segno di un non mai contentarsi, di una formidabile volontà di ricerca della perfettibilità artistica, di una estenuante determinazione nel raggiungere la composizione auspicata. Vi è dentro tutta la passione dell’artista. La cimasa dell’altare maggiore, il S. Francesco Saverio Morente, rappresenta quasi il suo testamento spirituale. Osserva bene il Pellegrino: “Il nostro pittore si paragona proprio al missionario delle Indie che ha terminato la sua missione, la sua avventura terrena. Il mare, che invita a raggiungere nuovi orizzonti, non lo interessa più, non è più tempo di navigare, di tentare nuove avventure, non è più tempo di dipingere”75. Il sentirsi prossimo alla morte induce il devoto pittore a fare testamento. Il 10 maggio 1785 detta le sue ultime volontà al notar Giuseppe Domenico Pace76. Lascia erede universale la sua dilettissima moglie donna Antonia Picardi; nel contempo ha un pensiero generoso per le figlie monache, per lo “Spedale” di Castellana, per i poveri bisognosi. Richiesto dal notaio se volesse lasciare qualcosa all’erigendo Albergo dei poveri di Napoli, il Fato rispose, con una nota forse di risentimento verso la capitale, di “essere un povero galantuomo”77. Il pittore visse ancora tre anni, durante i quali le sue condizioni economiche e di salute precipitarono ulteriormente. Infatti il 29 gennaio 1788 richiede una seconda volta gli uffici del notaio, per un codicillo al testamento78. Il buon notaio Pace si reca alla sua casa di via del Gelso e lo trova a letto infermo. Nel codicillo, lascia la moglie assoluta padrona della sua eredità, conferendole piena libertà di vendere qualsiasi bene, nessuno escluso, e lasciando in subordine ai poveri quel che fosse avanzato a morte di lei. Nuovamente interrogato dal notaio circa un eventuale lascito all’Albergo dei poveri, “disse non aver che lasciare”79. Ma fino al precipitare dell’infermità Vincenzo Fato attendeva ancora ad

Vincenzo Fato, S. Michele sconfigge il -demo nio, particolare. Putignano, S. Domenico


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un’opera grandiosa, la più grande tela della sua carriera: l’Arrivo dell’icona della Madonna della Madia, commissionata dalla diocesi di Monopoli per il cappellone della cattedrale. Volle firmarsi e raffigurarsi tra gli astanti devoti: quell’uomo canuto con barba che viene fissato da un cagnolino, mentre una sua zampetta si allunga verso un sasso ove è incisa la firma dell’artista, Vincentius Fato pinxit, anno aetatis suae 83, A.D. 1788. Il grande dipinto, come è noto, è l'ultima opera del Fato. Non fu portato a termine per l’avvenuta sua morte, e successivamente completato da Pietro Bardellino80. Fu in seguito collocato nella cattedrale monopolitana, su una parete dello scalone sinistro che porta al Cappellone della Madia81. Pochi giorni dopo aver dettato il codicillo al testamento, il 6 febbraio 1788, muore, munito dei sacramenti, Vincenzo Fato. Viene sepolto nella chiesa del Purgatorio82. Osserva il Lanera: Dovè essere quindi la congrega del Purgatorio a rilevare le spoglie del povero pittore, recandole a spalla fino a S. Leone per le solenni esequie, e quindi al sepolcro (distinzione che il nobile sodalizio accordava solo ai propri confratelli): e la sera precedente le esequie avranno cantato al solito l’intero Ufficio dei Morti in casa del defunto, chè potevano ben farlo i fratelli del Purgatorio, letterati tutti quanti83.

E nella chiesa del Purgatorio ora riposa, in buona compagnia degli angeli e dei santi da lui raffigurati in oltre mezzo secolo di intensa, umile e religiosa fatica d’artista.

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1 Lanera M. (a cura di), Gli atti di soppressione dei monasteri maschiliNote di San Francesco d Assisi e San Francesco di Paola in Castellana di Bari - nel 1809, quader no I, San Francesco d Assisi, Castellana Grotte, 1991, p. 6, 7. A p. 11 è nominato nell’inventario un ritratto di Papa Ganganelli, oggi perduto, forse anch’esso opera del Fato. 2

Pacifico A., Un nuovo santuario e una nuova basilica, Capurso, 1853, p. 220.

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Galante G. A., Guida sacra di Napoli, Napoli, 1872, p. 126.

4 Lanera M., Qualche nota biografica di un pittore poco conosciuto di Castellana. Vincenzo Fato in L Alabastro , a. IV, 1968, pp. 2-3, 16. 5

Id., Ricordo di Vincenzo in Fato “La Forbice”, n. 63, 1988, pp. 10-12.

6 Di Mizio P., Vincenzo Fato in alcuni particolari di tele esistenti in “La a Castellana Forbice”, n. 7 (a. IV, n.1), gennaio 1978, p. 14; Id., Lettura di un dipinto di Vincenzo Fato in “La Forbice”, n. 8 (a. IV, n.2), aprile 1978, p. 10; Id., Sermone silenzioso dal pulpito della chiesa del Purgatorio in “La Forbice”, n. 12 (a. V, n. 2), agosto 1979, p. 5; Id., Fato, Fanelli e figlie del Carmelo in “La Forbice”, n. 14 (a. V, n. 4), dicembre 1979, p. 14; Id., I nasi del Fatoin “La Forbice”, n. 16 (a. VI, n. 2), aprile 1980, p. 6; Id., Il volto del inFato “La Forbice”, n. 22 (a. VII, n. 2), aprile 1981, p. 14; Id., Fato, Fanelli e figlie delin Carmelo “Pagine putignanesi”, a. I, n. 1, febbraio 1984; Id., Il profeta e la vedova in “Pagine putignanesi”, a. I, n. 1, febbraio 1984; Id., Cristo nell’orto dei Getsemani e legato inalla “Paginecolonna putignanesi”, a. II, n. 2, aprile 1985; Id. (con Sabato V.), All’angelo della chiesa di San Domenico scrivi , Monopoli, 2003. Pasquale Di Mizio è mancato prima che questo libro vedesse la luce; al caro divulgatore delle nostre testimonianze dell’arte, va il mio commosso e affettuoso saluto.

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7 Senesi Albanese O., Passeggiata sacra delin Fato “La Forbice”, n. 16 (a. VI, n. 2), aprile 1980, p. 7; Ead., L’approdo della Madia in “La Forbice”, n. 22 (a. VII, n. 2), aprile 1981, p. 14; Ead., La Sacra Famiglia (chiesa di S. Domenico) in “Pagine putignanesi”, n. 0, febbraio 1983. 8 Pellegrino N., Vincenzo Fato pittore dimenticato in e “Susasuso”, rubato n. 5, 1993, pp. 7-10; Id., Le chiese di Castellana AAVV, in Castellana Grotte . Guida storico-turisti ca, Fasano, 1997; Id., Vincenzo Fato pittore castellanese , conferenza tenuta presso l'associazione “Convegni di cultura Maria Cristina”, Castellana Grotte, 26 aprile 1998; Id., Vincenzo Fato pittore castellanese (1705-1788) in “Fogli per Castellana”, n. 14, gennaio 1999. 9 Pasculli Ferrara M.,Vincenzo Fatoin Dizionario Biografico degli , Italiani Istituto dell Enciclopedia Italiana , Roma 1995, pp. 325-328. Cfr. in proposito la bibliografia in fondo al testo. La studiosa aveva pubblicato in sintesi una biografia del pittore in Gelao C. (a cura di), Confraternite arte e devozione in Puglia tra Quattrocento , eNapoli, Settecento 1994, pp. 112, 277. 10 Lanzilotta G., Vita e opere del pittore Vincenzo Fato (1705-1788) in “Fogli di Periferia”, a. XI, n. 1-2, 1999, pp. 27-34; Id., Vincenzo Fato pittore (1705-1788) , Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, tesi di laurea in Istituzioni di Storia dell’arte, a. a. 1999-2000; Id., Vincenzo Fato pittore: nuove scoperte. Contributi per la biografia e l’opera di un pittore del Settecento: Vincenzo Fato da Castellana in (1705-1788) “Susasuso”, n. 12, 2000, pp. 9-10; Id., Di una tela settecentesca e del suo autore in Moif , n. 26 (a. VII, n. 4), 2001, pp. 19-21; Id., Vincenzo Fato e la pittura del Settecento in Puglia in Moif , n. 33 (a. IX, n. 3), 2003, p. 29; Id., La ricostruzione del Polittico di San Leone: aggiunte ad Aurelio, inPersio AAVV, Interventi sulla questione- meridio


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nale, Centro Studi sulla civiltà artistica nell’Italia meridionale «Giovanni Previtali», a cura di Francesco Abbate, Roma, 2005, pp. 95-98 + ill. 11 Lanera M., op. cit ., 1968, p. 2. 12 Pasculli Ferrara M., op. cit., 1994, p. 112; Ead., op. cit., 1995, p. 326. Vedi anche ead., Contributi a Paolo de Matteis e Giovan Battista in “Napoli nobilissima”, Lama a. XXII, 1982, p. 52, ove la studiosa annota come il Lama e il Fato avessero lavorato negli stessi anni a Napoli, in Monteoliveto, lasciando intendere l’eventualità d’un legame del Fato all’ambiente del De Matteis, dal quale proveniva il Lama. 13 Pellegrino N., op. cit. , 1993. 14 Cisternino G., com. or. , 1997; la Cisternino negli anni 1992-94 ha restaurato assieme al Bellantuono alcune tele del Fato, tra cui quelle trafugate e poi recuperate nel giugno 1992. 15 Finora non è emerso alcun documento a suffragare questa ipotesi; rimane pertanto ignoto da chi il Fato sia stato a bottega. 16 Pellegrino N., op. cit. , 1993, p. 8.

17 Tartarelli C., in La Stella di Monopoli , a. 11, n. 12, dicembre 1960. 18 Nell’analisi delle opere di Vincenzo Fato si evince come il pittore non si mostri insensibile a qualche richiamo degli “opposti maestri”: pur manifestando un’aperta predilezione per il linguaggio del De Matteis, o del Lama o di quel giro, di tanto in tanto cede a qualche accento, cromatico e compositivo, solimenesco e demuriano. Rimando al capitolo del Catalogo ragionato . 19 Lanzilotta G., Fra’ Luca Principino scultore (1684-1750), Bari, 1997, pp. 29-30. 20 Riporto uno stralcio del documento con le notizie più interessanti: “Si è convenuto fra esse parti che detto venerabile convento dovrà fare tutta la spesa per formarsi detta cappella dal suddetto fra’ Luca, e che all’incontro detta venerabile confraterna dovrà contribuire docati cento […] con patto che il suddetto venerabile convento habbia ancora da far colorire la statua della venerabile Concezione che si farà in detta cappella, dal detto fra’ Luca, ed in caso mancasse detto scoltore e, successivamente, Vincenzo Fato, che la spesa di colorirsi si debbia fare metà per ciascheduna d’esse parti, restando tutta la cappella indorata, di legno, colla statua, in beneficio di detta confraterna” Archivio di Stato di Bari (di qui in avanti siglato ASB), Schede notarili, Castellana, Notaio Cola Monsullo, 1734, n. 8504, cc. 44 e seguenti. 21 Lanera M., op. cit. , 1988, p. 10, nota 3, e p. 11, nota 8. Apprendiamo questa notizia da più fonti: Archivio Comunale di Castellana Grotte, Registri di stato civile, morti, a. 1813, a 4 aprile, data di morte della vedova del pittore, Antonia Picardi, spentasi appunto nella casa di via Gelso che fu di suo marito; ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Cola Monsullo, 1757, c. 19, ove si legge che il pittore don Vincenzo Fato abitava “nel vicinato della Piazza Pubblica”, e cioè l’attuale piazza Nicola e Costa. 22 Il disegno è andato perduto; l’incisione, di cui si conoscono due impressioni in collezioni private a Castellana, fu pubblicata la prima volta in Lanera M., op. cit., 1968, p. 8; riprodotta e distribuita in allegato a Susasuso , n. 11, 1999. Cfr. Lanzilotta G., op. cit., 2005, p. 95 e sgg. 23 Pasculli Ferrara M., op. cit, 1995, p. 326. In precedenza il dipinto era depositato presso la biblioteca civica “Giacomo Tauro”; per questo è altrimenti nota come Madonna della bibliote ca.

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24 Bellifemine G., La chiesa di S. Francesco in ,Monopoli Alberobello, 1981, pp. 48-50. 25 Ibid., p. 48. 26 Sciacovelli - Viceconte, Quando l’arte racconta , Fasano, 1998. 27 La scoperta del domicilio napoletano è data da un documento conservato nell’Archivio del Tesoro di S. Gennaro (di qui in avanti siglato ATSG), riportato nella nota seguente, dal quale emerge anche la presenza d’un ignoto aiutante (detto “servo”, “lacchè”). Pur non essendo esplicitato il nome del pittore è evidente che si tratti del nostro, autore dei dipinti conservati in sacrestia e firmati 1742. Infatti altri documenti dell’Archivio parrocchiale dell’Avvocata testimoniano la presenza del Fato nel rione (riportati in note successive). La via dell’Avvocata si affaccia sulla via Toledo, all’altezza di piazza Dante (il Mercatello ).

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28 Nel passato si ipotizzò la commissione da parte di un deputato del Tesoro, nobile di Puglia. Cfr. Catello E. - Catello C., La Cappella del Tesoro di S. ,Gennaro Napoli, 1977, p. 48. Qualcosa si può provare a dedurre, basandoci sulle carte emerse e alla luce della scoperta dei bozzetti dei Miracoli - di cui si parla in seguito - su come si svolsero i fatti: il Fato donò due degli ovali alla Deputazione, questi piacquero, ed egli ottenne di venderne gli altri sei per i locali della sacrestia e dell’antisacrestia. I documenti si riferiscono alle mance - in carlini e in sedie - della Deputazione nei confronti del servo del pittore. Napoli, ATSG, doc. H/80, Spese mensili fatte per la , aprile chiesa 1742: “Per due sedie al pittore che ha regalato li quatri e regalo al suo servo carlini sette”; ibid., settembre 1742: “Al pittore che ha fatto li due altri quatri per dentro la sag.[resti]a essendo […] per due sedie regalo al suo lacchè e portatura in due volte [da] uno facchino dalla Avocata al Tesoro carlini sette e grana otto”; in ATSG, doc. CF/20, n. 1297, Spese diverse per la sacrestia , 1743, è conservata la nota di spese di Vito Caiazza per l’indoratura delle cornici dell’antisacrestia datata 10 maggio 1743; dodici giorni dopo segue il pagamento: ATSG, doc. GG/13, aa. 1741-1751, Giornale del Tesoro del Glorioso S. Gennaro , 22 maggio 1743: “Spese di suppellettili D[ucati] cento e sedici pagati da detto Banco [Banco dei Poveri, n.d.a. ] a Vito Caiazza, detti cioè d. cento di essi per l’indoratura de esso fatta d’oro fino a quattro Cornici intagliate, […] e fogliami, quali vi sono posti a 4 quatri situati nell’ante Sagristia della […] Cappella del Tesoro […]”; ancora oggi tutt i quadri fateschi del Tesoro conservano l’originaria cornice dorata. Si deve aggiungere che in due inventari delle sacrestie dei primi del Novecento le tele dei Miracoli di Cristo risultano datate 1744, registrate ai nn. 832 (Guarigione del cieco di ),Gerico 833 (Guarigione idropico ), 834 (Guarigione Cananea ), 835 (Guarigione paralitico ); ma è verosimile che si tratti di un errore del redattore, e che i dipinti precedano le cornici di cui sono note le commissioni al 1743. 29 I quattro piccoli oli su tela in collezione privata raffigurano esattamente: a) Cristo e l -idro pico, b) Cristo e il cieco di , c)Gerico Cristo e lo storpio , d) Cristo e il .muto Date le ridotte dimensioni, è evidente che si tratti di lavori preparatori per opere più grandi. I dipinti a e b sono infatti i bozzetti degli analoghi soggetti dell’antisacrestia della Cappella del Tesoro. Il Fato poi dovette cambiare parere (oppure gli fu data espressa diversa commissione dalla Deputazione, magari dopo aver visto i bozzetti) e sostituì i soggetti dei dipinti c e d con gli episodi della Cananea e del Paralitico di Cafarnao . Per i dettagli rimando alle rispettive schede del catalogo. 30 L’ultima appartenente al casato, Antonia de Giorgio, vissuta nella seconda metà del XVIII secolo, sposò Vito Giampietro. L’unione portò due figli: Palma e Vitantonio. Da quest’ultimo, sposato con Lucia Tauro, nacque Antonietta Giampietro, che in seguito ereditò i beni dei genitori e della zia. Antonietta Giampietro sposò Luigi Mancini e con la loro famiglia risiedettero nello storico palazzo castellanese di via del Caroseno, oggi via Roma. 31 Si deve rammentare che per la cappella rurale di S. Michele, fondata nel 1735 dai figli di


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Giangiacomo de Giorgio, il Fato dipinse il murale d’altare con l’Immacolata e i Santi patroni della famiglia. 32 Per un quadro ampio della situazione politica, economica e culturale della capitale del Mezzogiorno, cfr. Carpanetto D. - Ricuperati G., L’Italia del Settecento , Bari, 1994. 33 Napoli, Archivio parrocchiale di S. Domenico Soriano (APSDS) già dell’Avvocata, Registri matrimoniali , vol. 1740-1746, a. 1743, 17 ottobre, p. 21v.: “A dì dicisette Ottobre mille settecento quarantatré / Fatte debite denuncie e precedente decreto della R[everenda] Corte Arcivescovale di Napoli da me D. Gio[van] Batt[ist]a Tipaldo Par[roc]o dell’Avv[oca]ta è stato solennizzato il Matrim[oni]o q[ua]le hanno contratto Vincenzo Fato, et Antonia Andreana Picardi di mia Par[rocchi]a […] in presenza del R[everendo] D. Dom[eni]co M[ari]a Natale, di R. D. Eligio Zapparelli et altri”. È da rilevare che il pittore prese moglie in età avanzata, a 38 anni; comunque non risulta che a Castellana si fosse sposato in precedenza e fosse poi rimasto vedovo. 34 La quale è oggi nota come “Chiesa di Campanile”. L’opera in questione è firmata e datata. Cfr. Lanzilotta G., op. cit., 2001, pp. 19-21 e Id., op. cit., 2003, p. 29. In un documento anonimo dell’archivio Gambacorta, conservato presso la fondazione frassese “Madonna di Campanile”, si legge: “il quadro della Madonna del Carmine, e S. Teresa fu fatto dipingere dal Monastero. Fu benedetto dall’arciprete di Filippo, e l’epoca del permesso della benedizione offre il 15 8bre 1743, e l’epoca della sua venuta in Frasso è xbre 1743”: nota segnalatami dal sig. Vincenzo Simone di Frasso, che qui cordialmente ringrazio. 35 Firmata e datata sul retro; vedi la relativa scheda in catalogo. 36 Napoli, APSDS già Avvocata, Registro dei Battezzati , vol. 1740-46, 30 giugno 1745, p. 80r.: “A dì trenta giugno mille settecento quarantacinque / Da me Soprad[ett]o Par[roc]o è stato battezzato Gio[van] Pietro Paolo Filippo Vincenzo Dom[enico]; figlio delli Sig.ri Vincenzo Fato, e di Antonia Picardi coniugi; il comp[a]re il S.re D. Pietro Capone, la mam[mi]na Gius[eppa] Passalacqua”. 35 A Napoli risultano essere nate anche due figlie, Michela e Arcangela, le quali si faranno monache benedettine a Massafra (Jacovelli E., La chiesa e il monastero delle benedettine di Massafrain “Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli”, vol. IV, Galatina, 1970; le figlie del Fato sono registrate come provenienti da Napoli) e probabilmente anche un altro figlio maschio, Francesco. Purtroppo di codesta prole non v’è traccia nei registri battesimali dell’Avvocata, né in quelli castellanesi. Sicché c’è da pensare che siano nati a Napoli o negli anni 1725-32 da un precedente matrimonio a noi ignoto, altrimenti battezzati in altra parrocchia napoletana negli anni 1746-51, oppure anche altrove tra 1755 e 1760 o posteriormente al 1761. 37 La presenza del Fato nella cappella di S. Francesca Romana in Monteoliveto è segnalata per la prima volta in Galante G. A., Guida sacra di Napoli , Napoli, 1872, p. 126; lo studioso gli attribuisce però anche gli affreschi con storie della vita della santa nei ventagli e nella volta della cappella, i quali invece appartengono alla mano di Giuseppe Simonelli, firmati e datati 1710. Cfr. Strazzullo F., Postille alla Guida sacra della citt di Napoli in “Asprenas”, del Galante a. IX, I, 1962, p. 89, ed anche la nuova edizione critica del Galante (1985, p. 80). 38 Lanera, op. cit., 1968, p. 3. 39 Nell’atto di battesimo di Maria Saveria risulta una “Taverna d’Ardò” (Lanera, op. cit., 1968, p. 3). Ma si tratta certamente di una storpiatura del compilatore dei registri, ed era cosa che succedeva piuttosto di frequente all’epoca, data la diffusa approssimazione dei toponimi come dei nomi di persona; basti ricordare come nel passato il nostro pittore fu ricordato a Napoli come Vincenzo Frate (Galante, op. cit. 1872). La Taverna d’Orta era situata nei pressi del fiume Carapelle, lungo la valle appenninica di Bovino, uno dei consueti luoghi di transito dei viandanti tra la Terra di Bari e la capitale; per la valle di Bovino oggi passa infatti la linea ferroviaria Foggia –


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Benevento – Napoli. Vedi in proposito Lanzilotta G., op. cit., 2000, pp. 10, 11. Il toponimo dovrebbe identificarsi all'incirca all'altezza del ponte Bonassisi, qualche kilometro più a sud. 40 Pellegrino N., op. cit., 1998. 41 Lanera M., op. cit., 1968, p. 3. 42 La pala in questione è firmata e datata 1756. Nella chiesa si conserva altresì una bellissima Madonna del Carmine ed anime purganti del suo maestro Paolo De Matteis. 43 Archivio Unico Diocesano di Monopoli, Sezione Curia, Ms. cartaceo n. 311: Libro delle notizie che si trovano disperse principiato da mŁ Fr Giuseppe -Maria Bruni, set tembre 1755, fl. 398r e seguenti.; Bellifemine G., op. cit., 1981, p. 48. 44 Lanera, op. cit., 1968, p. 3. 45 Id., op. cit., 1988, p. 10: ricordato nei documenti castellanesi come “Pietro” soltanto. 46 Ibid., p.10. 47 Archivio di S. Leone Magno (ASL) di Castellana, Libro dei Morti, dal 1750 al 1839. 48 Don Paolo Fato è nominato più volte in ASL, Libro degli introiti ed esiti, dal 1755 al 1759. Dalla Santa Visita del 1738 (Lanera M., Gli atti della Santa Visita , del Castellana 1738 Grotte 1990, p. 54) apprendiamo che don Paolo era procuratore della confraternita del SS. Sacramento, la quale aveva sede in S. Leone (p. 56 nel manoscritto). Vincenzo aveva anche altri due fratelli: Giuseppe, nato il 10 ottobre 1696, di professione notaio, e Francesco, nato il 17 maggio 1699, di cui non si hanno altre notizie.

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49 Lanera M., op. cit., 1988, pp. 10 e 11, nota 7. Osserva l’autore: “A seicento ducati ammontava la dote monastica del Real Monastero di San Benedetto di Conversano: ma era il Monstrum Apuliae ; una somma ben distante comunque dai tre o quattromila ducati di monasteri napoletani, in cui trovavano asilo le figliuole dei grandi del Regno. Sui trecento o trecentocinquanta ducati era invece la dote in conventi molto più modesti, come quello delle Carmelitane in Putignano (i relativi documenti in Archivio Diocesano di Conversano, Putignano, Monasteri soppressi). A quattrocento ducati ammontava la dote delle benedettine del citato monastero di San Benedetto di Manduria, quello più nobile e più ricco. […] Possiamo quindi supporre, con qualche ragionevolezza, che nell’altro monastero dello Spirito Santo la dote monastica fosse alquanto inferiore: sui trecento / trecentocinquanta ducati, come per le Carmelitane di Putignano. Sempre una bella sommetta comunque.” 50 Domenico Carella (1723-1813), di Francavilla Fontana. Fu un copista e imitatore del Giaquinto, e per questo godette al tempo di vastissima fortuna presso la committenza ecclesiastica e privata. Sue opere si trovano a Taranto, Martina Franca, Conversano, Putignano, Monopoli e altrove in Puglia e persino in sperdute località dell’appennino lucano. 51 Samuele Tatulli (1754-1826), di Bitonto, pittore per la verità piuttosto mediocre. A Castellana si conservano di sua mano una serie di tele della Via Crucis nel Santuario della Madonna della Vetrana ed altre opere in altre chiese del circondario. 52 Notar Vitantonio Campanelli di Castellana ci informa della vendita di un fondo del Fato in contrada La Cupa, nel 1766: altro indice delle sue precarie condizioni economiche. ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Vitantonio Campanelli, 1766, c. 5t. 53 ASL, Conclusioni capitolari, 1722-1769, 25 gennaio 1767, p. 277r.


III | VINCENZO FATO PITTORE: 1705 - 1788

54 ASL, Conclusioni capitolari, 1722-1769, 25 agosto 1767, p. 286v. 55 ASL, Conclusioni capitolari, 1722-1769, 17 luglio 1768, p. 300v. 56 Come si evince dal catalogo delle opere, il pittore lasciò sue tele per tutte le confraternite del Purgatorio delle città viciniore: a Monopoli, Polignano, Conversano, Putignano e Noci. Segno questo della particolare predilezione del sodalizio per le opere del confratello castellanese. 57 Lanera M., op. cit., 1968, pp. 3, 16. 58 Il corsivo è mio. 59 S'intende una tela intera, e non costituita da più pezzi cuciti insieme; quindi di fattura e qualità migliore, in quanto priva di cuciture. 60 Qui forse v’è un pizzico d’ironia: 25 ducati offerti per bont erano veramente una cifra irrisoria per le casse del Real Monastero, che era ricchissimo. Sulla storia del monastero di S. Benedetto e della sua potenza politica ed economica cfr. Simone S., Il Mostro della Puglia , Conversano 1885; Lanera M., Appunti per la storia del monastero di San Benedetto di Conversanoin “Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli”, vol. I, Galatina, 1972, pp. 345-422; Viterbo M. (postumo), Castellana, la contea di Conversano e l abazia di San Benedetto di Conversano (3 voll.), Fasano, 1987. 61 Purtroppo non rimangono disegni né acquerelli preparatori delle opere del Fato. 62 Acquerelli. Tecnica appresa senz’altro durante il soggiorno napoletano, meno praticata a questi anni nelle province pugliesi. 63 Archivio Diocesano di Conversano (ADC), Conversano, Monasteri soppressi, San Benedetto, Corrispondenza comune, s. n.; v. sub die . La lettera fu pubblicata per la prima volta in Lanera M., op. cit., 1968, p. 16, ed Id., op. cit., 1988, pp. 11-12. 64 Un documento ci informa che in data 22 febbraio 1768 il pittore castellanese ricevette dal Monastero di S. Benedetto la somma di ducati 10 e grana 30, quale probabile pagamento parziale del lavoro commissionato. ADC, Conversano. Monasteri soppressi. S. Benedetto. Bilanci, busta 11, fascicolo 9, f. n. i. 65 D’Elia M., Notiziario. Attivit della Soprintendenza , in “Bollettino d’arte”, s. 5, LIII, 4, 1968, p. 215. Id., La pittura barocca in AAVV, La Puglia tra Barocco e Rococ , Milano, 1982, p. 262; qui per un refuso è indicato un titolo non corrispondente al paragrafo: è riportata La Cattedrale di Gallipoli anziché La chiesa di S. Benedetto di Conversano . 66 Carlo Rosa (1613-1677), grande artefice della scuola bitontina, attivo a Conversano a fianco del Finoglio, ne continuò la tradizione dopo la di lui morte (1645). In quella bottega, affianco al Rosa lavorarono, tra l’altro, Nicola Gliri e Francesco Antonio Altobello. 67 Pasculli Ferrara M., op. cit., 1995. La fonte si ricava altresì da un’iscrizione presente sullo stesso quadro, in basso a sinistra. 68 Evidentemente tra 1768 e 1770 il nucleo familiare del Fato si era ridotto, per il probabile ingresso in convento di due delle sue figlie. 69 ASL, Conclusioni capitolari, 1770-1788, 22 luglio 1770, p. 5v + allegato l’autografo fatesco n.n.; cfr. Lanzilotta G., op. cit., 1999.

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III | VINCENZO FATO PITTORE: 1705 - 1788

70 ASL, Conclusioni capitolari, 1770-1788, 15 settembre 1774. Si tratta di debiti accumulati per 160 ducati, una cifra molto alta per l’epoca. 71 ASL, Conclusioni capitolari, 1770-1788, 26 marzo 1780, pp. 63v, 64r. 72 Lanera, op. cit., 1968, p. 2. 73 ASL, Conclusioni capitolari, 1770-1788, 1 maggio 1783, p. 83r. 74 ASL, Conclusioni capitolari, 1770-1788, 13 luglio 1786, p. 108v. 75 Pellegrino N., op. cit., 1998. 76 ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Giuseppe Domenico Pace, 1785, cc. 47 e seguenti. Le parti più interessanti del testamento sono state pubblicate in Lanera, op. cit., 1998, p. 11. 77 Galantuomoqui ha il senso di gentiluomo , con esclusivo riferimento al grado sociale; cfr. Lanera M., L Albergo dei Poveri in “La Forbice”, n. 15, 1980, p. 6. 78 ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Giuseppe Domenico Pace, 1788, cc. 36 e seguenti. Anche la parte saliente del codicillo è stata pubblicata in Lanera, op. cit., 1988, p. 11. 79 Questa volta con un’espressione più brusca rispetto alla dichiarazione di tre anni prima. 80 Senesi Albanese O., op. cit., 1981, p. 14.

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81 Bellifemine G., La Basilica Madonna della Madia in , Monopoli Fasano, 1979, pp. 173, 175, 209n. Si legge infatti da p. 173: "La tela era destinata ad ornare una delle pareti laterali del Cappellone della Madia, e simmetricamente sull'altra parete doveva essere posta un'altra tela dello stesso pittore […]. La morte improvvisa troncò il suo lavoro nel 1788 e l'anno seguente il Capitolo mandò a Castellana il pittore Antonio Maria Drago a ritirare le due tele "delli due qua dri, una dei quali era pittata e l’altra "…". imprinita Il Capitolo monopolitano commissionò successivamente a Pietro Bardellino opere dello stesso argomento, da collocare nel Cappellone in preferenza alla tela del Fato. 82 Il Libro del Procuratore generale di S. Leone ci informa che per le esequie del pittore furono spesi ducati dieci, grana ventotto, cavalli nove; cfr. Lanera M., op. cit., 1988, p.10, nota 4. 83 Lanera, op. cit., 1968, p. 3. Questo lavoro sulla vita e le opere del Fato, frutto di nove anni di ricerca, è dedicato alla memoria di mio nonno Francesco Lanzilotta (1883-1917), socialista, caduto come tanti altri a Caporetto. Sono in debito di riconoscenza nei confronti di chi mi è stato vicino e mi ha sostenuto – anche nei momenti difficili – nel portare a termine questo modestissimo tributo al pittore castellanese: per tutto ciò sono grato a mia moglie Laura.


GIACOMO LANZILOTTA

CATALOGO RAGIONATO DELLE OPERE DI VINCENZO FATO AUTORI DELLE SCHEDE Giacomo Lanzilotta [G.L.] Mariella Intini [M.I.] Antonella Di Turi [A.D.T.]

Il criterio di elencazione delle opere in catalogo è di ordine cronologico.


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Opere certe, documentate o generalmente riconosciute dalla critica

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Era la pala d'altare dell'antica cappella di S. Anna, la quale nel 1937 fu trasformata in sacrestia. Dell’opera, firmata e datata, si conosce una piccola foto in b/n del 3 ottobre 1960 conservata negli archivi della SBAAAS di Bari, da cui si evince essere in cattivo stato di conservazione. Il 13 settembre 1949 l'ispettore onorario di Monopoli Angelo Nicola Pipoli fa richiesta alla Soprintendenza che la tela sia depositata in cattedrale; il soprintendente Schettini con lettera del 14 novembre 1949 gli comunica l'assenso (Cfr. Archivio della Soprintendenza ai Beni Artistici, Architettonici, Ambientali e Storici della Puglia, cartella A, Ba XXX Monopoli, n. 71, chiesa di S. Maria Amalfitana). Sembra però che la tela sia rimasta al suo posto; ne parla con entusiasmo mons. Tartarelli ne La stella di Monopoli, a. 11, n. 12, agosto 1960: tuttavia deplora le condizioni della tela e ne auspica un restauro. Si suppone quindi il probabile restauro della tela a partire dall'autunno del medesimo anno (come lascia presagire la data della foto SBAAAS in data 3-10-1960, eseguita in un laboratorio di restauro e non nella chiesa). I casi quindi sono due: o la Soprintendenza ha smarrito l'opera tra 1960 ed oggi, affidandola a qualche restauratore non più rintracciabile; oppure in questo lasso di tempo ha restituito l’opera alla diocesi di Monopoli, la quale non l’avrebbe più ricollocata nella sua ubicazione originaria. Fatto sta che la pala risulta oggi irreperibile. A seguito di una mia indagine (agosto 1999) presso la Curia Vescovile di Monopoli, nessun membro della Curia sembrava conoscerne l’esistenza. La fotografia del 1960, essendo in bianco e nero, e documentante il precario stato di conservazione dell’opera, non permette un’analisi approfondita di quello che è lo stile giovanile del pittore: uno stile che muta in maniera consistente già dopo pochi anni, verso il 1738, con il S. Francesco Borgia del Purgatorio castellanese. Composizione più incerta e una certa durezza nel disegno caratterizzano la presente pala, forse l’unica che può dirsi vicina ai modi del leccese Serafino Elmo: si confronti la S. Anna Amalfitana con la Maria della tela dell’Elmo al Gesù di Lecce, dalla medesima postura e fisionomia, simmetricamente speculari. Eppure si tratta dell’unica testimonianza che appoggia la tesi di un alunnato del Fato presso la bottega del pittore leccese (Pasculli Ferrara 1995). Insieme ai protagonisti, la scena si presenta gremita di personaggi secondari che conferiscono alla visione una coralità di gesti, espressioni, azioni: emerge una volontà dinamica nella composizione insolita nella produzione pittorica dell’autore, che generalmente tende a prediligere pochi elementi - umani e materiali - sulla scena, dalle posture e dagli atti ed espressioni del volto attentamente studiati e rifiniti. Al di sopra degli astanti si apre uno squarcio di cielo luminoso con la presenza degli angeli e dello Spirito Santo. È firmata in basso: PIT.E VFATO INV.Ò 1732. [G.L.] Bibl.: Tartarelli 1960; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Pellegrino 1998; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

1. NATIVITÀ DI MARIA (1732) Monopoli, già in S. Maria Amalfitana Olio su tela, cm 237x185 - irreperibile


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L’opera è da datarsi, per le incertezze cromatiche e per l’arcaicità del disegno, nell’ambito della produzione giovanile, e vicina (se non antecedente) alla Natività di Monopoli. Nel complesso, essa presenta le caratteristiche formali proprie della pittura napoletana del Settecento, indice di un presunto fresco ritorno dalla Capitale del pittore, subito alle prese con l’importante commissione dei domenicani di Putignano. La Sacra Famiglia è ritratta durante una passeggiata, originale composizione iconografica diffusasi in Terra di Bari nella prima metà del secolo. Al centro, il Bambino Gesù è collocato in posizione zenitale rispetto all’Eterno Padre e allo Spirito Santo, così da rappresentare nel contempo il mistero trinitario, legato da un unico fascio di luce, interrotto solo da un gruppo di cherubini che servono da riempimento. Non si escludono interventi di aiuti o di ritocchi apocrifi posteriori: in particolare per quanto riguarda la figura dell’Eterno, di fattura per verità men che mediocre. Basti confrontare l’elaborazione dei panneggi delle figure inferiori, di gran lunga di maggiore qualità, rispetto a quelli dell’Eterno. I modelli a cui si rifà il Fato vanno individuati nella pittura di Paolo De Matteis, come giustamente rileva la Senesi Albanese nei due scritti dedicati a quest’opera (1980, 1983); la studiosa afferma altresì che «le figure di impostazione statuaria della Madonna, di San Giuseppe e di Gesù Bambino […] per vigore d’impianto» fanno pensare anche al nome di Massimo Stanzione. [G.L.] Bibl.: Marascelli 1933; Senesi Albanese 1980, 1983; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999, 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

2. PASSEGGIATA SACRA (1729-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 263x175 - cattivo s. d. c.


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3. S. ANNA CON MARIA BAMBINA (1729-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 125x97 - pessimo s. d. c.

La tela, pur rovinatissima e scarsamente leggibile, va senz’altro ascritta tra i primi lavori noti del Fato, vicina agli anni della Natività di Monopoli. Fa parte di una serie di ovali di uguali dimensioni dipinti per i domenicani di Putignano. L’ovale mostra l’anziana genitrice seduta nell’atto di accogliere l’abbraccio affettuoso di Maria bambina, appena mostrata di spalle, dalla cui figura risalta la complessa treccia di capelli composta sul suo capo in forma di corona: colto riferimento al titolo mariano di Regina (Coeli, Apostolorum, Confessorum, etc.). [G.L.]

Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.


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Ascrivibile alla produzione giovanile del Fato. Fa parte di una serie di ovali di uguali dimensioni dipinti per i domenicani di Putignano. Il Cristo, corredato dei tradizionali attributi della Passione (la corona di spine, la canna, le corde, il mantello purpureo), è seduto, isolato, entro un inquietante e cupo ambiente, di cui non si scorgono tracce di identificazione. L’elaborazione cromatica a tinte forti - il rosso intenso su fondo scuro richiama le testimonianze pittoriche dei seicenteschi napoletani seguaci della maniera caravaggesca, benché qui edulcorata con soluzioni più morbide, tipiche del tempo: come ad esempio il nimbo luminoso intorno al capo, l’uso di una luce non violenta che attenua i contrasti nelle carni e nel panneggio. [G.L.] Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

4. CRISTO CORONATO DI SPINE (1730-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 125x97 - discreto s. d. c.


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5. CRISTO FLAGELLATO (1730-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 125x97 - discreto s. d. c.

Anche quest’opera fa parte di una serie di ovali di uguali dimensioni dipinti per i domenicani di Putignano. Costituisce il pendant per il Cristo coronato di spine della scheda precedente. Qui l’effetto luministico è reso ancora più intenso dal brillare della pelle chiara sulla scena fosca, da cui emergono soprattutto le ferite sanguinolente. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.


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Rientra nella produzione giovanile del Fato. Fa parte di una serie di ovali di uguali dimensioni dipinti per i domenicani di Putignano. Identificata in un primo tempo come S. Rita dal Di Mizio (1980), in seguito come S. Caterina de’ Ricci dal medesimo (2003); si tratta effettivamente della Santa mistica domenicana (1523-90), riconoscibile grazie ai tradizionali attributi (abito, corona di spine, stimmate, crocifisso che le si anima davanti). La scena presenta la Santa in preghiera che vede animarsi il crocifisso che ha di fronte. Delicato e attentamente studiato l’equilibrio cromatico, ricco di contrasti (i panni del tavolo rosso e blu, l’abito della domenicana bianco e nero) a sottolineare la straordinarietà dell’evento mistico. Sul fondo, in richiamo della teatralità tipica barocca, si alza un drappo e si mostrano vaporose nubi dorate. Di notevole effetto emotivo l’incrocio di sguardi tra la Santa e il Gesù crocifisso, come anche l’equilibrato dinamismo delle braccia e delle mani di entrambi, aperte e protese reciprocamente. [G.L.] Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

6. S. CATERINA DE’ RICCI IN ESTASI (1730-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 125x97 - discreto s. d. c.


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7. BEATO BENEDETTO XI BENEDICENTE (1730-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 125x97 - discreto s. d. c.

Ascrivibile alla produzione giovanile del Fato. Il Di Mizio (2003) ha svelato l’identità del pontefice raffigurato: il beato Nicolò Boccasini, domenicano divenuto papa col nome di Benedetto XI (1303-1304). Fa parte di una serie di ovali di uguali dimensioni dipinti per i domenicani di Putignano. Il ritratto in questione è presumibilmente desunto da una incisione. Sapiente è nelle opere di questo periodo l’applicazione sulla tela di una tavolozza vivace e ricca di colori contrastanti. Questi vengono accuratamente accostati nella composizione, rendendo degli effetti luministici alquanto gradevoli: si notino in particolare i riflessi della luce sulla mozzetta e sulla veste del pontefice. Anche qui, come nella S. Caterina de’ Ricci troviamo un drappo verde alle spalle del personaggio raffigurato, a chiudere ogni spazio ad un fondo meno interessante. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.


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Dipinto degli anni giovanili, l’immagine dell’altro pontefice domenicano salito agli onori degli altari, Antonio Gislieri divenuto papa col nome di Pio V (1556-72). Fa parte di una serie di ovali di uguali dimensioni dipinti per i domenicani di Putignano. L’opera costituisce, per le strettissime analogie iconografiche, la versione con protagonista maschile dell’episodio estatico della S. Caterina de’ Ricci. Qui il pontefice si accorge dell’improvviso animarsi del Gesù crocifisso, che comincia a perdere sangue dalle ferite e mostra col suo aspetto tutta la sofferenza del supplizio. La mistica atmosfera creatasi è sottolineata dal grande drappo rosso che fa da sfondo al Crocifisso, mentre S. Pio ha il volto luminoso ed è circondato da un nimbo di luce e da un agglomerato di vaporose nubi. La medesima figura la ritroviamo ben distinta nella pala che il pittore eseguì per i domenicani di Monopoli, la Gloria di S. Domenico e dell’Ordine dei Predicatori. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

8. SAN PIO CROCIFISSO

V DAVANTI AL (1730-41)

Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 125x97 - discreto s. d. c.


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9. S. PIETRO MARTIRE (1730-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 263x175 mediocre s. d. c.; lacerazioni e cadute di colore

Ascrivibile alla produzione giovanile del Fato. Il Santo è raffigurato in postura idealizzata, in piedi, mostrante i segni del suo martirio, la palma e il libro in mano. Pietro da Verona (1203-1252), domenicano, operò nel milanese come inquisitore, combattendo la setta eretica dei patarini. Da alcuni di questi fu trucidato in un bosco a Farga, in Brianza, assieme a suoi confratelli. Le cronache agiografiche riportano come S. Pietro, morente, avesse trascritto le parole del "credo" per terra, con le dita intinte di sangue (Si tratta delle parole iniziali del simbolo niceno, secondo la formula estesa redatta nel Concilio del 325 a Nicea; in formula abbreviata costituisce un momento della liturgia eucaristica, noto come il "credo"). Il pittore non sceglie di rappresentare la scena del martirio, che costituiva per tale soggetto la soluzione iconografica più usata nella pittura devozionale. Incontrando diligentemente il nuovo gusto dell’epoca (cfr. D’Elia 1982), il Fato colloca il martire in un ambiente paesaggistico rasserenato, dai richiami arcadico-pastorali. Il libro aperto, bene in vista, riporta chiaro il sunto del messaggio religioso affermato dal Santo in punto di morte: "CREDO IN / DEUM PA / TREM OMNI / POTENTEM / CREATOREM / COELI ET TERRAE / ET IN JESUM / CHRISTUM FI / LIUM EIUS / UNICUM D(OMI)NU(M) / NOSTRU & C." ("Credo in Dio padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo suo figlio, nostro unico Dio etc."). [G.L.] Bibl.: Di Mizio 1980; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

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L’opera è vicina per stile e cronologia al S. Pietro Martire e al S. Tommaso d’Aquino conservati nella stessa chiesa. I domenicani putignanesi elaborarono un preciso programma iconografico che sottoposero alla mano del nostro artista, costituito di sei tele di grandi dimensioni destinate a fare da pale d’altare e sei ovali di corredo di minori dimensioni, più una settima pala iconograficamente isolata (la Passeggiata Sacra). Le sei pale si dividono in due gruppi: la trilogia dei grandi alfieri dell’Ordine dei Predicatori (i detti S. S. Vincenzo Ferreri, Pietro Martire, Tommaso d’Aquino) e la trilogia degli Arcangeli (i S. S. Michele, Raffaele, Gabriele). Gli ovali si dividono per coppie: due Sante (Anna e Caterina de’ Ricci), due pontefici, due momenti della Passione di Cristo. S. Vincenzo Ferreri (1350-1419) è ricordato per la sua straordinaria attività di predicatore itinerante, e nell’iconografia tradizionale è raffigurato con le ali. In questa tela il pittore lo mostra attorniato dai devoti infermi in atto di guarirli. Una lettura più sottile del ciclo domenicano può suggerire una rappresentazione allegorica della trilogia dei Santi, come simboli delle Virtù teologali. In questo caso si assocerebbe al S. Vincenzo la Carità (essendo ritratto come guaritore degli infermi), al S. Pietro la Speranza (in stretta analogia con la formula del “Credo”), all’aquinate la Fede (in quanto Dottore della Chiesa, difensore dell’ortodossia cattolica contro le eresie, ed autore della Summa Teologica). Di rilievo è da notare il pavimento “a chianche”, elemento tipico dell’architettura pugliese, presente qui come in numerose opere successive tanto da potersi considerare un vero e proprio stilema del pittore. [G.L.] 50

Bibl.: Di Mizio 1980; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

10. S. VINCENZO FERRERI RISANA GLI INFERMI (1730-41) Putignano, S. Domenico

Olio su tela, cm 270x180 - mediocre s. d. c.


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Più complessa la composizione di questa pala d’altare. L’aquinate è ritratto mentre attende ad una delle sue opere, verosimilmente la Summa Teologica, il più importante trattato medioevale della dottrina cattolica, uno dei massimi fondamenti della teologia della Chiesa anche nelle età moderna e contemporanea. Accanto gli fanno compagnia tre figure allegoriche, rappresentanti le Virtù teologali: una donna che prega (la Speranza), una madre col figlio (la Carità), un’altra donna (la Fede), con vicino a sé una croce, che aiuta il Santo a reggere il libro (la corretta dottrina), e con i piedi sottomette gli eretici, dai cui libri fuoriescono dei serpenti (la falsa dottrina). Quest’ultimo elemento ha un preciso riferimento contemporaneo, sicuramente noto all’artista: il telamone del pulpito della chiesa di S. Francesco d’Assisi a Castellana, opera del suo amico scultore fra’ Luca Principino (1727). Si osservi quindi la precisa volontà dei domenicani del convento putignanese ad un programma iconografico pregno di colte indicazioni sulla corretta dottrina, ma adattabile comunque a prestarsi ad interpretazioni più e meno sottili. Alle spalle del gruppo dei personaggi, una balaustra segna il confine tra l’ambiente in primo piano ed il paesaggio sullo sfondo, reso visibile dall’apertura di un grande drappo scuro. In basso, due eretici dalle fattezze demoniache si accapigliano tra loro, mostrando in tal modo la discordia delle reciproche opinioni, conseguenza naturale di chi osserva le false dottrine. [G.L.]

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Bibl.: Di Mizio 1980; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000; Di Mizio – Sabato 2003.

11. S. TOMMASO D’AQUINO (1730-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 270x180 - mediocre s. d. c.


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Da una certa maturità nell’esecuzione narrativa ed una più armoniosa resa cromatica, l’opera sembra essere posteriore alle pale dei S. S. Pietro Martire, Vincenzo, Tommaso d’Aquino conservate nella stessa chiesa. L’episodio raffigurato è tratto dal libro deuterocanonico di Tobia (VI, 2-5: Fa parte di uno dei libri veterotestamentari non accolti subito, ma solo in epoca patristica, dalla chiesa cattolica tra le Sacre Scritture, e non rientra nella Bibbia ebraica né in quella protestante): l’Arcangelo Raffaele che incoraggia il giovane Tobia (o Tobiolo) a catturare il pesce balzato fuori dal fiume Tigri, dove il ragazzo si era accostato per lavarsi. Il fegato, il cuore e il fiele del pesce dovevano essere conservati parte per scacciare il demonio Asmodeo e permettere a Tobia di sposare Sara, parte per guarire dalla cecità l’anziano padre del fanciullo, Tobi. Si tratta di un soggetto che ha riscosso sempre grandissima fortuna nella devozione popolare, e di conseguenza nella rappresentazione nella pittura: la sventura della cecità paterna è la causa del viaggio iniziatico che intraprende Tobia verso una terra sconosciuta, in compagnia di un misterioso personaggio (l’Arcangelo Raffaele), che gli si presenta come Azaria, un lontano parente. Il ragazzo deve recarsi presso la famiglia d’un suo zio, Raguele, per sposare la cugina Sara, rimasta vedova già sette volte, perché un demonio che s’era invaghito di lei faceva morire tutti i suoi mariti alla prima notte di nozze. La vicenda si conclude felicemente: seguendo le indicazioni dell’arcangelo, Tobia scaccia il demonio, sposa Sara; acquisisce la ricchezza paterna che un altro parente, Gabael, conservava; ritorna a casa e libera il padre dalla cecità. Proprio per il suo significato allegorico morale e per la forte presa sull’immaginazione popolare il tema iconografico, insieme a quello parallelo e per tanti versi sovrapponibile dell’Angelo Custode si ritrova molto spesso trattato nella pittura ‘riformata’ post-tridentina, soprattutto in ambito meridionale. “La fortuna dipese dalla ricchezza dei contenuti edificanti e pedagogici: l’esaltazione della condotta di vita improntata alla fede religiosa, l’insistenza sui codici morali di comportamento e sui valori della pietà e della carità, la completa fiducia nella provvidenza divina, sempre vicinissima alla quotidiana esistenza dell’uomo, la devozione filiale” (Barbone Pugliese N., in Paolo Finoglio e il suo tempo, Napoli, 2000, p. 173). [G.L.]

Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999, 1999-2000; Sisto 2000; Di Mizio – Sabato 2003.

12. TOBIOLO E L’ANGELO (1734-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 190x115 - discreto s. d. c.


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L’opera fa parte della trilogia di tele dedicate agli Arcangeli, assieme alla pala di Tobiolo e all’Annunciazione, conservate nella stessa chiesa. È tra i lavori più riusciti, sia per l’elegante disegno sia per la suggestiva resa cromatica e luministica. La luce varia decrescendo dall’alto (la Grazia divina) verso il basso (le tenebre, il male), secondo un colto riferimento alla contrapposizione agostiniana di Luce e Tenebre, elaborata sulla scorta delle parole di Giovanni in Gv, I, 4-5, 9-10. L’Arcangelo Michele si fa quindi testimone e ambasciatore della Grazia che sconfigge e sottomette il Male. Interessanti precedenti iconografici di raffronto noti al Fato si trovano dai Paolotti in Castellana, ove è una tela del Miglionico, e presso il Purgatorio di Polignano, in una pala sul presbiterio data anch’essa al pittore campano. [G.L.] Bibl.: Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999, 1999-2000; Sisto 2000; Di Mizio – Sabato 2003.

13. S. MICHELE SCONFIGGE IL DEMONIO (1734-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 190x115 - discreto s. d. c.


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14. ANNUNCIAZIONE GABRIELI (1734-41) Castellana, collezione privata

Olio su tela, cm 70,5x51,2 - discreto s. d. c.

Denominata così dal nome della penultima proprietaria, Teresa Gabrieli di Noci; la tela è firmata su un lato ombrato d’uno sgabello in basso “VINC. FATO”. Date le piccole dimensioni dell’opera e la conformità stilistica del tema con l’analoga tela putignanese, si tratta certamente del bozzetto preparatorio per l’Annunciazione di S. Domenico a Putignano. In confronto alla pala putignanese però il pittore modifica alcuni elementi compostitivi e cromatici: l’Arcangelo rimane sostanzialmente identico nella postura, ma cambia il colore del mantello; nella stesura definitiva è eliminato lo sgabello e tolto il drappo di velluto verde, mostrando in compenso un tavolino di pregiata fattura. Nel bozzetto soprattutto la parte superiore assume una certa preponderanza luministica, che risulta alleggerita col passaggio dal fondo oro al fondo opaco della versione finale. La posizione dell’Annunziata ruota in direzione del messaggero divino, mostrandosi qui di tre quarti, e nella tela maggiore nettamente di profilo. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000, 2000.


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E’ l’unica opera firmata (ma non datata) tra le tele di questa chiesa: da porsi in stretta relazione, per analogie di stile e contenuto, con le altre opere dedicate agli Arcangeli dello stesso autore presenti in questa chiesa. La Vergine, china sul genuflessorio, ha un'impostazione che si richiama all'Annunziata di una analoga tela di Paolo De Matteis del 1712, conservata al City Art Museum of St. Louis, Missouri (USA). Lo stesso modello costituirà un importante riferimento per una Annunciazione del 1781, al Purgatorio di Castellana. [G.L.]

Bibl.: Marascelli 1933; Di Mizio 1980; Lanera 1988; Pellegrino 1993; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999, 1999-2000, 2000; Sisto 2000; Di Mizio – Sabato 2003.

15. ANNUNCIAZIONE (1734-41) Putignano, S. Domenico Olio su tela, cm 200x120 - discreto s. d. c.


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16. S. MICHELE ARCANGELO (1734-69) Polignano a mare, cappella rurale della Consolatrice Dipinto murale (primo strato dipinto a intonaco umido, secondo strato di rifinitura a secco), altezza cm 170 ca. Probabile restauro XIX sec.; pessimo s. d. c., con crepe, cadute di colore, ridipinture posteriori, muffe, macchie di umido.

Fondata nel XVIII secolo per volontà della famiglia Lattarulo, la cappella era inizialmente dedicata a S. Gennaro. Tuttavia nelle fonti è sempre ricordata col nome della Madonna Consolatrice, il cui culto si venera nella vicina Castellana. L’interno della cappella presenta in un dipinto murale una riproduzione ottocentesca della Consolatrice di Aurelio Persio, da cui il titolo più popolare di essa. A parte le figure dei due Santi ai lati della Consolatrice, Michele e Vito, non escludo che il Fato abbia dipinto con la medesima tecnica anche il resto della parete, attualmente occupata da decorazioni ottocentesche. Il santo, così come il suo pendant San Vito, si ascrivono con buona certezza alla mano del Fato, data l’alta qualità di alcuni particolari, analoghi ad altri presenti nelle opere del pittore (la composizione delle figure, gli scorci, le mani, le capigliature, il viso dei due santi) e l’inconsueta tecnica esecutiva, poco praticata dai pittori locali. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.


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Il Santo martire è patrono di Polignano, e questo può spiegare la sua presenza in una cappella rurale nel territorio della città costiera. Il Santo è riconoscibile per i tradizionali attributi: l'aspetto giovanile, la croce, la palma, il cane (non ben visibile, in basso a destra). Nonostante il pessimo stato di conservazione dei dipinti, è ancora possibile una lettura critica delle figure. La finezza del disegno, il contesto temporale e geografico, le soluzioni stilistiche e compositive inducono anche la presente figura all’attribuzione al pennello del Fato. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

17. S. VITO (1734-69) Polignano a mare, cappella rurale della Consolatrice Dipinto murale (primo strato dipinto a intonaco umido, secondo strato di rifinitura a secco); altezza cm 170 ca. Probabile restauro XIX sec.; pessimo s. d. c., con crepe, cadute di colore, ridipinture posteriori, muffe, macchie di umido.


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18. MATER DOMINI (1734-69) Polignano a mare, cappella rurale della Consolatrice Dipinto murale (primo strato dipinto a intonaco umido, secondo strato di rifinitura a secco); cm 90x80 ca. Probabile restauro XIX sec.; pessimo s. d. c., ormai quasi illeggibile; cadute di colore, crepe, parti mancanti.

L’opera è dipinta entro una nicchia sulla facciata della cappella, all’esterno quindi, soggetta agli agenti atmosferici. Allo stato attuale è pressochè irrimediabilmente perduta e consunta. Tuttavia, per questo dipinto, e le analogie della elaborazione cromatica confrontata con le pitture dell’interno, e la familiarità del disegno compositivo inducono all’attribuzione fatesca, meliori iudicio semper salvo. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.


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Di incerta datazione, probabilmente della fase giovanile, destinato alla devozione privata. Proviene dalla famiglia di Teresa Gabrieli, cui appartenevano anche l’omonima Annunciazione, un Angelo Custode, una Maddalena penitente, un Gesù Bambino dormiente. Altri quadri del Fato erano di proprietà della sorella Eugenia, la cui collezione è però andata dispersa. Pochi ed essenziali gli elementi che compongono la scena: il Santo è ritratto in meditazione sul Crocifisso che regge in mano. Sul tavolino poggia uno stelo di gigli, suo tradizionale attributo iconografico. Il fondo oscuro contrasta con la veste candida ed il roseo viso del fanciullo assorto, facendo risaltare maggiormente la dimensione devozionale del dipinto. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000, 2000.

19. S. LUIGI GONZAGA (1734-41) Castellana, collezione privata Olio su tela, cm 71,5x55 cattivo s. d. c.; cadute di colore.


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20. GLORIA DI S. DOMENICO E DELL’ORDINE (1734-54) Monopoli, S. Domenico Olio su tela, cm 200x160 restauro 1995 ca.; buono s. d. c.; parti mancanti.

La datazione di quest’opera può essere compresa tra gli anni fecondi dei lavori per i padri domenicani di Putignano e Rutigliano (1732-41), e gli anni immediatamente successivi al lungo soggiorno napoletano (1742-52), carico di vivaci suggestioni cromatiche d’impronta solimenesca. L’opera è menomata in più punti per irreparabili cadute del colore; sicchè mancano l’immagine di S. Domenico davanti alla Trinità e gran parte della base del quadro, ove, molto probabilmente doveva esserci la firma del Fato. Una pletora di santi, beati e angeli affollano questa straordinaria composizione, tra cui si riconoscono i S. S. Pio V, Rosa da Lima, Tommaso, Caterina. Si tratta certamente di uno dei lavori più impegnativi del pittore, che aveva da attenersi alle strette indicazioni della committenza, la quale a quanto pare non voleva tralasciare alcun proprio patrono; per l’Ordine dei Predicatori tuttavia il Fato doveva essere un artista di fiducia, avendo avuto modo di lavorare per gli altri conventi del territorio, come Putignano e Rutigliano. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.


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Vi ricorrono puntuali gli stilemi del Fato, quali le peculiari attaccature del setto nasale alle arcate sopraccigliari, la tavolozza pastello nelle pitture murali, il demonio assoggettato all’arcangelo, la compunta postura di alcuni santi, la statuaria – quasi principinesca – figura dell’Immacolata. La cappella rurale intitolata a S. Michele Arcangelo fu fondata nel settembre 1735 dai fratelli de Giorgio, il sacerdote Michelangelo e il dottore di leggi Giuseppe, figli di Giangiacomo de Giorgio, medico. Al suo interno il dipinto murale raccoglie tutti i santi patroni della famiglia: da S. Giorgio ai Santi Giuseppe e Michele, con la presenza di S. Irene, patrona secondaria di Castellana a partire dallo stesso anno di fondazione della cappella. Nonostante le non ottimali condizioni di conservazione, la leggibilità delle immagini permette di apprezzare la qualità della mano dell’artista, secondo uno stile e una tecnica esecutiva affatto corrispondente ai dipinti per la cappella rurale della Consolatrice, in territorio polignanese, degli stessi anni. [G.L.] Bibl.: Lanera 1990.

21. IMMACOLATA CON I SANTI GIUSEPPE, ANNA, GIORGIO, DOMENICO, MICHELE ARCANGELO, ANTONIO DI PADOVA, FRANCESCO DI PAOLA E IRENE (1735) Castellana, cappella rurale di S. Michele Arcangelo Pittura a secco su muro cm 183x305 mediocre s. d. c., presenza di polvere e sporcizia superficiale.


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22. S. TOMMASO D’AQUINO (1738-41) Castellana, già in Purgatorio Olio su tela, cm 55x40 ca. trafugato il 6 giugno 1992

Il quadro, di piccole dimensioni, era collocato in origine sul pulpito ligneo, sotto il baldacchino. Il Santo è raffigurato in aspetto giovanile, mentre con una mano regge un libro (forse la Contra Gentiles o la Summa Teologica), e con l’altra ne indica un preciso punto; è evidente il legame metaforico con il luogo in cui l’opera era collocata, ovvero il pulpito. Purtroppo, oltre alla tela, allo stato dei fatti si è persa l’originaria documentazione fotografica di essa: non sembra esistere un’immagine a colori, né più si trova un originale a stampa anche in bianco e nero. La stampa esistente nell’archivio della biblioteca comunale di Castellana è scomparsa. Parimenti misteriosamente non esiste negli archivi della Soprintendenza di Bari alcuna documentazione, né schede, né fotografie, né negativi, né altro che possa provare l’esistenza di tal opera. Per finire, del furto dell’opera non fu mai fatta denuncia. La foto presente in catalogo fu pubblicata proprio in seguito al furto dalla rivista Susasuso, bollettino del CERICA - Centro Ricerche Castellanese per la tutela dei beni storici, artistici e naturali - di Castellana Grotte, nel maggio 1993; ma purtroppo né l’archivio del CERICA né l’autore della foto (Mimmo Guglielmi, 1986) ne conserva un negativo. [G.L.] Bibl.: Lanera 1988; Pellegrino 1993, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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Commissionata dalla Confraternita del Purgatorio, della quale egli diventa confratello, l’opera è datata in penombra su un margine a sinistra. Durante l’ultimo restauro, intorno agli angioletti che ostentano il Santissimo Sacramento, sono stati individuati alcuni pentimenti. Il quadro, concepito come pala d’altare e dipinto inizialmente su un telaio rettangolare, è stato successivamente centinato. L’immagine del Santo ha un evidente modello di riferimento nel corrispondente quadro del Giordano (S. Francesco Saverio e S. Francesco Borgia) conservato a Capodimonte a Napoli. Il gesuita è rapito davanti alla visione estatica del Santissimo Sacramento portato in volo da un angioletto; in mezzo, una folta schiera di angeli e cherubini, nel cielo reso dorato dalla straordinaria luce che emana il Corpo di Cristo. Il quadro fu trafugato dalla chiesa del Purgatorio, assieme ad altre tele, la notte tra il 5 e il 6 giugno 1992, e fortunosamente ritrovato dopo pochi giorni in una strada rurale nei dintorni di Castellana. Dopo il restauro è stato finalmente riposto nella collocazione originaria. [G.L.]

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Bibl.: Lanera 1988; Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

23. S. FRANCESCO BORGIA (1738) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 234x157 - restauro 1994; buono s. d. c.


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Dipinto per la chiesa di S. Maria del Suffragio, detta del Purgatorio essendo di pertinenza dell’omonima confraternita, della quale il pittore entra a fare parte. Il piccolo quadretto è inserito al centro, sul lato frontale del pulpito esagonale rispetto alla navata della chiesa; è legato per forme e contenuti ai cinque quadretti allegorici disposti tre alla sinistra e due alla destra delle altre facce del pulpito. Si tratta di un unico ciclo di dipinti aventi finalità didascaliche ed educative: attraverso la rappresentazione di scene allegoriche sono spiegati cinque modi per compiere opere di suffragio per i defunti, ma indicano altresì diversi mezzi di perfezionamento individuale sulla base degli insegnamenti evangelici. Mentre le cinque tele (presentate in seguito) sviluppano un tema ciascuna, la presente opera vuole riassumere ed arricchire il significato delle altre. In alto a sinistra, seduta sulle nuvole e attorniata dai cori angelici è posta la Madonna del Suffragio col Bambino seduto sulla sua gamba destra. Sotto di loro, gemono supplicanti le anime del Purgatorio, mentre espiano i loro peccati tra le fiamme. In posizione intermedia tra i due gruppi di figure, sulla destra, un membro della confraternita, vestito dei paramenti liturgici (camice bianco, mozzetta con orlo e fiammelle rosse, mazza), versa sulle anime purganti dell’acqua contenuta in un’anforetta. Ai suoi piedi sono dipinti diversi simboli che richiamano i contenuti dei quadretti sugli altri lati del pulpito: il messale su cui poggia il calice apparecchiato (la messa di suffragio), il libro aperto e il rosario (le preghiere), la borsa dei soldi (l’elemosina, le offerte), il pane (il digiuno e la frugalità dei pasti). In sintesi, questa tela per così dire riassuntiva vuole affermare l’esistenza del Purgatorio e che quegli stessi mezzi di perfezionamento individuale possono servire a suffragare le anime in attesa di ascendere al Cielo, fornendo una motivazione in più per comportamenti conformi agli insegnamenti della dottrina. Suggerisce il Di Mizio come “nella tela è presente anche una componente propagandistica della confraternita del Purgatorio”. Il colto linguaggio pittorico, ricco di simboli e contenuti allegorici, ha per le sue caratteristiche di complessità una destinazione non popolare, ma finalizzata ad una più ristretta cerchia dei confratelli, dei loro simpatizzanti, di laici e religiosi comunque di un ceto sociale più elevato. Del resto è notorio come la stessa appartenenza alla Confraternita del Purgatorio costituisse di per sé un segno di distinzione sociale (cfr. a riguardo Lanera 1968). Per quanto riguarda l’autografia fatesca, Abbate (com. or. 1998) avanza le sue perplessità su tutto il ciclo allegorico del pulpito, come anche di altre piccole tele presenti in chiesa. Lo scrivente, come anche la Cisternino (com. or. 1997), il Lanera, il Pellegrino, la Pasculli, propende per l’attribuzione a pieno titolo di tutte i quadri della chiesa al pittore castellanese. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1968, 1988; Di Mizio 1979; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.

24. MADONNA DEL SUFFRAGIO E ANIME PURGANTI (1738-41) Castellana, Purgatorio (sul pulpito) Olio su tela, cm 50x36 discreto s. d. c.


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Fa parte di una serie di cinque quadretti allegorici sui ‘modi’ di suffragio per i defunti collocata sui vari lati del pulpito. L’attribuzione, come affermato in precedenza, è piuttosto tormentata. Secondo Di Mizio (I/1978, 1979) vi sarebbe l’intervento di altre mani per una tela della serie (senza specificare quale), forse di allievi di bottega; Abbate (com. or. 1998) esclude per tutta la serie la paternità fatesca. Lanera (1968, 1988), Pellegrino (1993, 1997, 1998), Pasculli Ferrara (1995) e lo scrivente sono invece per l’attribuzione piena al Fato. Una donna genuflessa sulle nuvole (elemento indicante la chiave di lettura allegorica), gli occhi rivolti al Cielo, reca sulla mano destra un turibolo fumante (la preghiera che sale a Dio); sulla mano sinistra arde un cuore fiammeggiante (carità e fervore), e sulle ginocchia è poggiato un libro aperto (la dottrina) su cui è collocato un rosario (la preghiera recitata). Accanto alla donna, un gallo sta a ricordare l’esortazione evangelica: “vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt, 26, 41). [G.L.] Bibl.: Lanera 1968, 1988; Di Mizio I/1978, 1979; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

25. ALLEGORIA DI UN MODO DI SUFFRAGIO PER I DEFUNTI: LA PREGHIERA INDIVIDUALE Castellana, Purgatorio

(1738-41)

Olio su tela, cm 50x36 - discreto s. d. c.


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26. ALLEGORIA DI UN MODO DI SUFFRAGIO PER I DEFUNTI: L'ELEMOSINA (1738-41) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 50x36 discreto s. d. c.

Anche questo dipinto fa parte delle serie di cinque quadretti allegorici sui ‘modi’ di suffragio per i defunti collocata sui vari lati del pulpito. Una donna velata, in abito grigio con spalline a foglie e maniche rosse, ha un mantello marrone poggiato di traverso sulle ginocchia che le nasconde le mani; sul suo capo arde un lume. Davanti a lei sono raffigurati due fanciulli che tendono le mani aperte in atto di chiedere l’elemosina. La rifinitura dell’abito suggerisce una certa agiatezza della donna; lo spirito di discernimento e di fede viene espresso dal lume; il velo sul capo, come anche le mani nascoste indicano la discrezione e la riservatezza nell’esercizio caritatevole, secondo il passo evangelico: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati […]. Quando tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta” (Mt, 6, 1-4). I fanciulli richiamano un altro insegnamento delle Scritture: “E chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli […] non perderà la sua ricompensa” (Mt, 10, 42). [G.L.] Bibl.: Lanera 1968, 1988; Di Mizio 1979; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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Altro quadretto della serie allegorica presente sul pulpito. Il dipinto mostra un uomo imbavagliato vestito di una tunica bianca e con un mantello verde a tracolla. Solleva con la mano destra un cartiglio sul quale è scritto: “PAUCO VESCOR” (digiuno), e porta un pesciolino legato al pollice con una cordicella. Dall’altro lato tiene sotto braccio un coniglio, e con il piede destro schiaccia un drago dalle fauci spalancate. L’insieme pone l’accento e sulla frugalità dei pasti (il pesciolino da un canto e il gesto di protezione del coniglio dall’altro) e sulla discrezione nell’esercizio del digiuno (simboleggiato dal bavaglio), espressamente offerto a Dio tramite il chiaro cartiglio che viene tenuto sollevato; così anche lo sguardo dell’uomo è rivolto al Cielo. La presenza del drago sottomesso richiama un’altra affermazione evangelica: "Questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno" (Mt, 17, 21). [G.L.] Bibl.: Lanera 1968, 1988; Di Mizio 1979; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

27. ALLEGORIA DI UN MODO DI SUFFRAGIO PER I DEFUNTI: IL DIGIUNO (1738-41) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 50x36 - discreto s. d. c.


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28. ALLEGORIA DI UN MODO DI SUFFRAGIO PER I DEFUNTI: LA MESSA (1738-41) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 50x36 discreto s. d. c.

Appartenente alla serie di dipinti a contenuto allegorico presente sul pulpito. Un sacerdote è inginocchiato sulla nuvola: ha davanti un altare apparecchiato con gli strumenti della celebrazione eucaristica ed indossa i paramenti del rito funebre. Ha lo sguardo rivolto al Cielo al quale è collegato mediante un intenso fascio di luce (la Grazia divina); con la mano destra agita un turibolo, simbolo qui della preghiera comunitaria nella celebrazione della messa. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1968, 1988; Di Mizio 1979; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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Si tratta probabilmente dell’opera più complessa tra quelle presenti nel pulpito. Osserva con particolare acume interpretativo il Di Mizio: «L’insegnamento cristiano ha rivolto sempre particolare attenzione alla valorizzazione della sofferenza tanto fisica quanto morale: la Redenzione stessa del genere umano è avvenuta attraverso la sofferenza culminata nel supplizio della croce. Condizione essenziale perché il dolore sia meritorio è lo stato di Grazia, l’accettazione in spirito di fede». È il tema svolto nella presente tela, che sul pulpito è la prima a partire dalla sinistra verso destra. Presenta una figura femminile assisa su nuvole con le spalle e il capo coperto da un mantello chiaro su abito marrone. Una corona di spine le cinge la fronte, una lunga trina nera pende dal braccio destro, lo sguardo è fisso su una piccola croce tenuta con la mano sinistra. Davanti alla donna, su un piano più basso, è collocato un angioletto che regge un pesciolino appeso a una cordicella ed una graticola. L’angelo, messaggero divino, stabilisce un collegamento col soprannaturale, la corona di spine richiama la Passione di Cristo, la trina nera potrebbe alludere a un lutto per la perdita di un congiunto. Il pesciolino riporta il tema dell’astinenza, idea rafforzata dalla presenza della graticola (che può indicare la frugalità nei condimenti). La croce allude alla compartecipazione alle sofferenze di Cristo, secondo l’insegnamento evangelico: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc, 8, 34). In sostanza il messaggio che traspare è l’invito all’accettazione serena delle proprie sofferenze nell’imitazione di Cristo, particolarmente attraverso l’esercizio della speranza, della preghiera e della meditazione. Da un punto di vista qualitativo la presente tela costituisce forse un esempio più modesto rispetto alle altre per il rapido tratto e per la sommarietà della resa pittorica. Ma non escludo possibili maldestri interventi successivi che ne possano avere guastato la lettura. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1968, 1988; Di Mizio 1979; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

29. ALLEGORIA DI UN MODO DI SUFFRAGIO PER I DEFUNTI: L'IMITAZIONE DI CRISTO (1738-41) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 50x36 - discreto s. d. c.


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L’opera è conservata in sacrestia. Il ritratto ha le medesime sembianze del pontefice S. Pio V in estasi davanti al crocifisso dei domenicani di Putignano, come pressoché identica è la mitra sul capo. Porta con la mano sinistra il libro e il pastorale, mentre con la destra è in atto di benedire. Date le sue piccole dimensioni, il quadro doveva certamente essere destinato a devozione privata: il Santo pontefice è tradizionalmente identificato come Leone I (440-461), che era, tra l’altro, il patrono di Castellana (fino al 2003, anche se affatto dimenticato; per decreto vescovile fu spodestato dalla Madonna della Vetrana, forse ben più remunerativa per i devoti castellanesi). [G.L.]

Bibl.: Lanera 1968, 1988, 1990, 1991; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

30. S. LEONE MAGNO (1738-41) Castellana, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 40x30 ca. - buono s. d. c.


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31. ANNUNCIAZIONE (1738-54) Castellana, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 36x45 - restauro 1993 ca.; buono s. d. c.

La piccola tela era originariamente collocata sulla cantoria, sopra il presbiterio. Delle quattro annunciazioni che si conoscono del Fato, essa è l’unica con disposizione orizzontale della composizione: una soluzione magnifica per i risultati ottenuti, che fanno di quest’opera una delle più suggestive e riuscite del suo catalogo. Mai prima d’ora il pittore aveva raggiunto una resa formale e cromatica così elevata, tanto che sarei propenso a collocare questo lavoro nella piena maturità, intorno ai primi anni cinquanta: la Vergine, illuminata di Spirito Santo (si noti il candido fascio di luce che la lega alla colomba), china umilmente il capo e in braccia conserte manifesta la sua partecipe adesione al disegno divino; davanti a lei sta l’angelo, che è ritratto con un disegno delicatissimo, «reso quasi evanescente da pieghe e trasparenze ottenute da sicure pennellate di bianco di zinco» (Pellegrino). [G.L.]

Bibl.: Lanera 1988, 1990; Pellegrino 1993, 1997; Lanzilotta 1999-2000.


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In origine il quadro era collocato sul pulpito; ora è in sacrestia. È cronologicamente vicino alla Circoncisione di Rutigliano per le analogie stilistiche nella resa anatomica del Santo e del S. Giovanni Battista in particolare. Il Santo ritratto ha caratteristiche fisiognomiche molto marcate, corrispondenti a quella che fu la sua personalità e la sua storia: un carattere fiero, determinato, sicuro di essere nel giusto, coraggioso e dall’animo combattivo. «Il volto scarno, la fronte alta, luminosa e solcata da profonde rughe, l’espressione assorta degli occhi conferiscono al soggetto un atteggiamento di profonda pensosità accentuata dalla concentrazione delle alte luci soprattutto nella parte alta del volto» (Di Mizio). Incurante dell’età avanzata, con la mano destra stringe vigorosamente l’impugnatura della spada, suo tradizionale attributo iconografico: dalle sue mani si distinguono in buona evidenza le grosse vene affioranti sulla pelle. Con la mano sinistra stringe il libro, circondato dall’ampio mantello rosso che lo avvolge per più della metà del busto. [G.L.] Bibl.: Di Mizio I/1978; Lanera 1988, 1990; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.

32. SAN PAOLO APOSTOLO (1740-42) Castellana, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 84x60 - discreto s. d. c. cadute di colore


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33. IMMACOLATA (1740-42) Mola di Bari, S. Nicola, Oratorio dell’Immacolata Olio su tela, cm 80x60 - restauro 1976; buono s. d. c.

Eseguita probabilmente in occasione dell’erezione dell’Oratorio (1740), per commissione delle famiglie patrocinanti Zuccarino e Martinelli: prima, quindi, del ritorno del pittore a Napoli del 1742. La Vergine è ritratta nella postura che ricalca l’iconografia tradizionale, entro una tavolozza prodiga di tonalità fredde, come è consueto nei lavori del Fato, tra cui emerge il manto azzurro che la avvolge. [G.L.]

Bibl.: AAVV 1980; Sciacovelli – Viceconte 1998; Gelao 1994; Lanzilotta 1999-2000.


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È una copia della omonima statua di Aurelio Persio (1551) conservata in S. Leone Magno a Castellana. Dal disegno del Fato è stata ricavata un’incisione da Secondo Bianchi a Napoli nel 1791, riprodotta in catalogo. Riporto la traduzione di Marco Lanera del testo nell’incisione: “Immagine della Madre di Dio, la Vergine della Consolazione, che scolpita in pietra dal concittadino Aurelio Persio, discepolo del Buonarroti, nell’anno 1551, piamente è venerata quale Ottima Patrona, nella chiesa di S. Leone, a Castellana, nella Peucezia. Vincenzo Fato, di Castellana, copiò dall’originale nel 1741. Secondo Bianchi incise a Napoli, nel 1791”. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1968; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000, 2005.

34. MATER DOMINI (1741) Originale perduto - disegno


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35. CIRCONCISIONE CON S. S. GIOVANNI BATTISTA E LIBORIO (1741) Rutigliano, S. Domenico Olio su tela, cm 212x154 - mediocre s. d. c.; in più punti la tela è lacerata

Firmata e datata, l’opera è stata commissionata dalla nobile Agnese Pappalepore Troiani per il suo altare privato nella chiesa dei domenicani di Rutigliano. Insolita e per certi aspetti originale la soluzione compositiva di questa pala d’altare, che vede la compresenza di un quadro all’interno di un quadro maggiore. Entro un ampio e rasserenato paesaggio, sono raffigurati S. Giovanni Battista seduto su una cassa recante bene in vista lo stemma della famiglia Pappalepore (un lupo che mangia una lepre), il quale indica un quadro su tela trasportato in volo da due angeli. Accanto al Precursore è inginocchiato S. Liborio (riconoscibile per l’abito vescovile ed il libro con i sassolini accanto a lui), in atteggiamento devoto davanti alla visione della tela. In essa è rappresentata la Circoncisione di Gesù; sullo sfondo, interessante è la soluzione architettonica decorativa scelta dal Fato, con l’apertura del Tempio in un porticato a esedra, visibile dato il sollevamento di un grande drappo verde sulla sinistra. Non si trovano simili modelli compositivi contemporanei nell’area della Terra di Bari, eccetto i soliti quadri del tipo Santi che adorano l’immagine di S. Domenico / della Madonna, i quali però non offrono soluzioni così dinamiche e ardite. Un riferimento - seppure di ambito profano - vicino alle conoscenze del pittore può trovarsi nella nota tela Allegoria della Pace di Rastatt ed Utrecht (1714-18 ca.) del suo presunto maestro Paolo De Matteis, conservata attualmente alla Sarah Campbell Blaffer Foundation a Houston, in Texas (USA). [G.L.]

Bibl.: Boraccesi 1984; Lanera1988; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000.

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Collocata al centro della cantoria, tra i quattro Evangelisti, vicini ad essa anche cronologicamente. Di quest’opera fa rilevare la Pasculli Ferrara che “è evidente la precisa ripresa iconografica dal suo disegno del 1741” della Madonna di Aurelio Persio, utile terminus ante quem. Nella presente tela la Vergine si distingue tra i vari modelli di Madonne proprio per il discostarsi per questa occasione dagli stilemi compositivi a cui è avvezzo il pittore: qui la madre è senza il velo che le copre il capo, lo sguardo - in osservanza al modello scultoreo aureliano - è aperto e fermo; così anche sono riproposti in forma pittorica la diversa acconciatura di capelli, parimenti il vestito e la mantellina legata sul petto da una fibula dorata. [G.L.]

Bibl.: Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.

36. MATER DOMINI (1741-42) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 75x65 - discreto s. d. c.


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37. S. LUCA (1741-42) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 75x65 - discreto s. d. c.

È collocata sulla cantoria, assieme alla Mater Domini e agli altri Evangelisti. L’autografia del Fato, a proposito di tutte le figure degli evangelisti, è alquanto tormentata. Per la Testini (schede SBAAAS 1986) e per Abbate (com. or. 1998) si tratterebbe di opere di bottega; diversamente propendono il Pellegrino e chi scrive. Piuttosto si può affermare che si tratti di lavori di minore impegno e di finalità maggiormente decorativa, benché tutti e quattro mantengano comunque un livello qualitativo non inferiore ai parametri minimi della produzione del pittore. Il Santo è colto in atto di redigere il suo Vangelo, mentre alle sue spalle s’intravede in penombra il bue, suo tradizionale attributo iconografico. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio I/1978; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.


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Collocata sulla cantoria, assieme alla Mater Domini e agli altri Evangelisti. Il Santo è ritratto col viso in penombra, mentre è volto a cercare ispirazione o suggerimenti da un angelo, sua figura di accompagnamento, al quale è, nell’iconografia sacra, tradizionalmente associato. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio I/1978; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.

38. S. MATTEO (1741-42) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 75x75 - discreto s. d. c.


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39. S. MARCO (1741-42) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 75x75 - discreto s. d. c.

Altra tela collocata sulla cantoria, assieme alla Mater Domini e agli altri Evangelisti. Ăˆ stilisticamente e qualitativamente il quadro piĂš riuscito della serie, per la amabile resa della postura e del volto del Santo, ritratto in un atteggiamento che ricorre di frequente nei personaggi fateschi. Il Pellegrino vi vedrebbe un autoritratto del pittore. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio I/1978; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.


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Fa parte della serie dei quadri sugli Evangelisti collocati sulla cantoria della chiesa. Il Santo è raffigurato insieme al libro e all’aquila, suo tradizionale attributo iconografico. Alle spalle, il fondo mostra un cielo nuvoloso e oscuro che fa risaltare la sua figura accrescendo la luminosità del mantello rosso. Sul piano qualitativo il dipinto è il meno convincente della serie; si deve pensare a un probabile e fors’anche ampio intervento di bottega. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio I/1978; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.

40. S. GIOVANNI (1741-42) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 75x65 - discreto s. d. c.


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41. NATIVITÀ DI GESÙ (1742) Napoli, Duomo, sacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su rame, cm 43x32 - discreto s. d. c.

È firmata “OPUS VINCENTII FATO BARENSIS 1742”, a differenza degli altri ovali in rame nei quali si firma “a Castellana”. Si tratta verosimilmente della prima opera eseguita per il Tesoro di S. Gennaro. Catello ipotizza che tale importante commissione sia avvenuta da parte di un deputato del Tesoro, nobile pugliese. Fa parte di un ciclo di otto opere, quattro su rame e quattro su tela: i dipinti su rame raffigurano degli episodi dell’infanzia di Gesù; oltre al presente, vi è anche l’Epifania, la Presentazione al tempio, il Cristo fra i dottori. I dipinti su tela raffigurano episodi dell’età adulta di Cristo, inerenti a dei miracoli. L’ovale, di armoniosa composizione, servirà al pittore come modello per una pala del medesimo soggetto dipinta nel 1768 per la chiesa matrice di Noci (cfr. scheda 88). [G.L.] Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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L’ovale, firmato, fa parte di una serie di quattro opere sul tema dell’infanzia di Cristo dipinta per il Tesoro di S. Gennaro. La scena è tratta dal racconto dell’evangelista Matteo (2, 11). Con virtuosismi da miniaturista il Fato realizza una scena di gustoso sapore esotico (si notino in particolare i due cammelli e i costumi “all’orientale”), sempre comprendente l’arioso paesaggio e il coro di angioletti sulle vaporose nubi. Straordinaria testimonianza di come l’artista fosse capace in un contesto di concorrenza agguerrita sapersi distinguere e trovare una certa affermazione professionale, riuscendo a lasciare una serie di dipinti per la chiesa più importante della capitale. [G.L.]

Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

42. ADORAZIONE DEI MAGI (1742) Napoli, Duomo, sacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su rame, cm 43x32 - discreto s. d. c.


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43. PRESENTAZIONE AL TEMPIO (1742) Napoli, Duomo, sacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su rame, cm 43x32 - discreto s. d. c.

L’ovale, firmato, fa parte di una serie di quattro opere sul tema dell’infanzia di Cristo dipinta per il Tesoro di S. Gennaro. La scena è tratta dal racconto dell’evangelista Luca (2, 25-35). Si ritrova uno stilema dell’autore, il pavimento “a chianche”, assieme a dettagliati elementi di insolita eleganza, quali l’elaborato disegno del tavolo tondo presso la Vergine e l’accurata natura morta degli oggetti che vi sono poggiati; nell’insieme è senz’altro una delle sue composizioni più felici, come pure gli altri ovali della serie. [G.L.]

Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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L’ovale, firmato, fa parte di una serie di quattro opere sul tema dell’infanzia di Cristo dipinta per il Tesoro di S. Gennaro. La scena è tratta dal racconto dell’evangelista Luca (2, 41-47). Composizione dinamica e affollata di figure dei sacerdoti che si affannano a mettere in difficoltà il giovane Gesù, il quale invece si muove con disinvoltura nelle questioni che gli vengono sottoposte. Sullo sfondo si intravedono i suoi genitori che finalmente lo ritrovano. [G.L.]

Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

44. GESÙ FRA I DOTTORI (1742) Napoli, Duomo, sacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su rame, cm 43x32 - discreto s. d. c.


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45. CRISTO E LO STORPIO (1742-43) Cava de’ Tirreni, collezione privata Olio su tela, cm 16x23 - restauro 1975 ca.; discreto s. d. c.

L’episodio del risanamento dell’uomo dalla mano inaridita è tratto dai vangeli sinottici: Matteo 12, 10-13; Marco 3, 1-5; Luca 6, 6-10. Il quadretto fu in un primo momento pensato come schizzo preparatorio di un lavoro del ciclo dei Miracoli di Cristo per l’antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro nel duomo di Napoli. Successivamente il pittore preferì eseguire un altro soggetto. Date le dimensioni ridotte e la finalità dell’opera, il dipinto presenta un’esecuzione sommaria e frettolosa, non esente tuttavia da una certa attenzione per il vicendevole gioco di sguardi dei diversi personaggi. [G.L.]


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L’episodio è tratto dal vangelo di Marco (7, 32-35). Come nel caso del Cristo e lo storpio, anche questo quadretto fu in un primo momento pensato come schizzo preparatorio di un lavoro del ciclo dei Miracoli di Cristo per l’antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro, e in seguito sostituito con un altro soggetto. Di qui si giustifica una condotta pittorica non al livello delle migliori prestazioni del Fato. [G.L.]

46. CRISTO E IL MUTO (1742-43) Cava de’ Tirreni, collezione privata Olio su tela, cm 16x23 - restauro 1975 ca.; discreto s. d. c.


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47. CRISTO E L’IDROPICO (1742-43) Cava de’ Tirreni, collezione privata Olio su tela, cm 16x23 - restauro 1975 ca.; discreto s. d. c.

La piccola tela rettangolare costituisce il bozzetto per il dipinto mistilineo dell’antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro. Rispetto ad altre prove del genere, quali l’Annunciazione Gabrieli (scheda 14) e la Madonna con i S. S. Gaetano e Teresa degli Alcantarini (scheda 61), le divergenze tra bozzetto e lavoro conclusivo sono in questo caso maggiori, quasi a voler essere un semplice schizzo, rapidamente tratteggiato per sistemare i vari protagonisti della scena: speculare, rispetto all’altra versione, è la disposizione dei personaggi; qui Cristo pone la mano sull’idropico, secondo un gesto taumaturgico, che sfuma nella versione definitiva in una postura meno tattile e più solenne. [G.L.]

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Il dipinto fa parte di una serie di quattro Miracoli di Cristo, non firmati né datati. Erano tradizionalmente attribuiti dalle guide a un certo Vincenzo Frate; sono stati restituiti al Fato dal Catello dal 1977. Sono databili nello stesso periodo dei quattro ovali del Tesoro di S. Gennaro, dando per inteso - come lectio facilior - che appartengano allo stesso ciclo decorativo. L’episodio è tratto dall’evangelista Luca (14, 1 e sgg.); Gesù sta domandando ai farisei e ai dottori della legge se sia lecito o no curare di sabato. È il momento scelto dal pittore per rappresentare la scena, che precede il miracolo stesso. L’episodio secondo le Scritture si dovrebbe svolgere all’interno della casa di un fariseo; il Fato preferisce un’ambientazione all’esterno, per poter disporre con più disinvoltura il numero di persone che occupa la scena. Si evince subito come in questi primi lavori noti del periodo napoletano il linguaggio figurativo si elevi di tono, senz’altro stimolato dalla grandissima offerta di riferimenti pittorici del passato e contemporanei: affiorano così echi dell’arte dell’ambito del De Matteis come pure, filtrati o per conoscenza diretta di opere, emergono richiami a modelli dell’area romana (Gaulli, Maratta) e bolognese (Reni, Guercino, Dal Sole). [G.L.]

Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

48. CRISTO E L’IDROPICO (1742-43) Napoli, Duomo, antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su tela, cm 60x40 ca. - discreto s. d. c.


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49. CRISTO E IL CIECO DI GERICO (1742-43) Cava de’ Tirreni, collezione privata Olio su tela, cm 16x23 - restauro 1975 ca.; discreto s. d. c.

Come già nel caso di Cristo e l’idropico, anche questo piccolo olio costituisce il bozzetto per l’analogo dipinto mistilineo dell’antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro. Poche sono qui le divergenze rispetto alla versione definitiva, per giunta in una prova qualitativamente più accurata rispetto alle altre della serie. [G.L.]


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Altro dipinto appartenente al ciclo dei Miracoli di Cristo realizzato per il Tesoro di S. Gennaro. L’episodio è riportato nel Vangelo di Marco (10, 46-52). Qui, come anche nella Guarigione del paralitico di Cafarnao e in Cristo e l’idropico, il pittore una o più figure in primo piano viste di spalle, soluzione finalizzata ad un maggiore coinvolgimento emotivo da parte dell’osservatore, dandogli l’impressione di sentirsi parte della scena. [G.L.]

Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

50. CRISTO E IL CIECO DI GERICO (1742-43) Napoli, Duomo, antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su tela, cm 60x40 ca. - discreto s. d. c.


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51. CRISTO E IL PARALITICO DI CAFARNAO (1742-43) Napoli, Duomo, antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su tela, cm 60x40 ca. - discreto s. d. c.

Il dipinto è parte del ciclo dei Miracoli di Cristo realizzato per il Tesoro di S. Gennaro. Riguarda il noto episodio della guarigione del paralitico di Cafarnao, narrata nel Vangelo di Marco (2, 1-12). Ancora più affollata di personaggi rispetto alle altre tele, la scena presenta in primo piano al centro Cristo, che ordina al paralitico di alzarsi. Questi si leva dal lettuccio ancora incerto delle perentorie parole di Gesù (“ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”), davanti allo stupore degli astanti. Sullo sfondo, in penombra, si distingue una massiccia architettura che occupa quasi l’intera superficie superiore del dipinto, tanto da fare intravedere appena uno squarcio di cielo. [G.L.] Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999.


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Altro dipinto appartenente al ciclo dei Miracoli di Cristo realizzato per il Tesoro di S. Gennaro. Si riferisce all’episodio narrato nel testo di Matteo (15, 21-28). Riuscita è senz’altro la soluzione compositiva adottata in questa tela: i personaggi sono disposti in due distinti gruppi, separati al centro da uno spazio vuoto che dall’alto va sempre più restringendosi verso il basso fino a far convergere lo sguardo verso il cagnolino ai piedi del Cristo, fulcro dell’episodio (cfr. Mt, 15, 26-27): “[Gesù] rispose: ‘Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini’. ‘È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni’”). Sul fondo compare un edificio merlato in mezzo alla campagna. Elemento costante in tutte le scene del ciclo, il gruppuscolo di angioletti in gloria tra le nuvole dorate. [G.L.] Bibl.: Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

52. CRISTO E LA CANANEA (1742-43) Napoli, Duomo, antisacrestia del Tesoro di S. Gennaro Olio su tela, cm 60x40 ca. - discreto s. d. c.


IV | VINCENZO FATO - CATALOGO DELLE OPERE

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53. LA SACRA FAMIGLIA APPARE A S. TERESA IN ESTASI (1743) Frasso Telesino, S. Maria del Soccorso alias Chiesa di Campanile Olio su tela, cm 210x170 ca. restauro 1999; buono s. d. c.

L’opera è datata e firmata: “OPUS VINCENTII FATO / [A] CASTELLANA 1743”; fu realizzata per un altare laterale della chiesa parrocchiale del paese dell’Appennino beneventano. Commissionata a Napoli presso lo studio del pittore, la tela pervenne a Frasso nel dicembre dello stesso anno. La scena è tratta da un episodio narrato dalla stessa santa nella sua Vita: il mistico incontro sarebbe avvenuto il giorno dell’Assunzione del 1561. In quell’occasione la Madonna la avrebbe esortata a realizzare la fondazione di un monastero. Elaborata e suggestiva la composizione, che può essere considerata tra le più ispirate e riuscite della produzione pittorica del Fato, gradevole nella freschezza del segno e nella resa particolare degli angeli: in particolare, le maggiori simpatie vanno alla coppia di angioletti seduti in basso per terra, che si abbracciano vicendevolmente. [G.L.] Bibl.: Piscitelli – Battisti – Calandra 1997; Lanzilotta 1999-2000, 2000, 2001, 2003.


IV | VINCENZO FATO - CATALOGO DELLE OPERE

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Il dipinto è firmato sul retro: “OPUS VINCE[N]TJ FATO / 1743”. Pur accettando l’autografia del pittore, data la minore qualità dell’opera, deve trattarsi probabilmente di un lavoro con ampio intervento di bottega. S’ignorano in merito la committenza e la storia del dipinto, come pure le cause che lo hanno portato alla attuale ubicazione. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

54. ADDOLORATA (1743) Manfredonia, Pinacoteca Civica Olio su tela, cm 45x39 - restauro 2001 (foto a destra: particolare del retro del dipinto)


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55. MADONNA DEL CARMINE E ANIME PURGANTI (1744) Castellaneta, S. Giuseppe Olio su tela, cm 173x128 - mediocre s.d. c.; lacerazioni.

Commissionata dai conti Sarapo di Castellaneta per la loro chiesa privata, firmata e datata. Il soggetto iconografico è tra i più usati del pittore, di cui si conoscono altre tre versioni, nelle chiese confraternali del Purgatorio di Castellana e Conversano. Tra le anime dei purganti si distinguono un chierico (di spalle in primo piano), un uomo barbuto (di profilo a destra), una figura virile (con le braccia alzate), raffiguranti verosimilmente dei parenti defunti dell’illustre casata locale. Non trattandosi in questo caso di un’opera concepita come pala d’altare per una destinazione specifica, è probabile che i Sarapo abbiano acquistato la tela direttamente dallo studio del pittore, che in quel periodo viveva a Napoli. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999, 1999-2000, 2001.


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Dipinto polilobato, firmato e datato. Fa parte di una serie di due Scene della vita della Santa, all’interno della cappella a lei dedicata nella chiesa olivetana di Napoli. La scena presenta la Santa giovinetta che viene presentata al suo futuro marito, Lorenzo de’ Ponziani, ricco mercante e comandante delle truppe pontificie di Roma. L’insolita composizione, affollata di personaggi, si riallaccia alle soluzioni formali adottate per le Storie dell’infanzia e miracoli di Cristo del Tesoro di S. Gennaro, aventi in comune una precisa connotazione narrativa, piuttosto che devozionale. [G.L.]

Bibl.: Galante 1872; Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

56. S. FRANCESCA ROMANA ADOLESCENTE (1747) Napoli, S. Anna dei Lombardi Olio su tela, cm 130x220 - discreto s. d. c.


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57. L’ANGELO DIFENDE S. FRANCESCA ROMANA DALLE PERCOSSE DEL DEMONIO (1747) Napoli, S. Anna dei Lombardi Olio su tela, cm 130x220 - discreto s. d. c.

Dipinto polilobato, firmato e datato. Costituisce il pendant del quadro precedente della serie di due Scene della vita della Santa, nella chiesa degli Olivetani di Napoli. La scena presenta la Santa in preghiera all’interno della sua camera da letto, mentre è difesa da un angelo che la protegge dai tormenti del demonio e di altri mostri insidiosi. Composizione molto riuscita, tra le migliori del pittore, nella sua delicata rappresentazione dell’intimità domestica: una camera spoglia, un letto, un tavolino su cui è poggiato un libro di preghiere e un crocifisso, l’immancabile pavimento “a chianche”. Suggestiva la rappresentazione dei mostri demoniaci, anch’essi insoliti a essere raffigurati nei dipinti a soggetto devozionale del Fato. Analoghe figure si possono ritrovare, seppure in tono minore, nel pesce gatto della pala del Purgatorio di Noci, nella allegoria del digiuno del pulpito del Purgatorio castellanese, e più vagamente negli eretici del S. Tommaso d’Aquino o nel demonio sottomesso del S. Michele Arcangelo, entrambi in S. Domenico a Putignano. [G.L.]

Bibl.: Galante 1872; Catello 1977; Strazzullo 1978; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

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Eseguita probabilmente in occasione dei lavori per l’ampliamento della Cappella del SS. Sacramento, conclusisi nel 1752. Il soggetto è assai vicino stilisticamente - ma di qualità nettamente superiore - all’Eterno eseguito per la cantoria della chiesa dei Paolotti di Castellana (opera peraltro di datazione incerta). Il dipinto presenta richiami ad analoghe rappresentazioni del De Matteis, da cui si evincono altresì supporti compositivi e cromatici di Lanfranco e Giordano: riferimenti di sicuro possesso nell’arte del Fato, allora appena tornato dalla lunga permanenza nella capitale. [G.L.]

Bibl: Mongelli in AAVV 1980; Milano 1982; D’Elia 1982; Sciacovelli – Viceconte 1998; Lanzilotta 1999-2000.

58. PADRETERNO (1752 CA.) Mola di Bari, S. Nicola Olio su tela, cm 160x110 - restauro 1976; buono s. d. c.


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La scritta dedicatoria nega o rende dubbia l’attribuzione del dipinto a Vincenzo Fato, ma il restauro già concluso e le ricerche documentarie e bibliografiche appena iniziate inducono a mantenere il riferimento al pittore castellanese, ipotizzato qualche anno fa da Giacomo Lanzilotta (1999-2000), o, tuttalpiù, ad ammettere l’intervento di un aiuto o di un suo imitatore. Vi si legge che, nel 1802, Francesco Antonio Albanese donò alla chiesa del Purgatorio l’opera che aveva fatto restaurare da Giovanni D’Episcopo. Questi, un pittore che dal cognome si direbbe napoletano, avrebbe aggiunto altre immagini alla tela originariamente dipinta da un certo Benasco (qui il testo non emendato: «FRANCISCUS ANTONIUS ALBANESE DE’ CASTRIOTI PETRI ANTONII FILIUS / HANC TELAM ANTEA PER BENASCUM PICTAM AB IOANNE D’EPISCOPO RESTAURAVI / ATQUE ALIIS IMAGINIBUS AUGI, ORNARIQUE CURANS PIUS DICAVIT ANNO MDCCCII»). Non è dato sapere se Benasco fosse il nome o lo pseudonimo del primo artista né se fosse riportato sulla tela; in tal caso, si potrebbe anche supporre una versione errata per Bernasco o Bernascone, oppure proprio per Beinaschi, lo stimato pittore di nome Giovanni Battista (1636-1688). Trent’anni fa, catalogando il dipinto per la Soprintendenza Gallerie di Bari, Consiglia De Venere copiò per intero la scritta; collocò l’esecuzione del lavoro originale nella seconda metà del XVIII secolo e intitolò tutta l’opera, finita agli inizi del secolo successivo, La Natività [di Gesù] e Santi, senza riuscire ad identificare con precisione il soggetto. Nel 2000, quando Giacomo Lanzilotta la inserì nel suo primo catalogo delle opere di Vincenzo Fato, l’inedita tela del Purgatorio di Noci era molto rovinata, della scritta si leggeva bene soltanto l’anno; ciononostante lo studioso individuò gli stilemi iconografici e le affinità con altre tele dell’artista, corresse l’identificazione della Natività, che è inequivocabilmente quella della Madonna, e avanzò distinte proposte di attribuzione per il riconoscimento dei santi che attorniano questa e l’altra scena in primo piano, avente come protagonista l’arcangelo Raffaele che accompagna Tobiolo presso il fiume Tigri. Svolto con l’ausilio di radiografie, il restauro della Natività di Maria e Santi non solo ha reso leggibili le figure e i particolari della composizione, mediante la rimozione delle ridipinture bituminose otto- e novecentesche, ma ha anche chiarito le modalità con cui è stato ottenuto il supporto pittorico, già palese assemblaggio di due tele, una più vecchia dell’altra, ora approssimativamente datate. Il soggetto della tela più antica, in basso e in evidenza, è san Raffaele custode di Tobiolo e risalirebbe alla fine del XVII secolo; il soggetto della tela meno antica, aggiunta per due lati alla prima, è quello più in alto, la natività di Maria apparsa a santa Teresa d’Avila, databile almeno a sessanta- settant’anni dopo. Per rappresentare la scena della Natività, il pittore ha adottato l’espediente del dipinto portato in volo dagli angeli, un motivo già riscontrato da Lanzilotta nel Fato (Pala Pappalepore in S. Domenico a Rutigliano). Il complesso soggetto della tela del Purgatorio di Noci, chiunque sia stato l’ideatore, è il compendio dei culti via via introdotti nell’antico oratorio confraternale: lo dimostrano i primi dati acquisiti dalla lettura comparata di documenti inediti (numerosi e vari per tipologia, che è impossibile qui citare con le rispettive segnature archivistiche) e di opuscoli concernenti la storia della chiesa e della confraternita (ad esempio, La Congregazione del Purgatorio di Noci. Le sue opere, Noci 1893). Nel corso del XVIII secolo, due dei cinque altari della chiesa erano dedicati rispettivamente a sant’Anna e a san Raffaele. Forse in relazione con il culto della madre della Madonna, protettrice delle partorienti, o forse perché già sentita a Noci, ebbe origine una speciale devozione verso la Natività di Maria. Fu avviata inoltre, intorno al 1734, la costituzione del sodalizio dei «Fratelli della Natività e del Purgatorio sotto la protezione di San Raffaele», dalla vita instabile e scarsamente documentata, non riconosciuto come lo era invece l’antica confraternita del Purgatorio nella quale poi, nel 1853, finì per essere incorporato. L’altare di san Raffaele, a quell’epoca, si trova intitolato talvolta a sant’Andrea Avellino, protettore contro la morte improvvisa, mentre il quadro si ritrova altresì indicato come «San Raffaele e Sant’Andrea»: il santo riprodotto a destra dell’Arcangelo, dunque, è sant’Andrea Avellino (e non san Filippo Neri), anche perché

59. TOBIOLO, L’ARCANGELO RAFFAELE, SANT’ANDREA AVELLINO CON SOPRA LA NATIVITÀ DI MARIA TRA S. PIETRO D’ALCANTARA E SANTA TERESA D’AVILA, E ANGELI (1768 CIRCA) Noci, chiesa del Purgatorio (già S. Francesco da Paola) Olio su tela, cm 128x87 - restauro 2005 buono s. d. c.


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tra le messe da celebrare nel Purgatorio sono segnate quelle offerte a lui. Per ragioni compositive, il pittore dipinse Andrea in preghiera e non, secondo l’iconografia consueta, colpito a morte durante la celebrazione della messa; e la stessa cosa può dirsi per santa Teresa d’Avila, in alto a destra nella tela nocese: egli non rappresentò la scena della transverberazione, più comunemente raccontata dalle immagini, ma la visione mistica della nascita di Maria. A sinistra è ritratto, con ogni probabilità, san Pietro d’Alcantara, promotore della riforma che ricondusse l’Ordine francescano al rigore della prima Regola; l’iconografia è la solita. Pietro, conterraneo e contemporaneo di Teresa, sarebbe stato raffigurato in corrispondenza della santa poiché la incoraggiò a riformare il Carmelo. Potrebbe essere, altrimenti, un alcantarino caratterizzato da un’analoga iconografia, Giovanni Giuseppe della Croce, rapito frequentemente da visioni della Madonna e di Gesù Bambino, soggetto a fenomeni di levitazione. Morto a Napoli nel 1734, fu beatificato nel 1789 e, l’anno dopo, eletto compatrono della città. A Napoli vissero per qualche tempo il Fato e gli Albanese (Francesco Antonio era il fratello del noto Giuseppe, martire della Repubblica napoletana del 1799). Qualcuno, colpito personalmente o in maniera indiretta da un evento miracoloso, avrebbe sentito il desiderio di vedere effigiato il frate dalla santa vita non ancora fatto santo. Questa seconda ipotesi, proposta per un prosieguo dell’indagine, sposterebbe in avanti il rifacimento del dipinto e ne assegnerebbe l’esecuzione ad un buon continuatore o imitatore del Fato finora sconosciuto (D’Episcopo?). Ferma restando l’analisi stilistica di Giacomo Lanzilotta, risulta, allo stato attuale delle ricerche, che il san Raffaele con Tobiolo è opera del Benasco, mentre il resto è attribuibile a Vincenzo Fato. Intorno al 1768, quando stava ultimando per la Chiesa Madre di Noci l’Adorazione dei pastori, il Fato, confratello del Purgatorio di Castellana, avrebbe realizzato per il Purgatorio di Noci la Natività di Maria e Santi, ancora una volta mediante il reimpiego di una tela dipinta. Più tardi, infine, su commissione di Francesco Antonio Albanese, priore della confraternita, l’opera sarebbe stata rimaneggiata da Giovanni D’Episcopo che, però, firma dicendosi autore del restauro e dell’aggiunta non meglio specificata «di immagini». [M.I.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000, Intini 2005.

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L’infelice collocazione come cimasa dell’altare di S. Pasquale Baylon non permette una facile lettura del dipinto; oltretutto l’esposizione diretta alla luce solare proveniente dalla cupola e dalle finestre del transetto ha causato nel corso dei secoli un sensibile sbiadimento dei colori. Nonostante ciò si denota l’alta qualità dell’opera, vicina stilisticamente ai soggetti analoghi della chiesa Matrice di Mola e della pala del Purgatorio di Polignano. È da datarsi verosimilmente dopo la permanenza a Napoli del pittore, in una fase artistica di piena maturità. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

60. IMMACOLATA (1752-80) Castellana, Madonna della Vetrana Olio su tela, cm 160x160 ca. - cattivo s. d. c.


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61. MADONNA CON BAMBINO, S. GAETANO DA THIENE E S. TERESA D’AVILA (1752-80) Castellana, già nel Convento degli Alcantarini Olio su tela, cm 54x42 trafugato (o alienato?) in data imprecisata nel periodo 1999-2005

È il bozzetto realizzato per l’analoga tela conservata in S. Leonardo a Castellana; l’elemento paesaggistico sullo sfondo (nel quale s’intravedono alcuni edifici, forse una veduta cittadina; cfr. la Madonna Pastora di Santeramo), ricorrente in molte opere della piena maturità e vecchiaia, induce a collocare la datazione di queste opere posteriormente al soggiorno napoletano degli anni ‘40. Il dipinto è ridotto nel numero di angeli e più fresco nell’elaborazione compositiva rispetto alla versione finale, che risulta sensibilmente più appesantita nella parte superiore, con la Madonna tra le nuvole in un coro di angeli e cherubini. La tela è misteriosamente scomparsa dalla sua precedente collocazione, in una stanza della clausura conventuale, e risultata irreperibile; dal padre guardiano del convento apprendo (comunicazione orale del 30 settembre 2005) che la tela è «irreperibile, non si sa da quanto tempo» (sicuramente dopo il dicembre 1998, quando chi scrive fotografò il dipinto). La scomparsa ha dei connotati oscuri. Non è stata mai fatta denuncia di furto del quadro. Perché i frati non hanno mai sporto denuncia? il dipinto del Fato è stato realmente trafugato? come fa un quadro a sparire da una stanza della clausura, al primo piano del convento, senza che nessuno se ne accorga (o si opponga)? [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.


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Pala per un altare laterale della chiesetta castellanese, di cui si ignora la committenza. Per la cronologia, cfr. la scheda precedente. Il dipinto presenta la piĂš usata delle soluzioni compositive del pittore, secondo lo schema triangolare che vede al vertice la Madonna col Bambino sulle nuvole in un coro festoso di angeli, e al di sotto i due Santi in estatica adorazione. Meno felice in questo caso - rispetto e al bozzetto e ad altri analoghi soggetti risulta la raffigurazione della Madonna e degli angioletti circostanti. [G.L.]

Bibliografia: Lanera 1988; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.

62. MADONNA CON BAMBINO, S. GAETANO DA THIENE E S. TERESA D’AVILA (1752-80) Castellana, S. Leonardo Olio su tela, cm 163x117 - cattivo s. d. c.


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63. PADRETERNO (1752-70) Castellana, S. Francesco di Paola Olio su tela, cm 80x140 ca. mediocre s. d. c.

Il dipinto, polilobato, è collocato sulla cantoria; stilisticamente vicino all’analoga tela di Mola, ma meno riuscito a livello qualitativo, si ipotizza essere stato realizzato intorno a quel periodo o alcuni anni dopo; è decisamente anteriore al Padreterno del Purgatorio di Castellana. Attribuzione discussa: secondo Di Mizio (1978) al lavoro avrebbe partecipato un allievo nell’esecuzione del corpo e delle mani, mentre il viso rimane dato al Fato; secondo Abbate (com. or. 1998) si tratterebbe di opera di allievo o imitatore. [G.L.]

Bibl.: Di Mizio I/1978; Pellegrino 1997, 1998; Lanzilotta 1999-2000.


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L’opera, rovinatissima e quasi illeggibile, presenta nello sfondo paesaggistico caratteri ricorrenti in altre tele, quali le due versioni di Madonna con Bambino, S. Gaetano e S. Teresa e la Madonna d’ogni bene di Castellana, il Miracolo di S. Mauro di Massafra, la Madonna Pastora di Santeramo e altre. Così un altro riferimento derivato dalla cultura figurativa napoletana è il drappo vermiglio che si alza al di sopra del soggetto, a guisa di sipario teatrale, di richiamo caravaggesco: soluzione già adottata in passato da Paolo De Matteis (cfr. la Danae del Detroit Institute of Arts a Detroit). Precedentemente identificato come Amorino, nel soggetto è da riconoscersi meglio il Bambino Gesù, per via della presenza di una sottile aureola, a malapena visibile intorno al capo. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

64. GESÙ BAMBINO DORMIENTE (1752-80) Castellana, collezione privata Olio su tela, cm 60x80 ca. - pessimo s. d. c.


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65. ANGELO CUSTODE (1752-80) Castellana, collezione privata Olio su tela, cm 104x77 - mediocre s. d. c.; lacerazioni e cadute di colore

Già appartenuto alla collezione di Teresa Gabrieli, da cui derivano l’Annunciazione omonima, il S. Luigi Gonzaga, Gesù Bambino dormiente e la Maddalena penitente. Date le ridotte dimensioni, l’opera sembra essere stata dipinta per la devozione privata. Evidente è il contenuto edificante dell’argomento: l’Angelo Custode guida il fanciullo nel cammino della vita e lo protegge dalle insidie del peccato, simboleggiate qui dal baratro che si apre ai piedi del piccolo (dal quale si vedono spuntare le fiamme dell’inferno); elegantissima è la posa dell’angelo, alle cui spalle si apre un cielo rasserenato in una bucolica ambientazione. Data l’alta qualità dell’esecuzione, l’opera è da essere datata intorno agli anni del ritorno in patria del Fato, a partire quindi dal 1752. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000, 2000.


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L’opera presenta analogie con le due versioni di Madonna con Bambino, S. Gaetano e S. Teresa e si può datare intorno a quegli anni; anch’essa faceva parte della collezione di Teresa Gabrieli. Si tratta - pur essendo finalizzata alla devozione privata e quindi meno necessaria di impegno - di uno dei quadri più riusciti della carriera dell’artista. Ritorna qui da coprotagonista un arioso paesaggio bucolico, entro il quale la Maddalena penitente si è rifugiata allontanandosi dal consorzio umano. Il pittore la coglie assorta in pensosa preghiera davanti a una croce ed un teschio, elementi di meditazione del mistero della morte e resurrezione di Cristo e della vita breve dei mortali. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

66. MADDALENA PENITENTE (1752-80) Castellana, collezione privata Olio su tela, cm 73x56,5 - mediocre s. d. c.; lacerazioni e cadute di colore


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67. MATER DOMINI (1752-80) Putignano, Purgatorio alias Santi Medici Olio su tela, cm 78x70 - restauro 1991 ca.; buono s. d. c.

Di difficile datazione; forse dipinta negli anni della vecchiaia, come lascia presumere la vicinanza formale alla Mater Domini in collezione privata castellanese, ove il Bambino Gesù assume la medesima posa con lo sguardo verso l’osservatore e le braccia conserte e poggiate sulla spalla della Madre. Il dipinto, assieme al suo pendant con S. Lucia (scheda seguente), è stato attribuito in precedenza - ma evidentemente senza alcun fondamento - al seicentesco Francesco Antonio Altobello (Angelastri M., scheda SBAAAS relativa 1991). [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.


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L’opera fa da pendant alla Mater Domini della scheda precedente; eseguita probabilmente nello stesso periodo. La Santa siracusana reca i suoi attributi tradizionali, la palma dei martiri ed il calice con gli occhi; è presentata in un elegante e sofisticato abito della sua epoca, insolito rispetto alle varie raffigurazioni di Santi fateschi. Si notino in particolare i bottoncini che legano le maniche della camicia, le spalline merlate con ciondoli pendenti, le preziose fibule sul petto, e la raffinata composizione formale e cromatica complessiva. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

68. S. LUCIA (1752-80) Putignano, Purgatorio alias Santi Medici Olio su tela, cm 50x50 - restauro 1991 ca.; buono s. d. c.


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69. S. LEONARDO (1758) Putignano, S. Pietro Apostolo Olio su tela, cm 40x60 ca. - restauro 2003; ottimo s. d. c. (foto prima del restauro)

Collocato sulla trabeazione della cappella di S. Cesario, sopra la statua del santo titolare, il piccolo dipinto presenta il Santo con l’abito benedettino recante nella mano destra le catene, strumento del martirio e suo tradizionale attributo iconografico; porta la mano sinistra al petto ed ha il capo chino in assorta meditazione. Alle sue spalle si apre uno squarcio di cielo tra le nuvole dorate. La datazione 1758 è incisa sull’originale telaio ligneo del dipinto, ed è emersa durante i lavori di restauro dell’intera cappella e dell’opera fatesca. [G.L.]

Bibl.: Giagulli 1983; Lanzilotta 1999-2000.


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Di difficile datazione, proveniente da S. Francesco d’Assisi. La tela raffigura il noto episodio raccontato nella Vita della monaca carmelitana: rapita in estatica visione, la Santa narra di un angelo che, armato di una freccia, le trafiggeva il cuore fiammeggiante di ardore mistico. Data l’alta qualità del dipinto (ma non parimenti valorizzato con l’ultimo restauro) sarei propenso a datarlo intorno agli anni ‘50 del secolo, periodo della piena maturità artistica del Fato. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1988; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

70. S. TERESA D’AVILA (1752-80) Castellana, Immacolata Olio su tela, cm 96x78 - restauro 1999; buono s. d. c. (foto a destra: prima del restauro)


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71. IMMACOLATA CON I S. S. CATERINA D'ALESSANDRIA, ANDREA AVELLINO, VINCENZO FERRERI E VESCOVO (1752-64) Polignano a Mare, Purgatorio Olio su tela, cm 250x180 - mediocre s. d. c.

Stilisticamente vicina agli ovali dipinti per S. Francesco d’Assisi e per il Purgatorio a Monopoli, l’opera è databile intorno a quegli anni. La pala è impostata secondo un classico modello giordanesco e dematteisiano, adoperato in area pugliese anche dal Lama e da altri pittori. Non è molto chiara l’identificazione di alcuni personaggi. Il Santo alle spalle di Caterina d’Alessandria deve essere Andrea Avellino, raffigurato con indosso i paramenti liturgici; la Santa è riconoscibile data la presenza accanto a lei di una ruota spezzata; S. Vincenzo si distingue per l’abito, la fiamma dello Spirito Santo sul capo e per l’iscrizione sul libro aperto: "…EIUS / …CENZO / …RERIO". Resta da svelare l’identità del Santo vescovo, di aspetto giovanile, un libro in mano, il pastorale adagiato sul pavimento, e forse - un abito monastico sotto il mantello. Può trattarsi di Biagio, Ludovico di Tolosa, Brunone, Antonino, o Gennaro. [G.L.] Bibl.: Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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Per la cronologia del dipinto cfr. scheda precedente. La figura di S. Agostino è stilisticamente assai vicina a quella eponima della pala del Purgatorio monopolitano, ulteriore elemento che induce a datare le tele di Polignano intorno alla metà degli anni ‘50 del secolo. Curiosa la differente rappresentazione delle pose dei Santi: Agostino è il solo inginocchiato in adorazione della Madonna; S. Antonio di Padova si rivolge ad abbracciare il Bambino Gesù, e i due sono osservati da Gaetano; Francesco di Paola, più solitario e introverso, medita silenzioso il Vangelo, che tiene poggiato su un ginocchio. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

72. MADONNA CON BAMBINO E S. S. AGOSTINO, FRANCESO DI PAOLA, ANTONIO DI PADOVA E GAETANO DA THIENE (1752-64) Polignano a Mare, Purgatorio Olio su tela, cm 260x180 - mediocre s. d. c.; lacerazioni


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73. CRISTO E LA MADONNA ADORATI DA S. FRANCESCO (1755) Monopoli, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 240x167 - cattivo s. d. c.

Il dipinto, firmato e datato, è il primo di una serie di quattro ovali eseguiti per i Francescani monopolitani tra il 1755 e il 1761. È situato nella cappella dell’Immacolata assieme a quello con S. Chiara e Clarisse. La composizione è piuttosto affollata di figure, dal momento che oltre i tre personaggi principali partecipa un cospicuo numero di presenze angeliche, in puro stile rococò, secondo la tendenza iconografica del tempo: sono presenti tra le nuvole e ai piedi del Santo, in varie dimensioni angioletti e cherubini. Particolarmente riuscita risulta la soluzione di collocare in tre quarti la coppia Gesù e Maria in alto a sinistra, e lungo la diagonale il Serafico Padre visto quasi di spalle in basso a destra, offrendo in tal modo una visione dinamica della scena. [G.L.] Bibl.: Bellifemine 1981; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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Il dipinto è stato realizzato su commissione della confraternita del Purgatorio di Monopoli, ed è firmata in basso “OPUS VINC. FATO / A. D. 1756”. L’opera, tra le meno note fra quelle firmate del pittore, presenta i due Santi in pose differenti, l’uno di spalle e l’altro di fronte chi osserva, secondo uno schema compositivo adottato in precedenza sempre più frequentemente: esempi del genere si ritrovano dalla pala Pappalepore (1741, con S. Giovanni Battista di fronte, S. Liborio di spalle) di Rutigliano, alla pala di S. Leonardo (con i S. S. Gaetano e Teresa), fino a quelle successive con la Madonna di Costantinopoli (con i S. S. Donato e Biagio) di Castellana, e altre. Il Santo di Tagaste offre il cuore fiammeggiante, suo attributo iconografico tradizionale, al Bambino Gesù, che lo benedice. Ai suoi piedi, altri elementi che lo identificano: il libro (in quanto Dottore della Chiesa), sul quale è seduto un simpatico angioletto che regge in mano il laccio. S. Monica è in atteggiamento di preghiera, le mani giunte, inginocchiata, il libro aperto ai suoi piedi. [G.L.] Bibl.: Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

74. MADONNA COL BAMBINO E I S. S. AGOSTINO E MONICA (1756) Monopoli, Purgatorio Olio su tela, cm 150x100 ca. mediocre s. d. c.; lacerazioni


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75. S. CHIARA D'ASSISI CON S. S. ROSA DA VITERBO, MARGHERITA DA CORTONA, CHIARA DA MONTEFALCO, ELISABETTA D'UNGHERIA (1755-61) Monopoli, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 240x159 - mediocre s. d. c.

Il dipinto fa parte di una serie di quattro ovali eseguiti per i Francescani monopolitani tra il 1755 e il 1761. Vi si celebra la gloria del ramo femminile della spiritualità e santità francescana. Al centro, tra le nuvole, siede la fondatrice del Secondo Ordine Francescano (clarisse), illuminata di Spirito Santo, che mostra l’ostensorio col SS. Sacramento. Ai suoi lati si trovano le più eminenti personalità femminili del francescanesimo, e clarisse e terziarie e laiche, ciascuna indicante un esempio differente di santità: attiva (Rosa), caritatevole (Margherita, Elisabetta), mistica-contemplativa (Chiara da Montefalco). Rosa da Viterbo, terziaria e martire, è riconoscibile per la corona di rose che le cinge il capo. Margherita da Cortona, terziaria, mostra gli attributi vicino a sé, il cane e il crocifisso. Elisabetta di Turingia, laica e regina d’Ungheria, conserva la corona regale sul capo ed ha nelle mani un teschio e una corona di spine per la meditazione. In atteggiamento estatico è la clarissa Chiara da Montefalco, con le braccia alzate e il viso rivolto al Cielo. [G.L.] Bibl.: Bellifemine 1981; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998; Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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Il dipinto fa parte di una serie di quattro ovali eseguiti per i Francescani monopolitani tra il 1755 e il 1761. La presenza dei due Santi si spiega soprattutto per la grande devozione popolare di cui godono nel sud est della Terra di Bari. S. Vito Martire è patrono di Polignano, città costiera a pochi kilometri da Monopoli. Il suo culto è assai diffuso: oltre che qui, anche a Castellana e Putignano per fare qualche esempio. S. Rocco di Montpellier è venerato come protettore dalle pestilenze, pertanto particolarmente caro da queste parti funestate negli anni addietro da terribili morbi (1656, 1690-92 i più devastanti: cfr. Sisto 1999). Interessante è la contemporanea presenza nel quadro dei due cani, legati iconograficamente ai personaggi predetti. Entrambi i cani hanno simile sembianza, muso lungo bianco e orecchie pezzate nere, così come furono dipinti i soggetti analoghi nelle tele di Tobiolo e l’Arcangelo Raffaele e Gloria di S. Domenico nelle rispettive chiese domenicane di Putignano e Monopoli: segno forse di una particolare affezione del pittore per un certo animale. Diversamente sono invece realizzati i cani che si vedono nel Cristo e la Cananea del Duomo di Napoli, nel mezzo fresco di S. Vito della cappella rurale della Consolatrice, nell’Arrivo della Madia del Duomo di Monopoli. [G.L.]

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Bibl.: Bellifemine 1981; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

76. S. GIUSEPPE IN GLORIA CON S. VITO E S. ROCCO (1755-61) Monopoli, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 245x165 - cattivo s. d. c.; lacerazioni, alterazioni cromatiche, muffe


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Proveniente dalla piccola chiesa castellanese di S. Maria della Neve, detta anche Mater Domini; il titolo Madonna d’Ogni Bene si deve al Lanera (1988). La datazione intorno ai primi anni ‘40 è data dalla Pasculli Ferrara (1995); adducendo le stesse ragioni della studiosa, lo scrivente è propenso a collocare la tela posteriormente al 1760 (anno presunto del restauro di una tela monopolitana tradizionalmente attribuita al Veronese, da cui il Fato ha ricavato il modello per la Madonna col Bambino in posizione eretta). L’opera è menomata in più punti per irreparabili cadute del colore. In basso a sinistra sono state individuate tracce della sua firma con data, purtroppo illeggibile. Davanti alla Vergine col Bambino Gesù, insolitamente in piedi, stanno inginocchiati a sinistra S. Lorenzo (che ha vicino a sé la graticola, strumento del suo martirio), e a destra S. Filippo Neri (in paramenti liturgici, con il libro ai suoi piedi). A sinistra è in piedi S. Giovanni Nepomuceno il confessore, che rivolto a Gesù mostra sulla mano destra la sua lingua tagliata; un interessante riferimento analogo è stato dipinto da Paolo De Matteis in una pala conservata nella Cappella Imperiale di Vienna. Non è improbabile quindi che il Fato abbia conosciuto l’opera del maestro del Cilento attraverso disegni, incisioni o studi che dovevano circolare a Napoli a quel tempo, senz’altro nell’ambito della di lui scuola. A destra nella composizione si trova in piedi una coppia di Santi, formata dal missionario gesuita Francesco Saverio e dal crociato francescano Giovanni da Capistrano, armato del gonfalone. Vale la pena riportare le note che a riguardo scrisse il Lanera nel 1990: «La tela è infatti di proprietà comunale, perché dalla chiesa fu trasferita (forse sono ottant’anni) nei depositi del palazzo di città. […] Santa Maria d’Ogni Bene la trassi io, con le mie mani, dalle oscure latebre dove era finita; quando per uno scherzo del destino (tanto io ero lontano dall’immaginarlo, e dal desiderarlo, pure) fui eletto general sindaco della magnifica università di Castellana. La povera tela se ne stava addossata al muro, in mezzo a molto immondo ciarpame, in una segreta e umida stanza, quasi inaccessibile, posta in fondo ai locali dell’Ufficio Elettorale. Non foss’altro che per questo, non rimpiango le mille pene che patii in quei cinque anni del mio sindacato. La tela è pur essa di don Vincenzo Fato, il delicato piissimo pittore. Che con grazia settecentesca ha effigiata la beatissima Vergine che trattiene a stento il Figlioletto (Ogni-Bene), che si divincola dalle mani materne, per scendere a giocare con l’arcidiacono san Lorenzo, che da terra lo adora estatico». [G.L.]

Bibl.: Di Mizio IV/1978; Lanera 1988, 1990; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

77. MADONNA D’OGNI BENE CON S. S. LORENZO, GIOVANNI NEPOMUCENO, GIOVANNI DA CAPISTRANO, FRANCESCO SAVERIO E FILIPPO NERI (1760-78) Castellana, Palazzo Comunale Olio su tela, cm 221x153 restauro 1991 ca.; discreto s. d. c.


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Il dipinto, firmato e datato “OPVS VINCENTII FATO A. D. 1761”, fa parte di una serie di quattro ovali eseguiti per i Francescani monopolitani tra il 1755 e il 1761. Di quest’opera, come di tutta la pittura del Fato in generale, è critico il Bellifemine; ma il monsignore nel suo scritto del 1981 incorre in una serie di abbagli riguardo al pittore, a partire dalla datazione del quadro (in Bellifemine, 1981, a p. 43 è scritto, a proposito di quest’ovale: “firmato e datato 1771”) fino all’identificazione dei Santi. Davanti a S. Michele Arcangelo è inginocchiato S. Bonaventura da Bagnoregio, teologo francescano, la cui presenza è oltretutto giustificata essendo in una chiesa del medesimo Ordine. Non si tratta, come afferma Bellifemine, di S. Carlo Borromeo perché il religioso raffigurato non presenta le note fattezze del cardinale controriformista, generalmente dotato d’un gran nasone e privo di barba. Non si spiegherebbe del resto l’esigenza di raffigurare il santo milanese in area monopolitana, in un’epoca in cui da tempo era ormai tramontata ogni politica religiosa e iconografica di stampo postridentino. Il dotto e barbuto Bonaventura, in abito cardinalizio e la cappa porporina poggiata nei pressi, è ben riconoscibile in una sua posa tradizionale, con il libro sulla sinistra e la penna sulla destra, sollevata in atto di accingersi a scrivere qualcosa. Tale immagine sembra essere stata ripresa pari pari da una statua eponima di fra’ Luca Principino (del 1715-25 ca.), oggi in collezione privata, che il Fato doveva con buona ragionevolezza avere visto bene a Castellana e tenuto a mente. Davanti all’Angelo Custode col piccolo Tobia, sta inginocchiato S. Ludovico d’Angiò vescovo di Tolosa e non S. Agostino come vedrebbe il Bellifemine. Anche qui è plausibile la presenza del francescano spirituale, erede angioino al trono del regno di Napoli, a cui rinunciò per vestire il saio. L’identificazione è confermata dalla presenza ai piedi del Santo di una corona e uno scettro, che non avrebbero alcuna attinenza con la figura di S. Agostino, i cui attributi tradizionali sono il cuore fiammeggiante e il laccio (cfr. la pala monopolitana e quella polignanese del Purgatorio col vescovo di Ippona). [G.L.]

Bibl.: Bellifemine 1981; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

78. S. ANNA CON MARIA E I S. S. BONAVENTURA, MICHELE ARCANGELO, LUDOVICO DI TOLOSA E ANGELO CUSTODE (1761) Monopoli, S. Francesco d’Assisi Olio su tela, cm 248x163 - cattivo s. d. c.; lacerazioni


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Commuove pensare che il buon pittore abbia aspettato di raggiungere i sessant’anni di età per vedere per la prima volta una propria opera collocata sul posto d’onore di una chiesa, come pala per l’altare maggiore; e non credo di essere lontano dal vero se immagino che pure lo stesso Fato si debba essere commosso a vedere montata la sua tela sopra quell’altare. Il dipinto fu pagato con i fondi provenienti dal lascito del notaio Antonio Fanelli di Putignano per la chiesa delle Carmelitane. È firmato - come usa fare di consueto l’autore - sul lato in ombra d’un sasso ai piedi del Santo: “OPUS VINCENTII FATO / A. D. 1765”; reca in basso a sinistra lo stemma del benefattore del monastero: uno scudo barrato con tre stelle nella banda superiore e tre uccelli in quella inferiore. Scrive appunto Di Mizio, 1984: «Con disposizioni testamentarie, infatti, quel notaio nominò il convento delle carmelitane di Putignano erede universale dei suoi beni nel caso in cui la propria nipote fosse deceduta senza aver dato alla luce figli e con l’impegno che tali fondi venissero amministrati a parte. Inoltre, sulle opere realizzate con quei fondi, doveva essere apposto lo stemma del testante. Ed è questa la ragione per cui lo stemma dei Fanelli spicca un po’ dovunque». La composizione presenta l’Eterno Padre e lo Spirito Santo sovrastare la scena, in un cielo luminoso affollato di festosi angeli e cherubini, dove tra le nuvole siede la Madonna del Carmine col Bambino Gesù. La Vergine, accompagnata da un angelo, consegna lo scapolare a S. Simone Stock, fondatore dell’Ordine delle Carmelitane. In basso, una coppia di angioletti di impronta solimenesca mostra gli abitini e il libro della regola. L’impegno dell’artista nel presente lavoro ha prodotto davvero una delle sue opere più felici. [G.L.] 130

Bibl.: Marascelli 1933; Di Mizio 1978, 1979, 1984; Gelao 1994; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

79. LA MADONNA DEL CARMINE CONSEGNA LO SCAPOLARE A S. SIMONE STOCK (1765) Putignano, Convento Grande Olio su tela, cm 270x180 discreto s. d. c.; muffe


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Opera databile nello stesso periodo della pala Madonna e S. Simone Stock, o di pochi anni successiva. L’episodio è narrato nel primo libro dei Re, 19, 4-8, ed è strettamente collegato all’episodio dell’altra tela presente nel presbiterio della chiesa carmelitana con Elia e la vedova di Zarepta (1 Re, 17, 9-16). Le due storie del profeta Elia illustrano attraverso l’opera del personaggio biblico degli esempi di virtù teologali: fede, speranza, e carità. Nella presente tela si verte particolarmente sulla fede, messa in dubbio dal profeta che, poco fiducioso della protezione divina, chiede di morire e si addormenta sotto un ginepro. La scena offre come grande protagonista l’angelo, magistralmente raffigurato, che si adagia in volo a ridestare il profeta ed esortarlo a mangiare il cibo che Dio gli aveva posto accanto. [G.L.]

Bibl.: Gelao 1994; Lanzilotta 1999-2000.

80. ELIA SVEGLIATO DALL'ANGELO (1764-67) Putignano, Convento Grande Olio su tela, cm 165x240 - discreto s. d. c.


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81. ELIA E LA VEDOVA ZAREPTA (1764-67)

DI

Putignano, Convento Grande Olio su tela, cm 165x240 - discreto s. d. c.

Il dipinto è databile nello stesso periodo della pala Madonna e S. Simone Stock, o pochi anni dopo. L’episodio (1 Re, 17, 4-16) si collega a quello dell’Angelo che sveglia Elia nell’altra tela del Fato nel presbiterio della chiesa carmelitana. Elia chiede alla povera vedova da mangiare e da bere, ed ella gliene offre avvisandolo che si tratta dell’ultimo cibo rimastole; il profeta le garantisce che quel cibo rimasto, della farina nella giara e dell’olio nell’orcio, non si esaurirà. È evidente il messaggio religioso del quadro che da una parte esalta la carità (il gesto estremo della vedova) e dall’altra esorta alla fede e alla speranza (”Non temere” dice Elia; oltre al miracolo della farina e dell’olio il profeta mostrerà alla vedova un’altra grande prova della ricompensa divina, allorquando resusciterà il figlioletto di lei morto). [G.L.]

Bibl.: Marascelli 1933; Di Mizio 1984; Gelao 1994; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

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L’opera è firmata su un lato in ombra (consueto del Fato) di un sasso “OPUS VINCENTII FATO 1767”. Commissionata dalla famiglia de Giorgio come pala d’altare per la propria cappella, intitolata ai S. S. Antonio abate e Maddalena, oggi non più esistente. Ne scrive il Lanera, 1990, a p. 66: «Di tutta la cappella sussiste solo la redazione della tela che la ornava; opera dell’infaticabile Vincenzo Fato. Nella tela del Fato sono rappresentati sì i santi Antonio e Maddalena, ma in posizione meno onorifica del giovane intruso san Luigi Gonzaga. Così piacque ai nuovi patroni, i signori de Giorgio». La presenza dei diversi Santi allude allegoricamente ai differenti esempi e modi di raggiungere la salvezza: attraverso carità e innocenza (S. Luigi), ascesi e vita eremitica (Antonio abate), conversione e penitenza (Maddalena). La pala era inizialmente stata concepita senza la figura del taumaturgo portoghese: è infatti evidente la rottura dell’equilibrio compositivo e l’asimmetria dei volumi, fatto eccezionale in un quadro del Fato, sempre attentissimo al bilanciamento delle masse, all’ordine e alla giusta distribuzione dei personaggi. Se si analizza attentamente la pala si osserva come il circolo di nuvole attorniasse completamente il corpo di S. Luigi e lasciasse scoperte le ali dell’angelo reggente il crocifisso. Che il S. Antonio di Padova sia stato aggiunto in un tempo successivo è anche abbastanza verificabile a occhio nudo: il saio pur scuro del francescano lascia intravedere in trasparenza la prosecuzione del disegno delle nuvole e delle pieghe della manica dell’angelo. Resta da chiarire quali potessero essere le motivazioni dei committenti, i quali imposero al pittore una aggiunta del genere all’ultimo momento, a lavoro ormai conchiuso. Non credo di sbagliare però nel ritenere che quella richiesta gli dovesse pesare alquanto, proprio per ragioni stilistiche e compositive: si andava a rompere l’armonia e l’equilibrio della composizione. Certo è che il Fato dipinse il buon S. Antonio di Padova con tutti crismi e a regola d’arte, ma anche suo malgrado. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1979, 1990, 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

82. GLORIA DI S. LUIGI GONZAGA CON I S. S. ANTONIO ABATE, MADDALENA E ANTONIO DI PADOVA (1767) Castellana, S. Leone Magno Olio su tela, cm 240x153 - cattivo s. d. c.; lacerazioni


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Firmata “OPUS VINCENTII / FATO A. D. 1767”, la pala fu commissionata per un altare laterale della chiesa dei carmelitani scalzi putignanesi. Alla Santa mistica appare in estatica visione la SS. Trinità accompagnata tra le nuvole da un coro festante di angeli e cherubini. Ai suoi piedi è il libro della regola e il giglio. L’Eterno è in atto di benedirla, il Figlio le mostra con la destra il suo Sacro Cuore e con la sinistra indica se stesso. Alle sue spalle alcuni angioletti trasportano in volo la croce di legno. Un particolare di rilievo è da notare nell’angioletto con le braccia aperte all’estrema destra della parte centrale del quadro: è insolitamente vestito d’una tunica di colore rosso porpora, peraltro d’un tono ancor più vivace del manto di Cristo. [G.L.] Bibl.: Marascelli 1933; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1998; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

83. S. TERESA DAVANTI ALLA SS. TRINITÀ (1767) Putignano, Carmine Olio su tela, cm 215x150 - mediocre s. d. c.


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84. S. PIETRO APOSTOLO (1767) Castellana, Caroseno Olio su tela, cm 180x55 - discreto s. d. c.

Commissionata, assieme al S. Giovanni Apostolo, dal cappellano del Caroseno in data 25 agosto 1767 (Archivio di S. Leone, conclusioni capitolari, p. 286v). L’opera è firmata “OP. VINCENTII FATO A. D 1767”. Il Santo è raffigurato in piedi, in posizione statuaria accentuata da forti contrasti chiaroscurali che ne evidenziano la solennità. È legato alla pala del S. Giovanni, e la posa dei due apostoli si direziona verso il centro dell’ancona, dove è presente un affresco seicentesco con una Mater Domini (che sarà poi coperto con un analogo soggetto dipinto a olio su rame dello stesso Fato dal 1785). [G.L.]

Bibl.: Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998; Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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Commissionata, assieme al S. Pietro Apostolo, dal cappellano del Caroseno in data 25 agosto 1767 (Archivio di S. Leone, conclusioni capitolari, p. 286v). L’opera è firmata ”OP. VINCENTII FATO A. D 1767”. Ritratto superbo del pittore, tra i più riusciti della sua produzione: come il corrispondente dipinto di S. Pietro, è raffigurato in piedi, in posizione statuaria accentuata da forti contrasti chiaroscurali che ne evidenziano la solennità. Si noti che il S. Giovanni porta i sandali ai piedi, al contrario di S. Pietro che va scalzo. [G.L.] Bibl.: Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

85. S. GIOVANNI APOSTOLO (1767) Castellana, Caroseno Olio su tela, cm 180x55 - discreto s. d. c.


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86. SPERANZA (1768) Conversano, depositi di S. Benedetto Olio su tela, cm 160x156 ca. mediocre s. d. c.

Firmata in basso a sinistra “OPUS VINCENTII FATO / A. D. 1768”. Eseguita, assieme alla Carità, per le monache del monastero conversanese. In merito a questi due dipinti si conosce una lettera (cfr. Cenni biografici) del Fato per don Michele Manuzzi, procuratore delle monache di S. Benedetto, in cui si racconta delle trattative per il prezzo del lavoro. Ne risulta che le tele furono acquistate per 30 ducati, una cifra decisamente inferiore alle iniziali richieste del pittore; ma tant’è, che il nostro aveva da sfamare una famiglia di dieci persone (come è scritto nella lettera), e quindi pensò bene di doversi contentare del ‘vil prezzo’ pattuito, magari addolcito da quella ‘grossa spasa di dolci’ che in aggiunta si sarà fatto dare per le sue figliole. Il dipinto presenta tra le nuvole la figura allegorica della speranza, una donna in preghiera col volto fiducioso rivolto al Cielo, mentre vicino a lei un angioletto regge un’ancora, concreto simulacro di fermezza nelle turbolenze della vita quotidiana ed invito a perseverare nella speranza. Data la particolare forma delle tele, presumo dovessero servire come quadri sopra-porta per i locali all’interno del monastero piuttosto che per una determinata collocazione nella chiesa. [G.L.] Bibl.: D’Elia 1968; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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In merito alla storia delle tele eseguite per il monastero di S. Benedetto, cfr. la scheda precedente. Il dipinto presenta una donna tra le nuvole, elegantemente vestita, sul cui capo arde una vivace fiammella; è in procinto di allattare un bambino, mentre altri due pargoli le si accostano a chiederle nutrimento, e due cherubini osservano la scena. Il tema dell’allattamento come dono di sé agli altri è stato usato nella pittura in vari altri modelli e versioni, tra cui il più noto è quello della Carità romana, nel quale una donna allatta l’anziano padre carcerato; a Napoli, un esempio mirabile è nella nota tela caravaggesca de Le sette opere di misericordia nella chiesa del Pio Monte della Misericordia. [G.L.] Bibl.: D’Elia 1968; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

87. CARITÀ (1768) Conversano, depositi di S. Benedetto Olio su tela, cm 160x156 ca. mediocre s. d. c.


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88. ADORAZIONE DEI PASTORI (1768) Noci, Maria SS.ma della Natività Olio su tela, cm 250 x 180 - restauro 2004 (foto piccola: particolare del dipinto prima del restauro)

Il dipinto conservato nella Chiesa Madre di Noci, un tempo pala dell’altare di san Giuseppe, è stato incluso, sin dal primo elenco redatto da Marco Lanera, tra le opere realizzate compiutamente dall’artista castellanese, poiché firmato nel 1768. Di recente Giacomo Lanzilotta, per primo, ha individuato il precedente dello schema compositivo nell’Adorazione dei pastori dipinta da Vincenzo Fato per la Cappella del Tesoro di San Gennaro nel duomo di Napoli, ma ha ritenuto lo stile del dipinto nocese, seppure firmato, «insolito alla maniera di dipingere del Fato», forse in gran parte opera di aiuti, a prescindere dalle ridipinture. L’ultimo restauro ha messo in luce, dopo la rimozione delle ridipinture ottoe novecentesche, l’esistenza di almeno tre distinte redazioni dell’opera. La figura centrale, Gesù Bambino adagiato nella mangiatoia, è stata dipinta due volte: oggi s’intravede un Bambino orientato in un’altra posizione rispetto a quello soprastante, conosciuto sinora e ritenuto fatesco. La Madonna a destra, che prega a mani giunte e medita il mistero nel suo cuore, e il pastore in primo piano a sinistra paiono “tipici” dell’artista. Suggeriscono una diversa impostazione iniziale di parte della scena il pastore ritratto seduto di spalle, a destra della Madonna, il capo di un bambino (probabilmente un angelo che annuncia ai pastori dormienti la nascita del Signore) accanto al pastore che sta prendendo in braccio una pecorella, la testa di un giovane affiorata in corrispondenza dello spazio, già considerato vuoto, tra la Madonna e il pastore che rende omaggio al Bambino togliendosi il cappello dalla testa e inchinandosi (come nell’Adorazione napoletana). Sullo sfondo un paesaggio roccioso e tre lontane figure a cavallo, i Magi, che prima del restauro erano poco leggibili. Sotto la figura maschile centrale, sino al restauro ritenuto san Giuseppe (e tanto simile al santo ritratto nell’ovale della chiesa di San Francesco di Monopoli), ne è stata rinvenuta un’altra, non finita, poi tutta coperta tranne che per le mani, riutilizzate dall’ultimo artista (o l’artista?!) per farne le mani del presunto san Giuseppe. In totale sembrava che i pastori della composizione, prima del restauro, fossero sei. Ora le figure visibili, integre e non, oltre ai componenti della Sacra Famiglia e ai Magi, sono in tutto dieci; undici, se si considera la testa evanescente tra i primi due personaggi, più in fondo, a destra. Da notare il primo, un pastore che suona la zampogna, e che era stato oscurato a vantaggio di quello al centro. Non si comprende bene, invece il ruolo della seconda figura (femminile?), di cui è visibile la testa reclinata, con gli occhi chiusi: con un turbante nero, in atteggiamento dolente, non ha senso nell’ambito di una scena festosa natalizia. Dall’altra parte, in seguito alla rimozione delle pesanti campiture con le quali erano stati realizzati il bue e l’asino, sono comparse le teste di due altri personaggi con barba, uno giovane, l’altro anziano. Il giovane con l’aureola e gli occhi chiusi parrebbe proprio Cristo: seguendo l’andamento parabolico della disposizione di tutte le figure chinate e con gli occhi verso il basso, a partire dalla “dolente” fino all’anziano dalla barba bianca (Giuseppe d’Arimatea?), la scena che viene a configurarsi non è altro che la deposizione di Cristo dalla croce. Sarebbero almeno tre i personag-

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gi, poi trasformati in pastori, coinvolti nell’azione. La tela, dunque, già dipinta, sarebbe stata riutilizzata dal Fato (o un altro artista) per l’esecuzione di un soggetto diverso. Dai riscontri documentari in corso per rafforzare (o smentire) tale ipotesi e per scrivere la storia del dipinto, si è desunto che all’altare di San Giuseppe, denominato anche «altare del Presepe» (rimosso nel secolo scorso), era legato l’omonimo beneficio fondato sul finire del XVI secolo. Che vi fosse collocato un dipinto raffigurante la scena della natività del Signore lo attestano il titolo sacro e alcuni documenti, come, ad esempio, la descrizione fatta da mons. Antonio Brunacchio, vescovo di Conversano, mentre compiva la “Santa Visita” a Noci nel luglio del 1635. Sull’altare vi era una «icona in tela cum cornicibus et figura Nativitatis Domini, Beatae Virginis et Sancti Josephi» (Archivio storico della Chiesa Madre di Noci, Capitolo, Miscellanea, I, 23, c. 10r), una tela che, in un momento ancora imprecisato, fu sostituita. Decisivo per l’intervento di Vincenzo Fato e della sua bottega si rivelò l’ordine impartito dal vescovo di Conversano Michele Tarsia, dal 23 settembre 1764 in visita pastorale nella città di Noci e, in particolare, quel giorno in Chiesa Madre, a proposito del dipinto esposto sull’altare di San Giuseppe: «Mandavit quod citius renovari iconam in tela depictam» (Archivio Diocesano di Conversano, Noci, Sante Visite, 11.a, 1764, c. 12r). Era dunque necessario “rinnovare” la tela, restaurarla nel senso di ridipingerla, oppure sostituirla. Spettava al sacerdote titolare del beneficio di san Giuseppe eseguire gli ordini del vescovo, che aveva biasimato anche la mancanza di pulizia dell’altare. In quegli anni il beneficiario era don Francesco Antonio Longo di Castellana, figlio di Vittoria Lenti di Noci, dottore nei due diritti, divenuto primicerio del capitolo di San Leone Magno. Fu il Longo a commissionare al Fato l’Adorazione dei pastori: l’artista castellanese, con il reimpiego di una tela dipinta, di provenienza non ancora accertata, portò a compimento il lavoro (o un restauro già iniziato da un allievo) e, come si sa, fissò la propria firma e il nome del committente in un’epigrafe, nell’angolo inferiore sinistro dell’immagine («OPUS VINCENTIJ FATO / IUSSU U.I.D. PRIMICERIJ / FRANCISCI ANTONIJ LONGO / CASTELLANAE PATRONI 1768»). [M.I.]

Bibl.: Lanera 1968; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999, 1999-2000; Pellegrino 1999; Intini 2004, 2005.


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Firmata sulla brocca galleggiante “VINC. FATO / 1770”, la pala fu probabilmente dipinta in occasione della professione di fede della figlia Maria Arcangela presso il monastero massafrese avvenuta lo stesso anno. Nei documenti della comunità risulta esservi stata anche un’altra figlia del pittore, Maria Michela. Entrambe le sorelle nacquero a Napoli. Il dipinto illustra un episodio miracoloso della vita dei due fratelli Mauro e Placido, monaci della comunità di Cassino al tempo di S. Benedetto. Il Papa aveva affidato al Santo di Norcia i due fratelli; un giorno, mentre Benedetto pregava nella sua cella, ebbe una visione: Placido stava annegando. Sicché manda subito in soccorso Mauro, il quale camminando miracolosamente sulle acque trae il fratello fuori pericolo. Il pittore rappresenta il momento culminante della scena del salvataggio, mentre da una loggia del monastero sullo sfondo si distingue S. Benedetto che osserva da lontano; magnifica è la rappresentazione dell’ambiente bucolico e del sereno paesaggio che si apre all’orizzonte. È da notare che l’alta qualità del lavoro fu rilevata anche dai commissari napoleonici del Murat, i quali vi apposero il sigillo di lacca rossa, a indicare un’opera suscettibile di requisizione. [G.L.]

Bibl.: Grippa 1934; Catucci 1942; Jacovelli 1976; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000.

89. MIRACOLO DI S. MAURO (1770) Massafra, S. Benedetto Olio su tela, cm 253x208 - discreto s. d. c.


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90. S. DOMENICO GUZMAN (1770)

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Putignano, Conservatorio di S. Maria degli Angeli Olio su tela, cm 130x80 ca. discreto s. d. c.

Scoperta dal Pellegrino (che ne identificava il soggetto in S. Vincenzo Ferreri), la tela è firmata ai piedi del Santo, sul piedistallo “OPUS VINC. / FATO 1770”: dipinta non per la chiesa ma per il decoro interno del convento domenicano. Il religioso spagnolo è raffigurato su di un piedistallo, in piedi, il volto sicuro, recante nelle mani il libro e il giglio; sullo sfondo si intravede un cielo sereno ed un alto orizzonte ripreso con prospettiva a volo d’uccello. Un leggero venticello solleva un lembo dell’abito del frate, mostrandoci la piega e l’ombra, sottile dettaglio naturalistico. [G.L.] Bibl.: Pellegrino 1993; Lanzilotta 1999-2000.


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Il piccolo dipinto è firmato e datato; la firma è apposta - come di consueto sulla parte in ombra di un sasso ai piedi della Vergine: si legge “VINC. FATO 1771”*. Sembra essere un bozzetto preparatorio per una pala d’altare ancora non conosciuta. Proviene dalla collezione dei Conti Sava di Santeramo in Colle, successivamente donato dalla famiglia, insieme ad altri beni, ai Padri Monfortani. Il quadro sviluppa un tema assai comune per il culto diffuso della Madonna Pastora (o Pastorella) nei paesi dell’entroterra delle Murge pugliesi. Al centro della composizione, seduta su di un giaciglio roccioso, la Vergine in abito campagnolo si riposa, accarezzando una pecorella. Altre pecore intorno masticano petali di rose, essendovi nei pressi un fiorito roseto. Alle spalle della Madonna, sull’orizzonte si distingue il panorama di una cittadina. [G.L.] * Negli archivi della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Bari, . L’opera è stata catalogata negli Ufficio Catalogo, è presente la scheda relativa alla Madonna Pastora anni addietro da un non meglio identificato "Centro Ricerche Storia e Arte" di Santeramo. L’anonimo autore della scheda (n. 1600182344) non deve però avere osservato con sufficiente attenzione il dipinto, visto che non si è accorto della presenza della firma del Fato. Piuttosto, ed è quel che più sorprende, l’opera viene attribuita addirittura ad un pittore del sedicesimo secolo di "scuola fiamminga"!!! Non per entrare in polemica con chicchessia, terrei a riferire al lettore di una personale vicenda che risale al 1995. Appena conclusi gli studi all’Accademia di Belle Arti, feci domanda al Soprintendente di Bari per candidarmi come schedatore: lo stesso mestiere insomma del compilatore della scheda di Santeramo. Qualche mese dopo mi arrivò la risposta negativa del Soprintendente (con raccomandata a carico del destinatario; non bastava la posta ordinaria?): l’ente assumeva esclusivamente laureati in lettere o in architettura. Sarei curioso di sapere dove ha studiato l’autore della scheda summenzionata.

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

91. MADONNA PASTORA (1771) Santeramo in Colle, Istituto Missionari Monfortani Olio su tela, cm 75x62 - discreto s. d. c.; cadute di colore


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92. L’IMMACOLATA APPARE A S. PASQUALE BAYLON (1771) Capurso, S. M. del Pozzo Olio su tela, cm 300x200 ca. restauro 2004; buono s. d. c.

Pala di pregevole fattura, firmata e datata. È la prima delle due opere eseguite per i francescani alcantarini del santuario di Capurso; si trovano collocate sugli altari di sinistra e destra del transetto della chiesa. Due anni dopo il pittore consegnò ai frati il pendant con la Madonna degli angeli e S. Pietro d’Alcantara. [G.L.] Bibl.: Pacifico 1853; Mariella 1979; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000.


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L’opera è firmata e datata sul margine in ombra in basso a sinistra, non chiaramente leggibile a causa del suo attuale stato di conservazione. L’identità della Santa martire alle spalle del Calasanzio è incerta. Tradizionalmente è nota come S. Agata, ma piuttosto sono propenso a vederla come S. Caterina d’Alessandria. La martire catanese porta come tradizionale attributo i propri seni tagliati sopra un vassoio, elemento che non si vede nel dipinto; oltretutto il culto di S. Agata non è granché diffuso da queste parti, né credo lo fosse in passato. È plausibile allora che si tratti di Caterina d’Alessandria, se si vuol riconoscere, a fianco del Calasanzio all’estremità del quadro e all’altezza della sua mano sinistra, un frammento della ruota spezzata della martire. [G.L.] Bibl.: Lanera 1988, 1990; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

93. TRINITÀ CON S. S. LUCIA, VINCENZO FERRERI, GIUSEPPE CALASANZIO E CATERINA D'ALESSANDRIA (1771) Castellana, S. Leone Magno Olio su tela, cm 240x153 cattivo s. d. c.; cadute di colore


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94. MADONNA DI COSTANTINOPOLI CON S. S. DONATO E BIAGIO (1771) Castellana, S. Leone Magno Olio su tela, cm 240x160 restauro 1994 ca.; buono s. d. c.

Firmata su un sasso “OPUS VINCENTII FATO A CASTELLANA 1771”, la pala presenta la Madonna col Figlio in presenza di due Santi molto venerati a Castellana. S. Donato si riconosce dalla vicinanza con una luna all’orizzonte (ed è infatti il patrono dei lunatici, ossia degli epilettici); il vescovo armeno ha ai suoi piedi il libro con la palma e lo strumento del martirio (e lo si invoca contro il mal di gola). È da rilevare il sottile dettaglio naturalistico delle pagine consumate e pieghettate agli angoli del libro aperto di S. Biagio, indice della particolare cura che il Fato aveva per ogni elemento anche marginale della composizione. [G.L.] Bibl.: Taccone 1979; Lanera 1988, 1990; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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Il dipinto è firmato “VINCENTIUS FATO / INV. ET PINXIT 1773” sopra un sasso nei pressi di S. Pietro. Costituisce il naturale pendant alla pala dell’Immacolata collocata sulla parete opposta del transetto della chiesa, e realizzata dal pittore due anni prima. Al Serafico Padre e al riformatore spagnolo dell’Ordine appare in estatica visione la Vergine e il Bambino Gesù attorniati da un luminoso e festante coro di presenze angeliche tra le nubi. Sullo sfondo, una decorosa esecuzione di paesaggio costiero, aperto all’orizzonte tra i due Santi inginocchiati. [G.L.]

Bibl.: Pacifico 1853; Mariella 1979; Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000.

95. MADONNA DEGLI ANGELI CON S. S. FRANCESCO D’ASSISI E PIETRO D’ALCANTARA (1773) Capurso, S. M. del Pozzo Olio su tela, cm 300x190 ca. restauro 2004; buono s.d.c.


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96. MATER DOMINI (1773-1787) Castellana, collezione privata Olio su tela, cm 55x45 ca. - buono s. d. c.

Databile negli anni estremi della sua produzione. Il Bambino ha la stessa postura che si trova nella Mater Domini del Purgatorio di Putignano, ma è anche vicino all’analogo soggetto del Caroseno (1785). Proviene dal casato dei de Giorgio di Castellana, ed aveva una precedente collocazione in palazzo Giampietro. Rientra nella produzione del pittore destinata alla devozione privata. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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Il dipinto è firmato “VIN.S FATO P. / 1776” in un angolo in basso a sinistra nei pressi del S. Giovanni. Presenta la Madonna tra le nuvole col Gesù Bambino benedicente, seduto sulla gamba sinistra della Madre. Il Figlio regge un globo sormontato da una croce, osservando una tradizione iconografica che, attraverso numerose varianti, si riallaccia al filone dell’arte copta (Di Mizio). A terra si trovano S. Giovanni Battista, patrono di Putignano, e S. Antonio di Padova, ciascuno con i propri attributi iconografici. [G.L.] Bibl.: Marascelli 1933; Di Mizio 1980; Lanera 1988; Lanzilotta 1999-2000.

97. MADONNA DI COSTANTINOPOLI CON S. GIOVANNI BATTISTA E S. ANTONIO DI PADOVA (1776) Putignano, S. Maria di Costantinopoli Olio su tela, cm 131x95 - mediocre s. d. c.


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98. SALVATOR MUNDI (1776-77) Putignano, S. Maria di Costantinopoli Olio su tela, cm 58x43 - pessimo s. d. c.; lacerazioni, cadute di colore

Databile intorno agli anni della pala della Madonna di Costantinopoli conservata nella stessa chiesetta. È avvicinabile stilisticamente al quadretto Gesù bambino meditante sugli strumenti della Passione ora in deposito presso i Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico di Bari. L’ovale raffigura Gesù Bambino recante la croce, anticipazione del suo futuro sacrificio per la redenzione dell’umanità. È vestito di una tunica d’intenso rosso porpora, colore che simboleggia il martirio. Lo sguardo è serio e pensoso, non privo di una certa atmosfera melanconica. [G.L.]

Bibl.: Marascelli 1933; Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000.


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Databile intorno agli anni della pala della Madonna di Costantinopoli conservata nella stessa chiesetta. Meglio conservato del Salvator Mundi, raffigura il Dottore della Chiesa durante la sua vita eremitica; inginocchiato e seminudo, con la destra stringe il crocifisso al quale si rivolge pensoso, mentre fa penitenza battendosi il petto con una pietra stretta nella destra. Gli è accanto il leone, e nei pressi è abbandonato a terra il manto porporino con la cappa cardinalizia. Opera tra le più rilevanti della galleria del Fato, di alta fattura qualitativa, specie nella magistrale rappresentazione della natura morta costituita dagli oggetti posti sul tavolino dell’autore della Vulgata. [G.L.]

Bibl.: Marascelli 1933; Di Mizio 1980; Lanzilotta 1999-2000.

99. S. GIROLAMO (1776-77) Putignano, S. Maria di Costantinopoli Olio su tela, cm 58x43 - mediocre s. d. c.; cadute di colore


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100. TOBIOLO E L’ARCANGELO RAFFAELE (1776-86) Noci, collezione privata Olio su tela, cm 41,7x29 mediocre s. d. c.; cadute di colore e riparazioni maldestre

L’ovale, insieme al Giacobbe lotta con l’Angelo della scheda seguente, proviene dalla famiglia Lenti di Noci. Presenta diverse menomazioni che ne compromettono in parte la lettura, riguardo al volto di Tobiolo, a parte del suo corpo, alla parte superiore del dipinto, al cagnolino bianco, verosimilmente giustapposto da altra mano. La figura dell’angelo è integra, e permette di raffrontarla con analoghe versioni quali le figure angeliche dell’Annunciazione Gabrieli, dell’Angelo Custode, dalla collezione nocese dei Gabrieli, o dell’Annunciazione del 1781 nel Purgatorio di Castellana; da quest’ultimo dipinto si può ricavare una presunta datazione negli anni ottanta del Settecento. L’episodio è narrato nel libro veterotestamentario di Tobia, 6, 1-3: un soggetto già interpretato dal Fato in anni giovanili, per una tela di maggiori dimensioni in S. Domenico a Putignano. [G.L.]


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L’ovale, insieme al Tobiolo e l’Arcangelo Raffaele della scheda precedente, proviene dalla famiglia Lenti di Noci. L’episodio è narrato in Genesi, 32, 25-31. In uno scenario bucolico illuminato dalla morbida luce dell’aurora, si fronteggiano i duellanti, efficacemente raffigurati in solenne postura: più che una lotta il pittore sembra suggerire una danza, se non quasi un abbraccio. La tavolozza è quella degli anni tardi, costituita da tonalità tenui e delicate, prevalentemente fredde in cui emerge qualche drappo rosso fuoco: analoghi riflessi si ritrovano in opere quali la Madonna Pastora dei Monfortani di Santeramo, il S. Girolamo o il Salvator Mundi di S. Maria di Costantinopoli a Putignano, o il S. Giacomo Minore in collezione privata a Conversano. [G.L.]

101. GIACOBBE LOTTA CON L’ANGELO (1776-86) Noci, collezione privata Olio su tela, cm 41,7x29 - discreto s. d. c.


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102. MADONNA DEL SUFFRAGIO E ANIME PURGANTI (1778) Conversano, Purgatorio olio su tela, cm 200x160 ca. restauro 2000

L’opera, firmata in basso a sinistra “VINCENTIUS FATO / INVENTIT E[T] PINXIT / A.D. 1778” è concepita come pala d’altare per una destinazione ben precisa: la confraternita del Purgatorio nell’omonima chiesa di Conversano. La tela, che adotta uno schema compositivo già sperimentato dal pittore, è scandita in due parti: nella parte superiore la Madonna circondata da una turbinio di cherubini, testine alate e vapori celesti, si staglia su un cielo livido, immerso in una luce cianotica. Al suo fianco San Michele Arcangelo dotato di apposito bilancino e spada. In basso le anime purganti immerse nude nel fuoco, abbacinate dalla luce, assumono un aspetto sinistro, disperato e tragico, protendono le braccia e i visi verso Maria e verso gli angeli per invocarne l’intercessione e la salvezza. [A.D.T.] Bibl.: Lanera 1988; Pellegrino 1993, 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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Il piccolo ovale era firmato e datato sul retro della tela; con il recente restauro, a causa della rinfoderatura del dipinto, si è perduta ogni traccia della firma, della quale malauguratamente non esiste documentazione fotografica. Proveniente dalla famiglia Francavilla di Castellana. Il Santo si riconosce in quanto ha in mano una clava, suo tradizionale attributo iconografico, e porta appeso al collo un ritratto di GesÚ; infatti secondo la leggenda, Giacomo il minore doveva avere nelle fattezze del viso molta somiglianza al Volto Santo. [G.L.]

Bibl.: Lanzilotta 1999, 1999-2000.

103. S. GIACOMO MINORE (1779) Conversano, collezione Giacomo Macchia Laterza Oolio su tela, cm 46x35 - restauro 1999; buono s. d. c.


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104. S. FILIPPO NERI (1780-82)

IN ESTASI

Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 290x215 - restauro 1994; buono s. d. c.

Di difficile datazione, come del resto la gran parte delle piccole tele e delle cimase del Purgatorio, l’opera sembra posteriore al S. Francesco Borgia del 1738; data l’impostazione reniana, può essere stata eseguita dopo uno dei suoi numerosi soggiorni napoletani. È evidente la ripresa di elementi stilistici di derivazione bolognese, come il particolare disegno delle nuvole ‘a grappolo’, sostenenti la Madonna col Bambino. Di testimonianze figurative del genere il pittore poteva trovarne in buona quantità nella Capitale del Viceregno, dove hanno lasciato opere artisti quali Lanfranco, Domenichino, Reni e altri. Anche questo quadro - come il S. Francesco Borgia - fu trafugato dalla chiesa del Purgatorio la notte tra il 5 e il 6 giugno 1992, e fortunosamente ritrovato dopo pochi giorni in una strada rurale nei dintorni di Castellana. Dopo il restauro è stato finalmente riposto nella collocazione originaria. [G.L.] Bibl.: Pellegrino 1993, 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.


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È la cimasa della pala di S. Filippo Neri, e probabilmente eseguita negli stessi anni. Suggestiva la soluzione compositiva, che mette insieme il motivo del riposo durante la fuga in Egitto con il motivo dell’allattamento del Bambino. Il Fato rappresenta con un segno delicato e amabile una scena di piccola intimità familiare: sopra il sacco coi bagagli si adagia la Madonna alle prese col pargolo, mentre, seduto alle sue spalle, S. Giuseppe pensoso è confortato da un angelo che lo incoraggia e gli indica la strada per la salvezza. [G.L.] Bibl.: Lanera 1988; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

105. RIPOSO DURANTE LA FUGA EGITTO (1780-82)

IN

Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 100x160 - restauro 1998; buono s. d. c.


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106. ANNUNCIAZIONE (1781) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 275x200 ca. restauro dal 1985 al 2002

Secondo il Pellegrino l’opera, firmata e datata, riprende molti caratteri della Annunciazione di Paolo de Matteis che è conservata nel City Art Museum of Saint Louis, Missouri, USA. È impostata secondo uno schema compositivo analogo alla tela eponima di S. Domenico di Putignano; tuttavia rispetto all’Annunciazione putignanese questa è decisamente posteriore. [G.L.]

Bibl.: Pellegrino 1993, 1998, 1999; Pasculli Ferrara 1995; Lanzilotta 1999-2000.


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La tela è cimasa dell’Annunciazione, pertanto databile intorno a quegli anni. L’Eterno è ritratto in atteggiamento più severo rispetto agli analoghi soggetti conosciuti, per esempio quelli delle tele di Mola e dei Paolotti di Castellana, sembra piuttosto rifarsi al modello adottato nella pala de La Madonna del Carmine e S. Simone Stock del Convento Grande di Putignano. [G.L.]

Bibl.: Lanera 1988; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

107. PADRETERNO (1781) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 100x160 ca. restauro 1998; buono s. d. c. (foto prima del restauro)


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108. MADONNA DEL CAROSENO (1785) Castellana, Caroseno Olio su tela incollata su rame, cm 120x90 discreto s. d. c.; piccoli fori sulla tela

Il quadro copre un affresco seicentesco sull’altare maggiore. La datazione dell’opera si ricava da diversi documenti, conservati nell’Archivio di S. Leone Magno. Di alcune carte si è già detto nei Cenni biografici; desta un certo interesse anche un documento, nel quale sono riportate le parole del committente: "Mi faccio esito di carlini cinque e sono per lo sparo nel giorno che si pose all’altare il nuovo quadro […]" (Archivio di S. Leone Magno, libri di Caroseno, 6, conto del 1785/86, del procuratore don Francesco Macchia). L’impostazione della scena è qui variata: il Bambino non è più seduto su una gamba ma è adagiato su un panno bianco, tenuto fra le braccia della Madre. Sia Gesù che la Madonna hanno lo sguardo rivolto all’osservatore. Non si tratta di uno dei lavori migliori usciti dal pennello del brav’uomo, ormai prossimo al termine della sua carriera artistica. [G.L.] Bibl.: Lanera 1980, 1986, 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.


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È la pala dell’altare maggiore, firmata in basso a destra: “OPUS VINCENTII FATO / A CASTELLANA; A. D. 1785. AE. SU.E A. 80”. Per la prima volta, alla firma solita con nome, cognome e patria, l’anziano pittore aggiunge l’età; dato, che ci permette, in mancanza di migliori documenti in proposito, di risalire grosso modo al suo anno di nascita, verosimilmente il 1705. Lo stesso anno dell’esecuzione della presente pala, il Fato detta testamento, sentendosi ormai prossimo alla fine dei suoi giorni; preso allora da un certo sentimento di orgoglio per la sua “nobile professione”, ha quindi tenuto a voler lasciare del suo ricordo ai posteri qualche informazione in più. La grande tela racchiude in sé tutto l’impegno, la volontà di perfezione, la maestria, il sunto estetico di oltre sessant’anni di attività artistica, come s’è visto (cfr. terzo capitolo) non sempre colma di onori, del pittore castellanese. Dopo il recente restauro è possibile individuare i numerosi pentimenti, ripensamenti, rapide coperture ed istintive correzioni, visibili anche ad occhio nudo, particolarmente tra gli angeli. Si notino, tra l’altro, i seguenti: la riduzione del volume della testa di un cherubino, tra la Vergine e le anime sulle nuvole; entrambe le ali dell’angelo con le mani giunte al di sotto di queste; l’ala sinistra dell’angelo che solleva l’anima d’un chierico, e la stretta di mani tra loro; tutto l’altro angelo che libera l’anima d’un laico, con ritocchi su ali e braccia. La Madonna è soavemente raffigurata nell’atto di accogliere a braccia aperte le suppliche delle anime espianti, e nel contempo inviare gli angeli perché portino al Cielo alcune di loro, il cui momento è finalmente giunto. [G.L.]

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Bibl.: Lanera 1988; Pasculli Ferrara 1995; Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000.

109. MADONNA DEL E ANIME PURGANTI (1785)

SUFFRAGIO

Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 308x210 restauro 1994 ca.; buono s. d. c.


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È cimasa dell’altare maggiore. Il pennello del Fato comincia qui a manifestare una certa stanchezza: si evince la mano incerta, che fa propendere la datazione agli anni estremi della sua produzione. Probabilmente posteriore alla Madonna del Carmine. Il gesuita è raffigurato seduto su di un giaciglio di paglia, in riva al mare; protende lo sguardo al Cielo, in attesa del riposo eterno, confortato da alcuni cherubini. Il soggetto si carica di una forte componente autobiografica; come ha osservato giustamente il Pellegrino, «Il nostro pittore si paragona proprio al missionario delle Indie che ha terminato la sua missione, la sua avventura terrena. Il mare, che invita a raggiungere nuovi orizzonti, non lo interessa più, non è più tempo di navigare, di tentare nuove avventure, non è più tempo di dipingere». [G.L.]

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Bibl.: Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

110. SAN FRANCESCO SAVERIO MORENTE (1785-86) Castellana, Purgatorio Olio su tela, cm 100x170 ca. restauro 1994 ca.; buono s. d. c.


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Sicuramente l’ultima opera del pittore, firmata e datata, ma lasciata incompleta alla sua morte e successivamente completata da Pietro Bardellino. Il dipinto era destinato a essere collocato sulla fiancata sinistra del Cappellone della Madia, e di fronte doveva venire un altro quadro del Fato, ma l’avvenuta sua morte troncò i suoi lavori. L’anno seguente il Capitolo di Monopoli mandò a Castellana il pittore Antonio Maria Drago a ritirare le due tele “delli due quadri, una dei quali era pittata e l’altra imprinita”…” (Archivio Unico Diocesano di Monopoli, Registro dei conti, 26 agosto 1789). Dopo di che il Capitolo decise di allogare al Bardellino i due simmetrici quadri sulle fiancate del Cappellone. La firma su un sasso in basso a destra riporta: “VINCENTIUS FATO P[INXIT]. A[NN]O AE[TATIS]. SUAE 83 A. D. 1788”. Non è dato di sapere a che punto esattamente fosse stata lasciata l’opera alla morte dell’autore. Sentendosi con i giorni contati (il buon notaio Pace il 29 gennaio del 1788 lo trova ormai a letto infermo) presumo che avesse completato tutte le figure, e almeno la parte inferiore della tela. La scena narra dell’approdo a Monopoli di una zattera (madia) recante un’icona della Vergine col Bambino; è ambientata presso la Cala Porta Vecchia, anziché all’antico porticciolo monopolitano. Sullo sfondo si intravedono le lingue di terra verso Brindisi e il torrione a destra dovrebbe essere quello ivi esistente alla fine del Settecento, successivamente trasformato nell’attuale casa Zaccaria (Tartarelli). All’orizzonte costiero, si distingue l’antica abbazia gerosolomitana di S. Stefano. Nel gruppo di destra, due uomini tra la folla si distinguono rispetto agli altri: uno, dall’aspetto signorile, sembra dialogare con l’osservatore in un gesto di presentazione della scena; l’altro, più anziano e con la barba, ha il busto parzialmente girato verso l’osservatore, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo rivolto alla Sacra Icona, in atteggiamento di fede e fervore. Con giusta osservazione il Di Mizio individua in tale figura l’autoritratto del Fato, tesi che condivido. Particolarmente acute sono le motivazioni che lo studioso addotta a sostegno, incentrate sul ruolo del bianco cagnolino che è nei pressi. Scrive infatti: «[il cane] pare uscito dal riquadro in cui sono scritti i dati anagrafici dell’autore e punta il musetto verso il vecchio in preghiera mentre ancora non ritira la zampetta posteriore destra dalla parola “Vincenzo”: pare che sia lì per stabilire un collegamento tra il nome e la persona che lo porta. Né sfugge la possibilità di un valore simbolico dell’animale: fedeltà all’arte, al credo religioso, alla sua Castellana da cui si congeda prima ancora di portare a compimento l’ultima fatica. “Nelle tue mani, o Signore, raccomando il mio spirito; a questa tela, che raccoglie i frutti di energie estreme, affido le mie sembianze. Amen”». [G.L.]

Bibl.: Olivieri 1954; Tartarelli 1960; Lanera 1960, 1968, 1988; Bellifemine 1979; Senesi Albanese 1981; Di Mizio 1981; Pasculli Ferrara 1994, 1995; Pellegrino 1998, 1999; Lanzilotta 1999, 1999-2000, 2000, 2001.

111. ARRIVO DELLA MADIA NEL PORTO DI MONOPOLI (1788) Monopoli, Cattedrale Olio su tela, cm 230x325 - cattivo s. d. c.; tela allentata, lacerazioni


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Opere di attribuzione discussa o parzialmente autografe

112. SACRA FAMIGLIA CON S. S. ANNA E GIOACCHINO (1725-35) Castellana, S. Francesco di Paola Olio su tela - cattivo s. d. c.

Attribuzione di Nicola Pellegrino, che condivido con qualche riserva; la tela richiama certi elementi che potrebbero datarla, se autografa, agli anni della produzione giovanile. [G.L.] Bibl.: Pellegrino 1997, 1998; Lanzilotta 1999-2000.

113. MADONNA DELLA VETRANA CON S. S. VITO, NICOLA BARI E ANTONINO DA FIRENZE (1725-35)

DI

Castellana, S. Francesco di Paola Olio su tela - cattivo s. d. c.

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Forse opera di collaborazione. Attribuzione parziale di Nicola Pellegrino, per quanto riguarda le figure dei S. S. Nicola e Antonino; come nel caso della tela precedente si potrebbe formulare una datazione precoce, intorno agli anni della produzione giovanile. [G.L.] Bibl.: Pellegrino 1997, 1998, 1999; Lanzilotta 1999-2000.

114. ADORAZIONE DEI

PASTORI

(1725-31)

Napoli, già in S. Maria ai Monti Olio su tela - trafugato nel 1991

Attribuzione di chi scrive e della Cisternino (com. or. 2001). Purtroppo l’impossibilità di visionare direttamente l’opera non consente un’analisi più approfondita. Databile al primo soggiorno napoletano. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

115. PRESENTAZIONE AL TEMPIO (1725-31) Napoli, già in S. Maria ai Monti Olio su tela - trafugato nel 1991

Attribuzione di chi scrive e della Cisternino (com. or. 2001). In particolare ritorna la figura femminile di spalle, in primo piano sulla sinistra. Databile al primo soggiorno napoletano. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.


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116. GESÙ TRA I DOTTORI (1725-31) Napoli, già in S. Maria ai Monti Olio su tela - trafugato nel 1991

Attribuzione di chi scrive e della Cisternino (com. or. 2001). Databile al primo soggiorno napoletano. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

117. S. IRENE (1725-37) Monopoli, S. Francesco d’Assisi Olio su tela - restauro 1995 ca.; buono s. d. c.

Proveniente da S. Maria Amalfitana a Monopoli. Attribuzione di Nicola Pellegrino, che ritengo piuttosto dubbia; puo` forse trattarsi di opera di collaborazione, altrimenti posteriormente ritoccata. Secondo il Bellifemine si tratta di un "pittore napoletano di primo $700#. [G.L.] Bibl.: Bellifemine 1982; Lanzilotta 1999-2000.

118. ANNUNCIAZIONE (1741-52) Napoli, S. Maria del rifugio Olio su tela - buono s. d. c.

Opera di ottima fattura, si attribuirebbe al Fato per le corrispondenze stilistiche in particolare nel viso della Vergine, nella raffigurazione degli angeli e dei cherubini. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

119. ADORAZIONE DEI

PASTORI

(1741-1752)

Napoli, S. Maria del rifugio Olio su tela - discreto s. d. c.; parti mancanti.

Opera più sofisticata e forse per questo meno convincente della precedente, ne costituisce il pendant. [G.L.] Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

120. GESÙ BAMBINO MEDITANTE SUGLI STRUMENTI DELLA PASSIONE (1755-80) Bari, Castello Svevo; deposito del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri Olio su tela - mediocre s. d. c.; cadute di colore

Proveniente dal sequestro dei beni accumulati illecitamente da Gaetano Bellifemine. Attribuzione dello scrivente; è probabile che appartenesse ad una chiesa di Monopoli. [G.L.]

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IV | VINCENZO FATO - CATALOGO DELLE OPERE

121. NOLI ME TANGERE (1755-80) Bari, Castello Svevo; deposito del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri Olio su tela - pessimo s. d. c.; cadute di colore; quasi illeggibile

Come il dipinto precedente, proveniente dal sequestro dei beni accumulati illecitamente da Gaetano Bellifemine. Attribuzione dello scrivente; è probabile che appartenesse ad una chiesa di Monopoli. [G.L.]

122. S. GIUSEPPE COL BAMBINO (1755-80) Castellana, collezione privata Olio su tela - restauro 2000; buono s. d. c.

Attribuzione del Pellegrino (com. or. 2000). Fatesco è il Bambino Gesù, ma il S. Giuseppe non è molto convincente. Può trattarsi di opera di bottega con interventi del maestro. [G.L.] 172

Bibl.: Lanzilotta 1999-2000.

123. NATIVITÀ DI MARIA (1768-80) Conversano, Purgatorio Olio su tela; cm 200x160 ca. restauro 1999; buono s. d. c.

La Natività di Maria, una delle poche scene al femminile dell’iconografia religiosa, fin dalle più antiche rappresentazioni costituiva un pretesto per incantevoli e realistiche raffigurazioni della camera di una partoriente e dell’affaccendarsi di amiche e vicine. Proprio per questo carattere totalmente umano e terreno, le scene della Natività di Maria costituiscono preziosi documenti storici e di costume con numerosi dettagli di arredo e abbigliamento. Elementi di singolare preziosità si possono certamente rintracciare in questa tela, di notevole interesse soprattutto per un certo indugiare su particolari “laici” di raffinata eleganza.


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In primo piano quattro figure femminili circondano Maria appena nata e la preparano per il bagnetto: la premura e la dolcezza dei gesti accompagnano i primi delicati respiri della bimba, sotto gli occhi premurosi di Gioacchino che assiste all’evento mantenendosi ad una rispettosa distanza. La donna che ha tra le braccia Maria potrebbe essere sua cugina Elisabetta: si giustificherebbe così la particolare cura che emerge nella raffigurazione dell’abbigliamento della donna rispetto alle ancelle a lei vicine. E’ importante sottolineare, infatti, che spesso i particolari di un’opera relativi alle così dette “Arti Minori” sono di notevole rilievo non solo per la datazione di un’opera e per individuare l’ambito storico-artistico di provenienza ma anche e soprattutto per confronti con altre opere dello stesso artista. In questo caso l’abito di Santa Elisabetta richiama quello di altri personaggi fateschi: nello specifico sono possibili accostamenti per il particolare smerlo delle maniche con l’Allegoria dell’elemosina di Castellana, con Cristo e la Cananea di Napoli con


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S. Lucia del Purgatorio di Putignano e con le allegorie della Speranza e Carità del 1768 nei depositi di San Benedetto a Conversano. In secondo piano Sant’Anna è distesa in un grande letto, le mani giunte e lo sguardo al cielo come segno di commossa riconoscenza, attorno a lei due ancelle con un vassoio di cibi e vivande per ristorare la partoriente, mentre la terza ancella si allontana varcando l’uscio della porta. La raffinatezza dell’opera si manifesta, in modo particolare, in alcuni interessanti dettagli di oreficeria che spiccano per eleganza e ricercatezza: gli orecchini delle donne – tutti diversi per motivi decorativi e per la scelta delle pietre preziose – offrono un interessante catalogo dell’arte orafa tardo settecentesca. Singolari sono anche le acconciature delle donne, elemento che confermerebbe la derivazione napoletana dell’opera o almeno il confronto con tale ambito artistico, che sappiamo essere stato di notevole rilievo nel percorso formativo del Fato. Scrive Adelaide Cirillo Mastrocinque in relazione al costume napoletano seicentesco: «l’acconciatura è un semplice pezzo di mussola chiara inamidata, che si piega e si accomoda sui capelli intrecciati e fissati in una crocchia sulla quale si appunta con spilloni che l’attraversano». L’attenzione rivolta a particolari di oreficeria suggerisce un possibile confronto con altre opere di Vincenzo Fato: il medaglione di San Michele Arcangelo nella chiesa di San Domenico a Putignano; le spille che decorano l’abito dell’Angelo Custode (Castellana, collezione privata) e quelle dell’abito di Santa Lucia nella chiesa del Purgatorio di Putignano. Lo stesso schema composito dell’opera ricalca, del resto, quello della perduta Natività dell’Amalfitana, opera giovanile del Fato purtroppo misteriosamente scomparsa. Il pavimento e gli angeli festanti sono inoltre un ulteriore elemento di confronto con opere dell’artista. Il tema della Natività di Maria, inoltre, si lega a doppio filo con la Confraternita del Purgatorio o del Suffragio: come testimoniano le fonti, nella chiesa di San Martino, nel quartiere di San Cosma a Conversano, antica sede della confraternita c’era infatti un altare sormontato da una quadro raffigurante la Natività della Vergine “sub qua militant fratres” (Fanizzi). E’ probabile dunque che i confratelli del Purgatorio dopo la commissione al Fato della Madonna delle anime purganti, nell’attuale chiesa del Purgatorio, spinti dalla devozione - e dalla stima nei confronti dell’artista - abbiano a lui commissionato la realizzazione di questa interessante tela, opera della maturità del Fato, che si può pertanto datare tra il 1768 e il 1780. [A.D.T.]

Bibl.: Fanizzi 1990; Cirillo Mastrocinque 1991; L’Abbate 1997.


IV | VINCENZO FATO - CATALOGO DELLE OPERE

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124. TRINITÀ CON S. VINCENZO FERRERI Castellana, il Salvatore Olio su tela, cm 250x180 ca. - cattivo s. d. c.

Proveniente da S. Leone Magno in Castellana, la tela è firmata e datata “W:S LONGO PINXIT 17[3]0”. Tuttavia il Pellegrino è propenso a credere che si tratti di una firma posticcia, avendo il dipinto “tutto lo stile del Fato” (Pellegrino 1997, p. 54), dato che non si ha alcuna notizia nelle fonti di questo Longo, né si conoscono altre opere. Lo scrivente lo ritiene vicino all’ambito di Giovan Battista Lama o di Nicola De Filippis, allievo del De Matteis; del Lama si conosce una pala di soggetto e stile analogo conservata in S. Teresa a Monopoli. [G.L.] Bibl.: Pasculli Ferrara 1982; Pellegrino 1997; Lanzilotta 1999-2000.


IV | VINCENZO FATO - CATALOGO DELLE OPERE Opere documentate ma irreperibili o perdute di cui non esiste documentazione fotografica

125. MADONNA DELLA MADIA (“QUADRO GRANDE”) 126. S. VINCENZO FERRERI (“QUADRO GRANDE”) 127. MADONNA DEL CAROSENO (“QUADRETTO”) 128. S. PASQUALE (“QUADRETTO”) 129. S. LUIGI (“QUADRETTO”) 130. CRISTO SCHIODATO DALLA CROCE (“QUADRETTO”) 131. MADONNA CON S. GIUSEPPE E CORO D’ANGELI (“QUADRETTO”) Presumibilmente degli oli su tela, i summenzionati dipinti compaiono nel testamento del prete don Giuseppe Sgobba di Castellana, documento rogato nell’agosto del 1811. Allo stato attuale delle ricerche non sono rinvenuti. Nella chiesa castellanese dell’Immacolata esiste un “quadretto”, quasi illeggibile per le cattive condizioni di conservazione, raffigurante una Deposizione dalla croce: che si tratti del dipinto al n. 130? Un auspicabile intervento di restauro potrebbe scioglierne il mistero. [G.L.] Bibl.: Mastromarino 2002.

132. S. BIAGIO (1735) Monopoli, già in S. Maria Amalfitana Olio su tela - irreperibile

Menzionata per la prima volta dal Tartarelli, poi dal Bellifemine; come già per la Natività di Maria, anche di quest’opera si sono perse le tracce; oltretutto non esiste una benché minima documentazione fotografica a riguardo. [G.L.] Bibl.: Tartarelli 1960; Bellifemine 1982; Lanera 1988; Lanzilotta 1999-2000.

133. S. PIETRO APOSTOLO Putignano, già in S. Maria la Greca Olio su tela, cm 300x200 - irreperibile

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L’autografia del Fato è testimoniata dall’avvocato putignanese Giovanni Casulli nel suo manoscritto sulla storia della città (s.d., circa 1886). Alla p. 139, f. 1542, durante la descrizione degli arredi della chiesa scrive, accennando anche ad altre opere non meglio precisate: “dei vari quadri fra quali quelli di S. Pietro e di S. Paolo, che fece nei primi del 1600 (sic), Vincenzo Fato di Castellana”. Insieme al suo pendant S. Paolo Apostolo, la tela risulta ancora in loco nel 1937-38, documentata dalla scheda doppia n. 4 della Soprintendenza firmata M. Luceri, la quale attribuisce entrambi i dipinti ad una generica “scuola napoletana”. La studiosa ne descrive l’opera: “S. Pietro in un antro roccioso … a mani giunte sguardo al Cielo”. [G.L.] Bibl.: Galiani 1994.

134. S. PAOLO APOSTOLO Putignano, già in S. Maria la Greca Olio su tela, cm 300x200 - irreperibile

Per la ricostruzione storica del dipinto vedi scheda precedente. Insieme al suo pendant S. Pietro Apostolo, la tela risulta ancora in loco nel 1937-38, documentata dalla scheda doppia n. 4 della Soprintendenza firmata M. Luceri, la quale attribuisce entrambi i dipinti ad una generica “scuola napoletana”. La studiosa ne descrive l’opera: “S. Paolo seduto, rivolto tre quarti verso destra guarda i libri sparsi a terra. Nello sfondo a destra orizzonte infuocato”. [G.L.] Bibl.: Galiani 1994.


ADDENDA AUTORI DELLE SCHEDE

Mariella Intini [M.I.] Mario Alberto Pavone [M.A.P.]


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Il dipinto raffigura la Madonna col Bambino. Seduta e ripresa di tre quarti, la Vergine contempla il Bambino che le dorme in grembo, nudo e placido. È rappresentata mentre, portato l’indice della mano sinistra alla fronte reclinata, in atteggiamento assorto, sta quasi per prendere, con la sua, la manina destra del Figlio che stringe una piccola croce. In alto a destra, tre cherubini si affacciano in direzione del fascio di luce che investe il viso e il collo della Madonna e che invece si modula, diminuendo l’intensità, per carezzare dolcemente il Bambino che riposa. La raffinata composizione riesce ad infondere una certa serenità in chi la osserva: “consolazione”, stando al titolo assegnatole, titolo più spesso utilizzato in ambito cultuale agostiniano. L’opera, non firmata, fu “pennellata dall’eccellente Luca Giordano”, secondo quanto attestava il canonico Gianfrancesco Cassano, che compose una storia di Noci intorno al 1720. Per volontà del padre Definitore del locale convento dei Cappuccini, Francesco Giacomino da Noci, detto il Vecchio, fu eretto l’altare dedicato alla “Madonna della Consolazione” e fu istituita la festa nel giorno della domenica in albis, in ricordo del giorno in cui il dipinto fu solennemente allogato. Una frase vergata sul frontespizio di un libro di prediche, stampato a Venezia nel 1665 e appartenuto alla libreria del convento nocese, riferiva che la figura “del famoso pittore

LUCA GIORDANO MADONNA COL BAMBINO DETTA MADONNA DELLA CONSOLAZIONE (ante 1690)

Noci, SS. Nome di Gesù Olio su tela, cm. 84,5 x 57,5.


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chiamato il Giordano” fu donata al frate Francesco da un nipote musicista (innominato), nell’anno 1690. Morto il Giacomino nel 1706, la festa della “Consolazione” continuò ad essere celebrata e la Madonna sotto questo titolo invocata dai Nocesi per ottenere grazie, soprattutto la pioggia durante gli anni di siccità e carestia. Pietro Gioia, che ricostruì e pubblicò una storia di Noci e del circondario tra il 1839 e il 1842, accolse la versione che attribuiva l’opera (“quel pregiatissimo quadro, che si teneva l’originale”) a Luca Giordano, ma non prese posizione né approfondì le indagini. Nel 1941 l’ex chiesa del soppresso convento dei Cappuccini fu elevata a terza parrocchia di Noci e fu intitolata al SS. Nome di Gesù. La cerimonia ufficiale che segnò l’insediamento del primo parroco, don Anastasio Amatulli, e la fondazione della parrocchia si tenne il 4 novembre 1945. A partire da quell’anno, per volere del parroco e con il concorso dei parrocchiani, la chiesa fu ristrutturata e ampliata su progetto dell’arch. Pasquale Carbonara, fornita di nuovi arredi sacri, consacrata nel 1962. Non tutte le immagini devozionali appartenute ai frati francescani, statue e tele, pur se restaurate presso l’allora Soprintendenza Gallerie di Bari (?), trovarono collocazione nella “nuova” chiesa. La tela della Madonna della Consolazione, restaurata nel 1968, fu spostata nell’ufficio parrocchiale (prima di tutte le operazioni effettuate risultava misurare cm 100 x 75; ora mancano pressappoco 15 cm per lato. Esaminando il quadro ci si rende conto che è dipinta la parte di tela piegata in corrispondenza del telaio). Assegnata al Giordano da Michele D’Elia, secondo altri è opera di un allievo o di un imitatore del celebre artista. [M.I.] 179

Bibl.: Gioia 1839-42 (rist. 1970); Da Valenzano 1926; Notarnicola 1931 (rist. 1995); D’Elia 1964; Tateo 1984; Cassano 1999; Gentile 1999; Intini 2000.


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Secondo i dati forniti in sede d’asta (Babuino, Via dei Greci 2/a, Roma, catalogo della vendita 21-23 ottobre 2003, n. 31, pp. 40-41), il dipinto « già in collezione privata a Perugia, proviene dall’Ungheria, originariamente come legato del Vescovo Miclòs Nagyvàradi, dall’eredità del conte Nikolaus Szèchènyi, vescovo di Grosswardein, Vàszon (Leinwand)». Come richiedeva la prassi di bottega, il bozzetto preparatorio destinato al committente quale prova tangibile dell’impegno assunto, per il quale veniva versato un anticipo, costituiva una realizzazione preliminare di particolare rilievo per l’impegno dell’artista in merito al risultato finale. Nel periodo di permanenza in bottega, prima della consegna definitiva, l’opera diveniva punto privilegiato di osservazione, verso cui si orientavano i tentativi di imitazione degli allievi, molti dei quali supportati dall’intervento dello stesso maestro. In molti casi venivano realizzate alcune repliche per soddisfare le richieste di amici e conoscitori che avevano apprezzato particolarmente il risultato conseguito. Di qui la diramazione anche in provincia di esperienze maturate nella stretta cerchia dell’artista proponente. Nel caso della tela in questione dobbiamo appunto considerare che si tratta di un’opera realizzata nell’ambito della bottega di Francesco Solimena e portata a termine sotto il suo diretto controllo, come lascia supporre il rilievo dato alle tinte dal marchio chiaroscurale. La tela va ricondotta al bozzetto per la pala di uguale soggetto realizzata dal Solimena per Santa Maria Egiziaca a Forcella, di cui dà notizia il De Dominici (Vite de’ pittori, scultori e architetti napoletani, Napoli, 1742, III, p. 585): «D’ugual forza di chiaroscuro, ma di tinta più vaga sono i quadri esposti nella Chiesa di S. Maria Egiziaca, presso Porta Nolana, ove espresse in uno la B. Vergine con S. Agostino e S. Monica, e nell’altro la stessa SS. Vergine con alcuni Santi Carmelitani». Il Bologna (Francesco Solimena, Napoli, 1958, pp. 81, 92, 263), nel riprendere tale testimonianza, indicava in collezione Busiri Vici a Roma «il bozzetto dell’opera (o forse soltanto una buona copia di esso)». Quanto alla datazione, lo studioso riprendeva una traccia documentaria del D’Addosio (Documenti inediti…, in “Archivio Storico delle Provincie Napoletane”, 1920, p. 114), per indicare il 1696 come anno di esecuzione di ambedue i dipinti di Santa Maria Egiziaca. Secondo quanto ho avuto modo di precisare successivamente (M. A. Pavone, Francesco Solimena in Donnalbina, in “Studi di Storia dell’arte”, 1991, pp. 203-242; Pittori napoletani del primo Settecento: fonti e documenti, Napoli 1997, p. 140) la pala agostiniana dell’Egiziaca, dopo il restauro, ha rivelato la data 1690, che ha dato conferma al documento reso noto dal Rizzo (in “Storia dell’arte”, 1990, p. 386): « A.S.B.N., Banco di S. Maria del Popolo, giornale di cassa, matr. 566, 14 marzo 1689: A Suor Camilla M. Paolucci D. 50 e per esso a Francesco Solimena disse sono in conto di un Quadro haverà da fare nella loro Chiesa del Monastero dell’Egiziaca…». Dal confronto con la pala di Santa Maria Egiziaca traspaiono elementi di stringente affinità strutturale, anche se la tela di piccolo formato non contiene, nella parte alta della composizione, gli elementi architettonici sviluppati dal Solimena per dare un risalto monumentale all’opera definitiva, come il riferimento al partito architettonico sovrastante i capitelli corinzii. La rispondenza

FRANCESCO SOLIMENA E COLLABORATORE

(NICOLA MARIA ROSSI?) MADONNA CON BAMBINO IN TRONO TRA SANT’AGOSTINO E SANTA MONICA Salerno, Collezione privata Olio su tela, cm 96x74,5


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iconografica risulta comunque completa fin nei minimi dettagli, come nella scritta “Confessioni” sul dorso del volume posto sul gradino, che viene richiamato dall’angelo per indicarne l’autore in Sant’Agostino. Venendo ad un esame del risultato finale della tela in questione va osservato che l’opera, pur riferendosi al bozzetto preliminare della citata pala dell’Egiziaca, costituisce un tentativo di rielaborazione di tale tematica maturato, tra gli anni venti e trenta del Settecento, all’interno dell’accademia del Solimena e sotto il suo specifico controllo. La ricerca cromatica testimonia un orientamento volto ad avvalorare il risalto chiaroscurale, ma anche a conciliare l’effetto luministico con un’impostazione statica e monumentale, sulla scorta di quanto operato dal Solimena nel momento della svolta classicistica maturata intorno al 1690, in occasione della tela con l’Allegoria delle virtù regali, oggi a San Pietroburgo (Museo dell’Ermitage). Risulta evidente l’assenza, percepibile nell’esemplare dell’Egiziaca, di elementi tipici degli anni ’80-’90, quali il “macchiato” giordanesco, inserito in un’atmosfera densa di vapori, o la particolare morbidezza delle carni e dei panni, che si individua nelle tele del Solimena fino agli esiti delle tele di Donnalbina, della seconda metà degli anni ’90. Il particolare rilievo dato alle stoffe, indagate nel loro spessore materico consente raffronti, per il Sant’Agostino, sia con il più anziano dei re magi nella Adorazione di Donnalbina, che con il San Gennaro della Cattedrale di Napoli e con quello della collezione Harrach a Schloss Rohrau. Il putto in primo piano ha la solida resa di quello ai piedi del San Ruffo della cappella del Palazzo Ruffo a Napoli, come di quelli della Madonna del Gonfalone di Santa Maria degli Angeli ad Aversa. Le scelte indicate permettono di risalire ad interventi diretti del Solimena in un contesto generale dove si viene precisando l’operato di un allievo, che andrà identificato con Nicola Maria Rossi, specie se si confrontano gli esiti della tela con quelli dei bozzetti e delle relative tele finali realizzate per la chiesa della Croce di Lucca ed ora in deposito presso la chiesa dell’Abazia di Cava dei Tirreni. Al Rossi, stretto seguace del metro solimeniano, che raggiunse l’apice della propria affermazione negli anni del viceregno austriaco, come è testimoniato dalle commissioni dell’Harrach, vanno riferite alcune tipiche definizioni figurative, come quella del Bambino, che si ritrova in una posa simile nella Visione di San Giuseppe Colasanzio del Museo di Dunkerque. La sua cifra stilistica è inoltre riconoscibile dall’andamento dei panneggi, confrontabile, per la Vergine, con i risultati delle figure danzanti nella Festa di Piedigrotta (Schloss Rohrau, collezione Harrach), e, per la Santa Monica, con le vesti delle Sante Chiara e Rosa (Napoli, Incoronata a Capodimonte). Anche la fuga prospettica, che sigla la chiusura scenica facendo perno sulla sequenza delle colonne, consente rimandi ad alcune delle sue più significative composizioni. In ultimo va osservato che il dipinto, ora a Salerno, mostra evidenti segni di ridipintura in alcune parti, quali, la testa della Vergine, e la figura dell’angelo con le mani giunte, posto sulla destra. [M.A.P.] Bibl.: De Dominici 1742 ; D’Addosio 1920; Bologna 1958; Pavone 1991, 1997; Hermery in AAVV 2001; Contursi - Pavone 2002.


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FRANCESCO SOLIMENA LA VERGINE IMMACOLATA CON BAMBINO IN GLORIA Nocera Inferiore, Convento di Sant’Andrea (attualmente presso il Convento dei Cappuccini di Nola) Olio su tela

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La tela occupa la parte centrale del polittico dei Cappuccini di Sant’Andrea a Nocera Inferiore. L’opera si inserisce tra i dipinti realizzati dal Solimena per i diversi ordini religiosi presenti nell’agro nocerino sarnese e in particolare per i nuclei attivi a Nocera: località dove aveva avviato il proprio apprendistato presso la bottega paterna (cfr. il recente contributo: Angelo e Francesco Solimena nell’Agro Nocerino-Sarnese tra continuità e alternative, a cura di G. Contursi, M. A. Pavone, Salerno 2002). Le scelte pittoriche adottate dal Solimena in tale circostanza, oltre ad


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essere funzionali a rafforzare il tono solenne nella presentazione della Vergine rivelano il ricorso ad un vigoroso impasto cromatico-luministico, che consente di confrontarne l’esito con i risultati conseguiti in alcune delle tele di Donnalbina e in particolare nella Natività. La figura della Vergine nella tela in questione, dal punto di vista della scelta tipologica, va posta in relazione alla figura femminile che funge da protagonista nella tela del Museo di Tolosa (cfr. F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli, 1958, fig. 139; A. Hermery, in Settecento. Le siècle de Tiepolo, catalogo della mostra, Lille, 2001, pp. 272-273). Mentre la tela della cimasa, raffigurante il Padre Eterno, appare piuttosto legata alla produzione del padre Angelo, per la vigorosa impronta chiaroscurale, oltre che per l’intervento quasi calligrafico che connota la definizione del capo e delle mani, i due pannelli laterali alla tela centrale, con Sant’Andrea e San Francesco in estasi, spettano a Nicola Malinconico. Pertanto la data 1702, apposta alla cornice, consente non solo di circoscrivere cronologicamente tale produzione, ma anche di assistere alla compartecipazione dei due artisti napoletani al complesso pittorico voluto dai Cappuccini di Nocera. Tale lavoro, a più mani, se testimonia un obiettivo confronto tra i due maestri, e, nel caso del Malinconico, rimanda ad esiti quali il San Francesco dei Santi Bernardo e Margherita a Napoli (1694), permette inoltre di richiamare alla memoria le tappe che segnarono la decorazione di Donnalbina, affidata in parte e in primo luogo al Solimena, e poi completata dal Malinconico, proprio nel 1702 (cfr. M. A. Pavone, Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti, Napoli, 1997, pp. 112121). [M.A.P.] 184

Bibl.: Bologna 1958; Hermery in AAVV 2001; Pavone 1997; Contursi - Pavone 2002.


GIACOMO LANZILOTTA

CRONOLOGIA E REGESTO DEI DOCUMENTI DI VINCENZO FATO



VI | VINCENZO FATO Cronologia

Giacomo Lanzilotta CRONOLOGIA DI VINCENZO FATO: FATTI, OPERE, DOCUMENTI

1705 ca. nasce, forse a Castellana in Terra di Bari, da Giampietro e Francesca Alfarano; 1719-28 presunta formazione presso la bottega di Paolo De Matteis (che muore nel ’28); forse a questo periodo risalgono i primi soggiorni a Napoli; 1729-40 presunta attività in S. Domenico a Putignano (13 tele di cui una firmata, l'Annunciazione); 1730 1731 1732 Natività di Maria, Monopoli, S. Maria Amalfitana; 1733 1734 documentato a Castellana come collaboratore dello scultore fra’ Luca ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Cola Monsullo, 1734, n. Principino (A 8504, cc. 44 e seguenti); 1735 Immacolata con Santi, Castellana, cappella rurale di S. Michele; S . Biagio, Monopoli, S. Maria Amalfitana; documentato a Castellana, nominato in ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio un atto del notaio Sabbatelli (A Sabbatelli, protocollo 1735, inserto che segue a c. 201t); 1736 documentato a Castellana, nominato in un atto del notaio Cola Monsullo, in merito alla vendita di venti stoppelli di terre, siti in contrada Monte Sassonio ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Cola Monsullo, 1736, c. 73); (A 1737

Sigle:

1738 S. Francesco Borgia, Castellana, Purgatorio;

ASB Archivio di Stato di Bari

1739

ASL Archivio di S. Leone Magno di Castellana Grotte

1740 1741 Mater Domini, disegno; Circoncisione con Santi, Rutigliano, S. Domenico;

ADC Archivio Diocesano di Conversano AUD Archivio Unico Diocesano di Monopoli APSDS Archivio Parrocchiale di S. Domenico Soriano di Napoli ATSG

1741-52 decennio di permanenza stabile a Napoli; ha lo studio (e verosimilmente l’abitazione, ivi o nei pressi) in via dell’Avvocata al Mercatello, rione dei quartieri spagnoli; 1742 8 opere per il Tesoro di S. Gennaro nel Duomo di Napoli (A ATSG, doc. H/80, Spese mensili fatte per la chiesa, aprile-settembre 1742; doc. CF/20, n. 1297, Spese diverse per la sacrestia, 1743; doc. GG/13, aa. 1741-1751, Giornale del Tesoro del Glorioso S. Gennaro, 22 maggio 1743);

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VI | VINCENZO FATO Cronologia

1743 il 17 ottobre sposa Antonia Picardi (A APSDS, Registri matrimoniali, vol. 1740-1746, a. 1743, 17 ottobre, p. 21v); Pala di Frasso Telesino; Addolorata di Manfredonia; 1744 Madonna del Carmine, Castellaneta, S. Giuseppe; APSDS, Registro dei 1745 nasce Giovan Pietro Fato, battezzato il 30 giugno (A Battezzati, vol. 1740-46, 30 giugno 1745, p. 80r); 1746 1747 2 storie di S. Francesca Romana, Napoli, S. Anna dei Lombardi; 1748 1749 1750 1751

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1752 durante il viaggio di ritorno da Napoli, sosta alla taverna d’Orta in Capitanata, ove il 9 aprile la moglie partorisce Maria Saveria; la neonata viene battezzata sul posto dal rev. Giannantonio Cardone di Castellana, anch'egli in viaggio con la famiglia del pittore; dal documento battesimale apprendiamo che ASL, Registri battesimali, 12 il padrino fu tale Giuseppe di Giorgio, di Napoli (A maggio 1752); 1753 presunti lavori a Mola di Bari, S. Nicola; ASL, Registri battesimali, 16 otto1754 gli nasce un’altra figlia, Grazia Maria (A bre 1754); 1755 dipinge a Monopoli, S. Francesco d’Assisi; documentato a Castellana ASL, libro degli introiti ed assieme al suo presunto fratello Paolo, sacerdote (A esiti, 16 maggio, pp. 170, 172); 1756 dipinge a Monopoli una pala d'altare per il Purgatorio; ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Cola 1757 documentato a Castellana (A Monsullo, 1757, c. 19), dove si legge che il Fato abitava "nel vicinato della Piazza pubblica"; 1758 dipinge il piccolo S. Leonardo per la cappella di S. Cesario della chiesa matrice di Putignano; 1759


VI | VINCENZO FATO Cronologia

1760 1761 altri 3 dipinti in Monopoli, S. Francesco d’Assisi; gli nasce la quinta figlia, ASL, Registri battesimali, 4 gennaio 1761); Marianna (A 1762 1763 1764 da questa data è probabile che scelga di stabilirsi definitivamente a Castellana; tuttavia mantiene contatti con Napoli, da dove si fa inviare le tele ‘imprimite’; 1765 Madonna del Carmine e S. Simone Stock, Putignano, Convento Grande; forse esegue altri lavori; 1766 documentato a Castellana, in merito alla vendita di un fondo in contrada ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Vitantonio Campanelli, La Cupa (A 1766, c. 5t); 1767 documentato a Castellana; difficoltà economiche; chiede al Capitolo di S. ASL, conclusioni capiLeone Magno una dilazione al pagamento di un censo (A tolari, 25 gennaio, p. 277r); due dipinti per il Caroseno a Castellana, documenASL, conclusioni capitolari, 25 agosto, p. 286r), un dipinto per il Carmine tati (A a Putignano, un dipinto per S. Leone a Castellana; 1768 Adorazione dei pastori, Noci, Natività; lettera del 24 gennaio a d. Michele Manuzzi, avvocato del Monastero di S. Benedetto a Conversano: si parla di due tele commissionate dalle monache al pittore; si tratta dei quadri allegorici Carità e Speranza, quest’ultima firmata e datata lo stesso anno, conservate tuttora nei depositi del Monastero; sempre nella lettera dichiara che la sua famiADC, Conversano, monasteri soppressi, S. glia è composta da dieci persone (A Benedetto, corrispondenza comune, 24 gennaio, s. n.); il giorno 22 febbraio il pittore castellanese ricevette dal Monastero di S. Benedetto la somma di ducati 10 e grana 30, quale probabile pagamento parziale del lavoro commissionato ADC, Conversano. Monasteri soppressi. S. Benedetto. Bilanci, busta 11, fasci(A colo 9, f. n. i.); in luglio consultato per la decorazione del coro del Caroseno ASL, conclusioni capitolari, 17 luglio, p. 300v); (A 1769 1770 S. Vincenzo Ferreri, Putignano, Conservatorio S. M. degli Angeli; Miracolo di S. Mauro, Massafra, S. Benedetto; professione di fede di una sua figlia nel detto monastero; gravi difficoltà economiche; dichiara in una lettera “di essere caduto in lacrimevole povertà”, e che la sua famiglia è composta di otto persone; nella stessa data il Capitolo concede un prestito al Fato di 15 ducati al 5% ASL, conclusioni capitolari, 22 luglio, p. di interesse; cautela del notaio Pace (A 5v + epistola seguente s. n.; miscellanea "rinfranchi di capitali", 14 agosto, p.

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260v); 1771 dipinge a Castellana, S. Leone Magno, varie opere; S. Pietro d’Alcantara, Capurso, S. Maria del Pozzo; Madonna Pastora, Santeramo, Monfortani; 1772 1773 Madonna degli Angioli con S. Pasquale Baylon, Capurso, S. Maria del Pozzo; 1774 difficoltà economiche; chiede un prestito, parte per i suoi bisogni, parte ASL, conclusioni capitolari, 9 per coprire precedenti debiti; vari documenti (A gennaio, 15 settembre; cartella censuari, vol. 1106, 15 settembre, p. 248r); 1775 gli muore il figlio Pietro; ricevuta di pagamento del pittore (A ASL, cartella censuari, vol. 1106, 5 febbraio, p. 384v); 1776 dipinge 3 tele a Putignano, S. M. di Costantinopoli; 1777 1778 Madonna del Carmine, Conversano, Purgatorio; 1779 S. Giacomo Minore, Conversano, collezione privata; 190

1780 è nominato tra i ‘galantuomini’ nell’elenco dei debitori del Capitolo di S. Leone; il debito riguarda l’anno precedente e ammonta a 3 ducati e 60 [grana]; è anche documentato il pagamento del censo di 3 ducati per l'annata 80/81; vari ASL, conclusioni capitolari, 26 marzo, pp. 63v, 64r; libro degli documenti (A introiti ed esiti, 16 maggio, p. 1r); 1780-86 in questo periodo presumibilmente esegue le cimase degli altari del Purgatorio a Castellana, e altre decorazioni della chiesa; 1780-84 tale Samuele Fato, forse un parente, firma l’unico suo quadro conosciuto 178..? a Galatone. Non essendo egli nominato nel testamento del 1785, se ne deduce che: a) non è figlio del Fato; b) se lo fosse (nato forse a Napoli?), dovrebbe essere morto entro il 1785, sicchè avrebbe realizzato la tela entro tale data; 1781 Annunciazione, Castellana, Purgatorio; è documentato il pagamento del ASL, libro degli introiti ed esiti, 16 magcenso di 3 ducati per l'annata 81/82 (A gio, p. 1r); 1782 è documentato il pagamento del censo di 3 ducati per l'annata 82/83 ASL, libro degli introiti ed esiti, 16 maggio, p. 1r); (A 1783 gli muore un altro figlio, Francesco; il cappellano del Caroseno trova una


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ricevuta del pittore di 6 ducati per il ritratto della Mater Domini che si farà in ASL, conclusioni capitolari, 1 maggio, p. 83r); è documentato il pagarame (A ASL, libro degli introiti ed esiti, mento del censo di 3 ducati per l'annata 83/84 (A 16 maggio, p. 1r); 1784 è documentato il pagamento del censo di 3 ducati per l'annata 84/85 ASL, libro degli introiti ed esiti, 16 maggio, p. 1r); (A 1785 dipinge a Castellana per il Caroseno e il Purgatorio; il 10 maggio fa testaASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Giuseppe mento; documentato (A Domenico Pace, 1785, cc. 47 e seguenti; ASL, libri di Caroseno, 6, conto del 1785/86, del procuratore don Francesco Macchia); è documentato il pagamenASL, libro degli introiti ed esiti, 16 to del censo di 3 ducati per l'annata 85/86 (A maggio, p. 9); 1786 il sacerdote Oronzo Montanaro definisce "eccellenti pitture" i quadri del ASL, conclusioni capitolari, 13 luglio, Caroseno "di S. Pietro e di S. Giovanni" (A p. 108v); è documentato il pagamento del censo di 3 ducati per l'annata 86/87 ASL, libro degli introiti ed esiti, 16 maggio, p. 1r); (A 1787 incomincia nel suo studio castellanese l’Arrivo della Madia, Monopoli, Cattedrale, che lascerà incompleto alla sua morte; è documentato il pagamento ASL, libro degli introiti ed esiti, 16 del censo di 3 ducati per l'annata 87/88 (A maggio, p. 1r); 1788 il 29 gennaio, malato, sul letto di morte, detta al notaio Giuseppe ASB, Schede notarili, Castellana, Domenico Pace il codicillo al testamento (A Notaio Giuseppe Domenico Pace, 1788, cc. 36 e seguenti). Il 6 febbraio muore a Castellana, nella sua casa di via del Gelso; viene seppellito, secondo le sue volontà, nella chiesa della Confraternita del Purgatorio, della quale era confraASL, Registro dei morti, 6 febbraio 1788); per il funerale del pittore furotello (A ASL, Libro del procuratore no spesi ducati dieci, grana ventotto e cavalli nove (A generale, 1788, s. n.); 1789 il Capitolo di Monopoli manda a Castellana il pittore Antonio Maria Drago a ritirare la tela dell'Arrivo della Madonna della Madia, più un'altra tela delle stesse dimensioni che era stata allogata al defunto pittore; ma delle due, solo AUD, Registro dei la prima era stata dipinta, e l'altra appena "imprimita" (A conti, 26 agosto 1789).

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REGESTO DEI DOCUMENTI

ASB, Schede Notarili, Castellana, Notaio Giuseppe Domenico Pace, 1785, cc. 47 e seguenti.

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Testamento nuncupativo del magnifico D. Vincenzo Fato. Die decimo mensis maii, millesimo septingentesimo octuagesimo quinto, indictione tertia, Castellanae. Regnante /. Nella nostra presenza personalmente costituito il magnifico D. Vincenzo Fato della terra di Castellana, il quale considerando lo stato fragile e caduco dell’umana natura, e non esservi cosa più certa della morte, ed incertissima l’ora di quella, dubitando passare da questa all’altra vita senza disporre dei suoi beni temporali, ha stabilito perciò fare, siccome fa, il suo ultimo, nuncupativo testamento […]. Primieramente raccomanda l’anima sua a Dio Padre onnipotente, alla beatissima Vergine Maria e a tutti i suoi santi avvocati e protettori, pregandoli che nel partire farà da questa all’altra vita la vogliano far partecipe dell’eterna gloria. Il suo corpo cadavere però vuole che si sepelisca nella chiesa della congregazione del Purgatorio di questa predetta terra, di dove n’è stato accettato per confratello. E perché il capo e principio di ogni testamento è l’istituzione dell’erede […] perciò esso D. Vincenzo testatore istituisce, fa e di sua bocca nomina in suo universale e particolare erede la magnifica D. Antonia Picardi sua dilettissima moglie, la quale vuole che succeda e debba succedere in tutti i suoi beni stabili […] fuorchè all’infrascritte disposizioni, videlicet: in primis vuole, ordina e comanda esso D. Vincenzo testatore che se mai dopo la morte dell’anzidetta D. Antonia Picardi sua moglie ed erede lasciassero beni stabili o mobili, ne possa disporre solamente della somma di ducati 50, essendo questa la sua volontà. Vuole ordina e comanda esso D. Vincenzo testatore che lasciando beni mobili e stabili dopo la morte di detta sua moglie erede, succeda come erede fiduciario lo Spedale di questa terra di Castellana, essendo tale la sua volontà. Vuole ordina e comanda esso D. Vincenzo testatore che sia esecutore testamentario di questa sua disposizione il dottor D. Francesco Mastromattei, il quale debba procurare la vendita di tutti gli stabili e mobili che forse rimarranno dopo la morte di detta sua moglie erede, e formare un capitale, e di cui i frutti vita durante delle sue cinque figlie monache professe si debbano distribuire e corrispondere alle medesime, cioè un terzo alle due figlie che sono nel monistero di San Benedetto in Massafra, l’altro terzo alle due figlie che sono nel monistero dello Spirito Santo di Casalnovo, e l’ultimo terzo alla figlia monaca che si trova situata nel monistero di Santa Chiara di Conversano, col diritto d’accrescere […], intendendo che ancorchè delle dette cinque sue figlie lasciasse una sola, questa debba avere l’intiero frutto di detto capitale, il quale se fosse soverchio ai propri suoi bisogni, del soverchio vuole che se ne facesse celebrare tante messe per l’anima sua, di sua moglie e dei suoi figli. Dopo la morte di tutte le figlie, dovendo succedere lo Spedale, vuole che dal frutto del riferito capitale in perpetuo se ne debbano distribuire limosine ai poveri di Castellana, coll’intelligenza del vicario1, del parroco, e del sindaco pro tempore, a cui spetta la cura dei poveri, come avvocato dei medesimi, essendo questa la sua volontà. […] Lascia all’esecutore l’aggio dell’otto per cento sulla rendita, con facoltà di eliggere il successore, se prevedesse di morire prima che succeda l’Ospedale. Dovendo […] tal frutto […] distribuirsi per limosina ai poveri di Castellana, siccome s’è detto, tal distribuzione debba farsi a quei poveri che non ponno andar girando per la terra, ma a quei poveri che non ponno per la loro onestà uscir di casa, sfacciandosi2, e che saranno noti e al vicario, e al parroco e

1. Testamento


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al sindaco pro tempore; e se mai tali poveri non fossero tanti che assorbissero tutto il fruttato, quel che avanza si distribuisca agli altri poveri di questa terra di Castellana, essendo tale la sua volontà. Ed insinuato da me notaio ad esso testatore D. Vincenzo che lasciasse qualche cosa al nuovo Albergo de’ Poveri che dalla maestà regnante si sta edificando in Napoli, essendo un atto di cristiana pietà sovvenire i poveri, rispose, essere un povero galantuomo. Et hanc dixit esse suam ultimam et supremam voluntatem […] pro qua fuimus requisiti etc3. Coram Iohanne Longo regio ad contractus iudice, me notario Iosepho Dominico Pace, reverendo domino Vito Nicolao Leone, diacono domino Francisco Sgobba, diacono domino Andrea Pace, clerico domino Antonio Macchia, magnifico domino Dominico La Nera, magnifico Francisco Longo, magnifico Martino Valente, et aliis testibus rogatis4.

2. Codicillo

ASB, Schede notarili, Castellana, Notaio Giuseppe Domenico Pace, 1788, cc. 36 e seguenti. “Codicillo del magnifico D. Vincenzo Fato”. A 29 gennaio 1788. “A richiesta fattaci per parte del magnifico D. Vincenzo Fato della terra di Castellana, ci siamo noi notaio, giudice a’ contratti e testimoni personalmente conferiti nelle case di sua solita abitazione site nella publica piazza, ed ivi giunti abbiamo ritrovato il suddetto D. Vincenzo giacente in letto, ritenuto da infermità di corpo, sano per la Dio grazia di mente, e nella sua perfetta loquela […]. Col presente codicillo esso D. Vincenzo testatore concede tutta la facoltà alla ridetta D. Antonia di lui moglie di poter vendere i suddetti suoi beni a sua elezione, per rinfrancare il debito e per mantenere la sua persona di vitto, vesti, infermità e medicamenti e di qualunque altra cosa alla detta D. Antonia moglie facesse di bisogno, non limitandole somma alcuna, anche che si avesse a consumare tutto il patrimonio, essendo questa la sua volontà. […]”. Interrogato circa l’eventuale lascito all’Albergo dei Poveri “disse non aver che lasciare”.

1 Intendi il vicario generale della badessa di S. Benedetto di Conversano, ordinaria allora del territorio “nullius diocesis” di Castellana. 2 Ovvero i poveri vergognosi , coloro cioè che non hanno di che vestirsi con decenza e pertanto vergognandosi non si fanno nemmeno vedere per strada. 3 “E questa dichiarò che era la sua ultima, estrema volontà […] al qual riguardo fummo noi tutti richiesti, eccetera” (trad. del Lanera, in id., op. cit., 1988, p. 11, nota 3). 4 “In presenza di Giovanni Longo regio giudice dei contratti, di me notar Giuseppe Domenico Pace, del reverendo don Vito Nicola Leone, del diacono don Francesco Sgobba, del diacono don Andrea Pace, del chierico don Antonio Macchia, del magnifico don Domenico Lanera, del magnifico Francesco Longo, del magnifico Martino Valente, e di altri testi appositamente richiesti”

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MARINA FERRERO

SINTESI IN INGLESE E FRANCESE


VII | VINCENZO FATO Sintesi Inglese

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Vincenzo Fato was born in 1705, maybe in Castellana in the Land of Bari. We can deduce the year of his birth undirectly from his last work of art, where the painter wanted to indicate his age, in addition to his signature and the date. The first historical document where he is mentioned in Castellana belongs to year 1734. It has not been cleared up yet where the painter spent his childhood and his youth. It’s certain that when he was thirteen or fourteen years old he was an apprentice, maybe in Paolo de Mattei’s workshop, known during de Mattei’s stay in Puglia in 1713-1719. We can’t exclude that Fato follows his master on his way back to Naples and there he stays for some years, about between 1719 and 1729. His first signed and dated work of art is of 1732, a Nativity of the Virgin in the church of Santa Maria Amalfitana in Monopoli, but surely a long time before that date Fato works as an independent painter. After an attentive stylistical analysis, we can date one or two altar-piece in San Domenico in Putignano about between 1729 and 1732. In this church thirteen canvas by the author are kept and the Annunciation is signed but not dated. In Castellana the painter lives in via del Gelso, close to the main square, corresponding nowadays at via Cesare Battisti. San Francesco Borgia, in 1738, is his first painting in a long series of works for the church of the Purgatory Confraternity in Castellana. Between the second half of 1741 and April 1752 Fato lives constantly in Naples: he has his own home and workshop in via dell’Avvocata al Mercatello, where, at that time, the artists’ district was. Eight paintings of 1742-43, representing Stories of Childhood and miracles of Jesus Christ, are kept in the Treasure of San Gennaro in Naples Cathedral. This one is the most important commission of his own artistic career, even if it happened in not so clear circumstances: some documents came out from the Treasure Archives reporting the transportation of some of these paintings, their framing, the tips for the porter, but nothing is written about the fee for the artist or about the origin of the settlement. About this last question, we can get a ray of light thanks to the recent discovery of four little sketches of the Miracles of Jesus Christ from the Treasure, kept in a private collection and coming from a palace of family Giampietro from Castellana. From the same mansion, inherited from the deceased family of de Giorgio, are an oval by Fato representing a Mater Domini and a Saint Joseph with the Holy Child, now kept in two different private collections. This fact can suggest us a predilection of family de Giorgio towards Fato: we can consider that this family (provincial lords with possession between Naples and the south-east of Bari) has been the first patron of the artist, and maybe they

An outline of the biography


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recommended him at the Deputation, then Fato’s artistic capability made the rest. Living in Naples was for an artist the best way to assert himself. The capital of the South was already a metropolis with more than 320.000 inhabitants, it was a first class artistic centre and arsenal of the best and most modern intellectual energies. Naples offered many opportunities, but there was a very fierce competition; for this reason, from April 1752, Fato decides to go back to Puglia for good. We can imagine how his professional life wasn’t easy, even in his homeland: forced by need, he had to accept commissions with humiliating conditions just to support his “family of ten members”, as he said in his letter of 1768. As written in his testament, all his daughters entered a convent. It has been calculated that the painter spent not less than 1500 ducats to let them become nuns. Because of this, he was in very bad financial circumstances and things got even worse as years went by for many reasons: first of all it was hard to obtain commissions, and the local clergy preferred the easy drawing and the ingratiating style of Carella (his competitor) or a modest and cheap Tatulli. The few commissions he got (the magnificent Madonna and San Simone Stock and two other canvas for the Major Convent in Putignano) were not enough: he could not maintain his family because of the famine of 1764 and because of the poor harvests in his small lands so, from 1767, the painter wasn’t able to pay his rates with regularity. It may be that, from 1764, he no longer gets to Naples, not even for shorts stays. During this period we can suppose his entrance in the Purgatory Confraternity: in its church he will paint many canvas, both large and small ones. Fato, now aged, in the eighth and ninth decade of the century is engaged in the most intense and difficult moment of his career, besides of his life: in poor health and reduced for unclear reasons in indigence, he continues to paint resolutely to support himself and his family and to pay his dues. Between 1770 and 1788 we can count over ten altar-pieces of large dimensions, and a equal number of smaller works of art, where diligence and creative energy appear, as well as a frantic laboriousness, made of continuous reflections, changes of mind and corrections. In his paintings we can distinguish a still strong and skilful stroke, a surprising chromatic freshness, which is the expression of an artist arrived at the limit of his life, but determined in making a reputation for himself against the straits of that moment and only for the glory towards the posterity, just for that honour so desired that “eternally lasts”. A document dated on the 26th March 1780 shows that Fato is in the list

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of the Capitolo’s debtors in consequence of non-payments of the taxes from the years before, but he is mentioned among “the respected gentlemen of this town”. In 1785, when he was eighty years old, he finishes and signs the high altar-piece for the church of Purgatory in Castellana, the Madonna of Carmine with the souls in Purgatory. Feeling his end approaching, the painter, on the 10th May 1785 dictates his last wills to the notary Giuseppe Domenico Pace. His beloved wife Antonia Picardi is the only heir, but in the same time Fato has a munificent thought for his daughters in convent, for the hospital in Castellana and for the poor people. Requested by his notary if he wanted to leave something for the House of the poor in Naples to be built the painter, maybe with a note of grudge towards the capital, answered that “he was a poor gentleman”. Until his infirmity precipitated, Vincenzo Fato was still busy in a great work of art, the largest he has ever made: the Coming of the icon of the Madonna Madia, commissioned by the Diocese of Monopoli for the big chapel of the cathedral. He wanted to sign and represent himself among the pious bystanders: he’s the white-bearded man that a little dog is fixing, while his little paw is laying on a rock where the sign of the artist is engraved: Vincentius Fato pinxit, anno aetatis suae 83, A.D. 1788. After a few days having dictate a codicil to his testament, on the 6th February 1788 Vincenzo Fato dies, provided with the sacraments. He is buried in the church of Purgatory, where he still rests in such a good company, with the angels and saints that he represented in over half of a century of intense, humble and religious work of artist.


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Données biographiques

Vincenzo Fato est né en 1705, peut-être à Castellana dans la Terre de Bari; on peut déduire d’une manière indirecte l’année de sa naissance par ses œuvres extrêmes, dans lesquelles le peintre a voulu indiquer son âge, ainsi que sa signature et la date. Le premier document où on le mentionne à Castellana date de 1734. C’est encore à éclairer où il a passé son enfance et sa jeunesse. On peut donner pour certain que à treize ou quatorze ans il entre dans l’atelier de quelque peintre renommé: probablement chez Paolo de Matteis, connu pendant le sejour de celui-ci aux Pouilles dans les années 1713-1719. On ne peut pas exclure qu’il ait suivi son maître dans sa rentrée à Naples et qu’il se soit établi dans la capitale pendant quelques ans, environ entre 1719 et 1729. Sa première œuvre datée et signée c’est de 1732, une Nativité de Marie dans l’eglise de Sainte Marie Amalfitaine à Monopoli; mais c’est sûr que bien avant cette date il aura operé comme peintre autonome. Après une attentive analyse stylistique, on peut évincer comme une ou deux rétables d’autel en St. Dominique à Putignano peuvent être datés à peu près entre 1729 et 1732. Dans l’église des dominicains sont conservées treize toiles de notre auteur dont une signée mais pas datée, l’Annonciation. A Castellana le peintre a sa maison dans la rue du Mûrier, près de la place, correspondante à l’actuelle rue Cesare Battisti. Le St. François Borgia, de 1738, c’est la première œuvre d’une longue série pour l’église castellanaise de la confrérie du Purgatoire. Entre la deuxième moitié de 1741 et l’avril 1752 le peintre s’installe à Naples ; il a sa maison et son atelier dans la rue de l’Avvocata al Mercatello, que à cette époque était le quartier des artistes. Huit tableaux, représentant Histoires de l’enfance et miracles de JésusChrist du Trésor de St. Gennaro dans la Cathédrale de Naples, appartiennent aux ans 1742-43. Il s’agit de la commande la plus importante de sa carrière artistique, même si c’est passée à la suite de circonstances pas claires: un ensemble de documents résultant des Archives du Trésor se rapportent au transport de quelques-uns parmi ces œuvres, ses encadrements, des pourboires au porteur, mais on tait des honoraires pour l’artiste ou de l’origine de l’emplacement. Une faible lumière éclaire cette question grâce à la recente découverte de quatre petits croquis des Miracles de Jesus-Christ du Trésor, en collection privée, qui proviennent d’un palais de la famille Giampietro de Castellana. Du même palais dérivent aussi un ovale de Fato représentant une Mater Domini et un St.Joseph avec l’Enfant Jésus, hérites de la famille éteinte des de Giorgio et à présent conservés en deux différentes collections privées.

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On peut comme ça déduire que les de Giorgio, seigneurs de province avec propriété entre Naples et le sud-est de la région de Bari, avaient une prédilection pour Fato et peut-être qu’ils furent les premiers mécènes de l’artiste. C’est aussi plausible une signalisation de l’artiste vers la Députation comme protégé de la famille de Giorgio; après, les capacités artistiques de notre auteur fissent le reste. Pour un artiste, vivre à Naples c’était la meilleure occasion pour s’imposer: la capitale du Midi était une métropole avec plus de 320.000 habitants, centre artistique de premier ordre et arsenal des meilleures et plus moderne énergies intellectuelles. Sûrement à Naples il y avait beaucoup de travail, mais la concurrence devait être sans pitié; c’est pour cette raison que, depuis l’avril 1752, le peintre décide de s’installer définitivement aux Pouilles. On peut donc comprendre par intuition comme sa vie professionnelle, même dans sa patrie, n’était pas facile, souvent forcé à rechercher des commissions même à conditions humiliants, pour la subsistance “d’une famille de dix personnes”, comme il dit dans une lettre de 1768. D’après ce qui ressort de son testament, toutes ses filles prononcent ses vœux. On a calculé que pour la dot de prise de voile Fato aura dépensé pour ses filles au moins 1500 ducats. Outre cela, ses conditions économiques empirent sensiblement dans les années, avant tout à cause de l’affirmation d’un goût, dans le clergé local, vers le dessin facile et les tons douceâtres de Carella, son concurrent, ou d’un plus modeste et à bon marché Tatulli. L’exiguïté des commissions (la splendide Vierge et St. Simon Stock et deux autres toiles pour le Convent Grand de Putignano), la famine de 1764 et la pénurie des récoltes dans ses petits crus, ne permettent pas au peintre de soutenir sa famille à tel point que, à partir de 1767, Fato ne réussit plus à payer régulièrement ses impôts. Il est probable que depuis 1764 il ne se rend plus à Naples, même pas pour des brefs séjours. On suppose que dans cette période il entre dans la confrérie du Purgatoire: dans son église il va peindre beaucoup de toiles, grandes et petites. Entre la huitième et la neuvième décennie du siècle Fato, désormais âgé, doit faire face à la période la plus intense et difficile de sa vie et de sa carrière: en santé vacillante et réduit en misère à cause des raisons pas claires, il continue à peindre tenacement, pour soutenir soi-même et sa famille et pour payer ses dettes. Entre 1770 et 1788 on compte plus de dix rétables d’autel de grandes dimensions et autant de plus petite mesure, dont il émerge une telle ardeur, une énergie créative et une activité frénétique, souvent avec nouvelles réflexions, regrets et corrections. On peut apercevoir son coup de pinceau


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encore plein d’énergie et sûr et une surprenante fraîcheur chromatique qui sont expression d’un artiste arrivé à la limite de sa vie mais fermement déterminé à s’affirmer, contre les gênes pendent ce temps-là et regardant à la gloire vers la postérité, seulement pour obtenir l’honneur ardemment désiré que “perpétuellement dure”. Un document daté le 26 mars 1780 atteste des nouvelles difficultés: Fato est dans la liste des débiteurs du Chapitre pour n’avoir pas payé les impôts des années précédents, mais il est nommé parmi “les honnêtes hommes respectés dans cette ville”. En 1785, à l’âge de 80 ans, Fato termine et signe le rétable d’autel majeur du Purgatoire de Castellana, la Vierge du Carmine avec âmes du purgatoire. Le dévot peintre s’aperçoit que la mort est proche et le 10 mai 1785 il dicte ses dernières volontés au notaire Giuseppe Domenico Pace. Il laisse légataire universel sa bien-aimée femme Donna Antonia Picardi; il a aussi une pensée généreuse vers ses filles religieuses, pour l’hôpital de Castellana et pour les pauvres besogneux. A la demande du notaire s’il voulait laisser quelque chose pour l’Auberge des Pauvres de Naples à ériger, Fato, avec peut-être une remarque de ressentiment vers la capitale, repond “d’être un pauvre honnête homme”. Vincenzo Fato, jusqu’à l’aggravation de son état, s’appliquait encore à une œuvre grandiose, la plus grande toile de sa carrière: la Arrivée de l’icône de la Vierge de la Huche, commissionnée par la diocèse de Monopoli pour la grande chapelle de la Cathédrale. Il a voulu se figurer parmi les spectateurs: c’est l’homme à la barbe et cheveux blancs, un petit chien le regarde et sa petite patte s’allonge vers une pierre où la signature de l’artiste est gravée: Vincentius Fato pinxit, anno aetatis suae 83, A.D. 1788. Quelques jour après avoir dicté un codicille sur son testament, Vincenzo Fato meurt le 6 février 1788, muni des sacrements. Il est enterré dans l’église du Purgatoire, et toujours il y repose, en compagnie des anges et des saints qu’il a représentés en plus d’un demi-siècle d’intense, humble et religieux travail d’artiste.

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VINCENZO FATO Bibliografia

Bibliografia

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VINCENZO FATO

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207



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