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Parole di GOFFREDO MAMELI, musica di MICHELE NOVARO: la STORIA del nostro INNO NAZIONALE Non è evocativo ed epico come La Marsigliese. Non è solenne come God save the Queen. Non è musicalmente pregevole come Il canto dei tedeschi musicato da Haydn. Non è venerato come The Star - Spangled Banner statunitense. Non ha niente a che vedere con la retorica del ‘socialismo reale’ di quello russo (che voluto da Stalin nel 1938 come Inno del partito bolscevico, fu sostituito nel 1999, alla caduta dell’Unione Sovietica, con una melodia di Glinka, e ripristinato nel 2000 da Vladimir Putin, ovviamente con testo modificato). Ma, benché per la Costituzione sia ancora provvisorio, è il nostro inno nazionale. E non è poi così male come si affannano a dire i molti catoni di casa nostra. Certo, quello che ci frega, è il poropò, poropò, poropò popopopò, che molti non riescono a trattenere (vedi alcuni calciatori della Nazionale immortalati dalla tv) all’inizio del ritornello... poi quelle cinque strofe sconosciute ai più, salvo la prima. Ma quello che oggi si chiama Inno di Mameli e che all’inizio si chiamava Il canto degli Italiani, ne ha di storia alle spalle. Dunque. Raccontiamola questa storia cominciata 162 anni fa...
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IL CANTO DEGLI ITALIANI Goffredo Mameli, un poeta di vent’anni Siamo nel 1847. Goffredo Mameli, genovese, di famiglia agiata, arde di patriottismo. Sente che i tempi sono maturi per realizzare il sogno di libertà e unità che sta circolando nel Regno di Sardegna e nel Lombardo-Veneto. Ha appena vent’anni Goffredo, è un bel ragazzo, respira l’aria mazziniana e ha un’idea in testa: quella che tutti gli Stati in cui è divisa l’Italia, insorgano contemporaneamente per diventare un solo popolo. Insomma, un risorgimento nazionale.
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Pagina precedente: Ritratto di Goffredo Mameli Qui sopra: L’autografo di Mameli nei versi dell’Inno Pagina a fianco: Michele Novaro: la musica del nostro inno è sua
Genova è una città in fermento e il giovanotto, per perorare la causa unitaria, adopera l’arma che più gli si addice: la poesia. E con la foga dei vent’anni scrive Il canto degli Italiani. Fu una scintilla che sprigionò un fuoco incredibile. Stampato su volantini, il Canto cominciò a circolare con rapidità sorprendente e ben presto il destino di quelle cinque strofe fu segnato: diventò un inno di battaglia, complice la musica di Michele Novaro, anch’egli genovese, classe 1822, che in quel periodo era a Torino come direttore dei cori dei teatri Regio e Carignano. In un primo momento Mameli aveva pensato di adattare le sue strofe a musiche già esistenti ma, non soddisfatto degli esiti, il 10 novembre 1847 mandò il testo all’amico musicista.
Michele Novaro, il maestrino torinese Michele Novaro, appena lo lesse, rimase folgorato. Un po’
LUGLIO-AGOSTO 2009 com’era capitato cinque anni prima al giovane Verdi q u a n d o , aprendo il libretto del Nabucco, vide i versi del «Va pensiero».... Qualcuno dirà: uh, che esagerazione! Oggi può sembrarlo, ma cerchiamo di immedesimarci in quel momento storico. Si era in piena epoca romantica, l’urgenza di affrancarsi dal dominio straniero non era un sentimento popolarissimo, ma molti lo coltivavano ormai non più tanto in segreto. Era davvero il momento del patriottismo più esaltante ed entusiastico e anche Michele Novaro non ne era immune. Con il testo dell’amico Goffredo, Michele si mise al cembalo e dopo qualche tentativo scrisse le note. Decise anche di aggiungere un “sì” al termine della prima strofa. Quando il lavoro fu terminato, il maestro convocò gli amici e glielo fece ascoltare. Fu subito un successo di popolo, che cominciò a cantare l’inno in tutte le occasioni.
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Pagina 7 in alto: La tomba di Michele Novaro nel cimitero genovese di Staglieno
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FIRENZE INFORMA Michele Novaro non fu un soldato, ma contribuì ugualmente all’Unità con la musica scrivendo inni, marce, cori, qualche poco fortunata opera lirica, organizzando concerti e spettacoli benefici, raccogliendo fondi per la causa nazionale, creando una scuola di canto da cui uscirono grandi solisti. Tuttavia, per dirla tutta, rimase ai margini della Storia e anche se fu insignito di onorificenze, visse in ristrettezze economiche. Morì a Torino nel 1885. La salma fu tumulata nel cimitero genovese di Staglieno e il monumento funebre, eretto vicino a quello di Giuseppe Mazzini, fu pagato dai suoi antichi allievi. Se non fosse per quello spartito fatale, oggi nessuno o quasi, si ricorderebbe di lui.
Pio IX scappa da Roma E Goffredo? Lui l’Italia la voleva fare non
LUGLIO-AGOSTO 2009 solo con la poesia, ma anche con le armi e il destino gli fece incontrare un altro ligure, tal Giuseppe Garibaldi, da poco tornato dall’America per mettersi al servizio di Carlo Alberto e partecipare alle ultime fasi della Prima guerra d’indipendenza. Mameli rimane affascinato dal generale, tanto da seguirlo in Toscana, quindi a Faenza e a Rimini dove, durante una riunione di patrioti, si cominciò a ventilare la possibilità di affrancare Roma dal dominio della Chiesa. Perché Roma era una delle chiavi di volta dell’unificazione nazionale. Fu proprio sul finire di quel 1848 che dalla città eterna arrivarono segnali di speranza. Pio IX, che aveva il suo bel daffare per barcamenarsi tra i moti liberali che si stavano manifestando anche all’interno dello Stato pontifico, tentò la carta della diplomazia nominando Pellegrino Rossi capo di un Consiglio di laici. Rossi, dunque, diventava una specie di primo ministro ma, deludendo chi sperava in un mutamento politico istituzionale, fece subito sapere che il potere temporale della Chiesa non era minimamente in discussione. E fu la
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Pagina a fianco in basso: Giuseppe Garibaldi Qui sopra: Pio IX
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Qui sopra: 9 febbraio 1849: proclamazione della Repubblica Romana. Ll’Assemblea Costituente dichiara decaduto il potere temporale del papa e instaura un nuovo stato, retto a repubblica democratica. L’immagine mostra la piazza del Campidoglio, dove “all’una dopo mezzanotte”, viene proclamata la Repubblica, davanti ad una folla immensa
FIRENZE INFORMA sua fine, perché Rossi venne assassinato il 15 novembre. Ormai Roma stava diventando poco salubre per il papa che, vista la situazione, uscì dallo Stato alla chetichella, vestito da semplice prete e, dopo un avventuroso viaggio in carrozza, trovò rifugio a Gaeta, Regno di Napoli.
Breve e gloriosa Repubblica Romana Il 5 febbraio 1849 cominciava la storia, breve e gloriosa, della Repubblica romana sotto la guida del triumvirato di Mazzini, Armellini e Saffi. Ma la Repubblica non poteva reggere la sfida con il nemico, perché Pio IX, spal-
LUGLIO-AGOSTO 2009 leggiato dalla Francia, preparava il rientro con l’aiuto dei Borbone. Così si arrivò alla battaglia. In soccorso della Repubblica, che già aveva tra i suoi difensori Nino Bixio, arrivò Garibaldi, nelle cui schiere militava anche Goffredo, che si era precipitato a Roma appena saputo della fuga del papa. Mameli partecipò agli scontri di Palestrina, Velletri e
11 Pagina a fianco in basso: Villa Corsini, dove Goffredo Mameli venne ferito, ritratta prima dei combattimenti del 3 giugno 1849. Sulla destra è la villa Giraud. Entrambe le ville furono distrutte A fianco: Attacco del 3 giugno contro la villa Corsini, occupata dai francesi. Il combattimento si sta svolgendo all’esterno, ma poi proseguirà all’interno, stanza per stanza. La villa appare ancora pressoché intatta: nel corso della giornata verrà demolita dalle cannonate.
A fianco: In questa rarissima foto ecco Villa Corsini, completamente demolita dopo gli scontri
12 In alto: Siamo alla fine di giugno. I francesi hanno superato la barriera difensiva e stanno accerchiando un piccolo gruppo di romani, soldati e popolo, che si stringono attorno al tricolore lottando accanitamente. Sulla destra, un ragazzino accorre portando munizioni. In primo piano, un giovane tamburino posa il tamburo e raccoglie l’arma di un caduto per lanciarsi nel combattimento.
In basso: Soldati francesi hanno sopraffatto il piccolo presidio di una batteria italiana. Il combattimento è finito e i francesi abbandonano il campo di battaglia. Gli italiani sono tutti morti o moribondi; tutto intorno, il terreno è disseminato delle armi con cui si sono difesi fino all’ultimo
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Anagni. Fu in uno di questi combattimenti che perse il mantello. Una stupidaggine, si dirà, ma fu quella perdita che, dato il clima umido e insalubre della campagna pontina, gli procurò la febbre che né minò il fisico.
Quella ferita fatale Il 3 giugno sul Gianicolo, mentre alla testa di un battaglione stava entrando a Villa Corsini dove c’erano soldati francesi, Goffredo rimase ferito. Una versione dice che fu colpito dal ‘fuoco amico’, un’altra che fu colpito per sbaglio dalla baionetta di un suo bersagliere. Sembrava una ferita superficiale; intanto l’attacco aveva avuto successo e i Francesi sloggiarono dalla villa. Alla fine dello scontro Mameli e Garibaldi si in-
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contrarono salutandosi. Non si sarebbero più rivisti. Per medicare la ferita, Mameli fu portato all’ospedale della Trinità dei Pellegrini. Doveva essere un ricovero breve, invece nei giorni successivi la ferita si infettò e presto si tramutò in cancrena. L’unico rimedio era l’amputazione della gamba. Mameli non ne voleva sapere e a convincerlo ci volle tutta la pazienza di Mazzini che, ogni giorno, andava a trovarlo. A operarlo, il 19 giugno, fu il medico garibaldino Agostino Bertani, ma l’intervento non servì a niente. Quella di Goffredo fu un’agonia lunga e straziante e coincise con quella della Repubblica romana, che finì
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Ritratto di Goffredo Mameli
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14 A destra: Giuseppe Mazzini In basso: Luglio 1849: i francesi hanno vinto e il potere temporale è stato restaurato. Pio IX benedice l’esercito francese schierato in piazza San Pietro Pagina a fianco in alto: Il medico garibaldino Agostino Bertani, che, per debellare l’infezione, amputò la gamba a Mameli. Fu lui che fece scomparire la salma di Goffredo, per sottrarla a possibili scempi da parte dei vincitori In basso: La lapide dedicata all’eroe alla Trinità dei Pellegrini, l’ospedale in cui morì e il busto di Mameli al Verano
il 3 luglio con l’entrata dei Francesi in città e il ritorno del papa da Gaeta, m e n t r e Mazzini e i suoi dovettero andarsene in fretta. Goffredo è in preda al delirio. Nel suo diario Agostino Bertani scrive: «Il 6 luglio, alle sette e mezzo antimeridiane, cantando, quasi conscio di sé, attendendo che gli passasse quell’eccesso nervoso, come lo chiamava, ebbe pochi momenti di agonia». Mameli non aveva ancora compiuto 22 anni.
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Un eroe morto a 22 anni Nello stesso momento a Torino veniva firmato il decreto che vietava l’ingresso nel Regno di Sardegna di tutti i volontari della Repubblica romana, con particolare riferimento a quattro sudditi liguri: Nino Bixio, Giuseppe Garibaldi, Goffredo Mameli e Giuseppe Mazzini. Quell’ordine valeva anche per i morti? Sarebbe stato un caso diplomatico da discutere ma, arrivato a Roma per riprendersi le spoglie del figlio, Giorgio Mameli non ebbe la possibilità di farlo perché la salma di Goffredo era scomparsa. A farla sparire era stato Agostino
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16 Così Giuseppe Garibaldi ricorda nelle sue “Memorie” Goffredo Mameli
Bertani, per sottrarla a possibili scempi da parte dei vincitori, tumulandola provvisoriamente nella chiesa di Santa Margherita a Monticelli.
La tomba dimenticata Successivamente l’aveva fatta traslare nella chiesa delle Stimmate senza scrivere il nome sulla cassa.
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Fu solo dopo la breccia di Porta Pia, 20 settembre 1870, che Bertani ritorna in scena per onorare in modo adeguato le spoglie di Goffredo. Fu però solo il 9 giugno 1872 che si svolsero i funerali solenni, con migliaia di persone che cantavano F r a t e l l i d’Italia. Mameli fu dunque sepolto al Verano ma la sua tomba fu spostata più volte all’interno del cimitero. Poi, nel 1940, le spoglie del poeta furono tumulate al Vittoriano. Ma neppure sull’Altare della Patria Mameli ebbe riposo. Il 3 novembre 1941 fu deciso di portarne i resti sul Gianicolo, nel mausoleo ossario che raccoglie le spoglie dei caduti della Repubblica romana. Goffredo finalmente riposa, da quasi settan’anni, sul colle che gli fu fatale. Ma è probabile che nessuno o quasi lo sappia. Franca Lanci
Ritratto di Goffredo Mameli
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Una ‘marcetta’che Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta; dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la vittoria? Le porga la chioma; che schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamo! Noi fummo per secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò. Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamo! Uniamoci, amiamoci; l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio: uniti, per Dio,
chi vincer ci può? Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamo! Dal’Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano; ogni uom di Ferruccio ha il core, ha la mano; i bimbi d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla i Vespri suonò. Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamo! Son giunchi che piegano le spade vendute; già l’aquila d’Austria le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, il sangue polacco bevé col cosacco, ma il cor le bruciò. Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamo!
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ha fatto la storia Il motivo, in 4/4, ha un’introduzione in tempo Allegro moderato quindi cambia in Forte all’attacco di “Fratelli d’Italia...” poi, nella ripresa, il tempo diventa Più mosso. Come oggi, anche allora ci fu chi storse il naso: marcetta bandistica che faceva tanto paese. Va be’, non sarà un capolavoro ma, a parte quelli nominati all’inizio, la maggioranza degli inni nazionali è fiacchina assai, e poi bisogna vedere anche come è eseguito. Due esempi: Riccardo Muti lo affronta senza introduzione, con un rocchetto di rullante e poi lo dirige come se fosse una pagina del Verdi quarantottesco. Se uno non è proprio insensibile, un po’ di pelle d’oca gli viene. Il grande violinista Salvatore Accardo invece lo legge come un pezzo cameristico. E a dir la verità, usa tempi lentissimi. Allora: quando il coro intona “...l’Italia s’è desta...”
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FIRENZE INFORMA invece di scattare in piedi, lo sbadiglio è irrefrenabile. Ma questi son dettagli che appartengono ai gusti personali.
La ‘marcetta paesana’ diventa un successo fulminante
Tricolore del 1727 (sopra) Quello a strisce verticali fece la sua comparsa sulle barricate di Milano durante le Cinque Giornate (sotto)
La ‘marcetta paesana’ cominciò a circolare con la rapidità di una miccia. La presentazione, diciamo ufficiale, fu l’occasione del centenario della cacciata degli Austriaci da Genova, il 10 dicembre 1847. La gente lo cantò poi in ogni occasione, anche se le regie autorità, in principio, lo sopportarono di malavoglia perché era difficile che gli Asburgo rimanessero impassibili davanti ai versi dell’ultima strofa, che prefiguravano il tramonto dell’impero. Le spade vendute, infatti, si riferiscono all’uso che l’Austria faceva di truppe mercenarie, mentre l’accenno al sangue polacco ricorda i soprusi subìti anche dalla Polonia da parte degli Austriaci che, alleati con la Russia (il cosacco), volevano soffocare le istanze di libertà di questi popoli (una curiosità: nell’Inno nazionale
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della Polonia c’è un accenno all’Italia. Quando si dice le coincidenze). Ma il sangue versato dagli oppressi, secondo Mameli, si trasforma in veleno per gli oppressori che dovranno fronteggiarne le insurrezioni.
Nella prima strofa ‘Scipio’ è Publio Cornelio Scipione, il generale che sconfisse i Cartaginesi a Zama nel 202 a.C. (sopra) La battaglia di Legnano, combattuta e vinta dalla Lega Lombarda nel 1176, a cui si riferisce Mameli nella penultima strofa (qui sotto)
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Poi scoppiò il Quarantotto. Tutte le bande militari suonarono Il canto degli Italiani accompagnando i soldati che si apprestavano a varcare il confine con il Lombardo-Veneto.
Ideale romantico di una Italia unita E fu in quel momento che successe un altro fatterello non proprio banale: il regno di Savoia adottò per la prima volta il tricolore verde, bianco e rosso, che aveva fatto già la sua comparsa sulle barricate di Milano durante le Cinque Giornate (ma questa è un’altra storia di cui parleremo una prossima volta). Ma cosa aveva Il can-
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to degli Italiani di così esaltante per infiammare l’animo della gente? L’ardore, la passione, il sogno visionario di un ragazzo che voleva un’Italia affrancata dal dominio straniero, il desiderio di ritrovare una patria comune. È l’ideale romantico che si fonde con la passione politica. Ecco dunque come tutto viene sintetizzato da Mameli.
Da Scipione a Balilla Nella prima strofa si richiama alla Roma repubblicana, quando Annibale ne minacciava la libertà. ‘Scipio’ altri non è che Publio Cornelio Scipione, il generale che sconfisse i Cartaginesi a Zama nel 202 a.C. durante la Seconda guerra punica e per questo passato alla storia col nome di Scipione l’Africano. E, lo ripetiamo ancora
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FIRENZE INFORMA una volta, la schiava di Roma è, appunto, la vittoria e per rendersene conto basterebbe fare la semplice analisi grammaticale dei versi. Ma immaginiamo sia impresa troppo ardua per talune fronti spaziose dietro le quali alberga solo qualche neurone in cerca affannosa di improbabili sinapsi!
Episodi gloriosi della lotta contro gli oppressori stranieri A pagina 22 e 23: Episodi della lotta contro gli stranieri a cui fa riferimento Goffredo nella penultima strofa. ‘Balilla’, il leggendario 14eene genovese che nel 1746 diede inizio alla rivolta (pagina 22 in alto), i Vespri siciliani del 1282 (pagina 22 in basso), l’assedio di Firenze del 1530 e Francesco Ferrucci (pagina 23)
Ma la sintesi dei propri ideali Mameli la fa nella penultima strofa. Con questi pochi versi il giovane e ardente Goffredo rievoca quattro episodi, gloriosissimi, della lotta contro gli oppressori stranieri, quattro momenti storici avvenuti in tempi e luoghi diversi. Il primo è la battaglia di Legnano combattuta e vinta dalla Lega Lombarda contro Federico Barbarossa nel 1176 durante la lotta dei Comuni contro il Sacro romano impero. Si passa quindi al 1530 con la difesa della Repubblica di Firenze posta sotto assedio dalle truppe dell’imperatore Carlo V, che ebbe in Francesco Ferrucci l’animatore della resistenza a Gavinana, sulle montagne pistoiesi, durante la quale Ferrucci fu ferito e, in un secondo tempo, ucciso dal rinnegato Maramaldo. Si arriva al 1746 con l’insurrezione di Genova durante la Guerra di successione austriaca: tra i protagonisti la figura, quasi leggendaria, del quattordicenne Giovanni Battista Perasso, soprannominato Balilla, che lanciò un sasso contro i soldati dando così inizio alla rivolta, per concludere con l’insurrezione di Palermo contro i Francesi il 30 marzo 1282, lunedì di Pasqua, passata alla storia come i Vespri siciliani, in cui le campane di tutta la città chiamarono i palermitani alle armi.
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Dopo 162 anni l’inno è ancora provvisorio Fatta l’Unità, decisa la bandiera (il Tricolore con lo stemma sabaudo al centro) si doveva decidere per l’inno nazionale. Sembrava assodato che sarebbe stato Fratelli d’Italia (ormai veniva chiamato così); ma era improbabile che Vittorio Emanuele II lo accettasse: troppo repubblicano nella lettera e nello spirito. Così fu stabilito di confermare, quale inno ufficiale del Regno d’Italia, la Marcia reale d’ordinanza del 1831. Però gli italiani continuavano a preferire l’inno di Mameli. Perfino Giuseppe Verdi, quando gli fu chiesto di comporre l’Inno delle Nazioni per l’Esposizione universale di Londra del 1862, inserì la melodia di Fratelli d’Italia e non la Marcia reale, con citazioni della Marsigliese, di God Save the King e altri ancora. Tuttavia la Marcia reale restava sempre l’inno ufficiale. Il giovane Regno sabaudo, intanto, doveva affrontare nuovi e gravi problemi. Nell’ex Regno delle Due Sicilie esplodeva il fenomeno del brigantaggio, che impegnò il governo in una vera e propria guerriglia durata fino al
Pagina a fianco: Il Tricolore con lo stemma sabaudo al centro Pagina 26: Bande di briganti che impegnarono nel sud Italia, oltre 100mila uomini per debellarle
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FIRENZE INFORMA 1870 con l’impiego di un esercito di circa 100.000 uomini, perlopiù carabinieri e bersaglieri, cioè quasi la metà delle forze armate dell’epoca.
Il brigantaggio e la disfatta di Custoza Poi ci fu la mezza rivoluzione che scoppiò a Torino al momento del trasferimento della capitale a Firenze nel 1865. L’anno successivo, lo scoppio della Terza guerra d’indipendenza contro la solita Austria che ci vide alleati con la Prussia. Noi ne buscammo sonoramente a Custoza. C’era andata male anche nel 1848 quando a essere sconfitto era stato Carlo Alberto in persona; questa volta toccò ai generali Lamarmora e Cialdini: Custoza ci diceva proprio male! Non andò meglio alla nostra flotta, comandata dall’ammiraglio Persano, che fu battuta a Lissa. La Prussia, invece, vinse le sue battaglie, che per-
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misero l’annessione del Veneto all’Italia.
L’«Obbedisco» di Garibaldi Come al solito, l’unico a cavarsela, vincendo a Bezzecca, il 21 luglio 1866, fu il guerrigliero Garibaldi, che a quel punto stava per entrare in Trentino quando Vittorio Emanuele II firmò l’armistizio di Cormons il 12 agosto 1866, imponendo a Garibaldi di ritirarsi. E il generale mandò un telegramma con una sola parola: «Obbedisco».
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Qui sopra: La battaglia di Custoza in un celebre quadro di Fattori
Sotto: La battaglia di Bezzecca
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“Morte a Franz, viva Oberdan!” I tempi non erano troppo felici e la Marcia reale, con il suo andamento garrulo e sonoramente allegro, non sembrava molto adatta, ma si continuava a suonarla. Più consona tornò ad esserlo dopo la breccia di Porta Pia, che chiudeva una delle questioni cruciali del processo di unificazione dell’Italia. Ora rimanevano fuori da tale processo Trento e Trieste. Della questione irredentista non può disinteressarsi la musica patriottica, che infatti sforna, nel 1882, l’Inno di Oberdan, dedicato al triestino Guglielmo Oberdan, accusato di voler attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe e per questo sbrigativamente impiccato, anche se per la sua salvezza si mobilitò, vanamente, l’opinione pubblica europea. Questo inno, che ha avuto lunga vita e si può ancora trovare in alcune antologie di musica popolare, diceva, fra l’altro: «Morte a Franz, viva Oberdan! Vogliamo spezzare per sempre la dura servile catena; a morte gli Asburgo Lorena! Noi vogliam la libertà!». Versi tosti, certo, ma c’era sempre l’Inno di Mameli che
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29 vagava per l’Italia quando il popolo voleva far sentire la propria voce.
“Tripoli, bel suol d’amore” Passano gli anni, il Regno si irrobustisce, ci sono le prime rivoluzioni tecnologiche. La rete ferroviaria si ramifica, comincia ad arrivare l’elettricità, appaiono le prime, strabilianti ‘carrozze senza cavalli’, cioè le automobili. Poi, scavalcato il secolo, ecco quelle buffe macchine volanti chiamate aeroplani. Tutto questo è ritmato dalla Marcia reale, anche se Fratelli d’Italia è conosciuto anche dai bambini che lo imparano alle elementari. Il XX secolo taglia i suoi primi dieci anni che l’Italietta si mette a far guerre coloniali per conquistarsi la «quarta sponda», nel caso specifico la guerra di Libia del 1911 - 12. Chissà perché le guerre fanno cantare, e allora ecco di nuovo l’Inno di Mameli. Ma nel caso della guerra di Libia, c’è una canzone che spopola letteralmente in tutta Italia ed è A Tripoli, che una famosa sciantosa dell’epoca, Gea della Garisenda, interpretava in modo talmente appassionato da mandare in brodo di giuggiole l’uditorio del teatro Balbo di Torino, dove si esibiva. I versi della canzone di-
Pagina a fianco: Il triestino Guglielmo Oberdan, accusato di voler attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe e per questo sbrigativamente impiccato
In questa pagina: La guerra in Libia e (sotto) manifesto per la canzone “A Tripoli” che spopolò in tutta Italia
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Gruppo di alpini durante la guerra 1915-’18
ventarono famosissimi: «Tripoli, bel suol d’amore ti giunga dolce questa mia canzon. Sventoli il tricolore sulle tue torri al rombo del cannon. Naviga o corazzata benigno è il vento e dolce la stagion. Tripoli terra incantata sarai italiana al rombo del cannon.» Ma una guerra ben più sanguinosa è in agguato in tutta Europa, quella del 1914 - 18. L’Italia intervenne nel conflitto il 24 maggio 1915 e Fratelli d’Italia tor-
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nò protagonista perché si combatteva per liberare il Trentino e la Venezia Giulia, che ancora facevano parte dell’impero austroungarico. Ma altri canti si unirono all’Inno di Mameli, quelli che intonavano gli alpini nelle trincee e che fanno parte del patrimonio culturale italiano.
“Il Piave mormorava...” Tuttavia ci fu un inno che si piantò nel cuore e nella mente degli italiani nel 1918, qualche mese prima che il conflitto terminasse. Era un testo di E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, grande esponente della canzone napoletana, intitolato La leggenda del Piave conosciuta dai più come «Il Piave mormorava». Nel 1943 assunse, per breve tempo, le funzioni di inno nazionale. Se la si risente oggi, pensando quando e perché fu scritta, suscita sempre emozione.
Qui sopra: Giovanni Ermete Gaeta, che scrisse “La leggenda del Piave”
“Giovinezza, giovinezza...” L’Italia si sta appena riavendo dalla tragedia bellica che le ha sì permesso di ricongiungersi con il Trentino e la Venezia Giulia, ma comunque è stata una tragedia, che eccoci alla Marcia su Roma. E con il graduale instaurarsi della dittatura cambiano anche i canti patriottici. L’inno nazionale è sempre la Marcia reale ma da un certo momento in poi l’inno ufficioso, ma poi neppure tanto, diventa Giovinezza, che viene insegnata nelle scuole e che tutti gli italiani (o quasi tutti) imparano presto e cantano quando lo devono cantare. Il ‘Piave’ lo si esegue fuggevolmente nell’anniversario del 4 novembre, mentre Fratelli d’Italia
Sotto: La copertina del disco
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viene tollerato per un po’, quindi se ne vieta l’esecuzione e a cantarlo furono i fuoriusciti antifasciti diventando così, ancora una volta, un canto di libertà contro la tirannia. A Bologna il 13 maggio 1931 Arturo Toscanini dirigeva al Teatro Comunale. Prima dello spettacolo avrebbe dovuto dirigere la Marcia reale e Giovinezza. Figuriamoci! Il maestro si rifiutò e non le eseguì. Il giorno dopo, mentre saliva in auto, fu affrontato da alcuni fascisti, spintonato e schiaffeggiato. Toscanini decise che non avrebbe più diretto in Italia fino alla caduta del fascismo. E mantenne la promessa. Arturo Toscanini, nel 1931 a Bologna, si rifiutò di eseguire la “Marcia reale” e “Giovinezza”. Per questo fu malmenato da alcuni fascisti e decise che non avrebbe più diretto in Italia fino alla caduta del regime. Mantenne la promessa
Il “Piave” diventa inno nazionale Il regime prima ci manda a conquistare l’Etiopia, poi scaraventa la nazione nella Seconda guerra mondiale. L’elenco delle canzoni e degli inni sarebbe troppo lungo, da Faccetta nera a Camerata Richard; ma arriva il momento che Fratelli d’Italia e gli inni risorgimentali tornano ad essere cantati. Siamo all’8 settembre del 1943. Sembra finalmente arrivata la pace, invece scoppia una guerra ancora più crudele. L’Inno di Mameli risuona al Sud e infonde speranza, ma viene cantato anche nel Nord ancora occupato, come segno di riscatto e di fiducia nel futuro. Ma per il governo Badoglio c’è il problema di trovare un inno nazionale che non sia la Marcia reale, anche se Vittorio Emanuele III è ancora re d’Italia e poi, dopo l’abdicazione, sarà re per poco più di un mese Umberto II. Si decide che l’inno nazionale sarà, temporaneamente, La leggenda del Piave.
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Dimenticato dalla Costituzione Poi la fine della guerra, il referendum che vide la vittoria della Repubblica, l’Assemblea costituente e la promulgazione della Costituzione il primo gennaio 1948. Nella quale, all’articolo 12, si codifica la bandiera nazionale. Ma dell’inno, forse per distrazione o per la fretta, i padri costituenti si dimenticarono. Anche perché, già nel 1946, il Consiglio dei ministri aveva dato il benestare per Fratelli d’Italia, anche se non in via definitiva. Una decisione non troppo scontata perché vennero prese in considerazione altre opzioni: il “Va pensiero...” del Nabucco di Verdi e La leggenda del Pia-ve. Scartate ambedue, ci fu chi propose di scriverne uno nuovo di zecca ma poi si tornò all’Inno di Mameli. Così, in via provvisoria. Talmente provvisoria che è ancora lì a rappresentarci nel mondo. Che ci piaccia o no è il nostro inno nazionale. Bellissimo!
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