Nomos - Bollettino di Studi e Analisi

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V NOMOS - BOLLETTINO DI STUDI E ANALISI FEBBRAIO 2013 WWW.MILLENNIVM.ORG

INDICE EDITORIALE

LE NUOVE SFIDE DELL'EURASIA

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OSSERVATORIO GLOBALE

L'UNIONE EURASIATICA 5 I LEGAMI TRA RUSSIA E IRAN NELLO SPAZIO EURASIATICO 7 L'AFRICA CONTESA 8 LA SIRIA, PERNO DEGLI EQUILIBRI GLOBALI 9 UN ORDINE MONDIALE TRIPOLARE? 10 MILLENNIUM AL CONVENGO INTERNAZIONALE DELL'UNIVERSITÀ FEDERALE DI PARAIBA 11 DELEGAZIONE DI MILLENNIUM IN VISITA POLITICA IN LIBANO 11 GEOECONOMIA

I DERIVATI

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EUROPA, EURASIA, EUROSIBERIA

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CRISI SIRIANA E INGERENZA TURCA

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TEORIA GEOPOLITICA DIRITTO INTERNAZIONALE

POLEMOLOGIA

PROFILO STORICO-STRATEGICO DELLA BATTAGLIA DI EL ALAMEIN STORIA I COSACCHI, DALLE ORIGINI ALL'ERA POST-SOVIETICA L'ESILIO DI PIO IX A GAETA FILOSOFIA E TEOLOGIA

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FËDOR MICHAILOVIC DOSTOEVSKIJ

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ARTE

ICONA PREGHIERA DI LUCE 44

INSERTI

INTERVISTA ALLA SEGRETERIA DEL PARTITO COMUNISTA DI SERBIA 48 IL MERIDIONALISMO COME PARADIGMA LATINO AMERICANO - INTERVISTA A ANDRÉ MARTIN 50 BRASILE, TRA INTEGRAZIONE REGIONALE E ASSETTI MULTIPOLARI - INTERVISTA A EDU SILVESTRE DE ALBUQUERQUE 51 LA CRISI SIRIANA, TRA SOLUZIONI DIPLOMATICHE E SCENARI DEGENERATIVI - INTERVISTA A ORAZIO MARIA GNERRE 52 RESOCONTO DEL CONVEGNO "TRADIZIONE E ORTODOSSIE" 53 RECENSIONI LIBIA CAMPO DI BATTAGLIA TRA OCCIDENTE ED EURASIA 54

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DIRETTORE EDITORIALE:

Orazio Maria Gnerre CREATIVE DIRECTOR//DESIGN: Fabio D’Apote, wickedArt OSSERVATIORIO GLOBALE::

Natella Speranskaya, Emmanuel Riondino, Daniele Ciolli, Vincenzo Giaccoli, Francesco Trinchera GEOECONOMIA:: Salvatore Tamburro TEORIA GEOPOLITICA: Gianluca Vevoto, Daniele Cocice DIRITTO INTERNAZIONALE: Mario Forgione TECNOLOGIE: Carmine Giangregorio POLEMOLOGIA: Giuseppe Esposito STORIA: Gianandrea De Antonellis (docente presso l’Università Europea di Roma), Ignatios Sotiriadis (Rappresentante della Chiesa di Grecia presso l’Unione Europea), Luca Bistolfi FILOSOFIA E TEOLOGIA: Giovanni Covino, Andrea Virga ARTE: Gianmarco Marotti COVER:

EURASIATISMO E I SUOI PERCORSI STORICI 30 IL CONFINE DELLA SOGLIA 31 LA NOZIONE DI FILOSOFIA CRISTIANA IN JACQUES MARITAIN 35 UNA RIFLESSIONE STORICO-FILOSOFICA SUL CONCETTO DI DEMOCRAZIA 37 L'OPERAIO 39 PER UN'INTESA TRA LE ORTODOSSIE 40 CRISTIANESIMO INTEGRALE E RICONCILIAZIONE 41

Orazio Maria Gnerre

NOMOS - Bollettino di Studi e Analisi ©2012 - è distribuito con licenza Creativa Commons. Non commerciale.

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LE NUOVE SFIDE DELL'EURASIA Di Orazio Maria Gnerre

L’Eurasia – nella sua accezione specifica di grande spazio centro-asiatico – è definitivamente sulla strada dell’integrazione progressiva e dell’autodeterminazione quale primario attore geopolitico globale. Momentaneamente condotto lungo il binario dell’integrazione economica, questo fenomeno, che ha portato alla formazione della Comunità Economica Eurasiatica (EurAsEc), sta per sviluppare la sua prossima fase, l’Unione Economica Eurasiatica, già ribattezzata con l’acronimo EEU. L’EurAsEc, la comunità dei Paesi eurasiatici, nasce nel ’96 con l’intento di incoraggiare una coesione più stretta tra i paesi della CSI, sotto la cui egida sono riuniti, oltre che la Federazione Russa, prima promotrice del progetto e dei suoi sviluppi futuri, la Bielorussia e gli stans (Kazakhstan, Tagikistan, Kyrgyzstan, con una momentanea sospensione dell’Uzbekistan avvenuta ad opera del suo stesso governo nel novembre del 2008). Tra i suoi vari obiettivi, quelli della formazione dell’unione doganale e di un mercato comune sono quelli che stanno spingendo i vertici degli Stati membri verso la ridefinizione della struttura in una prospettiva di maggiore cooperazione, che supera di gran lunga qualsiasi accordo commerciale regionale, e che punta direttamente alla coesione strategica di tutto il settore centro-asiatico, implementando le varie tessere del multiforme puzzle geopolitico ed etnico russo-eurasiatico in un gigantesco progetto di ridefinizione dell’area quale superpotenza – non più globale, ma “imperiale” nell’accezione multipolare del termine – e grande spazio. Lo spazio eurasiatico, già riconosciuto come polo di civilizzazione autonomo da Oswald Spengler e come grossraum da Karl Hashofer, ritrova nel progetto multipolare la propria vocazione all’integrazione, come non mai dai tempi della Santa Rus’ di Kiev. Il suo fatale posizionamento al centro della World Island di Halford Mackinder rende il suo consolidamento necessario per qualsiasi processo di cooperazione tra grandi spazi e civiltà sul nostro continente, portandoci a ripensarlo quale fattore primario per ogni qualsivoglia strategia macrospaziale comune. Non è avventato dire che il futuro del mondo, che si gioca sul filo della transizione al sistema multipolare, dipenda primariamente dalle sorti del consolidamento del grande spazio eurasiatico, non solo in senso economico, quanto anche in senso militare e strategico. Un’Eurasia forte rappresenterebbe la sicurezza di un’Europa prospera, stabile e libera, e di una mediazione pacifica con il mondo arabo e l’universo cinese in ascesa progressiva. Quelle che vengono sistematicamente definite – attraverso un’interpretazione erronea, frutto di una mancata comprensione del grande cambiamento paradigmatico che sta investendo il modo di concepire le relazioni e gli assetti internazionali – mire di potenza devono essere ripensate alla luce degli obiettivi primari che un grande spazio deve conseguire per garantire la propria sopravvivenza al mondo multipolare, pena l’essere precipitati nell’abisso dell’instabilità completa durante il travagliato periodo della transizione, futuro sempre più plausibile per un’Europa sull’orlo del precipizio. E quella che in Europa va profilandosi sempre più chiaramente come emergenza sociale, nel settore Eurasiatico diverrebbe guerra civile, senza mezzi termini: l’unica alternativa all’ecumenismo etno-culturale di un nuovo modello di cooperazione internazionale quale quello del grande spazio eurasiatico sarebbe il caos, i conflitti interetnici, la sperequazione economica ed il disastro umanitario. In buona sostanza, la prospettiva che si spalancava di fronte ad esso nel periodo immediatamente successivo all’implosione dell’Unione Sovietica. Per quanto l’emorragia derivata dal più grande crollo nella storia del XX secolo sia stata contenuta al meglio, la sfida che il settore eurasiatico a guida russa sta affrontando (e vincendo) oggi è quella del consolidamento interno e del ripensamento dei propri scopi alla luce della pax multipolare, dell’amicizia dei popoli e della messa in sicurezza della World Island dalle mire nordatlantiche, sia sull’Heartland che sul Rimland. L’unica strategia quindi da opporre all’agenda nordatlantica modellata sulla base degli assiomi della geopolitica classica e del pensiero di Mackinder e Spykman è quella di difendere l’Heartland e ricompattarlo, procedendo alla messa in sicurezza del Rimland. Questo dovrebbe significare: ostacolare il tentativo nordatlantico di utilizzare l’India nel processo di contenimento della Cina, proponendosi come mediatore continentale tra la Cina e gli altri attori, dettare una propria linea intransigente sugli assetti del mondo arabo, difendendo a spada tratta il blocco sciita ed opponendosi alle mire neo-imperiali turche, proporre un nuovo modello di cooperazione con l’Europa, chiedendo come prerequisito la sua unità politica, spingendo attraverso i canali dei Paesi europei aperti al dialogo con l’Eurasia (primo tra tutti, l’Ungheria). È soprattutto dalla comprensione dell’impellenza di questi obiettivi che dipende il futuro dell’Eurasia, dell’Isola-Mondo, e dell’ordine multipolare.

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L'Unione Eurasiatica Un quadro generale dell'attuale confiffiigurazione politica russa e dei paesi contigui verso un graduale potenziamento

Di Daniele Cocice

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ntro i prossimi cinque anni la situazione geopolitica del grande continente eurasiatico, spazio vitale per il controllo del nuovo assetto mondiale, si delineerà secondo uno di due differenti scenari possibili, a seconda che le attuali dinamiche politiche ed economiche della fascia di giunzione tra il continente asiatico ed europeo propenderanno per un'apertura od una chiusura. Tale collo di bottiglia separa o unisce l'Europa dall'Asia e rappresenta una zona geostrategicamente importante poiché trovandosi tra due estremi geografici opposti di notevole importanza e potenza designa un luogo di convergenza tra due civiltà che potenzialmente potrebbero unire le forze per favorire lo sviluppo futuro delle intere aree di interesse. Al momento, comunque, è la Russia a tentare concrete modificazioni dell'attuale scenario geopolitico cercando di attrarre a sé i territori confinanti di modo da favorire l'economia sia interna che dei paesi interessati, in visione di un futuro stabile in grado di rilanciare sfide alla concorrenza. L'apertura e quindi la cooperazione sono strategie basilari della politica russa, il da poco inaugurato SEC servirà a stimolare il mercato comune trasformando lo spazio eurasiatico in un'opportunità irrinunciabile: così si trovano a concordare Aleksandr Dugin, filosofo e politologo russo, ed il Console Generale della Federazione Russa, S.E. Alexej Vladimirovich Paramonov, che di recente hanno partecipato ad un seminario patrocinato dal Comune di Modena1. L'EurAsEc, l'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l'Organizzazione di Shangai per la Cooperazione, sostiene il Console russo, sono esempi di vera collaborazione tra i paesi che vi aderiscono. Sì è pertanto ad un livello avanzato nella comprensione e realizzazione del nuovo disegno geopolitico che renderebbe la zona eurasiatica un attore capace di influenzare le nuove dinamiche economiche mondiali, sebbene nella sua progressiva integrazione restino da soppesare le future scelte dell’Ucraina, che si rivelerà essenziale per gli sviluppi economici futuri di cui si parlerà più avanti. Questa appena accennata configurazione geografica rappresenta quasi un segno del destino o, per meglio dire, racchiude la logica del processo storico che la contraddistingue e che interpretata positivamente può suggerire la creazione di una ancora più grande area unificata, un progetto che si sta a tutti gli effetti concretizzando per mezzo dell'Unione Eurasiatica stessa. Tale alleanza consentirà alle arterie eurasiatiche di essere operative senza intoppi, garantendo completa funzionalità all'intero organismo sovrannazionale e soprattutto senza che vi siano ostacoli da parte dell'ingerenza statunitense che in tutti i modi cerca di sfavorire la sua storica controparte, ad esempio emarginandone il ruolo di attore politico internazionale e tentando di smagnetizzare il suo Polo del potere, il quale ha la capacità di ridefinire un quadro territoriale

1 “Verso l’Unione Eurasiatica. Il ritorno della potenza russa?”, seminario organizzato presso il

Palazzo dei Musei dall’Associazione culturale "Pensieri in Azione" in collaborazione con la rivista di studi geopolitici Eurasia, il 24 Marzo 2012.

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L'Unione Eurasiatica non è dunque un progetto russo che ha per scopo la riproposizione pedissequa della vecchia Unione Sovietica.

curandone ogni aspetto, dalle questioni economiche alle crisi etniche e confessionali interne. La Russia, che corre sotto il terzo mandato di Putin, può riuscire in questa impresa, così come lo stesso presidente ha affermato nei suoi discorsi post-elettorali, attraverso il rafforzamento dell'esercito e dell'industria, attraverso l'avanzamento in campo tecnologico, oppure estirpando l'intolleranza che ha imperversato tra le varie etnie per tutto il ventennio successivo al crollo dell'URSS; e può riuscirci soltanto attraverso un’economia ed un apparato statale saldi ed imperituri. La Russia di oggi è in forte ripresa economica e pertanto è in grado di ricreare un'armonia interetnica preservandone il particolarismo culturale accogliendo tutte le varie popolazioni sotto un’unica grande realtà nazionale, dalla comune ed indelebile identità storica. Sempre l'ingerenza statunitense, nel tentativo di emarginare la Russia, vorrebbe ostacolare la collaborazione economica che essa conserva con la Cina, attraverso la Shangai Cooperation Organization (SCO). Il progetto dell’Unione Eurasiatica nasce da un accordo entrato ufficialmente in vigore l'1 gennaio 2012 al quale aderiscono tre stati principi quali la Russia, il Kazakistan e la Bielorussia. Tale progetto si instaura su un'impalcatura già piantata il primo luglio 2011 e che prende il nome di Unione Doganale che fu pensata per ridare vigore ed energia alla Russia post-sovietica ed ai suoi ex stati membri, dopo che la lunga e lenta depressione avvenuta in seguito alla disfatta sovietica aveva prostrato l’intero Paese. In tale alleanza l'unico anello debole può sembrare la Bielorussia, la quale, essendo sprovvista di giacimenti energetici, dipende economicamente da Mosca. Una collaborazione tra i due Paesi può però essere determinante dal momento che la Bielorussia si è soprattutto concentrata sullo sviluppo tecnologico, ma la svolta economica dell'Unione, soprattutto per la Bielorussia, dipende strettamente dal ruolo che giocherà l'Ucraina nei prossimi anni. Come anticipato, saranno due gli scenari possibili, così come ha previsto Zbigniew Brzezinski, massimo esperto statunitense di politica internazionale, a seconda se l'Ucraina, paese dalle ingenti risorse energetiche, entrerà a far parte o meno dell'Unione Eurasiatica. Se ciò non dovesse avvenire, e dunque si optasse per una chiusura e non per un'apertura, non ci sarebbe più alcun epilogo globale multipolare, la Russia cesserebbe di essere un impero eurasiatico, perderebbe la sua stabilità geostrategica, verrebbe continuamente pressata dall'Occidente, ne risentirebbero inoltre i suoi attuali accordi con Pechino e, sebbene possa continuare a lottare per la sovranità, tutt'al più diventerebbe un grande stato asiatico, ma emarginato dallo scacchiere globale e distanziato dall'Occidente. Nella migliore delle ipotesi si ripercorrerebbero i destini dell'ex Unione Sovietica: infatti, uno dei fattori principali della disfatta dell’URSS fu la stagnazione


economica interna che portò al debacle dell'unico garante della stabilità nazionale – il Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (KGB: Comitato per la sicurezza dello Stato) – ed al crollo di tutto l'apparato gerarchico statale; ben si possono scorgere le svolte future, tutt'altro che favorevoli allo sviluppo dell'integrazione dell’intera massa eurasiatica, in questa catastrofica prospettiva di collasso dell’Unione Eurasiatica a guida russa. Al contrario, se l'Ucraina, così come ha previsto Putin, nel giro dei prossimi tre anni entrerà a far parte dell'Unione Eurasiatica, allora, la Russia, così come ogni stato membro dell'Unione, diventerebbe abbastanza forte da determinare quegli effetti futuri certamente auspicabili per tutti coloro che supportano la teoria multipolare. Inoltre si instaurerebbero dei legami più forti tra Europa da una parte e Cina dall'altra, in un clima favorevole alla collaborazione. Dunque due le possibilità nel rapporto Russia-Ucraina: una di apertura e convergenza, l'altra di chiusura e divergenza, con esiti diametralmente opposti per le situazione economica e la stabilità future dell'intero globo.

migliore di quello del Vecchio Continente, a cui però non nascondiamo di esserci ispirati”. Il grande mercato del gas è quell'elemento che permette l'esistenza di una tale alleanza. L’Ucraina, se entrasse a far parte dell'Unione, per mezzo dei suoi giacimenti energetici apporterebbe all'economia di questi paesi un capitale pari a dieci miliardi di dollari, una svolta per Minsk ed un ulteriore sviluppo per Mosca ed Astana. Kiev dovrà dunque scegliere da che parte stare sapendo che non potrà comunque entrare a far parte dell'Unione Europea e che probabilmente la scelta più scaltra sarebbe rivolgersi ad oriente. Molti sostengono questa possibilità: il presidente della Duma (camera bassa dell'Assemblea Federale), Boris Gryslov, ritiene che senza l'Ucraina all'interno dell'Unione questa sia incompleta; il presidente dell'Ucraina Viktor Janukovic appoggerà una tale alleanza soltanto nella formula 3+1; il filosofo e politologo Aleksandr Dugin concorda con quanto previsto da Putin, cioè che entro tre anni e non prima l'Ucraina entrerà a far parte dell'Unione Eurasiatica, spiegando con parole simili a quelle di Putin che questo è un imperativo della storia per la Russia e per lo sviluppo.

Nella strategia americana ed europea ad indirizzo nordatlantico non manca occasione per ostacolare questo processo di unificazione tra Kiev ed il resto dell'Unione, proprio a causa della possibilità sopra descritta; esse vorrebbero che l'Ucraina aderisse al Patto Atlantico, seppur la costituzione del Paese eurasiatico lo impedisca fermamente, dato che ogni tipo di adesione a blocchi militari, come appunto la NATO, è espressamente vietata. È un rischio che non manca però, dal momento che l'Alleanza Atlantica sta già interessandosi alla Georgia senza rispettarne gli ordinamenti giuridici. Se infine la NATO dovesse riuscire nel suo intento, con le successive evoluzioni si potrebbe degenerare in uno scontro militare tra Stati Uniti e Russia, e forse, peggio, in un conflitto globale, se non si riuscisse a contenere lo scontro. Ciò potrebbe accadere, in quanto il territorio ucraino si vedrebbe impiantate basi missilistiche americane che favorirebbero le operazioni militari degli USA nell’area, incrementandone i la velocità d'azione e reazione, il tutto preservando i territori americani dal grosso dei rischi conflittuali per via della grande distanza così interposta, senza garanzie per l'incolumità dell'inter-zona europea. Per quanto l'Unione Eurasiatica sia finalizzata all'esumazione spaziale della massa territoriale dell'ex Unione Sovietica, progetto che si prevede verrà finalizzato intorno all'anno 2015, Putin non è intenzionato a fotocopiarne la struttura e, benché nei suoi recenti discorsi in seguito alla sua rielezione abbia illustrato come la strategia russa sia lungimirante ed apra ampie panoramiche, esaltando la forza del Paese, l'attuale potenziale sia economico che militare, descrivendo diversi ed importanti progetti finalizzati all'accrescimento culturale, scientifico e tecnologico del paese, illustrando gli sviluppi del proprio potenziale di deterrenza strategica2 (il quale rappresenta l’elemento essenziale per il mantenimento dell'integrità nazionale), egli intende effettivamente aggiungere una componente estera sostanziosa all'interno della sua politica attraverso una fitta rete di relazioni internazionali, senza trincerarsi all'interno del seppur vasto territorio della Federazione. In questi ultimi decenni, in cui gli USA sono stati molto impegnati nelle guerre in Iraq e in Afghanistan, la Russia ha potuto ricostruire la propria economia interna, ricucire vecchi rapporti e riorganizzare l'intero apparato statale prendendo accordi con la Cina e mobilitandosi per una grande revisione geostrategica, elaborando una teoria multipolare. Per questo motivo tra gli interessi russi vi è quello di sostenere una stabilità mediorientale contrapposta al caos controllato dalle direttive statunitensi.

Il 18 novembre 2011 i tre presidenti dei rispettivi stati aderenti all'Unione Eurasiatica, D. Medvedev, A. Lukashenko e N. Nazarbaev firmarono la Dichiarazione di Integrazione Economica Eurasiatica e la Dichiarazione della Commissione Economica Eurasiatica e

Parlamentare per la regolamentazione del progetto SEC, il nuovo Spazio Economico Comune che dovrebbe essere in grado di livellare l’economia dei paesi che vi aderiscono. I tre stati dell'Unione Eurasiatica hanno un PIL equivalente a 2000 miliardi di dollari ed un settore industriale valutato 600 miliardi di dollari. L’Unione prevede inoltre di allargarsi introducendo altri due paesi, oltre l'Ucraina, che sono il Kirghizistan ed il Tagikistan. La Banca dello Sviluppo Eurasiatico e l'Istituto di Previsione Economica Nazionale (RAN) prevedono che entro il 2030 vi sarà un notevole aumento del PIL per tutti gli stati membri. Per la Bielorussia, che non produce ricchezza, ci sarà l'opportunità di saldare vecchi debiti e di rilanciare la propria economia. Gli sviluppi futuri dell'intero scenario globale saranno dunque fortemente condizionati sia dalle scelte di Kiev che dagli esiti dell'Unione Eurasiatica nel prossimo decennio.

L'Unione Eurasiatica non è dunque un progetto russo che ha per scopo la riproposizione pedissequa della vecchia Unione Sovietica, come lo stesso Vladimir Putin ha affermato nel descriverne le proprietà: “Cercare di restaurare o di copiare ciò che è confinato nel passato è da ingenui, ma una stretta integrazione su basi economiche e su nuovi valori è un imperativo dei tempi”. Infatti gli stati che vi aderiscono sono del tutto indipendenti e non sottoposti al controllo egemone della Russia, né tanto meno rischiano di incappare in scenari futuri che ne strozzerebbero la libertà e l'autonomia. I paesi che vi aderiscono vogliono avere voce in merito alle questioni politiche: ciò dimostra la volontà di questi stati di operare secondo l'assetto geopolitico multipolare. Mosca vorrebbe addirittura estendere la propria collaborazione con l’Europa, aiutandola ad uscire dall'impasse economica nella quale si trova, integrando le proprie politiche economiche e finanziarie. “Siamo molto meglio dell'Unione Europea, in quanto russi, bielorussi e kazaki si conoscono già – ha dichiarato Medvedev – hanno simili economie, e comune appartenenza all'Unione Sovietica. L'Europa, al contrario, ha integrato economie diverse tra loro, facendo ricadere il prezzo dei nuovi ingressi su una moneta unica oggi in forte crisi – ha continuato – noi, invece, non compreremo a scatola chiusa ed il nostro progetto sarà 2 Da RG.ru. Link: http://www.rg.ru/2012/02/20/putin-armiya.html

Fonti:

A.

Francesca Malizia, L’Unione Eurasiatica, proiezioni e potenzialità di un nuovo polo geopolitico, da Eurasia – Rivista di studi geopolitici. http://www.eurasia-rivista.org/lunione-eurasiat ica-proiezioni-e-potenzialita-di-un-nuovo-polo-geopolitico/12846/.

B.

Yuri Andreev, Eurasian Union and Russia’s Geostrategic Stability, da Strategic Culture Foundation. http://www.strategic-culture.org/news/2012/01/19/eurasian-union-and-russia-geostrate gic-stability.html

C.

Ekaterina Peško, L’Ucraina entrerà a far parte dell’Unione Eurasiatica a prescindere dalla presenza di Putin, da Eurasia – Rivista di studi geopolitici. http://www.eurasia-rivista.org/lucraina-entrera-a-far-parte-dellunione-eurasiatica-aprescindere-dalla-presenza-di-putin/13908/

D.

Giuliano Luongo, Russia e Ucraina: verso la fine della Guerra del gas?, da Geopolitica (Rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie). http://www.geopolitica-rivistaorg/16186/russia-e-ucraina-verso-la-fine-della-guerra-delgas/

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è da considerarsi come un corollario o una evoluzione di quella di ispirazione inglese, risalente al 1904, riguardo al “territorio centrale”, ovvero lo “Heartland”. Quest’ultima zona, delimitata oggi tra la Russia meridionale e l’Iran settentrionale è un passaggio fondamentale per il dominio dell’Eurasia da parte dell’Occidente, in particolare per via delle ingenti riserve di idrocarburi presenti nel Caucaso, nel mar Caspio e nell’Asia centrale. Come non interpretare la guerra e l’invasione dell’Afghanistan in un’ottica geopolitica? L’avventura della NATO in Asia centrale non è altro che il tentativo di destabilizzare l’area che unisce l’Iran, la Russia e la Cina, per il dominio di una regione strategica in ottica geoeconomica. Alcuni intellettuali parlano di una guerra dei gasdotti, per tagliare e troncare il potenziale transito, dalle ex Repubbliche sovietiche come Turkmenistan e Kazakhstan verso l’Oceano indiano, passando per l’Iran. In un colpo solo si metterebbe fuori gioco l’Iran e si isolerebbe la Russia. Un rafforzamento della fascia meridionale dell’Eurasia, con un ruolo centrale dell’Iran, garantirebbe alla Russia la possibilità di non rimanere schiacciata dal peso di Paesi filoamericani ai propri confini, dai membri della NATO (Europa orientale e Turchia), fino al Giappone e alla Corea del Sud, senza dimenticare il ruolo destabilizzante nel Caucaso di Paesi come l’Azerbaijan, ormai nell’orbita occidentale. Passando invece ad una diversa interpretazione del concetto di “spazio eurasiatico”, ovvero di una visione improntata a definire lo “spazio vitale” russo, definito come “estero vicino”, apparentemente i legami di Mosca con Tehran potrebbero sembrare più blandi rispetto all’interpretazione precedente (Eurasia come continente, frutto della somma tra Asia ed Europa). Infatti, i Paesi interessati dallo spazio russo-eurasiatico sono: Bielorussia, Paesi baltici, Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Kazakhstan, Kirghizstan, Tajikistan e Turkmenistan.

I legami tra Russia e Iran nello spazio eurasiatico Di Ali Reza Jalali

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o spazio eurasiatico può essere visto da due prospettive principali. Una di queste è squisitamente geografica, con evidenti risvolti storici e culturali: esso sarebbe la massa continentale eurasiatica, che si estende dalle coste atlantiche europee fino all’Asia orientale. In un’altra accezione, l’Eurasia è la zona di influenza “naturale”, o lo “spazio vitale” russo. Quindi l’Eurasia sarebbe lo spazio geografico comprendente attualmente la Federazione Russa e gli Stati che una volta facevano parte dell’URSS. Gli analisti russi definiscono questa zona a ovest e a sud della Russia, come “estero vicino”, per sottolineare il legame esistente tra il proprio Paese e questi Paesi neonati, affrancatisi dall’Unione Sovietica all’indomani del crollo del comunismo. A seconda della prospettiva e del senso che per noi può avere il concetto di “Eurasia” e di “spazio eurasiatico”, cambia il rapporto che può avere il mondo islamico in generale e l’Iran in particolare con la Russia e l’Eurasia. La questione che dobbiamo analizzare è quindi il rapporto tra l’Iran, uno dei principali esponenti del mondo musulmano, e il principale Paese dell’Islam sciita, con la Russia e lo spazio eurasiatico, in base al punto vista riguardante il concetto di Eurasia. Infatti, se partiamo dal presupposto che l’Eurasia è un continente, in pratica la somma dell’Europa e dell’Asia, in una prospettiva definita “neo-eurasiatista”, il ruolo dell’Iran e del mondo islamico è quello di parte integrante del processo finalizzato all’unità dei popoli del Vecchio Continente, dalle isole britanniche al Giappone. L’Iran rappresenta in questo scacchiere, una parte strategica e fondamentale del bordo meridionale della massa eurasiatica, importantissima per un Paese come la Russia, vista la volontà del governo nordamericano di attuare la cosiddetta “strategia dell’anaconda”, volta a chiudere ogni spazio vitale all’URSS ieri, e alla Russia oggi, grazie a una rete di vigilanza russofoba installata nell’Europa orientale, nel Vicino Oriente e nell’Asia sud-orientale. Inoltre, alleandosi con l’Iran, la Russia risolverebbe il suo vecchio problema legato allo sbocco sui mari caldi. Volendo poi analizzare la questione da una visuale tipicamente geopolitica, si potrebbe aggiungere che l’obiettivo dichiarato degli americani è il controllo di quella fascia costiera meridionale dell’Eurasia (intesa come continente) che parte dal Mediterraneo occidentale, ovvero dalla Penisola iberica, prosegue per tutto il mare “Nostrum”, comprende nella sua parte centrale il Vicino Oriente e l’area strategica e fondamentale per gli equilibri economici del mondo, ovvero il golfo Persico, per poi proseguire verso l’India, l’Indonesia e l’Estremo oriente (Penisola coreana, coste cinesi e Giappone). Questa teoria è stata alla base della “Guerra fredda”, ma sembra avere seguito, in forma diversa, ancora oggi. Il primo a proporre una lettura del genere fu il geopolitico Nicholas J. Spykman, nel suo famoso libro “The Geography of Peace”, pubblicato nel 1944. Egli apertamente sosteneva la seguente tesi: “Chi controlla il territorio costiero controlla l’Eurasia; chi controlla l’Eurasia può dominare le sorti di tutto il mondo”. La definizione di “territorio costiero” (in inglese “Rimland”), rende bene l’idea di una zona che delimita la massa continentale eurasiatica, il controllo della quale, secondo gli analisti americani, è vitale per indebolire la Russia e ridimensionare l’influenza di Mosca nelle dinamiche globali. Questa teoria geopolitica

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L’Iran rappresenta in questo scacchiere, una parte strategica e fondamentale del bordo meridionale della massa eurasiatica.

Al massimo l’Iran può essere considerato come un Paese confinante con questa macroarea russo-eurasiatica; infatti la Repubblica Islamica dell’Iran confina con Armenia, Azerbaijan e Turkmenistan. Chi conosce la storia di questa regione del mondo però, rifiuta la tesi secondo cui non vi sia alcuna connessione diretta tra l’Iran e lo “spazio vitale” della Federazione Russa. Il rapporto tra Tehran e Mosca è storicamente e culturalmente ricco di sfumature e di periodi contrastanti. Non poche volte le regioni comprese tra questi due Paesi sono state contese dal Regno di Persia e dalla Russia zarista. L’incontro, e perché no, anche lo scontro tra la componente iranica e quella russa è uno dei leitmotiv della storia eurasiatica. Anche volendo confermare la tesi dell’Eurasia come uno spazio prevalentemente russo, non si potrà negare l’influenza dell’Iran nel cuore di questo “estero vicino”, e non solo come Stato ai margini del contesto russo-eurasiatico. L’influenza e il legame profondo tra mondo iranico e mondo russo si concretizza principalmente su tre livelli: religioso, linguistico e culturale. Il luogo prediletto di questo confluire di due delle principali nazioni della regione è principalmente l’area caucasica e l’Asia centrale, senza dimenticare il collante naturale tra Russia e Iran, ovvero il bacino del Caspio. A livello religioso, l’influenza principale che ha l’Iran nel contesto russo-eurasiatico è data dal fattore islamico, visto che gli abitanti delle ex Repubbliche sovietiche, oggi emancipate e collocate nella parte meridionale della Federazione Russa, sono in prevalenza musulmani. Ma volendo approfondire il tema, è innegabile che la principale influenza che ha l’Iran in ambito religioso riguarda lo Stato del Caucaso meridionale dell’Azerbaijan, visto che gli Azeri sono in prevalenza musulmani sciiti, come gli Iraniani. L’Azerbaijan d’altronde, pone dal punto di vista geopolitico e geoeconomico non pochi problemi, sia alla Russia che all’Iran, essendo un concorrente di questi due Paesi per ciò che concerne le forniture di energia alla Turchia e all’Europa, senza dimenticare l’orientamento atlantista del governo di Baku. La Russia, giocando anche sull’influenza iraniana nei confronti dell’opposizione islamista sciita, può puntare a destabilizzare il governo di Elham Aliyev, che ha controllato l’Arzerbajan insieme al padre (considerando anche la sua presidenza) per oltre un ventennio. Un altro fattore importante da considerare nel ruolo dell’Iran nello spazio eurasiatico, è quello linguistico. L’influenza della lingua persiana, di origine indoeuropea, è ad oggi viva in Tajikistan, laddove il tagiko, lingua ufficiale del Paese, non è altro che un dialetto persiano. Non a caso i legami tra Tehran e Dushanbe (notare come questa parola in persiano voglia dire “lunedì”) sono molto buoni, e il Tajikistan è governato da Imamali Rahman, presidente con un orientamento filorusso. Ma il fattore in assoluto più importante che l’Iran può giocare nello spazio russo-eurasiatico è


l’influenza culturale. Negli ultimi anni Tehran ha cercato di puntare al dialogo tra le culture affini nel Caucaso e in Asia centrale, concentrandosi sulla “diplomazia del capodanno”. Con questo concetto gli intellettuali iraniani vogliono definire quel processo di aggregazione, portato avanti con forza dal presidente Ahmadinejad, volto a riunire, con la “scusa” delle celebrazioni del capodanno persiano (“Nowruz”, letteralmente “nuovo giorno”), i popoli che festeggiano questa ricorrenza, che cade il primo giorno di primavera. Questa festa infatti, oltre a essere celebrata in Iran, è molto diffusa anche in Paesi come l’Azerbaijan, l’Armenia, la Georgia e in tutta l’Asia centrale, senza dimenticare tracce vive anche in Russia, prevalentemente in Cecenia e Daghestan. Questo processo di aggregazione culturale, che possiamo definire come processo geoculturale, è finalizzato a creare unità nella regione, contro la minaccia dell’espansionismo nordamericano nell’area, concretizzato con la presenza di basi militari occidentali nel Caucaso meridionale e nell’Asia centrale (vedi la base di Bishkek in Kirghizstan), comune preoccupazione di Mosca e Tehran. Come abbiamo visto, il legame tra Russia e Iran è potenzialmente strategico, anche se fino ad oggi si è limitato a questioni tattiche, come per la crisi siriana, dove la Repubblica Islamica e la Federazione Russa sostengono, per motivi diversi, il governo di Bashar Al-Assad. Una ulteriore convergenza tra Mosca e Tehran sarebbe un colpo durissimo per i piani egemonici occidentali: le basi per una maggiore cooperazione ci sono, come abbiamo visto, sia che si voglia procedere all’unità dell’Eurasia come continente, sia come spazio Russo-eurasiatico, che è realizzabile in modo compiuto per Mosca solo attraverso una solida funzione geopolitica Iraniana, volta a neutralizzare le contraddizioni tra la Russia e le regioni a maggioranza musulmana del Caucaso e dell’Asia centrale.

L'Africa contesa Il conffllitto Sino-Statunitense sullo spazio africano

Di Daniele Ciolli

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na delle sfide cruciali del terzo millennio si sta giocando nel continente più ricco di risorse energetiche e minerarie del mondo, cioè l’Africa. In un momento epocale come quello che stiamo vivendo oggi, ovvero il passaggio dalla fase unipolare ad indirizzo statunitense alla fase multipolare, l’accaparramento delle risorse è fondamentale per lo sviluppo delle nuove potenze economiche, interessate ad affermarsi sullo scacchiere geopolitico mondiale con ruoli di prim’ordine. I paesi BRICS in crescente ascesa economica necessitano sempre più di risorse per procedere nel loro sviluppo e per mantenere il loro continuo crescente fabbisogno energetico, e chiaramente anch’essi si rivolgono all’Africa andando a scontrarsi con gli interessi occidentali che dal 1700 fino al 2000 hanno detenuto il monopolio del Continente Nero. È facile immaginare quindi quanto incida e inciderà l’Africa sui prossimi decenni, in cui sempre più nuovi attori geopolitici si affermeranno sul globo, reclamando la propria fetta economica ed energetica. Oggi Paesi come la Cina, l’India, il Brasile, la Russia non si accontentano più delle briciole lasciate da Washington e Bruxelles, ma pretendono giustamente di esercitare il loro ruolo di potenze economiche al pari di quelle occidentali. Ne deriva quindi uno scontro titanico con i vecchi padroni, maldisposti ad abbandonare il proprio dominio incontrastato sul mondo. Analizziamo ora il confronto più importante tra questi attori, cioè l’avvento della Cina come antagonista degli Stati Uniti nella contesa economica mondiale, che proprio in Africa ha i suoi maggiori risvolti. La Cina difatti, negli ultimi anni, con diversi Stati africani sta realizzando accordi strategici in materia energetica, commerciale, tecnologica, sostituendo e spodestando le grandi multinazionali occidentali in difficoltà a competere con il gigante asiatico. Cerchiamo di capire come mai gli Stati africani preferiscano come partner la Cina rispetto alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati uniti ecc. Innanzitutto, l’approccio Cinese nel trattare con i singoli Paesi africani è regolato come un rapporto tra pari. Gli Stati africani si sentono trattati per la prima volta da partner con uguali diritti, e non da popoli dominati. La scelta di non effettuare nessuna ingerenza negli affari interni dei Paesi africani da parte della Cina è un fattore non da poco, che influisce notevolmente in tal senso. Questa noningerenza da parte della Cina è interpretata dagli Stati africani come un riconoscimento di una pari dignità tra le nazioni. L’approccio Cinese è rivoluzionario, rispetto a quello di vecchio stampo colonialista ed arrogante dell’Occidente, che nei confronti dei Paesi africani ha sempre avuto un rapporto di assoggettamento e sottomissione, attraverso aggressioni militari o presenza straniera permanente nei rispettivi territori. Una seconda motivazione del successo cinese è relativa a ciò che viene dato in cambio dell’accesso alle risorse. La Cina in sostanza propone scambi alla pari nei quali, in cambio di risorse, offre la costruzione di grandi infrastrutture come strade, dighe, ponti, centrali elettriche, ma anche scu-

ole, ospedali, case (con l’eccellente livello tecnologico garantito dalla manodopera cinese) e formazione di tecnici ed operai locali che aiutino lo sviluppo degli stessi Paesi. Le compagnie cinesi hanno costruito in Africa all’incirca 60.000 chilometri di strade e collegamenti che hanno favorito enormemente il commercio e il trasporto su gomma, dando impulso notevole alle economie locali. Nessuna occupazione e base militare quindi, nessun ingresso di truppe, ma solo infrastrutture e aiuti economici. È facile capire cosa preferiscano gli Stati africani, quindi… Un terzo aspetto poi è quello delle risorse valutarie della Bank of China, la quale offre ottime condizioni di prestiti a lungo termine a tassi agevolati, con interessi prossimi allo zero. La Cina ha cancellato a fine 2009 oltre 300 debiti senza interesse, per i quali erano impegnate 35 nazioni colpite dai debiti e tra le meno sviluppate dell’Africa. Inoltre la Cina accetta di pagare le famose royality (tasse) che i governi africani chiedono per accedere alle proprie risorse, tasse che le multinazionali occidentali non vogliono pagare, se non a tassi ridicoli imposti con modalità neo-coloniali (l’attacco alla Libia nel 2011 è relazionabile anche alle alte tasse che Gheddafi imponeva per estrarre l’oro e il gas dai suoi ricchissimi giacimenti). In tutto questo c’è da aggiungere l’atteggiamento di profondo rispetto delle popolazioni locali da parte dalle centinaia di migliaia di operai, di tecnici e di imprenditori cinesi che lavorano ai grandi progetti di sviluppo destinati a portare definitivamente l’Africa fuori dalla fame, dalla povertà e dalle devastanti epidemie che ancora mietono milioni di vite di esseri umani. Dominati e massacrati da eserciti stranieri e bande mercenarie, gli Africani stanno finalmente ritrovando dignità nel rapporto di sincera amicizia e di scambio equo con il gigante cinese, assai rispettoso delle differenti culture e politiche dei Paesi in cui opera. Tutto questo sta facendo mutare gli equilibri dell’Africa, in cui la Cina e gli altri paesi BRICS si stanno affermando come alternativa al monopolio precedente. Sono numerosi i Paesi Africani che hanno stipulato accordi strategici con Pechino: l’Angola oggi è il primo fornitore africano di greggio della Cina, che con la costruzione di infrastrutture e prestiti agevolati sta aiutando il rapido sviluppo di Luanda. Altri stretti legami uniscono la Cina al Sudan, alla Namibia, alla Guinea, al Mali, al Ciad, alla Somalia, all’Uganda (in cui la essa è diventata il secondo più grande investitore straniero dopo la Gran Bretagna), al Sud Africa (aggiuntosi ai BRIC, oggi BRICS proprio per questo), all’Algeria, e ultimamente si stanno aprendo ai Cinesi altri Stati come la Nigeria, lo Zimbabwe e il Congo. Nel 2000, in questa direzione di accordi strategici SinoAfricani, è nato il Forum per la Cooperazione tra la Cina e l’Africa (Focac), che ogni anno ripete annualmente. Nel 2006 Pechino ha ospitato più di 40 capi di Stato africani, con i quali ha realizzato accordi su larga scala sul piano della cooperazione economi-

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ca. A tutto ciò è seguito un gran numero di visite di Stato di Pechino in tutta l’Africa, con le compagnie petrolifere e le varie industrie cinesi che simultaneamente hanno firmato diversi accordi miliardari con i governi africani. Il volume degli scambi fra Cina e Paesi africani nel 2011 si aggirava sui 50 milioni di dollari (un aumento rispetto al 2010 di oltre il 70%). Ovviamente Washington non rimane a guardare, e sta operando in tutti i modi possibili per evitare l’ascesa africana di Pechino. Si pensi all’AFRICOM, struttura militare creata nel 2008 e subordinata al Dipartimento Americano della Difesa, impegnata totalmente sull’Africa, che ad oggi non ha ancora trovato un Paese Africano disposto ad ospitarne il quartier generale. Attualmente ha infatti sede a Stoccarda. La funzione ufficiale di AFRICOM, secondo Washington, sarebbe quella di sviluppare nei partner Africani amici degli Usa la capacità di affrontare le sfide per la loro sicurezza e dell’intero Continente. Al di là delle dichiarazioni è chiaro che AFRICOM è stata creata con l’obbiettivo di potenziare la proiezione strategica statunitense, instaurando un legame di dipendenza militare fra le autorità locali e il Pentagono. In tal modo Washington sarebbe in grado di controllare e condizionare le politiche dei singoli Stati Africani a vantaggio dei propri interessi. Non è un caso che tra gli oppositori di tale progetto Statunitense vi fu Gheddafi che, nel 2008, presso l’Unione Africana, riuscì a comporre un vasto fronte in opposizione all’insediamento di AFRICOM sul Continente. D’altronde, i recenti attacchi imperialisti in Libia si inseriscono nell’ottica di contrastare l’ascesa cinese nell’area. In Libia lavoravano oltre 30.000 Cinesi, costretti alla fuga dalla guerra e dalle violenze xenofobe dei fanatici del Consiglio Nazionale di Transizione, sostenuto dall’Occidente. Oppure si pensi al colpo di stato in Costa d’Avorio, avvenuto sempre nel 2011, grazie alla regia di Parigi, che ha deposto il legittimo Presidente Laurent Gbabo, rimpiazzandolo con l’ex dipendente dell’FMI, Alassane Ouattara .

Creando e fomentando la crisi del Darfur si è perseguito l’obbiettivo, arrivando al punto di provocare la secessione, proclamata il 9 luglio 2011, del Sudan del sud dal governo centrale di Khartoum. L’indipendenza del Sud Sudan, che possiede ben l’80% del petrolio estratto in Sudan, è stata ovviamente subito riconosciuta dagli USA e dall’Unione Europea, che l’avevano supportata sin dal 2005, in prospettiva anti-cinese.

Il tutto è principalmente derivato dal tentativo di Gbabo di smarcarsi dal monopolio Francese avvicinandosi a Pechino, per stipulare una collaborazione che per Parigi era inammissibile. Un altro caso eloquente è stato quello in Sudan del generale Omar Al Bashir, il quale ha scambiato il petrolio e minerali del proprio Paese con tecnologie civili e militari e infrastrutture cinesi, divenendo uno dei principali interlocutori africani di Pechino. Per questo motivo il Presidente sudanese è stato raggiunto da un mandato di cattura internazionale spiccato il 4 marzo 2009 dalla Corte Penale Internazionale, con l’ accusa di aver perpetrato una pulizia etnica in Darfur, regione a sud del Paese, nella quale vi è stata una guerra civile provocata dalle milizie fondamentaliste islamiche, con la funzione di destabilizzare l’ordine costituito, e finanziate da CIA e Shin Bet. Milizie inviate attraverso il confine del Ciad, che hanno commesso diverse stragi e scorribande per tutto il sud del Paese, provocando un’emergenza umanitaria e migliaia di sfollati, che sono stati soccorsi dall’esercito lealista sudanese. Nell’incendio della polveriera sudanese vi è stata anche la mano di Israele, confermata anche dall’ammissione dell’ex direttore dello Shin Bet, Avi Dichter, che ha sostenuto ed addestrato le forze indipendentiste del sud con il preciso scopo di impedire al governo di Bashir l’iniziativa di costruire uno Stato forte unitario.

È evidente come la Cina sia divenuta il principale antagonista degli Stati Uniti in Africa. Washington, dal canto suo, sta reagendo con il mezzo che più le si addice: creare deliberatamente caos con lo scopo di minare l’integrità degli Stati africani, i quali in una situazione di instabilità, ingovernabilità e settarismo sono facilmente vulnerabili e sfruttabili dalle multinazionali occidentali. La Libia è il caso più recente ed emblematico: un paese sovrano e con un governo stabile da oltre 40 anni, ricchissimo di enormi giacimenti di gas e petrolio, è stato portato fino alla sua distruzione, precipitandolo nel baratro della guerra civile e delle divisioni tribali, religiose ed etniche. Questo ha portato due conseguenze fondamentali per l’impero Statunitense: in primo luogo, la fuoriuscita della Cina dal territorio libico, in secondo luogo i ricchi giacimenti sono finiti sotto il totale controllo della NATO. Oggi le multinazionali petrolifere occidentali accingono gratuitamente e indisturbate alle risorse energetiche libiche. Di fronte a questo, il gigante asiatico deve riflettere se la sua strategia di non interferenza negli affari interni di altri Stati in situazioni simili sia davvero utile ai suoi interessi e allo sviluppo dell’Africa, o se piuttosto non vada riformulata per garantire l’integrità degli esperimenti politici più stabili, orientati verso i propri interessi e verso un nuovo ordine multipolare.

La Siria, perno degli equilibri globali fi Di Francesco Trinchera

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uella che viene definita “Primavera araba” si dimostra essere un vero e proprio autunno per i popoli liberi, autunno che anticipa un inverno fatto di sfruttamento e oppressione. È ancora fresca nella memoria la capitolazione di Gheddafi, che ha lasciato un paese sviluppato e prolifico in mano a capitribù che stanno facendo ripiombare la Libia nel più oscuro periodo di sottosviluppo. Situazione analoga è quella che avviene nella Siria di Bashar AlAssad. Fantomatiche rivolte dal basso, eclatanti manifestazioni liberal nel nome di una presunta democrazia e centinaia di sedicenti stragi, bombardamenti ed eccidi. La solita ricetta già vista spesso: era ieri che in Romania le forze americane rovesciavano per le strade i cadaveri degli obitori spacciandoli per fucilati dalla Securitate di Ceausescu. Ma la questione Siriana è ben più bollente e complicata di quella Libica o Romena. Se in Libia si trattava principalmente di una corsa al petrolio con la Francia in testa, e in Romania era solo questione di arginare gli ultimi colpi di coda del defunto impero sovietico, in Siria assistiamo a quello che può essere tranquillamente il preludio di un attacco all’Iran. Analizzando il mappamondo

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politico mediorientale osserviamo che la Siria confina con la Turchia, sempre pronta a giostrarsi pur di incorrere nel benestare degli alleati euro-atlantici, con l’Iraq ormai preda del caos e della sopraffazione, con la pentola a pressione libanese, con il pilastro NATO in oriente, ovvero Israele, e soprattutto con il principale obiettivo occidentale, l’Iran. Controllare la Siria, ultimo paese mediorientale apertamente socialista e con un governo in mano al partito Baath, vuol dire dare la stangata finale alla resistenza antimperialista in Medio Oriente. Vuol dire avere sempre più sottocontrollo la situazione mediorientale, in particolare quella libanese. Vuol dire avere un’ottima testa di ponte per un eventuale attacco all’Iran. Non è errato da parte nostra vedere la Siria come l’anticamera al paese degli Ayatollah. Ma a frenare la NATO da un intervento apertamente offensivo come quello libico sono gli unici due colossi che la essa effettivamente teme: la Cina e la Russia, che ogni volta hanno posto il veto in sede ONU all’aggressione indiscriminata. La Russia può tenere sotto scacco l’Europa controllandone i rubinetti del gas, e la Cina detiene come spauracchio buona parte del debito pubblico statunitense. Insomma, non si può rischiare di far perdere il precario equilibrio alla bilancia: scherzare con Cina e Russia è il modo più sicuro per un fallimento economico totale del sistema nordamericano capitalistico. Eppure queste problematiche continuano a pendere come una spada di Damocle sulla testa del legittimo presidente siriano AlAssad. E se la guerra non gliela si può fare direttamente con l’uranio, la si può fare con la temibile strategia mediatica. Gli spezzoni della pellicola offensiva verso l’Islam, “L’innocenza dei Musulmani”, diffusi in rete, senz’altro fungono da benzina appositamente gettata sui focolai ancora bollenti del caos mediorientale. E mentre la Russia fa passare armi alla frontiera per munire la resistenza Siriana, il Papa interviene dal Libano per placare gli scontri ed avversare un intervento armato internazionale, ma ormai in un mondo non più ideologizzato come quello degli anni ‘70 le parole del pontefice non hanno efficacia. Ora ad aver peso sono i conti dei debiti pubblici, e a ben poco possono servire gli inviti alla tolleranza e alla pace del Santo Pontefice. La situazione, sarà ben chiaro, è quanto mai instabile. L’inizio del nuovo millennio si è manifestato, invece che con lo “scontro di civiltà” preconizzato da Francis Fukuyama, con i colpi di coda del capitalismo finanziario in crisi. È qui che gli States giocano una delle loro partite decisive: cedere dinanzi alla Siria vuol dire inchinarsi definitivamente a Russia e Cina e mettersi da parte, schiacciare al-Assad invece significa lanciare il guanto di sfida definitivo alle potenze dell’Orso e del Drago. Ma Dio ci scampi da questa alternativa, perché un conflitto mondiale diverrebbe spaventosamente inevitabile.


Un ordine mondiale tripolare? Traduzione a cura di Luca Manelli.

Di Natella Speranskaja

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onsulente per questioni geopolitiche presso il Comando Operazioni Speciali degli Stati Uniti, direttore del progetto “Global Governance” presso la fondazione “New America” di Washington, l'autorevole politologo Parag Khanna propone una nuova definizione di “Secondo mondo”. Notando l'emergere di una mentalità non ideologica, nel Secondo mondo Khanna include Paesi a metà strada tra Primo e Terzo mondo. Questi Paesi hanno le caratteristiche di entrambi, e il loro scopo, dice Parag Khanna, è il miglioramento reciproco delle relazioni con forti unità politiche come l'Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina. Secondo Parag Khanna, questi sono tre “imperi” che combattono per il dominio globale. Per quanto riguarda la Russia, non la considera come una superpotenza, ma di certo, come uno degli Stati più potenti, la pone infatti allo stesso livello di Giappone e India. Dice Khanna: “Una superpotenza ha portata globale, influenza globale e ambizioni globali. Lo status di superpotenza comporta che il decisionmaking influisca simultaneamente su tutto il mondo.” Khanna mette la Russia nel gruppo dei Paesi del Secondo mondo. Seguendo Brzezinski, vede tale Paese come un premio, ma non come l'attore principale e, condividendo le teorie di alcuni politologi occidentali, afferma che la Russia verrà o sottomessa o integrata, posizione sostenuta da molti esperti di relazioni sino-russe. La visione della Russia da parte dell'Occidente non è incoraggiante: gli analisti della politica internazionale predicono il dominio cinese sulla Russia per i prossimi 50-60 anni. Qual è il ruolo dei Paesi del “Secondo mondo” nell'imminente ordine multipolare? Lo stesso Khanna crede che l'umanità si stia avviando inesorabilmente proprio verso un modello multipolare e che ciò per gli USA significhi una fondamentale perdita di influenza, in quanto in questo modello sono solamente un polo tra altri poli, il che significa che dovranno fare inevitabilmente i conti con l'influenza degli altri, come il Giappone, l'India, la Russia, la Cina o l'Europa. Affinché possano essere attori politici sovrani, a nessuno di questi serve l'approvazione degli Stati Uniti. «Il “Secondo mondo” diventa una zona antimperialista indipendente entro la quale si rafforzano le relazioni interregionali. La Russia ha offerto di costruire reattori nucleari in Iran e Libia, il Kazakhstan e la Malesia organizzano conferenze sullo sviluppo delle relazioni commerciali, Iran, Indonesia e Venezuela costituiscono un cartello del petrolio. I Cinesi volano direttamente in Brasile, i Brasiliani in Africa, gli Indiani investono dappertutto, dalla Siria al Vietnam, e il fondo d'investimento di Abu Dhabi investe il patrimonio dell'Emirato sia a Wall Street sia nella “Nanjing Road” di Shangai, simbolo del miracolo economico cinese. » È da tempo che Parag Khanna ha smesso di considerare l'Occidente come un'unità indivisibile. Egli sostiene la tesi che esistano due poli nello spazio occidentale: l'Unione Europea e gli Stati Uniti (secondo il suo punto di vista, la guerra in Iraq ha privato il concetto di “alleanza occidentale ” di qualsiasi significato). Nel suo libro “The Second World”, scrive che nel mondo futuro ci saranno solo tre poli, ossia i due sopraccitati e la Cina. In questo modo, si comporta come un fautore di un mondo tri-polare. Alla domanda riguardante il posto del mondo islamico, della Russia e dell'India in questo futuro ordine mondiale, il politologo ci dà la seguente risposta: “L'espressione “mondo tri-polare” non esclude l'esistenza di queste entità. Tuttavia resta il fatto che Usa, Unione Europea e Cina rappresentano più del 20% dell'economia mondiale. La loro potenza militare cresce. Hanno la capacità universale di cambiare la politica del mondo intero: ciò non può essere detto delle altre potenze. Si può parlare finché si vuole sul fatto che si voglia che la Russia sia una superpotenza, ma ciò è fuorviante. L'economia russa è paragonabile a quella della Francia, che di certo non è una superpotenza economica; ed è impossibile essere una superpotenza senza esserlo anche nell'economia. La Russia è sì un centro di attrazione, ma a livello regionale, quindi non può fare parte del gruppo dei tre (USA, Unione Europea, Cina). L'unica potenza che può essere aggiunta a questa serie – esclusivamente dal punto di vista economico – è il Giappone.” Stando a Parag Khanna, ci stiamo dirigendo verso “un mondo a più poli e a più civiltà, in cui tre diverse superpotenze competono per il controllo di un numero di risorse in continua diminuzione”. Qual è il punto di vista del politologo William Engdahl, favorevole ad un riavvicinamento tra Russia e Cina, sulla relazioni tra questi due Paesi? Cito: “Solo la Russia, la Cina e l'Europa posso fermare il folle “cowboy americano”. Ma oggi, quando il collasso del “Secolo Americano” e

Parag Khanna.

Qual è il ruolo dei Paesi del “Secondo mondo” nell'imminente ordine multipolare?

del sistema finanziario incentrato sul dollaro è quasi inevitabile, tutto dipende dal loro coraggio. Procederanno verso un progetto comune di integrazione o lasceranno che gli Stati Uniti prendano il controllo dell'Eurasia attraverso la “geopolitica del caos”? La sicurezza di tutta l'umanità nel XXI secolo dipende dalla risposta a questa domanda.” Engdahl spera nelle soluzioni che saprà dare l'elite politica russa a questa sfida, su cui dipende l'alleanza russo-cinese. Comunque, conoscendo l'attuale classe politica in Russia, non possiamo condividere le speranze del pur sempre rispettabile William Engdahl, e piuttosto arriviamo alla conclusione della necessità della creazione ed educazione di una nuova elite, vale a dire una “contro-elite”, o, come viene detto nel Manifesto della “Global Revolutionary Alliance”, di una “contro-elite globale e rivoluzionaria”. Il Professor Adam Roberts, esperto nel campo delle relazioni internazionali, nota anche la perdita del ruolo di guida degli Stati Uniti nell'ordine mondiale attuale. Alla domanda su chi sarà l'erede, ci dà una chiara risposta: nessuno. Ora la Russia è vicina al periodo di interregno, ossia l'intervallo di tempo che nell'antica Roma intercorreva tra la morte di un imperatore e la comparsa dell'altro. È uno stato di instabilità, incertezza, imprevedibilità, in cui è evidente la distruzione del vecchio ordine così come la progressiva affermazione di quello nuovo. Ma quale sarà questo nuovo ordine non ci è dato saperlo. L'interregno è una pausa, un ritardo metafisico, un doloroso “non ancora”. In questo contesto di cambiamento verso un nuovo ordine, possiamo parlare di una transizione paradigmatica dal “momento unipolare” (Charles Krauthammer) verso l'instaurazione di un ordine multipolare. In altre parole, il centro dell'attenzione dovrebbe essere sulla fine dell'era dell'unipolarismo, poiché ci sono già tutti i prerequisiti per la realizzazione di un progetto alternativo. Ciò che ora sta accadendo nella politica mondiale è l'agonia dell'imperatore morente, ossia gli Stati Uniti. Il vero interregno verrà con la finale perdita di potere degli USA come potenza mondiale egemone, e la cancellazione del “momento unipolare”. È qui che appare il pericolo che nel periodo di interregno e di costante attuazione delle fasi della creazione dell'ordine mondiale multipolare sopraggiunga la “variabile geometria” della non-polarità e tutto venga immerso nel melting pot della globalizzazione e della “modernità liquida” (Zygmunt Bauman).

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MILLENNIVM AL CONVEGNO INTERNAZIONALE DELL'UNIVERSITÀ FEDERALE DI PARAIBA

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illennium ha partecipato al convegno internazionale svoltosi dal 4 al 6 settembre 2012 presso l'Università Federale di Paraíba, nella città di João Pessoa (Brasile). Al convegno, incentrato in particolar modo sui fondamenti della teoria geopolitica, sulla relazione che intercorre tra essa e l'ambito filosofico, sulla necessità di un ordinamento globale multipolare e sullo sviluppo della "quarta teoria politica", ha preso parte il fondatore e presidente di Millennium, Orazio Maria Gnerre, al fianco del filosofo e teorico Aleksandr Dugin, del professore dell'Università di San Paolo, André Martin, dello studioso e saggista Mateus Soares de Azevedo, e dell'esperto di geopolitica Edu Silvestre de Albuquerque. L'argomento trattato da Orazio Maria Gnerre è stato "La concezione sacrale degli spazi": dall'interpretazione simbolica ed archetipica della geografia verso le massime categorie geopolitiche. L'incontro ha portato alla luce la convergenza di obiettivi di Millennium, dell'Eurasiatismo e del Meridionalismo Sudamericano nella promozione della transizione all'ordine globale multipolare e nella creazione di una quarta teoria politica, adatta al contesto storico e capace di una riformulazione radicale dello stesso.

DELEGAZIONE MILLENNIVM IN VISITA POLITICA IN LIBANO

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na delegazione di Millennium è stata impegnata dal 3 al 17 novembre in Libano, nel difficile periodo che è intercorso tra il dispiegarsi del conflitto civile in Siria e il bombardamento indiscriminato tutt’ora in corso di Israele su Gaza. La delegazione ha svolto come da programma le visite di rappresentanza presso i campi profughi palestinesi e le sedi del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di Balbeck e Beirut. La delegazione italiana ha incontrato anche la rappresentanza politica di Millennium in Libano.

Hassan Abou Nasseh, rappresentante di Millennium in Libano, e Francesco Piscitelli, coordinatore regionale di Millennium in Friuli.


I DERIVATI

LA PROSSIMA BOLLA PRONTA ALLO SCOPPIO Di Salvatore Tamburro

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arren Buffett1, uno dei più grandi investitori finanziari nonché tra gli uomini più ricchi del pianeta, ha definito in una famosa frase i derivati come armi finanziarie di distruzioni di massa. Nel report annuale agli azionisti Buffet scriveva: "Se i contratti derivati non vengono collateralizzati o garantiti, il loro reale valore dipende anche dal merito di credito delle controparti. Allo stesso tempo, comunque, prima che il contratto sia onorato, le controparti registrano profitti e perdite -spesso di enorme entità- nei loro bilanci senza che un singolo centesimo passi di mano. La varietà dei contratti derivati trova un limite solo nell'immaginazione dell'uomo (o talvolta, a quanto pare, del folle)". Si chiamano derivati perché derivano da qualcosa altro, non vivono di vita propria: sono scommesse a termine sull'andamento di un'attività sottostante, ossia un titolo, una obbligazione o qualsiasi altra cosa. Esistono derivati di qualsiasi genere su ogni tipo di sottostante: options su azioni, future sul petrolio e sul grano, swap su valute e mille altre cose. Sono considerati gli strumenti in grado di attuare la massima speculazione finanziaria. Il derivato creditizio più usato in assoluto è il Credit Default Swap (abbreviato in CDS), strumento concepito per ridurre i danni derivanti da un fallimento creditizio2. Si tratta di un accordo tra due parti, in cui da un lato c’è un acquirente (detto CDS buyer) e dall’altro un venditore (detto CDS seller): mediante tale accordo il venditore si impegna, in cambio di un premio rateale versato dall’acquirente, a pagare una determinata cifra nel caso che ci si trovi di fronte a un credit event, ovvero l’impossibilità di pagare da parte del debitore terzo. In termini molto semplici i CDS sono una sorta di assicurazione sull’insolvenza di un emittente e infatti sono spesso usati proprio con la funzione di polizze assicurative o coperture per chi sottoscrive un’obbligazione. Proviamo a fare un esempio pratico per capirci meglio. Ci sono tre soggetti in gioco: la società Alfa Spa, l’investitore il Sig. Rossi e colui che emette i CDS, che chiameremo il Sig. Assicuratore. Il sig. Rossi compra 1000 euro di obbligazioni

della Alfa Spa che spera di poter incassare alla scadenza delle obbligazioni stesse. Dopo qualche mese cominciano a girare voci che la Alfa Spa possa fallire e il sig. Rossi teme di perdere la cifra investita. Ecco allora che si fa avanti il sig. Assicuratore che propone una polizza (un CDS) che funziona in modo molto semplice:

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Se la Alfa Spa fallisce il sig. Assicuratore paga 1000 euro al sig. Rossi in un’unica soluzione.

Finché, invece, l’Alfa Spa resta in vita, il sig. Rossi pagherà mensilmente 50 euro al sig. Assicuratore per tutta la durata delle obbligazioni, il quale incasserà il premio mensile, speculando sul rischio e guadagnando.

Detto così non sembra nulla di tanto grave, ma cerchiamo di comprendere le conseguenze di questa contrattazione prettamente speculativa. In primis si tratta di un accordo che si può formulare su qualunque cosa: su un’azienda, sul debito di uno Stato, insomma su qualsiasi cosa possa fallire, anche a prescindere dal fatto che il sig. Rossi possieda effettivamente le obbligazioni dell’Alfa Spa o meno. Chi ci guadagna in questo gioco? Gli speculatori, ossia il sig. Assicuratore. Gli speculatori, con la complicità dell’agenzie di rating (le prostitute del sistema bancario) e gli organi di informazione diffondono il panico urlando ai quattro venti che la società Alfa o lo Stato Beta sono a rischio default. Gli investitori temono di perdere le cifre investite e ricorrono alle “polizze” CDS.

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Warren Edward Buffett è uno dei più gradi investitori statunitensi. Nel 2009, con un patrimonio stimato di 47 miliardi di dollari, era, secondo la rivista Forbes, il terzo uomo più ricco del mondo, dopo Bill Gates, e il quarantesimo uomo più ricco di tutti i tempi. Proprietario della Berkshire Hathaway, ossia la più grande compagnia assicurativa mondiale, dopo la svizzera Swiss Re e la tedesca Munich Re.

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Credit default swaps. Caratteristiche contrattuali, procedure gestionali e strategie operative; di Paolo Tradati, editore Franco Angeli (2011).

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Il prezzo dei CDS schizza quindi all'insù, i possessori delle obbligazioni corrono a comprare i CDS che nel frattempo sono lievitati di prezzo. Contemporaneamente molti investitori cercheranno di disfarsi di quelle obbligazioni svendendole; quando poi l'allarme rientra gli emittenti dei CDS avranno già guadagnato una marea di soldi e magari si ritroveranno in portafoglio quei titoli che l’investitore ignaro ha svenduto in situazione di panico, ma che nel frattempo si sono rivalutati. Ma cosa succederebbe se invece quella società Alfa o lo Stato andasse sul serio in bancarotta? Lo speculatore che ha emesso CDS dovrà onorare l’assicurazione fatta e qui si complicano le cose: lo speculatore sperava che la società X non sarebbe mai fallita e ha continuato a vendere CDS a milioni di investitori, ma adesso non ha i soldi necessari per onorare la polizza. Un esempio storico è stato il caso dell’AIG, American International Group Inc.3, che fino al 15 settembre 2008 era il primo gruppo assicurativo al mondo, prima

Salvatore Tamburro

che fosse intervenuta la Federal Reserve (con il sostegno del Dipartimento del Tesoro americano) per salvarla dalla bancarotta, grazie a un conto finale a carico dei contribuenti americani di 187 miliardi di dollari. A determinare il collasso di AIG era stata la tragica esposizione della stessa nel mercato dei derivati “assicurativi” sul fallimento (CDS). L’AIG aveva fatto investimenti sbagliati nel settore dei mutui calcolando il rischio in modo errato e ciò aveva poi eroso la sua liquidità; per la compagnia divenne impossibile pagare gli interessi sui derivati emessi sul mercato. Purtroppo il mercato dei CDS funziona così: chi ne compra uno sulla Grecia o sull’Irlanda (tecnicamente fallite), o sui subprime americani, acquista una polizza d’assicurazione nel caso queste entità facciano insolvenza sui loro debiti. A vendere (in privato) queste “polizze” sono banche, compagnie assicurative o fondi d’investimento ai quali non viene mai chiesto di mostrare le proprie riserve in caso debbano davvero coprire i danni. Ovvio che più il rischio è considerato elevato, più la polizza è cara: all’inizio del 2009, assicurare un milione di dollari di debiti di General Motors4 costava 800 mila dollari, ma siccome quasi nessuno nel 2005, nel 2006 e ancora nel 2007 si aspettava il crollo della multinazionale americana, comprare CDS riferiti al colosso automobilistico costava diecimila dollari per milione, ossia appena l’1%. Quando poi nel 2009 GM dichiarò bancarotta ecco che chi aveva emesso CDS non era in grado di pagare i contratti stipulati e toccò come sempre allo Stato, e quindi alla collettività, scongiurare il fallimento di banche e assicurazioni e capitalizzarle con finanziamenti pubblici.

Mario Monti sia stato un loro dipendente non si fidano, non ci credono e svendono i nostri titoli di Stato per assicurarsi sul rischio fallimento Italia. Per essere precisi nel corso del secondo trimestre dell’anno Goldman Sachs ha venduto il 92% dei titoli che deteneva e la rincorsa alla vendita non si è fatta attendere. Tutti gli esempi passati sui derivati conclusi in malo modo non sono serviti da lezione, visto il continuo uso che si fa di questi strumenti strettamente speculativi. Basti pensare che il mercato mondiale dei derivati vale oltre 580.000 miliardi di dollari. Quanto all’Italia ad oggi ci sono attivi oltre 10.800 contratti di Credit default swap, con 20,7 miliardi di dollari di scommesse contrarie, come si può notare dalla tabella stilata dalla DTCC6. Inoltre non è un caso che celebri comuni italiani (Milano, Torino, Rimini) siano entrati nel vortice dei derivati. Nel complesso, secondo le ultime cifre diramate dalla Banca d’Italia, si parla di circa 50 miliardi di euro di perdite provenienti dai derivati, su 110 complessivi per gli enti locali italiani. Dalla metà del 2008 a oggi sono, secondo le stime del Tesoro, oltre 130 i Comuni che hanno preferito chiudere le proprie posizioni sui derivati e liberarsi di questi strumenti tossici della “finanza creativa”. Ogni giorno sui mercati non regolamentati (Over-the-counter) si scambiano circa 575 milioni di dollari in protezione sul debito italiano (arrivato quasi a quota 2.000 miliardi di euro). E, sempre secondo la DTCC, sono 17 i soggetti che vendono questa immunizzazione: Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas, Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland, Société Générale, UBS e UniCredit. Viviamo quindi in un’economia che poggia su castelli di carta, in cui la finanza è diventata la vera padrona in grado di succhiare tutta la linfa vitale all’economia reale, con reali conseguenze negative sulla vera crescita economica, che di fatto non c’è. La finanza (speculativa) ha dimostrato di essere più forte di ogni tentativo di riforma istituzionale, poiché è ormai chiaro che sono in gioco profitti enormi che danno potere enorme alle lobbies finanziarie, un potere che non vuole essere ceduto dai guru di Wall Street, anzi, addirittura dopo lo scoppio dell’ultima crisi economica l'oligopolio finanziario si è rafforzato perché alcune banche, prevalentemente le più piccole, sono sparite, mentre le banche troppo grandi per fallire (le cosiddette too big to fail) sono state salvate con iniezioni di denaro pubblico . Dopo lo scoppio della crisi sui mutui sub-prime partita nel 2007 si è giunti solo oggi, nel 2012, a considerare la crisi dei debiti sovrani. Ma vista l'assenza di regole in questo settore altamente speculativo della finanza e appurato l'uso improprio fatto da entità anche pubbliche che acquistano CDS in quantità massicce, lo scoppio di una bolla sui derivati appare prossima, preannunciando come sempre più vicina una nuova crisi economica di portata internazionale, che danneggerà soprattutto i Paesi europei.

6 La DTCC, Depository trust & clearing corporation, è la principale centrale di compensazione e garanzia dei derivati mondiali, in sostanza il depositario di quanto accade ogni giorno su mercati non regolamentati (Over-the-counter).

Come si misura il valore di un CDS? Mettiamo caso che il CDS di un Paese abbia toccato i 500 punti base su 10.000, vuol dire che se vogliamo assicurare 1 milione di euro di bond di quel Paese, dobbiamo pagare 50.000 euro; quindi la banca, l’assicurazione o chi emette il CDS, incassa subito i 50.000 euro e s'impegna a pagarti 1 milione di euro se e solo se il Paese dichiarasse bancarotta; il che vuol dire che per assicurarmi dalla perdita dell'intero capitale investito in titoli del debito pubblico, che potrebbe essere causata dal fallimento dello Stato in questione, devo spendere il 5% del valore nominale dei titoli acquistati. Comprare CDS al posto dei titoli di Stato significa scommettere sulla bancarotta di quel Paese. In Grecia l'esposizione totale ai CDS sul debito greco è arrivata ad oltre 3,2 miliardi di euro; in Italia invece la situazione non è meno preoccupante: il 10 agosto scorso, Goldman Sachs ha venduto 2,3 miliardi di titoli di Stato italiani, facendo subito cambio con Credit Default Swap, sempre italiani5. Classifica Depository trust & clearing corporation (DTCC): http://www.isdacdsmarketplace.com/exposures_and_activity/top_10_cds_positions 3 L’American International Group, Inc. (AIG) è una grande società di assicurazioni statunitense con sede a New York. 4 La General Motors Corporation, nota anche come GM, è un'azienda statunitense produttrice di autoveicoli. La GM dichiarerà la bancarotta il 1 giugno 2009, passando così sotto l'amministrazione controllata del governo americano. 5 La Repubblica, “Goldman Sachs vende i titoli di Stato tricolore portafoglio giù del 92%” del 10/08/2012.

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EUROPA, EURASIA, EUROSIBERIA

Di Andrea Virga

Q

uesto articolo intende fare un po’ di chiarezza intorno a tre termini, che in una cornice filosofico-politica di matrice anti-atlantista, sono spesso stati considerate poco più che sinonimi, designanti un grande spazio (Großraum) geopolitico, esteso dall’Atlantico al Pacifico e dall’Artico al Mediterraneo. Ad estendere artificialmente l’Europa dai suoi confini geografici propri, fino al Mar del Giappone e allo Stretto di Bering, fu Jean Thiriart , negli anni ’50, con la sua fortunata formula “da Dublino a Vladivostok” quale delimitazione dell’Europa Nazione. Si trattava certo di un meritorio rifiuto della divisione dell’Europa in due blocchi rivali – quello atlantico e quello sovietico –, ma all’atto pratico, è una definizione che presenta i suoi difetti. Più complesso è il termine Eurasia che, da nome geografico della più grande massa continentale terrestre, è passato ad indicare una parte più ridotta di essa, ossia i grandi spazi che si estendono a nord dell’Anatolia, dell’Iran, del Tibet e della Cina, dunque il grande mondo delle steppe al di fuori dei territori intensivamente popolati dell’Europa, del Medio Oriente, del subcontinente indiano e dell’Estremo Oriente. In questo senso, è stato inteso dai filosofi e dai teorici russi – ma anche europei, come Spengler –, che si sono interrogati, negli ultimi due secoli, sulla natura della loro civiltà, ed è in questo senso che lo intende il presente volume. Tuttavia, in senso più esteso, anche l’Eurasia è stata spesso “tirata” ad includere anche la penisola europea o altre parti del supercontinente eurasiatico, unite da un posizionamento geopolitico tellurocratico ed anti-atlantista. Il termine Eurosiberia, infine, è stato coniato da Guillaume Faye in senso etnopolitico, volendo includere i popoli di razza bianca dell’Europa e della Russia, e dunque uno spazio simile a quello di Thiriart, ma con connotazioni politiche ben differenti, ossia anti-islamiche e anti-cinesi, e volte ad escludere le popolazioni indigene eurasiatiche di razza mongolica. Vediamo ora, però, di raffrontare queste definizioni con la realtà storica. Da una parte, chi insiste per una divisione netta tra Eurasia ed Europa, sia da parte atlantista che da parte eurasiatista , dimentica come il mondo russo sia nato proprio all’interno del contesto culturale europeo: i primi centri urbani furono fondati da mercanti vichinghi, così come dalla Grecia bizantina vennero la religione, l’alfabeto e la cultura, financo la dignità imperiale; ancora in tempi recenti, poi, la dinastia Romanov, di origine tedesca, era strettamente imparentata con le altre casate reali europee e invischiata nella loro politica. La stessa conquista della Siberia e del Turkestan, da cui ebbe a nascere l’Eurasia propriamente detta, fu avviata contemporaneamente al colonialismo delle potenze atlantiche, ossia in più fasi dal XVI al XIX secolo, e vide milioni di slavi stabilirsi tra gli Urali e l’Amur. D’altro canto, però, è altrettanto discutibile pretendere che vi sia un’omologazione culturale tra Europa ed Eurasia, e che un tedesco possa trovarsi altrettanto a casa a Vladivostok come a Lisbona. Una tale equivalenza non regge né sul piano politico-culturale, né tantomeno su quello etnico. Altrimenti, non si vede perché dovrebbe esserne escluso il resto della Magna Europa, nelle Americhe e in Oceania. Anzi, così come l’America Latina e l’Angloamerica, pur abitate in maggioranza da popolazioni di sangue europeo e di cultura europea, hanno ormai sviluppato una propria Kultur autoctona, che non può non tenere conto dell’apporto del substrato indigeno, dell’influenza del territorio e della propria storia particolare, lo stesso vale per l’Eurasia.

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Il rapporto con lo sterminato territorio eurasiatico, la forte compresenza delle popolazioni indigene uralo-altaiche, la storia dell’Impero Russo – prima zarista, poi sovietico, poi presidenziale – come potenza mondiale autonoma, hanno contribuito tutti a dividere Europa ed Eurasia. Ad oggi, possiamo rintracciare il confine storico-culturale tra le due in una linea immaginaria che passa subito ad oriente della Finlandia, dei Paesi Baltici, della Polonia, della Galizia – non a caso Leopoli è la più europeista e occidentale delle città ucraine –, della Bessarabia. Tuttavia, ci sono numerosi fattori che fanno sì che il rapporto tra le due culture non possa che essere stretto: forti affinità storicoculturali; opportunità politico-strategiche nella mutua difesa dall’imperialismo atlantico, che occupa l’una e minaccia l’altra; contiguità territoriale; persino ragioni di carattere economico, per l’interdipendenza tra le materie prime e le fonti energetiche eurasiatiche e i beni di consumo europei. Per tutte queste ragioni, prima ancora che non il mondo estremo-orientale o islamico, è l’Europa a poter costituire l’alleato privilegiato per il polo eurasiatico. Il fatto che non potrà esserlo, finché rimarrà sotto la pantofola di velluto di Washington, è il punto di partenza per tutta un’altra serie di considerazioni.

CRISI SIRIANA E INGERENZA TURCA

Di Mario Forgione Riportiamo l’intervento di Mario Forgione al convegno “Il perno siriano. La guerra civile sullo scacchiere internazionale”, organizzato da Millennium a Benevento, il 23 luglio 2012.

Crisi siriana e ingerenza turca Il premier turco Recep Tayyip Erdoğan si trova attualmente al terzo mandato politico e può essere agevolmente affermato che si tratta di un leader esperto che ha maturato una grande esperienza nei suoi anni alla guida della Turchia (l’AKP ha ottenuto circa il 50% dei consensi nelle elezioni del 12 giugno 2011 - conquistando 326 seggi su 550; in calo di 15 seggi rispetto alle elezioni del 2007)1. Del resto, il paradosso degli ultimi sviluppi geopolitici nel Mediterraneo orientale è che la Turchia ha acquisito grande capacità strategica proprio mentre l’UE ha di fatto congelato il dossier (nel giugno 2010) sull’inclusione di Ankara proprio nell’Unione Europea. In effetti, se ci si concentra su questo aspetto, risulta evidente che proprio l’esclusione (anche se non ufficiale) della Turchia dal grande


“gioco europeo” ha spinto il consigliere per

i sogni universalistici del vecchio Califfato.

la politica estera (e poi Ministro degli Esteri)

Ovviamente, risulta evidente che un

Ahmet Davutoglu ad elaborare una vera e

approccio politico-strategico di questo tipo

propria piattaforma strategica in grado –

ha favorito enormemente i governi dell’area

almeno in una prospettiva di medio-lungo

atlantica perché ha permesso agli stessi

periodo – di fare della Turchia una potenza

di controllare e “stimolare” le repubbliche

capace di porsi come centro propulsore

caucasiche (sotto il controllo sovietico)

delle trasformazioni socio-politiche che

verso processi indipendentisti e democratici:

stanno interessando il Medio Oriente2.

la classica strategia del “divide et impera”

Sostanzialmente, la piattaforma strategica

(oggi tanto cara alla “scuola geopolitica”

elaborata dal governo di Ankara punta ad

di Zbigniew Brzezinski e Edward Luttwak).

un vero e proprio ribaltamento del ruolo

Tutto questo cambia con la fine della Guerra

“tradizionalmente” affidato alla Turchia

fredda: la Turchia si rende conto che deve

da parte delle potenze occidentali (e non

necessariamente elaborare una propria

semplicemente del blocco atlantico – visto

e autonoma strategia politica per evitare

che Ankara ha formalmente aderito alla

l’umile ruolo di semplice stato satellite

NATO nel 1952). Ma, ci si chiede, quali sono le ragioni ideologiche di questo approccio alla politica e alla strategia? Un dato importante su cui occorre riflettere è che, soprattutto nell’ultimo decennio, la Turchia è emersa come una nazione capace di ritagliarsi un ruolo “autonomo” rispetto a quello che le era stato assegnato dopo la Seconda Guerra Mondiale dalle potenze occidentali. In pratica, durante la guerra fredda la Turchia si è limitata ad essere un semplice cerniera di sicurezza tra Europa, Asia, Africa e Medio Oriente senza dotarsi di un vero e proprio piano geopolitico.

Questo modus operandi, se in un prospettiva di lungo periodo non ha

17

1

Il Chp di Kilicdaroglu non supera il 25%, gli ultranazionalisti Lupi Grigi del Mhp sono al 10%, i curdi del Bdp al 6%. Il leader dell’AKP si muove fin d'ora per blindare l'elezione del 2014; Erdogan ha aperto le porte del partito a formazioni satelliti del centrodestra, ha fatto sapere che sarà candidato a un quarto e ultimo mandato alla presidenza dell’Akp. Inoltre, il leader turco ha ordinato il restauro del favoloso palazzo ottomano di Mabeyn a Istanbul, per farne la seconda residenza del presidente turco nella megalopoli del Bosforo, la città che Erdogan più ama e di cui è stato sindaco e che probabilmente se potesse rifarebbe capitale del Paese. Cinque anni, dal 2014 al 2019, cruciali per il Paese, in mezzo a un'area sempre più agitata, fra Iran, Siria, Iraq, Armenia, Israele, con la crisi cipriota sempre aperta, la porta dell'UE da sbloccare, la proiezioni neoottomana del paese in Mediterraneo, Asia, Balcani da consolidare, il conflitto curdo da chiudere. Inoltre, non è sicuramente un dato marginale il fatto che la Turchia si trovi al 16 posto dei paesi economicamente più forti (l’obiettivo è quello di inserirsi tra i primi dieci entro il 2023). In realtà, l’interesse ad un ingresso nell’UE è venuto meno da parte della stessa Turchia – oltre che per l’opposizione della Francia (sotto la presidenza di Sarkozy), anche per la debolezza strutturale in cui versa l’Unione Europea.

dell’Occidente. Tuttavia, Ankara si rende conto che i suoi piani geopolitici devono comunque ottenere il placet di Washington per dispiegarsi con valide modalità operative. Sul piano pratico, quindi, il cambio di strategia non è radicale visto che l’interesse degli USA è quello di limitare l’influenza della Federazione Russa nei Balcani e nel Caucaso. Lo scenario è destinato a mutare nuovamente negli anni 2002-2003 (subito dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 – con il conseguente disegno del “Grande Medio Oriente” elaborato dai neorepubblicani): proprio in questo contesto inizia a circolare nei circuiti politici il c.d. “neo-ottomanesimo”. Il disegno neorepubblicano è chiarissimo: abbattere (anche con la forza) i governi tradizionali

prodotto risultati ottimali sul piano della

del Medio Oriente ed elaborare modelli

strategia, ha comunque consentito alla

politici ispirati all’islamismo filo-occidentale

Turchia di concentrarsi sui problemi interni

di impronta turca. Nella visione americana,

e, nello stesso tempo, di garantire alla

quindi, la Turchia si sarebbe trovata al centro

nazione l’integrità territoriale. Possiamo

– geopolitico, ideologico e religioso – di

parlare di un approccio realista alla politica,

questo “grande progetto” di ristrutturazione

squisitamente “machiavellico”. In definitiva,

del Medio Oriente. Tuttavia, l’attacco militare

la Turchia ha seguito per lunghi anni il

da parte dagli Usa, nel marzo 2003, all’Iraq di

piano politico elaborato da Kemal Ataturk

Saddam Hussein non piacque al governo di

(membro dei Giovani Turchi e artefice

Ankara e il nuovo Presidente Erdoğan (leader

dell’indipendenza della Turchia nel 1923

dell’AKP – eletto per la prima volta proprio

– di qui il c.d. kemalismo) per far sì che la

nel dicembre 2002) condanna, seppur

Turchia restringesse il divario economico,

debolmente, l’unilateralismo di Washington.

militare e tecnologico con l’Occidente,

Erdoğan, in pratica, si rende conto che deve

che aveva determinato l’estinzione

rimodellare le relazioni internazionali (anche

dell’Impero Ottomano durante la Prima

sulla spinta di una opinione pubblica sempre

Guerra Mondiale. Il kemalismo, in pratica,

più attratta dall’identità islamista – il blocco

ha ristretto l’orizzonte geopolitico della

elettorale dell’AKP) con Iraq, Siria, Libia,

Turchia allineando la nazione agli interessi

Libano e Iran. Infatti, negli anni successivi al

atlantici nella regione: l’islamismo radicale

2003 Erdoğan cerca di stabilire valide alleanze

viene meno e con esso si estinguono anche

politico – militari con i governi dell’area e,


nello stesso tempo, si impegna anche sul fronte

la Federazione Russa.

ragione politica

economico con la stipulazione di vantaggiosi

Questa modalità

sottesa al “cambio

accordi economici (libera circolazione di

operativa, quindi, ha

di strategia”

persone, abolizione dei visti, investimenti in

spinto gli opinionisti

nei confronti

infrastrutture e centri culturali con lo scopo di

di politica estera e gli

del Presidente

“accattivare” l’opinione pubblica dei paesi vicini).

studiosi di geopolitica

Bashar al-Assad)

Erdoğan si impegna con decisione anche sul

ad interrogarsi

occorre precisare

fronte della questione palestinese cercando di

sulla possibilità

che, in un primo

scalzare nelle trattative con Israele le potenze

di configurare la

momento, la

tradizionali dell’area. Si tratta, infatti, di un

piattaforma strategica

piattaforma

rinnovato dinamismo che risponde a precise

elaborata da Ankara

strategica c.d.

logiche politiche: evitare di rimanere isolato

come “neo-ottomana”. I

neo-ottomana ha

dal blocco sciita costituito da Siria e Iran –

punti essenziali da quali

prodotto risultati

rimanendo confinato ad un’alleanza con un

occorre partire sono

positivi per la

Iraq (paese a tradizione sunnita come la stessa

due:

stabilizzazione

Turchia) profondamente instabile e a relazioni

1. Abbandono

del “fronte caldo”

diplomatiche non ottimali con Tel Aviv. Del resto,

della relazione con

con i ribelli

in questo contesto, basti accennare all’uccisione

Israele (per certi versi

del Kurdistan

(nel 2004) dello sceicco Yassin, leader di Hamas,

“peccaminosa”) per acquisire la credibilità

(attraverso rapporti importanti con l’Iraq e il

da parte delle forze israeliane; all’operazione

necessaria per porsi come punto di riferimento

Kurdistan Regional Government) e nei confronti

“Piombo fuso” lanciata da Israele sulla striscia

per gli stati del Nord Africa e del Medio Oriente

della stessa Siria (con l’avvio di una interessante

di Gaza nel dicembre 2008; al famoso scontro in

– a tal proposito basti citare la grave crisi politica

collaborazione politico-militare). In questo

diretta tv a Davos (forum economico del 2009)

e diplomatica seguita dall’attacco alla nave

senso, la strategia di Erdogan (vedi punto 2)

tra Erdoğan e Peres proprio sull’operazione

Mavi Marmara (appartenente alla Freedom

ha conquistato le piazze del Medio Oriente

“Piombo fuso”; alla nota vicenda dell’attacco

Flottilla) nella primavera del 2010, un convoglio

ponendosi come valida alternativa ai governi

alla Mavi Marmara. Sul piano propriamente

umanitario diretto a Gaza e colpito dai reparti

“tradizionali” dell’area – fortemente ancorati al

interno, quindi, queste vicende hanno rafforzato

della Marina israeliana.

modello del “partito unico”.

l’opinione pubblica (ormai sempre più spinta

2. Spinta decisiva verso la propaganda

La c.d. strategia neo-ottomana, quindi, non

“sull’identità islamista”) della Turchia e, nello

politico-militare (logica conseguenza della

si risolve in una mera strategia geopolitica,

stesso tempo, hanno permesso ad Ankara di

presa di posizione contro Tel Aviv) per

ma presenta una dimensione ideologica che

guadagnare credibilità presso le stesse masse

rafforzare l’immagine di Stato forte e compatto

non può non essere analizzata per capire gli

arabe dei paesi confinanti (con la conseguente

nell’immaginario dell’area mediorientale.

attuali sviluppi della politica internazionale. In

possibilità di influenzare i rapporti bilaterali

Tuttavia, al di là degli aspetti strategici

particolare, il neo-ottomanesimo si sostanzia

tra la Turchia e le potenze della regione). I problemi non finiscono qui: le rivolte arabe (ribattezzate enfaticamente sotto

2

In realtà, l’interesse ad un ingresso nell’UE è venuto meno da parte della stessa Turchia – oltre che per l’opposizione della Francia (sotto la presidenza di Sarkozy), anche per la debolezza strutturale in cui versa l’Unione Europea.

elaborati nei salotti della

in una efficace sintesi politica tra un nostalgico

politica, il governo di

populismo islamista e uno statalismo di netta

Ankara si è trovato nella

derivazione kemalista. Il partito dell’attuale

necessità di “gestire” le

leader turco (AKP – Partito per la Giustizia e lo

c.d. primavere arabe per

Sviluppo), quindi, ha saputo creare una sintesi

consolidare la propria

armonica tra le istanze “modernizzatrici” legate

l’appellativo di “Primavera araba”) del biennio

posizione di Stato-guida nella stabilizzazione

alla necessità dello sviluppo industriale (e

2010-2011 hanno imposto un ulteriore cambio

dell’aera mediorientale. Ed è proprio in questo

tecnologico) e la tradizione islamica. Sul piano

di strategia alla piattaforma politica “neo-

nuovo contesto socio-politico, quindi, che la

internazionale, questo di tipo di modello politico

ottomana”. Ora, vediamo quali sono i punti

piattaforma strategica neo-ottomana deve

(almeno in un primo momento), ha portato

essenziali per individuare la linea di confine

essere valutata e compresa. Del resto, il terzo

ad una strategia che possiamo agevolmente

tra la prima fase del neo-ottomanesimo (fase

mandato di Erdoğan rappresenta il punto

definire “a doppio binario”:

che si è esaurita proprio negli ultimi mesi

d’arrivo di una lunga strategia politica (iniziata

1. Consolidamento dei rapporti con i Paesi del

– come vedremo) e quella nuova che si sta

nel 2002) che si è pienamente dispiegata già

mondo arabo.

dispiegando proprio in questi giorni sotto gli

nelle prime esternazioni successive alla vittoria

2. Influenza sulle piazze e sulle opinioni

occhi dell’opinione pubblica. Il governo turco,

elettorale del 2011: “la Turchia offre integrazione

pubbliche dei medesimi. Del resto, a guisa

in definitiva, punta ad avere un ruolo centrale

e sviluppo a tutti i territori che un tempo

di tale considerazione, possiamo adottare

per la stabilizzazione dell’aera medio-orientale;

gravitavano nell’orbita dell’Impero Ottomano”.

come esempio il sostegno offerto al governo

si tratta, principalmente, di definire la politica

Tuttavia, prima della presa di posizione del

dell’Iran nel corso delle manifestazioni

da adottare con i “vicini storici” (Siria, Iran, Iraq)

governo di Ankara sulla crisi siriana (come

organizzate dalla c.d. “Onda verde” nell’estate

– ma anche con gli stati caucasici, i Balcani e

vedremo tra poco – cercando di individuare la

del 2009. In primo momento, quindi, il

18


3

governo di Ankara (pur essendo in grado di influire

(a cui abbiamo accennato prima) può essere

concretamente sulle masse del mondo arabo) ha

individuato nel ruolo che ha avuto (anche se

adottato una linea conservatrice e tradizionale che

enfatizzato dai circuiti mediatici “ufficiali”) la

possiamo esemplificare in questo modo: massima

“piazza” nel determinare la caduta dei governi

mobilitazione sul fronte interno e non ingerenza

di Tunisi e Cairo (a Tripoli è stato determinante

(nel senso di rispetto della sovranità dei singoli paesi

l’attacco NATO). La Turchia – per semplificare –

del mondo arabo) sul piano della politica estera.

si è trovata dinanzi ad un vero e proprio bivio:

Tuttavia, la c.d. Primavera araba ha profondamente

a) sostenere le rivolte e consolidare il proprio

mutato il quadro della regione mettendo a dura

ruolo di “faro guida” presso le masse arabe; b)

prova i paradigmi operativi della piattaforma neo-

sostenere i governi della regione con i quali

ottomana. Infatti, in un arco di tempo brevissimo, la

aveva sapientemente disegnato la propria

Tunisia, l’Egitto, la Libia e la Siria (in quest’ultimo caso

strategia operativa (la piattaforma strategica

gli scenari sono apertissimi) sono stati attraversati

neo-ottomana). In definitiva, sembra che il

da una crisi socio-politica (a cui non sono estranei i

governo di Ankara (che intendeva colmare una

governi del blocco atlantico – vedi l’attacco militare

sorta di vuoto geopolitico) non si sia accorto di

ai danni della Libia) che ha di fatto disintegrato

aver stretto della relazioni con governi deboli

i governi tradizionali dell’area. L’alterazione del

e fragili sul piano interno (il discorso vale per

quadro socio-politico dell’aera ha di fatto messo in

Tunisia e Egitto – su Libia e Siria il discorso è

crisi la strategia turca (faticosamente elaborata in

più complesso viste le forti ingerenze politico-

circa di dieci anni – 2002, prima elezione di Erdogan)

militari del blocco atlantico). La Primavera araba,

e gli stessi principi teorici del neo-ottomanesimo. Un

in effetti, ha destrutturato la rete degli stati con

discorso che può essere esteso a Yemen e Barhein,

cui la Turchia intendeva attuare il piano politico-

anche se qui si tratta di stati satelliti dell’Arabia

strategico neo-ottomano e ha determinato

Saudita e degli Emirati Arabi (anche qui gli scenari

violenti cambiamenti politici per Tunisia, Egitto

sono apertissimi – ricordiamo, per completezza, che

e Libia – e sull’altro fronte ha “indebolito”

nello Yemen il 42% della popolazione vive al di sotto

fortemente Siria e Iran. I cambiamenti politici

della soglia di povertà e che il principale gruppo

che hanno coinvolto il Medio Oriente (nel

ribelle contro Saleh è costituito da guerriglieri sciiti

biennio 2010-2011) hanno determinato un

detti Houthis – In Barhein, invece, Arabia Saudita,

virata squisitamente “atlantica” della politica

Emirati Arabi, Qatar e Oman hanno sostenuto

estera di Ankara: Erdoğan si è reso conto che

militarmente il governo sunnita del Presidente

deve ridisegnare la propria strategia operativa

Khalifa nella repressione contro i manifestanti sciiti;

cercando di stabilire relazioni amichevoli con i

tutto questo, ricordiamolo, in uno stato dove è

nuovi governi di Tunisi, Cairo e Tripoli (anche se

presente il quartier generale della V Flotta delle navi

i processi politici non sono ancora chiarissimi –

da guerra statunitensi3).

vedi Libia ed Egitto) senza alterare l’equilibrio

Sostanzialmente,

politico sul piano interno (visto che il blocco

sono due i fattori che

elettorale dell’AKP guarda con favore ad un

hanno messo in crisi i

certo tipo di istanze di “modernizzazione”

paradigmi della strategia

emerse durante le rivolte che hanno coinvolto

neo-ottomana:

i Paesi arabi). In questo senso, risulta evidente

1. Il rischio di

che la primavera araba ha rappresentato (mi

permanenti focolai

si passi l’espressione un po’ azzardata) una

di rivolta in grado di destabilizzare la regione e

sorta di “autunno” del neo-ottomanesimo

creare notevoli problemi di sicurezza ad Ankara;

(almeno quello di prima generazione). Erdoğan,

2. L’incapacità da parte della Turchia di assumere

quindi, in attesa che Tunisia, Egitto e Libia

un ruolo chiaro e definito nel corso delle crisi

recuperino la propria stabilità politica non

politiche (e nei successivi eventi militari) che hanno

può non concentrarsi sugli attuali sviluppi

portato ad un cambiamento politico in Tunisia,

politico-militari della crisi siriana. Infatti, il caso

Egitto e Libia. La Turchia, quindi, nel corso della

siriano è emblematico per individuare quella

c.d. primavera araba si è assestata su un linea di

linea di confine (a cui accennavamo prima) tra

neutralismo inefficace che ha di fatto sancito il

neo-ottomanesimo di prima generazione e

fallimento dei piani operativi precedentemente

neo-ottomanesimo di seconda generazione.

elaborati da Davutoglu e Erdoğan. Il fattore che ha

Inizialmente, il governo di Ankara ha evitato

messo in crisi la c.d. strategia del “doppio binario”

di interferire nelle questioni interne siriane

Il Barhein si trova in una posizione strategica tra Iraq, Kuwait e Iran – Lo Yemen, invece, confina con l’Arabia Saudita e ha un ruolo importantissimo per la sicurezza della regione (soprattutto in funzione anti-iraniana, di qui la repressione contro dei ribelli sciiti e il silenzio “forzoso” del circuito mediatico).

(relative alla violenta contrapposizione tra

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ribelli-terroristi e forze governative) limitandosi

La regolazione dello spazio aereo nel diritto internazionale

ad un sostegno meramente ideale, cioè privo di un concreto piano logistico per sostenere

Lo scorso 22 giugno è

attivamente il Presidente Bashar al-Assad. Gli

piombata

eventi successivi sono sotto gli occhi di tutti:

sull’opinione pubblica

le pressioni “occidentali” (guidate dalla Sig.ra

mondiale come un

Clinton – paladina e promotrice di una nuova

fulmine la notizia

stagione di interventi militari nominalmente

dell’abbattimento del

definiti “umanitari” per riecheggiare la politica

jet turco (in fase di

di Jimmy Carter) su Damasco hanno spinto la

sorvolo del territorio

Turchia ad una profonda revisione della propria

siriano) da parte delle

strategia operativa. Infatti, nel momento in cui

forze di sicurezza

numerosi profughi siriani si sono rifugiati sul

siriane. La notizia ha

confine turco, Ankara ha mutato radicalmente

scosso non solo

rotta cominciando a condannare la reazione

l’opinione pubblica

siriana e iniziando a ospitare sul suolo turco gli

(perché ha intravisto i bagliori di una possibile guerra), ma anche gli analisti di politica internazionale. In

incontri dell’opposizione al Presidente Assad

particolare, gli esperti di storia militare e gli studiosi di geopolitica hanno iniziato a parlare subito di “casus

capeggiata dai Salafiti. Del resto, la Turchia ha

belli” rievocando tutta una serie di eventi – incidenti simili a questo che in passato sono stati all’origine di una

adottato la stessa modalità operativa in Libia:

serie di importanti conflitti. Vediamo i più importanti: l’affondamento del Transatlantico Lusitania nel 1915 da

appoggio (anche se blando – cioè privo di un

parte degli U-Boot tedeschi (che determinò l’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale – almeno

piano politico e militare) iniziale alla Jamahiriya

dal punto di vista del supporto logistico all’Inghilterra); l’incidente nel Golfo del Tonchino (lo scontro navale

e successivo riconoscimento (con un Gheddafi

tra due cacciatorpediniere statunitensi e alcune torpediniere del Nord-Vietnam che nel 1964 spinse il

ormai sconfitto) del CNT (Consiglio nazionale di

Presidente Johnson a chiedere il placet del Congresso per dichiarare guerra ai Vietcong); lo sbarco alla Baia

transizione). In pratica, Erdoğan si è trincerato

dei Porci (finanziato dagli USA per rimuovere Castro, nel 1961, anche se i settori conservatori non riuscirono a

in uno sterile attendismo e nel momento in cui

spingere Kennedy ad attaccare militarmente Cuba); l’abbattimento dell’U-2 sui cieli di Cuba nel 1962 (un

si è reso conto che Gheddafi non era in grado

aereo da ricognizione della Lockheed Martin – aereo abbattuto in piena crisi missilistica, ma nemmeno

di assumere il controllo del paese si è spostato

questo spinse Kennedy a dichiarare formalmente guerra a Castro); l’attentato dell’11 settembre alle Twin

sull’asse atlantico (un vero e proprio “salto

Towers (causa dell’attacco ad Afghanistan e Iraq – rispettivamente nel 2001 e nel 2003). Si tratta, come è noto,

della quaglia”) preoccupandosi di riconoscere

di una serie di casi dai contorni politici ambigui e controversi per creare uno stato di crisi tra gli Stati al fine di

e legittimare politicamente i ribelli libici. Alla

legittimare (dal punto di vista “politico” e del diritto internazionale) un intervento militare ai danni del

fine, dal contesto che si è delineato, risulta

presunto “responsabile” della violazione. La notizia dell’abbattimento del jet turco, quindi, ha spinto subito gli

evidente che la piattaforma neo-ottomana si è

esperti di storia militare (e di diritto internazionale) a parlare di “casus belli” e di legittimità/illegittimità

risolta più in un elegante esercizio retorico, che

dell’attacco militare della Turchia ai danni della Siria. La questione però, e questo è un punto essenziale, è

in una valida alternativa politica al controllo

complessa, perché la Turchia (dal 1952) fa parte della NATO e questo porta con sé una conseguenza

atlantico del Medio Oriente. Erdoğan non ha

devastante. In effetti, ai sensi dell’articolo 5 del Trattato Nato: “Le Parti convengono che un attacco armato

saputo dare risposte valide (ma soprattutto

contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di

non si è reso conto della “debolezza politica” di

conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di

alcune potenze dell’area – in primis Tunisia ed

legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la

Egitto) alla c.d. Primavera araba e si è trovato

parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre

in una situazione che non gli ha permesso di

parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere

adoperare i consueti “tatticismi” a cui ha abituato

la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale. Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese

l’opinione pubblica mondiale nel corso del suo

in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno

lungo mandato. Insomma, l’impasse politica in

essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e

cui si è trovato Erdoğan (scegliere tra l’appoggio

mantenere la pace e la sicurezza internazionale.” In poche parole: gli stati facenti parte della NATO hanno

ai governi contestati nelle piazze e sostegno

l’obbligo in intervenire qualora taluno di essi si trovi ad essere attaccato militarmente da una potenza

agli stati nel reagire proprio alla piazza – senza

straniera. Le dichiarazioni di Erdoğan e del Comando NATO successive all’incidente sono state permeate da

dimenticare il timore di indebolirsi sul piano

una violenza verbale che non si sentiva da qualche anno (attacchi USA a Afghanistan e Iraq nel 2001 e nel

interno) ha fatto virare il governo di Ankara

2003). Negli ambienti NATO, nella prima settimana successiva all’incidente, si è assistito ad uno stato di euforia

verso una politica che può definirsi una sintesi

che lasciava presagire una guerra imminente contro la Siria già sconvolta da un anno di guerra civile. Ora, la

(mal riuscita) tra populismo e affari di Stato: qui

situazione (almeno sulle cause dell’incidente) sembra essersi normalizzata dopo il duro intervento di Vladimir

si compie il salto tra la retorica neo-ottomana

Putin, che ha parlato di “indebita ingerenza” negli affari della Siria e “volontà delle potenze NATO di giustificare

degli inizi e l’approccio debole del neo-

a tutti i costi un intervento militare” (spacciandolo per intervento “umanitario”). Tuttavia, al di là degli sviluppi

ottomanesimo intriso di Realpolitik dei primi

politici della vicenda, a noi interessa soprattutto capire i contorni giuridici della vicenda. In pratica, dobbiamo

mesi del 2012.

soffermarci sulle norme internazionali che regolano lo spazio aereo e poi (eventualmente) possiamo farci un’idea chiara sull’incidente del 22 giugno. Iniziamo subito con una domanda: quale è il regime giuridico

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dello spazio aereo? In realtà, nella sistematica del diritto romano, “la condizione giuridica” dell’aria rientra esclusivamente nell’alveo del diritto privato. La tecnologia e lo sviluppo cambiano il quadro di riferimento: i primi voli determinano uno spostamento di competenza dal diritto privato a quello pubblico. In pratica, la potestà (e quindi la sovranità) di un stato si esprime anche nella regolamentazione dello spazio aereo. Ovviamente, è pleonastico precisare che lo spazio aereo non è un bene (nel senso civilistico del termine) alla stregua dell’aria e, quindi, assume importanza soltanto in riferimento alle attività che vengono compiute in esso (con le relative conseguenze sul territorio sottostante). Da questo emerge un primo dato: l’attività aerea dà luogo ad una nuova serie di rapporti tra lo stato e gli individui sul piano interno e, nello stesso tempo, tra gli stati stessi nell’ambito dell’ordinamento giuridico internazionale. Tuttavia, le prime esperienze di navigazione aerea spingono i giuristi a definire lo spazio aereo come libero “da ogni forma di sovranità statuale” (alla stregua del regime giuridico di libertà “dell’alto mare”). La ragione di una tale scelta normativa, quindi, deve essere individuata nella volontà di rendere più agevole il traffico aereo internazionale. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni degli inizi, il quadro giuridico è destinato a mutare definitivamente con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. In questo contesto, infatti, assume un ruolo decisivo lo sviluppo vertiginoso della tecnologia militare che porta gli stati ad un vero e proprio dominio dei cieli. Sostanzialmente, dopo la fine del conflitto, gli stati sentono la necessità di proclamare espressamente il “principio di sovranità dell’aria”. Si tratta, in definitiva, di una nuova correlazione che viene stabilita tra le attività che vengono compiute nello spazio aereo e il territorio sottostante. Gli Stati si rendono conto, quindi, che la regolamentazione dello spazio aereo non è di ostacolo al traffico aereo così come la regolamentazione delle acque territoriali non è di ostacolo al traffico marittimo. In realtà, gli Stati tentano già del 1910 (alla Conferenza di Parigi) di regolamentare lo spazio aereo alla stregua di quello marittimo senza raggiungere risultati positivi. Il quadro è destinato a mutare radicalmente con tre fondamentali conferenze: quella di Parigi nel 1919, quella di Madrid del 1926, quella dell’Avana del 1928 e quella di Chicago del 1944. Con la Conferenza di Parigi del 1919 l’obiettivo degli stati è chiaro: cercare di regolamentare lo spazio aereo dopo aver preso coscienza dell’ottimo grado di sviluppo della tecnologia militare raggiunto nel corso della Prima Guerra Mondiale. Vediamo quali sono i punti più importanti emersi dalla Conferenza di Parigi: istituzione della C.I.N.A. (Commissione Internazionale della Navigazione Aerea – obbligo per i Paesi contraenti di istituire un registro nazionale unico per l’immatricolazione degli aeromobili e elaborazione di un protocollo, a livello internazionale, per i certificati di navigabilità e i brevetti di pilotaggio; già nel 1938 ne facevano parte 38 stati); affermazione della piena potestà dello Stato sullo spazio aereo sovrastante il proprio territorio (art. 1); libertà di passaggio inoffensivo nello spazio aereo sovrano per gli aerei degli Stati contraenti ( art. 2) – per gli stati non contraenti vengono previste autorizzazioni speciali e temporanee (art. 5); si tratta della prima regolamentazione “effettiva” dello spazio aereo (ratificata da 12 stati nel 1922 – Stati Uniti e Russia non aderiscono). Un’altra conferenza importante è quella di Madrid del 1926: si tratta di una convenzione firmata da Spagna, Portogallo e altre 19 paesi dell’America Latina (Convenzione ibero-americana per la navigazione aerea – i principi sono gli stessi della Conferenza di Parigi). Successivamente, un altro tentativo di regolamentazione dello spazio aereo viene fatto con la Convenzione dell’Avana nel 1928: si tratta della Convenzione sull’aviazione commerciale Panamericana firmata dagli Stati Uniti e altri sei stati dell’America Latina (esclusa l’Argentina già aderente a quella di Parigi – differisce dai principi generali della Convenzione di Parigi perché si concentra su aspetti tecnici e rimanda a negoziati bilaterali per gli altri aspetti). Alla fine, la Convenzione dell’Avana si concentra sulla regolamentazione delle “libertà commerciali” prevedendo la possibilità per gli stati contraenti la libertà di scalo aereo per favorire i traffici commerciali. Tuttavia, una regolamentazione tendenzialmente definitiva dello spazio aereo viene raggiunta soltanto nel 1944 a Chicago. Sostanzialmente, ci si rende conto che è necessario elaborare un quadro normativo stabile per favorire la ripresa economica al termine del conflitto (anche a causa della distruzione delle altre infrastrutture). Infatti, alla Conferenza di cui sopra partecipano

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circa 54 stati e, proprio in virtù di questo aspetto, può essere annoverata tra le Conferenze che hanno contribuito a gettare le basi del diritto internazionale della navigazione aerea. I precetti elaborati durante la Conferenza di Chicago, quindi, sono ancora oggi validi per tutto il sistema internazionale dell’Aviazione Civile. Vediamo quali sono gli elementi più importanti: viene ribadito ancora una volta il principio di “sovranità dell’aria sullo spazio sovrastante il territorio dello stato”; vengono formalmente riconosciute le c.d. “libertà dell’aria”. Le libertà dell’aria, in sostanza, vengono distinte in libertà tecniche e libertà commerciali: le prime afferiscono ad aspetti tecnici del volo e riguardano il diritto di sorvolo, scalo, rifornimento ed assistenza sul territorio per tutti gli stati contraenti; le libertà commerciali, invece, riguardano (ricalcando lo schema della Convenzione dell’Avana) le libertà mercantili e di trasporto di merci e persone. Nella Conferenza di Chicago, in ogni caso, gli stati non rivendicano alcuna pretesa di sovranità nei confronti dello spazio aereo dell’alto mare o delle terre senza sovranità. Anzi, proprio contro questa possibilità durante i lavori della Conferenza si verifica una vera e propria alzata di scudi per questioni attinenti alla sicurezza militare dei singoli stati. In definitiva, dall’esame delle Convenzioni che abbiamo esaminato possiamo tirar fuori un principio fondamentale (una sorta di assioma del regime giuridico dello spazio aereo): la condizione giuridica dello spazio aereo segue, in ogni caso, la condizione giuridica della superficie ad esso sottostante. Tuttavia, un altro aspetto importante (anzi, decisivo per il tema di cui ci stiamo occupando) è lo sviluppo tecnologico che, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, ha interessato tutto il settore connesso alla navigazione aerea. Proprio a questo proposito, infatti, gli enormi successi raggiunti dall’industria militare (per quanto attiene alla produzione missilistica) hanno portato gli Stati alla configurazione delle c.d. “Air Defence Identification Zone”: si tratta di quelle zone aeree contigue soprastanti l’alto mare costituite dagli Stati per identificare preventivamente il traffico aereo e difendere i rispettivi territori da attacchi a sorpresa provenienti dall’alto mare. Inoltre, oggi si parla di regolamentazione dello spazio cosmico (ma questo è un tema ancora più complesso – si ricordi l’Outer Space Teatry del 1967, il Moon Agreement del 1979, il National Space Policy voluto da G. Bush nel 2006). Ora, dopo aver analizzato la cornice giuridica entro la quale si svolge la navigazione aerea dobbiamo chiederci se (in ossequio al principio della sovranità dello spazio aereo sovrastante il territorio dello Stato) uno Stato è legittimato a difendere la propria integrità territoriale contro eventuali attacchi aerei: insomma, se un velivolo militare (per quelli civili abbiamo parlato di “libertà dell’aria”) tramite i sistemi radar e le moderne tecnologie in tema di telecomunicazioni omette di fornire indicazioni circa la propria presenza sul territorio di uno Stato, esiste o meno la legittimità da parte di quest’ultimo di adoperare tutte le contromisure necessarie? – non escludendo quelle militari, ovviamente. Evidentemente, nei salotti della politica si conosce poco il diritto internazionale. O meglio, ci si limita a conoscere e valutare gli eventi da un solo angolo prospettico: quello di giustificare sic et simpliciter un attacco militare – e per renderlo legittimo, infatti, nulla è più “politicamente valido” di un casus belli.

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PROFILO STORICO-STRATEGICO DELLA BATTAGLIA DI El ALAMEIN

Di Alessio Scocca

El Alamein, 1942. Sono passati settant'anni dalla battaglia che consegnò l'Africa in mano agli Alleati. Una località fino a quell’epoca sconosciuta, una stazione ferroviaria diroccata in prossimità della costa con alle spalle la depressione di Qattara, a soli 102 chilometri da Alessandria, è diventata il simbolo dell'eroismo di quei soldati europei che combatterono fino all'ultimo senza rimpianti. Durante la Seconda Guerra Mondiale, le strategie belliche dell'Asse permisero innumerevoli manovre ben riuscite, ma in Africa Settentrionale venne commesso un grande errore strategico che si rivelerà fatale per le sorti dello schieramento italotedesco: la mancata conquista di Malta, che diventò la vera e propria spina nel fianco dei bastimenti italiani che partivano da Napoli e dalla Sicilia, diretti in Libia. Lo stato maggiore italiano aveva infatti prontamente elaborato sin dai primi giorni del conflitto l’operazione Hercules, che prevedeva l’invasione dell’isola posta tra Tripoli e la Sicilia. L'operazione avrebbe impiegato la divisione paracadutisti Folgore, ritenuta ben armata ed equipaggiata per quell'azione, insieme ai marò del battaglione San Marco. Tuttavia il comando tedesco ritenne che fosse sufficiente tenere sotto bombardamento l’isola, per renderla inoffensiva. Il primo sostenitore di questa strategia fu lo stesso Hitler. Gli italiani cercarono invano di persuaderlo ad occupare Malta, ma ogni tentativo fu vano. Di conseguenza la Folgore fu spedita in Libia e utilizzata come truppa di fanteria nel deserto. Nonostante non fossero un corpo di fanteria, i paracadutisti italiani dimostrarono al nemico tutto il loro valore, riuscendo a respingere le truppe corazzate inglesi e costringendole alla ritirata più volte, cedendo solo per essere giunti allo stremo delle forze. Ma andiamo con ordine. Dal giugno del 1940 fino al luglio del 1942 il fronte dell’Africa Settentrionale era stato caratterizzato da una serie di rovesci improvvisi, che aveva portato le truppe italo-tedesche fino a Sidi El Barrani, località posta appena al di là del confine tra la Libia, colonia italiana, e l’Egitto alleato degli inglesi e da questi presidiato militarmente. Questi ultimi a loro volta si erano spinti nell’interno della Cirenaica, fino a raggiungere Marsa Brega tra il 1940 e il 1941. Mai la linea del fuoco aveva superato


fino ad allora Sidi El Barrani. Dopo la riconquista della piazzaforte di Tobruk (in territorio libico) aveva preso vigore la spinta offensiva dell’Afrika Korps del maresciallo Erwin Rommel e delle divisioni italiane. Una dopo l'altra erano cadute le località egiziane di Marsa Matruth, Maaten Bagush, Fuka, El Daba e Sidi Abd el Rahman: sulla strada per Alessandria (distante poco più di cento chilometri) restavano, in fila l’una dietro l’altra, soltanto le località di El Alamein, El Hamman e Buyrg el Arab. Le truppe dell'Asse quindi si trovavano ad El Alamein, poiché stavano seguendo il piano stilato da Rommel, che prevedeva la prosecuzione dell'offensiva verso l'Egitto, in modo da sferrare proprio lì il colpo di grazia agli Inglesi. Ai primi di luglio tuttavia Rommel si trova bloccato proprio in questa piccola stazione dagli inglesi stessi, che avevano acquisito nuova fiducia in seguito al cambio di guida (il 7 agosto Churchill aveva deciso di sostituire il comandante dell'8° Armata, Richie, con Bernard Law Montgomery, che aveva dato un nuovo entusiasmo alle truppe). Alla vigilia dello scontro, l'Asse disponeva di ottantamila uomini, fra cui ventisettemila tedeschi, di 200 carri armati e 345 aerei fra italiani e tedeschi. Dall'altro lato invece Montgomery aveva a disposizione duecentotrentamila uomini, con mille unità sia di carri armati che di aerei in servizio. L'asse si schierava a Nord con le divisioni di fanteria Trento, Bologna e Brescia, a sud invece si trovavano i paracadutisti della Folgore, e alle loro spalle la divisione – sempre italiana – Pavia. Le forze tedesche erano invece schierate in prima linea: si trattava della 164° divisione e della Brigata Paracadutisti agli ordini del generale Ramcke. In seconda linea vi erano invece posizionate, da nord verso sud, in ordine, la divisione corazzata Littorio, la Panzerdivision, la divisione corazzata Ariete. Montgomery di contro aveva schierato a nord il 30° Corpo D'Armata e a sud il 13°, posizionando in seconda linea il 10° Corpo D'Armata corazzato, ben attrezzato ed equipaggiato. Il piano del comandante inglese prevedeva una finta di attacco a sud e subito dopo un assalto vero, in forze massicce, a nord. A questo scopo, nei giorni precedenti l'inizio della battaglia, Montgomery aveva fatto mimetizzare un gran numero di truppe a nord e contemporaneamente aveva predisposto un altro contingente inferiore a sud, disordinatamente disposto sul terreno di battaglia. Quest'ultimo schieramento aveva tratto in inganno Rommel, che ritenendo sarebbero occorsi molti giorni agli Inglesi per ordinare le truppe, decise di prendersi trentasei ore di licenza, volando a Berlino dai suoi famigliari. La strategia inglese era quella di attaccare il centro del settore nord, tentando di sfondare nel tratto tenuto dagli italiani, ritenuti peggio armati dei tedeschi, aprendo poi due corridoi nei pressi dei campi minati, facendovi passare la fanteria coperta dai carri. La battaglia dunque iniziò con l'assenza di Rommel, durante la notte del 23 ottobre, con le fanterie inglesi ben presto entrate in azione, ma che trovarono una resistenza decisamente inaspettata da parte delle truppe avversarie, superiore a quanto previsto. Così, pur avendo raggiunto gli obiettivi strategici, Mongomery si trovò a disporre di fanti estremamente affaticati, decimati dalla reazione dei soldati dell'Asse. Gli inglesi non poterono quindi in alcun modo assicurare il passaggio dei carri armati nel varco aperto a nord degli schieramenti. Intanto il generale Rommel, avvisato di quanto accaduto, partì immediatamente da Berlino per arrivare in Africa, giungendo il 26 ottobre e trovando una situazione gravissima. Il generale Frederich Stumme, al quale aveva lasciato provvisoriamente il comando, era morto in circostanze non chiare la notte stessa del primo attacco, lasciando gli ufficiali senza ordini precisi. Il 28 ottobre le truppe inglesi tentarono una nuova avanzata nel varco aperto, ma i cannoni anticarro tedeschi aprirono un fuoco rapido e letale, tanto che la sera dello stesso giorno si poterono contare più di 300 carri nemici distrutti. Montgomery, scorgendo lo

spettro di un possibile annientamento della 1° Divisione Corazzata inglese da parte della 21° Panzerdivision tedesca, decise di dare inizio all'Operazione Supercharge, ovvero la concentrazione verso nord sia della 7° Divisione Corazzata che della 9°. Il comandante britannico, che pensava di sfondare in una decina di ore a nord, di fronte alla tenacia dei soldati dell'Asse stava capendo che i suoi calcoli si erano rivelati sbagliati. Nel frattempo Rommel, di fronte a questa massiccia concentrazione di truppe Inglesi a nord, il 31 ottobre pensò di ripiegare su Fuka, a 20 km dalle prime linee, ma comprese che le sue truppe correvano il rischio di essere completamente disfatte. Tuttavia la sera del 2 novembre, con i carri armati a disposizione del maresciallo ridotti soltanto a 30, sembrava necessario un ripiego immediato. Eppure il giorno dopo arrivò l'ordine di Hitler di non cedere un metro alle truppe nemiche, anche a costo della vita. Rommel, obbediente agli ordini, consegnò a tutti i reparti l'ordine di resistere ad oltranza. Hitler tuttavia non aveva compreso che il piano di ripiegamento elaborato da Rommel non era una dimostrazione di codardia, ma una mossa per tentare di capovolgere le sorti della battaglia. Rommel infatti, molto abile in campo aperto, con questa azione voleva tentare di stanare il nemico in modo da affrontarlo viso a viso. Il giorno seguente le truppe britanniche erano in piena avanzata, ed avevano aggirato ormai lo sbarramento anticarro italo-tedesco. Il generale Von Thoma era caduto nelle mani delle truppe inglesi e a Rommel giunse la notizia che la Divisione Corazzata italiana Ariete non esisteva più, immolatasi per tenere le posizioni. Quando una nuova brigata corazzata inglese raggiunse il litorale sbarcando dal mare, Erwin Rommel decise quindi di fare l'unica cosa possibile: ritirarsi. Anche la ritirata fu comunque un capolavoro dello stratega, poiché Montgomery, dopo la vittoria conseguita, voleva accerchiare le restanti truppe dell'Asse per distruggerle definitivamente, ma il feldmaresciallo non glielo permise. I superstiti infatti percorsero oltre tremila chilometri nel deserto, invano inseguiti dal nemico fino alla Tunisia. A questo punto Rommel venne messo al corrente dello sbarco di centomila americani in Algeria e in Marocco, e comprendendo di non avere più via d'uscita, i superstiti consegnarono le armi nel maggio dell'anno seguente. Gli ultimi a cedere ad El Alamein furono i paracadutisti italiani della Folgore, che si trovavano a sud, con di fronte quel 13° Corpo D'Armata che secondo gli inglesi avrebbe dovuto impegnarsi solo in un finto attacco, ma che in realtà combatté una delle più dure battaglie del conflitto. Infatti quelli della Folgore resistettero per oltre 12 giorni senza cedere un metro. Ecco qui una testimonianza di un superstite, paracadutista Italiano della Folgore, il signor Martinello: «Ci diedero cinque pallottole ciascuno per i nostri fucili e ci imbarcammo sui Savoia Marchetti soltanto con il paracadute principale. Niente emergenza, o si apriva subito o ci schiantavamo al suolo. Molti dei nostri morirono a terra o prima di arrivare a terra colpiti dal nemico, alla faccia della Convenzione di Ginevra. Ma nessuno di noi ci pensava. Eravamo in guerra, sapevamo di andare a morire. Non ci interessava vincere, ma morire con onore. Non comprendevamo del tutto quello che ci stava accadendo intorno, e non sapevamo neppure dove eravamo, ma capivamo che dovevamo arrangiarci. Io avevo 18 anni. Finite le pallottole, restammo a combattere soltanto con qualche mina anticarro, che presto finirono a loro volta. Così attaccavamo i carri inglesi con le bottiglie incendiarie e ogni tanto, riuscivamo, con un po’ di fortuna, a trafugare qualcuna delle loro armi, con le cassette delle munizioni, che trovavamo dentro ai carri stessi o abbandonate dopo uno scontro. Così cominciammo a sparare addosso, con le loro stesse armi, agli inglesi, che si vedevano tornare indietro le loro stesse pallottole. Quando dovemmo arrenderci e fummo catturati, i nostri nemici rimasero colpiti nel vedere che a tenerli in scacco con le unghie e con i denti erano rimasti soltanto un pugno di soldati italiani. Nel mio avamposto eravamo

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STORIA I COSACCHI, DALLE ORIGINI ALL'ERA POST-SOVIETICA

Di Pasqualina Nives Gnerre “Quando un Cosacco è sul suo cavallo, solo Dio è più grande di lui!” Così recita un proverbio Russo: nati da comunità libere, occupanti territori Russi ed Ucraini, i Cosacchi con il passare del tempo hanno dato prova di grande abilità militare, tanto da conquistarsi una fama imperitura come i migliori cavalieri dell’intera Russia. August von Haxthausen, nel suo Studies on the Interior of Russia, definisce il cosacco come “il russo più turbolento e più intrepido”: gelosi della loro identità, i Cosacchi hanno avuto talvolta rapporti burrascosi con la stessa Russia, sebbene sia nel passato che nel presente rappresentano certamente una delle più grandi glorie di tutto il continente eurasiatico. Sono pochi i documenti antichi sulla storia cosacca (i più, peraltro, sono testimonianze di seconda mano e cronache dei monasteri): le origini dei Cosacchi risalgono al XIV secolo, ma la loro provenienza è incerta. Le molteplici ipotesi li hanno ritenuti discendenti degli antichi Quando i Cosacchi si stabilirono nelle terre del Don intrapresero vari rapporti Sciti, degli Alani, dei Kazari, arrivando addirittura diplomatici con Mosca che porteranno ad una conveniente alleanza tra a considerarli di origine turca, kirghiza, carcassa e l’Impero e le loro comunità: i Cosacchi, infatti, avevano un ruolo non tartara. La stessa origine del nome è misteriosa: per trascurabile lungo le frontiere e per questo gli zar li compensavano alcuni deriva dal mongolo, per altri dal turco, ma le con oro, doni e nuove terre. Fu decisiva per la nuova dinastia dei ipotesi più probabili sembrano essere il russo (con Romanov la loro presenza all’elezione dello zar Michele I nel 1613. il termine kazak) e l’ucraino (con il termine kozak). Sappiamo però che il termine cosacco appare per la prima volta in un manoscritto russo del 1444 per definire i guerrieri di ventura non sottoposti ad alcun obbligo feudale. Le prime comunità cosacche si ebbero nel territorio ucraino, arrivando persino a costituire un proprio governo con sede a Zaparozhe; ma oltre le comunità libere non mancavano al tempo singoli casi di Cosacchi che accettavano di servire presso i sovrani. La loro economia era basata sulla caccia, sull’allevamento, sulla pesca; non praticavano l’agricoltura, attività disprezzata e ostacolata da alcune loro comunità. L’attività militare era per loro fondamentale: vivendo in aree confinanti con popoli avversi, non disdegnavano mai la guerra, giungendo addirittura a migrare ogni qual volta le zone in cui si erano stabiliti erano state pacificate. Il loro capo militare, denominato atamano, veniva eletto democraticamente. Quando i Cosacchi si stabilirono nelle terre del Don intrapresero vari rapporti diplomatici con Mosca che porteranno ad una conveniente alleanza tra l’Impero e le loro comunità: i Cosacchi, infatti, avevano un ruolo non trascurabile lungo le frontiere e per questo gli zar li compensavano con oro, doni e nuove terre. Fu decisiva per la nuova dinastia dei Romanov la loro presenza all’elezione dello zar Michele I nel 1613: questi ultimi privilegiarono il loro ruolo militare, ottenendo la loro fedeltà al trono alla fine del XVII secolo. Da allora i Cosacchi divennero veri e propri sudditi dell’Impero, rivestendo una funzione militare non trascurabile: pacificavano e sottomettevano le terre di nuova conquista e servivano anche in funzione repressiva verso i popoli di dubbia fedeltà all’Impero stesso. L’autogoverno di Zarapozhe cessò di esistere nel 1775 con Caterina II. Ma una tra le loro glorie più grandi fu scritta durante la campagna napoleonica in Russia quando l’atamano Platov costrinse le truppe francesi alla ritirata inseguendole oltre la frontiera occidentale: oramai la loro presenza nell’esercito russo non poteva che essere consolidata. Difatti dal XIX secolo alla fine del servizio militare il cosacco veniva premiato con la concessione di alcune terre, così che la loro comunità si trasformò in una piccola nobiltà terriera. Ma fu nel secolo successivo che si crearono varie spaccature tra di loro: già dalla rivoluzione di Ottobre, inizialmente alcuni Cosacchi si schierarono a favore di Lenin per poi, invece, costituire il fulcro più importante dell’Armata Bianca. Ciò fu dovuto anche per via del processo di decosacchizzazione portato avanti dal Partito Comunista fino al 1936. Nella Seconda Guerra Mondiale i Cosacchi combatterono contro le truppe dell’Asse; vi furono però anche alcuni che si schierarono a favore di Hitler arruolandosi direttamente nelle Waffen SS: si andò a creare così un’intera armata cosacca che combatté in Jugoslavia contro i partigiani titini, per poi arrendersi agli Inglesi in Carnia il 9 maggio del 1945. Le modalità di restituzione con cui gli inglesi rimpatriarono forzatamente i Cosacchi alleatesi con la Germania sono tutt’oggi discusse: in parte, i rapporti tra i Cosacchi e l’URSS ne risentirono, fin quando, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il Parlamento Russo approvò il 12 giugno 1992 la risoluzione “Circa la Riabilitazione dei Cosacchi”. Ad essa seguirono leggi che intendevano formare nuovamente unità cosacche all’interno delle forze armate russe. Ma fu nel 2004, con una legge voluta da Putin, che i cosacchi sono stati ufficialmente riabilitati nell’esercito, così che le comunità cosacche di provata fedeltà allo stato russo potranno servire nelle forze armate, anche in operazioni anti-terrorismo o in interventi di natura umanitaria. Per essi rappresenta, dopo un periodo difficile per la loro autonomia come fu il XX secolo, una importante conquista all’alba del Terzo Millennio.

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rimasti in 12. Qualcuno di quei soldati ci chiese poi: “Why?”. “Per l'onore” rispondevamo noi “Soltanto per l'onore”. Alla fine ci resero l'onore delle armi.»

I paracadutisti della Folgore erano partiti dall'Italia in cinquemila; alla fine ne sopravvissero in tutto 334. Alla loro resa, ebbero l'onore delle armi, come leggiamo anche dalla testimonianza. La BBC inglese alla fine della battaglia commentò: “I resti della divisione Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane». Pochi giorni dopo la battaglia, Adolf Hitler dispose l'invio di un forte contingente di truppe e di mezzi per difendere la Tunisia. In tal modo il generale Eisenhower non riuscì a contrastare l'occupazione della Tunisia da parte di Rommel. Ma era ormai troppo tardi, l'occupazione influì ben poco sull'esito finale del conflitto mondiale. William Shirer, storico statunitense, scrisse: «Se il Führer avesse mandato qualche mese prima soltanto un quinto di quelle truppe e di quei carri armati a Rommel, probabilmente la “Volpe del deserto” in quel momento si sarebbe trovata al di là del Nilo, lo sbarco angloamericano nell'Africa del Nord non avrebbe avuto luogo e il Mediterraneo sarebbe stato irrimediabilmente perduto per gli Alleati, e così sarebbe stato salvaguardato il punto vulnerabile del corpo dell'Asse». Fu così dunque che si concluse la battaglia di El Alamein, uno degli episodi più epici del secondo conflitto mondiale, costato la vita a tredicimilacinquecento inglesi, diciassettemila italiani e novemila tedeschi.


non furono seguite dai fatti, nessuna potenza europea rispose alla richiesta di decisi interventi contro i sovversivi, eccetto la Spagna che il 21 dicembre 1848 invitò i governi a fissare un luogo per un congresso internazionale con l’intendo di “fare ogni cosa a favore del Papa, la quale fosse creduta necessaria per ristabilire il capo visibile della Chiesa in quello stato di libertà, di indipendenza, di dignità ed autorità che esige imperiosamente l’esercizio delle sacre sue attribuzioni”. Francesi e Austriaci avviarono, così, prudenti contatti, mentre i Portoghesi aderirono senza indugio come i Napoletani che provarono ad estendere l’invito ai rappresentanti di Russia, Prussia e Inghilterra. Ad opporsi erano i Piemontesi ed i Toscani. Fu, però, l’ambasciatore austriaco a Parigi il 31 dicembre del 1848 ad andare oltre lanciando l’idea di un intervento comune franco-austriaco su Roma. Si passò, allora, alla formulazione di un piano dettagliato d’intervento con uno sbarco a Civitavecchia assistito dall’esercito napoletano mentre Gioberti propose, invece, che Pio IX fosse riportato a Roma da un corpo di spedizione piemontese, progetto ovviamente respinto dai diplomatici degli Asburgo. L’11 febbraio all’ambasciatore austriaco venne comunicata una richiesta ufficiale di aiuto militare estesa a Francia, Spagna e Regno delle Due Sicilie, ma l’invito di Pio IX non coinvolse i Piemontesi che continuavano ad agire in antitesi alla corte pontificia3. Il 19 febbraio venne pubblicata la nota

“Maestà! Il Sommo Pontefice, il vicario di Gesù Cristo, il sovrano degli Stati della Chiesa fu costretto ad abbandonare la capitale de’ suoi dominii per non mettere a repentaglio la sua dignità e non aver l’apparenza di approvare col suo silenzio gl’indicibili eccessi che furono e sono tuttora commessi in Roma. Egli è a Gaeta, ma non vi dimorerà che per poco tempo, poiché non è sua intenzione di mettere in pericolo V.M. e la tranquillità de’suoi sudditi, quando la sua presenza potesse far correre alla medesima qualsiasi rischio. Il conte Spaur avrà l’onore di presentare a V.M. questo foglio. Egli le dirà il resto, che la brevità del tempo non permette di aggiungere intorno al luogo ave il Papa pensa di recarsi fra poco. Nella pace dell’animo, nella rassegnazione ai divini decreti, egli impartisce a V.M., alla sua reale sposa e famiglia la benedizione apostolica. Mola di Gaeta, il 25 Novembre 1848 Pius P.P. Nonus”. Con questa breve missiva, Pio IX comunicò a Ferdinando II la sua fuga da Roma ed il riparo entro i confini delle Due Sicilie. Roma, in mano ai sovversivi, aveva già visto l’assassinio di Pellegrino Rossi e sua Santità aveva, così, deciso di lasciare la città e di raggiungere, nella notte del 24 Novembre, la vicina città di Gaeta per poi salpare verso le coste francesi. La carrozza pontificia uscita dal Quirinale, si diresse al Colosseo; nei pressi della Chiesa dei Santi Pietro e Marcellino, della quale Pio IX era stato Cardinale protettore, il Santo Padre salì su quella del Conte Spaur e con questi imboccò la porta di San Giovanni in Laterano per raggiungere Albano dove ad attenderli v’era la contessa Teresa Spaur, con suo figlio minore Massimo, il suo precettore Padre Sebastiano Liebl ed un soldato. Un cambio di cavalli venne effettuato a Genzano e alle cinque e mezza del mattino i sei giunsero a Terracina; dopo poco, a Fondi, fu riparata una ruota disfatta e verso Mola di Gaeta ai viaggiatori si unirono anche l’ambasciatore spagnolo Gonzales d’Arnao ed il Cardinale Antonelli. La carrozza raggiunse alle dieci del mattino Mola di Gaeta dove, in incognito, il Papa alloggiò presso l’albergo Villa di Cicerone per poi trasferirsi dopo pranzo a Gaeta presso la locanda del Giardinetto. L’accoglienza dei Borbone fu così amorevole che il Pontefice decise di restare nel Regno delle Due Sicilie e abbandonare l’idea di soggiornare in Francia. Ferdinando II aveva, infatti, accolto con grande letizia l’annunzio dell’arrivo del Papa e si era recato subito a Gaeta con tutta la famiglia reale dichiarando la sua totale disponibilità. L’accoglienza dei Borbone, in effetti, non poteva essere migliore, Pio IX venne alloggiato nel palazzo reale, il suo seguito adeguatamente sistemato nelle più ricche case gaetane e lo stesso Ferdinando II si trasferì in breve tempo a Gaeta con tutta la famiglia. Pio IX, costretto ad abbandonare il proprio popolo, era arrivato nella città costiera travestito come un comune prelato e profondamente cambiato negli orientamenti politici perché tradito, dopo soli due anni di pontificato, da chi aveva usato le sue concessioni per fomentare la ribellione irrazionale ed anticlericale. A Gaeta Pio IX assunse una linea politica rigorosa, tesa a isolare la Repubblica. Rifiutò di ricevere le delegazioni del consiglio dei Deputati, dell’Alto Consiglio e del Municipio di Roma e strinse una fitta rete di relazioni diplomatiche per stroncare la sovversione. Ricordiamo al riguardo il Monitorio dell’1 Gennaio 1849 col quale il Papa condannò la Costituente romana come “atto di mascherato tradimento e di vera ribellione, meritevole dei castighi comminati dalle leggi e divine e umane” e fece divieto per cittadini di Roma di prendere parte nelle riunioni per le nomine degl’individui da inviarsi alla condannata Assemblea; ricordiamo inoltre la Nota del 18 Febbraio, firmata dal Cardinal Antonelli, con cui si invitavano i governi di Francia, Austria, Spagna e delle Due Sicilie ad “accorrere colle loro armi a ristabilire nei domini della Santa Sede l’ordine manomesso da un’orda di settarii”, ed ancora l’Allocuzione del 20 Aprile che rinnovava la condanna alla Repubblica Romana, gli appelli ai sovrani europei ed, infine, il Motu-proprio di Portici del 12 Settembre, col quale Pio IX concedeva un parte delle riforme previste dal Memorandum ai territori dello Stato romano restituiti al suo dominio da francesi ed austriaci. Sua Santità Pio IX, appena giunto a Gaeta, aveva contattato ogni trono europeo e da ogni dove aveva ricevuto risposte di attenta solidarietà1. Commossi erano i messaggi giunti dalla Francia 2, ma le belle parole delle lettere e delle ambasceria 1 Scrive Farini: “L’esultante Pontefice frattanto, fissata la sua dimora in Gaeta, aveva resi consapevoli i Governi dell’Europa delle ragioni per cui esulava ed aveva chiesto in generale aiuto a tutti i principi e a tutte le nazioni. E tutte le nazioni si commovevano alla voce di lui. Il generale Cavaignac il 28 novembre 1848 significava all’Assemblea nazionale di Francia che, ricevuta notizia dei casi di Roma, aveva, per via telegrafica, comandato che s’imbarcassero 35000 uomini sopra tre fregate a vapore e veleggiassero a Civitavecchia per assicurare la persona e la libertà del Pontefice; né da questo pietoso suo proposito potevano rimuoverlo le dichiarazioni e le proteste che faceva contro di lui il Governo romano in data 8 dicembre 1848. Il re di Sardegna mandava oratori a Gaeta il marchese di Montezemolo e monsignor Riccardi, vescovo di Savona; i quali ricevuti dal cardinale Antonelli e presentati al Pontefice, mostravano lettere del piissimo loro sovrano Carlo Alberto, che offriva al Santo Padre asilo degno nella città di Nizza o in qualunque altra del regno gli fosse piaciuta, e armi altresì per ristorare gli ordini costituzionali dello Stato romano…Prussia e Russia, l’una protestante, l’altra scismatica, offrivano il loro soccorso all’esule Pontefice, e l’imperatore delle Russie protestava solennemente ‘che il Santo Padre avrebbe trovato in lui un leale aiuto per farlo ristabilire nel suo potere spirituale e temporale”.

2 Riporta Margotti: “In Francia, appena si seppe la partenza di Pio IX da Roma, fu una gara in tutte le città per possederlo. Ed essendo corsa voce che la Santità Sua si recherebbe in Parigi, tosto il signor Chapot, rappresentante del popolo pel Gard, insieme con 84 deputati dell’Assemblea, presentavano un progetto di decreto, in virtù del quale una deputazione di rappresentanti si dovesse recare presso il Sovrano Pontefice, affine di portargli l’omaggio dell’Assemblea nazionale e del popolo francese. Il Consiglio generale di Vaucluse, rappresentante il bel paese che altre volte formava il contado di Avignone, l’1 dicembre 1848 ‘ deponeva ai piedi dell’esule Pontefice l’espressione di un rispettoso dolore e lo supplicava a fissare la sua residenza nell’antica metropoli de’ suoi successori’. Il Consiglio municipale della città di Avignone il 2 dicembre 1848 pregava il Papa ‘a ricordarsi, in mezzo alle misteriose tribolazioni accumulate sul suo capo da Colui che dispone degli imperi, che egli aveva in Aivgnone dei figli, il cui amore non gli poteva essere tolto giammai. Che se la Francia tutta sospirava il favore di possederlo sulla terra sua ospitale, Avignone lo sospirava più specialmente in memoria dei vincoli che l’avevano unita coi Sovrani Pontefici, memoria di cui la Santità Sua avrebbe trovato tracce in tutti i cuori’.Marsiglia desiderava di avere il Santo Padre nel suo seno. E ‘la terra di Francia, gli scriveva quel vescovo il 5 dicembre 1848, giubilerebbe santamente e i suoi abitanti la crederebbero benedetta da Dio come voi toccaste le nostre sponde’; e il principe di Chinay diceva a Pio IX il 5 dicembre 1848: ‘Io so che la nobil terra di Francia sarà lieta di potervi offrire il palazzo medesimo degli antichi suoi re, ma se gli avvenimenti consigliassero a Vostra Santità di preferire la calma e l’isolamento di un soggiorno particolare, io vi supplico di disporre, come di cosa vostra, del castello di Menars’”.

3 In data 15 Febbraio Gioberti scriveva: “Il Parlamento piemontese non permetterà mai che l’Austria intervenga negli affari di Roma. Noi abbiamo centomila uomini, che potranno combattere contro il tedesco nello Stato romano così bene come sulle rive del Mincio e dell’Adige. La Corte di Gaeta pensi bene ai suoi interessi. Il Piemonte potrà protestare, potrà impedire che l’Austria intervenga nel cuore dell’Italia, e disonori con le sue armi la causa santa del pontefice”.

L’ESILIO DI PIO IX A GAETA Di Angelo D’Ambra


diplomatica relativa alle decisioni prese nel concistoro del 7 e il giorno dopo Gioberti lasciò il ministero4. Il 30 marzo 1849, il giorno dopo l’insediamento del Triumvirato a Roma, si aprì la prima seduta della Conferenza di Gaeta e si riunirono, su invito del Cardinale Antonelli, neo pro segretario di Stato di Pio IX, i plenipotenziari d’Austria, di Spagna, di Francia e del Regno delle Due Sicilie. Seguirono altre tredici, tutte svolte a Gaeta, tranne l’ultima, quella del 22 Settembre del 1849, che si tenne a Portici. Nel trambusto generale un lieto evento segnava la vita di casa Borbone. Ferdinando II aveva ben chiaro che gli interessi dello stato pontificio collimavano con quelli borbonici, la difesa della Chiesa era la difesa della sua politica, il consolidamento del Regno scosso dalla sedizione interna esplosa il 12 gennaio in Sicilia ed il 18 maggio a Napoli e chiaramente animata dai protagonisti della politica internazionale. Contribuì poi senza dubbio alcuno a rafforzare i legami amichevoli tra il Re e il Pontefice, la nascita della principessina Maria delle Grazie Pio di Borbone, proprio da Pio IX battezzata5, ed ancora più importante fu l’incontro del con gli Alcantarini del Santuario della Montagna Spaccata da cui scaturì l’enciclica Ubi Primum, nella quale il Pontefice chiese all’episcopato di fargli conoscere il suo pensiero e quello dei fedeli riguardo all'Immacolata Concezione6. Fu dunque a Gaeta che Pio IX decise di iniziare l’iter che lo avrebbe portato a proclamare nel 1854 il dogma dell'Immacolata Concezione, proprio a Gaeta dove il pontefice amava pregare davanti all'immagine dell'Immacolata di Scipione Pulzone conservata nella splendida Cappella d'Oro del complesso dell'Annunziata. Dinanzi al mare agitato il Pontefice meditò sulle parole del cardinale Luigi Lambruschini: “Beatissimo Padre, Voi non potrete guarire il mondo che col proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione. Solo questa definizione dogmatica potrà ristabilire il senso delle verità cristiane e ritrarre le intelligenze dalle vie del naturalismo in cui si smarriscono”. Quattro anni dopo apparirà la Vergine Santissima, presso la grotta di Massabielle-Lourdes, affermando: “Io sono l’Immacolata Concezione”7. Torniamo invece sul versante politico militare dove ognuna delle quattro potenze giocò la sua partita con estrema arguzia per espandere il proprio peso sullo scacchiere europeo. Il 20 aprile il generale francese Oudinot, ricevuto il mandato di raggiungere Roma, si apprestò a partire8. Lo sbarco francese fu salutato dal Papa con parole di encomio per le quattro potenze cui aveva rivolto la sua richiesta di aiuto9. Il primo vascello francese giunse nella rada di Gaeta il 23 Aprile: “Martedì 24. – il Signor Capitano Duquesne, Comandante del Jena, si è questa mane recato con tutti gli Ufficiali componenti lo Stato Maggiore del Vascello, presso del S. Padre per tributargli i dovuti omaggi, e baciare il Sacro piede; ed è stato benignamente accolto dalla S.S. Indi ei è recato con gli stessi suoi Uffiziali a fare gli omaggi medesimi al Re (S.N.) che lo accolse con la bontà e gentilezza propria del suo animo grande e dignitoso”. Le speranze di Pio IX erano tutte riposte in Oudinot: “Siamo persuasi che questa armata sarà l’istrumento col quale verrà quanto prima ripristinato l’ordine pubblico nello Stato della

4 Il Regno sabaudo di lì a poco romperà l’armistizio di Salasco e, battuto dagli austriaci, capirà quali siano le sue reali capacità militari. 5 “A 2 Agosto 1849 ad ore 11 ¾ della sera è partorita nella città di Gaeta Sua Maestà la Regina Maria Teresa d’Austria Augusta Consorte di Sua Maestà il nostro Re Ferdinando 2° (D.G.) ed ha data alla luce una Reale Principessina. Il S. Battesimo li è stato conferito il giorno 3 Agosto 1849, nella Basilica Arcivescovile della Città, dal Regnante Sommo Pontefice Pio Pp. IX assistito dagli Eminentissimi Cardinali Riario Camerlengo di S.R.C., ed Antonelli Pro-Segretario di Stato. I nomi imposti alla R. Neonata sono Maria delle Grazie, Pio, Vincenzo Ferreri, Michele Arcangelo, Ferdinando, Francesco d’Assisi, Luigi Re, Alfonso, Gaetano, Giuseppe, Pietro Paolo, Gennaro, Luigi Gonzaga, Gaspare, Melchiorre, Baldassarre, Alberto, Giorgio, Vincenzo, Sebastiano, Rocco, Andrea Avellino, Francesco di Paolo, Felice, Emmanuele, Anna, Filomena Sebazia, Lucia, Apollonia, Luitgarda. Era tenuta nelle braccia della prima Dama d’onore di S.M. la Regina, D. Mariantonia Serra de’ Duchi di Cassano Principessa di Bisignano. Stavano presenti in Chiesa S.M. il Re N.S. colla R. Famiglia, moltissimi Cardinali, il Ministero Napolitano, i Grandi della R. Corte, il Cerimoniere Maggiore (della M.S.) Sig. D. Alfonso D’Avalos Marchese di Pescara e Vasto. Presenziavano ancora tutti i Ministri, ed Ambasciatori Esteri presso la S. Sede, che avevano seguito in Gaeta il Pontefice. Tutte le Autorità Civili, e militari di Gaeta, e le Ufficialità de’ diversi Corpi Militari, quivi stanziati: i Comandanti ed Uffiziali della Corvetta Cristina, e Vapori Napolitani; infine il Reetro-Ammiraglio della Squadra Spagnuola con tutti gli Uffiziali de’ Leni, e Vapori al suo comando, ed i Comandanti con Uffiziali de’ Vapori Francesi, tutti ancorati nel Golfo di Gaeta” 6 Secondo alcuni studiosi invece Ferdinando II avrebbe chiesto al Pontefice come contraccambio per l’ospitalità la definizione dogmatica dell'Immacolata, patrona delle Due Sicilie. 7 Il dogma concepito a Gaeta fu introdotto da Pio IX nel 1854 con la bolla Ineffabilis Deus che affermerà non soltanto che Maria è l’unica creatura ad essere nata priva del peccato originale, ma aggiunge altresì che la Madre di Dio per speciale privilegio non ha commesso nessun peccato, né mortale né veniale, in tutta la sua vita: “Nel primo istante della sua concezione Maria è stata preservata intatta da ogni macchia di peccato originale, per singolare grazia e privilegio di Dio, in considerazione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore”. 8 Oudinot lanciò il seguente proclama: “SOLDATI! Il presidente della repubblica mi ha affidato il comando in capo del corpo di spedizione del Mediterraneo. Quest’onore impone grandi doveri, che il vostro patriottismo mi aiuterà a compiere. Il governo, risoluto di mantenere dovunque la nostra antica e legittima influenza, non ha voluto che i destini del popolo italiano possano restare in balìa di una potenza straniera, o di un partito in minoranza. Ci affida la bandiera della Francia per inalberarla sul territorio romano quale luminoso attestato delle nostre simpatie. Soldati di terra e di mare, figli della stessa famiglia, ponete in comune la vostra devozione ed i vostri sforzi, questa con fratellanza vi farà sopportare con gioia i pericoli, le privazioni e le fatiche. Sul suolo ove vi disponete a discendere incontrerete ad ogni passo monumenti e memorie, che potentemente stimoleranno i vostri istinti di gloria. L’onore militare vuole ed esige disciplina e prodezza, non l’obliate mai. I vostri padri ebbero il raro privilegio di far prediligere il nome francese dovunque combatterono. Come essi, rispetterete le proprietà ed i costumi delle amiche popolazioni; nella sua premura per le quali il governo ha prescritto che tutte le spese dell’esercizio fossero loro immediatamente pagate in danaro; in ogni occasione prenderete per regola di condotta questo principio di alta moralità. Colle vostre armi, coi vostri esempi farete rispettare la dignità dei popoli, che tollera meno la licenza che il dispotismo. L’Italia ne andrà così debitrice di ciò che la Francia seppe conquistare per se stessa, l’ordine nella libertà”. 9 “Dopo aver invocato l’aiuto di tutti i principi, chiedemmo tanto più volentieri soccorso all’Austria confinante a settentrione col nostro Stato, quanto ch’essa non solo prestò sempre l’egregia sua opera in difesa del temporale dominio della Sede apostolica, ma dà ora certo a sperare che, giusta gli ardentissimi nostri desiderii e giustissime domande, vengano eliminate da quell’impero alcune massime riprovate sempre dalla Sede apostolica, e perciò a bene e vantaggio di quei fedeli ricuperi ivi la Chiesa la sua libertà. Il che, mentre con sommo piacere vi annunziamo, siamo certi che arrecherà voi non piccola consolazione. Simile aiuto domandammo alla Francia, alla quale portiamo singolare affetto e benevolenza, mentre il clero e i fedeli di quella nazione posero ogni studio nel attempare e sollevare le nostre amarezze ed angustie con dimostrazioni amplissime di filiale devozione ed ossequio. Chiedemmo ancora soccorso alla Spagna, che, grandemente premurosa e sollecita delle nostre afflizioni, eccitò per la prima le altre nazioni cattoliche a stringere tra loro una filiale alleanza per procurare di ricondurre alla sua sede il padre comune dei fedeli, il supremo pastore della Chiesa. Finalmente siffatto aiuto chiedemmo al regno delle Due Sicilie, in cui siamo ospiti presso il suo re, che, occupandosi a tutt’uomo nel promuovere la vera e solida felicità de’ suoi popoli, cotanto rifulge e pietà da servire d’esempio a’ suoi stessi popoli. Sebbene poi non possiamo abbastanza esprimere a parole con quanta premura e sollecitudine quel principe stesso ambisce con ogni maniera di officiosità e con chiari argomenti di attestarci e continuarci continuamente l’esimia sua figliale devozione che ci pota, pur tuttavia gl’illustri suoi meriti verso di noi non andranno giammai in oblio. Né possiamo altresì in alcun modo passare sotto silenzio i contrassegni di pietà, di amore e di ossequio che il clero e il popolo dello stesso regno, fin da quando vi entrammo, non cessò mai di porgerci”.

Chiesa, aprendo così per sua parte la strada al sovrano di poter confermare l’opera sua al bene dei sudditi e molto più al Pontefice il libero e indipendente esercizio del suo mandato”. Sin dalla quarta sessione della Conferenza, però, i Francesi avevano chiesto a Pio IX un proclama che annunciasse le sue intenzioni liberali, lo fecero con maggiore intensità all’indomani della sconfitta. Il 28 aprile, nella quinta sessione della Conferenza di Gaeta, si diede il via libera all’esercito di Ferdinando II che, forte di seimila uomini, prese Terracina, Velletri e Frosinone. Eppure, nonostante tale enorme dispiegamento di forze, il 30 aprile l’esercito di Oudinot, bombardato dalle artiglierie e dalle fucilerie sistemate sulle fortificazioni di Porta Angelica, fu costretto a ripiegare su Castel di Guido. Intanto, il 29 aprile, l’esercito napoletano, affiancato dagli Spagnoli, aveva passato il confine per Portella e puntava su Terracina penetrando fino a Palestrina, da dove però il 9 Maggio fu costretto a ripiegare. Gli Austriaci, invece, passato il confine, avevano occupano Ferrara, Bologna e Ancona. Il 20 maggio si aprì la sesta sessione della Conferenza di Gaeta, la più lunga, i Napoletani, fiancheggiati dagli Austriaci, accusano i francesi di contrasti nelle operazioni militari, li criticarono perché impediscono di alzare la bandiera dello stato pontificio nei territori conquistati. I Francesi risposero che la bandiera da alzarsi è quella di Francia perché le popolazioni romane non volevano l’antico vessillo e perché Parigi voleva “l’indipendenza del Papa come la libertà del popolo romano”. Di fronte all’ostracismo francese e alla sconfitta di Velletri del 19 Maggio, il Ministro degli Esteri Napoletano Targioni consigliò al plenipotenziario napoletano, il Conte Ludolf, di ritirarsi dalla Conferenza, ma Ferdinando II vi si oppone. Il primo giugno Oudinot riprense la guerra, nello stesso mese gli Spagnoli raggiunsero Priverno, gli Austriaci occuparono Ascoli, i Napoletani Ferentino. Così a fine mese, perse pure le porte San Pancrazio, Portese, San Paolo, Cavalleggeri e del Popolo, l’Assemblea repubblicana adottò la seguente decisione: “In nome di Dio e del popolo, l’assemblea costituente cessa una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto”. Il giorno dopo i Francesi entrarono in Roma10. Il 15 Luglio furono rialzate le bandiere pontificie sulla torre del Campidoglio e su Castel Sant’Angelo e di li a poco nelle strade dell’Urbe fu affisso un proclama di Pio IX: “PIUS P.P. IX a Suoi fedelissimi sudditi, Iddio ha levato in alto il suo braccio ed ha comandato al mare tempestoso dell’anarchia e dell’empietà di arrestarsi. Egli ha guidato le armi cattoliche per sostenere i diritti dell’umanità conculcata, della fede combattuta, e quelli della Santa Sede e della nostra sovranità. Sia lode eterna a Lui, che anche in mezzo alle ire, non dimentica la misericordia. Amatissimi sudditi, se nel vortice delle spaventose vicende il nostro cuore si è saziato di affanni sul riflesso di tanti mali patiti dalla Chiesa, dalla religione e da voi, non ha però scemato l’affetto col quale vi amò sempre e vi ama. Noi affrettiamo coi nostri voti il giorno che ci conduca di nuovo fra voi, e, allorquando sia giunto, noi torneremo col vivo desiderio di apportarvi conforto, e con la volontà di occuparci con tutte le nostre forze del vostro vero bene, applicando i difficili rimedi ai mali gravissimi, e consolidando i buoni sudditi, i quali, mentre aspettano quelle istituzioni che appaghino i loro bisogni, vogliano, come noi lo vogliamo, vedere guarentite la libertà e l’indipendenza del Sommo Pontificato, così necessarie alla tranquillità del mondo cattolico. Intanto pel riordinamento della cosa pubblica andiamo a nominare una Commissione che, munita di pieni poteri e coadiuvata da un ministro, regoli il governo dello Stato. Quella benedizione del Signore che vi abbiamo sempre implorata anche da voi lontani, oggi con maggior fervore la imploriamo, affinché penda copiosa verso di voi; ed è grande conforto all’animo nostro lo sperare che tutti quelli che vollero rendersi incapaci di goderne il frutto pei loro traviamenti possano esserne fatti meritevoli mercé di un sincero e costante ravvedimento”.

10 Il proclama francese recita: “Abitanti di Roma! L’esercito comandato dalla repubblica francese sul vostro territorio ha per fine di restituire l’ordine desiderato dalle popolazioni. Pochi faziosi e traviati ci hanno costretto a dare l’assalto alle vostre mura. Ci siamo impadroniti della città, adempiremo al debito nostro. Fra le testimonianze di simpatia che ci hanno accolto dove erano incontestabili i sensi del vero popolo romano, sonosi levati alcuni rumori ostili che ci hanno condotti in necessità di reprimerli immediatamente. Ripiglino animo le genti dabbene ed i veri amici della libertà, i nemici dell’ordine e della società sappiano che, se mai si rinnovassero dimostrazioni oppressive provocate da una fazione straniera, sarebbero severamente punite. Per garantire efficacemente la pubblica sicurezza, io faccio le provvisioni seguenti: Ogni podestà è temporaneamente concentrata in mano della autorità militare, la quale immediatamente invocherà il concorso dell’autorità municipale. L’Assemblea ed il governo, dei quali il regno violento e oppressivo incominciò dall’ingratitudine e finì con un’empia guerra contro una nazione amica delle popolazioni romane, hanno cessato di esistere. I circoli e le società politiche sono chiusi, sono proibite temporaneamente ogni pubblicazione per le stampe, ogni affissione non permessa dall’autorità militare. I delitti contro le persone e le proprietà saranno conosciuti e puniti dai tribunali militari. Il generale di divisione Rostolan è nominato governatore di Roma; il generale di brigata Sauvan, comandante; il colonnello Sol, maggiore di piazza”.

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FËDOR MICHAILOVIC

DOSTOEVSKIJ: IL PIƯ GRANDE METAFISICO RUSSO Di Francesco Miolli

I

nsigne maestro della prosa, abilissimo scrutatore dell’animo umano, scandagliatore di quel “sottosuolo” che pochi hanno saputo indagare altrettanto abilmente, Fëdor Dostoevskij si rivela, secondo il filosofo russo Nikolaj Berdjaev, anche “il più grande metafisico russo”. Una definizione che sembrerebbe, istintivamente, calzare meglio ad un filosofo, piuttosto che ad un romanziere. Eppure, l’opera di Dostoevskij, e questo è ben evidente, non si ferma ad uno sterile descrittivismo psicologico, piuttosto, si pone interrogativi universali, di carattere autenticamente filosofico, sebbene il suo campo d’azione sia la finzione letteraria – eccezion fatta per qualche saggio e per il suo diario, nel quale le sue idee trovano espressione in forma concettuale – e non la trattazione scientifica. È per mezzo della forma dialogica che le sue idee si delineano, in un continuo scambio tra i personaggi dei suoi romanzi e racconti. Cardine della visione filosofica che ne traspare è il concetto di libertà. Esso emerge con forza tragica alla luce di una lettura cristiana – ortodossa – dell’esistenza umana: è il tema della libertà, intesa non come meta confusa ed astratta, come aspirazione liberal-borghese – e, dunque, intrinsecamente anarchica e moderna – quanto come mezzo, tragicamente grande e potente, affidato da Dio all’uomo, attraverso il quale scegliere tra Bene e male. La libertà non è un punto d’arrivo, ma, addirittura, secondo l’interpretazione di Berdjaev, il fondamento di una visione metafisica, non più incentrata sul concetto non contraddittorio dell’Essere. Non è certo, questa, una concezione propria del primo Dostoevskij, ad esempio quello di Povera Gente, dai tratti umanitaristici e di simpatia socialista. Il tema “metafisico” prende il sopravvento dopo una serie di esperienze personali molto forti: lo scrittore viene condannato a morte appunto per motivi ideologici – le sue idee, allora, erano pregne di quel socialismo utopico teorizzato da Fourier e Saint Simon – ma la pena è commutata ed egli è sottoposto a quattro anni di lavori forzati in Siberia. È proprio in quel periodo che Dostoevskij riscopre la fede ortodossa e si avvicina al pensiero slavofilo. Al suo ritorno, grande è la verve con cui accusa i nichilisti russi, rei di destabilizzare la patria sia sul versante politico e culturale, propugnando l’idea di una rivoluzione che rovesciasse l’ordine esistente, sia su quello spirituale, ferendo il senso religioso del popolo russo e demolendo i principi della tradizione ortodossa. È il 1864 quando, nella rivista Epocha, trova la pubblicazione a puntate Memorie dal sottosuolo, che costituisce la svolta “metafisica” dello scrittore. Al centro del racconto è il “sottosuolo”, quella zona d’ombra, principio di ogni pulsione umana, che fu poi definito inconscio. Dostoevskij, attraverso la forma della confessione, scava nell’animo dell’uomo del sottosuolo, mettendone in risalto i lati più degradanti. Ed è proprio in una delle sue elucubrazioni, che si trova una prima, interessantissima riflessione sul concetto di libertà. La sintetizza perfettamente Nabokov: “L’uomo non aspira a un tornaconto personale, ma semplicemente a scegliere autonomamente – qualunque cosa scelga – anche a costo di distruggere le strutture della logica, della statistica, dell’armonia e dell’ordine. […] Ma l’uomo dostoevskiano può scegliere qualcosa di folle, di stupido o di nocivo – distruzione e morte – perché se non altro è una sua scelta.” L’idea che ne scaturisce è ben evidente: la libertà può portare alla dissoluzione e al fallimento. Essa può essere una forza caotica ed entropica. Ed è dunque qui che si consuma la tragicità della visione dostoevskiana dell’esistenza: l’uomo deve farsi carico del fardello della libertà, del suo peso enorme, che solo può conferirgli una dignità, perché dono specifico di Dio, segno della natura divina dell’uomo, del suo essere creatura ad immagine e somiglianza del Creatore. Tali idee trovano maggiore profondità tragica e maggior spessore concettuale nelle sue successive opere. Delitto e castigo, due anni più tardi, attraverso il personaggio di Raskolnikov, mostra meglio le conseguenze dell’abuso di libertà, quando egli, convinto di avere facoltà eccezionali, decide di mettersi alla prova, per mezzo di un atto che crede eroico: uccidere una vecchia usuraia, odiata da tutti. Il giovane studente, che mette in atto i suoi propositi, colpendo la vecchia con la scure, ma di dorso, quasi a voler rendere meno brutale il gesto, una volta arrestato e condotto in Siberia, viene annullato dal rimorso che mai lo abbandona, neppure quando tocca quel Vangelo che tiene sotto il cuscino e che non legge. L’errore è stato quello di negare l’esistenza ad una creatura che, per quanto degradata, è pur sempre stata creata ad immagine e somiglianza di Dio, che ha pur sempre quel sacro diritto alla vita che non può essere strappato da altri uomini. Dostoevskij ricorre alla figura di un’anima semplice, una pura di cuore, Sonija, per redimere Raskolnikov. Ed ella lo redime attraverso la compassione, la pietas cristiana, quell’amore e quella capacità di comprendere le sofferenze altrui e compatire il prossimo propri solo dei semplici. Un altro dato essenziale è il fatto che il delitto scaturisca da ciò che Gide definisce “il ruminare del cervello”. Il concetto si fa più evidente se prendiamo in considerazione I demoni e, nello specifico, la figura di Kirillov, estremo razionalista, che vuole negare la propria mortalità dimostrando di “essere Dio”. Egli attua un “suicidio logico”: “Se Dio esiste, tutto dipende da Lui e io nulla posso al di fuori della sua volontà. Se non esiste, tutto dipende da me ed io son tenuto ad affermare la mia indipendenza. È con l’uccidermi che affermerò la mia indipendenza nel modo più completo. Sono tenuto a bruciarmi il cervello.” Il suicidio è, in questo caso, l’esito ultimo di un delirio razionalistico, di quel “ruminare del cervello”. È ancora Andrè Gide a cogliere nel segno, quando scrive che “attraverso tutti i suoi libri,

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per poco che li leggiamo con uno sguardo attento, constateremo un deprezzamento non sistematico, ma quasi involontario, dell’intelligenza: un deprezzamento evangelico dell’intelligenza. Dostoevskij non stabilisce mai, ma lascia capire, che quello che si oppone all’amore non è tanto l’odio quanto il ruminare del cervello. L’intelligenza, per lui, è precisamente quello che si individualizza, che si oppone al regno di Dio, alla vita eterna, a quella beatitudine fuori dal tempo che non si ottiene che per la rinuncia dell’individuo, per tuffarsi nel senso di un’indistinta solidarietà.” Pare, calandoci nel contesto storico entro il quale si pone la sua vita e la sua opera, che il nemico più o meno consapevole di Dostoevskij sia il razionalismo positivistico, più che l’intelligenza in sé. Egli identifica l’inferno dell’anima umana con la sfera intellettuale, proprio perché in nome e per mezzo di essa in Europa si stava negando il metafisico, la sacralità della vita umana, la sua origine divina. Come il delirio razionalistico porta Kirillov ad una autodeterminazione superomistica per mezzo dell’atto estremo del suicidio, così fa il razionalismo nell’Europa di fine Ottocento. La sua visione tragica, certamente peculiare, dell’esistenza e del periodo storico in cui viveva, ha fatto sì che lo si associasse a filosofi ugualmente avversi al razionalismo, quali, ad esempio, Nietzsche. A ben vedere, le somiglianze si fermano solo alla critica al razionalismo ed alla visione tragica dell’esistenza, dato che gli esiti ultimi delle loro visioni filosofiche potrebbero essere giudicati agli antipodi. Se il pensiero del filosofo tedesco si muove entro i confini della classicità, rimanendo essenzialmente estraneo alla Rivelazione, d’altra parte, quella di Dostoevskij è una percezione cristiana del mondo che, nonostante la presenza anche notevole dell’elemento tragico, trova alfine una soluzione, un riscatto, proprio nella figura salvifica di Cristo. Così, se per Nietzsche l’essere non ha un senso ontologicamente dato e l’uomo è figlio del caos, la cui massima aspirazione è il darsi senso da sé, il creare valori autonomamente a partire dalla propria volontà di potenza, affermandosi quale superuomo e passando, evidentemente, per la negazione di Dio e di ogni principio, originando un estremo individualismo, in Dostoevskij, viceversa, il superuomo è anti-uomo, condannato al fallimento ed alla dissoluzione, e l’individuo può affermarsi davvero solo nella negazione dell’orgoglio soggettivistico. Da una parte, cioè, l’individuo si attribuisce un senso da sé, dall’altra, invece, esso trova senso solo nel contesto comunitario. Ma l’individuo, nel negare Dio, altro non fa che divinizzarsi, sostituendosi a Dio stesso, con effetti tragici. Tale sostituzione è così tratteggiata ne I fratelli Karamazov: “Secondo me, non c’è nulla da distruggere, fuorché l’idea di Dio nell’umanità; ecco di dove occorre cominciare! È di qui, di qui che si deve partire, o ciechi, che non capite nulla! Una volta che l’umanità intera abbia rinnegato Dio (e io credo che tale epoca, a somiglianza delle epoche geologiche, verrà un giorno), tutta la vecchia concezione cadrà da sé, senza bisogno di antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà l’uomo-dio. Trionfando senza posa e senza limiti della natura, mercé la sua volontà e la sua scienza, l’uomo per ciò solo proverà ad ogni istante un godimento così alto da tenere per lui il posto di tutte le vecchie speranze di gioie celesti.” È ciò che muove Ivan Karamazov, ma anche il già citato Kirillov ne I demoni: soltanto rinnegando la natura divina della vita umana e, dunque, la centralità dell’esempio di Cristo nella convivenza sociale, è possibile fondare una società utopica entro la quale l’uomo basti a sé, con la tragica conseguenza, tuttavia, che la vita umana perda quella sua sacralità e diventi, all’occorrenza, una risorsa utilizzabile per il raggiungimento dei propri scopi. Sul versante opposto, entro l’opera di Dostoevskij, fa capolino, invece, la figura emblematica del principe Myskin, protagonista de L’idiota. Sprovveduto nel vivere, ignorante delle cose di questo mondo, riesce, tuttavia, a penetrare nel mistero dell’animo umano, vedendo tutto, amando tutto, perdonando tutto. Egli ama disinteressatamente, di quell’amore libero che lascia liberi. Si muove nel mondo non come mistico, astraendo, ma anzi attraversandolo anche a rischio di non essere compreso, di essere deriso, scacciato. Sperimenta quella trascendenza che passa per l’immersione autentica nel mondo. Luigi Pareyson fa riferimento, a proposito del principe, all’intelligenza del cuore, così come Aglaja ad una intelligenza fondamentale: è sintesi, ossia, di mente e cuore, capace di comprendere ad amare al contempo. Myskin capisce e penetra tutto, pur essendo un semplice. Questa sua profondità non lo porta a svalutare la vita terrena, anzi, a svelarne i più remoti segreti, a degnificarla esaltandone la meravigliosità ed il mistero. Si fa esempio per tutti, richiamando l’uomo ad uno sguardo altro, col quale rapportarsi al mondo. Berdjaev sostiene che il principe viva in una sorta di “estasi tranquilla” mentre fuori è la tempesta. Egli è portato naturalmente a soccorrere il prossimo, a venire in suo aiuto. Anche Bachtin nota come la presenza di Myskin porti alla relativizzazione di tutto ciò che separa gli uomini ed anche le barriere gerarchiche diventino, a un tratto, penetrabili. Tanto grande è la forza di questo personaggio, che Pareyson lo vede come una raffigurazione di Cristo. Myskin soffre di una forma acuta di epilessia, che in particolari momenti di tensione gli provoca lo svenimento. Talvolta l’estrema sofferenza sembra trasformarsi in estasi paradisiaca. È questo carattere peculiare del personaggio che lascia trasparire una particolare concezione che Dostoevskij aveva di Cristo: essendo assimilato in tutto a Dio, doveva essere uomo di profondissima sofferenza. Il dolore di Cristo non è solo quello della passione e della croce, ma anche quello che è prima della croce. Secondo Dostoevskij, Egli possedeva un “io” che era al tempo stesso un “noi”, comprendente tutti gli uomini e l’intero Universo, essendo Verbo incarnato. Ciò comportava non solo il farsi carico delle sofferenze di tutti, ma anche il farle autenticamente proprie. Solo il Cristo avrebbe potuto sopportare una tanto enorme sofferenza. Ma proprio tale sofferenza doveva, in taluni momenti, trasformarsi in un’estasi senza pari. Così scrive Dostoevskij nei suoi appunti: “E questa è la massima felicità. In tal modo, la legge dell’io si fonde con

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la legge dell’umanesimo, e nella fusione entrambi gli elementi, l’io e il tutto (evidentemente, due contrapposizioni estreme), reciprocamente annullandosi l’uno a favore dell’altro, nello stesso tempo raggiungono anche lo scopo supremo del proprio sviluppo individuale, ciascuno per proprio conto.” E questo sembra essere l’apice del messaggio che è possibile derivare dall’opera di Dostoevskij. Egli ci parla, così, di una felicità assai lontana da quella modernamente intesa, una felicità che non passa per la conquista di molte libertà, quanto per l’utilizzo più assennato dell’unica libertà possibile, quella derivataci da Dio. Un utilizzo che sia autenticamente altruistico, e che, dolorosamente, abbia il coraggio di rinnegare l’individuo, in un oceano di individualismo. E, dunque, non appare poi così strano che Berdjaev, un suo compatriota, definisca Dostoevskij “il più grande metafisico russo”, né che nel nono capitolo del suo La concezione di Dostoevskij trovi spazio una tanto forte affermazione: “Dostoevskij è il valore immenso col quale il popolo russo giustifica la sua esistenza nel mondo: ciò a cui potrà richiamarsi nel Giudizio universale dei popoli.”


L'EURASIATISMO E I SUOI PERCORSI STORICI Di Lorenzo Roselli

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’Eurasiatismo è, senza dubbio alcuno, il movimento di pensiero che più si è reso protagonista dell’approfondimento geopolitico fiorito negli ultimi decenni. Esso è tornato alla ribalta, principalmente, attraverso lo studio e la proposta geopolitica di Aleksandr Gel'evič Dugin, uno dei più famosi teorici contemporanei della geopolitica stessa. Tuttavia non si deve ad Aleksandr Dugin la concettualizzazione di Eurasia, e della consequenziale struttura politica che essa andrebbe ad assumere nel contesto multipolare. È difatti il russo Konstantin Nikolaevič Leont'ev, un monaco ortodosso con una forte impostazione tradizionalista, a parlare per primo di un’Eurasia in senso metafisico e politico. Nel suo saggio L’Est, la Russia e gli Slavi (1885-86), infatti, Leont'ev portava avanti una feroce invettiva contro i governi dell’Europa occidentale, colpevoli di aver favorito l’avanzare della decadenza e del degrado morale, individuati dal monaco nell’affermazione del liberalismo. Leont'ev immagina una lega di tutti i popoli dello spazio eurasiatico ancora “incontaminati” dal germe del materialismo liberale, che avessero potuto operare un’intesa sul fronte comune della difesa dell’ordine tradizionale, inteso anche come principio fondante delle identità di ogni popolo e che trova ispirazione nel cristianesimo ortodosso e nel retaggio bizantino. Per Leont'ev, a capo di questa lega non poteva che trovarsi la legittima discendente dell’impero di Costantinopoli: la Russia. In tal senso, a Leont'ev era particolarmente a cuore il legame con l’Impero Ottomano, che egli considerava “l’ultima realtà tradizionale in grado di resistere oltre quella ortodossa”. Non a caso egli criticava aspramente l’operato tedesco nei conflitti slavo-turchi dei Balcani.

Konstantin Nikolaevič Leont'ev

Nikolaj Sergeevič Trubeckoj

Nel religioso è possibile già riscontare aspetti che farà proprio lo stesso Dugin, il quale del resto non fa mistero dell’influenza operata sul suo pensiero dall’esperienza storica del movimento tedesco della Konservative Revolution, di cui Leont'ev rappresenta un’analogia russa. Il senso della Tradizione e la preservazione del retaggio culturale sono infatti assunti comuni anche alla concezione neoeurasiatista di Dugin; elementi che possono essere preservati nel contesto della civiltà umana soltanto grazie a quella multipolarità delle potenze posizionate sullo scacchiere geopolitico che metta in discussione il predominio egemonico del liberalismo. Egli stesso afferma che “se una persona si crede solo un individuo, la globalizzazione e l’unipolarismo possono dargli questa possibilità (ma questo non è assolutamente garantito). Se per egli etnos, cultura, Stato, società, tradizioni, confessioni religiose, ecc. … hanno un’importanza, l’unipolarismo non è adatto a lui. Il multipolarismo permette alle società di conservare la propria unicità, per la maggior parte dell’umanità tutto ciò ha un valore.”1 È comunque soltanto con il Principe Nikolaj Sergeevič Trubeckoj (1890-1938) che possiamo iniziare a parlare di Eurasiatismo in chiave contemporanea. Filologo e linguista di grande erudizione, dovette fuggire dalla madrepatria dopo la Rivoluzione d’Ottobre a causa delle sue posizioni politiche. Nel suo saggio L’Europa e l’Umanità (1920), Trubeckoj pose il problema dell’autodeterminazione della Russia come stato nazionale, ma anche e soprattutto come attore politico nel panorama europeo pre-bellico. Il principe russo vedeva nella conformazione culturale europea “romano-germanica”, una civiltà estranea a quella russa, sebbene non obbligatoriamente opposta. Interessatosi agli studi slavistici di Vienna, Trubetzkoy (ben inserito nel circolo linguistico di Praga e in contatto con vari esuli politici russi) si avvalse della collaborazione di altri intellettuali compatrioti nel porre le basi del progetto eurasiatista: lo storico Vernadskij (1887-1973) e il geografo ed economista Pëtr Savickij (1895-1965). Sulla base delle considerazioni di Trubetzkoy sulla matrice culturale “meta-europea” della Russia, i tre pensatori attribuirono all’influsso mongolo molto del retaggio storico-culturale russo, definendo la loro Russia un “impero delle steppe”. Savickij arrivò addirittura a sostenere che, senza l’apporto culturale dato dai clan tartari, la Russia non sarebbe nemmeno esistita. Il lavoro di Trubetzkoy, Savickij e Vernadskij – supportato più tardi anche dal teologo ortodosso Georgij Florovskij (1893-1973) e dal musicologo Pëtr Suvčinskij (1892-1985) – diede vita a quello che potremmo considerare l’embrione del futuro movimento eurasiatista, palesato nella stesura del trattato politico La via d’uscita ad Oriente (1921), dove si esponeva la necessità russa di emancipazione culturale e politica dalla panoramica occidentale, per riscoprire il suo ruolo di “potenza eurasiatica”, volta a riunire i popoli dell’Est in nome di un’antica omogeneità etno-culturale. Si auspicava quindi una nuova entità politica fondata sull’impronta della tradizione grecobizantina, divergente tanto dal mondo romano-germanico, quanto da quello slavo (Trubetzkoy imputava alla corrente slavofila la volontà di uniformare la Russia all’universo occidentale). Sebbene anche questa

scuola eurasiatista partisse da assunti legittimisti e monarchici, essa influenzò non poco l’operato sovietico nell’enfatizzazione dell’unicità russa, con le parole secondo cui la Rivoluzione d’Ottobre “veniva a spostare verso l’Oriente l’asse della storia universale” (Pëtr Savickij). In definitiva, per l’Eurasiatismo di Trubetzkoy, l’Eurasia è una “necessità storica” il cui manifestarsi risulta funzionale ai principi primi dell’esistenza della Russia stessa. Proprio Trubetzkoy descrive l’Eurasia come “una totalità unica, sia geografica sia antropologica. (…) Per la sua stessa natura, l’Eurasia è storicamente destinata a costituire una totalità unica. (…) L’unificazione storica dell’Eurasia fu, fin dall’inizio, una necessità storica. Contemporaneamente, la natura stessa dell’Eurasia ha indicato i mezzi di questa unificazione.” L’ultimo esponente della corrente eurasiatista di Trubetzkoy è considerato essere Lev Gumilëv (1912-1992). Antropologo e storico, acquisì un ruolo preponderante nell’ambito accademico russo, nonostante il rapporto non idilliaco con il governo sovietico (arrestato ben tre volte, trascorse più di dieci anni di carcere oltre ad essere spedito forzatamente a Berlino per l’assedio del ‘45), diventerà un esponente di primo piano del pensiero eurasiatista, diffondendo su larga scala i suoi scritti, nell’URSS e non solo. Apologeta irriducibile del modello sovietico, gli sopravvisse per un solo anno e, poco prima della sua morte nel ’92, ribadì in un’intervista la sua totale aderenza alla causa eurasiatica: “Quando mi chiamano eurasiatista, io non rifiuto questa definizione, e per diverse ragioni. Innanzitutto, l’eurasiatismo è stato una grande scuola storica, sicché posso solo sentirmi onorato se qualcuno mi assegna a tale scuola. In secondo luogo, ho studiato a fondo l’opera degli eurasiatisti. Terzo, concordo fondamentalmente con le principali conclusioni storico-metodologiche alle quali gli eurasiatisti sono pervenuti.”

1 Andrea Fais, Federico della Sala, Rivoluzione Eurasiatica: la Quarta Profezia di Aleksandr Dugin; Da Centro Studi L’Arco e la Clava: http://www.centrostudilarcoelaclava.it/sito/?p=1802

Lev Gumilëv


IL CONFINE DELLA SOGLIA Di Andrea Marini

Perché non possiamo mai mai essere amati?

(M. Houellebecq)

In Ricordo della Differenza

A

bitiamo o passiamo? Siamo radicati in un moto continuo o avvinghiati alla fredda staticità del possesso? Viviamo la proprietà come limite o siamo confinati in una proprietà? Da queste domande possiamo partire per interrogarci su di un problema assai pregnante e arduo, come i più irti sentieri di montagna o le più difficoltose ferrate – quale è il problema del confine. Gli interrogativi che abbiamo posto non pretendono una risposta immediata, sono questioni che ne generano altre: sono come iceberg, che sciogliendosi realizzano nuove forme, nuovi stadi d'essere. Ogni “o” interna al quesito non è esclusiva, ma una scelta conprensiva, nel senso che, quando proviamo a dare una soluzione, sveliamo subito la meta a cui volge l'altra e quindi ne cogliamo la presenza nella via che abbiamo intrapreso. La “o” null'altro è che un confine che delimita nella sua semplicità due o più percorsi, strade, radure, vite, mondi. Di conseguenza possiamo pensare, o immaginare cosa sia un confine: una linea reale o mentale, di varie forme, che delimita un qualcosa, che rende qualcosa ciò che è, e quindi, il suo non-essere-altro. Ma questo non-essere-altro è comprensivo della possibilità di essere tutto ciò che un confine include nel suo essere esclusivo: l'altro. L'altro è il tema che caratterizza il confine e il suo essere tale, perché ogni di-visione è, come dice l'etimo della parola stessa, una doppia visione, un contemplare la diversità insita in ogni alterità che sorge ogni qualvolta che un limite o un confine viene tracciato. Tracciare un confine è segnare, donare esistenza alla differenza, cioè creare una distanza pura e viva, pulsante nel suo creare e di-videre. Ogni segno è un rimando quindi, in quanto simbolo o allegoria di qualcosa che richiama continuamente e più volte all'altro. Il segno ci mette di fronte all'Altro-da-noi, a ciò che ci viene in-contro. Nella nostra epoca questa di-versità – la differenza – è messa in un recinto, in un confine quindi, in quanto limitata. Il nostro tempo non cerca di esaltare l'individualità e potenza delle cose e delle persone, ma al contrario vuole semplicemente unità e univocità; costruite su un terreno solido creato da una speranza comune e da un magma indistinto in cui non c'è linea o limite, in cui non c'è alcun tipo di ordinamento, o per dirla con le parole di Carl Schmitt, non v'è alcun tipo di Nomos1. L'uomo ha sempre vissuto sulla linea e sul confine; è sempre stato oggetto di dibattito il suo reale o apparente dualismo, il suo duplice modo d'essere, la sua molteplice personalità, le sue varie capacità2. Nelle parole di Franco Rella: “A queste vie, che erano in prima istanza labili come la traccia della bava di una lumaca su di un muro, gli uomini consegnano la loro vita, il loro destino. E così esse acquistano una resistenza, individuale e collettiva, come fossero divenute le maglie d'acciaio che finalmente possono contenere il reale nelle sue metamorfosi e così dominare il “disordine” in cui le cose divengono e periscono”3. Alla molteplicità e alla differenza chiamata dalle linee - dal confine nel quale si ode il ri-chiamo dell'Altro -, l'uomo affidava la sua vita, quando era ancora “animale simbolico”, quando ancora era in grado di accettare e vivere la differenza che da sempre lo ha fatto essere quello che era, e non è più. I Greci, alla loro nascita come Europei, hanno da sempre accettato e capito il concetto di confine, come linea di demarcazione ed esaltazione della differenza, del valore intrinseco e costitutivo di ogni singolo essere. Infatti i Greci sono popolo figlio della libertà, e quindi della linea di confine, della frontiera. Sono i pargoli eterni di Eleutería, la libertà viva, mobile e in divenire nata dal confronto

1 Carl Schmitt abbozza ad una definizione del termine Nomos appellandolo come “ordinamento naturale che sorge su di un terreno”. La nostra epoca, attraversata “dall'ospite inquietante” – il nichilismo –, secondo il pensatore ha bisogno di un nuovo Nomos, quindi ordinamento, dato che la vampata nichilista ha annientato completamente l'ordine originario e quindi le differenze necessarie alla costituzione di un mondo e di un equilibrio mondiale. Lo stato mondiale che arriva a delinearsi nel nostro tempo, data questa mancanza di ordo, è un'immagine distorta e degenerata della terra Utopia di Thomas More o della Nuova Atlantide di Francis Bacon, dove regna la scienza ed è assente la differenza e la natura. La diversità è un qualcosa di costitutivo per l'identità mondiale e se viene meno o se viene data solo nella sua accezione negativa, questa priva della vita l'oscillare e il divenire dell'esistenza, rendendo tutto una massa indistinta. Da qui la necessità di un Nomos - un ordine - e di confini, così da generare una nuova base di crescita. Su tutto questo cfr. C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europeum”, trad. it e postfazione di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2006; inoltre cfr. C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Diabasis, Reggio Emilia 2009. 2 Possiamo qui pensare al dualismo cartesiano, alla duplicità della persona narrata da Stevenson o Hesse, all'Io ed Es di Freud – giusto per fare alcuni esempi evidenti. 3 F. Rella, Miti e figure del moderno; Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, Milano 2003, p. 22.

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e dalla scoperta dell'Alterità, dell'Altro, quello che un tempo era l'Asiatico4. Ma ora il mondo ha scordato e accantonato tutto questo per vivere nella a-differenza e non nella in-differenza, perché in quest'ultima maniera sarebbe ancora legato al concetto di differenza. Così com'è ora no, se ne dimentica, la tralascia nell'esaltazione della forza illimitante, che priva ogni istanza di ciò che è. L'in-dividuo diventa così a-dividuo. Il confine era sempre stato abitato con forza e sentimenti, vivendo il profondo terrore. Il crinale che è il “momento dell'angoscia, in cui tutto sembra essere percorso dal profondo brivido di terrore che chiude Cuore di Tenebra, oppure concentrandosi nel volto enigmatico di una felicità possibile ma inafferrabile”5, come lo è l'Altro – la venuta dell'Altro quando noi siamo nell'-essere-aperti, ovvero quel terreno di confine che ci garantisce la differenza e il suo segreto. Il suo profondo e vero rispetto. Cerchiamo ora di andare più a fondo nel concetto e nell'etimologia di “confine” per coglierne alcune sfumature e capirne ancora più in profondità il valore simbolico e allegorico e perché questa linea così sottile e immensa crea l'altro e il suo segreto. Il Confine: un termine aperto “Il lungo filo dell'oblio si svolge e si tesse ineluttabilmente. Grida, pianti e lamenti. Rifiutando di dormire, sento la vita che scivola via come un battello bianco, tranquillo e irraggiungibile”.

(M. Houellebecq)

Nella storia della nostra civiltà, della cultura mondiale si è sempre posta l'importanza su quella parola che il dizionario Devoto-Oli definisce così: “Linea costituita naturalmente o artificialmente a delimitare l'estensione di un territorio o di una proprietà, o la sovranità di uno stato. […] Pietra, sbarra, steccato, che delimita una proprietà da quella attigua. Limite, termine (talvolta con sfumatura d'incertezza o lontananza): sterminato, illimitato”. Ma questa linea è propriamente tale? Dalla definizione capiamo di no, è una linea nella sua accezione più simbolica perché è un tronco da cui partono infiniti rami. Questa “linea” è il limite che può essere simboleggiato da infinite cose, “pietra, sbarra, steccato”. È un solco nella molteplicità dello spazio che crea la differenza, l'Altro. I miti raccontano sempre di questo confine con immagini diverse e svariate, possiamo scavare tra le sabbie della memoria e rinvenire il mito biblico creazione, quando Dio divise, limitando, il cielo e la terra; quando pose il veto di cogliere la Mela, limita la possibilità e così da possibilità di espressione al libero arbitrio; quando scisse Paradiso e Inferno. Se pensiamo a fatti storici ci può venire in mente facilmente la famosa vicenda di Cesare e il Rubicone, limite che non poteva varcare; o tutte le invasioni altro non sono che il trapassare un limite che scinde due realtà. Il limite designa quindi una proprietà, un' individualità de-finita dal limite stesso; come ci ricorda Piero Zanini: “Disegnare un confine diventa allora il modo per ottenere qualcosa dagli altri: uno spazio proprio dove stabilire le proprie regole, un'autonomia visibile anche dall'esterno, il riconoscimento di una diversità. Fin dalla sua prima apparizione, il confine mostra quello che sembra essere il suo carattere fondamentale: segnalare il luogo di una differenza, reale o presunta che sia”6. Il confine è quindi sempre una limitazione, una legge lui stesso, perché le crea o ne separa alcune da altre; le polis greche avevano dei confini visibili, perché all'interno vigeva la loro legge e al di fuori quella dei barbari, gli stranieri in quanto non radicati in quella norma e in quell’oikos7. La stessa città di Roma fu fondata su una linea, un solco nella terra e della terra, una scissione che creò così una legge interna ed una esterna, infatti chi viola il confine senza il permesso viene messo di fronte alle regole che vigono in un certo luogo de-limitato; basti pensare alla vicenda di Romolo e Remo. “Il confine è radicato fortemente nella terra”8, quindi. Il solco che viene tracciato nel terreno, lascia appunto una traccia visibile di se e della regula che esso limita. “Questa traccia, chiusa su se stessa o ripetuta in sensi diversi, delimita per la prima volta uno spazio, lo toglie dal nulla, dall'infinito – e lo rende finito –, gli attribuisce una dimensione. Lo rende allo stesso tempo vivibile e inconfondibile. Inoltre permette a colui che ne descrive il limite di prenderne possesso, di stabilirvi un diritto”9. Il limite può essere sia naturale che artificiale – anche se spesso il naturale diventa politico – ci basta pensare a cosa significano per l'Italia, la Francia, la Svizzera e l'Austria le Alpi, quella corona che sta in cima allo stivale italico, che contorna con tanta bellezza e sicurezza gli stati; possiamo guardare anche al Mediterraneo o agli Oceani, limiti naturali su di uno spazio che si è fatto libero e poi limitato nel corso della storia umana10. Quando ci dirigiamo in qualche luogo, solitamente, usciamo dalla nostra casa tramite una porta che ne delimita la proprietà e l'estensione, ci richiama in quanto noi nel nostro ambiente e in quanto esseri pronti a salpare per nuove terre, nuove “forze arcane” – come direbbe Francesco Guccini; un mettersi

4 Cfr. M. Cacciari, Geo-Filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano 1994. 5 F. Rella, Miti e figure del moderno, op. cit., p. 23. 6 P. Zanini, Significati del conine, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 5. 7 Sul significato di oikos, cfr. M. Cacciari, Op. cit.. 8 P. Zanini, Op. cit., p. 5. 9 Ivi, p. 6. 10 Cfr. C. Schmitt, Op. cit.; cfr. P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l'Europa; lezioni al Collège de France, a cura di G. Vulpius, Garzanti, Milano, 1998.


in gioco nel mare11 dell'Alterità e della differenza che intercorre tra mondi e ambienti e paesaggi12 di tipo diverso e altro. La vita dell'uomo è un passaggio sul limitare dell'Io e dell'Altro, quel confine che come il Porto Sepolto per Giuseppe Ungaretti può essere sì ricercato e visto, ma quando vi si torna indietro non rimane nulla se non “quell'inesauribile segreto”. Non a caso si chiama confine, è dove entrambi hanno la loro fine per incontrarsi, dove si sta di fronte l'uno all'altro. Quindi il limite viene qui ad assumere il nome di frontiera, il luogo dove gli sguardi dell'altro si incrociano per cogliere dolcemente sé stessi e chi ci sta d'innanzi13. “La frontiera rappresenta […] la fine della terra, il limite ultimo oltre il quale avventurarsi significata andare al di là della superstizione contro il volere degli dèi, oltre il giusto e il consentito, verso l'inconoscibile che ne avrebbe scatenato l'invidia. Varcare la frontiera, significa inoltrarsi dentro un territorio fatto di terre aspre, difficili, abitato da mostri pericolosi contro cui dover combattere. Vuol dire uscire da uno spazio famigliare – l'Io –, conosciuto, rassicurante, ed entrare in quello dell'incertezza” 14– dell'orrore ci viene da dire. L'orrore si cela dove c'è l'ignoto, parafrasando H. P. Lovecraft, ed è li che noi tremiamo sull'orlo del limitare, sull'estrema linea del nostro mondo, là dove solo gli intrepidi osano, là dove c'è il mare ignoto affrontato da Colombo, verso la scoperta di una cosa famigliare, un “l'Io”, e qualcosa di oscuro e sconosciuto, misterioso, L'Altro, come fu per il navigatore genovese la scoperta dell'America. Il confine, la frontiera diventa così un qualcosa di non definito, ma che nel suo definire apre e si apre, si trasforma in un Altro a Sé, dove il contorno c'è ma non si vede, e diventa così ambiguo. Come il confine che separava Achille dalla tartaruga si faceva sempre più incolmabile, così la nostra frontiera diventa sempre più liquida e porosa, pronta a far passare le schiume degli altri mari. Si pone come spazio di libertà dove giace l'Individualità, cioè tra l'uno e il molteplice. La linea si fa Soglia, contorno che finché ci siamo sopra15 c'è ma non si vede. Tutto diventa così una soglia se noi ci apriamo alla venuta dell'altro e del suo segreto per cui noi dobbiamo avere rispetto. Un viaggio tra il mare aperto e l'Arcipelago, attraverso lo specchio di mare tanto caro all'uomo come ci ricorda Baudelaire: “Sempre amerai, uomo libero, il mare! \ È il tuo specchio: contempli dalla sponda \ in quel volger infinito dell'onda \ la tua anima, abisso anch'esso amaro. […] E tuttavia da tempo immemorabile \ vi combattete rischiando la sorte, tanto vi esalta la strage e la morte: nemici eterni, fratelli implacabili”16. La Frontiera sulla Soglia “ma noi camminiamo verso di esso”.

(M. Houellebecq)

Il mare, abbiamo detto, è quel con-fine che segna il limite di una terra, che determina la differenza tra culture e popoli, tra persone. Il mare è la linea dell'orizzonte che ci dipinge dinnanzi colori e immagini, delinea figure sempre diverse e nuove nelle loro infinite sfumature, uniche e sublimi. Un gabbiano che vola, radente e suadente, solitario tra le correnti dell'aria e del mare, verso il confine che si ri-crea continuamente. Si ricostituisce, si sposta di un po' ogni volta verso l'infinito. È tramite quella linea che noi, uomini in attesa, cogliamo con volo pindarico, con ali d'albatro, quel luogo tanto simile alla soglia nella sua immensa apertura, nel quale ci ricorda Leopardi è dolce il naufragare – l'infinito. Ápeiron, lo chiamava Anassimandro, il senza limiti, in quanto è un limite lui stesso, quello più lontano e profondo nel suo essere infinito – pone e si pone nella finitezza. Il mare è quindi la frontiera che ci pone davanti una molteplicità di limiti infinita. È il luogo in cui l'altro ci viene incontro a ritmi incerti, a tratti discontinui, amplia la possibilità di orizzonti. Simbolo della modernità e della sua libertà in-condizionata, senza territorio; là dove troviamo il nonlimitato è il nulla che ci aspetta, “quel nulla di inesauribile segreto” a cui accennavamo più sopra. L'orizzonte marittimo – frontiera – è quello schermo su cui si “accampano alberi case e colli, per l'inganno consueto”, la dove noi vaghiamo lasciandoci “il nulla alle spalle”, con “terrore d'ubriaco”. Ma chi incontriamo non sempre si volta, e così rischiamo di andarcene zitti tra questi uomini, con il nostro segreto17. Segreto che abbiamo potuto incontrare solamente oltrepassando la frontiera, che è soglia. Questa è il luogo abitato dal poeta o artista nella sua poieticità18; “c'è una duplice ragione che consegna il poeta a questa terra di mezzo: da qui il suo sguardo può spaziare oltre il chiuso orizzonte della patria, «verso ciò che è straniero [Fremde] e lontano [Ferne]», ed è ancora qui che può accogliere la venuta degli dei per il suo paese natale. Solo abitando il confine e la frontiera è possibile infatti che l'accadere accada: esso è perciò il luogo della de-cisione riguardo alle frontiere o alla loro essenza: «il poeta deve avere il suo soggiorno alla frontiera [Grenze], affinché possa venire a lui ciò che avviene. Soltanto alle frontiere accadono le decisioni, 11 Sul concetto di “mare” cfr. M. Cacciari, Op. cit., dove l'autore prende come esempio della tensione “faustiana” all'infinito il mare, sfida continua ed eterna. Grande metafora della libertà umana. Il mare è il luogo dove l'uomo sogna, viaggia e desidera, è l'elemento che ricorda la hýbris filosofica, il salto nel non conosciuto, nell'indeterminato da dis-velare. Il mare è il doppio che ricrea l'androgino originario con la gemella terra; è una delle due parti che si scontrano nel pólemos mai soluto che rappresenta il tendere verso la metamorfosi continua della storia, non elemento dialettico ma dinamico e creativo. 12 Cfr. L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1996; cfr. L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007. 13 Cfr. J. Derrida, L'animale che dunque sono, M. Zannini Jaca Book, Como 2006; cfr. C. Resta, L'evento dell'altro. Etica e politica nel pensiero di Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 14 P. Zanini, Op. cit., pp. 10, 11. 15 Cfr. E. Junger, M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, dove i due filosofi discutono e argomentano sulla possibilità di abitare o superare la linea del nichilismo. 16 C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di A. Prete, Feltrinelli, Milano 2003, p. 59. 17 Cfr. E. Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano 2006. 18 Cfr. F. Rella, Interstizi tra arte e filosofia, Garzanti, Milano 2011, in cui il filosofo svolge il pensiero a riguardo del luogo dell'arte e del luogo degli artisti, o poeti in senso platonico e heideggeriano; inoltre cfr. M. Cacciari, Geo-Filosofia dell'Europa, cit..

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che riguardano sempre le frontiere e la mancanza di frontiere [Grenzelosigkeit]»”19. La frontiera è il luogo del nulla, è il mare nella sua immensità orizzontale; dove dimora il poeta che è il “luogotenente del nulla”, ma anche “pastore dell'essere”. È il “custode di questa frontiera” che chiude aprendo allo straniero – alla venuta dell'oltre –, in quanto questa patria deve essere un “essere-a-casa”, senza farla diventare però uno “spazio claustrofobico”20. “Così la linea della frontiera non chiude e de-finisce soltanto, ma apre alla relazione con l'altro, senza tuttavia volerlo ridurre a sé”21, perché i segreti si accompagnano senza la possibilità di essere annullati, “è necessario pensare la linea come quel tratto che separando unisce e de-finisce i differenti, consegnandoli alla loro in-finita differenza. Colui che come il poeta soggiorna in prossimità della frontiera, chi vive ai margini, sa meglio di chiunque altro che solo attraverso lo s-confinamento nell'estraneo si può fare esperienza di ciò che è proprio”22. Solo aprendoci, vagando, viaggiando, sperimentando con la curiosità dei fanciulli possiamo soggiornare e abitare la soglia, porci nell'ascolto libero e puro dell'Altro, averne così rispetto e donandogli il nostro rispetto. É necessario diventare, come lo Zarathustra di Nietzsche, dei vagabondi, degli astri lucenti, degli astri d'oro com'è il profeta dell'oltreuomo23, imitando l'esempio della cometa per Carlo Michelstaedter, che risponde alla Terra che le da, con tono dispregiativo, della vagabonda: “Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si può vedere” e ancora: “Meglio non far attenzione che attender sempre ciò che non vien mai”24. Imparare ad essere un po' più comete che pianeti. Avere la propria casa nel nostro essere-a-casa, ma non una dimora claustrofobica. Imparare dai greci, perché “il limite […] non chiude più di quanto non apra, è esposizione ad un'alterità che contribuisce a segnare il tracciato. Linea di confine in quanto chiusura/apertura, dentro/fuori, identità/ differenza da pensarsi insieme. L'altro, lo straniero non abita altrove, oltre il confine. Io non abito qui, al di qua di esso. Nessuno è veramente mai 'a casa' quando soggiorna «alle porte / della foresta»25. L'uomo che abita la soglia si fa soglia lui stesso in quanto limite – segreto – però, allo stesso tempo, frontiera verso l'altro, aperta all'incontro e alla differenza; si fa tollerante perché la soglia – frontiera – è il luogo della tolleranza e rispetto del segreto. “L'uomo facendosi soglia, può fondare una società in cui la passione e il conflitto cessino di essere distruttivi e si trasformino in una energia positiva”26. L'uomo così divenuto si fa calice colmo di potenza ed energia creative, in grado di fondare e mettere le basi per una nuova civiltà dell'altro-segreto-a-venire. La soglia – frontiera – è il luogo dell'Orrore, dove si incontra il mistero e il misterioso, l'Altro e la sua Alterità, le forme nella loro infinità di possibilità e stato d'essere, è dove noi ci poniamo in ascolto della sublimità violenta del canto della differenza e della natura, è la via di città, il Passage, in cui dobbiamo imparare ad abitare per vivere e ri-con-struire la nostra frantumata e macerata Modernità. È “il luogo in cui i nostri gesti si svolgono e si inseriscono armoniosamente nello spazio e suscitano la loro cronologia, il luogo in cui tutti i nostri esseri sparsi camminano affiancati e in cui è abolito ogni divario, il luogo magico dell'assoluto e della trascendenza in cui la parola è canto, in cui l'andatura che è danza non esiste sulla Terra, ma noi camminiamo verso di esso”. Aprirci per porre nuovi mattoni sulle fondamenta della storia umana affinché si possa innalzare una nuova Casa da abitare, che noi comunemente chiamiamo Mondo, vivendo un nuovo Nomos. Un dolce navigare / naufragare tra le isole dell'Arcipelago. 19 C. Resta, Il luogo e le vie; geografie del pensiero in Martin Heidegger, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 98,99. Si tenga ben presente per il proseguo dello svolgimento della riflessione questa opera della Resta. 20 Cfr. C. Resta, ibidem. 21 C. Resta, ivi, p, 99. 22 Ibidem. 23 Ricordiamo che la parola “Zarathustra” in italiano è comunemente tradotta con “stella d'oro”. 24 C. Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1988, p. 113. 25 C. Resta, Il luogo e le vie, cit., p. 101. 26 F. Rella, Miti e figure del mondo moderno, cit., p. 130.

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LA NOZIONE DI FILOSOFIA CRISTIANA IN JACQUES MARITAIN Di Giovanni Covino

I fede.

l piccolo, ma denso scritto Sulla filosofia cristiana del filosofo Jacques Maritain (1882-1973) è il frutto di una conferenza tenuta all’Università di Lovanio, e si apre con due domande che investono i più importanti problemi speculativi, quelli riguardanti la natura della filosofia e il valore intellettuale della

Il filosofo francese si chiede infatti: esiste la filosofia cristiana? È concepibile? Innanzitutto, per risolvere tale questione, bisogna tener presente due differenti soluzioni: la prima tende a non riconoscere alla filosofia un carattere autonomo nei confronti della fede religiosa, e cioè «la filosofia, nella misura in cui è dottrina di verità, postuli di per sé la fede cristiana, o almeno qualche anticipazione della vita di fede, e che, anzi, la distinzione fra una sapienza puramente naturale e una sapienza dello Spirito Santo sia una specie di bestemmia1» ; la seconda soluzione invece giudica che «la filosofia, in quanto distinta dalla fede, non abbia nulla a che vedere con questa, se non in maniera del tutto estrinseca, sicché la nozione di filosofia cristiana sarebbe una nozione non solo complessa, ma bastarda»2. Per uscire da questo imbarazzo circa il rapporto tra filosofia e cristianesimo e dare legittimità alla nozione di filosofia cristiana, con il solito aiuto di Tommaso d’Aquino, Maritain precisa il principio da cui farà discendere la sua soluzione: «è la distinzione classica tra l’ordine dello specifico e l’ordine della condizione in atto, o ancora, ed è a questi termini che noi ci atterremo, tra la natura e lo stato.3» Per quanto riguarda la natura, essa è determinata dall’oggetto a cui la filosofia si rivolge e poiché la specificazione della filosofia dipende tutta dal suo oggetto, e poiché questo oggetto è di ordine del tutto naturale, la filosofia presa in sé stessa deriva dai medesimi criteri intrinseci strettamente naturali o razionali, e che pertanto la denominazione di cristiana applicata a una filosofia non si riferisce a ciò che costituisce questa nella sua essenza di filosofia. Questa considerazione sulla filosofia, ovviamente, si sofferma sulla sua pura essenza astratta, ma non bisogna, tuttavia, dimenticare che chi fa filosofia è sempre un uomo e che lì dove non c’è più l’uomo, non c’è più la filosofia. In questo senso è chiaro, dunque, che la considerazione della filosofia nella sua pura essenza astratta, non basta più, ma necessita la considerazione dello stato, ovvero del fatto che la filosofia è esercitata da un individuo. Infatti se la scienza, in senso stretto, non conosce stati differenti, al contrario la filosofia, in quanto sapienza, da cui, in parte, dipende il nostro stesso destino sulla terra, non può non tenerne conto: «non occorre essere cristiani (benché il cristiano sappia meglio queste cose, perché sa che la natura è vulnerata), per essere persuasi che la nostra natura è debole, e che nel regno della sapienza – proprio perché essa è difficile – l’errore è per noi più frequente che mai»4, e proprio per questo è ragionevole che la filosofia e la persona che filosofa sia L’attività filosofica, nello dall’interno (rafforzamenti soggettivi), sia dall’esterno stato cristiano, riceve (apporti obiettivi) venga aiutata, ma non per questo la rafforzamenti soggettivi, e in filosofia è negata nella sua essenza. Quindi da un lato ci primis l’amore per la verità troviamo, nello stato cristiano della filosofia, dinanzi a che evita l’assolutizzazione degli oggetti che fanno parte del campo naturale, ma che della ragione, propria del i filosofi non avevano riconosciuto in maniera esplicita, razionalismo moderno, come nel caso della nozione di creazione, di natura, di evitando la riduzione della Dio come l’Essere stesso sussistente, «a loro riguardo c’è filosofia ad ideologia. In veramente un apporto positivo che la ragione ha ricevuto questo senso la filosofia dalla rivelazione, e noi diremo con Gilson: rivelazione trova il suo giusto posto, generatrice di ragione»5. Dall’altro lato, invece, l’attività non sapienza separata ma filosofica, nello stato cristiano, riceve rafforzamenti in comunicazione con soggettivi, e in primis l’amore per la verità che evita gli ordini superiori della l’assolutizzazione della ragione, propria del razionalismo teologia e della sapienza moderno, evitando la riduzione della filosofia ad mistica. ideologia. In questo senso la filosofia trova il suo giusto posto, non sapienza separata ma in comunicazione con gli ordini superiori della teologia e della sapienza mistica. «L’avvento del cristianesimo ha spostato dal suo seggio la sapienza dei filosofi, per esaltare sopra di essa la sapienza teologica e la sapienza dello Spirito Santo. Se la filosofia riconosce quest’ordine, la sua condizione nel soggetto resta fondamentalmente cambiata. Noi pensiamo che in ogni grande filosofia ci sia un’aspirazione mistica, assai capace peraltro di spostarla dal suo asse. Nell’ordine cristiano, la filosofia sa di potere e di dovere approfondire questo desiderio, ma non sarà esso ad appagarlo, essa è tutta orientata verso una sapienza superiore, e ciò la stacca da sé stessa e le toglie un poco della sua pesantezza.»6 In questo senso

1 J. Maritain, Sulla filosofia cristiana, Vita e pensiero, Milano 1978, pp. 23-24. Il dibattito vedeva oltre alla presenza di Maritain, anche quella di Henri Bréhier, Léon Brunschvicg, Etienne Gilson e Blondel. Per una sintesi delle diverse argomentazioni si rimanda a A. Livi, J. Maritain, filosofo cristiano in Studi cattolici 1979, pp. 883-884. 2 Ivi, pag. 24 3 Ivi, pag. 34 4 Ivi, pp. 40-41 5 Ivi, pag. 42 6 Ivi, pag. 51

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la fede guida o orienta la filosofia, veluti stella retrix, senza per questo ledere la sua autonomia, e che quindi conduce l’uomo ad una conoscenza purificata, per quanto riguarda gli oggetti naturali, e ad un ampliarsi della conoscenza grazie alla rivelazione di verità inaccessibili alla semplice ragione umana. In questo senso è possibile comprendere la vitalità della fede, il suo apporto noetico e soprattutto la legittimità del parlare di una filosofia cristiana, espressione che non designa semplicemente un’essenza ma un complesso: un essenza presa sotto un certo stato che, sicuramente – osserva Maritain – reca con sé una certa imprecisione – in seguito (nella sua ultima opera Approches sans entreves) l’espressione filosofia cristiana verrà sostituita – ma ha comunque un riferimento reale, riferimento che non è concretizzato in una dottrina determinata (anche se trova sicuramente in Tommaso d’Aquino la sua più alta espressione), ma «è la filosofia stessa in quanto posta in quelle condizioni di esistenza e di esercizio assolutamente caratteristiche in cui il cristianesimo ha introdotto il soggetto pensante, sicché essa vede certi oggetti, stabilisce validamente certe asserzioni che in altre condizioni sfuggono più o meno.» E così Maritain può dire, con Gilson, «i due ordini restano distinti, benché la relazione che li unisce sia intrinseca.».7 La relazione che li unisce è intrinseca perché è proprio della filosofia aspirare a conoscere meglio possibile i suoi oggetti: è l’amore per la verità che conduce la filosofia a poter accogliere, senza negarsi, il contributo noetico della fede. È proprio questo desiderio di conoscere la verità alla radice di ogni esperienza filosofica, desiderio che non può mancare, pena la caduta della filosofia stessa in ideologia. È per tale ragione che la filosofia, nello stato cristiano, raggiunge le vette più alte del sapere, e si avvicina sempre più al vero evitando quel dramma di cui Maritain parla nelle ultime pagine del testo; infatti – dichiara il filosofo – non è difficile per una filosofia «essere drammatica, è sufficiente che si abbandoni al suo peso umano. Ma ci sono due modi per una filosofia per non essere drammatica: quello di misconoscere il dramma della vita umana, e quello di conoscerlo troppo bene.» E a questo punto Maritain esalta ancora una volta il tomismo come esempio più alto della filosofia cristiana, affermando: «Il secondo [il secondo modo che ha una filosofia per non essere drammatica] è a nostro avviso il caso del tomismo. Non è stato solo a prezzo di un’ascesi rigorosa che il pensiero educato dal medioevo ha imparato a situarsi nell’ordine della verità sola e immacolata, ma anche grazie ad un amore propriamente cristiano del carattere santo della verità.” Dunque “quando diciamo che lo stato cristiano della filosofia è uno stato superiore o privilegiato, è anzitutto e soprattutto perché solo in tale stato la filosofia può avere un rispetto plenario e universale – e così riconoscergli una origine sovraumana – della santa verità.»8 Giovanni Covino

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Ivi, pag. 54 Ivi, pp. 74-75


UNA RIFLESSIONE STORICOFILOSOFICA SUL CONCETTO DIDEMOCRAZIA Di Francesco Colaci

I

l termine “democrazia” è probabilmente uno dei più abusati al giorno d’oggi, se non uno dei più antichi al mondo. Esso, com’è risaputo, deriva dal greco e significa “governo del popolo”(da δῆμος e Κρατος) , e spesso rievoca un sentimento positivo di solidarietà, di uguaglianza. L’idea che siano le masse a dettar legge, e non un solo sovrano, ha sempre affascinato il popolo stesso. Ma, al di là del generico sentire comune, cos’è veramente la democrazia? Quali meccanismi la rendono tale? Quando, effettivamente, è possibile dire che essa vi sia? Per affrontare la questione prendiamo in esame gli “esempi democratici” susseguitisi nel corso della storia e le teorie filosofico-politiche di alcuni pensatori. La storiografia ufficiale individua, a partire dal VI secolo a.C., un primo modello di società a carattere popolare in Atene e altre poleis dell’Attica. Per la prima volta un numero considerevole di cittadini aveva la facoltà di prender parola nell’assemblea (Ἐκκλησία), organo più importante dal punto di vista decisionale. Dunque si potrebbe asserire che vi fosse, in quel contesto, una sorta di modello egualitario, fondato sul rispetto dei diritti civili e su una politica aperta a tutti, dal momento che, per la prima volta nella storia, fu applicato il metodo elettivo. Tuttavia, Socrate criticò la democrazia ateniese, in quanto basata, per quanto concerne le cariche più importanti, sul sorteggio e non sulla competenza del singolo individuo, sostenendo che il potere debba essere affidato ai più saggi. Da qui Platone trasse lo spunto e teorizzò un governo formato da filosofi, i quali, conoscendo le idee, dunque il bene e le virtù, sono naturalmente portati ad applicarle nella sfera dello Stato. Tutto ciò, infatti, è descritto in una delle sue opere più note, La Repubblica, nella quale egli immaginava la città ideale, una collettività in cui, se pure idealmente, veniva abolita, per la prima volta, la concezione dell’indissolubilità del legame tra politica e potere economico. Per il filosofo, dunque, era di vitale importanza che il Reggitore, il Saggio, insieme alla classe dei Guardiani (l’esercito), sia tenuto lontano da qualsiasi forma di avidità pecuniaria o materiale (proprietà privata compresa), poiché la sua unica nobile occupazione e preoccupazione avrebbe dovuto essere necessariamente l’amministrazione della cosa pubblica. Si potrebbe attribuire a Platone la prima teorizzazione politica di una società dai tratti “socialisti”. Un’ultima fondamentale anomalia, individuata nella polis democratica, era la mancata partecipazione alla vita politica, oltre che delle donne, della stragrande maggioranza del “sottoproletariato” urbano: gli schiavi, i meteci (gli stranieri residenti in città) e gli iloti (i cittadini semiliberi). Un altro esempio fondamentale di democrazia nell’antichità è rappresentato dal periodo della Roma Repubblicana (509-30 a.C.), nel quale venne a formarsi e a consolidarsi una forma di governo in cui i cittadini prendevano parte attivamente alle decisioni della res publica, determinando la scelta delle varie cariche politiche (consoli, censori, tribuni, questori, pretori) che rappresentavano i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Si trattava, però, di un sistema che nell’assegnazione dei ruoli di prestigio favoriva il patriziato romano a scapito della plebe (venivano tenuti in considerazione le proprietà e il reddito del singolo). Solo successivamente vennero introdotte riforme che attribuivano uguali diritti di partecipazione civile (si pensi che fino al 351 a.C. solo i patrizi potevano diventare censores). Inoltre, pur lasciando ampia autonomia governativa alle regioni assoggettate, i popoli subordinati all’Impero non avevano voce in capitolo nell’amministrazione dello stesso. Con i comuni europei (tra cui quelli italiani) che rivendicavano la propria autonomia politica rispetto al potere imperiale o ecclesiastico, abbiamo un vero e proprio scontro di una borghesia mercantile con i poteri preesistenti: ciò fu dovuto all’intensificarsi dei commerci e alla nascita di un ceto medio su scala continentale, che intendeva esercitare un maggiore potere sia nella sfera politica, sia nella sfera economica. L’opposizione “democratica” all’autorità religiosa o imperiale era eterodiretta dagli interessi della borghesia. Se dall’antichità fino al medioevo vigeva un concetto di democrazia legato a una concezione egualitaria, si assiste, nel ‘600, a una fase di transizione verso lo Stato moderno occidentale. L’inizio di questo processo è facilmente individuabile negli eventi della Rivoluzione Puritana, della Rivoluzione Inglese (1688), per cui fu aperta la strada a tutte le idee di libertà borghesi, (si pensi all’allargamento del suffragio), e fu proclamata la superiorità del Parlamento sul Re: erano tutti principi ispiratori delle future democrazie liberali. Da qui, infatti, derivava il pensiero costituzionalista settecentesco di Montesquieu, basato sulla divisione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Tuttavia, il fattore che probabilmente caratterizzò di più il periodo di questa mutazione della concezione democratica europea, è il cosiddetto processo di accumulazione primitiva; il XVII secolo, infatti, segna l’età d’oro dei commerci coloniali, per cui ingenti quantità di oro, argento e altre risorse minerarie, provenienti dalle Americhe, raggiunsero il Vecchio Continente, coadiuvando lo sviluppo delle basi di una società capitalistica. Ciò, ancora una volta, portò all’allargamento consistente di un emergente ceto sociale borghese, già da tempo detentore di punti nevralgici delle economie nazionali (si pensi alle grandi compagnie per il trasporto delle merci). Ecco, dunque, come l’elemento sociale si intreccia nuovamente con quello produttivo,

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dimostrando come, successivamente, vista l’esigenza di nuove legislazioni per una maggiore liberalizzazione del mercato internazionale, lo strapotere delle “antiche corone” iniziò a risultare scomodo ai grandi magnati del commercio, come nel caso dell’Inghilterra, primo esempio di “democrazia liberale” nella storia europea (seguita dalla Francia dopo il 1789). Iniziò, da allora, a forgiarsi quell’immaginario collettivo, tipico delle società occidentali, che ha portato all’implacabile vizio di associare a un governo di volontà popolare (propriamente democratico), l’immancabile sistema economico capitalista. Un sistema che economisti quali Adam Smith hanno elaborato e sostenuto, sia a livello teorico, sia a livello politico. Occorrerà aspettare la metà del XIX secolo, quando il più grande teorico dell’economia, Karl Marx, smaschererà le grandi contraddizioni che caratterizzavano la società democratica del libero mercato: una società espressione della volontà di una classe e non del popolo nella sua interezza, fondata sullo sfruttamento delle masse lavoratrici a vantaggio di pochi industriali. Il progetto dello studioso tedesco fu colossale quanto innovativo; la confutazione dell’infallibilità del dogma democrazia-mercato (frutto dell’insuperata analisi economica redatta nell’opera Il capitale del 1867), in nome di una nuova teoria economica e politica che, per la prima volta nella storia, poneva al centro del suo programma la lotta del proletariato per l’abolizione delle classi e del modello di sviluppo capitalista: il comunismo ( il cui Manifesto del Partito Comunista vedrà la luce nel 1848). Opere queste che senza dubbio cambieranno il corso della storia, con l’avvento della Rivoluzione d’Ottobre e delle successive repubbliche socialiste; nel 1917, per la prima volta nella storia dell’umanità, con la presa del Palazzo d’Inverno, il rovesciamento del vecchio ordine e la presa del potere ad opera dei bolscevichi, veniva messo in discussione il concetto classico di democrazia: Lenin, teorico e rivoluzionario, aveva dimostrato che un nuovo mondo era possibile, un mondo in cui il principio socialista e democratico (in una prospettiva di radicale rottura col significato occidentale) traeva la propria linfa vitale da classi autenticamente popolari (operai e contadini), rovesciando le concezioni imperialiste della guerra con il trattato di Brest-Litovsk (1918), ma soprattutto i rapporti di lavoro servo-padrone. Dinanzi a queste novità, l’Europa “progredita” e “progressista” dei primi del ‘900 veniva tradita dall’ipocrisia delle sue stesse parole, tremando per le reazioni che gli eventi avrebbero scatenato nella classe operaia e proletaria del continente. In effetti, ciò che ne conseguì, se non una rivoluzione, fu la conquista di maggiori diritti in ambito lavorativo, sociale ed economico (si pensi alle grandi mobilitazioni dei lavoratori e degli studenti avvenute tra gli anni ‘50 e ‘70), dovuta alla nuova fermentazione ideologica che caratterizzava i movimenti sociali. È qui che finalmente si affermava la ferrea contrapposizione tra la “democrazia borghese, capitalista e imperialista” e la “democrazia operaia, socialista e internazionalista”. Un dato di fatto che si consolidò con l’avvento delle repubbliche popolari dell’Europa dell’Est, del Sud America e del Sud-Est Asiatico, nonostante le difficoltà economiche e politiche attraversate da queste ultime. Dagli anni ‘80, invece, con la crisi del sistema bipolare che vedeva USA e URSS contendersi l’egemonia globale, iniziarono a riscontrarsi i primi mutamenti dell’ordine mondiale, con il crollo prossimo dell’Unione Sovietica (1989) e degli altri sistemi socialisti. Ciò ebbe un’inevitabile ricaduta a livello politico, dunque ideologico. Il movimento operaio internazionale usciva sconfitto in numerose battaglie importanti e iniziava ad alimentarsi un dibattito interno Dovremmo, dunque, alle maggiori forze d’ispirazione marxista a livello avere il coraggio globale. Un caso emblematico è quello italiano, in cui si di affermare che ebbe la “transizione” o trasformazione identitaria del ben la democrazia è noto Partito Comunista Italiano. Questa metamorfosi autentica quando essa comportò, tra l’altro, l’adesione a principi democraticosia incompatibile con liberali, dunque a una politica economica apertamente il capitalismo. liberista, fortemente in contrasto con quelli che erano stati i valori del socialismo italiano (si chiameranno infatti Democratici di Sinistra). Anche nel contesto est-europeo, tra l’‘89 e il ‘91, si ebbe questo processo di riconversione ideologica, che condusse a un drastico cambiamento nell’opinione pubblica mondiale, sempre più tesa a sostenere un modello di sviluppo di stampo americano più che sovietico. Ed ecco che, negli anni ‘90, crollato il mondo bipolare, il sistema capitalistico, attraverso le pressioni statunitensi, poté prepotentemente affermarsi nel mondo, imponendo forme economiche e di governo più confacenti al suddetto modello, attraverso quelle “democrazie” che conosciamo tutt’oggi: nuovi governi, come quelli balcanici ex sovietici, retti da personaggi politici fortemente invischiati con la finanza internazionale e la mafia locale. Nuove realtà dove un’elite borghese è fautrice della vita politica, e dove gli operai e le classi sociali più povere non hanno voce in capitolo. Realtà in cui sono le multinazionali a imporre sistemi legislativi agli stati nazionali, e non viceversa. Fatto, questo, che sta accadendo oggi in Europa, un continente in cui sono organismi come la BCE e l’FMI a dettare legge sulle agende politiche dei rispettivi paesi, a influenzare la crescita o la debolezza del consenso popolare di determinate forze. Tutto frutto di una plutocrazia occulta che mira a una globalizzazione capitalistica delle risorse umane ed economiche. Sulla base di quest’analisi storica delle fasi dell’evoluzione democratica non si può che riscontrare un dato di fatto: la democrazia è diventata, oggi, una parola intesa comunemente in senso positivo, ma che cela un dogma; il dogma della presunzione occidentale di ritenere che un mondo dominato dall’economia di mercato sia l’unico possibile, un mondo dove i diritti e la dignità dell’uomo sono ridotti alla produzione e al consumo dei beni, e non riguardano la vita stessa. Dovremmo, dunque, avere il coraggio di affermare che la democrazia (intesa come governo socialista del popolo, non come difesa degli interessi di una classe privilegiata), è autentica quando essa sia incompatibile con il capitalismo, che invece non fa che condurre alla mercatocrazia e alla cancellazione della politica come espressione diretta della comunità. Marc Chagall, La Rivoluzione d'Ottobre.

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L'OPERAIO Di Aleksandr Dugin Traduzione a cura di Daniele Cocice

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rnst Jünger è un prominente scrittore tedesco contemporaneo, il cui destino politico e letterario rappresenta un classico simbolo di tutto ciò che nella cultura Europea del XX secolo fu avanguardista, vivace e non conformista. Partecipante e spettatore delle due guerre mondiali, uno dei maggiori teorici della Rivoluzione Conservatrice Tedesca degli anni 1920-30, ispiratore del socialismo nazionale, dopo che Hitler andò al potere resto mutò come “dissidente di destra”, sopravvivendo alla disfatta ufficiale durante il governo totalitario Nazista, solo per essere ostracizzato dai vincitori durante la campagna di “de-nazificazione”, il cui talento e la profondità di pensiero gli concessero di superare la parzialità dei “democratici”. Oggi, Jünger è considerato giustamente l'emblema del XX secolo, un portavoce non solo della “generazione perduta” ma anche del “secolo perso”, che fu pieno di lotte appassionate e drammatiche degli ultimi spasmi sacri della vita nazionale contro la soffocante profanità della contemporanea universalità tecnocratica. Jünger è autore di molte novelle, saggi, articoli e racconti brevi. Egli è diverso, versatile, complesso e ad un tempo contraddittorio e paradossale. Ma il soggetto principale dei suoi lavori rimane sempre lo stesso – l’Operaio, centrale, pressoché un personaggio metafisico, di cui l'evidente e latente presenza è sentita in ognuno dei suoi scritti. Non è una coincidenza che il più conosciuto e concettuale dei suoi libri, su cui ha lavorato e che ha riscritto più volte nel corso della sua vita, si chiami “L’Operaio”. L’Operaio, Der Arbeiter, è il modello centrale di tutte quelle tendenze politiche, artistiche, intellettuali e filosofiche che, nonostante la loro diversità, sono collegate con il concetto di “Rivoluzione Conservatrice”. L’Operaio è l'eroe principale della Rivoluzione, il suo soggetto, il suo perno esistenziale ed estetico. Stiamo parlando di un particolare modello di uomo moderno che in una delle esperienze più critiche della realtà profana, trovandosi nel cuore di un meccanismo tecnocratico senza anima, nelle viscere di ferro della guerra totalitaria o dell'infernale lavoro industriale, al centro del nichilismo del XX secolo, trova in sé stesso un fulcro misterioso, che lo porta verso l'altra parte del “nulla”, verso gli elementi di sacralità interiore risvegliatisi spontaneamente. Attraverso l'intossicazione del nuovo mondo, l’Operaio di Jünger percepisce l'immobilità raggiante del Polo, cristallo freddo di obbiettività, nel quale la Tradizione e lo Spirito appaiono non come qualcosa di antico e superato, ma Eterno, come l'eterno ritorno dell’Origine senza tempo. Il lavoratore non è né un conservatore né un progressista. Egli non è un difensore del vecchio né un apologeta del nuovo. Egli è il Terzo Eroe, Terzo Eroe Imperiale (così come sostiene Niekiesch), il nuovo Titano, in cui, attraverso l'estrema concentrazione del modernismo nella sue forme più velenose e traumatiche, attraverso il caos industriale e frontale, si apre ad un aspetto speciale e trascendente che lo mobilità per un atto metafisico ed eroico. Gli Operai sono persone delle trincee, delle fabbriche, “nomadi dell’asfalto”, deprivati dell’eredità nella civiltà tecnocratica, accettano la sfida di spaccare la realtà e di ammassare nelle loro anime energie speciali per una grande ribellione, tanto brutale ed oggettiva quanto la natura aggressiva dell’ambiente industriale-borghese. Ernst Jünger è il creatore del concetto politicoideologico della “mobilitazione totale”, che divenne la base teoretica e filosofica per molti movimenti conservatori e rivoluzionari. La “mobilitazione totale” è la necessità di un risveglio generale della nazione allo scopo di costruire una nuova civiltà, nella quale Eroi e Titani, portatori della fiamma della Rivoluzione Nazionale, nascano volontariamente dagli abissi dell'alienazione sociale. Ma, in accordo con Jünger, la “mobilitazione totale” delle masse, delle nazioni e delle persone è basata su di un'unica e speciale esperienza esistenziale, senza la quale la Rivoluzione o si trasformerebbe in una forma materialista e degenerata o altrimenti verrebbe rianimata dagli inerziali e farisaici conservatori. Ecco perché l'aspetto esistenziale ha la priorità nei lavori di Jünger, i quali mostrano un'intera galleria di “terzi eroi” (come in “Nelle tempeste d’acciaio”, “Il cuore avventuroso”, “Sulle scogliere di marmo”, “Il trattato del ribelle”, “Heliopolis”, ecc.) che seguono la via della Rivoluzione interna, esplorando le forme più estreme e rischiose – guerra, misticismo, droghe, erotismo, stati psichici di confine. La formula di Nietzsche “ciò che non mi uccide, mi fortifica” è il credo di Ernst Jünger, sia nella sua letteratura che nella vita. Proprio come i suoi personaggi, lui beve tranquillamente champagne. Nel 1995, Ernst Jünger compì 100 anni. Ma il tempo non è imperioso nei confronti del suo intelletto cristallino e del suo abbagliante talento. In una lettera indirizzata all'editore della rivista belga "Antaios", Christopher Gerard, Jünger scrisse: “il XXI secolo sarà il secolo dei Titani, e il XXII - il secolo degli Déi”. Queste parole contengono un breve riassunto del lavoro creativo di un grande scrittore, Operaio, ed eroe contemporaneo, Ernst Jünger.

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della sua natura egocentrica che si riflette anche nell’esclusivismo dell’appartenenza confessionale.

PER UN'INTESA SULLE ORTODOSSIE Dello Shaykh ‘Abd al-Wahid Pallavicini Dagli atti del convegno “Tradizione e ortodossie” organizzato da Millennium a Torino il 26 ottobre 2012.

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a nostra presunta civiltà occidentale moderna – non più teocentrica o teocratica come tutte quelle tradizionali del passato – sembra caratterizzata dalla perdita del senso delle parole, e non certo soltanto del loro significato etimologico, ma anche di quello inerente a una effettiva comprensione della realtà che ci circonda. Oggi, la verità che si nasconde dietro il velame delli versi strani, diceva il nostro sommo poeta Dante, può forse ancora essere intesa tramite l’etimologia delle parole di cui si è perso il senso: così “cattolico” vuol dire “universale”, da versus unum, quell’Uno verso il Quale si rivolgono le “Persone”, pros-opon in greco, della Trinità cristiana, e “ortodosso” è colui che segue la regola dei precetti religiosi di una rivelazione di Dio, mentre la vera religione, dal latino religo, è quella che può ancora ricollegare l’uomo a Dio.

Naturalmente alcuni avvenimenti storici possono non coincidere con quelli previsti da altre teologie, ma il Logos che le ha generate è Dio stesso che si pone al di sopra della storia; è cioè “metastorico” cosi come è propriamente “metafisico”, è “il punto di Vista di Dio stesso” al di sopra di ogni logica, perfino quella “teologica”, nella quale si è manifestato nel tempo e nello spazio che, per dirla con René Guénon, del quale mi onoro di portare il primo nome islamico, rappresentano insieme le dimensioni del simbolismo della Croce. Per rifarci a questo stesso simbolismo vorremmo considerare la croce ortodossa, che nella sua accezione di rappresentare la verità insita in ogni rivelazione rivelata e pertanto “relativa”, comporta non due ma tre dimensioni, e a quelle della lunghezza e della larghezza aggiunge quella dell’altezza, o meglio quella della “profondità”, richiamando così quella Pax Profunda, o “Grande Pace”, che un “Santo Sufi del XX secolo” auspicava per chi volesse ancora in questi tempi ultimi penetrare il senso della “tridimensionalità” presente anche nell’universalità dello stesso monoteismo abramico. Per concludere vorrei rifarmi a quanto richiesto da questo stesso Santo musulmano, a chi fra i soliti “dottori della legge” lo rimproverava perché il suo tasbih, il suo rosario, sembrava assumere la forma di una croce: “E noi”, disse, allargando le braccia all’altezza delle spalle, “a quale forma vi sembriamo assomigliare?”.

Per non parlare poi di parole derivate da lingue dette “incomprensibili” come l’arabo, ignorando, per esempio, che islâm oltre che “pace” significa “sottomissione alla volontà di Dio”; Dio, e non, come si legge a volte ancora nei giornali italiani, “Allâh”, dove quest’ultima parola non viene volutamente tradotta per suggerire la falsa concezione di un “dio arabo”, mentre, si tratta della contrazione dell’articolo “il” e della parola “dio” (nomen-numen), di al, il nostro “il” e da ilaha, “Dio”, che l’etimologia tradizionale riconduce fra l’altro a ila-hu, che vuol dire “verso di Lui”. Non diversamente si opera quest’ultimo sdoppiamento nel caso del termine greco pros-opon, che significa “sguardo rivolto verso [di Lui]”, ma che è stato tradotto in latino con la parola persona, quella “maschera” che permetteva agli attori di ampliare il suono della voce (per-sonare). Parola questa che verrà a indicare in Occidente gli aspetti, le “ipostasi”, della Trinità cristiana e che costituisce il metodo della confraternite sufi ortodosse per far risuonare in sé (per-sonare) il nome di Dio, del Dio, Allah, cosa che corrisponde alla preghiera di Gesù nell’ambito delle comunità cristiane ortodosse dell’Esicasmo. E Colui che ne rappresenta la seconda Persona e l’aspetto centrale e “cruciale”, Gesù, dopo aver chiesto a Dio: “Allontana da me questo amaro calice”, si è rivolto a Lui, (“pros-opon”, “ila-hu”) per dire: “Sia fatta la Tua volontà” (Lc XXII, 42), frase che per noi musulmani italiani dà proprio il senso di ciò che è il vero Islâm. Ed è invece proprio questo rivolgersi dello “specchio” umano verso la luce che fa di lui un riflesso, la “maschera del Suo Volto”, la sola creatura “fatta a immagine e somiglianza di Dio”, ‘alâ sûratiHi, “secondo la Sua Forma”, come dice il Sacro Corano. Ancora etimologicamente, piuttosto che di un dialogo che richiama preoccupanti assonanze con “colui che divide”, bisognerebbe parlare di “trialogo”, dato che tre sono le Rivelazioni del monoteismo abramitico, e oggi ricorre proprio la “festa del Sacrificio” di Abramo, ma io preferisco parlarvi di un monologo, quello che è stato indirizzato in luoghi, tempi, forme e popoli diversi dall’Unico Dio, lo stesso per noi tutti. L’Islam infatti non è la terza rivelazione del monoteismo abramico e lo stesso Monoteismo “abramico” non risale ad Abramo, ma è sempre stato tale, e cioè “monoteista”, anche prima di lui, in quanto Dio non ha mai cessato di essere “Uno”, per tutti gli uomini della terra, o per lo meno per coloro che vogliono accettare di essere a Lui sottomessi. È questo il significato della parola “Islam”, che indica la sottomissione al Dio Unico, così come “musulmani” sono letteralmente tutti coloro che a Lui si sottomettono, anche se possono essere chiamati “Ebrei o Cristiani”, o, ancora, appartenere a una delle religioni ortodosse precedenti. «Io ero Profeta quando Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla», afferma infatti il Profeta, cosa che riecheggia le parole di Gesù Cristo: «Prima che Abramo fosse, Io sono», perché l’immortale “Spirito di Dio”, come noi musulmani chiamiamo Gesù, non può non essere stato presente ancora prima della creazione del mondo, per infondere negli uomini la coscienza che anch’essi sono stati fatti «a immagine e somiglianza di Dio». È proprio questa somiglianza a permettere agli uomini di potersi identificare con l’assoluta Presenza Divina tramite le ritualità prescritte dalle varie religioni che si sono succedute nello scorrere dei tempi, in modo da rinnovare la possibilità di quella Conoscenza che resta l’unico scopo della vita umana su questa terra. Ma quale conoscenza? La Conoscenza di Dio! Perché «Se Dio si è fatto uomo», come ci ricorda un detto del Cristianesimo delle origini, mantenutosi ancora nella dottrina della Chiesa Orientale Ortodossa, è proprio perché «…l’uomo si faccia Dio», non certo con l’affermazione dell’individualità umana, ma con l’estinzione

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CRISTIANESIMO INTEGRALE E RICONCILIAZIONE Di Andrea Virga Dagli atti del convegno “Tradizione e ortodossie” organizzato da Millennium a Torino il 26 ottobre 2012.

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Perciò il santo Concilio esorta tutti, ma specialmente quelli che intendono lavorare al ristabilimento della desiderata piena comunione tra le Chiese orientali e la Chiesa cattolica, a tenere in debita considerazione questa speciale condizione della nascita e della crescita delle Chiese d'Oriente, e la natura delle relazioni vigenti fra esse e la Sede di Roma prima della separazione, e a formarsi un equo giudizio su tutte queste cose. Questa regola, ben osservata, contribuirà moltissimo al dialogo che si vuole stabilire.» (Unitatis Redintegratio, § 14). Separati alla nascita Per comprendere appieno il rapporto tra il cristianesimo orientale, in particolare quello ortodosso, e il cristianesimo occidentale, in primo luogo il cattolicesimo, è bene ripercorrere la storia di questa separazione. Essa affonda le sue radici già in epoca romana, addirittura prima della Nascita di Cristo. L’Impero Romano era diviso in due grandi aree culturali: una orientale più popolosa, più ricca, di antica civiltà, dove la lingua greca metteva in comunicazione greci, asiatici, siriani, egiziani, arabi, armeni, ecc.; una occidentale più spopolata, più barbarica, di recente colonizzazione romana, dove prevaleva la lingua latina. Nelle metropoli orientali erano emersi i quattro patriarcati di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, mentre ad occidente, nella capitale imperiale, Roma, il Papa guidava il Patriarcato d’Occidente. Questa distinzione culturale fu inasprita dalla divisione politica introdotta da Diocleziano e Costantino, e poi divenuta definitiva dopo la morte di Teodosio (395 d.C.). Qui le strade cominciarono a separarsi: i primi Imperatori cristiani avevano già un grande potere all’interno della Chiesa, al punto da convocare i Concili. Questo potere fu mantenuto dagli Imperatori bizantini, i quali erano in una posizione di superiorità nei confronti del Patriarca di Costantinopoli, che nominavano e destituivano a loro piacimento. (Nel frattempo, Alessandria, Gerusalemme e Antiochia erano caduti in partibus infidelium). Viceversa, nell’Occidente disgregato, era il Papa ad assumere una posizione di autorità nei confronti dei litigiosi sovrani romano-barbarici. Fu sempre il Papa a benedire e consacrare gli Imperatori romano-germanici, a partire da Carlo Magno. D’altro canto, la risorgenza dell’Impero in Occidente apparve sempre a Bisanzio come un’usurpazione bella e buona, più che una translatio imperii. La lotta per l’egemonia formale sull’Ecumene cristiana tra Bisanzio e Roma, portò dopo una serie di fratture, allo scisma definitivo del 1054, con la separazione tra Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse. Qualche Roma di troppo Già pochi decenni dopo, l’Impero bizantino sentì la necessità di ricevere aiuto dall’Occidente per fronteggiare la minaccia dei Turchi, prima Selgiuchidi e poi Ottomani. Fu così che nacquero le Crociate, come spedizioni di soccorso ai Cristiani d’Oriente. Tuttavia, lo spirito di competizione tra gli stessi Crociati e la divisione tra cattolici e ortodossi diedero presto i loro amari frutti. La Quarta Crociata, deviata su Costantinopoli per sostenere un pretendente al trono bizantino, si risolse in un orrendo saccheggio della Roma d’Oriente (1204). Questo evento alienò ogni simpatia verso il cattolicesimo da parte della popolazione ortodossa bizantina. Tant’è che quando al Concilio di Lione del 1274, l’Imperatore Michele VIII acconsentì a sanare lo scisma, venne subito sconfessato dalla sua Chiesa e dal suo popolo. Esito analogo ebbe il Concilio di Firenze del 1439, anch’esso firmato dai legati del Patriarcato d’Oriente, ma rifiutato poi a posteriori. Anzi, in quell’occasione, la Chiesa Russa si distaccò da quella Greca, colpevole di eccessive aperture verso l’Occidente. Di lì a poco, con la caduta di Costantinopoli, il testimone passò proprio a Mosca, il cui principe, Ivan III, genero dell’ultimo Imperatore bizantino, si proclamò Imperatore (Czar) a sua volta, proclamando la Russia come Terza Roma. Sulla scia dell’espansione russa, anche l’ortodossia si espanse nel mondo slavo e in tutta l’Asia settentrionale, sino alla Cina e all’Alaska. Contemporaneamente il mondo cattolico portava i propri missionari in tutto il mondo, sulla scia del colonialismo europeo. Insomma, le due Chiese presero due direzioni diverse, l’una sempre più legata al mondo slavo orientale e balcanico, l’altra, con la Controriforma e il Concilio tridentino, affermava sempre più la sua vocazione universale. In questo contesto, si verificò il fenomeno dell’uniatismo, ossia di intere comunità ortodosse che tornavano ad essere in comunione con Roma, e per le quali venivano create nuove Chiese Cattoliche di rito orientale. È il caso ad esempio del Vicino Oriente, a partire dall’epoca delle Crociate, con il Patriarcato latino di Gerusalemme; o della Romania; o ancora della Polonia orientale, dove con l’Unione di Brest (1596), la Chiesa Greco-Cattolica Ucraina tentò di adunare i sudditi ucraini del Commonwealth polacco-lituano, intorno al loro sovrano cattolico. Queste nuove Chiese, specie nell’Europa orientale, entrarono subito in grave contrasto con le Chiese ortodosse d’origine,

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a cui pretendevano di affiancarsi e sostituirsi, usurpando, agli occhi degli ortodossi, la regolare successione apostolica. La primavera conciliare darà frutto? In epoca moderna (cioè dall’Ottocento), cominciarono a formarsi Chiese Ortodosse anche in Occidente, sia per l’afflusso di emigranti di religione ortodossa nelle Americhe e in Europa occidentale, sia per le sporadiche iniziative di alcuni cristiani locali, che, per diversi motivi, vedevano nel modello ortodosso un’alternativa sia al cattolicesimo che al protestantesimo. Contemporaneamente, il declino e la caduta dell’Impero Ottomano fecero sì che i Cristiani d’Oriente tornassero ad alzare la testa. Un altro forte impulso a questo fenomeno fu dato dalla massiccia emigrazione dovuta all’affermarsi del comunismo in Russia e in altri Paesi orientali. Tutti questi fattori portarono a riallacciare i rapporti tra cattolicesimo e ortodossia e all’instaurarsi di un dialogo ecumenico tra le parti. Il Concilio Vaticano II diede maggiore impulso a questo processo, con la pubblicazione del documento Unitatis Redintegratio, in cui si affermava che la Chiesa Ortodossa, al di là delle sue particolarità spirituali, teologiche, liturgiche ed ecclesiali, era in comunione, seppure imperfetta, con la Chiesa Cattolica, e che tutti i suoi Sacramenti erano validi. Da parte cattolica, è riconosciuta perciò sia la successione apostolica, sia la possibilità per i fedeli, in caso di necessità, di ricevere i Sacramenti (Eucaristia, Confessione, Estrema Unzione, Matrimonio) da un sacerdote ortodosso. Si tratta quindi di una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del protestantesimo, che si fonda su eresie gravi e conclamate. Anche le scomuniche di 900 anni prima, tra il Papa Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli Atenagora I furono reciprocamente rimesse, il 7 dicembre 1965. Su queste basi, nel 1979, fu creata da Papa Giovanni Paolo II e dal Patriarca Demetrio I, una commissione internazionale che portasse avanti questo dialogo. Da allora, ci sono state dodici sessioni, tenute sia in Paesi ortodossi che in Paesi cattolici. Le più importanti sono state a Balamand, in Libano, nel 1993, poco dopo la caduta dell’URSS, e a Ravenna nel 2007. In quest’occasione, è stata riconosciuta da parte ortodossa, la qualifica di “protos”, ossia “primo”, al Papa, in quanto Patriarca d’Occidente. Questo titolo è stato però lasciato cadere da Benedetto XVI, perché non si equivochi che, da parte cattolica, non si tratta di un mero primato onorifico, ma di un primato d’autorità. Tuttavia, le discussioni procedono piuttosto a rilento, e risentono di un’ineguale disposizione da parte delle varie Chiese. Ad esempio, mentre il Patriarcato di Costantinopoli, la Chiesa Ortodossa Romena sono piuttosto bendisposti, al di là dei malumori di parte del clero e dei fedeli, lo stesso non si può dire per il Patriarcato di Mosca, e per la Chiesa Ortodossa Serba e Ucraina. Certo, i rappresentati della Chiesa Russo Ortodossa partecipano al dialogo ecumenico, ma restano piuttosto scettici sulla possibilità di una reale conciliazione, diversamente dai greci, il cui attuale Patriarca, Bartolomeo I, in carica dal 1991, si è distinto per la sua buona volontà in questo senso, oltre che per lo sforzo missionario nei confronti delle comunità greco ortodosse in tutto il mondo. La politica ci mette la coda Anche in Russia, la Chiesa Cattolica è conseguentemente incolpata dalla Chiesa Ortodossa locale e da parte della popolazione russa di giocare un ruolo geopolitico a favore dell’Occidente liberale a egemonia statunitense.

Sul cammino verso la riunificazione, infatti, si frappongono anche ostacoli di carattere storico-politico, che fanno sì che i rapporti tra la Chiesa Cattolica ed alcune Chiese ortodosse siano difficoltosi. Abbiamo già citato il Sacco di Costantinopoli del 1204, forse il più grave dei vulnus tra Occidente e Oriente. In tempi più recenti, la Chiesa Ortodossa Serba resta pesantemente avversa al Vaticano, per via del ruolo politico di quest’ultimo a favore di una Croazia indipendente e cattolica, sia negli anni ’40 che negli anni ’90. In più, sacerdoti cattolici parteciparono al genocidio dei serbi compiuto dagli Ustasha tra 1941 e 1944, e la cui ferocia scandalizzò persino i loro alleati nazionalsocialisti. Alla fine della guerra, la Chiesa croata provvide a mettere in salvo molti di questi criminali.

Un altro caso aperto è quello degli uniati greco-cattolici dell’Ucraina occidentale (Galizia e Volinia). Dopo la spartizione del Regno di Polonia, questa regione fu governata dall’Impero d’Austria, per poi essere assegnata alla Polonia nel primo dopoguerra, dopo l’effimera esistenza dell’Ucraina Occidentale. Quando, nel 1939, questa regione fu invasa e occupata dall’Armata Rossa, la religione cattolica divenne un forte elemento identitario nella resistenza politica contro l’invasore ateo e bolscevico. La guerriglia polacca e nazionalista ucraina continuò a battersi fin per alcuni anni dopo la sconfitta militare dell’Asse. Nel frattempo, Stalin aveva scelto di allentare la morsa sulla Chiesa Ortodossa Russa, per favorire il sentimento patriottico panrusso. Nel 1946, quindi, la Chiesa Greco-Cattolica Ucraina fu messa fuori legge. Oggi, con la caduta dell’URSS, questa stessa regione è diventata il fulcro dei movimenti ultranazionalisti, perpetuando lo scontro tra una maggioranza ortodossa filorussa e una minoranza cattolica uniate in ampia parte occidentalista e antirussa. Anche in Russia, la Chiesa Cattolica è conseguentemente incolpata dalla Chiesa Ortodossa locale e da parte della popolazione russa di giocare un ruolo geopolitico a favore dell’Occidente liberale a egemonia statunitense. Negli ultimi vent’anni, la Chiesa cattolica, la cui presenza precedentemente era limitata alle minoranze etniche polacche o lituane o tedesche, si è espansa sia con l’evangelizzazione sia con una serie di iniziative sociali e assistenziali, riempiendo il vuoto spirituale e materiale lasciato dal crollo del regime sovietico. Di qui, le accuse di proselitismo, così motivate dalla Chiesa Ortodossa: se davvero sussiste una comunione tra le due Chiese, perché cercare di convertirne i membri, come se fossero atei o infedeli? Va detto che recentemente (Balamand, 1993) anche da parte cattolica, salvo restando il diritto di esistere delle attuali Chiese Cattoliche di rito orientale, l’uniatismo non è più considerato un metodo accettabile nell’ottica dei rapporti

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interconfessionali tra cattolicesimo e ortodossia. Problemi di respirazione Per descrivere la grande diversità teologica tra Cristianesimo d’Occidente e Cristianesimo d’Oriente, il Beato Giovanni Paolo II usò la metafora di una sola Chiesa che respira «con due polmoni». La teologia ortodossa presenta alcuni aspetti in comune con altre religioni orientali. Si basa sulla theoria, ossia sulla “contemplazione” intuitiva delle Scritture e di Dio ricevuta per ispirazione. Questa ispirazione si acquisisce attraverso la meditazione, la preghiera e l’ascesi. In particolare, c’è tutta una dottrina e una pratica ascetica, chiamata esicasmo e sviluppata dai monaci orientali fin dal IV secolo, che ha, a tutt’oggi, un ruolo centrale nella meditazione cristiano ortodossa. Attraverso la theoria e la katharsis (“purificazione”) del corpo e della mente, il teologo ortodosso mira a raggiungere la theosis, ossia l’unione dell’uomo con Dio. Quest’approccio teologico, in sintesi prescinde dagli aspetti intellettuali e argomentativi, per concentrarsi su quelli mistici ed ascetici. Anche le apparenti differenze dogmatiche sono più formali che non sostanziali. Ad esempio, gli Ortodossi credono nella transustanziazione, ma rifiutano il termine, in quanto indice di un tentativo di razionalizzare il Mistero divino. Oppure l’Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria, recentemente dogmatizzate dalla Chiesa Cattolica, che sono tenute per vere dagli Ortodossi, ma non sono considerate dei dogmi di fede. Anche la dottrina cattolica del Purgatorio trova il suo corrispettivo in quanto stabilito dal Sinodo di Gerusalemme del 1672, che parla di una punizione temporanea per certe anime. Un caso particolarmente famoso è quello del “filioque”. In breve, gli ortodossi ritengono che la divinità promani dalla Persona di Dio Padre, e da lì alle altre Persone della Trinità, mentre i cattolici affermano che la divinità promani dall’unica sostanza divina di cui sono parte tutte e tre le Persone, e quindi lo Spirito Santo proceda anche dal Figlio. L’aggiunta del filioque al Credo niceno doveva inoltre sfatare ogni rischio di ricaduta nell’arianesimo. Tuttavia, questa respirazione, di cui abbiamo parlato, è a dir poco asincrona. Infatti, un atteggiamento di chiusura contraddistingue nettamente le Chiese Ortodosse, le quali ritengono che la teologia occidentale si sia distaccata da quella orientale, a causa del massiccio ricorso alle categorie e ai sillogismi della filosofia classica pagana, e quindi abbia avuto uno sviluppo, tramite lo scolasticismo, di tipo prettamente razionalista e formalista. Perciò, la teologia occidentale, in quanto “razionalista”, speculativa, positiva, «catafatica», sarebbe inferiore rispetto a quella orientale, di tipo mistico, empirico, negativo, «apofatico». Invece, da parte cattolica c’è pieno riconoscimento per l’approccio teologico usato dagli orientali, fatti salvi i dogmi della Chiesa Cattolica, che come abbiamo visto non sono in reale discussione. Fa eccezione però la questione dell’infallibilità papale, sancita dal Concilio Vaticano I, e mai accettata da ortodossi, protestanti e veterocattolici. Due diversi modelli di Chiesa Passiamo ora in rassegna le differenze ecclesiali tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa. Innanzitutto, salta agli occhi l’evidenza di diversi riti, diverse liturgie e diverse misure disciplinari, come una più severa disciplina delle astinenze, oppure l’ordinazione di uomini sposati a presbiteri. In particolare, c’è una distinzione tra il clero secolare sposato, parte integrante della comunità parrocchiale, e il clero regolare, celibe e monastico, da cui sono tratti anche vescovi e patriarchi. Tutto ciò però vale già anche per numerose Chiese Cattoliche di rito orientale, a partire da quelle uniate, i cui capi sostengono – per inciso – che l’ordinazione di uomini sposati, pur non essendo negativa, non è neanche questo toccasana che viene spacciato da certi progressisti nostrani. Fin qui, si tratta quindi prevalentemente di questioni accidentali. Tuttavia, il punto fondamentale di divisione tra cattolicesimo e ortodossia rimane proprio di tipo ecclesiale, e concerne il mondo in cui i rapporti tra le Chiese e all’interno di esse sono concepiti. Innanzitutto, ogni Chiesa ha un suo territorio, coincidente in genere con una comunità nazionale, di pertinenza, di contro all’universalismo della Chiesa Cattolica Romana. Poi, queste Chiese sono organizzate secondo il criterio della collegialità, piuttosto che della gerarchia. Il Patriarca è quindi un primus inter pares, che prende le sue decisioni insieme al sinodo dei Vescovi, mentre la sua stessa autorità episcopale non si estende al di fuori della sua diocesi. Da questo punto di vista, con le riforme del Concilio Vaticano II, si è deciso di dare maggiore spazio alla collegialità anche in seno alla Chiesa Cattolica. Nondimeno, in essa, permane una chiara gerarchia, a capo della quale è il Papa. Il Santo Padre, inoltre, ha autorità non solo sulla Chiesa Latina, ma anche sulle Chiese Cattoliche Orientali. Questo è un punto su cui, apparentemente, nessuno dei due ha intenzione di cedere. Considerazioni cattoliche Venendo ora al dunque, è chiaro che la nostra posizione, da cattolici non può che essere di parte. Questo non significa disprezzare le potenzialità e il valore del cristianesimo ortodosso. Anzi, esso, col raccogliere molto delle tradizioni spirituali asiatiche e orientali, può costituire un approdo sicuro per quelle persone e quei popoli, la cui forma mentis e cultura li distanzia dalla mentalità europea ed occidentale. A chi serve ad esempio lo yoga, sia pure cristianizzato, quando la tradizione cristiana offre la pratica dell’esicasmo? La religione cattolica già incorpora in sé Chiese di rito orientale, in cui questo patrimonio teologico e liturgico è ben vivo e diffuso. Anzi, la sua stessa natura eurocentrica, accusata dai cristiani orientali, sta venendo meno di fronte all’aumento dei cattolici africani, americani e asiatici, portando quindi la Chiesa ad essere veramente universale. Per questo motivo, spetta ai cristiani d’Oriente, agli ortodossi, mostrare altrettanta comprensione ed accoglienza, verso la teologia razionale, speculativa e accademica, propria della tradizione

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europea occidentale, la quale affonda le sue radici già nella classicità e, sulla scia del colonialismo, è ormai maggioritaria nelle Americhe, in Africa e in Oceania. Essi devono capire che la teologia cattolica non è affatto inferiore rispetto a quella ortodossa, ma semplicemente diversa, e che entrambe affondano le radici nei medesimi Padri della Chiesa. Affermando il contrario, mostrerebbero di essere loro a sostenere una sorta di “imperialismo teologico”, dato che Roma rispetta invece le loro particolarità, e ha anche sconfessato una strategia di tipo uniatista. Infine, dal punto di vista ecclesiale, va rilevato che la Chiesa Cattolica ha riconosciuto i meriti e il ruolo che possono avere strutture collegiali e sinodali nella Chiesa cristiana. Tuttavia, è evidente che il modello ortodosso presenti alcune lacune: innanzitutto una tendenza alla disunione dovuta alla loro struttura confederativa. In secondo luogo, una debolezza delle autorità religiose sul piano dell’autonomia politica rispetto alle autorità statali. Infine, nonostante gli ortodossi affermano che la tradizione ecclesiale è sempre stata policentrica, dovrebbero comprendere che, a prescindere da questioni scritturali, la Tradizione perenne è sempre stata monocratica: si pensi all’Imperatore romano, allo Shahinshah persiano, al Califfo islamico o Çakravarti indiano. Dunque, ha perfettamente senso, anche da un punto di vista laico, che una sola sia la guida suprema della Chiesa di Cristo. Riconoscendo l’autorità papale, allo stesso modo (e con modalità simili) delle altre Chiese orientali in piena comunione con Roma, i fratelli ortodossi porterebbero in dote alla Chiesa Cattolica una grande ricchezza di riti, tradizioni, santi, testi, ma acquisterebbero quella piena unità, quella piena indipendenza e quella piena autorità, che sole si confanno alla Sposa di Cristo.


Di Barbara Spadini

икона

PREGHIRE DI LUCE

“Tu, Signore divino di tutto ciò che esiste, illumina e dirigi l'anima, il cuore e lo spirito del tuo servo; guida le sue mani perché possa rappresentare degnamente e perfettamente la tua immagine, quella della Tua Santa Madre e quella di tutti i Santi, per la Gloria, la gioia e la bellezza della Tua Santa Chiesa.” Preghiera del pittore di Icone.

L’epoca nostra, ove tutto “cala” e cambia in fretta, valori, speranze, motivazioni, consumi, mode, verrà – forse – ricordata come “opaca”. Nulla, di fatto, brilla al sole, nemmeno i visi dei nostri bambini, diafani e a volte spenti nello sguardo fisso sui mezzi tecnologici più vari. Ecco che, oggi, parlare di icone trova senso, un senso intimo ed interiore, per cercare di rivalutare una forma artistica del passato tutt’ora coltivata da validi “artigiani di Luce e Preghiera”, che chiamare “artisti” parrebbe riduttivo. Rivalutare il linguaggio iconico significa anche riflettere sul Tempo, sul Divino, sul Simbolo, come vedremo più avanti. Cos’è un’icona?1 Un pezzo di legno dipinto a formare un quadro, apparentemente nemmeno troppo “bello” agli occhi di chi coltiva il senso estetico odierno in tre dimensioni. A prima vista è piatta, dal fondo dorato, sul quale risaltano figure affusolate di Vergini dalle lunghe dita, di Volti di Gesù barbuti e baffuti, di Santi drappeggiati con tuniche dalle pieghe impossibili: no, l’icona è assai “lontana” dal gusto estetico oggi prevalente. Per comprendere l’essenza di un’icona è, quindi, necessario aprire occhi, mente e spirito in direzioni antiche e lontane dal mondo occidentale, iniziando ad esplorare immagini e disegni come strumenti di un “linguaggio unitario”, che silenziosamente racconta, spiega, descrive e – soprattutto – prega, incentivando il raccoglimento, l’arte della memoria, la devozione personale, l’ascesi e l’adorazione del Divino. Nulla, proprio nulla entro un’icona è casuale; leggerla significa penetrare nel Mistero, e questa dimensione sappiamo bene essere territorio di scontro con noi stessi: quante domande, quanti perché davanti all’inconoscibile, quanta frustrazione crea a noi stessi la mancanza di accettazione dell’ignoto, dell’inspiegabile. Forse, l’icona è proprio questo, o almeno in parte: l’emanazione del Mistero in forma di Luce. Coloriamo sempre l’incomprensibile di nero, ammantiamo spesso con cappe scure tutto ciò che non ci è chiaro. L’icona, invece, brilla, di Sole, di colori, e ci insegna ad aprirci con altro spirito all'ineffabilità di Dio. È terreno per pochi specialisti l'addentrarsi nella storia, nel simbolismo, nella tradizione e nella tecnica dell'icona: possiamo affermare comunque che essa assuma i propri caratteri definitivi attorno al V secolo d.C., “copiando” o riproponendo i prototipi offerti dalla Tradizione cristiana, cioè il volto di Cristo ed i ritratti della Vergine Maria attribuiti a San Luca Evangelista. San Luca, medico, formatosi in ambiente culturale greco e presumibilmente pittore, è considerato dagli studiosi come primo iconografo: “(...) possiamo tuttavia dire che il principio dell’iconografia risale effettivamente ai tempi apostolici perché i primi monumenti dell’arte cristiana appaiono nelle catacombe e nelle immagini verbali dei Vangeli. È per questo che si può parlare di san Luca come del primo iconografo della Madre di Dio: è infatti il suo Vangelo che dà il maggior numero di dettagli sulla Santa Vergine.” 2 Parlando della tradizione iconica , non va dimenticato che essa si evolve in un arco di tempo tra il VI sec. d.C. e il XVIII sec., ossia dalla prima icona del Cristo arrivata fino a noi (il Pantokrator del monastero di santa Caterina al Sinai) fino alla scuola russa di Stroganov, con la quale ha inizio una contaminazione stilistica occidentale, italiana in particolare. Gli studiosi fissano gli antenati delle icone nei simboli protocristiani e nelle sequenze pittoriche narrative di scene bibliche presenti nelle catacombe ed anche nelle tavolette funerarie già in uso nella Roma paleocristiana che ritraevano il volto del defunto. La libertà religiosa promossa da Costantino nel 313 d.C. e la proclamazione del Cristianesimo quale religione di Stato nel 380 d.C., diede un forte impulso alla creazione artistica religiosa ed anche alle icone. La devozione cristiana delle immagini alimentò tuttavia il malcontento di Ebrei e Musulmani che condannavano come idolatra la raffigurazione umana di Dio e l’adorazione di queste immagini. L'imperatore Leone III l'Isaurico, determinato a mantenere un concorde equilibrio religioso, sostenuto da alcuni Vescovi (Costantino di Nacolia, Tommaso di Claudiopolis, Teodoro di Efeso), ordinò nel 726 d.C. la confisca e la distruzione totale delle Icone sia nelle chiese che nelle case. Contro l'imperatore iconoclasta si scagliò con decisione Papa Gregorio III e San Giovanni Damasceno, futuro Padre della Chiesa, che affermò: “(…) non si adora un'immagine, ma Colui che mediante essa si rende presente”; ed anche: “se noi facessimo un’immagine del Dio invisibile, noi saremmo certamente nell’errore (…), ma non facciamo nulla di ciò. (…) Un tempo Dio, non avendo corpo né forma, non si poteva rappresentare in nessun modo. Ma poiché ora è apparso nella carne ed è vissuto fra gli uomini, posso rappresentare ciò che di Lui è visibile. Non venero la materia, ma il creatore della materia.” La “caccia all'icona” durò fino all'anno 843 d.C., quando il settimo Concilio Ecumenico di Nicea ne sancì la legittimità. Il Concilio chiarì finalmente la differenza tra latria (adorazione) e dulia (o proskynesis ,venerazione). Tra le delibere conciliari una è fondamentale: “Noi deliberiamo, con ogni cura e diligenza, che come la preziosa e vivificante Croce, le venerande e sacre immagini, in pittura, in mosaico o in qualsiasi altra materia, vengano esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle strade, si tratti dell’immagine del Signore Dio nostro Salvatore Gesù Cristo o della Santa Madre di Dio, o degli angeli degni di onore, o dei santi e pii uomini. Infatti, quanto più esse vengono viste nelle immagini, tanto più coloro che le guardano sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e tributare loro rispetto e venerazione. Non si tratta certo, secondo la nostra fede di un culto di adorazione, che è riservato solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all’immagine della preziosa e vivificante croce, ai santi vangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi, come era uso presso gli antichi. L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto.” Le icone, nel mondo orientale, hanno analoga funzione sacra delle nostre immagini religiose, o “santini”, che spesso teniamo racchiusi nel portafoglio, o conservati con devozione tra le pagine di una Bibbia o di un libro di preghiere. Non è il foglietto di carta che la pietà cristiana

Madre di Dio del Roveto Ardente, icona russa di fine XVI secolo.

1 Il termine icona deriva dal russo “икона”, a sua volta derivante greco bizantino “εἰκόνα” (éikóna) e dal greco classico “εἰκών, -όνος” derivanti dall'infinito perfetto "eikénai", traducibile in “essere simile”, “apparire”, mentre il termine “éikóna” può essere tradotto con “immagine”. 2 G. Drobot, La lettura delle icone, EDB, Bologna 2000, p. 58

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venera, ma ciò che di “ulteriore” esso rappresenta. Mentre l'uso del “santino” si evolve in Occidente insieme alle tecniche su carta (nel 1500 ancora disegnato a mano o intagliato su cara pergamena, poi a stampa), circa dall'anno 1440 d.C. si diffuse in Russia, invece, l'uso di Icone in legno ricoperte da metalli, in porcellana o in carta pressata: queste Immagini di piccole dimensioni e di modesto peso, relativamente economiche e di lunga durata, in poco tempo divennero icone da collo e da viaggio, dalle quali il credente poteva non separarsi mai. Fino a tutto il 1600 i metalli più usati furono bronzo e rame, mentre dal 1700 vennero usati anche ottone e argento. Le forme delle icone erano il Crocifisso, la tavoletta singola, il dittico, il trittico ed il polittico, mentre i soggetti più richiesti erano il Cristo, i Santi, la Santissima Trinità e la Vergine. Nella tradizione figurativa della Chiesa bizantina l'icona aveva un significato simbolico preciso, che interessava non solo l'aspetto pittorico, ma anche la preparazione, il materiale ed i colori utilizzati, oltre alla disposizione ed ubicazione dell'opera terminata. In particolare, la tradizione russa ha tramandato tre tipologie iconiche relative a Maria: la Madre di Dio “Deesis” 3 (orante) senza Bambino; la Madre di Dio “Odighitria”4 (Colei che indica la via), e la Madre di Dio “Eleusa” (Madre della Tenerezza), entrambe col Bambino e note come “icone dell'Incarnazione”. La tradizione iconica fa, invece, risalire le prime tipologie del Cristo all’impressione del Sacro Volto sul velo della Veronica (vera-icona), da cui deriva l’icona conosciuta come acheropita (non fatta da mano d’uomo), mentre il mandylion (sacro lino) riproduce l’impressione miracolosa del volto di Cristo che egli inviò al re Abgar di Edessa, in seguito al suo desiderio di tenere sempre con sé un dipinto che ne riproducesse i tratti, guarendolo dalla sua malattia. Brevemente, riassumendone in cenni la tecnica, l'icona era dipinta su tavola lignea, ricavata dalla parte centrale del tronco d'albero, prevalentemente di tiglio o di pino. Le tavolette erano stagionate per anni ed anni, onde eliminare l'umidità residua, che avrebbe potuto incurvare il legno e, prima dell'operazione di pittura, venivano lavate e trattate con antiparassitari, per prevenire la tarlatura. La parte posteriore veniva successivamente rinforzata, applicate con tecniche e metodologie differenti per epoche e scuole. Sul lato interno della tavola era praticato un’incavatura (detto “scrigno” o “arca”), in modo da creare una cornice in rilievo sui bordi della tavola stessa. Sulla superficie veniva stesa e fissata una tela di lino ricoperta da strati di colla d'origine animale (storione) e di gesso derivato dalla polvere d'alabastro che era poi levigata con carte vetrate o pelle essiccata di pesce, fino ad ottenere un piano liscio ed uniforme di colore bianco, il levkas. A questo punto si passava alla fase del disegno, detta “apertura”, un vero e proprio rito per l'iconografo, assimilato al gesto di aprire il testo sacro per iniziarne la lettura. Sopra ad esso si delineava uno schizzo del disegno, con incisione leggera o a carboncino ed in seguito si preparavano le zone da dorare, evidenziate con uno sfondo rosso. Si effettuava la doratura attraverso l'applicazione di lamine stese sopra tutti i particolari (bordi, drappeggi, pieghe, sfondi, aureole) per mezzo di una pietra agata appuntita o un dente di lupo, affinché le zone assumessero una lucentezza metallica che veniva protetta da un sottile velo di gommalacca. Si passava quindi alla stesura di un colore verde bruno per le figure, per gli sfondi, per i paesaggi, rifiniti a biacca. Grazie all'alternanza di colori chiari e scuri, veniva creato un certo effetto tridimensionale, dando il massimo rilievo ai volti, in genere illuminati da pennellate d'ocra su fronte, naso, zigomi e capelli e da tocchi di vernice rossa per labbra, guance e naso. A questo processo seguiva la graphia, cioè la revisione del disegno, grazie ad effetti di vernice marrone chiaro per gli occhi, le ciglia, le eventuali barbe e baffi. Prima di dipingere i volti il pittore si preparava con un periodo di preghiera e digiuno, per poter trasmettere all'immagine ed all'espressione dei visi la forza vitale della luce. Alla fine venivano aggiunte le didascalie, scritte in greco o cirillico, indicanti i nomi dei personaggi effigiati. Alcuni mesi dopo, opportunamente seccata, l'icona veniva trattata con una speciale verniciatura, con olio di lino, resine e sali minerali, un composto di nome olifa che, una volta asciugata, rendeva brillanti i colori e ne impediva l'alterazione. L'icona era quindi pronta per essere benedetta e, attraverso quest'atto, diventare consacrata, segno divino di grazia. Tutti i colori utilizzati erano ricavati da sostanze naturali, vegetali o minerali pestate al mortaio e macinate, oppure dall’ossidazione dei metalli. Le scuole più antiche utilizzavano una scala cromatica minima di quattro, cinque colori, che divennero venti attorno al 1800. Per ottenere le diverse sfumature di colore, i pigmenti e le polveri naturali venivano disciolti nell'acqua e mescolati al tuorlo d'uovo, utilizzato come legante, insieme ad aceto o kvas ( mistura derivata dalla distillazione di pane, ribes ed uva passa). La teologia riteneva l'icona opera di Dio stesso, che agiva attraverso le mani dell'iconografo: per questo motivo le icone non erano mai datate né firmate dall'autore, pur potendo riconoscere l’opera di mastri iconografi come il Maestro Andrej Rublev, attivo tra il 1360 ed il 1430. In questo modo l'opera appariva completamente entro un “tempo” differente, un oltre che si coglie a prima vista anche dai volti di Maria, di Cristo e dei Santi, detti liki, privi di alcun espressività emozionale mondana. È necessario ricordare che, dietro l'icona, vi è una precisa teologia dello Spirito, legata ad una concezione temporale ben differente da quella evolutasi nella cultura occidentale moderna: in quest'ultima, eventi e persone, sacre o terrene, sono collocate in un preciso spazio e tempo, un tempo che scorre. Nell’Europa orientale, e in particolare nella Russia e a Bisanzio, la concezione del tempo non mutò e rimase profondamente legata alla Tradizione indicata dai Padri della Chiesa. La storia è dunque divisa in due tempi: quello precedente alla venuta di Gesù Cristo e quello successivo. Il tempo era un concetto inesistente prima della creazione del mondo ed è concetto che mal si adatta a Dio, per i suoi attributi perfetti d’ineffabilità, di onnipresenza, di eternità. Dio per definizione è ingenerato e imperituro. Ecco perché nelle icone bizantine sono presenti le tre lettere greche (OΩN), la cui traduzione può essere: “essente”, “è sempre stato”, “è” e “sempre sarà”. Il mondo, pertanto, trova senso nell’essere un progetto divino con un inizio (alfa) e una fine (omega), ove ogni evento è una manifestazione

3 Parola greca che significa “supplica”; è una particolare composizione generalmente distribuita su tre tavole dove al centro appare la figura del Cristo in trono ed al lato sinistro la Vergine Maria mentre a quello destro c'è San Giovanni Battista. 4 Da “odigos”, “guida”; la Madonna sostiene con un braccio il Bambino Gesù mentre con l'altra mano lo addita alla venerazione dei fedeli.

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dell’onnipotenza divina. Le immagini iconiche sono così raffigurate fuori dal tempo, perché Cristo, la Vergine e i Santi sono nella vita eterna, immersi nello stato ultra-temporale della contemplazione di Dio. In merito alle icone, Giovanni Paolo II scrisse che: “L’arte per l’arte, la quale non rimanda che al suo autore, senza stabilire un rapporto con il mondo divino, non trova posto nella concezione cristiana dell’icona. Quale che sia lo stile adottato, ogni tipo di arte sacra deve esprimere la fede e la speranza della Chiesa5”. Non a caso l'icona è stata da sempre inserita dalla Chiesa Ortodossa in una specifica tradizione ecclesiale, divenendo “sacramentale”, strumento e segno di Grazia. Essa, sia nel culto liturgico e comunitario che nella devozione privata, era mezzo per conoscere Dio, la Vergine ed i Santi, confessione delle verità di fede, parte integrante del linguaggio delle Sacre Scritture. L'icona quindi era considerata via semplice e diretta per penetrare il Mistero divino. Per questo motivo l'icona non è né rappresentazione pittorica né arte figurativa intesa in puro senso estetico, ma piuttosto preghiera, atta a sostenere e fortificare la fede del credente attraverso la vista, così come si riteneva che il canto religioso agisse parimenti attraverso l’udito. Le icone quindi non sono segno grafico rappresentativo, ma testimonianze dell'Invisibile, alimenti per Fede e Speranza, ponti verso la Carità. Apparirà chiaro, quindi, attraverso queste note riguardo la teologia oltre l'immagine, che l'icona non si disegna o dipinge, ma si scrive, e che non la si guarda né la si ammira, ma la si legge. In ambito russo, il filosofo e mistico Pavel Aleksandrovič Florenskij (18821937) fu tra i principali teorici dell'arte delle icone, individuandone i significati simbolici e le preziose valenze spirituali- teologiche. L'esoterista italiano Tommaso Palamidessi (1915-1983), convertitosi al cristianesimo e approfondendo la mistica cristiana occidentale ed orientale, svolse un tentativo esegetico in chiave ermetica ed alchemica per svelare l'essenza spirituale dell'icona, in un testo ove descrisse tanto il simbolismo dei colori, delle forme e delle proporzioni, quanto le tecniche, dimostrando che l'icona è strumento sacro in grado di trasmutare la coscienza umana (L'icona, i colori e l'ascesi artistica, 1986). Prima di addentrarci in qualche nota specifica sule icone russe, è necessario richiamare due riflessioni più generali: la prima riguarda la simbologia legata ai materiali ed ai colori delle icone, la seconda riguarda la tripartizione dell'essere umano nel pensiero paolino. Nell’icona tutto parla il linguaggio del simbolo: la tavola lignea allude alla nascita di Cristo dalla famiglia di un falegname ed alla sua morte sul legno della Croce; il leukas è simbolo della pietra angolare che è Cristo, sulla quale si basa la salvezza, ma allude anche alla tabula rasa ove tutto sarà scritto ed alla luce, primo elemento creato da Dio; la tela rappresenta il sacro lino su cui fu impresso il volto del Cristo, prima icona; il tuorlo d'uovo richiama il principio cosmico della Vita e la Pasqua, nuova vita in Cristo; il vino che si mischia all’uovo è simbolo del sangue eucaristico di Cristo; l'oro del fondo richiama la luce divina entro la quale tutto e tutti vivono, trovando il loro senso; i colori materializzano la luce increata ed ognuno ha il suo preciso significato. Il blu rappresenta il colore della trascendenza, mistero della vita divina. Il rosso è simbolo dell’umano e del sangue versato dai martiri. Il verde è simbolo della natura, della fertilità e dell’abbondanza. Il marrone simboleggia l'elemento terrestre, l'umiltà e la povertà. Il bianco è il colore dell’armonia, della pace, il colore della luce divina. Il giallo spesso sostituisce l’oro nel fondo della tavola, in una tonalità calda, quasi arancione, si trova nel clavo, la stola di Gesù, o nelle vesti dell’Emmanuele, il Cristo in gloria. Il nero indica le tenebre, l’assenza di luce, gli inferi. I maestri iconografi producevano i propri colori: i pigmenti naturali conservavano caratteristiche di luminosità e di cromatismo uniche. I cristalli minerali presenti nei colori rifrangevano la luce che li colpiva. L’antropologia cristiana antica, sulla scorta del pensiero di San Paolo, definisce l’essere umano come costituito di tre dimensioni: corpo, anima, spirito. Il cammino ascetico, così simile al viaggio paolino, non in terre lontane, quanto piuttosto all'interno di sé stessi, spinge l’uomo dall’esterno all’interno, dalla periferia al centro, dalla superficie alla profondità, dal corpo all’anima, dal materiale allo spirituale, dalla vita fisica a quella metafisica. Entro questa concezione, il corpo è tempio di Dio e ne riflette le caratteristiche in “immagine” e “somiglianza”. Nell’icona questa tripartizione diviene pura tridimensione: in essa viene rappresentato non solo l’aspetto estetico- esteriore dell’uomo, ma soprattutto la sua interiorità, che diviene luce. A questo fine, la tecnica segue un procedimento tripartito che è anch'esso un “viaggio” simbolico entro le tre dimensioni umane: • • •

Corpo: campiture di colore, struttura di base dell'icona. Anima: pennellate di luce (le luci danno anima e vita alla materia) sulle immagini. Spirito: illuminazione dei volti, secondo il concetto di “somiglianza”, inteso come vedremo in seguito.

È in Russia che troviamo le icone tradizionali. La tradizione russa, infatti, non ha solo assimilato la tradizione greca, ma ha anche contribuito a rinnovarla attraverso un’interpretazione originale. Numerose furono le scuole di icone nella storia russa; ricordiamo quelle di Tver, Pskov, Novgorod, Palekh, Mosca. Nella Chiesa Ortodossa russa le icone hanno assunto nel corso dei secoli un valore mistico, e grande è la venerazione dei Russi per tutte le icone, e particolarmente per alcune ritenute miracolose (la Vergine di Vladimir o la Vergine di Kazan, ad esempio). In tempi meno recenti, in ogni casa russa, al di là della condizione sociale, veniva allestito il cosiddetto “angolo bello”, un angolo della casa, visibile a chi vi entrava, in cui restava esposta, divenendo quasi altare domestico, l’icona protettrice davanti alla quale si segnava tanto l'ospite quanto il padrone. Nelle chiese russe è tuttora presente l’usanza di pregare davanti alle icone: per evitare che il fumo delle candele o i baci dei fedeli danneggino le tavole, molte icone sono ricoperte dalla riza, un rivestimento metallico in rame, argento o oro, che lascia visibili solo volti, mani e piedi delle sacre immagini. Diversi sono i tipi di copertura che vengono tradizionalmente utilizzati: oltre alla riza anche il bazma (cornice metallica con sbalzi a copertura laterale della tavola), l'okhlad (copertura parziale dell'immagine in un unico pezzo che lascia intravedere almeno due terzi dell'icona) e il tzata (pettorale a forma di mezzaluna applicato direttamente sull'icona o sulla riza). Sempre in Russia venne introdotto, verso la fine del secolo XVIII, l’uso dell'icona in porcellana, dipinta interamente a mano, e i cui colori mantenevano nel tempo le loro caratteristiche migliori. Questo tipo di icona veniva definita con il nome di Finift. 5

Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Duodecimun Saeculum, n. 11

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Osservando le iconostasi delle chiese cristiane ortodosse, ovvero le pareti rivestite di icone che separano lo spazio destinato ai fedeli da quello ove il sacerdote officia il rito, si può ben comprendere che la funzione principale dell’icona è proprio quella di “epifania del divino”, nascondere e contemporaneamente manifestare il Mistero. È possibile cogliere il senso escatologico delle icone che si trova tra “già” e “non ancora” all'interno della storia della salvezza, ed anche il suo essere ponte fra umano e divino, rendendo immanente la trascendenza divina, rendendo visibile l'archetipo della vera bellezza, la Luce. Per questo l'icona diviene tramite di un processo conoscitivo che potremmo chiamare “esperienza contemplativo-estetica” (da experior: attraversare). Per comprendere appieno il valore attuale e l’insegnamento per il nostro oggi derivante dalla lettura di un’icona, non basta appenderla al muro di casa, o farne oggetto da collezione: bisogna necessariamente interpretarla, a partire dal Mistero dell'Incarnazione e dal principio di diversità fra “immagine” e “somiglianza”. Difficilissimo, per chi scrive l’articolo, far partecipi i lettori di questa sottile duplice chiave interpretativa, che possiamo assimilare tenendo ben presente l'idea di spisok, “copia” in russo. Così come nell'arte iconica le copie sono del tutto autentiche, esattamente come il modello originale, poiché la tipologia dell'immagine è immutabile, identica a sé stessa e quindi risponde al carattere della “somiglianza” con l'archetipo, allo stesso modo leggere un’icona per il fedele è avvicinarsi all'eternità immutabile di Dio, sapendo che le sacre immagini sono modelli senza tempo di perfezione, la stessa perfezione a cui il fedele deve giungere e che lo condurrà alla trasfigurazione, alla Luce divina. Ecco che vengono in mente le parole del Vangelo di Giovanni, riferite a Gesù: “E il Verbo si fece carne”. Questo passo mostra al cristiano la via della salvezza, Cristo incarnato, “copia” e “somiglianza” di Dio, non meno autentico dell'originale ed unico Verbo, pur incarnato. Ritornano così anche le parole del Genesi: “E Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza”. L'uomo, nonostante il peccato originale, è e resta per sempre immagine di Dio, pur avendone persa la “somiglianza”, cioè l'adesione in grazia e virtù. Ecco che le immagini dei Santi, della Vergine, di Cristo, in realtà hanno volti simili, trasfigurati dall’essere in eterno entro la Luce divina di verità, sapienza e grazia, quella cui deve aspirare anche il credente che si dispone davanti all’icona per trarne l’autentico messaggio salvifico. I santi effigiati nelle icone, uomini mortali e macchiati dal peccato originale, nella teologia orientale erano chiamati “i somigliantissimi”, coloro che in vita, per aver vissuto nella retta via, avevano recuperato la “somiglianza” con Dio. In questo si fissa l'idea di icona, intesa come “preghiera di Luce”: entro un’icona risplende il lavoro spirituale di mortificazione e purificazione svolto dall'iconografo, che – attraverso la Luce, il Sole della Verità, trasmesso dalle sante immagini – ci rivolge l’invito alla salvezza, che risiede nel trovare senso e significato solo in Dio, cui tutto appartiene.

Bibliografia essenziale: AA. VV., Bisanzio e la Russia ,Storia dell'icona in Russia (vol. 1), La Casa di Matriona, Milano 1999. AA. VV., In Te si rallegra ogni creatura. Storia dell'icona in Russia (vol. 2), La Casa di Matriona, Milano 2000. AA. VV., Le capitali del Nord. Storia dell'icona in Russia (vol. 3), La Casa di Matriona, Milano 2001. AA. VV., Zar e mercanti. Storia dell'icona in Russia (vol. 4), La Casa di Matriona, Milano 2001. AA. VV., Icona e pietà popolare. Storia dell'icona in Russia (vol. 5), La Casa di Matriona, Milano 2001. AA. VV., Le Icone, Mondadori, Milano 2000. Benemia Antonio G., Il sacro nell'arte, genesi e sviluppo dell'immagine sacra nell'arte cristiana, peQuod, Ancona 2010. Boschetti Giovanni, Quando l'arte racconta la fede, Ediz. Academia, Montichiari 2011. Irina Jazykova, Io faccio nuova ogni cosa. L'icona nel XX secolo, La Casa di Matriona, Milano 2002. Irina Jazykova, Се творю все новое. Икона в XX веке, La Casa di Matriona, Milano 2002. Passarelli G., Icone delle dodici grandi feste bizantine, Jaca Book S.p.A., Milano 1998. Pavel Aleksandrovič Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona (1921-1922), a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano 1977. Pavel Aleksandrovič Florenskij, Il rito ortodosso come sintesi delle arti (1918), in La prospettiva rovesciata e altri scritti, trad. it. a cura di C. Muschio e N. Misler, Casa del libro, Roma 1983. Pavel Aleksandrovič Florenskij, La prospettiva rovesciata (1919), in La prospettiva rovesciata e altri scritti, trad. it. a cura di C. Muschio e N. Misler, Casa del libro, Roma 1983. Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza, l'arte dell'icona, San Paolo, Torino, 1990. Viktor Nikitič Lazarev, L'arte russa delle icone, Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano 1996. Iconografia.com. Link: http://www.icongrafia.com

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INTERVISTA ALLA SEGRETERIA DEL PARTITO COMUNISTA DI SERBIA A cura di Mario Forgione

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roponiamo un’intervista a Vojislav Radojević e Ivica Kostić, i due membri della Segreteria del Partito Comunista di Serbia. Il Partito Comunista di Serbia, che ha stretto rapporti di collaborazione e intesa con Millennium, ne rappresenta il suo principale alleato politico nel settore balcanico.

Mario Forgione Prima di addentrarci nell’analisi delle vostre proposte politiche, anche alla luce dell’intesa con il movimento Millennium, sarebbe interessante comprendere la genesi del vostro partito e i rapporti di forza con la vecchia classe dirigente della Lega dei Comunisti di Serbia: Esiste o meno una soluzione di continuità tra queste due forze politiche ed entro quale raggio di azione politica si inscrive il vostro partito? Vojislav Radojević e Ivica Kostić Il Partito Comunista di Serbia (PCS) è stato creato verso la fine del 2007, come risultato di un vuoto politico lasciato in Serbia. Durante questo periodo, in Serbia vi erano molti partiti registrati con il prefisso “comunista”, ma nessuno di questi svolgeva un ruolo attivo. In aggiunta alla passività poi, molti di questi appartenevano alle più varie correnti revisioniste, come gli stalinisti, i titoisti e gli hodzisti, ma non vi era nessun partito che rappresentasse l’idea originale marxista-leninista. L’appena formatosi PCS ha subito sostenuto la fonte del marxismo e del leninismo, arricchita con le esperienze positive dei lavoratori sviluppatesi nella precedente unione statale della Yugoslavia. In accordo con gli impegni del suo programma, il PCS non è una continuazione dell’azione della Lega dei Comunisti di Serbia e della Lega Comunista Yugoslava, ma è il Partito Comunista la cui azione è basata sull’esperienza positiva dei partiti precedenti, traendo gli insegnamenti da questa esperienza e creando una moderna, efficiente e chiara affiliazione partitica marxista. Le attività del PCS sono basate sui principi della democrazia diretta e imperativa, quindi non vi è alcun presidente. Il Segretario Generale è eletto solo per 2 anni, ed egli cambia il Vice-Segretario, sempre in questi 2 anni. Il PCS è guidato dalla Segreteria, dove tutti i membri sono pienamente uguali in diritti e doveri. Noi crediamo che il principio della leadership collettiva riflette la vera essenza del marxismo dove tutti i membri della Segreteria sono contributori e non competitori. Noi crediamo che la più alta forma di organizzazione dei lavoratori consista nella concezione marxista di produzione sociale, e con alcune modifiche minori essa può essere un esempio per il mondo intero. La maggiore differenza tra il sistema di produzione socialista e quello capitalista è che sotto il capitalismo la produzione è subordinata alla massimizzazione del profitto, mentre nel socialismo essa deve soddisfare i bisogni sociali. Il nostro obiettivo primario è quello di cambiare le menti delle persone in Serbia, per ottenere un chiaro obiettivo che perseguiamo, che è l’instaurazione di un sistema socio-economico socialista basato sui principi della democrazia diretta. Cambiare le coscienze equivale ad aprire gli occhi ai cittadini serbi su dove essi vengano portati dal modello capitalista che è stato imposto alla Serbia dall’Occidente. Mario Forgione I Balcani, per loro particolare conformazione storica e geografica, sono un centro nevralgico per la costituzione di un assetto geopolitico capace di integrare i paesi che gravitano o hanno interessi politico/economici nel Mediterraneo con i paesi dell’Est Europa. Dopo i noti rivolgimenti storici che hanno interessato la penisola balcanica, esiste ancora la possibilità di fare dei Balcani una cerniera geografica e culturale capace di rafforzare il blocco geopolitico europeo? Vojislav Radojević e Ivica Kostić I Balcani, a causa del loro peculiare assetto geografico e storico, sono centro nevralgico per la costituzione di una struttura geopolitica capace di integrare i Paesi che circondano il Mediterraneo, che, insieme ai Paesi est-europei, hanno interessi politici ed economici in quest’area. Una volta conosciuti gli sconvolgimenti storici che hanno afflitto la penisola balcanica, pensate sia possibile che questa regione sia geograficamente e culturalmente più capace di rafforzare la regione geopolitica europea? La storia recente dei Balcani – proprio come quella più antica – è stata estremamente difficoltosa per la sua intera popolazione. Questo fato è stato impossibile da sfuggire per il popolo serbo. Con la decisione dell’Occidente di distruggere la Yugoslavia, i Serbi furono lasciati alla mercé degli Stati recentemente indipendenti dell’ex Yugoslavia. L’ex Yugoslavia ha generato tre nuove nazioni quali i Montenegrini, i Macedoni e i Musulmani. Senza entrare nei motivi della loro creazione, tutti insieme non erano idonei a diventare una nazione. Questo è vero in particolar modo per i Musulmani, che sono diventati sempre di più a causa dei Serbi islamizzati, e durante i secoli hanno sempre contrastato i Serbi. Pressocché in nessuna guerra contro i Musulmani i Croati e i Serbi sono stati d’accordo. Lo stesso vale per gli Albanesi, che non sono mai stati dalla stessa parte dei Serbi. Le ferite profonde che il popolo serbo indossa, e che hanno lasciato un marchio indelebile sulla sua volontà, hanno determinato la posizione dei Serbi nei confronti delle altre nazioni della ex Yugoslavia quando essa è iniziata a cadere a pezzi. A tutte le persone della ex Yugoslavia è stato permesso di votare sul proprio futuro, solo al popolo serbo è stata negata questa possibilità. Con l’aiuto dell’Occidente, I Serbi, che erano uno dei popoli costituenti, sono diventati una minoranza nel nuovo Stato. Questa è la ragione principale dello scoppio del conflitto civile. Tutte le soluzioni imposte dall’Occidente, che non erano né giuste né intelligenti, rimasero cose irrisolte che potevano sempre degenerare in un sanguinoso conflitto nell’ex Yugoslavia. Pertanto, il territorio dell’ex Yugoslavia sarebbe un bariletto di polvere da sparo sul suolo dell’Europa, e non sarà mai un ponte di cooperazione. Dubitiamo sia possibile qualsiasi sincera cooperazione tra i popoli dell’ex Yugoslavia, poiché nessuna nazione mantiene la propria politica indipendente. Mario Forgione L’intellighenzia del blocco atlantico è stata sempre storicamente contraria alla creazione di una valida armonia tra le sfumature etnico-culturali che caratterizzano la penisola balcanica. La stessa Europa – si pensi alla partecipazione attiva dell’Italia all’attacco Nato ai danni di Serbia e Kosovo nel marzo del 1999 e al forte sostegno dato dai paesi europei alla Croazia e alla Slovenia per lo smembramento della Federazione balcanica – si è sempre caratterizzata per una politica di totale asservimento agli interessi di Washington. Oggi, anche alla luce dell’elezione di Tomislav Nikolić, esiste per la Serbia la possibilità di svincolarsi dalle ingerenze atlantiche pienamente accettate dal suo predecessore Boris Tadić?

Vojislav Radojević e Ivica Kostić Il popolo serbo nelle elezioni precedenti non ha avuto la possibilità di scegliere tra differenti opzioni politiche, ma solo di scegliere tra differenti servi dello stesso padrone. La scelta tra cose uguali non è un’opzione. La Serbia ha imposto il più atroce sistema di governo, un governo kleptocratico. Oggi, nel Parlamento serbo risiede l’opzione politica unipolare che esegue ciecamente le richieste dell’imperialismo plutocratico occidentale, e per il suo servizio essa è premiata con la possibilità di essere libera dalle interferenze o dalle conseguenze legali per saccheggiare illimitatamente il loro stesso Stato. Il cambio del partito dominante in Serbia è solo un cambio di cosmetici, destinato a rappresentare un nuovo inganno per il popolo, mentre l’essenza della politica estera e interna del governo di Tomislav Nikolić, con ogni probabilità, rimarrà immutata da quella del governo di Boris Tadić. La Serbia non è un Paese indipendente, ma un territorio indefinito occupato dentro e fuori. Sono incomprensibili per la Serbia le aspirazioni di entrata nell’Unione Europea, sapendo che essa è occupata dai Paesi occidentali ed è economicamente devastata. Ciò serve solo a dimostrare la disposizione dei collaborazionisti locali a diventare una colonia dell’Occidente. Il più grande “merito” in questa situazione è della politica di tradimento dell’ex Presidente serbo Boris Tadić e dei suoi partner di coalizione fino al 2000, quando hanno condotto i cittadini serbi verso la schiavitù occidentale moderna. La proprietà pubblica è stata prima di tutto sequestrata al Popolo per trasferirla nelle mani dello Stato (parliamo di circa 150 bilioni), quindi rubata per sé stessi o per le imprese occidentali attraverso una privatizzazione che ammontava all’incirca a 800 milioni di euro. Tutti coloro che hanno partecipato al furto perpetrato ai danni del popolo dovrebbero comparire davanti alla Corte e restituire tutto al loro legittimo proprietario – il Popolo. Mario Forgione L’operato politico di Boris Tadić si è caratterizzato per un’accettazione supina dei dettami politici di Washington e, la stessa candidatura ufficiale della Serbia per l’ingresso nell’Unione Europea presentata il 22 dicembre 2009, è stata accompagnata da forti pressioni politiche per fa sì che la Serbia perdesse la sua specificità culturale. La vittoria del leader del Partito progressista serbo, anche alla luce della sua esperienza politica con Slobodan Milosevic, può ridare vigore politico alla Sebia? Vojislav Radojević e Ivica Kostić La nostra opinione è che Slobodan Milosević, anche se prima era un ufficiale dell’ex Partito Comunista, cambiò velocemente posizione e si accordò apertamente con il capitale occidentale, e che, grazie alla servile politica di Milosević, nei primi anni della transizione 3500 persone vennero in possesso delle più ricche e più forti compagnie serbe in via totalmente gratuita o a costi ridicoli, tanto che alla popolazione non era possibile acquistare nemmeno un chilo di pane. L’arrivo al potere di Slobodan Milosević è anche l’inizio della contro-rivoluzione in Serbia e del rovesciamento del socialismo. La maggior parte del lavoro è stata effettuata, e continua il saccheggio dell’appena create strutture DOS del 2000. Il culmine del collasso del governo si è raggiunto mettendo al potere Tomislav Nikolić. L’unica soluzione per la Serbia consiste nei cambi necessari nel sistema socio-politico, nell’arrestare l’erosione dello Stato, nel preservare l’esistenza fisica dei cittadini e finalmente nel ritornare a standard di vita normali. Guardiamo come promemoria i risultati del precedente sistema socialista oltre il presente capitalista: è mendace affermare che il socialismo fu un sistema inefficace, perché basterebbe guardare le statistiche del PIL del 1989 e quelle di oggi. L’ammontare del PIL del 2011 consisteva nel 64% di quello del 1989. Il PIL ammontava a 32 bilioni di euro, quando nel 1989 equivaleva a 50 bilioni. Se non fosse stato per l’imposizione della guerra, le sanzioni e i collaborazionisti del governo, il PIL serbo – considerando la media più bassa – avrebbe un tasso di crescita del 4% annuo, e nel 2011 sarebbe stato all’incirca di 120 bilioni di euro. Segnaliamo che l’industria costituiva il 30% del PIL nel 1989, e ora, nel 2011, solo il 13%. Questo è un ottimo “successo” della transizione dal socialismo al capitalismo. Tutti noi siamo caduti credendo ingenuamente che sotto il capitalismo avremmo vissuto meglio. Ora, con tutte le prove numeriche, possiamo dire che il capitalismo si è dimostrato inefficace in Serbia, e solo un cambio di sistema economico potrebbe sarebbe un bene per noi tutti. Questo sistema ci porterà tutti alla rovina. Le cause dell’abbassamento del PIL non possono essere spiegate in altro modo se non con il saccheggio dell’economia, la mancanza di sviluppo a lungo termine, la dominazione del consumo distruttivo e l’accumulato e l’acquisito dei mezzi di ricchezza sociale. Il risultato è la mancanza di novità e la drastica riduzione delle vere fonti esistenti di crescita economica. La produzione industriale nello stesso periodo lo illustra davvero bene e dimostra che la tendenza punta chiaramente verso il basso – dai 100 del 1989 ai 45 punti percentuali nel 2009. Non abbiamo intenzione di annoiare i lettori fornendo altre statistiche, ma vorremmo indicare il PIL dei Paesi limitrofi, comparandoli con quello serbo, così da rendere chiaro a tutti dove si posiziona la Serbia. La Croazia ha raggiunto un PIL di 60.9 bilioni di dollari, 40.9 bilioni la Slovenia, la Serbia 38.4 nel 2010. In ciò può essere visto tutto il furto, e possiamo dimostrare ai cittadini serbi quanto siano state genocide le politiche economiche dello scorso governo Tadić. Il ridicolo PIL pro capite serbo è causato dalla distruzione dell’industria e dell’agricoltura. La Serbia ha 7.3 milioni di abitanti, la Croazia ne ha 4.4, la Slovenia 2. Ovviamente, il risultato della distruzione dell’economia è la disoccupazione di massa dei cittadini serbi, che ha raggiunto la quota di un milione di disoccupati, oltre che il più basso salario medio d’Europa, di circa 300 euro. Mario Forgione Tomislav Nikolić, nelle sue prime esternazioni, ha chiarito che “non abbandonerà il cammino intrapreso da Boris Tadić verso l’Unione Europea, ma questo cammino non avverrà ad ogni costo”. Qual è sul punto la posizione del Partito Comunista di Serbia e quale ruolo intende ritagliare al suo partito nell’attuale sistema di forze che governa il paese? Vojislav Radojević e Ivica Kostić Il PCS crede che l’Unione Europea è un’unione del capitale, non un unione del popolo, e questo è totalmente inaccettabile per noi. In questa Europa comanda la dominazione del capitale tedesco e l’indiscussa politica

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della Germania. L’Unione Europea è diventata la tomba delle nazioni europee, e si sta esaurendo mettendo in totale dipendenza economica la maggioranza dei suoi Stati membri, e in modo ancora peggiore quelli dell’Europa dell’Est. La Serbia è stata anch’essa in questa condizione, perdendo ogni anno circa 110.000 suoi cittadini, con il tasso del 47% di denatalità, il 50% che si spostavano in altri Stati e il 3% per i suicidi, rapimenti o morte per fame. Sono questi i valori europei imposti sulla Serbia? Il PCS è innanzitutto per l’indipendenza (politica e economica) ma, in caso debba scegliere un lato, sceglierà sempre un’alleanza con quei Paesi che non hanno mai compiuto aggressioni contro la Serbia o che in nessun modo abbiamo mai ucciso cittadini serbi. Mario Forgione Nonostante il “moderatismo” che ha caratterizzato l’operato politico di Boris Tadić la relazione tra Serbia e Kosovo – soprattutto dopo l’indipendenza proclamata unilateralmente dal governo di Prizren il 17 febbraio 2008 – non è stata aliena da tensioni e contrapposizioni frontali. Tomislav Nikolić acutizzerà il contrasto o concentrerà la sua azione politica più sul piano interno? Quale è sul punto la posizione del Partito Comunista di Serbia? Vojislav Radojević e Ivica Kostić Tomislav Nikolić, in quanto vassallo dell’imperialismo occidentale, non è autorizzato a prendere qualsiasi decisione sul problema del Kosovo e della Metohija, né lo farà, eccetto forse una futile e mite azione politica per calmare le tensioni del popolo serbo. Noi crediamo anche che, in linea con l’agenda dell’apparato neoliberale, riconoscerà infine l’indipendenza del Kosovo e della Metohija. La posizione del PCS sul Kosovo e la Metohija è: il Kosovo e la Metohija hanno occupato parte del territorio serbo e, di conseguenza, la Serbia ha il diritto legittimo di liberare il territorio e ri-annetterlo alla madrepatria. Quando questo sarà fatto dipende da vari fattori, ma è indiscutibile che verrà fatto. Ogni accordo, contratto o documento che sia stato firmato dal corrente o precedente governo, e che colpisce negativamente la popolazione serba, non è considerato valido dal PCS. Mario Forgione Sul piano interno, tenuto conto della complessa congiuntura economica che attraversa l’Europa, la Serbia vive una situazione non ottimale. Il tasso di disoccupazione è al 25%, l’inflazione è all’11% ed esiste una forte corruzione politica. Quali sono le proposte di politica economica del Partito Comunista di Serbia? Vojislav Radojević e Ivica Kostić Solo per correggerla, in Serbia il livello di disoccupazione supera il 30% della popolazione, ed è un record europeo. Né il precedente né l’attuale governo sono interessati al problema, dato che secondo i postulati del liberal-capitalismo la disoccupazione non è un problema. La disoccupazione causa il più grande potenziale problema in una società, perché la stessa società affonda nella disperazione, nella criminalità e la rottura delle giunture sociali. Ogni riparazione del modello capitalista in Serbia non darà alcun risultato positivo, ma la Serbia scomparirà come Stato e il popolo serbo verrà distrutto o, al meglio, potrà divenire una versione moderna dei Curdi, un popolo senza Stato.solo un cambio radicale nell’ordinamento socio-politico e l’instaurazione del socialismo possono permettere prima di tutto la rivitalizzazione dei Serbi e la sopravvivenza dello Stato serbo, e poi il rapido sviluppo economico del Paese che garantirà a tutti i cittadini una vita umana. Solo un genuino Partito Comunista può guadagnare la fiducia dei cittadini, permettendo la sopravvivenza della Serbia, e questo è il PCS. Cambiare l’ordine socio-economico può liberare la Serbia dai crimini e dalla corruzione che hanno ferito il capitalismo, e sono direttamente connessi alla testa dei partiti politici che hanno governato la Serbia. Nessun cambio cosmetico nel sistema porterà nulla di buono ai cittadini della Serbia. La Serbia è una colonia dell’Occidente, e noi sappiamo bene che nelle colonie non si può vivere bene. Il socialismo quindi diviene una necessità esistenziale per la sopravvivenza dello Stato e dei suoi cittadini. Mario Forgione La Serbia è un’enclave del cristianesimo ortodosso e il dialogo privilegiato con Mosca è una costante della politica serba. L’Europa, nel momento attuale, oltre a vivere una crisi finanziaria di vastissima portata non è ancora capace di dar vita ad un blocco geopolitico forte, prima che monetario. La Federazione Russa, tenuto conto delle forti affinità culturali con Belgrado, può essere una valida alternativa per stimolare gli investimenti economici? Vojislav Radojević e Ivica Kostić La Serbia deve dismettere l’idea veramente stupida di Boris Tadić secondo la quale l’UE non ha alternative. Solo la Serbia non ha alternative. La Serbia deve rivolgersi alle unioni ed ai Paesi che non l’hanno ricattata, che non sono in guerra contro di essa e contro il suo popolo, e che non riconosco l’indipendenza del falso Stato del Kosovo. La Serbia deve trovare nuovi mercati e fonti energetiche, e questi non sono sicuramente nei paesi dell’Unione Europea. Piuttosto questi sono in Russia, che dispone di un larghissimo mercato e di risorse energetiche. Nonostante la Serbia abbia eccezionalmente buoni accordi commerciali con la Russia, può essere usata solo una minima parte di questi accordi perché non vi è nulla da esportare in Russia. La produzione serba è distrutta, e ci vorrà del tempo per ripristinarla e trarre vantaggio dai benefici degli accordi economici con la Russia. Introducendo la Serbia nell’Unione Europea, essa perderebbe tutti i benefici che sono stati concordati con la Russia, e probabilmente perderebbe per sempre il Kosovo e la Metohija, dato che la condizione chiave per l’entrata della Serbia nell’UE sarebbe il riconoscimento del Kosovo come stato indipendente. Costi alti per piccoli benefici. Mario Forgione Millennium e il Partito Comunista di Serbia si pongono come movimenti capaci di dar vita ad un fronte articolato contro le derive connesse all’unilateralismo politico. Il discorso culturale occupa, nei due movimenti, un posto centrale e si pone come un corollario della piattaforma politica dell’Eurasia. Il Partito Comunista di Serbia intende continuare a stringere alleanze programmatiche con movimenti affini per giocare un ruolo da protagonista nelle dinamiche geopolitiche? Vojislav Radojević e Ivica Kostić Il PCS intende stabilire una più stretta collaborazione con tutti gli Stati, i partiti e i movimenti del mondo che abbiano gli stessi interessi, così da poter risolvere i problemi con l’aiuto reciproco, non interferendo negli affari interni dello Stato, del partito politico o del movimento in questione. Intendiamo stabilire l’unità d’azione con loro per creare un fronte comune contro il capitalismo e scambiando le esperienze di questa lotta, poiché tutti noi abbiamo un comune nemico. Una eccezionale vicinanza di mentalità tra i popoli italiano e serbo fa sì che sia possibile capirvi davvero bene. La globalizzazione in Europa impone problemi davvero simili, che richiedono veramente simili soluzioni, e un’azione unitaria contro il capitale globale, poiché tutti noi viviamo sotto la stessa dittatura del grande capitale. Il combattimento richiede un’azione unitaria coordinata di tutte le forze progressiste dell’umanità. Il PCS è pronto per l’azione unitaria e per l’unità d’azione a livello globale con tutte le forze con simile orientamento ideologico. Segreteria del Partito Comunista di Serbia

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IL MERIDIONALISMO COME PARADIGMA LATINO-AMERICANO A cura di Orazio Maria Gnerre e Emmanuel Riondino

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ubblichiamo l’intervista a André Martin, docente di Geopolitica presso l’Università di San Paolo e teorico del Meridionalismo, ottenuta durante il convegno internazionale svoltosi dal 4 al 6 settembre 2012 presso l’Università Federale di Paraíba, nella città di João Pessoa (Brasile), al quale ha partecipato una delegazione di Millennium. L’intervista, inserita nel contesto del dibattito sulla formulazione dei paradigmi per la transizione al multipolarismo dei grandi spazi, propone diversi spunti di riflessione, spaziando dalla geopolitica alla storia delle civiltà Nomos Nel contesto della transizione uni-multipolare, qual è la prospettiva paradigmatica che il Meridionalismo dovrebbe sviluppare? Quali sono i punti di contatto con il paradigma eurasiatista russo? André Martin Noi meridionalisti, come gli eurasiatisti russi, difendiamo una concezione multipolare del futuro assetto geopolitico. Parimenti, siamo anche noi alla ricerca di un quarto indirizzo ideologico, che sappia superare sia il liberalcapitalismo che l’obsoleta dicotomia destra-sinistra. Ciò che è necessario reimpostare, sia nella prospettiva meridionalista che in quella globale, è la concezione del tempo: necessitiamo di disaccellerare, abbiamo bisogno di una nuova temporalità. Sebbene queste siano visioni comuni sia al Meridionalismo che all’Eurasiatismo, una prima differenza con l’Eurasiatismo potrebbe essere considerata l’eccessiva conflittualità che esso nutre nei confronti dell’Occidente. Noi non abbiamo sviluppato in modo analogo una nostra prospettiva multipolare. La nostra strategia per la transizione al multipolarismo procede per via indiretta, in maniera inclusiva. Più importante della contrapposizione Est-Ovest noi consideriamo quella Nord-Sud. Uno dei nostri obiettivi principali, non a caso, è l’inclusione dell’Australia nella prospettiva meridionalista.

André Martin Personalmente, non credo che il modello dell’ALBA promosso da Chávez sia ampliabile. Sebbene proponga un’integrazione del mondo bolivariano, il mondo andino repelle questa visione. A mio avviso l’ALBA, sebbene anti-unipolare, è ancora legata ad una visione del mondo ideologicamente bipolare. Questo purtroppo non le permetterà di fare molta strada. Ad ogni modo, vi sono vari progetti che stanno garantendo un processo inarrestabile di integrazione sudamericana, e tra questi si potrebbe ricordare il Mercosur, il mercato comune dell’America Meridionale. Nomos Qual è la relazione tra il Meridionalismo ed il pensiero di Gramsci in merito alla questione meridionale? André Martin Sebbene il Meridionalismo, come paradigma culturale e geopolitico, prenda le mosse dalle concettualizzazioni di Antonio Gramsci, esso ne costituisce un ampliamento a partire da questa considerazione: esistono molteplici meridioni. Il Meridionalismo è una soluzione pratica per il mondo intero. Una progettualità geopolitica meridionalista è, ad esempio, consolidare una causa comune tra Brasile ed India: entrambe sono potenze che aspirano ad una posizione nel Consiglio di Sicurezza

Nomos Quanto ritiene importante la riscoperta di un’identità brasiliana nell’ottica della transizione al multipolarismo? André Martin Il Brasile è tutt’oggi ben indirizzato verso il multipolarismo grazie anche al fatto che non si sia mai trovato ad affrontare direttamente nell’era bipolare lo schieramento nordatlantico. Eppure, la cultura brasiliana inclusiva lo rende il Paese con le più alte capacità di fronteggiare culturalmente gli Stati Uniti. Il Brasile difatti si distingue per la sua peculiare derivazione culturale. Entrambi gli schieramenti americani, sia il Nord che il Sud, sono stati culturalmente influenzati dall’esperienza europea ma, nel caso nordatlantico, vi sono delle radicali differenze. La prima delle quali è che, laddove il Brasile è stato legato ad una tradizione europeomeridionale cattolica, il Nord America è nato dall’amalgama culturale protestantico-calvinista. Il Brasile, a differenza degli Stati Uniti, ha sviluppato una prospettiva internazionale che potremmo quasi definire “pacifista”: in virtù di ciò, sarebbe un attore internazionale credibile, e dovrebbe imporsi nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Per tornare alla contrapposizione culturale tra il Brasile ed il Nord America, basti ricordare che, laddove gli statunitensi, importando gli schiavi dall’Africa distrussero loro tutti gli strumenti musicali privandoli non solo della loro libertà ma anche della loro cultura, nel nostro Paese la componente africana è tutt’oggi molto forte, insieme a quella amerindia ed europea, sintomo di un approccio totalmente diverso nelle relazioni interculturali. Nomos In tal senso, quali “meccanismi di difesa” dovrebbe sviluppare la scuola Meridionalista nei confronti dell’egemonia nordatlantica? André Martin Sostanzialmente, vi sono due modi d’intendere la prospettiva meridionalista. Il primo potrebbe essere definito “sudamericanista”, il secondo “latino-americanista”. Io sostengo fermamente la seconda via al Meridionalismo, laddove ritengo che l’unico modo corretto per intendere lo stesso non sia puramente in una prospettiva di contrapposizione geopolitica, quanto soprattutto culturale e di civiltà. Il primo passo verso la difesa nei confronti dell’egemonia statunitense è nella preservazione dell’identità latino-americana. Un secondo obiettivo è quello di sostenere il Messico in contrapposizione agli Stati Uniti, essendo ad essi più prossimo.

dell’ONU. Paradossalmente però, gli Stati Uniti sono favorevoli all’India ma non al Brasile. Essi sperano di utilizzare l’India nel processo di contenimento della Cina. Se il Brasile e l’India si proponessero unitariamente per ottenere un posto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come un’unica forza, secondo un’unica strategia, non solo si consoliderebbero le relazioni di partenariato tra i nostri due Paesi, ma si scongiurerebbe un grave pericolo per il mondo multipolare.

Nomos Come definirebbe la tradizione culturale brasiliana? Da che elementi crede sia composta? André Martin Definire con precisione gli elementi previi che hanno composto l’identità culturale brasiliana è difficile, ma possiamo individuare sicuramente il substrato amerindio che, sebbene non completamente espresso e non totalmente visibile, esiste, e si esprime specialmente nelle modalità che i brasiliani adottano per relazionarsi con gli stranieri: una vera e propria psicologia del Popolo del Sud, che si esprime attraverso il rapporto con la collettività. Un’altra identità evidente è sicuramente quella africana, che si esprime attraverso l’allegria della festa. Anche le proteste e le battaglie politiche per la giustizia sociale in Brasile si trasformano in feste. Insieme poi alla profonda identità cattolica del brasile, quella amerindia e quella africana ne costituiscono l’ineliminabile religiosità. Possiamo affermare quindi che il brasile non è stato infettato dalla razionalità economica moderna, ma è ancora legato ad una vera attitudine spirituale. Un esempio interessante potrebbe essere il fatto che il Brasile è tutt’oggi il Paese al mondo con maggior traffico telefonico portatile: è un esempio lampante di strumentazione moderna utilizzata per finalità tradizionali, quali la comunicazione intesa in senso comunitario. Nomos Quali sono secondo lei le prospettive di integrazione del grande spazio sudamericano? Cosa ne pensa delle coalizioni politiche come l’ALBA?

Emmanuel Riondino, André Martin e Orazio Maria Gnerre.

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BRASILE, TRA INTEGRAZIONE REGIONALE E ASSETTI MULTIPOLARI Intervista a Edu Silvestre de Albuquerque

A cura di Emmanuel Riondino

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roponiamo l’intervista a Edu Silvestre de Albuquerque, professore di Geopolitica dell'Università Federale del Rio Grande Del Nord (Brasile).

Emmanuel Riondino Qual'è la sua opinione in merito alle prospettive di integrazione del Brasile nello spazio indiolatino e di un eventuale ruolo di leadership?

Emmanuel Riondino Quali retaggi influenzano maggiormente il patrimonio indentitario Brasiliano?

Edu Silvestre de Albuquerque Dopo una lunga storia di espansionismo regionale, il cui ultimo evento è stata l'annessione di una frazione della Bolivia nel 1903, il Brasile ha dimostrato ai propri vicini che ad oggi vi è l'intento di un'egemonia benefica; un ambizioso proposito di supporto ed integrazione, oltre alla creazione di infrastrutture comuni di trasporto ed energia. Le migliaia di agricoltori brasiliani che vivono al confine con l'Uruguay, la Bolivia, il Paraguay ed il Perù potrebbero rappresentare una perfetta scusa diplomatica per giustificare l'annessione al Brasile, tuttavia questa fase appartiene definitivamente al passato. Inoltre la creazione di compagnie multinazionali in America Latina è ancora poco stimolata dal governo brasiliano.

Edu Silvestre de Albuquerque Il Brasile è una nazione cattolica e multietnica, anche se via via sempre più "evangelista", qualunque cittadino può fondare una chiesa evangelica. Il Paese è inoltre caratterizzato da una pronunciata differenza regionale, con alti tassi di povertà nelle regioni del Nord e del Nord-Est. La mescolanza etnica differisce in modo sostanziale, l'incrocio tra indios, neri e bianchi differisce da regione a regione; è in ogni caso sorprendente che le differenze economiche e culturali non abbiano compromesso l'integrità territoriale brasiliana nei secoli, senza dubbio un lascito dell'amministrazione centralizzata ereditata durante la colonizzazione portoghese. Malgrado l'orgoglio dell'esuberanza tropicale del proprio Paese e la volontà di un dialogo alla pari con i principali attori dell'arena internazionale, alle elezioni il voto del popolo brasiliano non è andato ai candidati dei partiti nazionalisti. Il sogno di grandezza ricalca questa rinuncia nazionale, a dispetto dei discorsi teorici dei governi. È la medesima situazione di tutti gli altri paesi latinoamericani, incluso il Venezuela di Hugo Chávez.

Emmanuel Riondino Secondo una prospettiva multipolare, quali potrebbero essere gli spazi di interazione favoriti? Edu Silvestre de Albuquerque Nella Costituzione brasiliana è espresso l'intento della creazione di una Comunità delle Nazioni Latino-Americane. Tuttavia il Messico è parte delle dinamiche geoeconomiche Americane, che limitano il progetto di integrazione con il Sud America. Sin dall'avvento dei "grandi spazi" dell'economia statunitense e ancor più nettamente con il "grande spazio" economico sinoamericano, la scala di competizione economica globale trascende i confini nazionali per situarsi in aree regionali più ampie. L'integrazione regionale è certamente l'ispirazione ad oggi, ma anche il vero limite, della diplomazia brasiliana. Anch'essa scommette nel BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), tuttavia ogni giorno diviene sempre più chiaro che ogni paese ha i propri progetti di sviluppo economico e la propria proiezione geopolitica. Solo in alcuni ambiti della cooperazione vi è stato sviluppo parallelo, come tra Brasile e India nell'industria farmaceutica indirizzata alle cure delle malattie tropicali o nello sviluppo di satelliti di rilevamento remoto tra Brasile e Cina. Ma è ancora troppo poco per le dimensioni delle economie coinvolte.

Edu Silvestre de Albuquerque La democrazia presuppone che il governo sviluppi politiche di redistribuzione del reddito. Tuttavia, perplessa, la sinistra brasiliana, ed il governo federale tutto, realizza a poco a poco che l'agenda di sviluppo richiede il progetto nazionale di ripresa creato durante il regime militare: il settore dei trasporti marittimi ed il complesso militare-industriale. Emmanuel Riondino In Brasile, quali sono le odierne correlazioni che intercorrono tra strategia economica e difesa nazionale? Edu Silvestre de Albuquerque Al tempo del regime militare il Brasile era tra i dieci maggiori esportatori di armi nel mondo. Ma a causa dell'instabilità economica e politica dei mercati del terzo mondo, il mercato è andato via via diminuendo. L'Iraq di Hussein e la Libia di Gheddafi furono tra i nostri maggiori acquirenti. Emmanuel Riondino Quali sono le opportunità del Brasile nel mercato energetico?

Edu Silvestre de Albuquerque L'Unasur è un blocco politico che aiuta a difendere le comuni visioni degli stati sudamericani nell'arena internazionale. Data l'intransigenza dell'Organizzazione degli Stati Americani, un'entità creata al tempo della Guerra Fredda in situazioni come quella di Cuba, l'Unasur s'è dimostrato un importante canale di comunicazione per il Sud America senza il coinvolgimento diretto di Washington. L'attuale situazione del Mercosur è curiosa, l'Argentina e il Brasile hanno approfittato del colpo di stato in Paraguay per favorire l'entrata del Venezuela nel Mercosur. Il Paraguay era il maggior ostacolo per l'ascesa del Venezuela nel blocco regionale a causa delle continue accuse di gestione anti-democratica mosse al governo Chávez. Pensando in termini pratici il Venezuela è un attore commerciale e politico assai più espressivo del Paraguay e la sua adesione è la formula migliore, ma non dovremmo sopravalutare il ruolo del Mercosur, perché è una zona di libero commercio che non muove interamente verso un'unione doganale organizzata. I paesi membri sono ancora dipendenti da capitali e tecnologie straniere, con valute ancora troppo deboli e ricalcare il successo del percorso europeo non sarà facile.

Edu Silvestre de Albuquerque Per circa settanta, ottanta anni il Brasile è stato un importatore di petrolio, tuttavia negli ultimi anni ha saputo trasformarsi in un esportatore. Le riserve marittime possono rendere il Paese uno dei principali fornitori del mondo, il problema è che i costi di estrazione sono elevati a causa delle profondità oceaniche, la soluzione potrà esser determinata da un'escalation del prezzo al barile. Il Brasile possiede tutte le condizioni naturali per un'agricoltura su larga scala: terreno fertile, sole e acqua. Per questo motivo l'etanolo, carburante ricavato dalla canna da zucchero, è emerso nel futuro mercato dell'energia globale. Sembrava che gli Stati Uniti volessero finanziarne l'incremento produttivo, ma visto che vi è ancora abbastanza petrolio, l'etanolo viene visto solamente come una fonte energetica alternativa che non intende sostituire il petrolio nei decenni a venire.

Emmanuel Riondino Quali presupposti e condizioni auspica nel dialogo tra Mercosur e Unione Europea?

Emmanuel Riondino Quali potrebbero essere le opzioni per il concorso brasiliano nella ridefinizione dei conflitti mediorientali?

Edu Silvestre de Albuquerque Secondo l'odierna organizzazione di queste economie regionali, la prospettiva di associazioni strategiche sono ancora molto limitate e come sembrerebbe ristrette a dimensioni nazionali, come nel caso del partenariato ucrainobrasiliano per il trasferimento di tecnologie di propulsione a razzo ed il partenariato franco-brasiliano per le tecnologie di costruzione il sottomarino nucleare brasiliano. Le esportazioni delle nazioni del Mercosur riguardano principalmente prodotti agricoli, uno dei pochi settori maggiormente competitivi rispetto alle corrispettive proposte dei mercati europei; tuttavia l'Europa, specialmente la Francia, non è interessata all'apertura del proprio mercato agricolo. A sua volta l'andamento della crisi europea ha certamente significato la ripresa degli sforzi industriali, il che significa che il Mercosur viene ancora visto come un mercato di consumo per le produzioni industriali dell'Europa.

Edu Silvestre de Albuquerque Teorie come lo "scontro di civiltà" di Samuel Huntington non sono di utilità alcuna per il Brasile, Paese multietnico in cui confluiscono cultura africana e indigena con la cultura occidentale. Per inciso sono d'accordo con il professor Marcelo José Ferraz Suano quando dice che l'obiettivo principale del paradigma di Huntington è di preservare l'identità occidentale tra Europa e Stati Uniti, con il proseguire della partenariato NATO alla fine della guerra fredda e che a tal fine niente è meglio del prospettare un comune nemico: la connessione confuciano-islamica. Il governo Lula ha sostenuto molto più efficacemente l'autonomia del programma nucleare iraniano; Dilma Rousseff ha optato per un supporto molto discreto, il tutto per evitare tensioni con Washington. È un peccato, personalmente ritengo che l'Iran abbia assolutamente ragione nel proporre prospettive non allineate in merito alla questione

Emmanuel Riondino Qual è la situazione attuale e quali sono le prospettive future dell’Unasur e del Mercosur?

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Emmanuel Riondino Quali ritiene siano stati i pro e i contro del passaggio dal regime militare alle successive forme di democrazia?


nucleare. La realtà è che il Nord intende nuovamente compromettere lo sviluppo del Sud, di là delle argomentazioni circa la "follia" del governo iraniano; quando mai nella storia, il Nord del mondo, non ha visto i governi periferici come folli?

LA CRISI SIRIANA, TRA SOLUZIONI DIPLOMATICHE E SCENARI DEGENERATIVI Intervista a Orazio Maria Gnerre, Fondatore e Presidente di Millennium, Direttore Editoriale di Nomos – Bollettino di studi e analisi

A cura di Natella Speranskaja, Direttrice del Dipartimento di Pianificazione Strategica del Movimento Eurasia (Russia).

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iportiamo l’intervista sottoposta al nostro Direttore Editoriale, Orazio Maria Gnerre, e pubblicata sul sito della Global Revolutionary Alliance (granews.info).

Natella Speranskaja I media occidentali dicono fiduciosamente che la caduta dell’attuale regime Siriano è inevitabile. Secondo lei, quanto può essere fondata questa predizione, e c’è qualche potere politico che può portare ordine in questa situazione? Orazio Maria Gnerre La prima arma nelle mani dell’Occidente è chiaramente il potere mediatico, attraverso il quale si combattono e vincono veri e propri conflitti virtuali. Molto spesso una notizia artificiosa risulta molto più vantaggiosa di una vittoria reale, e chi conosce questa legge aurea, nei tempi dell’informazione liquida e del Regno della Quantità, la sfrutta a suo favore fino all’esaurimento delle sue possibilità. Ma l’ambivalenza che caratterizza certi fenomeni sociali si dimostra oggi più che mai: è per questo che l’informazione dissenziente, promossa attraverso canali alternativi ai portali ed ai notiziari mainstream, nel dischiudersi del disordine postmoderno, riesce a filtrare con maggiore facilità attraverso le maglie del dogma mediatico. La presunta debolezza della Siria nei confronti del tentativo di destabilizzazione operato da parte del terrorismo organizzato per conto dell’Occidente, dei Paesi del Golfo e di Israele si rivela essere null’altro che un’ennesima fallace pretesa dell’informazione faziosa. La Siria conta a suo vantaggio – oltre che un esercito ben addestrato, una struttura istituzionale incrollabile, una salda alleanza regionale con l’Iran (che ha comunicato di aver già stanziato proprie truppe sullo scenario del conflitto) e, non ultima, la fiducia del popolo che si manifesta nella solida coesione nazionale attorno al Presidente – l’alleanza di superpotenze al pari di Russia e Cina, che in sede ONU fanno valere il proprio peso politico, opponendosi strenuamente alla possibilità di qualsiasi intervento militare esterno di normalizzazione. L’unica soluzione che si prospetta, a questo punto, prevede l’appoggio internazionale di Russia e Cina, due dei perni della svolta multipolare impegnati nella difesa dei diritti dei Popoli, e una possibile mediazione tra le fazioni in lotta assegnata all’Iran, che si è già proposto per questo ruolo. Natella Speranskaja Quanto è probabile un intervento energico degli Stati Uniti nel conflitto Siriano e un tentativo di rovesciare violentemente il regime di Bashar al-Assad (o che gli Stati Uniti mantengano invece una certa distanza e non oseranno rischiare)? Nel caso di una tale possibilità, quale conseguenze porterà tutto ciò alla stessa America? Orazio Maria Gnerre La Siria rimane innanzitutto un obiettivo Israeliano, da considerare come tappa precedente ad un probabile attacco all’Iran. Gli Stati Uniti hanno interessi “indiretti” nel conflitto, che non rispondono a necessità o urgenze strategiche, ma possono essere considerati “obiettivi secondari”. Tra questi, innanzitutto quello di eliminare uno Stato non allineato dallo scacchiere geopolitico. Le vere urgenze statunitensi si chiamano rispettivamente Cina e Russia. Anche in tal senso, la riuscita della destabilizzazione siriana significherebbe per gli Stati Uniti un indebolimento notevole della stabilità continentale, quindi un vantaggio strategico nei confronti dei primi nemici della sfida globale. È difficile prevedere cosa faranno effettivamente gli Stati Uniti, e come sarebbero in grado di giustificare davanti all’opinione pubblica l’ennesima dichiarazione di guerra del premio Nobel per la pace, Barack Obama. O, più probabilmente, l’attacco verrebbe condotto dopo le elezioni incombenti. In tal caso, potremmo solo osservare gli eventi precipitare verso scenari apocalittici. Natella Speranskaja Come valuta la posizione della Russia verso questa problematica? La Russia sarebbe capace di accettare il compromesso, cedendo alle insidie dell’Occidente (per esempio, alla proposta di Hillary Clinton di stabilire una zona demilitarizzata),

nonostante il fatto che la Russia stessa abbia ricevuto un’esperienza alquanto difficile dalla situazione libica? Orazio Maria Gnerre La posizione russa appare sempre più intransigente nei confronti delle lusinghe occidentali. Quello che è stato l’esito dell’attacco in Libia sicuramente è servito come lezione per correggere il tiro, e ridimensionare la propria linea strategica. Non dimentichiamoci dopotutto che la Siria ha rappresentato per lungo tempo e tutt’ora rappresenta uno dei migliori interlocutori della Russia in Medio Oriente. Perdere la Siria significherebbe, per la Federazione Russa, la cessione di un vantaggio storico ed una deprivazione strategica. Dubito che la Russia commetta l’errore interpretativo di lasciare aperta la possibilità di normalizzare il settore Siriano sotto l’egida dell’Occidente. Piuttosto, dovrebbe valutare l’opportunità di impiegare il proprio esercito per risanare il conflitto e ricondurre l’area alla stabilità. Natella Speranskaja Secondo lei che piega prenderà la situazione dopo il rovesciamento di Bashar al-Assad? Secondo le informazioni diffuse attraverso i media, vi sono già decine di scenari catastrofici. Orazio Maria Gnerre Come già detto precedentemente, non dobbiamo dare per scontata la caduta del legittimo governo siriano. L’unica domanda che dovremmo porci, in tal senso, è: al di là dell’esito della problematica siriana, l’attacco all’Iran già progettato da lungo tempo sarà effettuato o meno? La risposta più plausibile è affermativa. Le manovre per l’accerchiamento dell’Iran durano da anni. Lo stesso lider maximo Fidel Castro, nei suoi interventi per CubaDebate, denunciava la cessione di un corridoio aereo ad Israele, da parte dei Paesi del Golfo, nell’ottica di un’aggressione militare. È chiaro che comunque una capitolazione della Siria accelererebbe la macchina politica, diplomatica e militare globale, portandola al massimo grado di ebollizione. La situazione è talmente delicata da aver indotto anche Z. Brezinski a prendere le distanze dalle fazioni politiche nordatlantiche che insistono sulla necessità dell’intervento militare. Ad ogni modo, la difesa della Siria ha acquistato un’importanza sia strategica, per gli schieramenti trainanti la svolta multipolare, che etica, per tutti i sostenitori dei diritti dei Popoli, delle religioni tradizionali e della giustizia sociale. Per noi sostenitori della coesione continentale, questi due obiettivi si fondono e si compenetrano. Natella Speranskaja Un possibile scenario è la divisione territoriale della Siria in tre parti. Chagry Erhan, direttore del Centro di ricerca strategica dei Popoli europei, ritiene che il regime Baath, rimosso dal potere, proverà a creare un nuovo stato sulla base dell'appartenenza a un madhhab attraverso Latakia-Tartus, cosa che può sfociare in una decisione di distruzione o assimilazione della popolazione sunnita. Inoltre, un tale passo (creazione di un nuovo stato) può impegnare anche i Curdi. E qui sorge una domanda difficile: come prevenire la partizione del paese? Erhan ritiene che una volta che il governo interverrà nel processo con mezzi violenti, ciò porterà a più spargimento di sangue. Quanto pensa che sia probabile questo scenario? Orazio Maria Gnerre Non c’è bisogno di un analista per comprendere che ogni frazionamento artificiale di un’unità nazionale conduce verso spirali infinite di sangue e violenza. Gli equilibri etnici sono qualcosa di così delicato che, quando non sedimentatisi naturalmente, tendono a essere brevi, instabili e degenerativi. Non esiste nessuna soluzione migliore per prevenire il caos del settore Siriano che difendere il legittimo governo che, nel corso degli anni durante i quali ha consolidato il proprio potere, ha difeso tutte le culture, le etnie e le diversità mediorientali come solo il grande progetto panarabo ha saputo fare. La parola d’ordine dev’essere: baathismo o barbarie.

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RESOCONTO DEL CONVEGNO "TRADIZIONE E ORTODOSSIE"

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i è svolto il 26 ottobre 2012, a Torino, il convegno “Tradizione e Ortodossie”, organizzato dall’associazione culturale e politica Millennium, nei locali del Centro Culturale Italo-Arabo Dar al-Hikma di Via Fiocchetto 15. La conferenza vera e propria, preceduta e seguita da momenti conviviali di confronto e discussione tra gli intervenuti, ha visto la presenza di relatori di fama internazionale, ed è stata moderata da Alberto Lodi, dell’Università di Pavia. C’è stata una discreta partecipazione di pubblico, specie da parte dei membri della Comunità Religiosa Islamica. Il primo intervento (“Tradizione e postmodernità”) è stato affidato a uno dei più influenti filosofi russi contemporanei, il Prof. Aleksandr Dugin, docente all’Università Nazionale del Kazakistan "Lev Gumilëv" e principale esponente dell’eurasiatismo. Rifacendosi al pensiero tradizionalista, egli ha parlato del ruolo della Tradizione religiosa e spirituale come linea di resistenza nei confronti della modernità. Quest’ultima avrebbe superato ormai la sua fase rigida, materialista e atea – chiamata con il termine alchemico “coagula” –, e si troverebbe ora nella fase liquida, dissolutiva e libertaria – il “solve”, in termini alchemici – ossia il cosiddetto periodo postmoderno. In quest’epoca, si assiste ad un risveglio religioso, la cui apertura però spesso non avviene verso l’alto, verso il divino, bensì verso il basso e le forze infere. Perciò occorre il discernimento degli spiriti, per saper distinguere tra le forme tradizionali di religiosità, invece quelle deteriori e diaboliche. Successivamente, ha preso la parola Orazio Maria Gnerre, Presidente di Millennium e Direttore Editoriale di “Nomos - Bollettino di studi e analisi”. La sua relazione “L’opportunità multipolare”, di argomento geopolitico, ha voluto mettere in luce il ruolo reale e potenziale delle religioni tradizionali come fattore di mobilitazione popolare e nazionale, nel contesto di un mondo multipolare. Ovvero, del fatto che i blocchi di potere emergenti (legati alla forza regionale di Russia, Cina, Brasile, India), hanno bisogno di una forte caratterizzazione, anche religiosa, per poter affrontare l’unipolarismo dell’imperialismo statunitense. D’altra parte, così come lo stesso imperialismo statunitense ha una forte componente messianica, al tempo stesso c’è una forte riscoperta dell’identità comunitaria religiosa in Paesi come Russia e Cina. Religione e geopolitica sono quindi due elementi che s’intrecciano. Inoltre, in un contesto simile, i rapporti positivi tra le religioni possono diventare rapporti positivi tra blocchi culturali continentali, attraverso il dialogo di civiltà, e favorire quindi un equilibrio geopolitico mondiale. La terza relazione, da parte dello Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini, maestro sufi e guida della Comunità Religiosa Islamica, ha discusso il tema “Per un’intesa tra le ortodossie”. La prospettiva esposta dallo Shaykh s’iscrive nell’ambito del sufismo, corrente esoterica islamica di matrice neoplatonica, fondata sulla conoscenza mistica di Dio da parte del fedele. Questo approccio avrebbe il merito di superare le differenze essoteriche e dogmatiche che normalmente sussistono tra le religioni, e consentire di giungere ad una più intima vicinanza tra le varie confessioni. Naturalmente, ciò non sminuisce affatto l’importanza delle religioni, sul piano essoterico, per condurre l’uomo alla salvezza. Piuttosto, il fine del sufismo islamico, così come dell’esicasmo ortodosso e di altre forme, cristiane e non, di ascetismo e misticismo, è quello di condurre l’uomo ad un'intima vicinanza con Dio. Infine, il Dott. Andrea Virga, dell’Università di Pisa, Rappresentante di Millennium per il Piemonte e Redattore di Filosofia e Teologia per “Nomos - Bollettino di studi e analisi”, ha trattato il tema “Cristianesimo integrale e riconciliazione”. Dopo un excursus storico-ecclesiastico, ha delineato in maniera sintetica ma esaustiva le principali differenze ecclesiali e teologiche tra cattolicesimo e ortodossia, senza trascurare quei punti dolenti ancora aperti (come l’uniatismo). Infine, ha espresso alcune considerazioni personali riguardo alle modalità di superamento di queste divisioni, le quali a loro volta riecheggiano le differenze profonde tra Occidente e Oriente. Il Prof. Dugin è poi ritornato sul tema dei rapporti interconfessionali tra cattolicesimo e ortodossia, mostrandosi contrario all’ecumenismo e favorevole piuttosto ad un dialogo lento e delicato, fondato sulla comune riscoperta da parte cattolica e ortodossa della Patristica e del cristianesimo tardo-antico. In particolare, ha difeso dell’ortodossia l’aspetto comunitario, con la sua organizzazione ecclesiale sinodale anziché monocratica, e quello pluralistico, nella lingua liturgica e nel culto, ma anche nella teologia. In generale, sia nel suo discorso che in quello dello Shaykh Pallavicini è emersa, da una parte, la preoccupazione per le tendenze esclusiviste e universaliste del cristianesimo moderno, assimilate ad analoghe spinte imperialiste e mondialiste dell’Occidente contemporaneo. Dall’altra, un forte rispetto per le religioni, in opposizione quindi alle degenerazioni moderniste e liberali, e ancor di più per quelle esperienze mistiche ed esoteriche, volte ad avvicinare le diverse fedi. Si tratta quindi di una prospettiva che si distingue sia dal “dialogo” ecumenicamente inteso, sia dal sincretismo, ma che, nel solco della philosophia perennis, può portare a stabilire un rapporto veramente proficuo tra le religioni tradizionali, come auspicato dall’autentico ecumenismo cattolico.

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RECENSIONI Di Alessandro Lattanzio

La distruzione della Libia “Libia: Campo di battaglia tra Occidente ed Eurasia” Anteo Edizioni

Nel mio testo Libia: Campo di battaglia tra occidente ed Eurasia, Anteo Edizioni, ho tentato di tracciare la dinamica degli eventi libici del 2011 sul piano strategico, geopolitico militare e d'intelligence, poiché è su quel piano che si trovano le vere ragioni dell'aggressione e distruzione della Libia, camuffata dalla propaganda atlantista-islamista quale rivoluzione popolare per la democrazia. La Gran Repubblica Popolare e Socialista delle Masse (Jamahiriya) di Libia, costituiva un grave ostacolo per le faccende anglo-israelo-francostatunitensi nello scacchiere mediterraneo-mediorientale e nel continente africano. Nei mesi precedenti al golpe fallito di Bengasi, del febbraio 2011, Tripoli aveva avviato una serie di iniziative strategiche di notevole importanza; quale la costituzione di una struttura bancar-

io-finanziaria, autonoma e indipendente dal sistema finanziario anglo-statunitense, che avrebbe dovuto avviare un grande programma di sviluppo agricolo e infrastrutturale dell'Africa. Ma ciò non doveva accadere. Gli scontri nell'Africa del Sahel, tra l'avanzante influenza economico-politica della Jamahiriya e il declinante controllo geopolitico di Parigi, aveva acceso le ire e la vendetta della Francia neo-coloniale e delle sue industrie degli armamenti, del petrolio e del nucleare. Parigi, che ospita il salotto ideologico della sinistra occidentale, compresa quella italiana, che sia legata al PD, o al Manifesto o alle varie frange settarie 'anti-imperialiste', 'ultramaoiste' o 'trotskiste', esercita una forte influenza, che sia ideologica o finanziaria, poco importa. Sta di fatto che la sinistra ha preso e seguito chiaramente delle direttive esterne, interessate a che si adottasse un atteggiamento di ostilità verso il socialismo libico e di sostegno acritico, menzognero e sfacciatamente fazioso riguardo la tragedia libica. Basti ricordarsi che nell'estate 2010 accade un evento che sebbene svoltosi sotto gli occhi di un pubblico di milioni telespettatori, sfuggì totalmente all'attenzione. Ebbene, il TG 3, il telegiornale di sinistra, gestito dal PD in base alla spartizione partitocratica (e privatistica) delle risorse pubbliche, trasmise per alcuni giorni una notizia allarmante: un gruppo di migranti eritrei lanciava l'allarme sulle brutali condizioni vigenti nei 'campi di concentramento' di Gheddafi, dove milioni, dicevano, di africani venivano brutalizzati e perfino lasciati morire. Questo gruppo di migranti eritrei denunciava i maltrattamenti subiti dalla polizia di Gheddafi: torture, bastonature, incatenamenti, isolamento, denutrizione, maltrattamenti, malattie e fame inflitte ai poveri migranti. Sembrava che tutte le storie horror delle varie agenzie antirazziste, oggi scopertesi al soldo della NATO, del social-colonialismo parigino e dei petro-emirati del Golfo Persico, venissero verificate e dimostrate. Ma la cosa strana, che ai giornalisti del TG-3 sfuggì, o che semplicemente ignorarono contando sulla dabbenaggine del telespettatore medio delle trasmissioni di 'sinistra', era dato dal fatto che i poveri migranti eritrei, 'internati e torturati' nei lager gheddafiani, potessero tranquillamente spargere questa disinformazione intervenendo in diretta, durante il telegiornale stesso, parlando

direttamente con lo speaker Giuliano Giubilei che, candidamente, diceva al pubblico che i “migranti-prigionieri” intervenivano grazie alla disponibilità di un telefono satellitare. Ovviamente Giubilei si guardò bene dallo specificare come fosse possibile che dei 'prigionieri' incatenati in un lager, avessero a disposizione, e chissà grazie a chi, addirittura un telefono satellitare con cui poter screditare il sistema libico parlando, ripeto in diretta, con i giornalisti del TG 3. Ovviamente, il TG 3 si era prestato ad un'operazione di disinformazione strategica e di preparazione all'aggressione bellica alla Jamahiriya, e questo ben sei-sette mesi prima che si sentisse parlare di “Primavera Araba”. Questo fatto dimostra che l'intervento contro la Libia Popolare era in preparazione da molto tempo, anni, e come si leggerà nel libro, perfino decenni prima del 2011. Come si vedrà, la presunta 'Primavera Araba' in Libia è sempre stata seguita, coccolata e protetta fin dal primo giorno della “rivolta” di Bengasi. Altrimenti, cosa ci facevano la Portaeromobili Garibaldi e la nave-spia Elettra della marina militare italiana, nelle acque al largo di Bengasi, proprio nei giorni dell'esplosione della rivolta Gheddafi? Oppure, la nave da carico utilizzata dalla nota ONG Emergency per prestare soccorso ai golpisti islamisti di Misurata (e solo a loro), che veniva regolarmente utilizzata per trasportare armi, mercenari, terroristi e consulenti occidentali, addirittura dei droni canadesi, per supportare la sanguinaria rivolta islamista e atlantista contro la Libia socialista e popolare. Molte altre cose sono spiegate e presentate nel libro Libia: Campo di battaglia tra occidente ed Eurasia, Anteo Edizioni; ma questa breve e sintetica presentazione è sufficiente per indicare quale sia il tracciato seguito dal libro e quale sia la natura, l'origine e lo scopo dell'aggressione alla Libia, un’aggressione così apertamente e sfacciatamente camuffata, travisata e occultata dal sistema massmediatico della disinformazione strategica occidentale e filo-occidentale.

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